Titolo: Stelle nelle radici, radici in grembo. Supernova di Fabiano Alborghetti Autore: Lorenzo Mari Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2013 Vol.: 11
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Stelle nelle radici, radici in grembo. Supernova di Fabiano Alborghetti di Lorenzo Mari
In realtĂ , la poesia 2013
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Malgrado la costruzione architetturale, la ripetizione di alcuni campi semantici caratterizzanti (su tutti: “luce/ombra” e “stasi/movimento”) e la presenza di un tropo di riferimento stabile (evocato già a partire dal titolo del libro e spiegato da un’assai esplicita Nota finale), i dodici testi che compongono la breve ma intensa plaquette di Fabiano Alborghetti Supernova (L’Arcolaio, 2011) non hanno il passo né la forza dell’allegoria. E di questo, paradossalmente – nel fiorire di allegorie che percorrono la prosa e la poesia contemporanea in lingua italiana – c’è di che compiacersene, anzi: c’è di che goderne, nella lettura. E dire che a una prima lettura la “supernova” di Alborghetti sembra avere tutte le carte in regola per essere classificata proprio nel repertorio retorico che è caratteristico del campo allegorico. Come ricorda didatticamente lo stesso autore nella Nota, «[l]’implosione di una supernova è caratterizzata da un’emissione luminosa tale che può eguagliare per un periodo di tempo 7
limitato la luminosità della galassia che la ospita». Ed è innegabile che i testi di Supernova siano attraversati, come si è detto, da una serie di rielaborazioni retorico-formali che – senza esaurirsi in un quaderno di varianti, in uno sterile esercizio di stile – si appigliano a tutto ciò che può essere evocato, implicato e/o significato, in poesia, da un evento naturale come la fase terminale della vita di una stella. Tuttavia, Alborghetti un’allegoria vera e propria non la costruisce, limitandosi, piuttosto, a designare quello che può essere un tropo di riferimento molto utile nella definizione dello Zeitgeist dell’ultra-contemporaneità, ma che non basta per farne anche procedimento allegorico. In particolare, l’alta ricorrenza nei testi di un’evidente funzione gnomica manifesta la predisposizione dell’autore ad argomentare, più che altro, che mala tempora currunt e ad apporre rimedi – talvolta lievemente sentenziosi, ma mai smaccatamente moralisti – a quello che viene a costituirsi come “spirito dei tempi”. Vi è, in altre parole, un’interposizione etica dell’autore che, infine, contraddice alcuni degli elementi principali della costruzione allegorica inizialmente ipotizzata, manipolandola secondo il proprio sentire, che è, prima di tutto, etico-civile. E questa nota non è a demerito dell’autore, anzi: può accrescere, e dal mio punto di vista certamente accresce, la portata del libro. In ogni caso, visto che si è posti di fronte a un’allegoria che si può anche, inizialmente, ipotizzare, ma che è in ultima istanza, parzialmente confutabile, o smussabile, mi sembra utile partire, innanzitutto, dal principio.
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Non è difficile marcare analogie e differenze, per le poesie di Supernova, con l’esergo, altamente rivelativo, che Alborghetti sceglie per aprire la plaquette. I versi tratti dal Quaderno gotico (1947) di Mario Luzi, infatti, non provengono da una scelta accidentale, o – quel che è peggio – da una scelta ideologica di campo, ma vanno a innervare profondamente la struttura dei testi scritti dell’autore. È così che nella loro costruzione ‘para-allegorica’, i versi di Alborghetti escludono quanto viene escluso dallo stesso Luzi: Né memoria, né immagine, né sogno. Alborghetti ne fa una scelta programmatica, un modo per avvicinare la pluralità della realtà da un punto di vista siderale, o “sideralmente altro” che dir si voglia. Inoltre, in Supernova ricorre anche, e in modo abbondante, l’ormai desueta figura dell’interlocutrice lirica femminile, che il poeta fiorentino chiama in causa già nei versi e neppure eri in lei, / eri caduta fuori dell’esistenza, allo scopo di inaugurare, nel Quaderno gotico, un proficuo dialogo con il coevo saggio dell’autore, Sulla poesia di Guido Cavalcanti. Si tratta dunque di un esergo già pregno di indicazioni che se non sono di poetica (la poesia di Alborghetti nelle raccolte precedenti è plurale e talvolta molto diversa da quella qui proposta) sono certamente programmatiche per quanto riguarda la plaquette in oggetto.
