in copertina: Joan Mir贸. Mujer, p谩jaro, estrella (Homenaje a Pablo Picasso), 1966-1973.
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Collana di critica «VISIONI»
IRLP, 2014 www.inrealtalapoesia.com inrealtalapoesia@gmail.com
Vol. 1
Davide Nota
LETTERA A UN GIOVANE POETA IN ITALIA e alcuni scritti precedenti (2010-2014)
IRLP 2014
Breve premessa dellʼautore
Quella che segue non vuole né può essere considerata unʼantologia che chiuda un discorso critico, neppure individuale. Giusto appena lo comincia, indicando alcune direzioni, talvolta antitetiche, che si svolgono nel paesaggio presente e lo fa camminando, come elemento interno, soggetto in causa la cui obiettività risieda esattamente nellʼabiura da ogni pretesa di neutralità. Il poeta cui si rivolge non è infatti solo il destinatario ultimo di questa collezione di interventi, il giovane lettore del portale “In realtà, la poesia” degli amici Bosco, Castiglione, Mari e Ortore, ma è lʼoggetto stesso di queste pagine sviluppate come continue interlocuzioni sul campo, mutando il canone di un genere da recensione a incontro, da lettura a lettera, in un dialogo che più
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sembra farsi assertivo e più chiede invece di essere contraddetto. Dalla selezione sono rimaste escluse pagine importanti, riguardanti alcuni giovani poeti che ben avrebbero meritato di apparire. Questo è accaduto per due motivi. Il primo è di natura materiale. La prima sezione di questo e-book raccoglie infatti quasi integralmente gli scritti del blog “Fonti coperte”, tenuto sul sito de “LʼUnita” dal 2013 alla sospensione della testata, nellʼestate del 2014. Va da sé che autori che in questo biennio non hanno pubblicato libri, o le cui opere per limiti di tempo non ho potuto leggere o assimilare, non sono presenti. In secondo luogo il filtro adottato ha escluso le pagine più deboli composte negli anni per molteplici testate, le cosiddette “recensioni semplici”, raccogliendo solo quei brani che contenessero in sé un discorso più ampio di poetica e di estetica, che potessero dunque formare nella successione un ordito, uno sviluppo di pensiero. Ne consegue, anche, che tutti i riferimenti biobibliografici sono relativi allʼanno di stesura dei brani. Vale a dire che in alcune pagine si accennerà a libri inediti che nel frattempo hanno trovato veste
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editoriale, oppure si presenteranno opere ultime o uniche che attualmente non sono piĂš tali. Oppure, ad esempio, ci si riferirĂ ad un Roberto Roversi ancora in vita, pochi mesi prima della sua scomparsa. Questa pubblicazione, insomma, non intende fornire nessuna mappatura esaustiva del presente ma solo offrire alcuni casuali elementi di dibattito, la cui origine sia ignota e non lineare almeno quanto la finalitĂ .
[DN, 2014]
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Lettera a un giovane poeta in Italia (2013-2014)
Lettera a un giovane poeta in italia
Dovessi individuare due parole per descrivere questi anni io direi: “separazione” e “rimozione”. La separazione avviene per mezzo della soddisfazione virtuale della socialità, i nervi sembrano appagati nell’auto-intrattenimento del social network e la cognizione del dolore è occultata. La rimozione è invece un processo di smaltimento di ciò che un determinato sistema, neuronale o politico, considera come una minaccia o un peso. Ad essere rimossa, oggi, è un’intera generazione, “un accumulo / di prole in disavanzo” per cui il meccanismo storico non ha previsto alcun presente. Il mito di Crono che mangia i suoi figli, e cioè l’epoca in cui stiamo vivendo, rimuove a sua volta il proprio sistema culturale e filosofico di riferimento.
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Come spiega il filosofo Mario Perniola, ciò avviene come una forma di protezione da sensi di colpa strutturali. L’organismo-società smarrisce la coscienza di sé esattamente come l’omicida rimuove il proprio raptus o rovina nella nevrosi di fronte a una contraddizione troppo grave. Un poeta ha il “compito” di scoprire nuove verità, cioè di trovare una differenza “sentimentale e perciò filosofica” (Leopardi) in grado di stabilire un conflitto significativo con il dato di fatto presente, con “l’immobilità delle cose che ci circondano” e che, secondo Proust, “è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti”. Questa è la sua funzione, che è sempre una funzione di sabotaggio e di eresia. Ma dove sono, oggi, i poeti? Come le falde acquifere scorrono e si incontrano nell’underground terrestre, sotto la crosta secca della comunicazione ufficiale. I nuovi poemi “avvengono” lì dove è necessario: in una fabbrica, in una scuola, in una stanza di qualche quartiere-dormitorio di provincia, in un paese di montagna o in qualche interstizio della metropoli. Ovunque ve ne sia necessità e dove
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tale esigenza trovi gli strumenti necessari a esprimersi nelle forme del pensiero estetico. Forse non ce ne siamo ancora accorti e il miracolo della sorgente poetica si è già verificato all’interno di uno dei nostri campi nomadi o in un centro di identificazione e espulsione. Forse non sarà più un nativo a comporre il poema della nuova Europa. La storia non è finita, la ricerca è aperta e il fermento continua, anche se non se ne parla. Ma perché non se ne parla? “Fonti coperte” sarà un blog impuro, di poesia e realtà. Non una rubrica per addetti ai lavori ma un taccuino digitale di provvisori appunti a margine, uno spazio in cui si cercherà di sviluppare una ricerca sul campo della realtà italiana a partire dalle nuove Opere di poesia e prosa d’arte, ma anche live, performative o audiovisive. Insomma: troveranno qui spazio alcune delle operazioni estetiche di maggiore qualità e valore che abitano e agitano la realtà non rappresentata della nuova scena letteraria italiana, con un particolare interesse nei confronti di tutto ciò che agisce, per “privilegio” d’anagrafe, nell’ombra o controluce, irregolari e borderline trovatori del “nuovo dentro l’ignoto” (Baudelaire).
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È molto difficile stabilire un dialogo, oggi. I corpi si sono quasi dissolti nella Rete. Il dogma presente ci condanna alla solitudine, alla finzione dei “contatti” senza affetto, senza abbraccio, senza bacio, a morire senza conoscerci veramente, senza esserci mai stretti né raccontati. Ma se il mio sogno si unisce al tuo, se due orfani si incontrano nel deserto, ecco che può nascere un nuovo viaggio. L’onestà sentimentale risiede nel coraggio di individuare la prigione che ci umilia e soffoca senza il timore o la vergogna di non essere compresi. Qualcuno in ascolto c’è, anche tra questi pixel. Ci stiamo aspettando?
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Il poeta in prigione: Beppe Mariano
A chi dovesse chiedermi chi è Beppe Mariano, nome sconosciuto ai più, risponderei che Beppe Mariano è il più grande poeta vivente. Mi si opporrà che secondo tutti gli studi che contano, in un determinato ambiente, tale nome non risulta esistere; ed è vero. Io credo però che vi sia un vizio all’origine nel milieu letterario italiano: quello che fa sì che la critica non interpreti la realtà reale delle estetiche in atto (per cercare di comprendere che cosa accade o accadrà ad una storia che è innanzitutto la storia di una lingua e delle sue metamorfosi), ma elabori e diffonda teorie da laboratorio per andare poi alla ricerca di affiliati che le dimostrino ed eseguano ideologicamente.
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Questo è il motivo per cui poeti irregolari come Dino Campana o Umberto Saba non saranno mai compresi in vita, poiché inservibili, non utilizzabili ai fini della diffusione di una dottrina accademica. I poeti irregolari non eseguono nessuna teoria di terzi ma la desumono in prima persona da ciò che incontrano lungo il cammino. Beppe Mariano appartiene a questa famiglia. Nato nel 1938 in Piemonte, ai piedi del Monviso, “tra i boschi / come un fungo dimenticato”, la sua visione estetica si sviluppa per stratificazioni tra mitologia montana ed esperienza della metamorfosi antropologica (ai limiti estremi del cyborgmorfismo cronenberghiano, come nella successione di liriche dedicate ai propri crash automobilistici in cui ritrova nello schianto una connessione con la natura perduta, un rito che può avvenire solo per mezzo di un’accelerazione autodistruttiva del mezzo tecnologico). Negli anni ’70 vive l’esperienza della reclusione presso il carcere di Saluzzo a cui dedicherà uno dei suoi libri più belli, Notizie dalla Castiglia (1973), e su cui ha fondato tutta una propria metafisica della prigionia del corpo individuale nel meccanismo storico e della poesia come esperienza mistica del
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ritorno ad un’origine scissa, ma anche come esercizio della comprensione e dell’assorbimento del trauma presente. Perché tutto è Mariano fuorché un regressivo e, persino quando canta assieme ad Hölderlin le deità della montagna, il suo incedere è sintonizzato sul ritmo prosastico della storia globale: “Sembra questo l’ambiente / adatto per passeggiare. // M’accorgo invece che sto correndo / comicamente sbilenco, come / se una bomba stesse per scoppiare.” In Verde celeste sclin (Asincronia tra suono e immagine), uno dei poemetti più politici di Mariano, l’autore interviene direttamente nel dibattito in corso sulla crisi della sinistra in Italia: “Troppo ci siamo compiaciuti di essere / la nuova specie affluente, certi / che bastasse marciare per incamminarci / solarizzati nella direzione della storia, / come ad una marcialonga.”. La conclusione è un distico fulminante, di sintesi profetica, che meriterebbe di aprire un workshop sul destino delle forme della politica nella postmodernità: “Si ha bisogno non d’una verità costante / ma d’una costante in una verità mutabile.”.
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Nell’estate del 2012 Beppe Mariano ha pubblicato per Aragno Editore la sua opera omnia, con il titolo Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011), che è uno di quei libri che accadono raramente nella storia di un popolo e che meriterebbero di essere conosciuti e tramandati. Ma esiste ancora un popolo? Esiste ancora una comunità interessata a condividere qualcosa? Ha ancora un senso parlarci in lingua italiana? “La ragione è scritta sui rovi”, cantava Syd Barrett, come la pelle secca della muta che indizia primavera. Un messaggio in bottiglia, consegnato al mare. Qualcuno, poi, verrà? Tu che leggi, andrai? La tavola è imbandita, qualcuno ti aspetta e dice: “Cominciamo insieme a fiorire”.
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Gli stati di assedio di Mariangela Guàtteri
Il corpo della poesia è da sempre abitato da due anime. La prima è sorella delle arti visive e plasma la scrittura come un oggetto fisico, mentre la seconda discende dal teatro e dall’opera lirica, dal poema e dalla canzone trobadorica. Se la prima tendenza ritiene che la scrittura sia in grado di produrre una comunicazione visiva immediata, la seconda intende la parola nella sua funzione evocativa di immagini e significati. Una tela monocroma o un taglio di Fontana assumono cioè senso in un contesto che è l’evento materiale, il viaggio dello spettatore nel percorso espositivo e l’apparizione dell’oggetto-quadro, mentre un romanzo di pagine bianche o tagliate risulterebbe un’operazione non sorprendente, non
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incisiva proprio perché il contesto in cui si agisce è quello della mediazione linguistica e non dell’immediatezza fisica. È possibile controbattere che quando la poesia entra in scena, immettendosi in un contesto ambientale o nel rito della rappresentazione, essa diventa un elemento fisico a tutti gli effetti: un happening. Le esecuzioni verbo-foniche di Patrizia Vicinelli (Bologna 1943-1991) o di una dei suoi migliori eredi come Sara Davidovics (Roma, 1981) sono degli oggetti estetici reali, operazioni d’arte audiovisiva, installazioni di corpo e voce. Naturalmente la realtà non è uno schemino e in ogni poeta che si rispetti convivono in maniera diseguale entrambe le funzioni, in un conflitto senza sintesi e generatore di differenze. Dire che la lirica è finita o, viceversa, che la poesia non può essere arte concettuale è un fare bagatelle indegne di considerazione. In arte tutto può e niente deve, i professori interpretino la poesia ma non cerchino di manipolarla ideologicamente. C’è posto per tutti a questo mondo e ognuno ha la propria porzione di verità scoperta da mostrare, con la sua voce e a suo modo.
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Una dei principali esponenti di una nuova poesia di ricerca in Italia, attigua alle migliori sperimentazioni del postmoderno europeo, è Mariangela Guàtteri (Reggio Emilia, 1963), il cui corpo artistico muove da un’area liminare tra posthuman (lo slittamento del soggetto implicito dall’io umano al mondo degli oggetti anche inorganici e meccanici), arte elettronica e Glitch art (l’estetica del bug, dell’errore digitale come apertura di senso). Il suo primo libro è Carbon copy [Cc] (Il Foglio, 2005), con un’introduzione di Gian Maria Annovi, alla cui terza edizione è stato allegato un CD contenente l’audio di un’esecuzione live per voce dell’autrice e tromba minimale del jazzista Giacomo Previ. Nel gergo telematico la Cc è la copia di una mail che si inoltra per conoscenza ad un contatto diverso dal destinatario della comunicazione. Così anche il lettore del libro è partecipe di una serie di messaggi scarnificati come lembi di chat in moduli neo-espressionistici che riguardano una storia d’amore, un crimine avvenuto e la tragedia di una morte. Il lettore partecipa allo svolgersi del testo mimando il moto voyeuristico dell’utente anonimo nell’epoca del web che abolisce la privacy per guardare tutto senza vedere niente, violando il
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mistero della vita dell’altro senza poterla intendere fino in fondo, profanando con provvisorie keywords il tempio enigmatico dell’esistenza altrui. Dopo aver dato alle stampe un breve canzoniere orfico di trasmutazione amorosa dal titolo EN (d’if, 2009) nel 2011 esce per Anterem Stati di assedio, opera vincitrice del premio Montano. Qui complessità e interconnessione tra dati, tutti i paradigmi reticolari della postmodernità come contemporaneità di accadimenti simultanei e comunicati, resi da sé stessi informazione e status, formano l’estetica di un trittico scandito in tre Neurosi, cioè in tre scissioni del sé: potere, piacere e dolore di una carne iniziata ad una nuova Legge, quella dell’evaporazione del corpo solido in visione virtuale, in sacrificio sadomasochistico autofilmantesi, tra avanguardia e prigionia, stato di eccitazione performativa e regressione nelle stanze ermetiche dell’amnio digitale. Io credo che dovremmo essere molto grati a Mariangela Guàtteri, per un lavoro di ricerca che andrà studiato e compreso, che riguarda tutti noi e le forme del mondo in atto e di domani, fonte di pensiero estetico che rende questi anni d’Italia molto meno vani di quanto possano apparire nella
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comunicazione ufficiale delle cose che ufficialmente accadono e che probabilmente non esistono.
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Un incendio per cause sconosciute: Bianca Madeccia
Esiste un bel libro di poesia di cui si è poco parlato e che è rivelatore di una delle aree estetiche della contemporaneità: il ritorno al tragico, anche detto il neo-antico. Si tratta di Variazioni sul buio di Bianca Madeccia, una silloge di venticinque brani edita nel 2010 dalle Edizioni Confronto. Bianca Madeccia non è un’autrice sconosciuta, è attiva da diversi anni e chi frequenta l’ambiente romano ha già incontrato il suo nome. Eppure un velo di nostalgica inquietudine, uno stato di allerta e tensione, rendono il suo canto inesorabilmente distante, fatalmente fuori sincrono dal coro della polis, come un’Antigone fedele a qualche luce
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interiore, a qualche “cripta incorporata” dove il lutto si è reso voce, nuova coscienza nell’ordito polifonico che chiamiamo il pensiero. Il nostro presente storico è un lutto non elaborato. Dovremmo imparare ad aprire gli occhi, a prenderne coscienza. L’arte serve a questo, a comprendere: cioè ad “introdurre in sé”. Esattamente al contrario dello Spettacolo, la cui funzione è quella di coprire e di intrattenere dal pensiero. Le Variazioni sul buio di Bianca Madeccia sono dei piccoli oracoli che custodiscono il peso di una visione grave. Leggerle significa anche tornare a fare i conti con l’ultimo film di Lars Von Trier, Melancholia (2011), opera gemella e complementare. In Melancholia un’eclissi di sole si trasforma nella catastrofe di un asteroide che entra nell’orbita terrestre. Solo la lunatica Justine, una delle due sorelle protagoniste del dittico, percepisce la gravità dell’evento. Per il resto dei familiari si tratta solo di un prodigioso spettacolo di cui essere spettatori come al cinema. In Von Trier, come è noto, manca ogni possibilità di intervento salvifico dell’uomo sul proprio destino per cui tanto l’intrattenimento
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passivo quanto la coscienza estetica conducono alla medesima condanna. Nel libro di Bianca Madeccia la fine non è segnata dal dogma del Nulla. Si registra uno stato di calamità, un’eclissi storica ove divampano delle visioni cassandriche che segnalano, nel linguaggio oracolare della tragedia greca, un pericolo imminente ma non fatale. Si pensi ad esempio a come questo testo, composto nel 2009, possa risultare in qualche modo profetico se collegato alle cronache dell’incendio della Città della Scienza di Napoli, avvenuto nel marzo del 2013: “Un incendio per cause sconosciute / porterà via la speranza, / così antica, così saggia, così utile a molti, / un incendio per cause sconosciute / spazzerà via ogni desiderio di essere felici, / un incendio per cause sconosciute spegnerà il fervore, / il dolore dei giorni che passano, / la scienza incerta e la ricerca di verità, / dono crudele che infesta la terra e la prepara”. L’incendio del testo è chiaramente un archetipo più vasto di ogni individuazione storica. Eppure resta ignoto il modo in cui taluni arcani riescano casualmente a inverarsi in qualche imprevisto accadimento, come presentimenti che nel corso del
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tempo fioriscono proiettando la propria ombra sulle molteplici dimensioni del divenire storico e individuale: “Dacci la chiarezza massima, concedici il fuoco, / perché noi ardiamo dal desiderio di vedere, / ardiamo dal desiderio di non sopravvivere / ardiamo di buio nel buio verso il buio.”. La poesia è questa volontà di vedere dove non si può vedere, di spalancare gli occhi ovunque e sempre.
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La zattera di Odisseo di Marco Di Salvatore
Accade questo, che un ragazzo scende a Roma da una piccola frazione di Gioia de’ Marsi, in Abruzzo, e indifferente al fato – e al fatto che “oggi tutto questo non è più possibile” (essere un attore di poesia, inserire la voce in un teatro di opera), tutto questo semplicemente lo fa. E in questo nuovo “dato di fatto” che sostituisce il precedente, il ragazzo non è più un ragazzo ed è diventato un artista, cioè un artefice del sé. (Si può esserlo anche non producendo manufatti: Roversi proponeva di costruire una grande enciclopedia dei “gesti d’arte” del Novecento, inserendo al suo interno anche le azioni sportive o politiche più significative. Sarebbe bello immaginare di montare in esso tutti i grandi “gesti d’arte” del quotidiano,
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componendo un’enciclopedia infinita delle memorie individuali e collettive…) Accade questo quindi, che un ragazzo a un certo punto dica di “No”, come L’uomo in rivolta di Albert Camus. Che un ragazzo dica: fino a questo punto vi ho concesso di determinare la mia esistenza lungo un percorso privo di finalità; da questo preciso istante non sarà più lecito. La rivolta ha inizio come una linea tracciata che scandisce il tempo e battezza una nuova epoca. Emilio Villa, durante la seconda guerra mondiale, prese a tradurre l’Odissea di Omero. L’opera, che ci restituisce il poema nella sua voce più filologicamente corretta (e paradossalmente contemporanea), fu pubblicata nel 1964 e dal 2005 è nuovamente disponibile per la casa editrice Derive e approdi. Marco Di Salvatore (1984) è un giovane attore e autore di teatro lirico, voce di poesia e pensiero. È anche uno studioso di musicologia e filosofia estetica. Le due aree non sono separate perché la sua operazione, per chi lo ha già visto in scena (ha portato L’Italia sepolta sotto la neve di Roversi al Teatro India, al Margot e al Sinister Noise di Roma), si presenta come un unico nodo di riflessione sulla
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storia (e quindi, oggi, sulla storia della comunicazione) e di canto lirico. Ultimamente ha reso disponibile in rete un’opera video-sonora in tre atti dal Quinto canto dell’Odissea tradotta da Villa, dal titolo La zattera di Odisseo, che porta anche in giro in forma di proiezione cinematografica. Nella prima parte del film lo schermo è nero, come la nostra cecità. La lingua dell’attore incastonata in un ordito di riferimenti musicali e rumoristici scandisce idee che Ulisse vide e che non sono più rappresentabili. Ci parla di una vista che non può più essere vista e si inserisce in un vasto dibattito estetico sulla crisi dell’immagine e sulla funzione primaria del suono. La luce avviene come ouverture della seconda sezione, ed è una nascita al mondo della comunicazione. Un cartone animato è il filtro visivo della prima interpretazione della creatura al mondo. Si sussegue un montaggio debordiano, un naufragio da Youtube e televisione commerciale in cui si dispiega un’intera formazione antropologica e generazionale. Attorno ad essa continua a svilupparsi l’epica di Ulisse nella tempesta, mentre un ragazzo che è anche l’autore dell’opera appare
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sullo schermo, scende dal treno L’Aquila-Roma (ce lo dice il sonoro), mentre l’universo dei segni esplode in un turbinio di simboli alfa-numerici franti; si avvita su sé stesso come il Grande raccordo anulare, a vuoto. È l’avvento del web, ma anche lo scoglio dove Odisseo si arena e deve gettarsi in mare, per proseguire a nuoto. Ne risulta un’opera tragicomica, paradossale e auto-ironica, ma anche filosofica e grondante di pensiero tra mito, rivolta individuale e impossibilità storica, che dimostra anche cosa possa essere prodotto, oggi, a partire da un piccolo notebook, in una stanza in affitto. Dalle fonti coperte dove si agita la nuova generazione dell’arte italiana. Buona visione.
