Un ermetico microcosmo naturalistico fosse chiti di nino de vita (diego conticello)

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Titolo: Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti di Nino De Vita. Autore: Diego Conticello Edizione a cura di: In realtà, la poesia Anno: 2013 Vol.: 5

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Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti di Nino De Vita di Diego Conticello

In realtĂ , la poesia 2013



Premessa

La poesia di Nino De Vita (Marsala, 1950) nasce da un rapporto simbiotico con l’ambiente naturale del marsalese, precisamente di quelle contrade marine affacciate sull’oasi naturalistica dello Stagnone, proprio di fronte all’isola fenicia di Mozia e alle celeberrime saline del capo lilibeo. In questo scenario ancora incontaminato l’autore si è mosso, fin dall’infanzia, avendo sempre cura di registrare e classificare il particolare minimo, compreso quello apparentemente insignificante (lui per decenni insegnante di Osservazioni scientifiche in diversi istituti agrari del trapanese), pertanto nei suoi versi traspare quella vena nomenclativa, talvolta esasperata ed accompagnata da una assoluta precisione derivante dalle inclinazioni formative. Il rapporto con questa natura ne risulta talmente intimo da essere non simbolico ma emotivo, per cui non è l’assidua frequentazione coi classici della letteratura a forgiare una ‘maniera’ di imitazione epigona (viene, tanto per dire, immediato l’accostamento col primo Montale di Ossi di seppia), bensì la precisione prende slancio dalle cose in sé, per costituirsi nucleo continuo e irrinunciabile del dettato prima intellettivo e poi descrittivo. 7


In tal senso Nino De Vita potrebbe idealmente far parte di quel pantheon di scrittori-scienziati che, partendo da Galileo fino ad arrivare ai nostri Primo Levi, Carlo Emilio Gadda, Lorenzo Calogero, Giuseppe Bonaviri (volendo tacere sui recenti esiti discutibili di un Cesare Ruffato), fanno del rigore nomenclativo una caratteristica osmotica alla loro controparte “dottorale”. Non lontano dalla poesia anglo-statunitense che da Whitman (si vedano i paralleli testuali col maestro di Leaves of grass) ha condotto al moderno “imagismo” di William Carlos Williams – anch’egli scienziato, di preciso medico pediatra – o a certe prove di Ezra Pound e, nei casi migliori, alle altezze stratosferiche di T.S. Eliot, il nostro canta la natura con la stessa esattezza verbale a lungo interiorizzata negli studi agrari prima e negli anni di insegnamento poi. Futuri contributi dovranno pertanto tenere in conto questo non trascurabile, anzi ‘necessario’, punto di partenza per lo studio completo di un’opera così appartata quanto degnissima di considerazione.

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Un ermetico microcosmo naturalistico: Fosse Chiti La poesia di Nino De Vita ha la compostezza delle cose immobili, impassibili, sfiorate dagli elementi di una natura non irresistibile e, tuttavia, nemmeno arcadica, autoritaria e materna in egual misura e – parimenti – lentissima, lontana dai ritmi veloci che contraddistinguono la nostra epoca. Lo strano titolo ha il significato toponomastico di “Fosse Cretose”, una contrada confinante con quella in cui il poeta vive (il termine ‘chiti’ vuol dire appunto ‘di creta’ nello stretto vernacolo della contrada marsalese di Cutusio, dove De Vita è nato e cresciuto e dove tuttora risiede). Nei suoi versi l’autore descrive, lucrezianamente direi, con ‘misurata’ insistenza, questo variegatissimo ecosistema, quasi lasciando sproloquiare ogni evento che vi si svolga – sia esso maestoso o microscopico – come in una sorta di continuata prosopopea ‘fisica’, dove la presenza umana è sì contemplata ma, spesso, defilata o del tutto assente. De Vita sembra annotare il susseguirsi delle stagioni col taccuino del fine botanico/zoologo, in uno sguardo perpetuamente vigile che registra insieme l’inquadratura fuoricampo e il primissimo piano, l’ampio paesaggio e l’insetto più misero. Animato da uno smisurato slancio che abiura eccessive sovrastrutture antropiche, il poeta sembra voler ricostruire un rapporto antichissimo con le cose della natura, senza che esso sia deviato e corroso alla

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base da una forte carica di appropriazione simbolica o di recupero memoriale.1 Queste “epigrammatiche micro-parabole” si dipanano lungo il corso ideale delle quattro stagioni, tante sono le sezioni della raccolta, segnando al contempo una labile traccia di ciclicità, evidente nelle misture meteorologiche di eventi ‘fuori stagione’.

