in realtà, la poesia critica testuale e contestuale
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in realtà, la poesia critica testuale e contestuale n.1 – settembre 2013
Sommario
Tim Noble & Sue Webste
in copertina
Dirty White Trash (With Gulls), 1998 L. Bosco, D. Castiglione, L. Mari
7
In realtà, la poesia: critica testuale e contestuale Lorenzo Carlucci
11
Su ‘I mondi’ di Guido Mazzoni Mauro Ferrari
25
Fabiani poeta medievale – di Mauro Ferrari Gio Ferri
41
Irrealtà della storia. Realtà della poesia. La vicenda poetica di Alberto Cappi Luca Rizzatello
57
Nanicomio. Commento de “Il nano di Velazquez” di Rossano Onano Diego Conticello
81
Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti di Nino De Vita Giacomo Francesco Lombardi
immagini
Frutti migranti, chapter one: Mustafa, 2012
Praying before going to work. Many seasonal workers have already left the camp to find a warmer place to winter, such as Rosarno, in the South. Saluzzo, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi
In realtà, la poesia: critica testuale e contestuale Luigi Bosco, Davide Castiglione, Lorenzo Mari
Da qualche tempo ormai si palesa, in rete e altrove, l’esigenza di far dialogare la poesia con quella che – in mancanza di termini più precisi – chiamiamo “realtà”. È un’esigenza che ha già trovato e sta trovando ottimi canali sul web; tuttavia, noi vorremmo interrogarla da un angolo particolare, vale a dire tematizzando il binomio “poesia e realtà” nel suo intrecciarsi fitto a partire dai testi e dalle opere, rilanciando la pratica del close reading e dell’analisi testuale. I testi – compresi i macrotesti delle opere – sono infatti i grandi assenti del dibattito contemporaneo sulla poesia, dove prevalgano di gran lunga notazioni di cultura, editoria, costume letterario, spesso con un focus primo sulla persona dell’autore anziché sulla propria scrittura (o scritture).
7
Lungi dall’essere un ritorno a paradigmi formalizzanti, l’approccio qui proposto considera i testi e le opere al tempo stesso tanto come prodotti – diretti o indiretti – di una data situazione storica, sociale e individuale, quanto come strumenti per
interpretare
o
cercare
di
comprendere la realtà in cui si collocano e/o a cui fanno riferimento. Con In realtà, la poesia non vogliamo canonizzare il contemporaneo, né privilegiare una forma di poesia o poetica o una interpretazione di realtà che ne escluda e discrimini altre. Ci piace pensare a questo progetto come a una convergenza di sguardi e sensibilità diverse, in grado di recepire la poesia come uno strumento interpretativo della realtà alternativo ai paradigmi ed al discorso dominanti, restituendole dignità e credibilità. Se questo progetto ti interessa, ti invitiamo a leggere le linee guida per l’invio di materiale, dalle quali si evince che il formato del sito è quello della rivista monografica e la formula quella del call for papers: una raccolta di interventi sullo stesso tema, dove le due sole variabili siano i testi selezionati e la specificità del critico che ne scrive. Gli
interventi
saranno
pubblicati
periodicamente,
indicizzati e archiviati. L’intento è quello di stimolare un dibattito di qualità, e al tempo stesso di sviluppare una sensibilità multiforme e collettiva sulla presenza e direzione della poesia ai giorni nostri.
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Da parte nostra, confidiamo che l’unione di tutti gli sforzi verso obiettivi chiari e comuni possa stimolare un reale scambio sulla poesia: chi la legge, chi la scrive, chi ne scrive.
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A temporary hut hosting seasonal migrant workers a few hours before its demolition. Saluzzo, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi
Su I mondi di Guido Mazzoni1 di Lorenzo Carlucci
Le citazioni in esergo (da Nietzsche e da Kafka) e la datazione in chiusura del testo (1997-2007) indicano qualcosa di più che i numi tutelari del libro e testimoniano qualcosa oltre la semplice reticenza di uno studioso al suo esordio tardivo come poeta (è questo il primo volume di poesia dell'autore). Ci dicono invece due cose sui tempi della poesia. La prima è che è possibile riprendere un discorso lasciato in sospeso all'inizio del Novecento. La seconda è che è possibile esordire, quarantenni, con un libro smilzo che però raccoglie la produzione di un decennio. Con queste due dichiarazioni implicite sui tempi della poesia - e dunque sulla sua natura e sui suoi scopi - Mazzoni si oppone a due forme assai comuni di culto della novità. 1 Articolo apparso su www.librischeiwiller.it, 19 Maggio 2010.
11
La prima è quella che esige il (continuo) superamento del Novecento (quasi come in un paradosso di Zenone) la seconda è una necessità diffusamente percepita di adeguare i tempi di produzione e di consumo della poesia a quelli del mercato delle arti popolari. Con queste dichiarazioni silenziose, ostensive, che però segnano i limiti del lavoro, Mazzoni ci indica un piccolo sovvertimento di valori. Ci ricorda che il mito del dopoStoria è anche l'ultima esalazione dello Storicismo, e che il concetto di avanguardia è intimamente correlato a forme desuete ma non inattuali (anzi, di recente risorgenti) del Positivismo. Dei trentuno componimenti del libro, dieci sono in prosa e i rimanenti sono in versi liberi senza metro regolare ma retti da una buona dose di endecasillabi. Ogni figura retorica e ogni strumento prosodico sono volutamente e coerentemente mantenuti sotto la soglia della distinguibilità. Anche le prose sono quasi prive di marcatori che le tradiscano come prose di poeta. Lo sono invece per la misura del respiro, per la particolare ampiezza e ristrettezza dell'angolo della visuale. Non c'è cantato nei versi e nelle prose, solo minime modulazioni tonali, il ritmo e il suono del pensiero che non vuole allertare o disturbare il proprio oggetto. I Mondi (Donzelli, 2010) è il libro del passaggio all'età adulta, e la traccia della riflessione che rende possibile un tale passaggio. Il punto di partenza del poeta è una
12
sensazione
di
radicale
assurdità
e
insensatezza
dell'esistenza umana, e di estraneità rispetto ad essa: “dentro il mattino irreale" (24) l'autore è sgomento di fronte a “l'incredibile massa degli altri per cui non esistiamo" (25), non si capacita de “la cura insensata con cui i vicini incerano le macchine" (28). La stessa organizzazione fisica del corpo umano non viene risparmiata: “si vedono le vene coprire il corpo come una tela assurda" (16), e neppure le reazioni del poeta: “ti ha fatto parlare con una foga assurda" (50). Gli individui sono percepiti come monadi autistiche e la percezione di insensatezza delle loro azioni è data dalla inconoscibilità e dalla mutua irriducibilità dei loro motivi e dei loro orizzonti. A questo senso di estraneità si accompagna la viva percezione di essere vittima di un medesimo destino: "Benché la vita di queste persone che escono dalle auto parcheggiate fra le strisce degli spazi condominiali gli sembrino incomprensibili ora che sta uscendo dall'infanzia, sa bene che il luogo e il tempo in cui è nato lo destinano a diventare come loro, una versione migliorata di loro" (28). Le vite degli altri prescindono da noi e sono a noi indifferenti, e in questo senso ci escludono e ci negano l'essere, e in certa misura ci minacciano. Anche per questo lo sguardo degli altri è intollerabile. La relazione di estraneità è qui una relazione simmetrica: come il poeta non comprende le ragioni del mondo e dei suoi simili,
13
così il mondo, le cose e gli uomini sono indifferenti verso il poeta: “l'indifferenza degli alberi [...]", “il mondo che esiste senza la mia vita" (21). La stessa indifferenza rischia di rendere impossibile anche l'operazione poetica, ponendosi tra lettore e autore: “La stessa indifferenza è oggettivamente in mezzo a noi, ora, mentre scrivo di un evento che non significa nulla per voi" (22). Su questa condizione di “estraneità di ogni cosa a me" (22), su questa posizione di “marginalità" (22), Mazzoni fonda una indagine ontologica ed etica, una indagine in profondità sulla natura umana, sui suoi limiti ineludibili, sui suoi motori più intimi. Estraneità e indifferenza sono riconosciute come forme di imparzialità e dunque come condizioni necessarie della ricerca razionale, se addirittura non scientifica. I modi e i paradigmi dell'indagine di Mazzoni risentono della fascinazione già ottocentesca per l'etologia, e più in generale della fascinazione (già illuministica!) per le scienze esatte e per la loro potenziale applicazione allo studio della società e del carattere umani. Questa fascinazione è chiara nell'insistenza sulla centralità della costituzione e difesa dei ‘mondi’ - individuali prima e poi (quasi accidentalmente) collettivi - degli spazi, dei territori: l'individuo umano “si protegge prolungando abitudini, costruendo un territorio” (48), il motore delle sue azioni sono “corpi e beni da possedere, posizioni da occupare, equilibri da trovare nel rapporto con gli altri”
14
(46), ciascuno resta “Chiuso nel proprio territorio, ogni organismo appaga la forza che lo fa essere e modifica, per quanto può, questo piccolo intero" (46), tutti gli individui “cercano equilibri in mezzo ai propri simili, vogliono
placare
desideri”
(58).
Si
tratta
di
una
fascinazione continuamente tradita anche dal lessico: “campo delle forze” (49), “forze" (49), “forze primarie” (46), “campo di tensioni” (50). I rilevamenti di Mazzoni sembrano a volte annotazioni tratte da un taccuino di un etologo ottocentesco, e si collocano in un vasto filone letterario e filosofico novecentesco, fatto di prestiti dalle scienze biologiche prima e dalla teoria dei sistemi poi. Il Nietzsche di Umano troppo umano, della chimica delle idee e dei sentimenti è molto presente, e dichiaratamente mitigato da una lucidità e da una reticenza all'eccesso suggerite da Kafka, capace di mantenere le più dolorose e spietate rivelazioni sulla natura umana nel quadro di una esistenza
borghese
priva
di
eccentricità
evidenti.
Oggetto dell'indagine di Mazzoni sono le motivazioni ultime degli individui, esplorate - ancora in ossequio al metodo delle scienze empiriche – attraverso le loro conseguenze osservabili: le abitudini, i gesti, le strutture dei centri abitati (“La persona che incrocia la tua vita [...] non sa nulla di te, ma può capire cosa possiedi e cosa desideri da come sei vestito; può misurare la distanza che separa i vostri mondi”, 48). L'indagine non
15
deve
risparmiare
nessuno
(pena
la
perdita
di
oggettività): lo sguardo è mantenuto fisso su estranei, su conoscenti, su amici, sul poeta stesso. Tanto è richiesto dalla prescrizione di Kafka in esergo: “vedere se stessi come una cosa estranea”. L'esercizio della lucidità dello sguardo di Mazzoni (trattenuto - anche se a volte in extremis - sempre al di qua dell'autocompiacimento) è un esercizio di “straniamento” (46). Con questo termine Mazzoni dichiara abbastanza chiaramente il proprio contesto culturale, ma anche sembra volerci ricordare che
la ricerca di un
contemporanea
ha
Verfremdungseffekt un
preciso
nell'arte
fondamento
epistemologico ed esistenziale. Non persegue - e non deve perseguire - un mero épatement dei bourgeois. Il primo bourgeois a dover essere straniato è l'artista stesso. A Kafka e Brecht Mazzoni accosta una simpatia novecentesca per l'ontologia relazionale, che dissolve il soggetto in una rete di rapporti cui viene riconosciuta maggiore consistenza ontologica: “Tu però vivi nella superficie, tu sei la superficie” (50), “le forze ... sono il mondo che attraverso” (1), “le voci [...] sono la realtà” (17), “oltre questo pulviscolo, oltre questa rete non c'è nulla”. Un'altra traccia se ne rinviene nell'insistenza sugli spazi tra le cose, nell'accento posto sui limiti e sui contorni a sfavore della centralità delle cose stesse: “gli spazi vuoti tra i blocchi delle case” (14) “nelle insegne illuminate nascono le frasi, si aprono spazi fra gli oggetti”
16
(16), “si apre una pausa tra gli eventi, e sembra tutto”, “tra le strisce degli spazi condominiali” (28), “popolano i nostri spazi...” (46), “gli spazi fra i quartieri popolari” (47). Lo spazio è il campo su cui si svolge la guerra strategica tra gli individui concorrenti, gli spazi strutturati dei centri abitati sono i segni del compimento di questa guerra, gli spazi che rimangono tra i territori conquistati sono i segni della potenziale inesauribilità del conflitto. La filosofia di Mazzoni non è di certo inedita, ma risulta convincente nel suo essere immersa con coerenza in una coscienza individuale. La riflessione conduce il poeta
sul
crinale
continuamente
di
del
dubbio
sprofondarlo
nichilista,
rischia
nel
livido
clima
dell'animo di chi si considera estraneo ai propri simili e a se stesso (e a se stesso ignoto), di disegnare sul suo volto il mezzo sorriso di chi osserva la vita degli uomini come fossero insetti. Il libro di Mazzoni non si risolve però nei binari che le prospettive sopra individuate delineano, e che anzi ne costituiscono in certa misura il 'dato' da superare: ancora dev'essere soddisfatta la seconda imperiosa richiesta di Kafka: “dimenticare quello che si vede”. Anche l'impressione di una certa ingenuità di fronte a talune riflessioni esistenziali (e.g., “oggi penso che l'essenziale non sia comunicabile”, 25) si trova ad essere mitigata e quasi giustificata dal fatto che tali riflessioni sono presentate come `dati' della storia di un'anima.
