L’antiepica resistenziale di nanni balestrini nel tempo della povertà

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Titolo: L’antiepica resistenziale di Nanni Balestrini nel tempo della povertà Autore: Stefano Guglielmin Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2014 Vol.: 19

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.



L’antiepica resistenziale di Nanni Balestrini nel tempo della povertà di Stefano Guglielmin

In realtĂ , la poesia 2014



L’antiepica resistenziale di Nanni Balestrini nel tempo della povertà

Se nella tarda modernità il poema eroico non è più possibile (anche perché – come scrive Nanni Balestrini nella Signorina Richmond – il popolo, diventato pubblico anonimo e occasionale, non ha fatto niente di eroico per ispirare il poeta), probabilmente l’intera Opera del novissimo va considerata il canto più vicino al vero che la nostra età antiepica possa permettersi. Se l’epica giustifica il presente dei vincitori (Omero per la grecità achea, Chrétien de Troyes per la cristianità medioevale), l’antiepica di Balestrini si fa voce degli sconfitti ma

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soprattutto

sfonda

e

svela

le

crepe

del

neocapitalismo, mettendo in crisi nei suoi statuti epistemologici il brusio massmediatico e autoritario di cui è fatto il secondo novecento italiano. Ottiene questo togliendo il poeta dal gioco, annullando il suo prestigio autoriale così come il Romanticismo l’aveva invece

eroicamente

impostato

(il

finito

sfida

l’indefinito a costo di morirci), per disseminare la sua identità in quel chiacchiericcio e in ogni altro segno lasciato nel tempo della povertà in cui viviamo. Novello Orfeo sbranato dall’omologazione e reificazione contemporanee, Balestrini, sin dal Sasso appeso (1961), prende infatti le sembianze multiple dell’uomo squalificato dalla stessa lingua che lo abita, alienato e imbrigliato nell’intrico di una parola incapace di progettualità: “fa’ quel che ti pare: // non c’è pericolo che non arriviamo […] tanto non si viaggia”, recita la poesia d’apertura, spiegando, qualche pagina dopo, che il linguaggio poetico e quello della comunicazione ordinaria coincidono (“Il testo è redatto in un linguaggio corrente, con ortografia corretta”), in quanto non c’è più scarto,

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nella

società

reificata,

fra

verità

e

finzione.

L’inautentico, sembra dirci il poeta, coincide con la totalità dell’essere e, quest’ultimo, agisce senza resto nell’intrecciarsi di stringhe sintattiche equivalenti, sino ad annullare, nella superficie del racconto autobiografico, persino la forza destabilizzante del morire: “del concetto di morte non è / necessario alcun chiarimento”. E ciò, appunto, non perché sia ovvio, ma per impotenza: ridotto a scorza e merce di scambio, il linguaggio non può più interrogare quell’abisso che è lo scomparire, l’esilio definitivo; può soltanto mostrarsi in quanto sua allegoria depotenziata, superficie caduca, dove ogni frase vale per ogni altra se non fosse per le leggere scintille scaturite dall’attrito che questi sintagmi producono sul semianestetizzato spettatore. Dal Sasso appeso a Non capiterà mai più (1972), Balestrini organizza un magazzino di lacerti linguistici recuperati nello spazio inabitabile della contemporaneità e riorganizzati in strutture

lacunose,

in

cui

il

puzzle

non

è

ricomponibile: “con venature rosse e pun / lungo le venature a porporino al nov / la sezione punteggiata

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è coperta di / colore cremisi bronzato del rovescio […]” (I funerali di Togliatti). Alla morte ontologica, insomma, e all’angoscia che il morire produce nella grande poesia della tradizione, è subentrato il lego delle parole morte, che Balestrini – in tutta la sua Opera – ricompone, come dovesse ricostruire linguisticamente il cadavere del dottor Frankestein, ma senza speranza di perfezione, un cadavere-corpo-cubico

fatto

di

mattoncini

interscambiabili, con l’unica finestra affacciata sulle macerie della storia, disseminate sin da Corpi in moto e corpi in equilibri (1958-1963), passando per gli anni di piombo e raggiungendo l’acme della plastica yuppie degli anni ottanta, “gli anni di merda”, “con tanti soldi cocaina fotomodelle per chi ci sta / eroina o muccioli per chi non ci sta // e tv spazzatura per rincoglionirci tutti quanti”. Nessuno si senta assolto, tuttavia, lascia intendere il poeta che di quegli anni fu testimone diretto, perseguitato dalla legge per le sue frequentazioni in Autonomia Operaia, costretto all’esilio dopo il 7 aprile 1979, proprio alla fine delle speranza di cambiamento: muore Demetrio Stratos,

