in copertina: Joan Mir贸. Galath茅e, 1976.
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Collana di critica «VISIONI»
IRLP, 2015 www.inrealtalapoesia.com inrealtalapoesia@gmail.com
Vol. 2
Stefano Guglielmin
NOMADISMO E POSTMODERNO IN LETTERATURA antologia di scritti critici
IRLP 2015
A Tiziano Salari
Nota introduttiva
Questa antologia racchiude le mie riflessioni intorno al tema della Caducità e della Finitezza in relazione alla possibilità di pensare i modi in cui la letteratura si dà nell’epoca contemporanea. Il primo termine va inteso quale condizione più propriamente emotiva, esperienziale dell’esistenza; il secondo riferisce alla gettatezza ontologica dell’uomo, con tutto il suo carico di inappropriabilità. Tutti i miei saggi si sono occupati di questo argomento. Del primo, Scritti nomadi. Spaesamento e erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona
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2001), riporto – senza le note a piè pagina, come nell’originale – i capp.1-2 (il labirinto quale condizione gnoseologica ordinaria) e il cap. 8 (sul postmoderno). Del secondo saggio, Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, Milano 2009) ho scelto quei capitoli che approfondivano la stessa tematica, ma rispetto alla poesia anziché alla narrativa e al teatro come in Scritti nomadi. Del libro nato dal mio blog e dal titolo Blanc de ta nuque, uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2011) ho estrapolato i saggi sulla pratica in rete della poesia e un dialogo con Marco Giovenale nato intorno all’antologia Prosa in prosa (Le Lettere, Firenze 2010). Del mio ultimo libro, Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità (Moretti&Vitali, Bergamo 2014), non ho incluso nulla perché i saggi sono troppo specifici (sull’Orestea e su alcuni illuministi) per essere inclusi in questo e-book. Come tuttavia ben si evince dal titolo, anche questo lavoro tiene ferme le convinzioni dei precedenti, approfondendole rispetto alla tragedia greca e alla filosofia.
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Da Scritti nomadi. Spaesamento e erranza
nella letteratura del Novecento (Anterem, Verona 2001, pp.149)
La responsabilità nell’erranza
1. La presenza ed il libro
La perdita del centro è una condizione della presenza nella modernità che Nietzsche intuisce con grande chiarezza; ce l’addita come destino ineluttabile, ma non come disgrazia: Zarathustra intende appunto mostrarci il fuoco della salvezza, far parola del caos che agita l’Essere alla radice, per condurci di là della presenza lacerata che contraddistingue l’uomo moderno. Se quest’ultima si caratterizza infatti per la sua costante attesa di novità, di cambiamento, di insoddisfazione verso il presente, sempre imperfetto, sempre inadeguato alle aspettative, lo Zarathustra nietzscheano abita la
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presenza nella pienezza del volere e da lì guarda fuori, senza nostalgia per il passato, senza speranza per il futuro. Egli va verso l’altrove, ma ogni passo, realizzando tutto il tempo che lo costituisce, è sempre qui, perfettamente a proprio agio, presente e vigile. Zarathustra, in questo senso, è un pellegrino che cammina sui propri passi, che cammina in cerchio, ricreando l’origine della presenza ad ogni istante. Non ha dunque bisogno d’orientarsi, poiché egli è l’orientamento. Nietzsche ci mostra che l’identità è possibile, anche quando la Storia, Dio e l’uomo, in quanto figlio di Dio e della Storia, non sono più credibili; e ciò a partire da un nuovo modo di considerare la presenza, in cui trova collocazione la figura del nomade, del viandante, di colui che ha assunto su di sé la responsabilità dell’erranza. Qualcosa di simile accade anche in Jorge Luis Borges. Nella Biblioteca di Babele (1941), è vero, egli ci parla del gran labirinto dell’Essere, cui la Biblioteca è corpo e parola, possibilità d’inesauribile attraversamento; ma essa è anche garanzia d’immaginare l’altrove giacché, pur essendo tendenzialmente infinita, non è astratta, bensì luogo
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concreto, costellazione di percorsi possibili a partire da una collocazione particolare, odore e peso in cui l’uomo sente e vede e riconosce, per alcun tempo, una prospettiva. È dunque la finitezza, nel progetto borgesiano, a garantire un orientamento, sia pure sempre parziale: l’essere qui per un certo tempo, l’essere qui non in eterno. È lei a regolare gli snodi del labirinto; lei ad obbligarci ad un punto di vista, a rendere fratelli verità e punto di vista. Detto altrimenti: la Biblioteca infinita borgesiana contiene il labirinto nel quale il viandante cerca un senso alla propria collocazione; ma Biblioteca, labirinto e viandante stanno l’uno dentro l’altro, in una prospettiva plurima il cui enigma, ci spiega l’argentino, forse qualcuno un giorno riuscirà a svelare. Se ciò accadesse, continua, egli diverrebbe “simile a dio” (La Biblioteca di Babele, in J. L. Borges, Tutte le opere, vol. I, Mondadori, 1984, p.686). Ma esisterà mai quest’uomo? Per intanto, egli ci suggerisce, impariamo ad accettare il fatto che ogni rappresentazione è soltanto, ma necessariamente, un punto di vista. Un punto di vista, tuttavia, essenzialmente legato all’universale: l’occhio infatti vede il labirinto attraverso la lente del labirinto
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stesso. Come dire: l’occhio riconosce un paesaggio in forma d’iride nel quale si specchia. Se cambia occhio, cambia paesaggio. Però ciò che ciascun occhio vede non è illusorio: il mondo davvero gli vive dentro, fra la pupilla e la retina. E gli vive fuori, essendo il corpo vivo nel quale esso stesso ha la possibilità di vedere. Ciascun uomo vive dunque nella rete di una figura circolare complessivamente indefinibile, e con essa interagisce, modificandola. Scrive in tal senso Borges, vinto quasi dalla commozione: “Presi un pugno di sabbia, lo lasciai cadere silenziosamente un po’ più lontano e dissi a bassa voce: Sto modificando il Sahara” (Deserto, annotazioni d’Atlante [1984] in Tutte le opere, vol. II, cit., p.1411). Nel 1935 uscì Auto da fé di Elias Canetti, la storia tragicomica di un sinologo viennese, Peter Kien, le cui due inesauribili risorse sono la memoria e la mania per i libri. In questo suo abitare spaesato, donchisciottesco, egli vede ciò che immagina, crede in ciò che vede e soprattutto va, esattamente come l’hidalgo spagnolo, là dove lo porta la testa ingombra di libri. Peter Kien, in effetti, è “l’uomo dei libri” in tre sensi: appartiene ai libri, è loro servitore; egli
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inoltre vive passionalmente per i libri e – come racconta l’ultima pagina del romanzo – muore con loro; il nome stesso, infine, ne segna il destino: la parola cinese che più s’avvicina a Kien, infatti, è Ken; letteralmente: “fare ricerche sui libri”. Il primo nome del protagonista doveva essere B., il “Buchermensch”, l’uomo del libri, appunto (La coscienza delle parole [1975], in E. Canetti, Opere, Boringhieri, 1993, vol.II, p.311). Com’è noto, durante l’elaborazione del romanzo altri nomi si sono succeduti a quello originario: Brand, Kant; infine Peter Kien. Anche il titolo ha subito metamorfosi: Kant va a fuoco diventa L’abbagliamento o L’accecamento (a seconda della traduzione) che diventano La torre di Babele nella versione americana, e Auto da fé in quella italiana. Di volta in volta, si dà peso al fuoco, al delirio, alla lingua, al libro; facce tutte del medesimo romanzo, chiavi possibili di lettura ma anche, prese singolarmente, visioni del mondo in cerca di sistemazione. Ma è col rogo finale che si compie l’ultima, definitiva, metamorfosi: scompaiono i nomi, i luoghi, i personaggi, i libri; termina Auto da fé; al lettore rimane, per alcun tempo
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nella memoria, l’odore del fumo, il terrore della morte e, chiuso in mano, il libro che stava leggendo. La memoria e la mano, come il titolo di una silloge poetica di Edmond Jabès, autore egiziano che, al pari di Borges e Canetti, comprende la presenza a partire dall’allegoria del libro: “Camminerai dentro il libro: ogni parola è un abisso dove l’ala riluce con il nome” scrive ne Il libro delle interrogazioni (Marietti, 1995, III ed., p.13). Un solo e immenso libro il suo, un libro di sabbia, sul quale il popolo ebraico rintraccia la verità del proprio destino nomadico. Verità che è alterità senza conciliazione, che è l’essere straniero in ogni luogo.
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2. Lo straniero e l’esilio
L’essere straniero in ogni luogo: la propria randagia presenza, ma anche l’Essere che è sempre altrove; il libro di sabbia di cui riferisce Jabès contiene appunto questo: l’assenza, la presenza e la parola che si sa incapace di riconciliarle. Parola che non per questo rimane inerte; essa invece interroga chi la pronuncia, accompagna chi l’accompagna: in questo recinto circolare di terra e cielo, di domanda e di risposta mai soddisfacente, la scrittura jabèsiana muove i propri passi. Dice l’erranza. Mostra la realtà dell’erranza. Ma lo fa senza nostalgia, con la gioia di chi conosce la grazia d’essere qui, sul foglio bianco, con lo sguardo incantato dall’abisso. Anche l’uomo, come la scrittura, va lasciando tracce, testimone gioioso della verità di Colui che sempre passa: del Dio assente. Per questo l’essere qui, in Jabès, è già, sempre, un essere altrove. L’identità migra, si fa, sin dapprincipio, straniera a se stessa. Ella è in esilio, sorella dell’Alterità maggiore: “L’erranza è il nostro luogo” egli ci insegna nel Libro dell’ospitalità (Cortina, 1991, p.49)
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C’è tuttavia un esilio in terra che è condanna e lacerazione, ferita partorita dalla violenza umana: ce lo mostrano Sarah, l’amorosa fanciulla del Libro delle interrogazioni (1963), impazzita dopo l’orrore della deportazione nazista, e Yukel, il suo compagno suicida. In loro, l’erranza si fa oblio, insensatezza, solitudine, additandoci un destino di sofferenza continuamente incarnato nella Storia, luogo della sopraffazione di chi pretende di conquistare il centro e che identifica la forza con il dominio. Di contro a questa miseria, Jabès e Borges – ancor più di Canetti – accettando lo spaesamento, consentono al viandante la libertà della debolezza e dell’ospitalità; tracciano una possibilità della presenza, che non sia prevaricatrice; indicano nella parola il giardino di nessuno in cui condividere la propria erranza; ci mostrano che l’essere stranieri è la condizione di partenza e d’arrivo, e che questa non può essere tolta senza rinnovare la violenza. Jabès rende esplicito quest’ultimo aspetto in Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato (1989). Qui egli nomina altri due fanciulli, il cui passaggio segnò la soglia tra due culture opposte: quella stanziale e quella nomadica. E s’interroga,
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parafrasando la Genesi: perché Caino, proprietario di una terra coltivata con il sudore della fronte, avrebbe dovuto prendersi cura “del nomade Abele che ha scelto l’erranza e la rinuncia ai beni della terra”? La risposta che egli ci offre rimane sospesa, chiede ulteriori interrogazioni. Ma di sicuro ribadisce il significato profondo dell’omicidio del nomade, in quanto segna miticamente l’inizio della storia della civiltà stanziale; una storia, ci suggerisce, inaugurata tuttavia non dalla conciliazione, bensì dal dolore della fuga e dell’esilio: “Spaventato, Caino da allora cercò di fuggire a Caino” (SE ed., 1991, pp.5354). Caino, in questo senso, è il prototipo del fuggitivo, di colui che sopravvive colpevole, lontano tanto dalla leggerezza di Zarathustra quanto dall’erranza suggerita da Borges e da Jabès. Il suo, è un abitare la terra che assomiglia piuttosto a quello di Meursault, il protagonista dello Straniero (1942) di Albert Camus. Entrambi infatti patiscono un immedicabile esilio; e tuttavia, mentre il fratricida conosce vittima, giudice e movente, Meursault diventa assassino
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senza una ragione necessaria. Egli insomma pare assassino per gratuità, a meno di non riconoscerne l’impulso originario nel senso di colpa che segna nascostamente Lo straniero (e ne determina, come in Caino, l’esilio). Approfondiamo la questione, partendo da un breve riassunto orientativo. Prima parte: Meursault presenzia il funerale della propria madre, si bagna al mare con l’amante, frequenta un vicino di casa, uccide un uomo; seconda parte: l’omicida viene arrestato, processato e condannato a morte. Ad inquietare il lettore, non è tanto la vicenda in sé (povera di meccanismi ad effetto e schematica nella costruzione dei personaggi), quanto il distacco emotivo del protagonista, l’estraneità del suo sguardo, la cui quasi impercettibile mutevolezza s’incarna, amplificandosi, nelle tonalità cromatiche del cielo: cielo giallo, verde, “biondo”, cielo come cappa sopra la testa. E quando, alla fine della prima parte del romanzo, esso biblicamente si dischiude, “per lasciar piovere fuoco”, per farsi segno, ecco che Meursault trova il coraggio per agire malvagiamente, per dare sostanza ad una colpa di cui prima pativa il fio senza consapevolezza.
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Proprio a questo serve l’omicidio dell’arabo: a ridare senso all’esilio in cui Meursault da sempre si trova, esilio altrimenti insopportabile e niente affatto differente da quello di Clamence, monologante camusiano nella Caduta (1956), il quale dice di sé, con rammarico: “Dimenticavo tutto, e in primo luogo le mie risoluzioni. In fondo, non v’era niente che contasse. Guerra, suicidio, amore, miseria: costretto dalle circostanze, vi prestavo attenzione, certo, ma in modo cortese e superficiale. A volte facevo mostra di appassionarmi per una causa estranea alla mia vita quotidiana... Come potrei dire? Tutto scivolava, sì, su di me scivolava” (in A.Camus, Opere, Bompiani, 1988, p.1149). Questo, in effetti, è anche il ritratto di Meursault, un uomo che, come Clamence, acquista la memoria appena riesce a dare un nome alla propria colpa. A quella che crede la propria colpa. Perché invero Meursault (e così Clamence) è straniero anzitutto ad essa. Ciò di cui egli è colpevole – potremmo dire, paradossalmente – è di aver dimenticato la colpa originaria. Ma essa, come abbiamo accennato, inesorabilmente scava, lo provoca, gli chiede udienza, fino a dominarlo, ad obbligarlo a commettere un omicidio. Quest’atto orrendo
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potrebbe essere la fine coerente, distruttiva, di un uomo senza qualità, di un inetto che precipita nella propria imperizia. Invece esso si rivela ricco di prospettiva: se infatti, fino a quel momento, il destino di Meursault sembrava incerto, vago, in balia delle circostanze più effimere, successivamente esso prende fisionomia intelligibile, acquista un senso necessario. E ciò, appunto, grazie alla sequenza “morale” che l’omicidio scatena: la colpevolezza pretende un giudice, vuole una sentenza, esige un’espiazione. In questo percorso, lo straniero smette d’essere estraneo ad ogni accadimento, per iniziare un viaggio sì necessario, ma non più spaesante. Egli ritrova le ragioni del proprio particolare essere nel mondo, quello di colui che abita il proprio esilio colpevole, vivendolo in una continua, e paradossalmente felice, espiazione. Nei racconti dell’Esilio e il regno (1957) – e nella Caduta, racconto autonomo, ma che originariamente avrebbe dovuto far parte della raccolta in questione – questa condizione appare massimamente evidente. Due esempi. L’adultera, nel primo ed omonimo dei sei racconti di cui si
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compone l’opera, si concede all’incanto tenero della notte, in un amplesso mistico e voluttuoso con essa. Espierà questa colpevole intimità, questo esilio volontario, tornando moglie fedele e remissiva; ma oramai l’abbraccio celeste le ha indicato un nuovo regno, al quale d’ora in avanti fare affidamento per ritrovarsi. Di tanto in tanto. In segreto. Il protagonista dell’Ospite ha scelto invece l’esilio della montagna, la lontananza dagli uomini. E anche quando la Storia – attraverso il suo emblema più potente: la legge – vorrà farne strumento della giustizia umana, egli preferirà disobbedire, per rivendicare la propria, originaria, indipendenza. Tutto questo ha un costo: l’incomprensione e la minaccia mortale di chi lo vuole a servizio di una causa. Ma questi pericoli sono appunto la sostanza dell’espiazione, in cambio della quale egli può godere d’un regno che si concretizza nella libertà d’essere se stesso. E non può esserci l’uno senza l’altra.
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3. Sul nomadismo degli autori
La biografia ricostruisce un’erranza entro lo spazio condivisibile della parola, rispettando i luoghi in cui la vita s’è accampata. Ma la biografia affiora anche là dove nessuno la chiama; ce lo conferma Borges nell’epilogo dell’Artefice (1960): “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto” (in Tutte le opere, vol. I, cit., p.1267). Borges bruciò l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza, in un crogiolo di lingue e di città: portoghese, inglese, spagnolo, francese, tedesco, latino ed arabo; Buenos Aires, Adrougué, Ginevra, Lugano, Majorca, Siviglia, Madrid, Londra, Parigi. Venticinque anni a dorso d’una famiglia randagia e carica di frutti, dalla quale imparò che sempre il cammino “ciecamente si biforca in due /...
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ciecamente si biforca in due” (Elogio dell’Ombra, in Tutte le opere, vol. II, cit., p.279). Come nello Steinof – la cittadella manicomiale viennese – si muovono seimila folli, l’uno differente dall’altro, così lo scrittore, sostiene Elias Canetti, deve anzitutto inventare dei personaggi originali che siano la lacerazione in atto, la molteplicità dell’essere tenuta insieme da una mania specifica. Peter Kien, l’uomo del libri, è appunto questo: un’incarnazione particolare del mondo “andato in pezzi”, una sua maschera parlante. Ma la molteplicità non appartiene soltanto alla malattia o alla letteratura; nel frutto del fuoco (1980), Canetti confessa: “Dall’età di dieci anni, sempre avevo avuto la sensazione di essere costituito da molti personaggi diversi... Era una corrente multiforme, che... non si esauriva mai” (in Opere, vol. II, cit., p.957). Veza, la sua compagna, fra gli altri ebbe questo gran pregio: gli insegnò a costruire la “propria molteplicità”, a considerarla un punto d’appoggio, per diventare vero scrittore. Io sono molti pare dire l’ebreo Canetti; di ognuno porto le stigmate, ma anche la consapevolezza della presenza che sa dire “noi”.
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Ne La missione dello scrittore, discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976 (ora ne La coscienza delle parole, in Opere, cit.), Canetti ribadisce la necessità secondo la quale lo scrittore, pur accettando il molteplice e riconoscendo al caos statuto fondativo del reale, non rinunci tuttavia “alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque per sé” (Ivi, p.372). In questo senso, lo scrittore si fa sciamano, così com’egli lo tratteggia in Massa e potere (1960): “Lo sciamano mediante le sue metamorfosi chiama a sé gli spiriti aiutanti che gli obbediscono. Egli stesso li afferra e li costringe mediante le sue pratiche ad aiutarlo. Lo sciamano è attivo... egli penetra entro i più remoti mondi celesti e sotterranei... Vola e sale... Cala, affonda... E sempre ritorna al centro, ove coloro che lo circondano attendono ansiosamente il suo messaggio” (in Opere, vol. I, cit., p.1399). Riposa in quest’assunzione di responsabilità che non è politica bensì, piuttosto, antropologica il compito primo dello scrittore, il quale si concretizza poi, come Canetti scrive nella Missione dello scrittore, nell’insegnare agli uomini a “resistere alla morte” (ed. cit., p.373), e nell’additare loro
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mappe abitabili che consentano di uscire dal labirinto: “Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno” (Ivi, p.375). La prospettiva in cui Elias Canetti affronta le tematiche di Massa e potere possiede la stessa improbabile distanza nella quale Peter Kien sperimenta la vita: un ‘troppo vicino’ che si traduce in un procedere vagantivo, scorniciato, ai margini della Storia. Lo prova, per esempio, l’incoerenza tra il progetto d’avvio e l’effettiva realizzazione dell’opera: scritta per comprendere il fenomeno della massificazione negli anni Venti in Europa (dunque per studiare un fenomeno storico circoscrivibile), essa approfondirà invece - quasi esclusivamente - le strutture astoriche, mitiche, che regolano il rapporto tra la massa, il potere e l’individuo. In tal modo, Canetti opera un’inversione di rotta mossa dal desiderio d’ottenere un frutto che attraversasse le epoche, che ne superasse la relatività. Come se dentro la polpa del divenire, della linea che lega l’istante precedente all’istante successivo, ci fossero delle costanti non ancora
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disvelate: non tuttavia la ciclicità vichiana, né la dialettica hegeliana o il determinismo storicistico novecentesco; qualcosa d’altro, da indagare con l’occhio del cane in usta o del pignolissimo bibliofilo Peter Kein. Un lavoro ai margini della Storia, appunto, ai margini della civilizzazione. Massa e potere fu un sogno d’esaustività e di completezza che rubò a Canetti trent’anni di vita, costringendolo ad immergersi in sconfinate letture. Ma anche quest’onnivora, incontrollabile, asistematica cultura mai, però, suffragata da verifiche sul campo, attesta l’originalità del suo modo d’intendere il viaggio: quasi che, per Canetti, l’immenso archivio scritto del sapere universale, tramandatosi nel chiuso delle biblioteche, bastasse alla comprensione della verità sul mondo e sugli uomini. Come se la vita si potesse decifrare leggendo il racconto d’altre vite, senza l’obbligo di correrle appresso, fuori dal libro. Un nomadismo nella terra del libro, dunque, nella convinzione che la parola scritta tramandi, più dell’esperienza concreta, ciò che conta. Ma a ben vedere Canetti, come Borges, è scrittore nomadico sin dapprincipio. Prima ancora
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d’avviarsi nel labirinto del Libro, egli cresce infatti in un coagulo di etnie, di lingue e di culture che diventeranno emblema concreto d’una condizione futura dello spirito: “Rustschuk – ricorda lo scrittore ne La lingua salvata (1977) – sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo... in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari... c’erano molti turchi... greci, albanesi, armeni, zingari... rumeni... russi” ed ebrei sefarditi. E aggiunge: “Tutto ciò che ho provato e vissuto in seguito era sempre già accaduto a Rustschuk”, a sottolineare sì l’importanza di quei primi anni di vita per l’avvenire della propria opera, ma anche la consapevolezza che la terra dei libri dovesse necessariamente completare quell’esperienza, per renderla davvero universale (in Opere, vol. II, cit., pp. 386-387). Da Rustschuk, cittadina portuale ai confini dell’Europa, Canetti e famiglia si trasferiranno a Manchester, poi a Vienna, Zurigo, Francoforte, Berlino e ancora a Vienna: a venticinque anni, Canetti ha già visitato il paradiso e l’inferno, conosce il mondo-caos ed intravede la lingua abilitata a decifrarne l’enigma.
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Questo apprendistato – e quello di poco successivo, conclusosi con l’ultima, definitiva, migrazione a Londra, nel 1937 – egli lo ricostuì in tarda età, fissandolo in un’autobiografia che lega il lettore per quasi 1200 pagine e lo obbliga, di libro in libro, di metamorfosi in metamorfosi, a seguirne le tappe. Alla fine di questo percorso iniziatico, conclusosi con la morte della madre (il padre lo perse in giovanissima età), lo scrittore si mostra pronto ad assumersi la propria, precipua, responsabilità, quella di farsi sciamano, appunto, alchimista in grado di trasformare il piombo mortale dell’esperienza in verbo capace d’orientare. A differenza di Borges e di Canetti, la fanciullezza di Albert Camus non conosce geografie straniere. Soltanto un minuscolo spostamento da Mondovi, in Algeria, alla capitale. E però, la miseria in cui sta crescendo, la madre analfabeta, la morte prematura del padre, una malattia precoce ai polmoni lasceranno comunque un segno, daranno ferita ad un futuro che sarà, ad un tempo, di grazia e di condanna. Vengono poi, in successione, il trasferimento a Parigi, nel 1940, e il sentimento d’essere lontano, irrimediabilmente lontano da ciò
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che sta cercando. È la guerra, certo, ma anche la percezione di scivolare verso una morte infelice, tra l’incomprensione degli intellettuali engagé ed un clima continentale mal sopportato. Che bella l’Italia, la Grecia, il Mediterraneo! Lo scriverà spesso, ma soltanto di rado riuscirà a goderne i frutti. Morirà d’incidente stradale a 46 anni, nel 1960. Ora riposa a Lourmarin, in Provenza, nel paese pieno di sole in cui aveva acquistato una casa due anni prima. Tra Mondovi e Lourmarin, ci sono Algeri, Parigi, Clermont-Ferrand, Lione, Orano e di nuovo Parigi: una piccola odissea, che però non riconosce in Itaca il ritorno. Il Nobel costituì l’opportunità, per Camus, di gridare al mondo il proprio bisogno d’appartenenza, ma anche di ribadire la volontà di espiazione, la stessa provata dai suoi personaggi. L’appartenenza, nel Discorso pronunciato in occasione del premio, il 10 dicembre del 1957, è quella dello scrittore alla comunità che lo mantiene, alla quale vorrebbe rendere, con la propria opera e in contraccambio, servigio: “Lo scrittore – egli disse – può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustifichi, alla sola condizione che accetti, finché
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può, i due impegni che fanno la grandezza della sua missione: essere al servizio della verità e della libertà” (in Opere, cit., p.1241). L’espiazione traspare invece quando ammette, rispetto alla necessità appena annunciata: “Quanto a me devo dire una volta di più che non sono niente di tutto questo. Non ho mai potuto rinunciare alla luce, alla felicità di esistere, alla vita libera in cui sono cresciuto” (Ivi, p.1243). Non credo che questa conclusione sia malcelata modestia: la luce, la felicità, la vita libera non si piegano all’accademia polverosa di Svezia; semmai la fuggono. Penso invece che a parlare, qui, non sia Camus, bensì, sotto mentite spoglie, Meursault, per cercare un nuovo giudice, una nuova condanna: non più questa volta in un’aula di tribunale, come nello Straniero, bensì di fronte al mondo, a quella comunità che lo celebra ed onora: di fronte ad essa, Camus-Meursault dichiara una colpa falsa, sente il bisogno irrefrenabile di accusarsi di un delitto che non ha commesso (l’aver tradito la missione dello scrittore) per espiare una colpa vera, quella originaria, che rimase sempre in lui (ed in noi, suoi lettori) senza nome.
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Se in Camus, più che della condizione nomadica, conviene parlare di quella d’esiliato, la cui felicità coincide con l’espiazione senza requie, non bisogna tuttavia dimenticare il fascino che esercitò su di lui un uomo che fece dell’erranza virtuosa principio di vita. Mi riferisco a Pascal Pia, scrittore che sposò le cause più disparate, influenzando la crema dell’intelligencija francese degli anni Trenta e Quaranta, per poi prendere da loro le distanze, scegliendo per sé la purezza dello sradicamento. Di lui, nei Taccuini Camus scrisse: “Pia e i documenti che scompariranno. Lo sminuzzamento volontario. Davanti al nulla, l’edonismo e il continuo spostarsi. Lo spirito storico diventa così spirito geografico” (passo citato da R. Grenier in Introduzione a A. Camus, Opere, cit., p. XII). Di Pia, troviamo una trasfigurazione ne “l’uomo assurdo”, capitolo centrale del Mito di Sisifo: “Sicuro della sua libertà a termine, della sua rivolta senza avvenire e della sua coscienza peritura, l’uomo assurdo corre la sua avventura per tutto il tempo della vita. Là è il suo campo, là è l’azione che egli sottrae ad ogni giudizio che non sia il proprio” (in Opere, cit., p.261).
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Anche Edmond Jabès, in fondo, non ha patria: L’israelita - ribadisce nel Libro dell’ospitalità - ha perduto la sua radice nomadica, la sua vocazione al dialogo, per darsi ad una difesa acritica della propria identità statuaria. E si chiede: “Se dentro di me penso che... [l’identità] politica è per quello Stato pericolosa, nefasta, detestabile, devo forse tacere?” (ed. cit., p.38). E altrove, per contrasto: “La salvezza del popolo ebreo è nella rottura, nella solidarietà in seno alla rottura” (Il libro delle interrogazioni, cit., p.89). La solidarietà cui egli riferisce non appartiene all’identità nazionale, al recinto che accomuna il gregge: essa nasce piuttosto dalla ferita, dal grido di Sarah e di Yukel, dal sentirsi perennemente in un cammino interrogante, dal darsi all’altro senza annullarne l’alterità, dalla condivisione dell’origine mai rivelatasi e, con valore ancora più fondamentale, dal sapere che il libro dell’ebraismo inizia con l’assenza del Principio. La differenza tra l’ebreo e il non ebreo sta appunto in questa finale, cabalistica, consapevolezza, e in null’altro: In principio – “Bereshit”, in ebraico – con il quale comincia la Torah, manca della prima lettera alfabetica, l’Aleph.
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Per la mistica ebraica, è come se al Libro mancasse l’origine, come se su di essa fosse caduto l’oblio. Da questa assenza insanabile, da questo silenzio del Principio dal quale scaturisce il principio della parola sacra, comincia per Jabès l’erranza interrogante dell’ebreo. Erranza che è condivisione, ospitalità, non-violenza, offerta di sé ad ogni essere vivente che lo chieda: “Ho, dell’Ebreo, la ferita. – scrive nel libro delle interrogazioni, a p. 53 – Sono stato come te circonciso l’ottavo giorno della mia nascita. Sono Ebreo, come te, per ciascuna mia ferita. Ma un uomo non vale forse un uomo?” Sotto questo profilo, l’ebreo jabèsiano, lungi dal riconoscersi in una patria, altro non è che l’allegoria dell’errante, la personificazione dell’interrogare inesausto, come giustamente sospetta Jacques Derrida ne La scrittura e la differenza (1967). Facile comprendere allora perché la comunità israelitica – orgogliosa nel rivendicare la propria originale identità, soprattutto dopo l’orrore dei lager e la fondazione d’Israele – abbia vissuto la posizione straniante di Jabès come un tradimento. Ne fa parola con dolore egli stesso, più volte.
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Una considerazione, infine, sui libri, le fotografie, i disegni di amici conservati nel suo studio parigino e sopravvissuti all’esilio: sono tracce d’un passaggio, presenze custodite, consacrate alla memoria. A quella sua, ma anche alla nostra, testimoni di quanto Antonio Prete ci racconta nella bella post-fazione al Libro dell’ospitalità. In un continuo rimando di suggestioni, immaginiamo l’emozione dello studioso leopardiano di fronte allo scrittoio di Jabès “nel cuore di Parigi”, il vecchio saggio egiziano che si fa piccolo, le parole rare, il silenzio, la risonanza del grido, la prossimità che è anche distanza, che è solitudine di ciascuno di fronte alla morte: tutto questo parla di noi, del tempo in cui anche noi decideremo d’attraversare il deserto, per riconoscerci finalmente stranieri. Per ritrovarci stranieri.
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La lacerazione nel labirinto
1. Introduzione
Elias Canetti, Jorge Luis Borges, Edmond Jabès e Albert Camus sono stati chiamati in causa come testimoni, poiché a loro (e a pochi altri vagantivi) va attribuita la costanza dello sguardo che ha saputo indagare, fino in fondo ma senza disperazione, la perdita di centralità del soggetto nel Novecento. A tale deriva spaesante, essi hanno contrapposto, ciascuno dalla propria soglia, l’erranza consapevole, l’assunzione di responsabilità, la pietas verso i viventi e la convinzione che la parola possa dire la ferita, mostrarla nel suo fondamento ontologico. Vi sono stati tuttavia altri scrittori i quali, rinunciando
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esplicitamente ad additare una presenza capace di collocazione nel labirinto, ne hanno invece evidenziato la lacerazione; fra questi, Samuel Beckett ed Eugène Ionesco.
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2. La matrice gnostica del pessimismo di Samuel Beckett
In una formula (e in via ancora sommaria) potremmo affermare che, quanto i personaggi beckettiani attendono non è, genericamente, un evento qualsiasi bensì, più profondamente, quel tempo capace di inaugurare la novità, di ridare senso (e dunque direzione, orientamento) all’esistenza. Va letta in quest’accezione l’immobilità di Estragone e Vladimiro, in Aspettando Godot (1953): essi aspettano quel tempo autenticamente in grado di avviare i loro destini, di farli uscire dalla ripetizione fine a se stessa, dall’abitare in un luogo ricco sì d’azioni, ma tutte senza conseguenze; allacciare le scarpe, slacciarle, muoversi sulla scena, incontrare qualcuno, persino parlare: situazioni, tutte, che bruciano accadendo, che esauriscono la loro spinta causale nell’attimo stesso in cui si verificano. Ci vorrebbe Godot per dar loro una motivazione, ma lui, il Salvatore, non giunge, si fa attendere inutilmente, manda suoi servi a scusarsi del mancato arrivo. Vero tuttavia che egli, come ammettono gli stessi due vagabondi, forse ha le sue buone ragioni
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a tardare, visto che deve, prima di partire, “consultarsi con la famiglia, coi suoi amici, i suoi agenti, i suoi corrispondenti, i suoi registri, il suo conto in banca” (Aspettando Godot, in Teatro di Samuel Beckett, Mondadori, 1981 [IV rist.], p.37). Godot ci appare, in questo contesto, come quell’uno temporale che darà via al molteplice, ma anche come colui che, dal molteplice (famiglia, amici, denaro ecc.), già sempre dipende. Non soltanto dipende, ma con esso dovrà, inevitabilmente, compromettersi, stare al gioco, barattare questo con quello secondo il principio dell’utile. In questo senso Godot è una figura doppia, salvifica e mendace, Cristo liberatore ma anche Satana del legame interessato. Del resto, che il tempo destinato ai mortali avesse questa duplice connotazione ce lo aveva confermato altrove lo stesso Beckett: esso – scrisse in un breve saggio del 1931 – è un “mostro a due teste che dà la dannazione e la salvezza” (Proust, Sugarco, 1994, p.25). Anche Godot, pur presente in scena soltanto in quanto tempo effimero, riesce a realizzare entrambi i momenti: egli è dannazione poiché, in quanto dio dell’evanescenza, riduce il presente ad unica
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dimensione della vita, segnata perciò dalla ripetizione; ma appunto perché cancella nella memoria dei personaggi ogni traccia delle ferite passate, esso infonde involontariamente speranza, un’attesa del nuovo bastevole a salvare i mortali dal suicidio. Rimane precluso ai terrestri del dramma il tempo altro, autenticamente innovatore, del quale Godot, dio minore di un olimpo tutto da decifrare, s’ingegna pallido imitatore. Sotto questo profilo egli assomiglia ad Akhamoth, quel dio-femmina dello gnosticismo che, per avere voluto rivaleggiare con il Principio increato, fu punito e messo in una sorta di purgatorio. La pena cui Godot è soggetto potrebbe essere appunto questa: poter essere presente fra i mortali soltanto in quanto tempo effimero. Le conseguenze sui terrestri sono disastrose: l’erranza si fa deriva, l’esilio è in nessun luogo e le parole perdono spessore, si svuotano, quasi che nessuna di loro possa indicare il senso di quest’abitare spaesato, in un deserto che è sabbia, sete e null’altro.
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Per approfondire la condizione degli umani nell’universo beckettiano, conviene passare attraverso un altro personaggio che vive, come Godot, in una condizione duale e inappagata; si tratta dell’Innominabile, nell’omonimo romanzo uscito anch’esso nel 1953. Anzitutto, l’Innominabile incarna la dualità del discorso pre-logico, quella in atto prima d’ogni cominciamento di senso univoco. Il suo vociare monologante, che caratterizza l’intero testo, può infatti essere pensato come il tentativo del discorso in fieri di giungere fin sul limitare della propria dicibilità. Per venire alla luce, tuttavia, per darsi alla comprensione secondo il principio d’identità, esso dovrebbe prima ricomporre il dualismo originario. Ma è proprio questo che Beckett considera l’inganno della logica: l’identità è figura lacerata, incompleta, che mai potrà nominare la verità nella sua interezza. L’Innominabile vuole invece attestare una presenza che preveda la contraddizione, che la metta in essere attraverso la parola. A tal fine l’autore costruisce, come con Godot, un personaggio essenzialmente temporale. L’Innominabile infatti è figura pre-logica proprio perché in esso agiscono, simultaneamente, il tempo
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circolare ed il tempo lineare. Il suo dis-correre è pervaso da questo intersecarsi, dall’essere in balìa dell’uno e dell’altro, in un giogo che lo rende libero di contraddirsi. Accade già all’inizio del romanzo: “E dove, ora? Quando, ora? Chi, ora? Senza domandarmelo. Dire io. Senza pensarlo. Chiamarlo domande, ipotesi. Andare avanti, chiamarlo andare, chiamarlo avanti.”: fino a qua il cerchio, l’impossibilità del discorso d’avventurarsi nel progetto. Ma subito dopo: “Può darsi che un giorno, ecco un primo passo...” (L’Innominabile, in Trilogia, Einaudi, 1996, p.323). Finalmente, il tempo lineare entra in scena, obbliga la voce a continuare; ma è un istante, perché poi, senza soluzione di continuità, la storia torna su di sé, si avvolge, ricomincia da capo, per poi fare di nuovo un balzo in avanti, in un procedere, appunto, duplice: lineare e circolare, in un intreccio che non è sommativo, bensì generativo, capace di tenere unito l’Innominabile, di farlo essere tondo e informe, qui e altrove, colui che parla e colui che è parlato. L’Innominabile è questa stessa unità, che ha in sé l’uno e il molteplice, l’identico e il differente, la caducità e l’eternità. Eppure, vista l’insoddisfazione di quest’essere proteiforme e la sua voglia di
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ritrovarsi in un’unità superiore, dovremmo ammettere che nemmeno una lingua contraddittoria può tenere fra le proprie labbra il Vero, dargli finalmente dimora. A meno che – e qui si gioca la radice gnostica del discorso beckettiano – il Vero stesso non sia duplice e insoddisfatto. Allo stesso modo dell’Innominabile e di Godot. Il fatto è che, come Godot, anche l’Innominabile è figura intermedia, un dio minore in stato di ferma, tenuto d’occhio da alcuni guardiani, a loro volta dipendenti da un padrone. Della prigionia di Godot non sappiamo nulla; l’abbiamo ipotizzata immaginandolo parente di Akhamoth, di un dio decaduto e presuntuoso della cosmogonia gnostica. Quasi che, come Akhamoth, anche Godot avesse trasgredito una funzione, una gerarchia e, per questo, fosse stato condannato a vivere lacerato, diviso, solo. A vivere in una transizione dolorosa su maleficio di un dio superiore, custode d’ogni cosa. Ad illuminarci su questa entità ci pensa invece l’Innominabile. Ad un certo momento delle sue evoluzioni-involuzioni, egli sospetta infatti di non essere l’unica vittima della faccenda, ma che tutti, padroni e guardiani compresi, siano dipendenti da una causa ancora più alta, “l’eterno terzo” che
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impone a ciascuno una singolare condanna: esaurire tutte le parole di cui dispone (Ivi, p.420). Parole – afferma altrove l’Innominabile – che sono rumore, fastidio nell’orecchio, vomito dalle labbra, scorze; i divini in particolare, ci dice quest’essere proteiforme, sono talmente sovraccarichi di parole, da costringere i mortali a smaltirle per loro (Ivi, p.358). La natura di quest’entità suprema, che costringe i divini e i mortali al rumore della parola, assomiglia molto - in effetti, ed a conferma dell’ipotesi di partenza - al Principio Primo dello gnosticismo. Scrive J. Doresse ne La Gnosi: “All’origine di tutto... c’è un eone perfetto, inconcepibile, eterno... È un Pro-padre che risiede in uno stato di riposo (immutabilità e assenza di movimento), in cui contempla la propria immagine in se stesso come in uno specchio. Con lui coesiste il suo Pensiero, che è assoluto Silenzio” (in Gnosticismo e Manicheismo, a cura di H. Ch. Puech, Laterza, 1988, p.23). Anche l’essere supremo chiamato in causa dall’Innominabile è silenzio. Silenzio insopportabile per chi - come lui - si sente condannato a cercarlo attraversando l’inferno delle parole. Si tratta di un attraversamento infinito, nel quale la speranza di
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completarlo fa parte della condanna. Essa infatti lo spinge avanti, lo incita a cercare l’ultima parola, quella definitiva, in grado di porre fine al discorso. A differenza dei mortali, l’Innominabile conosce tuttavia almeno questo: che l’obiettivo è smettere di parlare, dato che le parole sono la prova dell’allontanamento dal Principio. Conoscenza che gli deriva da partecipare alla dualità che compete soltanto alle figure non terrestri. Ben peggiore la condizione dei mortali i quali, scissi e inconsapevoli dell’Origine, si muovono nel terrore paradossale d’esaurire le parole. Dice Winnie, con l’angoscia rivolta al giorno “in cui le parole mancheranno”: “Eh sì, così poco da dire, così poco da fare, e una tal paura, certi giorni, di trovarsi... con delle ore davanti a sé, prima del campanello del sonno, e più niente da dire, più niente da fare” (Giorni felici [1963], in S. Beckett, Teatro ecc. cit., p.206 e p.208). È questa la condizione assurda dei mortali, dalla quale i divini sono esenti: desiderano il frutto del proprio castigo, cercano quelle parole che, in realtà, sono il rumore stesso cui sono stati condannati, allo stesso modo delle ombre sulla riva dell’Acheronte, nel III canto dell’Inferno dantesco, alle quali la
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volontà di Dio tramuta la paura in desiderio (vv. 124-126). Se in Aristotele Dio, il pensiero che pensa se stesso pensante, “è sempre” in uno “stato di beatitudine” alla quale anche l’uomo partecipa ogni volta che fa uso dell’intelletto (Metafisica, XII, 7, 1072 b, 20-25), il Dio di Beckett, come il Pro-padre gnostico, è inavvicinabile sotto ogni aspetto dai mortali. Nello gnosticismo infatti, il creato, essendo l’effetto manchevole della presunzione di Akhamoth, porta le stigmate della cesura, del taglio ombelicale dalla perfezione celeste; ogni creatura, di conseguenza, patisce di continuo lo smacco, custodendo fra le sue pieghe il dolore dell’inadeguatezza. I personaggi terrestri di Beckett, per far fronte ad essa, si muovono in coppie, mimando inconsapevolmente le coppie celesti (le sigizie gnostiche): Vladimiro ed Estragone, Winnie e Willie, Clov e Hamm, Krapp giovane e Krapp vecchio, non fanno altro infatti che polarizzarsi in uno spazio inavvicinabile agli altri e capace, in parte, di compensare la penuria di prospettiva individuale.