17
Ciò non significa che l'autore prenda le distanze ironicamente dall'io poetico che ci presenta. Non v'è traccia di intento autoironico nel libro. V'è traccia invece di un'altra forma di distacco da sé, che non è né ironica né
estremistica.
È
la
coscienza
della
datità
e
dell'oggettività (e con ciò della irreversibilità) della propria identità empirica, coscienza cui si accompagna, quasi necessariamente, una sorta di consapevolezza della
non
conoscente
completa con
coincidenza
l'insieme
delle
del
soggetto
impressioni
dell'io
empirico. Il rapporto tra questo soggetto trascendentale e l'io empirico non è – almeno inizialmente - pacifico: “Entriamo fra le cose legati a un corpo, a un tempo, ad aggregazioni di esseri che ci preesistono” (46, enfasi mia). “l'idea di ritrovarti prigioniero e spossessato" (37). In molti episodi del libro la datità dell'identità individuale viene percepita nella sua dimensione abbrutente di passività e di coazione: è la passività che costringe la cassiera a “replicare gli stessi movimenti, aderendo a ciò che le è accaduto, a ciò che è stato fatto di lei, come a un
destino
che
è
insensato
contestare”
(28).
Significativamente, questo timore di una completa passività rispetto al mondo e rispetto al proprio destino è correlato nel libro a un determinato periodo della vita dell'uomo (quello che l'autore viveva mentre scriveva il libro): “Avevo quasi trent'anni; di lì a poco avrei avuto un
18
destino; delle azioni irreversibili mi avrebbero guardato dallo specchio del bagno e sarebbero state me" (45), “Abbiamo fra i trenta e i quarant'anni, percorriamo una regione della vita dove ogni evento è irreversibile, siamo tutti molto fragili" (59). A questa soffocante sensazione di passività
e
di
irreversibilità
si
accompagna
coerentemente la percezione dell'impossibilità di una comunicazione, anch'essa molto netta e ricorrente: “un istante indicibile” (13), “un vuoto indefinibile” (13), “nei moti impercettibili" (55), “oggi penso che l'essenziale non sia comunicabile" (25), “mentre dicono che le persone sono inconoscibili” (58). Ma è proprio a partire da queste premesse negative e quasi vicoli ciechi che Mazzoni procede verso una ulteriore conclusione: incomunicabilità, inconoscibilità, indicibilità sono, oltre che limiti imposti dall'assenza di relazioni tra le monadi, e dall'irriducibilità dei loro motivi e delle loro pulsioni, anche la migliore immagine di un mondo in cui “non c'è un senso ma un infinito adattamento” (58), in cui “ogni azione ha un significato solo locale e solo simbolico, e dove tutto tende al proprio
equilibrio
senza
disegno,
senza
alcuna
giustificazione" (46). È qui che l'inconoscibilità si traduce nel suo contrario, in un'asserzione ontologica assoluta per quanto paradossale: “Esiste solo questo” (46). È uno spostamento impercettibile quello che permette di tradurre
una
constatazione
19
negativa
in
una
affermazione. Analogamente, leggendo de “l'equilibrio impercettibile che una forma / di vita impone a se stessa” (58), siamo testimoni di un passaggio quasi impercettibile dalla completa passività alla capacità di imporre a se stesso una forma, un destino, i.e., all'autonomia. In questo impercettibile spostamento concettuale Mazzoni cerca la propria soluzione. Il poeta -
consapevole
di
essere
un
io
determinato
e
fondamentalmente solipsistico - è pure consapevole che la medesima condizione è partecipata da tutti gli altri soggetti (per questo, anche, l'autocoscienza del poeta non si traduce qui né in lamentazioni né in visioni né in astrazioni). L'autore resta nei limiti del proprio io empirico, che sa essere irriducibile a quello di altri soggetti, i quali però vivono una medesima condizione metafisica. Sulla simmetria
delle
inconoscibilità,
relazioni su
di
questa
indifferenza assurda
e
di
forma
di
partecipazione umana impartecipabile il poeta può cercare di fondare la dimenticanza di sé richiesta da Kafka. La rivelazione, quindi, che si offre agli occhi del poeta adulto al termine della sua indagine trova espressione ne “la calma di quando si comprende che la vita esiste e
non
significa"
(49).
È
questa
di
Mazzoni
una
constatazione che è presente in non poca poesia contemporanea, in cui è possibile rilevare una coerente 'estetica della tautologia' (che molto risente della
20
filosofia del linguaggio del Novecento, e in particolare della lezione di Wittgenstein): si riconosce qui che l'atomo dell'esperienza e della conoscenza sono le cose nel loro essere ciò che sono: “tutto risplende nella propria tautologia” (16). Le cose dicono solo sé stesse, esse sono gli Urelement nei quali ha origine e fine la deriva semantica. Il linguaggio al contrario nasce dalla paura, dal non-essere, dallo squarcio tra una cosa e un'altra, o tra me e gli altri, o tra il mio desiderio e la realtà “la paura, l'origine delle parole, questo squarcio". Anche nella prospettiva più ottimistica il linguaggio non può far altro che decorosamente coprire un vuoto: “Copriremo / con le parole il vuoto che abbiamo potuto vedere - / solo disordine oltre le nuvole e i nomi, / i segni splendidi a nascondere le cose.” (58). L'essere delle cose invece è ovviamente scevro di pulsione a trascendere i propri limiti, e questo coincide con il non significare altro. Mazzoni
non
Dinggedichte.
fonda
su
questa
Compie
invece
osservazione un
una
passo
di
generalizzazione: come le singole cose pure “la vita” nella sua interezza non cerca di trascendere se stessa. La vita nella sua totalità non può significare altro che se stessa. È questa la coscienza che permette al poeta de I Mondi di liberarsi dalle pastoie del nichilismo. Non si dice: ‘la vita non significa niente’, bensì: ‘la vita significa
se
spostamento:
stessa’.
Ancora
dall'assenza
21
di
un
impercettibile
fondamento
e
di
riferimento all'autoriferimento e all'auto-fondamento. Con questa nuova coscienza il poeta adulto de I Mondi torna immediatamente alla sfera umana. Può allora riconoscere il proprio modello etico negli individui comuni - già oggetto della dissezione etologica - in quelle “minime persone” (25) che “vivono per sé, accettano la sfera di relativa sicurezza” (28), che non peccano di velleità cercando di trascendere i propri limiti, che non si infervorano in modo assurdo parlando di una persona che non conoscono, che non soffrono per sofferenze lontane, etc. Il poeta adulto è reso finalmente capace di riconoscere la complessità delle vite che aveva finora considerate semplici e meccaniche come quelle di un insetto: “oggi capisco la dignità, la complessità delle persone che esistono per sé, senza bisogno di trascendere” (29). Questa nuova coscienza non è una coscienza pacificata, che tenti di mascherare le contraddizioni del reale: “Gli esseri non chiedono altro, esistono per sé”, ma la loro esistenza non è idilliaca, essi esistono “con cinismo e innocenza” (61). Così scopre di dover vivere pure il poeta, o di non poter vivere altrimenti, “Perché è ingenuo cercare di trascendere le forze cui diamo il nostro nome" (61). Altri vedranno in ciò un inaccettabile senso di rassegnazione, e una rinuncia a un impegno più immediatamente politico. Vi si può leggere altresí la necessità di una indagine etica ed epistemologica
condotta
in
22
prima
persona,
nella
penombra della propria esistenza e di un'opera di poesia, al di là dei dogmi della giovinezza e della scuola. Il poeta adulto è in grado di riconoscere la necessità (e non solo, con Pascoli, la desiderabilità e l'utilità) della miopia che vela lo sguardo degli uomini: “Ora so che non ha senso rompere / la miopia che ci fa esistere, vedo diversamente / le monadi che ci proteggono, le loro trame nel disordine;" (56). È questa la stessa miopia che fa la vita ingiusta (“Vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola" recita la seconda citazione in esergo, da Nietzsche), impedendo di solito la lucidità e il distacco che
rendono
possibile
l'analisi
che
conduce
riconoscimento della necessità di tale miopia.
23
al
Collecting kiwi. Castellar, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi
Fabiani poeta medievale di Mauro Ferrari
Su questo nostro essere agonia1
Nessun poeta contemporaneo ha dato voce al proprio sentimento religioso con la serena fermezza di Enzo Fabiani: nell’età dell’angoscia e del dubbio (non solo quella novecentesca, bensì quella che angustiava un
1 Si cita da Enzo Fabiani, Il cammino e la pietà. Poesie e poemetti 1954-
1999, Connect, Milano 2000. L’antologia raccoglie tutta la produzione del poeta di Padule di Fucecchio (FI), vale a dire le raccolte: Il legno verde, Cappelli 1954 (Premessa di G. Spagnoletti); Di fronte al nemico, Cino del Duca 1961; Nomen, Mondadori 1969 (nota di R. Crovi); Le ferite, Rusconi 1965 (introduzione di G. Caproni); L’ordinotte (Rusconi 1978); Nel canto del fuoco, Edizioni di Ca’ Spinello in Urbino 1982; La sposa vivente (Edizioni Trentadue, 1991 (Prefazione di G. Spagnoletti); Letane (pubblicata in parte sulla rivista Erba d’Arno, 1983, e in parte presso le Edizioni di Raffaele Baldini, 1994); Il trono d’ombra, con poesie inedite in volume. La poesia di Enzo Fabiani, al di là di occasionali ma spesso attente recensioni sulla stampa nazionale, è stata oggetto di studi confluiti in diverse antologie critiche: si segnalano gli interventi di Guido Sommavilla (La civiltà cattolica 1992 I 1951, poi in Uomo, diavolo e Dio nella letteratura contemporanea, Ed. San Paolo 1993op. cit.), Alberto Frattini (La poesia religiosa dal 1945 a oggi, in Letteratura italiana contemporanea, Lucarini 1985) e Giovanni Raboni (in Storia della Letteratura Italiana. Il Novecento, Garzanti 1980). Si cita dalla presente edizione antologica, che riporta in appendice un’ampia selezione critica, dando solo il numero della pagina.
25
illustre predecessore, John Donne, per cui "la nuova filosofia" metteva "tutto in dubbio") l’autore de Il cammino e la pietà non mette in scena il perenne contrasto tra fede e ragione, e medita invece sulla tensione tra questo mondo in crisi spirituale, un passato più ideale che storico e un tempo a venire nel quale i valori cristiani si saranno compiutamente realizzati. La riflessione poetica di Fabiani si sviluppa da una concezione che si dà per acquisita fin dall'inizio: laddove emerge qualche cedimento, esso non è mai l'esito di un dubbio escatologico, ma è solo un vacillamento dell'uomo che si sente debole di fronte alla grandezza del compito e all'enormità del male, è l'angoscia di riconoscersi
pellegrino
nel
lungo
cammino
che
attraverso gli errori spirituali conduce alla pietà e all’illuminazione della Grazia (dalla citazione dantesca di Inferno II, 3-5, che dà il titolo all'antologia). Muovendo da una visione tanto radicale da potersi definire medievale, la voce poetica di Fabiani assume un tono fortemente personale nel delineare l’uomo contemporaneo di fronte a Dio come senso ultimo di tutto. Molto bene ha scritto Caproni nel commentare l'universo poetico di Fabiani:
26
... la sua anima anacronistica perché ancora incredibilmente anacronisticamente
intera, credente
ancora nella
propria
esistenza e in un proprio destino ... l’esprit d’examen par non averlo nemmeno sfiorato. Il tormento religioso, dicevo, continua ad assillarlo e tormentarlo come nell‘anno Mille (432-3). Le “battaglie dell’anima” (p. 248) sono tutte volte a ripudiare Satana e accettare Dio (padre) tramite Cristo (fratello) come unificante mezzo di purificazione: una visione per cui acutamente Sommavilla parla di “mania dell’eterno” (p. 457). In Fabiani la crisi del mondo attuale è quindi sempre morale e religiosa, e deve trovare la ricomposizione in un Dio di amore, attraverso la figura di Cristo e l'Eucarestia. Anche le immagini più direttamente contemporanee sono ricondotte a un orizzonte moraleggiante quando non apertamente moralistico: Non guardare quaggiù: vedresti i nostri crocefissi: i siringati nell’alba dei parchi spirati in posizioni fetali come se il “farsi”
27
fosse una voce che li ha chiamati a rinascere nell’Aldilà. (p.305)
[Satana] È con tutti gli eserciti di biondastri lupi che avanzano allucinati cantando: “Dio è con noi!” (p.238) 2 Alla crisi del presente Fabiani oppone una visione chiaramente metastorica di un Medio Evo idealizzato nei valori cristiani: Era, allora, la campagna salmodia di letizia, e ogni primizia preghiera esaudita dalla Bontà infinita: per i granai e i cieli raccolto pieno. (p.264)
Sull’orrore nazista si veda anche Lamentazione 1944, in Letane (343) che rievoca una strage avvenuta proprio nella zona di Fucecchio 2
28
Il percorso ormai cinquantennale di Fabiani (nato nel 1931 a La Torre, nel Padule di Fucecchio, Firenze) viene integralmente ricostruito dalla bella edizione Connect che dà pure conto di un corpus critico non amplissimo ma qualificato: insieme ad alcune testimonianze di stima di carattere privato, l’antologia riporta le prefazioni di Caproni (Le ferite) e Spagnoletti (La sposa vivente), oltre a note critiche di Ramat, Pomilio, Barsotti, Cucchi, Marabini, Chiusano, Sommavilla, Raboni e Frattini. Dagli esordi de Il legno verde (1954) e attraverso le raccolte successive, si giunge a Il trono d’ombra scoprendo 3 una voce dotata di una strana e possente energia, di un timbro che, più che devozionale, definiremmo, con Sommavilla, di “coralità liturgica” (p.456): una lunga preghiera dell’essere (“aperta, alta, corale” secondo Divo Barsotti, p.439) che si dipana con modalità
affabulatorie
seriali
sempre
al
limite
dell’eccesso e, come nelle litanie e nelle laudi, mai riconducibili a una nominabile uniformità tematica. Questo “regime espressivo torrentizio”, di cui già parlava Raboni (p.463) all’altezza de L’ordinotte, si regge soprattutto sull'espediente seriale dell’anafora: come nei polittici medievali, la fabula entra in tensione con il piacere
dell'intreccio.
