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Índex
Odisseo a Itaca: il monologo di Od. XIII 187-221 fra critica analitica e poetica dell’ironia (con una nota su Il Ritorno di Giovanni Pascoli).
E. Medda 7
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177: testo e metro, con alcune osservazioni sulla struttura formale dei vv. 117-139. L. Lomiento 31
Il matricidio come tabù: verosimiglianza dialogica ed efficacia drammatica della prima sticomitia delle Coefore P. Brugnatelli 47
Una congettura a Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi 2, 19. L. Battezzato ......................................................................................................................... 73
Baci romani: basium, osculum, savium. P.A. Perotti 81
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira: el tópico del tenuis victus. A. Egea................................................................................................. 99
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques? I. Gassino 117
La construcción de una identidad política: La carta de Juliano el Apóstata
Al Senado y al pueblo de Atenas. E. Redondo-Moyano ............................................... 147
Dal mito al cinema attraverso il fumetto: le Amazzoni, Wonder Woman e la norma delle identità di genere. M. Deriu 173
Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica
Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 7-29
DOI: 10.2436/20.2501.01.81
Odisseo a Itaca: il monologo di Od. XIII 187-221 fra critica analitica e poetica dell’ironia (con una nota su Il Ritorno di Giovanni Pascoli)*
Enrico Medda
Università di Pisa
AbstrAct
At Od. XIII 187-221 Odysseus’ wakes up on Ithaca’s soil, but does not immediately recognize his native land, covered by the mist poured by Athena. He thinks he has landed again in an unknown country and utters a desperate monologue, blaming the Phaecians for having deceived him. The scene is not free from problematic aspects, which have prompted many analytical attempts to explain the alleged defects of logic and poetry as the consequence of the overlapping of different versions of the story and/or of the work of more than one poet. On the other hand, many interpreters have detected in the passage a clear and successful poetic idea centered on irony. The aim of this article is to show how the poetic diction proves to be perfectly functional in this direction, and how the author creates a sophisticated interplay between traditional elements and innovative traits. The final section discusses the reception of the Homeric passage in Giovanni Pascoli’s poem Il Ritorno, which was included in the second edition of Odi e Inni (1907).
Keywords: Odyssey – Composition – Monologue – Irony – Giovanni Pascoli – Il Ritorno
Nel XIII libro dell’ Odissea il protagonista, concluso il suo grande racconto, chiede e ottiene da Alcinoo, re dei Feaci, di essere ricondotto in patria. Du-
* Desidero esprimere il mio ringraziamento ai due anonimi lettori della rivista per le loro osservazioni e alcuni utili suggerimenti.
Enrico Meddarante il viaggio per mare cade in un sonno profondo, che gli fa scordare tutte le sue pene (v. 92), e all’arrivo i Feaci lo depongono, senza svegliarlo, sulla spiaggia di Itaca, lasciandogli accanto, sotto l’ulivo che si trova presso il porto, i ricchi doni ospitali che hanno trasportato assieme a lui (vv. 116-24).
Dopo una digressione sul ritorno dei Feaci a Scheria (vv. 125-87), la narrazione relativa a Odisseo riprende ai vv. 187-88, nel momento in cui l’eroe si risveglia sul suolo della sua patria:
Si conclude così la parte fantastica delle sue avventure, che lo ha portato a contatto con dèi, esseri misteriosi, mostri e popoli esotici, e al suo posto subentra la realtà quotidiana di Itaca, nella quale il re dovrà confrontarsi con i rischi derivanti dall’arroganza dei pretendenti che si sono insediati nella sua casa.
Finalmente, la terra tanto desiderata è lì, sotto i piedi dell’eroe, e ci si potrebbe attendere che il poeta indugi sulle emozioni del personaggio in questo momento che tanto ha atteso. Ma l’autore ha altro in mente, e già con il secondo emistichio del v. 188, οὐδέ μιν ἔγνω, imprime alla situazione uno sviluppo inaspettato. Odisseo, infatti, non riconosce Itaca: anzi, per lui sembra riproporsi una situazione dolorosa già tante volte vissuta, quella dell’approdo in una terra sconosciuta e potenzialmente ostile, che lo spinge a dar voce al proprio sconforto in un agitato monologo sulla riva del mare (vv. 200-216). Il passo, collocato in un momento decisivo per l’articolazione dell’intero poema, è stato oggetto di analisi serrate, volte a individuare tratti di illogicità che potrebbero rivelare la malriuscita sutura fra strati compositivi differenti, o addirittura la presenza di mani poetiche diverse. La quantità e la varietà delle proposte testuali ed esegetiche che ne sono scaturite è tale da rendere il compito dell’interprete particolarmente difficile, e richiede alcune considerazioni preliminari.
Una prima difficoltà riguarda l’individuazione della causa del mancato riconoscimento di Itaca da parte di Odisseo. Il primo emistichio del v. 189 fornisce infatti una motivazione, con la frase ἤδη
ἀπεών , la cui lettura più naturale è quella che assegna al participio valore causale («perché era lontano da molto da tempo»). Nella seconda parte dello stesso verso però si avvia una nuova frase, introdotta da γάρ, che offre una spiegazione di natura diversa (vv. 189-96):
1. Il risveglio di Odisseo è bruscamente collocato a metà verso, in coincidenza con l’improvviso cambio di ambientazione (da Scheria si ritorna a Itaca), secondo una tecnica che caratterizza il narratore dell’Odissea (cf. richArdson 2006, 345-47 e 357, e anche reece 1993, 73).
la dea Pallade Atena, figlia di Zeus, aveva infatti riversato all’intorno una foschia per renderlo irriconoscibile e potergli dire tutto, che non lo riconoscessero la moglie e i concittadini, prima che avesse fatto pagare ai pretendenti la loro arroganza. Per questo tutto appariva estraneo al sovrano, i lunghi sentieri, i porti accoglienti, le rocce scoscese e gli alberi fiorenti.
Questa seconda motivazione si sovrappone alla precedente in un modo che a molti critici è parso insoddisfacente, e ha offerto il destro per ipotizzare la combinazione di versioni diverse della storia: una che narrava come l’eroe non riconoscesse i luoghi della sua terra per la troppo lunga assenza, l’altra che prevedeva un intervento di Atena che nasconde con la nebbia il paesaggio di Itaca e ritarda per Odisseo la gioia dell’agnizione. Non è il caso di soffermarsi su eccessi critici come il tentativo di eliminare dal tredicesimo canto tutto l’episodio del mancato riconoscimento del paesaggio e dell’incontro con Atena in veste di giovane pastore, passando direttamente dal v. 187 al v. 3533; si deve però riconoscere che non tutto è chiaro nel passo e che sussistono ragionevoli spazi di dubbio. I critici analitici si sono mossi su due linee. Bergk e Kirchhoff proposero l’espunzione dei vv. 190-93, così da rescindere del tutto il legame fra la nebbia e Atena, e lasciare un più semplice e naturale riferimento alla nebbia mattutina4. Il punto debole di questo intervento è che esso lascia θεός del v. 189 isolato, a indicare genericamente la divinità che suscita la nebbia. È vero che a sostegno di quest’uso possono essere citati numerosi passi odissiaci5, ma decisiva è l’osservazione di Jörgensen che tutte le occorrenze appartengono a discorsi di singoli personaggi, che attribuiscono
2. Prendo qui come punto di partenza il testo vulgato dei manoscritti medievali (com’è stampato nell’edizione di Von der Mühll 19623), che richiede tuttavia, come risulterà dal seguito della discussione, almeno una modifica rilevante.
3. Ne discute dAwe 1993, 511, in polemica con strAuss-clAy 1983, 189-90.
4. Cf. bergK 1872, 699 e Kirchhoff 1879, 497-98. Altri studiosi ottocenteschi favorevoli a questa proposta sono elencati da hentze 1895, 16; nel Novecento l’accoglie tra gli altri MerKelbAch 19692, 58.
5. Elencati da west 2014, 233, n.145 (III 158, 183, VII 286, VIII 44, 9 158, XII 419, XIII 317, XIV 227, 245, XV 168, XVII 218, XVIII 37, 265; XIX 485, XXI 280, XXII 347, XXIII 222). West inclina per altro a individuare nel passo un ripensamento d’autore. Nella stesura originaria il poeta Q avrebbe immaginato una semplice nebbia; poi avrebbe optato per l’attribuzione della stessa ad Atena, aggiungendo il blocco 190-197.
a un principio divino indeterminato i fatti di cui sono stati protagonisti, mentre tale modalità espressiva non compare mai quando a narrare è direttamente l’autore6
La seconda linea è quella di Focke, che, ritenendo le due motivazioni (lunga assenza e nebbia) incompatibili fra loro, individua nei vv. 189b-193 un’aggiunta posteriore, attribuibile al suo poeta T (quello che avrebbe aggiunto la Telemachia e dato la forma definitiva al poema tra l’ottavo e il settimo secolo a.C.)7. Focke fa leva su quattro argomenti: (a) l’inutile crudeltà di Atena nel nascondere l’isola al reduce; (b) Odisseo non parla mai della nebbia, e nonostante la sua presenza riesce a vedere tutto intorno a sé; (c) il riferimento alla vendetta sui pretendenti è un motivo tipico del poeta T; (d) benché al v. 191 si dica che la dea fa sorgere la nebbia per poter raccontare all’eroe i fatti relativi ai pretendenti, ai vv. 349-52 Atena rivela a Odisseo i tratti del paesaggio di Itaca e disperde la nebbia, prima di aver effettivamente parlato con lui di questo argomento. Si tratta di obiezioni non particolarmente forti, in quanto ispirate a una lettura troppo razionalistica del testo. La crudeltà di Atena non può essere considerata argomento dirimente, perché il poeta sembra aver intenzionalmente scelto questa linea, in una chiave chiaramente ironica8. Il fatto che Odisseo non parli della nebbia appare poi del tutto irrilevante. L’atmosfera del passo è magica, non naturalistica, e l’ἀήρ è soprattutto uno strumento divino per rendere irriconoscibili cose e persone, come avviene anche in VII 14-17, durante il tragitto di Odisseo dalla costa di Scheria al palazzo di Alcinoo. Odisseo non avrebbe dunque ragione di soffermarsi a notare la presenza della foschia. L’argomento (c) è ai limiti del ragionamento circolare, visto che i caratteri propri del poeta T sono stabiliti dallo stesso Focke. Quanto infine a (d), la rivelazione di Itaca da parte di Atena è direttamente conseguente all’inattesa reazione da parte di Odisseo, che prima provoca la dea con un falso racconto, causandone l’ilarità, e poi esprime il timore che ella voglia ingannarlo, e chiede conferma del fatto di essere arrivato proprio nella sua isola. Più in generale, rimuovere del tutto il motivo della nebbia priverebbe l’episodio di un elemento essenziale qual è l’azione della divinità nel processo che
6. Jörgensen 1904, 364 e 382; cf. anche eisenberger 1973, 215-16; KrehMer 1973, 18.
7. focKe 1943, 272-73: l’espunzione richiede naturalmente di completare il v. 189 con un emistichio che sostituisca quello espunto. Sulla stessa linea si pone dAwe 1993, 512, che giudica naturale la motivazione legata alla lunga assenza, artificiosa invece quella che riconduce il mancato riconoscimento alla nebbia di Atena. Non ritengo per altro produttivo discutere se Odisseo possa o meno aver perduto la memoria della sua patria al punto da non riconoscerla (cf. ad esempio heubecK; hoeKstrA 1989, 176 [= hoeKstrA; PriViterA 1984, 175]). Lo smarrimento del reduce lontano da tanto tempo sarebbe comunque un motivo del tutto credibile in termini poetici.
8. Cf. feniK 1974, 36-37, che mostra come i risvolti di crudeltà nel comportamento della dea si stemperino nell’atmosfera ironica scelta dal poeta per questo episodio. D’altra parte, il mascheramento del paesaggio agli occhi di Odisseo non sarebbe il solo tratto ‘crudele’ della scena: Atena traveste anche se stessa, per poi rivelarsi solo in un secondo momento. Per una chiara discussione dei limiti della proposta di Focke cf. KrehMer 1973, 13-15.
Odisseo a Itaca 11
vede prima il fraintendimento di Odisseo e poi la rivelazione della realtà di Itaca9 .
Un tentativo di superare il problema dell’apparente contraddizione tra le due motivazioni è operato da Ameis-Hentze-Cauer ad l. con la proposta di intendere la clausola ἤδη δὴν ἀπεών non in senso causale, ma piuttosto come un participio con valore circostanziale, ‘lui che era assente da tanto tempo’. La spiegazione di οὐδέ μιν ἔγνω sarebbe dunque fornita solo dalla frase seguente, introdotta da γάρ. L’idea è ripresa da Stanford, secondo il quale ἤδη δὴν ἀπεών rappresenta una semplice aggiunta di carattere patetico10. Erbse cerca di corroborarla adducendo un parallelo per l’uso particolare che si avrebbe qui del participio presente in riferimento a una situazione passata, Aesch. Pe. 266-67 καὶ μὴν παρών γε κοὐ λ ό γους ἄλλων κλυών, / Πέρσαι, φράσαιμ’ ἄν, οἷ’ ἐπορσύνθη
11. Ma, anche qualora non si contesti la legittimità di tale resa del participio, non si può obliterare il fatto che l’ordine delle parole non porta in questa direzione. La collocazione del nesso participiale immediatamente dopo οὐδέ μιν ἔγνω suggerisce una connessione causale diretta, mentre con l’interpretazione di Ameis-Hentze-Cauer e Stanford la parte più importante della frase, quella che esprime il mancato riconoscimento, verrebbe a indebolirsi eccessivamente, riducendosi a una parentetica quasi casuale12
In realtà, il problema della presunta contraddizione tra le due motivazioni presenti è stato largamente sopravvalutato. Se si ragiona in termini di doppia motivazione, si può pensare che il poeta abbia espresso la stessa situazione prima in prospettiva umana, giustificando il mancato riconoscimento di Itaca con la lunga assenza dell’eroe, e poi, in prospettiva divina, introducendo l’azione di Atena, che nella dimensione epica è l’agente divino che causa quell’effetto13. Le due spiegazioni, di fatto, risultano concorrenti: Odisseo, la cui memoria è indebolita dalla lunga assenza e dalle molte occasioni in cui si è ritrovato in luoghi sconosciuti, non è in grado di riconoscere subito i luoghi
9. Su questo aspetto cf. le opportune osservazioni di KleinKnecht 1958, 61-62.
10. stAnford 1948, II 206.
11. Cf. erbse 1972, 150, con rimando a Kühner-gerth I 200, Anm. 9 e 10, dove sono riportati altri esempi (tra cui Od. VIII 489-91
, Thuc. II 58
). Si vedano anche le traduzioni di Privitera (in hoeKstrA; PriViterA 1984, 21), ferrAri 2001, 481 e di benedetto 2010, 711. bowie 2013, 129 sostiene questa lettura richiamando Od. XIV 329-30,
, ma in quel caso la clausola
si riferisce a una situazione in atto, non al passato («come potesse tornare alla fertile contrada di Itaca, dalla quale da tempo era lontano».
12. Quest’ultima osservazione è di Hoekstra in heubecK; hoeKstrA 1989, 176 (= hoeKstrA; PriViterA 1984, 175).
13. Lo suggeriva già hentze 1895, 16, richiamando il passo di Il. XXIII 774-76 nel quale lo scivolone di Aiace Oileo durante la corsa nei giochi per Patroclo è attribuito al tempo stesso alla presenza sul percorso di escrementi bovini e all’intervento di Atena; cf. poi hennings 1903, 398 e Pucci 1987, 100 n. 5 («the theomagical explanation simply doubles the natural one»).
natii velati dall’ ἀ ή ρ (questo permette di dare a γάρ il suo pieno valore esplicativo)14 .
Assumendo come valida questa lettura, resta comunque un’altra seria difficoltà. Secondo il testo tràdito Atena crea la nebbia per rendere Odisseo ἄγνωστον, ‘irriconoscibile’ e per «dirgli ogni cosa, in modo che non venisse riconosciuto dalla moglie e dai concittadini prima di aver punito l’arroganza dei pretendenti» (vv. 192-93). È chiaro però dall’insieme del passo che la nebbia non serve a rendere irriconoscibile (o addirittura invisibile)15 Odisseo, ma piuttosto a travisare il paesaggio di Itaca ai suoi occhi. Questo è confermato dal v. 352 ὣς εἰποῦσα
: la nebbia cessa di esercitare la funzione per cui era stata introdotta, quella di mascherare il paesaggio, e nulla si dice di un suo precedente contributo in direzione della trasformazione di Odisseo, stratagemma che Atena annuncia solo più avanti, ai vv. 397-403. Pucci cerca di ricavare in qualche modo dal testo il senso atteso, traducendo ἄγνωστον con «incapace di riconoscere la sua patria», ma la proposta non ha sufficiente sostegno linguistico16. Ci si aspetterebbe infatti in questo caso un genitivo, come quello che compare in Pind.
Ol . 6.67 φωνάν … ἄγνωστον ψευδέων (‘la voce’, scil. di Apollo, ‘che non conosce menzogna’) secondo il consueto costrutto dei composti in ἀ- privativo. La sua assenza rende i due passi di fatto non comparabili. Inoltre, perché mai Odisseo dovrebbe essere reso irriconoscibile perché Atena possa spiegargli tutto e aiutarlo a pianificare l’azione contro i pretendenti?
La difficoltà costituita dall’agire illogico della dea in questo passo era già stata avvertita in epoca alessandrina. Lo sappiamo da uno scolio del cod. H al v. 190 (II p. 567.14-5 Dindorf), che in corrispondenza del lemma ὄφρα μιν αὐτὸν annota
Aristofane di Bisanzio stabiliva cioè (per congettura? o forse conosceva una variante?) un testo con il dativo αὐτῷ, da riferire a Odisseo, al quale la dea vuole rendere irriconoscibile l’isola, mentre il pronome μιν indica l’isola stessa17. Questo assetto permette di conferire al testo un andamento logico soddisfacente, ma pone evidentemente un problema per quanto riguarda il nesso fra i vv. 190-91, che attribuiscono ad Atena l’invio della nebbia per rendere
14. KrehMer 1973, 10 osserva opportunamente che la clausola ἤδη δὴν ἀπεών va letta sullo sfondo di altre situazioni in cui Odisseo, al risveglio dal sonno, si era trovato in situazioni del tutto diverse da quelle che si aspettava. Ad esempio, in X 31-52 l’eroe si addormenta quando già ha in vista la costa di Itaca, ma l’apertura dell’otre di Eolo da parte dei compagni sospinge via la nave e Odisseo al risveglio pensa addirittura al suicidio; in XII 335-73 Odisseo si addormenta nell’isola di Thrinakia e al risveglio scopre con sgomento il misfatto dei compagni che hanno ucciso le vacche di Helios.
15. Uno scolio del codice V al v. 191 (II p. 567.16 Dindorf) glossa ἄγνωστον con ἀφανῆ, con evidente forzatura. Il significato di ἄγνωστον non può che essere ‘irriconoscibile’, come in Od. XIII 397 ἄλλ’ ἄγε
16. Cf. Pucci 1987, 100 n. 6.
e II 175-6 ἄγνωστον
(cf. LfrgE I 82, s.v.).
17. Nel codice H (Lond. Bibl. Harl. 5674, metà del XII secolo) la lezione è anche riportata s.l., e N (Marc. Gr. 613 [568], saec. XIII) la presenta a testo, introdotta verosimilmente da qualcuno che conosceva lo scolio.
l’isola irriconoscibile, e i vv. 192-93. Il mascheramento del paesaggio non potrebbe avere infatti alcuna funzione in relazione al desiderio della dea di evitare che Odisseo sia riconosciuto troppo presto dai concittadini e dai familiari. Chi ha composto i vv. 192-93 leggeva probabilmente μιν αὐτόν e intendeva ἄγνωστον come riferito a Odisseo; ne consegue che accogliere la lezione di Aristofane comporta l’espunzione di quel distico18 Nell’insieme, questa soluzione presenta indubbie attrattive. I vv. 192-93 potrebbero essere nati come spiegazione dei vv. 190-91 dopo che αὐτῷ era stato erroneamente riferito a Odisseo e corrotto in αὐτόν. Scomparirebbe così anche una delle non molte occorrenze omeriche della coppia di pronomi μιν αὐτόν, che dovrebbe avere qui un valore enfatico non particolarmente soddisfacente19. Resta però qualche dubbio in relazione alla finale ὄφρα … ἕκαστά τε μυθήσαιτο, che, privata di ciò che segue, deve esprimere l’intenzione di Atena di essere lei a rivelare a Odisseo la realtà di Itaca (cosa che farà effettivamente ai vv. 344-51). Wilamowitz ritiene che il verbo μυθεῖσθαι significhi ‘nominare’, e cita come paralleli Od. IX 16 νῦν δ’ ὄνομα πρῶτον μυθήσομαι e Il. III 255 οὔνομα μυθησαίμην, non del tutto adeguati a causa della della esplicta presenza di ὄνομα20; ma un parallelo pienamente soddisfacente per quel significato può essere individuato in Od. XIX 500 τίη δὲ σὺ τὰς μυθήσεαι; («perché vuoi dirmene tu i nomi?»), detto da Odisseo a Euriclea che poco prima ha espresso l’intenzione di rivelare i nomi delle ancelle infedeli. Quanto all’obiezione di Marion Müller, secondo la quale sarebbe illogico che Atena velasse l’isola con la nebbia solo per poi essere lei a rivelarla21, si può rispondere che con questo metro di giudizio sarebbe illogico anche che la dea si presenti travestita da pastore per poi poco dopo rivelare la sua identità. L’atetesi di 192-93 è dunque una soluzione accettabile, che restituisce alla situazione un minimo di consequenzialità, e inclino a condividere la scelta di West, che nella sua recente edizione ha posto a testo la lezione di Aristofane e espunto il distico. Ma si deve lasciare aperta la porta ad altre possibilità: numerosi interpreti difendono μιν αὐτόν (e dunque l’allusione alla trasformazione di Odisseo) per il suo valore di preparazione di un tema destinato a essere centrale nella seconda parte del poema (il contrasto tra apparenza e realtà), e per il fatto che Atena vela la realtà di Itaca per bloccare un troppo rapido avviarsi dell’eroe verso casa sua, che avrebbe causato un riconoscimento precoce potenzialmente fatale22. Krehmer, in particolare, suggerisce la possibilità
18. Operata da nAber 1855, 205 e 1877, 139, e accolta da wilAMowitz 1927, 6-7, Von der Mühll 1940, 734 e 19623 , KleinKnecht 1958, p. 61-62 n. 14, eisenberger 1973, 216 e west 2017, 280.
19. Per il valore di μιν αὐτόν (riflessivo oppure enfatico) cf. chAntrAine 2013, I 264 n. 2. di benedetto 2010, p. 713, n. ad v. 191 intende «‘lui personalmente’, distinto da Atena», ma l’enfasi non pare giustificata dal contesto della frase.
20. Lo nota focKe 1943, 272.
21. Müller 1966, 89, e cf. hennings 1903, 399.
22. Per il motivo del contrasto tra apparenza e realtà cf. heubecK 1954, 61 n. 93 e strAuss clAy 1983, 192; per la necessità di bloccare temporaneamente Odisseo sulla spiaggia stAnford 1948, 206, erbse 1972, 149, di benedetto 2010, 713 e bowie 2013, 129. Resta comunque il fatto che la nebbia può rendere Odisseo ‘invisibile’, non ‘irriconoscibile’ (che è la corretta
che il testo tràdito rispecchi una modalità espressiva tipica della poesia arcaica, che ammette durezze non abituali per epoche successive. Atena avrebbe cioè due scopi, quello di velare Itaca e quello di trattenere l’eroe sulla spiaggia per renderlo irriconoscibile, ma espliciterebbe solo il secondo, lasciando agli ascoltatori il compito di integrare il passaggio logico soppresso23 . Lasciamo adesso da parte lo scivoloso terreno dell’analisi per ragionare un poco in termini di invenzione poetica. Per quanto il passo possa apparire problematico, nessuno ha messo in dubbio quella che ne appare l’idea più riuscita, e cioè il non far riconoscere a Odisseo la sua patria, nel momento in cui vi rimette finalmente piede dopo vent’anni. Lo stesso Focke, che pure espunge la nebbia dalla formulazione originaria del passo, riconosce in questa scelta il tratto di un grande poeta, dotato di viva immaginazione24, e Wilamowitz sottolinea la trasformazione dell’eroe πολυμήχανος degli apologhi in un uomo apparentemente ἀμ ή χανος , che non si rende neppure conto di dove si trova e ha bisogno del sostegno della divinità25. Il poeta sta consapevolmente costruendo una situazione nuova, una variazione sul motivo dell’approdo ad una terra sconosciuta, tante volte ricorrente in un poema che narra il più lungo fra i νόστοι dei partecipanti alla guerra di Troia. La chiave di questo trattamento innovativo sta nell’approccio ironico alla situazione del protagonista, ormai salvo e tuttavia ancora inconsapevole di essere a casa, e dunque incline a esprimersi e a comportarsi in un modo che l’ascoltatore percepisce come sfasato rispetto alla realtà26 .
interpretazione di ἄγνωστον, cf. sopra n. 15), e comunque alla dea non sarebbe certo mancata la possibilità di fermare l’eroe sulla strada di casa e procedere alle rivelazioni necessarie anche senza lo stratagemma dell’ἀήρ (cf. KrehMer 1973, 264). 23. Cf. KrehMer 1973, 28-31, che apporta per altro anche argomenti a favore della lezione di Aristofane (in questo caso ad essere esplicitato sarebbe solo il primo e non il secondo dei due scopi), lasciando nella sostanza la questione aperta. Non credo invece rappresenti una strada praticabile la proposta di drews 2016, 534 n. 24 che, riprendendo un suggerimento di stAnford 1948 e thornton 1970, 96, assegna a ὄφρα valore temporale: «mit der Übersetzung “bis” zielt Vers 190 dagegen von vornherein als Vorverweis auf V. 352, wo das Zerstaüben des Nebels und die damit für Odysseus erreichte Gewissheit, tatsächlich auf Ithaka zu sein, die weitere Planung zwischen Athene und Odysseus einleitet, welche dann zu dessen Verunkenntlichung führt. Homer verweist also in aller Gerafftheit, aber für den Ersthörr/-leser doch prägnant verständlich auf den sich im Weiteren entfaltenden Athene-Plan». La valenza temporale di ὄφρα con l’ottativo aoristo è occasionalmente documentata (Il. X 51, Od. III 285, XII 437: chAntrAine 2013, ii 263), ma in questo caso il significato della frase risulterebbe ambiguo, e sarebbe percepibile nel senso indicato da Drews solo per chi conosca già il seguito della scena. Inoltre al v. 352 la dea fa scomparire la nebbia prima di aver fatto cenno alla trasformazione di Odisseo, che avviene solo dopo che i due hanno riposto assieme i doni nella grotta delle Naiadi (v. 375). Dunque, se si desse a ὄφρα il valore di ‘finché’, la formulazione dei vv. 190-91 non corrisponderebbe di fatto alla sequenza narrativa che si realizza nel seguito.
24. focKe 1943, 271; cf. anche diMocK 1989, 181: «This is a marvelously dramatic conception, full of pathos and irony. It makes us feel as keenly as possible what Odysseus’s homecoming means, by letting us experience both the fact and its negation at the same instant».
25. wilAMowitz 1927, 8.
26. Per un’analisi dell’arrivo a Itaca nel XIII libro come variazione ironica del motivo ricorrente dell’approdo a nuove terre è essenziale lo studio di feniK 1974, 35-38; sull’approccio
L’aspetto che mi interessa indagare è in che misura si possano cogliere nella dizione poetica del passo i segni di questa strategia particolare, se cioè — e come — il poeta abbia piegato il materiale tradizionale di cui si sostanzia l’epos a una situazione specifica, in corrispondenza dell’idea nuova che intende sviluppare. Da questo punto di vista, è essenziale la valutazione dei fenomeni di ripresa e di ripetizione di versi e nessi particolari, nonché degli scarti che vengono di volta in volta introdotti, e che possono essere letti come segnali significativi del modo di procedere del poeta27 . Un primo dato di rilievo è costituito dall’emistichio 187b ὁ δ’ ἔγρετο δῖος Ὀδυσσεύς, che riprende direttamente la formulazione che introduce il difficile risveglio del naufrago, nudo e coperto di salsedine, a Scheria (VI 117b: anche in quel caso a metà del verso). Sono queste le uniche due attestazioni odissiache del nesso, che nell’Iliade ricorre, sempre nel secondo emistichio, ma in forma diversa in XV 4 ἔγρετο δὲ Ζεύς. Il parallelismo con il risveglio sulla costa di Scheria introdotto da questo segmento ripetuto interagisce subito con una frase che non mostra alcun tratto di formularità (188 εὕδων ἐν γαίῃ πατρωίῃ, οὐδέ μιν ἔγνω) e che comporta una decisiva svolta ironica. Da una parte abbiamo infatti un emistichio che ripropone la situazione tipica dell’Odisseo dal nostos tribolato, dall’altra un verso innovativo che esprime la natura curiosa e particolare di questo approdo. In un momento così importante della sua storia l’eroe sta dormendo, e non è lui a controllare gli eventi con la sua intelligenza come aveva fatto tante altre volte. Inoltre, l’emistichio 188b οὐδέ μιν ἔγνω introduce l’effetto di sorpresa più forte. Invece di proporre agli ascoltatori una prevedibile esplosione di gioia per il ritorno in patria e una descrizione del paesaggio di Itaca attraverso gli occhi del reduce emozionato, il poeta descrive lo sguardo smarrito di Odisseo che si posa dolorosamente incerto su luoghi che hanno per lui un aspetto estraneo (vv. 194-96):
ironico alla situazione cf. anche de Jong 2001, 322-23 Più in generale sul tema dell’accoglienza e delle scene tipiche di ospitalità cf. reece 1993.
27. L’intento è solo quello di valutare come le ripetizioni e i rimandi a distanza si carichino di significato poetico specifico, senza addentrarsi nella più vasta questione della relazione fra tali fenomeni e la natura orale o scritta dei poemi. L’individuazione di collegamenti a distanza è ritenuta da molti critici unitari una prova della composizione scritta del poema, ma una parte della critica di orientamento oralistico ha da tempo riconosciuto che tali procedimenti erano possibili anche senza l’uso della scrittura, nel quadro di una poetica che si fonda sulla ripetizione continuamente variata di elementi tradizionali (penso in particolare alla teoria della ‘traditional referentiality’ elaborata da foley 1991 e 1999, e cf. anche il commento referenziale’ di Kelly 2007). ferrAri 1986, 51 osservava opportunamente che «il grande aedo è in grado non solo di piegare i propri ferri del mestiere a esprimere intenzionali valenze e personali orientamenti (purché naturalmente restino rispettate le regole del gioco), ma altresì di creare consapevoli rimandi a distanza, al fine di realizzare sottolineature tematiche che definiscano il taglio nuovo da lui dato al materiale della tradizione». Per una recente messa a punto sul problema cf. loMbArdi 2015.
28. «Alloeidea, which occurs only here in Homer … is … a key word to the entire passage» ( s tr A uss c l A y 1983 , 192), che tuttavia a p. 191 n. 11 va troppo oltre nell’estrarre da
Possiamo innanzitutto riconoscere un tratto dell’abilità compositiva del poeta nella scelta di aver anticipato rispetto al risveglio di Odisseo un elemento ineludibile della narrazione, qual era la descrizione dei luoghi di Itaca, collocandola nel momento in cui i Feaci hanno sbarcato l’eroe addormentato e i suoi beni sulla spiaggia (vv. 96-112):
Il dislocamento ha lo scopo evidente di non affidare la descrizione di Itaca direttamente a Odisseo. Perché il momento in cui l’eroe riprende contatto con la sua terra possa essere trattato in chiave di straniamento e ironia, è necessario che egli non abbia subito la piena percezione di dove si trova. Il poeta non vuole farlo confrontare immediatamente con un paesaggio la cui vista lo avrebbe coinvolto emotivamente a livello profondo. Ma ancor più rivelatore della strategia messa in atto dal narratore è il fine procedimento per cui i vv. 194-96, attraverso l’uso mirato del plurale, trasferiscono in una dimensione indeterminata gli stessi elementi del paesaggio che nella descrizione di 96-112 erano stati precisamente individuati: il porto di Phorkys (96) si trasforma nei λιμένες πάνορμοι di 195; i due promontori (97-100) nelle πέτραι τ’ ἠλίβατοι di 196; l’ulivo di 102 nei δένδρεα τηλεθάοντα di 19629 . Scompare inoltre del tutto la grotta delle Naiadi, l’elemento che più facilmente avrebbe rivelato l’identità del luogo e sarebbe troppo coinvolgente emotivamente per Odisseo (cf. l’appello gioioso che l’eroe rivolge alle Naiadi dopo che Atena ha dissipato la nebbia, vv. 356-60).
La diretta conseguenza di questo incontro straniato con l’isola è la reazione di disperazione del personaggio, che prova un ingiustificato risentimento contro i Feaci, ritenendoli responsabili di un inganno o di un errore. Poiché però gli ascoltatori sanno che questa volta il re, per sua fortuna, si sbaglia, il tutto si traduce in un elegante gioco ironico sviluppato dal poeta alle spalle del suo personaggio.
φαινέσκετο l’idea che i tratti del paesaggio «keep changing» (cf. anche KleinKnecht 1958, 62). L’iterativo esprime l’idea dello sguardo di Odisseo che si aggira tutt’attorno senza riconoscere i luoghi noti. Per la difesa di φαινέσκετο, tràdito dalla maggior parte dei manoscritti, contro φαίνετο di GH γρM ed Eustazio (preferito da wilAMowitz 1927, 7 n. 2) cf. bowie 2013, 130.
29. Su questa rappresentazione intenzionalmente vaga del paesaggio di Itaca cf. elliger 1975, 125-27
Gli spunti offerti da questa ideazione dell’episodio erano ghiotti e numerosi. Il poeta ne sceglie uno particolarmente produttivo e costruisce attorno ad esso un sapiente gioco di spostamento e di riutilizzazione di elementi formulari. Come spesso accade agli eroi omerici quando si trovano in situazioni difficili e cedono allo sgomento, Odisseo pronuncia un monologo30, introdotto da una sequenza che trova riscontri importanti nell’Iliade (vv. 197-99):
I vv. 198-99 ricorrono identici in Il. XV 397-98, dove Patroclo, che si trova nella tenda di Euripilo ferito per curarlo, si accorge delle difficoltà dei compagni, e con un gemito e un gesto di disperazione (il battersi le cosce con il palmo delle mani)31, dice all’amico che deve lasciarlo. Il segmento 198b-99 è attribuito inoltre in Il. XV 113-14 ad Ares, duramente colpito dalla notizia della morte di suo figlio Ascalafo (θαλερὼ
ὀλοφυρόμενος
ηὔδα)32. Ma soprattutto è rilevante il confronto con Il. XII 162-63, dove il gesto di battersi le cosce esprime la disperazione di Asio figlio di Irtaco, che non riesce a superare la resistenza dei nemici. Il verso formulare
introduce in quel passo un’allocuzione a Zeus, nella quale il disappunto e lo sconcerto («davvero non avrei detto che…») prevalgono sulla preghiera (Il. XII 162-66):
Colpisce il fatto che XIII 198-99 è l’unico luogo odissiaco in cui ricorrono questi versi formulari. Il poeta sembra aver selezionato nel repertorio formu-
30. Per uno studio delle emozioni e situazioni che in Omero portano i personaggi al monologo cf. PetersMAnn 1969, che alle pp. 230-32 si sofferma su Od. XIII 200-216. Il monologo di Odisseo rientra in un gruppo di monologhi che avvengono al risveglio, in completa solitudine, e consegue alla presa d’atto di una situazione che genera stress. Petersmann mette in rilievo come nell’Odissea il poeta tenda a dare rilievo al dato della solitudine e a creare delle situazioni di monologo più individualizzate rispetto all’Iliade.
31. Per altre fonti su questo gesto cf. la nota di JAnKo 1992, 241 a Il. XV 113-4.
32. Una variante si incontra in hom. hymn. Cer. 245-47
33. Per un’analisi di questo passo nel quadro di altre preghiere che presentano spunti monologici di lamento rimando a MeddA 1983, 38-39. Per il modulo espressivo οὐ γὰρ
ἐφάμην in situazioni in cui un personaggio prende atto che le cose sono andate diversamente da come si attendeva cf. Il. V 190, VIII 498, XV 251, XVII 171, XXII 298, Od. XIV 481, XVI 23-24, XVII 41-42, XX 90.
lare dell’Iliade il materiale più adatto a introdurre enfaticamente (e dunque a mostrare ironicamente) l’ingiustificata disperazione di Odisseo nel momento in cui prende atto di una situazione che non si aspettava e che gli appare terribile pur senza esserlo.
Ma si colgono anche altri contatti interessanti all’interno e all’esterno del poema. L’emistichio 197a στῆ δ’ ἄρ’ ἀναΐξας ha una sola altra occorrenza in Il. XV 6, e non a caso si tratta del passo che descrive il risveglio di Zeus (cf. il già citato emistichio XV 4 ἔγρετο δὲ Ζεύς) dopo l’amplesso con Hera, che coincide con il rendersi conto che durante il sonno le sorti della battaglia sono mutate a favore degli Achei. Su questo richiamo all’Iliade si innesta l’emistichio 197b καί ῥ’ εἴσιδε πατρίδα γαῖαν, che ricorda invece da vicino Od. V 392 ὁ δ’ ἄρα σχεδὸν εἴσιδε γαῖαν. In quel passo Odisseo, esausto e quasi sopraffatto dal mare, a un certo punto viene sollevato da un’onda e si rianima scorgendo dall’alto la terra ormai vicina. La gioia del personaggio è espressa tramite un lungo paragone con la felicità dei figli per la guarigione del padre da lungo tempo ammalato, concluso in V 398 dalla notazione ὣς Ὀδυσεῖ ἀσπαστὸν ἐείσατο γαῖα καὶ ὕλη. È notevole il fatto che si tratta dei soli due passi odissiaci che presentano il nesso εἴσιδε … γαῖαν, e il collegamento si rivela significativo. L’emozione positiva che il naufrago aveva vissuto in corrispondenza della vista della costa di Scheria appare qui intenzionalmente rovesciata: lo sguardo che Odisseo possa sulla terra cui è giunto (una terra, si badi bene, per lui al momento sconosciuta, come lo era Scheria nel quinto canto) non è fonte di gioia com’era stato allora, ma piuttosto di sgomento e sofferenza. Il narratore però svela il suo gioco ironico attraverso l’inserzione di πατρίδα, un dato che evidentemente Odisseo non può conoscere, e che è invece noto agli ascoltatori. Il parallelo rovesciato con l’esperienza vissuta a Scheria si fa più nitido nel momento in cui Odisseo pronuncia la prima parte del suo monologo (vv. 200-208):
I vv. 200-202 sono identici a quelli pronunciati da Odisseo nel momento del risveglio nella terra dei Feaci (VI 119-121), che introducevano con un’espressione di incerto sgomento un breve monologo deliberativo. Odisseo, incuriosito dalle voci delle ancelle di Nausicaa che si sentono nelle vicinanze, dopo un momento di incertezza decide di andare a vedere (cf. VI 126
congiuntivo
Odisseo a Itaca 19
che trova riscontro in XIII 215 ἄλλ’ ἄγε δὴ τὰ χρήματ’ ἀριθμήσω καὶ ἴδωμαι).
I versi 201-202, inoltre, ricorrono anche nel momento in cui Odisseo e i suoi stanno per inoltrarsi nel territorio dei Ciclopi (IX 175-76), uno dei punti di massima distanza dal mondo umano toccati dai marinai di Odisseo durante le loro peregrinazioni34. La costellazione di elementi messa insieme dal poeta per descrivere lo sgomento del re appare particolarmente efficace: il luogo più caro all’eroe gli appare come un’ennesima terra sconosciuta, forse popolata da uomini ostili e violenti che non rispettano la giustizia. In questo senso merita attenzione anche la domanda dei vv. 204-205 ( πῇ δὲ καὶ αὐτὸς / πλάζομαι;) nella quale ricorre un verbo che nel poema appare associato con i vagabondaggi conseguenti all’ira di Poseidone, e si ripropone dunque la situazione disperante del naufrago gettato su una costa sconosciuta35
Individuare nella ripetizione dei versi di VI 119-21 il segno di una mano seriore36 significa precludersi la comprensione del procedimento con cui il poeta struttura la scena. Essi costituiscono infatti una perfetta introduzione ironica per la prima parte del monologo (vv. 200-208), dominata dalla prospettiva di nuovi pericoli e dalla difficoltà di trovare una linea pratica di azione, attraverso il richiamo di altre, analoghe situazioni passate37. Anche a Itaca, come a Scheria e nella terra dei Ciclopi, Ulisse teme incontri potenzialmente ostili, e l’ironia si dispone su due livelli: il primo, più immediato, dovuto al fatto che il personaggio non sa che quella è la sua patria, e un secondo, sotterraneo, derivante dal fatto che l’ascoltatore è al corrente del fatto che in realtà anche a Itaca si trovano uomini che non rispettano la giustizia e l’ospitalità, con i quali il personaggio dovrà fare i conti. Odisseo, nel suo non sapere, dice al tempo stesso cose vere e cose non vere38 . I critici analitici hanno segnalato nel monologo altre presunte incoerenze che dovrebbero far sospettare un rimaneggiamento. La bipartizione abbastanza evidente del brano (vv. 200-208 espressione di sgomento e di incertezza sul da farsi ~ vv. 209-16 rimproveri mossi ai Feaci) è stata vista da più d’uno stu-
34. I vv. 201b-202 ricorrono anche, in forma lievemente variata, in Od. VIII 575-76, quando Alcinoo invita Odisseo a parlare dei suoi viaggi e a dire, fra gli uomini che ha incontrato, quali sono
35. Cf. louden 1999, 85 e 89, nel quadro di un’ampia discussione delle associazioni che caratterizzano πλάζω nell’Odissea (pp. 69-103).
36. Come fanno ad esempio KAMMer 1873, 552-53, schwArtz 1924, 60, e focKe 1943, 274 n. 1. Per una equilibrata discussione della possibilità che le ripetizioni di versi siano utilizzate nell’Odissea come richiami intenzionali atti a porre in evidenza alcune linee importanti della narrazione cf. KrehMer 1973, 39-48.
37. Sull’importanza dei contatti fra il libro VI e il libro XIII, che prevedono entrambi la sequenza risveglio — presa di contatto con una nuova realtà — monologo, con l’interposizione in entrambi i casi di una lunga sezione fra l’addormentarsi di Odisseo e il suo risveglio, cf. di benedetto 2010, 714; più in generale sul rapporto tra i canti V-VII e l’arrivo di Odisseo a Itaca sAïd 20102, 265-66.
38. Cf. KleinKnecht 1958, 65; il suo articolo sviluppa più in generale l’analisi del rapporto fra conoscenza e non conoscenza nella direzione dell’individuazione di «eine Art präformierten Platonismus» del poeta (p. 74). I punti deboli di questa tesi sono evidenziati da erbse 1972, 150-21.
dioso come l’esito di un’interpolazione o della giustapposizione di due varianti in origine alternative, processo del quale si è creduto di trovare conferma in un dato stilistico, e cioè il fatto che l’interiezione ὢ πόποι (v. 209) è attestata di regola nei poemi omerici come attacco di discorso e non all’interno di una rheˉsis 39. F. Meister propose dunque di eliminare i vv. 200-208, come doppione o variante del blocco originario 209-216, ritenuto meglio connesso al resto della narrazione40. L’argomento è più che dubbio. ὢ πόποι all’interno di un discorso è attestato almeno in tre passi iliadici (XIII 99, XIV 49 e XVII 171), e non appare davvero saggia la linea di chi dubita dell’autenticità di tutte e tre le occorrenze41 Delle altre difficoltà individuate nel brano, solo quelle relative ai vv. 204-206 possono ingenerare qualche sospetto, ma non di portata tale da richiedere un’espunzione massiccia. Il fatto che al v. 204 Odisseo dica che vorrebbe che le sue ricchezze (o lui stesso, vedi sotto) fossero rimaste a Scheria, mentre ai vv. 209-12 sembra nutrire completa sfiducia nei confronti dei Feaci, che non lo hanno ricondotto in patria, non è un argomento di peso. Nel primo caso Odisseo si sta preoccupando dei suoi averi, che adesso sono esposti a rischio e che sarebbe stato meglio non portare nel luogo dove adesso si trovano; nel secondo dà sfogo alla frustrazione per il fatto di non essersi ritrovato in patria come gli era stato promesso dai Feaci. Il tema della preoccupazione per le ricchezze è assolutamente in linea con la caratterizzazione di Odisseo in questo canto; ad Atena in veste di giovane pastore egli rivolgerà la richiesta ἀλλὰ σάω μὲν ταῦτα, σάω δ’ ἐμέ (v. 230). Per quanto riguarda poi ὄφελον del v. 204, l’interpretazione migliore sembra quella suggerita dallo schol. HQ ad v 204 (II p. 568.3-4 Dindorf) che lo intende come plurale riferito a χρήματα e evidenzia il contrasto con ἐγὼ δ’ del v. 205. Le considerazioni che seguono (vv. 207-208) circa la difficoltà di gestire i doni confermano che l’attenzione di Odisseo è focalizzata sul problema di tutelare il suo piccolo tesoro42 .
39. ὤ πόποι «marks the speaker’s awareness of a disjunction between his perspective or expectations and the narrative, introducing a statement or determination about that provocative context, which is usually effected» (Kelly 2007, 220, che offre una sistematica raccolta delle occorrenze iliadiche e illustra ampiamente le possibilità espressive di questo attacco interiettivo nell’ambito della referenzialità tradizionale che caratterizza la poesia orale).
40. Cf. Meister 1853, 8, seguito da focKe 1943, 272-73. La proposta è ulteriormente argomentata da hentze 1895, 18; cf. più di recente dAwe 1993, 512-13.
41. Così ad esempio schwArtz 1924, 60 n. 1 e dAwe 1993, 513. Il. XIII 99-114 è ritenuto interpolato da wilAMowitz 1916, 220 (ma il suo argomento principale è proprio la posizione di ὤ πόποι); per altre obiezioni poco fondate mosse al passo da Lachmann e Ribbeck cf. hentze 1897, 17. Il. XIV 49-51 è sospettato da hentze 1897, 56, ma per la struttura del discorso di Agamennone cf. lohMAnn 1970, 19-20 e JAnKo 1992, 155-56. In Il. XVII 171 Zenodoto attesta una variante ὦ πέπον (cf. schol. Il. 17.171 a1 e a2, Erbse IV 363.87-8), che non è necessariamente superiore al testo vulgato. Contro i dubbi sulla collocazione di ὤ πόποι si veda soprattutto la nota di JAnKo 1992, 56, che richiama anche hom. hymn. Herm. 309.
42. A favore dell’interpretazione di ὄφελον come terza plurale si vedano stAnford 1948, 206, erbse 1972, 153, Hoekstra in heubecK; hoeKstrA 1989, 176 (= hoeKstrA; PriViterA 1984, 176), bowie 2013, 132. Contra KrehMer 1973, 50-51, con l’argomento che l’interposizione della domanda in prima persona πῇ δὲ καὶ αὐτὸς πλάγξομαι fra χρήματα del v. 203 e ὄφελον del v. 204 porta più naturalmente a intendere ὄφελον come prima persona. Ma la sua in-
Una difficoltà su cui ha fatto leva Schwartz è costituita dall’allusione di Odisseo alla possibilità di recarsi presso altri potenti βασιλεῖς che avrebbero potuto riportarlo in patria (vv. 205-206). Ci si è chiesti infatti come Odisseo, restando a Scheria, avrebbe potuto sapere di questi altri re e ipotizzare di raggiungerli senza l’aiuto dei Feaci stessi43. Schwartz pensa a un’interpolazione del suo poeta B, che si spiegherebbe a partire dalla narrazione di XIX 27173 e 281-84, il falso racconto in cui il mendicante parla di un soggiorno di Odisseo in Tesprozia, dove ha raccolto doni, e dove il re potrebbe avergli dato nave ed equipaggio per tornare a casa (tanto che — suggerisce Schwartz — se si scrivesse in XIII 204 Θεσπρωτοῖς al posto di Φαιήκεσσιν tutto diverrebbe chiaro). Ma, a parte il fatto che il testo non dà indicazioni univoche circa il fatto che Scheria sia un’isola, e dunque l’idea di uno spostamento autonomo di Odisseo sulla terraferma per contattare altri re non può essere esclusa44, non c’è motivo di analizzare così razionalisticamente il desiderio di Odisseo. Ciò che il personaggio vuole esprimere è solo il rammarico per il fatto che le ricchezze non siano rimaste al sicuro, e per non aver scelto di tornare in patria con l’aiuto di altri principi, più affidabili dei Feaci. È possibile che il contatto fra XIII 206-207 e XIX 271-73 nasconda un residuo di un motivo alternativo esistente nella tradizione odissiaca e che non viene ulteriormente sviluppato nella nostra Odissea45. Ma resta alla fin fine condivisibile il giudizio di Kirchhoff che, pur valutando la possibilità dell’espunzione, riconosceva di non trovare nessuna ragione decisiva contro i versi e invitava ad astenersi dalla tentazione di sanare così i possibili guasti della tradizione, con il rischio di correggere il poeta a nostro uso e consumo46
La prima parte del monologo è dunque perfettamente coerente con il seguito, come aveva ben visto Wilamowitz, osservando che se essa mancasse ci troveremmo con un poco credibile personaggio che, appena risvegliato, parte subito con un lamento contro i Feaci, senza neppure domandarsi dove si trova e senza esprimere quel senso di «Ratlosigkeit» che appare qui assolutamente necessario47. È da esso infatti che scaturisce la reazione di rabbia che si traduce in una dura espressione di risentimento nei confronti dei Feaci (vv. 209-14):
terpetazione di ἐγὼ δ’ come «einfach weiterführend» non convince, perché l’enfasi del pronome ἐγώ non sarebbe giustificata.
43. schwArtz 1924, 60-61; sulla stessa linea dAwe 1993, 513.
44. Meno probabile che i βασιλεῖς di cui si parla siano quelli presenti a Scheria e che si riuniscono con Alcinoo (cf. Od. VI 54, VII 49, VIII 41).
45. Come suggerisce dAneK 1998, 268.
46. Kirchhoff 1872, 498. Quanto all’enfasi poco appropriata dell’avverbio αὐτοῦ del v. 205, che hentze 1895, 18-19 ritiene sospetta, non si tratta un argomento di rilievo. Odisseo contrappone un luogo sicuro («là», scil. nel luogo da cui provengo) a quello pericoloso in cui ritiene di trovarsi. Anche i due argomenti linguistici legati al costrutto θέσθαι ἐπίσταμαι e alla sequenza οὔτε … οὐδέ (v. 207) non provano nulla contro l’autenticità del passo: si vedano per il primo la giusta interpretazione di erbse 1972, 152, per la seconda KrehMer 1973, 54-55.
47. Cf. wilAMowitz 1927, 7-8. Per quanto riguarda a ὢ πόποι, Wilamowitz interpreta il v. 209 come un ‘nuovo inizio’ all’interno del monologo, dopo una pausa, secondo una modalità che si ritrova in alcuni monologhi tragici.
Anche questa parte del monologo si apre con il ricorso a moduli tradizionali atti a esprimere la presa d’atto del fatto che le cose non sono andate come si credeva o come qualcuno aveva detto: οὐκ ἄρα con l’imperfetto ἦσαν («davvero non erano avveduti né giusti / i condottieri e i capi dei Feaci», vv. 209210) e ἦ τε μ’ ἔφαντο («eppure mi avevano detto / che mi avrebbero riportato a Itaca, vv. 211-12»). L’ironia continua a svilupparsi: Odisseo individua nel comportamento dei Feaci, che ai suoi occhi non hanno mantenuto la promessa, la causa della sua attuale ἀμηχανία: ma la scena si svolge sulla spiaggia di Itaca, e le parole del personaggio risultano del tutto sfasate rispetto alla realtà. Anche nella scelta del verbo ἀπήγαγον si coglie un risvolto ironico, trattandosi di un verbo che altrove in Omero esprime proprio l’idea del ricondurre in patria (cf. Il. XV 706 οὐδ’
, Od. XV 436 ἀπήμονα
, XVIII 326 φῆν δέ οἱ
)48. Lo sfogo di Odisseo culmina con l’augurio, ingeneroso agli occhi di chi sa dove Odisseo realmente si trova, che Zeus ἱκετήσιος punisca i Feaci coloro che Odisseo ritiene responsabili della sua situazione.
Proprio sulla maledizione pronunciata contro i Feaci si impernia un altro tratto essenziale della costruzione dell’episodio. Fra lo sbarco di Odisseo addormentato e il suo risveglio il poeta ha infatti inserito la digressione relativa alla punizione dei suoi traghettatori, voluta da Poseidone e concessa da Zeus. Ai vv. 163-65 si racconta come la nave sia stata trasformata in una roccia poco prima di entrare in porto, e il risveglio di Odisseo è preceduto immediatamente dalla descrizione dello sgomento di chi assiste a quel prodigio dalla costa di Scheria e dalle parole di Alcinoo che ricorda l’antico vaticinio del padre, secondo il quale, dopo un ennesimo viaggio di scorta sul mare, la loro città sarebbe stata coperta da un monte. Il re invita dunque i Feaci a cercare di stornare questa terribile prospettiva con il sacrificio di dodici buoi (vv. 172-87a). Odisseo dunque invoca la punizione di Zeus senza sapere che la sua preghiera ha già trovato compimento: ma per l’ascoltatore il racconto che ha appena udito sulla sorte della nave dei Feaci fornisce lo sfondo immediato sul quale si proiettano le parole del personaggio, che appare totalmente incapace di comprendere i dati essenziali della realtà, ma che ancora una volta, senza rendersene conto, finisce col dire una cosa vera.
Dopo aver portato Odisseo al punto culminante dello sgomento e del risentimento, il poeta chiude il monologo con uno scatto operativo (vv. 215-16).
48. Altri esempi sono raccolti da L. Solmsen in LfrgE I 122 (s.v ἄγω Va).
L’attacco con ἀλλ’ἄγε δή è tipico dei monologhi, nei quali introduce un momento di «Selbstaufforderung»49. Il nesso, oltre a trovare corrispondenza in VI 126
, che presenta anche lo stesso costrutto con un futuro indicativo e un aoristo congiuntivo, compare in Il. XX 351-52
. In quel caso esso conclude un breve monologo deliberativo nel quale Achille, dopo l’incertezza causata dalla sparizione improvvisa di Enea dalla mischia, che gli fa sospettare che il Troiano sia protetto dagli dèi, decide di continuare ad affrontare i Troiani. Nel passo odissiaco l’esito del monologo è la decisione molto meno eroica di controllare che i doni ci siano tutti, per il timore che i Feaci lo abbiano ingannato riportandone via una parte: un riuscito tratto di caratterizzazione che evidenzia il permanere in Odisseo, accanto allo sgomento, della tipica attenzione ai risvolti pratici di ogni situazione50 Resta infine da richiamare l’attenzione sui tre versi (219-21) con i quali il poeta incornicia il monologo di Odisseo. Si coglie anche qui, come per i versi introduttivi, una strategia di combinazione e interazione fra spunti iliadici e tratti innovativi più specificamente odissiaci.
Il verso 220 ricalca quasi completamente Il. I 34, che descrive il turbato allontanarsi in silenzio di Crise, maltrattato da Agamennone: βῆ δ’ ἀκέων παρὰ θῖνα πολυφλοίσβοιο θαλάσσης. La riva del mare è per gli eroi omerici un luogo privilegiato per appartarsi quando il dolore è forte. In Il. XXIV 3-12 Achille, tormentato dal ricordo di Patroclo, non riesce a dormire, si rivolta nel letto, piange e a un certo punto (vv. 11-12) ὀρθὸς ἀναστὰς δινεύεσκ’ ἀλύων παρὰ θῖν’ ἁλός51 . Ma, soprattutto, il passo del XIII sollecita il ricordo della scena in cui Calipso va a cercare Odisseo e lo trova che si strugge di nostalgia, piangente, sulla riva del mare (Od. V 151-58):
49. Cf. H.J. Mette in LfrgE I 132 (s.v ἄγω Β.1.d.α).
50. La corrispondenza fra Od. XIII 215-16 e Il. XX 351-52 è ben colta da di benedetto 2010, 715, che annota: «la cosa più originale di questo monologo di Ulisse è l’intrecciarsi della sua persona, del suo io, con i beni che egli ha con sé». Non sono affato persuasivi i dubbi avanzati nei confronti dei vv. 215-19 da schwArtz 1924, 60, focKe 1943, 274 e MerKelbAch 19692, 58-59, che attribuiscono il motivo dei doni ospitali al ‘Bearbeiter’.
51. Pucci 1987, 102 suggerisce che il richiamo della situazione iliadica del primo libro potesse avere effetto rassicurante, perché innesca l’attesa dell’intervento di un dio, cosa che puntualmente avviene al v. 221b (σχεδόθεν
Di nuovo, si ha la sensazione che il poeta si stia amabilmente prendendo gioco del suo personaggio. Il pianto sul mare nell’isola di Calipso e il solitario lamento sulla spiaggia di Itaca coincidono infatti con due momenti decisivi, che avviano entrambi una nuova fase nel poema. Quando tutto sembra perduto, quando il travagliato reduce dispera ormai di rivedere la sua terra, la vicenda in realtà si sta rimettendo in moto. Nel quinto canto la disperazione di Odisseo lascerà il posto alla speranza del ritorno, con la decisione di affrontare il mare su una precaria zattera, che lo porterà all’ultimo dei suoi naufragi e poi alla salvezza; nel tredicesimo, la situazione si ripete in chiave ironica a danno del protagonista, che di lì a poco scoprirà la verità, e sostituirà l’inutile disperazione con la gioia del ritorno a casa (cf. vv. 353-54 γήθησέν τ’ ἄρ’ ἔπειτα πολύτλας
/
ζείδωρον ἄρουραν). Sulla macroscopica ripresa dal primo dell’Iliade e sul gioco di contrasto con il quinto dell’Odissea si innestano per altro alcuni rilevanti tratti che caratterizzano in modo specifico il monologo disperato di Odisseo. Innanzitutto, a βῆ δ’ ἀκέων di Il. I 34 si sostituisce, nella stessa sede metrica, il participio ἑρπύζων. Si tratta di un termine rarissimo, che esprime l’aggirarsi agitato di una persona (cf. schol . ad v . 220 [II p. 568.24-5 Dindorf]) κατὰ τὸν αὐτὸν τόπον ἀναστρεφόμενος, ἢ ἕρπων, ἢ βαδίζων) fisicamente sofferente o travagliata da un dolore psicologico: in Od. I 193 il verbo è riferito al vecchio Laerte ἑρπύζοντ’ ἀνὰ γουνὸν
e lo schol. ad l. (I p. 37.11-12 Dindorf) glossa μετὰ
. Di particolare interesse è il confronto con Il. XXIII 224-25 ὣς Ἀχιλεὺς ἑτάροιο ὀδύρετο
, dove il participio esprime il disperato aggirarsi di Achille attorno alla pira di Patroclo, e si individua il significativo accoppiamento con il verbo ὀδύρετο, che trova preciso riscontro in Od. XIII 219-2053. Attraverso l’uso di questo verbo il poeta sottolinea l’angoscia e l’agitazione dell’eroe, e questo proprio nel momento che precede immediatamente la comparsa di Atena, che trasformerà l’apparente situazione disperata in un lieve gioco di inganni reciproci fra la dea e il suo protetto, prima del riconoscimento.
52. Una parte della stessa descrizione è anticipata nel momento in cui Hermes arriva alla grotta di Calipso e non vi trova dentro Odisseo, che sta sul mare a piangere (V 82-84).
53. Cf. LfrgE II 715 s.v.; una valenza simile ha δινεύεσκε in Il. XXIV 12, sempre riferito ad Achille che si aggira addolorato sulla riva del mare.
Un altro segnale dell’intensificazione ironica della reazione addolorata di Odisseo è l’uso non comune di ὀδύρομαι (v. 219) con l’accusativo non di una persona, ma della cosa di cui si piange la privazione54. Tra i non molti paralleli non sarà un caso che si registrino νόστον ὀδυρομένῳ nella scena di Calipso già ricordata (Od. V 153) e σὸν αἰεὶ νόστον ὀδυρομένη di Od. XIII 379, espressione con cui Atena descrive a Odisseo il dolore costante di Penelope per la sua assenza.
In conclusione di questa lettura, che ha cercato di mettere in luce i fili che intessono la composizione del passo, credo si debba riconoscere che la scena del risveglio dell’eroe a Itaca è tutt’altro che un malriuscito patchwork di materiali disomogenei. Essa appare piuttosto come l’esito di un’idea poetica precisa sviluppata a partire da materiali tradizionali rielaborati in modo felicemente innovativo. In questo punto di snodo fondamentale nel poema, il poeta ha voluto che il suo protagonista diventi attore inconsapevole di una recita di fronte agli ascoltatori. Risvegliatosi su una spiaggia che gli anni trascorsi lontano e la nebbia di Atena gli rendono irriconoscibile, per un breve spazio di tempo Odisseo mette in scena il personaggio che ci è familiare dalla prima parte del poema, il vagabondo piangente e sgomento che si sente morire al pensiero di un nuovo errore che rimanderà ancora il desiderato ritorno. È questo il modo lieve e ironico con cui il poeta fa congedare il suo personaggio dall’Odisseo degli apologhi, nel momento in cui le care rocce di Itaca sono già sotto i suoi piedi; e nella stessa chiave è costruito l’incontro che segue con Atena, delizioso incrocio di lame fra due intelligenze acutissime, durante il quale Odisseo dovrà anche ascoltare un elogio della sua terra, tratteggiato con sfumature provocatorie da Atena in veste di giovane pastore, che vanta la fama di Itaca, così grande da essere giunta sino a Troia (vv. 248-49).
Vorrei permettermi in conclusione una piccola digressione nel vasto campo della ricezione letteraria di Omero, per mettere in luce un caso in cui un grande poeta moderno ha saputo cogliere un tratto decisivo dell’antico racconto epico trasformandolo in nuova, diversa poesia. Al tredicesimo libro dell’Odissea si ispirò Giovanni Pascoli per la composizione di un poemetto, non fra i suoi più conosciuti, che unisce la finezza dell’interprete di Omero alla capacità di far proprio il linguaggio epico trasponendolo nella nuova dimensione di una pensosa riflessione sulla parabola della vita umana. Mi riferisco a Il ritorno, composizione che il Pascoli definisce ‘poemetto epico-lirico’ e che fu da lui affidata al giovane Riccardo Zandonai, che la musicò per orchestra e coro come prova per il diploma nel 1900. Successivamente, nel 1907, Pascoli incluse Il ritorno nell’appendice alla seconda edizione della raccolta Odi e Inni
54. In LfgrE s.v.ὀδύρομαι B.3b (III, 502) S. R. van der Mije interpreta tale costrutto come una espansione del più frequente costrutto dell’accusativo della persona che è oggetto di lamento.