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Ma questo ancora non basta. Ognuno di loro, allora, cerca la riconciliazione altrove, in un paradiso terrestre, che poco ha a che fare con la felicità dei celesti. Si pensi a Winnie, la cui memoria, proustianamente intermittente, la spedisce fra le ginocchia di un suo antico amore, “nel giardinetto a Borough Green” (Giorni felici, cit., p.195); oppure si rifletta su quanto ricorda il protagonista dell’Ultimo nastro di Krapp (1958): “Mi sono disteso su di lei confessa la voce del giovane Krapp incisa su nastro ad un Krapp-klown ormai vecchio, riferendosi all’amata fanciulla che lo accompagnava in barca - la faccia sul suo petto, la mano su di lei. Stavamo là, sdraiati, senza muovere. Ma sotto di noi tutto si muoveva e ci muoveva, dolcemente su e giù, da un lato all’altro” (in Teatro, cit., p.183). E ancora, nella reminiscenza d’Estragone, in Aspettando Godot: “Mi ricordo le carte geografiche della Terra Santa. A colori. Erano bellissime. Il Mar Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo. Pensavo sempre: è là che voglio passare la luna di miele. Nuoteremo. Saremo felici” (in Teatro, cit. p.30). Si noti, per inciso, quanto assomigli l’immaginario d’Estragone (e di Beckett),
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all’osservazione di J.Doresse ricavata dall’apocrifo Libro di Enouch: “Il grande Seth avrebbe fatto scaturire, sulla riva del Mar Morto, sorgenti termali salvifiche” (La Gnosi, cit., p.31). Non è difficile fa coincidere queste nostalgie con quella, psicologica anziché mitica, del grembo materno: luogo della riconciliazione, principio terreno perduto per sempre, ma che la memoria – sorprendentemente (e temporaneamente) ritrovata – può in parte ricreare: le calde ginocchia di un amante, il guscio a culla di una barca, l’acqua tiepida del mare; oppure la stanza-bunker di Clov ed Hamm in Finale di partita (1957), l’audiocassetta che custodisce la voce del giovane Krapp... Tutti rifugi che danno all’esiliato cognizione di patria, d’origine non lacerata. Questi, tuttavia, sono irraggiungibili rifugi nel passato; nel presente invece, a supportare la solitudine dei personaggi, sono le parole, quella scorta di parole che permette a ciascuno di loro di traghettare la giornata. Parole che diventano gesti rituali, esorcismi per tenere a bada il vuoto che d’improvviso pare possa ingoiarsi il mondo. È questo infatti che, paradossalmente, accade al silenzio originario, al sacro silenzio del Principio, al quale i divini vorrebbero riconciliarsi: fra i mortali,
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esso diventa il nulla, il vuoto. Un vuoto abissale da riempire con le parole. Fino a che c’è vita. Nello gnosticismo, il sacro silenzio attesta l’esistenza di un altrove celeste, al quale tornare dopo il pellegrinaggio in terra. Almeno questa è la sorte che spetta agli eletti i quali, avendo ricevuto in dono la luce divina, si salveranno. Ma i personaggi di Beckett non appartengono a questa élite; piuttosto essi assomigliano agli “ilici”, a quegli “esseri sprovvisti di spirito e di anima... unicamente costituiti da elementi carnali destinati alla distruzione” (J. Doresse, La Gnosi, cit., p.19). Condannati ad estinguersi nel tempo effimero, gli ilici beckettiani non hanno alcuna memoria dell’aldilà; e se qualcosa dicono a tal proposito, esso appare irrelato, frammentario, lacunoso, frutto non certo innato. Accade per esempio in Aspettando Godot, quando Lucky, davanti al suo padrone ed ai due vagabondi, dichiara: “Considerata l’esistenza così come traspare dai recenti lavori pubblici di Poincon e Wattman di un dio personale quaquaquaqua dalla barba bianca quaqua fuori del tempo dello spazio il quale dall’alto della sua divina apatia sua divina atampia sua divina afasia ci vuole
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tanto bene salvo le debite eccezioni”... (in Teatro, cit., p.65); e accade nei Giorni felici, dove Winnie sostiene, irriverente: “Non c’è miglior modo per glorificare l’Onnipotente che ridacchiare con lui dei suoi scherzetti, specialmente quelli meno riusciti” (ed. cit., p.205). Anche qui, comunque, ci troviamo di fronte all’affermazione d’esistenza di un dio minore, “personale”, che ride da buon compagno di scherzi, ma che nulla ha a che fare con l’imperturbabilità ed il distacco del Ur-Padre originario, di quest’essere duale – la cui natura, ci avverte J. Doresse ne La Gnosi (p.23), è “esclusivamente temporale” – in verità essi non sanno niente. Nemmeno del potere salvifico del suo Silenzio, che confondono con il silenzio banale della vita, un silenzio penoso come il buio, la solitudine, l’insensatezza ed il naufragio, da riempire con pietre in forma di parola, con gesti che occupano il tempo inautentico dell’effimero, che fanno passare la giornata. Poi c’è il sonno, l’oblio di sé, la piccola morte quotidiana che dà pausa e ristoro.
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3. Mirlitonnades o del silenzio che suona
Abbiamo detto, quasi in principio della presente riflessione, che in Beckett l’erranza dei mortali non ha destinazione né, di conseguenza, per loro è possibile l’esilio. Le parole stesse, anziché decifrare l’enigma, servono come terra in un buco: a riempirlo, a toglierne l’orribile presenza. Eppure ci sono momenti in cui esse si offrono in una nudità nuova, pervasa da una forza che pare attingere direttamente dal fondo, da quel sacro che feconda gli orizzonti agli dei e forse, un giorno, ai mortali. Non più antagoniste ad esso, le parole così ritrovate gli offrono ospitalità; un’accoglienza che rimette in gioco, da parte dei mortali, la possibilità sia pur minima di orientarsi. Mi sto riferendo ai versi di Poesie (1978); in particolare, alla sua sezione conclusiva, intitolata Mirlitonnades. In essa, Beckett mostra lo spaesamento doloroso degli umani, ma non lo grida, non scarica parole per esorcizzarlo, non inventa immagini per terrorizzarci. Asciutto, il suo verso brucia ravvivato dal fondo abissale dal quale proviene, ne custodisce l’enigma ed il silenzio che lo costituisce.
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andare assente assente sostare (Einaudi, 1980; p.55); oppure: passo passo in nessun posto nessuno solo sa come piccoli passi in nessun posto ostinatamente (Ivi, p.57) ancora: a piĂŠ fermo pur non aspettando piĂš si sorpassa andando senza meta (Ivi, p.59).
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Qui – come negli altri testi della sezione – parola e silenzio sono fatti della stessa sostanza e l’una non soffoca l’altro, bensì ne porta in grembo la vastità. In questo modo, la parola si rivela, del silenzio, sua incarnazione particolare, porta piena di vento nella quale il senso, mai esauribile del tutto, dimora. Il poeta di tutto ciò si fa carico, specie d’Ermes dannato, che responsabilmente porta l’insensatezza del vivere ai mortali come verità definitiva. Ma il mezzo che usa per traghettare il dono malefico – la parola – viene a negare il dono stesso, mostrandosi come il luogo in cui si può attuare una pur minima liberazione dal vincolo, un piccolo lasco, sul quale giocarsi un destino autentico. Potrebbe essere questo, nella prospettiva appena annunciata, l’unico picchetto d’orientamento possibile ai mortali: abitare la parola che scelga per sé la vicinanza con il sacro, con il silenzio, con l’abisso, con quel soffio impalpabile che è il suono dello zufolo cui allude etimologicamente Mirlitonnades. Non dunque la parola-pietra che riempia un vuoto, bensì la parola-fuoco che ravvivi l’origine, assumendosi per intero il dolore dello spaesamento; in questo senso, Beckett si rivela fratello di ogni altro pensatore dell’erranza.
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4. Le temporalità possibili nella Cantatrice calva di Eugène Ionesco
Nell’ “anti-commedia” dello scrittore rumeno, il tempo lineare è un tempo fra gli altri e nemmeno il più importante. Verifichiamolo, puntualizzando, di ciascun momento significativo, le condizioni temporali di esistenza. a) La pendola. Essa – assicura il signor Smith al pompiere – “funziona male. Ha lo spirito di contraddizione. Indica sempre il contrario dell’ora che è” (E. Ionesco, La cantatrice calva [1950], Einaudi, 1982, p.44). Forse il signor Smith crede in quanto afferma, tuttavia nemmeno questa è la logica che regola i rintocchi del non-orologio. Esso invece, come suggerisce lo stesso Ionesco, “sottolinea le battute [dei personaggi], con maggiore o minor forza a seconda del caso” (Ivi, p.28). La pendola segna dunque un’intensità, una tonalità affettiva, non una quantità, come invece converrebbe ad un misuratore oggettivo del tempo lineare.
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b) Metamorfosi del signor Watson. Di Bobby Watson si afferma, nella medesima circostanza: 1) Egli è morto due anni fa; 2) I funerali si sono svolti due anni e mezzo fa; 3) “Sono già tre anni che si è parlato del suo decesso”; 4) “Erano quattro anni che era morto”; 5) “La primavera prossima” Bobby Watson si sposerà con sua moglie (Ivi, pp.18-19). Ciascuna di queste affermazioni appartiene ad una linea temporale originale che, nel dialogo in questione, viene ad intersecarsi con le altre quattro. La naturalezza con cui Ionesco le mette in gioco disorienta, spiazza ogni tentativo di trovarne sistemazione argomentativa unitaria. A meno che, come del resto affermò lo stesso scrittore (cfr. E. Ionesco, Note e contronote, Einaudi, 1965, p.257), non si consideri La cantatrice calva un luogo in cui l’accadere segue regole proprie, secondo una temporalità nata per l’occasione. Il tempo scenico diventa così altro dal tempo quotidiano, gli si contrappone in tutta la sua proteiforme creatività.
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c) Il campanello. Questa alterità la verifichiamo anche nella sequenza del campanello (scene settima e ottava), nella quale, su quattro circostanze in cui esso suona, soltanto nella terza e nella quarta viene rispettato il principio di causalità; terza: “SIGNORA MARTIN Ma la terza volta... non è stato lei a suonare? POMPIERE Sì, sono stato io. SIGNORA MARTIN Ma quando ho aperto, non l’ho vista. POMPIERE Mi ero nascosto... per scherzo” (La cantatrice calva, cit., p.36);
quarta: suona il campanello; il signor Smith apre la porta e, dopo averlo riconosciuto, dice: “C’è il capitano dei pompieri!” (Ivi, p.34).
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Le prime due volte accadono invece in un tempo scenico non consequenziale: “SIGNORA MARTIN Quando suonò la prima volta, era lei? POMPIERE No, non ero io. SIGNORA MARTIN Vedete? [il campanello] suonava e non c’era nessuno. SIGNOR MARTIN Forse c’era qualcun altro. SIGNOR SMITH Era alla porta da molto tempo? POMPIERE Tre quarti d’ora. SIGNOR SMITH E non ha visto nessuno? POMPIERE Nessuno. Ne sono certo. SIGNORA SMITH E la seconda volta ha sentito suonare? POMPIERE Sì, ma neppure quella volta ero io. E continuava a non esserci nessuno. SIGNORA SMITH
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Vittoria! Avevo ragione io [a dire che “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33)] SIGNOR SMITH (alla moglie) Piano, piano. (Al pompiere) E che cosa faceva lei alla porta? POMPIERE Niente. Ero là. Pensavo a tante cose” (Ivi, p.36).
La logica che regola queste ultime sequenze risulterà più chiara, se la mettiamo in relazione con quella che regola la scena seguente. Relazione che le giustifica reciprocamente. d) L’incendio. A pagina 46, il pompiere afferma di conoscere l’ora esatta in cui accadrà “un incendio all’altro capo della città”. Poca cosa, in verità: “Un fuoco di paglia e un piccolo bruciore di stomaco” (Ivi, p.47); ma che sia metaforico oppure sostanziale, il dubbio rimane: se il pompiere conosce gli incendi futuri, perché mai visita in missione gli Smith ed i Martin, riuniti tranquillamente per prendere il tè delle cinque? Essi, tra l’altro, negano che vi sia del fuoco in casa; ha forse torto il pompiere? Oppure non ha veduto il
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futuro con chiarezza? Appunto per trovare una risposta adeguata, dobbiamo tornare alla scena del campanello. Abbiamo visto che, quando esso suona le prime due volte, dietro alla porta non c’è “nessuno”; nel frattempo però la discussione nella stanza si è accesa, i presenti - i signori contro le signore - s’infervorano a ribadire la propria tesi; di conseguenza, il clima si scalda: la terza volta, il pompiere c’è, ma il calore della discussione evidentemente non ha ancora raggiunto i gradi sufficienti alla combustione. Finalmente, al quarto suono, la signora Smith fa scintille: l’incendio (metaforico) scoppia ed il pompiere, puntuale, entra per spegnerlo. Lo fa con il buon senso, conciliando le posizioni dei due schieramenti. Se l’uno infatti sosteneva che “quando si sente suonare alla porta, è segno che c’è qualcuno” (Ivi, p.32), l’altro (le signore) ribadiva che, come già rilevato, “quando si sente suonare alla porta è segno che non c’è mai nessuno” (Ivi, p.33). Il pompiere, combinando le esperienze degli uni e degli altri, proclama “Avete un po’ di ragione tutti e due. Quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno” (Ivi, p.36).
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Il pompiere dunque non giunge fuori tempo: si fa vedere nel momento esatto in cui l’incendio comincia. Giungere prima non gli è consentito, giacché egli esiste nell’opera soltanto in quanto ‘spegnitore di fuochi’. Per questa ragione, chi va ad aprire la porta non lo vede le prime due volte: proprio perché, al di fuori della sua funzione egli è “nessuno”, un essere invisibile, destinato a prendere forma soltanto quando l’opera non può farne a meno. Il suo tempo (e la sua dignità), in questo senso, coincidono esattamente con quello stabilito da chi regola le trame. e) Ci siamo già conosciuti? L’intera quarta scena della Cantatrice calva è occupata dai coniugi Martin, memori di tutto fuorché del loro stato di parentela. ‘Io non me ne ricordo’ è la condizione di principio, che consente al tempo della successione di entrare in scena. La cancellazione del passato, il nulla che sta dietro le loro spalle obbligherà infatti i due coniugi ad una ricostruzione minuziosa e cronologicamente ordinata degli spostamenti recentemente effettuati: Manchester, treno, vagone, sedile, nuovo alloggio londinese, numero dell’appartamento, e poi l’arredamento della camera da letto, e Alice, la figlia bionda di due anni... Tutti gli elementi 63
(successivi alla smemoratezza del principio) sono riconosciuti da entrambi, e dunque – come afferma soddisfatto il signor Martin mettendo insieme i pezzi – i ruoli possono ora essere definiti senza equivoci: “Cara signora, io credo che non vi siano più dubbi, noi ci siamo già visti e lei è la mia legittima sposa” (Ivi, p.26). Parrebbe tutto risolto, ma la verità, apparentemente lapalissiana, trova invece confutazione nella scena successiva; se ne incarica Mary, la cameriera, puntualizzando un particolare che nel dialogo dei due coniugi era rimasto implicito: l’occhio bianco della figlia Alice è il destro o il sinistro? Rispondendo al quesito, ella dimostrerà sorprendentemente - che la figlia di Donald Martin non è la figlia di Elisabeth Martin. E se ci fosse un ulteriore colpo di scena? Il tempo lineare vuole questo: la concatenazione causale dei fatti e la possibilità di riordinare il percorso ogni volta che s’introduce una variabile. È un procedere che annulla le ipotesi confutate e pretende l’autorevolezza della più convincente; ma l’ipotesi più convincente è la più vera? Ionesco si chiama fuori da questo gioco al massacro ed afferma, per bocca della cameriera: “Io non ne so nulla. Non
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sforziamoci di saperlo. Lasciamo le cose come stanno” (Ivi, p.27). Non è una resa politica; si tratta piuttosto di una rinuncia al dominio sul reale che ogni logica fondata sul principio d’identità implicitamente accetta. Una rinuncia, ma anche un invito a non prendere troppo sul serio la nostra pretesa d’aver ragione ad ogni costo. f) La circolarità dell’opera. In conclusione della Cantatrice calva, accadono due eventi straordinari: 1) l’inversione dei ruoli (i coniugi Martin prendono il posto dei coniugi Smith); 2) un nuovo inizio della rappresentazione. Scrive Ionesco: “La commedia ricomincia con i Martin, che dicono esattamente le battute degli Smith, nella prima scena” (Ivi, p.52). Con questa scelta, l’autore ci propone la circolarità, quale modo interno al tempo della successione. Alla fine dell’opera, infatti, il tempo si piega, ma non torna al principio, visto che, ad ogni giro s’invertono i ruoli, ma non le battute e le scene; ogni due giri, invece, la vicenda si ripete identica. Lo spunto polemico verso l’interscambiabilità dei ruoli (e dei luoghi comuni) nella civiltà borghese, che costituisce uno dei motivi centrali del 65
dramma, viene così integrato con il tema della ripetizione e con quello, a questo collegato, dell’alienazione. La ciclicità cui allude la Cantatrice calva non assomiglia perciò al fluire naturale delle stagioni, al tempo buono (e mitico) della civiltà delle origini, ma semmai mima gli effetti, psicologicamente deleteri, dell’organizzazione del lavoro capitalistica. È una circolarità che ha perduto il suo legame con la natura, per diventare essenza di un sistema che rende strumento ogni essere che gli appartiene.
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5. La Storia e Dio nell’ultimo Ionesco La prospettiva appena analizzata, senz’altro critica nei confronti della civiltà postindustriale, tenderà presto a disancorarsi dalla contingenza epocale. Di conseguenza, il male, la sofferenza, l’ingiustizia ed ogni altro fattore dell’umano operare, assumeranno – già da Le sedie (1952) – una dimensione metastorica, nella quale la vita, da sempre e senza una ragione ultima, altro non sarebbe che “nutrizione, riproduzione, combattimento e massacro” (E. Ionesco, L’assurdo e la speranza, Guaraldi, 1994, p.21). Confessa a tal proposito lo scrittore, in un’intervista realizzata per la Televisione della Svizzera italiana, alla fine degli anni Ottanta: “L’assurdo è dato dall’incomprensione che provavo di fronte a un mondo che vedevo, che cercavo di seguire e non capivo” (E. Ionesco, La ricerca di Dio, Ed. Casagrande SA, 1990, pp.17-18). Sarà questo stupore gonfio d’angoscia – e che succede alla fase gioiosa, dissacrante della Cantatrice – a segnare la nuova stagione dell’autore, della quale troviamo completa realizzazione nel 1962, con Il re muore. 67
In questo dramma, Ionesco mette in scena un ipotetico regno in cui Dio non ha luogo. Creatore del Cielo e della Terra diventa allora il potere stesso, attraverso il suo più autorevole emissario: “Ordino che gli alberi spuntino dal pavimento... – sentenzia re Bérenger I, investendosi forse d’autorità olimpica – Ordino che il tetto scompaia... Ordino alla pioggia di cadere... Al lampo di comparire e che io l’afferri con la mano” (Il re muore, Einaudi, 1982, p.32). Quest’opera ci mostra in effetti che cosa accadrebbe ad un’umanità che, avendo perduto il concetto stesso di trascendenza, si fosse costruita un dominio sull’essere coincidente con la propria immanenza. Al di fuori della Storia, in tale disegno, c’è un vuoto spaventevole, un’insensatezza totale, che minaccia di portare con sé ogni traccia dei mortali: “Ciò che deve finire è già finito” sentenzia il re, rammaricato di non durare in eterno (Ivi, p.46). Ma questo sentimento della caducità non genera affatto, in uomini come lui, un agire all’insegna della pietas: il potere diventa, al contrario, l’unico Dio, esercitato spesso orrendamente per fissare in eterno il loro passaggio in terra, per lasciarne memoria indelebile ai posteri.
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Tale convincimento non abbandonerà mai il drammaturgo; si pensi al Macbeth (1972), parodia del potere che diventa paranoia, ossessione; oppure si presti attenzione allo scambio di battute che segue, nel quale, perduto l’altrove, tutte le scelte si equivalgono: PRIMO BORGHESE Non sono egoista, a patto che non mi si chieda troppo. In tempi normali non nego il mio aiuto. Nelle circostanze eccezionali in cui viviamo è un diritto e un dovere essere prudenti e diffidenti. È un diritto e un dovere essere, provvisoriamente, egoisti nei momenti gravi. SECONDO BORGHESE È una tesi. Una morale come un’altra (Il gioco dell’epidemia in E. Ionesco, Teatro completo, Einaudi-Gallimard, 1993, p.362).
Se la Storia resterà sempre il luogo “tragico della condizione umana senza trascendenza” (La ricerca di Dio, cit. p.19), nondimeno il drammaturgo rumeno tenterà – almeno a partire dai primi anni Ottanta (ed ecco la sua ultima stagione) – di scavalcarne
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l’assurdità, recuperando un valore che pare inesistente nel suo teatro, quello della speranza: speranza che esista un senso a quanto accade; che Dio sia l’autore buono del gran teatro dell’universo e che quindi, lo stupore dolente verso la vita, non sia che il frutto d’un sapere approssimativo. Carezzata nel segreto dell’anima, la speranza pare tuttavia sempre sul punto di svanire, d’essere sogno o illusione, sia perché l’orrore quotidiano gli si fa costantemente presente, lo incalza, offrendogli continue prove del fatto “che tutta la storia è apocalittica”, e sia per l’insostenibile fede che lo pervade, tale da fargli scrivere, nell’imminenza della morte: “Non posso vivere né con Dio, né senza Dio” (L’assurdo e la speranza, cit. rispett. p.66 e p.87). L’assurdo e la speranza, pubblicato postumo a cura della figlia Marie France, testimonia appunto di quanto spaesante sia questa condizione, spaesamento che si traduce in un continuo interrogare, umile e stupito, Dio stesso, quel Dio che – come insegnò Maestro Eckhart (l’allusione è a p.48) – ciascuno di noi è. Un Dio, questo paventato da Ionesco, che soltanto l’amore può avvicinare, un amore assoluto, quale quello che
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compenetra il personaggio (allora sconfitto) di Maria, la seconda moglie del re Bérenger I: “Se tu mi ami follemente – ella gli spiega – se ami svisceratamente, se mi ami assolutamente, la morte si allontana. Se tu ami me, se tu ami tutto, la paura si dissolve. L’amore ti trascina, ti abbandoni e la paura ti abbandona. L’universo intero, tutto rivive, il vuoto diventa pienezza” (Il re muore, cit. p.57). Questo amore – come egli ci dice ne La ricerca di Dio (ed. cit., pp.36-37) – altro non è che fede massima nell’assoluto, disponibilità senza residui “a fondersi con Dio”, ma si concretizza anche nell’agire pratico, considerando i “beni della terra” non in quanto proprietà, bensì amandoli per la loro “bellezza”, con il distacco dei saggi. Prima di giungere a queste conclusioni, il drammaturgo rumeno aveva sperimentato l’impegno; ma già allora (e siamo negli anni Cinquanta) quest’ultimo non aveva nessun rapporto con le ideologie, anzi: proprio contro di esse e contro chi voleva fare della sua arte uno strumento di propaganda, egli indirizzò gran parte dei propri spunti polemici. Come ben ci rammenta Emanuel Jacquart nella Prefazione a Tutto il teatro, “le sue dispute con i critici, sia francesi che inglesi,
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contribuiranno ... a persuaderlo che l’ideologia è parte integrante della dimensione tragicomica dell’esistenza, allo stesso titolo della condizione metafisica” (ed. cit., p. LIX). Rispetto alla questione della trascendenza tuttavia, come abbiamo visto, Ionesco maturò nel tempo differente cognizione, pur sorretta da una fede mai adeguatamente sedimentata. In questo senso (e in conclusione), credo non sia scorretto affermare che l’ultimo Ionesco abbia scritto e vissuto sempre in bilico tra due tensioni (l’orrore verso la storia, la speranza fragilissima d’un senso altro e salvifico che l’uomo, graziato da Dio, possa disvelare), senza mai riuscire a conciliarle, nutrendosi dell’amore familiare e della pietas verso i deboli quali uniche vie laiche di abitare l’inconoscibile. Un pensiero, il suo, povero di concetti per scelta e gonfio invece di meraviglia sia verso un creato in perenne conflitto, e sia nei confronti del suo Creatore il quale, pur non concedendo al senso ultimo delle cose d’acquisire leggibilità, infonde – a chi si senta naufrago davvero – la speranza, il desiderio di farsi fanciullo interrogante, preda euforica di una deriva della quale cercare la necessità.
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Per una ridefinizione del Postmoderno
1. Il Postmoderno: una questione controversa
Che il neo-orfismo sia stato il seme fondamentale dell’albero postmoderno in Italia – almeno per quanto riguarda la poesia – lo attestano tanto i detrattori quanto i suoi più entusiasti sostenitori. Lo rilevano, per esempio, Giulio Ferroni (Storia della letteratura italiana. Il Novecento, Einaudi, 1991, pp.717-721) e, con differenti entusiasmi, Franco Cordelli il quale, nella prefazione a Notturna, di Enzo di Mauro, ravvisa nel movimento neo-orfico il pregio di avere anticipato, “nella dizione di un gusto, e di un nuovo modo di intendere e percepire”, altri ambiti disciplinari, tutti
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segnati da “una logica postmoderna” (Campanotto, 1987, pp.6-7). Il senso di questa anticipazione – evidentemente positiva, in Cordelli – non si discosta tuttavia dalle critiche velate di Ferroni in Novecento: entrambi infatti riconoscono alla postmodernità del neo-orfismo un’indole sensuale, seduttiva, panica e politicamente disimpegnata; una posizione, questa, che viene sostanzialmente a confortare quanto la storiografia letteraria ha poi più volte ribadito in merito alla cultura postmoderna tout court, fino a darne certificazione definitiva (e debitamente articolata) nei testi antologici compilati per le scuole medie superiori. Cito, a titolo esemplare, La letteratura e i suoi classici (AA.VV., Archimede, 1997, vol.7) la quale, in conformità con le tesi condivise “dalla maggioranza degli studiosi”, afferma che il postmoderno opera “un confronto aperto con la cultura massificata... da utilizzare come materiale narrativo, spesso in funzione di parodia; in secondo luogo [assume] una teoria letteraria” interna ai testi, “di riflessione sui caratteri e i modi della narrazione; infine, [attua] una rivisitazione ironica della storia e più in generale del passato, dei suoi modi di comportamento, dei suoi usi stilistici, delle sue soluzioni linguistiche” (ed. cit., p.366).
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La problematicità ed i rischi di questa posizione nei confronti della storicità, li avevano in effetti già messi in risalto, polemicamente e con differenti presupposti ideologici, fra gli altri: Umberto Eco nelle Postille a “Il nome della rosa” (in “Alfabeta” n.49, giugno 1983), Italo Calvino nelle Lezioni americane (ed.cit., p.95), Alfonso Berardinelli ne Tra il libro e la vita (Bollati Boringhieri, 1990, p.40 e ss.), Angelo Guglielmi in Trent’anni di intolleranza (mia) (Rizzoli, 1995, pp.183-184) e lo stesso Ferroni, ribadendo in altra sede che, nel postmoderno, “tutto si riconduce al dominio dell’apparenza, dell’effetto, dell’ornamento, dell’artificio: l’essere ‘dopo’ si dà come definitiva perdita di peso di tutta la tradizione culturale, sua neutralizzazione... mirante a uno svuotamento e a una rarefazione della stessa esperienza del presente, all’utopia di una vita senza spessore” (Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, 1996, p.148). La preoccupazione è condivisibile; eppure sono convinto – e questo capitolo vorrebbe dimostrarlo – che sia possibile legittimare una visione postmoderna dell’epoca in cui viviamo, senza per questo squalificare l’etica a semplice esercizio estetico, come lascia per esempio ad intendere
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Pietro Cataldi ne Le idee della letteratura (La Nuova Italia Scientifica, 1994, pp.181 e ss.), né tantomeno ridurre la Storia a mero magazzino di maschere (F. Jameson, Il postmoderno, o la logica del tardo capitalismo, Garzanti, 1989, p.38) o a luogo dell’inautenticità, com’è costretta a fare ogni interpretazione che riconduca l’Essere, sia esso pienezza o lacerazione, ad un’origine metastorica. Credo invece che la postmodernità, così come si configura nell’ontologia ermeneutica d’impianto heideggeriano, offra l’occasione, per la prima volta realizzabile, di rimettere in discussione – nel senso di ricollocare nel gioco della comunicazione interpretante – il passato, svelandolo scrigno d’una comunità di mortali nostri fratelli nella finitezza e nello spaesamento, ai quali affidarsi dialogicamente con affettuosa cura. D’altro canto, proprio da due orfici come Roberto Carifi e Roberto Mussapi parte l’appello ad un recupero rilkiano-heideggeriano del sacro, in cui ci sia posto tanto per la pietas e la condivisione, quanto per una prassi che porti a compimento il passaggio epocale cui stiamo assistendo (cfr. i loro due saggi in AA.VV., La poesia e il sacro alla fine del secondo millennio, San Paolo ed., 1996). Passaggio che, sia detto sin da ora, non è
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affatto pacifico nemmeno sotto il profilo teorico, essendo semanticamente attivo in ambiti spesso contigui con il postmoderno filosofico, quali il pacifismo, la New e la Next Ege, il femminismo, l’animalismo, l’ecologismo ecc., movimenti spesso attraversati da una progettualità conflittuale, antagonista, in sintonia dunque con i caratteri ‘fondativi’ della modernità. Ma tale contraddizione opera nell’alveo stesso della critica postmoderna laddove, per interpretare la postmodernità, essa usa categorie del moderno, parlando di fasi, di evoluzione, di superamento, di rapporto causale fra struttura e sovrastruttura. L’urgenza della presente analisi nasce anche dal fatto che tale contraddizione, maturata nella sinistra statunitense, pervade la stessa nozione italiana di postmoderno (almeno in quella perfezionata da studiosi di formazione dialettica): lo si evince con chiarezza nelle tesi sostenute da Margherita Ganeri nel Postmodernismo (Ed. Bibliografica, 1998), la quale legge la storia del concetto riconoscendone un’evoluzione, a partire da uno stadio “archeologico” in cui trovano posto “la linea Nietzsche-Heidegger-Gadamer”, passando per uno stadio intermedio inaugurato dal neocapitalismo e dal decostruzionismo anni
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Sessanta-Settanta, e finendo con “i ‘cattivi ragazzi’ degli anni Novanta” (Brizzi, Ballestra, Santacroce, Nove, ecc.). Per cercare un’altra via alla postmodernità, che si distingua anzitutto da quella che legittima il disimpegno postmoderno fondandolo su una deriva storica irrimediabile e senza scampo, credo dunque sia necessario riprendere le fila del discorso heideggeriano, seguirne passo passo i momenti più significativi, così da avvicinare la questione dal suo nodo “archeologico”, dal principio cioè che la regola e la informa.
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2. Del mostrarsi e del celarsi
Partiamo dal saggio, già citato, Sull’origine dell’opera d’arte (1935-36), e cerchiamo di evidenziarne, sia pure schematicamente, l’argomentare. La questione affrontata dal filosofo tedesco riguarda “l’essenza dell’arte” allorché la si pensi nella concretezza dell’opera (ed. cit., p.4). L’analisi mira a sottolineare il fatto che quest’ultima non è un oggetto, bensì qualcosa che “rende noto qualcos’altro” (Ivi, p.6). L’approfondimento di tale assunto, lo porterà a riconoscere nel “Mondo” ciò che dell’opera d’arte vediamo, ciò che in essa si dà da comprendere: “il Mondo”, scrive, è il luogo del mostrarsi in cui “ogni cosa acquista il ritmo del suo sostare e del suo muoversi, la sua lontananza e la sua vicinanza, la sua ampiezza e il suo limite” (Ivi, p.30). Ogni opera d’arte, in questa prospettiva, “espone” un “Mondo”, mostra cioè una rete visibile di rimandi nella quale le singole cose in essa organizzate acquisiscono un senso; ma la verità dell’opera d’arte, come accennato, non coincide tutta ed esclusivamente in questo apparire
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mondano; più profondamente, l’autore riconosce al “Mondo” un essenziale provenire dal nascosto, da un’oscurità carica d’annunci, che egli chiama “Terra”. La “Terra” dunque è quel grembo inesauribile dal quale viene il “Mondo” (e non invece, come sostiene Jameson, “materialità priva di significato”; in Il postmoderno ecc., cit., p.21). La verità dell’opera d’arte riguarda, appunto, questo gioco serissimo “di illuminazione e nascondimento” che si dà nel conflitto in atto fra ciò che si mostra e ciò che, in quel mostrare, si sottrae: “Mondo e Terra sono sempre, e in virtù della loro essenza, in contrapposizione e in lotta” (Ivi, p.40). L’eterna lotta del visibile con l’invisibile, del dire con il silenzio, del mostrare con il nascondere, è fondamentale non soltanto per la verità dell’opera d’arte, ma anche per l’uomo stesso poiché, interrogando quel conflitto, egli mette in gioco il proprio modo consueto di stare presso gli enti, la cui inautenticità deietta Heidegger aveva raccontato in Essere e tempo (1927). Qui tuttavia l’uomo (l’Esserci) assumeva l’autenticità della propria esistenza a partire dalla decisione anticipatrice della morte: fondava dunque sul proprio “essere per la
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morte” ogni successivo atto mondano. L’ambiguità che ne deriva, e della quale Heidegger fu subito consapevole, consiste nel porre l’Esserci come aprente, come colui che pone in essere l’apertura autentica, con ciò riproponendo l’idea centrale della metafisica, ossia quella del Principio primo, dell’Ente supremo, in una parola: del fondamento. La riflessione heideggeriana, che matura proprio a partire dai Sentieri interrotti, vuole invece rileggere in modo inaudito il discorso metafisico occidentale: quanto succede di fronte ad un’opera d’arte, lo spaesamento in cui l’Esserci è ricondotto, dimorando presso quel mondo e quella terra perennemente in conflitto, è appunto il primo passo verso un discorso che si liberi dalla supremazia della soggettività fondante (caratteristica basilare della modernità e di cui l’Umanesimo è la più dignitosa forma di pensiero), per offrire la voce ad un’età in cui la verità sia pensata in modo originario. Lo storicizzarsi della verità è dunque un primo passo per poter pensare all’Essere senza confonderlo con l’ente. D’altro canto, anche Hegel e Nietzsche temporalizzano la verità, il primo strutturandola nella dialettica, il secondo
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identificandola con la volontà che vuole se stessa, in un circolo che tende al proprio accrescimento mediante la propria conservazione; in entrambi i casi, nella lettura heideggeriana, si dà alla verità un valore fondante, la si pensa come struttura eternamente presente che giustifica il processo diveniente. Uscire da questa catena fondante significa, per il filosofo dei Sentieri, pensare il rapporto EssereTempo-Esserci come ad un accadere epocale, ad un evento (Ereignis) nella cui bocca abissale il mondo e le cose s’adunino. Le pagine finali del saggio su L’origine dell’opera d’arte e la conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia (1937) approfondiranno questa nozione, orientandola in senso linguistico: le altre arti – scrive Heidegger nel primo dei due saggi citati – pur essendo conflittualità in atto tra mondo e terra, “hanno sempre luogo solo nell’Aperto del dire e del nominare” dai quali “sono rette e guidate” (Sentieri interrotti, cit., p.58). Ma è soprattutto ne In cammino verso il linguaggio (1959) che egli chiarirà il modo in cui l’Essere, pur non identificandosi con il linguaggio, si dà nel linguaggio. L’impegno è, finalmente, quello di raccontare l’eventualizzarsi dell’Essere, lasciandolo dimorare nel linguaggio,
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dandogli ascolto, ma senza pretendere di sradicarlo dall’oscurità in cui, donandosi, si ritrae. Obiettivo annunciato già nella Lettera sull’ “umanismo” (1947), laddove sostiene che il pensiero è dell’Essere nel duplice senso che “appartiene” all’Essere e, in quanto tale, gli dà ascolto (Adelphi, 1995, p.35). Per comprendere meglio questo assunto, soffermiamoci sul modo in cui Vattimo traduce il titolo Unterwegs zur Sprache: al tradizionale In cammino verso il linguaggio dell’edizione mursiana curata da A. Caracciolo, egli preferisce Sulla via del linguaggio (in G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, 1982, III ed., p.121), sottolineando così il fatto che l’Esserci non raggiunge l’essenza del linguaggio (e dunque la propria più autentica collocazione) dopo un cammino, bensì è già sempre nel e per il linguaggio, e, di conseguenza, già sempre dimora nell’Ereignis (in quell’Evento cioè che – dopo la fine della metafisica – qualifica la reciproca familiarità espropriante di Uomo ed Essere). Così concepito, il linguaggio si dà in custodia all’Esserci affinché quest’ultimo ne preservi quella natura appellante che l’Essere stesso possiede nell’attuale apertura epocale. In questo senso, l’Esserci abita il linguaggio al modo del cor-rispondere a quel dire originario il
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quale – come scrive Heidegger in La fine della filosofia e il compito del pensiero (1966) – “in ogni tempo, ascoltato o no, si fa parola nel destino non ancora deciso dell’uomo” (in Id., Tempo ed Essere, Guida, 1980, p.168). Si tratta di un ‘farsi parola’ che tuttavia esula da qualsiasi determinazione assertiva, giacché si configura, in coerenza con il suo non-esserefondante, nel modo del da pensare, di un appello cioè che, nel succedersi delle apertura epocali, si è tramandato come “il medesimo” (das Selbe). In questa prospettiva, l’Essere heideggeriano ‘è presente’ nella Storia al modo del perdurare che, nell’accadere epocale, si conserva e si tramanda come appello mai esauribile in una risposta. Ne consegue che l’aprirsi epocale dell’Essere è ogni volta finito, ma in questa finitezza si custodisce il Selbe che si fa appello alle generazioni future, affinché la loro risposta ne tramandi l’inestinguibile segreto. “Storia autentica – scrive Heidegger – è Presente. Presente è Av-venire in quanto richiesta dell’Iniziale, cioè di ciò che perdura, di ciò che già è e del suo nascosto essere-raccolto” (I principi fondamentali del pensiero [1958], in “Il pensiero / Il tempo”, n.1, ed. il melangolo, 1979; p.13). E altrove, chiarendo con una similitudine: “C’è una tradizione
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da epoca a epoca. Ma essa non corre tra le epoche come un legame che le stringe l’una all’altra, bensì viene di volta in volta dal nascosto del Geschick [dal destino dell’Essere], così come da una sorgente nascono diversi ruscelli, che alimentano un fiume, il quale è ovunque e in nessun luogo” (Der Satz vom Grund, passo citato da Vattimo in Essere, storia e linguaggio in Heidegger, ed di “Filosofia”, 1963, p.171).