Ad
eccezione
della
prima
Può essere interessante notare come, rispetto agli esordi presso la grande editoria, Fabiani sia in seguito ricorso a piccole case editrici: al di là di ogni - sacrosanta - disquisizione su certa politica editoriale, questo ha indubbiamente contribuito a un eclissamento della sua già appartata figura. 3
29
raccolta e dell’ultima, Fabiani pensa infatti i propri libri per grandi sequenze poematiche, sia ricorrendo a varie personae poetico-narrative (la cui individualità storica o cronachistica viene però immediatamente trascesa), sia aprendo il testo a modalità diversificate, alternando la confessione in prima persona, il contrasto dialogico e l'ampia coralità (come Nel canto del fuoco, da questo punto di vista un vero tour de force espressivo). Tutti i componimento di Fabiani sono il frutto di una difficile ricerca di equilibrio tra urgenza del dire e reperimento delle forme poetiche adeguate. Di
“indifferente
arretratezza”
parla
Cucchi
(p.443)
riferendosi a una lingua che, per fare un esempio, mantiene in vita fino alle raccolte più recenti l’inversione del complemento di specificazione, troncamenti, elisioni; è un linguaggio che sembra ignorare problemi di stile e ai dibattiti letterari contemporanei proprio perché Fabiani, che non è certo un naïf, assume quale punto di vista la prospettiva sovratemporale del suo stesso arcitema. Spagnoletti parla di un “territorio stabile, persino nella singolarità degli innesti culturali che ritornano e si sovrappongono, dove passioni e sentimenti richiamano in vita un universo a stelle fisse” (p.446). Quella di Fabiani è una poesia caratterizzata da immediatezza referenziale ma lontana dal realismo tematico, tutta intrisa delle risonanze profonde della preghiera;
è
ricca
di
suggestioni
30
metaforiche
e
allegoriche “che rovesciano la normale nozione della realtà, nel senso che, in piena coerenza con le sue radici cristiane,
essa gli si presenta tutta abitata dalla
trascendenza, e in ogni caso è testimonianza d’‘altro’” (Pomilio, p.437). Ci sono in Fabiani un'asciuttezza e un nitore di accenti che rimandano a Caproni, ma con l'innesto a livello lessicale di forme culte, regionali e rare che conferiscono al testo una forte coloritura espressionista. Del resto i referenti più facilmente rintracciabili, per questo poeta così
appartato,
sono
senz'altro
la
Bibbia,
Dante,
Jacopone e Hopkins; altri hanno suggerito Campana, Rebora, Eliot, Jouve, Perse, Dylan Thomas, Esenin. Nei poemi di Fabiani si passa quindi dalla cruda concretezza di certi toni, mutuata dalle rappresentazioni poetiche e pittoriche medievali Ah, martoriato andare di noi larve bigiastre, tra macine e marcite, tra pattumi che bollono e boscaglie (239) al lirico alto degli appelli più accorati e soprattutto di taluni squarci naturalistici:
31
Non guardare quaggiù: vedresti un vecchio quasi cipresso che disbianca; e tenta or questa o l’altra mano alzare, a chiedere di una presenza la carità, sia pure lo squittire di un topo, o la scintilla di un fringuello, nel suo umiliato aspettare. (p.316) L'orizzonte tematico della poesia di Fabiani presenta caratteristiche peculiari: innanzitutto è quasi assente il mondo
della
Erlebnis,
della
esperienza
personale
trascritta o trasfigurata a partire dai tratti storici; l’eventuale storicizzazione non punta infatti a individuare la persona poetica in quanto soggetto dotato di un’individualità psicologica e sociale, ma solo a costruire uno sfondo “pittorico” in cui collocare l’azione del dramma, che è tutto e solo morale: i personaggi prendono cioè la parola in un monologo possibile, all'interno di quadri volutamente bidimensionali come in una sacra rappresentazione. Forse l’individualità dei personaggi è solo abbozzata per suggerire l’idea di un Everyman in cui ciascun cristiano possa riconoscersi oltre le determinazioni temporali.
32
Così, tra i protagonisti del nostro tempo (spesso ispirati da grandi eventi contemporanei o da fatti di cronaca) troviamo il pilota di Hiroshima alle prese con la propria delirante coscienza; l’astronauta che, “perseguitato da Dio, vorace specchio; / miniato dal dolore” (p.42) sceglie il sacrificio pur di correre a un incontro immediato con la Verità; un giovane suicida che registra le sue ultime parole; il padre che si suicida insieme al figlio disabile per pietà e disperazione (è la poesia eponima
dell’antologia);
un
naufrago
australiano
ripescato dopo giorni alla deriva, con il cadavere della moglie sulla barca; contadini che trascorrono una veglia discutendo, cantando e raccontando. Tra i protagonisti storici incontriamo Lutero, Masaccio, vari personaggi longobardi (I compagni medievali), Jacopo
della
Quercia
(L’ordinotte),
Piero
della
Francesca e un Cavaliere del Tau (Amen). Il nucleo dinamico di questi poemetti è quasi sempre il confronto tra il mondo terreno in cui male, dolore e ingiustizia vanno sopportati, e un tempo proiettato nel futuro in cui saranno annullati in Cristo: se io potessi capire che cosa vuol dire questo lungo aspettare Dio, non piangerei come qui piango e mi compiango insanguinata pecora
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nel bòtro che ha nome ventesimo secolo (p.257) Le tensioni e le tentazioni messe in gioco da Fabiani avvicinano la sua concezione poetica alle posizioni manichee, gianseniste 4 e catare: così, la meditazione del Cavaliere del Tau insiste sulla lotta individuale contro Satana, e assume una forte coloritura addirittura gnostica: il mondo, vissuto sempre con il sentimento forte della debolezza umana che a tratti allontana la salvezza dell’Eucarestia, è in tutte le sue manifestazioni, ma soprattutto nella sua espressione di sensualità e gioia, il risultato concreto della Caduta di Satana: Ed è frammento di Satana l’anguilla, l’uva, la mimosa, la formica, il grano, il pomo, l’oliva; e il loro colorirsi, e il sapore; il frusciare e il tacere del torrente; il gemito scarlatto del demente; il profumo del vino; il muoversi attutito
Alberto Frattini definisce la poesia di Fabiani “Una dura quasi giansenistica opposizione alla civiltà dissacrante del nostro tempo, con implicazioni religiose risalenti all’antica spiritualità cristiana del Medioevo” (Op. cit.); di manicheismo e catarismo parla invece Guido Sommavilla, in Enzo Fabiani poeta mistico (Op. cit.). Entrambi gli interventi sono riportati nel presente volume. 4
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della creatura nel ventre materno (pp.237/238) Siamo in stretta contiguità con le punte estreme del pensiero cristiano medievale, con il suo rifiuto della corporalità e di tutti gli aspetti del piacere fisico, in piena sintonia con varie eresie: visione che però a volte si affianca a quella diametralmente opposta, l’esaltazione mistica della stessa fisicità in quanto tale. Il Cavaliere del Tau supera questa crisi nella preghiera, riconoscendo infine che la corporeità non è da condannare se rimanda continuamente ad altro - alla presenza, nell’assenza, della figura di Cristo: noi sappiamo che il fischio del pastore è richiamo ad una magione di latte e miele, ed invito il canto dell’usignolo a granai asciutti e ricolmi (p.247) Il corpo dunque diventa per il Cavaliere un possibile strumento che, tra il fuoco delle tentazioni e il travaglio dei dubbi, si offre per il raggiungimento di una meta tutta spirituale.
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E in Le tentazioni del romito Osanna (p.266), una parabola quasi evangelica, si approda finalmente a un pensiero che riequilibra la “mania di eterno che ci sfibra” (L’ordinotte): non di solo Dio deve vivere l’uomo, ma anche delle dolcezze e delle speranze della vita, che Lui stesso gli ha dato e donato; e il più a lungo, il più profondamente (p.268) Si viene così a sfiorare un’altra posizione eretica, che contempla
la
santificazione
della
vita
tramite
l’esaltazione del corpo; non dissimilmente, l’Episcopessa aveva rivolto allo stesso romito parole accorate, come ennesima tentazione satanica: la carne è debole e non va ulteriormente umiliata; perché invece non “essere trasfigurati d’un subito; volar via, volar via, senza dovere concimare la terra”? (p.269) L’Episcopessa propone cioè un annullamento senza dolore né morte, mentre Osanna/Fabiani sa che l’esaltazione della vita fisica e spirituale viene dall’ “essere per la morte”, dal dover passare per quella cruna che dà valore all’esperienza individuale e ne indirizza tanto il dolore quanto la gioia. Osanna, che pure aveva rifiutato questa tentazione e in seguito sofferto persino della scomparsa di Gesù dalla sua vita, sceglie di passare gli ultimi anni benedicendo
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tutto il Creato, fondendo carne e spirito quasi per vendetta verso il silenzio incomprensibile di Dio (e di un Gesù che “tace un po’ troppo”, p.273). È un silenzio che richiama quello che Jahvé oppone a Giobbe; Osanna sceglie
quindi
un’esaltazione
del
divino
all’interno
dell’umano, nel suo momento di maggior debolezza ma prima della disperazione. Significativamente, Dio “a suo ricordo benedisse le fonti delle Cerbaie: dove gli uomini e gli animali vennero e vengono a bere, e a guarirne.” (p.273). All’interno di un percorso poetico così uniforme, spicca il lungo canto in memoria della moglie defunta, Neyda, che costituisce la raccolta La sposa vivente (1991). Chiara la tripartizione del libro, che ricalca i consueti stilemi del poeta: un Compianto (18 parti); un Lamento (29 parti, costruite sulla ripetizione anaforica “Non guardare quaggiù”); una Invocazione (23 parti, con l’altro attacco anaforico “Ricordati di me”). Qui, per la prima volta, Fabiani è alle prese con un dolore personale di cui non comprende la ragione, e per cui, a partire dalla non conoscenza (“io non so quale / sia la tua gloria, né la tua vittoria, / né quale sarà la parola che mi salvi / in tempo, né quale / la mia, la mia futura via”, p.299), interroga implicitamente la divinità come un nuovo Giobbe, presentandosi come
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un vecchio cui perdere la fede è stato possibile (p.333) e ci sorprende addirittura quando afferma di non sopportare più il dolore né l’attesa: Io sono stanco di restare immerso in un silenzio che non si illumina, né ho quiete in questa semina di parole e memorie, di accenni opachi nei pensieri a eterni segreti (p. 290) Siamo di fronte a un uomo “triste / a non capire la morte” (p.295), che si domanda se la parola e la preghiera siano sufficienti, e che presenta la propria vecchiaia solitaria in tutta la sua insoddisfacente nudità: Mi sono perduto seguendo una mandria di similitudini, e temo di restare caduto per sempre (p. 289) Aleggia perfino il dubbio del suicidio:
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vedi se puoi dirmi se il violento partire da qui è la vittoria, o se conviene tentare qui di restare a vivere, ad aspettare, ad accendere il fuoco e tremare, a tacere, umilmente a guardare, a inchinarsi, ascoltare (p. 298) Più che di dubbio religioso si tratta di un cedimento, questa volta non incarnato da una persona ma vissuto e raccontato direttamente, senza filtri retorici. Tuttavia, il Fabiani che emerge da questa antologia, che proprio per questo risulta la più ricca e interessante della sua intera produzione, è un uomo più aperto alle ferite dell’esistenza terrena, più consapevole dei temi della vecchiaia (e quindi di un'esperienza lirica e personale). È da questa nuova ed estrema maturità che nascono le poesie di Letane (due poemetti: 1983-1994) e quelle fin qui estravaganti de Il trono d’ombra - liriche sui “motivi più amati e sofferti” (p. IX), nelle quali predomina, con equilibrio stilistico più compostamente classico, il tema della tristezza, che qui viene esposto nella forma di un monologo interiore, e che in Letane assume invece la forma di un dialogo tutto umano e letterario con il defunto poeta Alberico Sala.