Cade violenta, batte sulle foglie ampie delle zucchine la grandine e sul sedano, sui fusticini eretti del peperone… Il sole, spuntato dalle nubi, negli angoli la trova dell’orto, dei canali, nel fosso del concime, immiserita…

Il susseguirsi di questo pullulare di accadimenti restituisce il giusto valore a cose altrimenti classificabili – secondo il comune sentire dei giorni nostri – come ridicole inezie da crudo orizzonte quotidiano. A destare la coscienza del lettore non è dunque l’evento osceno od immorale, quanto l’accezione mortifera come germe insito anche nella descrizione più serena. Stefano Jacomuzzi, Presentazione a Fosse Chiti. Catania-Milano, Lunarionuovo-Società di Poesia 1984, pag. 7. 1

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Lisciato legno un nodo anelli tondeggianti, striature… È la vita dell’albero la morte…

Nino De Vita utilizza in maniera massiccia e sistematica un arguto espediente grafico al fine di rimarcare il perenne intersecarsi della pars destruens (tondo) e construens (corsivo) che costituisce ogni fenomenologia naturale.

La lucertola al laccio sospesa e poi tuffata nell’acqua della vasca il ventre liscio gonfio la bocca spalancata… La foglia viva ha succo verde dentro, nervi, cellule rigonfie d’umore. Respira dagli stomi si difende coi peli dalla polvere che il vento solleva da terra.

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L’azione umana in questo ristretto habitat risulta spesso estemporanea o ristagna in voluti marginalismi da ‘sfocato’ fotografico, sotteso al ritratto ora faunistico ora floreale in rilievo («Buttano con le pale / il frumento nell’aria.»; o ancora: «Nelle sere / d’estate / a conversare / – nei porticali o sotto le tettoie / rinverdite –»). Il tratto versificatorio di De Vita consiste (tra l’altro) in quella particolarissima capacità di “dare il nome” alle cose facendo scaturire dal nome un misterioso surplus di significato che in qualche modo, per riflesso, finisce col trasmettersi (arricchendola) anche alla cosa.2

Dunque, per una sorta di procedimento analogico rovesciato, il significato pare scaturire dalla cosa in sé, come a sviare il passaggio intellettivo, emanando dal proprio interno aloni di senso che divengono – ma solo in seconda battuta – metafore di un implicito e nascosto pensiero ch’è dello stesso poeta. Sono i cerchi, sui fianchi della botte, arrugginiti. Dalle doghe il vino trapassa in righe oscure di muffa fino al bordo sul fondo…

Alfonso Lentini, Nino De Vita – Fosse Chiti. «Porto Franco». Taranto, gennaio-marzo 1991. 2

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Ha moscerini che ronzano e nel foro s’infilano la spina.3

Una profonda oculatezza nella cernita della terminologia (stomi, micelio, tramoggia, austori), il gusto insistente per il particolare orrido o macabro («Sta riversa. Le zampe / mosse nell’aria, lente; le ali rotte, / l’addome insanguinato…»), quantunque crudamente realistico, l’eclettica cultura che spazia su orizzonti alquanto inusitati, potrebbero certamente ascrivere De Vita a quella temperie tutta mediterranea che è la poesia ‘neo-barocca’, di cui Lucio Piccolo è forse l’esponente siciliano più noto insieme a Cattafi e Ripellino. Come per l’estroso ‘pintore’ dei Canti barocchi, la poesia del nostro esponente lilibeo – per dirla con Giovanni Raboni – vive di una sommessa, incantevole, «inspiegabile» precisione. Erbe, fiori, insetti sono osservati e salvati con un’impassibilità che nasconde e protegge il battito, il tremore di una sottile febbre amorosa.4

De Vita è forse il poeta che in assoluto ha più consonanze col cavaliere di Calanovella, nonostante il rifiuto netto di uno schema compositivo tradizionalistico che concepisce Da Sono i cerchi, sui fianchi della botte. Qui, ad esempio, si ha la sensazione che De Vita sottenda l’immagine di un violento invecchiamento e dell’inesorabile scorrere del tempo. 4 Giovanni Raboni, Ma quante belle ricerche. «Il Messaggero», 1 maggio 1985. 3

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la costruzione poetica solo su base rimica e metrica. Entrambi usano trattare diffusamente di gestualità risalenti ad una cultura contadina ormai in disfacimento inesorabile (si veda questo raffronto tra La risacca del mare del nostro e La seta di Piccolo).

