Titolo: Il mondo nelle cose fino alle parole, fino al ritmo sintattico del dolore. Autore: Lorenzo Mari Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2015 Vol.: 26
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Il mondo nelle cose fino alle parole, fino al ritmo sintattico del dolore
di Lorenzo Mari
In realtĂ , la poesia 2015
Pur non essendo un fine conoscitore dell’opera poetica di Nadia Agustoni, la sua lettura, compagna di viaggio da tempo, si è ormai instaurata nel mio orecchio come un lento e maestoso crescendo. Si nota, si sente un affinarsi negli anni che rifiuta il modello della maturazione, quando questa sia intesa come fossilizzazione, anche in occasione dei cinquant’anni appena compiuti dall’autrice: in altri autori – in qualche modo ‘arrivati’, più che maturi – si ha ripetizione e consuetudine degli stilemi, ma questo è un modello di ecolalia narcisista che qui non trova spazio. Con le ultime opere, Nadia Agustoni arriva invece a toccare parecchi e sempre più scoperti punti apicali.
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In ottemperanza a questo calmo delirio, a questa calma atrocità, Il mondo nelle cose (Lietocolle, 2013) è uno, e allo stesso tempo una moltitudine, fra questi punti. Il paradosso si deve anche al fatto che, come ha rilevato Davide Nota nella recensione del libro – poi confluita nella Lettera a un giovane poeta in Italia, pubblicata in ebook su questo sito – Il mondo nelle cose costituisce «una piccola epica frantumata e innocente che chiude la trilogia iniziata con il Taccuino nero e composta anche da Il peso di pianura del 2011»; al tempo stesso, il volume del 2013 differisce in modo radicale dalle opere precedenti. Ad osservare questa profonda distanza è stato, invece, Francesco Tomada, che ha descritto il proprio «spaesamento iniziale nel trovare in apparenza pochi punti di parentela con la Nadia Agustoni che conoscevo. Difficile trovare un filo, delle strutture logiche che in qualche modo possano collimare con il nostro (logicamente strutturato) modo di vedere le cose; le stesse strutture morfosintattiche si dilatano e diventano irregolari, in un alternarsi di tempi verbali infiniti imperfetti presenti; la poesia è anche prosa, frammento, pensieri in successione come prima di cadere in un sonno agitato». Se mi è facile concordare con entrambe le descrizioni dell’ultimo libro di Agustoni, simile e al tempo stesso dissimile dalle opere precedenti, non mi risulta altrettanto agevole adattarmi ad altre categorie che pure vengono proposte da Nota e Tomada.
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Ritrovo, ad esempio, soltanto una serie di fotografie parziali nelle tassonomie proposte dai due critici nelle loro note di lettura, cosicché da questi scatti non definitivi, non decisivi (dov’è, forse, il textus, in virtù della sua forza, a sottrarsi per primo!), trovo utile perlomeno prendere l’abbrivio, per poi provare definire anche la mia inquadratura, che sarà altrettanto soggettiva e limitata. Parto da Davide Nota, rispetto al quale non mi pare che la «piccola epica frantumata» de Il mondo nelle cose sia anche del tutto «innocente»: lo è nella misura in cui la nudità del poeta, la sua più alta esposizione, è frapposta tra sé e il mondo (pag. 66: «a volte stendeva biancheria all’aperto / - tra sé e il mondo - una nudità di cavalletti»); non lo è, forse, nell’aderire al “Corpo Nostro PPP” – punto focale della raccolta, come ha sostenuto Loredana Magazzeni – in qualità corpo mistico e, ancor di più, come funzione dell’ormai vituperata poesia civile. Quest’ultima, infatti, non può non riconoscersi anche come intimamente complice (pag. 80: «diavolo e sangue fiori di poco») rispetto a ciò che essa, pasolinianamente, sa, e talvolta denuncia. Le tocca, tuttavia, anche di elidere il male dalla rappresentazione, se vuole attingere a una qualche forma di salvezza, e di demandare, infine, ogni sorta di redenzione a un tu – forse lo stesso Pasolini – già venuto e, al tempo stesso, ancora di là da venire («scrivi senza la legge del libro / senza il male»).
