Titolo: Nanicomio. Commento de Il nano di Velazquez di Rossano Onano. Autore: Luca Rizzatello Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2013 Vol.: 4
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Nanicomio. Commento de Il nano di Velazquez di Rossano Onano. di Luca Rizzatello
In realtĂ , la poesia 2013
Macrocosmi e microcosmi
Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Chi è l’autore di questa fortunata affermazione?1 La scuola cattedrale di Chartres – nella quale Bernardo fu insegnante di filosofia dal 1114 al 1124 – produsse non poche idee nuove, e non poche scocciature per il vicinato2. La speculazione aveva origine nella necessità di trovare un modo per spiegare il mondo e le sue leggi non certo sgomberando il campo da Dio, ma nemmeno 1
A) Alessandro Magno; C) Cristoforo Colombo
B) Bernardo di Chartres D) Dante Alighieri
In una lettera inviata da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Chiaravalle si legge quanto segue: «Descrivendo la creazione del primo uomo in modo filosofico, ma sarebbe meglio dire in modo fisico, Guglielmo di Conches afferma che il suo corpo non fu fatto da Dio, ma dalla natura, e che l’anima gli fu data da Dio, ma in seguito sostiene che il suo corpo fu fatto da spiriti, che chiama demoni, e dalle stelle. Nel primo caso sembra seguire il parere di taluni filosofi stolti che dicono che nulla vi è tranne i corpi e le cose corporee, che Dio nel mondo non è altro che il concorso degli elementi e la temperatura della natura, e che ciò stesso è l’anima nel corpo; nell’altro caso è manifestamente un manicheo, dichiarando che l’anima dell’uomo è creata dal Dio buono, il corpo invece dal principe delle tenebre». 2
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usandolo alla stregua di un asso pigliatutto. A questo punto Bernardo introduce il concetto di forme native (nella fattispecie i quattro elementi: terra, aria, fuoco, acqua), mutuandolo dallo schema del Timeo platonico, il quale in estrema sintesi afferma che c’è il mondo delle idee e c’è il mondo delle cose; e poi c’è il Demiurgo, che plasma la realtà, pur non avendo la capacità di crearla. In altri termini si tratta di un gioco tutto interno alla natura, regolato da leggi sottoponibili a un’indagine razionale: dio sboccia le biglie, ma poi sta a loro prendersi la briga di autodeterminarsi. E l’uomo? Le vicende rappresentate nel corso de Il nano di Velázquez3 prendono vita entro quinte dalla fisionomia mutevole, che allontanano dal sospetto che possa trattarsi di una concept opera. Tuttavia vale la pena di stilare un inventario degli scenari secondo il criterio delle ricorrenze più significative. Il sipario si apre su un campo di cicoria, nel quale un uomo coglie quella che sarà la sua cena solitaria per la sera a venire; nel testo immediatamente seguente, il contesto cambia, ma non più di tanto: un altro uomo che si muove in solitudine, ma stavolta tra le fronde di un parco pubblico. In un brano collocato a breve distanza, seguendo un trend antievoluzionista, a spostarsi tra i rami in questo caso c’è un primate – rispondente al nome di Cita, la scimmia di cinematografica memoria – che per sua natura si trova a proprio agio tra le piante, molto più dei due cugini sapiens sapiens poc’anzi citati. E’ necessario fare un distinguo tra la vegetazione generica 3
Il nano di Velasquez d’ora innanzi sarà sostituito dall’acronimo INDV
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e l’albero considerato nella sua singolarità; in almeno due episodi la presenza dell’albero non è più legata a una mera necessità scenografica. Si legga P40: Hai visto, all’ora del cecchino, a mezzogiorno quando sono le foglie dell’albero scure di luce come la notte […] È l’albero a conquistare il centro della scena, svolgendo la funzione di catalizzatore della luminosità ambientale e, quindi, quella di riferimento temporale. Questo processo è amplificato in P17: Ed era convenuta la gente colorata a cerchi dilatati sotto l’albero di noce, a prima attenta seduta sotto l’ombra, l’ultima dispersa al moto rotante del sole […] ed è proprio dal tronco di questo albero che nascerà una larva, che a sua volta darà alla luce i cuccioli di uomo. Le interpretazioni attribuibili a questa duplice generazione potrebbero di per sé fornire materiale per un saggio, ma in questa sede ci si limiterà a qualche annotazione. La figura dell’albero della vita (in alcuni casi sovrapposta a quella dell’albero della conoscenza), ricorre in molte religioni, ricoprendo di fatto la totalità dei sistemi culturali; si notino inoltre i tre stadi evolutivi esposti nel corso del testo: albero, larva, uomo. La lattazione improvvisa delle donne presenti consente ai neonati di raggiungere, in un tempo record, uno sviluppo fisico tale da consentire loro di avere rapporti sessuali con le rispettive madri putative. Si tenga a mente questo cortocircuito. 9