Divorano le foglie di gelso ai lembi i bachi da seta tre larvette che si muovono lente muoiono dentro i bozzoli agli angoli

Fatica nostrana nei giorni involati la seta: le veglie all’interno tepore, le foglie del gelso brucate dalle torpenti farfalle ai cannicci. Sospesa alla trave la falce d’incanto, il crescente e l’aria grave di fiati rurali, d’attesa – poi girano i fusi, le spole, la grana… ma se la prendi con mano che un poco trema e la spieghi e la stendi è una fontana nel vento e nel sole. 5

e rispuntano farfalle nella piccola scatola per le scarpe di cartone.

Più volte De Vita si sofferma sul tema delle crisalidi, forse traslato dell’ineluttabilità della morte e della fragilità della vita («Maturerà crisalide la vita / d’una stagione sola: una

Cfr. Lucio Piccolo, La seta, in La seta e le altre poesie inedite e sparse, cit.; ora in Plumelia, La Seta, Il Raggio verde e altre poesie, cit., ivi pag. 43. 5

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farfalla // un’altra metamorfosi / una larva / sul muro screpolato»). Con un procedimento di acuta diminutio dai risvolti quasi eufemistici, il poeta riesce a mettere sullo stesso piano l’evento universale e il particolare più misero (si veda a titolo esemplare questa Aggiunge il caglio). S’infila dalla porta del casolare l’alba: impolverate vibrano ragnatele agli angoli del tetto ancora bui…

E questo particolare assurge a simbolo di una visione fatalista, quasi gattopardiana dell’esistenza, spesso inerme nei confronti del fluire storico. Melagrana spaccata contro il sole piccoli cuori rossi le formiche che salgono dal tronco […] […] in una nube d’insetti l’odore acre della marcescenza.

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E ancora: «Cade la foglia, scura, con i lembi / bagnati, sulla terra / che ha l’erba ancora nana // – sarà fango, / marciume – l’autunno / era grigiastro in mezzo ai rami nudi. Non è morta angosciata dalla luce, / per il vento freddoso / di tramontana». Per l’estrema ricercatezza dell’impianto metaforico, per lo straniamento che il quadro immaginativo rilascia al lettore, forse Ha piovuto è l’esito più alto dell’intera raccolta.

Ha piovuto. Sui vetri è caduta, battendo, l’acqua che in schizzi e onde in fiumi gonfi esili è discesa nel mare della soglia di marmo… Un sole caldo spezza e assottiglia isole disperde… È nella goccia il cielo un albero curvato…

È un inno all’importanza del particolare (‘soglia di marmo’, ‘goccia’) che di solito appare infimo, nascosto, dimesso ma

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che, grazie ad un inatteso e geniale ribaltamento, provoca gradevolissimi scorci di meraviglia. Ogni evento, anche quello che a prima vista potrebbe sembrare crudele, l’intemperie che lascia le cose vilipese, viene descritto col fare insieme impassibile ed accorato – esule da rassegnazioni – lecito solo a chi abbia una profonda conoscenza del corso della natura: così, nell’immagine che ad una superficiale lettura parrebbe asettica, è implicita, invece, e sottintesa una pietas.

È lunga lunga affonda la tromba dalle nubi nell’acqua. E poi si sposta, a vortice, solleva le barche dal canneto ricurva al seminato: è densa l’aria carica di terra e foglie un gelso bianco e un ulivo gigante sradicati.

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Nella fermezza del dettato c’è un sentire che trasuda una compassione accesa ma delicatissima per ogni essere vivente.

Da un buco nella rete s’è infilata la volpe: ha ucciso il gallo, azzannato una coscia del coniglio più piccolo. Le piume ha disperso e le penne nel chiuso del pollaio.