Nel poemetto Pascoli rivisita l’episodio dell’arrivo di Odisseo a Itaca, seguendo da vicino il testo omerico, e racconta il risveglio dell’eroe, lo smarrimento e il dolore causato dal mancato riconoscimento del luogo in cui è giunto. Al termine del suo monologo egli riprende direttamente i tre versi di Od. XIII 219-21, in questa forma55:
ed ora egli cercava la patria terra, e la piangeva, errando lungo la spiaggia del sonante mare.
Senonché, in questo momento difficile, a farsi incontro a Odisseo non è Atena, in aspetto di pastore, bensì
un’altocinta vergine ricciuta, che, rosea sorta al rosseggiar del giorno, alla sempre corrente acqua veniva della fontana. Ella portava in capo un suo canestro di dedalei vinchi, con le vesti de’ floridi fratelli, belle, e le sue: ché le pendea nel cuore il dì pensoso delle nozze, quando e pure vesti ella indossar doveva e pure a quelli del corteo fornirle.
Non fatichiamo a riconoscere in questo personaggio femminile i tratti di Nausicaa: e capiamo così che il Pascoli ha colto il contatto esistente nel testo antico fra la scena del tredicesimo canto e quella del risveglio a Scheria del sesto, e l’ha ripreso fondendo i due passi per farne matrice di una nuova poesia, che affonda le sue radici non più nel contrasto fra la limitata conoscenza umana e la potenza della metis divina, com’era in Omero, ma tra la fresca giovinezza della fanciulla, piena di speranze, e l’età ormai matura dell’eroe.
È questa fanciulla, e non Atena, che rivela a Odisseo il nome di Itaca, e tesse le modeste lodi dell’isola, rivelando ad uno ad uno i tratti del paesaggio e lasciando Odisseo incredulo, finché non viene invitato a specchiarsi nell’acqua della fonte Aretusa. A quel punto l’eroe, d’un tratto, comprende:
Al fonte arguto s’appressò l’eroe, e vide sé nel puro fior dell’acque. Arida vide la sua cute, vide grigi i capelli e pieni d’ombra gli occhi; e la fronte solcata era di rughe, curvo il dosso, né più molli le membra.
55. Il testo è citato secondo l’edizione di Vicinelli 1939.
Vide; e rivide ciò che più non era: sé biondo e snello, coi grandi occhi aperti.
Rivide nella stessa onda, e compianse, la sua lontana fanciullezza estinta.
Ma la fanciulla già nell’acqua pura ponea le vesti e le tergea; cantando, ma d’ora in ora; poi ch’il dì pensoso delle sue nozze le pendea nel cuore.
E presso la sonante opera accorta della fanciulla, il reduce Odisseo tutto conobbe, poi che sé conobbe.
Non è Itaca che è diventata irriconoscibile, ma Odisseo che si è trasformato per i tanti anni passati lontano in un altro uomo, che ha lasciato irrimediabilmente la giovinezza e sente adesso di colpo il peso di quella perdita irreparabile. L’antico tema magico della trasformazione dell’eroe in un vecchio mendicante si tramuta in Pascoli in una dolorosa presa d’atto del terribile potere del tempo, che tutto ha corroso, persino la memoria. E la sgomenta constatazione del reduce risulta ancora più amara per il contrasto con la fanciulla che invece gode il suo tempo e pensa con riserbo e trepidazione all’amore e alle nozze.
Non la gioia si disegna dunque come punto di arrivo per il re che riconosce l’amata terra patria, ma il doloroso senso dell’invecchiamento, e la coscienza chiara che il sapere non è meno amaro del non sapere, come ben comprendono le ninfe di Itaca, che
avean pietà del vecchio eroe, che pianse quando non vide, e pianse quando vide.
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Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica
Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 31-46
DOI: 10.2436/20.2501.01.82
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177: testo e metro, con alcune osservazioni sulla struttura formale dei vv. 117-139*
Liana Lomiento
Università di Urbino Carlo Bo
AbstrAct
This work focuses on ll. 117-177 of Aeschylus’ Eumenides. The lyrical text is presented according to the manuscript colometry, accompanied by a synthetic critical apparatus and an apparatus of ancient and modern colometries. Subsequently, an in-depth reflection on the particular musical and dramaturgical structure of ll. 117-139 is dealt with. They are significant of a very peculiar stage situation, which makes this parodos unique in the surviving Aeschylean corpus
Keywords: Eumenides, parodos, dramaturgy, lyric-epirrhematic amoibaion.
1. Introduzione
Al principio delle Eumenidi , le Erinni dormono all’interno del tempio d’Apollo, dopo avere inseguito Oreste fino a Delfi. Notizie sulla loro condizione vengono dalla Pizia. Entrata nel tempio, dopo avere pronunciato una preghiera propiziatoria, la sacerdotessa riporta al suo ritorno, con orrore,
* Desidero ringraziare per l’approfondita e competente lettura del mio saggio Daria Francobandiera (Université de Lille) e poi anche gli amici e colleghi Marco Dorati (Università di Urbino Carlo Bo) e Carles Garriga (Universitat de Barcelona). Ringrazio anche i revisori anonimi della rivista Itaca per i preziosi suggerimenti. Resta, s’intende, mia, la responsabilità di quanto scrivo in queste pagine.
Liana Lomientod’avere visto un uomo inviso agli dèi, in atteggiamento di supplice, con le mani stillanti sangue, la spada da poco estratta e un ramo d’olivo incoronato di candida lana. Dinanzi all’uomo, una strana schiera di donne adagiate sui seggi, dormienti. Figure ripugnanti a vedersi, simili a Gorgoni o ad Arpie ma implumi e nere 1 : russano, esalano sospiri repellenti e stillano dagli occhi sgradevoli umori. Il dio Apollo, invocato dalla donna, prontamente interviene a soccorrere Oreste, e a favorirne la fuga verso Atene sotto la vigilanza di Hermes 2. I due, Oreste ed Hermes, si allontanano. Entra in scena, adirata, l’ombra di Clitemestra. La regina pronuncia un monologo in trimetri giambici (vv. 93-116), in cui deplora la propria condizione invendicata e sferza le inermi dèe, già molte volte in passato invocate e onorate con offerte, e ora vinte dal sonno. Al termine della tirata (v. 116), ella chiama a raccolta le Erinni
In sogno ora io, Clitemestra, vi chiamo.
Ha quindi inizio, con i primi interventi del Coro, la parodo, ai vv. 117-1773 Nelle pagine che seguono, intendo soffermarmi sulla struttura formale, metrica e drammaturgica di questi versi. Mi concentrerò con particolare attenzione sulla configurazione metrica della parodo e sul significato della caratteristica sezione introduttiva, ai vv. 117-139.
2. Testo e colometria
ΧΟΡΟΣ (μυγμός.)
Κλ. μύζοιτ’ ἄν, ἁνὴρ
1. Per la nozione di “implume” riferito alle Erinni (vv. 51, 250), che preferisco a quella, più comunemente accolta, di “senz’ali”, rinvio al lavoro di MAxwell-stuArt 1973, 81-84.
2. L’apostrofe di Apollo “E tu, sangue fraterno, nato dal mio stesso padre, Hermes, sorveglialo” fa ritenere che anche Hermes sia in qualche modo presente, probabilmente come kophon prosopon, sebbene non tutti siano propensi a condividere questo punto di vista. Così lloyd-Jones 1970, tAPlin 1977, 364-365 e soMMerstein 1989, 99 sostengono che “non vi sia alcun bisogno” di ammettere la presenza di Hermes sulla scena, poiché, essendo un dio, egli può udire anche da lontano (cf. v. 297, a proposito di Atena).
3. Osserva hogAn 1984, p. 148: “The choral song does not begin until line 140, which makes this the longest prologue in Aeschylus”.
4. Il testo è probabilmente corrotto, giacché così com’è tramandato esso risulta arduo da comprendere. herMAnn 1799, 11 propose φίλοι
προσίκτορες; lo stesso herMAnn 1852, 275 preferì
, già proposto da schütz 1794, 73, e accolto da linwood 1844, 73, bArnett 1901, 6; l’intera espressione è spiegata da PAley 1845, 211: “Sunt enim dii (Apollo, sc.) qui cognatis, non mihi, patrocinentur, h.e. qui Orestem ut προστρόπαιον tueantur”. Per φίλος nel senso di cognatus cf. Sept. 954; Eum. 331; Soph. El. 516. weil 1861, 20 negava che Clitemestra potesse definire φίλον Oreste, a lei così inviso; egli tentava
, nel senso di “amicos
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177
Χο. (μυγμός.) 120
Κλ. ἄγαν
Χο. (ὠγμός.)
Κλ. ὤζεις,
Χο. (ὠγμός.)
Κλ.
Χο. (μυγμὸς
33
πάθος δυσαχές9, ὦ πόποι, 145 ἄφερτον κακόν.
enim habet non meis similes” e la sua congettura fu accolta da sidgwicK 1887, 39; blAss 1907, 29; weyr sMith 1926, 282. blAydes 1900, 9 ipotizzava φίλοι γάρ εἰσι τοῖς θεοῖς (scil. Λοξίᾳ ) προσίκτορες . Degna di nota ancora la congettura φίλων γάρ εἰσιν οὐ κενοί di dodds 1953, 18-19.
5. Πέπρωται è buona congettura di stAnley , a fronte di πέπρακται dei codici; wAKefield 1794 pensava a τέτακται. La lezione dei codici è difesa da linwood 1844; herMAnn 1852, II, 256; weil 1861, bArnett 1901. Πέπρωται è adottato da blAydes 1900; blAss 1907 e dagli editori più recenti a esclusione di west 1998 che preferisce τέτακται.
6. Ἀπολακτίζω è un verbo interessante, attinto al campo semantico dello sport. Come osserva soMMerstein 1989, 108, un Greco poteva “scacciare il sonno con un calcio” (cf. Theogn. 1337) come noi ci “scuotiamo dal sonno”.
7. “Se qualcosa di questo preludio è vano”. Il riferimento, in φροοίμιον deve essere alla sezione “amebea” che introduce il canto corale, cf. anche soMMerstein 1989, 108; per questa sezione rinvio alle considerazioni svolte infra , 40-41. Diversamente, ma a mio parere meno plausibilmente, blAydes 1900, 87 riteneva che il riferimento fosse al canto che le Erinni si accingono in quel momento a intonare.
8. Mantengo la lezione πύπαξ dei manoscritti, con frAncobAndierA 2012.
9. La lezione di M è accolta dalla maggioranza degli editori.
170
10. “Con il pungolo afferrato nel mezzo” intendono drAKe 1853, 93; blAydes 1900, 88; soMMerstein 1989, 111, rinviando a hArris 1972, fig. 66. herMAnn 1852, II, 588 si chiedeva se l’aggettivo μεσολαβής debba qui intendersi “active, de stimulo in medium corpus tendente” oppure, ciò che egli avrebbe preferito, “passive […] de stimulo quem quis medium prehendit, quo fortius vibrari regive possit” (quest’ultima interpretazione è discussa anche da blAydes 1900, 88, che adduce il confronto con Hom. Il. 21, 172; Theocr. 16, 78). wAKefield 1794 pensava a μεσοβαλεῖ (con il consenso di blAydes 1900, adn. ad loc.), adducendo a confronto Aristoph. Ach. 274; Eccl. 260; Nub. 1047.
11. Conservo la lezione dei codici, con herMAnn 1852, p. 276 (cf.. anche II, p. 588); linwood 1844, 20, weil 1861, 24, sidgwicK 1887, 41.
12. La congettura γᾶς <τ’> di wilAMowitz, accolta da PAge 1972, non sembra necessaria, cf. lo Schol. ad loc. τὸ
, che intende correttamente il nesso
ὀμφαλόν come apposizione di
. Una diversa interpretazione del passo, che si ottiene modificando l’interpunzione e distinguendo dopo πλέον un nuovo periodo sintattico, sì da avere l’antistrofe, al pari della strofe, suddivisa in due periodi, è suggerita da PAttoni 1995.
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177 35
κἀμοί γε λυπρός, καὶ τὸν οὐκ ἐκλύσεται, ἀντ. γ. ὑπὸ δὲ γᾶν φυγὼν
ἐλευθεροῦται. 175
ὢν δ’ ἕτερον ἐν κάρᾳ
εἶσιν οὗ πάσεται13 .
Apparato critico14
[MMeTFGE] 143 πύπαξ M : πυπάξ FGTE : πόπαξ Ald. accep. nonnulli edd. // 164 θρόνον codd., acc. Weil 1861, Sidgwick 1887, Blass 1907 : metri causa temptaverunt θρᾶνον Ahrens 1843, θᾶκον Rauchenstein 1846 (p. 22), θρόμβον Wakefield 1794, acc. Linwood 1844, Paley 1845, Müller 1853, p. 94, Barnett 1901, θρόνῳ Blaydes 1900 // 176 ὢν δ’ Porson 1806 metri causa, acc. plerique edd., {δ’} Weil 1861, acc. Sidgwick 1887
Apparato colometrico
[MMeTFG] 120-123 coniung. M, sp. vac. inter 120 et 121 et inter 122-123 relicto // 143 sp. vac. post ἰοὺ ἰού reliq. G / ἰοὺ ἰού| T // 145 δυσαχές| (δυσαχθές) FGTE // 145-146 ὦ—κακ ό ν | FGTE // 149a ἰὼ ἰώ (bis script.)| T // 149b παῖ—πέλῃ| T // 150 γραίας δὲ δαίμονας
καθιππάσω| transp. T // 151 ἄθεον| T / ἄνδρα| FGE // 151-152 ἄνδρα—πικρόν| T / καὶ—πικρόν| FG // 159 πάρεστι μαστίκτορος | MFGTE, abest in Me // 160 δαίου δαμίου | MFGTEGraec. 2886 // 161, 163 et 167 desunt in Me
Colometrie moderne
143 (= 154) πύπαξ|, ἐπάθομεν φίλαι| (= Διός| , ἐπίκλοπος πέλῃ| ) West // 159-160 ( = 166-167) coniung. Murray 1935, Page 1972 // 169-170 (= 174-175) coniung. Murray 1935, Page 1972
Analisi metrica
117-142 (Coro, lyr.?, Clitemestra, trim ia)
extra metrum
2 trim ia
extra metrum
2 trim ia
extra metrum
13. Εἴσιν οὗ è buona congettura di Kirchhoff 1880 (ben spiegabile anche paleograficamente come distorsione dal maiuscolo ΕΙϹΙΝΟΥ > ΕΚΕΙΝΟΥ, con la comune confusione ΙϹ > Κ) accolta da MurrAy 1955 a fronte della lezione ἐκείνου dei codici; herMAnn 1852, I, 277 pensava a ἔστιν ὃν πάσεται, mentre herMAnn 1799 congetturava ἔστιν οὗ; schoeMAnn 1845, 203 suggeriva αὖτ’ἐκεῖ
scholefield 1843,15 suggeriva ἐξ ἐμοῦ, seguito da PAley 1845, 215 e da drAKe 1853, 95; ἐκ γένους era la proposta di weil 1861, con il sostegno dello Schol ad loc
. Di qui bothe, ap. linwood 1844, 21 adn., suggeriva ἐκ κείνου, accolto da bArnett 1901. La lezione dei codici appare accolta da wecKlein 1885.
14. Limitato alle lezioni rilevanti in rapporto all’assetto e alla forma dei metri.
Liana Lomiento
2 trim ia
extra metrum
2 trim ia
extra metrum
⏑⏖⏑⏖⏑⏑ ia ionmi (2epionmi)
9 (Clitem.)+3 (Coro) trim ia
143-148 = 149-154 (str/ant 1) ⏑
3
2do
3ia 6
3ia lyr (ia cr cr)
155-161 = 162-167 (str/ant 2)
do ia
do ⏖⏖
do ⏑
2ia lyr (ia cr)
2ia lyr (cr cr)
168-173 = 174-177 (str/ant 3)
⏒
3ia ⏑
3
do
aristoph
2do ⏑
ia do
3. Caratterizzazione metrica della parodo
Sono dominanti le misure docmiache, miste a misure giambiche, che hanno forma di giambi lirici o anche di pieni trimetri giambici. In questa miscela, i docmi costituiscono il 50% del tessuto metrico nella prima coppia strofica, il 43% della seconda e il 60% della terza. I canti in giambi e docmi tendono a concentrarsi, nelle Eumenidi, oltre che nella parodo, anche nell’epiparodo (vv. 254-275), nel primo stasimo (I e IV coppia strofica), infine nel primo dei
15. Con geminazione del σ in Διός, cf. gentili-loMiento 2003, 22; non è tuttavia neanche da escludere del tutto la possibilità di una brevis in longo interna alla coppia docmiaca, cf. ancora al v. 840a; Sept. 109; Ag. 1163 = 1174; Soph. Ai. 401-402 e ved. gentili-loMiento 2003, 240.
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177 37
due amebei che contraddistinguono la grandiosa exodos , ai vv. 781-880. Nell’epiparodo la presenza docmiaca ammonta al 48% della tessitura totale; molto meno utilizzati nel I stasimo (23% nella I coppia strofica; 12,5% nella IV coppia strofica); i docmi ritornano abbondanti nell’exodos, con il 48% nella I coppia e il 55% nella II coppia.
Le misure giambiche, in forma piena o contratta, sono di fatto presenti per tutto l’arco della tragedia, a esclusione della IV coppia strofica del secondo amebeo (vv. 1032-1039) e del breve canto che chiude la trilogia (vv. 10401047). Oltre a essere utilizzate in combinazione con i docmi, come detto, esse compaiono nelle Eumenidi anche in forma pura (vv. 490-507; 508-525; 550-565; 916-948) o miste a misure dattiliche (vv. 347-367; 368-380; 526-549; 956-987; 996-1020).
I puri dattili compaiono in quest’opera in due canti, nell’exodos, ai vv. 10321039 e 1040-1047.
Da questo quadro generale, emerge come — a fronte di una presenza pervasiva e costante delle misure giambiche — l’uso del docmio in questa tragedia non sia disseminato lungo tutta l’opera ma concentrato esclusivamente in alcune sue parti, distribuito secondo un criterio specifico a esprimere una situazione narrativa e drammaturgica differente rispetto a quella espressa dai puri giambi, dai puri dattili, o dalla mescolanza di giambi e dattili16. Nei Sette a Tebe , che documenta una delle più antiche utilizzazioni della misura docmiaca, questa vale a connotare una situazione di forte pathos, come poi diverrà tipico nella tragedia attica17. Qui nelle Eumenidi esso sembra connotare lo stato di agitazione e turbamento del Coro sotto l’effetto delle pungenti esortazioni che l’ombra di Clitemestra rivolge loro in sogno. Lo scompiglio, che il peculiare metro docmiaco traduce in ritmo e musica, è anche sottolineato, nella parodo, sul piano performativo dal fatto che questo coro, almeno nella parte iniziale, non intona il canto all’unisono ma, con ogni probabilità, alla spicciolata, per gruppi o voci singole18. La medesima situazione di scompiglio e indignazione è espressa anche negli altri luoghi nei quali ricor-
16. Il docmio e il giambo, per altro, appartengono al medesimo genere ritmico, il diplasion, con rapporto 1:2 o 2:1 tra tempo in battere e tempo in levare; il dattilo appartiene al genere ritmico pari, con rapporto 2:2 tra tempo in battere e tempo in levare; la differenza ritmica tra dattilo e giambo è marcata; la differenza invece tra docmio e giambo è quella che caratterizza due variazioni metriche di un medesimo ritmo, con implicazioni semantiche probabilmente distinte. Cf. quanto osservavo in loMiento 2008, 221-222.
17. La connotazione patetica è del tutto assente nel docmio pre-tragico, cf. PretAgostini 1979.
18. Cf. scott 1984, 116. Non c’è consenso tra gli editori sulla distribuzione del canto in questi versi che, come esplicitato dagli Schol ad vv. 140a, 140b e 145, p. 49 Smith, erano intonati dalle Furie alternativamente e non all’unisono. Ci si attiene qui, per la prima coppia strofica, alla distribuzione ipotizzata da MurrAy 1955; per la seconda e la terza si suppone invece che il canto fosse eseguito all’unisono dal coro nella sua interezza. Anche altri editori hanno ipotizzato che solo una parte del canto fosse intonata da voci singole (wellAuer 1824, 238-239, herMAnn 1852, p. 585, weil 1861, 23, Müller 1885, 64, sidgwicK 1887, 40); altri, che le sezioni del canto fossero intonate in alternanza da semicori (Kirchhoff 1880, 242, wecKlein 1910, 413-415, wilAMowitz 1914, 296-297); altri infine suppongono che il canto fosse dal principio intonato dal coro all’unisono (schütz 1794, 74-75, PAley 1845,
Liana Lomientore la mescolanza giambo-docmiaca, sbilanciata in genere a favore dei docmi, ovvero nell’epiparodo, quando le Erinni, come cani sulle tracce della preda, raggiungono Oreste dopo l’inseguimento, abbracciato alla statua di Atena e piene di rancore lo minacciano, e ai vv. 781-880, nell’exodos , dove le dèe scagliano una vibrata accusa contro i nuovi dèi, che osarono offenderle 19 . Nel teatro superstite di Eschilo, quest’utilizzazione specifica della miscela ritmico-metrica di giambi e docmi, senza essere l’unica possibile, può tuttavia essere osservata in numerosi altri luoghi. Si tratta di porzioni liriche che, al pari del canto della parodo nelle Eumenidi, esprimono agitazione, delirio o forte eccitazione, e comportano di solito l’interazione tra personaggi, o tra membri del coro. Così accade, nei Sette contro Tebe, negli amebei tra le Tebane del Coro ed Eteocle (vv. 219-241; 686-708), negli amebei lirici tutti interni al Coro (vv. 888-910; 966-987; 989-1004), e negli interventi corali intercalati al dialogo tra il nunzio ed Eteocle (vv. 417-456; 563-630). La mescolanza giambo-docmiaca ricorre ancora nelle Supplici, in corrispondenza del concitato amebeo lirico-epirrematico tra le Danaidi e Pelasgo, il re argivo (vv. 348-437), e ancora negli amebei ai vv. 734-759 (Coro, Danao), 836865 (Coro, Araldo) e 885-902 (Coro, Araldo); nell’ Agamennone , dov’è il dialogo lirico-epirrematico tra il Coro e Cassandra in delirio profetico (vv. 1080-1177); nella parodo delle Coefore, ai vv. 22-41 e 66-74, dove le fanciulle accompagnano Elettra nella preghiera e nelle libagioni per il defunto Agamennone, poi ai vv. 152-163 quando esse intonano, invitate da Elettra, un accorato canto (peana) per il morto; ai vv. 405-422, un dialogo lirico tra Oreste ed Elettra nella cornice del grande kommos; infine nel Prometeo, nell’amebeo tra Io e Prometeo (vv. 566-608,), e nel dialogo tra il Titano e il Coro (vv. 687-695)20
Il caso delle Eumenidi non contraddice a quella che sembra essere una generale tendenza nel teatro di Eschilo. Non sembra dunque dovuto al caso che la combinazione giambo-docmiaca documentata in tutte le occorrenze sopra elencate si concentri anche in quest’opera con particolare frequenza proprio nelle sezioni (parodo, epiparodo, il primo dei due amebei nell’exodos) nelle quali con maggior virulenza le Erinni esprimono disagio, rabbia o sdegno (ved. supra): nelle parti iniziali della tragedia dove, accusate di inefficacia dalla regina che appare loro in sogno, si tormentano nel tentativo di catturare il fuggitivo Oreste; nell’epiparodo, dove la rabbia nasce dall’impotenza a raggiungere Oreste abbarbicato alla statua di Atena (v. 243 αὐτοῦ φυλάσσων ἀναμένω τέλος δίκης ); nel primo dei due amebei dell’ exodos , 213-215, PAge 1972, 252-253), in contrasto con quanto sappiamo dal commento antico, e meno plausibilmente, in considerazione dell’eccentricità drammaturgica dell’intera scena.
19. Su questo amebeo cf. da ultimo loMiento 2018b.
20. Si tratta, su un totale di 32 pericopi in giambo-docmi, di 25 casi (incluse le Eumenidi). Nei casi restanti (7) la tessitura ritmico-metrica in giambo-docmi ricorre in concomitanza con stati d’animo emozionati, turbati o gioiosi, o di canti di preghiera, ma senza che vi siano interazioni con altri personaggi o tra i membri del coro (Sept. vv. 78-149; vv. 150-181; vv. 766-777; vv. 933-960; Ch. vv. 935-952; 953-972; PV vv. 901-906).
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177 39
dove le dèe defraudate, dopo l’assoluzione di Oreste voluta da Atena, di tutti gli onori e degli antichi poteri manifestano con la massima efficacia il proprio rancore.
4. Significato dei vv. 117-139, introduttivi della parodo
Dopo l’intervento di Apollo che consegna Oreste alla vigilanza di Hermes e l’invita a trovare scampo nella città di Pallade (vv. 64-84), al v. 116, l’ombra di Clitemestra si manifesta alle Furie, mentre le dèe profondamente dormono adagiate su seggi nel tempio delfico. La regina compare alle dèe come ombra, nel sogno21. Le rimbrotta, perché stanno trascurando di vendicarla, invece di perseguitare il matricida come dovrebbero: eppure molte offerte furono loro tributate, e libagioni senza vino e sacri banchetti notturni furono imbanditi sul focolare ardente. Tutto ciò — conclude la regina con tono di accusa — è stato invano: Oreste è riuscito a sfuggire, beffandosi di loro. Al termine della sua rampogna, Clitemestra esige attenzione da parte delle dèe (vv. 114116): “Ascoltatemi — esorta — perché è della mia anima che parlo: tornate in voi, dèe sotterranee. In sogno ora io, Clitemestra, vi chiamo. ( ὑμᾶς νῦν ... καλῶ)”. Le Erinni — pur dormienti — reagiscono a tale richiamo, iniziano a lamentarsi nel sonno e a pronunciare brontolii e gemiti. Ai vv. 117-139, le didascalie sceniche tramandate nel codice Mediceo (Laur. Pl. 32.9) indicano per quattro volte — puntualmente alternati agli interventi di Clitemestra, ciascuno di due trimetri giambici (vv. 118-119; 121-122; 124-125; 127-128) — l’esecuzione di suoni, che sono per due volte definiti μυγμοί (vv. 117, 120 ) e per due volte ὠγμοί (vv. 123, 126)22; ai vv. 129-130 un verso il cui testo è, finalmente, di senso compiuto e comprensibile ( λαβὲ λαβὲ λαβὲ λαβέ, φράζου ) è preceduto da una didascalia che fa riferimento a un gemito di sonorità più acuta (“due volte tanto”, rispetto ai versi precedenti); chiudono questa sezione i vv. 131-139, nei quali Clitemestra rivolge un ultimo, vibrato richiamo alle dèe, come un pungolo che finalmente le dèsti dal torpore, perché non siano immemori dell’offesa subita e incalzino il colpevole in una nuova caccia. Uno degli aspetti notevoli in questo “scambio” è — nonostante la natura pre-verbale degl’interventi da parte delle Furie — la disposizione simmetrica delle battute, notata da Hermann, che la definiva “epodica”, e da Blass 23 . Sebbene si sia talvolta dubitato dell’autenticità di queste parepigraphai24, la maggior parte degli editori le ritiene autentiche e, a mio parere giustamente, le conserva nel testo. Come congetturava con acume Müller, nelle Eumenidi , diversamente che in tutto il resto del teatro a noi noto, il
21. PAley 1845, 211.
22. Al v. 123 ὠγμός è necessaria correzione di Robortello, rispetto a μυγμός dei codici.
23. herMAnn 1852, II, 585; blAss 1907, 57.
24. Cf. tAPlin 1977b, 121-132; tuttavia a garanzia della genuinità di queste indicazioni di regia è la constatazione che l’ultima di esse (μυγμὸς διπλοῦς ὀξύς) non appare autoschediasticamente deducibile dal testo (così soMMerstein 1989, 105).
Liana LomientoCoro non fa il proprio ingresso nel corso della scena iniziale, ma è già lì dal principio25. Le Erinni sono addormentate sulla scena, finché, una dopo l’altra, si svegliano e si dispongono al proprio posto nell’orchestra26
La modalità di ingresso in scena delle Erinni è stata, in effetti, molto dibattuta dagli studiosi. Blass, Lloyd-Jones, Brown, Sommerstein suppongono che le dèe fossero visibili, insieme ad Apollo e Oreste, dal v. 64; D’altro canto, Hermann, Bodenstein, Verrall, Rose, Taplin e Stanford ritengono che esse entrassero (e non tutte, a parere di Hermann) al v. 140, in concomitanza con l’inizio del canto corale propriamente detto27. Taplin, in particolare, sostiene questo punto di vista sulla base di due considerazioni: la prima, che il Coro entra di solito in corrispondenza della musica ad esso dedicata, e non prima; la seconda è che un ingresso tardivo si configura come efficacemente teatrale. Diversamente, Scott sostiene la possibilità che le Erinni fossero sulla scena dal principio: le Erinni, Oreste e Apollo sarebbero entrati dalla skene, e quindi rimasti sulla scena come una sorta di tableau prima dell’inizio del dramma28. La sacerdotessa avrebbe fatto il suo ingresso da una delle parodoi senza notare i personaggi, immaginati come interni al tempio di Apollo. Dopo essere entrata nel tempio, e quindi uscita (vv. 33-35) ella, rientrando in scena, avrebbe pronunciato i vv. 34-64. A questo punto, la sua descrizione del tableau avrebbe finalmente richiamato l’attenzione sui personaggi e li avrebbe, con grande efficacia teatrale, introdotti. Del resto, osserva Scott, non mancano nel teatro attico altri casi in cui un personaggio o il coro restano in scena senza parlare fino al momento in cui un altro personaggio, entrando, li noti (Ag. 538, dove l’araldo si accorge del Coro; Ag. 810 dove Agamennone ignora Clitemestra; Ag. vv. 15771611, dove Egisto non nota il Coro). Una rassegna delle varie ipotesi si può leggere nell’importante saggio di Rehm, che conduce un’attenta disamina delle tesi di Taplin e finisce col prediligere l’idea di un tableau iniziale, con le Furie adagiate e dormienti, le orripilanti maschere coperte dai mantelli (p. 296)29. In questo modo, Clitemestra, apparendo, si rivolgerebbe alle Furie presenti, e ai suoi piedi. I loro mormorii avrebbero potuto dare al pubblico l’idea precisa di una forza inquietante e terribile sollecitata dal basso30. La presenza delle Furie
25. Müller 1885, 64-65.
26. Lo Schol ad Eum. v. 64 (p. 48 Smith) sembra fare riferimento all’uso dell’ ekkyklema in questa scena, per ottenere la visione di Oreste all’interno del tempio, con la spada imbrattata di sangue. Non è possibilie verificare l’attendibilità di questa indicazione, che — in ogni caso — non necessariamente si riferisce alla prima performance (cf. VerrAll 1908, LIII). Sulle difficoltà dell’uso dell’ekkyklema per trascinare un intero coro all’esterno rinvio alla discussione, con ulteriori riferimenti bibliografici, in brown 1982, 28 (che tuttavia finisce con l’ammettere questa possibilità).
27. blAss 1907, 77; lloyd-Jones 1970; brown 1982, 26-28; soMMerstein 1989, 92-93; herMAnn 1835, 162-167; bodenstein 1893, 663-664; VerrAll 1908, LII; rose 1958, 240; tAPlin 1977a, 369 e stAnford 1983, 78-79.
28. scott 1984, 207, n. 127.
29. rehM 1988, 290-301.
30. rehM 1988, 297.
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177 41
sulla scena risulta, per altro, corroborata dal v. 103, nel quale Clitemestra esorta le dèe a guardare le sue ferite (ὅρα δὲ
); ai vv. 179-180, quando le Erinni sono oramai definitivamente sveglie e dinamiche nello spazio dell’orchestra, l’apostrofe di Apollo ἔξω, κελε ύ ω, τῶνδε δωμάτων τάχος/ χωρεῖτ’, “andate fuori da questa mia dimora, ve lo ordino, presto!” (trad. di M.P. Pattoni) induce a ritenere che lo spazio scenico fosse immaginato come interamente pertinente al santuario del dio, senza che fosse attiva una distinzione troppo rigida tra “interno” ed “esterno”. Alla presenza in scena, sin dal principio, delle Erinni e persino di Oreste in atteggiamento di supplice presso l’omphalos del tempio di Apollo delfico pensano anche Di Benedetto-Medda31 .
Un ulteriore aspetto di originalità di questa parodo è che nel suo primo canto corale il Coro non canta all’unisono, ma per voci singole32. Anziché presentare la musica e la danza di un coro appropriatamente organizzato e raccolto, la scena offre il farfugliamento e il risveglio di mostri ripugnanti che, uno alla volta, si destano. Le voci risultano separate ad arte, perché ogni Furia, al risveglio, aggiunge il proprio contributo al canto, e il coro si raccoglie all’unisono solo alla fine, per essere scacciato dalla scena dal dio Apollo. Rispetto alle modalità di ingresso del Coro documentate in tutte le altre tragedie superstiti di Eschilo, a partire dai Persiani, l’entrata delle Furie si configura del tutto inconsueta. Non è neanche, propriamente, un’entrata: le dèe non entrano, ma si lasciano cogliere in un sonno profondo33. L’ombra di Clitemestra deve richiamarle per sei volte (vv. 94-116; 118-119; 121-122; 124-125; 127-128; 131-139) per ottenere una reazione appropriata agli eventi34 . La mia proposta di lettura dei versi introduttivi del canto corale avvalora, come vedremo, l’ipotesi secondo la quale le Erinni risultavano visibili al
31. di benedetto-MeddA 1997, 90: «La facciata della casa degli Atridi [...] viene rimossa nelle Eumenidi, non per essere sostituita da un’altra raffigurante il tempio, ma per lasciare spazio a una messa in scena priva di skene nella quale l’area dell’orchestra dev’essere considerata come uno spazio ben delimitato. La messa in scena infatti prevede due successive scene di interni, alla cui rappresentazione la presenza della facciata di un edificio porta a ostacoli insormontabili. [...] All’inizio della tragedia gli spettatori vedevano già in scena Oreste in atteggiamento di supplice presso l’omphalos del tempio di Apollo Delfico; Oreste è attorniato dalle Erinni, addormentate sui loro seggi (dodici seggi, quanti erano i coreuti). [...] Il discorso della Pizia che apre la tragedia risulta pronunciato invece all’esterno del tempio, con la sacerdotessa che sta nei pressi del bordo anteriore dell’orchestra, vicino agli spettatori. [...] La dettagliata descrizione che la Pizia dà di ciò che ha visto ha la funzione di evidenziare nei particolari una visione di cui probabilmente gli spettatori avevano già la percezione fin dall’inizio della tragedia; ma non si può escludere che gli spettatori vedessero l’interno del tempio solo alla fine del discorso della Pizia (v. 63), grazie alla rimozione di un qualcosa che prima ne impediva la vista».
32. Cf. Scholl. 140b
Smith.
33. Cf. supra. La natura del tutto eccezionale del Coro delle Eumenidi è rilevata anche da brown 1982, 28.
34. Cf. su questo le importanti osservazioni di scott 1984, 112.
pubblico sin dal principio, sostenuta da Müller, da Scott e dalla Rhem, come la più sensata e compatibile con la costruzione drammaturgica dell’intera scena.
In un lavoro di non troppi anni fa, Daria Francobandiera ha mostrato con argomenti validi come i “gemiti” delle Erinni, μυγμοί che divengono ὠγμοί e quindi più acuti μυγμοί, sono lontani dal configurarsi come suoni meramente animaleschi. Sebbene eccentrico, e mai attestato nella tragedia superstite35 , il μυγμός, che fa riferimento a un suono μῦ, un gemito nasale prodotto con le labbra chiuse 36, può essere espressione perfettamente umana, ancorché primordiale, e connotare il lamento, come il gemito dei guerrieri nel corso della battaglia o anche lo sdegno e il rancore, come quelli di Hera e di Atena in reazione ai rimbrotti di Zeus37. Nel caso delle Erinni, esso pare significativo di una loro primordiale reazione rabbiosa alle sferzanti recriminazioni di Clitemestra. L’ὠγμός, che è uno hapax derivato dal verbo ὤζειν (cf. v. 124 e lo Schol. (M) Eum. 124 a, p. 48 Smith), fa riferimento al suono ὤ ὤ, che in tragedia individua un accesso patetico38, come accade ad esempio in Pers. 985 ὢ ὢ δαίων, nel kommos per l’esercito persiano, o in Ag. 1214 ὢ ὢ κακά, al principio del secondo intervento profetico di Cassandra39. “Dall’eccentrico brontolio di indignazione iniziale — osserva opportunamente Francobandiera — le Erinni sembrano quindi progredire verso forme più codificate di lamentazione, ed è interessante notare che l’evoluzione espressiva si accompagnerebbe a una parallela evoluzione fonica: dal μυγμός all’ὠγμός, come nota Perpillou (1982, p. 241), l’emissione vocale delle Erinni si intensifica, allargandosi dai brontolii iniziali (pronunciati con le labbra chiuse […]) a una coloritura in /o/ più aperta e sonora”40. Il terzo intervento delle Erinni, infine, comporta un’ulteriore variazione: un μυγμὸς διπλοῦς ὀξύς seguito dalla prima emissione pienamente verbale, λαβὲ λαβὲ λαβὲ λαβέ· φράζου, evidenziando “un’ulteriore articolazione semantica, dal μυγμός di sdegno all’esecuzione, seppure solo illusoria, di un’attività di caccia”41. Anche se in sogno, le dèe sembrano in qualche modo dar seguito agli ordini di Clitemestra, slanciandosi all’inseguimento di Oreste. Nella sezione che prelude alla parodo, dunque, i gemiti emessi dalle Erinni effettivamente assumono una funzione non semplicemente “mimetica”, ma piuttosto “espressiva”, nella misura in cui non si limitano a rappresentare realisticamente un sonno agitato, né costituiscono il segno di un’irriducibile animalità, ma sono gl’indizi, studiati, di una
35. di benedetto 1978, p. 241; il suono μῦ compare invece in due luoghi aristofanei, Thesm. 231; Eq. 8-10; in entrambi i casi sembra esprimere una lamentazione, cf. Schol vet. Ar. Eq 10 a.
36. frAncobAndierA 2008, 90 con ricca documentazione.
37. D.S. 17, 11, 5; Hom. Il. 4, 20 = 8, 457, dove ricorre il verbo ἐπιμύζω; cf. frAncobAndierA 2008, 89-98 (: 91-92).
38. Cf. Phot. ω 272, 7 N. τὸ μὲν ἄρθρον (scil. l’ὦ cletico) περισπωμένως·
σχετλιαστικὸν ὀξυτόνως
39. Ulteriore esemplificazione in frAncobAndierA 2008, 94.
40. frAncobAndierA 2008, 94.
41. frAncobAndierA 2008, 96.
L’ingresso delle Erinni in Aesch. Eum. vv. 117-177 43
precisa ed evidente evoluzione emotiva42. Appare naturale a questo punto immaginare la scena che introduce la parodo come una scena a suo modo “dialogica”: un dialogo sognato e primordiale, nel quale alle provocazioni di Clitemestra puntualmente, ancorché eccentricamente, e in un crescendo emotivo, nel sonno rispondono le Furie. Una sorta di dialogo lirico-epirrematico “abbozzato”, nel quale ai versi inarticolati delle Erinni, che erano probabilmente espressi secondo una prosodia, un ritmo e forse anche una melodia, lirici, come sembra confermato dalla natura lirica dell’unico loro intervento comprensibile, il v. 130, che ha forma di dimetro epionico a minore (vedi supra, l’analisi metrica), corrispondono, perfettamente simmetriche, le sezioni epirrematiche, in trimetri giambici, assegnate a Clitemestra43. Un serrato amebeo sui generis seguito da un più lungo intervento in trimetri giambici di Clitemestra (vv.131-139) e da uno più breve del Coro (vv. 140141) che, a mo’ di epodo, conchiudono la scena introduttiva e, rispettivamente, aprono la parodo propriamente detta, le cui singolarità performative e drammaturgiche abbiamo già ricordato. La componente dialogica appare chiara — oltre che dalla già menzionata evoluzione emotiva nelle reazioni delle Erinni — anche dalla puntuale ripresa di parole o motivi da parte di Clitemestra in rapporto alle emissioni vocali delle Erinni, ai vv. 117 μυγμός / 118 μύζοιτ’ἄν, 123 ὠγμός / 124 ὤζεις, ὑπνώσσεις, 129 μυγμὸς διπλοῦς ὀξύς, λαβὲ λαβὲ λαβὲ λαβέ·
/ 131 ὄναρ
...
δρᾷς; ἀνίστω ... La ripresa di parole identiche, o anche di motivi, nel dialogo tra due personaggi è — com’è da attendersi — ben documentata anche in altri amebei lirico-epirrematici eschilei, a partire dalle stesse Eumenidi (vv. 780/796, 810/824, 840/847, 838/847, 872/883, 845/868, 879/884); ancora, la documentano l’ Agamennone (vv. 1411/1413, 1455/1464, 1468/1477, 1482/1501, 1512/1526), i Sette contro Tebe (vv. 203/209, 212-215 / 217-218, 219/223, 226/230, 233/236, 239/240), e le Supplici (vv. 365/370, 369/370, 369/373-374, 375/376; 734735/740; 866/872; 908/906) 44. Se la nostra ipotesi cogliesse nel segno, non
42. frAncobAndierA 2008, 97.
43. Sulla natura effettivamente prosodica e ritmica dei gemiti delle Erinni, si può ad esempio pensare ad Ar. Eq. 8-10 dove il verso μῦ imita il suono dell’aulos, all’ingresso in scena dei servitori bastonati: {ΟΙ. Α} δεῦρο δὴ
/ ξυναυλίαν κλαύσωμεν Οὐλύμπου νόμον /{ΟΙ. Β}
μῦ, al cui proposito lo scoliaste osserva τοῦτο δὲ ὡς θρηνητικόν (Schol. Vet. Ar. Eq. 10 a, p. 9, 15 J.-W.). Nel testo delle Eumenidi, dAVies 1885 stampa, in luogo delle παρεπιγραφαί, μυγμός e ὠγμός, rispettivamente μὺ μύ e ὢ ὤ e, al v. 129, μὺ μὺ μὺ μύ con l’argomento che le παρεπιγραφαί, se anche introdotte da Eschilo, non possono contare come veri e propri versi; ma — aggiunge — i suoni pronunciati dalle Furie in quei punti “essential parts of this drama, and must be counted as lines” (1885, 61-61). Pur preferendo lasciare inalterate le παρεπιγραφαί nel testo di Eschilo, condivido pienamente il concetto espresso da Davies e ritengo anzi che “the sounds uttered by the Furies in those places” fossero caratterizzati da specifiche proprietà ritmicomusicali.
44. La ripresa di parole identiche o di motivi comuni non è frequente negli amebei liricoepirrematici di Eschilo; nella maggior parte dei casi l’amebeo prevede che il discorso dei due personaggi si completi e sia fatto procedere, senza comportare evidenti riprese verbali o di motivi comuni.
sarebbe, questo, pur in tutta la sua straordinarietà, l’unico caso di amebeo lirico-epirrematico introduttivo di un canto corale: lo stesso ordine può in effetti riscontrarsi nei Sette contro Tebe, vv. 677-791, dove lo scambio liricoepirrematico, concluso da una serrata sticomitia tra le Tebane e il re Eteocle (vv. 677-719) prelude allo stasimo (vv. 720-791), nelle Supplici, vv. 347-437, dove un canto corale va a conchiudere l’amebeo lirico-epirrematico, che precede, tra le figlie di Danao e il re Pelasgo, e ancora nelle Supplici, vv. 734824, dove l’amebeo lirico-epirrematico tra le Danaidi e il padre loro (vv. 734763), conchiuso da una tirata di Danao in trimetri giambici (vv. 764-775) introduce lo stasimo (vv. 776-824). Infine, nella maestosa exodos delle Eumenidi, il secondo amebeo lirico-epirrematico tra le Erinni e la dèa Atena (vv. 916-1031), chiuso da una tirata di Atena in trimetri giambici, prelude al canto finale intonato dalle προπομποί (vv. 1032-1040). In modo analogo, qui, ai vv. 117-139, dopo l’onirico scambio lirico-epirrematico tra le Erinni e l’ombra della sposa d’Agamennone, che conchiude con una tirata in trimetri giambici, ha luogo l’attacco del primo canto corale45 .
5. Conclusioni
Le Eumenidi sembrano rappresentare, nel quadro dell’opera eschilea superstite, un terreno di sperimentazione per le forme musicali e la drammaturgia. A un mancato ingresso del coro, probabilmente presente sulla scena dal principio, si affianca un canto di apertura del tutto anticonvenzionale, per voci singole, che esprime l’intensa agitazione e lo scompiglio delle dèe in difficoltà ad affrontare il compito che loro spetta, di perseguitare Oreste e, infine, infliggergli la giusta punizione. A tale straordinaria parodo, funge da introduzione un amebeo lirico-epirrematico di forma completamente inedita, ma al tempo stesso perfettamente appropriata a descrivere la situazione onirica per cui il dialogo tra Clitemestra e le dèe della giustizia vendicativa si svolge interamente nel sonno, in un linguaggio dunque soltanto parzialmente familiare a chi osservi da fuori. Una soluzione teatrale che — tra le altre — fa ben comprendere, di Eschilo, l’instancabile, e finanche audace, creatività.
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45. A questo proposito va aggiunto che l’amebeo lirico-epirrematico fu una struttura formale molto amata da Eschilo: 14 casi in tutto (a inclusione del PV e del grande kommos delle Coefore, che esibisce a sua volta una struttura del tutto originale), la cui articolazione interna presenta una notevole varietà formale (cf. loMiento 2018a, Tabella 1).
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Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 47-71
DOI: 10.2436/20.2501.01.83
Il matricidio come tabù: verosimiglianza dialogica ed efficacia drammatica della prima sticomitia delle Coefore
Pia Brugnatelli
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna
AbstrAct
The article analyses the first stichomythia of the Choephori from a syntactical and pragmatic point of view. Its purpose is to assess the level of dramatic credibility of the dialogue as well as its thematic relevance, both to the plot of the tragedy and to Aeschylus’s grasp of matricide. The analysis underlines the linguistic taboo craftily elaborated by Electra and the Chorus in order to avoid explicitly mentioning matricide, a strategy later profitably used by Orestes himself when dealing with the problem of actually committing the act. It also shows the impressive level of collaboration that distinguishes the characters of the drama in their joint effort to revenge Agamemnon, and it highlights the importance of Electra’s role in the progression of the plot, both in a thematic and narrative sense.
Keywords: sticomitia, Eschilo, Coefore, verosimiglianza, matricidio
Obiettivo
La prima sticomitia delle Coefore (vv. 108-123) costituisce un’ottima via d’accesso per iniziare a comprendere in che modo Eschilo sia in grado di giocare con gli elementi più strutturati della tragedia ai fini di una maggiore verosimiglianza, ovvero di una maggiore efficacia sul pubblico. Per quanto il dialogo si svolga tra due personaggi meno rilevanti, ad esempio, di Oreste e Clitemestra, e malgrado le sue forti limitazioni strutturali, attraverso la varietà sintatti-
Pia Brugnatelli
ca e linguistica il drammaturgo lo ha caricato di un’importanza tematica e drammatica significativa per lo svolgimento dell’intera tragedia. L’obiettivo della mia analisi è quello di mettere in luce le strategie linguistiche impiegate dal tragediografo in questa prima sticomitia, per cercare di ricostruire in che modo egli sia riuscito a raggiungere il proprio pubblico, accordandone le richieste di verosimiglianza al proprio fine poetico. Il movimento è bidirezionale: la coerenza del brano risponde sia a esigenze interne, autoriali, sia a esigenze esterne, teatrali.
La sticomitia, struttura dialogata tipica della tragedia e strumento più classico attraverso cui il poeta fa entrare in contatto diretto due personaggi (cf. irelAnd 1994, 33), è un punto di partenza ottimale per questo tipo di analisi. La forma dialogata consente una maggiore apertura al naturalismo rispetto, ad esempio, a un passaggio strofico o a un monologo; allo stesso tempo, la sua struttura altamente formalizzata e sintetica pone forti limiti all’espressione poetica, coerenti con i parametri drammatici e letterari della rappresentazione tragica dell’epoca. Inoltre, la stessa natura dialogica della sticomitia costituisce un’importante risorsa per la caratterizzazione dei personaggi e dunque, dal punto di vista dello studioso, per la loro comprensione. Il tratto più essenziale di uno scambio dialogico, infatti, è l’assunto che esista, tra i partecipanti, un grado minimo di contatto, un’interazione a livello di reazioni intellettuali ed emotive strettamente connessa allo sviluppo drammatico1. Anche il rapporto tra linguaggio e situazione drammatica è dunque biunivoco: la vicinanza linguistica dipende dalla relazione tra gli interlocutori, ma allo stesso tempo delinea per il pubblico moventi sociali e psicologici fondamentali per l’impatto drammatico e il significato ultimo della tragedia (cf. MAstronArde 1979, 4)2 . Di conseguenza, quando gli interlocutori si trovano in una posizione di reciproca comprensione, il livello di contatto linguistico è proporzionalmente elevato, e viceversa. Così, il tratto dominante nelle sticomitie delle Coefore, e in particolare nei vv. 108-123, è la cooperazione tra i personaggi, come richiesto dal contenuto stesso del dramma, che mette in scena una forma, seppure distorta, di collaborazione familiare (cf. irelAnd 1994, 520).
La centralità tematica e drammatica della prima sticomitia per il dipanarsi dell’azione tragica è stata efficacemente descritta da conAcher (1987, 104): è qui che le offerte propiziatorie inviate dalla regina vengono per la prima volta ritorte contro di lei. In effetti, l’immagine delle libagioni, presentata nel primo episodio della tragedia, tematizzata dal titolo stesso dell’opera e — come si vedrà — analiticamente discussa nelle sue implicazioni all’interno della prima sticomitia, è appunto la controparte visibile del sangue versato dalla regina Clitemestra nell’Agamennone (vv. 1388-1392): se però lo scopo
1. A tal proposito, irelAnd 1994 (p. 513) ricorda che, se ogni situazione narrativa è il prodotto diretto del linguaggio utilizzato, questo stesso linguaggio è a sua volta frutto di ciò che il poeta ritiene necessario per sviluppare l’episodio.
2. Ricordo che, come osservato da Jones (1962, 33), l’ordine di priorità tra azione e carattere sulla scena è rovesciato rispetto alla vita reale, così che il carattere drammatico è in realtà il risultato dell’azione, e non viceversa.
Il matricidio come tabù 49
dei libami è quello di ingraziarsi i morti, il sangue ha invece la funzione di risvegliarne l’ira (cf. lebecK 1971, 86)3. All’inizio delle Coefore, Clitemestra invia offerte alla tomba del defunto re per placarne l’ira evocata dal suo sogno notturno; tuttavia, nel caso di Agamennone, ciò che il defunto chiede per essere placato è nuovo sangue, e l’offerta che Clitemestra manda serve soltanto a mettere in atto il processo che porterà alla sua uccisione e — grazie ad essa — alla soddisfazione del defunto che esige vendetta (cf. VAlgiMigli 1964, 172). Come evidenzia l ebec K (1971, 86), Oreste ed Elettra aprono il dramma versando libagioni per alleviare l’ira di Agamennone e lo concludono versando sangue per vendicare quell’ira. Il mio intento è dimostrare come questo passaggio sia reso possibile proprio dal processo graduale che prende inizio durante il dialogo tra Elettra e Coefore, nel quale, grazie al tono dimesso delle sue parole, la ragazza non si avventura ancora a descrivere apertamente tutto l’orrore di un intento matricida, ma si limita a una corretta invocazione affinché gli assassini del padre siano puniti. La prima sticomitia delle Coefore presenta dunque, nell’alternarsi di domande e risposte tese a raggiungere una più precisa definizione di che cosa sia empio e che cosa sia giusto chiedere agli dèi, una discussione di termini che hanno una pregnanza tematica centrale per il dramma. Allo stesso tempo, il dibattito presenta un problema linguistico immediato che il Coro aiuta Elettra a superare, di modo che, attraverso la sua preghiera al defunto re, ella possa dare avvio all’azione drammatica (cf. goldhill 1984, 112).
Struttura sticomitica e realismo dialogico
Prima di procedere con l’analisi del brano, è opportuno chiarire il rapporto peculiare tra struttura sticomitica e realismo dialogico. Nel mio lavoro ho preferito prendere in considerazione soltanto gli scambi di singole battute, secondo la definizione di sticomitia proposta da Polluce (IV 113), che è la più antica e la più restrittiva a disposizione, rispetto ad altre che includono nel novero anche ἀντιλαβαί e disticomitie: στιχομυθεῖν
. L’aspetto che più interessa, della definizione di Polluce, è il fatto che l’autore la inserisca all’interno di una lista di parole che descrivono l’arte dell’attore: ciò potrebbe significare che egli ritenesse la sticomitia un approccio naturale alla conversazione, più che un’ingessata simmetria letteraria (cf. hAncocK 1917, 5). Questo valore di variante naturale del discorso costituisce un presupposto importante dell’analisi linguistica a cui mi accosto, e per questo motivo è bene tenere costantemente a mente l’avvertimento di gould (1978, 55): «with stichomythia we must be careful. If we describe it to ourselves as ‘conversation’ or even as
3. Non a caso, l’associazione delle due immagini è molto insistita nella prima parte del dramma, in cui sangue e libagioni compaiono frequentemente l’uno accanto alle altre (cf. vv. 66s., 97, 164, 400-402, 520s.).
50 Pia Brugnatelli
‘dialogue’ in its everyday sense, then we ask to be misled as to its role in Greek drama». Tuttavia, la sticomitia è la rappresentazione drammatica di una conversazione, proprio come la tragedia in generale è la rappresentazione di un’esperienza in atto (cf. schuren 2014, 5), e una somiglianza tra le due sfere è un pre-requisito fondamentale per ottenere un effetto drammatico sul pubblico (cf. MAstronArde 1979, 35 e VAn eMde boAs 2017, 412). Con la consapevolezza del suo valore convenzionale, è dunque possibile sottoporre la sticomitia a uno studio che la confronti con una normale conversazione, per metterne in luce divergenze e allineamenti4
In effetti, benché la maggior parte degli studiosi abbia ampiamente rilevato il suo statuto limitante e di alta formalizzazione, giungendo talvolta a parlare di manierismo o di anti-realismo5, anche il livello di approssimazione della sticomitia al dialogo spontaneo è largamente riconosciuto. collArd (1980, 77), ad esempio, afferma che essa, proprio grazie alla sua semplicità, era una forma familiare e ‘facile’ per il pubblico dell’epoca antica6, ed era probabilmente una risorsa di facile impiego anche per i tragediografi, come dimostrerebbe la scarsità di versi contenutisticamente ‘vuoti’ del corpus pervenuto 7. I contenuti e le funzioni drammatiche della sticomitia sono dunque variegati, e richiedono altrettanta flessibilità artistica per adattarne la forma stilizzata al contesto drammatico. La difficoltà imposta dalla brevità del verso all’espressione di idee complesse — che richiede una forma ellittica del vocabolario e della sintassi e, più in generale, una forte condensazione del pensiero — è stata affrontata da Eschilo mediante diverse strategie. Gli strumenti preminenti messi a punto dal tragediografo sono a) l’uso di particelle per aggiungere fluidità e caratterizzazione a espressioni fortemente concentrate; b) l’ellissi o la prosecuzione del discorso attraverso variazioni sintattiche, che mantengono e allo stesso tempo colorano il ritmo monotono della sticomitia; c) l’impiego di parole tematiche, combinato con un’interazione attentamente variata, che garantisce l’unità del dialogo (cf. collArd 1980, 81). Gli strumenti elencati vengono qui analizzati a partire da uno studio sintattico e pragmatico dei versi in esame, unito a una costante attenzione per i nodi inquadrati dalle parole tematiche.
L’analisi sintattica del brano si fonda principalmente sull’articolo di irelAnd (1994), che tratta appunto del ruolo drammatico della sintassi e dei connetto-
4. Il concetto di ‘normale conversazione’ riferita a parlanti ateniesi di V secolo meriterebbe un approfondimento a sé; ai fini del mio studio mi appoggio all’interpretazione fornita da hAncocK (1917,5) della definizione di Polluce (cfr. supra, p. 3), secondo la quale la sticomitia sarebbe percepita come una naturale variante della conversazione.
5. Cf. e.g wilAMowitz 1895, 537; gross 1905, 87; frAenKel 1950, 626; greenwood 1953, 129, 136.
6. Al contrario, osserva wilAMowitz 1895, 537, i moderni la accettano tranquillamente soltanto in occasione di alterchi molto animati.
7. Rileva irelAnd (1994, 33) che la sticomitia si mantiene costantemente il mezzo più frequente attraverso cui Eschilo porta in diretto contatto i suoi personaggi, e addirittura, nell’Orestea, diventa uno strumento non solo per l’espressione, ma anche per l’azione (cf. Jens 1955, 22; seidensticKer 1971, 198; gArVie 1986, 86).
Il matricidio come tabù 51
ri nelle sticomitie, dei quali Eschilo si serve con grande abilità non soltanto per variare la struttura fissa della sticomitia, ma soprattutto per adattarla al contesto drammatico nel quale è inserita. Secondo lo studioso, l’impiego di paratassi, ipotassi e connettori, già significativo all’interno dei singoli versi, assume rilevanza ancora maggiore quando mette in relazione una battuta con l’altra, mostrando il rapporto tra i personaggi e le loro intenzioni all’interno dello scambio. A partire dalla forma sintattica più semplice — una successione di constatazioni indipendenti, o di domande e risposte non connesse sintatticamente — le variazioni possono attuarsi attraverso connessioni paratattiche o ipotattiche: domande e risposte sintatticamente dipendenti, addizione attraverso connettori, completamento di una battuta con un’altra o dipendenza di una frase dalla precedente8
Lo studio sintattico di Ireland è stato ampliato da schuren (2014), che ha incluso tra i campi di indagine della sticomitia la pragmatica e la narratologia, applicate alle tragedie euripidee. Attraverso un confronto con l’elenco dei quattordici tratti universali che secondo i linguisti sAcKs; schegloff; Jefferson (1974) caratterizzano una conversazione, Schuren ha osservato che le somiglianze tra la sticomitia e un dialogo spontaneo sono più numerose di quanto ci si potrebbe aspettare9. Tra queste, il sistema di turnazione, con il quale gli interlocutori si ripartiscono il diritto — o l’obbligo — di prendere parola all’interno di una conversazione, e in particolare le turn-allocations, o ‘assegnazioni dei turni’, per le quali il parlante corrente seleziona il seguente attraverso l’uso di vocativi, saluti, domande e direttive. Nel caso della sticomitia l’espediente non è strettamente necessario, perché gli interlocutori sono sempre due, ma nemmeno si tratta di semplici riempitivi (come nota shAleV 2001, 532, anche Platone ne fa uso nella sua prosa): servono piuttosto a indicare la posizione sociale reciproca degli interlocutori, o a comunicare un intento di urgenza o cortesia, esprimendo lo stato d’animo o le intenzioni del parlante. Rilevanti anche le variazioni nell’estensione dei turni, o turnextent variations — grazie alle quali il parlante esprime il proprio pensiero in un numero di versi superiore alla battuta singola che gli sarebbe assegna-
8. Come si è detto, il livello di contatto linguistico stabilito dalla sintassi riflette tendenzialmente una corrispondente vicinanza emotiva o intellettuale, che può essere reciproca, ricercata da uno solo dei personaggi, o addirittura assente.
9. Con l’eccezione dei tratti che fanno riferimento a più di due partecipanti al dialogo, alla sovrapposizione delle voci (logisticamente inopportuna, date le condizioni performative del teatro classico e la necessità di farsi comprendere dal pubblico), e alla lunghezza variabile degli interventi, emerge che nove di questi elementi compaiono anche nella sticomitia. Tra questi: interviene più di un parlante; si parla principalmente uno alla volta; le transizioni senza pause, né sovrapposizioni sono comuni; la lunghezza della conversazione non è specificata a priori; i contenuti della conversazione non sono specificati a priori; la distribuzione dei turni non è specificata a priori; si fa uso di tecniche di distribuzione dei turni da parte dei parlanti; le frasi possono variare nella costruzione sintattica e nella funzione pragmatica; esistono meccanismi di riparazione per ovviare a errori e violazioni di turnazione.
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ta —, e i meccanismi riparativi rispetto a queste ‘violazioni’ di turnazione. Entrambi i processi sono attuati attraverso il cosiddetto leapfrogging (o ‘salto’) sintattico, una costruzione che prevede l’integrazione sintattica di una battuta con un’altra battuta dello stesso parlante, per la quale è necessaria un’interruzione sintatticamente irrilevante del secondo interlocutore (cf. irelAnd 1994, 511).
Segnalo infine che, quando non altrimenti dichiarato, il mio testo di riferimento è l’edizione di west del 1990.
Collaborazione dialogica e delega linguistica: analisi della prima sticomitia delle Coefore
Il dialogo tra Elettra e il Coro si estende per sedici versi, che mettono in scena fin da principio una forte compattezza sintattica. Già dal primo verso compare una subordinata comparativa nella quale Elettra riprende lessicalmente il verbo αἰδέομαι e il termine πατρός proferiti dal Coro al v. 106 (πατρός addirittura nella stessa sede metrica): una ripetizione che, unita alla presenza massiccia di connettori che punteggiano il brano, è un primo indice di cooperazione logica ed emotiva tra i personaggi. L’amore per la tomba di Agamennone dichiarato in apertura della sticomitia, nota VAlgiMigli (1964, 178), unisce a questo punto senza dubbio Elettra e le Coefore, rendendole libere di intraprendere il gioco linguistico che segue; e l’unione dei personaggi intorno al tumulo già prepara tematicamente e visivamente il kommos10
Le prime parole con cui Elettra apre la sticomitia sono λέγοις ἄν: si tratta di una turn-allocation — mezzo attraverso cui il parlante seleziona colui che proseguirà il dialogo —, e in particolare di un’esortazione direttiva. L’uso dell’ottativo, in una struttura concisa come la sticomitia, avrebbe per Schuren una funzione retorica interna, ossia quella di conciliarsi l’interlocutore attraverso una formula di cortesia. Sicuramente, si tratta di un incoraggiamento a prendere la parola che varrà per l’intero dialogo. Fin da principio Elettra rinuncia, per così dire, a guidare lo scambio con il Coro, prerogativa che in base allo status sociale dovrebbe essere sua. Come sottolineato da bAttezzAto (2016), tuttavia, il problema centrale — in questo scambio, come nella maggior parte delle sticomitie delle Coefore — non è tanto l’affermazione di
10. La disposizione dei personaggi durante il kommos, secondo tucKer (1901, XXXVII), è la seguente: ai piedi del tumulo, su entrambi i lati, è schierato il Coro, con il Corifeo nel mezzo, mentre Oreste ed Elettra si troverebbero in alto, ai due lati del monumento. Allo stesso modo, nella prima sticomitia Elettra e il Coro sono disposte ordinatamente accanto alla costruzione della tomba (PAley 1870, 480 interpreta così in senso tecnico l’uso del termine στάσει al v. 114), mentre Oreste e Pilade sono probabilmente nascosti dietro la tomba, alla maniera di Dario nei Persiani (vv. 1-680), forse nella stessa posa rappresentata su un rilievo di terracotta di Melo (Berlin Terr. Inv. 6803). Ne risulterebbe, come nel kommos, un’Elettra in piedi alla destra del tumulo, con Pilade e Oreste alla sinistra della tomba (cf. gArVie 1984, XLV). Per il dibattito riguardante la disposizione scenica dell’episodio, cf. infra, n. 18.