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La propria vita in retrospettiva, i moniti a “essere solenne” (p. 401) sono formulati in un linguaggio da cui sembra evaporata la potenza di accenti e toni che investiva i contenuti nelle precedenti raccolte; rimane, soprattutto nell’andamento poematico di Letane, la debordanza affabulatoria, mentre Il trono d'ombra segna un ritorno alla misura della lirica breve e a una maggiore concentrazione espressiva e forse a un tono lirico più pacato, come nel bellissimo congedo degli ultimi versi del volume: da allora non parlo: invecchio serbando nel cuore, in profonda dolcezza, di quella parola il mistero. In ginocchio, in silenzio. (p. 421)
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41 Seasonal migrant workers camp. Saluzzo, Italy 2012 Giacomo Francesco Lombardi
Irrealtà della storia. Realtà della poesia. La vicenda poetica di Alberto Cappi. di Gio Ferri
Cos’è la realtà? La realtà è la storia: le cose presenti nella storia che ci stimolano per vie intangibili (energie), ma pretendono, per esistere realmente, le parole della nominazione. Nominazione come conoscenza. La vita reale delle cose come conoscenza fa la storia, ma le cose nella loro realtà non cedono ad alcun punto di vista,
sono
guardabili
da ogni
lato.
Perciò sono
oggettivamente invisibili nella realtà variabile della metamorfica
osservazione.
E
la
conoscenza
ingannatrice della storia – e ciò vale quindi per la realtà – «non è innocente» (come osserva Alberto Cappi 1 di cui
Riletture e variazioni da: Gio Ferri, “Vita Storia Poesia Nichilismo”, Testuale vol.47-48/2009; Alberto Cappi, “Libro dei materiali”, Testuale, Quaderno 13/2009; Alberto Cappi, Poesie 1973-2006, Ed.FormatPuntoacapo, Novi Ligure 2009. 1
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parlerò). La storia delle cose è nella prassi, e la prassi non è innocente, perché utilitaristica. Ma le parole hanno invece la loro utile verità solamente quando «fanno parlare la lingua», al di là delle cose e della loro storia: così le parole allora si fanno poesia e «la poesia porta la voce, portavoce non di significati [cosali], ma di senso» (è ancora Cappi). Le cose e la loro prassi storica, vale a dire la loro (ir)realtà, sono caduche. Subito si annullano nella contraddizione: la storia e il giudizio sulla storia variano paradossalmente e inutilmente, perché si ripetono inconcludenti in una prassi confusa. Tutto si trasforma e nulla si crea stabilmente! Ciò fino alla fine dei tempi che, se avverrà (ma nemmeno questo è certo!), annullerà definitivamente la storia: forse per creare un’altra storia, che, se storia sarà (cioè nel tempo variabile dal passato, al presente, al futuro), non avrà pure alcun senso definibile. La parola poetica, invece, inutile per la prassi, poiché dice il senso (sensibilità e sensualità) e non i significati, non può essere valutata tramite ragioni temporali, bensì spaziali e biologici (si pensi alla doppia elica e alle colonne tortili del Bernini). Può essere dimenticata (sebbene la coscienza individuale e collettiva ormai segnate ne portino per sempre il marchio), ma non annullata: non si contraddice, non può, perché ‘è’ e basta, senza utilità spendibile al di fuori dell’essere.
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Negli anni ’60 del secolo scorso, quando mi affacciai (con qualche ritardo) ai problemi della poesia e dell’arte, venendo dalla tradizione degli anni 20/40 (ermetismo,
psicologismo,
paesaggismo,
ecc.)
fui
investito da violente vicissitudini storico-pseudo-poetiche (anche la poesia può vivere confusamente la sua storia): realismo,
protesta
sociale,
e
sperimentalismo
in
particolare. Quest’ultima esperienza di ricerca – per certi aspetti operativi assai vitale – mi ha ben presto liberato, in poesia e arte, da ogni storicismo per suggerirmi le vie di una – innovativa, questa sì – verità di parola, o meglio di segno. Perciò mi si rivelarono le sensibilità segniche della poesia, dell’arte, della visual poetry, e di ogni altra esperienza creativa. Nacque il mio sodalizio con Alberto Cappi, poeta e critico di Ostiglia e vicino alla ricerca de il verri di Luciano Anceschi, al Molino di Bazzano di Spatola. Cappi e Spatola purtroppo sono scomparsi troppo presto e non sempre
le
storie
critiche
del
‘900
si
ricordano
compiutamente di loro. La critica di Cappi è formalmente di squisita scrittura creativa. Qui si possono ricordare, fra una consistente produzione, per altro minimale, tre suoi testi pittusto significativi ai fini di questo saggio: Materiali per una voce
(Stamperia
dell'Arancio,
Grottammare
1995);
Piccoli dei - poesie, (I quaderni del Circolo degli Artisti, Faenza 1994). E il Libro dei materiali, qui citato in esergo.
44
I Materiali sono sì materia per una voce, tuttavia una voce dalle innumerevoli risonanze. Denunciano la differenziazione, qui più volte sottolineata, tra la parola poetica, 'inutile', non finalizzata, oggettivamente 'vera' in quanto totalizzante entro una determinata spazialità. Assorbita la valenza utilitaristica, effimera e non astante del tempo. E la parola prammatica, invece, 'utile' e finalizzata a un qualsiasi risultato dal soggetto comunque prevaricante,
perciò
oggettivamente
'menzognera',
specialistica e particolareggiante. Inserita nell'ansia ineluttabilmente drammatica e autodistruttiva della storia, del divenire al di fuori della spazialità e della considerazione della valenza biologica della forma, in quanto alla metamorfosi viene attribuito il solo valore della convenienza. Si può cercare allora nei Materiali quanto, abbiamo visto, si dice della poesia, e quanto dell'amore per la storia: La poesia Ci sono parole che fanno parlare la lingua. Qui La parola passa nelle parole. Così la poesia porta la voce, portavoce
non
l'enunciazione
di
significati
ma
è
annunciazione.
di
senso.
E
L'enunciato,
annuncio. Ecco allora il valore non produttivo (per la legge assoluta e oppressiva della produttività della prassi) della voce
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parlata dalla poesia, e la constatazione del senso (come sensitività) prima o oltre le convenzioni del significato. Perciò
l'enunciato
programmabile
annuncia:
secondo le
l'inatteso leggi di
(e
non
il
mercato del
sentimento e della comunicazione finalizzata). Amare la storia L'amore per la storia non è innocente. Fa e la costringe ad errare. Cancellarlo? Impossibile: non ha tempo né linea. La storia, ovviamente, come prassi. La prassi non innocente, perché utilitaristica. E quindi menzognero è il discorso della storia. Ineluttabile nella sua assenza dal tempo e dallo spazio. La storia non come forma, ma come finzione di forma. Allora la finzione è nel discorso prammatico, non - come vuole certa critica - nella parola della poesia. Allora la parola della poesia è biologica, e la sua misura immisurabile e gen-etica; la parola quotidiana, contingente, storica (senza storia nel senso della forma formantesi) è solo convenzionale. Che si può dire, criticamente, prendendo atto di quello che so? Di quello che si valuta per vero? Di Cappi si può elogiare la finezza retorica (di una retorica cosale e non istituzionale), la capacità di collassamento della parola in senso (nel senso detto), l'estrema sintesi della
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coordinazione logico-materialistica. E qui si potrebbe fermare al passo alto, invalicabile, per volgersi al silenzio. Silenzio Il silenzio è lo spartito in cui il tempo entra a far musica. Suo spazio d'esecuzione è la parola. Di ciò che si dice pulsa il ritmo. Ciò che si ascolta è inaudito. Il Grande Ossimoro, L'Ossimoro è il Grande Iddio della parola e della vita che ne discende. Cappi fa del silenzio lo spartito della parola, ma ciò che vi si ascolta è inaudito. Cioè: che non è mai stato sentito. Ma ciò che non è mai stato sentito con quali umani mezzi può mai essere ascoltato? Quale codice deve attivarsi? E quale codice
può
essere
convenzionato
al
susseguirsi
inarrestabile delle annunciazioni? Eppure la forma, nel silenzio, trova sempre la sua nuova forma. La sua inaudita forma. Ci si deve rivolgere necessariamente ai meccanismi della mente e dei suoi sensi (o dei sensi e della loro mente). La mente e i sensi hanno ancora per noi molti misteri. Ma la spiegazione di qualcuno di quei misteri sembra, talvolta, intuibile, se non accertabile. Ora, se il Soggetto è in crisi, anagraficamente, in quanto l'inaudito può essere (anzi, infine, è) anche fuori di lui - cioè dopo che il Soggetto si è consumato per entropia -, il Sé del Soggetto rimane ancora come oggetto finché dura la
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forma che si è data. La forma e il Sé sono, fuor di Soggetto, la stessa cosa. E ubbidiscono fra l'altro, per esempio, al paradosso autoreferenziale di Gödel e di Cherniak (matematici da tempo di moda, purtroppo solo per i loro giochini di consumo e di evasione). Quando si dice: Questo enunciato è falso, «allorché si cerca di decidere se esso sia effettivamente vero o falso, si forma un anello saldissimo, poiché la sua verità implica la sua falsità e viceversa». È il corto circuito (ma la poesia non è per sua natura in corto circuito?) del paradosso logico: il negativo invita il positivo, e il circolo inerte è così completo. L'inerzia è lo spazio del tempo: e solo fuor dalla storia si percepisce l'inaudito. Douglas R.Hofstadter - Professor of Human Understanding and Cognitive Science alla University of Michigan - in "L'io della mente" ("The Mind's I", tr.it. Adelphi, Milano 1981-1985) ne trae una «riflessione» che tuttavia rischia di volgere a una alterità sovra-naturale, ma che possiamo lecitamente
mantenere
entro
il
territorio
delle
costatazioni consequenziali, perciò, da un certo punto di vista,
oggettuali,
oggettive,
geneticamente
materialistiche: «...Il sé è una 'linea d'universo' che si autodocumenta di continuo (la linea d'universo è la traiettoria quadridimensionale seguita da un oggetto che si muove nel tempo e nello spazio). Non solo un oggetto umano è un oggetto fisico che conserva al suo interno una storia della propria linea d'universo; quella
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linea d'universo così immagazzinata serve inoltre a sua volta a determinare la linea d'universo dell'oggetto per il futuro. Questa armonia di ampio respiro fra passato, presente e futuro [lo spazio?] ci consente di percepire il nostro sé come un'unità dotata di una sua logica interna, nonostante i suoi cambiamenti continui e la sua natura poliedrica. Se si paragona il sé a un fiume che si snoda nello spazio-tempo, è importante osservare che le forze che determinano le sue curve non sono solo le caratteristiche del territorio, bensì anche i desideri del fiume stesso». Allora tutto è mosso da un motore: il desiderio. Il desiderio del Sé. Sul desiderio c'è tutta una infinita letteratura da ridiscutere, passato il tempo della moda. Ma è indubbio che già nel titolo del libro di Cappi si intravedono chiaramente la materia della mente ("materiali"), il silenzio (se i materiali sono validi per una voce che vuol essere nel silenzio), il desiderio del dire e del sentire (se la voce cerca i suoi materiali). Ancorché, come Cappi dice in Dire: si dica solo la distanza. E solo s'oda alla distanza, nello spazio e non nel tempo storico che i desideri annichilisce. La raccolta poetica Piccoli dei è tutta in questo desiderio (fluente come quel fiume di Hofstadter) di dire nel silenzio dello spazio:
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dio del silenzio dio del silenzio e dell' / opaco volo / dio del vagito e del / curvo velo / che è nero uovo / lingua e covo / cava di luce / radice d'ala / o dio che cuce / la voce e il suono / che è cavo grano / filo e mano / spina / testo / mina / gesto / cruna / cogli e togli / lima e sfuma Il dio in sé procede per spazi e non per tempi. E le poche voci verbali misurano spazi e non tempi: serra, scava, vaga. Senza programmi e utilità, "attorto al respiro". Che è la fisiologia del poiéin segnalata dai presocratici e persino da Lukács. Se vogliamo seguire in maniera sintetica ed essenziale Tutte
le
poesie
dal
1973
al
2006
per
ricostruire
storicamente, ma ovviamente solo in minima parte, questa storia senza storia, possiamo sfogliare, a partire dal principio (Alfabeto, 1969-1973), il volume citato, pubblicato postumo da “Puntoacapo” nel 2009. Nel ’73 forte era l’influenza partecipativa, consociativa, con le esperienze dei Gruppi ’63 e ’73, a loro volta in parte riferibili a Mallarmé, ai Futuristi, alla poesia d’avanguardia nord-americana (Corso, per esempio), ma in un coinvolgimento per Cappi del tutto originale:
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come scarnisce ogive l’ibernato insetto l’annerito scalo dove come bardo manduca memorie in bando di cattura per parole quando l’oggetto invaso il dilaniato sesso il ripetuto automa la tavola omicida che urla hebron il linguaggio a condizione del delfino che fiuta cerrel la nicchia denutrita e preme amore atto di fede l’abbaco verde gli occhi allora la notte la materia nel battito del pesce come aduna
È facile riferirci alle tecniche (reiterate, automatiche) dell’asintattismo, della paratassi, della germinazione (anche surrealismo e dada?), da lemma a lemma per esprimere
sofferenza,
passionalità,
materialità.