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Dina Basso e le mele di Tony Harrison
Una poesia di Tony Harrison dal titolo “I doni di Afrodite”, che in Italia si trova nella raccolta In coda per Caronte (Einaudi, 2003), si apre con una splendida rappresentazione seicentesca di un fico caduto a terra, sfuggito alla raccoglitrice, agli uccelli e ai gitanti, finalmente libero nella solitudine di esprimere la danza del proprio ciclo naturale e spalancarsi come un “velluto di teatro d’opera di pistilli divelti, / porpora carminio per vermi”. A leggere certi versi pastosi come pitture ad olio viene fame. Viene voglia di correre in campagna a ritrovare il vecchio fico dell’infanzia, sbucciare un frutto e addentarne la “pila di vestaglie lussuose”. A leggere certi versi, soprattutto, ci si ricorda che esiste la campagna, che esiste il vecchio fico e che
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esiste questo desiderio rimosso. La poesia è un campanello di Pavlov che risveglia la memoria della vita che manca. Franco Fortini sosteneva che anche dipingere il mare può essere considerato un gesto politico se la visione del quadro rende palpabile nel cuore dell’osservatore la nostalgia del grande spazio, se invita a prendere coscienza di uno stato di prigionia non naturale dei corpi nella ripetizione dell’identico che è la vita sociale. La nuova poesia italiana difficilmente fa venire fame. Persa in cavilli linguistici e astrattismi concettuali, nella volontà burocratica di dimostrarsi aggiornati alle teorie dei critici, nel migliore dei casi fa venire noia. Sia chiaro, in arte (se si possiedono competenze tecniche e coscienza estetica, e cioè una relazione anche conflittuale con l’insieme della tradizione) tutto è possibile e nulla è dovuto, per cui la scelta di praticare una poesia concettuale o lirica, narrativa o visiva, di sperimentazione radicale o di reiterazione e riuso del canone, è sempre legittima. Meno legittima è la violenza di chi vorrebbe sterminare (e cioè: non fare più esistere) le realtà poetiche non gradite, come se esistesse una
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evoluzione lineare dell’arte che tutto comprende e a cui bisogna essere sottomessi. Attorno alle rivelazioni del critico-vate gli scrittori che vorranno essere considerati “aggiornati” dovranno uniformarsi. Ad esempio, se si afferma che oggi non è più possibile scrivere in prima persona singolare non si sta facendo critica letteraria ma proselitismo, poiché non si analizza la realtà ma si diffonde un credo che chiede adesione e omologazione. Sempre Tony Harrison, in una poesia dal titolo “Fruttilità”, scrive: “Queste tetre scempiaggini / non guasteranno mai le mie mele materne.”. L’estetica non risponde a nessuna linea evolutiva e il suo intreccio polifonico assomiglia al movimento di una foresta in cui il ricercatore, e cioè il viaggiatore curioso, si addentra privo di teorie precostituite. Quale seme si radichi non può essere previsto. Tra assolute novità, straordinari innesti e incredibili ritorni la natura si espande contemporaneamente in tutte le direzioni possibili. Una delle piante meno prevedibili e che più mi hanno stupito in una delle mie passeggiate boschive si chiama Dina Basso.
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Nata nel 1988 a Scordia, in provincia di Catania (a un passo da Lentini, il paese del grande Jacopo), Dina Basso ha pubblicato uno stranissimo libro nel 2010 per le edizioni “Voci della Luna” di Fabrizio Bianchi dal titolo Uccalamma — Bocca dell’anima. L’apparizione di questo canzoniere tragicomico e neo-trobadorico, composto in dialetto catanese da una ragazza di vent’anni nel frattempo domiciliata a Bologna per gli studi universitari è stato senza dubbio un evento forte e particolarmente riconoscibile nel panorama della poesia italiana del Duemila. Innanzitutto l’evento si contestualizza a seguito di un lustro, battezzato nel 2005 dall’antologia Parola plurale (Sossella), in cui si è teorizzata con insistenza la fine della poesia lirica. Ecco, Uccalamma è un libro sfacciatamente lirico, ribollente di desii d’amore come un sugo da girare («Mescolando il sugo / salgono sopra sopra / tutte le cose che a forza / avevo calcato al fondo / (macinato, cipolla e salsiccia). // Anche io, / ogni tanto, / dimentico di mescolarmi i pensieri, / e si attaccano tutte le cose / nel fondo della mia testa.»). Accade quindi che sul davanzale della finestra di un grande convegno in cui si sta ufficializzando l’estinzione degli usignoli, si posi un usignolo e
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prenda a fischiettare allegramente, nell’imbarazzo generale e del relatore che cerca invano di abbassare la tapparella. Inoltre: dire “lirica” vuol dire individuare il contorno del disegno ma non il colore del dipinto né il tratto del pennello, che sono il cuore di ogni operazione artistica. In letteratura il disegno è il contenuto mentre la pennellata e i colori sono la lingua. Di che lingua è fatta questa poesia di Dina Basso? Della sostanza delle mele della madre di Tony Harrison, dei fichi scappati alla raccoglitrice e che si spalancano a terra, o meglio ancora della arance di Scordia: succo e materia, semi, amalgama del basso naturale. Non a caso dico “naturale” e non, come si usa, “basso quotidiano”. Perché non siamo nel canone di una lirica acquerellata che dipinge le situazioni della vita corrente in maniera poetica, separando il grazioso dall’impoetico volgare. Siamo nel magma di una materia primordiale e campestre, che gronda in ogni luogo del presente come un archetipo rigenerato nel tempo comune, popolare e cristallina come l’acqua sul fuoco che ribolle in tutte le tonalità che è in grado di rivelare e
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non ha paura di ridere, e non ha paura di disperarsi, e non ha paura di dire ciò che vuole e come vuole, e non ha paura di spalancarsi come una voragine, un piccolo frutto o una bocca dell’anima. «Se nei solchi del dolore / può nascere ancora qualcosa, / vorrei che fosse la mia e la tua / la semenza. / Ma ci vorrebbe / – un’altra volta – / sudore da buttare sotto il sole, / l’acqua che non c’è / – e costa cara – / e la pazienza di aspettare / un’altra estate, / altri mesi, / prima di vedere cosa spunta / e cosa possiamo raccogliere, / e soprattutto / se di questo / soltanto / possiamo vivere.» Buona lettura.
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Il Dedalus di Raimondo Iemma
I. Una formazione musicale è il libro più politico di Raimondo Iemma (1982), poeta lirico per vocazione e appartato in qualche interstizio dell’esistenza dove «l’occhio è tutt’uno con la mano» e «tutto è diverso, tutto è reale». In esso i grandi avvenimenti della storia contemporanea, le scenografie storiografiche del presente mediatizzato, non sono neppure pensati. Il quadro è infatti integralmente dedicato alla microstoria di un uomo, nel passaggio inquieto tra gioventù e vita, e ai suoi appunti sentimentali: l’amicizia, un amore, il corso del tempo e l’ «eterno del presente» di alcune situazioni urbane e occasioni di viaggio.
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Ma un fiore è anche la pioggia che l’abbevera e i detriti che scioglie nel nutrimento terrestre. La materia nulla scorda e ogni petalo contiene in sé l’ordito del mondo. Il Dedalus di Iemma, questo io-poetante torinese completamente assorto nella contemplazione dei palazzi e nel dialogo serrato con un passato-presente impresso in ogni segnale della propria città-mondo, porta con sé comunque le stigmate di un’esperienza storica. Più precisamente, egli contiene l’esperienza sottocutanea del regime storico della comunicazione traumatica. L’ombra del crash, dell’incidente o della sciagura spettacolare è un velo di Maya inchiodato allo sguardo, come un inconscio politico che condiziona e drena le forme dell’io. Per cui partire è anche l’idea di un «incidente aereo» visto «ai confini di una sala d’aspetto» mentre «una mensola [che] cede / è il crollo stesso a venir giù» e l’allegoria onirica di una cesura esistenziale è «la notte in cui una donna estrasse un’arma / e me la puntò in fronte, premendo / il grilletto prima ancora che le dessi / ragione di questo abbattimento».
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Ma il trauma, insistente, è anche inesistente. Esso è la persecuzione intangibile di una causa senza effetto continuamente reiterata. Così anche il vero scontro, un incidente stradale che nella trama del racconto in versi avviene a Roma, lascia il soggetto intonso, consegnandolo a un successivo «inganno del presente / senza dialogo» dove il «corpo / attende ancora di avvertire quello schianto». Esperienza sottocutanea e stigmate non dichiarate, dacché il libro parla del suo esatto contrario, e cioè del bisogno del soggetto di liberare se stesso non solo dagli schemi interpretativi della propria cultura di riferimento e reinventare, rimbaldianamente, l’amore come uno sguardo sull’altro, ma anche dalla necessità di porsi per questo in un rapporto dialettico e conflittuale con i canoni del mondo rifiutato. In termini stilistici, il rifiuto non conflittuale della poesia di Raimondo Iemma non intende rappresentare un modello alto o basso da contrapporre alle forme convenzionali del presente ma uno scarto obliquo, che esprima il diritto di vivere nonostante eppure dentro una realtà (anche formale) minore: «La casa è conosciuta, la chiave
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unica, le alterazioni limpide, dichiarate. Lo strumento non soffre, e c’è tempo, spazio per improvvisare. Ma tra i pochi accordi, tenere fissa una nota, la stessa nota a cantare non è esercizio facile, si direbbe occorra amore.». Anche il desiderio di Rivolta, che nomina un capitolo cardine dell’opera, è la ricerca di una guarigione umana dalla peste storica e del tempo che non pone in sé un’alternativa superomistica, metafisica o post-umana e degradante, come in molte delle rivolte novecentesche o postmoderne. La rimozione concettuale della sensibilità comune è un’opzione esclusa quanto il confino nel dogma di una quotidianità non problematica: il poeta lo dichiara ad apertura della raccolta, in una dedica-manifesto rivolta agli amici, epifanie imperfette ed infinite di questo nuovo sentimento limpido e complesso. Un’eresia dell’incontro sognato contro la norma del silenzio sociale e la distanza «tra i luoghi della / mente e lo spazio fisico dei corpi», la cui unica via di fuga o valvola di libertà espressiva è forse nel linguaggio intraducibile e irriducibile della musica, in particolar modo della forma-canzone: «A me
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piace la musica leggera», come dice limpidamente una voce, tra le tante, del coro. Sullo sfondo dell’intera opera è infatti una Scuola di musica, col suo tappeto graziosamente disarmonico di fraseggi e lezioni simultanee, un intreccio di errori, stonature e motivi acerbi o in formazione. Ad essa somiglia il sogno della vita autentica e non-determinata che il libro ci consegna, come una dedica impossibile ad un fratello immaginario, lo sconosciuto alter-ego disperso nel labirinto delle possibilità sfiorate o mancate. Quale misterioso dirimpettaio, a pochi passi dalla nostra esistenza, ci invita all’ascolto di una canzone lieve? «Se un pomeriggio ci fossimo parlati / dalle finestre, con parole bambine / né io né lui saremmo più cambiati / nei nomi e nell’aspetto, avremmo / fermato il tempo.». È proprio lui il protagonista in ombra di quest’opera.
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II. Perché parlare di un libro che ancora non esiste per presentare un manufatto precedente, come il luglio edito nel 2007 dalle edizioni “Lampi di stampa” di Valentino Ronchi? Esso è già un reperto, quanto i vent’anni per un giovane uomo che si sentiva vecchio come Gozzano a venticinque anni e che ora risiede nell’informità di una adolescenza, prima dell’uomo socializzato. Entrambe le dimensioni coincidono e sono pretesti arbitrari per porsi all’esterno di un canone generazionale, fuori dalle forme omologate della vita socialmente scandita. In luglio questa tensione è tutta tra le righe e infatti il testo parla di altro e rivela la vita che capillarmente abita la mappatura sociale. Se ci trovassimo di fronte a un’opera visiva avremmo cioè uno stradario, con tanto di bollo catastale, dal cui zoom apparirebbe il volto di un ragazzo che percorre le strade di Torino e a lato, al posto delle indicazioni stradali di Google Maps, una successione di versi. Indicativamente, come cifra stilistica, vi è sempre questo contrappunto tra lirica e radiografia,
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uomo e Stato: non Storia politica ma apparato burocratico, macchina statale. Questo non crea un effetto ironico, non è lo straniamento il fine dell’operazione ma l’indagine della rappresentazione e della cognizione del dato di fatto. Quali mondi segreti si celano nel sembiante visibile o analizzabile, tra i gesti del ruolo o del rito non necessariamente fordiano e alienante ma anche umanistico ed arcaico, come nel caso della signora che pulisce la frutta o dei ragazzi che stazionano a una ringhiera con le braccia a penzoloni, in silenzio? Iemma non interpreta sociologicamente o antropologicamente l’evento ma interroga l’altro cercando un principio individuale di disvelamento, una maglia rotta nell’interfaccia visiva. Dato per assodato come in Vattimo l’automatismo rituale di ogni costruzione antropica, la lirica punta l’occhio sulla luce anomala che può essere intravista da qualche interstizio o grata di prigione o fessura della maschera o finestra o sguardo. Per questo anche la cassetta postale di un vicino, stracolma di lettere e di pubblicità, indica un’irregolarità su cui occorre prestare attenzione. Si tratta di una morte? Di una malattia? Di una
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solitudine? Di un cambio di domicilio? Di un viaggio? Le sue domande non avranno risposta. In ogni oggetto egli trova una porta da aprire, che non potrà essere aperta ma che viene indicata come presenza di una serratura e coscienza di un altrove. Anche dietro la parete della stanza da cui sto scrivendo o da cui mi state leggendo accadono cose importanti, si annuncia un evento che andrà via non colto. Questo discorso potrebbe prolungarsi all’infinito. Lo stile della digressione rende inconcluso ogni tragitto mentale e io stesso non ho parlato molto della poesia di Raimondo Iemma, come mi ero ripromesso, ma di uno spazio bianco tra un verso e l’altro dove si annidano parole e pensieri che vengono subito prima o immediatamente dopo la parola scritta. Ma è proprio nella corrispondenza tra spazio bianco e lettera che risiede il senso di un’operazione estetica che reputo centrale nel panorama della nuova poesia italiana del Duemila: «Appena diciottenne fui maturo quanto serve / e poeta per ciò che non scrissi / (ancora non sapevo che ciò che non scrissi / mai e poi mai si potrà cancellare).». Buona lettura.
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L’esordio di Manuel Micaletto
Un dato di fatto: una delle esperienze-chiave di questi anni di poesia in Italia ruota attorno all’evento Ex.it 2013. Alcuni dei migliori esponenti di una poesia di ricerca degli anni Duemila, che intende superare gli abbagli del postmodernismo per fare i conti con i temi reali della postmodernità (su tutti: la relazione dell’umano con il virtuale), si sono dati appuntamento tra il 12 e il 14 aprile ad Albinea, in Emilia Romagna, per una tre giorni di incontri e letture organizzata da Marco Giovenale, Giulio Marzaioli e Michele Zaffarano in collaborazione con Mariangela Guatteri, poetessa e video-artista emiliana di cui ho già scritto il 22 aprile 2013.
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Ne è derivata un’importante antologia, per chi vorrà analizzare una delle più movimentate aree mutanti della cultura poetica italiana, dal titolo Ex.it – Materiali fuori contesto, contenente scritture in versi, prose poetiche (o di “Prosa in prosa” secondo una definizione di Jean-Marie Gleize; slegate da ogni cappio di scrittura metrica o ritmica, verbofonica o di tradizione retorica), e opere visuali di autori italiani e non solo: si pensi alla presenza di Rosa Menkman, artista e teorica olandese, tra i più importanti esponenti della “Glitch art” mondiale: l’arte dell’errore digitale come rivelazione di un altrove espressivo ignoto e inesplorato per gli abitanti del Sacro-Profano della postmodernità (l’infrazione del codice binario è un’infrazione metafisica), epifania di un’incongruenza strutturale per i post-marxisti. Ad ogni modo siamo nella dinamica del “sospetto” e delle sue molteplici declinazioni. L’autore più giovane di quest’opera collettiva, a cui voglio dedicare questo breve ritratto a “lampi”, è Manuel Micaletto, classe 1990, di Sanremo ma domiciliato a Milano per gli studi universitari. Chi vagamente frequenta il piccolo ambiente virtuale della poesia italiana avrà già fatto i conti con questo
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nome per il fenomeno del trolling, il gioco dadaista al sabotaggio di conversazioni sociali, di cui Micaletto è stato indomabile alfiere sotto il nickname di Lurkerror per alcuni anni, manifestando una rara capacità performativa in grado di tradurre la piattaforma angosciante del social-network versione poeti in una piece teatrale dell’assurdo (ma anche del profondo disvelamento del vano), tra Cabaret Voltaire ed Emil Cioran. Il dato, in sé insignificante (o aneddotico di un uso ad affondare con naturalezza negli interstizi della nuova tecnologia; cosa che di fatto avviene anche nel testo in cui i brandelli di una lingua letteraria si manifestano nella continua interferenza con il cyber-linguaggio), val la pena invece di essere considerato per ciò che rivela, e cioè il suo contrario. Arrivo alla tesi del pezzo. Non ci troviamo di fronte ad un erede dei Novissimi, a un nuovo Balestrini che rifacendosi a Dada destruttura la semantica del mezzo. No. Ci troviamo di fronte al canto naturalmente liturgico e anche teologico (tutto anelante al dialogo con un Dio dell’assenza e del vuoto) di una “Nuova carne” mutata che si manifesta nelle forme tragiche di una desolata crudeltà come scudo protettivo di una unicità nuda.