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preminenza sociale, quanto una questione di eufemia e disfemia: «Elettra ha la necessità di coinvolgere il Coro perché vuole evitare di essere lei a pronunciare la parola ‘matricidio’, una parola ‘proibita’, che avrebbe caratterizzato in maniera negativa Elettra stessa»11. Quella di Elettra è una strategia socio-linguistica, che nel séguito della tragedia si vedrà in azione anche per Oreste: Eschilo sceglie di non far pronunciare loro la parola ‘matricidio’, né tantomeno la parola ‘uccisione’ in connessione con il termine ‘madre’. La strategia del drammaturgo è legata al tabù culturale del matricidio, che Aristotele definisce come un crimine talmente odioso che la morte sarebbe preferibile: ἔνια
( EN 1110a 26-29) 12 . Allo stesso tempo, come illustra lo stesso Aristotele nella Poetica (1453b 23-26), il matricidio costituisce il fulcro imprescindibile della trama dell’Orestea : τοὺς
. La strategia di rappresentazione di questo delitto è nelle mani del tragediografo, che sceglie di affrontare il problema evitando di far pronunciare ai suoi protagonisti l’espressione odiosa. In questo modo, l’eufemia di Elettra ed Oreste assume una connotazione retorica non solo interna, linguistica, ma anche esterna, drammatica, volta all’effetto che, secondo Eschilo, questo matricidio deve suscitare nel pubblico. Oltre a conservare ai suoi personaggi le simpatie degli spettatori, il tabù rende esplicita la loro consapevolezza dell’impossibilità di accettare senza mezzi termini il gesto matricida riconoscendolo come tale. L’esigenza di εὐσέβεια è infatti affrontata esplicitamente in questo dialogo (cf. vv. 122s.). Non si tratta di una scelta obbligata, come risulta dalla facilità con cui Sofocle fa riferimento fin dal principio della sua Elettra alla punizione destinata a Clitemestra (vv. 9699 «mia madre e il suo compagno di letto Egisto spezzarono la testa [scil. ad Agamennone] con una scure omicida come taglialegna spezzano una quercia» e 209s. «ai quali il grande dio dell’Olimpo faccia soffrire pene che li puniscano», trad. PAttoni 1997), nonché dalla varietà di termini impiegata da Euripide, che si serve anche del termine μητροφόντης (Or. 479, 1140, 1587). Questa libertà espressiva si spiega con strategie drammatiche molto diverse, come osserva tucKer (1901, LVIII): Sofocle sceglie di giustificare completamente Oreste ed Elettra, privando Clitemestra della benché minima simpatia da parte dello spettatore, ciò che consente ai figli di riferirsi alla sua uccisione senza ombra di rimorso. Per Euripide, d’altra parte, l’obiettivo è proprio quello di accentuare il pathos inerente alla situazione drammatica e mettere in dubbio la giustizia della vendetta, provocando una pietà ancora più inten-
11. Si veda lo studio di L. bAttezzAto su Eufemia e disfemia nelle Coefore, esposto durante il seminario sulle Coefore tenutosi all’Università di Bologna il 5 maggio 2016.
12. Aristotele allude qui a un frammento dell’ Alcmeone a Psofi di Euripide, riportato da un commentatore antico dell’Etica Nicomachea (fr. 69 K.).
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sa per i fratelli che vi sono costretti. Eschilo intraprende una strada chiaramente diversa, portando il conflitto tragico a livello terminologico e mettendo in scena personaggi talmente consci dell’empietà del matricidio che la stessa parola non può essere da loro pronunciata. Questo tabù è tanto più forte per Elettra, che in quanto donna è ancor meno autorizzata a compiere un’infrazione sociale così netta13. Tuttavia, si tratta di un riconoscimento necessario perché l’atto possa essere compiuto. Per questo motivo, la ragazza delega al Coro, che essendo composto da schiave è più incline ad espressioni disfemiche (cf. vv. 267s.), il compito di esprimere in sua vece un atto linguistico a lei proibito, conservando così il proprio status sociale. L’assunzione di questo ruolo-guida da parte del Coro è progressiva, e la cautela è presente in entrambi i parlanti. Al v. 109, infatti, il Corifeo risponde alla battuta di Elettra con un invito a parlare (l’imperativo φθέγγου, più adatto dell’ottativo alla struttura della sticomitia), che costituisce un progresso rispetto al silenzio vergognoso prospettato da Elettra al v. 96; tuttavia, si limita ancora a un suggerimento relativo “a chi vuol bene” ad Agamennone, senza pericolosi riferimenti a Clitemestra. L’ipotassi non esprime una complessità concettuale, ma semplicemente la modalità dell’azione che il Coro suggerisce a Elettra in risposta alla sua domanda ai vv. 96-98: “Oppure in silenzio senza onore […] devo libare queste offerte?” Il Coro si oppone a questa possibilità e incoraggia Elettra a versare le libagioni pronunciando «buone parole per chi gli vuole bene» (trad. bAttezzAto 1995, 379)14 . Al v. 110 compare un δέ, particella che crea connessione paratattica per addizione tra versi (cf. denniston 1954, 173), una delle varianti più semplici attraverso cui l’autore adatta la struttura fissa e formalmente indipendente della sticomitia alla funzione drammatica del passo. Il connettore, unito all’aggettivo dimostrativo τούτους in funzione epanalettica, è una ripresa sintattica evidente del verso precedente, i cui termini vanno specificati (“Ma quali tra i parenti dirò che sono questi [che gli vogliono bene]?”). La particella δέ in un’interrogativa indicherebbe che le informazioni già in possesso del parlante non sono adeguate, e assumerebbe spesso una sfumatura d’impazienza, adatta al dialogo serrato della sticomitia (cf. ibid.). Allo stesso modo, il pronome τούτους, nella veste di un doppio accusativo in struttura sintattica compendiata (
), riprende epanaletticamente
13. Per una bibliografia sul ruolo della donna nella tragedia attica, cf. e.g. denniston 1960, XVI, 178s.; doVer 1983, 186-197; gAgArin 1976, 90, 99; gould 1980, 38-59; seAford 1986 e 1990; rehM 1994.
14. tucKer (1901, 34) non accetta la correzione di hArtung (1853, 26s.) κεδνά e accoglie il σεμνά di M al v. 109, leggendo il termine in senso religioso («religionis plena», bothe 1831, 155, opposto all’ἀτίμως del v. 96), ma non necessariamente positivo. Per questo motivo il dativo “a chi gli vuol bene” verrebbe posto dopo una virgola, a titolo di esempio non concluso. Prima che il Coro possa spiegare che cosa chiedere per chi gli vuol bene, però, Elettra lo interromperebbe chiedendo spiegazioni più precise. gArVie (1986, 72), col quale concordo, obietta che in Eschilo non si trovano paralleli di interruzioni di sticomitie che impediscano il completamento della frase, come invece accadrebbe qui secondo Tucker.
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al verso precedente, specificandone l’identità. L’intento della sostituzione, in questo frangente, è quasi sarcastico: “e chi sarebbero i parenti di Agamennone che dovrei chiamare così?”. Si noti che il pronome, come tutti i deittici presenti nel dialogo eccetto uno (v. 113), è pronunciato da Elettra, che riconferma così il suo ruolo subordinato nello scambio, ma anche la sua partecipazione intellettuale ed emotiva al progredire del discorso volutamente affidato al Coro. I deittici impiegati nei dialoghi proiettati verso il futuro, infatti, esprimono solitamente collaborazione da parte del destinatario del discorso, che mostra così di aver compreso e condividere il piano d’azione del parlante (cf. schuren 2014, 196). Si assiste qui alla prima domanda esplicita posta da Elettra, che già al v. 108 aveva incoraggiato il Coro a prendere la parola, ma con un semplice ottativo di cortesia e senza chiarire in nessuna maniera il tipo di contenuto che le interessava. Con questa interrogativa aperta, invece, la giovane restringe esplicitamente il proprio campo di interesse ai beneficiari della preghiera, primo oggetto di discussione ed esame all’interno della sticomitia. Come sostiene goldhill (1984, 112), questo scambio sticomitico mette in atto, attraverso il meccanismo domanda-risposta, una costante verifica e un altrettanto costante slittamento semantico dei termini proposti dal Coro, in una fitta rete di allusioni e riferimenti che escludono la possibilità di una definizione semplice: in questo caso, non tutti i parenti sono benevoli, come mostra la voluta ambiguità del termine φίλων15 La prima lettura farebbe intendere come referente del termine i parenti del parlante, ossia di Elettra, ma non è da escludere che la ragazza si riferisca qui al padre, ai suoi cari, in un’accezione che evidenzierebbe così il paradosso di dover indicare chi, tra i congiunti di un uomo, gli vuole davvero bene, a differenza di coloro che l’hanno ucciso. La domanda pone così al principio del dialogo il problema complesso della φιλία , un concetto niente affatto univoco in questa tragedia, in cui la confusione, anzi la perversione delle relazioni (madre/figlio e uomo/donna) viene tematizzata16, e coloro che sarebbero normalmente considerati φίλοι diventano ἐχθροί: così accade ai vv. 173, 234, 615, 906s., 993, Ag . 1272s., Eum . 100. La φιλ ί α , spiega g oldhill (1984, 111), è appunto la relazione, caratterizzata dall’obbligatorietà e dalla reciprocità, turbata dall’adulterio di Clitemestra, che ha messo così a repentaglio la stabilità dell’intero oikos, poiché la reciprocità è il centro del sistema matrimoniale e, di conseguenza, familiare; i valori evocati da questo termine sono dunque tanto personali, quanto relazionali (cf. benVeniste 1969, 340). Il problema posto da Elettra attraverso la sua domanda è chiaro: pregare contro Clitemestra significa pregare contro i propri φίλοι, ciò che la ragazza ancora non osa fare. Inoltre, se si ammette con lAndfester (1966, 53) che Elettra ponga a referente del termine φίλος Agamennone, un personaggio ‘altro’ e per di più assente, il suo atteggiamento di vicinanza emotiva al padre ne risulta tanto più rafforzato: si tratterebbe di un’espressione di sentimenti since-
15. Lo stesso principio è affermato in Ch. 234 e Ag. 1272.
16. Cf. stAnford 1942, 125 e zeitlin 1996, 97.
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ra, e non retoricamente motivata, dato che il personaggio verso cui Elettra mostra tale empatia è morto.
La risposta del Coro al v. 111 è un esempio di dipendenza sintattica dal verso precedente: gli accusativi sottintendono il verbo reggente προσεννέπω proferito da Elettra, cementando così strettamente la continuità domanda-risposta. Anche πρῶτον μέν, privo di un δέ correlato, serve a dare continuità al dialogo: lo sviluppo dell’antitesi è interrotto dall’intervento di un altro parlante (cf. denniston 1954, 382). La costruzione ipotattica all’interno del verso è una frase relativa, che ancora una volta risponde alla domanda di Elettra senza far nomi. Se il Coro ha ormai assunto il ruolo formale di guida nella conversazione, infatti, si nota ancora una reticenza nell’esprimere apertamente le dure parole di condanna nei confronti di Clitemestra. Le Coefore hanno percepito il problema di eufemia della ragazza e scelgono di impiegare un mezzo più facile e spedito per indurre Elettra a rivolgere il rito dei libami contro Clitemestra: per questo motivo al v. 111 nominano Egisto, figura riguardo alla quale la fanciulla non può avere alcuno scrupolo religioso. In generale, l’enfasi su Egisto nella trilogia è piuttosto modesta: se nella tradizione precedente a Eschilo, infatti, Egisto viene assassinato prima di Clitemestra, che attacca Oreste per difendere l’amante e per questo è da lui uccisa, Eschilo subordina questo elemento, più eminentemente politico (la riconquista del regno), al suo interesse tragico, il fine religioso, ossia la vendetta ordinata da Apollo (cf. VAlgiMigli 1964, 231). Per questo motivo, l’interesse della tragedia è tutto focalizzato su Clitemestra, sul matricidio, e il culmine dell’azione tragica sarà lo scontro finale tra madre e figlio (vv. 908-927, anch’essi sticomitici). L’evocazione di Egisto è dunque funzionale a travolgere Clitemestra nella linea di vendetta, nelle libagioni come nell’azione a venire (cf. pp. 178s.). Egisto, infatti, diventa qui l’oggetto di un verbo dal significato opposto a φιλεῖν, στυγεῖν (v. 111). In questo modo, φιλεῖν si definisce per contrapposizione a στυγεῖν, e in particolare a στυγεῖν Αἴγισθον: una definizione simile permette di escludere Clitemestra dalla schiera dei φίλοι, malgrado il vincolo che la lega sia a Elettra, sia ad Agamennone. L’apparente ritrosia del Coro assolve così una doppia funzione: la perifrasi da un lato esclude con forza Clitemestra dal campo di “chi vuol bene [ad Agamennone]”, per arrivare all’affermazione paradossale che è giusto non pregare per colei che ha inviato le libagioni; dall’altro, chiama alla mente Oreste. Al v. 112 figura un nuovo esempio di collaborazione dialogica da parte di Elettra: il connettore τἄρ, che prosegue il discorso in maniera logica rispondendo ai precedenti incoraggiamenti del Coro. In particolare, la particella τοι esprime un rapporto di forte vicinanza intellettuale con il destinatario, mentre ἄρα indica una connessione logica per la quale la frase precedente produce una sorta di illuminazione nel parlante (cf. denniston 1954, 40 e 425). La combinazione delle due particelle introduce una frase che esplicita la precedente, secondo l’interpretazione individuata da goldhill (1984, 112) per cui Elettra si affanna a mettere in chiaro le espressioni del Coro in modo da poter stabilire, insieme, chi sia nemico e chi amico, e che cosa sia opportuno chie-
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dere per ciascuno di loro17. Com’è sua preferenza in questo scambio, Elettra si limita a riformulare in maniera esplicita, ma letterale, quanto espresso dal Coro, senza osare avventurarsi al secondo livello di comprensione (mettendo in luce ad esempio la figura di Oreste). La sua reticenza si esplicita nel τάδε riferito a κεδνά del v. 109, che anche qui viene così messo in evidenza: “queste cose buone, quindi, le devo chiedere per me e per te”; se la preghiera dev’essere positiva, e non una maledizione, non può riferirsi a nessun altro abitante del palazzo.
Il Coro non si rassegna al gioco di deleghe messo in atto dalla padrona e tenta ormai apertamente di restituire a Elettra autonomia deduttiva ed espressiva. Così, l’imperativo φράσαι del v. 113 costituisce allo stesso tempo la riconferma formale dell’autorità del Coro in questo frangente e la restituzione di quest’autorità alla legittima proprietaria. Inoltre, tucKer (1901, 35) legge ἤδη come “da questo momento in poi”, per cui il Coro direbbe “lascio a te giudicare”. A sostegno di questa lettura, MAtino (1998, 101) ricorda che «αὐτός si aggiunge al pronome personale se la persona deve essere indicata come esclusa da tutte le altre: “da sola ormai puoi comprendere e dire”». Segue non a caso l’unico pronome deittico pronunciato dal Coro, riferito, come afferma t uc K er (1901, 35), a un segmento implicito della frase, οὐκ έ τι ἐγὼ λ έ γω : “queste cose” non le dirà il Coro, perché Elettra ormai le ha capite ed è in grado di pronunciarle.
Solo quando Elettra replica con una nuova domanda prudentemente aperta, peraltro supportata da un οὖν ἔτ(ι) che deroga alla domanda (οὖν) pur accettandone il presupposto (ἔτ’) (cf. ibid ), il Coro capisce che ciò che manca a Elettra non è la comprensione, ma la possibilità di essere esplicita, e si assume definitivamente l’incarico di sostituirla. In questo contesto, infatti, la particella οὖν ha il valore più comune di connettivo inferenziale: “e quindi, chi altro?”. Elettra non può non avere in mente la figura del fratello, che tra qualche verso descriverà come padre, madre, fratello e sorella (vv. 238-242); ma la sua esitazione riguardo al tema della vendetta è tale da impedirle di essere la prima a invocare il ritorno di un vendicatore e da spingerla ad affidare al Coro, al v. 115, l’espressione di un tale desiderio. La prima menzione esplicita di Oreste è fatta dunque dal Coro e, come suggeriscono t uc K er (1901, 36) e gArVie (1986, 73), si carica presumibilmente di una forte ironia tragica. Oreste e Pilade, infatti, sono probabilmente in scena anche loro, nascosti alla vista delle Coefore; e, se anche non sono visibili, il pubblico sa che sono in ascolto18. Da questa disposizione scenica risulterebbe senz’altro in-
17. gArVie (1986, 73) interpreta τἄρ affermativo come una rassicurazione delle schiave da parte di Elettra, incoerente in un dialogo in cui il ruolo-guida è costantemente mantenuto dal Coro, e preferisce leggervi un’interrogativa, con P orson (1827, XI): σο ί γ’ ἆρ’ t uc K er (1901, 35) e denniston (1954, 555), alla cui lettura mi richiamo, suggeriscono piuttosto un’inferenza, per quanto espressa con tono interrogativo.
18. L’opinione di tAPlin (1977, 334-338) è che Oreste e Pilade non siano usciti di scena al v. 21, ma che la loro intenzione di spiare gli eventi, dichiarata ai vv. 20s., si concretizzi nel loro nascondersi sul palco. Si tratterebbe di una tecnica impiegata anche in Eur. El. 111 e
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tenzionale l’ironia tragica della battuta del Coro al v. 115 che, nel citare per la prima volta il nome di Oreste, ne evoca nel contempo la lontananza.
Al v. 116 l’approvazione di Elettra per la menzione di Oreste da parte del Coro è messa in evidenza attraverso l’esclamazione εὖ τοῦτο, dove τοῦτο si riferisce non solo alla frase del Coro, ma più in generale al suo stesso atto linguistico, al suo nuovo atteggiamento collaborativo ed esplicito. L’asindeto che caratterizza le battute dei vv. 115-121, in questo frangente, è indice di alta cooperazione dialogica, poiché sottintende un’intesa rapidissima tra i parlanti, una ripresa sottile ed ellittica dei pensieri dell’altro (cf. h A ncoc K 1917, 28). L’eccezione a questa struttura asindetica è data dal v. 117, in cui la particella νυν segnala che il Coro sta infine arrivando al punto focale della questione (cf. bAKKer; wAKKer 2009, 72-79): il discorso è finalmente approdato ai colpevoli. La tensione del momento è tale che Eschilo sceglie di sottolinearla attraverso un’interruzione, messa in atto per tramite di una costruzione sintattica molto rilevante, che irelAnd (1994, 511) definisce «grammatical leapfrogging» e J ens (1955, 6) «Unterbrechungen des einen Gesprächsteilnehmers durch den anderen», fenomeno raro in Eschilo. MAstronArde (1979, 58) ne parla come di un’ingerenza nella quale il secondo parlante impedisce al primo di concludere la propria frase come l’aveva intesa, ma gli fornisce allo stesso tempo, in maniera cooperativa, un elemento sintattico vitale per il completamento della proposizione originaria. La costruzione del participio μεμνημένη al v. 117, infatti, trova completamento sintattico nella seguente battuta dello stesso personaggio, al v. 119, dove compare un infinito, retto dall’imperativo sottinteso εὔχου. Il v. 118, invece, è un’interruzione da parte di Elettra, che sollecita la risposta già intrapresa dal Coro, fornendo la reggente τί φῶ, mentre l’uso di ἐξηγουμένη conferma la serietà dell’argomento
Soph. OC 117, ma utilizzata soprattutto nella commedia, al punto da avere forse scoraggiato un uso più frequente nella tragedia (cf. p. 335). Sul luogo del nascondiglio lo studioso si mostra incerto, ma dal momento che, a suo parere, la scena non ‘rappresenta’ ancora il palazzo di Agamennone, è probabile che i due si siano nascosti proprio sotto la soglia di una porta; in ogni caso, l’intervento improvviso di Oreste al v. 212 lo porta a escludere che il ragazzo sia effettivamente uscito da un’eisodos, poiché il dialogo indica chiaramente che egli è a conoscenza di quanto detto da Elettra. gArVie (1984, XLV) si oppone a questo uso delle porte, poiché sarebbe risultato di difficile interpretazione per il pubblico, che le aveva già viste usare come ingressi del palazzo nell’ Agamennone, e propone la disposizione già descritta e accolta supra , in n. 10. Un’obiezione a questa interpretazione è espressa da bAin (1977, 91s.), per il quale, perché la scena risulti efficace, Oreste deve restare fuori dalla visuale del pubblico, che altrimenti verrebbe distratto dalla sua presenza. Tuttavia, come afferma VAlgiMigli (1964, 176s.), nel teatro attico si dava spesso il caso che un attore, nel momento in cui non era incluso nel dialogo, ‘sparisse’ quasi dalla vista, diventasse parte del fondale, per poi tornare visibile nel momento in cui riprendeva a parlare: così accade per Cassandra, muta e ignorata fino al v. 1035 dell’Agamennone; forse per Clitemestra, la cui entrata al v. 258 della stessa tragedia è tuttora discusso (cf. tAPlin 1977, 280); e per la stessa Elettra, che tace durante i versi della parodo, pur essendo entrata in scena con il Coro (vv. 22-83). Si tratterebbe dell’equivalente attoriale del refocusing descritto da dAle (1969, 119s.) per gli ambienti scenici. Sembra dunque più probabile che Oreste sia rimasto in vista, pronto a ‘ricomparire’ agli occhi del pubblico ogniqualvolta l’evocazione del suo nome lo richiami (ironicamente) in scena.
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in discussione, dal momento che si tratta di un termine tecnico adatto alle prescrizioni di riti religiosi (cf. gArVie 1986, 74). Per ottenere questo effetto bisogna dunque ricorrere a un’interruzione, che rimane comunque nel campo del naturalismo linguistico, perché il Coro ‘ripara’ questa contravvenzione concludendo alla battuta seguente la frase che era stata spezzata. L’espediente potrebbe ridursi a un semplice riempitivo, teso ad esprimere un concetto complesso in più versi, ma l’abilità drammatica di Eschilo carica di pathos questo intervento di Elettra, che pende dalla bocca del Coro per scoprire che cosa augurare ai colpevoli dell’assassinio di suo padre, in un misto di eccitazione ed esitazione. I due meccanismi (variazione nell’estensione del turno e riparazione alla violazione di turnazione) si vanno così a intrecciare, accentuando l’effetto di spontaneità e al tempo stesso di pathos del dialogo. Si noti, tra l’altro, che le interruzioni di Elettra contengono a loro volta turn-allocations che garantiscono formalmente al Coro la possibilità di concludere il discorso: al v. 118 una domanda e un imperativo, al v. 120 ancora una domanda. Come osserva h A ncoc K (1917, 40), Elettra sta astutamente fingendo ignoranza, o esitazione, al fine di spingere il Coro a un’asserzione precisa riguardo alla preghiera di vendetta. La connessione ipotattica tra i versi, la forma di connessione più intima all’interno di una sticomitia (cf. irelAnd 1994, 519), salda tra loro le battute trasformandole in un’unità compatta.
Anche la seconda ‘interruzione’, al v. 120, ha un valore intrinseco, ossia quello di mostrare che Elettra è consapevole di ciò che intende il Coro, ma allo stesso tempo riluttante a esprimerlo per prima. In questo passaggio viene infatti introdotta la seconda definizione rilevante discussa in questa sticomitia, espressa dalla domanda disgiuntiva posta dalla ragazza. Il secondo termine dell’alternativa, δικηφόρος, costituisce un neologismo presente soltanto in Eschilo (cf. Ag. 525, 1577): costruzione inusuale in una sticomitia, che non si presta ad accogliere composti lunghi o magniloquenti (cf. eArP 1948, 10 e 34)19. Come osserva citti (1994, 160s.), l’uso particolare di un composto in un dialogo si spiega perché «i momenti in cui compaiono le neoformazioni sono di norma quelli più tesi e drammatici, dove non è chiaro in che direzione procederanno gli eventi o quale valutazione di essi sarà data dai personaggi o dal Coro: i momenti cioè in cui sulla scena si affaccia più prepotente il “tragico”»: ciò che appunto si vede in atto in questo caso. Il significato di questa parola si spiega alla luce del confronto con il primo termine: se il δικαστής è il giudice, il δικηφόρος è senz’altro il vendicatore, qualcuno che “ricambi l’uccisione” (v. 121, cf. gAgArin 1976, 189). L’uso del composto, in questa sede, indica che la seconda alternativa è quella corretta (così come al v. 119 il ‘vendicatore’ a cui pensa il Coro è un mortale, non un dio), perché la
19. Il linguaggio della sticomitia, infatti, è spesso più diretto e disadorno di quello lirico, anche per le sue dichiarate finalità pratiche, che richiedono chiarezza e vivacità, più che una dizione esotica (cf. eArP 1948, 48). La naturalezza dei dialoghi di Eschilo, secondo lo studioso (p. 61), avrebbe anzi quasi tratti di realismo; il linguaggio elevato permetterebbe semplicemente al personaggio di esprimere i propri pensieri con la maggior forza espressiva consentitagli dal contesto.
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giustizia operata all’interno delle Coefore è una questione di mutua vendetta, non una decisione giudiziaria (cf. gArVie 1986, 74). Per questo motivo la catena di sangue non si fermerà con la vendetta di Oreste, ma dovrà essere espiata e regolata da un tribunale civile all’interno delle Eumenidi , come questo verso sembra già preannunciare, per il fatto stesso di offrire un’alternativa alla vendetta (cf. ibid .). La legge a cui pensano le schiave, e che si apprestano a insegnare a Elettra (v. 123), è però ancora quella del taglione, il tipico codice morale greco secondo il quale è giusto far del male ai propri nemici e fare del bene ai propri amici20; naturalmente, il problema sta proprio nel fatto che la persona che il Coro identifica tanto facilmente come ἐχθρός è allo stesso tempo la madre di Elettra, dunque sua φίλη (cf. gArVie 1986, 74). La difficoltà si era già posta ai vv. 110s., e la tragicità del dramma risiede proprio qui: nella necessità di uccidere un φίλος di sangue che è allo stesso tempo ἐχθρός. Al termine di questo scambio (v. 121) il Coro arriva finalmente a menzionare chiaramente (ἁπλωστί) l’uccisione, pur continuando a non citare Clitemestra. La risposta delle Coefore, a livello puramente sintattico, non è necessaria per completare il v. 119: la prosecuzione risponde proprio all’interrogativo di Elettra, che presenta una domanda in forma alternativa ( πότερα ) a cui il Coro risponde con un ἁπλωστί, un “semplicemente” che esprime singolarità: la risposta è univoca. Si osservi però che la subordinata relativa, ancora una volta, evita di fare nomi, in particolare quello di Clitemestra. Malgrado questa reticenza, il v. 121 è la battuta che esorta e insieme autorizza Elettra (il φράζουσα si riferisce a lei) a parlare esplicitamente di omicidio, poiché ormai la prima menzione è già stata fatta dal Coro. Nei due versi successivi prosegue l’uso dei nessi (καί al v. 122, δέ al v. 123) per indicare la collaborazione dialogica tra le parti. Il κα ί , unito al ταῦτα epanalettico, riprende le durissime parole del Coro (“chi dia morte in contraccambio”) per domandare ancora una volta se tutto ciò non sia empio. Davanti a un invito tanto esplicito, Elettra non può che smettere di ricorrere a espedienti di reticenza e accettare di esprimere apertamente il proprio dubbio, se sia o no pio per lei chiedere queste cose. Il pronome μοι — su cui batte l’accento della frase — conferma che il timore di Elettra non è l’evocazione dell’omicidio di per sé, ma da parte sua, femmina, nobile, e figlia di Clitemestra. Anche l’ultimo ταῦτα, con funzione ancora epanalettica, è il più ‘ritroso’ di tutti, perché rifiuta di esprimere proprio la preghiera la cui religiosità sta mettendo in dubbio.
La domanda della ragazza è sincera, come ha dimostrato la sua esitazione durante il dialogo, e dunque il ruolo ‘istruttivo’ del Coro nei suoi confronti, almeno per quanto riguarda la battuta seguente, è indubitabile: sono le donne di casa, nella loro anzianità, a insegnare alla giovane la saggezza antica (ruolo che verrà ribaltato nella seguente sticomitia, come messo in luce dal v. 171). Lo stesso ruolo istruttivo è assunto dal Coro nei confronti di Oreste du-
20. Cf. e.g. Archil. fr. 126 W.2, Theogn. 869-872.
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rante il kommos (vv. 324-331, 451-455), mentre al termine del rituale sarà il ragazzo a prendere il comando del dialogo, interpretando il sogno di Clitemestra e dando istruzioni sul modo di comportarsi a palazzo. In questo modo, la sticomitia tra Elettra e il Coro si presenta come una controparte del kommos, nel quale i dubbi e le esitazioni di Oreste riguardo alla vendetta vengono mitigati dall’intervento del Coro e dai suoi insegnamenti (cf. lebecK 1971, 106). Questo compito tipico del Coro è messo bene in luce da di benedetto; MeddA (1997, 254), secondo i quali i consigli impartiti dal Coro ai personaggi, improntati a una saggezza di cui è depositaria la comunità stessa (al v. 313 la legge del δράσαντι παθεῖν è descritta come τριγέρων μῦθος), rivelano il suo carattere collettivo, che si mantiene anche nel corso di una sticomitia, in cui soltanto il Corifeo si confronta con l’attore21. Al ruolo-guida del Coro contribuiscono altri elementi essenziali della sua natura: l’assennatezza derivata dalla vecchiaia (cf. v. 171) e la sua costante presenza sulla scena, che garantisce una conoscenza approfondita delle vicende in corso. Konishi (1990, 28) nota che da questo punto di vista le Coefore rappresentano un rovesciamento dell’ Agamennone22: se là era Clitemestra a persuadere il Coro ad accettare il tradimento di Agamennone (cf. vv. 1412-1567), qui sono le ancelle a persuadere Elettra e poi Oreste alla vendetta. Il fatto di elargire consigli costituisce un’azione scenica vera e propria, se pure soltanto a livello verbale, poiché spinge gli attori a mettere mano a un’azione o a trattenersi dal compierla: così, Konishi (p. 12) affianca il Coro a Elettra e poi a Pilade nel
21. Durante le sticomitie o altre forme di interazione con gli attori, a parlare era solo il Corifeo; nel kommos, tuttavia, il tragediografo era libero di alternare parti singole e corali, a seconda dell’effetto desiderato (cf. PicKArd-cAMbridge 1968, 246). È comunque presumibile che ai vv. 264-478 la totalità dei coreuti fosse rivolta all’interlocutore (cf. Vit. Ar. 36, schol Ar. Eq. 505).
22. Come nota l ebec K (1971, 59), molti dei più importanti sistemi di immagini all’interno dell’Orestea hanno uno scopo specifico: quello di trasformare gli eventi del dramma in un’illustrazione concreta del principio παθεῖν τὸν ἔρξαντα. In questo senso, è condivisibile l’affermazione di Konishi (1990, 26), per il quale nella seconda tragedia gli dèi imitano i trucchi impiegati dai mortali nella prima per punirli delle loro azioni, mettendo in scena una serie di ripetizioni della tragedia precedente, rovesciate però nei risultati. I parallelismi e le specularità di azioni e immagini tra le prime due tragedie della trilogia mettono in mostra il principio della lex talionis , che guida la giustizia privata: l’atto di vendetta richiede a sua volta un’espiazione, che può avvenire solo attraverso il versamento di altro sangue (cf. vv. 66s., 400-402). Il principio ‘sangue per sangue’ costituisce il modello di fondo dell’azione dell’Orestea (cf. gAgArin 1976, 60), ma è centrale soprattutto nelle Coefore (cf. vv. 122s., 309-314, 400-404, 556-558, 803-805, 888, 930, 1007-1017), dove però viene anche evidenziata l’infinita circolarità di questa giustizia che diventa ingiusta, come esemplarmente sintetizzato da Oreste al v. 930 ἔκανες ὃν οὐ χρῆν, καὶ
. Tra le immagini ribaltate nel passaggio da una tragedia all’altra, figura per esempio l’inaspettata uscita di Clitemestra dalle porte del palazzo ai vv. 668-673, che marca la vicinanza con l’incontro tra Clitemestra e il marito nell’Agamennone (v. 855) e la specularità delle due situazioni, che Oreste si accinge a ribaltare nell’esito: ancora una volta il legittimo signore della casa è accolto da Clitemestra, che di nuovo detterà i termini del suo ingresso. L’uomo è giunto da lontano, dopo una lunga assenza, e ancora una volta deve ottenere il permesso di oltrepassare la soglia del suo proprio palazzo (cf. tAPlin 1977, 343).
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ruolo di agenti che spingono Oreste a compiere il matricidio23. Come ricorda V A lgi M igli (1964, 166), la scelta del Coro non è accessoria all’interno della composizione poetica, e anzi «tutti i cori di Eschilo sono connessi strettamente all’azione e muovono dall’azione; e sono parte essenzialissima, sempre, di tutta la concezione e immaginazione tragica». In questo caso, Eschilo crea nelle Coefore un Coro che ha tutte le caratteristiche di un attore senza perdere le sue funzioni di normale Coro tragico, inventando un contesto plausibile per cui i coreuti possono naturalmente presentarsi come gruppo unito agli attori, rievocare il passato, offrire sentenze gnomiche, e allo stesso tempo partecipare all’azione24 Lo scopo delle domande che la ragazza rivolge al Coro nella sticomitia, si è già detto, è quello di evitare lo phthonos di pronunciare personalmente una maledizione sulla madre, così da non subire insieme la riprovazione divina per un’azione empia e quella umana per un atto disonorevole. Come ricorda winnington-ingrAM (1983, 96), nella tragedia il carattere deriva dalla motivazione; e la motivazione è vincolata ai valori sociali. Ovvero, il personaggio non è un individuo di per sé stesso, bensì è inserito nella società, alle cui norme è chiamato a rispondere. A questo scopo, il Coro è sempre presente sulla scena, a rappresentare la comunità davanti ai cui occhi si consuma l’azione (cf. di benedetto; MeddA 1997, 254), e per questo motivo la disfemia di Elettra ha un peso tale per la giovane, chiamata a pregare insieme alle donne del Coro. Come nota MAcleod (1982, 139), l’onore, la τιμή, era sia una posizione, sia una funzione nella società antica, che si fondava su un ordinato sistema di relazioni; per questo motivo, quando la τιμή di un individuo era a rischio, lo era la stessa società. Anche per questo, le ancelle accettano tanto prontamente di collaborare con Elettra, per risparmiarle il disonore (oltre che l’empietà) di doversi riferire al matricidio, in particolare al momento della preghiera, ma anche nel resto dei suoi discorsi. Il mantenimento dell’onore della casa a cui tanto si sentono legate25 dipende anche dall’onore di Elettra.
23. Ciò non significa che il Coro instilli nei fratelli un desiderio di vendetta, bensì che il suo insegnamento fornisce una giustificazione divina a questo desiderio, poiché rivela il codice universale che si cela dietro l’oracolo di Apollo. Allo stesso modo, al v. 899, Pilade interverrà per ricordare questa legge a Oreste. Ciò che trattiene i fratelli è la paura dell’empietà del gesto: in questo senso, si può dire che il Coro li spinge all’azione, sgomberando i dubbi di sacrilegio che li inibiscono.
24. La dimostrazione più concreta del ruolo attivo del Coro all’interno delle Coefore si presenta nel colloquio tra Coro e nutrice ai vv. 766-782.
25. Come nota VAlgiMigli (1964, 166), le donne del Coro non sono più giovani (v. 171), eppure sono state portate via dalle case paterne (vv. 75-77), e dunque presumibilmente fatte prigioniere in giovane età: lo studioso ne deduce che siano schiave non troiane, bensì presenti a palazzo da prima della partenza di Agamennone. Valgimigli, però, riconosce che Eschilo non fa menzione della provenienza delle donne, e che si tratta di una reticenza consapevole, atta a raffigurarle come parte integrante della reggia, legata alle sue sorti e ai suoi membri: lamentano le sventure della casa (vv. 49-54), piangono la morte del re come fosse il loro sovrano (vv. 81-83), hanno venerazione della tomba di Agamennone (v. 108), sono complici del piano di vendetta e si uniscono ai fratelli nell’intonazione del kommos. Se Eschilo avesse rivelato esplicitamente a quale paese o a quale gente apparte-
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In effetti, in questo episodio è il Coro a insegnare a Elettra la lezione di Dike, come farà poi con Oreste durante il kommos (cf. vv. 306-314, 400-404). La domanda che Elettra si pone ai vv. 87s., infatti, è la stessa pronunciata da Oreste al principio del kommos (vv. 315-317): qual è la preghiera giusta da fare in tali circostanze? L’interrogativo ha un tratto di convenzionalità rituale che nel contesto della tragedia assume un significato nuovo, poiché il lamento per un uomo assassinato implica normalmente la richiesta di vendetta: ma sulle labbra dei due fratelli, questo atto di pietà tradizionale rischia di essere sacrilego (cf. v. 122).
La replica del Coro al v. 123 rassicura Elettra, ricordandole la morale del δράσαντι παθεῖν (v. 313)26, espressa nella forma proverbiale tipica della saggezza popolare (cf. stAnford 1942, 43-45); la sfumatura colloquiale è confermata dalla domanda breve che precede la massima (cf. p. 49). Il πῶς δ’ οὔ del Coro, una domanda retorica che sollecita l’assenso silenzioso dell’interlocutore davanti all’autoevidenza dell’affermazione, attribuendole un senso d’inevitabilità (cf. denniston 1954, 176), ribatte con forza all’esitazione che ha caratterizzato la posizione di Elettra fino a questo momento, proferendo la legge di giustizia che da qui in avanti autorizzerà le azioni di Elettra e poi di Oreste. Tuttavia, la peculiarità della situazione stride con la saggezza tradizionale proposta dal Coro, che attraverso l’uso del termine ἁπλωστί sembra fornire un’assicurazione quasi ironica della possibile semplicità/singolarità del linguaggio (cf. goldhill 1984, 115) a fronte del problema rimasto irrisolto della definizione di φιλία. In ogni caso, Elettra accetta il consiglio e sale sul tumulo a pregare nella maniera in cui è stata istruita. In effetti, attraverso la formulazione generica della risposta, il Coro le ha davvero suggerito una soluzione linguistica al suo problema: se, nel versare le libagioni, Elettra invocherà la vendetta sui nemici del padre, le sue parole non potranno dirsi empie, come ella ha paventato al v. 122. La strategia linguistica eufemica messa in atto durante tutto il dialogo si mantiene così operante anche nei versi della preghiera (vv. 124-151), questa volta su iniziativa del Coro, e non più solo di Elettra. In questo senso, l’insegnamento delle schiave le è prezioso, poiché le permette di intonare la supplica che verrà presto esaudita dall’apparizione di Oreste, e che darà avvio al piano di vendetta. A livello di sviluppo drammatico, infatti, VerrAll (1893, XXI) legge la scena delle libagioni come l’introduzione fortuita del personaggio di Elettra sulla strada di Oreste: l’assistenza nella casa del nemico è evidentemente indispensabile; e questa assistenza gli nevano, «tutto questo, appesantendo in certo modo la loro schiavitù, le avrebbe troppo rigidamente distinte e distaccate dalla casa e dalla famiglia di cui ora fanno parte» (p. 167). 26. Adotto per il v. 313 il testo tràdito δράσαντι παθεῖν, accolto da west (1990). Nonostante PAuw (1745) abbia corretto il dativo nell’accusativo δράσαντα, seguito da PAge (1972), la maggior parte degli studiosi concorda nell’accettare la tradizione, che trova paralleli in fr. 456 R.2 e Plat. Leg. 872e. Come afferma VerrAll (1893, 44), la presenza di τάδε conferma che le parole δράσαντι παθεῖν sono citate in forma frammentaria, com’è tipico delle riprese proverbiali. gArVie (1986, 127) concorda che la brevità ellittica è una marca proverbiale, e che pertanto è superfluo correggere in δράσαντα, che pure allineerebbe il passo ad Ag 1564. La traduzione, con tucKer (1901, 77), diventa così «to the doer, the suffering».
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si offre provvidenzialmente al momento del suo arrivo, nella forma di un personaggio già impegnato nel suo medesimo rituale. La provvidenzialità dell’incontro tra i fratelli è sicuramente importante, come ha evidenziato VAlgiMigli (1964, 168)27: tuttavia, a livello di trama questa scena ha una rilevanza più specifica. Per Konishi (1990, 146), l’obiettivo di Eschilo nella sequenza delle libagioni (vv. 22-163) sarebbe quello di rendere Oreste pienamente consapevole del ruolo che ci si aspetta che egli assuma al suo ritorno a casa: quello di vendicatore (δικηφόρος, v. 120). Questa posizione trova conferma nell’interpretazione di bAstA donzelli (1978, 102-135) riguardo alla scena del riconoscimento (vv. 164-234). Secondo la studiosa, l’atteggiamento di Elettra è una conferma visibile, per gli spettatori, del fatto che la ragazza è pronta ad accogliere nel fratello colui che riporterà giustizia, l’“amore della casa paterna e speranza di salvezza” (vv. 235s.), ed è la corrispondenza tra il suo desiderio e l’attitudine di Oreste a permettere che il riconoscimento avvenga28. La preghiera di Elettra, all’altezza delle libagioni, non ha ancora posto in relazione le sue due speranze, che Oreste torni a casa e che qualcuno compia la vendetta, ma i vv. 212s. fanno credere che il ragazzo in ascolto sia stato spinto dalle parole della sorella a vedere il proprio ritorno come la risposta degli dèi alla prima parte della sua preghiera (vv. 130-139): e dunque forse anche alla seconda (vv. 142-144). In ogni caso, la scena ha dimostrato a Oreste, in un contesto non sospetto, la fedeltà della sorella e delle schiave nei suoi confronti, e la condivisione del desiderio di vendetta per Agamennone: ciò che lo spinge a rivelarsi liberamente nella scena del riconoscimento29. La prima parte della preghiera, insomma, è ciò che fa sì che la comparsa di Oreste davanti alla sorella si costituisca come una risposta degli dèi alla sua supplica, e che dunque permette a Elettra di riconoscerlo nell’episodio che segue30. Per
27. Secondo lo studioso, gli arrivi contemporanei di Oreste e di Elettra alla tomba del padre sono «espressione e conseguenza dello stesso ordine» ( VAlgiMigli 1964, 168) mandato da Apollo, al giovane per mezzo degli oracoli, a Clitemestra attraverso un sogno. La volontà divina, l’ineluttabilità della vendetta, sarebbe così visivamente rappresentata da questo incontro davanti agli occhi del pubblico.
28. Le considerazioni della studiosa toccano anche la funzione scenica complessiva del riconoscimento descritto da Eschilo che, attraverso la figura di Elettra e le sue aspettative, introdurrebbe il protagonista del dramma non solo come vendicatore, ma anche come salvatore della casa degli Atridi. Il ruolo drammatico della giovane, che non a caso si esaurisce nella prima metà della tragedia, sarebbe quello di rappresentare drammaticamente «il legame tra l’esule e la sua casa […], la continuità dei diritti del γένος in assenza del legittimo erede» (bAstA donzelli 1978, 123). Il tema del riconoscimento, dunque, parrebbe già suggerire che il compimento della vendetta realizzerà pienamente il ritorno dell’erede defraudato, destinato a riacquisire i κράτη del padre (cf. v. 1), i suoi beni e i suoi affetti; e mediatrice di questa reintegrazione sarebbe proprio Elettra, l’ultima discendente legata all’oikos, che riconosce e accoglie l’esule come suo fratello.
29. Per Elettra, la conferma della partecipazione di Oreste alla sua causa è data proprio dal fatto che l’identità dello straniero corrisponde alle sue aspettative: così, la scena del riconoscimento è per Elettra il corrispettivo della scena delle libagioni per Oreste.
30. Se, come ha notato MArtinA (1975, 72), le apparizioni del ricciolo e poi delle impronte corrispondono ad altrettante preghiere esaudite dagli dèi, il ritorno di Oreste è insieme la dimostrazione dell’incalzare della vendetta, per la quale Elettra ha pregato, e l’innesco del
Il matricidio come tabù 65
quanto riguarda la seconda parte, la realizzazione del ritorno di Oreste — omparso in scena prima ancora che lei versi i libami — conferisce alla sua preghiera una sanzione di successo (cf. goldhill 1984, 117).
Il tabù linguistico nelle Coefore
Dalla mia analisi risulta evidente come le strategie messe in atto segnalino svolte negli atteggiamenti e nelle argomentazioni dei personaggi che hanno una valenza tematica significativa. Emerge come Elettra fin dalla sua prima apparizione scelga consapevolmente e tacitamente di delegare al Coro l’evocazione verbale del matricidio, così come in séguito delegherà a Oreste il ruolo di vendicatore dell’oikos. Soprattutto, emerge il tabù linguistico imposto ai figli di Clitemestra, che illumina chiaramente la psicologia e il ruolo di entrambi all’interno della tragedia31. Contrariamente a quanto affermato da Konishi (1990, 7), non si può dire che Oreste non scelga mai pienamente di compiere il matricidio; ma non si può dire neppure che questa decisione non gli appaia problematica. La scelta deliberata di evitare di menzionare il matricidio attesta che i figli di Agamennone (e, di riflesso, lo stesso tragediografo) sono pienamente consapevoli della gravità dell’atto a cui si apprestano. Questa consapevolezza della propria responsabilità personale, tuttavia, rischia di inibirli al momento dell’azione, come dimostrano le interrogative a catena espresse da Elettra in questo scambio, e come massimamente rappresentato nella domanda tragica di Oreste al v. 899, e per questo motivo i giovani scelgono di delegarla linguisticamente ad altri agenti fino a dopo aver compiuto il matricidio: scelta che rivela, oltre all’orrore ispirato dal gesto, la determinazione a non farsene scoraggiare32. L’adozione di una strategia specifica per non venire paralizzati dall’angoscia nel processo di attuazione del piano è processo, che inizia materialmente ad avverarsi. Come nota gArVie (1986, 98), la preghiera di Elettra viene esaudita dal ritorno di Oreste, proprio come la preghiera del ragazzo nel prologo aveva trovato immediata risposta nella comparsa di Elettra e del Coro. Oreste incoraggia Elettra a domandare che anche il resto delle sue preghiere venga esaudito, com’era pratica comune all’epoca: le preghiere esaudite dagli dèi in altre occasioni costituivano una sorta di precedente, di da quia dedisti (cf. neri; cinti 2017), da ricordare loro al momento di una nuova richiesta (cf. e.g Il. I 451-455, XVI 236-238, Sapph. fr. 1 V.). In questo modo, il ragazzo rende chiara fin da subito la sua disponibilità a trasformarsi nell’eroe vendicatore (δικηφόρος, v. 120) per il quale la sorella ha versato libagioni. Dal momento in cui ricomincia a parlare, insomma, Oreste dimostra, «avendo constatato in entrambi una sola volontà» (MArtinA 1975, 80), di corrispondere alla disposizione della sorella, che sente la vicinanza del consanguineo, e che desidera affidargli il compito di vendicarla: ed ecco che Oreste conferma nel contempo l’identità dei loro sentimenti e il suo proprio desiderio di vendetta.
31. Preciso che, quando mi riferisco alla ‘psicologia’ dei personaggi, mi richiamo alla causalità ‘regressiva’ di cui parla Genette (1968, 20): ovvero, il testo della tragedia delinea per gli spettatori caratteri che il drammaturgo ha costruito in tal modo per un preciso fine drammatico.
32. Si noti che la delega rende partecipi di questa responsabilità anche i coreuti, e di conseguenza in qualche modo perfino il pubblico.
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messa a punto per la prima volta con grande successo da Elettra proprio in questa sticomitia, che si svolge — è bene ricordare — davanti agli occhi del fratello Oreste, pronto a raccoglierla e a servirsene nelle scene successive. Come Elettra, infatti, anche Oreste agisce all’interno di una società per la quale il genitore è oggetto supremo di αἰδώς, inteso come forza che trattiene (cf. cAirns 1993, 2): non a caso, il verbo impiegato da Clitemestra per trattenere la spada sguainata del figlio al v. 896, e da lui ripetuto al v. 899, è αἰδέομαι (cf. winnington-ingrAM 1983, 141). Per questo motivo, per tutta la prima parte del kommos fino ai vv. 434-438, Oreste evita di affermare la necessità del matricidio in maniera esplicita, incapace di usare una parola che spicca per la sua assenza (cf. lebecK 1971, 123). La sua segreta ripugnanza per il gesto, che gArVie (1986, XXXIII) nega affiori dal testo, è invece affermata a livello linguistico proprio da questo rifiuto costante di una contaminazione verbale, che consisterebbe nel proferire insieme i tre termini “io”/“madre”/ “omicidio”. Perfino nei discorsi seguenti al momento in cui il giovane, spinto dal Coro e da Elettra, osa parlare apertamente di uccisione (vv. 434-438), il soggetto dell’azione resterà sempre un agente ‘altro’ da lui, un mediatore che gli permetterà di accettare più liberamente questo gesto, a partire dal serpente in cui si identifica ai vv. 549s. L’unica volta che Oreste parlerà in prima persona pronunciando insieme questi tre termini, infatti, sarà nella domanda tragica per eccellenza del v. 899, che appunto esprime tutta la sua angoscia paralizzante, dopo che Clitemestra gli ha mostrato il seno; ma già nella sticomitia seguente, dopo la spettacolare rassicurazione di Pilade 33, questa affermazione esplicita non compare più, e a uccidere Clitemestra saranno, nell’ordine, la Moira (v. 911), la stessa Clitemestra (v. 923) e infine il destino del padre (v. 927). Soltanto dopo aver compiuto l’omicidio, nota goldhill (1984, 117), Oreste è finalmente libero di pronunciare la parola “madre”, che tra i vv. 986, 989, 1027, 1054 appare per la prima volta in modo ricorrente, a riconferma della censura volontaria imposta alle sue precedenti battute, quando ancora il ragazzo aveva bisogno di nascondere a sé stesso la gravità dell’atto al fine di riuscire a compierlo. La natura tragica dell’uccisione, infatti, si lega tutta alla compresenza dei poli ‘madre’ e ‘figlio’: in assenza di uno qualsiasi dei due, la missione di Oreste non sarebbe che un gesto naturale di vendetta. Proprio per rimarcare questa convivenza drammatica, Eschilo ricorda continuamente al pubblico l’orrore del gesto incombente, mostrando lo strazio di Oreste attraverso il suo tabù linguistico. È necessario, infatti, che il pubblico guardi all’azione innominabile del matricidio in modo abbastanza accondiscendente perché le sue simpatie restino comunque con Oreste; e, allo stesso tempo, che comprenda a pieno la gravità del nodo tragico tematizzato, abbastanza da provarne orrore e pietà (cf. Arist. Po. 1452b 30-34). Per tucKer (1901, LIXs.), ci sono tre sistemi attraverso cui il poeta può convincere
33. Per una bibliografia sull’ingresso in scena di Pilade e il significato della sua unica battuta si vedano gArVie 1986, L; PicKArd; cAMbridge 1968, 135-140; tAPlin 1977, 353; thoMson 1966, 176; VAlgiMigli 1964, 237; VerrAll 1893, XVII-XX.
Il matricidio come tabù 67
il pubblico a giustificare il matricidio: il primo è quello di indugiare sull’enormità dei delitti di Clitemestra (l’adulterio, il tradimento, l’assassinio del suo re e marito, la crudeltà verso i figli, la tirannide); il secondo è quello di assegnarle una parte che attiri spontaneamente le antipatie del pubblico (ad esempio, facendola parlare con arroganza, crudeltà, empietà o ipocrisia); il terzo è quello di accumulare elementi ‘esterni’ che ribadiscano il principio della giustizia compensatrice, promossa attraverso l’oracolo, il Coro, o le diffuse rivendicazioni della lex talionis. Un drammaturgo che intenda assolvere completamente Oreste, senza lasciare alcuna empatia nei confronti di Clitemestra, userà tutti e tre questi strumenti (è il caso dell’Elettra di Sofocle); chi voglia mettere in dubbio la correttezza del gesto di Oreste e suscitare in questo modo la pietà del pubblico per i due fratelli, pieni di dolore e di rimorso per le loro azioni, smorzerà i toni di ciascuno di questi elementi, come appunto fa Euripide nella sua Elettra. Eschilo, invece, volendo presentare l’azione come giusta, ma allo stesso tempo contaminante, non può allontanare in maniera così completa il pubblico — né tantomeno Oreste — dalla madre: per questa ragione, trascura il secondo punto ed evita di esacerbare, con la condotta di Clitemestra, l’antipatia degli spettatori, rendendo in qualche modo condivisibili, seppure non vincenti, le parole della donna durante la sticomitia conclusiva34. Il peso della giustizia e della religione, affiancato alle azioni turpi della donna, riesce a rendere accettabile al pubblico perfino il matricidio, che nel contesto si rivela un atto giusto, senza che però Eschilo nasconda né ai suoi personaggi, né al pubblico, la profonda problematicità del gesto (cf. tucKer 1901, LXIII).
Conclusione
Con la mia analisi linguistica ho messo in luce gli atteggiamenti collaborativi che contraddistinguono i rapporti tra i personaggi in scena, in una sorta di rappresentazione verbale della cooperazione tra le diverse forze del dramma a raggiungere il loro fine tragico, il matricidio, che si consuma ‘verbalmente’ proprio nell’unica sticomitia competitiva dell’opera (cf. rosenMeyer 1982, 205 e lAnzA 1997, 198). Allo stesso tempo, le immagini che attraversano il dramma rimandano a un disegno unitario che caratterizza specificamente le Coefore, ovvero il versamento dei libami da parte di Elettra e Oreste per conto della regina, volto a placare Agamennone, che entro la fine del dramma si trasforma nel sangue di Clitemestra versato da Oreste per vendicare il padre. Se a un livello puramente razionale questa concorrenza di elementi volti al
34. Proprio alla luce di questa strategia, VAlgiMigli 1964, 236 difende la sincerità delle perorazioni di Clitemestra ai vv. 896-898 e 908-929: «se Eschilo non avesse riespresso questo accento di madre, se non avesse rivalutata e rinnovata in Clitemestra la madre […], questa scena non sarebbe quello che è nella sua angoscia truce. E i tre versi 896-898 sono essenziali non a questa scena soltanto, ma a tutta la tragedia, dove Oreste uccide la madre, non la moglie impudica e omicida».
Pia Brugnatellimedesimo fine può stridere con la concezione di verosimiglianza odierna, la sua subordinazione a un preciso fine poetico ne rende chiaro lo statuto strategico e intenzionale nella poesia eschilea.
Dal mio studio emerge inoltre che l’elaborazione di una strategia linguistica di importanza tematica fondamentale all’interno del dramma viene impostata a partire dal primo dialogo sticomitico proprio su iniziativa di Elettra, la figura che non a caso verrà messa in risalto dai tragediografi successivi nelle rispettive riscritture di questa tragedia. Il ruolo di Elettra, così palesemente subalterno a livello narratologico, non è per questo meno attivo nello sviluppo del dialogo: è la sua continua richiesta rivolta al Coro di osare di più, di spingersi dove lei non può, che porta le schiave a descrivere così esplicitamente la preghiera per il ritorno di Oreste, prossima alla realizzazione, e per la vendetta, che avverrà prima della fine del dramma. Come nota h A ncoc K (1917, 8), è Elettra a stabilire la direzione del discorso attraverso le sue domande, e il suo scopo è esattamente quello di condurre il Coro a prendere l’iniziativa del discorso. Il ruolo della ragazza all’interno del dramma, come risulta chiaro con il procedere delle sticomitie, è quello di ‘regista apparentemente debole’: attraverso la sua insistita ritrosia, ella spinge i suoi interlocutori ad assumere un ruolo attivo, prima all’interno del dialogo, e in séguito nell’azione. Se in questo scambio la strategia messa in atto con il Coro si limita alla delega linguistica, nelle sticomitie seguenti lo stesso procedimento incoraggerà Oreste ad assumere in maniera dichiarata e decisa il suo ruolo di vendicatore del padre per conto di entrambi i fratelli.
Attraverso la reticenza linguistica messa a punto da Elettra ed impiegata poi da Oreste, il tabù del matricidio si propaga dal livello linguistico a quello drammatico, rendendo partecipi anche gli spettatori della tragicità insita nel gesto. Lo scontro è linguistico, prima che fattuale, poiché la realtà dell’uccisione è inevitabile, sia per i personaggi (è un ordine di Apollo), sia per il pubblico (cf. Arist. Po. 1453b 23-26): in discussione è piuttosto il suo significato, il modo in cui leggerla, se come matricidio o come legittima vendetta. Se è impossibile che Oreste nel momento culminante del dramma non uccida la madre, egli deve comunque sostenere la propria posizione (“non sto uccidendo mia madre; o, se devo riconoscere che si tratta di mia madre, non sono davvero io a ucciderla”) davanti a un avversario che attraverso la sua stessa esistenza gli ricorda il contrario; gli scambi precedenti con Elettra e con il Coro lo hanno preparato a questo momento, ma sono avvenuti tra gente amica, che ha collaborato a rafforzare l’idea del giovane: questo è invece il banco di prova finale. Il successo di Oreste consiste nel riuscire a negare la realtà che Clitemestra gli prospetta; una negazione che gli consente di compiere l’omicidio al quale è destinato, ma non di sfuggire alle sue conseguenze oggettive, evitando la comparsa delle Erinni. Alla conciliazione di queste due posizioni è dedicata la tragedia successiva: l’obiettivo delle Coefore è quello di giungere all’omicidio di Clitemestra mostrando al pubblico tutto l’orrore che esso costituisce per l’eroe, e la sticomitia finale rappresenta l’ultima scena che prelude a tale momento. In questo modo, viene alla luce
la visione eschilea del nodo tragico delle Coefore, che è appunto la consapevolezza dell’orrore pienamente cosciente e responsabile insito nell’atto matricida, del suo carattere insieme necessario e inaccettabile.
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Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 73-79
DOI: 10.2436/20.2501.01.84
Una congettura a Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi 2, 19*
Luigi Battezzato Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
AbstrAct
The paper argues that, in Pseudo-Xenophon’s Constitution of the Athenians 2, 19, the text of the manuscripts must be emended. The manuscript text reads ἔνιοι,
, which means, as translated by Osborne 2004, « those who are in fact of the common people are not sympathetic to the common people by nature». However, many interpreters (e.g. Kalinka 1913, Frisch 1942, Marr e Rhodes 2008, Serra 2018) convincingly argue that this is not appropriate in the context, and that the text should mean, as translated by Bowersock 1968, «some persons are not by nature democratic although they are truly on the people’s side». This meaning, however, cannot be extracted from the Greek text. We should read ἔνιοι,
«some persons are not by nature democratic although they are truly friends of the people». The mistake arose because of homoioteleuton (ἔνιοι <φίλοι>). The phrase φίλος
is commonly used in classical texts.
Keywords: Pseudo-Xenophon, ancient democracy, textual criticism
La democrazia non piaceva all’autore della Costituzione degli Ateniesi attribuita a Senofonte. A suo giudizio, la democrazia è il regime che favorisce i kakoi (‘persone che commettono ingiustizia, farabutti’, ma anche ‘persone di classe sociale bassa’) contro gli agathoi (‘persone moralmente giuste, perso-
* La ricerca qui pubblicata è stata realizzata grazie al sostegno dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale.
Luigi Battezzato
ne per bene’ ma anche ‘persone di classe sociale elevata’)1. L’autore considera ragionevole che i kakoi perseguano il proprio interesse, anche con pratiche disoneste, ma disapprova chi, tra le persone di estrazione non popolare, si schiera politicamente con il popolo: se questo avviene, è solo per motivi di interesse personale, in particolare per ottenere illeciti guadagni. Queste affermazioni ricorrono nel paragrafo 2, 19 qui riportato secondo il testo stampato da Bowersock 1967, corrispondente a quello stampato dalla gran parte degli editori2:
Come si vedrà dalla traduzione, c’è un problema nell’interpretazione dell’ultima frase:
io da parte mia quindi affermo che il popolo di Atene conosce chi, tra i cittadini, sono le persone per bene e chi i farabutti: ma pur sapendolo, i popolani sono amici delle persone che sono utili e vantaggiose per loro stessi, anche nel caso in cui siano dei farabutti, mentre verso le persone perbene di preferenza rivolgono la loro ostilità. Infatti pensano che la virtù non sia insita nelle persone per bene per il vantaggio, ma per il danno del popolo. E al contrario di ciò, alcuni, pur essendo veramente del popolo, non sono popolani per natura.
La frase finale è stata interpretata in modi completamente opposti dagli interpreti. Il modo più naturale di intendere ὄντες ὡς ἀληθῶς τοῦ δήμου è quello sopra scelto: «essendo in verità del popolo», «essendo di nascita innegabilmente popolare»3. Si tratta di un’interpretazione che cattura perfettamente le sfumature del testo greco. Su questa linea sono ad es. osborne 2004 e grAy 20084
1. Sul significato di kakoi e agathoi cfr. MArr; rhodes 2008, 24-24 e 171-172.
2. Le edizioni di Kirchhoff 1881, KAlinKA 1913, KAlinKA 1914, MArchAnt 1920, frisch 1942, bowersocK 1967, bowersocK 1968, grAy 2007, MArr; rhodes 2008, lenfAnt 2017, serrA 2018 hanno il testo sopra riportato, a parte minime differenze di punteggiatura non rilevanti per il senso. Il testo, a parte alcune varianti di minore importanza (si veda sotto), è trasmesso in maniera unanime dai manoscritti ABCM; per informazioni dettagliate si vedano in particolare Kirchhoff 1881, MArchAnt 1920 e bowersocK 1967.
3. Così traduce cAnforA 1982, 29-30, catturando perfettamente le sfumature del testo greco come trasmesso: «al contrario però, ci sono alcuni che, pur essendo di nascita innegabilmente popolare, hanno nondimeno una natura diversa da quella del popolo».