Gestualità. Amore dilaniato eppur atto di fede. Il bando per bandire il significato e per catturarne il senso. Per coglierne il suono, come per il linguaggio istintivamente naturalistico del delfino. È infine una ritmica, variabile ed evasiva, per quanto concentrata, jazz-session. L’energia biologica del fare: voce e gestualità visiva. Ma si deve pur ammettere che questa battaglia senza esclusione di colpi contro la struttura tradizionale e i suoi significati (al di là del senso), rivela della poesia anche tutta la sua rischiosa natura: ma più volte si è voluto riconoscere una poesia come rischio. Una parola, un segno sull’abîme, come sul precipizio si vive sempre la
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vita affacciata sempre
sulla morte. Una vicenda
biologica, come s’è detto, grazie alle metamorfosi dei segni vissuti come unica realtà oltre l’illusoria realtà della contingenza. Mi capitò in passato, proprio per la poesia di Cappi, di dire di una indifferenza biologica. In quella scala discendente di questo testo si sperimenta una sorta di discesa agli inferi dall’oggetto invaso alla tavola omicida. Per invocare nella nicchia denutrita del linguaggio (linguaggio indifferente) un impossibile atto d’amore affidato pericolosamente alla fede di un abaco silente. Silenzio quindi. E quindi il Nulla speculare al nulla della storia. C’è del misticismo? Non è difficile ricordare la mistica del Nulla, del Dio come Nulla di Meister Eckhart. In
un
altro
testo
di
Alfabeto,
immediatamente
precedente, la parola si fa sanguigna ed aggressiva: che beve sangue nell’otre di cana il parcheggio umano dove che la gola aggredisce di pioggia l’inserto del napalm come responsori postulano alfabeti per universi braille / come / come marciapiede concepisce spazioragni il mostro attende / come/
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PAROLA MACINA MACCHINA APPICCA TELEFOTO ROTATIVA RINGHIA PAROLA da belzec da omaha da israel il coccio antico su cui ha unghiato il nome la preghiera del tuo viso nella sera o come lemming ancora lanciare esse-o-esse il segno ancora o come lemming o come lemming come lemming lemming’s Il rischio della mistica può farsi paura: il sangue, il parcheggio umano (la brevità della vita come spazio per un semplice parcheggio), il braille per la cecità, i passi del mostro, gli orrori del napalm, l’unghiuto nome (delle mistificanti cronache dei media), la preghiera pietosa, reminiscenza poetica che viene dal coccio antico, ma inutilmente, come SOS là dove il segno è invaso dalle orde di lemmings, figure lessicali di ratti che migrano in massa, animali della mente senza meta o finalità. Nella vittoria del puro segno, senza finalità, ci sorprende, paradossalmente, la crudeltà della poesia
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come rischio e Nulla. Perché la poesia così intesa in ogni momento uccide crudelmente quello che si vuol definire, mentendo a noi stessi, ‘senso comune’. Anche la crudeltà (la malattia, la morte) s’incista nella inarrestata dismisura biologica. In quegli anni Luigi Pasotelli, noto poeta e performer milanese, recitava con ossessiva voce rauca dalle mille variazioni e plurilinguismi anche dialettali La ballata dei topi: «Me-sum-rate-gura… rata rata… gatara… rata üra…
eine
s’incoda…
ratte… a
noi
capolisse
topi… nel
noi
metro
ratti…s’avoca… scuro
scuro….
s’arrovescia nel suo nichts s’annicchia… triste per altri lugubre la vita… noi topi ne apprezziamo il carattere ritmico
e
musicale…il
dio
caritatevole
accompagna… rata ratta ratti…». Lemming,
che
ci
razza di
topi migranti in massa senza meta, senza volontà utilitaristica individuale, se non la sopravvivenza. La sopravvivenza
dell’essere
e
dell’andare
senza
mistificazioni. Percorrendo i tempi in Piccoli dei del 1993 sebbene Cappi
rientri
entro
limitazioni
grafico-ritmiche,
riprendendo assonanze e rime in parte della tradizione, non tralascia quelle invenzioni lessicali e sintattiche che caratterizzano l’energia istintiva e sensitiva della lingua:
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dio della terra dio della terra e dell’ / avida roccia che serra / il suono / dio della goccia e dell’ / arido tono / fronda che affonda / al primo verde lino / pelle del piano / oro nano / onda d’ortica / bica e muta / astuta sabbia / rabbia / segno / legno e giro / attorno al respiro / scarna e scava / o dio che vaga Lo sposalizio fra la terra, l’Io e il dio creatore, trovano una cantabilità che richiama un inno alla vita in una sorta di mistico materialismo. Desiderio, avidità dell’essere, nella gabbia e oltre, della natura e delle sue metamorfosi. Inno muto fatto di mobile respiro. Perché ciò vuole quel dio del silenzio. Il dio in sé lo abbiamo già letto, procede per spazi e non per tempi. E le poche voci verbali misurano spazi e non tempi: serra, scava, vaga. Senza programmi e utilità, "attorto al respiro". Che è la fisiologia del poiéin segnalata fin dai presocratici. Dall’ultima raccolta di Alberto Cappi (pubblicata poco prima di lasciarci), Il modello del mondo (Genova 2008), si leggano le ambigue voci, e ancora una volta gli ambigui eternali silenzi: Domani. L’interminabile parola. / Servirà tessere i sogni? Tendere / la voce in conto dell’arco dei / silenzi. Ogni battuta è senza / mani.
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E ancora, un canto preveggente e testamentario: L’anima degli elementi e i passi / lenti del cammino. Un gesto umano / li rapina. Fuggiti in volo solo / la brina resta. Un giorno senza scalo. Come ricondurci alla tematica che ci ha impegnati, In realtà. La poesia? Realtà è la poesia, come corpo della lingua, ancorché silente: il resto è caduca contigenza. Nulla toglie che la contingenza – nel tempo fra la nascita e la morte, in quel… posteggio - solleciti pur anche la nostra volontà, i nostri doveri, i nostri piaceri. Le nostre resistenze e rivolte quotidiane. Ma la quotidianità, ancora, per quanto giusta o ingiusta, etica e persino epica, non è della poesia. Possiamo, dobbiamo agire nella quotidianità, ma la realtà silente è nel flusso sanguigno, nella dismisura dei sensi, nel lavorio creativo della mente. La poesia è un volgersi congenito, incancellabile, ancorché nell’inconscio individuale o collettivo: perciò Saffo, Orazio o Dante per noi sono ancora e sempre poesia. Vale a dire: realtà.
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Kiwi plantation. Castellar, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi
Nanicomio. Commento de Il nano di Velazquez di Rossano Onano. di Luca Rizzatello
Macrocosmi e microcosmi Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Chi è l’autore di questa fortunata affermazione?1 La scuola cattedrale di Chartres – nella quale Bernardo fu insegnante di filosofia dal 1114 al 1124 – produsse non poche idee nuove, e non poche scocciature per il vicinato2. La speculazione aveva origine nella necessità 1 A) Alessandro Magno;
B) Bernardo di Chartres D) Dante Alighieri
C) Cristoforo Colombo
In una lettera inviata da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Chiaravalle si legge quanto segue: «Descrivendo la creazione del primo uomo in modo filosofico, ma sarebbe meglio dire in modo fisico, Guglielmo di Conches afferma che il suo corpo non fu fatto da Dio, ma dalla natura, e che l’anima gli fu data da Dio, ma in seguito sostiene che il suo corpo fu fatto da spiriti, che chiama demoni, e dalle stelle. Nel 2
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di trovare un modo per spiegare il mondo e le sue leggi non certo sgomberando il campo da Dio, ma nemmeno usandolo alla stregua di un asso pigliatutto. A questo punto Bernardo introduce il concetto di forme native (nella fattispecie i quattro elementi: terra, aria, fuoco, acqua), mutuandolo dallo schema del Timeo platonico, il quale in estrema sintesi afferma che c’è il mondo delle idee e c’è il mondo delle cose; e poi c’è il Demiurgo, che plasma la realtà, pur non avendo la capacità di crearla. In altri termini si tratta di un gioco tutto interno alla natura, regolato da leggi sottoponibili a un’indagine razionale: dio sboccia le biglie, ma poi sta a loro prendersi la briga di autodeterminarsi. E l’uomo? Le vicende rappresentate nel corso de Il nano di Velázquez3 prendono vita entro quinte dalla fisionomia mutevole, che allontanano dal sospetto che possa trattarsi di una concept opera. Tuttavia vale la pena di stilare un inventario degli scenari secondo il criterio delle ricorrenze più significative. Il sipario si apre su un campo di cicoria, nel quale un uomo coglie quella che sarà la sua cena solitaria per la primo caso sembra seguire il parere di taluni filosofi stolti che dicono che nulla vi è tranne i corpi e le cose corporee, che Dio nel mondo non è altro che il concorso degli elementi e la temperatura della natura, e che ciò stesso è l’anima nel corpo; nell’altro caso è manifestamente un manicheo, dichiarando che l’anima dell’uomo è creata dal Dio buono, il corpo invece dal principe delle tenebre». 3 Il nano di Velasquez d’ora innanzi sarà sostituito dall’acronimo INDV.
59
sera a venire; nel testo immediatamente seguente, il contesto cambia, ma non più di tanto: un altro uomo che si muove in solitudine, ma stavolta tra le fronde di un parco pubblico. In un brano collocato a breve distanza, seguendo un trend antievoluzionista, a spostarsi tra i rami in questo caso c’è un primate – rispondente al nome di Cita, la scimmia di cinematografica memoria – che per sua natura si trova a proprio agio tra le piante, molto più dei due cugini sapiens sapiens poc’anzi citati. E’ necessario fare un distinguo tra la vegetazione generica e l’albero considerato nella sua singolarità; in almeno due episodi la presenza dell’albero non è più legata a una mera necessità scenografica. Si legga P40: Hai visto, all’ora del cecchino, a mezzogiorno quando sono le foglie dell’albero scure di luce come la notte […] È l’albero a conquistare il centro della scena, svolgendo la funzione di catalizzatore della luminosità ambientale e, quindi, quella di riferimento temporale. Questo processo è amplificato in P17: Ed era convenuta la gente colorata a cerchi dilatati sotto l’albero di noce, a prima attenta seduta sotto l’ombra, l’ultima dispersa al moto rotante del sole […]
60
ed è proprio dal tronco di questo albero che nascerà una larva, che a sua volta darà alla luce i cuccioli di uomo. Le
interpretazioni
attribuibili
a
questa
duplice
generazione potrebbero di per sé fornire materiale per un saggio, ma in questa sede ci si limiterà a qualche annotazione. La figura dell’albero della vita (in alcuni casi sovrapposta a quella dell’albero della conoscenza), ricorre in molte religioni, ricoprendo di fatto la totalità dei sistemi culturali; si notino inoltre i tre stadi evolutivi esposti nel corso del testo: albero, larva, uomo. La lattazione improvvisa delle donne presenti consente ai neonati di raggiungere, in un tempo record, uno sviluppo fisico tale da consentire loro di avere rapporti sessuali con le rispettive madri putative. Si tenga a mente questo cortocircuito. P43 esordisce con una presentazione della materia in chiave cosmogonica, a cui segue, alla metà esatta del testo, l’entrata in scena della specie umana, che provvista d’amore e di machete, parassita l’ambiente, e lo stravolge. Sembra
di
incappare
in
una
contraddizione
intertestuale, quando continuando a leggere si scopre che […] in breve la possessione
61
divenne una contrada fiorita di agevole passeggiatura, erano scomparsi ghiri e gnomi ambigui ed altri parassiti, accorreva la gente pallida della domenica […] Si
riprenda
il
cortocircuito
lasciato
in
stand-by:
considerata in questa luce, la larva di P14, sopravvissuta alla bonifica, si posiziona ad un livello differente nella scala
evolutiva,
assumendo
una
connotazione
provvidenziale. La specie umana, incapace di riprodursi, affida
questo
incarico
ad
una
specie
ritenuta
subumana; questa incapacità di rapportarsi con l’altro si estende, e si radicalizza nella negazione di qualsivoglia tipo di socialità: […] per questi motivi ci offende la fama di caute formiche, coloniali, nere. Natura facit saltus: d’ora in avanti i rapporti tra gli individui – è ininfluente che appartengano alla stessa specie – risentiranno di questa frattura; ma soprattutto, è proprio a partire dalla colonizzazione a colpi d’amore e machete che scompariranno i riferimenti agli alberi e, più in generale, al ruolo funzionale della vegetazione. Infatti, fin da subito come
scenari di
riferimento
compaiono vedute legate al campo semantico della desertificazione:
62
P49 Va nel cuscino d’aria fra suolo e precipizio verso l’orizzonte deserto delle iguane […] P61 […] la vegetazione è assente […] P64 […] quando il deserto chiama. P65 […] sopra la terra arida Anche il vento – elemento semioticamente rilevante in poesia – viene collocato in posizioni significative nel succedersi dei testi; si tratta, per meglio dire, dell’assenza di vento. Il sintagma vento che non c’è, è presente in due occasioni, P17 e P55; in P47 si legge senza vento; quando il vento attesta la presenza, il suo ruolo è quello del prolungamento dell’istinto umano in situazioni di decisione:
P45 […] Eppure si conosceva
63
come i venti fossero propizi […] P64 Dovevamo fidarci del vento, della nostra animale vocazione […] P66 rappresenta un momento di svolta nello sviluppo narrativo di INDV; infatti quasi inaspettatamente ai vv. 34-36 si legge che [...] tutta l’apparizione ha colori temperati, il vento tiepido e quasi musicale sopra le gemme nuovissime Siamo in presenza di tutti gli elementi considerati fino a questo momento, sintetizzati in un quadretto dagli umori pastorali. Tuttavia è importante non lasciarsi ingannare dal tono delicatamente rassicurante, e riconsiderare i dati a nostra disposizione. Nel Primo libro dei Re, capitolo diciannovesimo, viene raccontata questa vicenda: Elia ebbe paura, si alzò e se ne andò per mettersi in salvo. Arrivò a Bersabea, che si trova in Giudea, e vi lasciò il suo servo. S’inoltrò quindi nel deserto camminando per tutto un giorno e andò a sedersi sotto una ginestra. Qui s’auguro di morire dicendo: «
64
Ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei antenati ». Poi si sdraiò e s’addormentò
sotto
quella
ginestra.