La volpe, simbolo per antonomasia dell’inganno, con la sua violenta frode soverchia la spocchiosità impersonata dal gallo, invalida ciò che di debole permane sulla terra, ovvero il coniglio, ribadendo che non c’è moralità in un mondo dominato solo dall’istinto di sopravvivenza, diverso però dalla malvagità fine a se stessa che invece inonda l’animo umano. Allo stesso modo anche l’anguilla diviene emblema del sotterfugio, riuscendo a volgere a proprio favore la situazione più spiacevole (intorbidita), contrariamente a quanto avviene per quella montaliana che, seguendo il percorso inverso, assurge a sorella dell’uomo invischiato nel fango della vita.

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L’anguilla dentro il pozzo con le acque di marzo si solleva penetra nei meati dai canali intorbiditi striscia fino al mare

L’anguilla, la sirena dei mari freddi che lascia il Baltico per giungere ai nostri mari, sempre più addentro, […] nel cuore del macigno, […] la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi, bronco seppellito; l’iride breve, gemella di quella che incastonano i tuoi cigli e fai brillare intatta in mezzo ai figli dell’uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu non crederla sorella?6

Queste descrizioni aperte, fatte di un linguaggio chiaro, conciso hanno talvolta […] la sottile inquietudine delle immagini trasparse da una liquidità lontana, anche per quella «potenziale enigmaticità del linguaggio chiaro» di daumaliana memoria e, soprattutto, per una sorta di fisica metafisicità sotto cui si presenta ex abrupto la cosa stagliata nella sua azione silenziosa e immobile, nella lontananza di sé, incisa fino in fondo, fino alle radici della sua maschera. Fino all’estremo segno di metafora.7

La tornitura quasi ossessiva di questo stile così prosciugato s’incentra sul tentativo di far risplendere ogni

Cfr. Eugenio Montale, L’anguilla, in La Bufera e altro. Venezia, Neri Pozza 1956; ora in Tutte le poesie, cit., ivi pag. 262. 7 Armando Patti, I segni della Natura. «La Sicilia», 17 agosto 1984. 6

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creatura vivente di luce propria, e tale che nessun orpello possa mai oscurarla.

Una nuvola sola in tutto il cielo all’alba: i seni bianchi, gonfi… La faraona immobile attraversa con l’ombra lo spiazzale deserto.8

De Vita si sofferma velatamente anche sull’odierna perdita dei valori religiosi, paragonando l’edera ad un male che sovrasta ogni anelito fideistico. Ha una croce la casa, in alto, sopra il pizzo, di tufo vecchio: l’edera dal muro, s’arrampica e l’avvolge nel cielo l’attraversano nubi gli uccelli in fila a frotte un sole lento che scende verso il mare Da Lo zolfo sulla vite. Si noti la delicatezza della ‘faraona’ che sembra la prosecuzione ideale della descrizione della nuvola. 8

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il cerchio della luna nella notte scura…

La lingua appare sempre in bilico tra il tecnicismo più spinto e il solecismo dialettale: una variegata messe di termini in questa raccolta (“ristoppie”: con forma più vicina al siciliano ‘ristucci’ che all’italiano ‘stoppie’; “coffe”: ‘ceste’, ‘panieri’, usato in lingua col significato di piattaforma sull’albero delle navi; “giummo”: quasi intraducibile, è una sorta di pendaglio decorativo; le “cianciane” sono una specie di campanelle; “graste”: orci, vasi, dal siciliano ‘rasti’) farà da nucleo di partenza verso una decisiva virata vernacolare che, a tutt’oggi, pare insostituibile nella produzione posteriore a Fosse Chiti. Il rispetto così sacrale per la natura che secerne questa poesia può essere, per certi versi, assimilabile alla purezza infusa da Walt Whitman in Leaves of grass (Foglie d’erba). Ma se il bardo dell’America unita cantava una natura in funzione dell’inno storico-politico-sociale (portato anche della sua omosessualità), De Vita esalta una natura appartata, fuori dalla storia. I versi di Whitman sembrano una spiegazione dei versi delle metafore del poeta marsalese.