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3. Utopia, collocazione, tradizione
Una prima considerazione: se l’utopia non ha luogo, non significa che essa non possa dar luogo; riflettere sull’utopia, come a quel luogo da pensare cui Heidegger riconduce il senso dell’Essere, è uno dei modi possibili di riprendere il discorso sul postmoderno. E questo perché Heidegger ci offre la possibilità di pensare all’utopia non più come al fondamento umano dell’agire storico insoddisfatto, bensì come a colei che, chiamandoci, ci colloca nella sua possibilità av-veniente. Questo della collocazione è un tema centrale anche nella riflessione di Vattimo, ma, mentre in Heidegger esso si articola in relazione all’autenticità dell’Esserci nell’Ereignis, nel filosofo torinese il problema si sposta sul piano della storicità. Vattimo, in altre parole, sposta la domanda heideggeriana sul senso dell’Essere a quella sul senso della Storia, poiché concepisce il “prendere congedo” dell’Essere come un “essere-già-accaduto”, un ritrarsi all’infinito verso il passato. In questo senso, l’Essere vattimiano diventa ciò-che-trapassa, che matura e invecchia, un Essere diveniente-
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declinante, che in ciascuna apertura epocale si offre alla comprensione in quanto ritraentesi-caducità, mai riconducibile, in ogni caso, alla semplice presenza della metafisica occidentale (G. Vattimo, Le avventure della differenza. cit., pp.200-201). Da quanto appena osservato, risulta evidente che il filosofo torinese, spostando l’attenzione dal senso dell’Essere a quello della Storia, viene a distorcere il pensiero heideggeriano in altri due punti: il primo è che la questione della collocazione si trasferisce dalla gettatezza ontologica alla gettatezza storica; il secondo distorcimento consiste nello spostare l’ascolto del da pensare nel passato, anziché nell’avvenire, riconoscendo alla tradizione lo scrigno in cui l’essente-stato ha preso congedo. Se dunque in Heidegger – rispetto a quest’ultimo elemento – il da pensare, in quanto annuncio, è sempre da-venire (in questo senso è utopico), in Vattimo la monumentalità del passato, come terra che custodisce il segreto dell’estinzione mai esauribile dell’Essere, viene in primo piano, in una vicinanza non casuale con l’ermeneutica di Hans Georg Gadamer. E tuttavia, dal filosofo di Verità e metodo, Vattimo prende le distanze, svelando la matrice metafisica del suo pensiero. In Gadamer, in effetti,
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l’essere di una cosa è la somma delle interpretazioni in cui è stata coinvolta nel corso della sua storia; una struttura dunque, quest’ultima (e la storia nella sua universalità), permanente e lineare, la quale tende infinitamente alla realizzazione della libertà. (H. G. Gadamer, La ragione nell’età della scienza, il melangolo, 1982, p.26). A quest’idea dell’ermeneutica, Vattimo contrappone l’istanza ontologica heideggeriana, letta con la Verwindung (la distorsione) che abbiamo prima rilevato: pensare la differenza dall’ente sarà dunque l’unica possibilità che hanno i mortali di trovare autentica collocazione storica, rammemorando quanto si dà da pensare in ciò che è già stato detto; da pensare che, appunto, non è né il Selbe heideggeriano né il logos gadameriano, ma un appello governato dal “silenzio” e dalla “quiete” e che “lascia essere la storia come presentarsi di nuove risposte a nuovi appelli” (G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, cit. p.141). Un chiamare, ancora, “che ha come suo limite e come suo fondamento costitutivo la morte”, nel senso appunto che si dà in quanto voce silenziosa della sfinitezza caduca dell’Essere (G. Vattimo, Al di là del soggetto, Feltrinelli 1981, p.90).
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Da questa prospettiva, l’utopia non è parola dell’uomo-mortale che risponde all’appello, custodendo-annunciando-distorcendo il medesimo; essa è, invece, approfondimento della caducità, assunzione - quasi come nella decisione anticipatrice di Essere e tempo - del proprio essere-per-la-morte, in modo tale da togliere alla realtà quella “maschera di necessità che la metafisica gli ha imposto”, così da consentire all’Esserci di vivere “il possibile come possibile” (G. Vattimo, Le avventure della differenza, cit., p.138). Utopia, in questo senso, è togliere al divenire storico la necessità della struttura, per pensarlo come una malattia dalla quale possiamo rimetterci soltanto sprofondando in essa. È quanto Vattimo si propone di attestare nel saggio Dialettica, differenza, pensiero debole, mostrando la necessità storico-destinale del “pensiero debole”, che attua un superamento-distorsione di quanto dialettica e differenza hanno tramandato, lasciandolo da pensare: “È probabile – scrive egli a proposito – che la Verwindung, la declinazione della differenza in pensiero debole, si possa pensare soltanto se si assume anche l’eredità della dialettica” (in Il pensiero debole, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, 1983).
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Una seconda considerazione: nominando Heidegger e Vattimo ho messo in gioco due possibilità di pensare al postmoderno come al luogo della disponibilità dell’uomo-mortale alla sua più autentica vocazione: quella di abbandonarsi all’ascolto di quanto nelle epoche si tramanda, sia esso un da pensare che si slancia nell’avvenire appellandoci come fosse un amico aurorale, sia esso un da pensare mortalmente segnato dalla debolezza, “dalla caducità e dalla mortalità”, che si offre silenziosamente alla rete dialogico-distorcente dei parlanti. In entrambi i casi, ma con conseguenze diverse, mi sembra sia possibile riproporre il tema della postmodernità – e dunque del venir meno della credibilità del fondamento – senza per questo ridurre la Storia ad un magazzino di maschere o ad un luogo svuotato di senso o, ancora, senza la pretesa di pensare alla “condizione postmoderna” come a quell’atteggiamento critico che “ha rovesciato come un guanto l’impalcatura teorica della cosiddetta modernità” (P. Portoghesi, Postmodern. L’architettura nella società postindustriale, Electa, 1982, p.13). Per evitare le ambiguità delle varie posizioni postmoderne, le quali, come già osservato, spesso
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adottano acriticamente il lessico della modernità, in primo luogo quello di superamento (e con ciò riassumendo nel proprio argomentare una categoria forte della filosofia della storia proprio della metafisica occidentale), occorre confermare con chiarezza quanto segue: le posizioni di Heidegger e di Vattimo hanno in comune il fatto di considerare il succedersi delle epoche come un eventualizzarsi di un Essere che non può più essere pensato come fondante; al tempo stesso, però, l’aprirsi del possibile e del molteplice che, in quell’eventualizzarsi, viene alla presenza, non nega valore al passato, anzi: ne recupera la dignità in quanto tradizione; in Heidegger quest’ultima custodisce l’annuncio e lo tramanda nel segreto dell’attesa; in Vattimo essa diventa il luogo delle tracce del vivente, le quali rammentano al mortale il suo inevitabile trapassare. In quest’ultima prospettiva, la collocazione di ogni singolo mortale fa quel legame differentemente, cosicché soltanto da quel luogo particolare, dal qui della propria gettatezza, l’uomo-mortale si rimette al liberante legame che lo appropria traspropriandolo alla tradizione: ogni dire, in altri termini, è un corrispondere situato, un punto di vista che disvela la
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traccia caduca in cui l’Essere si dà; un punto di vista che – disvelando – cela, appunto perché l’aprirsi è già sempre un nascondere, un ritrarsi. Così concepita, la verità dell’apertura epocale consiste in tutto quanto il linguaggio di ciascun mortale situato porta alla luce ma anche in quanto in quel dire si congeda, obbligando i parlanti a riproporre la parola, a metterla in gioco nella rete di rimandi a cui ciascun dire rinvia. Ma questo orizzonte storicolinguistico (al quale diamo voce) trova radice destinale, come detto, nell’ascolto del “quieto” invio che proviene dalla tradizione, per cui verso di essa ciascuno deve porre il massimo rispetto, pur nella consapevolezza che qualsiasi risposta è ontologicamente insufficiente tanto a legittimare (o a criticare) il presente, quanto a svelare totalmente il destino caduco dell’Essere. All’uomo-mortale vattimiano non spetta perciò il compito di superare questa condizione; se intendesse uscire dalla malattia dell’erranza destinale e della convalescenza mai sanabile del tutto, egli rifonderebbe le categorie metafisiche della semplice presenza, con ciò dimenticando di nuovo l’Essere a favore dell’ente (G.Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna,
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Garzanti, 1985, pp.172-189). Quest’arbitrio – il fatto cioè che, volendo, l’uomo potrebbe ridimenticare l’Essere – lascia intendere come Vattimo, facendo leva sulla “filosofia del mattino” nietzscheana (Ivi, pp.177-179), non sia persuaso fino in fondo del da pensare heideggeriano, al suo darsi in quanto evento destinale che è già sempre unità di appello e di risposta e al quale, dunque, l’Esserci non può sottrarsi (cfr. M. Heidegger, L’abbandono [1959], il melangolo, 1983, p.61. È comunque possibile che il “ritorno” al cristianesimo proposto da Vattimo in Credere di credere sia, in questo senso, un ripensamento decisivo).
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4. La fine della storia e la pietas postmoderna
La questione dell’età in cui la modernità si fa postuma a se stessa trova motivo d’interesse in Vattimo più che in Heidegger. Come abbiamo visto, in quest’ultimo il problema del senso dell’Essere è infatti prioritario rispetto a quello della Storia; di conseguenza, la collocazione in lui ha valore ontologico, laddove nel filosofo torinese trova specifica rilevanza biografica. Per questa ragione, un approfondimento del postmoderno in direzione della possibilità che la Storia sia giunta alla fine, trova in Vattimo migliore referente; seguiamo le sue osservazioni, elaborate ne La fine della modernità. Riprendendo la tesi di Karl Loewith presente in Significato e fine della storia (1949), Vattimo comincia la sua riflessione sulla modernità considerandola l’erede del pensiero ebraico-cristiano, un’erede che si è costituita in base ad una progressiva secolarizzazione della visone biblica della storia. In questo senso, la modernità concepisce lo sviluppo della storia secondo l’idea di un tempo lineare, tutto teso ad un superamento (Ueberwindung) storico che annienta il passato o, nella migliore delle ipotesi
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(quella storicistica), ne disconosce il valore appellante. La postmodernità invece, nell’accezione vattimiana – come abbiamo visto alla fine del paragrafo precedente – vorrebbe prendere “congedo dalla modernità” ma senza superarla, bensì rimettendosi ad essa come al proprio più autentico destino: “uscire dalla metafisica” – scrive il filosofo torinese nel testo citato (p.189) – significa seguire “la via di una accettazione-convalescenzadistorsione [di essa] che non ha più nulla dell’oltrepassamento critico caratteristico della modernità”. In questa prospettiva, il divenire (quale succedersi epocale necessario) perde consistenza ontologica, palesandosi invece quale mero risultato di un dominio; Vattimo, a tal proposito, chiama in causa uno dei testi fondamentali della critica francofortese, quelle Tesi di filosofia della storia (1940) di Walter Benjamin che tanto hanno contribuito alla dissoluzione della dialettica. Nelle Tesi, infatti, il filosofo tedesco svela “la storia” – nella sua veste di processo lineare, unico ed omogeneo – quale espressione della volontà realizzata dei vincitori (in W.Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, 1976, pp.7283). Ciò significa, commenta Vattimo ne Il pensiero
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debole, che l’idea “di un corso progressivo del tempo... si costituisce a prezzo dell’esclusione, prima nella pratica e poi nella memoria, di una moltitudine di possibilità, valori, immagini” (ed cit., pp.15-16). Tuttavia anche in Benjamin sopravvive l’istanza metafisica poiché, scrive altrove Vattimo, “il progressismo, nella sua forma messianica (distinto... dalla fede nel progresso proprio della borghesia...) si accompagna necessariamente” con “l’idea di redenzione”, una redenzione proiettata nel futuro che vorrebbe recuperare una ipotetica “essenza” umana (La “parte maledetta”. Sinistra e nichilismo, in AA.VV. Il concetto di sinistra, Sonsogno, 1982, p.79). Per uscire dall’ontologizzazione della soggettività operata dai pensatori della dissoluzione della dialettica (Benjamin, Adorno e Sartre, in primo luogo), Vattimo si appoggia alla prospettiva nietzscheana del mondo diventato favola in conseguenza della “morte di Dio”. In essa, non soltanto si dissolve l’idea forte di verità, di fondamento ultimo che giustifichi gli enti, ma vi è anche il fatto, assolutamente decisivo per il destino dell’Occidente, che possiamo vivere senza la sua presenza.
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Questa condizione, che per Vattimo inaugura la “postmodernità in filosofia” (La fine della modernità, cit. p.175), si traduce – empiricamente – nel moltiplicarsi delle “potenze capaci di raccogliere e trasmettere le informazioni, in base a una visione unitaria” ma dipendente dall’insieme di pre-giudizi di cui il parlante si fa voce e che lo costituisce nel suo “essere gettato”. L’effetto è una molteplicità di interpretazioni del medesimo fatto, che privano l’ascoltatore della certezza dell’unicità del medesimo (Ivi, p.18). Ed è proprio questo che “caratterizza... la fine della storia nell’esperienza post-moderna”: il fatto cioè “che... nella pratica storiografica e nella sua autoconsapevolezza metodologica l’idea di una storia come processo unitario si dissolve” (Ivi, p.13). Al suo posto si concretizza una complessità storica prodotta dall’incrociarsi, dal ‘contaminarsi’ “delle molteplici immagini, interpretazioni, ricostruzioni che, in concorrenza tra loro o comunque senza alcuna coordinazione ‘centrale’ i media distribuiscono” (G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, 1989, p.15). In questo senso, anche l’idea della “fine della storia” è un racconto fra gli altri, un’ulteriore verità messa in circolo, a minare nelle fondamenta la lettura monolitica ed
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autoritaria del processo diveniente. Se questo è vero, chiaro allora che a finire non è il tempo reale degli accadimenti, bensì il modo moderno di leggere la loro concatenazione, quell’allineamento dei fatti operato dai “vincitori” già messo in crisi dalle Tesi benjaminiane ed ora liquidato nel moltiplicarsi indefinito dei punti di vista, nella rete dialogicoretorica delle agenzie informative, tutte egualmente legittimate a sostenere un interesse di parte. In questo senso, la verità di ciascuna interpretazione coincide con la sua capacità persuasiva (G. Vattimo, Il pensiero debole, cit., p.25), in una leggerezza che le deriva dal sapersi incapace d’essere totalità interpretativa e fondante, e dunque dalla consapevolezza d’essere il frutto d’un progetto finito, gettato in una precisa apertura storicodestinale, quella del Ge-stell, dell’im-posizione tecnica, in cui “il vero e la finzione, l’informazione, l’immagine” non sono mai nettamente scissi (La fine della modernità, cit., p.189). L’apertura epocale presente (inaugurata dalla morte di Dio nietzscheana e giunta a compimento nell’ultimo scorcio del XX secolo) si configura così come una rete dialogico-interpretante, che mette finalmente l’uomo nelle condizioni di realizzare il
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progetto nietzscheano del “nichilista compiuto... che ha capito che il nichilismo è la sua (unica) chance” (Ivi, p.27). L’Uebermensch nietzscheano (e quello vattimiano, di conseguenza) non sarà tuttavia il Superuomo delle dittature novecentesche bensì, come sottolinea l’autore in Al di là del soggetto, “l’oltreuomo... capace di apprezzare la molteplicità delle apparenze come tale” (Feltrinelli, 1984, p.49), senza nostalgia delle strutture fondanti, ma anche senza intenzioni di dominio. È in questo contesto che trova spazio la formulazione di un’eticità modulata sulla pietas, che affonda la propria radice nel congedo dell’Essere, nel tramontare di quell’Essere heideggeriano che, letto nella distorsione vattimiana, tramanda i propri appelli nel modo del “monumento”, come memoria d’un essenteci-stato che ‘fa in modo’ di non essere dimenticato. Pietas è appunto, per Vattimo, l’atteggiamento pratico con cui l’uomo-mortale della postmodernità si “ri-mette” al passato, all’appello debole dell’Essere, provando per esso rispetto, amore, tenerezza, indulgenza, bontà, simpatia, ma anche compassione e affanno, poiché la tradizione – come
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già osservato – non si supera, bensì la si pensa come malattia inevitabile. Provare pietas verso ciò che ci ricorda la caducità è, appunto, una prassi segnata dal sentirsi legati (ma non fondati) all’invio della tradizione; è dunque un rimettersi ad essa come a quanto ci costituisce destinalmente. Su questo punto, Vattimo è rimasto sempre coerente; si veda a riguardo La società trasparente, dove la pietas deriva dal riuscire a vivere “esplicitamente” la “pluralità”, la “molteplicità dei modelli” considerandoli tutti degni d’ascolto e nessuno capace di esaurire la chiamata dell’Essere (ed. cit., p.95). La pietas viene sostenuta anche in Oltre l’interpretazione; qui l’autore la definisce come la capacità di “collocare le singole esperienze entro una rete di connessioni... orientata nel senso della dissoluzione dell’essere, e cioè della riduzione dell’imponenza della presenza” (Laterza, 1994, p.50). In questo testo, la pietas svela tutta la sua valenza pratica, d’attività non contemplativa, ma immediatamente operativa: essa infatti diventa “carità”, luogo solidale in cui l’Esserci realizza il proprio destino nella comunità con gli altri mortali (Ivi, p.52).
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Con quest’ultima apertura, Vattimo riprende il dialogo con la tradizione cristiano-cattolica, leggendola in una continuità con la storia dell’accadere dell’Essere. Nel saggio Credere di credere, egli porta alle estreme conseguenze questo progetto, che vuol essere una testimonianza di una ricerca segnata dalla propria, irripetibile, collocazione: “Sono cresciuto come cattolico praticante, militante, per lo più anche fervente e impegnato nello sforzo di corrispondere agli insegnamenti di Gesù Cristo” (Garzanti, 1996, pp.24-25) Pur non potendo seguire fino in fondo quest’ultima direzione, la cui problematicità meriterebbe uno spazio ben più adeguato, mi sembra comunque chiaro che molte obiezioni sul postmoderno, qualora quest’ultimo trovi nella pietas un atteggiamento etico caratterizzante, vengono meno, giacché la tradizione, lungi dall’essere negata o “rivisitata” ironicamente, diventa invece orizzonte il cui appello insegna e mette allerta, rammemorando agli uomini la loro infondatezza destinale, ma anche la necessità della loro parola.
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5.
Conclusioni (e note sulla sensibilità postmoderna nella scrittura italiana contemporanea)
Il fatto che Heidegger ponga l’attenzione sul senso dell’Essere anziché sul senso della Storia, e, ragione ancora più decisiva, che concepisca il Selbe come l’unità di appello e risposta che apre all’avvenire, se da un verso gli impedisce di spostare la riflessione sul piano etico, gli apre dall’altro una possibilità preclusa invece a Vattimo: quella di annunciare un aldilà della metafisica, di cui “nessuno sa quando e come” accadrà (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p.208), e tuttavia praticabile storicamente sin da ora, cominciando a pensare – come spiegò il filosofo in un’intervista allo “Spiegel” (23/9/66) – partendo “dai tratti non ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro senza pretese profetiche” (M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, 1987, p.144). Un fare, questo, che, nell’atto del compiersi, colloca finalmente l’Esserci – essenzialmente “mortale” – nella sua posizione ontologica, in un angolo di quel “quadrato” (Geviert) che lo aduna e trattiene in
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“un’unità originaria” con i divini, la terra e il cielo (In cammino verso il linguaggio, cit., p.35). Collocato l’Esserci in tal modo, viene meno uno dei tratti caratteristici della modernità: quello che attribuisce all’io la presunzione fondativa. Nell’Ereignis, infatti, l’io viene consegnato dall’apertura stessa ad un reciproco gioco espropriante con gli altri angoli del “quadrato”, tale da renderlo nomade in un circolo spazio-temporale che lo accoglie ma anche lo disorienta, “straniero” al modo dell’Uebermensch trakliano. Così dimorando – spaesato eppure, nel contempo, essenzialmente a casa – egli farà parola dell’accadere dell’Essere, un Essere libero finalmente di essere nominato nella sua differenza dall’ente. Indebolimento dell’io e possibilità di lasciar essere nel linguaggio “i tratti non ancora pensati” del presente, così che il passaggio epocale si compia: è questa dunque l’unità fortemente postmoderna del pensiero heideggeriano che è stata accolta di recente da alcuni poeti italiani. Penso a Roberto Carifi il quale, ne I Venturi dell’ultimo Dio, riconosce esplicitamente “una profonda affinità tra i poeti e i Venturi”, quegli uomini cioè che “procedono verso
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il compimento epocale” (in AA.VV., La poesia e il sacro, cit., p.53-54); affinità che consiste – come si ricava altrove – nella capacità, sia degli uni che degli altri, di “liberarsi dalla prigione dell’io, dalla follia del suo attaccamento ai contenuti finiti, [per] realizzare dentro di sé il vuoto necessario affinché il divino vi possa penetrare” (in “Poesia” n.139, maggio 2000, p.31). Certo anche Carifi legge a modo suo Heidegger, coniugandone l’istanza av-veniente con il pensiero dell’erranza jabesiano, con l’orfismo rilkiano e, soprattutto, con il Dio “incondizionatamente disposto all’amore” di matrice cristiana (R. Carifi, L’infanzia e il dono, in La parola ritrovata. Ultime tendenze della poesia italiana, a cura di M. I. Gaeta e G. Sica, Marsilio, 1995, p.58). Ma il cristianesimo, Heidegger, Jabès, Rilke (e Levinas, e Celan, citati parimenti negli scritti di Carifi) hanno effettivamente in comune una visione, al tempo stesso, caduca dell’uomo e appellante dell’Essere; e dunque, c’è coerenza in questo suo procedere, in questo suo cercare collocazione che si realizzi nella disponibilità all’ascolto del dolore e dell’autenticità della scrittura, senza preclusioni di sorta (si veda, in tal senso, la pazienza e l’affetto con
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i quali egli gestisce da anni la rubrica “per competenza” su “Poesia”). Posizioni analoghe – forse più sibilline, meno venate da quella pietas che, invece, contraddistingue l’etica carifiana – mostra Marco Guzzi, quando rileva che la “transizione antropologica in atto” è caratterizzata dal “passaggio dall’Io egocentrico a un nuovo Io” (M. Guzzi, “io è un altro”: l’esperienza spirituale nella poesia contemporanea, in AA.VV., La poesia e il sacro, cit., p.40 e p.45), il quale – ci spiega altrove – si sta configurando “come Io in ascolto, Io in dialogo, Io naturalmente mondiale, plurale, corale, condiviso”. Si tratta, continua il critico romano, di un passaggio certamente difficile e tuttavia necessario. (M. Guzzi, Per una poetica della trans-figurazione, in La parola ritrovata, cit., p.55). I segnali che nella poesia italiana sia cominciata l’età della “trans-figurazione” (per dirla con Guzzi) sono molti altri, e presenti già dalla fine degli anni Settanta. Basti pensare agli interventi contenuti ne Il movimento della poesia negli anni ’70 (cit.), dove si ribadisce la “disseminazione dell’io” quale condizione normalizzata dell’essere-nel-mondo (cfr. gli interventi dei due curatori) e si addita nel circolo ermeneutico costituito da Blanchot, Heidegger,
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Nietzsche, Leopardi ed Hölderlin il fertile terreno di molta poesia contemporanea (A. Prete). Fra questa, un forte ruolo di catalizzazione lo sta svolgendo il gruppo di Anterem, anch’esso attivo dagli anni Settanta e già da allora impegnato a pensare e a mettere in parola tanto la crisi del soggetto quanto l’urgenza di un orizzonte altro, di un luogo originario nel quale, come scrive Gio Ferri, dominano il delirio (nel senso deleuziano di “uscire dal solco”, tracimando oltre/sul bordo del noto e dell’utile) e il conseguente, liminare, nomadismo (Id., Per una parola liminare, in AA.VV.,Verso l’inizio, cit., p.288). Non possiamo infine dimenticare la scrittura portiana degli anni Ottanta, sempre segnata dalla caducità, dalla consapevolezza d’essere presso una verità dimorante nella lingua, ma radicalmente imprendibile, e che si tradusse, nel poeta milanese, in un atteggiamento di pietas assai somigliante a quello proposto da Vattimo. Che sia inserita in questa tradizione la sensibilità postmoderna (nell’accezione sopra annunciata) della poesia italiana credo che non ci siano dubbi; tutti in gran parte da decifrare rimangono invece i singoli modi in cui i poeti traducono-tradiscono tale
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sensibilità. Ma per tentare un quadro esauriente di essi, per non ridurre quel quadro ad un elenco di possibilità in concorrenza fra loro, conviene aspettare che il passaggio epocale si definisca ulteriormente, in modo tale che sia l’apertura stessa – attraverso le parole offerte da ciascun mortale dalla propria, irripetibile, soglia – a donarsi nella sua, per ora ancora confusa, evidenza. Ciò non significa, ovviamente, tacere sui poeti contemporanei; vuol dire, piuttosto, sapere che poesia e critica – insieme – acconsentendo all’aprirsi dell’apertura, le appartengono essenzialmente, si danno cioè all’interno di un Ereignis che, chiamandole alla loro radice disvelante, le colloca in una libera vastità dialogica, autenticamente orientata all’avvenire. E significa anche, di conseguenza, rinunciare ad ogni decodificazione definitoria, ad ogni pretesa esaustiva, a qualsiasi aggressività nei confronti di altre linee interpretative, essendo esse tutte contemporanee, e tutte dunque soggette alla “provocazione” del Ge-stell. Per aggiungere ulteriore chiarezza a queste affermazioni, potremmo partire dalla seguente domanda: esiste, nella modernità, una tradizione che, sull’infondatezza del Principio primo, ha
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costruito il proprio discorso? Hölderlin, Nietzsche, Trakl, Rilke ed Heidegger sono stati scelti quali picchetti orientativi, al fine di poter rispondere con sicurezza: questa tradizione esiste ed è su di essa che bisogna porre l’attenzione, per formulare un discorso non contraddittorio sul postmoderno. Ma fare un discorso sul postmoderno diventa una contraddizione in termini allorché si pretenda di oggettivarne le caratteristiche, di im-porlo quale oggetto di una riflessione che possa circumnavigarne il perimetro. Tale pretesa, infatti, implicherebbe la presunzione moderna di sradicare l’inconoscibile, di pensare la verità non come aletheia, bensì nella sua artificialità sintattica, quale ratio che, come scrive Cacciari, riduce “la cosa in oggetto e l’oggetto in struttura... sempre più formalizzata e complessa” (Dallo Steinof. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, 1980, p.52). Il pensiero postmoderno d’impostazione heideggeriana-vattimiana invece, l’abbiamo visto, sa di non poter uscire dal pregiudizio, dalla gettatezza di quel ci dell’Esser-ci, che gli impone di mettersi in ascolto e di nominare quanto nel mostrasi si cela, sapendo che mai potrà sradicarlo del tutto. E tuttavia, se un discorso sul postmoderno non è
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possibile, massimamente necessario sarà riconoscere nel discorso dei mortali contemporanei una frequenza rammemorante mai ascoltata precedentemente. Questo sì che lo possiamo fare: testimoniare una condizione della contemporaneità la quale presenta dei tratti che, pur non combaciando con quelli moderni, convivono e si intrecciano con essi, dando un senso differente all’abitare la terra. Il tratto fondamentale, estraneo alla modernità, lo abbiamo riconosciuto in principio: esiste una tradizione che opera senza bisogno di un centro, di un luogo privilegiato e fortemente orientato; una tradizione che attraversa anche la poesia italiana, dandosi un volto che nasce dall’infondatezza d’essere qui ed ora, in ascolto di una tradizione rivolante in mille direzioni, ognuna egualmente possibile, egualmente abitabile. Ecco allora la poesia carifiana, che coniuga l’annuncio dell’Essere heideggeriano con la distanza irraggiungibile di un Dio forse più ebraico che cattolico; oppure, all’opposto, l’erranza in “quello stato complicatissimo che è l’oscillazione tra nulla ed essere”, come scrive Ermini a proposito dei “poeti di ‘Anterem’” (Dell’inizio, cit. p.10), ma che si
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potrebbe ritenere pertinente, pur con le dovute precisazioni, anche con l’esperienza liminare di Zanzotto. Tale infondatezza e capacità di sopportare lo s-centramento vale, mi sembra, anche per la parola-offrentesi di Cesare Viviani, la quale sin da Piumana (Guanda, 1977) cerca l’accoglienza d’un Padre che possa ricomporre, ma senza eliminarla, la deriva cui inevitabilmente è soggetta; simile condizione patisce, ancora, il disarticolato racconto di Milo De Angelis in Biografia sommaria (Mondadori, 1999), scevro da qualsiasi pretesa di possedere “la parola che squadri da ogni lato” il vissuto, intenzionato invece a testimoniare la vita in ogni suo coccio, così da farne luogo esemplare, irripetibile, nel quale un io franto ma metodicamente testardo sceglie d’abitarvi da straniero. E la feconda debolezza dell’orfismo contiano, tesa a preparare l’avvento d’un tempo pervaso dal sacro? Non è anch’essa figlia di questa tradizione, filtrata dalla gettatezza irripetibile del poeta ligure? Un discorso analogo potremmo proporlo per la narrativa italiana degli ultimi decenni: là dove il labirinto è una condizione normalizzata dell’esistenza e le mappe per seguirlo diventano,
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seppur inadeguate, esse stesse abitabili; là dove l’orizzonte storico, anziché fare da sfondo oppure determinare l’azione, rende quest’ultima mortalmente segnata dalla finitezza, luogo del custodire, che serba, senza sviscerarne il segreto, l’intreccio poliedrico del desiderio; là dove, infine, prevale la frammentazione della struttura sintagmatica, la rarefazione degli snodi esplicativi tra sequenze, il plurilinguismo (non per gioco, né per realismo, bensì quale segno di rispetto verso una possibilità altra di comunicazione), là dove insomma troviamo la traccia d’un sentire difforme dal ‘sistema-romanzo’ della modernità, possiamo dire di muoverci all’interno di una sensibilità postmoderna. Un sentire che accomuna differenti prospettive, che tiene insieme differenti scritture della contemporaneità, ma che sarebbe tuttavia un errore madornale ricondurre ad un’unica linea fra le altre: si darebbe infatti ragione a chi considera il postmoderno una scuola, un atteggiamento, uno stile, anziché la condizione stessa in cui la modernità, piano piano, sta coniugandosi: un’apertura epocale che dunque tiene insieme – regolandoli eppure dipendendone – tutti i modi del dire e del tacere contemporanei. Ciò significa fra
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l’altro il fatto che, vivendo oggi la metamorfosi in atto, nessuno può dirsi, con perfetta onestà, assolutamente moderno o assolutamente postmoderno: ad essere meticciata, prima che la cultura, è infatti l’apertura stessa, che ci impone la ricerca di un fondamento suggerendoci, nel contempo, la necessità di liberarcene, che ci mostra quanto necessaria sia la violenza per sopravvivere e ci addita, insieme, un pensiero capace di farne a meno. Per ciascuno di noi, l’essere moderni (dunque irosi, contraddittori, ipocriti, ma anche intelligenti, abili, responsabili) e l’essere postmoderni (caritatevoli, ingenui, consapevolmente deboli, grintosi ma non violenti, ragionevoli ma non testardi, eticamente orientati eppure liberi dai principi) si danno dunque insieme, si fondono in ogni singola risposta che azzardiamo, contribuendo tuttavia al trapasso complessivo dell’epoca che ci accoglie, al momento ancora notte senza dèi, eppure meno dolorosamente spaesante, già attraversata da una lingua straniera al dominio, alla presunzione d’assolutezza.
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Da Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, Milano 2009, pp.246)
Poesia e finitezza
1. A che cosa serve la poesia
A che cosa serve la poesia? Il cannone spara, la forchetta infilza, il secchio contiene, la penna scrive; e ad essa quale azione compete? Scrive Osip Mandel’štam: «La poesia è un vomere che ara e rivolge il tempo portando alla superficie i suoi strati profondi più fertili».1 «Fertili», qui, significa ricchi di futuro, significa non ancora declinati nell’immobilità del dato. La poesia li porta in superficie, tra le sue maglie più esposte, in quel Osip Mandel’štam, La parola e la cultura, in Id., Sulla poesia, trad. it. Maria Olsoufieva, Bompiani, Miilano 2003, p.48. 1
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ruvido che è il testo, con tutte le sue pieghe visibili e invisibili. Essa, in questo senso, non soltanto ara e rivolta il tempo, bensì è il tempo stesso nella sua feconda imprevedibilità. È il tempo presente che, spazializzandosi nel testo, si mostra estaticamente aperto al passato e al futuro. La poesia è perciò il nostro tempo più vero perché, toccandoci con la sua pelle, ci lascia sospesi nel suo eccomi. A che cosa serve la poesia? Serve dunque a spazializzare il tempo e, così facendo, aiuta a declinare il nostro essere-esposti nell’inesorabilità della presenza, che è già sempre incontro indecidibile con l’altro, con il tu.2 In questo senso, il Numerosi i filosofi novecenteschi che sostengono la tesi ‘esistenza = relazione’. Oltre al già citato Nancy, che ne L’essere abbandonato propone una rilettura del «con-esserci» heideggeriano (e dunque della relazione) che prenda sul serio il «mondo del Sì» descritto in Essere e tempo, considerandolo il luogo imprescindibile dell’esistere, dello stare esposti nel proprio esser-già-sempre-decisi (trad. it. Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 1976, pp.55-90), si pensi a Martin Heidegger, che ne In cammino verso il linguaggio mette in opera la dimensione dialogica, strutturandola in un «colloquio» segnato dall’abbandono (dell’esserci all’essere, dell’essere all’esserci, in una coappartenenza che aduna il mondo e che presuppone il tu); e si vedano le riflessioni di Martin Buber, per il quale la «relazione» io-tu costituisce l’esperienza originaria dell’essere al mondo (Id., Io e Tu, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, trad. it. Anna Maria Pastore, San Paolo, Milano 1993, p.72), al punto che, come egli afferma altrove, «l’individuo è un fatto dell’esistenza nella misura in cui [...] entra in una relazione di vita con altri individui» (M.Buber, Il problema dell’uomo, trad. it. Armido Rizzo, Editrice Elledici, Torino 1983, p.122). Ma si tengano presenti anche gli assunti della psicologia 2
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problema della relazione fra poesia e presente viene superato dall’opera stessa, nella misura in cui quest’ultima ha la forza di portare in superficie le certezze dell’ordinario, facendole vacillare, sospendendone la perentorietà, rivoltandole come zolle cui soffiare nuovo ossigeno; e tuttavia, la condizione perché questo avvenga dipende dal fatto che all’opera è preclusa qualsiasi ‘operatività’ ossia la capacità di essere utilizzata per trasformare l’esistente, come invece capita agli strumenti. La poesia, infatti, non è un cannone, una forchetta, un secchio o una penna proprio perché non è a disposizione di alcuna volontà, nemmeno quella del poeta,3 il quale si misura edificandola, ma, così sistemico-relazionale, la quale ribadisce l’imprescindibilità della comunicazione interpersonale, riconoscendo alla «disconferma», ossia all’essere completamente ignorati all’interno di una possibile relazione, un grave pericolo per l’identità: «mentre il rifiuto equivale al messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti”» (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, trad. it. Massimo Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, p.78). Per quanto riguarda la poesia, celebre è l’assunto di Paul Celan: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando, e vi si dedica» (cfr. Paul Celan, La verità della poesia. “Il meridiano” e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua. Einaudi, Torino 1993, p.16). 3 Qualcosa di analogo intende Nanni Cagnone, quando scrive che «un poeta dovrebbe smarrire la propria consapevolezza e sminuire la propria competenza. Diversamente, il testo non sarà che l’effetto di un progetto. In tal caso [...] tra il progetto e l’esito [...] non sarà successo
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facendo, si dis-loca, la patisce e ad essa si rimette come ci si rimette con ottimismo da una malattia. La poesia insomma, lungi dall’essere un mero strumento utilizzabile, aprendosi, dispone (e indispone) affinché il senso del presente non si chiuda, ma lo fa senza volerlo e senza saperlo. Sotto questo profilo, essa «rivitalizza» il presente, come già notava Leopardi nello Zibaldone (1 febbraio 1829), ma non lo fonda, non lo trattiene, lo rilascia invece nelle pieghe della sua superficie, in tutta la sua complessità. Tutto ciò, fra l'altro, impone alla critica contemporanea di cercare una nuova definizione di poesia civile, che tenga conto della morte delle ideologie e del fatto che, come scrive Jean-Luc Nancy ne La comunità inoperosa, l’essere-in-comune della singolarità è coessenziale al suo essere esposto nel finito della presenza, per cui qualsiasi suo atto chiama in causa la comunità, la fa essere, senza residui, in quell’atto, la tiene inevitabilmente esposta nelle maglie dell’agire e dello scrivere. Civile, in questo senso, non è qualcosa che fa da sfondo alle nulla – non si darà alcuna apparizione». Nanni Cagnone, Andatura, Società di Poesia, Milano 1979, p.63. Ora in Id, L’oro guarda l’argento. Opere scelte, Anterem, Verona 2003, p.10.
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singolarità (e non corrisponde perciò ad un ambito determinato, che esige un preciso modo del poetico), bensì viene a coincidere con la rete comunicativa aperta dalla singolarità nel suo stesso esistere. Se questo è vero, allora anche la poesia lirica è essenzialmente civile, giacché mette in gioco, nei modi del canto, il tremore dell’esserci dis-locato e perciò stesso in ascolto del proprio essere-inluogo, che è uno stare-in-posizione sempre eccedente, mai pacifico o astratto, bensì affettivamente gettato e aperto al futuro. Ciò non va confuso con quanto affermano Lukács e Adorno a proposito del rispecchiamento, nell’arte, delle contraddizioni della società capitalistica; piuttosto occorre pensare alla continua provocazione che è l’esistenza stessa, capace d’esercitare instabilità e spostamento continui all’esserci e alla parola in egli cui si pronuncia, indipendentemente dal suo ruolo sociale e dalla sua quota di potere. Non si tratta dunque – marxianamente – di pensare alla forza critica della poesia lirica, misurando la resistenza che essa esercita rispetto ai valori (o disvalori) del capitalismo, e nemmeno di sparare sulla lirica per uscire finalmente dalla museificazione della polpa individuale, in favore della relazione poesia e
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conoscenza,4 bensì, da parte del critico, di cogliere l’inevitabile attrito di ciascuna singolarità nei confronti del proprio essere-esposta, quel particolare sentire della gettatezza, che invero è sempre racconto comunitario, frutto del dire e del Il riferimento è a Mario Fresa, Tiziano Salari, Le tentazioni di Marsia. Quel che resta da fare ai poeti e ai loro critici (Nuova frontiera, Salerno 2007), dove hanno raccolto in 17 punti-manifesto la loro posizione in merito al canone, alla lirica e alla poesia civile. Il testo contiene anche gli interventi di alcuni critici sulle questioni proposte. Scrivono a pp. 1011: «Qualche volta – per ammantare di vaga utilità o di falsa generosità il proprio piccolo interesse personale – il poeta “coscienzioso” ricorre a quell’utopia retoricissima, falsissima, che vorrebbe far dialogare la Parola e la Storia, attraverso la cosiddetta poesia civile. Si tenta, così, di “liricizzare” la mostruosa, terribile, cieca ruota dell’Eterno ritorno trasformandone la tragica sua ripetizione in burletta, in finzione letteraria, in ipocrita angustia, in commediuccia rimata e ritmata: orrore che dà certo un gran piacere ai “poeti laureati” che cianciano di guerre dalla loro comodissima poltrona». E a p.13: «Quello che resta da fare, ai critici e ai poeti, che si sommano il più delle volte in una stessa figura, è: ridefinire il concetto di canone poetico per sottrarlo alla logica giornalistica delle antologie poetiche sul Novecento e sull'attualità poetica; mostrare come la linea che generalmente si afferma come dominante destituisce la poesia da qualsiasi valenza conoscitiva a favore del morto, irrigidito brano poetico museificato; come il visitatore di un museo davanti ai quadri di una mostra, il lettore di un'antologia è ridotto a passivo contemplatore di un certo numero di brani che, secondo il critico di turno, sono i migliori di quel determinato poeta; compito di una lettura poetica seria è risvegliare quel lettore riconducendolo alle opere da cui sono tratte le singole poesie e bastonare (metaforicamente) chi si è assunto la responsabilità della selezione e di una lettura unilaterale (Plausi e botte intitolava i suoi pezzi critici Giovanni Boine quando la critica era ancora una cosa seria); rivelare, attraverso la poesia (quando è ricerca della bellezza attraverso il dolore e la verità per giungere alla saggezza) lo "stato dell'arte" nel secolo in cui viviamo». 4
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tacere del luogo, che si scandisce, si scuote nella lingua del poeta, mostrandosi nella successione melodico-ritmica e nella costruzione semantica. A fianco di questa nozione ontologica, occorre sottolinearne un’altra, di carattere sociologico: la poesia è sempre civile nel senso che nasce e muore in un contesto socio-politico, del quale dobbiamo chiedere cognizione al poeta stesso. Scrive Franco Fortini nella Verifica dei poteri: ‹‹La partecipazione sociale e politica dell’opera letteraria avviene nei momenti della sua genesi o della sua funzione, dunque prima o dopo la creazione››.5 Prima o dopo, anzi: prima e dopo la creazione, a sottolineare sia l’impasto di inventiva e risposta, di mestiere e condizionamento esterno che agiscono insieme nel laboratorio del poeta, e sia le strumentalizzazioni dell’opera da parte dei poteri e dei contropoteri; di fronte a tutto ciò l’autore deve prendere posizione, diventando anzitutto consapevole del mondo rappresentato nell’opera, dei valori che essa mette in scena e degli interessi reali che muove. Consapevolezza che nasce nell’agone dialogico fra autore e critica, autore e pubblico, autore e industria Franco Fortini, Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Einaudi, Torino 1989, p.30. 5
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culturale, entro un margine d’infondatezza e fertile fraintendimento, che trasforma il poeta in viandante, in colui che incessantemente cerca la propria collocazione storico-linguistica e, dunque, civile. Anche perché la poesia, (e la letteratura in genere), è una presenza reale che fa comunque la sua strada, indipendentemente dal suo autore; una presenza che, mettendo in gioco pratiche differenti (linguaggi, libri, riviste, letture, interpretazioni, convegni, amicizie e inimicizie, concorsi ecc.) muove corpi ed idee, arricchisce l’immaginario, tesse relazioni, rompe legami, aiuta insomma la storicità ad aprirsi ad un senso mai definitivamente concluso, ma mobile, dialogico, av-veniente. Non chiediamoci, dunque, che cosa possa fare la poesia per la società attuale,6 ma piuttosto: che cosa può fare la società attuale per lasciare la poesia La domanda è resa, da alcuni grandi autori novecenteschi, attraverso la funzione dello «scriba», sul modello dello scriba Dei dantesco, nel X canto del Paradiso (v.27): si pensi a Mario Luzi, che da quel «Tu non sei dei nostri» di Presso il Bisenzio (in Magma) giunge, in Auctor, alla decisione di ricambiare «in parola» il suo «debito con il mondo» (in Frasi e incisi di un canto salutare) oppure al Sereni di Un posto di vacanza, incerto se cantare il suo poco eroico soggiorno balneare oppure, pur con qualche anno di ritardo, la guerra di Corea (vv.34-39). Più recentemente, ne fanno parola Biagio Cepollaro, Scribeide (in Poesia italiana della contraddizione, a cura di Franco Cavallo e Mario Lunetta, Newton Compton, Roma 1989) e Guido Garufi, Lo scriba e l'angelo (Archinto, Milano 2003). 6
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liberamente fuori dai recinti e per portare uomini donne e bambini da essa? La risposta ci chiama in causa come soggetti politici, tutti: autori e lettori a rivendicare lo spazio della libertà come luogo in cui la poesia ha senso, proprio perché ci consente di incontrarci senza steccati. Con l’accortezza, naturalmente, di non organizzare riviste come fossero fortezze militarizzate, bensì creando una rete di relazioni autorevoli, in cui lo specifico della poesia crei occasioni per disseminarsi nel territorio e per dialogare con le istituzioni.7 Il poeta, infatti, come qualsiasi altro essere vivente, non può delegare nessuno in sua vece. Attenzione critica nei confronti del reale credo significhi allora assunzione della responsabilità di ex-sistere, di stare allo scoperto nel mondo, rispondendo alla chiamata del dolore e della gioia nell’unico modo che spetta agli uomini: agendo di volta in volta al meglio delle proprie Positivo, in questo senso, il convegno svoltosi a Firenze il 4 e 5 marzo 2005, dove 19 riviste di poesia si sono confrontate sullo specifico letterario, facendo emergere «le plurali visioni critiche e teoriche oggi presenti sul campo”, dando a ciascuno «la consapevolezza di essere parte attiva» nell’organizzazione e nella gestione del fare poetico italiano (cfr. Lelio Scanavini, Riviste a confronto, in “Il Segnale” n.71, giugno 2005, pp.7-8). Gli atti del convegno sono ora pubblicati in Alberto Caramella (a cura di), Poesia: il futuro cerca il futuro. Quali poeti, quali poetiche oggi?, Quaderno della Fondazione il Fiore, Lietocolle, Faloppio 2006. 7
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possibilità (e dunque anche scrivendo), sapendosi non individuo monadico, bensì relazione, comunità aperta al differire-differirsi continuo. Di conseguenza, la domanda «a che cosa serve la poesia», va correttamente declinarla in «chi serve la poesia» rispondendo che essa non serve nessuno e che, appunto per ciò, ci addita un modello di relazione senza padroni e senza schiavi. Non mi sembra poco.