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È il ghigno tragico dello sgomento in Baudelaire, il gelo di chi ha perduto il riso e l’umano; è l’occhio spalancato nella voragine pornografica del meccanismo che tutto move e che non può chiudersi. Vorrei dunque capovolgere il preconcetto e sostenere l’idea di un Manuel Micaletto come poeta di ispirazione sostanzialmente lirico-crepuscolare (in una linea che puntellerei con i nomi di Leopardi, Corazzini e Rilke, per iniziare), ma che naturalmente si esprime nelle lande (e cioè nelle forme; e nelle lingue) dei “Nuovi paradigmi” teoricamente esposti da Marco Giovenale su “gammm” (Cambio di paradigma). La cronologia bibliografica di questo giovane autore è breve. A seguito di un ebook per lo più in prosa pubblicato su gammm (A vario titolo, 2011) Micaletto vince il premio Opera prima del Premio Montano e pubblica per Anterem il libro di poesia Il piombo a specchio (2012). La caduta biblica nella vita individuale, dall’unicità del vuoto della pre-esistenza al molteplice condannato a vivere, ad apprendere i linguaggi storici, a ripetere eternamente la farsa (per dirla con il Blanqui de L’eternité par les astres), è l’assunto di partenza da cui si innalzano le
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tragicomiche giaculatorie del libro: “L’evento è una citazione, un virgolettato”, “Qui la fine è una funzione / del tessuto”, “Svegliarsi allora / è [...] sbucare nel secolo”, “Dicevi dei gesti / che non hanno mai conseguenze”, “Temo l’entusiasmo / degli uomini”. Solo il sonno appare come possibile via di fuga dalla infrequentabilità della vita e dell’azione, una prova di ritorno verso il grande oceano dell’inesistenza: “Vi dirò del sonno / che è una resa mesozoica / e la resa dei mobili, mobili, squamata – poi altro – un canale / della trachea, o una varietà / dell’estinzione. / Probabilmente, la fine di un’era geologica”. Nelle nuove prose a cui Micaletto sta lavorando in questo momento, alcune delle quali sono già state pubblicate su Nazione indiana (Compendio minimo della sproporzione), torna con una maggiore carica eversiva e visionaria, da Conte di Lautréamont (e i Canti di Maldoror sono forse un altro punto da inserire nella linea interpretativa delle eredità), il mito del Sonno sotto forma di allegoria rovinata dal glitch dell’ironia: “che le balene volino non è certo un mistero. che somiglino ai dirigibili nemmeno. il ventre imbottito di elio, le atmosfere, l’alluminio: in
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una balena tutto, davvero tutto fa pensare a un dirigibile. perciò le balene galleggiano sulle nostre teste – ma come gabbiani, portate dal vento, senza muovere un muscolo. planano dalla ionosfera fino al nostro cielo, così basso, e vengono per noi. e noi a vederle piangiamo a dirotto, perché ci sembrano la pace. ma ciò che più ci intenerisce è la loro sbalorditiva somiglianza ai morti”. In questa ambiguità (la più profonda per uno scrittore) tra tragedia e gioco si sviluppa l’esordio poetico di Manuel Micaletto, che saluto con la più sincera attenzione. Buona lettura.
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I fiori della città ferita: Emiliano Michelini
Cos’è «il latrato del lupo che entra nelle scarpe»? È la preistoria postmoderna che si consuma nei falò delle metropoli, nel battito cardiaco che scandisce il ritmo dei non luoghi di un’Italia avvelenata e mutante, su una bava cementizia che unisce costa adriatica e pedemonte, interrompendo il classico dell’antichità rurale, in una piana successione di capanni industriali, palazzine, ipermercati e bar. Il “soggetto implicito” che abita questo mondo è un ragazzino di vent’anni, nato e cresciuto nel cuore fondo di una Non-storia che canta attraversandola con versi espressionistici e allucinati, in una prima persona franta ed enigmatica, su moduli ricavati da una tradizione orfica e suburbana che traduce Dino Campana in
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Aldo Nove passando per le esperienze di Nanni Balestrini e Milo De Angelis, ma anche attraverso il cinema di David Lynch e le lande psico-acide del Post-moderno, tra trans e iperreale ed antiestro ermetico. La logica che muove questo racconto in versi, questa anti-epica immersiva e pop della provincia italiana del Duemila, è la scrittura automatica generata da una accelerazione connettiva di parole e di immagini scritte e parlate, che salgono e battono come bassi industrial da una cassa di risonanza interna, una vibrazione interiore alla terra e alla carne storiche. È l’accelerazione di chi si trova a decifrare i quadri sconnessi dell’esistenza attraverso un filtro sopra cui scorrono i geroglifici audiovisivi di un tardo consumismo disidratato ma ancora assoluto, annodato come edera attorno agli oggetti della realtà e del quotidiano. Ed è la velocità di chi può farlo, soprattutto, solo per mezzo di una connessione alogica di immagini catturate con la coda dell’occhio, dalle corse in motorino alle estasi tecnobarocche della discoteca. Ciò che resta di tali impressioni sensoriali è la traccia di un passaggio sedimentatosi come cenere
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sopra la pagina bianca o calcare incrostato attorno alle grate del depuratore storico, quando l’età fluviale sfocia ad altro mare. La poesia di Emiliano Michelini si va costruendo per strati sovrapposti di materiali incongrui, scorie contemporanee autofilmatesi in dialoghi provvisori e disturbate immagini da videotape amatoriale anni Novanta, corrose dai pixel per mancanza di luce o sfocate dall’impossibilità di una messa a fuoco rapida. Il sipario si alza su una data simbolica. È il 1998, tre lustri fa. L’autore ha poco più di vent’anni, chi ora scrive ne ha diciassette e sta guardando il film di Schnabel su Jean-Michel Basquiat in un garage di periferia di una provincia marchigiana, assieme ad alcuni amici che inizieranno a dipingere o a leggere poesia. Ciò che accadrà solamente tre anni dopo, nell’implosione delle Twin Towers di New York e dell’immaginario globale, è lontano quanto un Nuovo evo. La ricostruzione mnemonica e alienata di questo io storico in atto, adolescente nella bolla speculativa di una Storia che si immagina finita, è il soggetto poetante che canta in presente indicativo le azioni anti-epiche di un giovane abitante di una delle tante ininfluenti propaggini del sistema globale.
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Ma in un contesto che potremmo definire postPop, e dove spesso l’ironia ha la funzione di sfigurare o di alienare il pathos tragico, fioriscono come pratoline urbane le forme liriche di un’esperienza umana. Sono piccole creature senza più nome, bianche e viola, sopra di esse passa un motorino; ma schiacciate si rialzano. Il prato dei giardini pubblici come il grande oceano tutto assorbe e perdona. Si nutre di lacrime e di pioggia, riposa all’ombra dei palazzoni a schiera. Qui passano le storie, si stratificano “le nostre impronte su questi giorni”, tracce slavate in uniposca o happy color di una generazione senza volto le cui voci si sono intrecciate in un selvatico coro di fuochi notturni ed albe raggelanti, da obitorio e claxon. È “l’urlo che ha denti per vedere”, vedere “l’orda dei teen-ager [che] muove i primi passi”, “attaccati qui con questi chiodi” o “con le dita / sul pulsante degli scooter”. È Alice nel paese delle meraviglie traumatizzate, “La ragazza [che] continua il suo calvario, non ritrova / l’altra caramella, quella rossa, esplosa come un fungo, / come un’auto disastrata, cappottata, senza un io”. La circolazione del sangue è un libro nostro, parla di noi. Buona lettura.
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Le geometrie in fiamme di Antonio Bux
“La nostra azione è sempre determinata dalla consapevolezza che solo in questo preciso istante essa può essere agita, definita in tutti i suoi caratteri, cioè realizzata. E che in altro tempo essa mai più potrà essere se stessa, essere ciò che vogliamo che sia…”. Queste parole del filosofo Andrea Emo (19011983), che, senza coltivare nessun tipo di rapporto accademico né di dialogo con i filosofi suoi contemporanei né tantomeno con più giovani allievi, compose, nel più assoluto riserbo più prossimo all’esperienza dell’oblio, circa quattrocento quaderni di pensiero in atto, possono paradossalmente incontrare, in qualche relazione postuma e arbitraria, questo volume nero edito da
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Marco Saya Editore e intitolato Trilogia dello zero, consistente opera prima di oltre trecento pagine di un giovane poeta pugliese che si firma Antonio Bux, pseudonimo di Fernando Antonio Buccelli (Foggia, 1982). Apparentemente il comportamento editoriale di Buccelli, che a trent’anni appena compiuti decide di pubblicare una sorta di auto-antologia suddivisa in tre sezioni, corazzata da una folta schiera di interventi critici (a firma di Sebastiano Tommaso Aglieco, Gian Ruggero Manzoni, Alberto Mori, Margherita Ealla, Massimo Barbato, Guido Caserza, Luigi Abiusi, Diego Conticello, Vera D’Atri e Lidia Riviello) non ha nulla a che vedere con l’esperienza dell’assenza in vita del filosofo Emo, che, intendendo l’esperienza del pensiero come “una discesa agli inferi, un’esperienza della morte e dell’oltretomba”, considerava la propria scrittura “una epistola che io solo a me soltanto intendo scritta, come al più degno corrispondente” mentre la socialità “è il nido della menzogna” e l’uomo pubblico “sa di avere fatto un patto col diavolo, di avere venduto l’anima, cioè di avere rinunciato alla verità”.
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Eppure questa Trilogia dello zero, che ha tutto l’aspetto di un’opera aperta e provvisoria e non è detto che nel tempo che intercorre dalla pubblicazione alla mia lettura non sia già mutata di aspetto e struttura, ha tutte le caratteristiche del diario di appunti postumi da un fondo occulto della vita dove un soggetto senza nome, ambiguamente vivo, compie i suoi esperimenti percettivi su sé stesso (di questo si tratta, di continue verifiche di esistenza). Ho l’impressione cioè che anche una certa ansietà di esserci o di essere visto e letto in Buccelli, la compulsività del pubblicare testi e appunti di brani in fieri, nel libro così come nella realtà (virtuale; dove si incontra e spia la nuova generazione poetica italiana), risponda a un suo (del poeta come rappresentante di una società) profondo dubitare della propria esistenza materiale, a una necessità di toccare con mano le conseguenze reali a taluni gesti arbitrari lanciati come pietre nello stagno. Potremmo dunque dire che l’arte poetica di Antonio Bux abbia uno spirito profondamente gestuale e performativo come un esubero di energia psichica che si sfoga in una sorta di automatismo
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della scrittura incanalandosi, per la necessità di una concentrazione, in forme geometriche e rituali, in una sorta di reiterazione formale che si manifesta a partire dal titolo e arriva al cuore dell’opera, cioè al capitolo centrale de Le ore chiuse, dove l’io poetante sperimenta su di sé una dissociazione chimica (l’uso, biografico o romanzato, di un anestetico) attraverso cui descrive due giornate scandite in due tranche di ventiquattro ore l’una (più una venticinquesima eccedente al centro) per un totale di quarantanove dittici speculari che ripetono, eccetto una manciata di variazioni, la medesima liturgia: una lirica di osservazione analitica dell’esperimento cognitivo (sulla strada di Antonio Porta e Nanni Balestrini; ma anche, in taluni smottamenti inorganici dello sguardo, tra filosofia dell’anti-io e lirica, del grande poeta portoghese Fernando Pessoa) e un promemoria a piè di pagina, un controcanto che s’apre sempre con l’espressione “Ricordando che…” e che verrà ripreso anche nella sezione successiva. L’esperimento di ingabbiare questo flusso di energia semantica in un circuito chiuso, per evitarne la dispersione immediata a cui è inesorabilmente votato, è un esercizio performativo di durata e horror
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vacui (si esiste fino a quando si è in grado di durare, e di parlare) che si conclude ad ogni modo con un ritorno al grado zero: “E allora cosa farsene / di tutto questo vuoto / come riempirlo tutto / – tutta una vita tirarla / dentro – farla crescere / e poi una volta grande / ritornare a farla piccola / nella presunzione della forma / che ci mostra tutto il vuoto / per non farlo diventare pieno.”. In questi versi è espressa tutta la dualità dell’operazione concettuale di questo libro. Da una parte lo “zero”, la nullità neutrale dell’esistenza, è uno sgomento da posticipare per mezzo di una indeterminata espansione linguistica, danzando sul ghiaccio: “Ogni movimento è azione d’altro scorrere: / come l’onda nel suo espandersi / […] / Per questo tutto lo spavento dello spazio / è legittima difesa nel non luogo ad essere”. D’altra parte tale legittima difesa viene autodenunciata da sé stessa e in sé stessa. Il “taglio” di cui parla Jean-Luc Nancy in Fare i conti con la poesia, per cui la poesia è una “resistenza alla dismisura del linguaggio”, è in questo stesso disvelamento, in questa resa dopo una lunga e disperata improvvisazione di disarmonie geometriche, un infiammato assolo per sassofono che al tramonto
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arancio di una città mediterranea si chiude con queste ultime note: “Ma mi arrendo, / e decido che le parole mutino in deserti / e i nostri corpi nella fiamma del tramonto”. Forse proprio in questa calda notte d’estate, nel silenzio che segue chi ha molto urlato, egli incontrerà un fiore bianco da contemplare nel deserto. Buon viaggio.
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Due nuovi poeti: Julian Zhara e Irene Paganucci
Sono diversi anni (è il Duemila, diciamo) che esiste una nuova poesia in Italia in cui lirico ed impuro, classico e incivile, sono la stessa cosa. In questa canzone contaminata parlano i linguaggi della comunicazione corrosi dallo stile della conversazione. Gli standard pop della società mediale riusati dalla lingua naturale che canta (con il suo ordito di cadenze tramandate e slang) sono la carrozzeria di una vecchia Panda abbandonata in un bosco, interrata e smangiata da ruggine e licheni, ridivenuta nei decenni elemento naturale, grotta e covo di insetti e ghiande. Essi cessano di essere standard istituzionali e rientrano nella lingua, cioè nella terra brulicante (ed è una nota di certa
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discontinuità, questa funzione corrosiva, dall’uso coatto del pop puro, come inserto plastico a freddo, operato da taluni autori degli anni Novanta come Aldo Nove). L’operazione (bidimensionale e macchiettistica) lascia ora posto alla carne poetante che ad occhi chiusi è la storia reale di una lingua e dei suoi conflitti. Naturalmente non basta: per trascendere l’acquerello generazionale e anelare alla “differenza” dell’opera serve uno scarto, il tuffo attraverso cui ci si spoglia della vergogna e si guadagna la voce. Tra le letture di centinaia di sillogi, file word e plaquette di nuovi autori svolte negli ultimi mesi la mia attenzione si è improvvisamente fermata, così come ci si concentra di fronte ad un evento estetico e si pensa: “Ecco finalmente qualcosa che esiste”, su due nomi: Julian Zhara e Irene Paganucci. Sono due autori diversissimi e distanti, ma nella polifonia dell’epoca ogni strumento serve l’equilibrio del molteplice reale. Questo doppio ritratto sia dunque un contrappunto in cui specchiarsi. Julian Zhara è nato a Durazzo, in Albania, nel 1986. Si è trasferito in Italia nel 1999, all’età di tredici
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anni. Ha vissuto in provincia di Padova e attualmente vive a Venezia, dove ha studiato e si è laureato con una tesi sulla nuova poesia in Italia. Dopo una plaquette battesimale dal titolo Liquori (Ibiskos-Ulivieri, 2008) nel 2009 ha dato alle stampe il libro In apnea (Granviale, 2009) ma nuove poesie inedite e un brogliaccio di poema in corso circolano nel circuito dei lettori di poesia da alcuni anni. Di Irene Paganucci, nata in provincia di Lucca nel 1988 e laureatasi nel 2012 a Pisa con una tesi sul ruolo della poesia araba nelle rivoluzioni del 2010 e 2011 in Nord Africa, ho ricevuto invece su mio invito (avevo letto dei versi in rete) la sua opera prima, fresca di stampa, dal titolo Di questo legno storto che sono io (Saya Edizioni, 2013). Sono convinto che questo doppio esordio sia l’annunciarsi di una promessa che verrà mantenuta. Zhara è un giovane uomo in conflitto, ferino e sanguigno, pasoliniano quasi nel suo bisogno fisiologico di esserci con tutta la muscolatura del corpo, a nervi tesi, attraversando lo spessore opaco di uno spazio-tempo scandito in bar e luoghi di lavoro e nebbia e dialoghi ad occhi aperti dentro lo sguardo speculare dell’altro. V’è uno stato d’allerta, una diffidenza forse legata a una vicenda biografica
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di estraneità e viaggio, ma anche una sfida al destino storico e una lotta a tu per tu col corpo del mondo, della materia carica di voci in lotta come un groviglio di lana ruvida inestricabile. “Siamo qua!”: quanto sarebbe piaciuto a Roversi questo suo grido storico, questo verso randagio che ricorda anche quel bellissimo libro di Giancarlo Sissa, Manuale d’insonnia (Aragno, 2004), che dovrebbe essere riscoperto e riletto dalla nuova generazione e tenuto tra i libri importanti del nuovo secolo. Zhara ci parla della sua storia, come nella poesia A mio padre: “39 anni, abbandoni la città / dove il sole dorme immerso / nelle carezze famigliari e parti / così fiero, alto-borghese, / là si chinano con rispetto antico, / tra bestie nel sud, sei solo l’albanese. / E da uomo diventi braccia, / coltivi speranze a usura, / paghi l’identità rinnovata / con la faccia dimessa, / in attesa / di una riscossa futura.”, ma anche dei molti “altri”, abitanti scontrosi o respingenti della nuova folla della città italiana, come nel bellissimo poemetto “L’onto”: “Al bar, / dove le controfigure fanno di me / una meccanica estensione del capitale, / vedo un giorno un uomo, un altro / espediente di carne per il
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compimento / di non so quale destino”. Ma senza posa né maschere: “Noi schifati nel vederlo, con la paura / che si sarebbe presentato anche l’indomani. / Lì mi son chiesto dov’era il confine / tra natura e borghesia, / mi son chiesto perché il mio disgusto / era così vivo, così cocciuto. / [...] / Ma ogni tanto, guardando il mare, / lo penso vicino a sua moglie, / finalmente redento / dal dolore dell’assenza, / almeno tra i morti, / normale.”. Alziamo l’occhio della videocamera da questo chiosco-bar dove Julian Zhara appunta i versi del suo poema e scivoliamo verso una palazzina a lato. Zoomiamo su una finestra (ok, pessima scelta stilistica ma mettiamola così: stiamo sperimentando lo stile amatoriale). La città in realtà è cambiata ma grazie ad un abile raccordo di montaggio non ve ne siete accorti. Al di là del vetro a specchio, su cui si riflette una via a scorrimento di Pisa o Lucca, c’è la stanza di una ragazza. Forse è una casa universitaria, o di una giovane convivenza. Il nome della giovane donna è Irene Paganucci e in questo momento sta appuntando dei versi su un foglio. Sono i versi che saranno poi posti ad apertura del suo libro d’esordio: “Di questo legno storto che sono io /
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non ridere, amore, è questo soffiare / del vento è tutta la furia del tempo”. Sono classici i versi di questa poetessa di vent’anni, di cui non avevo mai sentito parlare e che mi sorprende, nella direzione di intensità concentrata della poesia di Anna Achmatova (inesauribile nutrimento): lo scatto di un istante, la velocità di uno sguardo che non si prolunga ma che è in grado di catturare nell’attimo della sua breve durata tutta la gravità terrestre, il suo dolore, il suo timbro vocale, il suo umore. C’è, tra i toni che si compenetrano in questa lucente opera prima, anche una funzione comica, di abbassamento nel buffo post-pop della vicenda esistenziale in allegorie del quotidiano affini ad una linea che oggi percorre, in altri toni e modi, una giovanissima ma già ben salda poetessa come Dina Basso. Irene Paganucci inserisce questa funzione in una scenografia più evidente, o forse iperrealisticamente più evidenziata, tra “ipermercati con le luci al neon” e l’eterno ritorno in una stanza dove si svolgono quasi tutti i colloqui con l’altro: “Ora ti svelo un trucco per cucinare il polpo: / tu lascialo una notte in congelatore e quello / in pentola sarà
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tenero come me / quando mi stringo a te dopo un’uscita al gelo / (d’inverno ho tre cuori e sputo inchiostro nero).”. Ecco infine un’ultima perla rivelatrice della fresca (ma non ingenua) profondità di questo canto che chiede di abbracciare, non di stupire, il mondo: “Mi piace il tuo non capire / le mie poesie – poi che c’è / da capire non c’è niente / di male – sai, è solo il segno / che almeno tu sei sano. / Dai, vieni sul divano.”. Buone letture.