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Ogni giorno Stagnone risolleva le acque il muschio verde sulle pietre, già vizzo, si distende e sciacqua Ha dune fosse ricolme sulla spiaggia la rena quando il mare secca

Per sentieri non battuti, nella vegetazione ai margini delle acque stagnanti, fuggito dalla vita che esibisce se stessa, da tutti i canoni accettati, da piaceri, profitti, conformismi che troppo a lungo ho dato in pasto alla mia anima, […] qui con me stesso lontano dal fragore del mondo, qui corrispondendo e conversando con lingue aromatiche, non più confuso (perché in quest’angolo appartato posso rispondere come altrove non oserei), possente mi sovrasta la vita che non si esibisce, ma che contiene tutto il resto, oggi deciso a non cantare altri canti se non i canti dell’affetto, proiettandoli in quella vita sostanziale, […] il segreto delle mie notti e dei miei giorni…9

Il messaggio recente di Nino De Vita sta tutto nella sua pacata, intima, totalizzante fusione con la natura, una rigenerazione panica a cui non serve, se non rarissimamente e in accenti comunque lievissimi, aggiungere presenza umana. L’elemento vitale è sempre lì, pronto a ‘sbocciare’, a impadronirsi d’ogni anfratto che l’artificio lascia scoperto ed è metafora della resistenza della bellezza in un mondo votato a un gretto utilitarismo.

Dalle pietre è spuntato fra le rotaie untuose il fiore.

Cfr. Walt Whitman, Foglie d’erba (traduzione di Enzo Giachino). Torino, Einaudi 1950. 9

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Il vento forte del treno lo ripiega: spruzza gocce d’acqua annerita, sbuffi di fumo… S’allontana e s’avvicina l’ape che vi posa a giri lievi e penetra, lo succhia…

Ogni verso fa di questa raccolta un inno esemplare ‘a proposito della vita’, in cui il poeta riesce a indagare la natura fin nei suoi segreti palpiti, scovando persino il meraviglioso ritmo dei suoi silenzi.

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Nota biografica Nino De Vita nasce a Marsala (Trapani) l’8 giugno del 1950. Laureato in Scienze agrarie, ha insegnato matematica e osservazioni scientifiche in vari istituti medi superiori del trapanese. Vive, dalla nascita, nella contrada marsalese di Cutusìo. Nell’autunno del 1969 entra in relazione col fotografo Enzo Sellerio, il quale gli fa conoscere Leonardo Sciascia, con cui in seguito si svilupperà una profonda amicizia. De Vita in quegli anni studiava nell’ateneo palermitano, così le frequentazioni con l’autore agrigentino divennero quasi quotidiane. Conoscerà, nello stesso periodo, Vincenzo Consolo, Ferdinando Scianna, Gesualdo Bufalino, Ignazio Buttitta, Stefano Vilardo, Roberto Andò e molti altri. Nel 1986 sposa Giovanna Di Maio, con la quale avrà due figli, Francesca ed Alessandro. Nel settembre del 1989 Sciascia, poco prima di morire, in una lettera indirizzata agli amministratori comunali di Racalmuto, affiderà a De Vita (assieme ad altri cinque studiosi) la direzione della Fondazione che gli sarebbe stata intitolata. Intratterrà frequenti relazioni epistolari con numerosi scrittori e critici letterari, in particolare con Carlo Betocchi. Ha pubblicato poesie e racconti, in lingua e, soprattutto, in vernacolo su numerose riviste, tra le quali citiamo «Nuovi Argomenti», «Poesia», «Lunarionuovo», «Carte Siciliane», «Il Belpaese», «Nuove Effemeridi», «Lengua», «Diverse Lingue», «Arsenale», «Ozio letterario», «Prova d’Autore», «Via Lattea», «Sicilia Poetica», «Gli immediati d’intorni», «da Qui» e altre ancora. Alcuni suoi articoli sono apparsi sul periodico marsalese «Nuovi Orizzonti». Ha ricevuto numerosi premi nazionali, tra cui il “Moravia” (1996), il “Pierro” (1997), il “Betocchi” (1997), il “Mondello” (2003), il “Napoli” (2004), il “Salvo Basso” (2006), il “Cattafi” (2006), nella cinquina finale del Viareggio (2006), il “Liber” (2007) ed, infine, il Tarquinia-Cardarelli (2009).