4. osborne 2004, 29 traduce: «but the opposite applies in some cases–that those who are in fact of the common people are not sympathetic to the common people by nature»; grAy
Una congettura a Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi 2, 19 75
Questa traduzione è corretta, ma l’interpretazione che ne risulta è problematica per due motivi: (1) ‘per natura’ sembra indicare una qualità innata (cfr. poco sopra πεφυκέναι); alcune persone sarebbero quindi per nascita popolari ma per natura non popolari, il che è contraddittorio; una qualità che si ha ‘per natura’ è una qualità appunto innata; (2) in questo contesto, è contraddittorio dire le persone del popolo siano avverse al popolo per natura; l’autore al contrario sostiene che il popolo, pur essendo eticamente condannabile, tende a proteggere se stesso, anche con pratiche ingiuste, ma seguendo una ragionevole tendenza alla protezione dei propri diritti. È contraddittorio che l’autore affermi che alcuni appartenenti al demos siano contrari al demos stesso, e la cosa non trova riscontro nel resto del trattato; inoltre l’affermazione del capitolo successivo (2, 20), «Ma io al popolo la democrazia gliela perdono!» (tr. cAnforA 1982, 30) presuppone che la frase precedente indicasse di nuovo le malefatte del popolo. Così giustamente osserva lAPini 1997, 241 ad loc., a proposito dell’interpretazione secondo cui il passo si riferisce al comportamento di uomini del popolo:
Il punto debole di questa interpretazione sta nella pertinenza, indubbiamente scarsa, di un tale rilievo in un tale contesto. Esso supererebbe tutto ciò che lo P.X. è realisticamente disposto a concedere, cioè, al massimo, che si possa essere democratici onestamente. Una situazione in cui uno nato dal demos si mette dalla parte dei perdenti, cioè degli aristocratici, sarebbe stupefacente, e l’anonimo non potrebbe non commentarla.
Come osservano M A rr ; r hodes 2008, 137 ad loc . questa interpretazione si adatta poco al contesto immediato:
the fact that this follows and makes a contrast with a sentence stating that the chrestoi work for the harm of the demos, and the clear antithesis ( ὄντες is concessive) between τὴν φ ύ σιν οὐ δημοτικοί , echoing πεφυκέναι , and ὄντες ... τοῦ δήμου , suggests that here X [con questa sigla Marr e Rhodes indicano l’anonimo autore del trattato, non necessariamente Senofonte] means that certain men, although they were born into the upper classes, and thus are not by nature commoners, pay allegiance to the democracy / common people, and are ‘of the demos’ in that sense, i.e ‘on the side of’ the demos
lenfAnt 2017 e serrA 2018, 160-1 ad loc. offrono ulteriori argomenti per intendere il passo in questo modo. Questa seconda linea di interpretazione offre
2008, 204-205 ad loc. traduce e annota: «‘though they truly belong to the demos’. The author does not explain why their nature has not run true to their genes. The genitive ‘of the demos’ could mean ‘taking the side of the demos’ [...] but τοῦ δήμου in 2.18, 20 means ‘belonging to the demos by birth’».
Luigi Battezzatosenz’altro il senso atteso: così interpretano ad es. KAlinKA 1913, («und im geraden Gegensatz zu dieser Anschauung sind einige, die in Wirklichkeit zum Volke stehen, ihrer Abkunft nach keile Volksleute»; si vedano anche le sue pagine di commento ad loc., 250-252), Frisch 1942 («on the other hand there are a few who undoubtedly take the side of the people, but are not by nature democratic»), bowersocK 1968, 499 («on the other hand, some persons are not by nature democratic although they are truly on the people’s side»),5 MArr; rhodes 2008 («conversely, there are some men who actually take the side of the people, even though they are not by nature commoners»), lenfAnt 2017 («Et, à l’inverse, certains, tout en étant réellement partisans du peuple, ne sont pas par nature des gens du peuple»).
C’è però una grossa difficoltà in questa seconda interpretazione: le parole ὄντες ὡς ἀληθῶς τοῦ δήμου non possono avere questo significato. Gli interpreti notano di solito la difficoltà causata dal fatto che nel contesto l’autore le usa in senso diverso. Si vedano ad es. MArr; rhodes 2008, 137 ad loc.:
The difficulty is caused by the fact that, when X returns to talk of such men, and to criticise them, in the third sentence of 20, he there uses the very similar expression, μὴ ὢν τοῦ δήμου, to mean ‘not being by nature, birth, a member of the demos ’ (which is uncontroversially its meaning in that context). In other words, within the space of three sentences, two quite different, indeed opposite, senses are given to an almost identical expression.
Osservazioni simili si trovano in Frisch 1942, ad loc . Questo è il testo del capitolo 20, dove l’espressione
ricorre:
Al popolo io perdono la democrazia: infatti merita il perdono chiunque cerca di fare i propri interessi. Invece, chi, non essendo del popolo, ha scelto di vivere6 in una città retta da regime democratico piuttosto che in una retta da un’oligarchia, si è preparato a commettere
5. Come è possibile essere allo stesso tempo antidemocratici e dalla parte del demos, se la democrazia, per l’autore, rappresenta la sopraffazione del demos sulle altre classi?
6. osborne 2004 e MArr; rhodes 2008, 138-140 ad loc. interpretano οἰκεῖν nel senso di “esercitare l’attività politica” obiettando che, con il senso usuale di ‘abitare’, si obbligherebbero i chrestoi ad abbandonare Atene, emigrando in massa, cosa che non corrisponde al resto del trattato. Credo che il senso di questa frase sia rivolto a coloro che, come il padre di Lisia, scelgono di vivere in una città democratica, trasferendosi ad Atene dall’estero.
Una congettura a Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi 2, 19 77
ingiustizia ed è ben consapevole del fatto che è più facile che la sua mascalzonaggine sfugga in una città retta da un regime democratico che in una retta da un’oligarchia.
La stessa espressione si trovava già prima, al capitolo 18: οὐχὶ τοῦ δήμου ἐστὶν οὐδὲ τοῦ πλήθους ὁ κωμῳδούμενος «la persona fatta oggetto di dileggio in commedia non appartiene al popolo né alla massa». Questo doppio uso, prima e dopo il passo in questione, sembra indicare chiaramente che l’interpretazione “persone che prendono le parti del popolo” non è probabile. Il problema però non è soltanto quello del cambiamento di significato dell’espressione ὄντες ... τοῦ δήμου / τοῦ δήμου ἐστὶν / ὢν τοῦ δήμου tra una frase e l’altra. Il problema è che il participio del verbo essere con il genitivo indica un rapporto di appartenenza, o di paternità o maternità, ma non di semplice vicinanza politica7. Per il significato “pur essendo dalla parte del popolo”, gli interpreti non citano nessun esempio in altri testi: si tratta di un significato che il nesso ὄντες ... τοῦ δήμου non può avere. KAlinKA 1913, 108 (ad 1, 4) e 251 e n. 2 (ad 2, 17), l’unico interprete che cerca di documentare questo senso, cita in realtà solo esempi di δημότης e δημοτικός Sono state offerte varie congetture o interventi, perlopiù molto invasivi e poco probabili8. Il più acuto è quello di lAPini 1997, 241, che si basa sulla variante γνόντες del solo manoscritto B, e su ἔνιοι ὄντες di A:
e al contrario alcuni, pur conoscendo benissimo la natura del demo, non si sono forse schierati con esso?
Queste varianti però sono assolutamente minoritarie: è escluso, per ragioni stemmatiche, che uno dei manoscritti B o A riporti da solo una variante corretta di fronte alla convergenza di C e M.9 Inoltre ci aspetteremmo qualcosa come γνόντες
. Il ‘conoscere’ implica già l’idea di ‘verità’.
L’espressione ὡς ἀληθῶς è frequentissimamente usata, nel greco classico, per qualificare un attributo. Si vedano in particolare Pl. Rsp. 551e2 ὡς ἀληθῶς
, 565c2
, Rsp.
7. Cfr. Kühner & gerth 1904, I, 371-375, spec. 371: «mit den verben des Seins und Werdens:
verbindet sich der Genitiv als Prädikat in demselben Sinne, wie er zu Substantiven als Attribut tritt: teils partitiv, teils possessiv (Eigentum, Eigentümlichkeit, Abstammung), teils qualitativ (Stoff, Mass, Wert)»
8. Per un elenco si veda KAlinKA 1914 nell’apparato ad loc
9. Si veda lo stemma in bowersocK 1967, 44. lenfAnt 2017, 154 ad loc. offre altre obiezioni alla proposta di basarsi sulla lezione γνόντες
78
Luigi BattezzatoSi suggerisce pertanto di leggere:
e al contrario di ciò, alcuni, pur essendo veramente <amici> del popolo, non sono popolani per natura.
In questo modo l’espressione risulta perfettamente in linea con l’uso della prosa greca e il concetto generale della frase è perspicuo. L’omissione di φίλοι si spiega facilmente per aplografia. L’autore sottolinea che, nonostante la natura non popolare, alcune persone sono veramente (e sorprendentemente) amiche del popolo.
Per l’espressione φίλοι... τοῦ δήμου cfr. Ar. Eq. 848 φιλεῖς τὸν δῆμον10 , Nu. 1187 ὁ Σόλων ὁ παλαιὸς ἦν
φύσιν, Isoc. 8, 121 τοῖς φιλεῖν μὲν τὸν δῆμον φάσκουσιν, 121, 141
, l’aggetivo μισόδημος (e.g. Ar. V. 474), e il diffuso antroponimo Filodemo11 Per l’uso di φίλος con il genitivo, cfr. LSJ s.v. φίλος I 1, ad es. Aeschin. 1, 47
τοὺς τούτων φίλους, e, “in relation to things”, Eur. fr.580.3 οἱ μουσικῆς φίλοι, Pl. Sph.248a4
Come molti interpreti ricordano12, il caso di una persona che “non è del popolo per natura” ma è “veramente amica del popolo” è proprio quello del più grande leader democratico, Pericle (Plu. Per. 7, 3):
Pericle si dedicò a sostenere il popolo, scegliendo la causa dei molti e dei poveri invece che quella dei ricchi e dei pochi, in contrasto con la sua natura che non era affatto popolare.
Questo introduce il tema del capitolo 2, 20, sopra riportato, in cui appunto il testo attacca “chi, non essendo del popolo, ha scelto di vivere in una città
10. Su questo passo, in connessione con la Costituzione degli Ateniesi, cfr. cAtAldi 1984, 17.
11. Questo lessico classico viene ripreso anche in età successive: Plu. Cat. Ma. 26, 2
, Gracch. 7,
12. KAlinKA 1913, 251-251, frisch 1942, 285, serrA 2018, 160 ad [X.] Ath. 2, 19 e stAdter 1989, 92-94 Plu. ad Per. 7, 3.
Una congettura a Pseudo-Senofonte, Costituzione degli Ateniesi 2, 19 79
retta da regime democratico”. Con la congettura proposta, il testo greco acquisisce il senso che la maggioranza dei commentatori ritiene, a ragione, necessario nel contesto, un senso che il testo tradito non può avere.
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Pier Angelo Perotti Liceo-Ginnasio “Lagrangia” – Vercelli (Italia)
AbstrAct
As a manifestation of affection and love, “kiss” is one of the most widespread words both in literature and in daily life; therefore scholars have widely examined its various aspects, from the familiar kiss to the intensely erotic one. In this essay I analyse the three lexical families expressing the kiss in Latin language, pointing out the different genre through the close observation of the use of the various terms indicating it in the main authors of Latin literature. Some curiosities may be found.
Key words: kiss, basium, osculum, savium, love.
1. Mentre in greco per indicare il bacio è utilizzato genericamente il sostantivo φίλημα, -ατος 1, che vale per i suoi vari significati2, in latino sono usati tre
1. Cfr. C hAntrAine 1980, lemma φίλος: « φίλη-μα n., seul sens attesté: “baiser” d’amitié ou d’amour [...], “baiser de la foi”»: per quest’ultimo valore, vd. NT, Rom. 16, 16 = 1 Cor. 16, 20 = 2 Cor. 13, 12 = 1 Thess. 5, 26 = 1 Petr. 5, 14: ἀσπάσασθε
= Vulg., ad locc.: Salutate invicem in osculo sancto; cfr. anche Lc. 7, 45; 22, 48.
2. Per es. Eur. Andr. 416: καὶ
“e accostandoti a tuo padre tra i baci”; IA . 1238: [πάτερ]
“[padre], guardami, dammi uno sguardo e un bacio”; Ion 519:
“lascia che io baci la tua mano e che ti abbracci”; Suppl. 1154:
“nell’atto di imprimere un dolce bacio sulla tua gota [del figlio che lo invoca]” (tutti baci paterni o filiali); Theocr. 15, 130: οὐ
“non punge il suo bacio [scil. di Adone], intorno alle labbra ha ancora la peluria rossiccia”; anche Lucr. 4, 1169: simula Silena ac saturast, labeosa philema “se è camusa, è Silena e satira, se ha le labbra tumide, è da baci” (baci sensuali): l’uso del termine greco al posto di quello latino potrebbe essere dovuto a mutuazione da Epicuro, o forse potrebbe anche trattarsi di un omaggio al suo ‘maestro’; etc.
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nomi diversi: osculum è prevalentemente il “signum caritatis ac mutuae benevolentiae”, ossia il bacio familiare, sulle guance o “a fior di labbra”, di reciproco amore o affetto tra coniugi3, tra genitori e figli4, tra fratelli, tra amici, o dato ai bimbi5, nonché alle ferite6, perfino agli oggetti — pure come gesto scaramantico —7, alle ombre dei morti8, o come segno di rispetto o di implorazione9, ma può anche essere gesto appassionato, con valenza erotica (cfr. §§ 7-8), e addirittura, nei Vangeli, il segnale del traditore Giuda (Mt. 26, 48-49 ~ Mc. 14, 44-45 ~ Lc. 22, 47-48); savium (o suavium: cfr. § 2c) è l’“osculum luxuriosum”, il bacio d’amore, con forte carica passionale, “alla francese”; basium è o dovrebbe essere un bacio intermedio tra i due precedenti10. Tuttavia, come vedremo, le cose non stanno sempre così11 .
3. Per es. Hor. carm. 3, 5, 41: [Regulus] fertur pudicae coniugis osculum / [...] ab se removisse “si tramanda che [Regolo] respinse da sé il bacio della pudica sposa”; Ov. her. 13, 118: multa tamen rapies oscula, multa dabis “tuttavia prenderai molti baci, molti ne darai”; Luc. 5, 736: et aversi petit oscula grata mariti “e cerca i dolci baci del marito voltato indietro”; Apul. met. 5, 23: ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit “volò via in silenzio sottraendosi ai baci e agli abbracci dell’infelicissima sposa”; etc.
4. Per es. Lucr. 3, 895-896: nec dulces occurrent oscula nati / praeripere “né i dolci figli correranno a rubarti baci”; Verg. ge. 2, 523: interea dulces pendent circum oscula nati “frattanto i cari figli si appendono al collo [scil. dei genitori] per ricevere baci”; Tib. 2, 5, 91-92: natusque parenti / oscula comprensis auribus eripiet “e il bimbo strapperà baci al padre, aggrappandosi alle sue orecchie”; Luc. 3, 739-740: tacito tantum petit oscula vultu / invitatque patris claudenda ad lumina dextram “chiede solo baci col volto, in silenzio, e invita la mano del padre a chiudergli gli occhi”; Sil. 9, 142-143: invento simul atque amisso redde parenti / oscula “da’ baci al padre contemporaneamente trovato e perduto”; 12, 738: ac tacitae natis infigunt oscula matres “e le madri in silenzio imprimono baci ai figli”; etc.
5. Per es. Verg. Aen. 1, 687: cum [scil. Dido] dabit amplexus atque oscula dulcia figet “quando [scil. Didone] ti abbraccerà e ti darà baci affettuosi” [Venere a Cupido che sostituirà Iulo]; etc.
6. Per es. Sil. 6, 572-573: et ipsis / oscula vulneribus figunt “e imprimono baci perfino alle ferite”; etc.
7. Per es. Lucr. 4, 1179: et foribus miser oscula figit “e infelice imprime baci alla porta”; Verg. Aen. 2, 490: amplexaeque tenent postis atque oscula figunt “[le madri troiane] abbracciate alle porte v’imprimono baci”; Prop. 4, 3, 30: si qua relicta iacent, osculor arma tua “se qualche tua arma giace abbandonata, io la bacio”; Tib. 1, 2, 86: et dare sacratis oscula liminibus “e imprimere baci sulle sacre soglie”; Sil. 8, 127: oscula, [...] bis terque infixit harenae “due o tre volte impresse baci sulla sabbia”; Val. Fl. 2, 168: oscula iamque toris atque oscula postibus ipsis “e imprimono baci ai letti e perfino alle porte”; 4, 373: ultima tum patriae cedens dedit oscula ripae “partendo diede i baci estremi al lido della patria”; flens dedit oscula vittis “piangendo diede baci alle bende sacre”; anche basia: Iuv. 4, 118: blandaque devexae iactaret basia raedae “e a gettare dolci baci alla carrozza lungo la discesa”; 6, 384: gratoque indulget basia plectro “blandisce con baci il plettro adorato”; etc.
8. Per es. Sil. 13, 651-652: ruit ipse per umbram / oscula vana petens iuvenis “il giovane stesso si slancia attraverso l’ombra cercando baci impossibili”; etc.
9. Per es. Tac. ann. 15, 29: et conloquium osculo finitum “e il colloquio [tra Corbulone e il re armeno Tiridate] terminò con un bacio”; Sil. 11, 330-331: tremebundus ibidem/ sternitur et pedibus crebro pavida oscula figens “e lì tremante si prostra, e imprimendo spesso ai suoi piedi baci di timore”; 12, 592: armatis infigunt oscula dextris “imprimono baci alle mani armate”; Val. Fl. 8, 44: primis supplex dedit oscula palmis “supplichevole diede baci alle sue dita”; etc.
10. Cfr. Ernout; Meillet 1985, lemma baˉsium: «Employé d’abord comme saˉuium, avec un sens érotique qui n’est pas dans oˉsculum».
11. Hanno trattato l’argomento, pur con tagli diversi, per es. M oreAu 1978; André 1979; LóPez
Baci romani: basium, osculum, savium 83
La presunta differenza fra i tre tipi è ben illustrata da Donato, ad Ter. Eun 456 ( savium ): ita distinguit, ut basium sit pudici affectus, osculum officii, suavium libidinis, come pure da Servio, ad Verg. Aen. 1, 256 (verso cit. al § 6): sciendum osculum religionis esse, savium voluptatis, quamvis quidam osculum filiis dari, uxori basium, scorto savium dicant12 “bisogna sapere che osculum è proprio del rituale, savium del piacere, benché alcuni dicano che si dà un osculum ai figli, un basium alla moglie, un savium alla prostituta”, nonché da Isidoro di Siviglia, diff. 1, 398: Inter Osculum et Pacem: Pacem amicis, filiis osculum dari dicimus; uxoribus basium, scorto suavium. Item osculum charitatis est, basium blanditiae, suavium voluptatis. Quod quidam etiam versibus his distinxit: Basia coniugibus, sed et oscula dantur amicis; / suavia lascivis miscentur grata labellis
Ma la distinzione suggerita da Donato, Servio e Isidoro, cui si è accennato, sembra non corrispondere sempre all’uso dei singoli vocaboli da parte di tutti gli autori: tale diversificazione sembra piuttosto il risultato di una costruzione ex post, e non di usi comuni o standard della lingua latina. Abbiamo infatti una sorta di confusione nell’impiego dei vari sostantivi o verbi indicanti i diversi tipi di bacio, ed è dunque difficile stabilire se presso ciascun autore i vari termini siano utilizzati di proposito, con funzione particolare, oppure per caso, o magari, dai poeti, per esigenze metriche.
Ovviamente la statistica delle occorrenze dei tre nomi e dei loro derivati potrebbe non essere scevra di errori. Ricordo infine che nel saggio sono considerati soltanto esempi letterari, mentre non sono prese in esame attestazioni epigrafiche, sia per evitare una sua eccessiva estensione, sia perché mi paiono in qualche modo estranee all’ambito di riferimento prescelto per questo lavoro, mentre un approfondimento su tale ricco materiale potrebbe essere oggetto di un’interessante ricerca specifica.
2. Qualche osservazione circa l’etimologia dei tre sostantivi.
(a) basium : la sua origine è nord-italica, probabilmente celtica, forse appartenente alla lingua popolare; nella lingua scritta sembra essere stato introdotto da Catullo, nativo di Verona13, non essendo attestato prima di lui; assolutamente fantasiose, e senz’altro insostenibili, le ipotesi etimologiche proposte dal Forcellini14: «ab inus. βάω pro βαίνω premo [non mi risulta che questo verbo greco abbia tale significato] ; at rectius fortasse est verbum per onomatopoeiam fictum, exprimens sonum, qui basiando editur »; l’etimo permane comunque incerto. È il termine più frequente nella bassa latinità, ed è l’unico sopravvissuto nelle lingue romanze: it. bacio , fr. baiser , sp.
LóPez 1980; Flury 1988; Michel 2002; Wolff 2005; E. CiPriAni, El vocabulario latino de los besos “Estudios Clásicos” 149, 2016, pp. 7-38.
12. Cfr. Ernout; Meillet 1985, lemma baˉsium
13. Cfr. Ernout; Meillet, ibidem: «L’apparition tardive du mot laisse supposer un emprunt, celtique? Catulle, qui semble l’avoir introduit dans la langue écrite, était originaire de Vérone».
14. Forcellini 1994, lemma basio. Per il presente studio ho consultato anche l’ Oxford Latin Dictionary di GlAre 1990, nonché il ThlL per i lemmi basium e osculum
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beso, catal. bes / besada, port. beijo, lad. bezo; da radice non latina ha origine il rumeno sa˘rut.
(b) osculum: in origine diminutivo affettuoso di os, oris “bocca”, ossia “boccuccia” (come in gr. στόμιον “piccola bocca” rispetto a στόμα “bocca”), da cui per metonimia “bacio”, che appunto si dà con la bocca: cfr. Paul. Fest., 25, 28: ausculari dicebant antiqui pro osculari, quod est os ad os conferre15 Per la forma con dittongo au-, cfr. Pl. Cas. 133: unde auscultare possis, quom ego illam ausculer “da dove tu possa sentire quando io le dia dei baci”, dove la forma è evidentemente adottata per ottenere, grazie all’allitterazione, un gioco di parole tra la parte iniziale dei due verbi (auscul-): infatti nelle 50 presenze di termini della stessa famiglia di vocaboli i codici plautini poziori riportano perlopiù la forma senza dittongo16 (c) savium: potrebbe derivare, per dissimilazione, da suavium, termine del linguaggio infantile o amoroso: cfr. Cat. agr. 84: savillum, da *suavillum, sorta di dolce, e le paronomasie o giochi di parole in Pl. Ba. 116 e 120: Suavisaviatio “Dolcezza di baci”17 o “Baciolungo”18, e in Apul. met. 6, 8: septem savia suavia. Il vocabolo è evidentemente collegato all’idea della suavitas “soavità, dolcezza”, da suavis , gr. ἡδύς “dolce” (vedi ἥδομαι , etc.), da * σϝηδ -- (cfr. sanscr. svaˉdú19), immagine che giustifica perfettamente la sua origine20 .
3. La famiglia lessicale relativa a basi- comprende il nome basium, il diminutivo basiolum e i derivati basiatio e basiator, nonché il verbo basiare. Il solo autore del I sec. a. C. che usa alcuni di questi termini — per un totale di 10 presenze — è Catullo, che presumibilmente fu il primo a usarli nel latino scritto (cfr. supra, § 1 e n. 13):
basium (5 occorrenze):
5, 7: da mihi basia mille, deinde centum; 5, 13: cum tantum sciat esse basiorum;
7, 9: tam te basia multa basiare (con “Acc. dell’oggetto interno”21); 16, 12-13: Vos, quod milia multa basiorum / legistis; 99, 16: numquam iam posthac basia surripiam; basiationes (hàpax):
7, 1: Quaeris quot mihi basiationes / tuae; basiare (4 occorrenze):
7, 9: tam te basia multa basiare (cfr. qui sopra);
15. Cfr. LeuMAnn 1977, p. 307, § 282 D 2.
16. Le forme con dittongo au- sono preferite in alcune occorrenze (Bacch. 478 e 897; Merc 571, 575 e 745; Mil. 390 e 391) da alcuni editori: per es. Ernout 1961-2009; PArAtore 1984.
17. Del corno 1973, Pl. Bacch. ad loc.
18. PArAtore 1984, n. 16, ad loc
19. Cfr. ChAntrAine 1980, n. 1, lemma ἥδομαι
20. Per il topos del bacio paragonato al miele, al vino o sim., cfr. per es. Catull. 99, 2: saviolum dulci dulcius ambrosia; Apul. met. 2, 10: mellitissimum... savium (cfr. § 5) (cfr. anche Pl. Stich. 755, cit. alla n. 29); etc.
21. Come per es. Cato agr. 134, 2: te [...] bonas preces precor
Baci romani: basium, osculum, savium
8, 18: quem basiabis? cui labella mordebis?
48, 2-3 : siquis me sinat usque basiare, / usque ad milia basiem trecenta.
Lo stesso Catullo utilizza savium o i suoi derivati in 6 occasioni:
savium (2 occorrenze):
78b, 1-2: sed nunc id doleo, quod purae pura puellae / savia conminxit spurca saliva tua;
79, 4: si tria notorum savia reppererit; saviolum (2 occorrenze):
99, 1-2: Surrupui tibi, dum ludis, mellite Iuventi, / saviolum dulci dulcius ambrosia (cfr. n. 20);
99, 13-14: ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud / saviolum tristi tristius elleboro; saviari (2 occorrenze):
9, 9: iocundum os oculosque saviabor; 45, 11-12: et dulcis pueri ebrios ocellos / illo purpureo ore saviata.
Invece oscul- è da lui usato 2 sole volte:
48, 5-6: non si densior aridis aristis / sit nostrae seges osculationis (cfr. § 8) ; 68, 125-128: nec tantum niveo gavisa est ulla columbo / compar, quae multo dicitur improbius / oscula mordenti semper decerpere rostro / quam quae praecipue multivola est mulier
In tutti codesti casi si tratta di baci passionali, lussuriosi — che preludono a un rapporto sessuale completo —, sia quelli riferiti a Lesbia, sia quelli pederotici dati a Giovenzio, nonché i baci “becco a becco” nella similitudine dei colombi innamorati (68, 125 ss.)22 .
4. Con uno iato cronologico di almeno un secolo — con la sola eccezione di Fedro, che scrisse nei primi decenni dell’èra volgare —, basium e i suoi derivati sono ripresi da pochi autori del I / II sec. d.C.: Petronio, Marziale, Giovenale, Apuleio; è interessante notare che (non so se casualmente) sono tutti scrittori satirici, ancorché in senso lato.
In Fedro il vocabolo basium è hapax, usato in una favola canzonatoria: 5, 7, 28-29: iactat basia / tibicen “il flautista getta baci” al pubblico, convinto che la folla stia applaudendo lui23
Incominciamo da Apuleio, in cui basium non compare mai, mentre si hanno 3 presenze del verbo basiare:
22. Per i colombi come simbolo dell’amore, e i baci tra colombi, cfr. anche Ov. am. 2, 6, 56: oscula dat cupido blanda columba mari ; Mat. poet. 12: sinuque amicam refice frigidam calido / columbulatim labra conserens labris; Plin. n. h., 10, 52, 104; 10, 79, 158 (cit. alla n. 37); Mart. 1, 109, 2; 11, 104, 9; 12, 65, 7-8; etc.
23. Cfr. Mart. 1, 3, 7: audieris cum grande sophos, dum basia iactas
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met. 5, 23: lucerna illa, [...] sive quod tale corpus [scil. di Cupido] contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat [...] “quella lucerna, [...], sia che anch’essa bramasse di toccare e quasi baciare un tale corpo”; met. 6, 28: pedes decoros puellae basiabam “baciavo i bei piedi della fanciulla”; met. 7, 11: at illa [...] non numquam basiare volenti promptis saviolis adlubescebat (cfr. saviolum , § 5) “ma quella […] talvolta compiaceva con bacetti spontanei lui che voleva baciarla”.
Troviamo poi, hapax, il diminutivo basiolum:
met. 10, 21: Tunc exosculata pressule, non qualia in lupanari solent basiola iactari vel meretricum poscinummia vel adventorum negantinummia, sed pura atque sincera instruit (per exosculata, cfr. § 8) “poi mi bacia con dolce pressione, non con quei baci che ci si scambia nel bordello, quando le prostitute chiedono denaro e i clienti rifiutano di sborsarli, ma mi dà baci puri e sinceri”.
I due soli esempi di basia in Giovenale (4, 118 e 6, 384) sono stati ricordati alla n. 7.
Marziale usa 29 volte basium, 20 volte basiare, 4 volte basiator (tutte nello stesso epigramma 11, 98, vv. 1, 13, 16, 19), 2 volte basiationes (2, 23, 4; 7, 95, 17)24. Sono presenti baci di ogni tipo, tra i quali ci sono quelli relativi ad affetti familiari, ricevuti da moglie e figlia (7, 95, 7-8: hoc me frigore basiet nec uxor / blandis filia nec rudis labellis25) o dati alla sposa (11, 98, 9: nuptiale basium), ma pure sensuali, anche dati a prostitute (basium: 4, 22, 8; 11, 104, 926; 12, 55, 9 e 12; 12, 65, 7; basiare: 1, 94, 2; 6, 66, 7; 11, 61, 5; 12, 55, 3 e 5; 12, 93, 1), pederotici (basium: 3, 65, 9; 5, 46, 1; 6, 34, 1; 8, 46, 6; 11, 6, 14; 11, 8, 12 e 13; 11, 22, 2; 11, 23, 9-10; 11, 26, 3), amichevoli o servili (basium: 6, 50, 6; 11, 98, 21; 12, 29, 4; 12, 59, 1; basiare: 10, 72, 7; 11, 98, 8-20-23), quelli lanciati al pubblico negli spettacoli (1, 3, 7: dum basia iactas: cfr. Phaedr. 5, 7, 28-29, qui sopra, e n. 23), e addirittura come termine tecnico per indicare il calzolaio che tira la pelle con i denti (12, 59, 7: hinc sutor modo pelle basiata).
In Petronio abbiamo 6 occorrenze di basium, 11 di basiare, tra cui un composto (41, 8: perbasiamus), e hapax il diminutivo basiolum (85, 6). Si tratta quasi sempre di baci sensuali o pederotici, di cinedi o di donne perlopiù di malaffare, dati sulla bocca o sul volto (basium: 21, 2; 23, 4; 24, 4; 31, 1; 86, 5; 110, 3; basiare: 18, 4; 24, 6; 60, 9; 64, 11; 41, 8 [composto]; 69, 5; 74, 17; 75, 4; 85, 5; 86, 7; 135, 2), alcuni dei quali — non sempre facilmente identificabili — privi di implicazioni erotiche, e dunque anche segni di gratitudine (31, 1:
24. Con l’hapax di Catullo 7, 1 (cfr. § 3), sembrano essere i soli esempi, nella latinità classica, di questo derivato.
25. In questo epigramma è usato anche osculum nello stesso contesto (v. 2: osculo nivali); analogo fenomeno si riscontra in 6, 66, dove a basiavit del v. 7 (cfr. infra, nel testo) fa riscontro, nel verso successivo, osculo
26. Cfr. n. 23.
ille idem servus, [...] stupentibus spississima basia impegit gratias agens humanitati nostrae), e di ossequio (60, 9: veram imaginem ipsius Trimalchionis, cum iam omnes basiarent).
5. Oltre a Catullo (cfr. § 3), altri autori, poeti e prosatori, da Plauto e Terenzio ad Apuleio e Gellio, utilizzano savium e i suoi derivati.
Queste le presenze di s(u)avium nei vari autori, presentati, per ragioni di praticità, in ordine alfabetico e non cronologico:
Apul.: apol. 9, 14, 10: proque rosis oris savia purpurei “e invece delle rose, baci della bocca purpurea” (si noti la frequenza, a scopo armonico, delle -re delle -s-); met. 2, 10: mellitissimum illud savium impressi (cfr. n. 20) 27 “le diedi un dolcissimo bacio”; 3, 14; 4, 26; 5, 7; 5, 23; 6, 828; 7, 21; 9, 22; 10, 22; Gell.: 2, 23, 13: B. Taedet mentionis, quae mihi, ubi domum adveni, adsedi, extemplo savium dat ieiuna anima A. Nil peccat de savio: ut devomas, vult, quod foris potaveris “B. Mi dà fastidio parlarne: appena arrivo a casa e mi siedo, essa mi dà subito un bacio mentre sono ancora digiuno. A. Non sbaglia a baciarti: vuole farti vomitare il vino che magari hai bevuto fuori di casa”; 19, 11, 4: dum semihiulco savio / meum puellum savior “mentre baciavo il mio ragazzo con un bacio a labbra dischiuse” (cfr. infra, verbo saviari); Hor. epod. 3, 21 (hàpax): manum puella savio opponat tuo “che la tua fanciulla opponga la mano al tuo bacio”; Pl.: 37 occorrenze; rilevanti in particolare Ba. 429: saliendo sese exercebant magis quam scorto aut saviis “si esercitavano nel salto piuttosto che con prostitute o baci”, o meglio, considerandola un’endiadi, “con i baci delle prostitute”; Mil . 93-94: itaque hic meretrices, labiis dum nictant ei [v. l. ductant eum], / maiorem partem videas valgis saviis “perciò le prostitute del luogo, a forza di fargli cenni con la bocca, potresti vederle quasi tutte dar baci con le labbra sporgenti” (qui saviis nel senso metonimico di “labbra”); Cist . 247: quae mellillam me vocare et suavium solitast suom “lei che è solita chiamarmi sua dolcezza e suo tesoro”, con senso valore metaforico e vezzeggiativo; come pure in Pseud. 179b-180: ubi isti sunt quibus vos oculi estis, / quibus vitae, quibus deliciae estis, quibus savia, mammia, mellillae? “dove sono costoro per cui voi siete la pupilla degli occhi, la vita, la delizia, il tesoro, la tettina, la dolcezza?”29;
27. Per l’aggettivo e il suo valore semantico, cfr. altri termini della famiglia lessicale mell-, in Catull. 99, 1; Pl. Cas. 135; Cist. 247; Pseud. 180, tutti qui citati supra o infra; per il verbo, cfr. per es. Apul. met. 5, 6: imprimens oscula.
28. Apul. met. 6, 8: septem savia suavia “sette dolci baci”: si noti l’allitterazione con funzione espressiva o scherzosa.
29. Per il vezzeggiativo mellilla, cfr. Pl. Cas. 135-136: mea vita, mea mellilla, mea festivitas: / sine tuos ocellos deosculer, voluptas mea “vita mia, mia dolcezza, gioia mia: lascia che io baci i tuoi occhiuzzi, mio tesoro” (Per festivitas, cfr. Apul. met. 2, 10: mea festivitas “gioia mia”); anche Stich. 755: mulsa mea suavitudo “mia dolcezza mielata”.
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Plin. ep . 7, 4, 6, 8: nam queritur quod fraude mala frustratus amantem / paucula cenato sibi debita savia Tiro / tempore nocturno subtraxerit “infatti si lamenta che Tirone, ingannato l’amante con un trucco sleale, mentre aveva promesso un po’ dei dovuti baci dopo cena, glieli aveva poi rifiutati di notte”;
Prop. 2, 29, 39: opposita propellens savia dextra “respinge i miei baci opponendo la mano destra”; Ter. Eun. 456: meum savium “tesoro mio”, dove savium è usato in senso metaforico (cfr. Pl. Cist. 247 e Pseud. 180, qui sopra).
Ed ecco le ricorrenze del verbo derivato saviari:
Apul. met. 2, 10: artius eam complexus coepi saviari “abbracciatala più stretta, cominciai a baciarla”; 4, 31: osculis hiantibus filium diu ac pressule saviata “baciato il figlio a lungo e con dolce pressione a labbra semiaperte” (per l’avv. pressule, cfr. § 4); 10, 22: quem ad modum [...] labias modicas ambroseo rore purpurantes tam amplo ore tamque enormi et saxeis dentibus deformi saviari “come [...] baciare quelle piccole labbra color porpora, umide di rugiada celestiale, con la mia bocca così larga e spropositata e fornita di denti duri come sassi”;
Cic. Att. 16, 3 [5], 6: Atticam nostram cupio absentem suaviari “desidero baciare la nostra Attica, che è lontana”: è curioso che Cicerone mandi un savium, ossia un bacio d’amore sensuale a una bimba di pochi anni, figlia di Attico, uno dei suoi amici più cari: ne riparleremo al § 9; Sest. 52, 111: cum illo ore inimicos est meos saviatus “quando con quella bocca baciò i miei nemici” (cfr. § 9); Brut. 53: Quis enim putet aut celeritatem ingeni L. Bruto illi nobilitatis vestrae principi defuisse? qui de matre savianda ex oraculo Apollinis tam acute arguteque coniecerit “Chi infatti potrebbe pensare che a quel famoso Lucio Bruto, che fu capostipite del vostro nobile casato, mancasse la prontezza d’ingegno? egli che seppe interpretare con tanto acume e finezza il senso dell’oracolo di Apollo sul bacio da dare alla madre” (cfr. § 9); Gell. 3, 15, 3: cum ibi tres adulescentes amplexi coronis suis in caput patris positis saviarentur, [...] “e lì, mentre i tre giovani figli abbracciavano il padre e poste sul suo capo le corone vinte, lo baciavano, [...]”30; 19, 11, 4: dum semihiulco savio / meum puellum savior (cfr. sost. savium, qui sopra).
Del diminutivo saviolum si hanno soltanto 4 presenze:
2 in Apul. met.: 2, 10: cum sim paratus vel uno saviolo interim recreatus “che sarei pronto per il piacere anche di un solo bacetto”; 7, 11, già cit. al § 4;
30. Gell. 3, 15, 3: Is Diagoras tres filios adulescentis habuit, unum pugilem, alterum pancratiasten, tertium luctatorem. Eos omnis vidit vincere coronarique Olympiae eodem die et, cum ibi tres adulescentes amplexi coronis suis in caput patris positis saviarentur, cum populus gratulabundus flores undique in eum iaceret, ibidem in stadio inspectante populo in osculis atque in manibus filiorum animam efflavit
Baci romani: basium, osculum, savium
2 in Catull.: 99, 2: saviolum dulci dulcius ambrosia “un bacetto più dolce della dolce ambrosia”; 13-14: ut mi ex ambrosia mutatum iam foret illud / saviolum tristi tristius elleboro “cosicché quel bacetto d’ambrosia diventò per me più amaro dell’amaro elleboro”31
Infine, di saviatio, abbiamo 3 soli esempi, di cui in Plauto uno composto — ripetuto — assai peculiare:
Gell. 18, 2, 8: [Plato in civitate] praemia viris fortibus summisque bellatoribus posuit saviationes puerorum et puellarum “[Platone, nella Repubblica] stabilì, come premi per gli uomini valorosi e i guerrieri più coraggiosi, baci di fanciulli e fanciulle”;
Pl. Ba. 115-116: Amor, Voluptas, Venus, Venustas, Gaudium, / Iocus, Ludus, Sermo, Suavisaviatio “L’Amore, il Piacere, Venere, la Leggiadria, la Gioia, il Riso, lo Scherzo, la Ciarla, Dolcebacio”32; 120: An deus est ullus Suavisaviatio? “Ma Dolcebacio è un dio?”.
6. Gli autori che per indicare il bacio non utilizzano né basium né savium, con i rispettivi derivati e alterati (basiare, basiatio, basiator, basiolum, e saviari / saviare, saviatio, saviolum), usano osculum e il corrispondente verbo osculari, nonché osculatio, in sostituzione degli altri due gruppi di vocaboli. Naturalmente, in tali condizioni il termine “superstite” deve coprire l’intero àmbito semantico e concettuale relativo al bacio, e dunque si verifica in qualche modo il “monopolio” cui si è accennato per il greco (§ 1). Innanzitutto, di osculum va distinto l’uso proprio, come diminutivo di os “bocca” — e dunque “boccuccia” o “labbra” —, da quello metonimico di “bacio” (cfr. § 2b). Ma, data la contiguità semantica dei due valori, non è sempre agevole riconoscere quello specifico o almeno prevalente nei vari esempi in cui il termine è utilizzato. Proviamo a segnalare alcuni dei casi in cui il senso originario di “bocca, boccuccia, labbra” sembra unico o comunque predominante:
Apul. met. 3, 19: tuis istis micantibus oculis et rubentibus bucculis et renidentibus crinibus et hiantibus osculis et flagrantibus papillis [...] “con codesti tuoi occhi splendenti, le tue gote di porpora, i tuoi capelli lucenti, la tua boccuc-
31. Cfr. TrAinA 1994, ad loc.: «La coppia antonimica “ambrosia/elleboro” (come la più comune “miele/fiele”) simboleggia l’opposizione “dolce/amaro” (tristis, causativo “che fa storcere la bocca”: Tibullo, 2, 4, 12 chiama triste il fiele [cfr. anche 1, 5, 50 e Virgilio, georg. 2, 126] e un epigrammista greco, Anth Pal. 5, 29, 2, dice che la dolcezza dell’amore, se si deve pagare, diventa “più amara dell’elleboro”)».
32. Cfr. § 2 e note 16-17. Commenta Del corno 1973, n.17, ad loc.: «La serie di nomi è di pretto stile plautino: i termini si susseguono secondo richiami di vario tipo (allitterazione, rapporto sinonimico, assonanza), e contribuiscono a una colorita immagine dell’esaltazione in cui si trova Pistoclero. Manca tuttavia l’irresistibile effetto comico di altre analoghe accumulazioni plautine; qui è per altro gustosamente umoristico il modulo della personificazione, che riempie la casa delle due ragazze di tanti personaggi divini, reali e fittizi».
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cia socchiusa, il tuo seno profumato […]”33; 4, 31: osculis hiantibus filium diu ac pressule saviata “[la dea], baciato il figlio a lungo e con dolce pressione a labbra socchiuse” (cfr. § 5, verbo saviari)34; Ov. met. 1, 498-499: videt igne micantes / sideribus similes oculos, videt oscula: “vede i suoi occhi sfavillanti di fuoco come stelle, vede la sua bocca”; Mart. 5, 34, 1-2: puellam / oscula commendo deliciasque meas “raccomando questa bambina, mia boccuccia e mia delizia” (in senso metaforico: cfr. savium, § 5); 11, 91, 7-8: ipsaque crudeles ederunt oscula morbi / nec data sunt nigris tota labella rogis “la crudele malattia ha consumato perfino la sua tenera bocca, e neppure le piccole labbra sono state affidate intatte al nero rogo”; Petr. 67, 11: ebriaeque iunxerunt oscula “ubriache unirono le bocche (baciandosi)”35; 126, 16: nares paululum inflexae et osculum quale Praxiteles habere Dianam credidit “le narici leggermente incurvate e la piccola bocca quale Prassitele ritenne che avesse Diana”; Val. Fl. 4, 701-702: Alcides Theseusque comes pallentia iungunt / oscula “Ercole e il compagno Teseo uniscono le pallide bocche”; Verg. Aen. 1, 256: [Iuppiter] oscula libavit natae36 “[Giove] sfiorò con un bacio le labbra della figlia”; 12, 434: summaque per galeam delibans oscula “e sfiorando appena le labbra attraverso l’elmo”.
7. Assai più frequente l’uso di osculum nel senso metonimico di “bacio”, in concorrenza con basium e savium:
Apul. met. 4, 1; 5, 6; 11, 25; Cic. Att. 1, 1 [9], 1: utinam continuo ad complexum meae Tulliae, ad osculum Atticae possim currere! “oh se potessi correre subito ad abbracciare la mia Tullia, a baciare Attica!”
33. Qui preferisco il senso proprio per uniformità con gli altri termini dell’elencazione (oculis, bucculis, crinibus, papillis), che si riferiscono tutti a parti del corpo, mentre osculis nel senso di “baci” sarebbe un intruso in quanto indicherebbe un gesto; mi sembra peraltro da escludere, ancorché con la dovuta prudenza, una variatio, per cui tutt’al più il nome in esame avrebbe dovuto ricoprire l’ultima posizione nell’elenco delle venustà della donna. Di diversa opinione è per es. AnnArAtone 1994, ad loc .: «[...], i tuoi baci a bocca aperta».
34. Anche in questo caso ritengo preferibile il valore di “bocca, labbra”, analogamente all’esempio di Cic. Sest. 52, 111: illo ore ... est saviatus (cit. al § 5), a differenza per es. da Gell. 19, 11, 4: semihiulco savio [...] savior (cit. al § 5), dove, per ottenere l’effetto allitterativo — per di più con l’Abl. strumentale “interno”, ossia dalla stessa radice —, il bacio “a labbra dischiuse” non si sarebbe potuto indicare se non con tale sostantivo, mentre nel passo in questione di Apuleio abbiamo la variatio lessicale osculis / saviata; l’espressione è resa in modo simile da AnnArAtone 1994, n. 33, ad loc.: «con le labbra semiaperte».
35. Lo stesso sintagma oscula iung- oppure iung- oscula ricorre almeno 8 volte in Ovidio: am. 2, 5, 23; her. 18, 101; 20, 143; met. 2, 357; 2, 430; 9, 458; 9, 560; 10, 362; anche 6, 626: oscula iunxit
36. Cfr. Sil. 1, 104: Olli permulcens genitor caput oscula libat “accarezzandogli il capo, il padre [Amilcare] gli [scil. ad Annibale] sfiora le labbra (con un bacio)”, per quanto codesto esempio potrebbe rientrare tra quelli incerti citati infra; ma non 6, 420-421: oscula ab ore / libavisse tuo “aver gustato baci dalla tua bocca”.
Catull.: 68, 127: oscula mordenti semper decerpere rostro “cogliere sempre baci col becco mordace”37;
Gell.: 3, 15, 3; 10, 23, 1; 19, 11, 4; Iuv.: 6, 51; 6, 367;
Liv.: 1, 56, 10; 1, 56, 11; 1, 56, 12; 23, 9, 9; 45, 44, 10; Luc.: 2, 114; 3, 739; 3, 745 (tra figlio e padre); 4, 180; 5, 736 (tra coniugi: cit. alla n. 3); 6, 565; 10, 365 (erotico-sessuale);
Lucr.: 3, 895 (cit. alla n. 4); 4, 1081 e 1194 (baci passionali); 4, 1179;
Mart.: 1, 109, 2; 6, 66, 8; 7, 95, 2; 8, 44, 5; 11, 23, 13; 12, 93, 4; 13, 18, 2; Ov.: 113 occorrenze (compreso met. 1, 498-499, cit. al § 6), solo plur. oscula; si noti che sono assenti altri casi della flessione e i termini derivati, e che egli non utilizza mai gli altri due vocaboli;
Petr.: 22 occorrenze;
Phaedr.: 3, 8, 12; 4, 25, 13; Prop.: 14 occorrenze; Pl.: 10 occorrenze; si noti in particolare l’espressione di Amph. 716 e 800: osculum tetuli tibi “ti diedi un bacio”; Rut. Nam.: 1, 43: crebra relinquendis infigimus oscula portis “imprimiamo fitti baci alle porte che dobbiamo abbandonare”; Sil.: 8 occorrenze (oltre a 1, 104, cit. alla n. 36), solo plur. dei casi diretti (oscula), come in Ovidio;
Tac. Agr. 40, 4: brevi osculo “con un rapido bacio” [di Domiziano ad Agricola]; ann. 1, 22; 11, 27; 13, 18; 14, 2; 14, 56; 15, 29 (cit. alla n. 9); 15, 71; hist. 1, 36: nec deerat Otho protendens manus adorare vulgum, iacere oscula “e Otone non mancava di prosternarsi alla folla, di gettarle baci protendendo le mani”38; 1, 72: inter stupra concubinarum et oscula “in mezzo a sconcezze e baci con amanti” [Tigellino]; 4, 46: prensare commanipularium pectora, cervicibus innecti, suprema oscula petere “[i Vitelliani sconfitti] si stringevano al petto dei commilitoni, e aggrappati al loro collo, imploravano l’estremo bacio”; Tib.: 8 occorrenze, solo plur. dei casi diretti (oscula), come in Ovidio e Silio; per 1, 2, 86, cfr. n. 7. In particolare, in 1, 8, 26 – 38 – 58 si tratta di oscula erotici; ma in 2, 5, 92 (cit. alla n. 4) sono baci strappati dal bimbo al padre; Val. Fl.: 11 occorrenze, solo plur. dei casi diretti (oscula), come in Ovidio, Silio e Tibullo; Val. Max.: 2, 6, 17; 2, 7, 6; 3, 8, 6; 5, 9, 2; 6, 1, 4 (bis); 7, 1, 1; 7, 3, 2 (bis); 7, 8, 9; Verg. ge. 2, 523 (cit. alla n. 4); Aen. 1, 687 (cit. alla n. 5); 2, 490 (cit. alla n. 7).
Abbiamo poi dei casi in cui osculum ha significato indeterminato o ambivalente, ma è perlopiù arduo stabilire se l’ambiguità o la polisemia nel suo im-
37. Per i “baci” dei colombi, cfr. Ov. ars 2, 465: iungunt sua rostra columbae; Plin. n. h., 10, 79, 158: columbae proprio ritu osculantur ante coitum; etc.
38. Ricordo che presso i Romani i baci si lanciavano non con tutta la mano, ma soltanto con la punta del pollice e dell’indice della mano destra.
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piego dipenda da precisa scelta dell’autore o da mera casualità. Ne elenco alcuni, particolarmente significativi:
Apul. met. 2, 2: offert osculum “mi offre la bocca” oppure “mi dà un bacio”, peraltro equivalenti; 5, 23: ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit “volò via sottraendosi alla bocca e alle mani dell’infelicissima sposa”, oppure “ai baci e agli abbracci...”, senso metonimico rispetto al primo;
Iuv. 6, 507: et levis erecta consurgit ad oscula planta “e si alza leggera sulla punta dei piedi per raggiungere la bocca” oppure “per dare un bacio”: i due valori sono in qualche modo complementari; Mart. 12, 59, 4-5: te pilosus / hircoso premit osculo colonus “il peloso colono ti preme (le labbra) con la bocca che sa di caprone”: premere con la bocca equivale a “baciare”;
Phaedr. 4, 25, 7: et matronarum casta delibo oscula “assaggio le caste labbra delle matrone” oppure “i casti baci”;
Suet. Aug. 94, 13: eiusque osculum delibatum digitis ad os suum rettulisset “e date a lui le dita da baciare, le avrebbe poi portate alla sua bocca”: anche qui è più che evidente il valore metonimico “bocca > bacio”.
8. Queste le presenze del verbo osculari:
Apul. met. 10, 21: exosculata (già cit. al § 4); Cic. Att. 16, 5 [2], 2: osculatus; div. 46, 103: osculans; fam. 1, 9, 10: osculabantur; 3, 11, 2: osculatus; Mur. 23: osculari; 88: osculata; rep. 6, 14: osculans; Tusc. 1, 38, 92: oscularetur; Verr. 4, 94: osculari; Gell. 1, 23, 13: exosculatur; 2, 26, 20: exosculatus; Mart. 8, 81, 5: perosculatur; Nep. Att. 22, 2: cum quidem Agrippa eum flens atque osculans oraret atque obsecraret, ne […] “e benché Agrippa lo pregasse e scongiurasse, piangendo e baciandolo, di non [...]”; Petr. 64, 1: osculati; 67, 5: osculata; 74, 8: osculari ; 91, 9 : exosculatus; 126, 10: osculantur; Phaedr. 5, 1, 5 : osculantur; Pl.: 39 occorrenze, di cui 4 deoscul39, oltre ad ausculer, in Cas. 133 (cfr. § 2, osculum);
Plin. n. h. 10, 79, 158: osculantur (cit. alla n. 37); 11, 54, 146: exosculamur; 15, 40, 134: osculatus ; 16, 91, 242: osculari; Plin. ep. 5, 17, 4: exosculatus; 9, 13, 21: exoscularetur; Prop. 4, 3, 30 (hàpax, cit. alla n. 7);
Tac. ann. 1, 34 (exosculandi); 4, 63 (osculantium); hist. 1, 45 (exosculari); 2, 49 (exosculantes);
Ter. Haut. 900 (hàpax): osculari;
39. Notiamo l’espressione deosculer, voluptas mea “io ti baci, mia delizia” in Cas. 136 e 453.
Val. Max. 1, 5, 3: osculatus; 2, 10, 2: osculati ; 4, 6, 3: osculandi; 4, 7, 4: osculatus; 5, 1, ext. 1: osculari ; 5, 1, ext. 2: osculatus esset; 7, 3, 2: osculatus est; 8, 1, abs. 6 : oscularetur
Ricordiamo infine le poche presenze di osculatio:
Catull. 48, 5-6: non si densior aridis aristis / sit nostrae seges osculationis “neppure se la messe dei nostri baci fosse più fitta che spighe secche”; Cic. Cael. 49: si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita collocarit, [...], si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam complexu, osculatione, [...], ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur : “se una donna nubile aprisse la propria casa alle brame di tutti, se si mettesse a comportarsi apertamente da meretrice, [...]; se infine si comportasse, non solo per la camminata ma anche per l’acconciatura e per la compagnia, non solo per il dardeggiare degli occhi e la libertà del linguaggio, ma anche per gli abbracci e i baci [...], in modo tale da sembrare non solo una prostituta, ma una prostituta sfrontata e procace”.
Plin. n. h. 10, 15, 32: [...], sed illam osculationem, quae saepe cernitur, qualem in columbis esse “[...], ma quel baciarsi, che spesso si vede, quale accade tra colombi”; 10, 52, 104 (circa i colombi): saevique rostro ictus, mox in satisfactione exosculatio “e violenti colpi col becco, poi il baciarsi in segno di perdono”.
9. Come si evince da codesta ampia, se non proprio esaustiva, panoramica di occorrenze delle tre famiglie di vocaboli relative al bacio in latino, le distinzioni suggerite da Donato, Servio e Isidoro, tra esse quasi coincidenti, sono assai approssimative, se non senz’altro azzardate. La classificazione da loro proposta non corrisponde costantemente all’uso degli autori: infatti non è sempre vero che il basium è il bacio tra coniugi, tant’è vero che Catullo — il poeta che introdusse il termine nella lingua di Roma (cfr. § 2a e n. 13) — perlopiù lo utilizza per indicare manifestazioni d’amore passionale o di erotismo, segnatamente nei confronti della sua Lesbia, e il nome e i suoi derivati compaiono nei suoi carmi 10 volte, rispetto a 6 occorrenze di savium e omoradicali, e a 2 sole presenze di osculum / osculatio (cfr. § 3).
Gli altri autori che usano la famiglia lessicale di basium (Apuleio, Fedro, Giovenale, Marziale, Petronio: cfr. § 4) la trattano come un “jolly”, ossia se ne servono in tutti i significati ad essa collegati40. Forse proprio la versatilità semantica di basium ne ha favorito l’uso, così come quello della sua famiglia lessicale — fino alla definitiva affermazione nel volgare italiano e nelle lingue neolatine — rispetto a quello degli altri termini, di significato più ristretto.
40. Cfr. Forcellini 1994, n. 14, lemma basio: «et dicitur tum de officiosis, tum praecipue de impudicis osculis: est tamen verbum minus, ut ita dicam, civile quam osculor, et poeticum magis quam oratorium».
Anche l’uso dei vocaboli collegati a s(u)avium provoca qualche perplessità: se di solito con tali termini si intende il bacio libidinoso o lussurioso, anche in riferimento a rapporti con prostitute (per es. Pl. Ba. 429 e Mil. 93-94, citati al § 5), abbiamo 3 occorrenze in Cicerone — le sole in cui egli si serve del verbo s(u)aviari — dove il senso di “baciare sensualmente” è inammissibile: mi riferisco innanzitutto ad Att. 16, 3 [5], 6 (cit. al § 5), dove egli invita l’amico Attico a suaviari per lui la figlioletta Attica, bimba di circa sette anni, alla quale, appunto, Cicerone manda un bacio, affettuoso ma ovviamente casto. Le stesse riserve valgono per Sest. 52, 111 e Brut. 53 (citati al § 5), dove i baci dati rispettivamente a nemici e alla propria madre non dovrebbero essere indicati col verbo saviari, ma con osculari. Si deve tuttavia rilevare che Cicerone, rinunciando al gruppo lessicale di basium (cfr. § 4) — che forse considera “dialettale” e comunque latino non del tutto puro o genuino —, utilizza quelli di s(u)avium e di osculum, ma con una frequenza curiosa: del primo usa soltanto il verbo (3 sole volte: cfr. qui sopra e § 5); del secondo sono hàpax il sostantivo originario (cfr. § 7) e il derivato osculatio, mentre ricorre 9 volte il verbo osculari (cfr. § 8). È evidente la sua preferenza per il gruppo di osculum, che è in qualche modo polivalente 41 e, per così dire, “neutro”; ma se le cose stanno così è poco chiara la ragione per cui incontriamo nella sua opera, per quanto di rado, anche il verbo saviari, impiegato impropriamente, avendo di solito carattere passionale. Si può dunque presumere che le rare occorrenze di saviari in Cicerone siano dovute a un’interpretazione riduttiva o approssimativa del valore del verbo, da lui forse inteso nel significato generico di “baciare”, senza coinvolgimenti sessuali, proprio come osculari, con cui può essere stato confuso. Ma vale anche il discorso inverso, nel senso che osculum è stato adottato, con funzione eufemistica e versatile — ossia che copre tutte le varietà di bacio —, per indicare sia il bacio familiare sia quello più audace, sensuale o lussurioso, in alternativa a savium. Analoghe considerazioni possono essere estese agli altri autori che usano in modo approssimativo i due blocchi di vocaboli, come se il loro senso fosse indifferente.
10. Dai dati statistici risultanti dalla presente ricerca si può desumere che la famiglia lessicale di gran lunga prevalente nella letteratura latina, sia in prosa sia in poesia, è quella di oscul-, forse perché più malleabile delle altre, considerato che spazia dal bacio coniugale, familiare, amichevole o rispettoso
41. Il fenomeno sembra ripetersi nei secoli successivi: per es., nella traduzione c. d. Vulgata della Bibbia (fine IV sec.) ricorre soltanto la famiglia lessicale oscul-, anche quando vi è un’evidente implicazione erotica: per es. VT, Cant. 1, 1: φιλησάτω
osculetur me osculo oris sui quia meliora sunt ubera tua vino “che essa mi baci con i baci della sua bocca, perché il tuo seno è più invitante del vino”; ma nel caso di Gerolamo e degli autori cristiani è pienamente giustificabile l’assenza di termini come basium e savium, fortemente connotati dal loro valore erotico o addirittura osceno, in chiaro contrasto con la dottrina puritana predicata dalla Chiesa. Cfr. M. Ph. Penn 2005.
Baci romani: basium, osculum, savium 95
sino a quello caratterizzato da una forte carica erotica (cfr. §§ 7-8). Tra l’altro, in contrasto con le distinzioni proposte da Servio e Isidoro, secondo i quali il bacio che si dà alla moglie è il basium (cfr. § 1), dobbiamo ricordare che a Roma esisteva una legge chiamata ius osculi (e non basii)42, secondo la quale ogni moglie doveva scambiare quotidianamente un bacio, ovviamente sulla bocca — contrariamente a una diffusa opinione, secondo la quale l’osculum era un bacio impresso sulle guance —, col marito e coi parenti, per consentire loro di controllare che la donna non avesse bevuto di nascosto, gesto che autorizzava il marito addirittura a ucciderla, poiché si riteneva che la propensione al bere furtivamente potesse favorire l’adulterio. Aggiungiamo che lo ius osculi fu abolito da Tiberio (temporaneamente, si deve presumere) 43 , forse anche per la diffusione di infezioni alle labbra, come l’herpes È curioso il fatto che i vocaboli dei tre gruppi (basi-, oscul-, savi-), nelle varie forme della flessione, sono prosodicamente equivalenti, con la sola, ovvia eccezione delle forme verbali di basiare (attivo), rispetto a quelle di osculari e sa(u)viari (deponenti). Dobbiamo rilevare pure che la diversa frequenza, in poesia, del singolare e del plurale di tutti e tre i nomi originari può dipendere soprattutto da ragioni metriche, perché al singolare la presenza di un successivo vocabolo iniziante per consonante provocherebbe l’allungamento “per posizione” della -u- finale del sostantivo: ciò spiegherebbe la presenza, presso alcuni poeti (Ovidio, Silio Italico, Tibullo, Valerio Flacco) della sola forma oscula , con l’esclusione di altri casi della declinazione del termine, nonché di altri vocaboli omoradicali e degli altri due gruppi di parole indicanti il bacio (cfr. § 7).
Notiamo infine che l’azione fisica dei vari tipi di bacio non va disgiunta dal rapporto personale tra i protagonisti del gesto o dalle relazioni sociali o politiche tra loro: è evidente che per es. il bacio tra il generale romano Corbulone e il re armeno Tiridate (Tac. ann. 15, 29: cfr. n. 9) fu dato e ricevuto sulle guance (a differenza dai moderni baci di autorità o funzionari dell’ex-URSS, scambiati rigorosamente sulla bocca), mentre quelli dei supplici erano dati sulle mani o sui piedi; quelli tra coniugi, e a maggior ragione tra amanti, comprese le prostitute (“scorta”), sulla bocca; è incerto se quelli tra genitori e figli, o in generale tra congiunti, fossero sul viso o sulla bocca, in quanto dipendenti dal gusto e dalla sensibilità individuali.
42. Cfr. Plin. n. h. 14, 14, 90: Cato ideo propinquos feminis osculum dare, ut scirent an temetum olerent “Perciò Catone stabilì che i parenti dovessero dare un bacio alle donne, per appurare se puzzassero di vino puro”; Suet. Cl. 26, 7: verum inlecebris Agrippinae, Germanici fratris sui filiae, per ius osculi et blanditiarum occasiones pellectus in amorem [...] “ma indotto a innamorarsi dalle lusinghe di Agrippina, figlia di suo fratello Germanico, grazie al diritto di baciarlo [in quanto suo congiunto] e alle occasioni di affascinarlo [...]”; vedi anche Val. Max. 2, 1, 5 Vini usus olim Romanis feminis ignotus fuit, ne scilicet in aliquod dedecus prolaberentur, quia proximus a Libero patre intemperantiae gradus ad inconcessam venerem esse consuevit
43. Cfr. Suet. Tib. 34, 4: cotidiana oscula edicto prohibuit “vietò con un editto i baci quotidiani”; ma evidentemente, cessata l’epidemia, lo ius osculi fu ripristinato, come risulta dal passo di Suet. Cl. 26, 7, cit. alla n. 42.