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Il primo testo della plaquette di Alborghetti – mancante di titolo, come tutti gli altri componimenti della raccolta – è identificato dal primo verso: “Il panico esplode, irradia”. Si tratta di un’apertura raggelante e insieme estremamente dinamica, come si conviene a una fase di supernova: Il panico esplode, irradia / ti ferma... E il “tu” che subisce questa ondata di timor panico diventa presto, con un degradamento ironico tipicamente contemporaneo, un cervo, immobilizzato davanti ai fari di un’automobile: ma il cervo accecato non vede / aspetta qualcosa che non accade. / È cieco, interrotto // resiste alla fuga, o aspetta il momento migliore. Già nel primo testo, dunque, Alborghetti cerca di descrivere pienamente lo Zeitgeist che ha in mente e che forse arriva a perseguitarlo, ripresentandosi ossessivamente in forma di supernova: traslandola fuor di contesto metaforico (e, dunque, non-allegorico), l’immagine scelta si riferisce con ogni probabilità alla condizione esistenziale e socio-politica di marca “should I stay or should I go” che è – si può intuire - propria sia della generazione di Alborghetti, sia di quelle successive. “Should I stay or should I go? / If you say that you are mine, / I’ll be here ‘til the end of time / So you got to let me know / Should I stay or should I go?”... Sì, è proprio così che si pone nei confronti del territorio geografico e politico della madrepatria, ma anche di qualunque altra identificazione sociale (o letteraria), l’autore, che già da qualche anno si è trasferito in Svizzera. In altre parole, l’emigrazione non è per Alborghetti, un punto di vantaggio dal quale tornare a scrutare il panorama che ci si 10
lascia alle spalle; piuttosto, vi è ancora una possibilità di empatia profonda, nell’implosione della gigantesca supernova-Italia, tra chi se ne va e chi resta, trovandosi, pericolosamente, nell’impasse del cervo accecato dai fari dell’automobile. E Alborghetti entra, con tutta la luminosità che si confà alla supernova, in questo estremo momento di pietas.
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Voltando la pagina, si inizia dapprima a verificare come i testi di Supernova siano calibrati tutti secondo una stessa struttura, che si ripete in modo metodico: una serie (da una a cinque) di terzine di versi polimetrici, seguite da un verso sciolto e isolato che funge da chiusa. Questa costruzione testuale va a rafforzare la funzione gnomica di alcuni versi finali, creando così una certa ridondanza stilistica, che è particolarmente evidente in un ultimo verso (dalla successiva poesia “Sterpaglia spinosa, pozze, passi”) che presenta, per di più, un’enfatica ripetizione interna: È questo, questo il mestiere dell’abbaglio. (Si tratta, invero, di una ripetizione a più livelli, considerando l’abbaglio metaforico che domina il primo testo della plaquette). E già nel secondo testo della raccolta (“Tutto ciò che il bene era”) la ridondanza della funzione gnomica è volta in struttura pervasiva. Si tratta di un passaggio totalmente 11
positivo, qui, in quanto prelude alla costruzione di quel discorso etico di taglio filosofico, che, come si diceva, è molto rilevante per la comprensione globale della plaquette di Alborghetti. La seconda poesia della raccolta, infatti, é costruita sulla descrizione della “scomparsa del bene” che, secondo l’autore, sarebbe un tratto distintivo della contemporaneità. Tale scomparsa andrebbe a favore di un dubbio totale, nichilista, che ha la capacità di elidere ogni possibile forma di riconoscimento e auto-riconoscimento: Riconoscerti guardando controluce: / il frammento delle elitre, l’eccellenza del normale / quando il volo, tempo addietro. Ora no. Detto questo, si giunge a una chiusa formidabile, nel verso sciolto: Ora è solo collezione o capire dalla forma il potenziale. Tra le due opzioni, l’autore