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Allo stesso modo, non mi sembra un vero e proprio «ermetismo cristallino e limpido» – come scrive Nota – una poesia dove a certo metaforismo spiccatamente ermetico (pag. 41: «al quadrato dei prati / come nel doppio del fuoco»), si accompagna, immediatamente, la necessità di declinare con voce più aggiornata, se non già contemporanea e ultra-contemporanea, il mondo nelle cose del titolo del volume («con dieci dita intrecciava pianura / e alfabeti», dove la pianura si configura, in primo luogo, come datità del «puro paesaggio», p. 28). Ancora, e tornando invece alla lettura di Tomada: non è sempre «difficile trovare un filo, delle strutture logiche» nella scrittura di Agustoni; pur affastellando «tempi verbali infiniti imperfetti presenti», Agustoni non perde di vista lo scorrere lucido del pensiero che struttura l’opera. E se questo non accade in modo definitivo – prevale, talora prevale davvero il frammento! – certo non siamo posti di fronte soltanto alla concatenazione di «pensieri in successione prima di cadere in un sonno agitato». Il mondo nelle cose è ritmo sintattico del dolore, piuttosto: nel pensiero poetante di Agustoni tout se tient, anche se gli strappi sono certamente forti, talvolta laceranti. Lo sbrego, tuttavia, non registra la presenza di una frattura scomposta anche nella voce poetica; non ha luogo quella “funzione-Annino” – pur essendo continuo il dialogo tra le due autrici – che ho avuto modo, magari sbagliando, di ritrovare altrove, nella
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poesia contemporanea (ponendola così accanto a una sua sorta di complemento, la “funzione-Mesa”). Tutto si tiene, invece, e si sviluppa anche, trasformandosi, dirompendo, andando oltre, ad esempio, la stessa intuizione di Loredana Magazzeni, per la quale il titolo dell’opera, Il mondo nelle cose «richiama quel pensiero presocratico che contemplava nell’uno il tutto». A tal proposito, se non è opportuno guardare esclusivamente al passato, non conviene, peraltro, neanche ricorrere alle categorie del presente, a un mondo nelle cose che potrebbe talora evocare gli esperimenti del “nuovo realismo” à la Ferraris o anche del “realismo terminale” coniato da Guido Oldani e citato, nella sua lettura critica di Agustoni da Stefano Guglielmin. La scoperta del mondo nelle cose nella raccolta di Agustoni non accetta queste declinazioni intellettualistiche, dove il realismo è talora un approdo pseudo-dialettico (in realtà, poi, fortemente dettato dalla moda del momento), talora un approdo di poetica individuale che si transvaluta in Zeitgeist; non accetta, forse, neanche che il mondo nelle cose sia ammantato di una qualche forma di realismo, filosofico o spicciolo che sia. Non essendo scrittura intellettualistica, permane come scrittura dinamica: del mondo nelle cose di Agustoni si può forse dire soltanto che è in perenne mutazione e, perciò, seguirne passo passo il mutamento.
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«Quando c’è chi va nel buio in alto»: il primo verso della raccolta, come annota lo stesso Guglielmin, «spiazza perché l’andare, di solito, è orizzontale, o semmai, essendo nel buio, diretto agli inferi o nei sottoscala della ragione». Il dettato di Nadia Agustoni, infatti, non si limita né a uno sguardo orizzontale della realtà né a una descensio ad inferos in qualche modo inarrestabile e al tempo stesso cupamente consolatoria. Punta in alto: lì è il mondo nelle cose, o anche l’adunata dei vivi e dei morti, come osserva Guglielmin, ricordando, giustamente, Il distacco (Anterem, 1998) di Ida Travi. «Sostano lì come fossero / morti, vivida pena evolve muta tra loro sfila«» scriveva Travi ed ecco Agustoni dire quasi di rimando, sulla stessa nota: «i morti graffiano il vento sulle mani, portano cose / portano giorno prendere viso braccia» (p. 12). L’ascesa, in ogni caso, non si fa mai compiutamente epica, ma, grazie all’impeto iniziale, acquisisce almeno caratteri di volatilità e impermanenza, come del resto recita il titolo della prima prosa del volume: «scrivere col gesso, in un bianco che cancella» (p. 15). È soltanto da questo innalzamento, che è anche sapienziale – della particolare sapienza ironica di chi scrive sapendo di scrivere nell’aere e non aere perennius – Agustoni può scrivere, nello stesso testo: «farà la pazienza dei vecchi che guardano le cose e non dicono niente». E anche in questo: non si tratta soltanto di opporre la bontà dell’esperienza integralmente umana al peana