P43 esordisce con una presentazione della materia in chiave cosmogonica, a cui segue, alla metà esatta del testo, l’entrata in scena della specie umana, che provvista d’amore e di machete, parassita l’ambiente, e lo stravolge. Sembra di incappare in una contraddizione intertestuale, quando continuando a leggere si scopre che […] in breve la possessione divenne una contrada fiorita di agevole passeggiatura, erano scomparsi ghiri e gnomi ambigui ed altri parassiti, accorreva la gente pallida della domenica […] Si riprenda il cortocircuito lasciato in stand-by: considerata in questa luce, la larva di P14, sopravvissuta alla bonifica, si posiziona ad un livello differente nella scala evolutiva, assumendo una connotazione provvidenziale. La specie umana, incapace di riprodursi, affida questo incarico ad una specie ritenuta subumana; questa incapacità di rapportarsi con l’altro si estende, e si radicalizza nella negazione di qualsivoglia tipo di socialità: […] per questi motivi ci offende la fama di caute formiche, coloniali, nere. Natura facit saltus: d’ora in avanti i rapporti tra gli individui – è ininfluente che appartengano alla stessa specie – risentiranno di questa frattura; ma soprattutto, è proprio a partire dalla colonizzazione a colpi d’amore e machete che scompariranno i riferimenti agli alberi e, più in generale, al ruolo funzionale della vegetazione. Infatti, fin da subito come scenari di riferimento 10
compaiono vedute legate al campo semantico della desertificazione: P49 Va nel cuscino d’aria fra suolo e precipizio verso l’orizzonte deserto delle iguane […] P61 […] la vegetazione è assente […] P64 […] quando il deserto chiama. P65 […] sopra la terra arida Anche il vento – elemento semioticamente rilevante in poesia – viene collocato in posizioni significative nel succedersi dei testi; si tratta, per meglio dire, dell’assenza di vento. Il sintagma vento che non c’è, è presente in due occasioni, P17 e P55; in P47 si legge senza vento; quando il vento attesta la presenza, il suo ruolo è quello del prolungamento dell’istinto umano in situazioni di decisione: P45 […] Eppure si conosceva come i venti fossero propizi […] P64 Dovevamo fidarci del vento, della nostra 11
animale vocazione […] P66 rappresenta un momento di svolta nello sviluppo narrativo di INDV; infatti quasi inaspettatamente ai vv. 34-36 si legge che [...] tutta l’apparizione ha colori temperati, il vento tiepido e quasi musicale sopra le gemme nuovissime Siamo in presenza di tutti gli elementi considerati fino a questo momento, sintetizzati in un quadretto dagli umori pastorali. Tuttavia è importante non lasciarsi ingannare dal tono delicatamente rassicurante, e riconsiderare i dati a nostra disposizione. Nel Primo libro dei Re, capitolo diciannovesimo, viene raccontata questa vicenda: Elia ebbe paura, si alzò e se ne andò per mettersi in salvo. Arrivò a Bersabea, che si trova in Giudea, e vi lasciò il suo servo. S’inoltrò quindi nel deserto camminando per tutto un giorno e andò a sedersi sotto una ginestra. Qui s’auguro di morire dicendo: « Ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei antenati ». Poi si sdraiò e s’addormentò sotto quella ginestra. […] poi, sostenuto da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
Poi, nello stesso capitolo: Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento grande e gagliardo, tale da scuotere le montagne e spaccare le pietre, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un
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terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il sussurro di una brezza leggera. Non appena sentì questo, Elia si coprì la faccia con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna.