[…]
poi,
sostenuto da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Poi, nello stesso capitolo: Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento grande e gagliardo, tale da scuotere le montagne e spaccare le pietre, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il sussurro di una brezza leggera. Non appena sentì questo, Elia si coprì la faccia con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Forse potrebbe bastare soltanto mettere in evidenza la somiglianza della scansione emblematica dei due libri: prima l’albero, poi il deserto, infine il venticello. In realtà, le similitudini si muovono a livello ben più profondo, e si aprono a prospettive più complesse. Occorre fare un passo indietro e rileggere un brano già preso
in
considerazione,
integrandolo
immediatamente precedenti o successivi.
65
con
i
versi
P65 infatti le fiamme lambiscono le finestre, il cinema d’essai, l’albero della cuccagna, le vesti vaporose delle donne rarissime che sono vergini […] molto silenzio sopra la terra incandescente ricoperta ancora di lapilli e di cenere calda la quale si muta per contrappasso in neve freddissima, si aggira infatti un vento pugnalatore […] spalano tutta la neve, compare il cinema nuovamente, le finestre, l’albero della cuccagna, purtroppo le donne vergini rarissime che avevamo tentato di occultare, tutta l’apparizione ha colori temperati, il vento tiepido e quasi musicale sopra le gemme nuovissime Dato per
assunto che l’happy end
comparsa
della
variante
risiede nella
‘brezza/vento
tiepido’,
rimangono ancora due questioni da risolvere. Stando agli studi di James Frazer, il gioco dell’albero della cuccagna avrebbe origine nei culti arborei celtici, successivamente virati in feste del Maggio. Caratteristica primaria di tali celebrazioni è il richiamo alla fertilità, anche attraverso riti orgiastici. Si spiegherebbe in tale senso il riferimento in P65 al tentativo di occultamento delle donne vergini, in concomitanza con la ricomparsa
66
dell’albero della cuccagna. È un ritorno della fecondità determinato dalla cultura prima che dalla natura, ma che proprio in quanto voluto dalla comunità degli uomini
consente
di
ripristinare
quelle
dinamiche
riproduttive, e di convivenza all’interno del sistema naturale,
bruscamente
interrotte
proprio
dall’uomo
culturale. Resta da capire che entità si celi dietro quel vento leggero che in 1RE era Dio. P17 Ed era convenuta la gente colorata a cerchi dilatati sotto l’albero di noce, a prima attenta seduta sotto l’ombra, l’ultima dispersa al moto rotante del sole, da dove guarda ciascuno il tronco mulatto, immobile al vento che non c’è, speriamo che si sappia la ragione dell’invito, pensano tutti senza proferire parola, così progettando un clima innaturale di attesa […] Ma l’attesa della gente sotto l’albero di noce – che non è poi tanto differente dall’attesa di Elia, prima disillusa sotto la ginestra, poi impaziente sul monte Oreb – non è l’unico caso che ci viene presentato nel corso del libro; già in chiusa di P13, il primo testo del libro, l’uomo solitario trascorre la serata e l’esistenza in assenza di
67
qualche pallido | significato, di qualche timidissima attesa; in P21 i giocatori di dadi nella taverna sono così lenti e ottusi, linfatici, privi | dell’istinto primario di mattanza, si aspettava | comunque vivi lo stridulo della civetta; in P27 il nano che fa anticamera aspetta terribile e calmo l’obolo dovuto; in P31 le passeggere del treno attendono l’ordine naturale; in P36 le suore della casa di carità aspettano chiuse nelle camerine; in P48 le donne silenziose attendono; in P49 la signorina aspetta l’assalto successivo; in P61 i personaggi hanno atteso il segnale; in P67 il motivo dell’attesa si fa più esplicito, in quanto l’uomo con
la
tuba se ne
sta
immobile,
come
aspettando un fine | d’amore, come aspettando risposta. Tuttavia neanche questa precisazione può essere
considerata
totalmente
esaustiva,
data
la
plurivocità del concetto di amore. Se una risposta non la si trova sul fronte, la si cercherà sul verso, e il capolinea del percorso di ricerca sembra risiedere proprio nella mancata attesa, nell’atarassia determinata dal non aver bisogno di attendere: P68 Noi diversamente siamo dai pentecostali, dai millenaristi, qui ed ora, dal ginnasta che verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, nel fragore sistino della luce,
68
noi siamo diversamente, una specie di resistenza coatta, non è dato sapere verso chi, verso cosa, soprattutto l’assenza esangue della speranza, non si pretende, della paura. L’altra grande categoria di scenari presente in INDV è quella dei luoghi ad alta frequentazione. Quale che sia la tipologia specifica4, tutti gli ambienti rappresentati hanno come denominatore comune lo svolgere la funzione di radunare le persone al loro interno, siano esse in pianta stabile o di passaggio. Questa
scelta
stilistica
potrebbe
apparire
in
controtendenza rispetto a quanto detto riguardo al desiderio dell’uomo di negare ogni forma di socialità; l’atmosfera
generale
presentati
è
che
avvolge
quella
i
personaggi
dell’isolamento,
dell’incomunicabilità, nonostante l’appartenenza a un gruppo più o meno numeroso di individui. È davvero rarissimo trovare esempi di contatti verbali che abbiano finalità di conoscenza inter-individuale; oppure, quando si trovano, questi necessitano di precise caratteristiche formali. Il primo caso è quello della comunicazione mediata da mezzi tecnologici: in P30 le ragazzine si
4 P13: mercato; P14: parco; P21: taverna; P24: cattedrale; P27: masseria;
P30: scuola; P31: treno; P36: casa di carità; P41: accampamenti; P43: contrada; P47: banchetto; P51: nave; P61: bivacco; P65: quartiere; P70: piazza.
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dicono la voglia, l’assuefazione | sul filo tenerissimo dei telefonini, | si raccontano per E-mail; in P36 gli eredi degli ospiti della casa di carità sono responsabili di un recapito massivo di lamentele | inoltrate per via telematica o tramite telefonino; in P51 un passeggero della nave pesca dall’intima giacca un piccolo | telefonino, compone a caso un numero e parla | con nessuno, una donna giovane risponde al proprio | cellulare, accetta l’invito, guadagna la spina | dorsale della pista, tutti seguono l’esempio, | si formano le coppie della comunicazione | virtuale. Il secondo caso prevede una struttura dialogica costituita dalle due parti Io sottointeso/Tu generico. Si tratta di una formula che rimanda allo schema dell’epistola sentimentale, genere preferenziale quando si vuole stabilire un rapporto d’intimità; qui è l’anonimato la condizione chiave per riuscire ad esprimere dei concetti probabilmente non esplicitabili a volti scoperti5. Una modalità comunicativa di questo tipo è direttamente associabile alla chat, in cui a fare da interfaccia c’è il monitor del computer, e il disvelamento della propria identità è cosa facoltativa, per non dire sconsigliata; si prenda a titolo di esempio P41:
5 Nel libro vengono presentati due casi in cui la comunicazione avviene
a volti scoperti. Ma se in P19 essa avviene tra un umano (Tarzan) e un subumano (Cita), in P51 il contatto verbale serve allo scopo di tenere la distanza.
70
Io non ho pane da mangiare, ma neppure salame, bruscole, l’ammazzacaffè. Dunque, se vieni fatti riconoscere da una gobba di grasso, come i cammelli. Ti dico che la pioggia sarà torrenziale e gelida, coprirà gli accampamenti. Il terzo caso consente uno scarto metanarrativo, dal momento che viene introdotta la forma del racconto, ad opera dei personaggi stessi. Nello specifico, il termine racconto – nelle varianti verbali o nominali – ricorre cinque volte nel corso del libro; in P13: Ti racconto; in P19: un racconto; in P27: racconto; in P61: si raccontano; in P70: racconti. E’ impossibile trascurare il fatto che P13 e P70 siano rispettivamente il primo e l’ultimo testo del libro, nella posizione di vertici di un’ideale parabola concettuale, in cui, se è vero che stavolta i soggetti dell’azione
vengono
puntualmente
esplicitati,
è
altrettanto vero che essi sono nella forma della terza persona,
rivelandosi
di
fatto
come
gli
oggetti
dell’esposizione dei fatti. Le possibilità del linguaggio però non si esauriscono a quelle verbali.
Le tue azioni parlano così forte che non riesco a sentire quello che dici.
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La citazione è tratta da un aforisma di Ralph Waldo Emerson, vissuto nel diciannovesimo secolo e pioniere negli studi sul linguaggio non verbale. È il caso di allargare la prospettiva su altri territori, nella fattispecie prendendo in considerazione i caratteri propri del paralinguaggio per antonomasia, il linguaggio del corpo. Anche in questo frangente è possibile rilevare degli stilemi ricorrenti. Anzitutto la valenza erotica attribuita alla capigliatura – specialmente femminile – trova spazio per esprimersi a più riprese: in P14 le donne giovani […] nella posizione sonora delle cavallerizze | ilari dentro la veste colorata e luminose | hanno i capelli sciolti; in P19 Jane occupò delusa la tenda | notturna, chiusa, cercò la guida pallida, | sciolse i capelli6; in P27 la Padrona si muove agitando la chioma corvina; in P49 la donna scuote i capelli caldi, stende | nella distanza d’aria fra cielo e precipizio le mani | libere, impugna le tenere appendici militari. Anche
il
motivo
dell’allattamento
–
stavolta
esclusivamente femminile – ritorna in quattro occasioni: in P17 erompe | dalle mammelle benedette un filo di nutrimento; in P21 le poppe dolorose7 […] spandevano | commosse d’amore una vena di latte salino; in P25 Il verbo sciogliere, connotato eroticamente, torna in P51: guarda la donna | prudentemente danzare, prima che sciolga i veli. 7 Il medesimo sintagma poppe dolorose è presente anche in P27. 6
72
stringe il bimbo la poppa saporosa, un filo | di latte lo asseconda; in P36 le suore della casa di carità offrono il piccolo seno coperto di miele profumato | cantano la ninna la ninna bimbo bello di mamma | che succhia la poppa e chiude tenere le mani. Se le proprietà seduttrici dei capelli hanno avuto nel corso dei secoli pesanti attenzioni artistiche e critiche con le conseguenze di una legittimazione popolare e di uno slittamento dall'arte al costume, non si può dire altrettanto per il seno inteso come oggetto erotico nella sua funzione nutritrice; questo cortocircuito innescato tra livelli tanto distinti quanto fondamentali per lo status di femminilità
genera
un
effetto
perturbante,
che
nemmeno Onano sembra riuscire ad esplicitare fino in fondo8. Vi sono inoltre tre termini che fanno da basso continuo nell’orchestrazione tematica dell’opera, e che di tanto in tanto si staccano dalla trama per guadagnare il centro della scena. Uno è tattile: guanti tattili (P44), manovra tattile (P48), dolore tattile (P51), pelle tattile (P62); l’altro è possessione: riflessi torbidi di possessione (P14), volontà di possessione (P40), la possessione (P43). Se al primo è possibile attribuire un valore univoco legato alla conoscenza fenomenica per contatto, nel secondo
8 L’allattamento degli ospiti della casa di carità, adulti, avviene tramite
bottiglie di plastica con ciuccio anatomico, e non direttamente dal seno, come succede negli altri brani in cui è descritta tale pratica e di cui sono beneficiari dei bambini.
73
c’è una biforcazione delle accezioni che sviluppa sia l’idea di proprietà intesa come possedimento materiale sia quella di invasione del corpo da parte di un corpo estraneo9. Siamo in presenza di forme estreme di relazione, in cui la contiguità fisica assume i caratteri della
compenetrazione,
per
non
dire
della
sovrapposizione, di nature diverse, e quindi dello scambio reciproco. Il terzo termine, terra (e relativa sfera semantica), chiude il cerchio offrendo una solida base nella constatazione dell’efficacia nella comunicazione tra individui a condizione
che
essa sia mediata
direttamente dai sensi. La sua frequenza è alta, dato che ricorre venti volte nell’arco di trentotto testi: pensieri terrestri e seduzione terrestre (P31), smanie terrene (P39), terra (P43), terra [due volte] (P45), macchina terrestre [due volte] (P49), terra [dieci volte] (P51), affluenze terrestri (P64), città terrestre (P70). Tuttavia lo sguardo di Onano sembra non essere soddisfatto da una soluzione implicante l’esclusività dei rapporti in terra, dato che, per citare Leonardo da Vinci, i sensi sono terrestri, la ragione sta for di quelli quando contempla.