Pier Angelo Perotti11. Riepilogando e concludendo, possiamo proporre la seguente distinzione fra i tre termini e i loro derivati: basium, in origine idiotismo dell’Italia settentrionale (cfr. Catullo, § 2 e n. 13), proprio per questo è assente in molti autori, ma presenta il vantaggio di essere versatile e onnicomprensivo, e dunque è usato abbastanza spesso da alcuni poeti o scrittori in sostituzione di osculum, altrettanto polisemico, e perciò di impiego assai ampio: si pensi — per fare l’esempio più clamoroso — che Ovidio, per indicare il bacio, utilizza esclusivamente oscula, ben 113 volte (cfr. §§ 7 e 10), e che viceversa Catullo usa 2 sole volte oscul- (cfr. § 3), dato che basi- è altrettanto duttile. Si differenzia dalle altre due famiglie lessicali quella di s(u)avium, che, ad eccezione di qualche caso isolato, indica prevalentemente il bacio in contesti erotici. La sua maggior frequenza è in Plauto, il che sembra dimostrare che il criterio con cui il termine è scelto si ricollega da un lato alla peculiarità degli argomenti da lui trattati, dall’altro all’utilizzo da parte sua di un linguaggio spesso plebeo e talora quasi volgare, che appunto giustifica la presenza frequente e assolutamente legittima di tale gruppo di vocaboli. Si può insomma supporre che la prevalenza di osculum rispetto agli altri due termini sia dovuta al fatto che tale voce era forse sentita come più nobile di s(u)avium e più adeguata ai canoni linguistici del latino “puro”, non proveniente da prestiti stranieri, o “barbari”. Tuttavia nelle lingue neolatine, ad eccezione del rumeno, i vocaboli indicanti il bacio — unici in ciascuna lingua44 — derivano da basium, e non da osculum (cfr. § 2), forse perché il primo è più popolare, mentre il secondo è più ricercato, e dunque in italiano è sopravvissuto soltanto in alcune voci arcaiche e letterarie, come osculo e i suoi derivati osculare, osculazione, osculatore, tuttora impiegati anche nella terminologia matematica. La preferenza di basium rispetto a osculum nelle lingue moderne può dipendere altresì dal suo valore perlopiù intermedio tra gli altri due termini, in genere troppo connotativi per essere usati in ogni circostanza; e comunque il binario lessicale basium ~ osculum estromette s(u)avium, in cui, tranne rare eccezioni, è preponderante l’aspetto sensuale, in osculum la dimensione affettiva, amicale, rispettosa o ufficiale. Invece in basium tutti questi valori sono per così dire amalgamati in un solo termine polivalente, il cui senso può essere puntualizzato solo dal contesto in cui si trova; un criterio analogo vale per i vocaboli che designano il bacio nelle lingue moderne, dove i soli termini utilizzati sono i rispettivi risultati del basium latino.
Risulta dunque che delle tre famiglie di vocaboli, esclusa quella di s(u) avium, le altre due si sono spartito il territorio lessicale: in latino si è imposta soprattutto quella di osculum, mentre nelle lingue romanze ha prevalso quella di basium (cfr. § 2a), entrambe più flessibili e comuni del raro s(u)avium. È comunque curioso che il vocabolo più comune in latino sia stato soppiantato nelle lingue moderne da quello meno usuale: ma va tenuto presente che basium è — ripeto — più popolare, quasi vernacolare.
44. Come del resto nel greco antico (cfr. § 1 e n. 1), nonché nell’ingl. kiss (smack non è un vero sinonimo, ma indica onomatopeicamente il bacio sonoro) e nel ted. Kuẞ
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Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica
Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 99-115
DOI: 10.2436/20.2501.01.86
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira: el tópico del tenuis victus.
Adolfo Egea
Universitat de Barcelona
AbstrAct
This paper examines the treatment of gastronomic contents in satire, especially when they are linked with the topic of the tenuis victus or ‘simple life’. After briefly reviewing the possible influences of Greek gastronomic poetry on culinary satires, we focus on Horace’s satire 2.2 and Juvenal’s 11th satire both having the tenuis victus as the main theme. The treatment of the topic is compared with Furius Bibaculus’ fragment 1 Blänsdorf. Finally, the question of the philosophical value of the motive as it appears in these poems is discussed.
Keywords: satire, gastronomy, tenuis victus, philosophy
Sátira y poesía gastronómica
La poesía de temática gastronómica se inicia en la literatura romana con Ennio, el mismo autor que introduce, entre otras innovaciones formales y temáticas, el hexámetro homérico como vehículo para la poesía épica. Además de iniciar la poesía épica a la manera griega, importó una de sus variaciones cómicas: el poema gastronómico de tipo didáctico, traduciendo (o adaptando) los Hedyphagetica de Arquéstrato de Gela. De esta adaptación conservamos un breve pasaje o, mejor dicho, un breve fragmento hecho a partir de un conglomerado de citas procedentes de diversos puntos del poema. El original griego era, como es sabido, un poema didáctico modelado formal-
100 Adolfo Egea
mente sobre el ejemplo de Hesíodo y del Teognis más gnómico, pero cuya enseñanza consistía en una revista de las mejores exquisiteces gastronómicas, según su mejor lugar de procedencia y la mejor manera de prepararlas1 Este artificio poético no tuvo continuación en la literatura latina posterior como subgénero independiente. Sin embargo, los contenidos gastronómicos tratados de esta manera sí hallaron un género idóneo: la sátira. Éste es, en efecto, el género en el que se desarrollan preferentemente (aunque no únicamente) estos contenidos, a veces en la forma de parodia de poemas didácticos o de tono vagamente sapiencial, pero más frecuentemente insertos en la descripción de cenae. En el primer caso, la práctica de los poetas satíricos se aparta notablemente de la de los poetas gastronómicos griegos del siglo IV a.C. porque, a pesar de que usan un procedimiento similar, sus objetivos son más bien distintos. En los poetas gastronómicos como Arquéstrato el contraste entre una forma literaria propia de un género serio y un contenido frívolo no sólo es lo que causa el tono cómico general de la obra, sino que es el principal elemento en el que se basa el valor literario de la obra. Estas obras están dirigidas a un público escogido, no sólo conocedor de los modelos antiguos ‘serios’, cuyos mimbres usa el poeta, sino también capaz de procurarse las exquisiteces que son catalogadas en sus versos. En los satíricos, sin embargo, este procedimiento está al servicio del mensaje moral propiamente dicho, el alcance y el tono del cual difieren notablemente entre los cultivadores del género. Por este motivo, he argumentado en otro trabajo que es difícil considerar la poesía gastronómica griega como parte de la corriente de lo σπουδαιογέλοιον, como quería Degani2, puesto que lo σπουδαῖος, lo serio del poema, no es otra idea que la de que las carísimas exquisiteces que debe procurarse todo buen gourmet no deben prepararse a la manera siciliana, esto es, excesivamente condimentadas: este mensaje difícilmente podría considerarse un mensaje moral serio. Sí que se ajustan, sin embargo, a esta corriente la mayoría de ejemplos romanos que retoman los procedimientos formales que habían usado poetas como Arquéstrato o Matrón, puesto que los usan en el marco de la sátira.
En el caso de las cenae, la descripción de los alimentos servidos cumple varias funciones. Además de una más genérica, la degradación del banquete filosófico (la amistad y la conversación filosófica sucumben ante el interés por lo puramente físico: los alimentos servidos) 3, la función principal es la sátira del anfitrión, sea éste un personaje conocido o identificable por el pú-
1. He tratado con mayor profundidad la evolución de la poesía gastronómica desde la literatura griega hasta Horacio en el ensayo, de próxima publicación, Horacio y la poesía gastronómica antigua. Remito a él para una bibliografía más completa y un tratamiento más sistemático de la recepción de la poesía de Arquéstrato y Matrón en la literatura romana arcaica y clásica, así como la relación de Lucilio y Varrón con estos contenidos y su recepción en Horacio. Vid. olson; sens 1999; olson; sens 2000; wilKins 2000, 312-368; dAlby 1996, 400-12; gArcíA-soler 2003, telò 2017, 75-80.
2. degAni 1982; vid. también degAni 1985, 1990 y 1991. El autor defiende la inclusión de la poesía gastronómica griega en lo σπουδαιογέλοιον contra giAngrAnde 1972, que la obvia.
3. gowers 1993, 170.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 101 blico, sea un personaje-tipo. Dicha sátira puede tener diversos objetivos, como por ejemplo un anfitrión demasiado avaro (tal sería el caso de la Cena rustica de Lucilio), pero lo más habitual es la crítica al anfitrión por pretencioso o nuevo rico, características que manifiesta especialmente en los excesos culinarios (no solo de cantidad, sino también de mal gusto) en sus convites. De los excesos cuantitativos son un testimonio la larga lista de leyes suntuarias que se promulgaron durante los siglos II y I a.C. (al parecer sin mucho éxito), y parece que el tipo de personaje contra el que iban destinadas estas leyes es el objeto de la mayoría de las sátiras. En el caso de Horacio, la sátira del anfitrión tiene mayor complejidad y más matices. A pesar de que uno de los dos poetas gastrónomos griegos, Matrón de Pítane, es autor de un ‘banquete’, el Ἀττικὸν δεῖπνον, su influencia en las cenae satíricas es muy leve, por no decir inexistente4. El procedimiento estilístico del autor griego, que es centonario o semicentonario, resulta ajeno a estas sátiras que, como mucho, imitan ciertas formas de la poesía gastronómica griega de tipo didáctico, es decir, de tipo arquestrateo (por ejemplo, cuando el anfitrión de una cena quiere impresionar a sus invitados explicando la calidad y la procedencia de los alimentos que están siendo servidos: tal es el caso de la sátira 2.8 de Horacio). En cuanto al significado general, las diferencias son más evidentes, puesto que en el caso de Matrón se trata puramente de un ejercicio erudito y cómico5
Así pues, las sátiras culinarias de la literatura romana deben relativamente poco a la poesía gastronómica griega del siglo IV a.C. y sus derivados. Más importancia tiene la tendencia característica de la poesía helenística de tratar ciertos tópicos de la filosofía moral en sus versos. Como afirmó Max Pohlenz, estos motivos de ascendencia filosófica, compartidos por diversas escuelas pero con especial influencia de la diatriba cínica, resultan atractivos para el poeta en relación a su posible elaboración artística6; en cuanto a su valor filosófico, esto es, a la identificación del autor con el contenido propiamente filosófico de estos símbolos, la situación es variable y oscila según el género literario7. Así, no puede negarse que en una obra como el De rerum natura
4. La filiación entre Lucilio, y sobre todo, Horacio y los poetas gastronómicos griegos fue defendida por shero 1923 y 1929.
5. Sobre el posible valor político y satírico de Matrón, cf. bertolín cebrián 2008, esp. 54 y 69.
6. Pohlenz 1962, 6.
7. La crítica a la Quellenforschung filosófica entre los poetas, en especial entre los poetas romanos del siglo I a.C., fue producto del excesivo rigor con la que ésta se aplicaba en la filología de finales del siglo XIX y principios del siglo XX. Sin embargo, en décadas recientes, las técnicas que han permitido sacar a la luz los manuscritos de la escuela de Filodemo, han reabierto el debate entre los que consideran que no deben buscarse adhesiones concretas cuando los poetas usan motivos y tópicos procedentes de la filosofía helenística y/o popular, y los que afirman que no puede dejarse de lado la información que procede de dichos papiros. Véase, como ejemplo del debate, la situación en torno a la producción de Horacio, de las Epístolas en especial: mientras MAyer 1994 insiste en el valor convencional de los loci philosophici, ArMstrong 2004, sin dejar de valorar lo positivo del abandono de esa rígida búsqueda de fuentes filosóficas para cada idea expresada por los poetas, afirma la necesidad de no ignorar lo que la biblioteca de Filodemo puede
Adolfo Egeade Lucrecio, dicha identificación es evidente; pero en otros casos, el empleo de estos motivos procedentes de la tradición filosófica no va acompañado necesariamente de un reconocimiento del pensamiento filosófico que les dio origen.
El motivo del tenuis victus y los contenidos gastronómicos
Estas consideraciones son importantes, en lo que atañe al tema que nos ocupa, en relación el tópico del tenuis victus. Este tópico desplaza, a partir de época helenística, al del ‘País de Jauja’, presente en la tradición de la comedia vieja (sobre todo la de Epicarmo) y media, pues la representación de la antigua Edad de Oro se hace en términos de sobreabundancia, opuesta a la penuria que, en muchas ocasiones, sufrían los espectadores de dichas comedias, ya sea debido a su extracción social, ya sea porque el trasfondo de alguna de estas comedias (pensemos en Aristófanes) es el de un momento de enfrentamiento bélico. En la poesía helenística y por influencia de las distintas escuelas filosóficas, la antigua Edad de Oro adquiere esta nueva forma. Esto se ajusta mejor, además, a la circunstancia social del propio lector culto al que va dirigido este nuevo tipo de poesía, que apenas sufriría las consecuencias de una carestía provocada por un acontecimiento bélico o meteorológico. Baste, como ejemplo de ello, un verso de todo un best-seller helenístico con mucho éxito en Roma, los Φαινόμενα de Arato: en la descripción de la Edad de Oro, antes de que la Justicia abandonara a los hombres, éstos se contentaban con unos hábitos alimenticios sencillos, en la traducción de Cicerón (v. 110 = fr. 17 Soubiran): malebant tenui contenti vivere cultu 8. Es bien sabido que los poetas romanos del final de la república y aquellos cuya educación se inició en dicho período (esto es, la primera generación de los poetas augústeos), no sólo adoptaron la poética helenística, poniendo énfasis en distintos de sus aspectos según el poeta y el género literario que practicara, sino que las circunstancias político-sociales contemporáneas daban especial validez a muchos de estos motivos de ascendencia filosófica, o al aportar sobre las lecturas de esos poetas. El mismo Armstrong, en un artículo más reciente, ha estudiado las referencias intertextuales de Lucrecio, Filodemo y el propio Epicuro en las obras de Horacio (especialmente Sátiras), afirmando que Horacio era un epicúreo convencido: “his poetic voice speaks as if he was a professed Epicurean at the time of the Satires and Epodes, because of information, much of it from Herculaneum”, y “Horace glorifies Philodemus’ quartet of addressees, Plotius, Varius, Quintilus and Vergil, throughout his early and late work, not just as friends but ideal Epicurean friends of his own” (ArMstrong 2014, 101).
8. Cicerón traduce así la expresión αὕτως δ’ ἔζωον, menos concreta que la versión latina, pero cuyo sentido es precisado por un escolio (Schol. Arat., p. 359 Maas): ἕκαστος ἠρκεῖτο
. El verso se inserta en el pasaje de la Aetas aurea y se dice también que Justicia (Δίκη) proporcionaba todo aquello que necesitaban: μυρία πάντα παρεῖχε Δίκη, expresado de manera hiperbólica mediante μυρία (que se refiere a la gran cantidad) y πάντα (a la variedad), cf. Kidd 1997, 222 ( comm. ad loc.), Pohlenz 1962, 10, soubirAn 1972, 200 (comm. ad loc.).
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 103
menos hacían que estos motivos adquirieran cierta actualidad9. Por otra parte, estos elementos comportaban, también, que ciertas actitudes asociadas a las distintas doctrinas filosóficas pudieran eventualmente degenerar en modas o poses, más o menos snob, y entre ellas se cuenta la de la alabanza del tenuis victus. Este proceso resulta, por otra parte, comprensible para nosotros, lectores del siglo XXI, pues algo de ello sucede también en nuestra sociedad (y, de paso, da especial actualidad a las sátiras que tratan en diferente grado este tópico).
Un ejemplo de uso poético de este motivo lo encontramos en el fragmento 1 Blänsdorf de Furio Bibáculo, poeta neotérico contemporáneo de Catulo:
si quis forte mei domum Catonis, depictas minio assulas, et illos custodis videt hortulos Priapi, miratur quibus ille disciplinis tantam sit sapientiam assecutus, 5 quam tres cauliculi, selibra farris, racemi duo tegula sub una ad summam prope nutriant senectam.
El poema, que se ajusta al tipo de las nugae de estilo neotérico, está dedicado a P. Valerio Catón y se ha conservado en la biografía que Suetonio le dedica en su De grammaticis et rhetoribus. El biógrafo lo cita para dar testimonio de su extrema longevidad, a pesar de su pobreza: vixit ad extremam senectam, sed in summa pauperie et paene inopia, abditus modice gurgustio postquam Tusculana villa creditoribus cesserat (Suet. gramm. 11.3). Valerio Catón fue el más mayor de los neotéricos y, de hecho, su ‘guide spirituel et artistique’10; se dedicó, tras perder su patrimonio en época de Sila, a educar a los jóvenes de familias ricas. Dicha educación se basaba, como es sabido, en la lectura y comentario de los poetas, en lo cual destacó y por lo que fue muy admirado (Bibáculo le dedica otros poemas alabándolo precisamente en este aspecto, fr. 2 Bl. y 6 Bl .: Cato grammaticus, Latina Siren, / qui solus legit ac facit poetas)11. En el poema que nos interesa ahora, Furio Bibáculo, después de describir la ‘choza’ en la que vive el gramático (vv. 1-3: «si alguien viera la casa de mi Catón, cuatro tablas pintadas de rojo, y aquellos huertecillos guardados
9. Como ya afirmaba oltrAMAre 1926, 126: en su estudio sobre la diatriba romana: “Tout excitait le mécontentement; mais la puissance de la soldatesque, qui le causait en partie, l’empêchait aussi de se manifester extérieurement: les famines exaspéraient pourtant les masses et la misère du plus grand nombre rendait insupportable le luxe éhonté des enrichis de la guerre, les militaires qui avaient reçu les biens des proscrits et les anciens marchands d’armes, d’équipements et de vivres. Les distributions de denrées avaient ruiné l’agriculture italienne et dépeuplé les campagnes au profit de la capitale; les maux de tous genres en avaient été aggravés.”
10. grAnArolo 1973, 298. Según KAster 1995, 148, en realidad no fue mucho mayor que Cinna o Catulo, pero habría vivido hasta los años 20 a.C.
11. Sobre la atribución a Bibáculo de este fragmento, cf. cAfAgnA 2013, 100-101.
Adolfo Egea por Priapo»), conecta con cierta ironía este hecho con su sabiduría (vv. 4-5: «se asombrará de la disciplina con la que ha conseguido una sabiduría tan grande»), la cual le ha permitido prolongar su vida gracias precisamente al tenuis victus (vv. 6-8: «para que tres coles, media libra de trigo y dos racimos de uva bajo una simple teja lo alimenten hasta su avanzada vejez»)12. La descripción plástica del tenuis victus se lleva a cabo mediante una breve secuencia de tres alimentos en asíndeton ‘descendente’: tres coles, media libra de trigo, dos uvas colgadas de una teja. De los tres, la col (λάχανος) es un alimento recurrente en la pintura de personajes humildes, y podemos encontrar ejemplos de ello anteriores a la época helenística (por ejemplo, en un fragmento de los Ὀλύνθιοι de Alexis, 167.10 K.-A., en el que un personaje y su marido describen su pobreza mediante su dieta). Pero también aparece recurrentemente por sus saludables propiedades (hoy diríamos como “superalimento”), especialmente en la tradición romana: baste recordar la famosa alabanza de la col de Catón el Viejo (agr. 157). Las uvas, por otra parte, están presentes en algunos de los poetas helenísticos que tratan este mismo motivo. Desde la perspectiva de la poesía helenística, el uso del tenuis victus está respaldado por una de las obras más importantes de este período, la Hécale de Calímaco. En uno de los pasajes conservados este motivo es objeto de elaboración artística no con intención filosófica, sino con el fin de caracterizar un personaje y una situación típicamente ‘anti-heroica’: la pobre anciana Hécale que acoge al errante Teseo y le ofrece unos manjares modestos 13 . Más próximo al uso que hemos visto en Furio Bibáculo es el que hace de este motivo el epigramatista Leónidas de Tarento. En concreto, Courtney señala el epigrama 87 Gow-Page, dedicado también a un anciano:
Se destacan, de Clitón, su pequeña granja ( ὀλίγον ἐπαύλιον ), su pequeño campo (ὀλιγαῦλαξ) y su humilde viñedo (σχεδὸν ἀμπελεών), siendo, pues, la uva el único alimento al que se alude directamente (el ‘pequeño campo’
12. Sobre el carácter hiperbólico del fragmento (y el hecho de que sea la fuente para las informaciones biográficas que sobre la longevidad y la pobreza que da Suetonio), cf. KAster 1995, 157-158 y courtney 1993, 193. Sobre la paradoja entre la sapientia de Catón y su pobreza, hollis 2007, 139. El fragmento ha sido estudiado cuidadosamente (en especial su ‘arquitectura’) por cAfAgnA 2013, esp. 102-111.
13. Los fragmentos 37-39 Hollis, corresponden a esta sección del epilio. Cf. hollis 2009, 173175 y también 341-354 («Appendix III: The Hospitality Theme»), así como sKeMPis 2010, 193-205. El motivo es imitado por Ovidio en el pasaje de «Filemón y Baucis» (Ov. met. 8.664-5). Sobre el valor del pasaje en cuestión de la Hécale, el estado fragmentario en que lo conservamos hace difícil establecer su alcance más alla del de un ‘poetischer Kunstgriff bzw. Effekt’, cf. sKeMPis 2010, 301-305. Sobre el carácter ‘realista’ de este tipo de pasajes en la literatura helenística, cf. zAnKer 1987, 155-227.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 105 da opción, sin embargo, a otros alimentos). Estos elementos se utilizan para poner de relieve la pobreza que, sin embargo, le ha permitido llegar a los ochenta años. Dejando a un lado la discusión sobre la interpretación de la posible profundidad filosófica de Leónidas14, en el caso de Furio Bibáculo el trasfondo filosófico del poema no parece ir más allá del homenaje sentido y a la vez irónico de su ‘maestro’ de arte poética, de modo que estaríamos ante un claro ejemplo del uso característico en la poesía helenística de un motivo de origen filosófico, pero sin alcance filosófico propiamente dicho.
Horacio
La importancia del tema culinario en el segundo libro de sátiras de Horacio ha sido señalada muchas veces 15. Armstrong ha observado cómo el tratamiento de dicho tema se estructura en dos parejas de sátiras: 2.4 y 2.8, por un lado, sobre los excesos gastronómicos, y 2.2 y 2.6, por otro, sobre la frugalidad desde el punto de vista de la filosofía que adopta el propio poeta 16 . Dejaremos de lado la sátira 2.8 o ‘Cena Nasidieni’, en la que la pintura de la cena que ofrece un personaje pretencioso, que intenta impresionar nada menos que a Mecenas para, previsiblemente, ser introducido en su círculo, se centra en la descripción del menú que éste presenta, en el sentido literal de este verbo: pues uno de los personajes a su servicio se dedica a ‘presentar’ los manjares que se ofrecen para que no quede ninguna duda del carácter exclusivo y del pretendido buen gusto del anfitrión (porque se trata de una pretensión, no de una realidad). Las sátiras 2.2 y 2.4 tienen una relación más directa con el tono de la diatriba en su tratamiento del motivo de la frugalidad. La relación entre las sátiras de Horacio y las diatribas de la tradición cínica, en concreto de las de Bión, es algo que afirma el propio autor romano en un conocido pasaje (epist. 2.2.60): Bioneis sermonibus et sale nigro17, y la
14. Defendida resueltamente por gigAnte 2011, frente a la consideración negativa de gow; PAge 1965, II, 307: «though a competent versifier, is hardly ever more than that and there are many Hellenistic epigrammatists for larger representation of whom one would gladly have sacrificed some part of L.’s contribution». webster 1964, 217-218, considera auténtica su inclinación por el cinismo.
15. El segundo libro de sátiras ha recibido menor atención que el primero. Fraenkel, por ejemplo, considera que las sátiras gastronómicas de Horacio son imitación directa de Matrón, lo que sólo indica el poco interés que dichas sátiras suscitaba en el estudioso. Cf. sobre todo rudd 1966, 202-223 (para sátiras 2.4 y 2.8) y courtney 2013, 126-165.
16. ArMstrong 2014, 126: “One could suggest an Epicurean typology of the ‘food satires’ in book 2: Sat. 2.2 (Ofellus, the Epicurean countryman: simple food, simple style, virtue and endurance); Sat. 2.4 (‘Epicurean’ or merely hedonistic gourmandise, city style, attractive in theory); Sat. 2.6 (counterpart to 2.2: Horace the country mouse, eating Ofellan cuisine at a table of Ofellus’ look-alikes); Sat. 2.8 (counterpart to 2.4: the dinner of Nasidienus shows that Epicurean-hedonistic gourmandise, city-style, is a catastrophe in practice.”
17. El sentido de la metáfora sale nigro es interpretada de diferente manera por los comentaristas antiguos: caracter agresivo según el ps.-Acrón, tono jocoso según Porfirión. Lo más probable es la combinación de ambos, esto es el ridentem dicere verum propiamente di-
Adolfo Egeasátira 2.2 es una de las que se ajusta más al ‘tono de diatriba’. Está puesta en boca de un tal Ofelo, al menos la primera parte de ella (hasta el verso 52)18 , siguiendo así la práctica del poeta en el segundo libro de sus sátiras, en el que prefiere que un personaje tome la palabra. Adopta la forma de amonestaciones, animadas con los recursos propios de la diatriba cínica: preguntas retóricas lanzadas al supuesto auditorio, ejemplos con los que ilustrar de manera plástica los vicios a evitar, etc. El elogio de la frugalidad se articula en torno al contraste entre la vida urbana y la vida rural, y el ‘sabio rústico’ que es Ofelo advierte del peligro de ir de un extremo a otro, afirmando que debe evitarse también la frugalidad rayana en el ascetismo, característica del discurso estoico y cercana también a la que veíamos en Leónidas en relación al longevo Clitón (sat. 2.2.53-55: sordidus a tenui victu distabat Ofello / iudice: nam frustra uitium uitaueris illud / si te alio prauum detorseris). Los argumentos que utiliza Ofelo son que ‘el hambre’ es el condimento que hace realmente sabrosos a los platos y no el refinamiento gastronómico, y que las costumbres culinarias demasiado lujosas de la ciudad están sometidas a algo tan irracional como las modas. Esta argumentación está presente en autores de distinta ‘ideología’. El primer argumento, que ocupa los versos 8-22 está presente en otros autores inmediatamente anteriores a Horacio como Varrón (logist. 18 Riese) y Cicerón; éste último acude a ejemplos de la tradición socrática, como el exemplum del tirano Dionisio y un plato espartano (Tusc. 5.98.4; cf. 5.90, atribuido a Anacarsis). El segundo argumento es la aplicación a lo culinario de la κενοδοξία epicúrea (sent. 30): al ‘tú’ ficticio de esta diatriba se le acusa por dejarse atrapar por el aspecto exterior de las cosas, en este caso, de los alimentos (sat. 2.2.25: corruptus uanis rerum; 35: ducit te species); Ofelo pone también en duda la capacidad real por parte de los comensales de este tipo de banquetes suntuosos de distinguir, por ejemplo, entre la lubina del Tíber (especialmente apreciada, ya en Lucil. 1174-76 M.) y la de alta mar (vv. 31-33). En esta sección de la sátira, Ofelo acude, de hecho, a los alimentos que suelen preciarse en la poesía gastronómica: además de la citada lubina, el pavo (que es más apreciado que la gallina sólo por su aspecto exterior), el salmonete, el rodaballo, el esturión… Sin embargo, la argumentación de Ofelo se basa esencialmente en los postulados epicúreos. Como ha observado Armstrong, los puntos básicos de dicha argumentación siguen de manera cuidadosa un pasaje de Epicuro (la Epístola a Meneceo, 128-131): 1) pan y agua son alimentos que proporcionan placer si el cuerpo los necesita (vv. 9-21); 2) acostumbrarse a una alimentación frugal es saludable (vv. 71-77 y 80-81); 3) la alimentación frugal nos pone en mejor cho (cf. Hor. sat. 1.1.24-26). Las diatribas de Bión, como las de Crates, no se caracterizaban por el carácter agrio de las del fundador de la escuela, Diógenes el Cínico. Naturalmente, la principal influencia de Bión es sólo vagamente formal y de tono, no debe buscarse en los contenidos concretos. Sobre este aspecto, vid. Anderson 1963, 17 y MAguinness 1976, 170 (sobre cómo debe entenderse su eclecticismo). Nuestro conocimiento de hecho de la diatriba se basa en las reelaboraciones de Teles, cf. fuentes gonzález 1998. 18. Cf. flintoff 1973.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 107 disposición para disfrutar de forma ocasional de una comida más lujosa (vv. 82-88); 4) el acostumbrarse a una alimentación frugal nos hace menos vulnerables a futuros golpes de la Fortuna (vv. 107-134)19
En la parte propositiva de la sátira, la que aparentemente no está en boca directamente de Ofelo, Horacio usa el tono didáctico para presentar la alimentación propia de un estilo de vida sencillo en términos genéricos, sin dar un listado ‘a lo frugal’ como réplica al catálogo de exquisiteces lujosas. Pero al final de la sátira, y para dar autoridad a su discurso, Horacio ofrece una estampa de la vida del tal Ofelo, en concreto de la comida que le bastaba, en días normales y en días festivos (114-122):
Videas metato in agello cum pecore et gnatis fortem mercede colonum, 115 ‘Non ego’ narrantem ‘temere edi luce profesta quicquam praeter holus fumosae cum pede pernae.
Ac mihi seu longum post tempus venerat hospes sive operum vacuo gratus conviva per imbrem vicinus, bene erat non piscibus urbe petitis, 120 sed pullo atque haedo; tum pensilis uva secundas et nux ornabat mensas cum duplice ficu.
La descripción del modo de vida de Ofelo sigue la forma del motivo del tenuis victus. Convertido en colono a sueldo (mercede colonum), subraya que su dieta diaria se basa en nada más que «verdura y un trocito de tocino» (holus fumosae cum pede pernae); alude, para negarla, a la costumbre de las cenae urbanas, basadas en pescado: «si después de algún tiempo tenía un invitado o, al no poder trabajar por la lluvia, me acompañaba un vecino, nos conformábamos con pollo y cabrito, sin necesidad de pescado comprado en la ciudad (vv. 118-121)». Vemos, en efecto, que si se aleja de los excesos propios de los convites urbanos, no llega al ascetismo de Valerio Catón o de Clitón: mientras que el primero sólo tenía, de postre, dos racimos de uvas, Ofelo puede ofrecer además nueces e higos (vv- 121-222). Aquí el motivo no es sólo objeto de elaboración artística, sino que está usado también en relación al contenido moral del mismo. Pero, por otro lado, la posible adhesión del autor queda sabiamente matizada por el arte de Horacio: si bien la viñeta se sitúa en el punto álgido de la sátira y parece escrita para suscitar la empatía del lector, el poeta deja claro que no es él mismo el autor de la descripción, sino que es lo que al propio Ofelo le gustaba contar de sí mismo: narrantem, v. 11620 .
19. ArMstrong 2014, 104-105. El autor recuerda también el hecho de que el filósofo recomendaba la memorización, entre otras pequeñas obras, de esta carta. Este hecho tiene especial relevancia a la hora de valorar la ‘validez’ filosófica del pasaje horaciano, como veremos más adelante.
20. Una de las dificultades de esta sátira, clave para interpretar el tono de la misma, consiste en determinar claramente cuál es la relación entre el personaje de Ofelo y Horacio (¿Es
Adolfo EgeaEl pasaje contiene, además, una pequeña innovación romana en el tratamiento de este motivo: mientras que en los precedentes griegos la tenuitas de victus parece subrayarse por la ausencia de carne (las proteínas las aporta sólo el queso), estableciéndose así un vínculo más evidente con el origen filosófico del mismo, en el mundo romano nunca falta perna o alguna pieza de carne similar, con lo que el motivo se hace también apto para representar la tradición romana antigua, anterior a la irrupción del lujo en Roma21 En cuanto a la sátira de Cacio (2.4) 22, hemos argumentado en otro trabajo que difícilmente puede considerarse una invitación a llevar una vida frugal: en este caso, el objeto de la sátira es más bien la crítica de los que, más que llevar una vida de acuerdo con determinada escuela filosófica, sucumben, por moda, a los aspectos más superficiales de ésta. Ello resulta evidente, en primer lugar por el procedimiento de distanciamiento dramático que usa Horacio y que en la sátira 2.4 es total: todo un poema filosófico puesto en boca de otra persona, con una hábil presentación (imitada de los diálogos platónicos) destinada a crear la expectativa de un discurso filosófico que se ve frustrada en el primer verso del discurso propiamente dicho (longa quibus facies ovis erit, illa memento, / ut suci melioris et ut magis alba rotundis, vv. 11-12); en segundo lugar por la absurda sutilidad de sus preceptos y el modo como los transmite, utilizando términos filosóficos como si la manera de matar una gallina para un invitado repentino fuera algo digno de estudio filosófico.
Juvenal
El motivo del tenuis victus está presente también en el principal satírico de época imperial, Juvenal. El tema de su sátira 11 es, en términos generales, la mesura: noscenda est mensura sui spectandaque rebus in summis minimisque (vv. 35-36)23. En concreto, la necesidad de mesura en lo relativo a la comida. En la primera parte de la sátira el dardo del poeta se dirige especialmente a los pobres que incurren en el exceso de adquirir manjares que están fuera de su alcance por aparentar, hasta el punto de acabar en las arenas del
Ofelo un trasunto de Horacio? ¿Debemos entender que Ofelo es un personaje totalmente independiente? ¿Era una persona real conocida por Horacio?), vid rudd 1966, 171-2 y courtney 2013, 134. freudenburg 2001, 110 señala las semejanzas del inicio de 2.2 con los diálogos de Platón, en los que frecuentemente se transmite el discurso de otro, y afirma que es una declaración explícita que subraya que los discursos satíricos que vienen a continuación no son suyos, poniendo en práctica lo que debate en la sátira programática 2.1: ¿cómo ser un Lucilio en esta nueva época?
21. He aquí también la diferencia entre el tenuis victus que ofrece Hécale a Teseo y el que ofrecen Filemón y Baucis a Júpiter y Mercurio en las Metamorfosis de Ovidio.
22. Aunque algunos estudiosos toman el contenido de la sátira como algo serio (el comentario de leJAy a las Sátiras, o bien lAbAte 1981, 31), predomina la opinión de que el personaje es más bien objeto de burla. Cf. sAint-denis 1964, 32 n. 1; fedeli 1994, 650-651, y 1993; scuotto 1995; clAssen 1978; rudd 1966, 212.
23. Uno de los problemas debatidos por la filología es la unidad temática de esta composición, cf. brAcci 2014, 3-9.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 109
anfiteatro para saldar las deudas contraídas, pero también a los ricos que se arruinan por el mismo motivo y deben huir de Roma, acosados por los acreedores. Juvenal presenta, frente a estos excesos que contravienen el γνῶθι σεαυτόν apolíneo (v. 27), un modelo de cena frugal. Y no lo hace mediante una descripción teórica o usando, como Horacio, un personaje, sino que pone de manifiesto su propio ejemplo a través de la invitación (que ya ha sido aceptada) a Pérsico.
En la sátira 5, que cierra el primer libro, Juvenal había compuesto una cena como las que critica en la sátira 11, algo que se había convertido, desde Lucilio y Horacio en tema habitual del género. En el caso de Juvenal, el autor acude a un procedimiento del que también había hecho uso Marcial en numerosos epigramas y que era, al parecer, no infrecuente en las cenae reales de la época imperial: se caracterizaban éstas por el hecho de que el patrón disfrutaba de un menú exquisito mientras que ofrecía a sus clientes y/o parásitos un menú alternativo formado por platos de menor calidad24. En la ‘cena Nasidieni’ (sat. 2.8), Horacio utilizaba la forma de la cena o δεῖπνον satírico para tocar un tema político relevante: la transformación de las elites romanas que ya habían dejado de funcionar según la antigua jerarquía romana. Mecenas, que no ostentaba ninguna magistratura, era poderoso por su proximidad a Augusto. En consecuencia, el acceso a la elite del poder ya no se efectúa mediante el cursus honorum sino mediante la entrada al círculo de favoritos, que es lo que quiere conseguir el tal Nasidieno invitando (e intentando impresionar, con poco éxito, a Mecenas) 25 . En la sátira de Trebio (sat. 5), Juvenal pone de manifiesto la relación cliente-patrón, que, si bien se trataba de una institución muy anterior a la época del poeta, sí que había adquirido entonces no sólo gran relevancia socio-política, sino unas características que en algunos aspectos podrían definirse de semifeudales. Además, muchos poetas tuvieron que sufrir los excesos de tal institución si querían ejercer su vocación, como es el caso de Marcial. Para la presentación de estos ‘dobles menús’, el epigrama de Marcial era un instrumento óptimo por las propias características de esta forma poética, que permite presentar el plato ‘de alto standing’ en el hexámetro y seguirlo por su reverso cutre en el pentámetro26. Así ocurre en el epigrama 3.60: tras el dístico de presentación, el poeta opone las ostras con que se deleita el anfitrión a los mejillones que ofrece a sus comensales (ostrea tu sumis stagno saturata Lucrino / sugitur inciso mitulus ore mihi, vv. 3-4), y sigue con otras parejas de alimentos (boletus ‘setas’ normales y corrientes - fungi suilli ‘boletus’; rhombus ‘rodaballo’ - sparulus ‘raspallón’ o similar; turtur ‘tórtola’ - pica ‘urraca’). En la sátira 5 de Juvenal se retoma este procedimiento pero, a diferencia de Marcial y de la práctica habitual en los satíricos anteriores, en los
24. AdAMietz 1972, 85-96; Morford 1977, 221-6; gowers 1993, 211-2.
25. feichtinger 2014, 133-145.
26. Cf. brAund 1996, 306: «Juvenal develops this idea, which lends itself to Martial’s treatment thanks to the antithetical tendency of the epigram, into a bravura piece which portrays the breakdown of society in terms of alienation».
Adolfo Egeaque el anfitrión propiamente era el objeto de la sátira, Juvenal incide más bien en el aspecto embrutecedor y humillante de la institución clientelar (lo cual se expresa de manera clara ya en los versos 12-15: primo fige loco, quod tu discumbere iussus / mercedem solidam ueterum capis officiorum). Es más: ataca directamente a los que se prestan a vivir en ese estado de parasitismo, quienes creyéndose libres, invitados por un rey ( tu tibi liber homo et regis conuiua uideris), no hacen más que representar la comedia que quiere ver su patrón (nam quae comoedia, mimus / quis melior plorante gula?). Éstos acaban siendo en nada diferentes de un esclavo a las órdenes de su amo. Ya no se trata de una sátira del anfitrión, sino de los clientes que se prestan a su juego27 .
Así pues, el tenuis victus que Juvenal presenta como propio en la invitación a Pérsico de la sátira 11, tiene también un sentido socio-político, pues la falta de κοινωνία y amicitia en las cenas entre patronos y clientes no es un problema exclusivo de la celebración del banquete propiamente dicho, sino que es un reflejo de la estructura general de la sociedad. Por otra parte, el hecho de que el tenuis victus que presenta Juvenal sea el suyo propio tiene una clara función: evitar que alguien piense que su alabanza de la comida sencilla sea una simple pose (o un puro símbolo poético) y hacer de Pérsico un testigo de que ello no es así (vv. 56-59):
experiere hodie numquid pulcherrima dictu, Persice, non praestem uita et moribus et re, si laudem siliquas occultus ganeo, pultes coram aliis dictem puero sed in aure placentas.
Recordemos que de Ofelo nos teníamos que fiar, porque su frugal dieta era lo que él narrabat, de modo que la autoridad de lo que dice depende del valor que otorguemos al personaje, algo, como hemos visto antes, no del todo resuelto en la sátira. Por otra parte, si aceptamos que Ofelo representa, de alguna manera, el pensamiento del propio Horacio, el artificio literario permite a Horacio rebajar la intensidad de su mensaje moral, relativizando su capacidad de seguirlo y evitando quedar como un moralista en exceso rigorista. En cuanto al ‘menú’ propiamente dicho, el de Juvenal sí comparte con el de Ofelo el hecho de que evita los manjares lujosos de la ciudad (básicamente los obsonia de pescado); se subraya, sobre todo, que no ha tenido la necesidad de comprar los alimentos en la ciudad (nullis ornata macellis, v. 64) y que éstos son, como diríamos hoy, de proximidad. En su aspecto formal, la presentación de los alimentos es similar a la práctica de la poesía gastronómica griega, que había sido adaptada a la sátira por sus predecesores, en especial Varrón y Horacio ( sat. 1.1.65-76). En cuanto a los productos que se ofrecen en concreto, el pasaje de Juvenal guarda una estrecha similitud con
27. brAund 1996, 308. Sobre las implicaciones sociales de la sátira 5, relativas a la posición del poeta satírico, cf. freudenburg 2001, 265.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 111
el epigrama 5.78 de Marcial, que sigue el formato de ‘poema de invitación’ imitado de Catulo (está en hendecasílabos falecios)28. He aquí el pasaje de la sátira de Juvenal en el que se describen los alimentos que ofrecerá a Pérsico (5.65-76):
De Tiburtino ueniet pinguissimus agro haedulus et toto grege mollior, inscius herbae necdum ausus uirgas humilis mordere salicti, qui plus lactis habet quam sanguinis, et montani asparagi, posito quos legit uilica fuso. grandia praeterea tortoque calentia feno oua adsunt ipsis cum matribus, et seruatae parte anni quales fuerant in uitibus uuae, Signinum Syriumque pirum, de corbibus isdem aemula Picenis et odoris mala recentis nec metuenda tibi, siccatum frigore postquam autumnum et crudi posuere pericula suci.
En efecto, los alimentos van acompañados de un ‘topónimo’, pero éste no es el de una ciudad costera afamada por la captura de tal o cual pescado, sino que subraya la proximidad y rusticidad del producto. En primer lugar, un cabrito lechal (haedulus … inscius herbae) procedente del campo tiburtino. En la expresión de Tiburtino ueniet … agro, además de la indicación de la ‘denominación de origen’, el poeta emplea el verbo ueniet, que vagamente recuerda a la manera como Matrón y poetas similares describen los manjares ‘presentándose’ en el banquete. Como el poeta establece la dicotomía ciudad–campo, los términos que se usan para indicar que el cabrito es lechal dan al pasaje un cierto aire bucólico: inscius herbae / necdum ausus uirgas humilis mordere salicti / qui plus lactis habet quam sanguinis («que no conoce la hierba ni se ha atrevido a morder las ramitas de un pequeño sauce» 29). Los espárragos son montani (cf. Plin. nat. 19.145), es decir, no cultivados para Roma (cf. Hor. sat. 2.4.15-16: cole suburbano qui siccis crevit in agris / dulcior: inriguo nihil est elutius horto). El menú contiene también huevos recién puestos, aún calientes (grandia praeterea tortoque calentia feno / oua adsunt ipsis cum matribus), e, igual que en la dieta de Valerio Catón, uvas30 Las peras que le ofrecerá son de Sigino (Lacio) y de Siria (pero esto no es un exotismo: no se refiere a que son importadas de Siria sino a que son de un tipo, originario de Siria, pero ya aclimatado en Roma); las manzanas, también recién cogidas, es decir, locales, pero por su sabor rivales dignas de las afa-
28. Para las correspondencias formales entre este poema y el pasaje de Juvenal, cf. brAcci 2014, 9-15.
29. Cf. Verg. ecl. 1.54; georg. 2.415 (el sauce); ecl. 2.20 (niuei quam lactis abundans, en relación al ganado); georg. 3.394 (lactis amor).
30. Cf. Plin. nat. 14.16: «Durant aliae [sc. uvae] per hiemes, pensili concamaratae nodo.»; Plin. nat. 15.62-7: el mismo procedimiento y otros similares para la uva y otras frutas.
Adolfo Egeamadas manzanas picenas31. El resultado de esta mezcla de alimentos campestres, que no son importados e incluso que han sido recién cogidos del árbol (o de la gallina) es la de una especie de hedyphagetica ‘eco’ y de kilómetro cero, si comparamos el listado con los que aparecen en Arquéstrato y sus imitadores (aunque éstos lo imiten con intención satírica, como Varrón en su Menipea Περὶ ἐδεσμάτων). Así pues, el motivo del tenuis victus se adapta al objeto de la sátira. Las resonancias rústicas de este motivo pasan a un primer plano porque está inserto en un contexto de oposición al lujo de la ciudad, y no primordialmente como símbolo filosófico de cierto tenor de vida cercano a un ‘ascetismo frugal’. De ahí el aire vagamente bucólico que recuerda, no sólo a las Bucólicas y Geórgicas virgilianas, sino también al Ofelo horaciano, en el que la dicotomía campo–ciudad era también un elemento importante, o incluso a algunas de las elegías más campestres de Tibulo. A pesar de la similitud en el mensaje entre la sátira 2.2 de Horacio y la sátira 11 de Juvenal, ha sido puesto de relieve el mayor carácter filosófico de la primera32. Podría considerarse que, a diferencia o en mayor medida que en Horacio, es el moralismo romano lo que da autoridad a la defensa de su tenuis victus, y ello es lo que motiva precisamente el pasaje que sigue inmediatamente a la descripción del ‘menú’: haec olim nostri iam luxuriosa senatus cena fuit (vv. 77-8). Pero en ambos casos la problemática no es muy distinta: si resulta arriesgado intentar descifrar los motivos de ascendencia ‘filosófica’ que, como hemos visto, se convierten en objeto de elaboración artística a partir de época helenística, debemos tomar la misma precaución en el caso de los motivos relacionados con el mos maiorum. Además, éstos aparecen, desde los inicios mismos de la literatura romana, mezclados con los primeros. Sin embargo, esta precaución no tiene necesariamente la misma validez en todos los géneros literarios. Esto es especialmente relevante en la sátira, pues el objetivo moral que persigue, por mucho que esta idea nos sea muy ajena, impide despojar del todo a estos motivos de su valor filosófico y ético originario33 .
En el caso que nos ocupa, puede decirse que el motivo del tenuis victus es, en efecto, objeto de reelaboración artística, pero que la elección de tal motivo
31. Cf. Macrob. sat . 3.19.6 ( pirum Siginium ), Verg. georg . 2.88 ( pirum Syrium ), Hor. sat . 2.4.70 (malum Picenum). En cuanto a los versos 75-76, se refiere a la creencia que tenían los antiguos de que la manzana era más saludable pasado un tiempo de haber sido cogida, porque sus ácidos se habrían mitigado, cf. Galen. alim. facult. 2.21.6; Plin. nat. 23.100; Diosc. 1.115.
32. brAcci 2014, 24 y ArMstrong 2014, 124.
33. Paralela a esta problemática corre la cuestión de la persona satírica. A imitación de lo que sucede en otros géneros literarios (por ejemplo el lírico), se ha venido considerando la persona del poeta satírico como un constructo literario que no responde al pensamiento del autor. Si bien este tipo de aproximaciones aportaron el beneficio del abandono de un biografismo extremo, así como el intento de búsqueda detallada de un programa filosófico en las sátiras a partir del hallazgo de las fuentes precisas para cada motivo, en las últimas décadas ha sido rebatida dicha aproximación, principalmente por anacrónica y del todo ajena a la mentalidad antigua. Ver discusión en brAcci 2014, 30-31 y, sobre todo, MAyer 2003.
Juvenal, Horacio y el uso de contenidos culinarios en la sátira 113
y su uso en las respectivas sátiras de Horacio y de Juvenal viene determinada por el prestigio filosófico-moral que lo asocia a determinadas corrientes filosóficas. Una parte de su validez responde, además, al hecho de que la idea que representa no es reducible a una sola escuela filosófica sino que se ajusta a varias corrientes e, incluso, al código moral que asumían los romanos en el marco de la tradición y el mos maiorum. Ello facilita el empleo del motivo del tenuis victus en contextos más eclécticos, o donde el tono ético general no se circunscribe al dogma de una escuela concreta, que suele ser lo habitual en la poesía en general, y en la sátira en particular. La elaboración artística permite, precisamente, adaptar el motivo al propósito con que cada satírico lo usa. En el caso de Horacio, con todo, su uso es coherente con la escuela filosofía epicúrea, de la que es seguidor. Prueba de ello es el hecho de que el tópico del pasaje analizado ilustre una sección que puede calificarse de ‘diatriba epicúrea’ por los contactos que tiene, en la articulación de su argumentación, con el fragmento citado de la Epístola a Meneceo. Asimismo, el pasaje forma parte de una colección de poemas, las Sátiras, que contienen una gran abundancia de alusiones y referencias a epicúreos como Lucrecio, Filodemo, así como al propio Epicuro. En cambio, en Juvenal, si bien el prestigio filosófico del tópico motiva su uso por parte del poeta, no puede decirse que éste sea usado de manera coherente: la persona del satírico hace uso según convenga de representaciones procedentes de distintas escuelas filosóficas. En eso también se diferencia de otro satírico de época imperial, Persio, en cuya obra el estoicismo apoya de manera más sustanciosa el discurso satírico34. Finalmente, en el caso de Furio Bibáculo, su uso irónico y, sobre todo, el que se ajuste de manera exagerada, por no decir hiperbólica, al motivo original, tal como este se encuentra, por ejemplo, en los epigramas de Leónidas, indica que nos hallamos ante una reelaboración preeminentemente artística, en la que la sapientia (v. 5) aparece como medio para acentuar el paradoxon del mensaje.
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Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 117-146
DOI: 10.2436/20.2501.01.87
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ?
Isabelle GassinoUniversité
de Rouen Normandie- ERIACAbstrAct
Dialogue, and more specifically lucianic dialogue, as a literary form, has been a renewed object of study for scholars for several years. However, the Dialogues of the Courtesans do not seem to be part of this process, as if they didn’t share the features of the other works of Lucian.
This paper focuses on those dialogues as a whole and intend to emphasize their distinctive characteristics: can we consider them as ‘lucianic’ — in other words, do they show both ‘serious’ and ‘comic’ aspects which are the very definition of comic dialogue? The answer is rather positive: even if the Dialogues of the courtesans have many to do with comedy (especially with Nea), as shown long ago by Ph.-E. Legrand, their main feature may be the constant change of standpoint they use — a process we chose to call ‘decentring’.
Keywords: Lucian, dialogue, comedy, standpoint, decentring.
Comme le sait pertinemment tout lecteur des déclarations faites par le personnage du Syrien dans la Double accusation, l’auteur Lucien revendique hautement l’invention d’une nouvelle forme de dialogue, le dialogue comique, caractérisé par une association d’éléments hétérogènes qui le fait comparer, dans un autre opuscule1, à un hippocentaure. S’il n’est certes pas nouveau d’aborder le dialogue lucianesque comme une forme hybride associant sérieux et comique — le spoudogeloion —, de ma-
1. Cf. Tu es un Prométhée dans tes discours 5. Sur l’analyse de détail des passages relatifs à l’invention du dialogue comique par Lucien, voir notamment sAïd 2015, billAult 2017 et briAnd 2017.
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Isabelle Gassinonière générale, le dialogue comme forme littéraire fait l’objet, depuis quelques années, d’un regain d’intérêt de la part des universitaires2, et notre auteur se trouve même au croisement de plusieurs thèmes de recherche, puisque sa trouvaille relève également d’un autre procédé littéraire actuellement abondamment étudié: le mélange des genres3 . Cependant, les Dialogues des Courtisanes ont, semble-t-il, toujours été traités par la critique comme un cas particulier de dialogue chez Lucien; en effet, s’ils peuvent, sur des critères formels externes, se trouver associés aux autres «dialogues mineurs» formant collection (Dialogues des dieux, Dialogues marins, Dialogues des morts), ils sont parfois considérés comme un ensemble autonome, en raison de leurs liens étroits avec la comédie 4 : à cet égard, l’étude ancienne mais fondatrice de Philippe-Ernest Legrand, «Les Dialogues des Courtisanes comparés avec la comédie» semble avoir joué un rôle déterminant dans la réception de cet ensemble de dialogues, au point d’occulter ce qu’ils pouvaient avoir de spécifiquement lucianesque. Or, il se trouve que les Dialogues des Courtisanes dans leur ensemble n’ont, semble-t-il5, jamais fait l’objet d’aucune réflexion spécifique: faut-il y voir une simple coïncidence, ou bien le signe que, de fait, ils sont considérés comme occupant une place à part au sein de la production de Lucien? Autre fait remarquable: si certains dialogues (notamment le cinquième) ont été étudiés en détail6, ils ont surtout retenu l’attention des historiens et anthropologues de l’Antiquité intéressés par les questions de genre. Nous nous proposons donc d’étudier l’ensemble de ces dialogues d’un point de vue littéraire, et de les aborder comme un tout; notre hypothèse de départ est en effet qu’ils constituent un ensemble cohérent, et non une collection de textes simplement unis par une thématique, ou des personnages, communs. Tenant pour acquis que Lucien travaille sur un matériau largement issu de la comédie, notre objectif sera d’examiner ce qu’ils ont de spécifiquement lucianesque et en particulier de voir s’ils correspondent à la définition du dialogue lucianesque, mêlant sérieux et comique. Les points communs entre les Dialogues des Courtisanes et la comédie ont en effet été largement mis en lumière par Ph.-E. Legrand et nous ne reviendrons pas sur cette question: les
2. On peut citer, outre les articles de J.-P. Aygon 2002 et P. chiron 2003, les recherches récemment conduites par le groupe Dialogos de l’université de Clermont-Ferrand et les travaux de s dubel et s gottelAnd (edd.) 2015, M. briAnd; s dubel; A. eissen (edd.) 2017, ou encore ceux de s goldhill 2008, s föllinger et g. M. Müller 2013 et d’A. cAMeron 2014. Signalons encore l’étude d’A.-i. Peterson 2010.
3. Cf. A. cAMerotto 1998; é. MArquis; A. billAult (edd.) 2017; M. deriu 2017.
4. Dans la classification des œuvres de Lucien qu’il propose, croiset 1882 (ch. II) range les Dialogues des Courtisanes dans un ensemble distinct des trois autres séries de dialogues, tous marqués, selon lui, par l’influence de Ménippe; les Dialogues des Courtisanes font ainsi partie du groupe d’opuscules traduisant les premiers essais de Lucien dans un genre nouveau — en l’occurrence, la comédie moyenne et nouvelle.
5. Toutefois, deux études récentes n’ont pu être consultées: e hArtMAnn 2006 et y nowAK 2007.
6. Cf. gilhuly 2006 et 2007, ainsi que boehringer 2010 qui mentionne des travaux antérieurs citant le dialogue V.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 119 personnages (y compris leurs noms), les situations, la matière en général est la même que dans la comédie nouvelle. Néanmoins, les dialogues de Lucien opèrent un changement fondamental: alors que les personnages de courtisanes sont secondaires dans la comédie, ils deviennent centraux chez notre auteur, ce qui induit nécessairement un changement de point de vue dont il faudra mesurer les implications à la fois sur le fond du dialogue (les personnages, les sujets abordés) et aussi, peut-être, sur la forme de celui-ci. Les Dialogues des Courtisanes réalisent l’alliance de deux éléments profondément hétérogènes: une forme sérieuse, élevée, héritée de la philosophie, et les personnages de basse extraction, peu intégrés à la société — que, d’une certaine façon, leur mode de vie remet en cause — que sont les courtisanes7 . En effet, dans le contexte classique, le dialogue (nécessairement philosophique) est le domaine des hommes qui discutent de thèmes philosophiques abstraits; au contraire, chez Lucien, le dialogue rapporte des discussions entre des femmes socialement marginalisées par le commerce qu’elles font de leur corps. Si la place des courtisanes au sein de la société suffit à en faire des personnages de comédie — sans qu’elles soient nécessairement, pour autant, des personnages qui font rire — le sérieux, lui, est plus difficile à saisir de prime abord: l’erreur serait, à notre avis, de voir dans les aperçus que proposent les dialogues sur la vie des courtisanes un tableau ‘social’, ou ‘réaliste’, des conditions de vie d’un groupe social défavorisé. On a pu, par le passé, faire de Lucien un défenseur des faibles et des nécessiteux, conscient des problèmes sociaux de son époque8, lecture qui ne résiste pas à une analyse non prévenue. S’il est vrai que les Dialogues des Courtisanes peuvent, ici et là, faire allusion aux difficultés économiques de celles-ci9, ils n’en font jamais leur sujet principal, pas plus que le propos ne s’appesantit sur les aspects les plus crus du métier. On n’a pas non plus de plaintes relatives à la nécessité d’exercer cette activité10. Au fond, ces dialogues traitent de questions assez peu attendues: on imaginerait volontiers des échanges scabreux, des confidences croustillantes sur des situations vécues par les courtisanes; mais au contraire, comme on n’a pas manqué de le faire remarquer11, il n’est pratiquement jamais question de sexe dans ces dialogues; le seul qui en parle est le dialogue V — et encore celui-ci évoque-t-il l’exact opposé d’une scène entre une courtisane et son client, c’est-à-dire un acte qui n’entre pas dans un cadre marchand, et qui se déroule entre femmes.
7. Sur la courtisane femme à la fois marginale et incarnation de l’inversion des valeurs civiques, cf. Mossé 1983, 76-77.
8. Cf. Peretti 1946, ch. III.
9. L’allusion la plus claire se trouve dans le dialogue VI, où sa mère explique à Korinna qu’elle doit être courtisane pour assurer leur subsistance.
10. À cet égard, la jeune Korinna du dialogue VI constitue une exception notable; encore ne fait-elle que protester assez faiblement devant sa mère.
11. Cf. gilhuly 2000, boehringer 2010.
Isabelle GassinoCommençons par voir au fil du texte de quoi traitent ces dialogues, et comment ils le font, avant de tenter une première synthèse.
Le dialogue I constitue, à différents égards, une introduction progressive à la collection. Considérons par exemple la première réplique:
Thaïs, le soldat, l’Acarnanien, qui était autrefois avec Abrotonon et qui est tombé amoureux de moi ensuite, je veux dire celui qui avait de la pourpre à ses vêtements, avec un manteau militaire — est-ce que tu vois qui c’est, ou bien est-ce que tu l’as oublié12?
Ce début in medias res pourrait être tiré d’une banale conversation entre deux femmes à propos de l’amant de l’une d’elles: ἠράσθη ἐμοῦ, ‘il est tombé amoureux de moi’. Dans l’ensemble des quinze dialogues, l’emploi du verbe ἐράω et d’autres mots forgés sur la même racine entretient l’ambiguïté sur le statut des hommes qui fréquentent les courtisanes et sur leurs sentiments réciproques: en effet, ἐράω signifie bien ‘être amoureux, désirer’ par opposition à φιλέω, mais peut aussi être employé sans connotation sexuelle. Dans le contexte qui nous occupe, il peut donc renvoyer à l’activité des courtisanes ou à un attachement plus durable. Dans ce début de dialogue, le lecteur/auditeur13 attentif qui est certainement celui de Lucien trouve au fil du texte des indices du statut réel des personnages: le nom de Thaïs, renvoyant à la célèbre courtisane du IVe s. et au personnage créé par Ménandre14, en est un; l’allusion à un banquet contenue dans la réponse de Thaïs (συνέπιε μεθ’ ἡμῶν πέρυσιν ἐν τοῖς Ἁλώοις, ‘il était à un banquet avec nous l’année dernière à la fête des Haloa’) en est un autre; mais ce n’est que quelques lignes plus bas, à la moitié du dialogue environ, que le doute est levé, lorsque Thaïs parle de ‘nous, les courtisanes’ (ἡμῶν τῶν ἑταιρῶν ). Une certaine ambiguïté est entretenue durant un moment, annonçant celle qui ressurgira ultérieurement: tantôt les courtisanes se cantonnent au monde qui est le leur, tantôt elles rêvent de s’en affranchir en se mariant.
12. Le texte grec des Dialogues des Courtisanes cité ici est celui de l’édition McLeod (Oxford Classical Texts, 1987). Les traductions nous sont propres.
13. Considérant que les textes de Lucien devaient faire l’objet d’une lecture publique, nous tentons de prendre en compte à la fois l’effet produit sur le lecteur d’aujourd’hui mais aussi sur le lecteur et l’auditeur contemporains de Lucien; c’est la raison pour laquelle nous parlons généralement de «lecteur/auditeur», voire de «lecteur/spectateur» lorsque le dialogue met en scène une action de type théâtral.
14. La Thaïs de Ménandre était suffisamment célèbre pour que Properce, par exemple, la cite comme modèle (IV, 5,43).
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 121
Différents thèmes qui vont être traités dans les dialogues suivants sont évoqués dès celui-ci:
• la jalousie des courtisanes entre elles, quand un client passe de l’une à l’autre;
• la courtisane laide;
• le recours à la sorcellerie pour capter l’attachement d’un client;
• l’aspect économique de la relation avec le client: la dernière réplique ‘toi aussi, tu en exploiteras un autre’ fait comprendre que si Glykérion déplore la perte d’un client, c’est sans doute autant pour des raisons financières que sentimentales, même si l’entrée en matière laissait penser le contraire (ἠράσθη ἐμοῦ).
Ce premier dialogue met donc en place des personnages et des situations qui seront récurrentes, et que la comédie ne met pas en lumière: Glykérion porte en elle les préoccupations contradictoires que les autres courtisanes manifestent les unes après les autres, tiraillée qu’elle est entre des considérations proprement affectives— peut-être était-elle réellement attachée à son client, mais elle est certainement humiliée qu’il l’ait quittée pour une autre — et des motifs économiques, ce qui l’amène à tenir des propos eux-mêmes contradictoires, en condamnant des pratiques qui sont néanmoins aussi les siennes. Ainsi, lorsque Thaïs, pour finir, rassure Glykérion en lui disant qu’elle ‘exploitera’ (τρυγήσεις) le soldat, elle ne fait que reprendre un mot de Glykérion, qui reprochait à sa rivale, précisément, d’‘exploiter’ ( τρυγῶσιν ) cet homme, et souligne ainsi la possible mauvaise foi de Glykérion.
Le dialogue II joue également sur les contrastes et emprunte à des genres différents: il expose un quiproquo amoureux, typique de la comédie, mais dans un style exempt de toute légèreté. Il s’ouvre par une assez longue tirade de Myrtion qui jure fidélité à Pamphile alors même qu’elle croit avoir découvert l’infidélité de celui-ci. La situation apparaît d’autant plus pathétique que Pamphile a juré son amour à Myrtion, et que celle-ci est enceinte; la précision ‘de huit mois’ force encore le trait: Myrtion semble être d’autant plus en position de faiblesse15. Myrtion parle d’elle-même à la troisième personne; pour ce qui est de Pamphile, même si elle emploie la deuxième personne pour lui adresser des reproches, elle use occasionnellement de la troisième, produisant une distanciation signifiante, reflet de la séparation redoutée (
épouses une fille qui n’est pas belle; je l’ai vue l’autre jour aux Thesmophories, avec sa mère, sans savoir que ce serait à cause d’elle que je ne verrais plus Pamphile.’)
Mais très vite, le tableau pathétique est gâté par quelques dissonances: ‘ce n’est qu’au prix de ce ventre énorme que j’ai pu acheter ton amour (ἐπριάμην
15. En outre, comme le précise legrAnd 1908, 68, la comédie ne met pas en scène de femme enceinte; celle-ci reste en coulisse, et sa délivrance intervient le jour où l’intrigue se déroule.