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Il rovescio del dolore di Luigi Socci
Ancona è una città anomala nel contesto rurale marchigiano, la cui funzione letteraria di “avanguardia a ritroso” è stata ben individuata ed esposta da Remo Pagnanelli e Guido Garufi in diversi saggi – di cui si ricordi lo studio antologico Poeti delle Marche (Forum/Quinta generazione, 1981) – e confermata da un’ultima ricognizione territoriale come Porta marina. Viaggio a due nelle Marche dei poeti di Massimo Gezzi e Adelelmo Ruggieri (Pequod, 2008). La vicenda marchigiana, con i suoi cento borghi auto-sufficienti e in osmosi con la campagna circostante diffusa, si svolge in una fissità antropologica (che è un insieme di riservatezza e senso di appartenenza a un piccolo clan familiare
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astorico) che ne determina chiaramente anche la natura del suo sentire poetico. Quello anconetano è il solo territorio regionale storicamente affrancato da questa percezione ciclica del tempo e di immobilità del paesaggio. Sede di un’importante capitaneria di porto, porto franco dal 1732, conobbe già dai tempi dello Stato pontificio uno sviluppo commerciale di più ampio respiro e una diversificazione sociale articolata e moderna, di tipo propriamente urbano, determinata anche dal modesto retroterra rurale. Non deve quindi stupire se nel contesto di una poesia marchigiana ancora oggi radicalmente resistente nelle forme della tradizione classica, sia proprio Ancona ad esprimere un’opera obliqua e già post-lirica (secondo una definizione di Zublena recentemente risignificata da Vincenzo Ostuni in Poeti degli anni Zero, L’illuminista, 2011) come Il rovescio del dolore di Luigi Socci (Pequod, 2013). Non è del tutto vero. Anche Luigi Socci ha i suoi riferimenti nella tradizione (su tutti il maestro Franco Scataglini, con i suoi stornelli filosofici, giocosi e metafisici) e sostanzialmente affonda in una linea di tragicomicità che dal Baudelaire (de Le Fanfarlo, più che dei Fleurs) passa per il Cabaret
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Voltaire di Zurigo, attraversa il doppio ambiguoironico italiano futurismo/crepuscolarismo (Palazzeschi e Govoni soprattutto) e si connette alla sensibilità post-moderna del “ridicolo”. La sua poesia proviene in realtà da molto più lontano: dalla canzone dell’antica Provenza, direi, da Guilhem De Peitieu (“Una poesia farò di puro nulla”), da Raimbaut D’Aurenga (“Ascoltate, ma io non so signori / che cosa intenda cominciare”) e si dovrebbe qui aprire tutta una digressione sulla natura di quest’opera che non nasce dall’assenza del poeta-scrittore ma compone quindici anni di esperienza fonica in cui l’autore ha trasmesso oralmente, nelle forme del reading performativo e contaminato dal gesto, i brani ora raccolti. “Lo scritto come morto orale”, per dirla con una nota definizione di Carmelo Bene, anche se più attinenti all’esperienza estetica di Socci sono le teorie della rivista “Baldus” (1990-1996) e di Lello Voce sulla neo-oralità. Di certo l’io biografico esperienziale, il paradigma della lirica moderna, pare qui scomparire e la poesia di Socci si presenta come pura lingua (o sciogli-lingua, talvolta) che gode di vita propria e si piega nei continui enjambement in stravolgimenti di
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senso con effetti parodistici che ne neutralizzano la posa. Vale cioè a dire che il “pensiero poetante” posto da Garufi e Pagnanelli come “carattere” marchigiano è qui sistematicamente sabotato e il poeta si manifesta come “maschera del poeta” autodichiarata che inciampa sulla sua stessa ars retorica. Ma è proprio in questo scivolare nell’assurdo, come un Buster Keaton poetante in cui ogni principio di discorso è smantellato, che appare la sua grazia. Ed è la grazia disarmata di una nudità. Non vi è mai una distanza concettuale, programmatica e realmente “fredda”, nel senso di una cinica indifferenza accademica. Al contrario il grande “freddo” di Luigi Socci è il rito della mano che il bambino pone come una maschera sul proprio volto. Questa mano-maschera, sotto cui l’identità si trasfigura, permette all’occhio di restare bene aperto ad affrontare l’orrore. O alla voce di dire. Come il dionisiaco si serve dell’apollineo per rivelarsi (e c’è questo Nietzsche nelle terzine di Pasolini, secondo Fortini) in Luigi Socci il tragico può manifestarsi solamente nelle forme del gioco. Così il “dolore”: nel suo “rovescio”.
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Si rovescia l’assunto iniziale. Ecco dunque che sotto il gioco iniziamo a leggere poesie d’amore. Ecco dunque che sotto il gioco iniziamo a leggere poesie del lutto. Ecco dunque che sotto il gioco si spalanca la tragedia storica. L’io che non vuole più essere io è un io intento a demolire le retoriche del soggetto e le sue auto-posizioni. Dietro la maschera un occhio è fermo e lucido. Buona lettura.
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Lampi della Agustoni
fabbrica
totale:
Nadia
È l’una di notte. Sullo schermo del mio pc scorro una e-mail da poco arrivata: “Caro Davide, questa è l’ora in cui io mi metto a lavorare quando entro col primo turno. Scrivo e leggo fino alle cinque. La solitudine profonda che vivo quassù è quella anche di chi non è riuscita per molto tempo ad uscire dal precariato. In Toscana ho vissuto dieci anni impazzendo con lavori impossibili mal pagati (sono stata anche stalliera coi cavalli in agriturismo) ma mai sono riuscita ad inserirmi veramente nell’ambiente dei poeti e degli artisti. Perché non potevo esserci fisicamente, mancavo perché sbarcavo il lunario, o non avevo soldi per il treno. Quindi è andata a finire che sono rimasta isolata.”.
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Chi mi scrive è Nadia Agustoni, classe 1964, poetessa che meriteremmo di trovare edita da Einaudi o Feltrinelli o Guanda, nel reparto di poesia di qualunque libreria, della stazione ad esempio, come un tempo avremmo incontrato i libri di Pasolini, Bertolucci e Elsa Morante. Invece è confinata, come tanti suoi colleghi (che sono i migliori poeti di una generazione; quelli che tramanderanno un’epoca), al margine di una microeditoria mal distribuita e assente da ogni scaffale e discorso pubblico e interdisciplinare. Come se la poesia non potesse interagire, da pura eresia musicale quale è, da febbricitante lepre semantica, col mondo dei segnali umani, coi segni della storia. Apro una parentesi. Qual è il motivo, ad esempio, per cui i nostri Fabio Fazio o Serena Dandini (o Augias; o Victoria Cabello) non sono ancora riusciti ad invitare un poeta giovane, che possa fare un discorso inedito sul nuovo mondo, sull’esperienza di un corpo artistico nel meccanismo della storia corrente, sulle proprie scoperte e visioni? Il potenziale poetico del mezzo radio-televisivo è ancora tutto da esplorare. La lingua della poesia, che è condensazione semantica e ritmo, può scatenare incendi nell’amplificazione audiovisiva
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(questo si sa; tanto che i pubblicitari studiano la metrica). Perché un servizio pubblico non potrebbe prevedere un’ora settimanale di video-poesia? Chiaro, in un sistema comunicativo fondato puramente su logiche di mercato si presentano marchi editoriali e non opere. E qualcosa che non dà reddito non esiste. Questo è il motivo per cui il liberismo produce ignoranza e dequalificazione. Ma un’altra idea di televisione pubblica sarà mai possibile? Chiusa parentesi. Nella storia dell’ultimo trentennio, che è la storia della rimozione del “discorso” dallo stato di performance permanente che è divenuta la realtà, i poeti hanno continuato a lavorare nell’ombra, a tessere il proprio ordito fonico nel silenzio, con perizia e fedeltà al “compito”, al dovere di tramandare il canto; e con esso tutto un bagaglio di ricerche in atto, di teorie nate dall’esperienza, di memorie contaminate dal tedio presente. Nadia Agustoni mi scrive, è l’una di notte, ed è come se tu ora fossi al mio fianco, cara lettrice o lettore, attorno al tavolino Ikea della cucina da cui compongo questo brano. Allo schermo del pc portatile ti mostrerei alcuni frammenti di corrispondenza privata. L’e-mail citata
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ad apertura di questo articolo è un reply dell’autrice a un mio precedente messaggio in cui le comunico che sto leggendo i suoi libri con entusiasmo. Le dico che mi sono emozionato, che ho percepito un senso di pianto imminente che è proprio della commozione estetica (una sorta di pianto non triste, una vertigine dolce) e che ho sentito freddo, che ho avuto la pelle d’oca come mi accade raramente e solo di fronte a quello che percepisco come una grandezza. Le parlo esattamente di “grandezza lucente”, di “versi sporchi di olio di macchinario industriale” ma “dalle enormi ali”. Questo sarebbe il modo in cui se tu fossi qui, lettrice o lettore, ti introdurrei alla conoscenza dell’opera poetica di Nadia Agustoni. Poi abbasserei lo schermo del notebook e andrei a prendere due libri. Taccuino nero (edito da “Le voci della luna” nel 2009) è un piccolo capolavoro lirico di poesia operaia, un canzoniere visionario nato tra i riflessi metallici di una fabbrica di Bergamo, dove la poetessa attualmente lavora e vive, germinato tra un turno in catena e un rientro solitario, tra le grida voraginose del sistema idraulico e la dilatazione autistica del mondo interiore nella reiterazione dei movimenti automatizzati. È la storia di una
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resistenza dell’umano che non intende arrendersi, sotto forma di memoria o di una fantasia anche fiabesca ma mai narcotizzante perché gli occhi restano ben saldi sul dato di fatto e sull’analisi del meccanismo presente. Il tema è quello del rapporto tra il corpo e un tempo che nella ripetizione dei gesti si dilata fino a scomparire in un eterno e indistinto ritorno “senza realtà né inizio né fine”, “come a una soglia chiusa / col tempo dentro e fuori a fare toc”. Rendiamoci conto di trovarci di fronte a versi di vertiginosa densità: “La vita o l’essere quasi vita / non ci sono più e beato un uccello / batte il capo in grembo all’erba / e lamiere lucenti tagliano il giorno / i sogni al crepuscolo come disegni / di scene.”; “Ci si stanca a vivere e a fare il dovere nostro / ma tra fili, campetti e marcite / l’arbusto sbuca nel cortile, colma di luce / è la luce, una speranza spinosa eguale all’ortica / ci lascia immaginare il futuro e ci segue la sirena / industriale come degli Ulisse con i tappi di plastica / nelle orecchie e calzari di ferro e passi roboanti.”. In questa “danza meccanica” in cui (salto di testo in testo) “Un rogo-abbaglio è la vita” e “l’universo [è] fermo” la poetessa fonda una vera e propria
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cosmogonia post-baudelairiana dell’eternità nella “fabbrica totale” fino a raggiungere, come in una traversata dissociata del deserto, i lampi profetici dell’opera, che da un interstizio di lamiera annunciano non il “diluvio universale” ma la fine dell’epoca industriale e la rinascita dell’umanità: “Si andrà eterni all’eterno e l’angelo sadico tradirà sulla soglia / chiudendola a chiave con l’urgenza superiore del fato e dai pori / sudando la forza, verrà a galla il cuore, nuoterà l’aria intera / e arderà un sogno ardendoci da capo, cominciando.”. Il mondo nelle cose (Lietocolle, 2013) è un libro forse più difficile, ma di un ermetismo cristallino e limpido, una piccola epica frantumata e innocente che chiude la trilogia iniziata con il Taccuino e composta anche da Il peso di pianura del 2011, di cui oggi non parleremo. Il libro si fonda su due voci provenienti dal primo romanzo d’avventura del Settecento, Robinson Crusoe e Venerdì, siamo cioè alle origini del mito della società borghese adulta, quella che dà vita al colonialismo mercantile attiguo al viaggio esotico di esplorazione e oggi implode nel rogo della crisi neoliberista, inchiodata a forme di lavoro
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arcaiche e ad orari del tutto incompatibili con l’evoluzione del soggetto e della sfera individuale. Venerdì è l’apprendimento dei tempi della ripetizione, è l’infanzia selvatica che “sbucciava arance col cucchiaio” e “dai balconi coglieva / l’odore di terra verde” e ora si incammina “al controcanto di fabbriche”, al mondo del lavoro, ha “i suoi inizi nella nebbia e sui navigli” e come “un Dante / azteco e gabbiere / al supermarket – / aggrappato a carrelli / a cassette di frutta” apprende l’arte della scrittura poetica come dissociazione della libertà. Crusoe è il viaggio speculare della perdita dei luoghi, della dimenticanza di un’origine: “era scomparso il mondo / non perché gli mancava / ma non c’erano più gli altri / a confonderlo con un amico / un fratello…”. È il ritratto di un viaggiatore alla ricerca di un lavoro (di un mondo) migliore; nuovo: “a febbraio era un migratore / (pensava giornate, un esilio / di mandorli) a Borgo San Lorenzo / era per salire al Muraglione / ma nessuna corriera fermava / l’acqua batteva sull’erba / e nel fiato.” Un’opera centrale di poesia italiana del Duemila. Buona lettura.
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Non come vita di Gilda Policastro
Negli anni in cui la funzione di “intermediazione” della borghesia erudita decade (il giornalismo, la politica, la ricerca universitaria) perché il capitalismo postmoderno non ne ha più bisogno e il popolo (cioè il “pubblico”) ama illudersi di avere trovato una connessione non mediata con le informazioni che gli vengono imboccate dal vertice della nuova comunicazione plebiscitaria, si dà il caso che non tutti gli intellettuali italiani reagiscano al “terrore del crollo della propria persona” di cui scriveva Aldo Giorgio Gargani aderendo a quel sentimento egemone di vergogna e auto-denigrazione che è stato proprio della nostra più recente storia. Il “brutto carattere” di cui parla Gilda Policastro a pagina 23 del suo libro Non come
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vita (Aragno, 2013), che raccoglie in maniera organica la sua produzione poetica dal 2007 al 2012, è in questa volontà di non fare sconti al disprezzo anti-intellettuale del nostro ultimo trentennio di vitalismo berlusconiano e ora grillino come rivalsa della volgarità contro la “mediazione”. Accade dunque che l’ultima erede di una dinastia senza più mandato, ma con un enorme capitale culturale a sua disposizione, si trovi a ribaltare il gioco (politico) che l’intrappola. La condizione si fa virtù e la cultura senza più funzione pubblica è una scelta di vita orgogliosamente borderline tra la “vita normale” irrealizzata e il nuovo mondo dei “reietti” laureati, come la Elise Shifrin di Cosmopolis, un “margine” di esistenza furiosa e solitaria come perversione impopolare dei valori storici: “Non hanno mai letto deleuze-guattari / e non sanno niente / di quanto un testo è rizomatico e perché / non hanno visto un quadro di kandinsky / non conoscono il principio della serialità tonale / […] / perché la biblioteca è un posto dove i libri ci stanno / ma sarebbe meglio che nessuno andasse a chiederli mai / Ai margini dei conti si scrivevano i versi, / non lo sanno e stanno bene, non lo sanno / e stanno male uguale”.
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Certo, si parla di perdita del mandato poetico all’incirca dal 1848. Ma questa generazione letteraria si è trovata a vivere un passaggio inedito della storia occidentale e a toccare con mano la dismissione implacabile di tutte le istituzioni culturali, comprese le più ipocrite e conservative. Oggi il “futurismo” è integralmente realizzato. Il capitalismo finanziario virtualizzato e transnazionale non ha bisogno di nessun museo e la borghesia, cioè l’ideologia dell’utile, diventando cosa inutile scompare. Solo nell’iper-esclusione, reietto tra gli esclusi complici del suo massacro, l’erudito preserva una sua identità ormai del tutto priva di speranza (“sto barattando libertà con solitudine”). La storia di questa “caduta” sociale è in realtà cifra di un destino di disfacimento come condizione ontologica dell’esistenza umana. Questa visione filosofica, “giacché il sentimentale è fondato e sgorga dalla filosofia” (Leopardi), trova la sua carne in cui manifestarsi nel corpo individuale di una malattia e di un lutto. La morte della figura materna è infatti il tema onnipresente dell’opera. La parolachiave del poemetto si rivela sin dalla prima lirica ed è l’aggettivo “incurabile”, inizialmente criptato in traduzione tedesca (“il peso dell’unheilbar”; che è
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anche una citazione dal Laborintus di Sanguineti, opera-modello di ispirazione e concetto) e infine crudelmente esposto in tutta la sua pornografica evidenza ospedaliera di “malattia incurabile”. Scoperchiato il sipario e inondato il palco da una glaciale luce al neon che non lascia posto ad ombre, l’operazione chirurgica e poetica sul “dolore inconvertibile” del carcinoma può avere inizio. Ma ineluttabile è il male e il rito dei medicamenta è una liturgia volta a esorcizzare il terrore della “fine che cade / in ogni cosa”. In uno dei testi più importanti del libro, il Trittico salutare, tutti gli oggetti dell’esistenza organica ed inorganica (“le pantofole, il miocardio, lo spazzolino da denti, il fibroma”) sono soggetti al medesimo moto di asimmetria in espansione, di entropia quale legge irreversibile dell’universo fisico. Il compito della “custodia degli oggetti smarriti”, il tenersi in “forma” pur nella coscienza della dissoluzione fatale, il fare visita ai morti come l’appendere i “post-it della spesa”, ogni gesto del quotidiano si rivela come “atroce farsa del durare”. Così ogni gesto estetico è il “pathosformel” attraverso cui si ritualizza nella forma il dolore incontenibile del caos. Ma è proprio in questo dialogo leopardiano tra un corpo che muore e l’altro
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che resta, e si consegna al deserto della precarietà come il primo all’assenza, in questo schermo di memoria brulicante che si dissolve tra i pixel di un VHS senza segnale, che la morte materna si configura come sintomo di un’interruzione storica di significato. Nei Palinsesti, che sono dei classici calchi postmoderni, cioè dei rifacimenti da altre opere (come la lirica Digitale purpurea di Pascoli o il videodittico “The crossing” di Bill Viola) è allestito un ambiente semantico di poor-art ricavato da elementi ospedalieri che mimano il paesaggio naturale: «Entrate in un giardino / d’aghi, di tubi, di stami / di plastica, di steli ossigenati». È il tema della sterilità, connesso all’immaginario del decesso della madre-Storia. I suoi orfani consegnati all’attesa di un dopo, dentro paesaggi autoptici privi di presente, non fruttificano più. La flora è meccanica, la sessualità che trasmette è di tipo dissipativo, non funzionale ad alcun ciclo riproduttivo, fino alla garroniana Primo amore (in Antiprodigi) dove anche la relazione amorosa è un atto disperato e autoreferenziale, una prigionia di vittime e carnefici che porta all’annullamento.
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Non so quale sia la coincidenza tra biografia autoriale e autore implicito del libro e in fondo conta poco: ogni scrittura è sempre un’operazione semiotica. Mi interessa però interrogarmi sul significato di un titolo, Non come vita, che al di là della prima interpretazione (poesia non come azione vitale ma come pensiero della dissoluzione) contiene una precisa informazione di filosofia estetica. In questa negazione di figura retorica della similitudine (Non-come) l’autrice si inserisce in un’area stilistica “antilirica” e “prosastica” che considera esaurita la spinta propulsiva della poesia lirica moderna (il soggetto e il suo mondo interiore). Alcuni degli stilemi della Policastro sono infatti di derivazione classica. L’io greco antico non ha caratteristiche moderne e romantiche (il mito dell’autenticità e dell’originalità) ma “ciò che vi domina è la finzione” (Curi), il montaggio delle citazioni che “derealizzano” il pathos e “mancano deliberatamente di naturalezza” (Veyne). Non so se questo sia del tutto vero o se l’antilirica non rivesta invece una funzione di mascheramento. Cosa mi vieta, ad esempio, di confrontare quest’opera con un campione lirico come L’attimo dopo di Massimo Gezzi, con quel
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distico chiave “il tentativo di porre / un limite al disordine è un atto contro natura”? Dubito che le variazioni e metamorfosi del soggetto avvengano, per così dire, per via volontaria. Si può dunque dare una poesia lirica anche nell’anti-lirica come ci è dato il suo contrario nel caso greco. In una marcescenza storica come quella presente, in cui il vero paradigma è l’alienazione del vecchio soggetto e la sua nevrosi infinita, porrei invece l’attenzione su due differenze che mi paiono di maggior rilievo: 1) Il ritorno al tragico, una sensibilità che ha poca attinenza con la tradizione italiana (che l’ha sostituita con il melodramma) e che nell’ambito della pacificazione postmodernista può rappresentare davvero uno scarto ideologico; 2) L’irriducibilità di un conflitto contro il mito della Natura, vera metafisica italiana, e il vitalismo “presentista” che ne consegue. Buona lettura.