A questo punto occorre tornare alla
questione di partenza, introducendo le riflessioni di una personalità fondamentale nella costituzione dell’identità 9 Nel brano 4. de Il senso romanico della misura (Edizioni Tracce, Pescara
1996), Onano scrive: (Le possessioni sono sempre reciproche: quindi, per ogni essere umano indemoniato, esiste un demonio che viene umanizzato. Questa osservazione ha implicazioni speculative che vengono spesso trascurate).
74
della scuola di Chartres: Ermete Trismegisto. Nel suo trattato La tavola di smeraldo si legge che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che in basso per realizzare i miracoli di una cosa sola. E poiché tutte le cose provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. L’idea di fondo, poi sviluppata dai chartriani, è che l’uomo riproduca in sé l’ordine dell’universo, ma non solo, che dell’universo sia al centro. L’influsso degli astri sarebbe
perciò
determinazione
dei
un
fattore
destini
degli
essenziale
nella
uomini.
Questa
interferenza si manifesta all’interno di INDV secondo modalità differenti. Quella più immediata è riconducibile alla relazione che intercorre tra i cicli lunari e quelli del corpo femminile: in P48 sono intorno le donne silenziose, | attendono, sanno il torbido ciclo della luna; in P60 passa Ofelia lunare. In P61 gli elementi fisiologici trascendono l’umano e si disseminano attraversando l’ambiente circostante, per farsi infine territorio (e il territorio si fa corpo): Esse lasciano tracce d’urina ad ogni passo, camminano in cerchio, marcano
75
il territorio: ciò che questo racchiude ha cicli lunari, monotoni […] Ma il punto di massima intersezione tra i motivi presi in considerazione finora viene raggiunto in P70 (i corsivi non sono dell’autore): Ti scrivo da Ninive, dalla città terrestre. Non si sta male, curvi sulle faccende familiari, occupati nell’arte di comperare e vendere. Supponiamo, in fondo stanchi e leggeri, l’assalto sulle poderose macchine falcianti, le mani mozze dei nemici, le cortigiane guerresche. Ne facciamo racconti, all’occhio perso dei bambini raccolti sulla piazza. Peccato il tributo ad ogni cadenza di luna, il fastidio della genuflessione, al ricciuto funzionario di Babilonia, pensile e lontana, azzurra, ricca di biblioteche. La terrestrità del luogo di residenza, la connotazione erotica intrinseca all’idea di donna e la dimensione narrativa
nei
rapporti
umani,
pedine
pesanti
nell’immaginario de INDV, si compongono con la periodicità data dai movimenti lunari; la quale, si badi, non è in questo caso motivo di determinazione del
76
destino legato a fenomeni astrali10, bensì funge da scadenzario per il pagamento del tributo al tiranno11. Da ciò deriva una emersione ipotestuale ulteriore: la bipolarità
Ninive
terrestre/Babilonia
pensile
può
richiamare il modello oppositivo descritto da Agostino d’Ippona nel De Civitate Dei, in cui alla città terrena dell’auto-affermazione pagana (si legga: dell’abilità politica
romana
e
delle
conquiste
della
filosofia
platonica) viene contrapposta la città celeste della grazia cristiana. Alcune informazioni su Ninive: capitale religiosa e culturale dell’impero assiro, nel 612 a.C. venne rasa al suolo dall’esercito sorto dall’alleanza di Medi e Babilonesi; nel 1847 l’archeologo A. H. Layard portò alla luce un’enorme quantità di reperti, tra i quali spiccano le ventimila tavolette appartenenti alla biblioteca di Assurbanipal12. La città assira è diventata l’emblema di come a una crescita senza apparenti limiti possa succedere una rapida caduta in rovina. Questa fama è da ricondurre anzitutto ai dati storici, come accennato sopra; ma non solo, dato che due fonti letterarie
E’ suggestivo rilevare che il più importante tempio di Ninive era consacrato a Ishtar, dea della maternità ma anche della guerra; figlia di Sin, dio della luna, era posta in stretta relazione con il pianeta Venere. 11 A Peccato il tributo ad ogni cadenza di luna, | il fastidio della genuflessione, fa da contrappunto Camminiamo sul ponte, sotto il fastidio di luna. 12 «Io, Assurbanipal, re delle legioni, re delle nazioni, re dell’Assiria, cui gli dei hanno dato orecchie attente e occhi aperti, ho letto tutti gli scritti che i principi miei predecessori avevano accumulati. Nel mio rispetto per il figlio di Marduk, Nabu, dio dell’intelligenza, ho raccolto le tavolette, le ho fatte trascrivere e, avendole raffrontate, le ho firmate col mio nome al fine di conservarle nel mio palazzo». 10
77
esplicitano,
seppur
secondo
modalità
differenti,
l’atmosfera che pervade l’affaire Ninive. La prima, il Libro di Nahum – inserito tra i profeti minori dell’Antico Testamento – consiste in una breve raccolta di testi oracolari scritti contro il nemico assiro, identificato nella sua capitale. Stando a quanto dice il suo autore, tra le motivazioni che hanno portato al crollo del regno sembrano esserci proprio i segni del progresso civile, civico e internazionale: Schioccar di frusta, strepito di ruote, cavalli furenti, carri traballanti, cavalieri all’assalto, lampeggiare di spade, bagliori di lance; […] Per le molte prostituzioni della cortigiana, della bella favorita, dell’abile incantatrice, che tiranneggiava i popoli con i suoi favori, le nazioni con i suoi incantesimi!13 La seconda si può definire un documento interno, dato che si tratta del mito sumero di Etana; Etana di Kish, desiderando fortemente un erede ma non riuscendo a generarlo, si mette alla ricerca dell’erba del parto da far mangiare a sua moglie. Grazie all’aiuto delle divinità ottiene un’aquila che gli consente di continuare la sua
13 Nel Libro di Giona Ninive viene descritta come una città molto grande,
lunga tre giorni di cammino. (Gi III,3).
78
ricerca in cielo, ma a causa delle vertigini cade a terra, e muore. In entrambi i casi sembra che le leggi di caducità – accidentalmente sovrapponibili a quelle di gravità – impediscano una conservazione del proprio stato nel momento
di
maggiore
sviluppo;
trascurando
intenzionalmente gli evidenti elementi prometeici della vicenda, si vuole incrociare quanto detto con due testi presenti nel libro di Onano, adiacenti e in posizione centrale all’interno del volume. Si tratta di P44 e P45. P44 Avanzano fra gli spuntoni, le scarpe da ginnastica e i sottili guanti tattili, divisi fra la prudenza del gesto e l’intrepida decisione verticale, prima regola non guardare mai in basso: è leggenda, sappiamo benissimo, la presenza delle aquile, lo strepito, la pretesa difesa di nidi inaccessibili, posati sulla vetta: piangono così, per puro riflesso pauroso alla vista dei giocatori di free-style, così poco raccomandabili, così rocciatori privi di tenerezza: essi raggiungono le cime solitamente solitari, si siedono, guardano silenziosi
79
la prateria, si domandano se ne valesse la pena, non si danno risposta, dimenticano quasi sempre di raccomandarsi, prima di scendere.
P45 E’ una storia che deve finire, lo sapevamo ciascuno, sospesi nella circostanza che la storia non era cominciata, ciascuno sapeva che la storia non era cominciata prima ancora che fosse finita. Eppure si conosceva come i venti fossero propizi, ciascuno sospeso sulle costole magre del pallone, così esile fra terra e assenza di vertice o precipizio, ciascuno sa che la storia fosse finita, che fosse la storia neppure per un attimo cominciata, forse solamente fosse cominciata nell’attimo breve dell’ascensione, ma poi ciascuno sapeva che fosse finita nel sussulto uniforme della mongolfiera, sospesa fra terra e assenza di vertice e precipizio, nonostante dovesse finire.
Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non
80
certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Il problema sembra essere quello che succede dopo.
81
82 Posing in front of fruit boxes. Castellar, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi
Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti di Nino De Vita di Diego Conticello
Premessa La poesia di Nino De Vita (Marsala, 1950) nasce da un rapporto
simbiotico
con
l’ambiente
naturale
del
marsalese, precisamente di quelle contrade marine affacciate sull’oasi naturalistica dello Stagnone, proprio di fronte all’isola fenicia di Mozia e alle celeberrime saline del capo lilibeo. In questo scenario ancora incontaminato l’autore si è mosso, fin dall’infanzia, avendo sempre cura di registrare e classificare il particolare minimo, compreso quello apparentemente
insignificante
(lui
per
decenni
insegnante di Osservazioni scientifiche in diversi istituti agrari del trapanese), pertanto nei suoi versi traspare quella vena nomenclativa, talvolta esasperata ed
83
accompagnata da una assoluta precisione derivante dalle inclinazioni formative. Il rapporto con questa natura ne risulta talmente intimo da essere non simbolico ma emotivo, per cui non è l’assidua frequentazione coi classici della letteratura a forgiare una ‘maniera’ di imitazione epigona (viene, tanto per dire, immediato l’accostamento col primo Montale di Ossi di seppia), bensì la precisione prende slancio dalle cose in sé, per costituirsi nucleo continuo e irrinunciabile
del
dettato
prima
intellettivo
e
poi
descrittivo. In tal senso Nino De Vita potrebbe idealmente far parte di quel pantheon di scrittori-scienziati che, partendo da Galileo fino ad arrivare ai nostri Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Lorenzo Calogero, Giuseppe Bonaviri (volendo tacere sui recenti esiti discutibili di un Cesare Ruffato), fanno
del
rigore
nomenclativo
una
caratteristica
osmotica alla loro controparte “dottorale”. Non lontano dalla poesia anglo-statunitense che da Whitman (si vedano i paralleli testuali col maestro di Leaves of grass) ha condotto al moderno “imagismo” di William Carlos Williams – anch’egli scienziato, di preciso medico pediatra – o a certe prove di Ezra Pound e, nei casi migliori, alle altezze stratosferiche di T.S. Eliot, il nostro canta la natura con la stessa esattezza verbale a lungo interiorizzata negli studi agrari prima e negli anni di insegnamento poi.
84
Futuri contributi dovranno pertanto tenere in conto questo non trascurabile, anzi ‘necessario’, punto di partenza per lo studio completo di un’opera così appartata quanto degnissima di considerazione.
85
Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti La poesia di Nino De Vita ha la compostezza delle cose immobili, impassibili, sfiorate dagli elementi di una natura non
irresistibile
e,
tuttavia,
nemmeno
arcadica,
autoritaria e materna in egual misura e – parimenti – lentissima,
lontana
dai
ritmi
veloci
che
contraddistinguono la nostra epoca. Lo strano titolo ha il significato toponomastico di “Fosse Cretose”, una contrada confinante con quella in cui il poeta vive (il termine ‘chiti’ vuol dire appunto ‘di creta’ nello stretto vernacolo della contrada marsalese di Cutusio, dove De Vita è nato e cresciuto e dove tuttora risiede). Nei suoi versi l’autore descrive, lucrezianamente direi, con
‘misurata’
insistenza,
questo
variegatissimo
ecosistema, quasi lasciando sproloquiare ogni evento che vi si svolga – sia esso maestoso o microscopico – come in una sorta di continuata prosopopea ‘fisica’, dove la presenza umana è sì contemplata ma, spesso, defilata o del tutto assente. De Vita sembra annotare il susseguirsi delle stagioni col taccuino del fine botanico/zoologo, in uno sguardo perpetuamente vigile che registra insieme l’inquadratura fuoricampo e il primissimo piano, l’ampio paesaggio e l’insetto più misero. Animato da uno smisurato slancio che abiura eccessive sovrastrutture antropiche, il poeta
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sembra voler ricostruire un rapporto antichissimo con le cose della natura, senza che esso sia deviato e corroso alla base da una forte carica di appropriazione simbolica o di recupero memoriale.1 Queste “epigrammatiche micro-parabole” si dipanano lungo il corso ideale delle quattro stagioni, tante sono le sezioni della raccolta, segnando al contempo una labile traccia
di
ciclicità,
evidente
nelle
misture
meteorologiche di eventi ‘fuori stagione’. Cade violenta, batte sulle foglie ampie delle zucchine la grandine e sul sedano, sui fusticini eretti del peperone… Il sole, spuntato dalle nubi, negli angoli la trova dell’orto, dei canali, nel fosso del concime, immiserita…
1 Stefano Jacomuzzi, Presentazione a Fosse Chiti. Catania-Milano,
Lunarionuovo-Società di Poesia 1984, pag. 7.