Forse potrebbe bastare soltanto mettere in evidenza la somiglianza della scansione emblematica dei due libri: prima l’albero, poi il deserto, infine il venticello. In realtà, le similitudini si muovono a livello ben più profondo, e si aprono a prospettive più complesse. Occorre fare un passo indietro e rileggere un brano già preso in considerazione, integrandolo con i versi immediatamente precedenti o successivi. P65 infatti le fiamme lambiscono le finestre, il cinema d’essai, l’albero della cuccagna, le vesti vaporose delle donne rarissime che sono vergini […] molto silenzio sopra la terra incandescente ricoperta ancora di lapilli e di cenere calda la quale si muta per contrappasso in neve freddissima, si aggira infatti un vento pugnalatore […] spalano tutta la neve, compare il cinema nuovamente, le finestre, l’albero della cuccagna, purtroppo le donne vergini rarissime che avevamo tentato di occultare, tutta l’apparizione ha colori temperati, il vento tiepido e quasi musicale sopra le gemme nuovissime
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Dato per assunto che l’happy end risiede nella comparsa della variante ‘brezza/vento tiepido’, rimangono ancora due questioni da risolvere. Stando agli studi di James Frazer, il gioco dell’albero della cuccagna avrebbe origine nei culti arborei celtici, successivamente virati in feste del Maggio. Caratteristica primaria di tali celebrazioni è il richiamo alla fertilità, anche attraverso riti orgiastici. Si spiegherebbe in tale senso il riferimento in P65 al tentativo di occultamento delle donne vergini, in concomitanza con la ricomparsa dell’albero della cuccagna. È un ritorno della fecondità determinato dalla cultura prima che dalla natura, ma che proprio in quanto voluto dalla comunità degli uomini consente di ripristinare quelle dinamiche riproduttive, e di convivenza all’interno del sistema naturale, bruscamente interrotte proprio dall’uomo culturale. Resta da capire che entità si celi dietro quel vento leggero che in 1RE era Dio. P17 Ed era convenuta la gente colorata a cerchi dilatati sotto l’albero di noce, a prima attenta seduta sotto l’ombra, l’ultima dispersa al moto rotante del sole, da dove guarda ciascuno il tronco mulatto, immobile al vento che non c’è, speriamo che si sappia la ragione dell’invito, pensano tutti senza proferire parola, così progettando un clima innaturale di attesa […] Ma l’attesa della gente sotto l’albero di noce – che non è poi tanto differente dall’attesa di Elia, prima disillusa sotto 14
la ginestra, poi impaziente sul monte Oreb – non è l’unico caso che ci viene presentato nel corso del libro; già in chiusa di P13, il primo testo del libro, l’uomo solitario trascorre la serata e l’esistenza in assenza di qualche pallido | significato, di qualche timidissima attesa; in P21 i giocatori di dadi nella taverna sono così lenti e ottusi, linfatici, privi | dell’istinto primario di mattanza, si aspettava | comunque vivi lo stridulo della civetta; in P27 il nano che fa anticamera aspetta terribile e calmo l’obolo dovuto; in P31 le passeggere del treno attendono l’ordine naturale; in P36 le suore della casa di carità aspettano chiuse nelle camerine; in P48 le donne silenziose attendono; in P49 la signorina aspetta l’assalto successivo; in P61 i personaggi hanno atteso il segnale; in P67 il motivo dell’attesa si fa più esplicito, in quanto l’uomo con la tuba se ne sta immobile, come aspettando un fine | d’amore, come aspettando risposta. Tuttavia neanche questa precisazione può essere considerata totalmente esaustiva, data la plurivocità del concetto di amore. Se una risposta non la si trova sul fronte, la si cercherà sul verso, e il capolinea del percorso di ricerca sembra risiedere proprio nella mancata attesa, nell’atarassia determinata dal non aver bisogno di attendere: P68 Noi diversamente siamo dai pentecostali, dai millenaristi, qui ed ora, dal ginnasta che verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, nel fragore sistino della luce, noi siamo diversamente, una specie di resistenza coatta, non è dato sapere verso chi, verso cosa, soprattutto l’assenza 15