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postmoderno dell’inesperienza; si tratta anche di capire come la parola che cerca di afferrare il mondo nelle cose non possa sorgere senza confrontarsi anche con il suo presunto opposto, il silenzio. Infatti, soltanto chi «col silenzio cerca il mondo» (p. 20) può aderire con onestà alla prima dichiarazione di poetica dell’autrice, rilasciata in guisa di indicativo terza persona singolare, non tanto per volontà di generalizzazione, quanto per un minuto gioco linguistico che rientra pienamente nel ritmo sintattico del dolore dell’autrice: «chiama le cose senza appartenere alle cose» (p. 20). Tale attitudine si deve anche alle caratteristiche dell’oggetto della scrittura, che non si limita ad essere generalmente e genericamente prosastico, ma – nello stesso modo in cui la parola si deve sempre confrontare con il silenzio – si avvicina spesso al nulla: «e la sera abitata da un chiaro / che è nulla. All’alba vedeva / i muri e le porte come il mondo / ma non c’era il mondo / solo uscite, caselli d’autostrada / il cemento di un condominio a Brusaporto» (p. 49). Anche quando le cose, infine, si possono vedere, non se ne può registrare compiutamente la lingua, che entra dentro al soggetto, ma è sempre in qualche modo espunta dalla singola voce poetica: «vede le cose come sui prati l’acqua e dopo negli occhi tornano dentro, a parlare» (p. 68). Ne nasce, quindi, un forte sentimento di inappartenenza, che può essere smentito solo quando va oltre se stesso, nella morte esperita in vita, come si legge nella lacerante chiusa dello stesso testo: «ma la
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loro morte tornerà / graffiando sillabando / senza morte». Tale inappartenenza non può attingere alla forza demiurgica della voce poetica se non improvvisamente, rapsodicamente, come accade a pag. 27 («ripensava alla luce / e farla come un Dio poteva» e ancora «la parola “cascata” / era acqua e il segreto / di una forma: scendere…»), così come è un’accensione neolirica improvvisa, e ingiustificata, se non alla luce della moltitudine di punti apicali della voce di Agustoni1, quella che si può leggere poco più avanti (pag. 30: «scriveva barchette di carta, aeroplani, / inventava un mappamondo / pianeti senza divieto»). In questa voce in divenire, anche quando «il mondo nelle cose» giunge ad essere il titolo di una prosa (p. 53) che potrebbe forse avere carattere rivelatore rispetto alla poetica che sorregge l’intero volume, non si ha cristallizzazione, ma nuovo scarto, nuovo slancio. Si legge infatti, nella prima riga – «il mondo nelle cose fino alle parole» – una formula fisico-matematica della quale ci si aspetta poi maggiore specificazione nelle linee seguenti. Invece arriva, subitaneo, il cambio di prospettiva: «nei canali trovava detriti». Ovvero, il mondo nelle cose non può essere adeguatamente esplorato se non se ne attraversano anche i margini, che diventano poi «un interminabile margine ai margini di un giorno». Ringrazio Davide Castiglione per aver sottolineato l’analogia tra questo passaggio e il brano montaliano dedicato a Sbarbaro in Ossi di seppia: «Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versi colori /carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia / mobile d’un rigagno» [N.d.A.]. 1
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Ci sono due personaggi che camminano su questo interminabile margine, ognuno sul proprio filo e quasi non sapendo dell’altro, e rifacendo così dall’uno due distinti margini, destinati a non incontrarsi mai. Sono Venerdì e Crusoe, presi in prestito da uno dei primi romanzi della modernità letteraria europea; tuttavia, il loro rapporto con il testo di Defoe è labile, perso all’interno di un’arguta manipolazione. Come chiosa Tomada, Venerdì e Crusoe sono «due identitàsimbolo, apparentemente non riconducibili in modo specifico a qualcuno. Esse sono in continuità senza però compenetrarsi: Venerdì sembra raccogliere i cocci di una marginalità non sempre dichiarata ma ugualmente sofferta, di Crusoe invece viene esposta la sconfitta vista non tanto come