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2. Quale lingua, quale esperienza?
I rilievi sinora avanzati impediscono di pensare alla realtà come ad una sostanza unica e omogenea, che trova nell’eccellenza di una lingua (di uno stile, di una poetica eccetera) la chiave di volta del disvelamento, per considerarla, invece, plurale, stratificata, conflittuale, e dunque riconoscibile negli infiniti modi della pronuncia singolare, anche in quella più banale. Anzi, in questa, l’apertura mostra meglio che altrove la propria superficie, la propria forza omologante. Poesia, allora, non dice semplicemente l’apertura, ma mette a dimora il nocciolo della nostra/non-nostra singolarità. Perché ciò accada, occorre che il poeta cerchi la propria declinazione, la voce che meglio coniughi la sua complessità, in un canto unico eppure attraversato dalle fibre dell’esperienza comune. Ad ogni buon conto, sarebbe sbagliato credere che questa voce si conficchi, meglio delle altre, al centro di un bersaglio già dato, e sia dunque, fra tutte, la più vicina alla profondità del presente. Io credo che non ci sia un presente che primeggi ante litteram, un presente preliminare o unico (a renderlo tale è il
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pensiero dominante e la macchina del consenso), ma semmai che esso si dia, anche, come effetto di una costellazione dialogica e, come detto, della spazializzazione testuale, a patto che la poesia sia «onesta», per dirla con Saba, ossia sgorghi da un progetto abbracciato con passione, verso il quale ci si rimette con il metro dell’intelligenza e dell’impegno. Fare il meglio che si può, con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo, senza mai essere soddisfatti, con umiltà, convinti che il testo così forgiato sia degno di rispetto, ma senza idolatrie: è questa, credo, sotto il profilo dell'impegno, la via "manzoniana" da seguire. E quando dico «con la lingua che ci appartiene e alla quale apparteniamo» intendo sottolineare l’infinità delle strade percorribili, perché, se preferisco la poesia della Bishop a quella di Charles Olson, il cinema di Lynch a quello di Rossellini, la pittura di Warhol a quella di Morandi, ma anche se vivo in un dato modo oppure in un altro, la lingua in fieri (quella che de Saussure chiama «Langue») sboccerà diversamente, si farà «parola» nuova e imprevedibile anche per lo stesso poeta. Sarà un linguaggio, quello nato dall’incontro di differenti radici con la creatività dell’autore, che arricchirà l’esperienza,
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tanto più quanto la poesia (e la scienza e la filosofia e il senso comune) districheranno un significato credibile dalla muta verticalità delle cose. Dovremo tuttavia chiederci di quale forma d’esperienza stiamo parlando, considerato il fatto che quella dominante, oggi, è di tipo intellettivo, d’impianto logico-formale, che scavalca sia il piacere dei sensi («i profumi, i colori e i suoni» delle corrispondances baudelairiane) e sia l’operatività delle mani, per radicarsi nevroticamente nell’uomo ad una dimensione, che ora vive – ancor più di quello marcusiano – un eterno presente sovraccarico di stimoli senza altrove, un presente dai saperi omologanti e costantemente aggiornati, privi di teleologia. Se è questa l’esperienza comune (e castrante) nei Paesi del tardo capitalismo, allora interrogarsi su quale linguaggio sia più salutare alla contemporaneità, significa anzitutto riconoscere che esiste un’abbondanza di codici settoriali, tali da saturare le esperienze legate al sapere calcolante, mentre va sempre più inaridendosi quella lingua degli affetti e del profondo che certa poesia, appunto, coltiva con maniacale ostinazione: dare a queste due esperienze lacunose una lingua e una sintassi – plurali e votate alla metamorfosi, al farsi e
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disfarsi continuo del presente – mi pare sia l’azione spettante al poeta e che costituisce, dunque (e ciò è fondamentale), la sua eticità.
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3. Il dis-appunto della poesia
La poesia dunque risponde alle voci che nel presente risuonano e si disperdono, alle voci che restano, alle voci che nel presente fanno città e campagna, guerra e nascita, canto, silenzio e rumore. Quando nasce una poesia, tutto questo si aduna, si muove in essa, la fa essere in quanto eccedenza. La poesia, infatti, come già detto, non può essere che eccedenza, presente che tracima, portando con sé la pietra e la fionda, ma anche il futuro incerto che è già qui. Così facendo, essa lascia oscillare tutti i tempi nel suo minuscolo spazio, li tiene saldi nella singola cosa che nomina, staccandola dal tempo ordinario, e mostrandola nella sua esemplarità. Questo star fuori della cosa è tuttavia già sempre dentro il discorso imbastito dal testo, che tesse ogni volta l’intero e non sopporta nulla al di fuori di sé. Sotto questo profilo, ciascuna poesia è l’esatto contrario dell’appunto, la cui ragion d’essere sta nell’avere accanto il prima e il poi di padre Kronos. Se infatti l’a-punto è tassello d’un insieme in progress, di un fuoco che chiede altri fuochi per raccontare l’incendio, la poesia è invece tutto
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l’inferno nella capocchia d’un verso, un inferno singolare che vorrebbe testimoniare, a nome di tutti, gli altri inferni. In latino, ci sono due parole per dire «testimone»: tertis e superstes. L’appunto incarna spesso la prima accezione, non essendo questi altro che voce terza e giornalistica in una contesa a due; poesia invece – almeno a partire dal Romanticismo – è ciò che ha attraversato fino in fondo un evento, così a fondo da custodirlo nella carne. Non più descrizione, come nel tertis, bensì passione e croce, visione che tiene sul costato le piaghe del superstite. Poesia infatti è superstes, nella misura in cui vorrebbe essere l’unica vera voce, la più autentica proprio perché l'unica supravvissuta. La poesia dunque non accetta altri testimoni o li sopporta malvolentieri, suo malgrado. E ciò perché essa mette in opera tutta la verità del vivente, l’universale che respira in quella piega esposta che si chiama Esserci, il cui mondo, portato alla luce nell’opera, è tutto il mondo. L’appunto invece ha bisogno di altri punti, di altre voci particolari su cui poggiare, così che il discorso sul presente si strutturi: ciò che conta, qui, è il tessuto connettivo, la serie indefinita di rimandi dal procedere rizomatico, che dà vita alla complessità
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policentrica della superficie, nel cui brulichio luminoso s’intravede l’ombra. Anche la poesia espone l’ombra, ma agisce patendo l’ombra degli altri. Per questa ragione poesia e poeta sono due verità differenti. Se potesse, tuttavia, ogni poeta diverrebbe poesia, perfetta coincidenza di io e mondo nella voce del testimone che parla «per conto di un Altro».8 Nessun appunto può, invece, testimoniare per noi; esso per natura ci chiede la parola, ci spinge a dare voce al nostro esser-presenti. Questo accade ancor più quando l’appunto si assume la responsabilità della civis, diventandone portavoce, e mostrando in tal modo le ferite del superstite, che ha bisogno di stare a fianco di altre voci, per diventare discursus, linea continua e orientata, che metta in forma il progetto collettivo. È quest’ultimo infatti a dare ordine ai tasselli, ad organizzarli nel sistema libro; vero che la medesima questione si presenta nel libro di poesia (e in qualsiasi altra contestualizzazione dell’opera), ma ciò accade per così dire in "secondo grado", mentre l’appunto nasce con l’esplicita consapevolezza di arricchirsi entro un
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P. Celan, La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, ed. cit., p.14.
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mosaico condiviso da altri, tutti testimoni autorevoli e perciò stesso degni d’attenzione.
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4. A che cosa pensa la poesia
A questo punto, mi pare necessario approfondire il rapporto tra poesia e conoscenza, confrontandolo con gli assunti dell'epistemologia post-positivistica, in particolare quelli espressi da Karl R. Popper, proprio perché egli tiene aperta la relazione fra verità e linguaggio, ma in un'accezione assai differente da come la istituisce il poeta moderno. Acquisita l'evenienza popperiana che l’oggettività sia espressione della democrazia (della «società aperta», che difende la libertà di scelta individuale dalle chiusure totalitarie),9 bisogna ora Scrive K.R. Popper, a proposito dell'oggettività della scienza, che essa «non è una faccenda individuale» bensì riguarda l'«amichevole-ostile divisione del lavoro» degli scienziati, «e quindi dipende, in parte, da tutta una serie di condizioni sociali e politiche, che rendono possibile questa critica».Id., La logica delle scienze sociali, In AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia. Dieci interventi nella discussione, trad. it. Anna Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1972, p.114. Si confronti inoltre K.R. Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, trad. it. Arcangelo Rossi, Armando ed., Roma 1975, p.186: «L'oggettività, anche della matematica intuizionista, si basa, così come l'oggettività di ogni altra scienza, sulla criticabilità delle sue argomentazioni. Ma ciò significa che il linguaggio diventa indispensabile come medium dell'argomentazione, della discussione critica». Invero, la scienza contemporanea ha abbandonato lo stesso paradigma di "oggettività conoscitiva". Si pensi alle acquisizioni sulla complessità, in particolare le riflessioni di 9
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chiarire quale logica la giustifichi, così da confrontarla con la ratio della parola poetica. L’unica valida – scrive il filosofo austriaco, capovolgendo la procedura induttiva che fonda il criterio di verificabilità – è la «logica deduttiva», nella quale «se le premesse di una deduzione valida sono vere, deve essere vera anche la conclusione».10 La confutazione mira a mostrare la contraddittorietà delle conseguenze. E cioè: se le conseguenze sono false (inaccettabili dal punto di vista logico) vuol dire che false sono anche le premesse. In questo senso, l’esperienza (il vedere, il toccare ecc.) non è il punto di partenza della conoscenza scientifica, bensì il punto d’arrivo. L’avvio è sempre proposizionale, attraverso un procedere per enunciati elementari, W.Heisenberg, J. Monod, I. Prigogine, E. Morin, e F. Capra relative al rapporto ordine/disordine, caso/necessità, scienza/arte/filosofia. Ancora più radicale è il pensiero di Paul K. Feyerabend, che riconosce la possibilità della scoperta scientifica proprio nella trasgressione dai metodi codificati, con ciò negando «l'idea di un metodo fisso o di una teoria fissa della razionalità», compresa quella popperiana. Scrive infatti il filosofo che la conoscenza «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità. È piuttosto un oceano sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili (e forse anche incommensurabili)». Id., Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, trad. it. Libero Sosio, Feltrinelli, Milano 1979, pp.21 – 29. 10 K.R. Popper, La logica delle scienze sociali, in AA.VV., Dialettica e positivismo in sociologia, ed. cit., p.116.
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aventi la forma di «asserzioni singolari non autocontraddittorie» (es: in via x abita y; il treno è partito alle 10,40; ecc.).11 Il principio di falsificazione popperiano, tuttavia, non si limita ad affermare che «una teoria è falsificata soltanto se abbiamo accettato asserzionibase che la contraddicano»,12 bensì ribadisce la necessità di scoprire «un effetto riproducibile che confuti la teoria». Insomma: se esiste un evento falsificante rispetto ad una teoria e se abbiamo individuato asserzioni-base che contraddicono l'ipotesi di partenza, allora la teoria è scientifica, e questa costituirà un passo ulteriore delle conoscenze umane verso una verità oggettiva mai raggiungibile completamente (per questo egli preferisce parlare di «verisimiglianza»).13 Quanto K.R.Popper, Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, trad. it. Mario Trinchero, Einaudi, Torino 1995, p.74. 12 Ibidem, pp.76 – 77. 13 K.R.Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, ed. cit., pp.84 – 85: «Lo scopo della scienza è la verità nel senso di migliore approssimazione alla verità, di maggior verisimiglianza. [...] La ricerca della verisimiglianza è uno scopo più chiaro e più realistico della ricerca della verità», per questa ragione «possiamo spiegare il metodo della scienza ... come il procedimento razionale per avvicinarsi maggiormente alla verità»; e a p.66: «Le nostre teorie congetturali tendono progressivamente ad avvicinarsi alla verità; cioè a descrizioni vere di certi fatti o aspetti della realtà»; e ancora, con piglio quasi romantico: «Noi siamo cercatori di verità, ma non siamo suoi possessori» (p.73). 11
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invece non rientra in questa procedura non è scientifico, bensì appartiene alle verità dogmatiche o metafisiche: verità certamente sensate (cioè che noi possiamo comprendere perché logicamente ineccepibili), ma che non possiamo confutare e, dunque, definire scientifiche. È per questa ragione che Popper nega lo statuto di scienza sia al marxismo e sia alla psicoanalisi, essendo appunto apparati proposizionali che hanno un'impostazione di tipo teologico o, quantomeno, «teistico», e ciò impedisce di individuare un evento o un'asserzionebase – un «falsificatore potenziale» – capace di confutarle.14 La questione, per la poesia, è sostanzialmente differente: essa infatti – almeno per come la intende una certa tradizione giunta a compimento nel Novecento e che qui si vuole sostenere – non risolve né pone problemi, non decostruisce Si tratta del celebre «criterio di demarcazione», il quale non è «netto», ma ha «esso stesso dei gradi. Vi saranno – continua Popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (trad. it. Giuliano Pancaldi, Il Mulino, Bologna 1972, p.437) – teorie ben controllabili, altre difficilmente controllabili, ed altre non controllabili affatto. Quelle non controllabili non rivestono alcun interesse per gli scienziati empirici. Possono essere ritenute metafisiche». Si veda inoltre K.R.Popper, Il mito della cornice. Difesa della razionalità a della scienza, trad. it. Paola Palminiello, Il Mulino, Bologna 1995, pp.115 – 122. 14
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fenomeni e nemmeno li ricompone logicamente. La poesia dunque non ragiona (cioè non lega elementi noti per produrre l’ignoto, che pure era presupposto nella formulazione del problema), ma pensa direttamente l’infondato, che è l’uomo stesso nel suo essere qui, davanti al foglio bianco, in una tonalità affettiva imprescindibile, ma anche imprendibile nella sua radice e che il linguaggio trattiene nella rete multipla delle sue regole. Ciò che il poeta conosce è la vertigine di quel trattenere senza proprietà, che è pensiero ossia dialogo sguarnito di protezioni con la parola che avanza, che chiama alla responsabilità dello stile. E dunque scrivere poesie non significa additare qualcosa che si ritiene vero, conoscendolo attraverso il doppio cappio della nominazione e del metodo, bensì si concretizza nel lasciar-essere ciò che siamo nella sorpresa che questa esposizione comporta, uno stare dis-locati eppure adesso e qui (qui nella mia città, con l’acqua che manca, oppure che abbonda, con mia moglie o senza mia moglie, con un libro in mano oppure nel bosco, con la paura del nucleare o con l’entusiasmo per la sua possibilità complessiva). La poesia pensa nel senso che mette al mondo questo incontrarsi multiplo di possibilità, mosso e patito dal
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poeta, sorta di «apparecchio sensibilissimo» che, come scrisse Antonio Porta, percepisce «il movimento nel suo stato nascente».15 In quanto auctor, tuttavia, egli conosce una tecnica per conservare tale complessità; ed è a questo livello che la conoscenza strumentale incontra il pensiero poetante, giacché lo stile altro non è che la formalizzazione rigorosa di una sostanza mobilissima, di una nuvola linguistico-retorica il cui impasto tiene corpo e mondo, affettività e ragione, passività e desiderio, ma anche il tramandarsi delle tradizioni entro il cui orizzonte (plurale) noi operiamo. In questo senso, non si tratta di superare i padri o di rinnegarli, giacché loro non ci privano di nulla: io, infatti, sono qui, adesso. Non mi manca antropologicamente nulla, se non il senso definitivo per cui sono qui, adesso. E allora scrivo e magari leggo i padri, per sentire il loro tremore, la loro stessa fiducia o sfiducia nella parola. Così facendo scelgo una tradizione e poi necessariamente (con fatica, ci ricorda Harold Bloom ne L'angoscia dell'influenza) cerco di liberarmene, per sopravvivere in quanto autore. Sotto questo aspetto, la Antonio Porta, Il progetto infinito, a cura di Giovanni Raboni, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma 1991, p.14. 15
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conoscenza, in poesia, viene a coincidere con la ricerca della propria voce e della sua radice, a partire dalla consapevolezza che questa cresce nel ceppo di una tradizione mai definitiva, e sguscia sulla pagina attraverso il corpo e la tecnica, le cose fatte e da fare, gli amici e i nemici vivi e morti. Dunque, e in conclusione, quando scrivo un testo mi devo chiedere: in che senso la mia scelta è vincente, rispetto a quella dei padri? Quale instabilità dell’ovvio mette in gioco? Che forza ha nel presente e come lo apre, come gli consente insomma di essere ciò che è? Credo che poesia sia conoscenza nella misura in cui rilancia queste domande, le gioca nel singolo testo, si gioca in quanto possibilità che non incancrenisce, estasi diveniente che si spazializza in differenti dimensioni (grammaticale, retorico-stilistica, semantica, immaginativa, simbolica ed etica), adunandole in un corpo testuale, che «non trova riparo», direbbe la Szymborksa, un corpo che, come scrive Franco Rella, è «limite e oltranza [...] confine e sconfinamemento».16
Franco Rella Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano 2000, p.80. Anche il verso della Szymborksa, tratto dalla terzina «Ora certa, ora incerta della propria esistenza, / mentre il corpo c'è, e c'è, e c'è / e non trova riparo»), è citato da Rella nel medesimo libro (p.203). 16
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5. «Perché scrivi?»
Respiro, il che significa direzione e destino.17 Quando mi si chiede perché scrivo, io rispondo, con Celan: perché respiro. Dico: respiro, e scrivo. Scrivo del verso che si contrae e si dilata, del verso-mantice che dà fiato al mio 20 gennaio. Così facendo, il verso traduce in canto «lo scandalo insostenibile della storia»,18 lo muta in direzione e destino. E tuttavia nel canto, nel mio canto, direzione è destino. Per me scrivere è andare incontro, andare verso, tornare. Verso, ossia volgere, girarsi, così che andare lungo la direzione sia, anche, tornare nei pressi di dov'ero già stato. E, da qui, parlare. Fato ha la medesima etimologia; phatos: detto, sentenza, oracolo. E sorte: annodare, legare insieme. Dico: respiro, e annodo la Quest'ultimo paragrafo vuole esemplificare quanto sostenuto teoricamente in quelli precedenti. Spero non sia letto come atto di vanità o presunzione. Ciascun incipit in corsivo è una citazione tratta da Il meridiano di Paul Celan. La data riferisce alla «soluzione finale della questione ebraica» decisa nella conferenza di Wannsee, a Berlino, il 20 gennaio 1942. 18 Giuseppe Bevilacqua, Introduzione a P. Celan, Il meridiano ecc., ed cit. p.XIV: «La cosa nuova delle poesie che oggi si scrivono [...] è che in esse si tenta [...] di rimanere ben consapevoli delle "proprie date" ossia del proprio 20 gennaio, del modo in cui a ognuno di noi si è rivelato lo scandalo insostenibile della storia». 17
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lingua al presente, indicando una direzione, facendo il verso alla direzione. Guardo indietro, come l'angelo di Paul Klee. Riconosco nelle macerie il mio destino. Inorridisco, in loro vedo intero il mio 20 gennaio, la mia «soluzione finale». Eppure destino è bifronte. Il futuro è già qui, aperto. Direzione è destino nell'aperto della lingua. Qui, dove tutto volge alla fine. L'aperto è tutto ciò che volge alla fine. Volge, in verità, custodisce il segreto di direzione e destino, del loro essere siamesi, come ringraziare e pensare, danken e denken. La lingua si volge indietro, si fa verso e, così facendo, versa la fine nel corpo del testo, la tiene nell'aperto. Tiene nell'aperto quel tutto che volge alla fine. Null'altro. Perché scrivo? Per tenere vivo altro, ciò che, non essendo qui, volge all'inizio. Ed è minuscolo, come il corpo del testo, come il respiro del corpo quando scrive. Null'altro soffia in tutto ciò che volge alla fine, lo lascia essere. Null'altro non è meridiano, non consiste, dalla mia soglia, in «tutto ciò che unisce»,19 bensì è ciò che lascia nella disseminazione, null'altro che questo dissiparsi delle P. Celan, Il meridiano ecc., p.21: «Trovo quello che unisce, quello che può avviare il poema all'incontro [...] trovo [...] un Meridiano». 19
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esistenze nell'aperto del mondo. La poesia che scrivo dissipa l'aperto nello spazio del testo, lasciandogli tuttavia il tempo dell'incontro. Giusto il tempo di un respiro. La pausa del respiro – questo sperare e pensare –. Tra l'inspirazione e l'espirazione, l'istante diventa attimo, un passaggio dove quel tutto che volge alla fine mostra il null'altro da cui viene. Null'altro spera, null'altro pensa, mentre tutto volge alla fine. La poesia asseconda questo destino caduco, nella pienezza della luce del pensiero e della grazia. Essa lascia al respiro il canto del proprio 20 gennaio, dandogli in dono speranza e pensiero. Dico: respiro, e già ringrazio il creato di stare tutto nella sua fine. Scrivo per raccontare questo dono, che mi fa essere qui, null'altro che qui, a cantare le macerie della storia e i passi che verranno, nell'aperto del pensiero della speranza. Scrivo questo dono, che è racconto degli olocausti ed è parola del signore. Minuscolo perché, al mio signore, l'increato non appartiene. Signore è questa creatura, sono io-tu, in equilibro su null'altro.
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Arte crea lontananza dall'io. Arte opera per la lontananza dell'io. Che fa olocausti, come ci racconta Zygmunt Bauman.20 Io erge steccati, impone scadenze, erige città. Io redige liste di proscrizione, compila elenchi per gli obitori. L'arte invece crea salvezza, allontanando l'io; ecco la lista di Schindler, il quale dice, disperato: potevo salvare altri ebrei vendendo la mia auto, perché non l'ho fatto? Schindler, perdendo se stesso, trova l'umanità. Allo stesso modo, poesia, la mia poesia, non è tutta mia. Non la controllo pienamente, non ne dispongo come fosse uno strumento. Piuttosto, la verso sul foglio e le vado incontro, ne cerco l'orma per acquietarmi in essa ed ascoltare la pausa del respiro: speranza e pensiero. Io sceglie l'ascolto, Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, trad. it. Massimo Baldini, il Mulino, Bologna 1992. Bauman parla di razionalità e burocrazia, di pianificazione, tutti processi legati all'affermazione dell'identità moderna, e, come ci ricorda Max Horkheimer, della ragione strumentale quale leva per l'autoconservazione del soggetto. Scrive infatti il filosofo francofortese in Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale: «Alla ragione soggettiva interessa soprattutto il rapporto fra mezzi e fini, l'idoneità dei procedimenti adottati per raggiungere scopi». Essa «è la facoltà di classificare, la facoltà di induzione e di deduzione, cioè il funzionamento astratto del meccanismo di pensiero, sempre identico quale che sia il contenuto specifico» (trad. it. Elena Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino 1978, p.11). Che l'olocausto sia inscritto nell'organizzazione sociale moderna, e dunque nell'affermazione dell'identico a scapito del differente, lo dice anche Hannah Arendt sia ne Le origini del totalitarismo e sia ne La banalità del male. 20
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vuole ciò che deve, in nome di altro: «Parlare per conto di un Altro – chissà, magari di tutt'Altro», scrive Celan. Vivere poeticamente è assunzione di questa responsabilità: io nella quiete canta la morte di Dio, canta speranza e pensiero, e si libera per la propria fine, scegliendo altro. Scrivo per preparami a scegliere, in piena libertà di pensiero, ciò che apre direzione e destino. Se nella mia poesia direzione è destino, la prassi vuole invece solco e memoria, passo e meta. Entrambi separatamente perché poeta è uomo che cammina fra gli uomini. Non dice io, ma noi. E ama la festa. Eppure poeta, in generale, è modello astratto, prigione. Poeta, in verità, si dissemina in questo e quello. E festa talvolta sta chiusa nella teca per troppa luce oppure rinuncia al canto perché il poeta, questo poeta, abita da sempre la mezzanotte dell'olocausto. Non c'è luna lì e il mondo dimentica. In questo autunno, Celan scelse l'aprile della Senna. Il suo viaggio crudele non andrà a capo: giù, nell'ebbrezza del gorgo, per oltrepassare la notte. Arte crea lontananza dall'io. Vita offesa, annienta.
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Lettere a Tiziano (dialogando con Tiziano Salari)
1. La scrittura della finitezza
Carissimo Tiziano, ho finalmente trovato il tempo per scrivere qualcosa intorno al tuo bel saggio,1 che coniuga sia il lutto e sia l’attesa nell’abitare gioioso del mondo, in quella quadratura di cielo, terra, divini e mortali che, nel mondo (Geviert) heideggeriano, si custodisce e felicemente s’irradia attraverso il linguaggio. Mi è piaciuta, in particolare, la tua declinazione terrestre della poesia di Hölderlin, in grazia di Bruno, Vanini e Spinoza, che certo prelude alla domanda se sia ancora necessario attendere il ritorno degli dei fuggiti, Tiziano Salari, poeta, filosofo e critico letterario, è nato a Verbania nel 1938 [scomparso nel 2014]. Il riferimento è al saggio Poesia, gioia e lutto dell’abitare?, in “Anterem”, n.67, II semestre 2003, pp.41-45. 1
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oppure se basti a se stesso e a noi il luogo in cui stiamo, privato appunto di quella sacralità cui Hölderlin, amico di Herder,2 gli attribuisce. Come sai, del «luogo» in questa accezione parla Alfonso Cariolato in un densissimo saggio, additandolo quale coessenziale all’essere presente dell’ente: «Il luogo, per così dire, trascina la cosa di cui è luogo fuori di sé e là la mantiene, nell’aldilà di sé che è la presenza stessa». Nessuna metafisica, dunque, bensì l’eccedersi della presenza nel suo essere esposta dal e nel luogo: «Il luogo del finito – continua il filosofo – [...] è anche il luogo di una dislocazione originaria, di un’eccedenza, di un oltre, di una trascendenza lontanissima da quella della vulgata platonica (non vi è qui alcun Altro) e che costituisce il carattere proprio del venire alla presenza, del presentarsi in quanto tale».3 Io credo, appunto, che la scrittura della finitezza comporti Scrive Luca Crescenzi, nella nota alla lirica Vanini, tre quartine di Hölderlin dedicate al filosofo morto sul rogo nel 1619: «Il richiamo a Vanini è un’implicita dichiarazione di fede panteista nello spirito dello spinozismo e in particolare di Herder, che nel suo scritto Dio. Alcuni dialoghi del 1787 aveva citato l’ode Deo dall’Amphitheatrum vaniniano»; in Friedrich Hölderlin, Poesie, a cura di L. Crescenzi, Rizzoli, Milano 2001, p.118n. 3 Alfonso Cariolato, Il luogo del finito. Ventitre studi, prefazione di JeanLuc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2003, p.19. 2
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l’abbandono di qualsiasi modello, di qualsiasi Altro predeterminato, se davvero lo spazio nomadico, di cui parla Deleuze in Differenza e ripetizione, non è nulla fino a quando non viene fatto esistere dalle presenze in transito. E sono queste ultime, nella loro singolarità già sempre aperta all’altro, ad eccedere il senso determinato da ogni precedente topografia, spazializzandosi indefinitivamente. A questo punto, c’è da chiedersi: che cos’è (che cosa scrive) una poesia capace di lasciarsi andare a questo abbandono, senza piantare radici in esso? Una poesia insomma che ripartisca il proprio spazio poetico senza verticalizzare, bensì lasciandosi essere nella superficie del mondo in quanto presenza, in quanto voce e corpo assoluti, assoluti proprio perché senza legami di causalità con l’origine? Origine in senso metafisico, naturalmente, giacché, essendo la finitezza già sempre gettata, come ben ci spiegò Heidegger in Essere e Tempo, sarà la tonalità affettiva dell’autore a diventare l’Eigen, il proprio singolare, a marcare insomma la sua parola in un senso o in un altro, prima di ogni controllo razionale e di ogni progetto preliminare: l’autenticità (Eigentlichkeit) di un verso sta, infatti, anche in
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questo scarto immisurabile tra progetto e opera, tra concetto e corpo finito del testo. In effetti, esiste un legame viscerale fra autore ed opera, nel senso che quest’ultima conserva, deformandola, la carne stessa dell’autore: nei ritmi, nei sintagmi, nei suoni, nelle cose che la poesia nomina o tace, pulsa uno sfondo, un’ombra reale, palpabile, che dice il proprio dell’autore nonostante l’autore.4 In questo senso, l’opera è l’esercizio stesso dell’esistenza quando si scopre finita, esercizio che trattiene, non soltanto l’indicibile e l’inconfessabile dell’autore, ma anche quanto egli stesso non può conoscere, mostrandoli tutti in un mascheramento (effetto della «resistenza», della «rimozione» e delle «proiezioni» per usare una terminologia psicoanalitica) che non può essere evitato e che dà Sull'intera questione poesia e caducità, mi piace ricordare la posizione di un poeta di cui non parlerò in questo libro, ma che è di assoluto valore: Mi riferisco a Andrea Ponso, la cui poesia, come ho scritto altrove, «svolge funzione di levatrice (porta alla luce, rilkianamente, "il bicchiere", "il tavolo", "la mano", "l'ossido dei recinti") ma anche di attrice, di colei che mette in scena un dettato che le viene suggerito da un 'nascosto' la cui natura pulsionale, volitiva, archetipica (come la chiama Francesco Marotta) tiene massimamente mobile il dettato stesso, quel visibile, sempre colto allo stato nascente (e incandescente), che lega il lettore al suo gorgo». Cfr. Stefano Guglielmin, Lo scarto debordante della poesia di A.P., in AA.VV., Leggere variazioni di rotta. 20 poeti dal blog LiberInVersi, Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2008, pp.127128. 4
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luogo a un proficuo fraintendimento, sul quale si giocano la complessità e la pluralità dell’interpretazione. A tale questione, se ne collega immediatamente un’altra; riguarda la funzione sociale della poesia, di cui oggi si ricomincia a parlare. Io credo che essa, in fondo, non ne abbia; ma ne copra una più radicale, che oserei definire antropologica (e che Pasolini aveva intuito): la poesia non serve né a denunciare l’ingiustizia né ad alimentare il mistero del poeta o, viceversa, la sua perdita d’aureola, bensì a mettere in opera le forze esplicite che hanno mosso e muovono l’uomo sin dapprincipio: la paura dell’altrove ma anche, nel contempo, il tentativo di esorcizzarla; il desiderio del centro, quale luogo del sacro per eccellenza e la consapevolezza che ciò costi sovrumane miserie; il bisogno di rifondare il tempo profano, ritualizzandolo, e il sospetto che nulla possa sottrarci alla deriva della caducità. Questioni insomma che mettono in luce la coappartenenza di luogo e scrittura, segnata dai sentimenti di esilio e di morte. Se hai pazienza, vorrei aggiungere altre due parole sull’esilio, che Nancy fa coincidere, per un
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certo aspetto, con la morte.5 Da parte mia sono convinto che, in genere e per lo più, il sentimento d’esilio cominci nell’adolescenza, quando, completato il distacco dall’origine tramite l’esperienza dell’infanzia, l’uomo avverte il peso della propria gettatezza, quel suo essere qui e ora carico di responsabilità, ma non scelto fino in fondo, bensì, appunto, sentito come una lontananza dall’età dell’oro, sia essa l’infanzia oppure un’età a venire. Mi vengono in mente due esempi, tratti dal canone consolidato, in cui il legame esilio e infanzia è evidente: quelli di Giovanni Pascoli e di Cesare Pavese. Pensiamo anzitutto alla vicenda del fanciullino pascoliano, il cui «stupor leggero», lungi dal fondarsi in una generica ingenuità primitivistica (che pur compare nel testo omonimo), ha radice nella scoperta angosciosa della finitezza, così come la descrive Cebete tebano nel Fedone platonico: «forse c’è dentro anche in noi un fanciullino che ha timore «L’immemorabile è per eccellenza ciò che precede la nascita: l’assente di ogni ricordo verso cui risale senza fine una memoria infinita, ipermemoria o piuttosto immemoria. Al di qua o al di là del memoriale, ossia al di là o al di qua del sé e del soggettivabile: l’oltre mondo (la morte, in questo senso), non fuori dal mondo ma presente proprio qui», Jean-Luc Nancy, Visitazione (della pittura cristiana), a cura di Alfonso Cariolato e Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2002, p12. 5
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di siffatte cose: costui dunque proviamoci a persuadere a non avere paura della morte come di visacci d’orco». A differenza del timoroso Cebete, Pascoli, a cui dobbiamo la traduzione sopra citata, non intende tuttavia ammaestrare il fanciullino, legarne l’intuizione con i lacci del corretto argomentare – cosa per altro impossibile, come ammette lo stesso Socrate: «Bisognerebbe fargli ogni giorno gli incantesimi… per liberarlo da questi timori»6 – bensì sceglie di lasciarlo parlare nella pienezza delle sue facoltà, preda dunque delle «lagrime» improvvise, ma libero anche di gioire di fronte all’aprirsi delle cose che salvano. In questo modo, egli colloca poeta ed infanzia in una prossimità originaria che allevia e consola anzitutto dalla minaccia della morte, quale altrove imminente capace di scollare tale intimità in nome del destino finito di ogni cosa. Ciò accade non soltanto per questioni di contingenza biografica (l’assassinio del padre e gli altri precoci lutti familiari, il carcere, l’ingiustizia del diritto, l’incomprensione di cui Pascoli sentiva circondati i suoi scritti, sia poetici che critici), bensì per la forza che la finitezza (e in Platone, Fedone, trad. it, Nino Marziano, Vallardi ed., Milano 1997, p.109. 6
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Pascoli la si intenda anche quale beato confine) viene a giocare nell’intero suo sistema: ecco allora il nido, la campagna, le parole talvolta umili, talaltra preziose, tutti recinti in cui l’esilio si fa più sopportabile e meno doloroso, ma ecco anche quel sentimento d’impotenza che pervade la ricerca del vero, preda di un senso della totalità imperscrutabile ai mortali, appunto perché troppo vasto, di là d’ogni possibile comprensione. Finito sarà allora il benevolo recinto domestico, ma tristemente limitato risulterà altresì l’agire ed il comprendere umano, comunque sempre proteso ad interrogare il mistero, in una dialettica che Pasolini, vagliando i risultati della questione sotto il profilo psicologicostilistico, così definisce: «nel Pascoli coesistono, con apparente contraddizione di termini, una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile, monotono e spesso stucchevole, e uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente».7 Nella prospettiva da me annunciata, immobilità e movimento perdono tuttavia ogni tentazione
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Pier Paolo Pasolini, Passione e ideologia, ed. cit., pp.269-270.
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contraddittoria, rivelandosi invece aspetti del medesimo sentimento di finitezza che pervade il poeta e che troviamo ossessivamente ribadito specialmente in Myricae, secondo una serialità modale che già tu avevi riconosciuto: esiste in Pascoli, scrivi ne Il grande nulla, il «ciclo che potremmo definire dei morti-viventi» con «Margherita,/ la pia fanciulla che sotterra, al verno,/ si risvegliò al sogno della vita»; il «ciclo del padre assassinato», e infine «quello dei bambini morti», il cui compendio è già presente nel canto d’apertura del libro, in quel Giorno dei morti la cui chiusa recita: «I figli morti saranno avvinti al padre/ Invendicato. Siede in una tomba/ (io vedo, io vedo), in mezzo a loro, mia madre».8 Temi, questi, che ritroveremo intatti dodici anni dopo, nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, laddove Pascoli afferma che «la vita, senza il pensier della morte, senza, cioè [...] quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio»; ed aggiunge, a buon auspicio, rivendicando alla poesia il diritto d’essere anzitutto l’espressione più profonda della finitezza umana: «crescano e
T. Salari, Il grande nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia stampatori, Torino 1998, pp.43-44. 8
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fioriscano intorno all’antica tomba della mia giovane madre queste myricae [...] autunnali».9 Mentre in Pascoli l’infanzia è una condizione primeva dello spirito, sopravvissuta al rumore della civilizzazione e, in quanto tale, esperibile ancora oggi grazie ad uno «studio» che immetta nel «giardino dell’innocenza»,10 quella di Cesare Pavese vive di là della soglia, fuori del tempo e dello spazio, in un luogo in cui la memoria non ha accesso: mitizzandosi, essa si sottrae a qualsiasi à rebours, giacché costituisce ‘la purezza iniziale’, quella condizione originaria cui ci si può mettere in contatto soltanto operando uno scarto decisivo nella temporalità cronologica, un salto faticoso che trova nell’istintività la sua via: il ricordo ordinario, scrive infatti Pavese, è già l’effetto di un incontro con il mondo, la conseguenza pratica di un’esperienza della quale conserviamo un’immagine sensibile; per questa ragione, aggiunge, tornare all’infanzia, quale costellazione di «simboli che ciascuno di noi porta con sé» prima di ogni riconoscibile accadimento, non significherà «tanto risalire il fiume della memoria, quanto rimettersi con 9
Giovanni Pascoli, Poesie, Mondatori, Milano 1997, vol.II, p.167. G. Pascoli, Il fanciullino, in Prose, Mondatori, Milano 1946, p.40.