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muore il movimento del Settantasette, muore l’operaismo e l’immobilità del potere ripianta il suo vessillo nero, dopo aver lascito alla nuova generazione i suoi dieci anni per omologarsi. Blackout (1980) è appunto il racconto di questa disfatta, “l’ode funebre al movimento”, come ebbe a definire il poemetto l’autore, resa emblematicamente nell’attrito fra il concerto milanese in memoria di Stratos, “un azzurro fiume di jeans”, e il contesto socio-economico da “incubo” in cui l’Italia si muoveva (e si muove), con gli operai senza più progettualità di classe (“per i nuovi operai la fabbrica di Agnelli dicono a me serve per farci soldi e tirare avanti”) e i giovani che “escono dalla fabbrica e entrano nello spettacolo”. Eppure alla fine degli anni sessanta, la rivoluzione sembrava a un palmo, al punto che la poesia venne vissuta con grande senso di colpa, mestiere borghese di cui vergognarsi. A meno di non togliere – come fa Balestrini, appunto – la carne stessa del poeta, la sua voce,

quale

estremo

e

paradossale

atto

di

responsabilità di fronte alla storia e ai derelitti. Togliendosi dal gioco autoriale, Balestrini può

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continuare indisturbato a mettere sulla carta le tracce del presente, le lascia depositare, le ricombina soltanto sino al punto in cui restano frammenti, ognuno dei quali capace di parlare per sé. Non più l’autore che ricompone il linguaggio in un disegno unitario,

ideologicamente

e/o

eticamente

riconoscibile, ma il poeta che prende la parola per lasciarla subito cadere in quel campo minato che è la pagina bianca, nella convinzione che non sia più possibile un discorso compiuto sul senso della storia, nemmeno quello rivoluzionario. Questo tuttavia non significa che la storia non mostri alcuni sintomi patologici riconoscibili e nominabili, degli emblemi morbosi che attraversano la modernità (la fede liberale verso un progresso inarrestabile, la radice violenta

del

potere

costituito,

l’alienazione)

rendendola malata. Balestrini rifiuta tuttavia anche la semplificazione meccanicistica, secondo la quale la struttura capitalistica sia la causa delle contraddizioni del reale: la crisi delle ideologie – che si traduce anche, in tutti gli scrittori di sinistra post vittoriniani, nel rapporto conflittuale prima con il PCI e ora con il

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PD – è chiara sin dal Sasso appeso e nel suo splendido romanzo Vogliamo tutto. Ciò non gli impedisce di fondare Potere Operaio oltre che essere amico di Feltrinelli, in quegli anni in giro per il mondo a tessere

strategie

di

lotta

rivoluzionaria

e

collaborazioni terzomondiste. Leggendo i volumi de Le avventure della signorina Richmond (1974 – 1999), la disillusione postideologica appare evidente: il mirino è puntato su fatti veri, circoscritti (per esempio l’assalto alla Scala nel 1975, quando “Milano sta conoscendo / l’insorgenza di una forma di jacquerie sterile” e la borghesia italiana flirta col “potere di turno”) oppure su posizioni partitiche reazionarie (il razzismo leghista che auspica una “pulizia etnica per la Padania libera”), messe in opera riportando a collage – o, spesso, a decollage –

frasi fatte,

situazioni, punti di vista, senza mai sollevarsi dall’orizzonte del contingente per riunificare il materiale in un senso definitivo, che abbracci il particolare restituendogli un senso ultimo. Balestrini si limita a fornirci del materiale, a volte luminoso a volte opaco, salvifico e dannato, facendo quei nomi

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(non per forza colpevoli, ma certo in qualche misura responsabili di specifici momenti della storia italiana; si veda in particolare “La signorina Richmond sorprende in un cespuglio il neoaustero Vincenzo Monti col maresciallo Petruccioli”), quei nomi che Pasolini non osò fare, e che egli mette in gioco chiedendoci di uscire dal letargo: ci spiega come si agisce e agisce con noi quando lo seguiamo, o ci ammonisce, ci schernisce come ne “Il pubblico della poesia” e nel “Piccolo appello al pubblico della cultura”, restituendoci la complessità del reale; deleuziano, dunque, più che marxista, taoista più che anarco-insurrezionalista: Caosmogonia (2010) lo mostra indubitabilmente, con quei suoi passaggi-citazioni (“ciascuno di noi è il centro del mondo senza essere un io / il mondo non è diventa si muove cambia”) in cui il fondamento ultimo è tolto, e il reale non ha struttura, ma si dà in un differenziarsi continuo, pur all’interno – l’abbiamo detto – della malattia del tempo contemporaneo, le cui tracce – salvifiche e dannate – sono gli spazi del labirinto plurimo, del “reticolato di possibilità infinite”, come recita l’ultima

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poesia di Antologica. Poesie 1958-2010 (Mondadori 2013), al quale non possiamo sottrarci. Un labirintoreticolato, un campo infinito concentrazionario, del quale Balestrini ha fatto il canto antiepico in questi ultimi cinquant’anni, con tenace resistenza, non per esserne l'aedo funereo, ma per rigenerare la lingua contro il conformismo, come scrive in Linguaggio e opposizione, uno dei suoi rari scritti critici già presente nel volume dei Novissimi, nel 1961, e ora messo in calce all'antologia mondadoriana.

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