τοῦ σοῦ ἔρωτος)’, dit Myrtion, comme si elle instrumentalisait sa grossesse pour piéger Pamphile. Le personnage qu’elle campe ici n’est-il pas qu’une façade ? On aurait alors une fiction dans la fiction qu’est le dialogue. En tout cas, Myrtion apparaît, elle, comme celle qui restera fidèle en toutes circonstances; elle gardera l’enfant, lui donnera le nom de son père — ce qui peut être interprété à la fois comme un hommage et une manière de jeter l’opprobre sur celui qui lui a fait un enfant et l’a abandonnée — et fait état à nouveau de considérations financières, en précisant qu’un enfant est πρᾶγμα ἑταίρᾳ βαρύτατον, ‘une charge très lourde pour une courtisane’. Il est à noter que Myrtion n’émet jamais l’idée que son amant puisse l’épouser: changer de statut social n’est manifestement pas une issue possible pour une courtisane. L’avant-dernière intervention de Pamphile, qui rapporte une conversation avec sa mère, le montre: Ὦ Π ά μφιλε,
‘Pamphile, le fils de notre voisin Aristénète, Charmide, qui a le même âge que toi, voilà qu’il se marie et se range; et toi, jusqu’à quand fréquenteras-tu une courtisane?’: le choix est bien entre se marier et fréquenter une courtisane, mais en épouser une n’est pas une solution envisageable.
Le ton change à la fin de la tirade: Myrtion parle comme une femme jalouse, elle dénigre la beauté de sa rivale supposée — et surtout, elle suppose que Pamphile a vu ‘plus Philon, son père’ (μᾶλλον
πατέρα), c’est-à-dire, en l’occurrence, qui il est, et quels moyens il a: elle suppose que la motivation qu’a Pamphile pour se marier est, elle aussi, d’ordre économique!
Pamphile réfute catégoriquement: il ne peut épouser celle que croit Myrtion, car leurs pères respectifs sont en procès pour une dette impayée. L’argent, visiblement, est un obstacle à l’amour, et pas uniquement pour les courtisanes. Cependant, Pamphile semble tenir à son enfant, comme le laisse entendre la réplique finale:
‘ je ne serais pas fou au point d’oublier Myrtion, et quand elle attend un enfant de moi, en plus’. Peut-être Myrtion accédera-t-elle au statut de concubine ou de maîtresse? En tout cas, on a un renversement par rapport à la comédie, où le mariage est la conclusion attendue de l’intrigue: ici, c’est la perspective d’un mariage qui est le cœur du problème, comme l’atteste le premier mot du dialogue, adressé par Myrtion à Pamphile sous forme interrogative: Γαμεῖς; ‘ Tu te maries? ’. Tout le dialogue est traversé par un antagonisme entre raisons économiques et sentiments amoureux: tantôt l’absence ou la présence d’argent dicte les alliances, tantôt l’argent semble entacher la pureté d’un sentiment hautement proclamé.
Le dialogue III est marqué par un décalage entre le statut du personnage principal (une courtisane, Philinna) et le langage qu’elle parle: elle raconte à sa mère le traitement que lui a réservé son client Diphilos — qui a fait mine de s’intéresser à une autre courtisane lors d’un banquet — en employant le
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 123
vocabulaire de l’honneur: Philinna dit avoir été victime des ‘outrages’ (ὑβριζομένη §3) de Diphilos, qualifié d’ὑβριστῇ (§2); elle use d’un langage qui est doublement en décalage avec son statut (c’est une femme, et une femme de basse condition). Sa mère la raisonne en lui conseillant de préférer la colère à l’outrage ( Ὀργ ί ζου μ έ ν, μὴ ἀνθύβριζε δ έ : ‘Mets-toi en colère, mais ne lui rends pas la pareille’, §3). Néanmoins, elle a aussi, ponctuellement, un parler plus ambigu, notamment lorsque sa fille lui demande si elle ne devait pas répondre aux provocations de sa rivale et qu’elle répond (§3) : φιλοτιμότερον μὲν, ὦ θύγατερ , ce que nous entendons de deux manières possibles: ou bien la mère fait référence à l’attitude que sa fille a eue et lui en fait reproche (‘c’est une attitude trop fière, ma fille’); ou bien elle reprend ce que sa fille vient de suggérer (aurait-elle dû ne pas réagir ?), auquel cas sa réponse serait ‘c’est une attitude qui serait plus ambitieuse (littéralement)’, ce que nous traduirions par ‘c’est une attitude qui servirait plus tes intérêts’. Dans les deux cas, la mère tente de contenir les mouvements d’humeur de sa fille, afin de ménager le client, mais il est intéressant de voir comment un seul mot peut, dans le contexte, désigner un noble sentiment de fierté ou un intérêt bien compris.
De manière paradoxale, la courtisane a des prétentions à la ‘gloire’, à l’honneur, à des égards. Les conseils donnés par la mère visent à rappeler les nécessités économiques, en engageant sa fille à ravaler sa fierté pour plaire à ses clients et les conserver.
Le dialogue IV fait état d’un cas de jalousie plus complexe que les précédents: cette fois, c’est l’amant qui pense que la courtisane est près de le quitter pour un autre, aussi a-t-il décidé de prendre les devants et d’accepter d’épouser la riche Simichè. La courtisane, Mélitta, décide de le reconquérir.
La situation a ceci d’original, par rapport à d’autres dialogues, que c’est la courtisane qui paraît riche (elle parle de vendre ses manteaux et ses bijoux en or, dans la première réplique) tandis que l’amant semble taraudé par des problèmes d’argent: il est envoyé au Pirée pour recouvrer une dette pour son père, et est sommé par sa famille d’épouser une femme riche.
On assiste ici à un quiproquo en deux temps: Charinos se détourne de Mélitta parce qu’il croit qu’elle en aime un autre, et de son côté il décide d’accepter le mariage avec Simichè, pour des questions d’argent.
Une grande partie du dialogue est consacrée à la description des rites qu’exécute habituellement la sorcière syrienne qui a le pouvoir de faire revenir les amoureux infidèles et à laquelle on envisage d’avoir recours. Ces rites semblent dépourvus de sens et ridicules, mais au moins n’y est-il pas question d’argent: la Syrienne n’exige rien qui coûte cher; c’est peut-être la preuve qu’elle ne cherche pas à tromper son monde, par contraste avec les femmes âpres au gain des dialogues VII et XIV.
Le dialogue V occupe une place particulière dans la collection: c’est en effet le seul qui parle de sexe, et, paradoxalement, de sexe entre femmes! Autre-
Isabelle Gassinoment dit, il traite d’un moment à rebours de ce qui définit une courtisane: non pas celui où elle travaille à donner du plaisir à un autre, mais celui où elle pratique le sexe pour son propre plaisir — ou pour celui de ses amies. Ce texte a fait l’objet d’études spécifiques, notamment celle de K. Gilhuly16 dont nous reprenons ici l’essentiel des conclusions: le dialogue opère un renversement des codes philosophiques et sociétaux, car Klonarion désigne la nouvelle amie de Léaina comme une hetairistria, c’est-à-dire une femme qui a des relations sexuelles avec une autre femme, terme qu’on ne trouve que dans un contexte philosophique, celui du Banquet de Platon, dans le discours d’Aristophane (189c-d). Ainsi est transposé un terme spécifiquement philosophique dans un contexte qui ne l’est pas du tout. Comme nous l’avons souligné d’emblée, la référence à la forme du dialogue philosophique et le renversement du dispositif sur lequel il repose (des hommes discutant de questions philosophiques) est fondatrice du dialogue lucianesque17; mais ici, Lucien va plus loin, en opérant un renversement du renversement. En effet, Mégilla, la femme qui initie Léaina aux pratiques homosexuelles, revendique une identité masculine; d’autre part, en affirmant s’appeler en réalité Mégillos — nom qui est celui de l’interlocuteur spartiate des Lois de Platon et renvoie en particulier au passage où il est question des coutumes sexuelles à Sparte 18 — elle rend l’allusion au dialogue philosophique très claire, et la parodie de celui-ci également. Ce dialogue introduit un autre renversement par rapport aux autres dialogues de la collection: en effet, c’est le seul qui évoque des relations sexuelles, avec comme conséquence inattendue la gêne extrême de la locutrice. En effet, Léaina rougit (ἠρυθρίασας, lui dit Klonarion qui l’interroge sur ses activités avec Mégilla, §1), elle dit éprouver de la honte (αἰσχύνομαι §1) et renonce à donner plus de détails, qualifiant tous les actes de ‘honteux’ (αἰσχρά §4) ou d’‘étranges’ (ἀλλόκοτον §1). On pourrait trouver hors de propos cette pruderie soudaine, mais il est vrai que les autres dialogues n’évoquent jamais les pratiques sexuelles de manière aussi directe ; et on ne sait si ce qui fait rougir Léaina est la description des actes en eux-mêmes ou le fait qu’ils sont, en l’occurrence, pratiqués entre femmes, ce dont il n’est ordinairement jamais question: on n’a aucun témoignage direct de ce genre d’expérience dans le reste de la littérature grecque antérieure et contemporaine. Il n’en demeure pas moins que, malgré l’insistance de Klonarion, avide de détails anatomiques — comment Mégilla peut-elle faire ce que les hommes font aux femmes, si elle n’a pas de phallus ? — Léaina coupe court à la discussion avant d’avoir satisfait sa curiosité. Le dialogue semble éviter, à dessein, d’aborder les questions centrales, sans cesse repoussées, et viser à laisser le
16. Cf. gilhuly 2006.
17. Cf. Bis Acc. 34.
18. Cf. Lois 636b-637b, où l’Athénien soutient devant Mégillos que les coutumes spartiates telles que la gymnastique et les syssities ont entre autres effets de pervertir les plaisirs de l’amour ‘conformes à la nature’ (κατὰ φύσιν) et de favoriser ceux, ‘contre nature’ (παρὰ φύσιν), des mâles entre eux ou des femelles entre elles.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 125
lecteur/auditeur (extra- comme intra-diégétique) sur sa faim: on reconnaît là un processus souvent utilisé par Lucien19 .
Le dialogue VI représente lui aussi un cas particulier au sein de la collection: il rapporte les propos d’une jeune courtisane, qui vient d’avoir son premier client, et de sa mère, qui lui explique qu’elle doit en faire une habitude et une source de revenus, ce qui choque profondément la jeune Korinna. La mère tente de convaincre sa fille en lui représentant tous les avantages de cette activité: elle pourra en tirer beaucoup d’argent et les faire vivre toutes les deux — chose devenue indispensable depuis la mort du père de famille, forgeron reconnu qui gagnait bien sa vie.
Le dialogue semble revêtir la forme classique du conseil 20 mais il apparaît surtout comme une parodie des invitations à la modération formulées par les philosophes: la courtisane qui veut plaire à son client doit observer une attitude modeste et avoir de bonnes manières — elle ne doit ni rire aux éclats, ni absorber de grandes quantités de vin ou de nourriture — elle doit, en somme, faire preuve de maîtrise d’elle-même. Ici, la démarche évoque aussi une répétition avant une représentation théâtrale, la mère tentant d’enseigner à sa fille comment adopter l’êthos de la courtisane: il s’agit moins de modérer ses désirs que de feindre d’en avoir de plus modestes, étant bien entendu qu’aucune attitude ne doit obéir à un mouvement spontané ni manifester une envie personnelle. Il faut manger peu même si l’on a faim, boire à petites gorgées même si l’on a très soif, et ne pas marquer de préférence pour un homme si c’est un autre qui vous a choisie. Le lecteur/spectateur est entraîné dans un temps antérieur à celui de la représentation. On est en décalage temporel par rapport à l’action: on assiste en effet à une conversation préparatoire à un événement plutôt qu’à l’événement lui-même. Ici, de surcroît, le lecteur est admis à partager les secrets des courtisanes, les recettes qu’elles appliquent pour plaire à leurs clients et en tirer le plus d’argent possible. Le même procédé est appliqué aux dieux dans le Zeus tragédien, mais avec un effet tout autre. Lorsque Momos déclare: ‘Nous sommes seuls, en effet, et aucun humain n’assiste à notre réunion’ ( μόνοι γ ά ρ ἐσμεν καὶ
τῷ
, §21 21), alors même que la simple lecture qu’on fait de ces mots suffit à les contredire, c’est bien sûr des dieux que l’on rit; au contraire, les courtisanes ne donnent pas à rire d’elles, mais bien plutôt des philosophes dont elles parodient les discours. Le texte fait également écho à un passage de la littérature antérieure, en l’occurrence, de l’Iliade. En effet, la mère met en balance l’argent que gagnait son défunt mari, qui était forgeron (ἐχάλκευε §1, littéralement ‘il travaillait le bronze’), et l’or que gagnera sa fille (et plus exactement celui que gagne Lyra, une courtisane qu’elle cite comme modèle). Il s’agit donc, selon la formule
19. Notamment au début du Nigrinos ou de l’Icaroménippe.
20. Cf. hourcAde 2017.
21. Cf. gAssino 2017, 99.
de K. Gilhuly22, de changer du bronze contre de l’or, allusion à l’échange de cadeaux entre Glaucos et Diomède au chant VI de l’ Iliade 23. Cet échange asymétrique n’est pas motivé par le gain matériel, mais par le désir de renforcer des liens sociaux. Dans notre dialogue, la mère préfère évidemment l’or au bronze, mais sa fille ne partage pas ce point de vue et ce faisant, elle constitue une anomalie dans le monde des courtisanes: elle ne recherche pas le profit immédiat, mais se réfère à des valeurs plus nobles, en une parodie des héros homériques guidés par le κλέος24 .
Korinna est elle-même une association de valeurs hétérogènes: outre ce qui vient d’être dit, elle est aussi une figure d’ingénu(e) telle que Lucien les affectionne; elle est l’un de ces figures, ignorantes du milieu dans lequel elles sont plongées, qui découvrent une réalité avec un regard distancié, rôle souvent dévolu à des personnages étrangers au pays ou au milieu qu’ils découvrent25; et l’on sait que la naïveté affichée d’entrée de jeu n’est que le vernis bientôt disparu d’un discours qui dit le vrai.
Malgré le sujet original qu’il traite, ce dialogue reprend des procédés à l’œuvre dans d’autres textes, dont l’itération est, selon nous, un indice du caractère profondément lucianesque des dialogues qui nous occupent.
Le dialogue VII présente à nouveau une mère et sa fille courtisane, mais cette fois, le propos porte sur un client précis: la mère reproche à celui-ci de ne pas faire assez de cadeaux à sa fille, ce que celle-ci accepte parce qu’elle nourrit l’espoir de devenir son épouse. Comme dans les dialogues III et VI, on a deux personnages soutenant deux points de vue opposés; ici encore, la mère tient à ce que l’activité de sa fille soit lucrative, tandis que la courtisane ne semble pas faire de l’intérêt matériel son critère premier pour choisir ses clients.
Ici comme souvent, la trivialité du propos est adoucie par l’expression: non seulement le client n’est jamais appelé ‘client’ (mais ἐραστής dans la première réplique, dite par la mère, puis νεανίσκος) mais en outre, la mère ne parle pas précisément d’argent: elle reproche à Chairéas de ne pas faire de cadeaux à Mousarion. Ainsi est maintenue, au niveau de l’expression tout au moins, la fiction d’une relation non marchande entre les deux parties. Néanmoins, à travers les points de vue défendus par la mère et par la fille, ce sont deux visions du monde qui s’affrontent.
22. Cf. gilhuly 2007.
23. Iliade VI, 234-236 :
( Mais le Cronide brouilla l’esprit de Glaucos dans l’échange, / car il offrit au fils de Tydée, Diomède, des armes / de cent bœufs, contre neuf — de l’or en échange de bronze ! trad. Ph. Brunet, Paris, Seuil, 2010).
24. Nous nous appuyons ici en partie sur l’analyse de gilhuly 2007.
25. On peut songer au personnage d’Anacharsis dans le dialogue du même nom, ou à celui de Ganymède dans les Dialogues des dieux X. Sur le rôle de la figure de l’étranger pour mettre en lumière certains aspects du pays qu’il découvre, voir sAïd 1994, 163-164 et gAssino 2009, 555.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 127
La fille parle comme si elle était dans un roman, ou dans une comédie à la manière de Ménandre: Chairéas lui a parlé de mariage, et, contre toute vraisemblance, elle défend l’idée que ce mariage est possible26 . En outre, le jeune homme a juré ‘par les deux déesses et la Poliade’, c’est-à-dire Déméter et Coré (honorées notamment lors des Thesmophories, fêtes célébrées par les femmes de citoyens) ainsi que par Athéna Poliade, autrement dit, par des divinités garantes de l’intégration des femmes dans la communauté civique par le biais des célébrations religieuses.
La mère, elle, prend à contrepied cet univers ‘romanesque’ au sens large, en parlant, comme dans le dialogue III, revenus et questions concrètes. La différence de point de vue apparaît crûment au paragraphe 2, lorsque la mère reprend la réplique de la fille qui disait μεγάλας ἐλπίδας ἔχομεν, ‘nous avons de grandes espérances’ en imaginant la réponse qu’elle pourrait faire à un créancier: Ἀργ ύ ριον μὲν
λαβέ : ‘De l’argent, nous n’en avons pas, mais tiens, prends quelques-unes de nos espérances’. Elle prend le verbe ἔχω dans son sens matériel de «posséder», faisant comiquement des ‘espérances’ un objet concret, doté d’une valeur marchande au même titre que les cadeaux que Chairéas aurait pu faire. Plus généralement, elle reprend des propos de sa fille, ou de l’amant de celle-ci, en les détournant de leur sens initial: ainsi, la référence à Déméter est ambivalente, car la mère reproche à sa fille d’être ‘une prêtresse de Déméter’ (τῆς Θεσμοφ ό ρου δὲ ἱέρειά
οὖσα §4), c’est-à-dire de s’abstenir de relations sexuelles avec d’autres que Chairéas. Déméter est donc, selon la mère, la divinité qui, loin de garantir à sa fille le mariage et l’intégration à la cité, menace de faire d’elle une vieille fille chaste et délaissée. La divinité à laquelle la mère se réfère plus volontiers — ce qui semble naturel dans l’univers des courtisanes — est Aphrodite, mais la mention qu’elle en fait en début de dialogue est très particulière:
. (§1)
‘Si nous trouvons encore, Mousarion, un amoureux du même genre que Chairéas, il faudra sacrifier une chèvre blanche à l’Aphrodite populaire, une génisse à l’Aphrodite ouranienne des jardins, et que nous tressions des couronnes à celle qui dispense les richesses.’
En établissant un lien entre deux situations d’énonciation opposées — courtisanes d’un côté, philosophes de l’autre — cette distinction entre l’Aphrodite populaire et l’Aphrodite ouranienne fait ironiquement écho au Banquet de Platon, et plus particulièrement au discours de Pausanias (180d-e); la ‘dispensatrice de richesses’ ( πλουτοδότειρα) est une épiclèse de Déméter, ici
26. On a vu dans le dialogue II que la courtisane ne pouvait en principe espérer le mariage.
invoquée comme déesse de la fécondité, et non comme celle qui exige qu’on s’abstienne de relations charnelles durant la célébration de sa fête.
Pour autant, on ne peut pas dire que la mère incarne une vision ‘réaliste’ des choses, car elle reproche précisément au jeune homme de ne pas user des subterfuges typiques de la comédie pour se procurer de l’argent:
(§4)
Il est donc le seul à ne pas avoir trouvé le moyen d’obtenir quelque chose de son père, à ne pas avoir eu recours à un serviteur pour le filouter? Il n’a pas réclamé à sa mère, en menaçant de prendre la mer pour s’engager comme soldat si elle ne lui donnait rien27?
Le dialogue VII présente donc lui aussi un contraste entre des éléments hétérogènes traités de manière à faire quelque chose de plaisant. Par ailleurs, les dialogues V, VI et VII ont ceci de commun qu’ils présentent des courtisanes qui n’en sont pas vraiment, qui ou bien considèrent ce qu’on leur fait faire ou comme étrange, ou bien s’y refusent, se jugeant étrangères aux mœurs qu’on leur demande d’adopter: en d’autres termes, ce sont des jeunes femmes qui n’ont pas encore adopté l’êthos de la courtisane.
Le dialogue VIII joue sur la même ambiguïté entre amour et courtisanerie: on y retrouve l’emploi récurrent du mot ἐραστής, ainsi que du verbe ἐράω et du substantif ἔρωτες , alors qu’au fond, une nouvelle fois, les protagonistes parlent affaires! Tout comme les dialogues VI et VII, celui-ci met également face à face une jeune femme et une femme âgée qui développent des points de vue opposés.
Deux courtisanes discutent de la jalousie et de ses manifestations, l’une déclarant qu’elle ne veut pas endurer les coups de son amant soupçonneux, l’autre soutenant qu’un tel comportement est le signe d’un véritable attachement. Le lecteur/auditeur apprend, dans la dernière intervention de la seconde, que celle-ci est une vieille courtisane, ‘qui a fait ce métier vingt années durant’ (εἴκοσιν
) et que l’autre n’a que dix-huit ans.
Le sujet est grave et pourrait se prêter à une description pleine de pathos des femmes maltraitées, mais il n’en est rien: si la jeune Chrysis se plaint des 27. Dans la comédie, les mères passent pour les soutiens inconditionnels de leurs fils, si l’on se réfère aux vers 991-993 de l’ Heautontimorouménos : Matres omnes filiis / In peccato adiutrices, auxilio in paterna iniuria / Solent esse (Toutes les mères sont d’ordinaire pour leurs fils des auxiliaires dans leurs fredaines, et les soutiennent contre la sévérité paternelle. Texte et trad. J. Marouzeau, Paris, CUF, 1947).
En outre, comme le note legrAnd 1908, p. 48 n.1, «prendre du service dans une armée lointaine est la ressource ordinaire des amoureux déçus du répertoire, ou des viveurs décidément ruinés».
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 129
coups que lui inflige son ‘amant’ (§2 Καὶ μὴν
ῥαπίζει, δίδωσι δὲ οὐδέν, ‘À dire vrai, celui-là, il se contente de se mettre en colère et de frapper, mais il ne donne rien.’), elle semble regretter surtout l’absence de contrepartie financière — qui, apparemment, lui ferait oublier les coups reçus. Face à cela, l’expérimentée Ampélis lui explique comment tirer avantage de la situation ( Ἀλλὰ
λυπῇς αὐτόν, ‘Mais il donnera — car il est jaloux — surtout si tu lui causes du souci’, §2): ainsi, ce sont les courtisanes qui apparaissent comme les maîtresses du jeu et le client comme victime de leur rouerie. Dans le contexte général de ces Dialogues, au sein desquels l’esprit de lucre côtoie souvent les sentiments, cette fois-ci, c’est bien la volonté d’‘exploiter’ le client qui l’emporte: Ampélis apprend à sa jeune consœur comment faire abstraction de son goût personnel pour le plus grand bénéfice de sa petite entreprise.
Le dialogue IX se distingue des précédents en ce qu’il a, du point de vue formel, deux parties bien distinctes: la servante commence par raconter sa rencontre fortuite avec l’ancien amant, un soldat revenu de la guerre, puis l’intéressé arrive et dès lors le récit fait place à l’action. Dans la première partie, la servante Dorcas raconte sa rencontre avec Polémon et sa suite, et sa maîtresse Pannychis corrige, suggère des formulations meilleures — comme si elle était en train de critiquer la manière dont Dorcas a joué un rôle; celle-ci explique, pour se justifier, qu’elle n’a pas tout rapporté en détails, mais qu’elle s’est concentrée sur l’essentiel (Προεῖπον
εἰπεῖν : ‘C’est ce que j’ai commencé par dire, mais je ne te l’aurais pas répété, je voulais te dire ce que j’ai entendu’, §2); elle met ainsi en évidence que son récit n’est pas exhaustif, mais vise l’efficacité, à savoir, préparer la ‘performance’ qui va inévitablement suivre. Il est bien clair en effet que le soldat, se trouvant dans les parages, ne va pas tarder à paraître, et qu’il faut élaborer une stratégie pour savoir quelle attitude adopter face à lui, alors que Pannychis a pris un autre client à sa place.
Néanmoins, Dorcas restitue devant sa maîtresse une partie de ce qu’elle a dit pour amadouer Polémon: elle abandonne momentanément le récit pour rejouer la scène qu’elle a improvisée devant le soldat — et son jeu est d’ailleurs pleinement approuvé par Pannychis (Εὖ γε, ὦ Δορκάς· οὕτως ἐχρῆν : ‘C’est bien, Dorcas, c’est ce qu’il fallait faire’, §2)
On trouve ici la figure, bien connue dans la comédie, du soldat fanfaron, mais au lieu qu’il soit présent sur scène pour évoquer ses prétendus exploits, c’est Dorcas, la servante de Pannychis, qui rapporte ses paroles et, ce faisant, introduit une distorsion par rapport à la scène attendue: en effet, les rodomontades du soldat, telles qu’elles sont rapportées par Dorcas, portent uniquement sur les richesses amassées — et non sur les exploits guerriers proprement dits. Peut-être est-ce le résultat de la synthèse qu’elle fait elle-même, peut-être a-t-elle un point de vue biaisé et partiel sur ce soldat: il est bien clair, de fait, qu’elle-même et sa maîtresse font de l’argent leur principal motif d’agir.
Lorsque Pannychis se demande que faire, elle met en balance ce que lui rapporte son amant de l’heure avec ce qu’elle pourrait obtenir de Polémon (§3):
Ce ne serait pas avantageux de renvoyer Philostrate, car il est bien, il vient de nous donner un talent; et puis, c’est un commerçant, et il fait beaucoup de promesses; mais ce ne le serait pas non plus ne pas recevoir Polémon, vu le retour triomphal qu’il fait.
Les deux femmes tentent de juger de la situation froidement, sous l’angle de ce qui est utile — les sentiments, ici, contrairement à ce qui se passe dans d’autres dialogues, n’ont pas leur place. Elles tentent de contrôler la situation et d’agir au mieux; le soldat fanfaron n’est plus, dans ce début de dialogue, qu’un objet dont on tente de tirer profit. Il est vrai que le soldat fanfaron est par définition un personnage ridicule et facile à tromper, à en juger par l’intrigue du Miles gloriosus par exemple; mais un degré supplémentaire est ici atteint, dans la mesure où le soldat, cette fois, est privé de la parole — ce qui va changer dans la deuxième partie du dialogue.
La situation et le ton changent radicalement avec l’entrée en scène simultanée de Polémon et de l’autre amant, Philostrate. On peut vraiment parler d’entrée en scène car ce qui suit est une scène de comédie: cette fois, les personnages sont en action, ils ne se bornent pas à raconter des événements antérieurs ou à préparer ce qui viendra plus tard.
Pannychis parle un langage tragique, sous le coup d’une émotion sans doute réelle (§3): Τίς γένωμαι; πῶς ἄν με ἡ γῆ καταπίοι; ‘Que vais-je devenir ? Je voudrais disparaître sous terre.’ Lorsqu’elle s’adresse à Polémon, ses paroles sont une alliance d’un vocatif plutôt familier28 et d’un verbe dont l’emploi au parfait accentue la coloration tragique (§4): Ἄνθρωπε, ἀπολώλεκάς με: ‘Mon ami, tu me tues!’
L’enjeu de la scène qui suit n’est pas de cacher la vérité aux deux hommes qui viennent d’arriver: le pot aux roses est immédiatement découvert. La question soulevée par les deux femmes dans la première partie du dialogue n’est pas résolue, puisque Pannychis, ne sachant quel parti prendre, renonce à choisir et se retire.
La dernière partie du dialogue est un face-à-face entre Philostrate et Polémon et aboutit à la remise en question de l’archétype du soldat fanfaron. Dans un premier temps, celui-ci apparaît une nouvelle fois semblable à ce que l’on a
28. Le vocatif ἄνθρωπε n’est attesté qu’une seule fois chez Sophocle (Aj. 791, employé par Tecmesse) et est en revanche très courant chez Aristophane (Ach. 95, 1010 ; Eq. 786 ; Nu. 412, 1495 ; Pax 164 ; Ra. 172, 1161 par exemple), ou dans les dialogues de Platon ( Ap. 28b ; Grg. 518c, 452b ; Hp.ma. 289a ; Men. 75a ; Prt. 330d ; R. 329c, 337b ; Smp. 200c par exemple).
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dans la comédie nouvelle, mais rapidement deux détails dissonants sont introduits: il se vante moins de ses exploits guerriers que de ses titres de gloire au nombre desquels, de façon inattendue, figure Pannychis (χιλιαρχήσας τὸ πρῶτον,
: ‘chiliarque pour commencer, aujourd’hui à la tête d’une troupe de cinq mille hommes, amant de Pannychis’, §4): on l’aurait plus volontiers imaginé se vantant du nombre de ses conquêtes féminines que mettant en avant une femme en particulier. Or, on le sait, il y a, classiquement, une incompatibilité entre héroïsme et plaisirs amoureux: dans le chant III de l’ Iliade , Hector voyant Paris reculer face à Ménélas l’insulte en le traitant de ‘vil Paris, valeureux séducteur, la folie de ces dames!29’, avec l’oxymore εἶδος ἄριστε, littéralement ‘excellent pour la beauté’ qui suggère qu’il n’est pas, comme il devrait l’être, ‘excellent au combat’: dans le monde héroïque, on ne peut être les deux à la fois.
Le soldat fanfaron de la comédie, séducteur à toutes mains est, par essence, ridicule au regard de la morale héroïque mais Polémon, en outre, se dit attaché à une seule femme, et va déclencher, tel un nouveau Paris, un combat pour reprendre sa belle. La joute verbale entre les deux hommes fait en effet bientôt place à un combat réel (mais le dialogue s’arrête aux prémices de celui-ci, comme si Lucien évitait de montrer le soldat dans une situation où il serait à sa place, voire, à son avantage). Néanmoins, cette lutte est parodique: non seulement Philostrate ne prend pas un seul instant au sérieux le soldat, à qui il s’adresse d’emblée sur un ton ironique ( καὶ νῦν ἀκολούθει μοι, ὦ Παννυχί, τοῦτον δὲ παρ’ Ὀδρύσαις χιλιαρχεῖν ἔα, ‘Allons, suis-moi, Pannychis, laisse-le commander ses mille hommes chez les Odryses’, §4), mais l’enjeu de la lutte (une femme de basse condition, vénale de surcroît) et les armes utilisées par Philostrate ( λίθοις τε καὶ ὀστράκοις , ‘des pierres et des coquilles’, §5), qui n’ont rien d’héroïque, et qui dévalorisent le soldat luimême, font basculer le texte dans la parodie. La scène évoque l’ouverture du Pêcheur, où Parrhèsiadès est agressé par les philosophes en colère qui utilisent eux aussi les armes les plus farfelues (mottes de terre, coquilles, bâtons de philosophes) pour le frapper30 — et, plus largement, la comédie ancienne et nouvelle31 . Le dialogue IX est l’un plus longs des quinze dialogues, et c’est sans doute celui qui rappelle le plus la comédie, de par les personnages, de par la situation d’énonciation (la scène n’est pas entièrement rapportée, mais se déroule en partie sous les yeux du lecteur/spectateur), et de par l’intrigue (le triangle
29. Iliade III 39:
. Trad. Ph. Brunet, Paris, Seuil, 2010.
30. Cf. Pisc. 1:
(Frappe, frappe le scélérat d’une grêle de pierres. Frappe encore avec des mottes de terre, frappe aussi avec des coquilles. Cogne le criminel à coups de bâtons. Texte et trad. Bompaire, CUF, 2008.)
31. Sur les influences possibles de la comédie ancienne et nouvelle sur Le Pêcheur, voir la notice de boMPAire 2008, 114-115.
132 Isabelle Gassino amoureux), à ceci près — et cela change tout — que la motivation de Pannychis n’a rien à voir avec les sentiments: elle ne veut laisser tomber aucun de ses deux amants parce qu’ils ‘rapportent’ bien tous les deux.
Le dialogue X, à l’instar des dialogues I, II et IV, a lui aussi pour sujet un amant perdu, mais, cette fois, ce n’est pas du fait d’une rivale, mais parce que le maître de philosophie de celui-ci l’a convaincu de ne plus fréquenter de courtisane et d’être vertueux. Le vocabulaire forgé sur la racine de ἐράω est moins présent: le jeune homme, dans sa lettre à Drosis, parle d’amitié (ἐφίλησά σε, §3), sans doute par pudeur : c’est un très jeune homme, qui a eu sa première expérience sexuelle avec elle (πρῶτον δὲ ὡμίλησέ μοι, ‘j’ai été la première femme qu’il a connue’, §2), que Drosis désigne par des diminutifs (‘le petit jeune’, ‘le gamin’: μειρακίσκος §2, μειράκιον §1, 3 et 4), marquant ainsi à la fois l’affection qu’elle a pour lui et la différence d’âge qui existe entre eux. Le dialogue est une satire des philosophes, et plus précisément d’un philosophe qui reprend les travers de tous ceux que Lucien dénonce ailleurs, ainsi que quelques-uns des traits physiques caractérisant les philosophes dans la comédie 32 : Τὸν σκυθρωπὸν λέγεις, τὸν δασ ύ ν, τὸν βαθυπώγωνα , ‘cet homme au visage sévère, à la barbe profonde et fournie’ (§1). En outre, le nom Aristénète (forgé sur ἄριστος, ‘excellent’ et αἰνέω, ‘conseiller’), suggère que l’homme a une haute opinion de lui-même et de son statut. La satire passe ici par un paradoxe: alors que le philosophe conseille au jeune homme de se détourner des courtisanes et de la vie de débauche à laquelle elles sont associées, et d’adopter un mode de vie fondé sur la pratique de la philosophie et de la vertu, le philosophe apparaît finalement comme un rival des courtisanes. En effet, à travers le vocabulaire employé, il se trouve mis sur le même plan qu’elles: lorsque Drosis expliquait qu’elle était la première femme que Clinias ait ‘connue’, elle employait le verbe ὁμιλεῖν, qui peut tout autant désigner une relation sexuelle que la fréquentation de l’enseignement d’un maître par un disciple; l’adverbe πρῶτον peut laisser penser que si Drosis est celle que Clinias a connue ‘d’abord’, le philosophe est venu ‘ensuite’ comme pour prendre la relève. Cette coïncidence cadre parfaitement avec la réputation de coureurs de jeunes gens qu’avaient les philosophes, réputation à laquelle le dialogue fait d’ailleurs explicitement allusion (§4) :
Dromon disait qu’Aristénète était un pédéraste et que, sous prétexte de donner les leçons, il fréquentait les jeunes gens les plus beaux et qu’il
32. La barbe fournie et l’air sombre sont deux de ces traits dès la comédie ancienne: cf. legrAnd 1907, 214.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 133
avait des conversations privées avec Clinias à qui il promettait de faire de lui un dieu.
On voit à l’œuvre dans ce dialogue un autre procédé sans lien direct avec la satire, mais récurrent dans les Dialogues des courtisanes : une situation déjà rencontrée dans un autre dialogue et abordée une seconde fois, sous un angle différent. Ici, Chélidonion propose d’écrire sur un mur ‘Aristénète corrompt Clinias’, et de le faire à la faveur de la nuit pour ne pas être surprise. Il s’agit de faire naître le doute sur Aristénète. Cette pratique sans doute courante, qui devait être la manière la plus simple et la plus sûre de lancer une rumeur, était déjà évoquée dans le dialogue IV, qui exposait les conséquences qu’un tel geste pouvait avoir33
Le dialogue XI conte un nouveau cas de jalousie entre une courtisane et son client, mais cette fois, la courtisane en question est absente, et celle qui a la parole tente de consoler le jeune homme.
La variante ici introduite réside dans le fait que la courtisane en cause est âgée, ce qui accroît encore le paradoxe du client déplorant l’infidélité de celle-ci — d’autant que le client est appelé Charmide, ce qui ne pouvait manquer d’évoquer au lecteur/auditeur de Lucien le personnage éponyme du dialogue de Platon, beau jeune homme entraînant après lui tout un cortège d’amoureux34 .
On voit là aussi l’envers du décor d’un autre dialogue (VII), celui où la mère reprochait à sa fille de ne pas soutirer assez d’argent à son client: Philémation réclamait mille drachmes à Charmide, somme considérable! La question économique est à nouveau abordée, mais cette fois, du point de vue du client qui peine à réunir la somme exigée, et de manière un peu marginale, puisqu’elle ne surgit pas entre les deux protagonistes du dialogue; cela permet de voir qu’une fois la question matérielle évacuée, la courtisane peut se montrer compréhensive: elle cherche en effet à savoir la cause du chagrin de Charmide, alors qu’elle pourrait se contenter de prendre l’argent qu’il lui a donné.
Néanmoins, l’attitude de Tryphaina vis-à-vis de sa collègue est pleine d’ambiguïté, car elle commence par dire du mal de celle-ci, avant d’afficher, bien tardivement, des scrupules ( οὐκ ἂν ἧκον, εἴ
, ‘je ne serais pas venue si j’avais su que tu ne m’engagerais que pour faire du mal à une autre’, §3) pour finalement céder aux avances de Charmide, décidé à se consoler. La fin permet de revenir à une situation normale et de clore le dialogue sur lui-même: le client passe à l’acte avec la courtisane — alors que le dialogue commençait par la remarque de Tryphaina s’étonnant qu’il ne la touche pas, ce qui constituait une situation paradoxale. Ici, très nettement, l’argument du dialogue est de
33. C’est en effet l’inscription ‘Mélitta aime Hermotimos’ qui est à l’origine du malentendu entre la courtisane du dialogue IV et son client.
34. Cf. Charmide 154c.
traiter d’une situation hors norme: dès que le retour à la normale se fait, le dialogue prend fin.
Le dialogue XII est une scène de dépit amoureux, à la manière courtisane. En effet, Ioessa énumère toutes les raisons qu’elle a d’être déçue de Lysias, et toutes se rapportent à son activité: elle n’a jamais réclamé d’argent, elle ne lui en a jamais préféré un autre, n’a jamais demandé qu’il berne ses parents pour avoir de l’argent. En d’autres termes, elle lui apporte les gages de fidélité et d’attachement propres à une courtisane, sans jamais faire directement état de sentiments. Ce n’est qu’une fois ces arguments énumérés qu’elle lui donne des preuves indirectes de son attachement, en mettant en avant la souffrance qui est la sienne ( προσέχουσά σοι, ‘attachée à toi’; ἔμαθες ὑποχείριον ἔχων με τετηκυῖαν ἐπὶ σοί, ‘comprenant que tu m’avais en ton pouvoir, toute languissante pour toi’; δακρύω, ‘je pleure’, §1), en multipliant les interrogations, et en menaçant finalement de se donner la mort. L’invocation de la déesse Adrastée35, là où on aurait plus volontiers attendu Aphrodite, met toutefois un bémol à cette émouvante tirade: elle suggère que cette déception pourra être vengée froidement — et du reste, jamais il n’est directement question d’amour. Le dialogue s’organise en plusieurs séquences36, définies par la présence ou l’absence de Lysias:
1. Tirade d’Ioessa, sans réponse de Lysias, qui part sans rien dire.
2. Les deux femmes (Ioessa et Pythias, dont le statut n’est pas clair: on ne sait s’il s’agit d’une servante, ou d’une amie; sans doute est-elle les deux à la fois) sont seules: Pythias en profite pour dire à Ioessa les torts qu’elle a eus en ne laissant pas Lysias dans le doute. On retrouve le thème principal du dialogue VIII: l’utilité de la jalousie. Ce passage fonctionne par ailleurs comme un aparté et fait songer à une répétition de la «représentation» qui est donnée lorsque Lysias est là.
3. Retour de Lysias, qui commence par laisser Ioessa de côté et dialogue avec Pythias.
4. Lorsque Lysias fait le récit de la scène qu’il a mal interprétée, Ioessa reprend la parole pour lever le malentendu, et Pythias retrouve sa place — un second rôle, qui apporte une touche comique: elle a honte de sa tête rasée, elle demande à Lysias de n’en dire mot37. On retrouve une situation traditionnelle de la comédie: le quiproquo amoureux.
35. Ἔστι τις θεὸς
‘Il y a une déesse, Adrastée, qui voit ce genre de choses.’ (§2) PArKer 1997 qualifie Adrastée de ‘puzzling figure’ (p. 195), associée à Bendis, et située sur le mont Ida en Thrace. Son culte est adopté à Athènes au Ve s. av. J.-C., mais on n’en connaît rien. Le Lexicon iconographicum mythologiae Graecae l’assimile à Némésis.
36. Le terme de ‘scènes’, définies par les entrées et sorties des personnages, pourrait également être utilisé ici.
37. Une lecture croisée des dialogues suggère que la gêne de Pythias pourrait aussi être due à l’ambiguïté sexuelle liée à la perte de ses cheveux; en effet, dans le dialogue V, c’est de voir Mégilla le crâne complètement rasé qui ‘trouble’ (ἐταράχθην §3) Léaina.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 135
Si ce texte était isolé des autres Dialogues des Courtisanes, on pourrait le lire comme une simple histoire de dépit amoureux transposé dans le monde des courtisanes, mais, quand on le lit à la place qu’il occupe dans la série, on ne peut pas ne pas faire le lien avec le dialogue V et se dire que le fait que deux femmes dorment ensemble n’implique pas qu’elles soient restées chastes. On peut se demander si, au fond, ce que disent les deux femmes est véridique ou s’il s’agit d’un moyen plus élaboré de tromper le client en le faisant croire à la fidélité à laquelle il tient. Deux possibilités: ou bien il s’agit des mêmes femmes, ou bien de femmes différentes, mais dans une situation similaire. Il est vrai que les noms ne sont pas les mêmes, ce qui rend plus plausible la seconde hypothèse. Il n’en demeure pas loin qu’il y a là un procédé qui consiste à influencer la lecture d’un dialogue en fonction des dialogues précédents et tient du crossover des actuelles séries télévisées, où des personnages d’une fiction interviennent dans une autre fiction: le résultat est d’offrir un point de vue décalé par rapport à ce que l’on connaît, à reprendre les mêmes éléments mais en variant les angles. Ici, le lecteur peut avoir l’impression que les deux femmes du dialogue V ont été surprises par un homme et inventent un mensonge pour couvrir leurs pratiques inavouables.
Le dialogue XIII a ceci de particulier que, pour commencer, il n’a rien d’un dialogue entre courtisanes; pendant un long moment, on n’entend que le soldat et Chénidas, son comparse et faire-valoir — à tel point qu’on peut croire qu’il n’y a que deux personnages, et qu’il s’agit d’une classique scène de comédie38
Lorsque la courtisane, Hymnis, prend enfin la parole, à la moitié du dialogue à peu près, en un sens elle justifie le rôle joué par le soldat (elle était l’oreille justifiant la tenue de son discours) mais en réalité, elle intervient pour manifester son dégoût et dire à Léontichos qu’elle ne veut pas de lui — donc, pour montrer que le soldat a échoué, n’étant pas parvenu à susciter l’admiration qu’il recherchait. Ce dialogue marque donc un renversement d’une situation typique: la courtisane se comporte comme si c’était elle qui devait être séduite, et non le contraire.
Pour la forme du dialogue, on a deux parties, définies par les faits et gestes d’Hymnis et par les réactions qu’elle provoque de la part des deux hommes:
• 1e partie: ‘performance’ du soldat fanfaron, et silence d’Hymnis;
• 2e partie: prise de parole d’Hymnis, puis départ de celle-ci;
• 3e partie: ‘débriefing’ avec le comparse : pourquoi la ‘représentation’ n’a pas fonctionné; absence d’Hymnis. À noter que le soldat est encore en position d’infériorité: son comparse lui reproche d’avoir agi maladroitement.
• le dénouement: Léontichos renonce à son personnage de soldat fanfaron et demande à son comparse de rattraper Hymnis.
38. Il arrive en effet que le soldat fanfaron raconte ou évoque ses exploits prétendus sans autre présence sur scène que celle de son comparse. C’est le cas, par exemple, au début du Miles gloriosus, la première scène se déroulant entre Pyrgopolynice et son parasite
Isabelle GassinoLa courtisane est ici celle qui fait tomber le masque et force Léontichos à se révéler pour ce qu’il est. Même silencieuse, elle reste le personnage principal du dialogue, car elle est destinataire du discours. On peut se demander par ailleurs dans quelle mesure ce dialogue reflète les goûts du public de Lucien: les récits de bataille typiques de l’épopée faisaient-elle encore rêver les personnes cultivées à l’époque? ou bien le public goûtait-il davantage des histoires moins violentes? Le dialogue semble consacrer le triomphe du personnage de la courtisane sur celui du soldat fanfaron.
Le dialogue XIV est une discussion entre Dorion (le client) et la courtisane Myrtalè, qui le congédie parce qu’il ne paye pas assez. L’échange commence par des comptes d’apothicaire dignes de Charon et Hermès dans le Dialogue des morts XIV39 — à cette différence près que Myrtalè trouve que les comptes sont ridicules car les cadeaux sont risibles: un fromage, des anchois… Cette fois, la courtisane a fait le choix de la rentabilité: elle a pour amant régulier un homme mûr, vraiment peu attirant, mais généreux: c’est le contraire de Mousarion, la courtisane du dialogue VII, qui préférait un jeune homme bien fait de sa personne, même désargenté. Mais c’est du dialogue II que celui-ci peut être tenu pour le pendant ou l’antagoniste: là où la courtisane se plaignait d’être délaissée par son client/ amant, c’est ici le client qui formule la même protestation. Le nom de la courtisane (Myrtalè ici, Myrtion dans le dialogue II) et le fait qu’elle est enceinte, donnent l’impression qu’il s’agit de la même histoire 40 racontée de deux points de vue différents, comme si la Myrtion du dialogue II, après avoir obtenu l’assurance de la fidélité de son amant favori, dont elle est enceinte, congédiait l’autre. La place respective des deux dialogues (le deuxième et l’avant-dernier de la série) renforce encore cette symétrie.
Le dialogue XV reprend un thème fréquemment abordé précédemment: la jalousie, qui peut être l’instrument dont se servent les courtisanes. Ici en sont présentés les effets négatifs: Parthénis a été la victime collatérale d’une querelle entre un soldat fanfaron et une autre courtisane. On a l’impression de revoir le dialogue XIII d’un autre point de vue: le soldat n’a pas supporté d’être délaissé par la courtisane au profit d’un autre, il s’en prend donc à son rival et à tous les participants au banquet qu’il avait offert. Comme dans le dialogue XIV aussi, la courtisane a finalement choisi pour amant un homme qui ne brille pas par ses atouts physiques (c’est un paysan: on a vu dans le dialogue VII qu’ils ne sont pas les clients les plus prisés).
39. Dans l’édition Mc Leod, OCT, tome IV.
40. De la même histoire, ou de deux histoires similaires. Il est vrai que l’amant préféré, selon la description qu’en fait le client éconduit du dialogue XIV, n’a rien du jeune homme encore sous la coupe de son père qu’on voit dans le dialogue II : ἔτη
(XIV, 4): ‘Il a plus de cinquante ans, c’est sûr, avec le front dégarni et le teint d’un homard.’ Reste que la ressemblance entre les deux situations est frappante, et qu’il est très peu vraisemblable qu’elle soit fortuite.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 137
La conclusion du dialogue XV clôt la série et semble refermer définitivement les portes du monde du banquet et des plaisirs qui y sont associés, comme le suggère la phrase prononcée par le fauteur de trouble à l’encontre de la narratrice (§2) :
: ‘ “Sois maudite”, qu’il m’a dit, en jetant les débris de ma flûte’. On assiste à un retour à la réalité, et préférence est donnée à un mode de vie qui assure le quotidien: Cochlis déclare haut et fort préférer un paysan, un pêcheur, ou un marin, aux soldats qui cherchent à vendre du rêve, ce qui est la toute dernière phrase de ces dialogues — et, de fait, leur conclusion:
J’ai bien raison, pour ma part, de ne pas en recevoir du tout. Si je pouvais avoir un pêcheur, ou un marin, ou un paysan, de la même condition que moi, qui saurait flatter modérément mais donnerait généreusement ! Mais ces agitateurs de panache, ces raconteurs de batailles, Parthénis, c’est du vent !
On a le sentiment, en lisant ces lignes, que la parenthèse ouverte par les Dialogues des courtisanes se referme: c’en est fini des situations hors normes qui y sont évoquées, des courtisanes imposant leurs conditions à leur client (dialogue XIV), rêvant de mariage (dialogue VII), ou exprimant librement leur jalousie sans en subir les conséquences (dialogue III). Avec le jaloux violent du dialogue XV, la réalité semble reprendre ses droits, non sans un ultime trait d’humour: le tout dernier mot du dernier dialogue est une adresse à Parthénis dont le nom, qui évoque directement la vierge (παρθένος) a une résonance éminemment ironique dans le contexte.
Les sujets abordés sont donc assez peu nombreux et concernent presque toujours la perte — ou à la crainte de la perte — d’un client par une courtisane ou d’une courtisane par un client, situation qui induit des réactions variées, tantôt de pure déception commerciale ou d’orgueil trahi, tantôt un dépit amoureux. Sur les quinze dialogues que compte la série, onze peuvent se ranger dans cette catégorie, avec des variations presque à l’infini sur ce thème. Voici le classement que nous proposons41:
41. Il s’agit d’une possibilité, tout classement des œuvres de Lucien quelles qu’elles soient étant éminemment problématique.
1. Une courtisane est privée de son client (que ce soit une réalité ou une crainte)
a) par une autre courtisane: dialogues I et IV.
b) par une femme respectable avec qui le client va se marier: dialogues II et XII.
c) par un philosophe qui se situe sur un plan moral pour interdire au client (son disciple) de fréquenter les courtisanes: dialogue X.
2. Le client est privé de sa courtisane (que ce soit une réalité ou une crainte): deux cas de figure possibles:
A. La courtisane refuse le client:
a) Le client potentiel (un soldat fanfaron) échoue dans sa tentative d’éblouir la courtisane mais tente de la reconquérir: dialogue XIII.
b) Le client est éconduit car il n’est pas assez généreux: dialogue XIV.
B. Le client est jaloux:
a) Le client manifeste sa jalousie, mais se rend compte qu’il s’est mépris, et le dialogue s’achève sur une réconciliation: dialogue XII.
b) Le client faisait mine de s’intéresser à une autre courtisane: sa ‘régulière’ suscite sa jalousie en manifestant de l’intérêt pour un autre: dialogue III.
c) Le client manifeste sa jalousie à la courtisane en louant les services d’une autre: dialogue XI.
d) Le client est jaloux et en vient à des voies de fait: dialogue XV.
e) Le client est jaloux et en vient à des voies de fait, mais sur le mode parodique: dialogue IX.
3. Du métier de courtisane en général, et de son contraire: autour de la construction de l’êthos de la courtisane:
a) Considérations générales sur la nécessité de la jalousie: dialogue VIII.
b) Conseils donnés à une jeune courtisane par une femme plus âgée: dialogues VI et VII.
c) Les courtisanes prennent du plaisir entre elles: dialogue V.
L’originalité de ces dialogues ne réside certes pas dans les sujets abordés ni dans les personnages campés: on peut, dans l’immense majorité des cas, trouver des parallèles dans la comédie 42 . La caractéristique propre à ces textes serait plutôt leur forme, fondée sur le décentrement et le décalage: • Il y a décentrement, en effet, lorsque, comme nous l’avons dit pour commencer, des personnages traditionnellement secondaires comme les courti-
42. Pour le détail, voir legrAnd 1907 et 1908. De nombreuses situations et thèmes abordés par Lucien se retrouvent également dans les Lettres d’Alciphron, dont le livre IV est constitué de lettres de courtisanes.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 139
sanes deviennent les personnages principaux — et elles le sont d’autant plus qu’elles sont souvent simplement entre elles. En effet, de manière assez inattendue, elles sont vues ici, fréquemment, hors de la présence de ceux qui les définissent pour ce qu’elles sont, leurs clients. Le décentrement est donc aussi dans le fait que les courtisanes se définissent normalement par une activité, et non par un dialogue: les dialogues des courtisanes sont, en somme, un oxymore. C’est un fait que jamais les dialogues n’ont pour objet de décrire l’activité caractéristique des courtisanes; le seul dialogue (XI) mettant en scène un homme et une courtisane réunis dans un lit a précisément pour point de départ le refus du client de passer à l’acte — et, lorsqu’il change d’avis, significativement, le dialogue prend fin. De même que les courtisanes sont en marge de la société, les dialogues demeurent à la marge de ce que l’on attendrait comme sujet principal. Un tel procédé n’est pas sans parallèle chez Lucien: le fait de repousser à plus tard le récit d’un événement suscitant la curiosité se trouve notamment dans le Nigrinos et l’Icaroménippe, à cette différence près qu’ici, le récit ne vient jamais; plus qu’un retardement, c’est un évitement pur et simple43 .
• Il y a décentrement également dans le fait que, bien souvent, le dialogue ne constitue pas le moment de crise, mais ne fait que le raconter, de sorte qu’il est plus souvent un récit d’action qu’une action proprement dite44. Parfois, le dialogue se situe avant l’action, dont il est une préparation, une sorte de répétition générale avant la représentation: nous employons à dessein le vocabulaire du théâtre, tant il est patent, par moments, que les courtisanes sont en représentation: c’est tout particulièrement le cas dans le dialogue VI, lorsque la mère enseigne à sa fille comment se comporter avec un client. Dans d’autres cas, le dialogue fait suite à la scène qu’il commente, voire, critique45
La plupart du temps 46, le dialogue ne fait pas avancer l’action et n’aboutit même pas à une décision, mais se borne à un échange de points de vue opposés sur un sujet. Il n’y a guère que les dialogues II et XII qui fassent évoluer la situation et lèvent le quiproquo de départ. Dans la grande majorité des cas, l’intéressé est absent, de sorte que le dialogue est formé pour partie d’un récit d’action, pour partie d’une spéculation sur la suite des événements; dans des cas plus rares (dialogues II, IX, XII, XIV), le dialogue se fait action, il fait progresser l’intrigue et met en scène les clients dont il est question. C’est, sans surprise, dans cette dernière catégorie que se situent les dialogues évoquant de la manière la plus précise la ressemblance avec la comédie: les dialogues II
43. Cf Anderson 1976, 95 et n. 37.
44. Les Dialogues des courtisanes partagent cette caractéristique avec les autres ‘dialogues mineurs’ de Lucien, qui, comme le note bArtley 2005, p. 359, se focalisent sur un événement ayant eu lieu dans le passé des personnages qui prennent la parole.
45. Cf. dialogue IX, avec Pannychis critiquant les paroles dites par Dorcas au soldat.
46. Selon bArtley 2005, 365, les Dialogues des courtisanes se distinguent des autres ‘dialogues mineurs’ par le fait qu’ils représentent, une ‘véritable interaction entre les personnages’ ; cependant, celle-ci ne nous paraît concerner qu’un petit nombre de textes.
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Isabelle Gassinoet XII, en particulier, peuvent être qualifiés de scènes de dépit amoureux; le dialogue IX montre une scène de triangle amoureux, avec la confrontation de l’ancien amant (un soldat fanfaron, de surcroît) et le nouveau.
Les dialogues, dans la collection qui nous occupe, mettent souvent en place une stratégie d’évitement des récits et évocations scabreuses (dialogues V et XI). Plus qu’un sacrifice à une certaine bienséance, nous y voyons un jeu avec le lecteur/auditeur, une manière de décevoir son attente et de le tenir en haleine pour le dialogue suivant.
Un autre maître mot de ces dialogues est — sans grande surprise s’agissant de Lucien— le mélange des genres, dans la mesure où, si de nombreuses situations sont typiques de la comédie, les courtisanes manifestent des sentiments et s’expriment d’une manière pouvant évoquer l’épopée (dialogue VI) ou la tragédie (dialogue IX). Le dialogue II semble hésiter entre la tragédie (la situation de Myrtion, enceinte et abandonnée de son amant, mais fidèle à celui-ci, est pour le moins pathétique) et la comédie (on finit par se demander si tout ceci n’est pas une mise en scène destinée à s’attacher le client définitivement), reflétant l’attitude de Myrtion elle-même, ou d’autres courtisanes, qui paraissent partagées entre leur intérêt matériel et leurs sentiments. Mais ces dialogues sont également sous le signe de la uariatio: si le nombre de thèmes abordés est restreint, les angles d’approche, eux, sont très nombreux. Il y a quelque chose de l’exercice de style dans le fait qu’ils passent en revue à peu près tous les cas de figure possibles à partir d’une situation donnée: un client est-il jaloux? Cela peut être à tort (XII) ou à raison (XV); dans d’autres cas, on ne le saura même pas (III). La jalousie peut se manifester de différentes manières: par des plaintes (XII), par une tentative de rendre jalouse l’infidèle à son tour (XI), par des menaces visant le rival, qui débouchent sur un combat parodique (IX) ou encore par des violences physiques effrayantes (XV). Chaque dialogue reprend le thème en y apportant une variation qui fait tout l’intérêt de celui-ci: il est clair que la série de dialogues n’a pas pour objectif d’apporter des informations ni un enseignement, mais de divertir. Mais la reprise assidue du même thème permet aussi de créer un univers clos, au sein duquel les préoccupations se cristallisent sur les mêmes points. Néanmoins, on ne relève aucune exhaustivité dans le traitement des sujets: la série laisse au contraire l’impression d’une ouverture, loin de celle que produirait un écrit à visée didactique. On ne ressort pas de leur lecture en ayant la certitude, par exemple, qu’une courtisane fait passer son intérêt économique avant l’affection ou l’attirance qu’elle peut avoir pour un homme: si la question est fréquemment abordée, tous les avis s’expriment, et rien ne permet de dire qu’une opinion l’emporte sur une autre. Certaines courtisanes ne peuvent se résoudre à accepter un client ‘rustique’, même s’il paye bien (dialogue VII), d’autres ont au contraire une préférence pour eux, jugeant que ce sont les plus fiables (dialogue XV).
Le goût affirmé pour la uariatio semble s’étendre aux aspects les plus formels: tout comme dans les autres dialogues organisés en séries, les Dialogues des Courtisanes ne comptent en général que deux personnages, deux
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courtisanes; dans les dialogues à trois personnages, on a alors une courtisane et sa servante, et le troisième est un client (II, XII). Un seul dialogue (IX) compte quatre personnages: la courtisane et sa servante, le soldat fanfaron et son comparse. Néanmoins, il arrive que le second personnage soit un client (XI et XIV), qu’un dialogue à trois personnages mette une courtisane face à deux hommes (un soldat et son comparse, XIII): même lorsque l’on considère un aspect aussi formel des Dialogues des Courtisanes , on se rend compte que Lucien semble tout faire pour les faire échapper à l’uniformité.
Architecture de l’ensemble formé par les Dialogues des Courtisanes
Il est remarquable que, des quatre séries de dialogues ‘mineurs’, seule celle des Dialogues des Courtisanes présente un ordre qui n’a apparemment jamais posé problème47. Est-ce à dire, pour autant, qu’une cohérence est décelable dans l’ordre de présentation des dialogues?
Si l’on met en regard le premier et le dernier dialogues, on peut constater que l’intrigue du premier est reprise dans le dernier d’un point de vue différent: dans le premier, c’est la courtisane qui se plaint d’être dépossédée d’un client par une autre courtisane, alors que le dialogue XV a pour sujet la jalousie d’un client délaissé pour un autre. Ces deux textes se font écho et sont antagonistes, pour plusieurs raisons:
• La courtisane du dialogue I est déçue mais en aucun cas violente: elle dit sa déception à une tierce personne mais n’envisage jamais le recours à la force pour se venger. Elle détient la parole. Au contraire, le client jaloux du dialogue XV n’est pas présent; il n’a pas la parole, et manifeste sa colère en en venant à des voies de fait.
• Le dialogue I présente à bien des égards les caractères d’une ouverture, et le dialogue XV ceux d’une conclusion. En effet, le dialogue I introduit d’emblée les personnages et les situations récurrents dans les dialogues suivants, en soulignant d’emblée l’ambiguïté des courtisanes, à la fois femmes d’affaires préoccupées par leur subsistance et les aspects purement économiques de leur activité, mais aussi enclines à, littéralement, parler d’amour: comme nous l’avons vu, il commence comme une simple conversation entre deux femmes dont l’une a été quittée par son amant: ἠράσθη ἐμοῦ, ‘il est tombé amoureux de moi’.
Le dialogue XV forme un contrepoint, dans la mesure où il marque un retour à une réalité terre-à-terre: le client jaloux peut se montrer violent et dangereux, non seulement pour la fautive mais pour ses compagnes. Les derniers mots, comme nous l’avions noté, ont l’allure d’une conclusion générale, après les errements sentimentaux de certaines: mieux vaut un client pas très beau mais qui paye bien plutôt qu’un soldat qui parle beaucoup mais agit peu.
47. Il est en effet le même dans toutes les éditions et traductions que nous avons pu consulter à ce jour.
Isabelle GassinoLe fait que le dialogue XV se présente comme une conclusion suppose la construction d’un discours linéaire, qui donnerait à l’ensemble une cohérence mais aussi un sens univalent. Tel n’est pourtant pas le cas, car les phénomènes d’écho sont nombreux, et si les dialogues peuvent entretenir des liens avec ceux qui les précèdent ou les suivent immédiatement, ils peuvent également trouver leur sens entrant en résonance avec d’autres pièces. On peut en effet déceler d’autres échos, comme par exemple:
• entre le dialogue VIII et le dialogue XV: le dialogue VIII traite en général de l’importance de la jalousie, des stratégies pour en user, alors qu’il est précisément situé au milieu de la série. Sa place semble montrer que la jalousie est bien au cœur de cette série de dialogues;
• entre les dialogues VII (l’amoureux est désargenté mais préféré) et XIV (le client pauvre est éconduit);
• entre les dialogues III (la courtisane veut rendre un client jaloux) et XI (le client veut rendre jalouse une courtisane);
• entre les dialogues IX (qui se termine sur une scène de bataille parodique) et le dialogue XV (qui se situe après une bataille inégale entre un soldat furieux et des banqueteurs).
Mais le procédé peut-être le plus caractéristique de ces dialogues pourrait être la multiplication des points de vue et l’itération d’une même situation. Qu’il s’agisse de détails comme les graffiti servant à lancer une rumeur ou de situations qu’on peut juger typiques des courtisanes — être surprise au lit avec un homme — il est remarquable de voir avec quelle constance le propos revient souvent sur le même sujet, sans jamais dire ou laisser entendre la même chose: la Myrtion du dialogue II est-elle cette amoureuse éplorée prête à se résigner à perdre son amant et à élever seule leur enfant, ou cette femme d’affaire impitoyable (Myrtalè) congédiant sans ménagement le client qui ne peut la payer suffisamment, dans le dialogue XIV ? Et lors même qu’elle semble désespérée face à Pamphile, manifeste-t-elle un sentiment profond ou bien, comme le langage ambigu qu’elle emploie le laisse entrevoir, n’estce qu’un stratagème pour mieux parvenir à ses fins ? On ne peut pas définitivement ramener les personnages des deux dialogues à un seul, puisque le nom n’est pas exactement le même, mais l’effet produit est là: on ne sait pas au juste qui sont les personnages dont Lucien donne à voir des portraits changeants, aux contours flous, à la vérité sui generis. Dans les Dialogues des morts ou les Dialogues de dieux, c’est la récurrence d’un même personnage qui contribue à établir des connexions entre les dialogues48. Ici, le procédé est différent: le rapprochement est suggéré, mais de doute subsiste. Autre question qui ne trouve pas de réponse ferme: deux femmes partageant la même couche sont-elles nécessairement chastes ? C’est ce que le dialogue XII semble montrer, alors que le dialogue V permet largement de jeter le
48. Cf. bArtley 2005 ; voir aussi góMez 2012, qui montre comment le personnage de Zeus contribue à faire des Dialogues des dieux une véritable structure narrative au lieu d’une série de saynètes isolées les unes des autres.