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abnegazione nello stato istintivo, o in ciò che ne resta».11 Una disciplina che in Pavese, come dimostrano moltissime pagine del Mestiere di vivere, sfiorò l’ascetismo, configurandosi quale titanico sforzo di ricerca interiore teso alla conquista della sorgente, di quella fonte – monocorde ed ossessiva per tutti, com’egli ribadì in Raccontare è monotono (manoscritto datato 6-12 agosto 1949) – che, in quanto mitica, si costituisce quale «interiore immagine estatica embrionale, gravida di sviluppi possibili, che è all'origine di qualunque creazione poetica».12 Impossibilitata sin da subito ad avverare tale compito, la scrittura pavesiana metterà in opera invece esilio ed infanzia, come tu stesso ribadisci in Sotto il vulcano,13 quali emblemi duplicantesi nell’antitesi ombra-luce, città-campagna, ragioneistinto, maschile-femminile, inferno-paradiso, tutti Cesare Pavese, L’adolescenza, in Saggi letterari, ed. cit., p.277 e pp.285286. Già in Feria d’agosto, Einaudi, Torino 1946, pp.226-231. 12 C. Pavese, Il mito, in ID., Saggi letterari, ed. cit., p.315. «Ciascuno ha il suo gorgo» scrive in Raccontare è monotono, ibidem, p.308. 13 T. Salari, Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro, Rubbettino editore, Soveria Mannelli 2005, pp.251 – 268. In questo saggio, oltre che ribadire la valenza mitica, whitmaniana, del progetto pavesiano, Salari riconduce il concetto di "origine" alla sua valenza atemporale attraverso il mito platonico di Er e Il codice dell'anima di James Hillman (cfr. pp.258 – 261). 11
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vissuti quali concrezioni nominabili e massimamente vicine alla morte, concepita nella sua valenza simmetrica con il mito, in quanto motrici entrambi della scrittura: «che cos’è che può inquietarci, esasperarci, impegnarci fino in fondo per farsi violare, rischiarare, conoscere, se non l’inviolato, il presentito, l’ignoto?».14 Tirando qualche somma da questo mio argomentare vagantivo, se ne ricava, mi sembra, che pensare la finitezza significhi non soltanto sapere che l’esilio è la condizione ordinaria del vivere, ma anche togliere l’inganno che l’origine sia qualcosa di praticabile; il ché comporta vivere l’erranza senza nostalgia per il ritorno. Se c’è origine, infatti, essa è già da sempre perduta (Nancy) e, comunque, anch’essa – se davvero, come scrive Martin Buber, la relazione originaria è io-tu – non è identità, bensì porta con sé il proprio essere-differenza, l’inconciliabilità e l’incomprensibilità dell’accadere rispetto alla coscienza che vorrebbe fissarlo univocamente. In altre parole, io credo che noi siamo già sempre nella verità della presenza, in un qui la cui temporalità custodisce il disagio della
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Ibidem, p.319.
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smemoratezza dell’Inizio e l’ottimismo del muoversi-verso il luogo in cui già siamo. Un ritornare che non ha le caratteristiche dell’uscire dall’inautentico, come molta scrittura contemporanea lascia intendere, bensì la forza dell’approfondire il proprio luogo, quell’io singolare/plurale che è già sempre comunità.15 In questo senso, è verissimo che, come scrive Flavio Ermini, «rispondere all’appello dell’origine significa sospendere il tessuto della continuità storica»,16 ma non possiamo dimenticare che la gettatezza di cui sopra ci impedisce di sradicarci da quella continuità: si tratta di una lotta i cui esiti rendono concreti non soltanto i differenti stili, ma le stesse ragioni ideologiche. Chiaro che se l’io abbandona la presunzione d’essere giudice del divenire, il bene e il male perdono di assolutezza, diventando quel bene, quel male, sui quali prendere posizione; e così capita anche alla salvezza: ci si salva nel senso che si esce da un luogo per entrare in un altro: la salvezza è quel passare, quell’esser-capaci-di-scelta, pur
Sulla questione, cfr. nota 2 del saggio precedente. Flavio Ermini, Il bozzolo del grande fiore, in AA.VV., La bi-logica, fra mito e letteratura, a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso, Franco Angeli Editore, Milano 2004, p.132. 15 16
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sapendo che dal labirinto non si esce.17 Insomma: non ci si salva per sempre (che è una categoria che non appartiene ai mortali), bensÏ temporaneamente, in quel tempo opportuno (kairos) dove scegliamo la relazione, l’incontro, la parola, anzichÊ la guerra, la contrapposizione e il silenzio risentito.
Secondo la celebre definizione di Italo Calvino nel saggio La sfida al labirinto, in ID., Una pietra sopra, ed. cit., p.116. 17
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2. Bellezza e verità dopo Baudelaire
Caro Tiziano, mi chiedi un’opinione su Il grido del vetraio;18 credo che, per meglio riconoscerne la natura, convenga anzitutto indagare la specificità del dialogo che esso inscena, giacché si scosta sia dalla dialettica platonica, in cui il discorso ipotetico si gioca nella relazione fra universale e sua declinazione particolare, e sia dallo "stare in posizione", tipico del confronto generazionale. È pur vero che Mario Fresa (classe 1973) assume un ruolo interlocutorio, ma ciò accade soltanto di sguincio, poiché l’intenzione che lo guida non è tanto la soddisfazione di una lacuna personale o l’imposizione di un punto di vista, bensì la conferma e l’approfondimento di un assunto di fondo, condiviso a priori da te. Il dialogo dunque diventa l’occasione per sviscerare una complessità, i cui presupposti si sostanziano nell’evidenza di una correlazione tra forma, bellezza e verità, a partire dalla coincidenza, affatto nietzscheana, dell’essere con il divenire e della sostanza con l’apparenza. Se Mario Fresa, Tiziano Salari, Il grido del vetraio. Dialogo sulla poesia. Nuova frontiera, Salerno 2005. 18
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Fresa, chiamando in causa l’esperienza di Juan de la Cruz e la nozione di sacro avanzata da Walter Otto ne Il volto degli dei, discorre sul misticismo, enfatizzando la perdita dell’io quale condizione dell’incontro con la Verità, tu gli riporti l’attenzione alla specificità dei moderni, che, con i romantici e Baudelaire, hanno dato vita alla figura del poeta ‹‹straniero senza famiglia né patria, che spasima per la bellezza›› ed è alla ‹‹ricerca di un senso all’accadere di qualsiasi evento nel mondo, una volta rescisso il legame con una totalità metafisica››.19 Su questa base – che certo presta il fianco, per esempio, tanto ad una tradizione poetica cattolica (che ha nei valori evangelici il proprio fondamento) quanto al poetare d’impianto marxista (il cui materialismo dialettico sfiora la fede nelle ragioni conflittuali della Storia) – il dialogo sviluppa alcune tematiche di assoluto rilievo, anzitutto quella relativa al rapporto tra scrittura critica e scrittura poetica, accomunate qui dal concetto di ‹‹creatività››, laddove la s’intenda un andare avventuroso e senza ripari, che trasforma i margini del mondo
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Ibidem, p.13 e p.15.
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conosciuto ‹‹in transiti››,20 in crocevia aperti al pensiero mosso dalla ‹‹passione per la Verità››.21 Lo stampatello maiuscolo rischia tuttavia di ingannare il lettore: poesia e critica – secondo quanto premesso – germogliano infatti dallo sfondamento dell’Universale, per darsi, come sorgive, nel farsi della scrittura, giacché essere e nulla, dio e uomo, si toccano nella concretezza della singolarità, che agisce ‹‹come Saul, il quale era partito per cercare le asine di suo padre e trovò un regno››: citazione che tu riprendi da L’anima e le forme di Lukács e che rivendica appunto l’agire pratico (e dunque etico) dell’uomo che, nell’allegoria della scrittura, incontra i propri confini ontologici e dialoga fecondamente con essi.22 Verità de-teologizzata, quindi, e mai data F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, postfazione a M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.36. 21 Ibidem, p.26. 20
T. Salari, Le asine di Saul. Per una ripartizione dello spazio poetico, Anterem, Verona 2004, p.50. Il libro organizza la propria materia a scansioni cronologicamente lineari e per piccoli nuclei concettuali tesi a promuovere il ripensamento del canone moderno, a partire da una prospettiva ontologica, capace di coniugare poesia e filosofia. Scelta vincente in ordine alla chiarezza e all’univocità, che si fa intrigante e fecondamente frastagliata quando sfocia nel Novecento. Qui il piglio tendenzialmente divulgativo lascia il passo ad un procedere che, come nel ‹‹nomos… senza proprietà›› di Deleuze o nelle ‹‹Asine di Saul›› raccontate da Lukacs ne L’anima e le forme, crea uno spazio originale, delimitato dallo stesso avanzare del pensiero, alla ricerca di una tradizione italiana, che si sia fatta carico del problema dell’essere e del suo senso. Ecco allora Arturo Graf e Angelo Conti, Enrico 22
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per sempre, proprio perché si incarna ogni volta da capo nello stile singolare dell’autore, che pure, alla Rimbaud, è pensato, è scritto, quasi che l’auctoritas gli venisse dal suo essere in ascolto vigile della propria finitezza, da quel suo farsi orecchio appassionato del mormorio abissale, di quel mormorio in cui l’essere, oggi, si lascia pensare. Secondo la prospettiva del Vetraio, il fatto che l’essere depotenziato si muova e sia mosso nella e dalla scrittura, toglie qualsiasi pretesa mistica all’incontro con il vero, spostando invece l’attenzione alla ‹‹forma›› (questione che Fresa Thovez e i vociani (tra i quali spicca Carlo Michelstaedter), e il filosofo Giuseppe Rensi, forse il primo a sdoganare Leopardi dal crocianesimo. Il secondo Novecento è attraversato con rapidità da Salari, il quale si ferma al momento in cui l’interpretazione moderna della letteratura italiana va in crisi, sul finire degli anni Settanta, quando la celebre antologia portiana inaugura la possibilità dialogica della poesia, di contro alla canonizzazione rigida di un modello, com’è stato fino ai Poeti di Mengaldo (ma non mancano passaggi in cui il ritorno all’ordine dell’industria culturale contemporanea viene amaramente commentato dall’autore, leggendolo come ‹‹la morte della poesia››). Il fatto è che Salari da sempre scrive contro l’incubo della storia e l’angoscia di saperci sospesi tra due vuoti: una navigazione babelica, la sua, che assomiglia a quella di Odisseo, un andar per mare spinto da un’ansia tutta interiore, verso la propaggine di una terra che si chiama autobiografia. Anche quest’ultimo saggio (‹‹Introduzione [...] di una più ampia ricerca che porta il titolo Poesia e senso dell’essere››) costituisce un temporaneo approdo, una messa in forma provvisoria della presenza dell’autore nel mondo, come lo fu, per Leopardi, ogni pensiero dello Zibaldone. In questo senso, l’aver ripercorso due secoli di storia letteraria europea in parte già consolidata, non si scopre mera erudizione, bensì viaggio emozionato assieme ai fratelli maggiori, a quegli uomini che hanno saputo sopportare, prima degli altri, la ‹‹solitudine del poeta›› nella civiltà moderna.
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affronta magistralmente), forma che è il finito del testo, il suo bordo sintagmatico e paradigmatico, che tende a tracimare nella misura in cui, pur conservandosi in quanto modello, lascia essere la pluralità del senso, tenendo heideggerianamente vicini, poetare, pensare e ringraziare.23 Tali esercizi creativi (continua il Vetraio) – che, attraverso la forma e la bellezza, danno figura all’apparire del vero, appunto perché legati alla prassi – conducono aristotelicamente alla felicità, ‹‹che è l’aspirazione ultima dell’uomo››.24 Conclusione, questa, che supera d’un colpo uno dei miti (da sfatare) della modernità, e che già Franco Rella aveva rilevato in Miti e figure del moderno, ossia l’idea che la malattia sia l’altrove capace di liberare il soggetto dal tempo della storia, isolandolo in un luogo di maledetta beatitudine – sia esso la Castalia o l’Oriente Concetto poi ripreso da Paul Celan in Allocuzione al premio letterario "Città anseatica di Brema" (1958): «Denken (pensare) e Danken (ringraziare) hanno nella nostra lingua la stessa identica origine. Chi ricerca il loro significato si porta nel campo semantico di: gedenken (richiamare alla memoria), eingedenk sein (essere memori), Andenken (pio ricordo), Andacht (devozione)», in Id., La verità delal poesia. Il meridiano e altre prose, trad. it. Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p.34. In Heidegger, del resto, la tensione-torsione tra Dichten (il poetare), Denken, Danken e Andenken emergono già nella Lettera sull'Umanesimo (1946) e si approfondiranno ne In cammino verso il linguaggio (1959). 24 M. Fresa, T. Salari, Il grido del vetraio, cit., p.16. 23
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hessiani, la casa di cura della Montagna incantata, l’epilessia del Principe Myskin o la nevrosi di Flaubert – dove votarsi ad una mistica della profondità che già Nietzsche, nei Frammenti postumi 1888-1889, aveva criticato.25 Giustamente t’interroghi, a questo proposito: ‹‹Non si tratta più di trovare l’espressione giusta per il grido del vetraio, ma di far risuonare (sentire) nelle parole il disincanto del mondo? O forse questo è il passato (l’incubo) da cui ci dobbiamo risvegliare?››.26 Che cosa significa, tuttavia, risvegliarsi dal ‹‹disincanto del mondo›› (e dall’idea che il dolore sia la condizione sine qua non per accedere allo scrigno sepolto del vero), sganciandosi di conseguenza da una tradizione che ha infettato particolarmente la cultura europea degli ultimi due secoli? Te lo chiedo perché, se è vero che l’angoscia della perdita del centro va superata dal di dentro, assumendola nietzscheanamente fino in fondo, occorre anche – per la cultura italiana – un ripensamento della logica di Leopardi, padre del nichilismo moderno, un rimettersi ad essa che consenta lo scarto di lato, così Franco Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, sec. ed. ampliata, Milano 2003, pp.46-52. 26 M. Fresa, T. Salari, Il grido ecc., cit. p.23. 25
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che il nulla fondante (malgrado l’apertura al consorzio civile della Ginestra) non sia buco nero che assorbe l’avvenire, bensì terra fertile, solco sul quale scommettere un destino; in questo, l’immagine di Nelly Sachs – ripresa da Ermini e, altrove, da Galaverni,27 del poeta cavaliere con la spada che, scrivendo, assalta la vita (‹‹un cavaliere appiedato con la divisa lacera››28 precisa Ermini, per toglierle connotazioni romantico-apocalittiche presenti nella stessa Sachs) – è assai appropriata, appunto perché recupera la figura del soggetto ma nell’accezione postmoderna, ossia di colui che si orienta parzialmente nella realtà rizomatica, e gode/patisce del proprio essere comunità, punto di vista dialogico, snodo e antenna che mette in forma le voci sue e non sue in sequenze verbali in cui la tecnica passa in secondo piano, cosicché la forma sia, appunto, forma di vita, quel dischiudersi dell’essere, la cui verità e bellezza risiede nel suo essere qui, sparpagliato nell’esistenza.
Roberto Galaverni, Il poeta è un cavaliere Jedi. Una difesa della poesia, Fazi, Roma 2006. 28 F. Ermini, Ritratto di poeta come cavaliere con la spada, cit. p.35. 27
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Canone e finitezza
1. Letteratura, storicità, ontologia
La riflessione che segue pensa il legame tra letteratura e ontologia a partire dalla rinuncia dell’essere impronunciabile, così come suggerisce Jean-Luc Nancy ne L’essere abbandonato, al fine di lasciarlo essere, appunto, in quanto fioritura singolare ed in sé mancante di nulla, che ha luogo ogni volta daccapo nelle cose che sono. Per quanto ci riguarda, questo significa che, in ogni opera letteraria, la finitezza si gioca interamente, venendo a coincidere con l’aver-luogo, nel linguaggio, della singolarità dell’esserci, la quale è già sempre gettata
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in una rete di comunicazioni significative, in un’apertura storico-linguistica dove gli altri «non sono coloro che restano dopo che io mi sono tolto […] [bensì] quelli dai quali per lo più non ci si distingue e fra i quali, quindi, si è».1 Affermare che la finitezza si affida alla letteratura, al modo di un’unità sorgiva che feconda diversamente ciascuna scrittura, nell’inconsapevolezza parziale dell’autore, comporta il disconoscere alla letteratura familiarità essenziale sia con la poiesis sia con la praxis e dunque con tutta quella serie di fatti, vincolati all’intenzionalità, che appartengono alla progettualità storica. E nondimeno la letteratura è, anche, una téchne, con il suo armamentario di competenze settoriali ed il suo laboratorio, così com’è il frutto pratico della volontà degli uomini, nella misura in cui consiste in una scelta (linguistica, stilistica, ideologica, filosofica ecc.). In tale reticolo – dove òntos, praxis e téchne, incontrandosi, sostanziano la letteratura – ad essere oggetto di riflessione storiografica non può essere la finitezza, bensì la sua espressione ontica, transitoria,
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Martin Heidegger, Essere e Tempo, ed. cit., p.153.
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quell’insieme di cose letterarie (cui la tecnica e la prassi rinviano), le quali incontrandosi, alleandosi, scontrandosi, danno vita (prima di estinguersi) all’intreccio sommamente complesso e plurale che si chiama storia della letteratura. L’essere così dell’Esserci, d’altro canto, si trova in una relazione essenziale, attiva e niente affatto pacifica con l’apertura storica in cui è, una relazione di coappartenenza, resa effettiva – nei suoi attriti e nelle sue concordanze – dal linguaggio. In questo senso, l’opera, che sia capace di lasciar essere fra le proprie maglie l’irripetibile alterità dell’io singolare/plurale, rischiara non un aspetto qualsiasi del movimento storico cui quest’ultimo appartiene, bensì la problematicità essenziale (colta da una specifica prospettiva) che ciascuna apertura storicolinguistica implicitamente possiede, quel fondo indescrivibile ma reale, quella linea d’ombra esposta sul nulla che costituisce l’orizzonte insuperabile ed inquieto della coappartenenza stessa.2 Ciò avviene, come detto, a patto che l’autore sia riuscito davvero
Un concetto analogo è espresso da Giorgio Agamben in Che cos'è contemporaneo (Nottetempo, Roma 2008, p.9): la contemporaneità, scrive, è «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» (in corsivo nel testo). 2
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a scrivere in prossimità del proprio margine; in prossimità, si badi bene, non sul bordo estremo, giacché questo è irraggiungibile, essendo la parola personale già sempre compresa entro un orizzonte linguisticamente dato, sia quest’ultimo identificabile nella «langue» saussuriana, oppure nella sommatoria di giochi linguistici fra loro familiarmente uniti, come nel Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, o sia esso invece, heideggerianamente, il luogo in cui il «Dire originario» resta custodito. Senza entrare in merito alle specifiche posizioni e dando invece per acquisito il concetto cui tutte rinviano (e cioè che nessun parlante inventa ex novo un linguaggio e che, anzi, il linguaggio ordinario mette in forma la realtà del parlante; ma anche – e questo è decisivo – che ciascuno ha un margine di libertà, uno scarto, entro cui giocarsi la propria collocazione), possiamo affermare, per contrasto, quanto segue: qualora il lasco dal bordo estremo non sia avvicinato e frequentato dall’autore, l’opera e la stessa finitezza che in essa respira risulteranno sempre meno singolari, fino ad annullarsi quasi completamente entro l’apertura epocale cui appartengono, come afferma, pur con altri presupposti, l’«estetica della ricezione» di Hans
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Robert Jauss, allorché riconosce all’opera di valore la capacità di creare una distanza fra se stessa e «l’orizzonte di attesa» del pubblico, aggiungendo che, «nella misura in cui questa distanza diminuisce, e alla coscienza del ricettore non viene chiesto nessuno spostamento sull’orizzonte di un’esperienza ancora ignota, l’opera si avvicina all’ambito dell’arte dozzinale o di intrattenimento».3
Hans Robert Jauss, Perché la storia della letteratura?, a cura di Alberto Varvaro, Guida, Napoli 1969, pp.44-45. Si veda anche l’analoga prospettiva di Harald Weinrich nella sintetica ricostruzione che ne fanno Andrea Battistini e Ezio Raimondi ne Le figure della retorica, Einaudi, Torino 1984 e 1990, pp.499-500. Anche Agamben, nel saggio citato nella nota precedente, ribadisce: «Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa» (pp.9-10). 3
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2. L’eversione della finitezza ed il canone fisiologico
Esistono dunque differenti gradi in cui opera e finitezza si incontrano, fino a quello minimo, dove, per parafrasare Saussure, la «parola» dell’opera è tutta compresa e dispiegata nella «lingua» della civiltà d’appartenenza, senza scarti se non quelli – aggiungiamo noi – minuscoli ma essenziali, prodotti dall’irriducibilità dell’Esserci singolare/plurale. E quanto più profondamente la parola attinge dall’infondatezza esposta che ciascun Esserci è, tanto più l’opera sarà potenzialmente destabilizzante per l’apertura storico-linguistica in cui essa s’insemina, appunto perché ne svela, anche senza volerlo, l’instabilità di fondo.4 Per confermare tale assunto e per sottolinearne le conseguenze, pensiamo alla Commedìa dantesca, alla sua feconda resistenza alla realtà del Trecento, Lo stesso concetto, ma con un’intenzione neutrale, è affermato da Roland Barthes nel breve saggio Storia o letteratura?: «L’opera è essenzialmente paradossale, è segno della storia e insieme resistenza ad essa. [...] Tutti sentono chiaramente che l’opera sfugge, che è altro dalla sua storia, dalla somma delle sue fonti, delle sue influenze o dei suoi modelli». In Giuseppe Petronio, Teoria e realtà della storiografia letteraria. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1981, p.114. 4
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sia esso concepito sotto il segno della croce cristiana, oppure rispetto alla cognizione di patria guelfa o ghibellina, in Firenze, oppure, ancora, nei confronti del modo ordinario di intendere il ‘comico’ ed il ‘sublime’ nella retorica coeva. Resistenza che – proprio per la sua forza eversiva rispetto ai fattori stabili del suo presente – si tradusse in marginalità, almeno fino a quando l’epoca non trovò il farmaco in grado di rifondarne il valore, secondo l’utile che le convenne. Nello specifico, tutto questo significò un immediato sfruttamento ecclesiastico finalizzato a dominare i fedeli con immagini forti dell’aldilà, ma comportò anche la difficoltà, da parte delle epoche successive, di ricavarne un’ideologia funzionale; obiettivo che fu infine raggiunto – per quanto riguarda l’Italia – nel Romanticismo risorgimentale, età in cui il toscano colto risultò linguisticamente perfetto, nell’insieme dei valori trasmessi, al liberalismo moderato ottocentesco (si pensi al Manzoni), e Dante divenne l’eroe dell’amor patrio (da Alfieri a Foscolo, da Mazzini, Giusti fino a Carducci, senza dimenticare il Leopardi delle canzoni Sopra il monumento di Dante e Ad Angelo Mai) oppure, negli scrittori cattolici, il primo fautore della coscienza
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religiosa quale fondamento della libertà individuale (cfr. il Tommaseo). Ad ogni modo, ciascuna apertura storicolinguistica economizza queste tensioni conflittuali, per esempio sfruttando le possibilità che esse offrono, sia rispetto agli autori viventi (per la rimessa in discussione degli equilibri di potere: a livello di distribuzione delle cattedre universitarie e della politica culturale, o di formazione di un mercato di nicchia o, ancora, di equa distribuzione dei premi letterari) e sia rispetto al passato, per una più solida genealogia. Questa seconda prospettiva spiega, a distanza secolare, la necessità fisiologica di un canone letterario che riconosca una linea maggiore d’autori e di opere, adeguatamente contestualizzate in una periodizzazione credibile, capaci di supportare ideologicamente la forma acquisita da una civiltà, secondo il modello a suo tempo riconosciuto criticamente da Nietzsche (e qui invece pensato come fisiologico – ossia necessario – alla modernità), quando parla di «storia antiquaria» quale conseguenza della «felicità di non sapersi del tutto dispotici e casuali, ma di saper di svilupparsi da un passato quali eredi, fiori e frutti, e di essere perciò perdonati, anzi legittimati della propria
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esistenza».5 In questo senso sarà inevitabile, per noi europei occidentali, riconoscere ad Eschilo, la cui opera complessivamente fonda la necessità dello stato di diritto, maggiore autorevolezza rispetto a Cecco Angiolieri (che potremmo definire: catastrofista anarchico) al quale, altrettanto inevitabilmente, preferiremo sia Dante che Petrarca, il cui Canzoniere fu modello di stile per i letterati successivi, ma non certo per l’intraprendente borghesia comunale, dalla quale pur assimilò uno spiccato individualismo, e nemmeno per la Chiesa, preoccupata com’era ad insegnare il disvalore del corpo e ad affermare la regula fidei tomista. Autori destabilizzanti nell’epoca in cui vissero, Dante e Petrarca furono tuttavia utilissimi in seguito, per giustificare lo spirito avventuroso eppure posato della modernità e la temperata solitudine non ancora diventata alienazione che la contraddistingue. Più difficile sarà, per la civiltà platonico-cristiana cui apparteniamo (pensata qui nella secolarizzazione liberal-capitalistica) trasformare in classici – e dunque in pilastri fondanti Friedrich W. Nietzsche, Sulla storia. Utilità e danno della storia per la vita, a cura di Angelo G.Sabatini, Club del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1981, p.108. 5
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il presente, con tutta quella carica didatticopedagogica che una storiografia letteraria comporta – quelle opere in cui si mostrano la nuda alienazione o il «male di vivere», l’assurdo o la «schizofrenia universale», quali condizioni ordinarie dell’esistere. Il fatto che, nonostante tutto, molti scrittori occidentali dell’Otto-Novecento – pur evidenziando nelle loro opere, inequivocabilmente e sotto diversi aspetti, il disagio della civiltà (da Leopardi a Nerval, da Rimbaud a Joyce, da Lautrémont a Mann, da Pirandello a Svevo da Eliot a Beckett, da Kafka a Borges) – stiano acquisendo (o abbiano acquisito) lo statuto di classici, significa semplicemente che il rapporto fra storiografia letteraria e civiltà occidentale non è lineare né pacifico. Se infatti la prima, al suo nascere, ha cercato di diventare funzionale allo sviluppo del principiante capitalismo (si vedano, per tutti, la Storia della letteratura antica e moderna di Friedrich Schlegel e la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis), complicherà in seguito il proprio rapporto con quest’ultimo, secondo almeno cinque linee di sviluppo: 1) rivendicando il diritto di autonomia di giudizio nell’ambito estetico (fino alla posizione estrema di Benedetto Croce il quale,
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riconoscendo alla monografia il compito precipuo della critica, nega la possibilità stessa di una storia letteraria); 2) costruendo un anti-canone, sul modello della critica engelsiana, in cui gli autori sono scelti in base alla loro capacità, magari inconsapevole, di esprimere tendenze sociali oggettive o di anticipare una possibile forma di vita sociale alternativa a quella reificata, come ribadisce l’estetica francofortese;6 3) coniugando lo specifico letterario con l’avalutatività, l’oggettività, la sistematicità e la verificabilità del metodo scientifico. Pretese avanzate dallo strutturalismo e dalla semiologia, da un lato, e dalla filologia dall’altro, tutte discipline generalmente poco interessate alla storiografia; 4) riconoscendo, con Giacomo Debenedetti e Italo Calvino, una coincidenza analogica (ma non metodologica) fra lo sviluppo della ricerca scientifica ed il fare della letteratura; 5) affermando l’impossibilità di costruire un modello epistemologico valido per l’intera apertura epocale, in seguito alla parcellizzazione dei
Sulla questione, si veda anche il saggio di Fausto Curi, Canone e anticanone. Viatico per una ricognizione, in “Intersezioni”, XVII, dicembre 1997, pp.495-511. 6
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punti di vista sulla Storia, come per esempio sostiene Remo Ceserani. Tutte queste posizioni, delle quali ho dato per brevità di spazio una sommaria e certamente inadeguata sistematizzazione, hanno un aspetto in comune: pur sostenendo – fra gli altri – autori poco consoni alla fisiologica sopravvivenza dell’ottimismo moderno, premono egualmente sull’apertura storico-linguistica affinché i risultati delle loro ricerche siano condivisi. E lo fanno, inevitabilmente, entrando in relazione con i nuclei forti della stessa: anzitutto con l’Università, che detiene in pratica l’esclusività dei ‘discorsi sulla letteratura’, e, in secondo luogo, con l’industria culturale, case editrici e riviste letterarie in testa, tutte a sostenere, in armonia con l’accademia oppure in conflitto con essa, canoni militanti. In definitiva, canone fisiologico significa proprio questo: la necessità pratica, pertinente dunque alla decisione politica ed economica, di fondare il proprio modello di sviluppo su di una tradizione culturale autorevole; ma anche l’inevitabilità dell’incontro/scontro fra questo bisogno fisiologico e l’ingegno della critica storiografica, pioniera nello scandagliare possibili, e dunque memorabili,
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soluzioni. In base poi al potere acquisito da una determinata corporazione letteraria, il canone proposto migliorerà in durata, andando a rinforzare (salvo leggeri aggiustamenti, altrettanto fisiologici) quello al momento dominante.7 Un chiaro esempio di tutto ciò, lo troviamo nel dibattito maturato negli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e Novanta, tra la posizione che, come scrisse David Demby, pensa alla letteratura quale «corpo di nobili (e statici) valori che dovrebbero essere inoculati a ogni generazione di studenti americani» e, dall’altro, quella prodotta dalle spinte femministe e radicali (da Donna Haraway ad Harold Bloom) verso l’apertura canonica alle minoranze etniche e alla letteratura della differenza sessuale.8 Analoga la posizione di Guido Mazzoni: «Il giudizio del tempo non è altro che la santificazione postuma di un arbitrio, il tentativo di attribuire un ingiustificato valore universale a testi, immagini del mondo, valori che hanno trionfato al termine di uno scontro combattuto in nome della pura volontà di potenza: la lotta di uno scrittore per sovrastare gli scrittori rivali; la lotta di una cordata letteraria per acquisire visibilità a scapito di altre cordate; la lotta di un gruppo sociale contro i gruppi concorrenti per trasformare i propri gusti in gusti di tutti. [...] In questa ottica, il vincitore della battaglia per la memoria non incarna lo Zeitgeist, ma il trionfo di un interesse contingente su un altro interesse contingente, di un egoismo su un altro egoismo». In Id., Sulla poesia moderna, Il Mulino, Bologna 2005, p.18. 8 David Denby, Grandi libri, trad. it., Lucia Olivieri, Fazi, Roma 1999. Citato da Massimo Onofri, Il canone letterario, Laterza, Bari 2001, p.23. 7
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3. Canone fisiologico e storiografia letteraria
Nel paragrafo precedente s’è affermato che esiste un margine entro cui la singolarità gioca la propria irripetibile collocazione, una soglia dalla quale la scrittura, liberandosi parzialmente del già detto, dona al lettore una porzione d’inaudito.9 Nella storiografia letteraria, questa convinzione viene generalmente fatta coincidere con il concetto di ‘originalità’. Ad essa, quale che sia la sua forza condizionante, i differenti indirizzi poetici danno comunque valore, anche quelli che impongono strette griglie retorico-stilistiche cui attenersi: i canti trobadorici, per esempio, oppure il petrarchismo cinquecentesco, dove lo stereotipo viene appunto superato attraverso l’uso ‘creativo’ dell’imitazione, oppure, ancora, la poesia pastorale dell’Arcadia, i cui La certezza che l’opera non si esaurisca nella sommatoria delle tensioni interne ad un’apertura storico-linguistica, bensì possegga una qualità sua propria, tale da renderla irriducibile a qualsiasi genotipo intertestuale, appartiene da decenni anche al bagaglio della critica marxista: si pensi agli studi sulla musica beethoveniana di Hanns Eisler e allo strutturalismo di Louis Althusser, dove l’autonomia del «materiale artistico» è relativamente garantita. Sull’argomento cfr. Helga Gallas, Teorie marxiste della letteratura, trad. it. Giorgio Backhaus, Laterza, RomaBari 1974, pp.227-229. 9
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moduli tematici e formali trovano ragione nella capacità soggettiva di ricombinarli in soluzioni nuove. In questo senso, l’originalità – diventando sinonimo di forza innovativa – viene riconosciuta quale discriminante soggettiva della discontinuità, di ciò che costituisce la portata individuale e tutta interna del divenire letterario, in correlazione con il processo, anch’esso molteplice e discontinuo, della Storia tout court. Le maggiori opere già canonizzate da una tradizione altro non sono, in tal senso, che la risultante dell’incontro/scontro dei due momenti, secondo una modulazione assai problematica e risolta differentemente dai singoli indirizzi storicoletterari. Questo significa, in altri termini, che il canone fisiologico, se sotto il profilo didatticopedagogico e ideologico contribuisce a creare una genealogia autorevole ad una specifica civiltà, rispetto invece alla discontinuità, altro non è che la sommatoria – accuratamente registrata e organizzata dalle diverse scuole storiografiche secondo il proprio modello ermeneutico – delle forme assunte dall’attività letteraria nei secoli, a partire dai ruoli giocati dai molteplici attanti, primi fra i quali l’autore, il sistema socio-economico e i lettori. Autore che diventa protagonista della
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triangolazione nella misura in cui riesce ad imporre, attraverso il testo e la prassi biografica, il proprio modello estetico su quelli esistenti e ad influenzare i successivi, in un intreccio con gli altri attanti la cui complessità ci è poi raccontata, appunto, dalla storiografia letteraria. L’insistenza sulla terminologia narratologica non è casuale; fa invece riferimento all’idea, non nuova,10 secondo cui la storiografia usi con tale frequenza strategie narrative, per mettere a fuoco la verità del discorso, da confondersi pienamente con la letteratura a tutto tondo. Esasperando questa prospettiva, potremmo affermare che gli storici della letteratura, ciascuno secondo i meriti e gli interessi propri, contribuiscano a riscrivere – con minuscoli aggiustamenti sulla versione fornita loro dalle scritture precedenti, dovuti al diverso accento posto sugli autori, sul testo, sul sistema socioeconomico, oppure, ancora, sul lettore – il grande romanzo della letteratura (per esempio italiana) in una mobile mescolanza di generi e di ruoli degli Cfr. Gianni Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura post-moderna, Garzanti, MI 1985, pp.16-17, Remo Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, TO 1990, pp.17-32; Jerome Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, trad. it. Mario Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2002, pp.3-69. 10
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attanti, tesa comunque a confermare, pur con differenti orientamenti ideologici, quell’indole didattico-pedagogica già riferita in precedenza. Ma ciò che più conta riposa nel fatto che questo lunghissimo romanzo borghese, inconsapevolmente progettato da Girolamo Tiraboschi nel secondo Settecento e cominciato effettivamente dallo Schlegel, ha ormai consolidato i nomi dei protagonisti, per cui da essi non è più possibile prescindere, almeno fino a quando rimarranno invariate le strutture storico-linguistiche dell’Occidente. Ma se davvero lo storico della letteratura non può prescindere dal canone impostosi tradizionalmente (giacché egli appartiene alla medesima tradizione e non ha dunque appigli esterni alla trasmissione dei saperi ereditati, che gli consenta di produrre una scala di valori assolutamente altra, a meno di non aprire geograficamente il canone alle letterature del mondo, globalizzandole, con il rischio tuttavia di disconoscere la specificità dei singoli orizzonti storico-linguistici e geografici), allora il margine di libertà che gli spetta s’identifica con la possibilità di rimettere in discussione o di scalzare gli scrittori (i personaggi) che la tradizione ha riconosciuto come
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meno significativi e di rileggere con sempre nuovi parametri quelli già consolidati.11
Si pensi, per quanto riguarda il primo caso, alla fortuna aleatoria dell’Angiolieri fra Otto e Novecento, dopo secoli di oblio e, rispetto alla seconda eventualità, alle infinite letture dell’opera dantesca, mai venute meno – per quanto riguarda la nostra apertura epocale - a partire almeno dal De Sanctis. 11
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4. La critica e il valore di verità dell’opera
Il concetto di originalità (quantitativamente intesa) non esaurisce invero la questione, anzi risulta fuorviante; esso infatti premia qualsiasi innovazione, sia questa frutto della razionalità, come nell’arguzia barocca, oppure dipenda dall’eroica disposizione al sublime dello scrittore romantico: in entrambi i casi, la storiografia registra la discontinuità delle opere rispetto all’esistente e le cataloga quali espressioni degne di caratterizzare un canone. E ciò necessariamente, dovendo essa anzitutto descrivere un processo storicamente accaduto e soltanto secondariamente interpretarlo. Il fatto, poi, che anche la descrizione appartenga ad una tipologia narrativa, rende semplicemente più interessante e convincente il lavoro storiografico, ma nulla aggiunge in ordine ai contenuti. A ragione, dunque, Remo Ceserani sostiene che «il criterio dell’innovazione, utile forse sul piano della ricostruzione storica, non può funzionare nella ricostruzione critica». Qui, infatti, entra in gioco il giudizio di valore estetico, il quale a sua volta non può prescindere dal sistema sociale di riferimento in
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cui agiscono e acquistano significato modi, generi e forme retoriche.12 In questo senso, qualsiasi giudizio sul valore estetico di un’opera, dovendo misurarsi con le gerarchizzazioni dell’immaginario e del simbolico vigenti nel sistema di riferimento, risulterà subordinato all’individuazione dettagliata della gerarchia stessa, obiettivo che a sua volta implica un’analisi precisa del sistema nel suo complesso, con un evidente sforzo interdisciplinare; ma il lavoro davvero improbo comincia quando, avuto a disposizione un congruo numero di dati, si deve cercare una sintesi che tenga coerentemente insieme il tutto e che infine sia capace di mettere in risalto inequivocabilmente il valore dell’opera. Fra l’altro, occorre rilevare che qualsiasi posizione che intenda determinare il valore (estetico, filosofico, sociale, etico, monumentale ecc.) di un’opera è costretta a considerare l’opera stessa quale segno di qualcos’altro, il quale diventa il vero oggetto del discorso, a cui risalire appunto attraverso l’esegesi del testo (anche il valore estetico, infatti, rinvia all’ideale di bellezza di una civiltà, ed è di questo ideale che l’opera si fa segno).
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R. Ceserani, Raccontare la letteratura, cit., rispett., p.14 e p.148.
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La via d’uscita a tale mastodontico impiego di forze, potrebbe essere quella che, scartando il criterio quantitativo dell’originalità e accettando la relatività di qualsiasi giudizio di valore estetico, sceglie di considerare il valore di verità dell’opera, quest’ultima intesa quale segno «che non si lascia consumare nel rinvio»,13 luogo dell’accadere in cui la finitezza dell’Esserci si mette completamente in gioco e, cosi facendo, mette in gioco le fondamenta stesse dell’apertura storico-linguistica cui appartiene. In che senso, tuttavia, l’esserci mette in gioco le fondamenta di un’apertura cui è coessenziale, un’apertura che non fonda nulla se non se stessa in quanto sfondo continuamente ri-detto dai parlanti? In via preliminare si può rispondere a questa domanda, ricordando quanto già affermato in precedenza: la coappartenenza esserci-apertura avviene sotto il segno dell’alterità, della differenza, della non adesione completa dell’uno sull’altra (e viceversa). L’Esserci non è, senza margine di scarto, l’apertura; l’apertura non è, senza margine di scarto, l’Esserci; e comunque l’uno e l’altra sono
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G. Vattimo, La fine della modernità, cit., p.81.