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I Bagnanti di Renata Morresi
Ho già espresso il concetto di liquidità come liquidazione. La postmodernità non come “epoca nuova” ma come “dismissione” del presente (vocabolo-chiave: Dismissione è anche il titolo del primo libro di Fabio Orecchini, Polìmata 2010). Se il Novecento è stato il secolo dei porti e degli approdi dal naufragio delle solitudini alla terraferma delle città, il XXI secolo si apre come un brutale ritorno dellʼOttocento. La torre di Corazzini crolla di nuovo in mare, lʼimperio della “separazione” è totale. Con una differenza. Il dominio presente non consiste in uno Stato o in una struttura, in una polis, in una civiltà, ma nella sua assenza. Ciò che schiaccia la nostra storia e determina il vuoto di azione
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individuale è un vuoto più grande e strutturale. In termini tecnici lʼassenza di uno Stato europeo determina lʼegemonia del capitale finanziario. La dismissione della realtà, il riformismo inteso come abolizione delle riforme e via dicendo lʼintera era della liquidità postmoderna come liquidazione e azione corrosiva nei confronti della Materia, mentre persino lʼegemonia delle immagini smotta nellʼirreale inconscio collettivo del linguaggio del web, costituiscono la “fase” come lager storico onnipresente in quanto assente, dove tutto è ovunque eppure non cʼè e il padrone è una funzione finanziaria composta da miliardi di pixel come fotoni indeterminabili che appaiono e scompaiono ogni secondo da una parte allʼaltra del mondo. (Per un approfondimento rinnovo il precedente invito alla lettura del libro Per la critica del presente di Mario Tronti, edito da Ediesse nel 2013). Cʼè dellʼaltro? Sì. Ma ci vorrebbe un nuovo Marx per decriptare la natura e il funzionamento di questo Nuovo/Dopo Capitale, che non ha più bisogno della borghesia, che non ha più bisogno dello Stato, che non ha più bisogno dellʼeconomia reale, che non ha più bisogno neppure del consumo, che ora utilizza le banche ma che tra poco non avrà 91
più bisogno neanche di loro, che non ha più bisogno della vita delle persone. Un Machiavelli interno al meccanismo, per qualche poetico e irragionevole (e perciò sacro) motivo fedele al compito del suo disvelamento. Ma prima della nuova rivelazione storica, cioè al punto in cui siamo, cʼè solamente il mare. Lo aveva già detto Derek Jarman, in Blue: uno schermo azzurro come un oceano ondivago e una voce interiore, suono senza visione catturato in una stanza di ospedale, nel naufragio della cecità verso un altrove impensabile. Ma se ogni fine è un nuovo parto, il mare in cui la storia crolla è anche il liquido amniotico in cui si sciolgono gli elementi a nuova vita. E noi lo sappiamo orficamente, che ogni voragine è una nascita, e che ogni buco nero è una promessa di creazione. Da questa grande Assenza acquatica si alzeranno in piedi nuove creature, non divorate dalla nostalgia di un passato che non è mai esistito né abbagliate dallʼideologia del presente sterminatore. Si alzeranno per ritrovare la vista, come bagnanti dopo la trasfigurazione mistica delle palpebre arancioni
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trafitte dal sole, giocando al morto. Perché nel mare si fa “il morto” per rinascere infinite volte. Bagnanti (Perrone, 2013) è il titolo filosoficamente pertinente del nuovo libro di Renata Morresi, classe 1972, tra i più importanti esponenti dellʼodierna scena poetica in Italia. Così si apre: “essere molti e saline / vive e più mobili / del mare, abitanti / confusi a risalire / all’indietro, ad uno / stile nobile, le antiche / genealogie anfibie”. Lʼintera prima sezione dellʼopera è una successione di fotografie arancioni, controluce, sovraesposte, tra fine storia e attesa, limine e stasi in cui “in estinzione ma all’alba” “partoriranno tutti”, come una “muta opaca / di squame” di “corpi lenti molli / rinati tutti a caso / uomo, donna”. Nulla di sublime o di elettivo in questo rito di trasfigurazione e di pelli sbucciate che vede “popoli morbidi lentissimi / fondersi” con i “piedi avvinghiati agli scogli” o come “larve sbocciare” “continuamente fossili”. Vi è qualcosa anzi di comico, di ironia anche trash, di immaginario di genere (come il cinema splatter anni Ottanta e Novanta), con i suoi rallenty e effetti speciali e dissolvenze di elementi visivi come “vicini /
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dʼombrellone o crostacei / dèi alieni, relitti dʼastronavi”. Ma lʼironia in Renata Morresi non è mai dissacratoria. La cifra estetica del suo utilizzo è semmai quella del gioco, nella sua accezione antropologica di pratica del ribaltamento cognitivo, unitamente alla favola, al calco geneticamente modificato della narrativa infantile (che diventa ovviamente un genere autoriale adulto, si prenda ad esempio il suo rifacimento di Cappuccetto rosso in Di là dal bosco, Le voci della luna, 2012). Cʼè però forse bisogno di un pretesto evasivo, di un depensamento come rito di interruzione del logos dominante, per pronunciare una verità cosmogonica scoperta. Non si nega la possibilità di essa, come nellʼideologia presente, ma la si maschera. La si pronuncia scherzando. Inoltre: per Renata Morresi, che è cresciuta su studi di letteratura anglosassone, la realtà è evidente (e lʼevidenza è reale). Sa, cioè, che ogni epifania può darsi solo nella prassi dello scioglimento nel mondo e che anche la teoria è un oggetto fra gli altri (un libro, vicino ad una mela). Sin dal suo libro precedente, Cuore comune (PeQuod, 2010), dove lʼinterferenza delle
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illuminazioni verbali del piccolo figlio illuminava come un lampo improvviso lo svolgersi delle liriche, è la contaminazione tra intervento esterno e scrittura poetica tradizionale che determina quella sovrapposizione indivisibile dei piani che è in sÊ stessa, nel suo metodo e indipendentemente dai contenuti, il senso estetico dellʟintera opera. Buona lettura.
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Fabio Orecchini, i “Pane” e il ritorno del
drama
Molti sono i libri e poche le opere. Un’opera è ciò che accade come esperienza. Un’esperienza è un passaggio che non comunica né insegna ma trova: gesti, tracce visive e fonetiche che indicano altro. Incontri qualcosa, ma cosa? Presenze? Riflessi? Sei un “io” ambiguo che varca un confine e muta. C’è dell’altro. C’è dell’altro ancora. Oltre il campo visivo interviene il suono e dice che c’è ben altro, altrove. Dismissione: vocabolo-chiave dell’epoca della post-modernità. Una liquidità acida che scioglie le strutture portuali del Novecento. Per approfondire il concetto, tra i libri: Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione (Einaudi, 2008), Mario Tronti, Per la critica del presente (Ediesse, 2013). Film: David Cronenberg, Cosmopolis (2012).
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Siamo in un antro. È la caverna di un ciclope? Gocce di condensa si sciolgono da un soffitto non visibile. Hanno un suono metallico, inumano. Spazzole metalmeccaniche su una batteria-catena di montaggio, dove il tempo automatico interrotto trascende nel ritmo della visione. Siamo in una grotta. È una fabbrica in dismissione. Antichi spiriti la animano, passando per esofagi di latta, canne fumarie. Strumenti a fiato. Poi il risveglio di Polifemo, custode di una memoria opaca. Le grida dei dannati! Ulisse che ansima e dice: “Fincantieri”. Il gesto si fa pensiero e un uomo racconta la sua storia. Da pochi giorni è uscito per Luca Sossella Editore un cofanetto comprensivo di un libro di poesia e di un album musicale dal titolo Dismissione, del poeta trentatreenne Fabio Orecchini e del gruppo Pane, che a Roma porta avanti un cantautorato colto e progressivo. Si tratta di un evento, innanzitutto perché Orecchini è il primo poeta della generazione “nata negli anni Ottanta”, cioè della generazione esclusa da ogni luogo in Italia (colpevole persino di essere nata, perché nulla era per lei predisposto), a fuoriuscire dall’autoproduzione e a trovare spazio in un catalogo di
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prestigio. In secondo luogo si tratta di un evento perché la forma in cui questo campione di nuova poesia italiana si presenta è in sé un contenuto: contaminazione, organismo mutante e molteplice, sdoppiamento e mitosi espressiva. Ho avuto la fortuna di seguire lo sviluppo della Dismissione nelle sue fasi di traduzione da testo scritto a recitativo e infine ad opera di teatro musicale operata dal gruppo “Pane” ed in particolar modo dal cantante-vulcano ribollente Claudio Orlandi, oscura forza della natura, energia di voce e canto proveniente da qualche mondo lontano. Ho avuto, anche, la fortuna di essere spettatore della prima messa in scena, durante una kermesse poetica al Teatro India nel 2012. Orlandi entra in scena come l’attore di un monologo, è Roversi e Dalla in uno, Jim Morrison e Agamennone, il concertoreading-rito si incarna in una presenza orante. Teatro. Parola e musica come due flussi di energia fonetica che si scontrano. Mimo, suono. Significato e latrato. Antico progetto di “opera totale”, raccordo tra intelletto e sensi, arte e scienza. Drama. Il miglior Sanguineti, quello cioè del Laborintus portato in scena da Luciano Berio, il Roversi vibrante nei tre concept album di musica-teatro
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cantati da Lucio Dalla (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili), il teatro di parola di Pasolini e quello americano del secondo Novecento, tra performance free-jazz e recitativo arcaico, neo-primitivo, beat: tutto ciò che “non è” il Canone ufficializzato in Storia della Letteratura italiana è la radice terrosa, ferrosa, adombrata di questo lavoro. Un lavoro che rappresenta un confine con cui i poeti italiani dovranno fare i conti. Non voglio con ciò contrapporre l’atto performativo o orale alla tradizione lirica, neanche questa è una strada che ci porterebbe al fiume. Il trentennio della separazione è finito. Generi e categorie sono indistinte macerie su cui un uomo cammina. Sotto i suoi piedi è un indistinto tutto e questo tutto si farà sentiero. Il poema di Fabio Orecchini è un’opera lavorata liricamente e con perizia amanuense sebbene i materiali usati siano quelli di scarto del linguaggio tecnico ospedaliero e industriale. In questo riuso poor del vocabolario scientifico una voce filiale ci narra la storia di una morte per avvelenamento da amianto.
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“Sola allora ti voltasti senza occhi / ti guardavo // deidratare / porgermi gli occhi in un posacenere / implorarmi di essere tuo figlio.”. È il funerale di un’epoca che dovette credersi realmente eterna e razionale come la sua semantica di Eternit frantumata in balbettii tumorali. È la lenta dissoluzione di un corpo tradito, di una piccola speranza familiare consegnata all’omicidio dell’ottimismo. “Quali ricordi. Gesti residui. Anch’essi inevitabilmente / contaminati.”. È la lettera “M”, simbolo primordiale di onda marina e moto, con cui si apre il poema: “miseramente / monomero amore metallifero / morire mentre mormori…”. Nasale bilabiale egemone come il lamento di Orlandi, risveglio di una coscienza indolenzita nella “camera a gas” quotidiana dell’Italia avvelenata dall’utilità della strage.
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Lorenzo Mari, il debito e la crepa
Credo che sarebbe importante, oggi, iniziare non solo a leggere le lingue europee ma a frequentarle sentimentalmente, a trascriverle, a pensarle. Il nuovo plurilinguismo non sarà fatto solo di inflessioni locali o slang pop o derivanti dai media ma di impasti europei e intercontinentali: inglese, francese, lingue nordafricane ed arabe, dialetti. Siamo chiusi e fermi. Uscire! Uscire! Chi sperimenta, sperimenta la letteratura e l’iper-lingua. Uscire! Uscire! Chi riusa, riusa materiali pop, senza corrosione esperienziale. Uscire! Uscire! Si percepisce in Italia una cappa umiliante e depressiva, simile alla memoria tramandata dagli avi della vita culturale sotto il fascismo. Come se tutto accadesse altrove, diceva Vittorini, come vivendo in
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una stanza ermetica in cui non saremmo mai riusciti a pensare a nulla di significativo, scriveva Roversi. A volte ho pensato che la lingua italiana stessa non abbia più nulla da esprimere. Non senza testo a fronte, almeno. Non senza crepe. E queste crepe non vanno stuccate, vanno spalancate ficcandoci dentro il cacciavite dell’ispirazione. E l’ispirazione o è il desiderio famelico di guardare che cosa c’è là fuori, oppure è soltanto cipria allo specchio nella solitudine desolata della vecchiezza. Perché la lingua non è il mattone attraverso cui si costruisce il muro ma è la condizione perché esattamente quel muro (e nessun altro) possa essere pensato (Nietzsche, Lacan...). La lingua delimita il perimetro dei significati. Altro fiore non è pensabile con questi “semi”. Perciò deve rigenerarsi. Ma come? Le parole non le inventa uno scienziato né un dottore con borsa di ricerca. Crescono dalla terra come patate. Le porta un contadino, un Gesù Cristo, un migrante. Le porta da oriente o dal sud o da altrove (sempre da altrove) in un baraccone che puzza di morte. Le porta in una caserma militare. Le porta come dei virus. Le nuove parole. Esse si diffondono come la peste creando un ampliamento del vocabolario e del perimetro del
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pensiero. Una variante sintattica. Un’irregolarità. Un errore. Attendiamo così un nuovo volgare, uno stilnovo del mondo rinato che sciolga le lingue burocratiche nazionali, tanto il calcare della metafisica (una raffinata intimità letteraria) quanto i cingolati semantici della cosiddetta poesia di ricerca (o “ricercata”?), molto à la page in questo biennio che muore: il rendere sofisticati concetti semplici; il virtuosismo estetizzante; l’esibizionismo muscolare di erudizione media; il monolinguismo tecnicoscientifico; o un tentativo plurilinguistico come collage di monolingue burocratiche o letterarie o morte (esempio: inglese informatico+latino); mai amalgama, mai profondità naturale. Dove ci troviamo? In quale punto della storia? Una silloge fluviale di Paolo Volponi del 1954, inserita ad apertura della raccolta Poesie e poemetti 1946-66 (Einaudi, 1980), ha per titolo Il giro dei debitori. Per il poeta marchigiano il “debito” è la condizione di interdipendenza degli elementi naturali, quell’eterno ritorno della materia organica e inorganica in cui tutto deve mangiare ed essere mangiato, sciolto dal fiume e brucato dal sole, e in cui non fa eccezione la presenza umana, per quanto
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possano le costruzioni antropiche alterare o dissociare la coscienza di un destino. Volponi canta l’irriducibile appartenenza del poeta al paesaggio, a quel “giro” silvestre della nascita e della decomposizione, e della lotta tra le forze della vita, da cui non intende essere estirpato: “giacché io tendo / come un seme a interrarmi, / a sdebitarmi intero, / come intera la notte di novembre / giace sulle membra terrestri.”. La deflagrazione accadrà di lì a poco. Lorenzo Mari è un poeta nato trent’anni dopo la stesura di questi versi, nel 1984. Egli appartiene cioè alla seconda generazione successiva a chi cantò la mutazione di un mondo, di una cosmogonia, di una lingua asfaltata dal linguaggio. La mutazione è dunque l’habitat in cui tale generazione è integralmente nata e cresciuta, senza riferimenti o memoria di un altrove oltre l’eterno presente di una solitudine di massa concepita come unico paradigma storico possibile. Un’illusione, uno degli “abbagli della storia” di cui parla Marx, una bolla speculativa cognitiva e di produzione entrata in crisi nel corso di un solo decennio dalla sua presunta idea di vittoria totale sul nemico storico (il Novecento; la solidità). Dal funerale della modernità negli anni
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Novanta alla crisi di sistema negli anni Zero non abbiamo fatto in tempo a pronunciare la parola “postmoderno” per intero. Ma questo abbaglio non ha smesso di vincere e di colonizzare la percezione. Il “debito” di cui canta Lorenzo Mari nella sua quarta silloge, il cui titolo-manifesto è Nel debito di affiliazione (L’Arcolaio, 2013; con interventi di Giacomo Cerrai e Viola Amarelli), ha una significazione radicalmente divergente dal riferimento qui posto come esempio speculare, trovandosi ad operare non solo in un’epoca ma in una fine d’epoca successiva a quella del contesto volponiano: l’implosione della realtà mutata. In questo senso credo che rappresenti un aspetto non arbitrario il riuso di un canone che potremmo non a torto definire “vociano”. Ogni progetto di scrittura è un’operazione semiotica e in questo non ha la sperimentazione più appariscente maggior valore di una ricerca più sottile o nell’ombra. Il progetto semantico di Mari mi pare descriva in sé questo movimento del passato che torna, logorato, disanimato, nella misura in cui la natura si riappropria degli spazi della civiltà dismessa, le radici spaccano pavimenti industriali, le lamiere interrate nei boschi sono riabitate da animali e felci. Torna;
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non come elemento favolistico di regressione ma come il sintomo di un’assenza antropica. Ecco quindi riemergere, sciolti decenni di catrame sotto un allegorico temporale, i dissepolti cadaveri delle montagne, le carni brucate. Ci si ritrova nel paesaggio. Ma senza più impronte, senza radici o sentieri comuni. Dove era un tempo un luogo, Mari e Volponi si incontrano senza potersi riconoscere. Chi è il fantasma? E di che storia? Dove era un sentiero che portava a un villaggio, adesso è un passo battuto che conduce all’esilio. Ci si risveglia soli nel bosco di una tradizione interrotta: “A cosa potrà servire – / non alla mano del padre, / non all’etimo del nonno: / casomai potrà addurre motivo / soltanto al taglio // e all’abrasione.” Ecco, è in questa abrasione che può essere rinvenuto il nesso tra i due momenti, apparentemente distinti, di questa mia lettera o lettura. L’evocazione di una nuova lingua, come un’ebbra preghiera, era la sete di un’apertura storica a cui nessuna volontà individuale potrà corrispondere (lo faranno forse gli dei; ma dopo, quando nessuno li aspetta). Perché la lingua la porta il vento, come l’anima per gli orfici. E in questa crisi stiamo. Nella cappa storica. Dove non vento
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muove. Tra vecchio capitale e eterno feudalesimo. Dove il “debito” è irrisolto, mai sdebitato, edipico: “Sei figlio di questo e di quella, / della storia e dell’incesto.”. In questo taglio. In uno smottamento geologico dove persino la memoria è un elemento ambiguo nel paesaggio rimestato (“Non restano che le spoglie / di chi salì alla linea gotica cantando”). Dove si narra l’antiepica di una stirpe orfana e in cammino, senza più padre né ritorni. Nella “lingua minore” (Deleuze e Guattari) di una tradizione letteraria appartata ma certa, come l’intaglio di un bastone tramandato da Sbarbaro a Mesa, da Eugenio De Signoribus ai nuovi eredi dell’esilio, Piergallini, Accattoli, Mari, senza feticismi stilistici ma con la serietà formale di un sentiero, cioè di un pensiero fonico, da svolgere. Come un Addio al linguaggio di Jean-Luc Godard che permane, nella crisi, un Dio del linguaggio, in questo limbo brulicante, in questa faglia. E come per Godard, in Mari è la coscienza il “guasto”: questo “non vedere” dipingere. “Crepa, paese. / Crepa che sotto la crepa / il paese infine s’intravvede.”. Buona lettura.
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Alcuni scritti precedenti (2010-2012)
Il viaggio d’inverno di Roberto Roversi
I. Nella foresta semantica dell’opera di Roberto Roversi sono molti i termini ricorrenti, come il fruscio di alberi e piante o il ritorno fugace di animali di passaggio, a costituire flora e fauna di un paesaggio boschivo nel quale lettore e scrittore si incontrano e guardano negli occhi, come il pittore ortodosso e la ragazza pagana nell’Andrej Rubliev di Tarkovskij. Utilizzo questo evocativo immaginario silvestre, il bosco, sia perché è un immaginario evidentemente caro all’autore e fondante l’iconografia della Storia d’Italia antica e moderna - con le sue leggende, le sue battaglie e guerre - ma anche perché credo che possa valere per Roversi, molto più che per altri
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autori protagonisti degli ultimi sessant’anni di storia della poesia italiana, il brano di Giorgio Agamben dedicato a Caproni dal titolo La fine del pensiero e tratto dal libro Phonè, la voce e la traccia, del 1985. Agamben scrive: “Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci animali. Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali. Allora proviamo a parlare, a pensare. […] Quando camminiamo a sera nel bosco, a ogni passo sentiamo tra i cespugli che fiancheggiano il sentiero frusciare animali invisibili, non sappiamo se lucertole o ricci, tordi o serpenti. Così avviene quando pensiamo.”. Ecco: “Così avviene quando pensiamo”. Che cosa vuole dire Agamben? Che la vita del pensiero è la polifonia inconoscibile di una traversata fonica, sfiorabile nel passaggio solitario come un’esperienza
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irripetibile, inafferrabile e in atto, impossibile da ricostruire o narrare, almeno quanto non è possibile tenere a memoria la successione intrecciata e stratificata dei passaggi sonori attraversati da un’esperienza in movimento. La poesia dunque vive e si sviluppa nel metodo medesimo di chi attraversa un’avventura fonica e di chi pensa. A seconda di quale avventura fonica si scelga di o si debba attraversare, a seconda anche delle variabili di velocità ed attenzione con cui si compie il passaggio e di tutti i parametri che rientrano nell’area della coscienza, cultura e sensibilità individuali, si hanno le differenze di composizione, timbro linguistico e stile. Quella poetica è dunque una lingua seconda, utilizzando una nota definizione di Fortini, nell’ambito della vita sociale e della comunicazione, ma è lingua prima dell’avventura e del viaggio, essendo il suo metodo - utilizzo non a caso un titolo di Roversi per definirlo - quello della “Descrizione in atto”, che poi è il metodo dell’auto-sviluppo della parola poetica già conosciuto e spiegato in filosofia estetica e poetica sin da Benedetto Croce.