non sceglie di certo la “collezione”, che consterebbe di quelle “domande irrisolte” o di quelle “conferme troppo facili”, che potrebbero essere individuabili e contenibili come insetti nell’ambra – secondo la metafora adottata nel testo dal poeta – risultando, così, estremamente depotenziate. Alborghetti sembra invece preferire il movimento che dalla forma ritorna alla potenza, un movimento che si svolge quasi in analogia con la vita della supernova. Su questa parziale sovrapposizione retorica tornerò più avanti, perché è su questo quasi che si gioca molto della raccolta di Alborghetti, sia per quanto riguarda la costruzione dell’allegoria (poi volta in “para-allegoria”), che per questioni di stile (per una poesia che è così sospesa tra un ritorno ad una scansione testuale metricamente identificabile e un movimento che libera altra energia, non racchiudibile entro precise e collaudate forme). Ma, appunto, questo più avanti. 12
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Nelle poesie successive della plaquette, che non esiterei a definire ‘composite’, vi è un intreccio di livelli diversi, tra i quali spiccano: a) il recupero della situazione poetica che aveva caratterizzato uno dei libri ad oggi più riusciti di Alborghetti, Registro dei fragili (Edizioni Casagrande, 2009) e b) un’attenzione per le cose che viene a proseguire e, simultaneamente, a rompere con la tradizione della linea lombarda, già dominatrice nella poesia lirica (e post-lirica) del Novecento. Per quanto riguarda il recupero della situazione poetica del Registro dei fragili, il libro precedente di Alborghetti viene quasi del tutto riassunto e offerto ex novo al lettore, in un potente cammeo che compare alla fine della poesia “La chiamata alla fatica”: É il dovere, mi ripeti / la famiglia nata unita. I bottoni del cappotto // chiusi bene perché siano tutti sani. In questi versi è ingemmata – perché di gemma si tratta – tutta la contro-cronaca poetica (anzi, il contro-canto: il sottotitolo di Registro dei fragili era appunto 43 canti) del precedente libro di Alborghetti. Supernova non offre, però, soltanto una sintesi di Registro dei fragili – scelta che si potrebbe risolvere in un’ardita autocitazione auto-referenziale – ma offre nuovi spunti per la narrazione poetica di una vita quotidiana che non si attesta né sulla notazione ironica e degradata del minimalismo, né si fa epica del quotidiano. Ad unire le varie poesie è, in modo quasi univoco ed esclusivo, la storia di una malattia che non si fa, però, né anamnesi né allucinazione ipocondriaca. Infatti, pur ricorrendo a questo fil rouge, Alborghetti non insiste sulle 13
modalità e le potenzialità metaforiche della malattia: la narrazione, scarnificata, è demandata esclusivasmente ad alcuni campi semantici forti, cristallizzati in sostantivi polisemici quali sonno, farmaco, cura, ictus. Almeno due di questi nomi hanno una potenzialità concettuale non immediatamente clinica e più aperta: farmaco è anche “veleno”, ictus è anche “colpo”. Alborghetti, tuttavia, non sembra fare uso di questa potenzialità, mancando, in parte, alla sua stessa dichiarazione di poetica: Ora è solo collezione o capire dalla forma il potenziale. Nei testi in cui compaiono farmaco e ictus, per contro, il significato referenziale prevale decisamente sulla capacità poli-semantica: si vedano ad esempio i versi di “Il sonno pieno dentro il farmaco”: il farmaco l’hai preso come fosse una preghiera, e di “Il tuo tempo è sempre dopo, quando avanza”: L’ictus ti ha fermata a un certo punto: poi gli esami, le giornate / poi le attese… Eppure, queste scelte di nomi-mattoni, solidi e corposi come nel bel verso di Massimo Gezzi (“Io con la poesia vorrei fare mattoni”, dal libro L’attimo dopo del 2009), rendono la storia narrata dalle poesie centrali della plaquette di Alborghetti una narrazione che si sviluppa per passi pesanti, che si imprimono nella mente – passi che senza essere né epici né minimali, costruiscono una storia che è individuale e al tempo stesso generale. Un piccolo romanzo poetico, senza personaggi né trama. Un’altra direttiva importante di Supernova è, come si è detto, l’attenzione alle cose, che Alborghetti sviluppa a partire dai versi programmatici di “A un certo punto si deve imparare”: A un certo punto si deve imparare / tutto daccapo: il rito della vestizione / l’economia dei movimenti, l’attenzione // data alle cose che mai prima / hanno teso un agguato. 14