esangue della speranza, non si pretende, della paura. L’altra grande categoria di scenari presente in INDV è quella dei luoghi ad alta frequentazione. Quale che sia la tipologia specifica4, tutti gli ambienti rappresentati hanno come denominatore comune lo svolgere la funzione di radunare le persone al loro interno, siano esse in pianta stabile o di passaggio. Questa scelta stilistica potrebbe apparire in controtendenza rispetto a quanto detto riguardo al desiderio dell’uomo di negare ogni forma di socialità; l’atmosfera generale che avvolge i personaggi presentati è quella dell’isolamento, dell’incomunicabilità, nonostante l’appartenenza a un gruppo più o meno numeroso di individui. È davvero rarissimo trovare esempi di contatti verbali che abbiano finalità di conoscenza interindividuale; oppure, quando si trovano, questi necessitano di precise caratteristiche formali. Il primo caso è quello della comunicazione mediata da mezzi tecnologici: in P30 le ragazzine si dicono la voglia, l’assuefazione | sul filo tenerissimo dei telefonini, | si raccontano per E-mail; in P36 gli eredi degli ospiti della casa di carità sono responsabili di un recapito massivo di lamentele | inoltrate per via telematica o tramite telefonino; in P51 un passeggero della nave pesca dall’intima giacca un piccolo | telefonino, compone a caso un numero e parla | con nessuno, una donna giovane risponde al proprio | cellulare, accetta l’invito, guadagna la spina | dorsale della pista, tutti seguono l’esempio, | si formano le coppie della comunicazione | virtuale. Il P13: mercato; P14: parco; P21: taverna; P24: cattedrale; P27: masseria; P30: scuola; P31: treno; P36: casa di carità; P41: accampamenti; P43: contrada; P47: banchetto; P51: nave; P61: bivacco; P65: quartiere; P70: piazza. 4
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secondo caso prevede una struttura dialogica costituita dalle due parti Io sottointeso/Tu generico. Si tratta di una formula che rimanda allo schema dell’epistola sentimentale, genere preferenziale quando si vuole stabilire un rapporto d’intimità; qui è l’anonimato la condizione chiave per riuscire ad esprimere dei concetti probabilmente non esplicitabili a volti scoperti5. Una modalità comunicativa di questo tipo è direttamente associabile alla chat, in cui a fare da interfaccia c’è il monitor del computer, e il disvelamento della propria identità è cosa facoltativa, per non dire sconsigliata; si prenda a titolo di esempio P41: Io non ho pane da mangiare, ma neppure salame, bruscole, l’ammazzacaffè. Dunque, se vieni fatti riconoscere da una gobba di grasso, come i cammelli. Ti dico che la pioggia sarà torrenziale e gelida, coprirà gli accampamenti. Il terzo caso consente uno scarto metanarrativo, dal momento che viene introdotta la forma del racconto, ad opera dei personaggi stessi. Nello specifico, il termine racconto – nelle varianti verbali o nominali – ricorre cinque volte nel corso del libro; in P13: Ti racconto; in P19: un racconto; in P27: racconto; in P61: si raccontano; in P70: racconti. E’ impossibile trascurare il fatto che P13 e P70 siano rispettivamente il primo e l’ultimo testo del libro, nella Nel libro vengono presentati due casi in cui la comunicazione avviene a volti scoperti. Ma se in P19 essa avviene tra un umano (Tarzan) e un subumano (Cita), in P51 il contatto verbale serve allo scopo di tenere la distanza. 5