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Anche la “forza della memoria” nel pensiero poetico in atto di Roversi non è mai un riferimento statico ma una funzione del divenire, partecipa cioè all’intreccio di forze e direzioni sovrapposte che vanno a costituire il testo-campodibattaglia, un metodo che Roversi ha ben chiaro quando titola provvisoriamente un capitolo del suo poema sull’Italia sepolta La partita di calcio, che si apre infatti - nell’edizione del 2001, per Pironti editore - con questa breve premessa: “I novanta testi corrispondono ai minuti di una partita di calcio. Contrassegnata dai discorsi, dalle riflessioni, dai commenti dei giocatori in campo nel corso della partita e dei personaggi seduti sulle gradinate. Su tutti, Agrippa D’Aubigné, sempre intento a guardare il cielo in attesa delle rondini; poi Che Guevara, Chet Baker, Ulrike Meinhof, Achille Varzi, Glenn Gould, il vecchio Goethe. Ognuno con apparizioni di voce che il lettore, se vorrà, potrà raccogliere.”. Ma se la poesia è un’avventura fonica in atto, solo i viaggi più rappresentativi, i fondamentali di un’epoca umana sono in grado di radicarsi e di essere tramandati come memorie condivise,
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esperienze positive o negative di una comunità. Come è ovvio, è possibile e non raro che la rappresentatività o la necessità radicativa di un’opera siano scoperte postume o di epoche successive a quella in cui l’autore scrive e compone. In questo momento, ad esempio, noi ci troviamo nell’attimo di sospensione subito precedente lo sgretolamento di una porzione storica e in particolar modo di un segmento trentennale che l’ideologia dell’epoca ha voluto pensare come “Fine della Storia” (End of History di Fukuyama, 1992) per coprire un desiderio psicotico di ibernazione dei processi storici e vitali. In questa prolungata gelata, in questo Grande freddo - utilizzando il titolo di un medio-metraggio di Alberto Grifi che plana su questi concetti - non è stata consentita, per mezzo di saturazione comunicativa, la diffusione di discorsi: di pensiero, critici, estetici. Noi infatti ci troviamo - anche in questo momento - nel sottobosco di un sistema-mondo, in uno dei diversi rifugi in cui ci è consentito sopravvivere ma non relazionarci con l’esterno, se non con uno pseudo-esterno ben delimitato entro il perimetro di una ristretta comunità di interesse e
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che quindi consiste nel medesimo interno proiettato al di fuori di noi ed interpretato, per comodità, come un altrove. La verità è che in questi ultimi anni non è passato nulla alla società, al di fuori dell’iconografia mediatica in cui sono state standardizzate le icone dei pochissimi che hanno saputo attraversare il media come Carmelo Bene e Pasolini. Ma la reiterazione iconografica è direttamente proporzionale alla neutralizzazione del discorso, come hanno spiegato Guy Debord ed Andy Warhol - oggi ne parla e scrive Mario Perniola di cui consiglio il pamphlet Contro la comunicazione - quindi anche questi pochi casi di sovraesposizione comunicativa partecipano al medesimo oblio degli assenti e dei morti. Per questo nei prossimi anni saranno da riscoprire innumerevoli patrimoni, noti ed ignoti. Il viaggio fondamentale e fondante l’opera di Roberto Roversi avviene in questa stagione storica, che l’autore definisce “Inverno” o “Notte” e “Bufera”. Siamo ancora qui, dentro l’oscurità di Hölderlin, perché l’alba del dopoguerra si è rivelata un falò
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notturno: “Così un racconto ho cominciato qua / con tre orsi (che ballano) di pelle nera / ballano vicino a un fuoco circonflesso / da una luce rotta e / lasciano orme lasciano impronte la- / sciano / sulla / neve / orme / di sa / sangue / i bevitori d’acqua / i bevitori di lacrime / i bevitori di parole”. Siamo ancora qui, nel “tempo della povertà” di cui parlava Heidegger, perché la struttura del mondo si è conservata e tenuta in vita in “una lunga e spettacolare agonia” - per dirla con un verso di Luigi Di Ruscio. Nessuna metamorfosi di struttura economica e sociale è accaduta, nonostante la cultura e la sete siano rivolte disperate già al di là dell’orlo del presente deserto. Per questo: la neve. E per questo, anche, il titolo provvisorio di questi appunti: il “Viaggio d’inverno” che naturalmente rimanda al ciclo schubertiano della Winterreise in cui il viandante solitario, le cui speranze d’amore sono state tradite e schiacciate dal sopravvento della convenzione e della norma, dell’utile borghese, traduce il momento di perdita in occasione battesimale. È pronto al viaggio. Idealmente ora proietterei un frammento cinematografico dal film La commedia di Dio di João
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César Monteiro in cui il regista portoghese pronuncia la celebre sentenza: “Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi costringo a rimanere.”. E in successione proietterei il medio-metraggio poetico Elegia della traversata di Aleksander Sokurov, che vi invito a conoscere anche per intendere la molteplicità dei significati che si sono condensati, tra gli anni ’80 e il primo decennio del Duemila, nell’immagine del paesaggio innevato, nel colore bianco. Esattamente negli anni ‘80 inizia per Roversi quella forma di esilio volontario che lo caratterizza fino ad oggi e che consegue alla decisione ferrea di non voler più partecipare all’auto-illusione confortevole di esistere come interlocutore storico. Se la possibilità stessa di instaurare un discorso pubblico è negata, partecipare alla messa in scena della “pubblicazione” di un libro significa, per Roversi, prendere parte ad una menzogna collettiva, ad una vacua forma rassicurante e consolatoria di ipocrisia letteraria ed auto-illusionismo. Meglio quindi realizzare concretamente e fino in fondo la propria dimensione e condizione di isolamento, dove l’unica relazione dialogica
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possibile avviene come singul-media, nella scelta appunto di stampare solo edizioni a copie numerate, possibilmente firmate e consegnate a mano, come corrispondenza privata. Nella composizione dell’opera l’alter-ego del sapiente eremita o viandante anima il poema dell’esilio, in cui il soggetto poetante compie la propria traversata solitaria sopra i millenni e i secoli dell’Italia sepolti sotto la neve, che continuano a risuonare, stratificati, sommersi ma non ancora vinti.
II. Ho avuto il compito e il privilegio di curare due momenti importanti dell’ultimo lustro dell’opera poetica di Roberto Roversi, il cui primo incontro è avvenuto - per quanto mi riguarda - nel 2003 presso la Libreria Palmaverde di Bologna, ora dismessa. Da qui ha avuto cominciamento, con altri amici poi raccolti attorno al gruppo «La Gru», un legame
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intellettuale, estetico ed affettivo mai interrotto, che ci ha formati ed accompagna all’oggi. A proposito dei contenuti delle (possiamo così chiamarle?) “lezioni roversiane” - dall’Arcadia alla Beat generation, da Parini a Jim Morrison considerato un autore fondante la Letteratura americana del secondo Novecento - parlerò in un'altra occasione. Mi limito però qui a ricordare un concetto, particolare e forse pertinente (lo riporto a memoria): “Non aver letto, studiato e compreso i libretti del Rock per un poeta che vive e scrive nell'oggi, nel presente, vuol dire avere un bagaglio culturale insufficiente e una consapevolezza delle forme e delle lingue del mondo deficitaria”. Queste parole vanno sovrapposte alla stesura di 1338 pagine (in formato A4) di un libro dal titolo Dall’Arcadia al Parini, stampato nel 2002 per l’Istituto Poligrafico dello Stato, e ad un altro concetto, che sempre a memoria ricostruisco in questo modo: “Le forme letterarie del Settecento sono state rimosse dalla cultura europea in quanto radicalmente incompatibili con i paradigmi ideologici ed estetici del capitalismo. Proprio per questo motivo vanno oggi studiate e apprese”.
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Ecco, questi due lampi possono suggerire l’idea della complessità onnivora (ma non vaga) che anima una scrittura ed un discorso estetico e di pensiero che saranno ben da comprendere, spero anche a partire da oggi. Parlavo, all’inizio di questo mio intervento, di una foresta semantica dove si ritrovano talune specie animali e vegetali, e cioè termini e parole ricorrenti, come piccoli indizi a formare un codice d’autore al margine nascosto della tela, insistenti come piccole gocce la cui forza invisibile e costante scava la roccia. Sono numerose le parole-goccia che nell’Italia sepolta continuano a risuonare e a scavare la pietra: “guerriero”, “fuoco”, “sonno”, “silenzio”, “albero”, “foglia”, “orso”, “neve”. La prima parola-goccia che ho avuto modo di prendere in consegna e curare ha dato vita a un’operazione collettiva, curata con i compagni della Gru e con Fabio Orecchini e Valerio Cuccaroni di Argo, risalente al 2009 e operativa per tutto il 2010 e il primo semestre del 2011, denominata Calpestare l’oblio da un settenario di un testo inedito di Roversi che si conclude con la
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terzina: “Calpestare l’oblio / il viaggio dei ricordi non è mai finito / là c’ero anch’io.”. La parola-goccia di cui parlo è “oblio”, che chi avrà modo di leggere L’Italia sepolta troverà un po’ ovunque, così come anche “viaggio”, “ricordi” e l’espressione “c’ero”, che soprattutto nell’ultimo capitolo si ripete con una certa frequenza. Questa operazione ha un senso nella bibliografia specifica dell’autore perché rappresenta un aggiornamento del metodo del ciclostile, utilizzato negli anni ’70 per i volantini delle Descrizioni in atto, attraverso gli strumenti e i canali del web, che hanno prodotto, ad esempio, lo sviluppo di una rete di contatti e relazioni tra nuovi autori che prima dell’operazione non esisteva e che ora è un dato di fatto. Parliamo di una rete non generica ma che si è sviluppata a partire da basi pur embrionali di riflessione politica e storica - la definizione del concetto di “Trentennio”, la riflessione sulle forme della comunicazione come censura per mezzo di saturazione linguistica e sullo specialismo come ideologia della separazione - e che testimonia perlomeno una discontinuità rilevante dal passato,
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soprattutto per quanto concerne il metodo proposto di dibattito interdisciplinare che è stato poi assunto da numerose esperienze culturali e redazionali successive. Nelle diverse assemblee di Calpestare l’oblio che si sono svolte dal 2009 al 2011 - a Roma, a Bologna, a Milano e nelle Marche - la poesia ha dialogato con un auditorio eterogeneo composto soprattutto da non addetti ai lavori: dall’universo della protesta studentesca al mondo della politica, dal nuovo giornalismo ai movimenti precari e dei centri sociali. Anche queste sono relazioni che prima non c’erano e che adesso sono un dato di fatto e che io credo possano rappresentare una delle diverse e possibili basi costituenti del domani - qualora ovviamente non dovessimo precipitare nella catastrofe umanitaria della Guerra, che è un orizzonte tetro ma di cui (sebbene la sola nominazione risulti particolarmente sgradita e indigesta) dobbiamo cominciare a discutere e parlare. Se le ragioni della prosa giornalistica impongono ragionevolezza e cautela, la radicalità intuitiva della poesia può anticiparla, come avanguardia tematica,
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come “poesia-lepre” (secondo una bellissima definizione di Massimo Raffaeli: la poesia-lepre che fugge al presente, salta, scava) - senza rimanere soffocati dalla sensologia della comunicazione presente che impone una percezione deresponsabilizzata della catastrofe come destino sovrumano e involontario (il 2012 del calendario dei Maya, Melancholia, etc.). La poesia, l’arte, l’estetica, possono avere un compito di significazione, nonostante il pantano del disordinismo in cui sguazziamo. Per disordinismo non si intende la cripticità o difficoltà interpretativa o complessità di scrittura o il mistero polisemico che la parola poetica può contenere ma l’assenza di significazioni che oltrepassino la rappresentazione che un’epoca storica ha di sé. Carlo Sini, traducendo Peirce: “La parola significa la cosa”. La seconda parola-goccia che abbiamo preso in consegna e contribuito a diffondere è “miseria”, dando alle stampe il 2 giugno del 2011 - in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia e della festa della Repubblica - duecento copie numerate e
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firmate del quarto ed ultimo capitolo dell’Italia sepolta sotto la neve, con il titolo Trenta miserie d’Italia. Si tratta di un canzoniere di trenta liriche, come forse sono trenta gli anni simbolici che ci separano dall’avvento di un’epoca oggi in crisi, il tardocapitalismo divenuto finanziario nel secondo lustro degli anni ‘70 - a seguire la prima crisi economica del ‘72-’73 - e che in Italia abbiamo definito, non senza un po’ di consolatoria confusione, berlusconismo, contribuendo a scambiare una conseguenza specifica e nazionale con la causa prima intercontinentale. Una confusione che risulta maggiormente grave se poi conduce, come accade, a sostenere ricette che intendano sostituire la sgradevole conseguenza rimanendo fedeli alla causa. Permanendo, cioè, nell’inverno e nella fitta notte di Hölderlin o del capitalismo.
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Le pietre di Dina
La nuova poesia italiana continua a sorprendere per l’indomabile intensità delle proprie attività eruttive. Dalle campagne del meridione ai quartieri periferici di Torino e Milano, dai borghi appenninici del Centro Italia ai non-luoghi delle appendici pendolari e pedemontane, la nuova generazione di scrittori italiani (possiamo chiamarli i nati negli anni ’80?) riscopre la lingua poetica come forma privilegiata d’espressione. Quale forma da una tale esplosione di materie laviche solidificherà in Letteratura o Canone non è possibile neppure immaginarlo; ma continuiamo ad osservare e a registrare con un certo anticipo sulle comunicazioni accademiche e giornalistiche ufficiali questo sorprendente movimento di furiosa primavera.
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Si potrebbe quasi dire, ribaltando provocatoriamente l’assioma tanto reiterato quanto non più significante della morte del genere poetico, che oggi non è possibile altro linguaggio che non sia quello del verso ritmico come scrigno di condensazione semantica, che la prosa imbrigliata al giogo della produzione industriale e delle sue esigenze di consumo (la trama, il personaggio) non ha più nulla di rilevante da dire né sa come farlo, che il romanzo è morto ed è tenuto in vita dai polmoni artificiali della stampa, del capitalismo editoriale e dei premi letterari. Certo, nient’altro che una scortese “boutade” per sostenere però questo: che è dalle chiazze di libertà stilistica del maltrattato genere poetico che si scatenano oggi bufere di visioni e lucenti promesse di vita che coinvolgono, rinnovano e rinverdiscono anche l’universo della prosa. Dove la gioventù è infinita e non si piega alla gravità del ruolo sociale risiede la verità esistenziale e artistica dalla futura comunità umana. Così dalle carceri dell’oblio San Pietro incatenato esala eterni inviti al viaggio e alla liberazione. Ma non sconfiniamo ed arriviamo al dunque.
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Una delle rivelazioni più limpide e inattese di questo biennio italiano 2010-2011 è senza dubbio la voce della giovanissima Dina Basso, classe 1988, nata e cresciuta in provincia di Catania, a Scordia, ma domiciliata per motivi di studio a Bologna, scoperta e lanciata (se è lecito così sintetizzare) dal critico letterario Manuel Cohen e dalla stimabile realtà editrice “Le voci della luna” di Fabrizio Bianchi per cui ha pubblicato il suo primo e assai consigliabile libro Uccalamma (2010). Chi ora qui scrive si trova nel cuore di un paradosso, quello di avere definito la lingua dialettale come una “funzione letteraria esaurita" (vale cioè a dire: in via di esaurimento; vedi “La Gru” n. 6 e per la precisione il brano “Nuova residenza e territori paralleli”) e nel contempo di riconoscere le liriche in catanese di Dina Basso, così come le venete del maggiore Fabio Franzin, come due esperienze profondamente rivelatrici. È vero che c’è territorio e territorio, fenomeno e fenomeno; è vero che in alcune realtà la resistenza linguistica è ancora in corso mentre altrove il gergo post-dialettale che abbiamo teorizzato è già l’unico neo-volgare possibile. Il sottoscritto abita senza dubbio nella seconda di queste ipotesi e la sua
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esperienza attraversa un amalgama di residui dialettali che vanno ad ossidare uno slang di derivazione mediatica e a formare uno sgrammaticato linguaggio comune tra abitanti di diverse regioni d’Italia e del mondo, dove la comunicazione non verbale ha tra l’altro un determinante peso. Ma forse proprio per questo motivo trova che la fanciulla Opera di Dina Basso, all’interno della quale si inserisce anche la silloge inedita che qui presentiamo, sia una splendida e rara testimonianza liquida (certo fangosa, materica o grumosa, come la realtà fluviale) del limbo che siamo e da cui siamo detti, non morto né vivo oppure morto e vivo continuamente, come la linfa di una pianta appena decapitata, come le ultime lacrime di una fontana sigillata, come un sorso negato e che ci asseta, come il corso fluviale della Storia che a volte si arena sommerso sotto il guscio della crosta terrestre e lì continua a gorgheggiare in solitudine, anticamente nuovo, desiderando una nuova emersione. Eccola tutta questa Sicilia nera e terra lontana che Dina consegna come un mito conficcato nel cuore d’Italia, un esempio salvifico e violento nella sua innocenza amorosa, dalle cui
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pentole sgorgò poesia e sugo e la lingua del Duecento che oggi ritorna. Monili, e cioè pietre preziose; un poco come a dire: “Eccoli, i miei gioielli”, giocando ad una sfida disarmante e straordinaria. Dove sono? Eccoli qui. Sono “tri nuci” (tre noci) e due “lentini sicchi” (lenti a contatto secche). No, non sono gli oggetti a interessare la vita ma le parole che li fanno risplendere e scintillare preziosamente come la luce del Sole le pietre del mare turchese e cobalto, perché è la lingua a dare senso e valore alla materia del mondo, facendola risuonare oppure soffocandola per sempre (che straordinario potere psichico che ha la poesia!). Certo, chiunque potrà trovare tre noci in un supermercato o piccolo emporio cittadino ed universitario, ma non per questo potrà dire di avere stretto nel pugno le “tri nuci” di cui ci parla Dina Basso. Le “tri nuci” sono un’esperienza extraordinaria. Oppure: quanti lettori potranno qui dirsi ricchi al punto da possedere anche una minima quantità di “muddichi / supra a tuvagghia”? Io per esempio, a cercare bene, ho trovato solo delle comuni “molliche / sopra la tovaglia”, delle banali imitazioni.
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Con quali carte rispondere dunque a questo micidiale giro di Poker se non con l’acre confessione di una sete linguistica e storica implacabile? Lo ammetto, alzo le mani. È la sete di “‘mpastari u pani” (impastare il pane) che mi obbliga a farlo. È la sete, anche, di volersi “suttirrari, / viva, / comu a Laura Betti” (sotterrare viva, come Laura Betti; con un evidente riferimento al film Teorema di Pasolini dove appunto la Betti, che impersona la serva contadina di una famiglia borghese, resiste alla violenza desertificatrice della Storia tumulandosi in un cantiere e tramutando il proprio pianto in novella fontana sorgiva che erompe dal cemento del capitalismo con l’invincibile forza della vita e degli elementi naturali. Sarà forse la sete la nuova funzione del corso fluviale, anche quando scompare, anche quando non c'è? Sarà forse la sete la promessa di una nuova sorgente? Oppure la sete è soltanto sete, serve a farci comprendere che intorno c’è il deserto. Qualunque sia la risposta che vogliate oggi darvi, ecco i “Monili” catanesi di Dina Basso. Buona lettura.