Les Dialogues des Courtisanes : des dialogues lucianesques ? 143
doute sur cette certitude. De la même façon, les dialogues IX et XV illustrent les différents aspects possibles d’une bataille: de gesticulation ridicule dans le premier cas, elle devient un événement grave, lourd de conséquences, dans le second. Il résulte de tout ceci un jeu de miroirs, dans lequel le lecteur/spectateur a le sentiment de voir toujours le même objet et jamais la même chose; un jeu au sein duquel la vérité n’est plus une réalité stable sur laquelle prendre appui, mais le résultat provisoire d’un concours de circonstances particulier 49. Ce n’est certes pas la seule fois que Lucien joue sur les attentes de son lecteur et sa capacité à se laisser berner; c’est peut-être, en revanche, le texte dans lequel l’effet est le plus achevé. Le résultat est une structure complexe, dont les différents éléments sont agencés avec un soin particulier, de manière à raconter une histoire sans jamais énoncer une vérité définitive — sans, non plus, dire de mensonge.
Conclusion
Ces dialogues ne sont certes pas un reflet de la réalité: déjà Jacques Bompaire50 contestait l’idée que les ‘petits’ dialogues de Lucien soient «une image de la vie». Si les Dialogues des courtisanes offrent au lecteur une ‘image’, celle-ci est démultipliée, renvoyée par des miroirs successifs qui brouillent la perception et affaiblissent toute certitude, altèrent toute vérité. On assiste à une sorte de feu d’artifice de tous les possibles; en examinant des situations voisines les unes des autres, Lucien paraît explorer toutes les combinaisons, toutes les ressources qu’il peut tirer d’un matériau somme toute restreint mais dont il exprime toute la richesse. Traitant le sujet comme un exercice de style, il joue sur la uariatio. Multipliant les points de connexion entre les dialogues, il construit un ensemble à la structure complexe doté d’une forte unité 51, sans que celle-ci soit mise au service d’un sens qui en justifierait l’existence.
On pourra arguer que les propos tenus semblent mineurs et que la conclusion même du dernier dialogue invite à ne pas y voir autre chose qu’un pur amusement sans conséquence, ψόφοι, ‘du vent’, comme le dit Cochlis à propos des vaines promesses. Toutefois, avant de se résoudre à cette conclusion, il convient de se rappeler que, pour Lucien, la courtisane est aussi une incarnation de la rhétorique et donc, indirectement, du sophiste52. Si le passage peignant la Rhétorique en courtisane est bien un portrait à charge53, il n’en demeure pas moins que, tout en affirmant qu’il a quitté la Rhétorique au
49. Comme le dit briAnd 2017, «la vérité du dialogue comique, du moins chez Lucien, est justement son hybridité et le caractère constitutivement précaire, labile, contradictoire».
50. Cf. boMPAire 1958, 581: selon lui, les Dialogues des courtisanes «sont des produits essentiellement littéraires, un raffinement au second degré sur une matière déjà littéraire.»
51. Cf. l’analyse de gonzàlez Julià 2011, p. 361 à propos des Dialogues des morts.
52. Cf. gilhuly 2007, dont nous adoptons une partie des conclusions.
53. Cf. Bis Acc. 31.
144
Isabelle Gassinobénéfice du Dialogue, Lucien fait aussi un discours qui prouve le contraire — indice, s’il en était encore besoin, qu’il vaut mieux interroger ce que Lucien semble nous dire, et attacher plus d’importance à ce que l’ensemble de son œuvre nous suggère plutôt qu’à ce que cet illusionniste du verbe affiche: l’éloge d’une vie simple, d’une vie qui ne poursuit pas un rêve inaccessible, que prône Cochlis, est également celui qui conclut le Ménippe. La courtisane, tour à tour incarnation d’une rhétorique creuse, d’une philosophie dévoyée54 et d’une cupidité dont sa survie dépend, ne peut certes pas passer pour un parangon de sagesse, mais elle peut, à l’occasion, se faire le porte-parole d’une idée qui n’aura rien de risible ni de condamnable. Premier et ultime décentrement à l’œuvre dans les Dialogues des courtisanes , cette manière d’attribuer des idées dignes de considération à des personnages qu’a priori rien n’invite à prendre au sérieux est, à n’en pas douter, une des raisons qui peuvent nous engager à voir dans cette œuvre un texte éminemment représentatif du dialogue comique à la manière de Lucien.
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Ítaca. Quaderns Catalans de Cultura Clàssica
Societat Catalana d’Estudis Clàssics
Núm. 34 (2018), p. 147-171
DOI: 10.2436/20.2501.01.88
La construcción de una identidad política: La carta de Juliano el Apóstata Al Senado y al pueblo de Atenas*
ElenaRedondo-Moyano Universidad del País Vasco/Euskal Herriko Unibertsitatea (UPV/EHU)
AbstrAct
The Letter to the Senate and the People of Athens is a unique document, both from the formal point of view and from the point of view of the content. Conceived as a propaganda document, since in it Julian claimed his legitimacy to occupy the imperial throne, it was built by combining the letter, which allowed him to address an absent community, with the basilikós lógos, the speech of praise to the emperor, which he unfolded in praise of his person and vituperation of the emperor in power, his cousin, Constantius II.
Keywords: Julian the Apostate, Letter to the Senate and the People of Athens, imperial propaganda, imperial legitimacy, rhetoric of praise and vituperation
1. Introducción
En julio del año 361 el César Juliano, jefe del ejército galo, fue nombrado Augusto por sus tropas en Lutecia (París). Con este nombramiento desafiaba al emperador en el poder, su primo Constancio II, que se encontraba junto con su ejército en la parte oriental del imperio. Inmediatamente después de su nombramiento, Juliano, desplegó una rápida estrategia para consolidar su nuevo estatus. Por un lado, llevó a cabo junto con sus tropas una rápida marcha hacia Sirmium, la capital de Iliria, donde obtuvo los recursos necesarios
* Este trabajo ha sido realizado dentro del Grupo de Investigación de la UPV / EHU “Textos, Sociedad, Política, Administración y Recepción del Mundo Antiguo”, GIU 16/64. Una primera versión fue expuesta en la Nineteenth Biennal Conference of the International Society for the History of Rhetoric (Chicago, USA, 24-27 Julio/2013).
Elena Redondo-Moyanopara mantener su ejército1, y luego a Naissum, de manera que ocupó el paso de los Balcanes para impedir que las tropas del emperador lo encerraran en la Galia, donde podía ser atacado también por los germanos, con los que el emperador podía pactar para salvar la situación, como ya había hecho durante la sublevación previa de Magnencio. Por otro, en su breve estancia en Sirmium o en Naissum 2, despachó cartas a los romanos, los atenienses, los corintios y los lacedemonios, es decir, a la capital del imperio y a las ciudades griegas más relevantes, sin duda para justificar su nombramiento y para recabar apoyos. El mensaje dirigido a los lacedemonios se ha perdido totalmente; del que dirigió a los corintios se conserva solo una breve cita de Libanio (Or. 14.30) y de la carta enviada a Roma, también perdida, solo sabemos, gracias a Amiano Marcelino (21.10.7 ss.), que fue leída ante los senadores romanos y que estos pidieron más respeto para el emperador; solo podemos deducir, por tanto, que Constancio II no salía muy bien parado en ella. La única completa con que contamos es la que dirigió Al Senado y al Pueblo de Atenas.
El objetivo de esta exposición es analizar el modo en que Juliano construye este escrito, original en la forma y en el contenido: consideraremos los tipos de documentos en que se pudo basar y revisaremos los argumentos que baraja, atendiendo, por un lado, al marco retórico-literario de la época, y, por otro, al marco histórico-político.
2. Al Senado y al Pueblo de Atenas está concebido como una carta. La carta era considerada un diálogo entre dos interlocutores que se encontraban lejos el uno del otro. Como tal había sido cultivada en todas las épocas, pero en la época imperial se produjo un gran incremento en la escritura de cartas que llevó, en el siglo IV, a la inclusión de la forma epistolar en los tratados literarios3. Este auge de la carta se produjo en el seno de la nueva Retórica escolar de la paideía, a la que se ha denominado ‘Retórica del êthos’, en tanto que promovía una educación ética, basada en la imitatio de los comportamientos virtuosos de los protagonistas helenos que conocían a través de la literatura
1. Cf. 287a, donde se mencionan expresamente las minas de oro y plata que le proporcionaron estos recursos. slobodAn 2004 apunta que estas minas son las de Sirmium, donde Juliano pasó tres días; en esta localidad se gestionaban también importantes cantidades almacenadas de los mismos metales. El recién nombrado augusto imitaba, así, la táctica seguida por Constantino I y Licinio en guerras precedentes.
2. La primera plaza fuerte es mencionada por Zósimo 3.10.3-4; pero bidez 1965, 38, apunta que es más probable que fuera en Naissum.
3. Para una historia de la carta, cf. suárez de lA torre 1988, 1144-48, la primera parte (pp. 23-179) de la monografía de ceccArelli 2013 y el reciente trabajo de sArri 2018, pp. 5-40. Para una clasificación de los distintos tipos de cartas, cf. del bArrio VegA 1991 y ceccArelli 2013, 2-8. Una visión sobre los problemas del género se ofrece en gAllé ceJudo 2005; en concreto para las características del género, cf. p. 270. En redondo 2004, 199-216, se estudia la carta en la época imperial y se da cuenta de distintas colecciones de cartas que ya estaban consolidadas en el s. I (ídem, p. 210). El género tuvo su época de mayor cultivo a partir del siglo II y se convirtió en un género de moda en siglo IV, cf. cAltAbiAno 1991, 11.
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y la mitología4. La carta, como documento literario, se practicaba en el marco de los Progymnasmata o Ejercicios preparatorios, como parte de la etopeya, un ejercicio con el que se buscaba enseñar al futuro orador o literato los métodos de plasmación de caracteres y conductas5: efectivamente, para que la carta tuviera su máximo efecto de persuasión debía reflejar el êthos del emisor y del receptor6
La carta fue muy cultivada porque era un documento polivalente, que podía utilizarse para transmitir tanto información privada, como pública y que podía dirigirse tanto a un solo destinatario, como a una comunidad 7. Esta ver-
4. Tras su brillante despliegue en la época clásica, la retórica se había refugiado en la Escuela y había incluido en su método pedagógico la Poética, la Filosofía y la Literatura. Se había transformado, de este modo, en un sistema educativo (paideía), que se basaba en la imitatio de los autores helenos considerados como modélicos, no solo para enseñar el manejo del lenguaje oral y escrito, sino también las conductas morales que en ellos se reflejaban, cf. lóPez eire 1991, 63-102. schouler 2004, 113-4, destaca la continuidad de esta ‘nueva’ retórica imperial de la concepción de Isócrates, que ya defendía que un buen rétor debía tener un comportamiento ético conforme a los valores helenos; así en Antídosis 15.276 expone que una buena educación en la composición de discursos lograda mediante el estudio de los autores clásicos conduce también a actuar con filantropía y justicia. Esta misma idea se encuentra en Aristóteles Rhet. 1355a29, y en Eth. Nic. 1170b11 se la menciona como fundamento del buen funcionamiento de la sociedad. Esta nueva retórica fue practicada por Elio Aristides y llega a su máximo esplendor en Libanio (cf. Pérez gAliciA 2012, 260), amigo y firme defensor del helenismo que Juliano quería ‘restaurar’ (cf. la carta 84 bidezcuMont, escrita en Antioquía, en la que Juliano se queja de la resistencia que encuentra para llevar a cabo esta restauración). También Juliano, en su carta 61c, se muestra un claro seguidor de esta educación moralizante que proporcionaba la paideía como medio para conseguir la hegemonía del helenismo ético: la clave para este logro está, según él, en el comportamiento de los rétores, quienes deben imitar y transmitir entre sus discípulos los comportamientos ejemplares de los helenos que poblaban las obras clásicas.
5. Cf. Teón (115.22 sPengel) y Nicolao (66-67 felten), donde se apunta que en su confección hay que tener en consideración el êthos del emisor y del destinatario. La carta fue objeto de atención de los rétores que establecieron las reglas para su composición, como un tratado sobre el saludo de Dionisio de Alejandría, que se cita en el escolio a Pluto 322 de Aristófanes, o una normativa epistolar en Sobre el estilo (223-235), atribuido a Demetrio, o una relación de los tipos de cartas, 21 en Túpoi epistolikoí, atribuido a PseudoDemetrio o 42 en Perí epistolimaíou charaktêros, atribuido a Libanio o a Proclo, cf. MAlherbe 1988, MAlosse 2004 y Artés hernández 2005. Para las relaciones entre género epistolar y retórica, cf. suárez de lA torre 1987 y lóPez eire 1998; sobre el uso de la carta como ejercicio escolar, cf. gAllé ceJudo 2005, 271-7. El estilo lingüístico de las cartas a través de la historia es analizado por sArri 2018, 40-52.
6. La idea de que la persuasión debe fundamentarse en el conocimiento de los distintos tipos de almas, las especies y las formas, de modo que su contenido sea creíble para el receptor y congruente con la personalidad del emisor, se remonta al Fedro de Platón (271d272c).
7. La función originaria de la carta era comunicarse con un destinatario ausente, por lo que, desde sus inicios, fue concebida como un documento escrito, generalmente de breve extensión, que se distinguía bien del discurso, cuya función originaria era la transmisión oral de un mensaje a una colectividad con el objetivo de persuadirla de algo. Sin embargo, las características que delimitaban estos dos tipos de mensajes comenzaron a ser fluidas desde el siglo IV a.C., en el que se dieron circunstancias que llevaron a componer discursos escritos, dirigidos a un individuo o a una colectividad, con la finalidad de persuadirles de algo; cf. signes codoñer 2002, particularmente 89-101. La carta entra, desde entonces, en el dominio público y, en distintos soportes, pasa a ser un medio para la comunicación oficial
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Elena Redondo-Moyanosatilidad la convirtió en el medio perfecto para difundir ideas ya fuera a individuos, ya fuera a colectividades8 .
La carta era el único tipo de documento que Juliano podía utilizar para dirigirse, desde Iliria, a los romanos, atenienses, lacedemonios y corintios9. Sin embargo, este documento no aparece junto al resto de la abundante producción epistolar de Juliano10, sino que los editores lo sitúan junto a los discursos, porque es claramente diferente del resto de su producción epistolar tanto por su destinatario colectivo11, como por sus dimensiones12, y, particularmente, por su estructura y contenido.
El título del documento recoge la fórmula administrativa habitual en las comunicaciones imperiales con las ciudades: Al Senado y al Pueblo de Atenas. En su comienzo no aparece ninguna fórmula de introducción, algo también habitual en las cartas privadas que Juliano compuso antes de ser emperador13, sino que se encuentra una justificación de por qué son los atenienses los elegidos como destinatarios: no por las hazañas que han realizado, puesto que también otros pueblos han sido hacedores de grandes hazañas14, sino porque tienen una característica especial, que Juliano presenta como propia de la ciudad como conjunto, y que la distingue de los demás:
en la época helenística, cf. ceccArelli 2013, 297-333. Una visión panorámica del uso oficial de las cartas desde los más tempranos ejemplares hasta la época romana se encuentra en sArri 2018, 6-17.
8. Por tanto, durante la época imperial, fue utilizada por todos, cristianos y paganos. Entre los cristianos, cabe mencionar a Padres de la Iglesia, como San Basilio el Grande, San Gregorio Nacianceno, San Gregorio de Nisa, Sinesio de Cirene o San Juan Crisóstomo; y entre los seguidores de la religión tradicional a Eliano, Filóstrato, Alcifrón, Aristéneto, Libanio, Procopio de Gaza, Dionisio de Antioquía, Prisco de Panión y Troilo de Side, cf. redondo 2004, 210. Sobre las cartas de Libanio, cf. la reciente tesis doctoral de Pérez gAliciA 2012.
9. elM 2015, 75, señala que la elección de estas ciudades no fue accidental, sino una cuidadosa elección porque cada una de ellas evocaba modos de vida particulares y una especial preocupación por la filosofía, la justicia y otras virtudes intrínsecas de los griegos como resultado de una adecuada formación por medio de la paideía.
10. Libanio Or. 18.174 da cuenta de las numerosas cartas que Juliano escribía al día. En la antología de trAPP 2003, 16, se da cuenta de que se conservan más de doscientas, aunque las genuinas son cerca de 160; sobre las dificultades de su transmisión y los problemas de autenticidad que presentan, cf. bidez 1960, VIII-XVII; para un estudio de conjunto, cf. cAltAbiAno 1991 y para las cartas escritas antes de acceder al trono imperial, cf. redondoMoyAno 2012.
11. Este rasgo la asemeja a discursos como Misopogon, con el cual tiene paralelismos notables (cf. downey 1939, 312 ss.), que han llevado a algún estudioso a acercar su fecha de publicación al momento en el que el Misopogon se hizo público, esto es, en marzo del 363, cf. lAbriolA 1974, 547-554.
12. Es más larga que el resto de las cartas, que respetan el principio de la suntomía (brevedad y concisión, que le otorga su cháris, cf. Demetrio de Falero, De Eloc. 325 y 231), aplicado en general (una excepción es la carta a Temistio) por Juliano, por Libanio o por Gregorio Nacianceno, que lo menciona expresamente en Ep. 51.4.
13. Cf. redondo-MoyAno 2012, 217. Habitualmente, las cartas comenzaban con alguna fórmula referida al destinatario, cf. suárez de lA torre 1979, 42.
14. En la parte oriental del imperio existían grandes ciudades, mucho más relevantes que Atenas, que vivía en esos años de su gloria pasada, convertida en centro de estudios de alto nivel.
La construcción de una identidad política
Y para que no suceda que, al recordar y después establecer comparaciones, pueda pensarse que tomo particular partido por una ciudad en lugar de por otra en sus disputas, o que, como los oradores, por interés alabo en menor medida a las más pequeñas, quiero tan solo mencionar de vosotros aquello en lo que no podemos encontrar ningún rival entre las demás ciudades griegas y cuya antigua fama ha llegado a nosotros. … Pero no es fácil encontrar fuera del vuestro una ciudad y un pueblo todo él enamorado de los hechos y palabras justas. (268b-269b)15
En estas palabras iniciales encontramos ya una primera autocaracterización de Juliano en tanto que autor, ya que se aleja de los rétores profesionales, que alaban por interés. Esta idea se encuentra también en otros escritos de Juliano, como Or. 1.2 y Or. 3.23, donde la alabanza falsa y propia del arte retórico se opone a la verdadera propia de los filósofos, que valoran conforme a la virtud16. Es, por tanto, desde esta perspectiva que Juliano dibuja un êthos de los destinatarios, los atenienses del pasado, como un pueblo justo, tal como ilustra la actitud de Aristides, y hace extensiva esta virtud también a los del presente, de manera que resultan ser los más adecuados para valorar, no ya la grandeza de las acciones que un hombre realiza —y Juliano cita aquí las acciones que él mismo ha desplegado desde su nombramiento como augusto aunque sin citar su nombre—17, sino si su actuación ha sido justa o no18. Tras
15. El texto citado está tomado de la edición de bidez 1972; la traducción es de gArcíA blAnco 1979.
16 bidez 1972, 10, n. 3 apunta ya el carácter de tópico de esta reivindicación. En todo caso, Juliano había recibido una amplia formación en retórica, es decir, en la teoría y la práctica del manejo de la palabra escrita y hablada, y la había completado con sólidos estudios filosóficos, cf. AllArd 1900, 263 ss.: tras haber recibido los primeros fundamentos de la lengua y cultura griega en Nicomedia, y una sólida formación cristiana en Macellum, donde tuvo a su alcance la excelente biblioteca de retórica y de filosofía de su tutor, el obispo arriano Jorge de Capadocia, continuó su formación de la mano de los intelectuales mejor considerados de su época, como el gramático Nicocles y los rétores Hecebolio y Libanio en Constantinopla; los maestros de filosofía neoplatónica, como Edesio y Máximo en Pérgamo y Éfeso; y el rétor Himerio, el sofista Proheresio y el filósofo Prisco en Atenas.
17. Concretamente hace referencia a la velocidad y la fuerza que ha mostrado en la expedición que ha realizado desde la Galia, es decir, valora como positivas estas acciones; que lo fueron queda confirmado por el relato de las mismas que hacen también Amiano Marcelino 20.8 ss.; Zósimo 3.10.2; Libanio Or. 18.111ss. y Gregorio Nacianceno Ep. 4.47.
18. Para un estudio en profundidad de las referencias literarias y políticas que esta alabanza a los atenienses contiene, cf. lAbriolA 1991-2.
esta elegante captatio benevolentiae, habitual en los exordios de los discursos, Juliano expone el objetivo del documento: ‘Quiero, en vista de ello, contaros lo que a mí se refiere’19
Por medio de esta introducción, el receptor queda instalado en un ficticio contexto judicial, en el que Juliano va a defender, mediante un discurso, su modo de actuar ante los únicos capaces de juzgarlo con justicia, los atenienses, de los que espera que, a su vez, sean portavoces de su actuación, de manera que ‘los demás griegos tengan conocimiento de ello’20 .
3. Para dar cuenta de su actuación, es decir, para presentar una versión elogiosa de su trayectoria vital, Juliano contaba con un modelo de discurso, el Lógos basilikós21, que fue muy frecuente durante toda la época imperial y que había sido reiteradamente practicado por él mismo desde que comenzó su carrera política22. Este tipo de discurso tenía como objetivo conseguir una ‘amplificación convencional de las buenas cualidades que son propias de un emperador’ (368.1) y para lograrlo se recomendaba realizar una biografía organizada cronológicamente junto con la enumeración de las virtudes que se consideraban propias de quien ocupara la institución imperial. Este tipo de discursos eran utilizados por los rétores e intelectuales que rodeaban al soberano de turno para difundir la imagen y los valores que la corte imperial deseaba hacer públicos y contenían, por tanto, una importante carga propagandística. No es de extrañar, por tanto, que Juliano, a la hora de componer un documento en el que pretendía justificar sus acciones y construir una imagen elogiosa de sí mismo, tuviera en mente este tipo de discurso, que tan bien conocía y que tan bien encajaba con el objetivo que perseguía tras ser nombrado Augusto.
19. Esta es la primera vez que Juliano es el centro declarado de una obra que él mismo escribe. Esta faceta autobiográfica del documento fue destacada ya por lAbriolA 1974 y 1991-2. En realidad, Juliano ofrece autoimágenes suyas en toda su producción, hasta el punto que Misch 1973, 543, estima muy probable que hubiera escrito una autobiografía suya, como lo hizo Libanio, si no se lo hubiera impedido su prematura muerte.
20. Esta extensión como destinatarios del discurso a todos los griegos ha causado problemas entre algunos estudiosos de esta obra, que la consideran incongruente con el hecho de que enviara cartas a otros griegos, como los corintios y los lacedemonios. Se ha pensado, entonces que la mencionada extensión fue un añadido posterior, introducido por Juliano cuando publicó la carta, siendo ya emperador, en Antioquía, en el año 363, cf. downey 1939, 312, y lAbriolA 1972, 522 y 526. En todo caso, Atenas mantenía en esta época su prestigio como capital intelectual del helenismo y Juliano pudo hacer esta extensión teniendo en cuenta esta posición preeminente de la que gozaba la ciudad como una parte más de la captatio benevolentiae
21. Este tipo de discurso, que se había convertido en protocolario en algunas ocasiones, fue codificado en los tratados de retórica y se nos ha conservado en el atribuido a Menandro el Rétor, Dos tratados de retórica epidíctica, II, 368-377, donde se ofrece un esquema ideal de elogio a un emperador, que podía variarse para adaptarse a las necesidades de quien lo componía y del destinatario. Las citas de este tratado están tomadas de la edición de russell; wilson 1981 y la traducción es de gAscó 1996.
22. Juliano conocía bien la retórica del elogio y había practicado el elogio al emperador en dos discursos dirigidos a Constancio en el 355/6 y en el 358/9, cf. boulenger 1927, AthAnAssiAdi 1992, 61 ss., y redondo-MoyAno 2009a, 2009b y 2010.
3.1. En el Lógos basilikós se proponía comenzar con los siguientes tópicos, como fuentes de argumentación: la ciudad de origen, la familia, el nacimiento y la crianza y educación del elogiado. De los primeros años de su vida, Juliano elige mencionar únicamente el parentesco que le une con el emperador 23, y esta mención se utiliza para hacer una primera alusión irónica al mismo (‘ese clementísimo emperador’, 270c), ya que le considera responsable de la masacre que sufrió su familia (‘¡qué cosas nos ha hecho!’, 270c) en sus primeros años de existencia24. El relato es sobrio hasta el esquematismo: no da los nombres de las víctimas, ni las circunstancias de su muerte, los lugares o las fechas; solo el grado de parentesco que los unía a Juliano y al propio emperador, de manera que queda subrayado el horror de los asesinatos cometidos por Constancio entre los miembros de su propia familia25. Juliano afirma, además, que Constancio quiso matar también a Galo y a él mismo, pero que finalmente decidió en aquel momento enviarlos al exilio, aunque posteriormente acabó asesinando también a Galo (270d).
Si los asesinatos de los demás miembros de su familia sucedieron en unas circunstancias difíciles para Constancio y podían ser, si no justificados, sí atribuidos a un juicio equivocado, como el propio Juliano hace en Or. 1.16d ss., ahora esta versión exculpatoria, que se resume en unas breves palabras (‘afirmaban todo eso para convencernos de que el emperador había obrado así, en parte engañado y en parte cediendo a la violencia y agitación de su ejército insubordinado y agitado’, 271b), queda absolutamente desvalorizada junto con el supuesto arrepentimiento y castigo que el emperador padecía en los años posteriores26, al reincidir en la misma conducta con el asesinato de Galo, que Juliano narra con más detalle.
Tras la matanza de su familia, Galo y Juliano fueron recluidos durante seis años en un campo de Capadocia27, que se describe como un exilio en el que
23. Juliano era miembro de la familia imperial por vía paterna: su abuelo, el emperador Constancio Cloro, había tenido descendencia de dos mujeres, Helena y Teodora. Al morir, heredó el poder Constantino I, el hijo de Helena. Julio Constancio, el padre de Juliano, era hijo de Teodora.
24. Cuando los hijos de Constantino I asumieron el poder en el año 337 —Constantino II (Britania, Galia e Hispania), Constante (Italia, África y provincias Ilíricas) y Constancio II (Constantinopla y Oriente)— prácticamente todos los miembros varones descendientes de Teodora fueron masacrados: esa fue la suerte que corrió Julio Constancio, el padre de Juliano, y sus hijos mayores; solo sobrevivieron los dos de menor edad, Galo y Juliano, que eran hermanastros, cf. Amiano Marcelino 21.16.8; Libanio Or. 18.31 y Zósimo 2.40, quienes atribuyen también estos crímenes a Constancio II.
25. Cf. MArtin 2009, 42.
26. Este castigo consistía en que Constancio no tenía hijos y en que no tenía éxito en sus acciones militares. Esta versión está recogida en Gregorio Nacianceno Ep. 21.26 y en Zonaras 13.12. gArcíA blAnco 1979, 314-5, n. 11, en su comentario a este pasaje, hace hincapié en el tono indignado de Juliano, que seguramente derivaba del juicio negativo que le merecía el arrepentimiento cristiano y el consiguiente perdón que siempre se otorgaba, de manera que los crímenes tanto de Constantino como de Constancio quedaban impunes por su apoyo a esta religión.
27. Cf. 271b ‘estábamos encerrados en un campo de Capadocia’; se refiere a la fortaleza de Macellum, en Cesarea (Asia Menor).
el emperador buscaba mantenerlos alejados de la educación y las compañías que les correspondían como miembros que eran de la familia imperial (271bc). Tras este encierro, los dos hermanos corrieron una suerte desigual, ya que Juliano fue liberado de él, ‘gracias a los dioses’ (271d), cuando Galo fue elevado a la dignidad de César, un cargo con que se honraba al futuro emperador. Pero este nombramiento se convirtió en un nuevo encierro para su hermanastro, esta vez en la corte imperial. Galo mostró, entonces, un carácter ‘algo áspero y violento’28, que Juliano presenta como la consecuencia de la deficiente educación que Constancio les había proporcionado (271d); él, por su parte, pudo librarse de tal efecto por mediación de los dioses, al dedicarse al cultivo de la filosofía29. En cuanto Galo fue revestido con la dignidad de César, Constancio comenzó a sentir una envidia que le llevó a darle muerte (‘Pues nada más pasar del campo al palacio, inmediatamente le revistió con el manto púrpura y, enseguida, comenzó a envidiarlo sin cesar hasta darle muerte, sin contentarse con despojarle del manto purpúreo.’ 272a). En este relato referido a Galo, Juliano omite las razones de su nombramiento como César30, y pasa por alto, igualmente, su actuación en el cargo, que fue muy poco adecuada a su dignidad y muy distante de la misión encomendada31. Solo menciona un episodio en el que el César se dejó llevar por la cólera, al enterarse de la existencia de unas cartas en las que se le hacía objeto de graves acusaciones. Juliano justifica esta cólera, que llevó a Galo a ordenar la muerte de los que consideraba responsables de tales acusaciones32, como propia de quien se defiende ante sus enemigos (‘¿Quizá se defendió con demasiada crueldad? En todo caso, no fuera de lo que cabía esperar, porque ya se ha dicho antes que es bastante natural actuar contra el enemigo bajo el influjo de la cólera.’ 272c-d); y añade que, aunque Galo no fuera apto para gobernar, en todo caso merecía vivir (272a) y, si su muerte era necesaria, en todo caso debería haber sido el resultado de un juicio que nunca se cele-
28. Galo es caracterizado negativamente en varias fuentes, como Gregorio Nacianceno Ep. 4.24 y Filostorgio 3.28a.
29. Sobre las deficiencias en la educación que Galo y Juliano recibieron, cf. Juliano Ep. 8.441b-c y ross 2016, 10, n. 42, donde se hace referencia al escaso conocimiento del latín que Juliano tenía. En cuanto a su formación filosófica, como hemos apuntado en nota 17, Juliano se acercó a la filosofía neoplatónica, comprometida en la defensa del helenismo, cf. bidez 1972, XXXIII.
30. Constancio II acabó siendo el único hijo superviviente de Constantino. Pero difícilmente podía hacer frente él solo a las amenazas que el Imperio sufría en el Rin, el Danubio y las fronteras del Eúfrates. Por otro lado, dado que él mismo no tenía hijos y se había adherido al principio dinástico como fuente de legitimidad (börM 2015, 255), solo sus primos Galo y Juliano eran posibles candidatos para ocupar el trono imperial. Constancio nombró César a Galo en marzo del 351, cuando tuvo que hacer frente al levantamiento de Magnencio en la parte occidental del imperio, y lo envió a Antioquía como representante del poder imperial con la misión de proteger la frontera oriental del rey de los partos Sapor II.
31. Galo no fue capaz de realizar el rol institucional que llevó a Constancio a elevarle a la dignidad de César, cf. börM 2015, 255-6.
32. El prefecto Domiciano y el cuestor Montio, cf. el relato en Amiano Marcelino 14.7 y en Libanio Or. 18.24.
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bró33. Constancio aparece, de este modo, como un cruel asesino que antepone los deseos de determinados personajes de la corte enemigos de Galo34, al triple vínculo de parentesco que le ligaba con él, ya que no era solo su primo, sino también su cuñado, pues Constancio lo había casado con su propia hermana, Constancia, al nombrarle César, y era, además, el padre de su sobrina, la hija de Galo y Constancia (272d). Esta sección del discurso que Juliano dedica a la muerte de Galo es considerablemente más larga que la que dedica a la masacre del resto de su familia, porque con ella no solo corrobora que Constancio es un frío asesino de los miembros de su propia familia, sino que además, lo sitúa, por un lado, al margen de la ley, puesto que asesinó a Galo sin juicio, y, por otro, al margen de la religión que el emperador practicaba35, ya que ni siquiera permitió que Galo fuera enterrado en la tumba de sus padres, ni ‘le juzgó digno de una santa memoria’ (271a)36 . Para dar cuenta de los primeros años de su existencia, Juliano se centra en dos tópicos de los recomendados en el Lógos basilikós, la familia y la crianza y educación. El primero le permite resaltar que tenía legitimidad dinástica por línea paterna para ocupar el trono imperial37 y ambos contribuyen a dibujar de sí mismo la imagen de víctima de su primo. Pero, además, Juliano adopta una perspectiva novedosa, ya que, en paralelo a su propia trayectoria vital, describe también las acciones de Constancio II y la catadura moral que de ellas se desprende, presentándolo como un asesino déspota, que actúa movido por la envidia y por la influencia de perversos consejeros, que es irrespetuoso con las leyes, con la religión y con los vínculos familiares. Esta narración paralela, que se inicia en los primeros años de la vida de Juliano, implica una comparación entre ambos que beneficia claramente a Juliano38 .
3.2. Tras la crianza y educación, el Lógos basilikós aconseja examinar las actividades que son ‘rasgos del carácter ajenos a las acciones competitivas, ya que las actividades dan muestra del carácter’ (372.3-4), y las acciones, dividi-
33. Zósimo 2.45, corrobora esta versión, según la cual, una vez que Constancio II controló la situación en Occidente, llamó a Galo a Milán, donde se encontraba la corte, y lo hizo ajusticiar, sin darle oportunidad de defenderse en un juicio, a finales del 345, acusándolo de aspirar al trono imperial con la ayuda del ejército.
34. Su chambelán, Eusebio, y el intendente de sus cocineros, cf. 272c-d.
35. Como drAKe 2015, 299-300, señala, en el siglo IV la naturaleza sagrada del emperador es evidente en escritos cristianos y en el propio Juliano (cf. Or. 2.70c-d): aunque podía haber discrepancias sobre la identidad de la divinidad, no las había en cuanto a la obligación del emperador de mantener la buena voluntad de dicha divinidad en beneficio del imperio, ya que tanto paganos como cristianos consideraban que la divinidad era una fuerza que influía en los asuntos cotidianos de los humanos.
36. También en 287a Juliano reprocha a Constancio la falta de respeto hacia las tumbas de sus antepasados, “aunque venera las ajenas”, es decir, las de los mártires cristianos, cf. gArcíA blAnco 1979, 338, n. 80.
37. Sobre la consideración del principio dinástico como elemento explícito para la legitimación de los dirigentes del imperio romano durante el siglo IV, cf. börM 2015, 239 ss.
38. La comparación se recomendaba en el Lógos basilikós (372.21, 376-377) para todas las secciones del discurso y, de manera más completa, al final del mismo.
das en las relativas a la guerra y a la paz, que muestren las virtudes del encomiado. Entre las virtudes propias del emperador se citan, por un lado, la valentía, como virtud propia de las acciones de guerra, y la justicia, la templanza y la sabiduría (373.6-7), como virtudes más propias de las acciones de paz; y, por otro, la filantropía o ‘sentido humanitario’ (374.26 ss.), que aparece en este contexto del elogio al emperador como una virtud propia de quien puede ejercer el poder sobre los demás y, por tanto, propia de la figura del emperador; manifestaciones de esta virtud son el tratamiento justo, con sentido de estado y, a la vez, humanitario que se espera del emperador en los conflictos39
Los rasgos del carácter de Juliano se ponen de manifiesto a raíz de su nombramiento como César, que Constancio le otorgó en noviembre del año 355, apenas transcurrido un año del asesinato de Galo. Aunque Juliano fue sospechoso de haber tenido alguna connivencia con su hermanastro, por lo que Constancio le arrastró ‘de acá para allá durante siete meses enteros’ 40 y lo sometió estrecha vigilancia (272d)41, pudo demostrar su inocencia por la voluntad de los dioses, quienes le proporcionaron la mediación benevolente de la emperatriz42. Cuando, una vez aclaradas estas sospechas, se dirigía a la casa de su madre, dado que Constancio se había adueñado de todos sus bienes paternos, el emperador, que había sido informado de que Silvano estaba a punto de rebelarse desde el país de los celtas, ‘lleno de miedo y de temor’ (273d), primero, le ordenó que se retirase a Grecia (Atenas), y poco después, le reclamó en la corte para nombrarlo, a su vez César. Juliano se detiene en
39. Cf. gAscó 1996, 158 y nota 37 de la traducción.
40. Cf. Amiano Marcelino 15.2.7-8: Juliano, en diciembre del 354 fue llamado a Milán, donde fue acusado de haberse marchado de Macellum sin que Constancio le hubiera dado permiso para hacerlo y de haber tenido contactos secretos con Galo en Constantinopla. En Milán Juliano tuvo que esperar siete meses para poder dar explicaciones de su actuación.
41. Así lo confirman Zósimo 2.48.5; Atanasio Apol. Const. 3. Amiano Marcelino 20.8.14, por su parte, registra el deseo de Juliano de ser independiente.
42. Cf. Amiano Marcelino 15.2.7-8, donde se apunta que Eusebia propició la entrevista entre Constancio y Juliano en que este último pudo alejar todas las sospechas que recaían sobre él; también le habría apoyado para lograr su deseo de desplazarse a Atenas al año siguiente. Juliano menciona a la emperatriz Eusebia como benefactora suya en varios de sus escritos; hemos tratado este asunto en Redondo-Moyano 2009b, passim y particularmente 78-79, en el que argumentamos que Eusebia no tenía ningún motivo para apoyar a Juliano. Por el contrario, dado que no tenía hijos con Constancio, Galo y Juliano, en caso de consolidarse en el poder, suponían una amenaza a su futura descendencia. El propio Constancio nunca renunció a tener hijos propios, como lo demuestran sus tres matrimonios y el hecho de que otorgara a sus primos Galo y Juliano la dignidad de Caesar, pero no la de Augustus, de manera que, en caso de tener descendencia, siempre podía colocar a su hijo, mediante este último nombramiento, por delante de los Césares, cf. szidAt 2005, 129. Por tanto, consideramos que la mención elogiosa de Eusebia, quien, como AthAnAssiAdi 46 apunta, suele aparecer en la vida de Juliano como una dea ex machina, pudo ser una amplificación interesada de Juliano a partir de un trato cortés de aquella, ya que le resultaba muy beneficioso poder hacer público que contaba con el apoyo de la emperatriz en una corte que le era muy hostil. Por otro lado, la atribución a Eusebia de la solución de varios conflictos o situaciones penosas evita concederle este mérito al propio emperador.
La construcción de una identidad política
un prolijo relato de su reacción ante esta llamada y su nombramiento inminente para dejar meridianamente claro cuál fue su actitud ante él. Relata, poniendo como testigos a los atenienses, que primero suplicó a Atenea que le salvara y no le entregara, y, después, que le diera muerte allí antes que iniciar el viaje (275a). La diosa oyó su petición de salvación, si bien no en la dirección que Juliano la solicitaba, sino que le ‘guió por todas partes’ y le ‘puso guardianes en todas partes, tomando mensajeros del sol y la luna’ (275a-b). Con esa protección divina, Juliano se dirigió a Milán, donde se encontraba la corte y, una vez allí escribió una carta a Eusebia en la que suplicaba ser devuelto a casa. Pero los dioses le indicaron que no debía enviar tal carta y comprendió entonces, tras intensas reflexiones 43, que no debía oponerse al camino que estos le estaban mostrando, y, por tanto, se sometió44 :
Considerando yo esta opinión no solo segura, sino también apropiada a un hombre moderado, y puesto que los signos de los dioses apuntaban a ella —pues arrojarme yo mismo, por precaverme de futuras intrigas, a un peligro vergonzoso y evidente, me pareció terriblemente inquietante—, cedí y obedecí. (277a)
La dignidad de César, que Juliano recibió a comienzos de noviembre de 35545 , supuso para él una vivencia descrita por dos veces como esclavitud46, ya que fue primero ridiculizado (por su aspecto físico, por sus ropas y por su acti -
43. La imagen de filósofo que Juliano quiere dar de sí mismo es evidente en este contexto en el que parafrasea a Platón, Fedón 62b.
44. Juliano pasó en Atenas el verano de 355, dedicado a sus estudios, y fue reclamado en Milán en otoño de ese mismo año. VAndersPoel 2013, niega la versión que Juliano da en este documento (y que ha sido aceptada por la generalidad de los estudiosos) de que cuando fue proclamado César en noviembre del 355 pasó directamente de las aulas al trono, y de que fuera una experiencia tan horrible como él refiere. Sugiere, por el contrario, que fue educado como un príncipe desde su infancia; que en Macellum, entre los 10 y los 16 años, fue educado no solo desde el punto de vista intelectual, sino también desde el militar; y que antes del 355 Constancio ya lo había sacado dos veces del ámbito escolar e intentado persuadirle de que lo ayudara, si bien en ambas había cedido a la preferencia de su primo por continuar su educación.
45. Cf. Amiano Marcelino 15.8.17. Una vez muerto Galo, Constancio, que seguía sin tener hijos que le sucedieran y que necesitaba atender al frente oriental del imperio, no tenía otra opción, a pesar de la mala experiencia de Galo, que nombrar César a Juliano, de manera que el poder imperial quedara representado por medio de él en Occidente, que estaba amenazado por continuas usurpaciones, cf. börM 2015, 256.
46. Cf. “la más amarga y penosa esclavitud” (273c), “rápidamente fui investido con el nombre y la clámide de César, pero era realmente la esclavitud”. (277a)
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Elena Redondo-Moyano
tud), y se convirtió más tarde en objeto de sospechas y de envidia (274a-d), de manera que vivía con continuo temor por su vida, vigilado y prácticamente aislado de sus amigos a los que no convocaba por miedo a que sufrieran desgracias (277a-d). No obstante, también en estos duros momentos, Juliano mantuvo la misma actitud de sumisión al emperador que había manifestado antes de ser César: ‘Pero en este punto no puedo dejar de decir cómo transigí, cómo soporté vivir bajo el mismo techo con los que sabía que habían arruinado a toda mi familia y sospechaba que, a no tardar, conspirarían también contra mí’ (274d).
En el relato de su nombramiento y de los primeros momentos como César, Juliano deja meridianamente claro que no deseaba el poder, que trató de rechazarlo en más de una ocasión y que solo lo aceptó porque comprendió que formaba parte de los designios divinos. Sigue siendo la víctima de las cambiantes órdenes de un emperador paranoico, ladrón y cobarde, al que, no obstante, obedecía.
La narración de las acciones comienza a raíz de ser enviado a la Galia con un pequeño contingente de tropas a comienzos de diciembre del mismo año 355. De su primera campaña Juliano relata con detalle las desfavorables condiciones en que fue enviado (cf. 377d): con pocos soldados, en mitad del invierno, y sin poder efectivo, ya que Constancio, por temor a que llevara a cabo una rebelión, le puso bajo el mando de sus generales, le sometió a la vigilancia de sus funcionarios y le obligó a ejecutar órdenes humillantes como hacer circular la imagen y el retrato del emperador en el ejército (‘pues el emperador también había dicho y escrito que no daba un emperador a los galos, sino una persona que les llevara su propia imagen’ cf. 278a)47. De este modo queda más destacado el dato de que obtuvo buenos resultados48. De la campaña siguiente, Juliano narra un único incidente que le permite resaltar su situación de indefensión. Relata que corrió ‘el mayor peligro’ (278a) al ser asediado por los germanos en Sens, debido a que no fue auxiliado por Marcelo, el jefe del ejército, que se encontraba cerca49. Constancio retiró a Marce-
47. Tanto bowersocK 1978, 34, como tougher 2007, 32 consideran excesivas las quejas que aquí manifiesta Juliano. Efectivamente, la Galia, en el siglo IV, era un territorio decisivo para el control del imperio occidental. Constancio envió allí a Juliano como representante del poder imperial, pero le otorgó pocos poderes efectivos, entre los que no estaba el mando del ejército. Este modo de proceder no fue una actuación particular en el caso de Juliano, sino que era habitual, cuando el emperador nombraba a un César al que deseaba mantener bajo control, cf. szidAt 2015, 129. De hecho, la Galia ofrecía grandes posibilidades de reclutamiento de tropas, por lo que no era extraño que los usurpadores, como había hecho Magnencio y haría el propio Juliano, se sirvieran de tropas galas para engrandecer sus ejércitos, que generalmente eran inferiores en número a los de los emperadores legítimos, cf. szidAt 2015, 126.
48. Juliano se refiere a la reconquista de Colonia, que se había perdido cuando Juliano iba camino de Galia, cf. Amiano Marcelino 16.8.1 ss.
49. Este es un episodio que también relata Amiano Marcelino (16.3.4) en el mismo tono de reproche que Juliano, ya que acusa a Marcelo de indignitas, si bien no lo incluye en un plan general de acoso a Juliano, sino que lo considera más bien un desplante que un general poderoso y veterano se permitió realizar frente al inexperto y advenedizo César.
construcción de una identidad política
lo del cargo, pero no se lo otorgó todavía a Juliano, porque no le consideraba ‘un buen y hábil general’, a la vista de que se había mostrado ‘benévolo y moderado’, al no inmiscuirse en el mando y al soportar en silencio el mostrar la clámide y la imagen del emperador (278c). Para recibir el poder sobre el ejército tuvo que esperar hasta la primavera del 357. Ya como general, Juliano obtuvo importantes logros militares, como la recuperación de Colonia Agripina y la toma de Argentoratum (Estrasburgo). En realidad, la primera había sido reconquistada el año anterior, cuando Marcelo estaba todavía en el poder, pero Juliano altera la fecha, para que el mérito recaiga solo sobre su persona, y para crear un efecto de acumulación en las victorias. La toma de Estrasburgo fue una gran victoria50, que supuso pocas pérdidas en su ejército, y muy numerosas en el de los bárbaros, y en la que los dioses (279c) concedieron a Juliano la captura del famoso rey alamán Cnodomario. Juliano mostró con él su filantropía, tratándole con humanidad, y dio una nueva muestra de su lealtad a Constancio, al enviárselo a Roma. Juliano altera, de nuevo, la cronología de los sucesos y hace que en ese momento Constancio esté de regreso de su expedición al Danubio (hecho que sucedió, en realidad, un año después, en el 358), de modo que el contraste implícito entre las actividades bélicas y la gestión de las mismas que ambos hacen inclina la balanza claramente a su favor: mientras que Constancio había hecho un ‘viaje’ en el que había sido recibido amistosamente por los pueblos que habitaban las riberas del Danubio, él había luchado exitosamente contra los bárbaros, a pesar de lo cual fue Constancio el que celebró el triunfo por la victoria que él había obtenido (279d). Aunque los honores del triunfo correspondían oficialmente al emperador, la eliminación del papel de Juliano en esta victoria por parte de Constancio debió de ser tan ostentosa que también Amiano Marcelino se muestra escandalizado (16.12.68) y critica la jactancia de Constancio, que hizo que en los archivos oficiales constara que el orden de batalla en Estrasburgo lo había organizado él mismo, que había luchado en primera fila y que Cnodomario se había rendido a él personalmente. Las dos campañas siguientes fueron también sumamente exitosas para Juliano. En el ámbito militar, consiguió que la mayoría de los bárbaros fueran expulsados de la Galia y que fueran recuperadas la mayoría de las ciudades. En el ámbito de la administración, mostró grandes dotes como gestor de estas victorias, al conseguir equipar una gran flota con la que navegó por el Rin, tras vencer, ‘con la ayuda y asistencia de los dioses’, a los bárbaros que ocupaban su boca, en lugar de pagarles por permitir este acceso, como Florencio, el prefecto de la Galia, pretendía hacer con el apoyo de Constancio, ‘que estaba acostumbrado a portarse como un criado ante los bárbaros’ (280b). Además, aportó numerosos bienes al imperio, ya que consiguió un Marcelo fue llamado a la corte y retirado del cargo, pero no se resignó, sino que allí acusó a Juliano de intrigar contra el emperador. El César se libró de esta acusación gracias a que contó con la defensa del honrado chambelán Euterio, cf. Amiano Marcelino 16.7.4. En esta época escribió su primer discurso de elogio a Constancio. 50. Cf. el relato de Amiano Marcelino 16.12.1.
gran botín de animales y personas, y organizó un transporte seguro para los víveres. Del resto de sus éxitos militares y como gobernante, Juliano selecciona, para no ser prolijo, solo los más relevantes: atravesó tres veces el Rin, recuperó a numerosos prisioneros que estaban en manos de los bárbaros (20.000), capturó a mil hombres en pleno vigor, envió a Constancio tropas de infantería y de caballería para engrosar su ejército y recuperó unas cuarenta ciudades (280c-d). Juliano acaba este relato de sus acciones, recalcando, una vez más, su lealtad a Constancio y su actitud siempre respetuosa y beneficiosa para con él, propia de un hijo, ya que le ha honrado como ninguno de los Césares anteriores lo había hecho con su emperador (280d281a). A esta lealtad, se opone la actitud de Constancio, que ‘se inventa ridícu los motivos de cólera’ (281d) al acusar a Juliano de que, tras su nombramiento como Augusto, había detenido a cuatro hombres de los que desconfiaba. Juliano defiende que también en esta situación su conducta fue moderada, ya que los detenidos eran ‘belicosos y turbulentos de suyo’, y él solo los encerró, sin arrebatarles sus bienes. Es más, Juliano vuelve contra Constancio este incidente, y contrasta su actitud de respeto al poder con el uso tiránico que el emperador hace de él:
Daros cuenta de cómo Constancio legisla que se castigue a estos individuos, porque, al irritarse por unas personas que no suponen nada para él, ¿acaso no me insulta y se burla de mi locura por haberme puesto así al servicio del asesino de mi padre, de mis hermanos, de mis primos y, por así decirlo, del verdugo de toda nuestra casa y familia común? Tened en cuenta, en cambio, con qué respeto le he seguido tratando desde que soy emperador, según se desprende de las cartas que le he enviado. (281b-d)
De hecho, Juliano considera que el nombramiento que ha recibido de parte de las tropas galas es una consecuencia de la nefasta gestión política de Constancio. Aunque, desde que fue nombrado César, Juliano pidió a Constancio que pusiera bajo sus órdenes a individuos ‘buenos y honrados’ (281d), este colocó junto a él a ‘los más malvados’ pero de su confianza. Juliano tuvo con ellos roces importantes, de manera que se habían convertido en detractores suyos. Fueron estos consejeros malvados, deseosos de despojar a Juliano de poder, los que convencieron a Constancio de que le privara de sus tropas. De ahí surgió la orden según la cual prácticamente todas las tropas más aguerridas del César debían salir de la Galia para participar en una cam-
La construcción de una identidad política 161
paña contra los partos que el emperador iba a emprender. Cuando la noticia llegó a estas tropas causó una gran conmoción, porque los galos estaban enrolados al servicio del imperio a condición de no ser obligados a traspasar los Alpes:
En esa espera se produjo un gran alboroto entre todos los civiles y los soldados, y alguien escribe un anónimo a la ciudad vecina de donde yo estaba (París), dirigido a los Petulantes y a los Celtas que aquí veis así se llaman mis dos legiones— en el que se atacaba abundantemente a Constancio y había muchas lamentaciones sobre la traición a los Galos, y el autor del libelo lamentaba también el ultraje que se me había inferido. (283a-b).
Las tropas se ponen en marcha, aparentemente para cumplir la orden del emperador, pero cuando llegan a París, rodean el palacio y le proclaman Augusto:
Mi esposa vivía aún y yo me encontraba reposando en mis habitaciones privadas, tras subir a una contigua a la suya en el piso superior. Después, desde allí —había una ventana en el muro— adoraba a Zeus. Cuando el griterío se hizo todavía mayor y todo era agitación en el palacio, pedí a dios Que hiciera un prodigio, y al punto él lo muestra y
ordena 51 obedecer y no oponerse al deseo del ejército. Incluso tras estos signos, no cedí rápidamente, sino que me opuse con todas mis fuerzas y no aceptaba ni el título ni la corona. Pero como yo solo no podía imponerme a la multitud, y los dioses, que deseaban que esto sucediera, los excitaban, mientras que mi inteligencia había sufrido como un sortilegio, a la tercera hora, más o menos, no sé qué soldado me da un collar, me lo pongo y entro en el palacio, lamentándome desde lo más profundo de mi corazón, como saben los dioses. Y, sin embargo, hubiera debido, confiando en el dios que me había mostrado un prodigio, permanecer tranquilo, pero sentía una terrible vergüenza y hubiera querido esconderme ante la apariencia de no servir fielmente a Constancio hasta el final. (284b-285a)
Juliano presenta la sublevación de las tropas como un movimiento autónomo de las mismas, y su aceptación del título de Augusto como una nueva sumisión a los designios de los dioses; su estado de ánimo es el de alguien que está enajenado; su sentimiento es de vergüenza por no poder ser fiel al emperador; su filantropía se manifiesta también entonces en su esfuerzo por salvar a los partidarios de Constancio (285d). Esta versión es corroborada en sus líneas generales por la de Amiano Marcelino52, pero hay un documento, escrito por el propio Juliano, que lleva a considerar que su postura no fue tan neutral: en una carta que escribió a Oribasio en el año 359 (14 BidezCumont), unos meses antes de ser nombrado Augusto y cuando pasaba por una precaria situación por haber sido privado de su fiel colaborador Salustio53, se hace evidente, aunque en lenguaje metafórico54 y propio de un visionario 55, que esperaba asumir pronto el trono imperial56. Para entonces,
51. La cita es de Od. 3.173 ss. Homero fue el principal autor de referencia durante la época imperial. Sus citas se encuentran en todo tipo de escritos salidos de la mano de letrados. La recopilación de las que aparecen en Juliano fue realizada por schwArz 1892.
52. Amiano Marcelino 20.5.10 cuenta este pasaje de una manera cercana, pero en su versión es el Genio del Imperio (Genius Publicus) quien amenaza con abandonar a Juliano si no acepta su proclamación, cf. comentario en ross 2016, 156-7.
53. Cf. bidez 1960, 8.
54. Al sueño que Oribasio le ha contado a Juliano (suponemos que en una carta precedente), responde este con otro que ha tenido él: “me pareció ver que un elevado árbol, plantado en un triclinio muy grande, se inclinaba hacia el suelo y en su raíz brotaba un joven retoño lleno de flores. Yo estaba angustiado por el retoño, temiendo que fuera arrancado junto con el grande y entonces, al acercarme, veo al grande cortado sobre la tierra y, en cambio, al pequeño derecho y levantado en la tierra.” Es evidente que el árbol caído es un símbolo de la dinastía de los flavios, que acaba con Constancio, mientras que el retoño nuevo surgido de su raíz, representa a Juliano.
55. La relación de Juliano con la astrología y los ritos mistéricos queda patente en Eunapio (476.29 ss.), donde se narra que, dado que por entonces el César era objeto de numerosos complots dirigidos contra su persona, solicitó la presencia del hierofante de Eleusis. Como los ritos practicados por este dieron señales positivas, Juliano decidió enfrentarse a la tiranía de Constancio. Sobre la teurgia y el modo en que influyó en Juliano trata bidez 1965, 73-81.
56. Eunapio, en su Historia fr. 23, admite que Juliano aspiraba a gobernar, pero no por amor al poder, sino porque veía que este servicio a la humanidad era necesario ( anagkaîon),
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según cuenta Libanio (Or. 17.14), su fama en Oriente era máxima y ya debían haberse extendido rumores sobre los deseos de Constancio de levar tropas galas, cuya estima, según diversas fuentes, Juliano había sabido ganarse57
Una vez aceptada la proclamación, Juliano sigue presentando un comportamiento respetuoso con la autoridad imperial, que se manifiesta en las cartas que escribió a su primo firmando como César (285d) y proponiendo una concordia basada en la aceptación de su nombramiento y en la repartición del imperio58. Esta actuación contrasta con la de Constancio, quien, por un lado, le proclamó públicamente enemigo, contrató a los bárbaros para que arrasaran la Galia y concentró víveres en sus fronteras con la intención de organizar una expedición en su contra (286a-b); pero los bárbaros le entregaron a Juliano las cartas en las que se transmitían estas órdenes y así pudo apoderarse de los víveres. Y, por otro, le envió al Obispo de la Galia para ofrecerle inmunidad personal si renunciaba a su nueva dignidad. Juliano, que considera que Constancio carece de toda credibilidad (‘sus juramentos hay que escribirlos con ceniza’), la mantiene, pero no lo hace por amor al poder, sino por filantropía: ‘Yo mantengo mi dignidad no solo porque esté bien y sea conveniente, sino también por la salvación de mis amigos, pues no digo nada de la crueldad que se ejerce por todos los rincones de la tierra.’ (286d). El nuevo Augusto inicia, entonces, su marcha hacia Oriente, una vez que ha sido aprobada por los dioses mediante presagios favorables, por su propia salvación, sí, pero ‘mucho más por la buena marcha de los asuntos públicos, por la libertad de todos los hombres y por la del propio pueblo de los celtas, al que ya dos veces Constancio ha entregado a sus enemigos’ (286d-287a). Ofrece todavía en este documento una última posibilidad de
rememorando el pasaje de Platón, República 540b, donde se expone una idea similar. Entre los estudiosos modernos, szidAt 2015, 125, señala que Juliano había planeado cuidadosamente su rebelión, como muestra el hecho de que hubiera alejado de París a todos los oficiales que podrían suponer una amenaza a su persona. En todo caso, el César, como rosen 2006, 178-185, argumenta, podía haber rechazado el nombramiento de Augusto.
57. Cf. Amiano Marcelino 25.4.12, Libanio Or. 18.37 y Gregorio Nacianceno Or. 4.63-66. blocKley 1972, 448, precisa que Juliano era amado por las tropas del ejército de Occidente, pero no por las del ejército oriental, que estarían a favor de Constancio.
58. Esta carta (la 17b bidez-cuMont) se nos ha conservado en la obra de Amiano Marcelino 20.8.2ss. En ella se ofrece una versión de los acontecimientos muy semejante a la que se encuentra en la carta Al Senado y al Pueblo de Atenas: Juliano recuerda en ella que siempre ha sido leal a la institución imperial; que la revolución de los soldados se debe a que sus esfuerzos no son recompensados —por Constancio— como merecen y que él ha aceptado el nombramiento de Augusto bajo amenaza de muerte. Actuando así, esperaba aplacar la violencia de las armas, a la vez que evitaba que la dignidad imperial recayera en una persona peor. Juliano pide a Constancio que acepte la veracidad de estos hechos, que no preste oídos a los malintencionados y que, atendiendo a la Justicia, acepte las ventajosas condiciones que le propone: el envío de refuerzos militares para la campaña de Constancio en Oriente y la división del imperio, como se había hecho en épocas anteriores. El tono, como Juliano explicita, es de ruego y su actitud, conciliadora; pero, de facto, exigía concesiones que Constancio no estaba dispuesto a otorgar.
Elena Redondo-Moyanoevitar el enfrentamiento, siempre que Constancio aceptara su dominio sobre los territorios que para entonces controlaba, es decir, sobre la parte occidental del imperio, y, en caso contrario, anuncia que la guerra será inevitable (287a ss.). Sus últimas palabras son para apuntar que sería vergonzoso y cobarde no haber emprendido esta expedición por miedo a ser derrotado por las fuerzas superiores de Constancio (287b-c).
3.3. En el Lógos basilikós se recomendaba destacar en el epílogo la prosperidad de la que disfrutaban las ciudades gracias al emperador, para finalizar con una plegaria en la que se pedía que el emperador disfrutara un largo mandato y que fuera sucedido por sus hijos (377.10 ss.). Juliano utiliza la plegaria, pero referida a sí mismo y para solicitar que los dioses estén siempre de su parte, y, a la vez, como en la carta, menciona también de modo afectuoso al destinatario, la ciudad de Atenas, pidiendo para ella toda la prosperidad que él le pueda otorgar, es decir, asumiendo el papel del emperador, y deseándole que los emperadores la conozcan y amen de modo especial59:
“Que los dioses, dueños de todo, me otorguen hasta el final su alianza, como me prometieron, y proporcionen a Atenas la mayor prosperidad posible que esté en nuestras manos, y el tener siempre emperadores que sean capaces de conocerla a fondo y amarla de forma especial.” (287d)
4. Recapitulación
Después de ser nombrado Augusto, Juliano desplegó no solo una rápida actuación militar, sino también una activa campaña propagandística en la que le fue de gran ayuda la amplia formación en la retórica del êthos y filosofía que había adquirido en su juventud. Una parte de esta campaña fue la Carta a los Atenienses y al pueblo de Atenas, un documento único por su forma y contenido 60. El tema es él mismo y su objetivo es claramente ideológico:
59. Juliano había pasado un par de temporadas en esta ciudad y era bien conocida por los atenienses la predilección que sentía por su ciudad. En la carta a Temistio (260b) afirma que ama más a esta ciudad que al fasto imperial. lAbriolA 1972, 528-9, considera que también esta parte del discurso fue añadida para su publicación: en todo caso, encaja bien con el resto del contenido.
60. syKutris, 1931, 186, clasifica las cartas en tres grandes apartados: personales, literarias y oficiales: en este último grupo, que engloba las cartas diplomáticas, reales o imperiales, podríamos incluir esta de Juliano; cf. también sArri 2018, 14, donde se da cuenta de que
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defender su actuación y promocionarse como emperador, deslegitimando, a la vez, al Augusto en el poder, su primo Constancio II.
Desde el punto de vista formal, Al Senado y al Pueblo de Atenas solo podía ser concebido como una carta, dado que el género epistolar era el utilizado para la comunicación con un ausente. Además, la relación de la carta con la construcción de caracteres del receptor y del emisor, le facilitaba la construcción para sí mismo de una identidad política en registro encomiástico, a la vez que le permitía presentar a Atenas, la capital intelectual del helenismo que Juliano practicaba, como la comunidad más justa y, por tanto, la más adecuada para valorar sus actos. De este modo, Juliano deja implícita desde el exordio la idea de un juicio, en el que se propone defender su trayectoria vital y política.