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posizione di vertici di un’ideale parabola concettuale, in cui, se è vero che stavolta i soggetti dell’azione vengono puntualmente esplicitati, è altrettanto vero che essi sono nella forma della terza persona, rivelandosi di fatto come gli oggetti dell’esposizione dei fatti. Le possibilità del linguaggio però non si esauriscono a quelle verbali. Le tue azioni parlano così forte che non riesco a sentire quello che dici. La citazione è tratta da un aforisma di Ralph Waldo Emerson, vissuto nel diciannovesimo secolo e pioniere negli studi sul linguaggio non verbale. È il caso di allargare la prospettiva su altri territori, nella fattispecie prendendo in considerazione i caratteri propri del paralinguaggio per antonomasia, il linguaggio del corpo. Anche in questo frangente è possibile rilevare degli stilemi ricorrenti. Anzitutto la valenza erotica attribuita alla capigliatura – specialmente femminile – trova spazio per esprimersi a più riprese: in P14 le donne giovani […] nella posizione sonora delle cavallerizze | ilari dentro la veste colorata e luminose | hanno i capelli sciolti; in P19 Jane occupò delusa la tenda | notturna, chiusa, cercò la guida pallida, | sciolse i capelli6; in P27 la Padrona si muove agitando la chioma corvina; in P49 la donna scuote i capelli caldi, stende | nella distanza d’aria fra cielo e precipizio le mani | libere, impugna le tenere appendici militari. Anche il motivo dell’allattamento – stavolta esclusivamente femminile – ritorna in quattro occasioni: in Il verbo sciogliere, connotato eroticamente, torna in P51: guarda la donna | prudentemente danzare, prima che sciolga i veli. 6
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P17 erompe | dalle mammelle benedette un filo di nutrimento; in P21 le poppe dolorose7 […] spandevano | commosse d’amore una vena di latte salino; in P25 stringe il bimbo la poppa saporosa, un filo | di latte lo asseconda; in P36 le suore della casa di carità offrono il piccolo seno coperto di miele profumato | cantano la ninna la ninna bimbo bello di mamma | che succhia la poppa e chiude tenere le mani. Se le proprietà seduttrici dei capelli hanno avuto nel corso dei secoli pesanti attenzioni artistiche e critiche con le conseguenze di una legittimazione popolare e di uno slittamento dall'arte al costume, non si può dire altrettanto per il seno inteso come oggetto erotico nella sua funzione nutritrice; questo cortocircuito innescato tra livelli tanto distinti quanto fondamentali per lo status di femminilità genera un effetto perturbante, che nemmeno Onano sembra riuscire ad esplicitare fino in fondo8. Vi sono inoltre tre termini che fanno da basso continuo nell’orchestrazione tematica dell’opera, e che di tanto in tanto si staccano dalla trama per guadagnare il centro della scena. Uno è tattile: guanti tattili (P44), manovra tattile (P48), dolore tattile (P51), pelle tattile (P62); l’altro è possessione: riflessi torbidi di possessione (P14), volontà di possessione (P40), la possessione (P43). Se al primo è possibile attribuire un valore univoco legato alla conoscenza fenomenica per contatto, nel secondo c’è una biforcazione delle accezioni che sviluppa sia l’idea di proprietà intesa come possedimento materiale sia quella di invasione del corpo da parte di un Il medesimo sintagma poppe dolorose è presente anche in P27. L’allattamento degli ospiti della casa di carità, adulti, avviene tramite bottiglie di plastica con ciuccio anatomico, e non direttamente dal seno, come succede negli altri brani in cui è descritta tale pratica e di cui sono beneficiari dei bambini. 7 8
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corpo estraneo9. Siamo in presenza di forme estreme di relazione, in cui la contiguità fisica assume i caratteri della compenetrazione, per non dire della sovrapposizione, di nature diverse, e quindi dello scambio reciproco. Il terzo termine, terra (e relativa sfera semantica), chiude il cerchio offrendo una solida base nella constatazione dell’efficacia nella comunicazione tra individui a condizione che essa sia mediata direttamente dai sensi. La sua frequenza è alta, dato che ricorre venti volte nell’arco di trentotto testi: pensieri terrestri e seduzione terrestre (P31), smanie terrene (P39), terra (P43), terra [due volte] (P45), macchina terrestre [due volte] (P49), terra [dieci volte] (P51), affluenze terrestri (P64), città terrestre (P70). Tuttavia lo sguardo di Onano sembra non essere soddisfatto da una soluzione implicante l’esclusività dei rapporti in terra, dato che, per