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I poeti de “La Gru”
Quando nell’autunno del 2003 Roberto Roversi aprì l’uscio della Libreria Palmaverde di Bologna, in Via de’ poeti, io avevo ventidue anni ed ero un incerto studente universitario proveniente dalla provincetta sud-marchigiana di Ascoli Piceno, neofita della poesia innamorato di Rimbaud e di Pasolini. Aveva combinato l’incontro Gianni D’Elia ed io mi trovavo con gli amici Daniele De Angelis e Riccardo Fabiani assieme ai quali fu fondata, nel 2005, la rivista “La Gru”, sulla scia dell’esperienza di poesia e realtà, pensiero critico e sincretismo extra-letterario, di “Officina”.
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Eravamo tutti freschi della lettura travolgente de La partita di calcio (Pironti, 2001), la Parte seconda del lungo poema polifonico L’Italia sepolta sotto la neve, di cui non potevamo neppure immaginare di poter essere, nello stretto giro di dieci anni, gli editori della sua Quarta ed ultima sezione, le Trenta miserie d’Italia (2011). Ci sedemmo in una selva misteriosa di libri e manoscritti volteggianti come civette o meduse marine e il poeta ci parlò di sentieri di montagna e di amicizie meravigliose. L’angusto spazio della libreria antiquaria era una foresta magica di presenze e memorie, lettere, fotografie. In essa le voci dei vivi e dei morti si annodavano ai nostri abiti come edera selvatica o erba gramigna. Capii subito che la mia vita, da quel momento in poi, sarebbe inesorabilmente mutata. Se devo ricordare una cosa io ricordo i suoi occhi, ardenti come la brace; ma fluviali, collinari, limpidi: rivolti verso l’oceano. Come in un film di Tarkovskij: un improvviso incendio, sotto la pioggia emiliana. Le sue parole invincibili, come piccole gocce che scavano la roccia: “Voi siete dei poeti di vent’anni, testimoni della nuova storia. Se vorrete continuare
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ad esserlo dovrete impedire a voi stessi di marcire nel pantano delle accademie, delle carriere universitarie, dei favori editoriali o delle ciniche congregazioni letterarie. Ogni amicizia di comodo sarà funesta, un plagio che richiederà ipocrisia e corruzione, distacco da sé e dal mondo, infedeltà alla parola poetica. Statene lontani, continuate ad abitare la terra. Scavate il suolo a nude mani, verso il magma incandescente. La parola da trovare è lì, dove più scotta, dove è più sconveniente cercare. Afferratela, se la sentite ardere. Quando sverrete dal dolore, allora avrete scritto una poesia”. * “La Gru”, rivista di poesia e realtà, oggi chiude. Essa nacque per necessità, quando prendemmo atto che non sarebbero esistiti spazi in Italia in grado di contenere le nostre voci liriche ed impure, ma anche politiche e a loro modo militanti, volte ad esprimere epicamente o tragicamente una complessità biografica e narrativa, poematica, stratificata e interna a un passaggio storico violento e ambiguo, imprevedibile.
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Era la nostra storia di periferie e province marginali, palazzetti cementizi e piste ciclabili, lampioni sfocati ai bordi dell’infinito oscuro campestre, residuale, a non avere un luogo in cui rivelarsi e cantare. Qui dove latrano per sempre i cani alla luna, ai piedi delle montagne oracolari della Sibilla appenninica, ad un passo dal mare, dove in due sul motorino si andava al fiume o al lavoro stagionale in fabbrica o al centro commerciale… In essa abbiamo protetto il nostro apprendistato letterario dalle estetiche dominanti gli anni Novanta e Duemila: il neo-orfismo metropolitano (Milano), il lirismo confessionale e d’occasione (Bologna), il concettualismo di ricerca accademico, privo di ogni dimensione tragica e musicale (popolare, nel senso di Nietzsche e Saba) della storia (Roma). Furono i Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke a rendermi visibile (tangibile) l’idea di ciò che sarebbe dovuto essere il nostro compito estetico: lo spalancarsi, inclusivo e onnivoro, della rosa. L’eresia di Pasolini di Gianni D’Elia ha fatto il resto, con le sue lezioni su Proust, Leopardi, Baudelaire: “Pensare, sì, è ringraziare…”. Grazie.
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Come tutte le esperienze umane “La Gru” si incastona in un periodo storico, alla luce di una “storia” di cui intendeva liberarsi e che ne ha determinato a maggior ragione le azioni e il tono. La nostra “storia” principale è stata il terzo lustro del quindicennio berlusconiano, il secondo del nuovo secolo, terreno oscuro e denso di inquietudini ed ansietà che hanno reso possibile, ad esempio, che un seme di rivolta culturale come “Calpestare l’oblio” germogliasse, tra il 2009 e il 2010, nelle forme selvatiche del bosco (con la collaborazione degli amici di «Argo» e di Pietro Spataro, vicedirettore de «L’Unità»). Essa rappresentò, per noi, la fuoriuscita definitiva dal trentennio neo-orfico ed autoreferenziale della poesia italiana (da La parola innamorata del 1975 ai mille epigoni di Milo De Angelis di ieri e oggi) e dal lirismo privatista dei nati negli anni ‘60 e ‘70 (Rondoni, Atelier, Piccini, il dogma Poesia – con tutti gli Aldo Nove e Giuseppe Genna a disposizione etc.). Una fuoriuscita priva di livori, senza tabù e nuove chiusure contenutistiche o linguistiche. Noi volevamo solamente aggiungere, conquistare il diritto a esprimere i mille contrappunti della nostra
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esistenza storica (tra amore e fato, guerra e colonizzazione dell’inconscio) e di farlo con tutte le parole a nostra disposizione. Lo abbiamo fatto. * Ci fummo da ragazzi, a volte sbagliando le parole, con passione e ingenuità intuitiva, forse non aggiornati ma neppure ironici, probabilmente poco consoni ad una cattedra di ricerca. Ci fummo, insomma, arcaicamente, da poeti di vent’anni, le cui riunioni avvennero sotto la luce meravigliosa del sole marchigiano, in qualche splendida tavolata sulla Via del Carnocchio, a casa di Stefano Sanchini; o al bocciodromo di Castel di Lama... Ma anche questo affetto di amicizia fraterna sul lavoro fu una forma inedita che volevamo assumere. E lo abbiamo fatto. * Una rivista di poesia ha senso nella misura in cui da essa fuoriescano poeti ed opere.
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I poeti de «La Gru» sono cinque: Augusto Amabili (1976), Daniele De Angelis (1981), Loris Ferri (1978), Davide Nota (1981) e Stefano Sanchini (1976). Nei sette anni di lavoro redazionale hanno prodotto, in ordine di pubblicazione, dieci opere: Battesimo di Davide Nota (LietoColle, 2005; prefazione di Gianni D’Elia), Diario di un altro di Daniele De Angelis (Otium, 2007; prefazione di Francesco Marotta), Interrail di Stefano Sanchini (Fara, 2007; bandella di Davide Nota), Il non potere di Davide Nota (Zona, 2007; prefazione di LuigiAlberto Sanchi), Borderlinea di Loris Ferri (Thauma, 2008; prefazione di Gianni D’Elia), La convalescenza di Augusto Amabili (Fara, 2008; prefazione di Davide Nota), Via del Carnocchio di Stefano Sanchini (Thauma, 2010), La rimozione di Davide Nota (Sigismundus, 2011; prefazione di Raimondo Iemma), La gettata del cielo di Augusto Amabili (Sigismundus, 2011; prefazione di Danni Antonello) e infine le Corrispondenze ai margini dell’Occidente di Loris Ferri e Stefano Sanchini (Effigie, 2011; postfazione di Roberto Roversi). In via di (lunga) gestazione è la seconda opera di Daniele De Angelis, il più appartato e silenzioso
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degli autori del gruppo, e l’unico di formazione prevalentemente artistico-visiva. Potremmo fare altri nomi, di autori indipendenti dal convivio redazionale ma ad ogni modo affini, fratelli maggiori o coetanei come Flavio Santi (1971), Enrico Piergallini (1975), Emiliano Michelini (1977), Raimondo Iemma (1982) e Dina Basso (1988). È possibile nominarli proprio perché non sono state molte, in questi anni, le affinità. Il veneto-marchigiano Danni Antonello (1978), acmeista anarchico di ascendenza francese (sue le traduzioni in Italia di Guy Goffette); ma anche Beppe Mariano (1938), grande e appartato poeta, hoelderliniano del Monviso, di cui è da pochi mesi uscita l’opera omnia Il seme di un pensiero (Poesie 19642011) per Aragno Editore, imperdibile. Uno degli ultimi redattori, in ordine di tempo, ma amico sin dal principio, è Marco Di Salvatore (1984), che ha pubblicato nel 2010 una plaquette embrionale dal titolo Prime poesie (Thauma) e da cui ci si aspetta, ora, il vero esordio, tra Amelia Rosselli e Glenn Gould, Carmelo Bene e Roversi: la musica anti-civile del canto arcaico e fanciullo, all’ombra del Gran Sasso abruzzese, ne Le Grette di Gioia Dei
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Marsi dove si sono già svolti due reading montani de “La Gru” e altri convivi. Augusto Amabili (1976) è il solo poeta de “La Gru” non redattore. Completamente estraneo al dibattito culturale animato dalla nostra stessa rivista egli è, utilizzando le parole di Danni Antonello, un “solamente poeta” non intellettuale, la cui scrittura, che pure si nutre di consistenti riferimenti linguistici e formali a partire dai poeti de “La Voce” (Sbarbaro, Rebora e Campana) ai nostri ultimi Di Ruscio, Roversi e Gianni D’Elia, ma con una declinazione decisamente più magmatica e beat, jazzata, si relaziona interagendo con la realtà storica e biografica senza particolari filtri letterari o mediazioni che non siano i canoni stilistici della più semplice lirica popolare o della canzone blues e rock (ma anche della preghiera, cristiana), corrosi e sfrangiati da continui e nevrotici interventi esterni (voci spezzate, immagini traumatiche, pensieri e ricordi ossessivo-compulsivi) che l’alterano e disturbano. Amabili, la cui formazione è radicalmente autodidattica (ha frequentato irregolarmente gli studi
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medi inferiori e superiori presso l’IPSIA di Ascoli Piceno e ha iniziato a vent’anni a lavorare come operaio in una ditta calzaturiera) sta componendo per capitoli e strati un piccolo “Canzoniere” operaio e espressionistico degli anni Duemila, dal margine ambiguo e ispiratissimo della Vallata del Tronto. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo libro di poesie dal titolo La convalescenza, per Fara Editore, e nel 2011 La gettata del cielo, per Sigismundus Editrice, disperato e allucinato requiem dedicato a un amico scomparso nel 2008, sotto le ruote di un treno (“le rotaie frignano cazzate”). Non solo per questo Danni Antonello lo ha definito l’erede, in Italia e nelle Marche, di Luigi Di Ruscio (lo stesso poeta “operaio” lo lesse trovandolo affine, e Roversi ne fu molto colpito e interessato). Amabili ha una vena surreale e dadaista che si innesta ad un impianto lirico impuro corroso sin dall’origine dalla lingua del mondo attraversato e condiviso, che è il non-luogo della via Salaria marchigiana, che unisce Ascoli Piceno a San Benedetto del Tronto. Il crash fra letterario e un limpido immediato espressivo che si rende oscuro nella composizione a “collage” delle impressioni tracciate en plein air è la
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forza di un’operazione estetica particolarmente riuscita anche dal punto di vista della esecuzione, se i reading del poeta di Spinetoli sono ad oggi dei momenti di alta partecipazione pubblica, ove l’auditorio partecipa al vissuto lirico con trasporto e fedeltà affettiva (un fenomeno, questo del “riconoscersi” tra io poetante e pubblico non specialistico, tutto marchigiano ma che in Amabili, la cui personalità di contadino veggente è certamente magnetica, si fa di rara intensità). La vetta che rivela appare brulla non preoccuparti è la birra che circola da inquilino smonto il turno sopra il mantile unto dell’aurora non si venera l’altura la bolla di consegna conferma la merce l’essere di non specie redenzione e calice atto di manutenzione il rubinetto che perde permea lo stesso le zone aride che il vivere è come scolpire serve togliere raschiare il resto è un ascoltare senza udire la piaga di un’orma ormai nel magma.
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Daniele De Angelis è nato nel 1981 ad Ascoli Piceno, dove lavora come libraio e dirige una galleria d’arte. Per indole riservato negli studi e nella composizione, la sua formazione prevalentemente artistico-visiva e concettuale, interessata alle correnti del minimalismo e dell’arte povera, lo potrebbe in qualche modo avvicinare ad alcune delle migliori esperienze della nuova poesia di ricerca in Italia: Fabio Teti, Ivan Schiavone e il gruppo Polìmata di Roma o i più maturi Mariangela Guatteri e Marco Giovenale. Si tratta di una tensione originaria, quella della sperimentazione, a cui fa da contraltare però il gancio del paesaggio, il peso degli avi e la gravità terrestre: è ancora la terra marchigiana che emana il proprio canto popolare in ogni dove, come il vapore dei laghi e l’odore dei funghi. De Angelis così trova nella prosodia narrativa latina, nel metro ovattato da falsi prolungamenti di Cesare Pavese, o in quello frantumato e secco (ma dialogico e pensante, frastagliato) di Vittorio Sereni, ma anche nella lirica piana (minimale) dell’oggetto e del concetto, dell’interazione fra sguardo e evento
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di Antonio Porta, una base di partenza per un primo discorso da svolgersi rifuggendo dalla prepotenza metrica e musicale del poemetto classico italiano (che rischierebbe di soffocare l’immagine sovraccaricandola di riferimenti culturali già dati o autoreferenziali) per un passo più incerto e precario, che avvenga lateralmente rispetto alla scena ma non rinunci per questo a calcare umanamente il sentiero del proprio destino e mondo: pensandolo, interrogandolo o lasciandolo parlare e svelarsi. È il discorso che sfocia nel Diario di un altro, libro d’esordio pubblicato nel 2007 per le marginali edizioni Otium di Ascoli Piceno, la cui finzione diaristica attraversa un habitat realmente animato dalla biografia dell’autore: la periferia cementizia di Monticelli, al confine ex-rurale di Ascoli, e la natura montana poco distante. Il rumore del motore era un basso continuo e costante, una monodica litania che muoveva il bus in un respiro saturo di guarnizioni rescallate e poltrone dalle stoffe acriliche e strinate. Nello sporgermi avanti camuffavo lo sguardo nel paesaggio
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sintetico del finestrino (il verde chiaro e acceso dei bordi della valle, il verde scuro come un’ombra, delle montagne, il cielo, un celeste così liscio da non possedere sfumature, e al centro della pianura il rigo grigio delle fabbriche; eccede soltanto la bava bianca delle ciminiere a cancellare i crinali). I passeggeri eravamo pochi; davanti, sulla sinistra vedevo le teste magre di due nell’infittirsi di un discorso smozzicato; e stavo attento a ogni rimasuglio di -ende-, -shc-, -drava ridisegnare una geografia personale, dai confini indecisi, coordinate falsate; un’antropologia intuitiva, paesana. I capelli di lei come disseccati da sabbia o fiamma improvvisa e dal profilo un dosso piccolo e duro sul naso, le sopracciglia a condensare un pensiero irrisolto, un’ossessione caduta nell’occhio. È una scossa e l’occhio inizia a vibrare come distaccato dal volto, la pupilla opaca è un pozzo micidiale, molle catrame che il bus sprofonda. Poi un’altra istantanea, e le teste stavano addossate nel sonno, sottili, come carte da gioco.
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Il nuovo lavoro di Daniele De Angelis è ancora inedito, privo di titolo e in via di lenta revisione. Esso muove dal medesimo pretesto, gli appunti diaristici di un’alterità (femminile, stavolta) e punta verso lo stesso fine: la stesura di un romanzo narrativo in versi, le cui liriche siano tavole di un polittico unitario (si tratta nelle intenzioni di un giallo poetico che ricostruisca a intermittenza la vicenda di una giovane immigrata fuggita nei boschi di una piccola comunità montana da un Centro di identificazione e espulsione, e dell’impossibilità di un’istituzione linguistica e militare come la Questura locale di dare un senso e una forma a una storia che è puro scorrere della vita). È proprio l’unitarietà dell’opera-libro, l’idea del poema come sviluppo di durata dell’intuizione occasionale, un valore estetico probabilmente costituente l’intero gruppo de “La Gru”, declinato chiaramente nelle più diverse (e talvolta antitetiche) forme. Il poema di De Angelis, il cui interesse estetico volge ora a Oriente, verso le tradizioni letterarie giapponesi e cinesi, continua ad essere la cifra estetica di un viaggio aperto e solitario nella vita
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storica condivisa all’interno del proprio luogo di residenza, alla ricerca non risolta di un nesso non più mediato dallo sguardo categorizzante occidentale fra soggetto e natura, io e altro. Uno sguardo che sia in grado di sciogliersi nella visione olistica dei fenomeni non ordinati gerarchicamente da un inconscio politico opaco e inscalfibile come il guscio di una storia che volge al suo termine e che condanna il soggetto colonizzato alla cecità e all’asfissia. * Nel fondo notturno di questo guscio (che è l’immobilità della Storia congelata ed autopercepitasi per due decenni come “finita”) germogliano i gigli manieristici e borderline di Loris Ferri, poeta nato nel 1978 a Pesaro, dove vive e lavora stagionalmente come operaio edile, dopo aver compiuto gli studi universitari a Urbino e aver vissuto alcuni anni a Bologna, città adottiva e sua seconda residenza, onnipresente come un calco baudelairiano nel gioco schizofrenico in cui l’autore esige una seconda vita, sovrapposta alla biografica, da cantare per conoscersi come una maschera
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caravaggesca è funzione della confidenza più intima e segreta, riscattata dal giogo della personalità socializzata. Questa vita seconda, che è l’elaborazione di un trauma umano e generazionale per mezzo di una serie di dissociazioni della memoria, assume per questo una postura teatrale e classica, retoricamente colta e elaborata, grondante di metafore, allegorie e personificazioni derivanti dalla poesia francese del secondo Ottocento, dalla russa del primo Novecento e in parte dai poemi epici greci e latini, in cui si manifesta la voce, come da un eterno presente proprio dello “stile classico” (come inteso da Mandel’štam) che ingloba l’ora e qui per dichiararlo “passato”, dell’alter-ego di Ferri: l’emarginato, l’escluso, l’iper-sensibile (adolescente, tossicomane o poeta è la medesima cronistoria di una rimozione) incompatibile con le logiche massificate e spersonalizzanti di un fine-Storia mediatizzato e polverizzato in pixel e non-luoghi. La resistenza dell’umano, esclusa dalla Polis nevrotizzante della fiction, anela al viaggio solitario e ad un incontro redentore (con un amico, o con un amore che assume i mille volti della realtà e della
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mancanza), ai margini di un evo patrigno che precipita inesorabilmente in bufera e in morte. In ciò solo la pazienza dell’attesa (per dirla con le note parole di Roversi) è principio salvifico e vitale, la chiamata a una traversata tanto più dolorosa e biblica per una generazione che non ha conosciuto altra stagione che l’inverno. E lo stile della reiterazione è forse l’umiltà, talvolta, di riconoscersi in una crisi (come per Longhi, il maestro di Pasolini, e per Hölderlin) che a maggior ragione deve essere assunta fino in fondo per essere varcata come una soglia, assumendo in sé la consapevolezza ed anche il peso dei secoli a ritroso. Così il ragazzo alieno di Loris Ferri, il personaggio del suo libro d’esordio borderlinea (pubblicato nel 2007 per le edizioni Thauma di Pesaro, con una prefazione di Gianni D’Elia), il cui titolo è già un piccolo manifesto di quanto da me ora disordinatamente espresso, assume la pluridimensione di un tempo più vasto di un presunto “presente” a cui aderire mimeticamente, un tempo largo e stratificato, in grado di sovrapporre l’immagine dei bari di Caravaggio al giocatore di Baudelaire, la bevitrice d’assenzio di Degas ai tossicomani di Bologna e Pesaro, il viaggio di Enea
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a quello di un Rimbaud o di un giovane slavo in fuga dalla guerra con cui il poeta ha conversato o condiviso una qualunque occasione di incontro. non avete mai visto, miei cari, nei piccoli centri, fuori città, sulle campagne i giocatori di carte e i bari, starsene intere giornate nelle taverne, sotto luci bianche di obitorio? […] non avete mai visto, miei cari, il vecchio teatro l’opera in scena, il luogo dove ci disprezzereste tutti, il piccolo parco, cuore dello spaccio e il giovane steso in collasso, sulla panca di legno umano eppure, immobile segretamente di marmo, intirizzito, l’eroina sembra gli doni la stessa posa del cristo, nella passione di chi come dio, è l’Angelos solo, le braccia che accolgono il feretro non hanno più nulla di umano, sono il gelido abbraccio dei chiodi sfaldati in ruggine, che a fatica reggono le stecche di una panca-tomba, alquanto inferma sotto il sipario e le orbite di una notte nera… pittura di genere, signori, pittura del genere umano…
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Ma è forse nella sua seconda pubblicazione, le Corrispondenze ai margini dell’Occidente, poemetto dialogico composto assieme all’amico Stefano Sanchini ed edito da Effigie nel 2011 (con una rara postfazione di Roberto Roversi), che la vena di Loris Ferri si espone nella sua maturità più limpida e cortese. Qui il canto civile sul presente e l’evocazione tragica del destino biologico assumono uno spessore unitario e una pulizia sentimentale e filosofica di ascendenza leopardiana, in cui la durata pasoliniana del “pensiero poetante” e un labor limae petrarchesco (ma mai petrarchista) convergono in una forma poetica plastica e ispirata, in cui il letterario dello stile mai sfrangiato e delle forme chiuse in quartina è funzione (come in Fortini) di un “pensiero in atto” da comunicare, una delle possibili risposte a quell’esigenza, cui si faceva cenno all’inizio del brano e che i poeti de “La Gru” testimoniano variamente, di ricusare gli argini della separazione estetica dai molteplici richiami e ambiti della presenza storica e della dimensione umana a tutto tondo.