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Il susseguirsi di questo pullulare di accadimenti restituisce il giusto valore a cose altrimenti classificabili – secondo il comune sentire dei giorni nostri – come ridicole inezie da crudo orizzonte quotidiano. A destare la coscienza del lettore non è dunque l’evento osceno od immorale, quanto l’accezione mortifera come germe insito anche nella descrizione più serena. Lisciato legno un nodo anelli tondeggianti, striature… È la vita dell’albero la morte… Nino De Vita utilizza in maniera massiccia e sistematica un arguto espediente grafico al fine di rimarcare il perenne intersecarsi della pars destruens (tondo) e construens (corsivo) che costituisce ogni fenomenologia naturale.
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La lucertola al laccio sospesa e poi tuffata nell’acqua della vasca il ventre liscio gonfio la bocca spalancata… La foglia viva ha succo verde dentro, nervi, cellule rigonfie d’umore. Respira dagli stomi si difende coi peli dalla polvere che il vento solleva da terra. L’azione umana in questo ristretto habitat risulta spesso estemporanea o ristagna in voluti marginalismi da ‘sfocato’ fotografico, sotteso al ritratto ora faunistico ora floreale in rilievo («Buttano con le pale / il frumento nell’aria.»; o ancora: «Nelle sere / d’estate / a conversare / – nei porticali o sotto le tettoie / rinverdite – »). Il tratto versificatorio di De Vita
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consiste
(tra
l’altro)
in
quella
particolarissima
capacità di “dare il nome” alle cose facendo scaturire dal nome un misterioso surplus di significato che in qualche modo, per riflesso, finisce col trasmettersi (arricchendola) anche alla cosa. 2 Dunque, per una sorta di procedimento analogico rovesciato, il significato pare scaturire dalla cosa in sé, come a sviare il passaggio intellettivo, emanando dal proprio interno aloni di senso che divengono – ma solo in seconda battuta – metafore di un implicito e nascosto pensiero ch’è dello stesso poeta. Sono i cerchi, sui fianchi della botte, arrugginiti. Dalle doghe il vino trapassa in righe oscure di muffa fino al bordo sul fondo… Ha moscerini che ronzano e nel foro s’infilano la spina.3
2 Alfonso Lentini, Nino De Vita – Fosse Chiti. «Porto Franco». Taranto,
gennaio-marzo 1991. 3 Da Sono i cerchi, sui fianchi della botte. Qui, ad esempio, si ha la sensazione che De Vita sottenda l’immagine di un violento invecchiamento e dell’inesorabile scorrere del tempo.
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Una
profonda
oculatezza
nella
cernita
della
terminologia (stomi, micelio, tramoggia, austori), il gusto insistente per il particolare orrido o macabro («Sta riversa. Le zampe / mosse nell’aria, lente; le ali rotte, / l’addome insanguinato…»), quantunque crudamente realistico, l’eclettica cultura che spazia su orizzonti alquanto inusitati, potrebbero certamente ascrivere De Vita a quella temperie tutta mediterranea che è la poesia ‘neo-barocca’, di cui Lucio Piccolo è forse l’esponente siciliano più noto insieme a Cattafi e Ripellino. Come per l’estroso ‘pintore’ dei Canti barocchi, la poesia del nostro esponente lilibeo – per dirla con Giovanni Raboni vive di una sommessa, incantevole, «inspiegabile» precisione. Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa. 4 De Vita è forse il poeta che in assoluto ha più consonanze col cavaliere di Calanovella, nonostante il rifiuto netto di uno schema compositivo tradizionalistico che concepisce la costruzione poetica solo su base rimica e metrica. Entrambi usano trattare diffusamente di gestualità risalenti ad una cultura contadina ormai in
4 Giovanni Raboni, Ma quante belle ricerche. «Il Messaggero», 1 maggio
1985.
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disfacimento inesorabile (si veda questo raffronto tra La risacca del mare del nostro e La seta di Piccolo).
Divorano le foglie
Fatica nostrana nei giorni involati
di gelso
la seta: le veglie all’interno
ai lembi i bachi da seta
tepore, le foglie del gelso brucate dalle torpenti farfalle ai cannicci. Sospesa alla trave la falce d’incanto, il crescente
tre larvette che si muovono lente
e l’aria grave di fiati rurali, d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana…
ma se la prendi con mano
muoiono dentro i bozzoli
che un poco trema
agli angoli
e la spieghi e la stendi è una fontana nel vento e nel sole.5
e rispuntano farfalle nella piccola scatola per le scarpe di cartone.
5 Cfr. Lucio Piccolo, La seta, in La seta e le altre poesie inedite e sparse,
cit.; ora in Plumelia, La Seta, Il Raggio verde e altre poesie, cit., ivi pag. 43.
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Più volte De Vita si sofferma sul tema delle crisalidi, forse traslato dell’ineluttabilità della morte e della fragilità della vita («Maturerà crisalide la vita / d’una stagione sola: una farfalla // un’altra metamorfosi / una larva / sul muro screpolato»). Con un procedimento di acuta diminutio dai risvolti quasi eufemistici, il poeta riesce a mettere sullo stesso piano l’evento universale e il particolare più misero (si veda a titolo esemplare questa Aggiunge il caglio). S’infila dalla porta del casolare l’alba: impolverate vibrano ragnatele agli angoli del tetto ancora bui… E questo particolare assurge a simbolo di una visione fatalista, quasi
gattopardiana dell’esistenza, spesso
inerme nei confronti del fluire storico. Melagrana spaccata contro il sole piccoli cuori rossi le formiche
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che salgono dal tronco […] […] in una nube d’insetti l’odore acre della marcescenza. E ancora: «Cade la foglia, scura, con i lembi / bagnati, sulla terra / che ha l’erba ancora nana // – sarà fango, / marciume – l’autunno / era grigiastro in mezzo ai rami nudi. Non è morta angosciata dalla luce, / per il vento freddoso / di tramontana». Per l’estrema ricercatezza dell’impianto metaforico, per lo straniamento che il quadro immaginativo rilascia al lettore, forse Ha piovuto è l’esito più alto dell’intera raccolta. Ha piovuto. Sui vetri è caduta, battendo, l’acqua che in schizzi e onde in fiumi gonfi esili è discesa nel mare della soglia di marmo…
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Un sole caldo spezza e assottiglia isole disperde… È nella goccia il cielo un albero curvato… È un inno all’importanza del particolare (‘soglia di marmo’, ‘goccia’) che di solito appare infimo, nascosto, dimesso ma che, grazie ad un inatteso e geniale ribaltamento,
provoca
gradevolissimi
scorci
di
meraviglia. Ogni evento, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare crudele, l’intemperie che lascia le cose vilipese, viene descritto col fare insieme impassibile ed accorato – esule da rassegnazioni – lecito solo a chi abbia una profonda conoscenza del corso della natura: così, nell’immagine che ad una superficiale lettura parrebbe asettica, è implicita, invece, e sottintesa una pietas.
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È lunga lunga affonda la tromba dalle nubi nell’acqua. E poi si sposta, a vortice, solleva le barche dal canneto ricurva al seminato: è densa l’aria carica di terra e foglie un gelso bianco e un ulivo gigante sradicati.
Nella fermezza del dettato c’è un sentire che trasuda una compassione accesa ma delicatissima per ogni essere vivente.
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Da un buco nella rete s’è infilata la volpe: ha ucciso il gallo, azzannato una coscia del coniglio più piccolo. Le piume ha disperso e le penne nel chiuso del pollaio.
La volpe, simbolo per antonomasia dell’inganno, con la sua violenta frode soverchia la spocchiosità impersonata dal gallo, invalida ciò che di debole permane sulla terra, ovvero il coniglio, ribadendo che non c’è moralità in un mondo dominato solo dall’istinto di sopravvivenza, diverso però dalla malvagità fine a se stessa che invece inonda
l’animo
umano.
Allo
stesso
modo
anche
l’anguilla diviene emblema del sotterfugio, riuscendo a volgere a proprio favore la situazione più spiacevole (intorbidita), contrariamente a quanto avviene per quella montaliana che, seguendo il percorso inverso, assurge a sorella dell’uomo invischiato nel fango della vita.
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L’anguilla dentro il pozzo con le acque di marzo si solleva
L’anguilla, la sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, sempre più addentro, […] nel cuore
penetra nei meati
del macigno, […] la scintilla che dice
dai canali intorbiditi striscia fino al mare
tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito; l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non crederla sorella?6 Queste descrizioni aperte, fatte di un linguaggio chiaro, conciso hanno talvolta […] la sottile inquietudine delle immagini trasparse da una liquidità lontana, anche per quella «potenziale enigmaticità del linguaggio chiaro» di daumaliana memoria e, soprattutto, per una sorta di fisica metafisicità sotto cui si presenta ex abrupto la cosa stagliata nella sua azione silenziosa e immobile, nella lontananza di sé, incisa fino in fondo, fino alle radici
Cfr. Eugenio Montale, L’anguilla, in La Bufera e altro. Venezia, Neri Pozza 1956; ora in Tutte le poesie, cit., ivi pag. 262. 6
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della sua maschera. Fino all’estremo segno di metafora.7 La
tornitura
quasi
ossessiva
di
questo
stile
così
prosciugato s’incentra sul tentativo di far risplendere ogni creatura vivente di luce propria, e tale che nessun orpello possa mai oscurarla. Una nuvola sola in tutto il cielo all’alba: i seni bianchi, gonfi… La faraona immobile attraversa con l’ombra lo spiazzale deserto.8 De Vita si sofferma velatamente anche sull’odierna perdita dei valori religiosi, paragonando l’edera ad un male che sovrasta ogni anelito fideistico. Ha una croce la casa, in alto, sopra il pizzo, di tufo vecchio: l’edera dal muro, 7 Armando Patti, I segni della Natura. «La Sicilia», 17 agosto 1984. 8 Da Lo zolfo sulla vite. Si noti la delicatezza della ‘faraona’ che sembra la
prosecuzione ideale della descrizione della nuvola.
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s’arrampica e l’avvolge nel cielo l’attraversano nubi gli uccelli in fila a frotte un sole lento che scende verso il mare il cerchio della luna nella notte scura… La lingua appare sempre in bilico tra il tecnicismo più spinto e il solecismo dialettale: una variegata messe di termini in questa raccolta (“ristoppie”: con forma più vicina al siciliano ‘ristucci’ che all’italiano ‘stoppie’; “coffe”: ‘ceste’, ‘panieri’, usato in lingua col significato di piattaforma sull’albero delle navi; “giummo”: quasi intraducibile, è una sorta di pendaglio decorativo; le “cianciane” sono una specie di campanelle; “graste”: orci, vasi, dal siciliano ‘rasti’) farà da nucleo di partenza verso una decisiva virata vernacolare che, a tutt’oggi, pare insostituibile nella produzione posteriore a Fosse Chiti.
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Il rispetto così sacrale per la natura che secerne questa poesia può essere, per certi versi, assimilabile alla purezza infusa da Walt Whitman in Leaves of grass (Foglie d’erba). Ma se il bardo dell’America unita cantava una natura in funzione dell’inno storico-politicosociale (portato anche della sua omosessualità), De Vita esalta una natura appartata, fuori dalla storia. I versi di Whitman sembrano una spiegazione dei versi delle metafore del poeta marsalese. Ogni giorno Stagnone risolleva
Per sentieri non battuti,
le acque
nella vegetazione ai margini delle acque stagnanti, fuggito dalla vita che esibisce se stessa,
il muschio verde
da tutti i canoni accettati, da piaceri, profitti, conformismi
sulle pietre, già vizzo, si distende
che troppo a lungo ho dato in pasto alla mia anima,
e sciacqua
[…] qui con me stesso lontano dal fragore del mondo, qui corrispondendo e conversando con lingue aromatiche,
Ha dune fosse ricolme
non più confuso (perché in quest’angolo appartato posso rispondere come altrove non oserei), possente mi sovrasta la vita che non si esibisce, ma che
sulla spiaggia
contiene tutto il resto, oggi deciso a non cantare altri canti se non i canti dell’affetto,
la rena quando il mare
proiettandoli in quella vita sostanziale, […] il segreto delle mie notti e dei miei giorni… 9
secca
9 Cfr. Walt Whitman, Foglie d’erba (traduzione di Enzo Giachino). Torino,
Einaudi 1950.
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Il messaggio recente di Nino De Vita sta tutto nella sua pacata, intima, totalizzante fusione con la natura, una rigenerazione
panica
a
rarissimamente
e
accenti
comunque
lievissimi,
presenza umana.
L’elemento
vitale
aggiungere
in
cui
non
serve,
se
non è
sempre lì, pronto a ‘sbocciare’, a impadronirsi d’ogni anfratto che l’artificio lascia scoperto ed è metafora della resistenza della bellezza in un mondo votato a un gretto utilitarismo. Dalle pietre è spuntato fra le rotaie untuose il fiore.
Il vento forte del treno lo ripiega: spruzza gocce d’acqua annerita, sbuffi di fumo… S’allontana e s’avvicina l’ape che vi posa a giri lievi e penetra, lo succhia…
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Ogni verso fa di questa raccolta un inno esemplare ‘a proposito della vita’, in cui il poeta riesce a indagare la natura fin nei suoi segreti palpiti, scovando persino il meraviglioso ritmo dei suoi silenzi.
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Mustafa's best suit. His look gained him the nickname "L'Americano" (The American). He dreams to earn 20.000 euros to start a business in Mali. Saluzzo, Italy, 2012 Giacomo Francesco Lombardi