citare Leonardo da Vinci, i sensi sono terrestri, la ragione sta for di quelli quando contempla. A questo punto occorre tornare alla questione di partenza, introducendo le riflessioni di una personalità fondamentale nella costituzione dell’identità della scuola di Chartres: Ermete Trismegisto. Nel suo trattato La tavola di smeraldo si legge che ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che in basso per realizzare i miracoli di una cosa sola. E poiché tutte le cose provengono da una, per la mediazione di una, così tutte le cose sono nate da questa cosa unica mediante adattamento. Nel brano 4. de Il senso romanico della misura (Edizioni Tracce, Pescara 1996), Onano scrive: (Le possessioni sono sempre reciproche: quindi, per ogni essere umano indemoniato, esiste un demonio che viene umanizzato. Questa osservazione ha implicazioni speculative che vengono spesso trascurate). 9
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L’idea di fondo, poi sviluppata dai chartriani, è che l’uomo riproduca in sé l’ordine dell’universo, ma non solo, che dell’universo sia al centro. L’influsso degli astri sarebbe perciò un fattore essenziale nella determinazione dei destini degli uomini. Questa interferenza si manifesta all’interno di INDV secondo modalità differenti. Quella più immediata è riconducibile alla relazione che intercorre tra i cicli lunari e quelli del corpo femminile: in P48 sono intorno le donne silenziose, | attendono, sanno il torbido ciclo della luna; in P60 passa Ofelia lunare. In P61 gli elementi fisiologici trascendono l’umano e si disseminano attraversando l’ambiente circostante, per farsi infine territorio (e il territorio si fa corpo): Esse lasciano tracce d’urina ad ogni passo, camminano in cerchio, marcano il territorio: ciò che questo racchiude ha cicli lunari, monotoni […] Ma il punto di massima intersezione tra i motivi presi in considerazione finora viene raggiunto in P70 (i corsivi non sono dell’autore): Ti scrivo da Ninive, dalla città terrestre. Non si sta male, curvi sulle faccende familiari, occupati nell’arte di comperare e vendere. Supponiamo, in fondo stanchi e leggeri, l’assalto sulle poderose macchine falcianti, le mani mozze dei nemici, le cortigiane guerresche. Ne facciamo racconti, all’occhio perso dei bambini raccolti sulla piazza. Peccato 21
il tributo ad ogni cadenza di luna, il fastidio della genuflessione, al ricciuto funzionario di Babilonia, pensile e lontana, azzurra, ricca di biblioteche. La terrestrità del luogo di residenza, la connotazione erotica intrinseca all’idea di donna e la dimensione narrativa nei rapporti umani, pedine pesanti nell’immaginario de INDV, si compongono con la periodicità data dai movimenti lunari; la quale, si badi, non è in questo caso motivo di determinazione del destino legato a fenomeni astrali10, bensì funge da scadenzario per il pagamento del tributo al tiranno11. Da ciò deriva una emersione ipotestuale ulteriore: la bipolarità Ninive terrestre/Babilonia pensile può richiamare il modello oppositivo descritto da Agostino d’Ippona nel De Civitate Dei, in cui alla città terrena dell’auto-affermazione pagana (si legga: dell’abilità politica romana e delle conquiste della filosofia platonica) viene contrapposta la città celeste della grazia cristiana. Alcune informazioni su Ninive: capitale religiosa e culturale dell’impero assiro, nel 612 a.C. venne rasa al suolo dall’esercito sorto dall’alleanza di Medi e Babilonesi; nel 1847 l’archeologo A. H. Layard portò alla luce un’enorme quantità di reperti, tra i quali spiccano le ventimila tavolette appartenenti alla biblioteca di
E’ suggestivo rilevare che il più importante tempio di Ninive era consacrato a Ishtar, dea della maternità ma anche della guerra; figlia di Sin, dio della luna, era posta in stretta relazione con il pianeta Venere. 11 A Peccato il tributo ad ogni cadenza di luna, | il fastidio della genuflessione, fa da contrappunto Camminiamo sul ponte, sotto il fastidio di luna. 10