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Una ricerca formale che prelude al suo, ancora inedito, poema Rom; opera di incontro, anche linguistico, tra italiano e croato, nella condivisione con un’alterità sempre più estesa di un moto (ondoso) comune: l’esodo, come dimensione storica e esistenziale: “I nostri anni non vanno, né vengono, / essi stanno insieme. Essi ricompongono / o frantumano il quadro dell’essere…”. * Ancor più decisamente ostile all’idea di una poesia come linguaggio riservato a una ristretta comunità di interesse specialistico è l’esperienza virulenta di Stefano Sanchini, autore la cui personalità poetica esonda con frequente violenza nel tentativo di invadere il territorio circostante. Distinguere la scrittura di Sanchini dal suo timbro vocale o dalla sua presenza biografica nel mondo è impossibile per chiunque abbia avuto occasione di conoscerlo e ascoltarlo. Il poeta laureato in filosofia e autista di autobus a Pesaro, dove vive in una sorta di comune rurale di sua proprietà assieme ad alcuni amici, è già negli anni divenuta una piccola leggenda territoriale a
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causa di questa sua sorta di incosciente e francescana, ebbra, invadenza con cui improvvisa recitativi di poesia e lezioni di estetica alle ore più improprie del giorno o della notte e nei confronti dei più improbabili auditori occasionali. La poesia è per Sanchini un atto di amore e di guerra, sanguigno e indomabile, è il suo sangue alla testa, e in tale dimensione tragica (ed eroica, anche) egli ha piantato l’albero verdeggiante della propria esistenza. La sua avventura di parola (e il suo destino, forse, lavorativo e esistenziale) ha inizio con un viaggio, e non è un caso che il suo primo libro di poesia, un bellissimo canzoniere lirico pubblicato per Fara nel 2008, abbia per titolo Interrail come il nome della tariffa che Trenitalia ha predisposto negli anni Novanta e Duemila per percorsi a basso costo verso le principali località europee. Il viaggio in Europa che Sanchini ci tramanda è l’occasione di un incontro, corpo a corpo, con la terra di una vasta tradizione culturale (si pensi solo alla lirica dedicata a Francoforte, sede della nota Scuola filosofica neoumanista e marxiana) incisa e corrosa dai segni plumbei di una storia presente che scandisce immagini di guerra per via radiotelevisiva
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e consumismo dilagante per strade e piazze animate da popolazioni massificate e frantumate in solitudini separate e incomunicabili, impermeabili all’incontro. La delusione di tale viaggio originario, che narrativamente si rivela nel rifiuto emblematico del poeta nei confronti dell’ipocrisia del gruppo a cui s’accompagna (“ma l’amicizia non è salutarsi”), è la presa d’atto di un arido vero globale e la rinuncia, quindi, a trovare in un “altrove” proiettato esternamente al proprio habitat residenziale una forma ideale di patria disattesa. Inizia per Sanchini, che nel frattempo ha trovato lavoro a Pesaro, la costruzione filosofica e rituale, religiosa, della propria “casa”, sopra le zolle imbevute di vino e di canto della campagna marchigiana. Qui egli scrive forse il capitolo più importante della sua presente bibliografia, un monologo in versi dal titolo Via del Carnocchio, distribuito nel 2009 in fotocopie rilegate in occasione delle ripetute esecuzioni orali svolte per locali e case private e infine pubblicato nel 2010 per le edizioni Thauma dell’amico Serse Cardellini. La via del Carnocchio è l’antico nome della strada campestre in cui il poeta
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abita, tra Pesaro e Fano, trasfigurata nel poemetto in crocevia archetipico e pagano ove si incontrano, a tarda notte, le dee Inerzia, Bellezza, Fede e Morte, in dialogo con il Poeta sulla vita dell’uomo, la storia presente e il mistero dell’ignoto e dell’oltre-vita. Una religiosità non astratta ma incarnata anche moralisticamente nella carne storica dell’autore che giudica e commenta il presente, bestemmiandolo o adorandolo come un amante ai piedi della propria amata, in lacrime. Ciò comporta, formalmente, la scelta stilistica del poema orale, vale cioè a dire di un drama finalizzato all’esecuzione, e il conseguente abbassamento del controllo metrico per una prosodia fondata sull’accentazione, sulla rigogliosa trama di assonanze interne e sulle soluzioni più irregolari di necessità oratoria (le pause, i silenzi, le variazioni di velocità). È raro, io credo, partecipare a un reading di poesia al giorno d’oggi, in Italia, in cui dal pubblico si sollevino voci concordi o discordi con l’autore, che interrompe la lettura per tuffarsi in qualche animata discussione politica o di carattere biografico ed esistenziale per poi riprendere l’ordito poetico lì dove era stato interrotto: come se questa continua ingerenza della poesia nella realtà e della realtà nella
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rappresentazione scenica sia la vera e grande soluzione estetica che egli, oggi, ci propone e dona. Questo fuoco è la voce che mi dimora nel corpo con tutta l’anima vorrei abitarla ma tutto è predisposto al fine di non essere così nullificato, aspiro ad essere l’anello malato della catena di montaggio aspiro alla solitudine e all’ingiuria ho paura, certo il sogno era un altro e c’erano gli altri con il loro viaggio a incontrarsi che vivi siamo in questo tempo ma dove sono gli altri? Dove le provviste? La città impone la legge alle periferie alle campagne le masse per svago invadono le grandi montagne, non hanno memoria, dimenticano che l’acqua migliore che hanno bevuto l’han rubata alle vacche nei pascoli alti, in città l’acqua vive in bottiglie di plastica verde azzurrina celeste o trasparente, il fuoco l’han nascosto nei boiler o dentro ai fornelli, la terra sotto cementizie schifezze, l’aria non serve, veder non si vede ma nemmeno si vedono le sottili
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polveri o la nube di Chernobyl… così qua noi si resta tra la vocazione e la malattia genio e fallimento è il poeta non vedo altra via aspiro alla solitudine e all’ingiuria ho paura, certo il sogno era un altro e c’erano gli altri con il loro viaggio a incontrarsi che vivi siamo in questo tempo…
* Il quinto poeta de “La Gru” è chi ora scrive e non può tracciare di sé stesso che una furtiva riflessione a margine. Negli ultimi sette anni, che sono stati la vita della nostra “scuoletta marchigiana” e del mio privato apprendistato letterario, ho tentato di comporre un libro organico e unitario, il cui titolo definitivo sarà “Il non potere (2002-2011)” e che, in qualche vago futuro, dovrà comporre i tre capitoli (rivisti e corretti) di Battesimo (2005), Il non potere (2007) e La rimozione (2011). Dal Battesimo (alla poesia e alla realtà) alla “membrana da cambiare” con cui si esautora, per
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sfinimento, il terzo episodio del trittico, il tentativo è stato quello di cantare un’immedesimazione dolorosa e tragicomica (ma, sia chiaro, mai ironica) con l’inconscio politico di un fine-Storia che ci colonizza e espelle, o schiaccia, e contro cui mi è sembrato talvolta impossibile, altre volte inefficace, opporre una consolatoria distanza di maniera, un’auto-posizione di salvato (“Se spezzo le catene è solo un sogno / ridicolo, che lascia posto all’ombra.”). Il solo moto di resistenza possibile, nel Nonpotere degli anni Duemila (del tardo-berlusconismo nazionale e della fine d’epoca continentale) è stato per me la presa d’atto e la confessione, dolente, di essere un partecipante e corresponsabile della rovina. Le volontà del soggetto individuale ora non contano: l’evo paterno putrescente e oscuro, di cui canta De Signoribus in Trinità dell’esodo, era la mia stessa carne avvelenata nei suoi interstizi onirici e negare questo semplice dato di fatto avrebbe significato compiere l’unico misfatto praticabile in poesia: e cioè partecipare alla mistificazione propagandata dalla classe egemone traducendo
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l’arte poetica in una forma di retorica finalizzata alla consolazione. Radicalmente ostile all’idea novecentesca di una differenza elettiva fra avanguardia intellettuale (o élite culturale, o stilistica) e la vita impropria di un presunto e astratto popolo incolto (che meglio farebbe a non esprimersi, come nelle peggiori e recenti intenzioni, aimè avveratesi, di Asor Rosa), ho opposto al giudizio ironico e sprezzante della borghesia più o meno colta italiana (la cui ambizione fondamentale era quella di sostituire Berlusconi con un governo coloniale di colonnelli tecnici, dal gusto sopraffino; con i quali è possibile tornare a teatro) la partecipazione sentimentale al pantano oscuro, la condivisione di un destino e di un male collettivo irredimibili senza aver compiuto prima d’ogni cosa un’opera di auto-analisi che riconoscesse nel berlusconismo (la pacchiana volontà di potenza dell’individuo vile e disperato, senza tempo né luogo, che tutto vuole utilizzare nella misura in cui tutto gli è negato) un dramma interno e individuale, antropologico e costituente, ben oltre la guerra di fazione politica o tra bande di grandi patrimoni editoriali. Questo male io l’ho chiamato “Il fiore del fascismo universale”, trasfigurando una ripugnante
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definizione del falco repubblicano Michael Ledeen (oggi tra i finanziatori della campagna elettorale per le primarie del centrosinistra di Matteo Renzi). Questa presa d’atto (in cui soggetto poetante è anche il mio nemico storico, con una sovrapposizione di personalità e di intenti di oscuro intendimento ma di sincera e dolorosa immedesimazione) è stato il mio modo di partecipare a una riflessione storica irrimandabile e in questo la mia è stata, o ha tentato di essere, una poesia intensamente privata e radicalmente politica. Di tutto il resto, che è “tutto” ciò che poi davvero conta (essendo questo appunto solo una riflessione a margine sulla scenografia e sul pretesto narrativo dei personaggi del poema; ma è il conflitto fra le azioni, i sentimenti, i pensieri e le visioni contraddittorie e antitetiche che si svolgono in esso, che io sono), non dirò. Non sono io a doverlo fare. Depongo due momenti, però, a parlare in mia vece. La prima è una satira, che si collega bene al discorso appena svolto. La seconda è una ballata lirica, Rappresentazione, a cui sono particolarmente legato e che ho scritto nei primi mesi di distanza
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dalle Marche, quando sono arrivato a Roma per cercare un lavoro, nel 2009. La dedico, con amicizia fraterna e affetto, agli amici per sempre de “La Gru”.
Leggendo Eschilo La mia giornata è senza senso e non sarà possibile costruire una fortezza necessaria per dire è questo, è quello. Io sfoglio libri alla rinfusa come le pagine di Topolino e Focus. Non leggo Bataille, inizio Proust ma mi distraggo. E presto è l’ora di farmi un giro su Youporn. E quando arrivo a sera sono stanco. A volte penso che si perda crescendo la facoltà di intendere le cose, io per esempio non comprendo più cosa significhi avere un mondo interiore. Escluso dai candidi pepli e dai banchetti esecrabili, non il canto delle Erinni mi spezzerà la vita. E nessun coro che scavi in questo bulbo corroso.
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Rappresentazione Partiamo, come un livello di separazione da infrangere. In ogni cavo la sostanza mancante in forma di lacrima chiamare. Questo sembiante accarezzare. Chiedo asilo? Decoro? Amico, cosa voglio ignoro. Il quadro degli orizzonti è pieno. L’ambiente ridicolo. Il possibile designato vuoto. Ho sognato una casa che non c’era e una sorella nell’origine. Ma pure tu baciare vuoi nel modo in cui morire non sia più l’arido male. Ma l’altro non esiste. E per sognare servono i soldi. Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati, la via di casa quando piove e tardi la ragazza pallida che ti offre la mano. Spariranno? Non so, tutto è svanito, e assieme al tutto anch’io che cerco ristoro in una canzonetta sbandata. Vorrei in fiamme vedere le vetrine dei call center, le agenzie interinali, e con pietà francescana aggiungere al fuoco nuovo fuoco.
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Ma tutto quanto ricadrà su noi che sete avremmo avuto di sole e di fontana. E San Lorenzo appare nella sua scomposizione di sabbia bagnata. Avremmo detto: certo, avanziamo, così come per fare un movimento qualsiasi. La rappresentazione è salvaguardata. Io voglio il meglio. Se fuoco non arde. E fontana ricorda. Verde. Blu. Volevo il meglio da questa generazione sballata di pasticche e psicofarmaci. Così certo, potremmo facilmente bruciare il vecchio mondo rappresentato, ma un enorme deserto illuminato a nuovo non era certo il fine di questa guerriglia! (La schermata del cielo gelidamente oggettivo). E quella notte apparvero infuocate croci. Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più. Paesaggio verde e nero di infrarossi e fanale. In fila pisciavamo contro il mare. “Starò con i miei amici fino alla fine del mondo.”
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Cosmopolis di David Cronenberg
Il Cosmopolis di David Cronenberg è un’opera leopardiana e pessimista sul destino cyber-biologico e sul tempo sociale, in cui anche la “rivolta” del disordine e della protesta anarchica contro Wall Street è funzione di un futuro post-industriale che insiste e incalza, e che lo stesso capitalismo finanziario — esploso dopo un secolo di espansione in un’impasse imprevedibile e difficilmente determinabile in cui “il denaro ha perso la sua forza narrativa, come la pittura tanti anni fa” — brama, fra straniamento sessuale e pulsione di morte. Il tema che Cronenberg isola e sviluppa dal romanzo di DeLillo è quello, già caro al regista canadese, della compulsività automatica dell’autodistruzione come desiderio rigeneratore: anarchia e
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tecnologia, Occupy Wall Street e speculazione finanziaria puntano al medesimo e non più rimandabile obiettivo: “distruggere il passato per creare il futuro”. Quale futuro? Quello di un sistema economico fondato sul ludus dell’azzardo e che ora si consegna al suo ultimo brivido di roulette russa: sacrificare il suo ultimo feticcio, la Borsa, consegnandola alle fami della rivolta. Il tema tratto da DeLillo è quello della spoliazione del cyber-capitale dalle sue sovrastrutture tradizionali, allegorizzato dalla perdita graduale di elementi vestiari e status-symbol del protagonista Eric Packer (impersonato da Robert Pattinson), un tycoon di ventotto anni già alla fine del proprio mandato professionale e del proprio ciclo vitale, in una dimensione storica esplosa e scandita dal frenetico frantumarsi di nanosecondi in yoctosecondi. Esso pervade la totalità del presente, come la rete di interconnessione elettronica che da Videodrome a oggi globalizza l’umanità perdendo persino la sua caratteristica materiale di oggetto-computer o di mezzo “Internet”. La rete è oggi incarnata: essa è la “Nuova carne”.
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Cronenberg traduce il romanzo originario, fondato sui dialoghi, in una sorta di unico monologo a più voci, tra il “cinema filosofico” (Perniola) e “di parola” come riflessione sulla crisi dell’immagine (altri esempi di cinema sonoro sono A Lisbon story di Wim Wenders, Blue di Derek Jarman o le parabole esemplari di Guy Debord e João César Monteiro) e il teatro elisabettiano dell’ultima scena, dove Packer si consegna al proprio alter-ego e potenziale omicida (interpretato da Paul Giamatti): pulsione di morte assunta dall’iconografia cinematografica del reietto-vittima o, infine, della madonna islamica del penultimo fotogramma. Packer cerca la morte che non può avere, dopo una giottesca perdita simbolica di beni difensivi (gli occhiali da sole, la giacca, la cravatta, l’uomo della scorta, la limousine), e che probabilmente non avrà. Ciò che conta è il rito di passaggio e demistificazione di un presente passato: il matrimonio-lampo impossibile con la cultura alfabetica della moglie poetessa, cadaverica abitante di una libreria-cripta; la totale perdita di forza comunicativa dell’immagine visiva fino all’inefficacia, anche, dell’iconografia traumatica (dalla body art al cinema-verità, tutto il già visto “non
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è originale”, neanche la morte di un manifestante arso tra le fiamme); l’inconsistenza conseguente dall’investimento del capitale in arte; la polverizzazione del dollaro in virtù di un’anomalia monetaria imprevedibile e che segna la fine di un’epoca di interpretazione economica. Da questo calvario sorgerà un uomo nuovo, fedele al proprio destino di morte e resurrezione, sadomasochisticamente eccitato di fronte alla propria rovina, capace di assumere immediatamente in sé il nuovo credo disarmonico dell’anarchismo virale e della fine del moderno. Rivolta e conservazione, vita e morte sono la stessa cosa. A tu per tu col doppio, dalla prima all’ultima scena, in una metafisica limousine-bara che attraversa New York come una lenta processione funebre senza spazio né tempo, scandita dalle parole di un monologo interiore che si rende infine dialogo allo specchio sulla necessità imminente di una dipartita ingiustificabile e obbligata, Cosmopolis di Cronenberg è un’opera alta ed “altra”, come lo stesso DeLillo ha sottolineato durante la conferenza stampa di Cannes: “Guardare il film è stato come trovare un elemento nuovo, altro dal romanzo, è stato stupefacente”.
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Come sempre Cronenberg attraversa le nebbie del postmoderno con lucida razionalità, come un treno che viene da lontano, per la precisione dal passato del romanzo ottocentesco, e va oltre, non affidandosi all’orfismo compiaciuto della mancanza di un’interpretazione possibile. Se pure questa non si può trovare, Cronenberg la cerca e interroga continuamente, così come ne Il pasto nudo, esemplare operazione di traduzione e tradimento da William Burroughs, tra dismissione della logica e funzione del controllo politico. Non siamo nel sogno di Lynch, insomma, ma di fronte a un Giotto o a un Edgar Allan Poe che attraversano il medesimo sogno per demistificarlo.
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Davide Nota è nato nel 1981 a Cassano d’Adda, in provincia di Milano, da padre lucano e madre marchigiana. Da sempre residente ad Ascoli Piceno ha studiato Lettere moderne (indirizzo storico) a Perugia, dove si è laureato nel 2007 con una tesi sulla “Nuova poesia in Italia (1975-2005)” (relatore Giovanni Falaschi). Tra i fondatori e animatori del movimento “Calpestare l’oblio” (con Fabio Orecchini; 2008-2010) e della rivista di poesia e realtà “La Gru” (2005-2012), ha pubblicato i libri di poesia Battesimo (LietoColle, 2005), Il non potere (Zona, 2007) e La rimozione (Sigismundus, 2011), recentemente raccolti in un canzoniere unitario a tiratura limitata. Ha svolto diversi lavori di manovalanza e culturali, tra cui la direzione della casa editrice Sigismundus. Ha curato il blog di poesia “Fonti coperte” per il sito de “L’Unità” e, recentemente, “La camera doppia” (con Raimondo Iemma). Un suo lavoro di prose dal titolo Gli orfani è presente in rete.
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