resa, quanto come assunzione di consapevolezza, come solitudine propria che diventa solitudine di tutti». Non si tratta, però, di nomi-segnaposto, che potrebbero essere tranquillamente rimpiazzati da altre coppie – da Bouvard e Pécuchet, ad esempio. Se è vero che Crusoe non insegna alcunché a Venerdì, né lo sfrutta direttamente, pur sempre a loro appartiene – senza appartenere – l’isola deserta dove si va alla ricerca del mondo nelle cose. Permane una forte diseguaglianza tra i due, da registrarsi, in primo luogo, come differenza di potere: se entrambi rientrano nel «ritratto in prosa del soggetto odierno», come annota Guglielmin, non per questo cessano di cercare un
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posizionamento agli antipodi, di collocarsi «l’uno tra gli sfruttati e l’altro fra gli sfruttatori». Altrimenti, la ricerca, da parte di Agustoni, di una poesia come «canto degli oppressi» (p. 83) e «margine ai margini» subirebbe un contraddittorio svuotamento, addivenendo a un livellamento che non è tale nemmeno sul più esibito dei livelli aneddotici, quello geografico, o anche toponomastico. Come appunta Nota, «Crusoe è il viaggio speculare della perdita dei luoghi, della dimenticanza di un’origine», ma è con Venerdì – che «era nell’età di Odisseo» (p. 19) – che si sentono nominare mail spedite al capo di Buona Speranza (p. 21), oppure anche Lima e Terra del Fuoco (p. 23). Tale nominazione non si limita al riutilizzo di significanti esotici, ma è consustanziale a un rinnovamento della parola poetica, in omaggio alla figura ancipite, bizzarra ma non troppo di «un Dante / azteco e gabbiere / al supermarket» (p. 23). È altrettanto vero, però, che il contesto principale nel quale ricadono le esistenze di Venerdì e Crusoe, nel loro temibile avvicinamento alla “nuda vita” agambeniana non è tanto quello della migrazione, ma quello della fabbrica. Ecco, allora, che il Crusoe citato da Agustoni non è più il self made man, emblema del capitalismo d’impresa, che tutto può fare a partire dall’isola deserta nella quale si ritrova, bensì è chi, rispetto a Venerdì, vanta ancora una qualche superiorità: l’operaio italiano, ad esempio, che si trova
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nella stessa fabbrica, o in una fabbrica simile a quella dell’operaio immigrato, ma ancora può vantare qualche briciola di “potere”, transustanziato in un’ideologia suprematista di qualche forma. Un dato che non può passare inosservato se si esplora il lato testimoniale e autobiografico della poesia di Agustoni. Infatti, analogamente all’universo concentrazionario della Fabrica (Atelier, 2009) di Fabio Franzin, e su un tono che è esperienzialmente diverso, ancorché in qualche modo consonante, rispetto alle visioni di Dismissione di Fabio Orecchini (Sossella, 2014) o di Divisione (del lavoro, ergo) della gioia (Transeuropa, 2010) di Italo Testa, Agustoni descrive un paesaggio dominato dalle fabbriche del Nord italiano. Non ancora forzate a una spettrale improduttività a causa della crisi, esse sono già improduttive per il soggetto, che ne trae solamente effetti di alienazione («il silenzio è quel viola delle labbra / il disuso», p. 63). Si tratta, per soprammercato, di un’alienazione priva di sponde dialettiche, nella quale non si può aspirare a una qualche forma di Aufhebung, se, infine, è sempre «conclusa con le pietre l’assenza» (p. 63). In questo scenario, conta soltanto il percorso, una distanza lungo la quale possono accadere rivolgimenti anche sorprendenti. Viene a mancare, ad esempio, quel dialogo tra vivi e morti precedentemente posto alla base di ogni scrittura, come succede, nel resto,
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nella poesia di Ida Travi o in questi appunti di Pino Tripodi, recentemente pubblicati su Nazione Indiana: «Scrivere si può, solo, se non si ha nulla da dire. Ora. Scrivere si può, solo, nella lingua dei morti. Scrivere si può, solo, se si è perfettamente consapevoli di essere morti.» Se è pur vero, e confermato sino alla fine del libro, che «solo i gesti con ferocia / di garze scrivono i vivi» (p. 73), sui morti, invece, ci si può anche «ricredere» (questo il verbo usato a p. 63, in uno dei testi che si conferma posto a cardine della raccolta). Vi è la sconfitta, inoltre, che non colpisce soltanto l’oppresso