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Assurbanipal12. La città assira è diventata l’emblema di come a una crescita senza apparenti limiti possa succedere una rapida caduta in rovina. Questa fama è da ricondurre anzitutto ai dati storici, come accennato sopra; ma non solo, dato che due fonti letterarie esplicitano, seppur secondo modalità differenti, l’atmosfera che pervade l’affaire Ninive. La prima, il Libro di Nahum – inserito tra i profeti minori dell’Antico Testamento – consiste in una breve raccolta di testi oracolari scritti contro il nemico assiro, identificato nella sua capitale. Stando a quanto dice il suo autore, tra le motivazioni che hanno portato al crollo del regno sembrano esserci proprio i segni del progresso civile, civico e internazionale: Schioccar di frusta, strepito di ruote, cavalli furenti, carri traballanti, cavalieri all’assalto, lampeggiare di spade, bagliori di lance; […] Per le molte prostituzioni della cortigiana, della bella favorita, dell’abile incantatrice, che tiranneggiava i popoli con i suoi favori, le nazioni con i suoi incantesimi!13 La seconda si può definire un documento interno, dato che si tratta del mito sumero di Etana; Etana di Kish, «Io, Assurbanipal, re delle legioni, re delle nazioni, re dell’Assiria, cui gli dei hanno dato orecchie attente e occhi aperti, ho letto tutti gli scritti che i principi miei predecessori avevano accumulati. Nel mio rispetto per il figlio di Marduk, Nabu, dio dell’intelligenza, ho raccolto le tavolette, le ho fatte trascrivere e, avendole raffrontate, le ho firmate col mio nome al fine di conservarle nel mio palazzo». 13 Nel Libro di Giona Ninive viene descritta come una città molto grande, lunga tre giorni di cammino. (Gi III,3). 12
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desiderando fortemente un erede ma non riuscendo a generarlo, si mette alla ricerca dell’erba del parto da far mangiare a sua moglie. Grazie all’aiuto delle divinità ottiene un’aquila che gli consente di continuare la sua ricerca in cielo, ma a causa delle vertigini cade a terra, e muore. In entrambi i casi sembra che le leggi di caducità – accidentalmente sovrapponibili a quelle di gravità – impediscano una conservazione del proprio stato nel momento di maggiore sviluppo; trascurando intenzionalmente gli evidenti elementi prometeici della vicenda, si vuole incrociare quanto detto con due testi presenti nel libro di Onano, adiacenti e in posizione centrale all’interno del volume. Si tratta di P44 e P45. P44 Avanzano fra gli spuntoni, le scarpe da ginnastica e i sottili guanti tattili, divisi fra la prudenza del gesto e l’intrepida decisione verticale, prima regola non guardare mai in basso: è leggenda, sappiamo benissimo, la presenza delle aquile, lo strepito, la pretesa difesa di nidi inaccessibili, posati sulla vetta: piangono così, per puro riflesso pauroso alla vista dei giocatori di free-style, così poco raccomandabili, così rocciatori privi di tenerezza: essi raggiungono le cime solitamente solitari, si siedono, guardano silenziosi la prateria, si domandano se ne valesse 24
la pena, non si danno risposta, dimenticano quasi sempre di raccomandarsi, prima di scendere.
P45 E’ una storia che deve finire, lo sapevamo ciascuno, sospesi nella circostanza che la storia non era cominciata, ciascuno sapeva che la storia non era cominciata prima ancora che fosse finita. Eppure si conosceva come i venti fossero propizi, ciascuno sospeso sulle costole magre del pallone, così esile fra terra e assenza di vertice o precipizio, ciascuno sa che la storia fosse finita, che fosse la storia neppure per un attimo cominciata, forse solamente fosse cominciata nell’attimo breve dell’ascensione, ma poi ciascuno sapeva che fosse finita nel sussulto uniforme della mongolfiera, sospesa fra terra e assenza di vertice e precipizio, nonostante dovesse finire.
Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l'altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti. Il problema sembra essere quello che succede dopo.
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