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conflittualmente presenti in quanto messi in gioco nel linguaggio. In questo senso, anche le strutture della storicità (politica, economia, religione, cultura, scienza, costume ecc.) sono in quanto organizzate sintatticamente e semanticamente dal linguaggio, il quale va inteso quale sommatoria conflittuale e/o armoniosa dei singoli codici verbali e non verbali agenti in un determinato orizzonte storicogeografico. Si tratta, com’è evidente, di una circolarità ermeneutica, che non si discosta di molto dalla posizione espressa dell’antropologo Alessandro Duranti allorché, riprendendo la tesi dall’Husserl de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale e verificandola per analogia con la «visione samoana» e con quella del "secondo" Wittgenstein, afferma che «il linguaggio non crea il mondo, ma lo "costituisce", lo rende possibile, lo spiega, lo aiuta ad essere in un certo modo per dei soggetti pensanti e agenti in esso».14 Per quanto ci riguarda, avendo riconosciuto alla coappartenenza Esserci-Apertura la non omologazione, è chiaro che, qualora l’Esserci riesca a parlare dalla propria irripetibile soglia, la parola Alessandro Duranti, Etnografia del parlare quotidiano, La Nuova Italia Scientifica, Milano 1992, p.143. 14
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metterà in essere quell’attrito che costituisce l’effettività dell’incontro con l’apertura stessa. In questo senso, la scrittura dalla soglia non fa altro che lasciar essere l’irripetibile attrito che l’esistenza singolare/plurale genera entro la propria collocazione storico-linguistica. Un attrito fondamentale, potremmo dire, in quanto deriva dalla gettatezza ontologica dell’Esserci e la cui verità, appunto per questo, sfugge in gran parte all’Esserci stesso. Riposa in questa non disponibilità alla coscienza dell’attrito fondamentale, il valore di verità dell’opera. Quando infatti quest’ultima è costruita a tavolino, costituendosi quale frutto consapevole di un sapere poietico (secondo il modello hobbesiano e poi vichiano del ‘conosco soltanto ciò che ho prodotto’), l’attrito fondamentale presente in essa si deforma, cristallizzandosi nella coscienza sotto forma di schieramento esistenziale, politico, ideologico, oppure di militanza letteraria, in qualcosa insomma di legato all’intenzionalità e alla competenza tecnica. Quando invece l’autore accetta il parziale naufragio che ogni scrittura sulla soglia impone (in verità può non farlo soltanto limitatamente: pena l’omologazione e dunque la negazione di sé in
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quanto autore), allora a mostrarsi davvero, nell’opera, sarà l’esistenza stessa, quel suo particolare attrito con l’apertura. E tuttavia, proprio perché l’atto creativo presuppone un non sapere radicale, tale riconoscimento spetta alla critica,15 attraverso l’analisi testuale: non è forse suo compito quello di verificare la tenuta di un testo letterario sotto il profilo linguistico, retorico-stilistico, tematico, eccetera? Il concetto di "tenuta", seppur generico, bene chiarisce la natura demistificante dell’atto critico, teso com’è a smascherare l’apparenza, al fine di mettere in risalto quanto di memorabile l’opera contiene. E ciò accade sempre, indipendentemente dai presupposti teoretici: si studia un’opera non per certificarne l’esistenza, bensì per verificarne la necessità. E quanto più ci sembra che questa sia confermata, tanto più la consideriamo importante, degna di entrare nel Lo stesso Blanchot, pur negando valore alla critica, mantiene viva l’opera attraverso il proprio esercizio ermeneutico, che consiste nel lasciare emergere il conflitto fra essere e nulla all’interno della scrittura, fino a pensare al testo quale spazio paradossale e autosufficiente, che annienta qualsiasi pretesa esterna, sia essa del lettore, del critico, ma anche dell’autore, via via che l’opera si compie. Cfr. Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, trad. it., Gabriella Zanobetti, Einaudi, Torino 1967 e Id., L’infinito intrattenimento, trad. it. Roberta Ferrara, Einaudi, Torino 1977. 15
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canone. Ma verificare la tenuta di un testo letterario altro non è che riconoscerne il valore di verità e dunque lo specifico attrito da esso prodotto entro un orizzonte di senso (quello critico in prima istanza) che vorrebbe negarglielo. Di conseguenza, la scrittura sulla soglia – così come qui è intesa – non implica la condivisione di una specifica poetica, ma è la condizione di possibilità affinché un testo possa sopportare l’analisi critica senza sfaldarsi nel nulla.16 E quanto più resiste alle verifiche approntate da differenti scuole di pensiero, tanto più quel testo sarà di valore rispetto alla verità che lo costituisce. È chiaro, allora, che il valore (estetico, filosofico, etico, ecc.) delle opere letterarie tramandateci dalla tradizione non è frutto semplicemente dell’interesse dell’ideologia dominante, e nemmeno di un racconto narratologicamente codificato e portato avanti dalla storiografia letteraria, ma è l’effetto di un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera stessa da parte della critica. Ciò significa che il valore Benjamin è ben consapevole di questo allorché, ne Il dramma barocco tedesco, scrive che lo scopo della critica è la «mortificazione delle opere». Come rileva Habermas commentando questo passo, egli vuole in tal modo «trasferire ciò che è degno di conoscenza dall’elemento del bello in quello del vero, per salvarlo». In Jurgen Habermas, Cultura e società. Riflessioni sul concetto di partecipazione politica e altri saggi, trad. it. Nicola Paoli, Einaudi, Torino 1980, p.243. 16
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di verità non consegue al giudizio, bensì si costituisce quale condizione sine qua non affinché l’opera possa essere giudicata e cioè pensata quale segno di qualcos’altro, entrando in tal modo nel circuito della comunità interpretante, che appoggerà poi questo o quell’autore secondo il modello ermeneutico di riferimento e l’interesse pratico. Così facendo tuttavia, la critica non metterà semplicemente in gioco la credibilità di un orizzonte interpretativo, bensì creerà le condizioni perché l’opera si conservi e possa entrare di diritto nel canone. Quanto finora affermato, ci porta al seguente epilogo: la soglia dalla quale l’autore mette in opera la propria finitezza non è misurabile direttamente, non è una quantità oggettivabile secondo i crismi scientifici, e nondimeno essa dice ed esaurisce se stessa nella resistenza che il singolo testo, spazializzando la temporalità, oppone al tentativo dell’apertura storico-linguistica di negarlo. Fra tutti gli elementi che costituiscono l’apertura, il sapere critico è quello che più minaccia l’opera ma è anche quello che, rimanendo sconfitto, ne certifica il valore di verità e, di conseguenza, l’innegabile giudizio positivo (estetico, filosofico ecc.). Una
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sconfitta, sia chiaro, che non possiede l’amaro di una battaglia fra nemici, bensì che alimenta nuovi incontri futuri, più simili all’amore che alla guerra. Anche l’autore entra in gioco nella sfida alla resistenza del testo: succede quando, nel silenzio del proprio studio, seleziona i propri; ma si tratta di un’attività per certi versi paradossale, assomigliando all’atteggiamento del fruitore di quei disegni di Escher dove l’interno e l’esterno, il principio e la fine, l’alto e il basso, l’azione e la passione, il soggetto e l’oggetto, s’incontrano e si scontrano nell’economia iconica complessiva. Come ci ricorda Adriano Fabris – mettendo in luce, per analogia, le difficoltà dell’ermeneutica quale «prospettiva universale» – l’autore, nel tentativo di comprenderli, è obbligato a scegliere il particolare, il dettaglio, lo scorcio, al fine di individuare un senso che sia «perfettamente comprensibile», rinunciando tuttavia al giudizio sulla totalità, che si dà invece come contraddittoria.17 Collocando il problema entro le nostre coordinate, possiamo affermare quanto segue: nella selezione compositiva, alcuni Adriano Fabris, Aporie dell’ermeneutica filosofica contemporanea, in La filosofia italiana in discussione, a cura di Francesco Paolo Firrao, Bruno Mondadori, Milano 2001, pp.440-441. 17
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testi saranno talmente anonimi, che l’autore non faticherà a metterli da parte; altri dovranno invece aspettare settimane o mesi prima di essere colti nella loro natura essenzialmente stereotipata; ma già in queste occasioni, l’autore avrà avuto bisogno del supporto esterno, di un attrito con il testo realizzato assieme alla comunità interpretante. E in ogni caso sarà quest’ultima a determinare, nel corso del tempo, il valore di verità dell’opera, riconoscendola nella sua nuda e ineliminabile presenza. Quanto scritto finora certifica inoltre l’inevitabilità del canone esistente, e ciò per tre ragioni: 1) esso è fisiologico alla sopravvivenza dell’apertura storico-linguistica che lo conferma, secondo la prospettiva del ceto dominante; 2) esso è il prodotto letterario di un romanzo scritto dagli stessi storici della letteratura, i quali non possono prescindere dai capitoli già scritti prima della loro comparsa, ma devono invece – come nel genere poliziesco – smascherare eventuali falsi indizi, approfondire le tracce più probanti, indagare i "colpevoli" (gli autori di valore) già indicati dai testimoni (i critici) più autorevoli, allo scopo di assicurarli alla giustizia del canone; 3) il canone esistente è inevitabile, perché i testi sopravvissuti
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all’indagine riferita al punto due sono resistiti al tentativo di nullificazione da parte della critica: questo fatto conferma il loro valore di verità, o, detto altrimenti, la loro non omologazione all’apertura storico-linguistica in cui sono nati. Come poi indicato al punto uno, a quest’ultima conviene rimettere in circolo quei testi del passato capaci di avvalorare il presente; operazione che – almeno nell'Italia moderna – ha significato confermare gli autori settecenteschi e, qualora il canone fisiologico si sia spinto poco più in là, a recuperare il Foscolo dei Sepolcri e delle Grazie, il Leopardi delle Canzoni, il Manzoni cattolico e risorgimentale, l’epica nazionalista del Carducci e di certo Pascoli, il D’Annunzio esteta. Per quanto invece riguarda la letteratura del disagio (cui Leopardi ‘ateo’ è l’indiscusso archetipo moderno), l’apertura contemporanea non è ancora riuscita a renderla fisiologica ai propri progetti, diventando perciò oggetto quasi esclusivo del discorso specialistico storiografico e critico, nell’abbandono interessato delle istituzioni e nell’inconsapevolezza generale del pubblico, vinto sempre più dal mercato internazionale della letteratura, la cui qualità non compensa l’allontanamento del lettore dall’apertura
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italiana, con i suoi specifici attriti, la sua specifica verità. Sopravvive per fortuna in tutto questo, fra la critica professionale e un pubblico reificato, una piccola percentuale di lettori onnivori ed appassionati, i quali comunque sanno – come scrive Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, e come, in una certa misura, ho cercato di mostrare nel presente saggio – che «il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita, l’inevitabilità della morte».
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Canone e singolarità: due esempi
1. Gnosticismo ed ebraismo nel Canone di Harold Bloom
Esasperando l’indole didattico-pedagogica della storiografia letteraria (già rilevata a suo tempo da Benjamin)1 e recuperando il modello-uomo rinascimentale, Harold Bloom altro non fa che tradurre in termini laici la visione gnosticoamericana di «libertà religiosa», che consiste, come egli stesso ammette ne La Religione Americana, nel Walter Benjamin, Storia della letteratura e scienza della letteratura, in Id., Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, trad. it.Anna Marietti, Einaudi, Torino 1979, pp.138-139: «La storia della letteratura ha perso interamente di vista il suo compito più importante [...] e cioè quello didattico». 1
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sentirsi «soli con Dio: un Dio che è a sua volta isolato e solitario, un Dio libero» al quale rivolgersi personalmente.2 Simile a questa prospettiva mi sembra infatti l’intenzione espressa in Come si legge un libro (e perché), consistente appunto nell’attribuire al critico il compito/privilegio di «rivolgersi al lettore solitario», indicandogli i libri da leggere (che diventano in tal modo magnificamente autorevoli nella loro solitaria imperturbabilità), al fine di rafforzargli “lo spirito” antifaustiano, uno spirito disinteressato al potere e tutto proteso invece all’autoedificazione virtuosa.3 In questi due testi divulgativi, Harold Bloom ribadisce invero la natura didattica ed il progetto di restaurazione neoumanistica del discorso critico che già pervadeva il celeberrimo Canone occidentale, libro che, concependo la storia della letteratura quale naturale conseguenza diacronica dell’imporsi
Harold Bloom, La Religione Americana: l’avvento della nazione post-cristiana, trad. it. Silvia Luzi, Garzanti, Milano 1994, pp. 11-13. 3 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), trad. it. Roberta Zuppet, Rizzoli, Milano 2000, rispett. p. 16 e p. 241. Questa vocazione è ribadita anche nel suo ultimo libro, il cui scopo è, appunto, aiutare a «conoscere noi stessi in relazione agli altri», Id., Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, trad. vari, Rizzoli, Milano 2002, p. 29. 2
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agonico-edipico delle opere dotate di «grande stile»,4 secondo una dinamica individuata già nei primi Anni Settanta (cfr. L’angoscia dell’influenza), suggeriva implicitamente all’Occidente di far proprio un canone già in parte fisiologicamente assimilato: che cosa altro significa infatti dichiarare l’equivalenza fra il canone e quanto «il mondo non è disposto a lasciar morire»,5 se non riconoscere, alla cultura di quel mondo, il valore di un processo ineluttabile in quanto naturale, secondo una prospettiva che era già stata del Vico e, pur con altre coordinate, di Walt Whitman, allorché, come rilevò in tempi non sospetti Cesare Pavese, cercò di leggere «la storia del mondo vista soltanto attraverso le sue supreme manifestazioni letterarie»?6 E la tripartizione vichiana delle «Età» («aristocratica», «democratica», «caotica») che contraddistingue il Canone, non coincide forse con le «magnifiche sorti e progressive» della civiltà americana, diabolicamente capace, rispetto alle opere «apocalittiche» che potrebbero metterne in crisi gli statuti (per esempio H. Bloom, Il canone occidentale: i libri e le scuole delle ere, trad. it. Francesco Saba Sardi, Bompiani, Milano 1996, p. 464. 5 Ibidem, p. 16. 6 Cesare Pavese, Poesia del far poesia (1933), in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1982, pp. 130-131. 4
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quelle di Melville o di Faulkner), di riconoscerne la forza catartica e l’effetto di rinvigorimento sull’individuo, al punto da consentire loro la libera circolazione nelle sale di lettura e nelle librerie? Il Canone condivide a tal punto le radici etico-politiche della modernità, da dovere escludere (o collocare ai margini) dalla «età democratica [...] tutti coloro che, in qualche modo, in un secolo democratico e progressista [come l’Ottocento], introducevano il germe di una visione critica e dissolutrice (da Leopardi a Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, da Flaubert a Dostoevskij)».7 Soltanto l’ultimo di questi scrittori viene recuperato in Come si legge un libro, ma per ricondurlo subito al vortice attorno al quale ruota lo stesso Canone occidentale, quell’inesauribile risorsa creativa che è stato Shakespeare, le cui «nobili tragedie di sangue [...] (Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth) gettano senza dubbio le basi per i grandi [personaggi] nichilisti di Dostoevskij», il quale, continua Bloom, con Delitto e castigo ha scritto «la migliore tra le storie poliziesche» degli ultimi «centotrent’anni».8 Affermazione Tiziano Salari, Il grande Nulla. Percorsi tra Otto e Novecento, Tirrenia Stampatori, Torino 1998, p. 9. 8 H. Bloom, Come si legge un libro (e perché), op. cit., p. 206. 7
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certamente connaturata all’umorismo ebraico («Sono un ebreo non credente con forti tendenze gnostiche» dice di sé nella Religione americana), ma anche inequivocabilmente conservatrice nella misura in cui, riconducendo l’imponderabile dostoevskijano ad uno stratagemma narrativo, lo svuota di quella carica eversiva che ha avuto nei confronti dell’Occidente, civiltà della programmazione, del ‘ponderabile’ in quanto soggetto alla misurabilità e, dunque, al controllo tecnico-scientifico. L’ebraismo, in effetti, costituisce non soltanto l’interesse prevalente degli studi storico-religiosi bloomiani, ma rappresenta un perno fondamentale anche delle sue opere di critica letteraria; lo lascia intendere esplicitamente l’autore, allorché organizza strutturalmente il suo ultimo libro seguendo le sefirot della Cabala; ma lo si era già profondamente compreso, leggendo L’angoscia dell’influenza, nell’impostazione sapienziale del discorso, per esempio, e nella presenza/assenza del Luogo raccontata nelle «riflessioni sul Sentiero» poste in «epilogo» del libro; ma soprattutto era evidente nel concetto di «fraintendimento», che segna la nascita del nuovo poeta canonico, il momento in cui egli,
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operando uno scarto dal maestro, se ne allontana, dando il via ad un’erranza solitaria, ma sempre sorretta dalla silenziosa passione per la verità del proprio cammino. Immediata si scorge la vicinanza di questo viaggio con la natura dolorosamente nomade dell’essere ebrei e con quella «libertà di interpretazione» che costituisce, secondo Bloom, il concetto stesso di «libertà ebraica».9 E tuttavia, come si è detto, il critico è essenzialmente un ebreo americano, aggettivo fortemente caratterizzante10 che si traduce nella credenza dell’irriducibilità dell’io, inteso quale nucleo originario, precedente alla creazione, «antico quanto Dio» e capace perciò di profondissimo
H. Bloom, Kafka, Freud e Scholem, trad. it. Alessandro Atti, Milano, Spirali/Vel 1989, p. 51. Anche lo "scarto dal maestro” può essere ricondotto entro lo schema domanda-risposta del giudaismo: come infatti rileva lo studioso americano, «la risposta» alla chiamata costituisce l’idea stessa di storicità del popolo ebraico, il quale agisce nella convinzione di rendere effettivo l’intervento divino (ibidem, p. 44). Ed entro questa logica, nella quale contemporaneamente il soggetto si sente un tutto e un niente (ibidem, p. 45), si ribadisce un altro principio dell’ebraismo, quello secondo cui «l’autorità risiede sempre in figure del passato dell’individuo» (ibidem, p. 60), nel padre, per esempio, che, ne L’angoscia dell’influenza, diventa lo scrittore del passato la cui autorità massimamente attrae e pesa. 10 «In quanto americani siamo tutti in qualche misura compartecipi della Religione Americana, per inconsapevole o involontaria che sia tale condizione», scrive Bloom nella Religione Americana, op. cit., p. 26. 9
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dialogo con Esso11, concezione questa che lo stesso Bloom, spostando l’accento altrove, riconosce d’ascendenza gnostica: nello gnosticismo, egli spiega, «l’umanità porta dentro di sé la scintilla ovvero il soffio del non-creato da Dio, e questa scintilla può ritrovare il suo cammino a ritroso verso il non-creato, il non caduto, attraverso un atto di conoscenza che si compie nella solitudine individuale».12 L’irriducibilità dell’io a qualsiasi contestualizzazione – che pervade dunque, secondo Bloom, l’intera religiosità americana grazie all’incontro di misticismo ebraico, gnosticismo e trascendentalismo emersoniano – fonda non soltanto l’orizzonte culturale entro cui il critico si muove, ma ne indirizza lo stesso metodo, sia riguardo al convincimento di ragionare sul canone in modo preideologico13 e sia in relazione alla Ibidem, p. 11. H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p. .24. Questa verità diventa americana grazie a Ralph Waldo Emerson: «L’essere dell’uomo, in Emerson, non è [...] costituito dalla storia, dalla società, dal linguaggio. È originario» (Id., Il genio, op. cit., p. 32). 13 Scrive Bloom: «Non riesco a individuare nessuna connessione interiore tra qualsivoglia gruppo sociale e le modalità specifiche con le quali ho trascorso la vita a leggere, ricordare, giudicare e interpretare» la letteratura, e ciò – aggiunge - in quanto «l’io individuale è l’unico metodo e l’intero metro di misura» che ho usato per la mia ricerca (Il canone occidentale, op. cit., pp. 19-20). 11 12
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pretesa «irriducibilità» dell’«estetico» (nel Canone) e dello «spirituale» (nella Religione Americana), irriducibilità che trovano appunto ragione nell’irriducibile per eccellenza, in quell’io profondo che «si definisce solo di contro alla società».14 Quest’ultima prospettiva – non certo distante dall’esaltazione rousseauiana del «buon selvaggio» e alla critica del filosofo francese allo Stato di diritto presenti nel Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza; e in perfetta sintonia, inoltre, con «il dualismo ebraico», che si rende effettivo agonicamente «entro l’io» nella contrapposizione esteriorità vs interiorità15 – ritorna in un passo della Religione Americana, allorché propone un’idea di soggettività divisa, riconoscibile in Song of Myself di Whitman, là dove il poeta, pur accettando di essere «l’uomo nudo che perennemente si fonde con il gruppo», resiste alla tentazione di annullamento totale, lasciando così intravedere un io più ‘vero’, più profondo del primo, un io «assolutamente fragile, sempre in latenza», e, appunto per ciò, irriducibile a qualsiasi mediazione storica.16 È a Ibidem, p. 20. H. Bloom, Kafka, Freud, Scholem, op. cit., rispett. p. 61 e p. 63. 16 H. Bloom, La Religione Americana, op. cit., p. 23. 14 15
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quest’ultimo che Bloom si rivolge quando, additando ai lettori i libri da salvare dall’oblio, in verità promette loro il farmaco di un nuovo vigore, che agisca dall’interno, alimentando «la scintilla» divina che è in ciascuno di noi.17 Una prima sintesi del pensiero bloomiano potrebbe essere la seguente: sotto il profilo ideologico-esistenziale riconosciamo, allo spirito ribelle di quest’uomo – che ha dichiarato guerra alla «Scuola del Risentimento: femministi, marxisti, lacaniani, neostorici, decostruzionisti, semioticisti» e alla civiltà di massa americana, accusata di amare più Batman e Spiderman di Shakespeare – il fatto di essersi inconsapevolmente conciliato con l’anima integralista della civiltà statunitense, protesa alla guerra santa contro «tutto ciò che mette in discussione l’essenza e le prerogative del sé, inteso come criterio universale di giudizio dell’essere e del suo valore», come egli ebbe a dire a proposito della «guerra di religione» intentata da George Bush senior nei confronti dell’Iraq.18 E d’altro canto è
In totale accordo con Emerson e con la dottrina gnostica (che nella Religione Americana riconduce, non a caso, ad una matrice ebraica; cfr. p. 24). 18 Ibidem, pp.11-12. 17
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altresì evidente, da quanto scritto finora, che qualsiasi canone proposto da un critico di professione, fondandosi sulle risorse che il pubblico e il privato mettono a sua disposizione, non può che essere espressione di una società letteraria in stretto dialogo con il sistema socio-economico che la sostiene: dialogo il cui peso si misura in termini di potere editoriale, successo di uditorio, amicizie importanti, spazio mass-mediale. In questo senso, possiamo parafrasare, relativamente al canone, quanto egli riferisce alle opere letterarie: qualsiasi canone, che riesca a sopravvivere all’oblio, ha legittimità storica per essere considerato di valore,19 con l’ovvia aggiunta secondo la quale la civiltà che lo conserva e lo divulga, non agisce in nome della salvaguardia dell’estetico, bensì per il rafforzamento politico della propria esistenza.
In questo senso, e riprendendo un assunto del capitolo precedente, il canone tramandatoci dalla tradizione – quale frutto, sempre provvisorio, dell’incontro / scontro fra l’esigenza del ceto dominante di un’autorevole genealogia e la molteplicità delle proposte storiografiche – è, più profondamente, l’effetto di un tentativo non riuscito di nullificazione dell’opera da parte della critica, che così fallendo pone la condizione sine qua non affinché l’opera sia mantenuta nel circuito della comunità interpretante e, dunque, in un agone dagli esiti potenzialmente canonici. 19
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Differente appare invece la questione se la osserviamo dal versante della finitezza, concependo il canone non quale risultante di un compromesso con la civilizzazione, bensì quale espressione ontologica della singolarità: in questo caso infatti, costruire una tradizione in cui riconoscersi, significa mettere il proprio esser-già-sempre-comunità in un dialogo essenziale con l’apertura in cui ci si trova ad essere e con la memoria che essa ha custodito. Ecco, io credo che sia a partire da questo transito finito, messo in gioco sino in fondo dall’opera, che la domanda sul canone debba essere posta, se vogliamo pensarlo svincolato tanto dall’indole didattico-pedagogica e ideologica, quanto dalla vocazione evoluzionista implicite in qualsiasi canone che sia ‘racconto dei vincitori’, che giustifichi insomma la propria necessità quale fiore e frutto di un percorso storico univoco. Ciò significa – per non capovolgere semplicemente la prospettiva, costruendo degli anticanoni sofferenti della medesima ineluttabilità dei precedenti – rinunciare alla pretesa di mettere ordine assiologico alla molteplicità delle voci, per lasciarle fecondamente libere di partecipare alla disseminazione dialogico-conflittuale che ciascuna
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apertura sostiene, e semmai porgere maggiore attenzione a quelli che potremmo definire i canoni personali, ossia quei tentativi della singolarità (in gran parte inconsapevoli) di sanare il proprio immemorabile esilio originario, rimettendosi ad una rosa di nomi memorabili. Naturalmente a patto che tale rosa sia espressione di ricerca assidua e dedizione, di scommessa che copre una vita intera, come appunto nel caso del professore americano, o di scelta di campo per vocazione letteraria, come in Gertrude Stein. Per questa ragione i canoni personali, più che confutarli, mostrarne i limiti, le influenze e gli interessi (inevitabilmente presenti), conviene anzitutto studiarli, nella convinzione che questo contribuisca a fornire ulteriore chiarezza intorno al rapporto scrittura e ontologia in una specifica singolarità. Nella fattispecie, ciò significa comprendere l’urgenza che esercita su Harold Bloom l’Inizio fondato da Shakespeare, il primo autore moderno, a suo dire, davvero consapevole che «poesia è angoscia dell’angoscia» e che, a muovere la letteratura, è la ribellione «contro la coscienza della
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necessità della morte»,20 un’urgenza che gli fa ricondurre l’autorevolezza del Canone a quegli autori che non hanno scritto spinti dal desiderio di liberarci dalla verità dell’essere mortali, bensì dal bisogno di dare «forma e coerenza» ad essa:21 compito perfettamente realizzato da Shakespeare, il cui merito fondamentale, ci racconta Bloom, allievo modello del «dottor Samuel Johnson», consiste nell’aver tradotto in linguaggio la complessa sfaccettatura dell’io fragile e profondo di ciascuno, di aver creato insomma uomini fatti «di parole», l’uno differente dall’altro, ma tutti emblemi della «mutabilità» umana, di quella particolare facoltà che ci consente di diventare altro da ciò che eravamo, attraverso l’ascolto delle nostre paure e dei nostri desideri, come accade ad Amleto, «il massimo autoorigliatore di tutta la letteratura».22 E proprio per questa ragione Amleto diventa il modello di uomo dell’Occidente, l’unico «ambasciatore di morte [...] che non ci menta circa il nostro inevitabile rapporto» con essa, rapporto che «è affatto solitario,
H. Bloom, L’angoscia dell’influenza, trad. it. Mario Diacono, Torino, Feltrinelli 1983, rispett. p.99 e p. 18. 21 H. Bloom, Il canone occidentale, op. cit., p.467. 22 Ibidem, pp. 41-42. 20
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nonostante tutti gli osceni tentativi della tradizione di socializzarlo».23 Interessante sarebbe a questo punto, per approfondire ulteriormente la questione, confrontare questo convincimento con la certezza, espressa più volte dal critico, che comunque un punto immutabile ed eterno esiste ed è quel Dio americano (invero ebraico/gnostico e, in seconda istanza, americano), che «ama, uomini e donne, in modo assolutamente personale e diretto».24 In questa doppia circolarità, che vede nella finitezza le ragioni della scrittura e che invita a stare in prossimità con l’Origine attraverso un dialogo solitario e mai esaustivo con Essa, si gioca probabilmente il canone personale bloomiano: origine che è Dio, ma anche, per quanto riguarda la cultura occidentale, Shakespeare, il quale ci insegna sia «a prestare orecchio a noi stessi quando con noi stessi parliamo» e sia «ad accettare il cambiamento», compreso quello definitivo, cui Amleto è «ambasciatore». In questo senso, Shakespeare stesso
Ibidem, p. 27. Si vedano i medesimi concetti espressi in H. Bloom, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, trad. it. Roberta Zuppet, Milano, Rizzoli 2001, pp. 19-36 e pp. 267-321, e Il genio, op. cit., pp. 38-55. 24 H. Bloom, La religione americana, op. cit., p. 13. 23
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diventa l’ambasciatore di Dio, il suo angelo annunciante, colui che, creando personaggi memorabili, predispone i mortali all’ascolto della voce silenziosa dell’Assoluto. Anche il paradigma dell’angoscia d’influenza, che pure esiste nella pratica quotidiana di qualsiasi autore, mi sembra nasca da un’esigenza interiore dello stesso Bloom, quella di spogliarsi di tutte le voci derivate, dal loro rumore assordante, di cui evidentemente sente l’angoscia d’influenza (penso ad Emerson, a Whitman, a Nietzsche, a Freud, a Samuel Johnson, ma soprattutto a Shakespeare), per abitare finalmente nella quiete dell’io profondo, là dove la Parola di Dio risuona nel suo massimo splendore. E questa Parola altro non dice, appunto, che la finitezza dell’esserci, che il critico del Canone ritrova nella grande tradizione occidentale, senza tuttavia rendersene conto pienamente (ché, altrimenti, non avrebbe escluso da esso nomi eccellenti: Leopardi, per esempio, puntualmente inserito nel Genio, quale poeta che «vede la vita come un abisso nel quale oscilliamo continuamente tra il nulla e la noia»).25
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H. Bloom, Il genio, ed. cit., p.472
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Che sia la finitezza a muovere alla scrittura (e che dunque la scrittura altro non sia che l’estrema risposta e sfida ad essa) credo che appartenga alle verità già da sempre acquisite da Bloom nell’immediatezza del suo dialogo con Dio, di quel Dio ebraico la cui verità antico-testamentaria – come nel Canone ci precisa, mutuando l’idea dall’amico Jack Miles – è nata dalla parola ironica di una «donna ittita», quella Betsabea madre di re Salomone, che Lo ritrae «geloso e vendicativo» nonché affetto da una «notevole dose di ansia nevrotica»,26 Un’ipotesi questa del «Redattore J» femmina certamente in odor d’eresia (che nel Genio, con grande azzardo ermeneutico, cerca persino di fondare) e che Bloom comunque ci propone con il sorriso sulle labbra, in un gioco ironico e autoironico che rientra, mi sembra, nelle regole dialogiche personalmente istituite con Dio, al pari dell’altro ebreo newyorkese, quel magnifico irriverente verso tutto e tutti che è Woody Allen, anch’egli, non a caso, figlio ispirato del grande umorista ebreo-americano Groucho Marx.27
Ibidem, p. 4. Scrive Harold Bloom a pagina 462 del Canone, a mezzo tra la mossa scacchistica che vuole sorprendere e la confessione disarmata di un vizio assurdo: «Io sono un vero critico marxista, seguace di Groucho più che di Karl». 26 27
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2. Il canone generazionale di Gertrude Stein
La prosa steiniana, che poggia su quella jamesiana come su di un piedistallo dal quale forgiare l’inaudito, avverte in generale l’obbligo di pensarsi conseguente alle strutture grammaticali, sintattiche e storiche della lingua inglese, secondo una prospettiva filosofica che ha radice tuttavia nell’idealismo tedesco: assumendo implicitamente la tesi innovativa delle lezioni berlinesi di Hegel, in Che cos’è la letteratura inglese? la Stein riconosce infatti la stretta relazione fra sviluppo storico e dimensione geografica, in un disegno che procede da Oriente ad Occidente e che esclude dal processo intere parti della terra; dalla Fenomenologia, filtrata dal trascendentalismo di Emerson e Whitman, muta invece la convinzione che il discorso sullo Spirito sia, in qualche misura, il discorso dello Spirito, tanto da rivendicare il superamento del «paragrafo» jamesiano quale necessità ineluttabile a cui ella non può sottrarsi;28 ma poi, contraddittoriamente, si In Che cos’è la letteratura inglese?, Gertrude Stein riconosce infatti, alla propria opera, il merito di aver detto l’ultima parola sulla (e della) letteratura anglo-americana, il cui penultimo maestro era stato Henry 28
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dimostra lontanissima dal riconoscere la coincidenza, nel presente, di ideale e reale, di storia e ragione, aprendo invece la scrittura ad una contemporaneità frantumata in mille rivoli governati dall’interesse, a cui contrapporre, adialetticamente, l’autenticità dell’ispirazione: bisogna «servire dio», non «mammone», scrive alla fine della conferenza citata. Tale intendimento si concretizza, in C’era una volta gli americani, nel mostrare la realtà così com’è (vera nella sua schiumosa irritabilità), e soprattutto nel descrivere, come già aveva fatto Whitman in Foglie d’erba, gli uomini e le donne che in essa amano, camminano, mangiano, pensano, ridono, fanno famiglia; uomini e donne americani, nel cui spirito vagantivo la stessa Stein si riconosce pienamente: «Sentivo questa cosa, sono americana e sentivo questa cosa [...] E questa è la ragione per cui dopo tutto questo libro è un libro americano un libro essenzialmente americano, perché questa cosa è essenzialmente americana questo senso di uno spazio di tempo e ciò che va
James, genio del paragrafo «fluttuante»; dopo di lui - afferma - «arrivai io e dovetti fare con il paragrafo più di quanto fosse mai stato fatto». In Gertrude Stein, Conferenze americane, trad. it. Caterina Ricciardi e Grazia Trabattoni, Lucarini, Roma 1990, p.40.
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fatto all’interno di questo spazio di tempo non in un modo qualunque eccetto che nel modo che è inevitabile che ci sia questo spazio di tempo e chiunque che sia un americano sente ciò che [gli uomini e le donne] fanno all’interno di questo spazio di tempo».29 La provocazione linguistica steiniana – presente nelle prose (a partire dal racconto Melanctha Herbert), nelle poesie ed anche nelle Conferenze – non è dunque premessa formale al cambiamento sostanziale del sistema, e soltanto apparentemente gioca il proprio senso nella «registrazione e disvelamento della paranoia», come scrive Barbara Lanati a proposito di A Saint in Seven;30 anche tale acquisizione, infatti, mi pare si giustifichi nella ripetizione mimetica dei tic linguistici dei suoi conterranei, tic considerati vere e proprie aperture dell’essere nella contemporaneità. Aperture spontanee, «composizioni» in cui la storicità dell’essere si mostra senza sforzo, e che la scrittura steiniana si incarica di riprodurre-ricreare nella
G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.81. 30 Barbara Lanati, L’avanguardia americana, tre esperimenti: Falkner, Stein, W.C.Williams, Einaudi, Torino 1977, p.101. 29
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pagina, nella sua irresistibile modulazione ritmica e fonosimbolica: «Iniziai [...] a pensare alla natura di fondo nelle persone, iniziai ad essere enormemente interessata a udire come ognuno diceva la stessa cosa più volte con infinite variazioni ma più volte finché alla fine se ascoltavi con grande intensità potevi udire che si alzava e cadeva e raccontava tutto ciò che c’era dentro di loro, non tanto attraverso le effettive parole che dicevano o i pensieri che avevano ma attraverso i movimenti dei loro pensieri e delle loro parole infinitamente gli stessi e infinitamente diversi».31 La verità dell’equivalenza: tic linguistici / apertura dell’essere nella contemporaneità, e il conseguente consenso della Stein alla middle class32 americana, acquistano maggiore evidenza allorché teniamo conto del ruolo che ella attribuisce alla prospettiva generazionale e, più complessivamente, al rapporto realtà-parola. Scrive a tal proposito in Composizione come spiegazione, che «ogni generazione ha qualcosa di diverso da guardare» ed è per questa
G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in ID., Conferenze ecc., ed. cit., p.69. 32 Sull’argomento cfr. Barbara Lanati, Introduzione a G. Stein, C’era una volta gli americani, Einaudi, Torino 1979, p.XII. 31
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ragione che la «composizione» cambia; eppure, aggiunge subito dopo, le cose sono più complesse giacché: 1) soltanto nella composizione il proprio tempo si lascia conoscere; 2) la generazione, componendo, si conosce, e cioè conosce il proprio modo di guardare le cose che cambiano.33 Questa circolarità senza punto di inizio e senza via di uscite – che ha il suo fuoco nella «composizione» orale e scritta, già spontaneamente presente nelle relazioni linguistiche di una data apertura storica – definisce ed organizza i modi di concepire l’individuo, la generazione, l’epoca, costituendo in tal senso la verità dell’essere in un determinato punto della sua avventura spaziotemporale. In questa prospettiva – che fa coincidere la verità dell’essere con il punto di vista generazionale e, quest’ultimo, con l’ottica della classe media americana – il consenso verso l’esistente non può che essere inevitabile. Un consenso, tuttavia, eticamente vincolato allo scrivere dal margine buono del reale, da quello che non è disposto a compromessi né con il potere né G. Stein, Composizione come spiegazione. In Id., Conferenze americane, ed. cit., p.4. Ma si veda anche, nell’edizione lucariniana, Ritratti e ripetizione, pp.83-108. 33
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con la propria ispirazione: «servire dio», appunto, non «mammone». In questa coerenza con se stessi e con un certo modo puritano di pensare il rapporto fra autenticità, scrittura e sottomissione individuale, la Stein legge il proprio canone necessario, la propria sorellanza con il destino della scrittura anglo-americana, il cui presente lei è, appunto, convinta di «comporre». È a questo livello che il canone, da potenzialmente fisiologico, diventa personale, espressione della singolarità, la quale finalmente si realizza in esso e nella geografia che esso descrive, senza nostalgie per l’altrove. Nella Stein, la smemoratezza dell’Inizio che procura ontologicamente l’esilio della singolarità, viene infatti compensata (e parzialmente sanata) dalla certezza di essere al centro del processo reale, ricostruito rammemorando una tradizione considerata necessaria, capace di giustificare il suo essere qui-ora, in un presente, quello americano, dal valore sacrale, ri-detto verbalmente nel present continuous anglosassone. Tale forma, infatti, traduce grammaticalmente la certezza della Stein d’essere al «centro del mondo», in quell’America baciata dal destino in cui il tempo della vita esula dalla misurabilità ordinaria (gli americani, scrive in Che
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cos’è la Letteratura inglese?, «non vivono ogni giorno. E siccome non vivono ogni giorno non hanno il vivere quotidiano»),34 offrendosi invece quale spazio-tempo, geografia e storia che si fondono in una dimensione altra (sacra, direbbe Eliade) che soltanto il «paragrafo fatto a pezzi» può ri-creare. Poco importa se, biograficamente, la scrittrice opera a Parigi, a fianco a fianco con i migliori artisti della sua generazione; la terra che le respira dentro, con la quale sente d’essere impastata e che parla attraverso la sua scrittura, è, e rimane, l’America, ovunque lei sia: di questo ne è fieramente convinta, prima di qualsiasi scelta avanguardistica. A ragione Pavese, nelle note all’Autobiografia di Alice Toklas, ricondusse tale debito alla lezione di Walt Whitman, fermo sostenitore «di una mistica realtà incarnata e imprigionata nella parola».35 Realtà e parola che tuttavia nella Stein non fondano alcunché, dipendendo a loro volta da quell’io singolare/plurale, la cui duplicità non ha gerarchie: un io in comunione con tutti – fortissimo in C’era
G. Stein, Che cos’è la letteratura inglese, ed. cit., p.37. Cesare Pavese, note a Autobiografia di Alice Toklas, trad. it. C. Pavese, Einaudi, Torino 1938. Poi in Id., Saggi letterari, Einaudi, Torino 1951, 1982, p.154. 34 35
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una volta gli americani, romanzo progettato quale storia di tutti quanti e, al tempo stesso, «storia di ognuno»36 – ed un io solitario, che in Whitman assume le vesti femminee «di notte, morte, madre, mare» (H. Bloom, Il canone occidentale) e che viceversa nella Stein si configura quale principio maschile, un io distruttore e creatore insieme, che adegua la scrittura, frantumandola, ad un reale frastagliatissimo e mobile, per poi ricomporla e ancora scomporla, in un perpetuo cominciamento, che allude al farsi stesso dell’essere, colto nel suo inarrestabile fiorire spazio-temporale. Un’evidenza, questa, che affonda le radici non soltanto nella grande tradizione inglese (si pensi al Tristram Shandy sterniano), ma anche, appunto, nella singolarità della scrittrice, in quel suo essere in un certo modo, che al tempo stesso è già-sempre-comunità (quell’essere «ognuno» prima nominato) e unicità irripetibile, che si concretizza nel sentirsi al vertice di un processo inaugurato da Geoffrey Chaucer, preumanista figlio di commercianti inglesi, uomo dunque della classe media nella quale, l’abbiamo detto, la Stein si riconosce, giacché per lei classe media significa G. Stein, Il fare graduale di The Making of Americans, in Id., Conferenze ecc., ed. cit., p.72. 36
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«popolo», gente comune di cui fidarsi, come già, in Italia, avevano scritto sia il Denina che il Berchet agli albori della civiltà borghese.