L’agguato delle cose verso le quali si presta un’attenzione che, evidentemente, non è sufficiente – di qui, l’implicita tensione etica della poesia a fare di più, per così dire, ovvero a portare l’attenzione davvero all’altezza delle cose – ottiene di collocare la poesia di Alborghetti su una posizione diversa sia dalla tradizione della linea lombarda novecentesca (alla quale pure il post-lirico Alborghetti deve molto), sia dai più recenti sviluppi sperimentali, che vanno, secondo Sonia Caporossi1 e altri critici, sotto il nome di Nuovo Oggettivismo (individuabile, ad esempio, nei testi di autori più giovani di Alborghetti come Daniele Bellomi e Manuel Micaletto). Gli agguati sono molteplici: si vedano, a titolo di esempio, i fili intricati da sbrogliare e i già citati bottoni del cappotto della poesia “La chiamata alla fatica”, oppure la sterpaglia spinosa di “Sterpaglia spinosa, pozze, passi”. I bottoni del cappotto // chiusi bene perché tutti siano sani forniscono un’ulteriore indicazione di lettura, più raffinata: riunendo in una sola coppia di versi la prosecuzione del discorso narrativo di Registro dei fragili e l’attenzione per le cose in agguato di Supernova, danno l’impressione che in Supernova tout se tient, che ci sia veramente di che supporre la costruzione di un’allegoria. L’articolazione di un discorso unitario appare però soltanto in questo caso. Altri passaggi, come la disidentificazione e il movimento interrotto di fuga di “Il Cfr. a questo proposito il bell’intervento di Caporossi nel blog da lei gestito, Critica Impura, intitolato “I gruppi poetici e gli insiemi di Cantor: una riflessione sull’indeterminatezza poetica di oggi” (18 marzo 2013). 1
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panico esplode, irradia” o l’anti-nichilismo di “Tutto ciò che il bene era”, restano fondamentalmente irrelati, benché uniti dalla percezione di un medesimo Zeitgeist. Non c’è allegoria, dunque, ma ciò, paradossalmente, permette al discorso autoriale di non collassare del tutto su se stesso – come accadrebbe, paradossalmente, in una vera e propria allegoria di una “supernova”. È il gesto etico a rimanere.
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Nell’ultimissimo verso della plaquette giunge, a parer mio, quella che può essere l’estrema conferma della mia ipotesi di lettura. La stella non è collassata su se stessa, morendo e togliendo ogni possibilità di luce: il movimento che rimane nascosto in tutta la plaquette, ma che la struttura profondamente, si rivela qui, piuttosto, come un ciclo di morte e rinascita che, benché connesso, metaforicamente, al ciclo della materia celeste che non si crea né si distrugge, non è immediatamente collegabile al tropo della “supernova”. Dall’osservazione fisica della materia siderale si passa così a una forma quasi panteistica di riflessione, che non si risolve nell’ammirazione religiosa del creato, ma da questa attenzione alle cose – a tutte le cose, siano esse una condizione generazionale di disidentificazione, piuttosto che il contro-canto alle cronache 16
giornalistiche e quotidiane, etc. – trae la forza – la potenzialità – di un gesto etico. Tutto questo, insomma, trova una splendida formulazione, nella chiusura: Ogni radice è racchiusa da un grembo.
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