Venerdì, ma bersaglia anche Crusoe, che ne diventa, in seguito, la più chiara epitome. Non è che il crollo diventi falsamente universale, riunendo così oppressi e oppressori, ma si va acclarando, almeno, il fatto che, sia per Crusoe che per Venerdì, della sconfitta si può soltanto dire, anzi: essa può essere sempre presente perché è sempre nominata, si tratti indifferentemente di “migrazione” o di “fabbrica”. Il silenzio del disuso, allora, può servire anche come strategia per trasgredire alla regola ferrea della nominazione della sconfitta, divenuta egemone, nel frattempo, tanto sul piano politico quanto su quello economico (dove si assiste, ad esempio, a un massiccio fenomeno di feticizzazione della cosidetta “crisi”). Da ultimo, torna a riaffermarsi un bisogno di realtà: non tanto in contrapposizione alle tensioni de-
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realizzanti del postmoderno o dell’ipermoderno, quanto sul modello dell’inseguimento appassionato della realtà celebrato da quel Czeslaw Milosz che Agustoni cita in esergo ai “frammenti di Crusoe” (p. 71). Il riferimento più chiaro, nella poesia di Agustoni, non è dunque al Pasolini evocato direttamente in “Corpo Nostro PPP” o ai suoi contemporanei Franzin, Orecchini, Testa, ma al Milosz della Testimonianza della Poesia. Uscite per Adelphi nello stesso anno della raccolta, le Sei lezioni sulla vulnerabilità del poeta polacco consuonano mirabilmente con il dettato poetico di Agustoni. Si provi a seguire la buona nota di lettura del testo di Milosz offerta da Gianni Salis: [S]e la poesia si manifesta, in ogni tempo, come «inseguimento appassionato del Reale» – e questo accade anche, e soprattutto, di fronte alle tragedie più immani – significa che «l’atto stesso di dare un nome alle cose presuppone la fede nella loro esistenza, e dunque in un mondo vero, checché ne dica Nietzsche. Naturalmente non mancano i poeti per i quali le parole si riferiscono ad altre parole, ma il loro fallimento artistico dimostra che essi contravvengono a una sorta di regola immutabile della poesia» (Milosz 2013, p. 84).
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Inoltre, se la poesia ha il compito, l’innata vocazione, di inseguire il Reale, risulta più che mai decisiva la scelta del linguaggio da utilizzare per questo «inseguimento». Il poeta, ogni volta che scrive, sostiene una lotta tra due posizioni contrapposte, che Miłosz schematicamente sintetizza nell’eterna disputa tra classicismo e realismo: «Si tratta di uno scontro tra due tendenze che è indipendente dalla moda letteraria di un determinato periodo e dai mutevoli significati di volta in volta assunti dai termini classicismo e realismo. […] Sostengo che ogni poeta, nel momento in cui scrive, compie una scelta tra le norme del linguaggio poetico e la fedeltà al reale. Se cancella una parola e la sostituisce con un’altra perché così il verso nel suo insieme acquista compattezza, segue la pratica dei classici. Se invece cancella una parola perché non restituisce adeguatamente un particolare osservato, allora propende per il realismo. Le due operazioni, tuttavia, non possono essere nettamente separate, sono interconnesse. Ma c’è di più. Nel corso di quest’incessante conflitto tra i due princìpi, il poeta scopre un segreto: che si può essere fedeli alle cose solo se sono disposte in ordine gerarchico» (Milosz 2013, pp. 97, 99-100).
Qui si tocca davvero con mano il punto di rottura di Nadia Agustoni con Milosz: a differenza del premio 20
Nobel polacco, per l’autrice italiana si può essere fedeli alle cose solo se si guarda anche al Mondo nelle cose e così facendo si comprende come quest’ultimo non sia più gerarchico, così come non lo può essere – né gerarchica, né ordinata – la lingua che lo agita, per poter rimanere coerente con se stessa, cioè viva (e ultracontemporanea). Non c’è, in altre parole, la canonica tensione tra classicismo e realismo, nella poesia di Agustoni, ma vi si può trovare comunque molto di nuovo. In questa novità – paradosso dei paradossi, e sua legittima garanzia – manca forse la sintesi dialettica, eppure si può rintracciare, a ogni passo, quel “ritmo sintattico del dolore” che si fa largo come tratto distintivo della voce poetica – perfettamente matura – dell’autrice.
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