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Da Blanc de ta nuque. Uno sguardo
(dalla rete) sulla poesia contemporanea. 2006-2011
italiana
(Le Voci della Luna, Sasso Marconi 2011, pp.270)
Poesia e Blog
1. Canone e autorevolezza della rete
Questo saggio nasce dalle ceneri di un gossip letterario, nato su autorevoli quotidiani nell’agosto 2006, per l’intrattenimento marinaro dei lettori annoiati sotto gli ombrelloni. La questione è nota (ma forse già dimenticata); così la riassume, a caldo, Claudio di Scalzo su TELLUSfolio: «Tutto parte da un’intervista, registrata da Florinda Fusco, dove Nanni Balestrini afferma che “Per fortuna c’è Internet che permette di far circolare ovunque, e rapidamente ed economicamente, le poesie di tutti”. Prosegue rilevando il magma che compare sul web, la pazienza che ci vuole per trovare gli autori validi
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ma anche la possibilità di dialogo con chi scrive usando siti personali e blog e mail e così via. [...] Successivamente Paolo di Stefano, sul Corriere della Sera [...] ha chiesto l’opinione sulla questione al poeta Giuseppe Conte che orficamente ha tagliato la testa al ragionamento di Balestrini ravvisando nei poeti da web degli “esibizionisti” conditi con “materiale inerte”. [...] Da queste lamentele di individui ben nutriti e allattati dall’editoria prende il via Umberto Eco sull’Espresso (17 agosto, 2006: "Dove mandare i poeti") [...] il quale afferma – chiosando i conti di Conte sulla residua nobiltà di Madama Poesia – che il corpo della meschina sul web è composto da dilettanti senza arte né parte e che neppure può essere selezionata non esistendo la severità di riviste di settore atte a farlo – come un tempo la gloriosa Fiera letteraria – e dunque che forse è il caso di non dare troppo spazio a questo oceano nelle stanze della cultura». Sul tavolo, dunque, una questione complessa, giacché coinvolge la neoalfabetizzazione informatica, l’utilizzo di internet quale via per l’apprendimento e l’aggiornamento continui, l’identificazione generica di poesia lirica e interiorità,
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il proliferare incontrollato della poesia in rete. Proliferare che spesso ignora tradizione e convenzioni fornite dalla società letteraria, la quale perde così d’autorevolezza e dunque di potere sulle magnifiche sorti e progressive della poesia. Ma non di questo si vuol discutere qui: non della necessità di controllare la poesia in rete; non del sarcasmo dei poeti e dei critici laureati (e neanche dei disarmanti limoni poetici che si possono leggere navigando); e nemmeno si intende verificare per quale singolare sorte, la poesia (epica, didascalica, satirica, burlesca, epigrammatica eccetera) sia diventata (quasi esclusivamente), nella modernità, poesia lirica. Qui piuttosto si cercherà di informare intorno al fenomeno poesia italiana nei blog e di interrogarsi sulla relazione fra il canone tout court e alcuni poeti particolarmente seguiti in rete. Come molti sanno, il termine anglosassone «blog» deriva dalla contrazione di «web» con «log» (quest’ultimo rinvia alla forma-diario, il logbook, appunto). Si tratta di una pagina infinitamente lunga, fornita spesso gratuitamente da un hosting (Splinder, Blogger, Wordpress, Blogitalia etc.) nella quale ciascuno può inserire, oltre a collegamenti con
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altri siti (links), testi, foto e, se tecnicamente esperto, audio e video. La particolarità del blog, a differenza dei siti genericamente intesi, sta nella possibilità data a chiunque di commentare il testo pubblicato, con tutti i rischi e i vantaggi che ciò comporta: sabotaggi linguistici da un lato, occasione di incontro e confronto dall’altro. Pare che – in generale – ci siano più di 60 milioni di blog nel mondo e che, negli ultimi 12 mesi, siano state pubblicate circa 5 milioni di poesie (non sempre inedite, e talvolta le stesse in differenti siti). In Italia, sono almeno 1000 i blog che mettono la poesia in primo piano. Per dare le giuste proporzioni al fenomeno, è necessario tuttavia riprendere un dato riferito da Vincenzo della Mea al Workshop “Internet e poesia” di Bazzano (28 aprile 2007): analizzato il traffico del maggio 2006 in otto blog qualificati, risulta che, su un totale di 2761 commenti, ben 2256 sono opera di soli 37 soggetti. Vero d’altro canto che i puri lettori sono molti in rete; nel mio blog, per esempio, commenta meno del 15% dell’utenza giornaliera, che si aggira sul centinaio di unità (dei passaggi senza commento, almeno la metà sono fatti da navigatori occasionali o capitati accidentalmente nel blog). Quei 15 utenti,
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assidui frequentatori di Blanc de ta nuque, fanno invece parte di un gruppo abbastanza omogeneo di soggetti attivi nei maggiori blog poetici, che probabilmente non supera il centinaio di persone, dall’età media superiore ai trenta, di cultura medioalta e equamente spartite fra maschi e femmine. Per quasi tutti questi navigatori, un sicuro punto di riferimento lo forniscono AbsolutePoeGATOR (che assembla anche blog internazionali e legati alla narrativa) e PoEcast, un sito aggregatore specializzato nella poesia, nato nel luglio 2006 e ideato da Vincenzo Della Mea (poeta e ricercatore informatico presso l’Università di Udine - facoltà di Medicina e Chirurgia), che va progressivamente infoltendo gli indirizzi di riviste on line e soprattutto blog (nel complesso, al maggio 2007, una quarantina). Senza entrare nel dettaglio, fra questi possiamo trovare il grande vivaio della poesia lineare del XXI secolo, ma anche accese discussioni di poetica, di critica e di letteratura comparata; in alcuni blog è possibile ascoltare la voce dei poeti (poco esiste, invece, riguardo alla poesia performativa), in altri esaminare pagine ormai introvabili del cartaceo (per esempio articoli di riviste degli anni Settanta-Ottanta) o leggere poeti
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che, per diverse ragioni, non sono riusciti a rimanere a galla nell’editoria cartacea. Ma la vera novità rispetto agli spazi tradizionali è, come detto, il dialogo sostenuto nei commenti, un dialogo nel quale, come relaziona lo psicoanalista Marco Longo al Convegno World Psychiatric Association “Massmedia e salute mentale” svoltosi a Firenze il 4 - 5 Ottobre 2001, a proposito delle dinamiche di gruppo in rete, «si assiste al costituirsi di una "scena", in cui ben presto si riconoscono gli attori principali, le comparse, il coro, il pubblico (lurkers); oppure si assiste alla "messa in scena" di aspetti della personalità dei singoli partecipanti, cosa evidentemente di volta in volta favorita dal particolare contesto dinamico che si viene a creare in ogni gruppo mediatico». Tenendo conto dei dati sinora espressi, possiamo dunque concludere che in Italia, negli ultimi due anni, si è formata una blogsfera poetica molto vivace, composta di 30-35 blog militanti e frequentata assiduamente da un centinaio di persone, alle quali si devono aggiungere altri 80 100 lettori occasionali altrettanto competenti, ma che raramente commentano.
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Entro questa cornice, ho voluto verificare quali autori fossero più spesso postati, recensiti, commentati, così da individuare una possibile corrispondenza con il canone contemporaneo, inteso quale rosa di nomi eccellenti imposti/proposti dalla società letteraria a cui è stata riconosciuta autorità. A tal fine, ho contattato 27 bloggers interni all’aggregatore di PoEcast, chiedendo loro di indicarmi gli autori viventi sui quali, tra il febbraio 2006 e il febbraio 2007, hanno scritto in rete e/o sul cartaceo con maggior convinzione. Hanno risposto in diciassette, fornendomi un ventaglio di 189 nomi: fra questi, ci sono autori canonizzati dai grandi editori (A. Anedda, P.L. Bacchini, F. Buffoni, A. Ceni, M. De Angelis, G. D’Elia, L. Erba, V. Magrelli, G. Majorino, E. Pagliarani, G. Pontiggia, A. Riccardi, A. Zanzotto); nomi presenti in antologie di piccoli editori e/o “militanti” (C. Annino, M. G. Calandrone, B. Cepollaro, F. Davoli, P. Di Palmo, F. Ermini, G. Fantato, A. M. Farabbi, M. Ferrari, N. Gambula, M. Giovenale, E. Grasso, M. Gualtieri, R. Lo Russo, G. R. Manzoni, G. Mesa, M.P. Quintavalla, R. Teti, I. Travi), e giovani autori noti ormai al pubblico della poesia tout court (T. Cera
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Rusco, M. Desiati, P. Fichera, M. Fantuzzi, F. Fusco, F. Matteoni, D. Nota, A. Ponso, M. Sannelli, F. Santi, F. Serragnoli, S. Ventroni, M. Zattoni). Moltissimi di questi tuttavia non frequentano la rete o lo fanno saltuariamente; circostanza che, nella blogsfera, diventa discriminante: se infatti verifichiamo chi ha ricevuto almeno 3 voti, a rimanere a galla sono soltanto Milo De Angelis e Massimo Sannelli (blogger esso stesso), accompagnati da autori meno noti altrove, ma attivissimi in rete ossia interni a quel centinaio di lettori-commentatori prima indicati. Oltre al mio nome (scelta prevedibile perché nata nell’alveo di un’amicizia che ha mosso, fra l’altro, questa ricerca) sono stati indicati: L. Ariano, C. Babino, F. Centofanti, F. Cerrai, V. della Mea, G. Pepe, D. Raimondi, C. Sinicco, S. Aglieco, F. Alborghetti, G. Fabbri, F. Marotta, S. Massari, A. Padua e A. Pizzo. La prevedibile non corrispondenza fra Canoni ufficiali e poeti premiati dai blog offre lo spunto ad alcune considerazioni di merito, a cominciare da quella riguardante la differente natura dei due sistemi. Il criterio d’eccellenza determina infatti l’indole selettiva ed elitaria del canone, mentre i blog, essenzialmente inclusivi e senza proprietà,
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sono spazi colonizzabili dal basso, attraverso la libera iniziativa e la cooptazione amicale (l’organizzazione delle antologie segue invece regole più complesse, legate al do ut des editoriale, accademico e ideologico, oltre che a scelte d’appartenenza poetica). Anche le finalità sono differenti: non sarebbe difficile dimostrare come le società del capitalismo avanzato, attraverso il canone nazionale dominante, si sforzino di consegnare un’immagine affidabile di sé ai posteri e cerchino in esso un rispecchiamento che sia tendenzialmente edificante, appunto perché gerarchizzato e ordinato, mentre i blog sono un arcipelago che agisce orizzontalmente e si espande per via centrifuga, un arcipelago anarchico che rivendica autorevolezza senza chiedere deleghe alla società letteraria, la quale, dal canto suo, non ha interesse ad intervenire nella questione perché ritiene il cartaceo una tappa più prestigiosa del virtuale e sa che questo è il sentire anche della maggior parte degli internauti. Per questa ragione, fra l’altro, gli autori canonici non muovono un dito per essere inclusi nei blog, con ciò amplificando la sensazione che questo spazio libero ed autogestito si stia sempre più rivelando incapace di interagire
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con le istituzioni territoriali (che hanno un ruolo evidente nella selezione autorevole), mentre la spinta alla verticalizzazione, alla gerarchia meritocratica – nella misura in cui consente di far emergere i valori in campo – pare appunto un’esigenza degli stessi poeti in rete. Questi differenti aspetti mantengono dunque separati i due ambiti, quello che persegue il modello di tradizione autorevole e la spartizione del potere attraverso l’emblema letterario, e la blogsfera, che sponsorizza se stessa e i propri autori, in una circuitazione autoreferenziale assai frustrante. Un aiuto, in questo senso, potrebbero darlo le grandi case editrici, se gestissero, ciascuna per proprio conto, uno spazio virtuale, che facesse da interfaccia tra il libro e il dattiloscritto, tra il riconoscimento pubblico di valore e il laboratorio di autori in fieri. Ciò consentirebbe maggiore visibilità ai poeti stimati in rete perché obbligherebbe gli editori a frequentare i blog, così da poter selezionare un ventaglio maggiore di autori appetibili. L’autorevolezza e, paradossalmente, la visibilità sono infatti gli anelli deboli della blogsfera, se, come pare, i blog catalogati da PoEcast e da AbsolutePoegator sono qualificati soltanto per l’utenza internauta e se, come
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detto, questa non arriva complessivamente alle 200 unità, laddove il pubblico della poesia in cartaceo è perlomeno dieci volte tanto. Vero del resto che gli autori premiati nei blog non stanno a guardare, avendo ognuno pubblicato più di un libro (anche grazie alla piccola editoria di qualità, che promuove autori spesso formatisi nelle palestre-blog) e collaborando attivamente con le riviste in cartaceo. È proprio a questi due livelli che le obiezioni avanzate da Conte e Eco s’indeboliscono. L’esibizionismo lamentato dal poeta ligure, infatti, che pure esiste in rete, viene smentito dalla qualità dei libri pubblicati e dalla personalità degli autori citati, che bene emerge nei blog; così come la mancanza di una “Fiera letteraria”, che orienti i lettori, viene in parte superata dall’autorevolezza degli aggregatori e dal tam tam messo in moto dai meeting recentemente svolti. Qualcuno potrebbe rimarcare il divario tra l’eccellenza dei nomi che parteciparono alla Fiera e il parziale anonimato dei poeti e dei critici che alimentano la discussione e l’arte nei blog. Difficile contestare; tuttavia si leggano alcune intense discussioni avvenute in Poesia da fare o in Absolutepoetry o in LiberInVersi e la distanza s’accorcerà, ne sono sicuro.
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2. Meeting
Da qualche tempo la comunità nomadica dei bloggers si sta muovendo alla ricerca del sacro Graal che faccia finalmente fiorire la desolata terra editoriale, devitalizzata dall’accademia e dalle corporazioni. Si sono mosse per prime Macerata (luglio 2006) e Foggia (dicembre 2006), per verificare lo stato delle cose nella blogsfera. Matteo Fantuzzi, ospitato dagli atti foggiani (al momento ancora inediti) descrive il variegato mondo della poesia in rete, mettendo in rilievo le differenti finalità dei singoli blogger e la specificità anche geografica di alcuni indirizzi (vedi i poeti marchigiani legati all'esperienza de La Gru), giungendo alla medesima conclusione dell’incontro di Macerata, ossia alla necessità «di reindirizzare alla carta» il lettore e la poesia. Gli interventi di Macerata hanno infatti visto l’esperienza-blog come «immagine e tappa di un nuovo sviluppo collaborativo, non proselitistico, che poi si andrà a concretizzare in una diffusione più ampia, cartacea e di presenza in corpore, cioè di conoscenza e di relazioni de visu, al fine di varare un organo
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divulgativo concreto e di organizzare sempre più incontri, festival e attività di matrice letterarioartistica” (Orgiazzi – Manzoni). Recentissimamente, a Monfalcone, entro la cornice dei Cantieri internazionali di Poesia (a cura di Lello Voce), si è svolto l’Absolute BlogMeeting, il cui verbale, redatto da Massimo Orgiazzi, si può leggere su L'Attenzione, che fra l’altro ha impostato l’intero numero 7 (aprile 2007) sul «rapporto tra letteratura e internet». Preso atto dei tre momenti, all’ultimo dei quali ho partecipato, ecco le mie considerazioni: 1) Tenendo conto che gli inviti a Foggia e a Macerata sono stati assai selettivi e che all’incontro di Monfalcone sono mancati circa il 40% dei bloggers che avevano dato l'adesione, mi sembra inevitabile supporre quanto ancora ci sia da costruire, tra gli operatori, in merito ai concetti di relazione e confronto; 2) A Monfalcone, i relatori sono comunque riusciti a far convergere le aspettative attorno ad un’idea che, pur faticando a concretizzarsi, mi sembra interessante: quella di creare un 237
luogo virtuale autorevole (per esempio una newsletter) nel quale compaia il meglio dei blog, così da orientare il lettore medio. La cosa non è tapina anche se, come rileva Alessandro Ansuini in un commento alla relazione di Orgiazzi, si rischia di ripetere il modello canonico della tradizione cartacea, quando invece – a suo dire e, come abbiamo visto, anche nelle aspettative foggiane e marchigiane – il vero problema è quello di «convogliare chi frequenta la rete in punti di incontro sempre più numerosi, come questo blogMeeting, come le letture, i reading, i festival e quant’altro»; 3) In effetti, trasformare lo spazio virtuale in incontro reale è decisivo: la cosa che in generale manca (e che è mancata anche al BlogMeeting di Monfalcone) è proprio il pubblico. La scommessa, a mio avviso, dev’essere quella di appassionare il lettore in rete sino a portarlo nelle sale, nelle piazze, nelle librerie, mantenendo aperto il dialogo e il confronto con la pluralità delle voci poetiche esistenti; 4) In questo senso, una rete di bloggers che non riesce ad interessare il pubblico è inutile
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perché amplifica la natura autoreferenziale che già la caratterizza; 5) Per far ciò, servono almeno tre condizioni: visibilità, continuità e un supporto finanziario adeguato, il che implica l’incontro dei bloggers con le varie istituzioni territoriali e uno spazio maggiore nei media. Non mi pare, infatti, che l’autonomia, la multimedialità, la rapidità della pubblicazione in rete e la gratuità implicita nella propostaweb siano sufficienti ad incoraggiare la nuova utenza e nemmeno i vecchi appassionati di poesia, la maggioranza dei quali ama, per ovvie ragioni, l’incontro live; 6) La gestione di una rete-blog, che non sia di
semplice (anche se utilissima) aggregazione, bensì uno snodo propositivo e autorevole, necessita di una equipe competente con una precisa divisione del lavoro, così che sia l’ideazione, la produzione e la distribuzione dei contenuti e sia la gestione della relazione con il territorio (sia esso reale che virtuale) seguano il principio economico (massimo profitto, minima spesa). Il pericolo di tale organizzazione è che essa diventi nuova accademia oppure una corporazione che censura altre vie.
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3. Vita di un blog
Ci si prepara per un aprile assai crudele, in cui fioriranno due lillà: l'uno a Vimercate, il 17 (2010), con un vivaio sopraffino di piante rare e men rare (titolo: La poesia nella rete), l'altro a Verona, la cui corolla s'interrogherà sull'evenienza che «la poesia – come scriveva ieri Alessandro Assiri in Universopoesia, il blog di Matteo Fantuzzi – rappresenti ancora un’educazione intellettuale e si possa continuare ad esprimere come forma della conoscenza» (C'era una volta la poesia online). Cercherò di essere presente in entrambi e magari di relazionare gli eventi in un blog collettivo che sta per nascere e di cui farò prossimamente parola. Da questa triplice evenienza, difficile dire che la deriva dei blog di poesia imperi (cfr. Fantuzzi), che il suo requiem sia da scrivere subitamente. Semmai, è da osservare che l'infante, le petit blog, non è stato ancora battezzato, messo seriamente in piazza dalla polis. È quest'ultima, piuttosto, la moritura, la cagna che vagola tra le fabbriche-tombe del nord-est, nei parlatoi televisivi, nei bar dove stazionano i senzalavoro, ad upupare insomma nelle terre morte
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nostrane, in cerca di spettacolo e consenso, mentre nella rete – non ovunque, certo – il discorso sulla poesia è attivo, stimolante, tanto da diventare reale, appunto, nei due prossimi appuntamenti. Non si vuole, qui, discutere sulla natura dell'ideal-Blog, quale sia la sua essenza; semmai, parafrasando Aristotele, s'intende partire dai modi in cui quell'uno si mostra, anzi – restringendo ancor più – dal modo in cui Blanc si coniuga e vive, evitando sbrodolamenti autoincensori. Dunque: sono convinto che un blog sia l'effetto di una scelta; esso infatti non prende la parola da solo e non la cede; se si spegne o se invece continua a dare frutti, dipende dalla dedizione dell'autore, dalla fiducia che egli ripone in questo mezzo, dato un obiettivo. Se uso il blog per far conoscere la mia poesia (funzione vetrina), difficilmente arriverò al bersaglio. L'editoria che conta, infatti, disistima la rete perché non la conosce; e la critica, per suo conto, ci passa saltuariamente, spesso solo per sponsorizzarsi. Le mani le lava fuori, là dove può far carriera. Se invece uso il blog per farmi conoscere, per farmi ammirare, rischio di perpetuare l'assunto foscoliano: «tu sarai altamente lodato, ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia». Per
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farla breve: la via scelta da Blanc de ta nuque ha come fine la didattica della poesia in generale e la sua divulgazione, in special modo se italiana e contemporanea. Obiettivo chiaro quest'ultimo, ma che andrebbe meglio definito, giacché dove cominci il contemporaneo è questione assai dibattuta. Diciamo allora che qui si fa incontrare storia e cronaca, nella misura in cui è il brusio delle voci che si susseguono nel presente ad essere la vera sostanza di Blanc, quel brulichio di testi che mensilmente si affacciano sul mercato e che hanno bisogno di una prima scrematura, di una lettura sintetica ma non grossolana in grado di orientare il lettore e lo stesso autore. Quei testi che forse, fra qualche anno, entreranno nel dialogo critico più importante, oppure che saranno dimenticati. Lascio appositamente fuori dai post i poeti canonizzati, che meriterebbero un discorso critico più articolato e che comunque hanno già garantiti i loro spazi pubblici importanti (ma neanche tanti, invero, visto che nemmeno i quotidiani più noti dedicano alla poesia più di uno o due articoli l'anno). Che il lavoro svolto su Blanc abbia un senso, lo ricavo per esempio dai risultati del verbale del Concorso "Beppe Manfredi per la Poesia Edita
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Opera Prima" (Edizione 2009), la cui giuria (Giorgio Bàrberi Squarotti, Elio Gioanola, Valter Boggione, Beppe Mariano, Gian Piero Casagrande, Gianni Menardi, Ada Firino) non conosco personalmente e quindi non posso dire di averla influenzata in alcun modo (vero che qui c'è un cappello sull'ultimo libro di Bàrberi Squarotti, ma credo che lui nemmeno lo sappia). Insomma, quanto si evince dalla graduatoria è che molti dei premiati sono in relazione con Blanc o con me: Patrizia Puleio ha vinto con Prove di sorriso, dell'editrice puntoacapo, di cui mi pregio di essere, con Mauro Ferrari e Massimo Morasso, direttore della collana "Format"; la terza classificata è Alessandra Conte, con Breviario di novembre (Raffaelli 2009), libro al quale ho scritto la prefazione e che ha già vinto il premio Gozzano; quarta è Anna Ruotolo (vincitrice del premio speciale "Silvia Raimondi"), il cui testo sarà recensito su Blanc fra qualche settimana, secondo palinsesto deciso mesi fa; settima è arrivata Stefania Crozzoletti, recensita nell'aprile 2009. Infine, al nono posto è giunto Spaccasangue di Iole Toini, uscito per Le Voci della Luna, nella collana "segni" da me diretta. Chiamo dunque vivo un blog che s'intrecci con la realtà, che
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dialoghi con essa, che sia causa di eventi non virtuali; un blog che abbia dei lettori che pensano reale l'incontro con la poesia; un blog attento a quanto accade in rete, che non si sottrae al confronto. Ed è ben noto agli internauti che non guardano il dito bensì la luna, che Blanc non è l'unico a respirare bene di questi tempi. Certo si potrebbe fare meglio, sfruttando di più le opportunità tecnologiche offerte dalla piattaforma. Ben vengano blog dove video e sonoro sono attivi, dove i link tengono aperti canali con editori e quotidiani importanti. Da parte mia, faccio quello che posso, con le mie elementari competenze informatiche, con i miei limiti intellettivi e i sempre troppo pochi libri letti.
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4. Vimercate, poesia a caldo
Due parole a caldo sull'incontro di Vimercate, Poesia nella rete. Gli interventi si sono polarizzati su due domande: sono vivi e a che cosa servono i blog di poesia? E: perché non esiste un pubblico della poesia? La mia impressione è che siano morti i blog degli ex giovani, quelli che hanno incontrato la poesia anzitutto in rete e che si sono autoproclamati innovatori della comunicazione letteraria. Quei giovani che ci credevano in questa missione, in questa rivoluzione offerta dalla rete. Il pubblico però non è arrivato ai loro appuntamenti sul territorio (mai visto uno spettatore, nei 4 anni che frequento l'ambiente, che non fosse un bloggerpoeta). La colpa è comunque relativa, visto che, anche alle letture predisposte dai più grandi, il pubblico si conta a colpo d'occhio. Il pubblico-nonpoeta non c'è, punto. E anche il poeta, quando si affaccia in sala, spesso sta lì solo per leggere i propri versi. A Vimercate non era prevista lettura e infatti c'eravamo solo noi, come direbbe Vasco, una ventina di operatori preoccupati per il destino della poesia dentro e fuori della rete. Le ragioni di questa
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scomparsa le ha spiegate bene Francesco Marotta: manca un'educazione permanente alla poesia; la poesia insegna a pensare e ciò disturba il potere; la scuola toglie ai ragazzi ogni entusiasmo rispetto alla libertà e alla gioia offerta dalle parole finalmente da fare. Invero, era sottointeso, mai c'è stato un pubblico. Dante lo dice qui e là (ma allora l'Italia era un sogno); dall'Unità, politica e scienze varie hanno relegato la poesia nell'orto dell'estetico che, ben presto, è diventato dell'anestetico. Ecco allora "Il Politecnico" e "Officina" che cercarono un pubblico di sinistra (trovando invece resistenza proprio nel PCI, schiacciato da un super-io gigante) e la neoavanguardia, che riportò l'anestetico all'estetico, riconoscendo quest'ultimo quale luogo allegorico del conflitto reale, con buona pace degli operai che, negli anni Sessanta, parteciparono in massa agli impoetici scioperi per il contratto. Dalla metà degli anni Settanta cominciò la poesia contemporanea: milioni di poeti, zero spettatori, pochi lettori. Perché è questa l'altra questione emersa ieri, e nota a tutti: nemmeno i poeti leggono gli altri, dunque i blog di poesia sono eroici almeno in questo (lo dicono Ottavio Rossani e Giacomo Cerrai): per recensire i libri bisogna leggerli, capirli
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e, ovviamente, scriverne. Grande fatica e grande soddisfazione quando il poeta ringrazia (questo non è stato detto, ma lo dico io adesso). Inoltre i libri non si comprano, se non l'autore all'editore. Triste realtà, necessaria tuttavia in un sistema editoriale dove altrimenti leggeremmo 5-6 poeti l'anno, laddove almeno 30 valgono, ogni anno, Einaudi, Mondadori, Garzanti. I blog vivi sono dunque quelli in cui ci si spende senza risparmio e senza aspettare il padrino che ti tolga dal mucchio per pubblicarti gratis. Guardando i visi dei presenti, gli "anta" sono di casa; rari i più giovani: Matteo Fantuzzi, che ancora non ha digerito l'antologia di Liberinversi (e, sinceramente, non ho ancora capito perché), ma che ha il merito di portare avanti un sogno sulla triangolazione poesia-rete-pubblico, che tuttavia fatica a diventare un progetto reale, strutturato. Questione, questa della progettualità in genere, affrontato di punta da Dome Bulfaro (classe 1971), che lamenta la mancanza di coraggio ideativo in gran parte degli operatori culturali, che si muovono «come dei paralitici», anziché pensare in grande, presentando agli assessori, agli enti, ecc., progetti d'ampio respiro, gestiti sulla divisione del lavoro, come fa,
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per esempio, il sito Poesia presente e A briglia sciolta. Io credo ci sia spazio per tutti: per i blog individuali, limitati nelle risorse, e per quelli collettivi, dove un regista, un poeta, un video maker costruiscono percorsi audiovisivi e/o interni a realtà complesse, come il carcere, gli ospedali, le scuole. Se già succede questo, chiaro che i blog di poesia non sono morti, bensì gestiti da gente di mezza età abituata a lottare per sopravvivere oppure da giovani rimasti fuori dagli entusiasmi antologici passati (cfr. Santagostini, Ladolfi, Cucchi), critici per altro felici nel riconoscere poeti davvero promettenti (Ponso, Pugno, Cattaneo, Biagini, Serragnoli, Zattoni e altri), lasciando magari fuori uno come Fantuzzi, che pur merita riconoscimento ufficiale, come in effetti sta accadendo. Un contributo interessante è venuto da due poeti d'antica militanza, Maria Pia Quintavalla e Luigi Cannillo, quando hanno parlato di «comunità di poeti», di «popolo di poeti» che discutono nella rete come accadeva un tempo nelle redazioni delle riviste o nelle case private. Si pensi alla Roma della Morante che vede Pasolini e Moravia e Pecora e Bellezza oppure, 10 anni dopo, al sodalizio Sica, Salvia, Tripodo, Scartaghiande, Damiani, Magrelli, Lodoli ecc.; o alla Milano dei
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Porta, Loi, Majorino, Raboni, Fortini (a sentire i due poeti milanesi, ora le cose non stanno più così, malgrado a me sembri, da esterno, che l'attività di "Milanocosa" e quella legata alla "Casa della Poesia" siano realtà molto attive sul territorio). Vero tuttavia che nei blog la discussione è ultimamente calata (su questo in gran parte si basa la sentenza di morte cui sopra riferivo) anche se la comunità di poeti, che partecipa senza rancori alla vita di rete, mi pare esista sul serio, così come, appunto, quella sul territorio: vedi Milano, l'area marchigiana, il nordest (con i nuclei Verona, Vicenza, Trieste, Gorizia), Bologna (sul centro sud ditemi voi, qui nei commenti).
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5. I commenti nei poeblog e loro destino
I poeblog si sono rivelati sin dapprincipio un'ottima vetrina per tutti coloro che si occupavano di poesia, ma non avevano ancora avuto le occasioni migliori per mettersi in luce, vuoi per questioni generazionali, per collocazione periferica rispetto alle grandi città oppure semplicemente perché non avevano i numeri per guadagnarsi il Parnaso. I "commenti" ben scritti hanno infatti permesso a molti poeti di farsi conoscere, di far sedimentare il proprio nome e le proprie idee in rete, entro una comunità circoscritta ma vivace. Tra il 2003 e il 2007, quando sono nati i principali poeblog italiani, si è riso e pianto e ragionato sul far poesia e sull'importanza del medium, citando questo e quello, facendo in modo che tutti capissero che non eravamo gli sprovveduti di turno, bensì studiosi, intelligenti e, se possibile, anche simpatici. Talvolta, i più birboni hanno giocato al gatto e al topo con l'autore o con il gestore del blog, cercando di buttarla in vacca, forse per invidia forse perché l'anonimato porta naturalmente al conflitto. Quest'aspetto, vissuto dai più seri come distorsione o
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patologia, è diventato fisiologico in certi siti o cancerogeno in altri. In Blanc non ha mai avuto molto successo, per fortuna, prevalendo invece la pacatezza e concentrazione sull'oggetto dei 100, 150 lettori, nessuno dei quali tuttavia è un poeta o un critico di fama (non si offendano quei pochi che lo sono eppur passano di qui). È questo il punto, che non riguarda soltanto Blanc: la rete non è amata da chi è poeta pubblico, riconosciuto. Non lo era prima e non lo è adesso. La rete ha risposto evitando il confronto, postando autori emergenti e/o giovani, rimescolando il canone, accusando l'accademia, rassegnandosi a questo dato, sociologicamente sensibile. Lo si è detto più volte: tra i poeblog da un lato e l'editoria che conta, l'università, gli autori importanti dall'altro, c'è uno iato evidente e, al momento, insanabile. Lo sarà fintanto che il medium sarà visto con diffidenza, ma sopratutto perché la rete e, in particolare, lo spazio dei commenti, tolgono i filtri relazionali, mettendo sullo stesso piano autore e lettore. Ciò spaventa parecchi poeti, non abituati al confronto, ma soltanto alla riverenza con piroetta. Ma spaventa anche chi conosce la natura dei
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messaggi in rete, spesso connotati emotivamente e, per questa ragione, carichi di fraintendimento. Difficile dunque che la qualità dei commenti sia salvata da loro e improbabile che i veterani dei poeblog investano ancora molte energie a commentare autori nuovi. Restano i giovani, nati negli anni ottanta e novanta, poeti molto interessanti ma poco inclini, se non in rari casi, a spendersi per i più maturi o ad investire in rete per nuovi progetti, avendola trovata già pronta, strutturata, da sfruttare anziché da arricchire. E semmai qualcuno intendesse farlo, dubito che accadrebbe attraverso commenti che richiedano un forte impegno di tempo e di riflessione. Per tutte queste ragioni credo che dovremo rassegnarci ad un sistema di poeblog in cui il testo sarà sempre più centrale (e, perciò stesso, dovrà essere di valore), mentre i commenti tenderanno a zero, tranne quelli leggeri, quei cenni d'affetto la cui importanza è comunque vitale per tutti.
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6. La natura della rete: tra pesciolini di plastica e ossi di seppia
Da alcuni anni seguo e segno quotidianamente alcuni quartieri della rete, ne marco gli angoli, come un cane di strada. Ho anche una mia cuccia, bianca, dove deposito gli ossi. Talvolta sono di seppia, talaltra di gallina, ma l'intenzione è sempre la stessa: offrire un catalogo di bontà ad un pubblico presente e futuro. Girando per la città virtuale, incontro di tutto, essendo questa un luogo liberamente accessibile, costruito da chiunque per ogni cosa. Anche la poesia, lasciata libera di brucare bellezza e verità dalla blogsfera, rischia di crescere stereotipata. Non dobbiamo gridare allo scandalo, come leggo qui e là, navigando; trovo invece in tutto ciò un ennesimo emblema della povertà dei tempi in cui viviamo. Se la poesia che si sente in giro è quella recitata sulla sedia dal bambino ben educato la domenica di Pasqua, quella banalmente intelligente di "Zelig", quella imparata al liceo, se tutto ciò che vogliamo dalla poesia è che sia un contenitore del nostro magnifico ego, allora è normale che anche la rete
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pulluli di pesciolini di plastica. Obiettare che in quest'ultima manca una docimologia condivisa sulla qualità dei testi non ci porta da nessuna parte. Tale evidenza, infatti, è un dato epocale, conseguente alla crisi delle ideologie e al moltiplicarsi dei centri di potere sul territorio; questa condizione semmai, appunto per le due ragioni storiche appena espresse, andrebbe riconosciuta nella sua novità, in quanto finalmente capace di accogliere nella discussione – prima accademica, elitaria o di corporazione – interlocutori altrimenti esclusi o emarginati. Non ultimi i bloggers, il cui background plurale allarga senz'altro, anche se inevitabilmente in chiave pop, la materia del contendere. Fra l'altro, la mancanza di un vertice, di un'oligarchia di comando, sostanzia la natura stessa del web: esso infatti altro non è che un labirintico pullulare di arcipelaghi, spesso indifferenti l'uno all'altro o, alla peggio, in reciproca tensione. La rete è infatti una selva, piuttosto che una società organizzata democraticamente, uno spazio babelico agguerrito, dove la libertà estrema diventa spesso arroganza. Talvolta capita, tuttavia, che l'arcipelago sia fondato su altro: rispetto reciproco, curiosità di conoscere, amore per la professione, dedizione.
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Posti così ce ne sono a bizzeffe in rete, in tutti i settori. Chi, malgrado questo, si ostina a buttare il bambino con l'acqua sporca, è un sabotatore o un malizioso. E comunque il bambino, dentro e fuori, continua il suo serio lavoro lo stesso, giocando con il suo lego. Nel mio caso, costruisco via Blanc de ta nuque, dando spazio alle poetiche più diverse, sostenendo non soltanto il merito e i piccoli editori, ma anche i lettori che vogliono capire che cosa accade nella poesia, specialmente italiana. Lo faccio tessendo relazioni, non erigendo steccati; portando il mondo reale nel web, non edificando un mondo virtuale, chiuso al confronto con chicchessia. Al di là di quanto si legge in giro, dove giornali e accademia si rubano il pane di bocca per sputacchiarlo con maggior livore sulla testa del web, e dunque scavando e mirando di là da questa assiepata masnada, in rete si trova un onesto e talvolta lodevole lavoro. Penso in particolare ai siti poetici di cui Poecast ogni giorno attesta l'operato, ai poeti e ai lettori che frequentano Blanc, alle riviste in rete, ai siti dedicati ad un poeta d'antologia. Certo, dopo anni di onorato servizio, credo sia ormai finita la fase di mappatura generalizzata, di ostentata esibizione di creatività; tuttavia, l'autorevolezza per
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cominciare una selezione ulteriore, che metta in luce alcune linee forti della poesia contemporanea, la si guadagna sul campo, scrivendo critiche autorevoli, anzitutto, e postando poeti su cui ci si gioca la reputazione. Tale scrematura non può essere infatti decisa a priori, né da un cenacolo di mandarini né dall'agenzia bloggers riuniti. Occorre, invece, contemporaneamente al lavoro in rete, tenere vivo il dialogo fra ogni parte del sistema (studiosi, autori e riviste interessate alla discussione), organizzando incontri pubblici in cui si parli non tanto di come vincere la battaglia del virtuale o su chi debba decidere le regole per tutti, bensì di poetica, di politica culturale, del rapporto fra tradizione e avanguardia, fra poesia e scuola, della tecnologia applicata alla divulgazione della poesia. Si producano insomma idee e si materializzino progetti, anziché i soliti lamenti, che dalla rete, occorre dirlo, faticano a dissolversi.
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Dialogando con Marco Giovenale (a partire da una recensione uscita su "Le Voci della Luna" n.47)
Puntare l'attenzione critica sul bordo del verso, sulla terra di confine dove poesia diventa prosa e viceversa, è un esercizio salutare non tanto alla storiografia letteraria, bensì alla scrittura creativa in quanto tale. Essa infatti è sempre, al di là dei modelli, sconfinamento perpetuo dai codici dati, pensiero che scarta il dato, che lo rigenera grazie alla fertile lingua di ciascuno. Pur dandolo per presupposto, la strada intrapresa da Prosa in prosa (Le Lettere 2010) non parte da questo assunto generale; essa piuttosto cerca fondamento in una precisa matrice ideologica, pensandosi quale conseguenza della crisi dei codici, tanto quelli alti, del ‹‹poetico», quanto quelli denotativi, referenziali.