Opere di Nino De Vita Poesia  Fosse Chiti (con una presentazione di Stefano Jacomuzzi). CataniaMilano, Lunarionuovo-Società di Poesia 1984.  Mastr’Alfiu. «Lunarionuovo». Catania, luglio 1987.  Fosse Chiti (2° ed. ampliata, con nota di Giuseppe Conte). Montebelluna-Treviso, Amadeus 1989.  Bbinirittedda. Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1991.  Fatticeddi. Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1991.  Mastr’Alfiu, in «Diverse lingue» 11. Udine, 7 ottobre 1992.  Quannu sciròccu ciùscia, in «Lengua» 12. Pesaro, 1992, pp. 127-135.  Bbatassanu. Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1992.  Nnòmura. Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1993.  Cutusìu (con una prefazione di Pietro Gibellini). Trapani, Arti Grafiche Corrao f.c. 1994.  ’A casa nnô timpuni. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1994.  ’A vurga, in «Nuove Effemeridi» 7. Palermo, 1994.  ’U Chiaparòtta, in «Nuovi Argomenti» 4, luglio-settembre 1995, pp. 35-36.  I ru’ minzudda, in «da Qui». Lecce, 1995, pp. 119-124.  Sulità. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1995.  Jòcura (con una presentazione di Giovanni Tesio). Mondovì-Cuneo, Boetti & C. Editori f.c. 1996.  ’U porcu juculànu, in «Diverse Lingue» 15, settembre 1996; poi col titolo Cc’èranu tutti â mezzu ri l’ariùni, in L’arànci. Alcamo, Arti Grafiche Campo 1998.  ’U spavintapàssari. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1997.  Per ricordare. Cinque poesie (Libboniu Ciocca, Caminava immurutu, Masi u Rrussu, ’A zzi Melia, Pisci), in «Nuove Effemeridi» 39. Palermo, 1997.  ’I carcaràzzi. «Quaderni del Fondo Alberto Moravia». Roma, 1998.  L’aranci. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1998.  P’a festa ri l’ammitu (con cinque incisioni di Nino Cordio). Roma, Felceti 1998.


 ’U patri di Bbettu ’u mannariòtu, in Simile a un colombo viaggiatore. Per Bufalino (a cura di Nunzio Zago). Comiso-Ragusa, Salarchi Immagini 1998.  ’I scoli vasci. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1999.  La maestrina delle elementari. «Stilos», 25 maggio 1999.  Òmini. Alcamo, Grafiche Campo f.c. 2000.  L’arena ri Spagnola (con un’incisione di Vincenzo Piazza). Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 2000.  ’U tuppuliu (con un’incisione di Giuseppe Tuccio). Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 2001.  ’U lupu mannaru (con un’incisione di Piero Guccione). Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 2001.  Cutusìu (con una prefazione di Vincenzo Consolo). Messina, Mesogea 2001.  Nnòmura. Messina, Mesogea 2005.  Fosse Chiti. Messina, Mesogea 2007.  Bbaddarò. Marsala, f.c. 2008.  Né erba né na vido né na rrosa. Marsala, f.c. 2008.  A Palemmu. Marsala, f.c. 2009.  ’U ncuttùmu. Marsala, f.c. 2010.  Òmini. Messina, Mesogea 2011.

Narrativa  Buttitta da vicino, in Voci di Sicilia. Marsala, La Medusa s.d.  Il diniego del pittore (con un’acquaforte di Giuseppe Modica). Roma, Associazione degli Amici di Leonardo Sciascia 1998.  Cùntura. Alcamo, Arti Grafiche Campo f.c. 1999.  Il cuscus dolce (con un’incisione di Vincenzo Piazza). Valverde-Catania, Il Girasole 1999.  Cùntura. Messina, Mesogea 2003.  Il cacciatore (illustrazioni di Michele Ferri). Roma, Orecchio Acerbo 2006.


 Il racconto del lombrico (illustrazioni di Francesca Ghermandi). Roma, Orecchio Acerbo 2008.  Comu fannu l’aceddi (con un’incisione di Gaetano Tranchino). Valverde-Catania, Il Girasole 2009.  La casa sull’altura (illustrazioni di Simone Massi e una postfazione di Goffredo Fofi). Roma, Orecchio Acerbo 2011.

Presenza in antologie  ’U rui novèmbri r’u sessantarùi (con una prefazione di Giacinto Spagnoletti), in AA.VV., Cinque Poeti. Catania, Prova d’Autore 1989.  L’inverno che è passato (liriche tratte dalla raccolta inedita I grappoli dell’orto), in AA.VV., Gli immediati d’intorni. Modena, Mucchi 1990.  Angilu, in AA.VV., Via Terra, (antologia di poesia neodialettale a cura di A. Serrao, introduzione di L. Reina). Udine, Campanotto 1992, pp. 251-254.  Nino De Vita, in AA.VV., Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (a cura di G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli, P. Zublena). Roma, Luca Sossella Editore 2005, pp. 865-874.




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