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L'idea, che diventa prospettiva di militanza critica nei confronti di una tradizione poetica, in specie italiana, si sostanzia in questi due elementi: negare ogni ‹‹trascendenza» alla parola e contestarle l'orizzonte retorico-simbolico, così da produrre, come scrive Paolo Giovannetti nella dottissima prefazione, ‹‹un testo che non suona e gioca tutte le sue possibilità in un bianco/nero integralmente, disperatamente gutemberghiano». Della definizione, mutuata anzitutto da J.M. Geize, colpisce l'avverbio esistenzialista ‹‹disperatamente», che riporta l'esercizio intellettivo degli autori antologizzati (Inglese, Bortolotti, Broggi, Giovenale, Zaffarano, Raos) a farmaco freddo contro l'angoscia, ossia a quel sentimento prodotto dal non senso dell'esserci, tematizzato a suo tempo da Kierkegaard e Heidegger, che costituisce fra l'altro una delle fonti per comprendere la relazione fra parola poetica e finitezza. Il venir meno della ‹‹trascendenza» consiste nel pensare il particolare nella sua funzione fondante, mancante di nulla, e che qui si traduce nell'indipendenza dal ‹‹genere», modo invece dell'Universale. In questa prospettiva, la scrittura concreta, singolare, viene prima del
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cappello che distingue la poesia dalla prosa e da qualsiasi altra verticalità esterna a tale pratica. Ciò che mi convince di meno, e che comunque non è nuovo nemmeno in Italia, è l'impoverimento programmatico della lingua, il suo appiattimento alla forma di comunicazione ordinaria, desublimata, cui l'unica funzione critica consiste nel disvelare il caos contemporaneo (dei codici etici, grammaticali e politici) tramite lacerti metonimici, capaci di produrre cortocircuiti nel tessuto della comunicazione sociale. L'operazione, che in fondo altro non chiede al lettore se non ‹‹di confrontarsi con una pura sintagmaticità combinatoria" (Giacometti), pur avendo il merito di riportare al centro del dibattito la questione semiologica del rapporto fra senso e significato, fra tecnica ed etica, fra sapere scientifico e quello umanistico, letta con la terminologia di de Saussure, appiattisce la parole sulla langue, ossia il tracimare linguistico della caducità singolare nel codice fisso della comunità parlante e ciò, anzitutto, per la persuasione che il genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità espressive. Tale assunto si combina con la convinzione che la stessa langue è in frantumi, consegnandosi dunque alla parole non come tessuto
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fondante, bensì quale magazzino di maschere, arcipelago di detriti incapaci di riconsegnarci un senso univoco del reale. Dando per acquisita questa seconda istanza e seguendo l'indicazione di Giacometti, mi chiedo quale sia la necessità intrinseca dell'impoverimento della parole, quale l'evidenza che davvero non ci sia alcun lasco fra omologazione e creatività individuale, che non sia intesa quale catena destabilizzante operante all'interno dell'omologazione stessa. Leggendo tuttavia gli autori, come lo stesso prefatore ammette, è evidente lo scarto operativo dal presupposto teorico. Strategie differenti delimitano infatti poetiche conciliabili soltanto nella cornice, in un orizzonte pre-testuale che è tradizione semiotico-strutturalista (soprattutto francese e statunitense) e militanza avanguardistica, giacché pensa al postmoderno non come modo dell'apertura storico linguistica contemporanea (che pervade anche la lirica, dunque), ma quale preciso schieramento di campo, con annessa sprovincializzazione della cultura letteraria italiana, troppo chiusa nei propri modelli di radice simbolista, e poco propensa ad interagire con scienza e tecnologia. Questione invero già posta
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dalle neoavanguardie degli anni Sessanta. In questo senso, credo sarebbe utile al dibattito una maggiore chiarezza critica verso la tradizione italiana (dai Vociani a Campana, da Pavese a Savinio, da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi '63 e '70, e dei poeti di "Anterem"), così da rintracciare una linea autorevole legata anche alla nostra storia novecentesca e alla storia della nostra lingua. E' quanto intende fare il controcanto in postfazione di A. Loreto, che, dopo aver ripercorso la storia della tautologia ‹‹arte è arte» (inutile dunque dire ‹‹prosa» ma intendere ‹‹poesia»), cava dai sei autori, con pertinenza, lacerti cinematografici, plastici, pittorici e letterari che danno ai loro testi una vitalità straordinaria, che certo merita attenzione. A questa recensione, seguì presto una risposta di Marco Giovenale, pubblicata in Slow Forward, il suo sito, che riporto perché ricca di spunti: Seleziono alcuni estratti dalla recensione che Stefano ha dedicato – e lo ringrazio – a Prosa in prosa (Le Lettere, 2009):
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(1) «Ciò che mi convince di meno è l’impoverimento programmatico della lingua, il suo appiattimento alla forma di comunicazione ordinaria» (2) «appiattisce la parole sulla langue» (3) [Prosa in prosa nutre la] «persuasione che il genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità espressive» (4) [Quelle dei sei autori sono] «poetiche conciliabili soltanto nella cornice, in un orizzonte pre-testuale di tradizione semiotico-strutturalista e di militanza avanguardistica» (5) «credo sarebbe utile al dibattito una maggiore chiarezza critica verso la tradizione antisimbolista italiana (da Zanzotto a Rosselli, da Villa a Spatola, da Pizzuto a Manganelli, per non dire dei Novissimi, dei Gruppi ’63 e ’70, e dei poeti di Anterem)» E propongo alcune contro-osservazioni: (1) + (2) Queste intenzionali «bidimensionalità», in certi aspetti linguistici, a mio avviso, sono riferibili solo ad alcuni degli autori di Prosa in prosa. Inoltre, dar loro il nome di «appiattimenti» è scelta che rischia di avere i connotati di un giudizio
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svalutativo, lecito ovviamente, ma esatto? Quelle scelte sono o comportano un appiattimento? (Sempre ammettendo la bidimensionalità, come scena del denotativo). In alcuni degli autori dell’antologia, per altro, specie Raos, Inglese e Zaffarano, la verticalità o meglio ancora molteplicità lessicale – e dunque uno scarto parole/langue – è in numerosi passi fin troppo percettibile. Tuttavia la cosa fondamentale, in Prosa in prosa, è che anche quando tale verticalità è data, non viene offerta come palestra del connotativo (pur, incidentalmente, essendo tale), bensì come ricchezza peculiare della denotazione. (3) «Che il genere lirico abbia esaurito le proprie possibilità espressive». Si tratta di una persuasione a cui forse non aderirebbero che assai limitatamente – e tra un’infinità di annotazioni e distinguo – Inglese, Giovenale, Raos (ne danno conto libri usciti o imminenti); e di cui non sentono nemmeno la necessità gli altri tre. In tutti i sei casi, aggiungerei, non è troppo importante il tema della lirica (pur presente, come sfondo tra i molti possibili). Questo, per la «prosa in prosa». Dire che chi fa prosa in prosa è (sempre/comunque) avverso alla lirica
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(tutta) è un po’ come dire che se uno va in vacanza «sullo Ionio» è contrario alla vacanza «in montagna». Si dovrebbe semmai dire che è contrario alle Dolomiti, al Caucaso, alle steppe siberiane, al Mar Morto, a New York, al Polo Nord, al sushi, ai marsupiali, alle viti a croce, a piroettare perdendo l’equilibrio, al minibasket, alle adenoidi, alla bibbia. Insomma: non tutto quello che non si fa viene – da quello che di fatto si fa – condannato in qualche modo. Se uno non fa Y, farà X. Se poi facendo X è 'anche' contro Y, proprio con la sua prassi x-oriented, allora fa militanza. È in effetti davvero il caso, per Prosa in prosa, di parlare di militanza? Sì e no. Sì, se lo si vede come tomo isolato dal contesto dei libri degli altri o di alcuni degli altri autori. No, stando alla maggiore complessità delle strade (e degli strati delle strade) da ciascuno di loro intraprese. (4) Quale sostanza semiotico-strutturalista regge le prose limpidissime di Broggi, o le schegge di Bortolotti? Il libro parla abbondantemente, e gli autori abbondantissimamente in rete e su riviste e da anni, di autori di riferimento non italiani. Non parlano quasi mai di strutturalismo, e raramente di
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militanza, di avanguardia. Anche se fanno certo e spesso riferimento ad autori di (ex) avanguardia. Ma – e contrario – se per certe prose di Bortolotti e Broggi io potrei pensare a (per dire) Robert Walser, e alla sua sovraesposta ironica limpidezza, direi che a nessuno verrebbe in mente di definire questi due autori «walseriani». Il fatto di non aderire o non riaderire a una postura autoriale più o meno ‘dittante’, assertiva, il fatto di sposare il denotativo, il fatto di abbondare in ironia, il fatto di praticare googlism, sono automaticamente «militanza avanguardistica»? Ecco, da parte mia non sarà ingeneroso e improprio allargare le braccia con un mesto «in Italia finisce sempre così!». Se non sei Pavese allora sei o Ungaretti o Montale. Se non sei uno di quei due, devi per forza essere Marinetti. Le figure nel mazzo di carte sono quelle. Ma i punti (1) e (2) non parlavano di un «appiattimento alla forma di comunicazione ordinaria»? Allora a quale «militanza avanguardistica» fanno riferimento i sei di Prosa in prosa? Giocoforza a Balestrini, perché tutto sommato nessuno degli spericolati altri bricoleurs del 1963, e tantomeno quelli che negli anni Novanta ne han ripreso (criticamente) alcuni passi,
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scrivevano testi come quelli di Broggi e Bortolotti, o brani come Ammi (di Giovenale). E che dire di Inglese, assolutamente lineare nei suoi racconti? (Che però non sono racconti, ma – appunto – prosa in prosa). (E… se per Inglese a qualcuno venisse la tentazione di richiamare il Balestrini di Vogliamo tutto, ebbene, conti fino a dieci, prenda un respiro profondo, e faccia invece click, non meno felicemente, sul nome di Christophe Tarkos). (5) Se, come la recensione ammette, nel libro si parla (anche) di esperienze NON ITALIANE, perché riportare il discorso al confronto con «la tradizione antisimbolista italiana»? Se si parla (se, conoscendo i sei autori di Prosa in prosa, si può parlare) giusto di Tarkos, e di Silliman, Bernstein, Mohammad, Hejinian, Derksen, Cadiot, Espitallier, Hocquard, Sondheim, Leftwich, Kervinen, Ganick, Goodland, Bergvall, Blau DuPlessis, Palmer, Moriarty, perché non si prova a usare o avvicinare precisamente questi filtri interpretativi, fonti, modi e mood? Sono questi – con tanti altri qui omessi per brevità – i nomi che da qualche decennio (o meno, o più) reggono molte delle sorti della scrittura di ricerca fuori d’Italia. E sono sempre questi gli autori che non paiono
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conosciuti e riconosciuti in Italia, tutt’ora. Tranne eccezioni, tranne traduzioni che (caso fortunato!) si debbono a Zaffarano, Raos, Inglese, Bortolotti. Come mi è capitato di scrivere altrove, ormai scrittori come David Markson o Leslie Scalapino fanno in tempo a morire, prima di vedere una traduzione di opere loro in italiano. Si può forse dire che da quasi trent’anni ormai la letteratura italiana è fuori sincrono rispetto a molte ricerche in corso in altre parti del mondo. Se il confronto è sempre e soltanto entro l’area linguistica italiana, è facile facilissimo non trovare – in riferimento a bizzarrie come Prosa in prosa – altro che ponti interrotti, ritorni carsici, parziali corrispondenze. Di fatto non è (del tutto) italiana la tradizione di riferimento. Il titolo Prosa in prosa viene da Gleize. Lo rammenta Guglielmin stesso in incipit di recensione. È allora pienamente 'in area' Zanzotto? Possiamo (certo! avec plaisir) confrontarci con Zanzotto e con tutti gli altri nomi fatti. Ma partendo dall’assunto che i punti di riferimento non sono (esclusivamente) italiani. Anzi sono sostanzialmente non italiani. (E non sono Maulpoix, Nöel, Bonnefoy, Jaccottet; forse nemmeno Ashbery, aggiungiamo).
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Finché non troverò altri nomi nelle note che leggo, non sentirò che il discorso specifico del libro Prosa in prosa sarà stato recepito/affrontato. Ma sarò sempre pronto a cogliere il senso delle critiche che all’antologia vengono rivolte. Solo, al momento trovo si tratti di un senso che non parte dai riferimenti che pure ormai intorno alla prosa in prosa sono imprescindibili. E dico questo con tutta la stima – nella perdurante distanza – che nutro per chi non condivide il percorso della prosa in prosa, ma con onestà e generosità, come Stefano nella sua recensione, vi si accosta.
Il 26/10/10, su Blanc, uscì la mia replica dal titolo una parola sul "fondamento" Partendo in medias res (e con un impeto che spero non sia irritante), dico: se, come ha scritto Tarkos, «to tell the truth, uh oh, that'll cause the revolution», allora voglio capire da ciascuno di voi che cosa intende per «verità» e per «nuovo» (implicito nel richiamo alla «revolution», ma anche caro a tutta la modernità, che lo pensa quale 'superamento con
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scarto positivo', e quindi riconoscendolo auspicabile a prescindere come sinonimo di progresso, avanzamento, crescita). Resi espliciti questi due fondamenti, posso distinguerli da quelli, per esempio, di Platone, Aristotele, Sant'Agostino, Spinoza, Kant, Hegel, Marx, Darwin, Wittgenstein, De Saussure, Heidegger, Popper, Deleuze, Derrida, e decidere con maggiore serenità se la posizione di GAMMM ha o meno una radice positivista. Ancora, e cito Juliana Spathr quando afferma, a proposito di The fatalist della Hejinian, che in esso c'è la dimostrazione «how poetry is a way of thinking a way of encountering and constructing the world, one endless utopian moment even as it is full of failures»; a parte l'evidenza che sono molte le tradizioni culturali che trovano una forte relazione fra poesia e pensiero, vorrei sapere, parafrasando Heidegger: ma che cosa significa, per ciascuno di voi, pensare? Lo chiedo anche per poter affermare che, quando si recensisce un libro collettivo, si pensa sempre in termini generali, sacrificando, per ragioni di spazio, il particolare: penso 6 e così tolgo le singole unità, che troveranno inevitabilmente ingiustizia in quel numero impersonale, che li rappresenta solo parzialmente (ma su Broggi e
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Giovenale ho già scritto altrove e spero di poterlo fare anche sugli altri, prima o poi). En passant: pretendere dal lettore di conoscere l'opera dei padri per giustificare i figli, non è leale nei confronti di nessuno, e rischia di assomigliare proprio a quello che hanno fatto gli epigoni di tutti le poetiche del XX secolo. Se vogliamo misurarci con «la degradazione dei significati e l'instabilità fisiognomica del mondo» (Giuliani) oltre che con quanto di buono ci ha insegnato la grande tradizione neoavanguardista, che ha in Italia i più eccellenti pensatori (per esempio, senza Banfi e Paci non ci sarebbe l'Anceschi del "Verri"), la prima cosa da fare è «pensare», appunto, ossia confrontarci senza riparo con il naufragio che ogni azzardo porta con sé, con l'utopia della scrittura, che non è il senza luogo, bensì il luogo altro, da rifondare continuamente nell'adesso, da fare essere in quanto s-fondamento, rimando continuo al possibile, dialogo con un vero che è lo stesso inquieto oscillare del senso quando pensiamo, quando scriviamo poesia. Per me il dialogo fra «parole» e «langue» si istituisce quanto più siamo consapevoli di questo. Chiedo dunque a Marco: «la molteplicità lessicale», se attinta
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dall'infinito trattenimento che è l'archivio contemporaneo dei saperi, è davvero atto creativo del soggetto che si sa plurale, o rischia di essere attività poietica del soggetto che opera sulla natura del linguaggio così come il soggetto borghese agisce sul paesaggio, saccheggiandolo? Il ready made non ha questa ferita narcisistica dentro sé? Vero che tu distingui, nel denso commento espresso oggi su Poesia 2.0 a proposito del saggio di Carlucci, tra ready made e sought object, considerando quest'ultimo quale voluntas, atto/scarto/scatto creativo; tuttavia, non è questa un'azione che compete a tutti i poeti degni di essere chiamati tali? Certo nel sought object non si pesca nell'indistinto o nell'«ignoto», come nella linea rimbaudiana, ma le due operazioni hanno uno scarto/salto/azzardo simile. Giusto poi ragionare sulle differenze, come tu affermi nel medesimo commento. A proposito della semiotica e dello strutturalismo, non c'è polemica alcuna. Dico soltanto che è proprio di tali discipline concentrare l'attenzione su costanti e variabili testuali, focalizzando la verità del testo sulla natura misurabile dello stesso (il Nuovo paesaggio italiano di Broggi e Tracce di Bortolotti sono così lontani?).
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Aggiungo: il modello greimasiano è splendido, anche se, per ragioni di scientificità, è costretto a prescindere dalla massa oscura dell'identità autoriale e dall'imponderabile della ricettività nel fruitore, quell'opaco che, con grande ingegno, ci hanno fatto finalmente incontrare Barthes, la Kristeva, Lotman, sul versante sociologico e antropologico. Autori che amiamo tutti, ne sono certo. Infine: se dico che Prosa in prosa ha come referente critico la dominante lirica della tradizione italiana, non opero un accostamento arbitrario: 1) «prosa» è l'esatto contrario di «canto» (prosastico è aggettivo evidentemente antilirico pur se spregiativo, e canto, nella sua massima espressione – non solo etimologica - è lirico); 2) Prosa in prosa esce in Italia: non può dunque esimersi da un confronto con un dibattito che attraversa la nazione da almeno un secolo (dai Crepuscolari e dal futurismo?) e che ha proprio nell'elaborazione antilirica legata al Gruppo 63 e al Gruppo 70 un referente autorevole. Sto parlando a dei fratelli, sia chiaro. Non dico: qui c'è qualcuno che ha torto; ma piuttosto: la ragione calcolante (e la dimostrazione, quale evidenza del torto altrui, ne porta il segno più dolente) produce guerra, nemici, silenzio rancoroso; pensare,
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che non è ragionare, implica invece il sentirsi parte di una rete di relazioni in cui ci muoviamo, nella quale il fraintendimento non è difetto, ma sano esercizio del prendere la parola, esercizio vitale che esemplifica il nostro essere gettati in un mormorio di voci che ci attraversano, con tutta la violenza che il 'prendere la parola' comporta. Una violenza, tuttavia, che strappa senso dalla verità in gioco e non dalla carne dei dialoganti. Sono convinto che anche su quest'ultimo assunto voi siate d'accordo. Ad una seconda lettera, amabilissima, dello scrittore romano, seguì questa mia (4 nov. 2010): Una parola su finito e sulla Neoavanguardia Caro Marco, anzitutto voglio ringraziarti per la qualità dei tuoi interventi e per il tono pacato, così raro in rete. La tua lettera di ieri, invece, e anche quella di oggi, restano in posizione, puntualizzano con precisione, non attaccano l'interlocutore, ma approfondiscono l'oggetto, ossia la qualità della prosa che pratichi, anzi l'assenza di qualità della prosa, il suo essere senza qualità, come l'uomo musiliano. E' assolutamente legittimo che tu dica: «sono veramente ed effettivamente prosa in prosa,
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non versi in prosa, non poème en prose, non prosa lirica, non narrazione, non epica, non prosa filosofica, non prosa d’arte, non prosa assertivaartaudiana (Noël), non frammenti/aforismi che segmentano un pensiero (Bousquet, Cioran), non voyage/onirismo (Michaux)». Ciò garantisce la via nuova, che è anche un marchio estetico, così come la dialettica hegeliana o l'idea platonica lo sono per la filosofia. Ancora più importante è che tu stia facendo uno sforzo sovrumano per fondare il concetto di «prosa in prosa» (dei 6, mi pare tu sia l'unico interessato a farlo o convinto che sia necessario farlo) di fronte ad una platea che fatica ad avvicinarne l'originalità, secondo me fondata sul recupero dell'oggetto (linguistico, fisico, iconico, simbolico etc) quale stare in posizione del finito, secondo una linea che deve molto proprio a quegli autori che prosa in prosa vorrebbe tenere in margine. Viene infatti dalla linea Bacone-SpinozaKierkegaard-Heidegger-Derrida-Deleuze-Nancy il pensiero moderno del finito, il pensare quest'ultimo come mancante di nulla, libero nel suo tremore ontico, differente dalla semplice-presenza, ed invece – e qui cito un filosofo che tu conosci, ma che ancora non ha avuto la giusta considerazione
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accademica – in una relazione espropriante con il luogo in cui il finito accade-eccede, ossia un'area «in cui il finito può situarsi in quanto finito, in cui può rivelarsi come tale e di conseguenza aprirsi al senso: non ad un senso che sarebbe quello della sua finitezza (come se un qualche Infinito Trascendente glielo concedesse), ma al senso che la sua finitezza è. [...] Il senso del finito è l'eccedenza della presenza: in quanto finita essa si apre su un al di là di essa che non è un'altra presenza, né finita né infinita, ma che è un nulla di senso in cui si dispiega tuttavia un nulla come senso, ma come senso inappropriabile» (Alfonso Cariolato, Il luogo del finito, il Poligrafico, p.11). Quando tu scrivi: «Io sento la mia riflessione, per quanto esercitata proprio su questi oggetti spesse volte, come sento me stesso: decisamente dislocato e spiazzato e sfidato e infine sconfitto dal debordare segnico e filosofico del puro e semplice mezzo fotografico», affermi esattamente quel tremore cui accennavo sopra. «Dislocazione" è infatti spaesamento ed erranza quale condizione ordinaria della contemporaneità, come cercavo di dimostrare in Scritti nomadi (Anterem 2001), saggio in cui, fra l'altro, leggevo i Novissimi proprio a partire da quella dislocazione, che è ontologica, ossia
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imprescindibile, ma che va scelta, “decisa” direbbe Heidegger. Il mio lavoro degli ultimi 10 anni, poetico e saggistico, cerca di approfondire questa consapevolezza, che, a mio avviso, è un cambio di paradigma (quello che fondava sull'identità forte l'ordine del mondo, e sull'idea di superamento la storia delle idee). Senti quanto si assomigliano queste mie, alle tue precedenti parole, e a quest'altre, quando dici: «A mio avviso è proprio per un distacco dal narcisismo del ritratto, che l’oggetto non esibito ma mutato di campo (dall’utile all’estetico) acquista e si fa vettore di segni del senso. È proprio staccando l’ombra dal corpo – dunque rischiandola – che abbiamo un modo inedito e non garantito di rapportarci alla nostra “anima”, a quello che sentiamo (poter) essere il “senso” (sempre “portato in segni”, reso tracce, ossia già spostato di un grado o più gradi di differenza/différance altrove, lateralmente, rispetto al “punctum” dove il linguaggio starebbe già, ossia rispetto al dato e al movimento in corso, che parla e articola quel punctum e già sta tacendo, proprio per una differenza che non “è”, non “risiede”, ma si esaurisce nel nostro percepirla non appena ci ha gettato un rapido lampo, un’occasione)». Anche tu,
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oltretutto, poni l'accento sulla relazione identitàspazio, intesa quale co-appartenenza in cui l'evento è «l'aver luogo» dell'essere «singolare plurale» nei modi cari a Nancy, e citi Derrida (la «differance») per pensare lo scarto tra nominabile e innominabile, e Deleuze (le «tracce»), oltre che essere profondo conoscitore del pensiero di Merleau Ponty e dell'importanza che egli attribuisce non soltanto al «non detto», ma anche alla percezione, quale attività di radice fenomenologica, attività che fonda a mio avviso, per le ragioni appena espresse, la tua stessa idea di «sought object». Inoltre, pensare quest'ultima azione amplificata in un soggetto transcoscienziale e cibernetico, dove il sistema-coscienza interagisce sinergicamente con il sistema-mondo, con l'Aleph borgesiana, a me pare comporti una dislocazione del sé non dissimile a quanto intende Heidegger nel cap. V di Essere e Tempo, quando parla di «gettatezza», di quel «ci» dell'Esser-ci che apre «comprensione» ed «interpretazione». Un'ultima nota relativa alla storia della Neoavanguardia, che tu poni all'inizio della lettera. Credo sia importante cercare di capire perché «una certa possibile linea di scritture (anche verbovisive)» sia stata «interrotta» in Italia, a partire dal
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riconoscimento – e non lo dico a te, ma ad una koinè contemporanea, specie nella giovane generazione, che tende a sminuire il lavoro complesso della Neoavanguardia – delle ragioni storiche che hanno portato alla nascita e al compiersi di un processo che ha messo la cultura europea e americana al centro dell'attenzione nostrana, che ha sprovincializzato un dibattito, spostandolo dalla questione «neorealismo» a quella, inglobante la prima, del rapporto fra industria culturale e neocapitalismo. Non entro in merito al contenzioso perché libri capaci di esplicitarlo sono molti, primo fra tutti quelli di Lucio Vetri, Letteratura e caos (Mursia 1992) e di Renato Barilli, La neoavanguardia italiana (Il Mulino, 1995). In sintesi, io dico: se l'esperienza di "Quindici" testimonia la fine di un progetto di rivoluzione culturale a favore di una prassi più prettamente politica (quella operaia e studentesca) dove la militanza estetica della borghesia colta della sinistra italiana, radunata a ranghi larghi nel poliedrico gruppo 63, ha scelto di assecondare l'emergenza progettuale in atto, dialogando in modo radicale sul Vietnam e il Medio Oriente (e così scaricando, fra l'altro, il moderatismo del PCI) anziché sul rapporto,
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sanguinetiano, fra ideologia e linguaggio; se da questa deriva identitaria, sopravvive comunque l'esperienza di TAM TAM e di altra ricerca verbovisiva legata al Gruppo 70; se la poesia lineare degli anni Settanta nasce all'insegna di una nuova generazione che ha di nuovo bisogno di ricostuire lo smarrimento attraverso il canto e la radice tragica o orfica dell'esistenza, anche se le generazioni precedenti, al contrario, scelgono il verso opaco (Montale), il verso ideologico (Pasolini), il verso schizodomestico (Sanguineti) – tutti debitori nei confronti della prosa, nelle sue infinite forme – e il poemetto (penso a Un posto di vacanza, di Sereni, alla Signorina Richmond di Balestrini, alla Camera da letto di Bertolocci, ma anche al travaglio compositivo de La ballata di Rudi di Pagliarani) o continuano il loro viaggio originale, come Luzi; se i protagonisti dell'Avanguardia si sono integrati nelle istituzioni che contano (Università, RAI, Giornali di potere, editori); se tutto questo è verificabile, occorrerà un ulteriore approfondimento della specificità italiana, in modo da descrivere meglio il destino povero dello sperimentalismo postneoavanguardista, così come sarà da studiare la proposta di prosa in prosa non tanto quale nuovo conflitto di paradigmi
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(appunto per quanto detto sopra, ossia che il nuovo paradigma è in atto non soltanto nelle ricerche cui tu fai riferimento, bensì in ogni poetica del finito) quanto piuttosto sotto il profilo storico-letterario e sociologico – dopo il sopimento degli anni SettantaOttanta e il fuoco, certo interessante, del Gruppo 93. Sono passati circa vent'anni da quella proposta legata a Poesia italiana della contraddizione (Cavalli, Lunetta, Newton Compton, 1989), ad una versione italiana del Postmoderno, alle riflessioni sull'allegoria di Romano Luperini, ad un materialismo che la cultura moderata e cattolica ha sempre digerito male; ben vengano dunque una pratica e una teorizzazione in cui autonomia e eteronomia dell'arte (per citare Anceschi) siano di nuovo messe a centro del dibattito, con consapevolezza, come stai facendo tu.
Ancora una parola sulle cose e sul mondo (7/11/10) Caro Marco, volevo esprimere un paio di considerazioni a proposito delle «fotografie dell’artista finlandese Katharina Bosse, dedicate ad ambienti e spazi vuoti: stanze [...] generalmente affittate per fare sesso e/o girare film porno», che,
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nell'ultimo post di Slow Forward leggi così: «La loro riconnotazione, sovrascrittura, da parte del nostro sguardo, avviene dunque nella e grazie alla coscienza del fatto che sono luoghi in cui l’essenziale — crudo/crudele o meno — è temporalmente dislocato: c’è già stato o deve ancora accadere. Se in generale la fotografia è la traccia di un “è così”, particolari fotografie come queste (e molte altre foto di ambienti vuoti, certo: ma in questo caso il vuoto è caricato di un non detto erotico) addizionano un “sarà altro” o un “è stato differente”, che echeggia in qualche modo nell’osservatore. O che (meglio) sarà l’osservatore a far echeggiare nell’immagine. Non si tratta di riconoscere – trovare familiare — collocare in una enciclopedia di luoghi e dati — una banalità d’ambientazione, mobilio sciatto, luce ambigua, un momento di attesa, ma — anche — di spingere tanto la banalità quanto l’aria atemporale nell’inconsistenza del “set” iperconnotato. Dunque nell’imprimere attivamente con lo sguardo una sorta di spostamento — di variata percezione — di quei colori o identità e banalità, sciatteria, eccettera». Quanto tu rilevi con pertinenza, credo appartenga ad ogni linguaggio capace di tenere insieme, senza confonderle, le tre dimensioni del
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tempo e la complessità dell'essere cosa della cosa nella sua correlazione con l'esser mondo del mondo. Heidegger tale relazione la spiega così, rispetto ad una quartina di Trakl tratta dalla lirica Una sera d'inverno: Quando la neve cade alla finestra A lungo risuona la campana della sera. Per molti la tavola è pronta E la casa è tutta in ordine. Scrive Heidegger ne In cammino verso il linguaggio, dopo aver precisato l'è così della scena, costituto, appunto, da: neve che cade, finestra, suono della campana, sera invernale, tavola apparecchiata, casa in ordine: «Questo parlare nomina la neve che, sul tardi, allo svanire del giorno, mentre risuona la campana della sera, batte senza rumore alla finestra. Tutto ciò che dura, dura più a lungo, quando la neve cade: per questo la campana della sera, che ogni giorno risuona per un tempo strettamente circoscritto, suona a lungo. Il parlare nomina la sera d'inverno. Che è questo nominare? [...] Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il
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chiamare avvicina ciò che chiama. [...] Il chiamare è un invitare. È l'invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini. La caduta della neve porta gli uomini sotto il cielo che si oscura inoltrandosi nella notte. Il suonare della campana della sera li porta come mortali di fronte al Divino. Casa e tavola vincolano i mortali alla terra. Le cose che la poesia nomina, in tal modo chiamate, adunano presso di sé cielo e terra, i mortali e i divini. I quattro costituiscono, nel loro relazionarsi, un'unità originaria. Le cose trattengono presso di sé il quadrato dei quattro. In questo adunare e trattenere consiste l'esser cosa delle cose. L'unitario quadrato di cielo e terra, mortali e divini, immanente all'essenza delle cose in quanto cose, noi lo chiamiamo: il mondo. La poesia, nominando le cose, le chiama in tale loro essenza. Queste, nel loro essere e operare come cose, dispiegano il mondo: nel mondo esse stanno, e in questo loro stare nel mondo è la loro realtà e la loro durata. Le cose, in quanto sono e operano come tali, portano a compimento il mondo». Stare in prossimità della differenza fra cose e mondo, abitare quella linea che differisce e ci chiama a rispondere (dare un senso al visibile dalla
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nostra finitezza, prendere la parola dalla collocazione in cui incontriamo quella differenza) è esattamente ciò che sa fare il linguaggio (e quello delle arti in modo particolare) quando lo si pensi fondante, ma nel modo di un sottrarsi, ossia tale che la «differenza» in quanto tale non diventi mai ente, ma permanga nel suo essere-differente dalla semplice presenza (il dato, l'oggetto): per esempio, differente dalle stanze reali che le foto di Katharina Bosse ritrae. Ritrae, ossia tira fuori dall'ordine muto dello spazio abitativo, per dislocarlo e rimetterlo al centro di un'attenzione sopita, rinominandolo attraverso la finestra della foto, che si fa cornice di un ritratto, di un tratto nuovo e tutto ancora da pensare, che provoca l'osservatore, scatenando, appunto, lo «spostamento» e la «riconnotazione». Qualcosa di simile emerge anche in Sentieri interrotti, un altro famoso scritto di Heidegger, nel quale le scarpe ritratte da Van Gogh, proprio perché esposte nell'unità espropriante dell'opera, manifestano la quadratura originaria: «Nell'orificio oscuro dall'interno logoro si palesa la fatica del cammino percorso lavorando. Nel massiccio pesantore della calzatura è concentrata la durezza del lento procedere lungo i distesi e uniformi solchi del
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campo, battuti dal vento ostile. Il cuoio è impregnato dell'umidore e dal turgore del terreno. Sotto le suole trascorre la solitudine del sentiero campestre nella sera che cala. Per le scarpe passa il silenzioso richiamo della terra, il suo tacito dono di messe mature e il suo oscuro rifiuto nell'abbandono invernale. Dalle scarpe promana il silenzioso timore per la sicurezza del pane, la tacita gioia della sopravvivenza al bisogno, il tremore dell'annuncio della nascita, l'angoscia della prossimità della morte. Questo mezzo appartiene alla terra, e il mondo della contadina lo custodisce. Da questo appartenere custodito, il mezzo si immedesima nel suo riposare in se stesso». Caro Marco, è proprio in quanto pensi (lasci essere) la differenza, che sei in grado di esperire quanto sopra affermi; non perché il paradigma della Bosse abbia un posto privilegiato nell'ordine del disvelare. Tanto è vero che Heidegger fa lo stesso avvicinando la poesia di Trakl (o il dipinto di Van Gogh), riconoscendoli entrambi capaci di far interagire l'emotività, l'intelletto e le tre dimensioni temporali, nucleo invero che ci costituisce essenzialmente proprio perché l'esperienza (che è sempre emotivamente situata) dialoga
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costantemente con la presenza, attraverso memoria e aspettazione (passato e futuro) e in quanto domanda di senso (presente) che giustifichi il significato, sempre parziale, di quanto mi si offre alla percezione. Ciò accade anche rispetto a fenomeni non estetici, giacché noi siamo al mondo in modo essenzialmente ermeneutico. Dunque, non è il cambio di paradigma che rende tutto ciò possibile, ma la forza che il linguaggio intrinsecamente possiede, nella misura in cui si svincola dalla reificazione generale, dai luoghi comuni, dal mondo del «Sì» direbbe l'Heidegger di Essere e Tempo. Si svincola, qui significa: diverge, si mantiene in un'oscillazione di senso capace di dislocare il lettore, di ricollocarlo nel dialogo essenziale che lo costituisce in quanto mortale, in quanto elemento del «quadrato dei quattro», dove la bussola non porta fuori di lì, bensì a stare in posizione dialogica con ciò che temiamo o desideriamo: il cielo e i divini, quali metafore dell'aperto destinale, la terra, con le sue quattro direzioni e dunque con la scelta che ogni via umana comporta, e i mortali, fratelli consapevoli (si vorrebbe) del fatto che non si esce dalla caverna (dal labirinto terrestre) perché la luce il cielo e i divini - è già perfettamente dentro
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l'ombra, ed entrambi sono nel differire continuo del linguaggio, che colloca me e te in cammini differenti proprio perchÊ differenti sono le nostre finite presenze. A tenerle in prossimità , tuttavia (qui sta la bellezza del nostro dialogo), è la disposizione all'ascolto, al confronto, alla rinuncia a piegare l'altro, e, semmai, al desiderio di arricchirne l'esperienza.
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L'improvviso e il lucente
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Vorrei costruire un piccolo canone personale, formato dagli autori italiani del secondo Novecento che hanno in qualche modo alimentato la mia passione per la poesia; si tratta di un gioco, naturalmente, con tutta la serietà del caso, dove a vincere, spero, è la poesia stessa, con i suoi percorsi sotterranei e le sue uscite allo scoperto, improvvise e lucenti. Di sicuro (avevo circa vent'anni) l'incontro con l'antologia dei Novissimi fu decisiva, anzitutto per «l'idea della poesia quale mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato» e poi perché mi aiutò a prendere le distanze da un'io eccessivamente lirico, forgiatesi
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sulla schiera, per altro dignitosissima, del cantautorato degli anni Settanta. In particolare, di Alfredo Giuliani mi colpì la capacità di fondere dinamicamente il surrealismo visionario con il sentimento della finitezza, tipico della cultura romantica, ma depurato dalle implicazioni idealistiche di stampo neohegeliano, e vicino invece al 'tragico' di Michelstaedter. Dal canto suo Pagliarani, con La ragazza Carla, mi diede un modello irripetibile di poemetto storico-esistenziale, attraversato dalla contaminazione dei codici, che permetteva di inserire il prosastico nel lirico senza comprometterne l'unità. La sua poesia, in effetti, come quella di Giuliani, rimise in circolo l'antico e il moderno, la spinta neoavanguardista della «riduzione dell'io» con l'impossibilità di farlo, innescando così un gorgo assai fecondo (e non ancora del tutto esplorato). Anche Gli strumenti umani di Sereni, in questo senso, furono capaci di unire la storicità dell'io con le «storte sillabe» montaliane, dando nuovo ossigeno a quei poeti che non scelsero la linea schizomorfa; quel Sereni che, con Un posto di vacanza, riuscì a rendere credibile una forma-poemetto, al pari della Ragazza di Pagliarani,
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in cui caducità, viandanza e conoscenza s'incontravano. Per quanto mi riguarda, devo dire che a colpirmi maggiormente, negli stessi anni in cui scoprii i Novissimi, furono i poeti della generazione nata con Il pubblico della poesia: fra tutti, leggo ancora oggi assiduamente Milo De Angelis, che è riuscito a portare a compimento la tensione mitica di Pavese, coniugandola con la poesia civile di Fortini, il tutto mediato da un'esperienza di vita, in specie giovanile, esposta e senza rete; ma certo ebbe grande effetto su di me anche l'acquisto di Piumana, di Cesare Viviani, che venne a coincidere con le mie prime letture freudiane e con il convincimento – scolasticamente germogliato, leggendo Bergson e Pirandello – che la parola non appartenesse all'autore, bensì alla vita quale flusso di energia costantemente in fieri. Fra i libri 'canonici' al femminile, forte fascino esercitarono le Variazioni belliche e Serie ospedaliera di Amelia Rosselli, straordinaria artefice di un verso libero «post-tonale" capace di parlare lucidamente d'amore, nonché La terra santa di Alda Merini, che piega la funzione poetica alla piaga allucinata della sua degenza manicomiale, anche lei trasformando
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l'immobilità in vortice amoroso, come recita la chiusa di Laggiù dove morivano i dannati: «e il tuo corpo andava in briciole, / delle tue briciole bionde e odorose / che scendevano a devastare / sciami di rondini improvvise». Un'altra poetessa per me significativa, che adopera la lingua come un martello, è Jolanda Insana: la scoprii nell'antologia di Mario Lunetta, Poesia italiana oggi, ricchissima fonte sulla scrittura poetica della fine degli anni Settanta, nella quale ebbi modo di conoscere anche Gianni Toti, poeta dagli «sfavillanti deliri lessical / sintattici / semantici» come scrisse Lunetta, ma anche capace di un versificare asciutto, distaccato, sulla scia di Corrado Costa, dove lo sguardo fermo sa vedere – e poi raccontare – lo spazio in apparenza garantito, ed invece alienato, della quotidianità, come saprà fare, più tardi, Valerio Magrelli. Certo ci sono tanti altri poeti italiani, la cui scrittura riesce a toccarmi; Zanzotto, per esempio, anche se il suo grimaldello Lacan agisce a volte troppo scopertamente, trasformando la polpa della lingua in un rivo senz'acqua o in uno schedario; mania, quest'ultima, cara anche a Sanguineti, la cui forza desiderante comunque sempre mi sorprende. Antonio Porta
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cominciai invece ad apprezzarlo più tardi, via via che mi allontanavo dall'avanguardia: II progetto infinito, in questo senso, con tutta la sua attenzione alla caducità, fu una lettura decisiva, che mi fece riconsiderare la scrittura portiana, anche quella degli anni Sessanta, alla luce della pietas verso i mortali. E poi ci sono i poeti della mia generazione e quelli più giovani, la cosiddetta «generazione di mezzo» e quella 'rampante', quest'ultima già canonizzata ad uso e consumo di un pubblico under trenta, poco incline a rimettersi ad una tradizione forte ed esposta invece al vento del presente, con le sue mode e i suoi miti. Entro questo orizzonte, leggo con assiduità moltissimi autori. Con alcuni tengo vivace corrispondenza, anche attraverso saggi o articoli pubblicati in riviste, che sono il vero presente della poesia, il luogo del suo farsi e disfarsi, in una tensione ricca di futuro. Fare i nomi è difficile, naturalmente. Fra gli autori di cui ho scritto nell'ultimo anno, mi piace ricordare Paola F. Febbraro - che, con La rivoluzione è solo della terra, ha composto un canto «della specie femminile che piange», ma al modo della terra che s'apre e butta fuori l'incandescenza - e Giorgio Bonacini, la cui opera è tutta rivolta, come scrisse
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Giovanni Infelise citando Roland Barthes, a «comunicare l'interiorità senza concedere l'intimità». Autrice che sento un po' 'sorella' sia sotto il profilo poetico sia intellettuale è Gabriela Fantato, il cui ultimo libro, Il tempo dovuto, mette in scena dieci anni di scrittura d'area lombarda, ma filtrata dalla passione per le grandi scrittici novecentesche (dalla Pozzi alla Campo, dalla Rosselli alla Spaziani) e dalla ricerca delle proprie radici, in linea con quel senso di spaesamento ed erranza che contraddistingue la migliore scrittura contemporanea. Vorrei sottolineare, ancora, la ricerca di due giovani autori, serissimi e competenti; si tratta di Marco Giovenale e Massimo Sannelli, impegnati a portare avanti, ciascuno secondo la propria sensibilità, la ricerca di Giuliano Mesa, poeta decisivo della mia generazione e certo letto non ancora abbastanza. Infine, desidero nominare Andrea Ponso, abilissimo, come scrive Santagostini, ad «inoltrarsi nelle zone incerte, ambigue e primigenie della natura». Per concludere, vorrei spendere due parole sulla saggistica. La mia scrittura, infatti, si è sempre nutrita di letture eterogenee. Fra gli autori che più hanno influenzato il mio pensiero, ci sono anzitutto Heidegger (la mia tesi di laurea aveva per oggetto il
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pensiero debole di Gianni Vattimo, riletto a partire dal filosofo tedesco) e Jabès, la cui opera dà corpo ad un'erranza senza posa e senza proprietà, dove ogni passo migrante descrive le ragioni dell'intero migrare, in un procedere orizzontale che si abbandona al deserto della scrittura. A questi, vorrei aggiungere Jean-Luc Nancy, forse il più rigoroso nel pensare l'essere slegandolo dalla fondatività e, per la capacità di entusiasmarmi, Bruce Chatwin, il cui zibaldone sull'alternativa nomade costituisce un vero manuale di sopravvivenza all'interno di una società che ha perduto i concetti di qui e altrove o li ha surrogati nell'artificio delle agenzie turistiche. Decisivi, per comprendere questo, sono stati anche Mircea Eliade e J. G. Frazer, con i loro studi sulle civiltà arcaiche. Fra gli italiani, due filosofi che seguo con interesse sono Franco Rella e Giorgio Agamben; e poi c'è Alfonso Cariolato, amico di vecchia data e allievo di Nancy, che mi ha fatto conoscere molti dei pensatori qui citati.
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Ringraziamenti Un sincero ringraziamento agli amici di “In realtĂ la poesiaâ€?, in particolare Davide Castiglione e Luigi Bosco, che conosco e stimo da parecchi anni. E grazie agli editori che hanno consentito gratuitamente la riproduzione di queste pagine.
Stefano Guglielmin è nato nel 1961 a Schio (VI), dove vive e lavora come insegnante di lettere. Laureato in filosofia nel 1986 con una testi sul "pensiero debole" di G. Vattimo (110 e lode). Membro della Società filosofica Italiana. Ha pubblicato le sillogi Fascinose estroversioni (Quaderni del Gruppo Fara, 1985, premio “poesia giovane”), Logoshima (Firenze Libri, 1988), come a beato confine (Book Editore, 2003, primo premio "Lorenzo Montano"), La distanza immedicata / The immedicate rift (Le Voci della Luna, 2006, finalista al premio "Montano" Verona, segnalato ai premi "Campagnola" di Padova e al "Gozzano" di Terzo, prov. Alessandria), C'è bufera dentro la madre (L'arcolaio, 2010, 2° class. al "Città di Adelfia", Bari; 3° class. al Premio "Anna Osti" di Costa di Rovigo), Le volpi gridano in giardino (CFR Edizioni, 2013, 2° class. all' "A. Osti"), Maybe it’s raining. Selected poemes (1985-2014) (Chelsea Editions, 2014) e i saggi Scritti nomadi. Spaesamento ed erranza nella letteratura del Novecento (Anterem, 2001), Senza riparo. Poesia e finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque. Uno sguardo (dalla rete) sulla poesia italiana contemporanea (Le Voci della Luna, 2011) e Le vie del ritorno. Letteratura, pensiero, caducità (Moretti&Vitali, 2014).
Ăˆ inserito in alcune antologie, fra le quali Il presente della poesia italiana, curata da C. Dentali e S. Salvi (LietoColle, 2006) e Caminos del agua. Antologia de poetas italianos del segundo Novecientos, a cura di E. Reginato (Monte Avila, 2008). Suoi saggi e poesie sono usciti su numerose riviste italiane ed estere e su siti web. Ha pubblicato anche racconti; l’ultimo in L. Liberale (a cura di), Père-Lachiase. Racconti dalle tombe di Parigi, Ratio et Rivelatio, Oradea (Romania), 2014. Dirige le collane di poesia "Laboratorio" per le edizioni "L'Arcolaio", "Segni" per conto de "Le Voci della Luna" e, assieme a M. Ferrari e M. Morasso, "Format" della "Puntoacapo Editrice". Gestisce il blog di poesia Blanc de ta nuque.