El registro encomiástico era el propio del discurso de elogio, y, para el objetivo que Juliano buscaba, se adaptaba particularmente bien el discurso de elogio al emperador, que le ofrecía una doble ventaja: por un lado, era un medio utilizado habitualmente para la propaganda política desde los círculos imperiales, de manera que se adaptaba a la finalidad propagandística que también él perseguía, y, por otro, al ser él mismo el objeto del discurso, destacaba implícitamente que estaba realizando la defensa desde su nueva dignidad de emperador. Juliano adopta la organización recomendada en este tipo de discurso de elogio convencional del emperador: un relato cronológico de las actitudes y acciones en las que se manifestaran las virtudes o cualidades morales que le hacían digno de ostentar el cargo. Y adapta uno de los procedimientos propuestos para resaltar las virtudes, la comparación que debía hacerse tanto en cada sección, como al final del discurso, elaborándola de un modo original, para construir, en paralelo al elogio de su persona, un vituperio de Constancio61
en la época imperial la categorización de los documentos oficiales parece ser más precisa y se proponen tres tipos de cartas oficiales escritas por los emperadores: γράμματα o ἐπιστολαί (cartas), προστάγματα (edictos) y ἐντολαί (órdenes). No obstante, y dado que el contenido de la carta de Juliano es diferente de las cartas habituales de los emperadores, se entiende mejor en relación con clasificaciones como la de SchMidt 1997, 771 (edictos; cartas oficiales; cartas abiertas, similares a discursos; cartas privadas; cartas didácticas; cartas públicas literarias, en prosa o en verso; cartas pseudoepigráficas; cartas que contienen una prosopopeya retórica ficticia y cartas dedicatorias) que dan cuenta de la variedad de contenidos que permitía el formato carta, aunque solo coinciden, parcialmente, con la finalidad que buscaba Juliano. huMPhries 2012, 75, menciona otros documentos que tienen alguna similitud con esta Carta, pero que son lejanos en la mayoría de los aspectos, haciendo hincapié en la relevancia del contexto en el que se produce, ya que lo que está en juego es una guerra civil.
61. Cf. MArcos 2017, donde se apunta que en este documento Juliano «makes subtle references to other texts that give this Epistle a particular intertextual quality which blurs the boundaries between autobiography and panegyric as narrative types and strategies». Por su parte, elM 2015, cf. 75-80, lo considera un ‘apologêtikos logos in the form of an autobiography’; sin embargo, como hemos apuntado en nuestro trabajo, los datos autobiográficos que Juliano proporciona no siempre y no solo tienen finalidad apologética de su persona, sino que también están dirigidos a desprestigiar la actuación política de Constancio. De hecho, este es el primer documento en que Juliano ofrece un retrato negativo del empera-
Elena Redondo-MoyanoEn el siglo IV no existía una jerarquía clara de las reglas que debían cumplir los aspirantes al trono, de manera que los emperadores podían apelar a distintas ideas o valores para fundamentar su legitimidad62. Juliano argumenta su legitimidad por medio de un relato autobiográfico de unos hechos escogidos y dispuestos de forma que le permiten construir la imagen de un gobernante que tiene la actuación ética considerada propia de la institución imperial63. Se dibuja a sí mismo como una persona sin ambiciones (no quería ser nombrado César, 274d ss.; no sabía nada del motín de los soldados en París que desembocó en su nombramiento, 284b; no quería ser proclamado Augusto, 284d), mientras que Constancio se sostiene en el trono ejerciendo una brutal crueldad que alcanza incluso a los miembros de propia familia. Son los dioses (tradicionales64) los que le protegen de manera constante, como a los héroes, y los que le dictan el camino a seguir, señalándole, de este modo, la relevancia de la responsabilidad que le imponen (ellos decidieron su salvación tras la muerte de Galo, 273a; ellos le impulsaron a aceptar el nombramiento de César, 275c; ellos le ordenaron aceptar su proclamación como Augusto, 284c y ellos apoyaron con buenos augurios su marcha contra Constancio). Juliano obedece sin reparos las órdenes divinas, mientras que Constancio no muestra respeto ni con las formas más elementales del credo religioso que practica (asesina, impide el entierro de Galo 271a, no respeta las tumbas de sus antepasados 287a). Como jefe del
dor. El trabajo de huMPhries 2012 resalta el valor de este documento como una exposición de las características del buen y del mal gobernante, que en la carta se identifica con Constancio II, al que Juliano atribuye las características de un tirano.
62. El político e historiador del siglo IV, Aurelio Víctor en Caes. 39.29 constata esta falta de claridad en la sucesión del trono imperial como una fuente de conflictos. Es muy ilustrativo a este respecto el artículo de huMPhries 2008, donde se describen los esfuerzos de Constantino para justificar su legitimidad y evitar ser considerado un usurpador, aclarando que este término se aplicaba en el Código de Teodosio no al emperador que hubiera tomado el trono ilegalmente, como hacen los historiadores modernos, sino al que había sido derrotado en una guerra civil o a aquel cuyo régimen había sido condenado retrospectivamente como ilegal. Constantino, por un lado, aceptó ideas tradicionales sobre el buen gobernante, como ser un emperador que restaura o mantiene la libertad y la paz, que vence a los tiranos o que tiene el apoyo del Senado y del ejército, y, por otro, añadió otras que le servían según las circunstancias, como ser miembro de una dinastía, pertenecer al colegio imperial, ser el candidato preferido del ejército o del Senado, o ser vencedor en la guerra civil. De este modo, contribuyó de manera notable a la articulación de las ideas de legitimidad imperial durante el convulso siglo IV, restando valor a la legitimidad de sus rivales, como Majencio y Licinio, a los que consideró tiranos.
63. La importancia de la areté en un gobernante es una idea que Juliano sostuvo desde sus primeros escritos, como ad Them. 255d-257s. La desarrolló en Or. 3.78b-92b, donde se ofrece un programa político para el buen gobernante, que debe ser ejemplar y educar a sus súbditos. También en Libanio (Or. 12.64), el mejor rétor de la época y uno de los más fieles partidarios y admiradores de Juliano, se justifica la existencia de esta y las demás cartas escritas junto a esta por el deseo de Juliano de convencer a los ciudadanos de que era movido por una causa moral y de que no actuaba injustamente.
64. El documento es novedoso también en este aspecto ya que, según Amiano Marcelino 22.5.2-4, Juliano no dio muestras públicas de su credo religioso hasta después de la muerte de Constancio.
La construcción de una identidad política
ejército, Juliano, por un lado, ha mostrado la virtud propia de los emperadores, la valentía, luchando en numerosas y exitosas acciones, mientras que Constancio no ha resultado victorioso en ninguna de sus batallas, pero se ha adueñado de sus triunfos (279d); y, por otro, ha mostrado su sabiduría planificando estrategias exitosas y administrando con gran provecho del imperio sus victorias, mientras que Constancio gestiona desastrosamente los asuntos bélicos dejándose llevar por malvados consejeros (280b). Finalmente, ha puesto todo su empeño en ser justo y filántropo65, puesto que, a pesar de la continua falta de respeto hacia su persona y la dignidad que ostentaba, ha evitado acciones en contra de la jerarquía política y militar (sumisión a los cortesanos, tras ser nombrado César 274d, obediencia a Constancio cuando le ordenó hacer circular su retrato ante las tropas 278a y c, no intervención ante la indignitas de Marcelo 278c), a la vez que ha actuado sin prepotencia y con compasión 66 (tratamiento a Cnodomario 279c, preocupación por los partidarios de Constancio tras ser nombrado Augusto 285d) buscando el bien común 67 (aporta numerosos bienes, obtenidos en sus victorias, a las arcas del imperio 280b-d; mantiene su dignidad de Augusto por el bien de todos 286d, busca el acuerdo en el conflicto 285d y 287d).
Juliano elabora una imagen de sí mismo cercana a la del soberano justo platónico, elegido por los dioses y virtuoso68, a la que incorpora criterios sobre legitimidad propios de su época, como es la pertenencia a la familia imperial, el tener el apoyo del ejército, el ser victorioso en la guerra o el ser liberador de pueblos. Es la imagen en la que él fundamenta la instauración del helenismo, en el seno del cual los poderes de los gobernantes tienen su origen en el respeto a la legislación y al gobierno que se aprende en la paideía69 Y, en paralelo y por comparación, queda dibujado el êthos de Constancio, que carece de esas virtudes y, por tanto, no es digno del cargo que ostenta. En el supuesto juicio entre estas dos personalidades se dirime la adecuación para ocupar el trono imperial desde una óptica nueva ya que, por un lado, el conflicto se plantea entre dos miembros de la familia imperial70 y,
65. En lAbriolA 1991-2, 202 se apunta la posibilidad de un paralelismo entre el justo ateniense Aristides y Juliano, basada en una virtud que ambos comparten: la filantropía; de este modo se estaría oponiendo al ‘tirano Constancio’ con el ‘justo Juliano’, a la vez que se sugería la hipótesis de una sustitución del primero por el segundo.
66. Para la relación de la mansedumbre y la compasión con la filantropía, cf. Lib. Or. 1, 64.58; para su relación con el afán de justicia, cf. Isoc. Or. 5.116; Aristid. Or. 2.63.4-7 (Plat. de rhet.) o Lib., p. e., Or. 45, 2.1-5.
67. El interés de Juliano por los asuntos públicos es también patente en el resto de sus cartas, cf. bidez 1960, VI-VII.
68. Cf. gArcíA ruiz 2008, 138. Sobre la concepción teocrática del poder de Juliano, examinada desde las fuentes literarias, numismáticas y epigráficas, cf. conti 2009.
69. En los escritos de Juliano es constante la vinculación de este concepto de soberano con el cultivo de las letras, la filosofía y la retórica, cf. gArcíA ruiz 2008, 149.
70. Cf. börM 257. Fueron varios los usurpadores que aspiraron al poder durante el reinado de Constancio II, Magnencio, Vetranio y Nepotiano en el año 350 y Silvano en el año 355. Pero ninguno de ellos pertenecía a la familia imperial.
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Elena Redondo-Moyano
por otro, se confrontan dos órdenes, el antiguo, representado por Constancio, que no posee las virtudes requeridas para el cargo, y el nuevo, representado por Juliano, que se fundamenta en el glorioso pasado heleno y promociona un monarca elegido por los dioses y dotado de un êthos de servicio al imperio.
La confrontación militar entre Juliano y Constancio no tuvo lugar por la inesperada muerte de Constancio II en noviembre del 361. Juliano ocupó el trono imperial e inició la puesta en marcha de su programa político, a la vez que planificaba la defensa de las fronteras. En medio de esta intensa actividad se ocupó de que este documento único, la Carta al Senado y al Pueblo de Atenas, fuera publicada y perdurara el mensaje que contenía71 .
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71. lAbriolA 1974, p. 553, apunta la posibilidad de que su publicación en el año 363 se debiera al deseo de Juliano de poner como ejemplo a Atenas para los antioquenos.
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DOI: 10.2436/20.2501.01.89
Dal mito al cinema attraverso il fumetto: le Amazzoni, Wonder Woman e la norma delle identità di genere1
Morena Deriu
Università degli Studi di Cagliari
Who wants to be a girl? And that’s the point; not even girls want to be girls so long as our feminine archetype lacks force, strength, power…
William M. Marston
AbstrAct
The aim of this article is to investigate how the ancient Amazonian myth has been recently remythologised in Patty Jenkins’s Wonder Woman. The analysis of the similarities and differences between the antique and modern myths can indeed shed further light on the gender identity which is promoted in the film and based on the 20th century homonymous comics. Finally, the staging of Themyscira as an all-female society further problematises the theme of the identification and ‘normativitisation’ of the so-called ‘Otherness’.
Keywords: Amazons, Wonder Woman, Gender Studies, Comics, Cinema
Nel giugno 2017, all’età di settantacinque anni, la più nota supereroina della DC Comics raggiungeva il traguardo del primo film sul grande schermo 2
1. Una prima versione di questo contributo è stata presentata al Workshop internazionale Metamorfosi: identità in smottamento (Urbino, 30 novembre – 1° dicembre 2017) organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’ e dall’Associazione culturale Rodopis.
2. Cinque anni prima, M A tsuuchi (2012, 119, cfr. A nders 2011) accennava al malcontento di fans e commentatori online di fronte all’incapacità hollywoodiana «to include her
Morena DeriuA poche settimane dall’uscita statunitense, il Wonder Woman diretto da Patty Jenkins (la prima donna a girare un Superhero movie) faceva così il proprio ingresso nei cinema mondiali, mentre il mito amazzonico tornava a ribadire la propria metamorfica vitalità all’interno di un ricco curriculum (non solo) cinematografico3. Nella pellicola come già nel fumetto, Wonder Woman — al secolo Diana di Themyscira — è la principessa delle Amazzoni, figlia della regina Hippolyta e combattente invincibile, dalle abilità — oltre che dalla bellezza — fuori dall’ordinario.
Nel film della Jenkins, la principessa (interpretata da Gal Gadot) è cresciuta con lo spettro della corruzione e violenza di Ares e crede fermamente nella missione di pace del proprio popolo. Di conseguenza, quando il pilota americano Steve Trevor (Chris Pine) precipita in mare ed è portato in salvo sull’isola delle Amazzoni proprio da Diana, la nuova consapevolezza del conflitto mondiale spinge la donna a lasciare la propria terra.
Abbandonata Themyscira insieme a Steve, la principessa giunge a Londra, dove armata di lazo, spada, scudo e tiara, assume l’identità di Diana Prince, abbandona i panni da Amazzone e indossa prima tailleur militari e poi il noto travestimento da supereroina. La lotta nei panni di Wonder Woman è sostenuta da Steve, Etta Candy (Lucy Davis), Sameer (Saïd Taghmaoui) e Charlie (Ewen Bremner) contro il Generale Ludendorff (Danny Huston) e la Dott.ssa Isabelle Marue alias Dott. Poison (Elena Anaya). I ‘cattivi’ sono infatti impegnati nella produzione e diffusione di composti chimici dalle conseguenze mortali, mentre per i ‘buoni’ la prima travolgente vittoria arriva al fronte, seguita da una notte di passione tra Diana e Steve.
La gioia per il successo non dura però a lungo: la sera successiva, durante una cena di gala organizzata da Ludendorff, il generale dà prova della forza distruttiva dei veleni. Steve non permette alla supereroina di uccidere l’uomo e, più tardi, le rivela di non aver mai creduto nell’esistenza di Ares. Diana è furiosa: ritiene che il generale sia il dio della guerra, lo raggiunge all’aeroporto (da dove sta per partire un bombardiere per attaccare Londra) e lo uccide. Niente cambia, però; il conflitto continua e Trevor sacrifica la propria vita per far saltare in aria il velivolo in partenza.
Intanto, Diana lotta contro sir Patrick Morgan (David Thewlis) che le ha svelato la propria natura. È lui Ares ed è lui che la principessa delle Amazzoni uccide, liberando tutto il proprio potere, addolorata dalla fine di Steve. Con l’annientamento del dio, i combattimenti cessano e l’armistizio è firmato, ma, a distanza di anni, Diana vive ancora tra gli umani, lavora in un museo e la sua missione è proteggere l’intera umanità.
[ scil . Wonder Woman] in the continuing trend of films centered on lesser known characters».
3. L’uscita della pellicola nelle sale americane (anticipata di dieci giorni dalla prima mondiale di Shangai) è del 25 maggio 2017. Nella maggior parte dei Paesi (Italia inclusa), Wonder Woman esce il 2 giugno, tre settimane prima della data originariamente prevista. Per il dinamismo del mito amazzonico dall’antichità a tutto il Novecento, KleinbAuM 1983. Per una sua contestualizzazione all’interno dei colossal storici, AugoustAKis 2015.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 175
Questa la trama del film; scopo di questo contributo è mettere in luce in che modo e con quali asimmetrie, parallelismi e dipendenze l’antico mito amazzonico riviva nell’immaginario della Jenkins. La metamorfica rimitologizzazione delle Amazzoni invita, infatti, a interrogarsi sulla persistenza di tratti solo apparentemente immutabili nella rappresentazione dei costrutti di genere 4. La riproposizione di Themyscira come un’isola abitata da sole donne problematizza, inoltre, ulteriormente il tema della identificazione e normalizzazione della cosiddetta ‘Alterità’.
1. Amazzoni e Wonder Woman: alle origini del mito
Il primo punto da sottoporre ad analisi riguarda l’inquadramento delle vicende tanto delle Amazzoni quanto di Wonder Woman nella dimensione del mito. Si tratta di un aspetto metodologicamente importante, perché mostra come l’accostamento tra queste figure non si fondi solamente sulla rappresentazione della supereroina in quanto Amazzone. Antichi o moderni che siano, infatti, i miti condividono la funzione di dare un senso all’esperienza umana, anche offuscando, mediando e naturalizzando conflitti, tensioni e contraddizioni culturali attraverso temi (il Bene e il Male, la Moralità, la Spiritualità, la Giustizia, il Potere, le Relazioni, l’Amore) e figure (l’Eroe, la Madre, il Padre, l’Aiutante, il Trickster, il Cattivo) archetipici. Variano, invece, i linguaggi attraverso cui questi temi e figure sono presentati; si passa dalla tradizione orale ai racconti scritti, per arrivare alla radio, i fumetti, il cinema, la televisione5 .
Nella Grecia antica, dunque, le Amazzoni appartengono con una certa peculiarità al mondo del mito6. Sebbene, infatti, validi studi dimostrino come antiche società con guerriere siano esistite (argomentando peraltro l’ipotesi che loro suggestioni possano essere attive nel mito amazzonico) e per quanto le Amazzoni appaiano rappresentante come ancora in vita in età storica (esemplificativa, al riguardo, è la leggenda dell’incontro tra Alessandro Magno e Talestri, cf. Curt. 6.5.24-32), la narrazione delle vicende di queste combattenti e dei loro incontri/scontri con i grandi eroi si colloca precipuamente nell’immaginario mitologico7
4. «It is plain that the mythic construct of Amazons engages in a dialogue with the gender roles of the society in which it is viewed. In our own society they might have quite a different impact. In Greek society they can only act to reinforce the values of those that deploy them» (dowden 1997, 124). Per il mito amazzonico come strumento per leggere le dinamiche di genere nella società greca, dubois 1982.
5. stuller 2010, 3-4. Sul mito (non solo) nell’antichità, KirK 1970.
6. «Les Amazones occupent ainsi, dans le mythe, une place à part, relevant d’un côté de l’‘archéologie’, de l’autre, de la description ethnographique» (cArlier-détienne 1980, 12). Per un excursus critico della vasta bibliografia sul mito amazzonico fino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, stewArt 1995, 572-75.
7. Sulle possibili suggestioni storiche del mito amazzonico, MAyor 2014 con ampia bibliografia. Sugli scontri tra Amazzoni ed eroi del mito greco, sobol 1972, 38-77; dubois 1982, 32-33.
Morena DeriuLe Amazzoni fanno dunque la loro prima (per quanto fugace) comparsa nell’Iliade, dove sono dette ‘forti come gli uomini’, ἀντιάνειραι (3.189)8, da Priamo il quale, dall’alto delle mura, confronta la moltitudine achea con quella dei guerrieri e le guerriere che, da giovane, incontrò presso le rive del Sangario 9 . Lo stesso aggettivo le qualifica, poi, in 6.186 ( τὸ τρίτον αὖ κατέπεφνεν Ἀμαζόνας ἀντιανείρας), dove il riferimento è alla loro sconfitta da parte di Bellerofonte in seguito allo scontro con la Chimera e i Solimi.
Il poema ricorre dunque alla reputazione guerresca delle Amazzoni per accrescere quella di due uomini — Priamo e Bellerofonte — rappresentandole «as liminal figures, living somewhat beyond the outskirts of the Greek world»10. In quanto ἀντιάνειραι, queste donne incarnano infatti un paradosso, giacché «come guerriere combattono gli uomini, ma come donne confermano la differenza sessuale annullata in realtà dal loro essere guerriere»11 . Alludendo a questo radicale rovesciamento, l’Iliade ne esprime dunque l’‘Alterità’, sottolineata anche dalla provenienza geografica12 Sempre secondo il mito antico, inoltre, le Amazzoni furono combattute e sconfitte da Eracle (cf. A.R. 2.966-69; D.S. 2.46.3-4, 3.52.4, 3.55.3, 4.16; Eur. HF 408-18, Ion 1144-45; Pind. fr. 172 [158] Sn.-M.; Pherecyd. FGH 3F15) e Teseo (cf. Aesch. Eu. 685-89; D.S. 4.28; Hdt. 9.27.4; Plu. Thes. 26-28) e il loro coinvolgimento nella guerra di Troia (cf. Verg. Aen . 1.490-93) portò allo scontro con Achille e alla morte di Pentesilea (cf. D.S. 2.46.5; POsl . 1813; POxy. 1611, fr. 4 col. II 15 sgg.; Procl. Chr. 105, 20-28 Allen; Q.S. Post-Homerica 1.538-674). Per gli eroi greci, vincerle significava certificare il proprio valore e la propria virilità13
Allo stesso tempo, il mito di queste ‘vergini promiscue’, adoratrici di Artemide e adepte di Ares (cf. D.S. 2.46.1), ben si inquadra all’interno della riflessione
Sulla dimensione etnografica che differenzia le Amazzoni da altri protagonisti del mito, cArlier-détienne 1980, 12-17. Su Alessandro e Talestri, MAyor 2014, 319-38. 8. «ἀντιάνειρος épithète des Amazones, hypostase de ἀντὶ et ἀνήρ […] ‘qui vaut un homme’, mais parfois compris ‘ennemie des hommes’ du Pind. Ol. 12,16 στάσις ἀντιάνειρα ‘la discorde qui met les hommes aux prises’» (DELG, s.v. ἄντα). Oltre all’Iliade, dove «esistono soltanto come formula e non sono ancora inserite in uno schema eroico vero e proprio» (brunori 2010, 89), le testimonianze intorno alle Amazzoni risalenti all’epoca arcaica provengono da materiale ceramico (ibidem, 90-92). La più antica documentazione iconografica compare su uno scudo votivo frammentario proveniente da Tirinto e datato al 700 a.C. ca (LIMC, n. 719, s.v. ‘Achilleus’). Supporre, quindi, che i Greci di età arcaica avessero familiarità con elementi del mito noti successivamente attraverso fonti scritte sembra essere un azzardo (shAPiro 1983, 105).
9. «The epithet emphasizes their male type, while the context emphasizes their status as opponents» (hArdwicK 1990, 15).
10. stewArt 1995, 576.
11. AndrisAno 2006, 45, cfr. brunori 2010, 89 e 96. Sul paradosso delle Amazzoni, donne per coraggio comparabili agli uomini e superiori a questi ultimi nell’animo ma non nel corpo, Lys. 2.4 (ἐνομίζοντο
12. blondell 2005, 189.
13. Cfr. hArdwicK 1990, 15-17; AndrisAno 2006, 50. Su Achille e Pentesilea in particolare, MAyor 2014, 287-304.
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greca su matrimonio e scambio di donne in quanto pratiche culturali che definiscono i confini della norma e della deviazione da essa14. Se infatti — come evidenziato da Claude Lévi-Strauss in poi — i pari scambiano donne istituendo relazioni, ciò che sta al di fuori di questo cerchio occupa notoriamente una situazione agonistica15. Da un lato, infatti, la donna è ‘oggetto’ necessario allo scambio e dunque all’atto fondatore del matrimonio; dall’altro, invece, è generalmente riconosciuta nel ruolo di riproduttrice e come l’‘Altro’ rispetto a cui l’uomo greco si definisce16. In questo cortocircuito identitario, il matrimonio, miticamente e metaforicamente inteso come atto che sostiene il mondo greco, è così opposto alla dimensione della guerra, mentre la fisionomia delle Amazzoni risulta antiteticamente funzionale alla definizione non solo della virilità dell’eroe ma anche del ruolo della sposa nello scambio; in quanto guerriera e donna avulsa alle nozze, infatti, l’Amazzone ne è l’opposto. A questo riguardo, lasciando momentaneamente da parte la dimensione propriamente mitologica, risulta emblematica la testimonianza di uno storico con interessi etnografici quale Erodoto in merito alle origini dei Sarmati, i cui costumi risultano giustificati dalle radici amazzoniche17 . Agli Sciti che vogliono avere figli dalle Amazzoni (cf. 4.111.15 οἱ
) e vivere presso il proprio popolo avendole come mogli (cf. 4.114.8-9
), le guerriere rispondono rimarcando le proprie peculiarità rispetto alle Scite (4.114.11-17)18:
‘noi e loro non abbiamo gli stessi usi; noi tiriamo con l’arco, scagliamo giavellotti e andiamo a cavallo, mentre non abbiamo appreso i lavori
14. In Diodoro Siculo (3.71.4), le Amazzoni condividono con Atena ‘il medesimo ideale di vita’ (τὸν ὅμοιον τῆς προαιρέσεως ζῆλον) fondato sul ‘valore e la verginità’ (τῆς ἀνδρείας καὶ παρθενίας). Per la vicinanza tra Atena e le Amazzoni in quanto peculiarmente trasgreditrici delle regole non scritte della società greca, deAcy 1997; ArAtA 2010, 46-47 n. 15.
15. Cfr. rubin 1975; dubois 1982, 37-48; redfield 1982; lyons 2003; blondell 2005.
16. Su questi aspetti, dubois 1982, 4-18; bergren 1983, 75-78.
17. Su Amazzoni e Sarmati, MAyor 2014, 52-59.
18. Le traduzioni del libro IV di Erodoto sono di A. frAschetti; il testo è di A.D. godley. Precedentemente sconfitte dai Greci presso il Termedonte, le Amazzoni erodotee massacrano i vincitori sulle navi, ma totalmente incapaci di navigare arrivano nelle terre degli Sciti trasportate dalla corrente del mare (Hdt. 4.110, cf. Philostr. Her. 25-30). Al di là del peso narrativo, l’inesperienza nella navigazione ha la funzione di opporre due società: una (continentale) fondata sulla caccia, un’altra (costiera) basata sull’andar per mare e il commercio (AndrisAno 2006, 46).
femminili. Le vostre donne non fanno nulla di quanto abbiamo detto; si occupano invece di lavori femminili rimanendo sui carri; non vanno a caccia né in alcun altro posto. Con loro dunque non potremmo andare d’accordo’.
«Herodotus’ account is significant for the specific treatment of the contrast between the Amazonian and the secluded way of life for the women. His comparative ethnography is doubtless spurious, but his choice of special features […] presents their separateness as a form of dissent from the conventions of life for Greek women, which he projects on to the Scythians»19 Ora, nel ricollegarsi al mito amazzonico, Wonder Woman si presenta come un ibrido tra racconti antichi e istanze moderne20. Oltre che con le Amazzoni ‘greche’, infatti, la pellicola della Jenkins deve necessariamente fare i conti con la storia novecentesca della supereroina, a partire dal momento in cui compare per la prima volta sulla carta stampata tra il 1941 e il 194721. Allora, in pieno conflitto mondiale, la fantasia di William Moulton Marston (18931947) aveva dato vita, negli Stati Uniti, a Wonder Woman, la principessa delle Amazzoni e figlia della regina Hippolyta, che lasciava Isola Paradiso per aiutare gli USA in guerra. Marston (che si firmava con lo pseudonimo di Charles Moulton) l’aveva dotata di un’ampia gamma di qualità miticamente divine: la saggezza di Atena, la bellezza di Afrodite, la velocità di Mercurio e la forza di Ercole22 .
Il primo numero del fumetto, inoltre, metteva in scena i medesimi eventi da cui la pellicola della Jenkins prende le mosse: l’arrivo di Steve Trevor su Isola Paradiso (il quale vi precipitava da un aereo) e la conseguente ribellione di Diana (che decideva di seguirlo sulla Terra armata delle potenti armi della propria gente).
Ora, per comprendere appieno in che termini Wonder Woman abbia scalato sin dalle origini le mitiche cime del moderno Olimpo, è utile un riferimento a un saggio pubblicato da Umberto Eco nel 1964 («Il mito di Superman»). Nel lavoro, lo studioso mostra acutamente la connotazione mitologica dei supe-
19. hArdwicK 1990, 17, cf. cArlier-détienne 1980, 20-21. Per una lettura del passo erodoteo come problematizzante la polarità guerra/nozze, dovuta alla triplicità dei rapporti sottesi al testo (Amazzoni/Sciti, Amazzoni/Greci e Sciti/Greci), hArtog 1992, 189-94. Per un’interpretazione del mito delle Amazzoni come incarnazione del ‘buon selvaggio’, flory 1987, 108-13.
20. Sulla genesi della supereroina, stAnley 2005, 146-50; finn 2014, 8-9.
21. Il personaggio di Wonder Woman fa il primo ingresso in scena su All Star Comics #8 nel dicembre del 1941, mentre il primo numero interamente dedicatole (Sensation Comics #1) è del gennaio 1942. Il fumetto eponimo, Wonder Woman #1, è dato alle stampe sei mesi dopo (stuller 2010, 14-16, cfr. MAtsuuchi 2012, 122-24).
22. «Marston freely borrowed from classic Greek and Roman culture, blending names, places, and customs with contemporary American values to create his mythic Amazons» (stuller 2010, 16, cfr. stAnley 2005, 161: «Despite Marston’s linguistic amalgam, Wonder Woman is persistently Greek. Rome, even in the psychologist’s era, carried too much anti-Christian baggage to be portrayed in a favorable light; Greece, on the other hand, though more distant, is more easily appropriated»).
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reroi dei fumetti, che condensano in sé i desideri del pubblico, ne proiettano le aspirazioni e, in questo senso, rappresentano una creazione dal basso di modelli e aspirazioni paradossalmente proposte dall’alto23. In quest’ottica, figurerebbero come un’incarnazione, oltre ogni limite pensabile, delle esigenze di potenza che le ‘persone comuni’ nutrono e non possono soddisfare24 . Ai fini di questo discorso, è pertanto significativo che la Wonder Woman di Marston «was a male creation, designed mainly to carry a message to men […] about the superiority of the feminine principle» 25. Per Marston, infatti, i supereroi del fumetto (e il maschile non è generalizzante) sarebbero fisiologicamente privi di quello che lo psicologo considera il più importante ingrediente della felicità umana: l’amore26. Sotto questo aspetto, dunque, (sempre secondo il creatore di Wonder Woman) non differirebbero dagli uomini in carne ossa, mentre il corpo femminile sarebbe fisiologicamente preposto a creare amore in quantità doppia rispetto a quello maschile27. Di qui, l’idea di una supereroina al servizio del bene dell’umanità, in nome dell’altruismo e dell’amore.
In un momento storico in cui le necessità della guerra stavano progressivamente affidando alle donne compiti sino ad allora prettamente maschili (si-
23. Rispetto agli eroi del mito (detentori di una missione straordinaria, dalla natura eccezionale e dalla fisicità fuori dall’ordinario, al punto da poter anche essere oggetto di culto), i supereroi presentano già a una prima analisi una evidente peculiarità. «The word superhero […] combines the prefix ‘super’ with something which […] is already ‘super’ in itself: a hero. The union makes sense solely if taking in consideration a meaning of the term ‘hero’ only mildly related to the classical world, and instead mainly referred to a modern idea of hero […] Modern heroes do not have special powers and are yet to accomplish any mission, being heroic for their selfless spirit, for their courage, and for the mission they feel called to carry out. In this case, on the surface the ‘super’ intensifier is motivated by the ‘superpowers’ of the superhero, but the profound nature of their superiority lies in their moral qualities» (Pellitteri 2011, 5).
24. eco 1964, 229. «According to the ‘cultural legitimation’ perspective, comic books, like all capitalistic media, tend to reflect the status quo […] In contrast, other scholarship celebrates the complexity and diversity of issues raised in comic books […] Yet the legitimation/ criticism dichotomy ignores the complexity of the issue. Argumentation itself, for example, may be more a matter of degree than of absolutes […] And even the most fundamental social criticism appearing in mainstream media may, in certain instances, serve to legitimate dominant social values and structures […] Much work has been done, however, on how industrial practices influence other media content […] Industry regulatory mechanisms, including the types of government regulation and self-regulation, shape the degree of societal legitimation/criticism […] But in addition to these larger industrial characteristics, the practices of specific organizations are also important variables. The modes of production in media organizations, including how work is routinized, strongly influence content […] Likewise, the organizational incentive systems of management and workers, and the perceived ratio of risks to benefits, may influence the degree to which innovation is attempted and dominant ideas criticized […] The superhero comic book industry may be seen as a particularly valuable case in point for illustrating the relationship between these industrial and organizational factors and the degree of cultural argument they permit or encourage» (McAllister 1990, 55-56).
25. KleinbAuM 1983, 206, cf. sPieldenner 2013, 237.
26. Cfr. MArston 1943.
27. Cfr. MArston 1928.
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Morena Deriugnificativamente, il debutto di Wonder Woman coincide con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti)28, Marston ideava, quindi, una supereroina destinata a essere sia un modello di empowerment sia un simbolo della partecipazione femminile nell’industria e nell’economia statunitensi durante il secondo conflitto mondiale, con il compito di risvegliare le coscienze favorendo l’avvento di un futuro e pacifico matriarcato29
Di qui, il ricorso al mito di una società di sole donne e all’utopia matriarcale a incarnare — come evidenziato in altro contesto da Eco — oltre ogni limite le esigenze di pace e potenza che i e le cittadine ‘comuni’ dovrebbero nutrire e soddisfare. «Women’s strong qualities have become despised because of their weakness», scriveva Marston nel 1943. «The obvious remedy is to create a feminine character with all the strength of Superman plus all the allure of a good and beautiful woman»30 .
2. La metamorfosi del mito
In linea generale miti antichi e moderni condividono una sorta di plasticità dei contenuti legata e, in un certo senso, dovuta a una metamorfosi delle funzioni31. Tuttavia, tale plasticità appare meno ‘malleabile’ nell’orizzonte antico, dove le vicende mitologiche risultano maggiormente delimitate secondo uno sviluppo ‘definitivo’, che, in quanto appartenente a un lontano e leggendario passato, non può essere modificato né negato. Le varianti, tuttavia, originalmente inaugurate da poeti e artisti o ascrivibili a tradizioni precedenti e parallele, non mancano e sono, anzi, caratteristica essenziale del patrimonio mitologico greco, costituzionalmente aperto e in continua evoluzione, senza che comunque se ne intacchi la definitorietà32 Così, nell’Atene del VI e V sec. a.C., le vicende amazzoniche appaiono iconograficamente ascritte ai temi della cultura e della ostilità a essa, espressi attraverso l’accettazione e la non accettazione del matrimonio, al fine di ela-
28. «As men once again led the nation into battle and bloodshed, Marston’s plea for women’s love leadership became all the more pertinent» (finn 2014, 10). Per l’influsso della Seconda Guerra Mondiale sui fumetti degli anni Quaranta, McAllister 1990, 59. 29. s tuller 2010, 7, 15, 18-19; M A tsuuchi 2012, 124; f inn 2014, 9-14. La società matriarcale sognata da Marston non coincide con la teorizzazione elaborata, nel 1861, da Johan Jakob Bachofen, per quanto il mito amazzonico abbia per entrambi un peso comprensibilmente preponderante. Lo studioso svizzero, infatti, aveva inteso il matriarcato come una fase iniziale, ‘naturale’ dell’umanità; una fase di cui il mito delle Amazzoni rappresenterebbe un problematico relitto e che sarebbe stata positivisticamente superata dalla cultura e dalle naturalizzate capacità di trascendenza maschili. Marston, di contro, reinterpretava il matriarcato in termini utopisticamente futuristici e pacifici, facendone un momento evoluzionisticamente più ‘alto’ rispetto al contemporaneo e guerresco patriarcato.
30. MArston 1943, 42-43.
31. Per un breve excursus bibliografico sull’evoluzione dell’interpretazione del mito delle Amazzoni, ArAtA 2010, 43 n. 4.
32. brunori 2010, 90 con bibliografia.
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borare e sostenere idee concernenti la differenziazione sessuale ed etnica33 Tra la fine del VI e l’ultimo ventennio del V sec., le Amazzoni entrano graficamente a far parte della mitologia ateniese attraverso una giustapposizione delle fatiche di Eracle e delle imprese di Teseo, significativamente accostate nelle metope del tesoro ateniese a Delfi. L’apice del successo iconografico arriva, quindi, con la metà del V sec., quando, successivamente alle guerre persiane, l’Amazzonomachia (che compare anche sul lato occidentale delle metope del Partenone) diventa funzionale a significare il primato della città nella sconfitta della forza barbara34. Le Amazzoni avevano, infatti, il ‘merito visivo’ di evocare in maniera immediata l’idea di un nemico ‘altro’ e tuttavia umano, contribuendo a denigrare in certa misura i Persiani, svirilizzati dall’analogia e identificati dalla mancanza di sophrosyne, che tradizionalmente differenziava l’uomo greco da barbari e donne. Solo attraverso il matrimonio, infatti, queste ultime potevano ottenere l’unica forma di sophrosyne ammessa per il proprio sesso: la consapevolezza — estranea alle Amazzoni — di doversi sottomettere a un marito35 .
La forza barbara delle leggendarie guerriere non è più rappresentata ai limiti della cultura ateniese con la statuaria di fine V sec., quando, scolpita nel fregio del tempio di Bassae, l’Amazzonomachia simboleggia la necessità di combattere il nemico barbaro anche dall’interno. Su questa linea, nel periodo di stasis che caratterizza il IV sec., le Amazzoni compaiono nei fregi del Mausoleo di Alicarnasso come simboliche e archetipiche sorelle delle due Artemisia, regine di Caria, motivo di orgoglio ancestrale per la ricca aristocrazia locale che nel 357 porta aiuto a Chio, Kos e Rodi nella rivolta all’alleanza con Atene, mentre nel capoluogo dell’Attica, le loro vicende continuano a essere elaborate in funzione del prestigio locale36
33. Su questi aspetti, dubois 1982, 57-66; leAl 2010, 9-10. «It is hardly surprising, then, to find late-sixth-century Athens suddenly awash with images of women: courtships, abductions, explicit erotica, courtesans, maenads, the Akropolis korai, and, of course, Amazons […] These images, and hundreds more like them, signal many things about their male patrons and public: curiosity, anxiety, desire, pride in possession, the need to control, and sheer brute macho sexism, to name but a few. Not a few of them share a common denominator: the fact that the women in them are oblivious to or heedless of what one may call the ‘world’s eye,’ the censorious gaze of men. Their combined significance, however, is clear: by around 500, Athenians were vigorously scrutinizing the proper place of women in their reorganized city» (stewArt 1995, 578). Lo studioso relaziona in maniera convincente la grande diffusione del mito amazzonico in età periclea anche alle nuove norme di cittadinanza emesse dallo stratega. «So, in mid-fifth-century Athenian sexual politics, not foreign men but foreign girls were the threat […] In a city that prided itself on its autochthony, these alien parthenoi could justly be represented as draining the city of its remaining eligible bachelors, depriving its daughters of their birthright, and mongrelizing the community» (ibidem, p. 589). Cfr. hArdwicK 1990, 23-33.
34. «The artistic and literary evidence of the Golden age testify to the fact that an Amazon attack on Athens, and a costly and hard-earned victory of Athenians over Amazons, was a major component of classical consciousness in Athens as well as in elsewhere in Greece» (KleinbAuM 1983, 8, cfr. 11-12). Su questi aspetti, MAyor 2014, 279-83.
35. stewArt 1995, 583-85.
36. dubois 1982, 131.
Morena DeriuSulla scena giudiziaria, Lisia ne ridimensiona la fama e il valore, rappresentandoli come il frutto di una lotta contro uomini di gran lunga più deboli degli Ateniesi (2.4-6), e Isocrate ne rievoca la sconfitta nel mitico tentativo di invasione dell’Attica per sostenere la leadership ateniese nell’unione dei Greci contro la Persia (4.68-70)37. Sulla scena comica, le guerriere diventano strumento per inscenare e ridicolizzare una stravagante guerra tra i sessi38, mentre fra i tragici i soli a menzionarle sembrano essere Eschilo (Eu. 625-30 e 681-91, Pr. 723-28, Supp. 287-89) ed Euripide (Alc. 66, Heracl. 215 sgg., HF 408-15, Hipp. 305-10, 351 e 581-82, Ion 108-10). Nei due tragediografi, le Amazzoni appaiono rispettivamente come simbolo del pericolo di disgregazione corso dalla polis di fronte alla possibile sopravvivenza di un passato regolato dalla legge del taglione e dell’invidia ed emblema di una società che relega questi valori a un tempo mitico, privo di legami con il presente e senza minacce per il futuro39 . Per quanto, dunque, generalmente ed essenzialmente collocate in un distante e mitologico passato, le Amazzoni assunsero agli occhi antichi significati e funzioni in linea con i contesti storici e locali, ma senza apparentemente rinunciare alla funzione di designazione dell’Alterità sul piano sia geografico sia sociale40 In maniera simile, con il mutare dei contesti, anche il mito di Wonder Woman conosce una metamorfosi delle funzioni, che, in ragione della sua diver-
37. L’invasione dell’Attica da parte delle Amazzoni è un frequente tema epidittico (cfr. D. 60.8; Lys. 2.4-6; Pl. Mx. 239b) che risulta stabilmente consolidato nella tradizione storica alla metà del V sec. a.C. (usher 1990, 164, cf. hArdwicK 1990, 19-20).
38. Sono attestate due commedie intitolate Amazzoni attribuite a Cefisidoro (frr. 1-2 K-A) ed Epicrate (fr. 1 K-A). Aristofane allude alle mitiche combattenti in Lys. 678-79 ([…] τὰς δ’ Ἀμαζόνας σκόπει, / ἃς Μίκων ἔγραψ’ ἐφ’
39. Su questi aspetti, si veda estesamente ArAtA 2010. In ambito romano, il ricorso al mito amazzonico risponde, in età augustea, alla necessità di costruire un passato comune da opporre all’‘Altro’ da conquistare. Virgilio «secured the stature of his hero by giving Aeneas an Amazon opponent to overcome [scil. Camilla], just as the Greek heroes had to do» (KleinbAuM 1983, 26, cf. leAl 2010, 21-52). In epoca giulio-claudia e flavia, il mito assume tratti moralizzatori, nel tentativo di riflettere sul futuro di una società in cui sempre più barbari diventano alleati e cittadini romani. Così, Quinto Curzio Rufo (6.5.24-32) utilizza il racconto dell’incontro tra Alessandro Magno e Talestri per sottolineare il graduale declino del condottiero verso l’opulenza e la corruzione fisica e mentale, dovute alla contaminazione dell’incontro con ciò che Greco non è (cf. LeAl 2010, 53-73, in partic. 59-65). Sotto Aureliano, secondo l’Historia Augusta, un gruppo di gotiche — catturate in battaglia e condotte in trionfo nel 274 d.C. — è presentato come Amazzoni nel titulus che le accompagna (cf. SHA Aurel. 34 ducta sunt et decem mulieres, quas virili habitu pugnantes inter Gothos ceperat, cum multae essent interemptae, quas de Amazonum genere titulus indicabat). L’informazione, a carattere fittizio (la sconfitta dei Goti da parte di Aureliano è di tre anni precedente e non ha nulla a che fare con il trionfo in questione), è fondata sull’associazione tra Goti e Sciti e, in seconda istanza, tra donne gotiche, scite e Amazzoni, risultando così funzionale alla rappresentazione dell’imperatore come un grande generale che non tratta con i nemici e li sconfigge con violenza, diversamente da Teodosio sotto cui la Historia Augusta fu scritta (zecchini 1998. Sull’associazione tra Amazzoni e Scizia, MAyor 2014, 34-51).
40. «Les diverses versions du mythe ne sont pas autre chose que des variations, sur ces trois plans (la féminité dangereuse, l’inversion des rôles sexuels, la barbarie), des degrés de l’altérité» (cArlier-détienne 1980, 11).
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sa natura, va a interessarne anche e massicciamente i contenuti 41. Questa peculiarità appare, del resto, pienamente in linea con quanto osservato da U. Eco per un’altra celebre figura del fumetto che ha eroicamente e mitologicamente attraversato l’intero Novecento: Superman. Nella cosiddetta ‘civiltà del romanzo’, infatti, il supereroe (e anche la supereroina, quindi) incarna quella che Eco chiama:
«‘universalità estetica’, una sorta di compartecipabilità, una capacità di farsi termine di riferimento di comportamenti e sentimenti che appartengono anche a tutti noi, ma non assume l’universalità propria del mito, non diventa il geroglifico, l’emblema di una realtà soprannaturale, perché esso è il risultato della resa universale di una vicenda particolare»42 .
Alla morte di Marston, dunque, nel 1947, l’elemento romantico prende progressivamente il sopravvento e, negli anni Cinquanta, Diana diventa una donna da salvare e sposare, impegnata in avventure spesso letteralmente infantili. «[…] after the war, public interest in superheroes declined as a sense of normalcy settled over the nation. As with the women of war-time industry, once the war was won, superheroes were no longer needed»43 Nel decennio successivo, Wonder Woman — trasformata nella proprietaria di una boutique , che lavora sotto l’ala protettrice del proprio mentore — perde i superpoteri44. Solo alla fine degli anni Sessanta, trascinata dall’onda delle proteste sociali, torna a essere una combattente ancora priva, però, di superpoteri e non del tutto certa delle proprie preferenze per la lotta45. Con gli anni Settanta, una grande campagna mediatica punta a trasformarla nuovamente nella supereroina delle origini, nell’incarnazione di «feminist values of sisterhood, collaboration, empowerment, and compassion» 46 . Il risultato è Wonder Woman #204; pubblicato nel 1973, il fumetto rappresenta un vero e proprio ritorno alle origini, in nome delle (marstoniane) istan-
41. «Wonder Woman […] has experienced total re-creation — even casting her mother into the role of Wonder Woman in the 1940s, as well as being remade into an aggressive young woman with an unknown past […] These have resulted in radical reimaginations of the character, which do not acknowledge previous versions» (sPieldenner 2013, 241). Per le vicende di Wonder Woman successivamente alla morte di Marston, stuller 2010, 25-26, 37-39, 42-44; MAtsuuchi 2012. stAnley (2005, 143) interpreta la metamorfosi della supereroina alla luce delle esigenze della società patriarcale di ridefinire il proprio ideale di donna in accordo con le circostanze economiche e culturali.
42. eco 1964, 233.
43. stuller 2010, 25, cf. stAnley 2005, 150-53.
44. Cfr. stAnley 2005, 153-54.
45. Nel 1969, il fumetto (Wonder Woman #180) inscena la morte di Steve; Wonder Woman è allora un’apprendista nelle arti marziali, priva di superpoteri. La fine dell’amato risulta funzionale all’eliminazione di qualsiasi possibilità di sviluppo matrimoniale della vicenda, in opposizione al romance anni Cinquanta (cf. stuller 2010, 37-38; MAtsuuchi 2012, 125).
46. stuller 2010, 39. Su questi aspetti, si veda più estesamente 11s.
Morena Deriuze femministe di quegli anni e su cui fu improntata, dal 1976, anche la serie televisiva47 .
La metamorfosi della Amazzone non termina, però, con gli anni Settanta; la Wonder Woman del fumetto del decennio successivo è, infatti, una figura dalla sensibilità New Age, strettamente connessa alla mitologia greca. Negli anni Novanta, si converte nella ‘cattiva ragazza’ perennemente colta in pose ipersessualizzate, mentre con l’avvento del nuovo millennio va incontro a un’ulteriore metamorfosi, divenendo prima una dea della verità e poi nuovamente un’Amazzone a tutti gli effetti48
Nel corso del Novecento, dunque, il mito marstoniano di Wonder Woman conosce una metamorfosi delle funzioni con importanti variazioni anche nei contenuti. Mentre, infatti, il mito antico appariva maggiormente isolato in una dimensione di eternità, quello dei moderni supereroi e supereroine si mantiene nell’illusione di un continuo presente49 . Nel film della Jenkins, questo «esercizio di presentificazione continua di ciò che accade»50 si concreta peculiarmente nella scelta di inquadrare la vicenda all’interno di un flashback di ricordi. La cornice iniziale e finale della pellicola mostra infatti Diana intenta a rievocare l’infanzia e la giovinezza a Themyscira, l’arrivo sulla Terra e l’impresa contro il Generale Ludendorff, Dott. Poison e Ares grazie a una vecchia fotografia (raffigurante lei, Steve, Sameer e Charlie) inviatale da Bruce Wayne in persona. In questo contesto, dunque, la Wonder Woman cinematografica rappresenta a tutti gli effetti un ritorno o, meglio, una ‘presentificazione’ delle origini, laddove per origini si intendono gli anni in cui le vicende di Diana Prince fecero la propria comparsa sulla scena fumettistica mondiale.
3. Per una ‘rimitologizzazione’ cinematografica della cosiddetta ‘Alterità’
Sfuggendo alla dimensione dell’eternità degli antichi miti ed entrando in quella della ‘presentificazione’, l’Amazzone di Patty Jenkins sembra conosce-
47. «To describe her [scil. Wonder Woman’s] origins as feminist might be an incorrect application of a modern term, but creator William Moulton Marston and his professional and domestic partners Elizabeth Holloway Marston and Olive Byrne hoped that Wonder Woman would help to inspire needed socio-political change» (MAtsuuchi 2012, 122, cf. finn 2014, 15-16).
48. stAnley 2005, 157-60; sPieldenner 2013, 239 con bibliografia. Questo cambiamento in Wonder Woman avviene sostanzialmente in contemporanea con il rivolgersi dei comics a un nuovo pubblico, non più aprioristicamente composto da bambini e/o adolescenti ma da adulti (per questa metamorfosi del destinatario, McAllister 1990, 64-66; gibson 2008, 152 con bibliografia).
49. Emblematicamente, Superman e Wonder Woman condividono il fatto che, al lato delle loro vicende, si raccontino quelle di Superboy/Wonder Girl e Superbaby/Wonder Toddler e che questi personaggi possano addirittura incontrarsi.
50. eco 1964, 244.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 185
re una ‘rimitologizzazione’ in cui, sulla scorta del racconto novecentesco, alla donna guerriera è ‘concesso’ di essere l’Alterità non più da sottomettere e conquistare ma a cui aspirare e ispirarsi. L’analisi dei parallelismi e delle asimmetrie che contraddistinguono i miti delle antiche Amazzoni e di Wonder Woman secondo la Jenkins è, infatti, in grado di mettere in luce una serie di tratti apparentemente immutabili nella rappresentazione dei costrutti di genere e della cosiddetta ‘Alterità’.
Con la tradizione antica la contemporanea principessa delle Amazzoni non condivide, dunque, soltanto la diversità di chi abita e proviene da un terra straniera, Themyscira, il nome della patria amazzonica anche in diverse varianti del mito greco (cf. Aesch. Pr. 724; A.R. 2.995, le Amazzoni sono dette Θεμισκ ύ ρειαι; D.S. 2.45.4, 4.16.1; Paus. 1.2.1), mentre Marston parlava di Isola Paradiso (nel fumetto, il nome diventa Themyscira negli anni Ottanta)51 . Quel che, infatti, ai fini di questo discorso è senz’altro maggiormente significativo è che la Wonder Woman della Jenkins sia cresciuta con lo spauracchio di un Ares corruttore di uomini e con la consapevolezza (marstoniana) della missione di pace del proprio popolo52 . Le antiche Amazzoni, di contro, erano distopicamente associate al dio della guerra in quanto figure di sesso femminile abili alla lotta. Così, Euripide (HF 406 κόρας Ἀρείας) e Diodoro Siculo (2.45.2 θυγατέρα […] Ἄρεος) ne presentano la regina come ‘figlia di Ares’, Lisia (2.4) e Isocrate (4.68) riferiscono l’appellativo all’intero popolo e Proclo lo attribuisce a Pentesilea ( Chr. 105, 20 Ἄρεως […] θυγάτηρ ). Quinto Smirneo, nei Post-Homerica (1.674-715),
51. «That Marston dubbed this man-free land ‘Paradise’ is telling, as is his explanation for the peace and harmony that characterized the all-female civilization» (finn 2014, 11). «Wonder Woman is both a patriotically garbed hero and a foreigner to America. As such, she appeals to ideas of a benevolent status quo insider and the feelings of being an outsider» (sPieldenner 2013, 237, cf. stAnley 2005, 160: «Wonder Woman’s mythological heritage places her simultaneously outside and inside mainstream society. While antiquity’s Amazons lurked on the edges of maps, the fringes of explored territory, Wonder Woman’s homeland is a literal island of peace, hidden from ‘Man’s World,’ exclusively (and strangely) feminine»).
52. Sostenuto dalle proprie elucubrazioni (per cui si veda supra p. 178), per Marston Wonder Woman era uno strumento con cui indicare a uomini e donne la strada verso il matriarcato. Lo psicologo era infatti convinto che i primi avrebbero inevitabilmente finito col sottomettersi all’amorevole predominio delle seconde (significativamente, nel film della Jenkins, i grandi nemici di Diana sono due uomini, il Generale Ludendorff e sir Patrick Morgan, alias Ares in persona). In un’intervista rilasciata al New York Times nel 1937, Marston prevedeva che «within 100 years the country will see the beginning of a sort of Amazonian matriarchy. Within 500 years a ‘definite sex battle for supremacy’ would occur, and after a millennium ‘women would take over rule of the country, politically and economically’» (cf. stuller 2010, 195 n. 59; MAtsuuchi 2012, 122). Su questi aspetti, supra, 2-4. Nelle scene iniziali del film, Hippolyta racconta alla piccola Diana che «Zeus’ son grew envious of mankind and sought to corrupt his father’s creation. This was Ares, the God of War. Ares poisoned men’s hearts with jealousy and suspicion. He turned them against one another and war ravaged the Earth. So, the gods created us, the Amazons to influence men’s hearts with love and restore peace to the Earth». Così, dopo l’arrivo di Steve sull’isola, Diana rivendica la necessità di aiutare gli uomini nella grande guerra che stanno combattendo: «Stopping the God of war is our fore ordinance. As Amazons this is our duty».
Morena Deriudescrive il dio della guerra come addolorato e furioso per l’uccisione proprio di quest’ultima da parte di Achille. Il dio è pronto a scatenare la propria furia vendicatrice sull’intero esercito acheo presso le mura di Troia53
A differenza delle originarie Amazzoni, inoltre, donne ‘altre’ e tuttavia umane, la Wonder Woman della regista è nata dalla creta: «I sculpted you from clay myself», racconta Hippolyta alla piccola Diana. «[…] and begged Zeus to give you life»54. In quanto ‘figlia’ di una donna e di un dio, la supereroina si trova così a condividere, sebbene peculiarmente, la discendenza di molti fra gli antichi eroi del mito, gli stessi contro cui, invece, le antenate si scontravano. Simbolicamente e concretamente opposta ad Ares e animata da sentimenti di altruismo e sacrificio, la Wonder Woman cinematografica risponde, dunque, alla rappresentazione promossa da Marston — che riteneva il corpo delle donne fisiologicamente preposto a creare amore — ed è inoltre in linea con certo femminismo essenzialista, fondato sul controverso concetto di una ‘essenza femminile’ biologicamente giustificata55
La guerresca alterità delle antiche Amazzoni, di contro, si pone agli antipodi di questo costrutto che, mitologicamente promosso a modello, appare fondato sulla naturalizzata mansuetudine delle rappresentazioni della donna. Sembrerebbe, anzi, che proprio questa stereotipata identità di genere fornisca alle moderne fruitrici del mito una possibilità di immedesimazione in una figura che, altrimenti, risulterebbe al di fuori di qualsiasi tipo di identificazione56 .
Secondo questa caratterizzazione, quindi, la moderna principessa delle Amazzoni non è più una donna ‘non donna’ che invade il campo ‘maschile’ della guerra57. È invece la ‘superdonna’, caratterizzata da valori di amore e altruismo, che ne giustificano l’ingresso nel mondo della lotta in nome di un futuro migliore. La dimensione eroica delle imprese e divina della nascita le permette, inoltre, di incarnare oltre ogni limite le esigenze di potenza del pubblico.
La ripresa da parte della Jenkins dell’immaginario marstoniano merita, del resto, un’ulteriore contestualizzazione nell’evoluzione novecentesca del mito e, in particolare, negli anni Settanta, quando Diana Prince fu eletta a simbolo
53. Il mito delle Amazzoni a Troia successivamente agli avvenimenti narrati nell’Iliade risale alla Aithiopis di Arctino di Mileto, composta verosimilmente intorno al 700 a.C. e di cui restano pochi frammenti insieme al riassunto di Proclo ( Chr . p. 105, 20-28 Allen). Su Quinto Smirneo all’interno della tradizione associata alle Amazzoni, KleinbAuM 1983, 2325. Sul mito di Pentesilea e la sua secolare vitalità, A ndris A no 2006, 52-56. Sui temi dell’Aithiopis in relazione alla ceramografia arcaica, brunori 2010.
54. Nel fumetto ideato da Marston, Diana nasceva dall’argilla grazie alle indicazioni di Afrodite a Hippolyta, desiderosa di avere una bambina. La nascita da due genitori di sesso opposto è una significativa riscrittura del mito marstoniano, da datarsi agli anni Cinquanta.
55. Per una critica, ancora valida, a questo approccio, ortner 1974. Per le teorie pseudoscientifiche di Marston, supra, p. 178.
56. Per questo meccanismo in Superman che, come Wonder Woman, vive tra gli umani sotto mentite spoglie, eco 1964, 230.
57. Sulla guerra come dominio che, dall’ Iliade in poi, è parte fondamentale del genere maschile, nortwicK 2008, 74-93.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 187
di indipendenza, potere e sorellanza dal Women’s Liberation Movement, il cosiddetto Second-Wave Feminism, a cui la madre della Jenkins aveva aderito, secondo una dichiarazione della regista in un’intervista («How ‘Wonder Woman’ director Patty Jenkins cracked the superhero-movie glass ceiling») rilasciata a The Washington Post nel maggio 201758 . Per interesse della giornalista e attivista Gloria Steinem e dell’intera redazione di Ms., infatti, nel 1972, sulla copertina del numero di apertura di quello che fu il primo magazine statunitense creato e gestito da donne (con lo scopo di fare rete offrendo opportunità e risorse in un panorama sociale in cambiamento), campeggiava l’immagine di Wonder Woman in divisa a stelle e strisce, lazzo e tiara59. Dopo anni di abiti castigati e superpoteri negati, Diana tornava a indossare il costume e le insegne volute da Marston negli anni Quaranta60. «In her meetings with the comic book publisher, Steinem complained that the removal of costume and trappings was a shameful disempowering of a beloved female superhero»61
La rivendicazione della supereroina a icona, del resto, ben si inquadrava nel destino novecentesco usualmente riservato (non senza problematicità) all’antica Amazzone in genere. Trasformata nella rappresentante di una società matriarcale, di cui servirsi per attaccare e possibilmente distruggere l’assolutismo maschilista, questa figura per certi versi ‘soccombette’ dinnanzi a simili appropriazioni (anche) femministe62. Così, mentre il legame tra Steinem, Ms e Diana Prince è ampiamente noto, meno lo è il fatto che la nomina della supereroina a icona coincise con la cancellazione di una serie di sei episodi del fumetto commissionati a Samuel R. Delany.
Nelle intenzioni dell’autore, la serie avrebbe continuato a portare in scena una Diana priva di superpoteri e in abiti contemporanei, ma avrebbe allo stesso tempo cospicuamente e molto concretamente ruotato intorno al tema dell’emancipazione delle donne63. A chiarirlo, in un’intervista rilasciata nel
58. «My mom was a second-wave feminist, and I heard a lot about it and thought a lot about it» (cAVnA 2017).
59. Sulla genesi di Ms., stuller 2010, 38-39.
60. Sulle sorti di Wonder Woman e sul suo spodestamento negli anni che vanno dalla morte di Marston alla fine degli anni Sessanta, supra, pp. 178-9.
61. MAtsuuchi 2012, 120, cf. stAnley 2005, 154-56. Per la coincidenza tra l’agenda ideologica di Marston e le rivendicazioni di Steinem, finn 2014, 7.
62. «Feminist theorists have found the Amazon image in spite of its slight imperfections, to be one of their most cherished possessions» (KleinbAuM 1983, 222). «The Greek Amazons exist in order to define the ‘civilized’ normative male (and female) through the reversal of culturally coded gender expectations; the televisual Amazons perform the same function by embracing those norms» (blondell 2005, 197). Per le problematicità della figura dell’Amazzone all’interno di rivendicazioni e teorie femministe, cArlier-détienne 1980, 30; KleinbAuM 1983, 219-26; stewArt 1995, 574; leAl 2010, 12-13; finK 2016, 137. Significativa al riguardo è l’affermazione di flory (1987, 109) a proposito delle Amazzoni erodotee: «What the modern feminist critic might relish as a story of woman’s triumph over man (the Amazons oblige the young Scythians to renounce their home and even to provide ‘dowries’ for the new unions), the ancient male reader probably treated as hilarious exaggeration and comically preposterous role reversal».
63. Per la ricostruzione dell’intera vicenda, MAtsuuchi 2012.
Morena Deriu2001 a Vintage Books («Vintage Books Welcomes Samuel R. Delany»), è lo stesso Delany:
«I came up with a six-issue story arc, each with a different villain: the first was a corrupt department store owner; the second was the head of a supermarket chain who tries to squash a women’s food cooperative. Another villain was a college advisor who really felt a woman’s place was in the home and who assumed if you were a bright woman, then something was probably wrong with you psychologically, and so forth. It worked up to a gang of male thugs trying to squash an abortion clinic staffed by women surgeons. And Wonder Woman was going to do battle with each of these and triumph».
Dei sei numeri previsti da Delany, tuttavia, uscì solo il primo, Grandee Caper ( Wonder Woman #203, noto anche come Special Women’s Lib Issue ). Nel fumetto, «Wonder Woman is not represented as a flawless ideal, but as an everyday woman whose heroism lies in real-life feminist politics»64 e, nello specifico, nella lotta per un’uguale paga salariale da parte di un gruppo di lavoratrici di un grande magazzino, con allusioni a come anche all’interno delle organizzazioni e dei movimenti femministi ci fossero (e, ancora oggi, ci siano) divisioni di razza, classe e genere65
La cancellazione del progetto passò dunque sostanzialmente sotto silenzio, mentre Wonder Woman #204 fu salutato come l’inizio della rinascita della supereroina, che da donna comune tornava a vestire i panni dell’Amazzone 66. Da un lato, dunque, Diana Prince riconquistava per sé l’eredità delle mitiche antenate: una forza straordinaria che, rimitologizzata, diventava modello e strumento di empowerment. Dall’altro lato, però, il ricorso a questa forza era ammesso e giustificato da valori tradizionalmente associati a un’i-
64. MAtsuuchi 2012, 126.
65. Nel finale di Wonder Woman #203, le celebrazioni per la vittoria sono interrotte «as another group of women enters the room […] A woman points at them and accuses them of ignoring the very real economic consequences of their actions. With this pointing comes a realisation that their women’s group, although it included professors and martial artists, did not include the working-class women whose rights they thought they were defending. This image also serves as an early acknowledgement of the class conflict present in feminist organisations, particularly relevant in 1972» (MAtsuuchi 2012, 134).
66. Su questi aspetti, MAtsuuchi 2012. «According to activist Gloria Steinem, since ‘many of the founding editors [of Ms. magazine] had been rescued by Wonder Woman in their childhoods — they decided to rescue Wonder Woman in return’» (stuller 2010, 39). La riconquistata enfasi sulla spettacolarità di personaggio e imprese ben si inquadrava in una tendenza che accomunava sostanzialmente tutta la produzione fumettistica dedicata al mondo dei supereroi negli anni Settanta e Ottanta. «Despite the overall maturation of themes and styles, superhero comic books remained based on the usual clichés : clashes between heroes and antagonists increased in size, becoming even interplanetary in scale, but self-awareness of superheroes and a broader political involvement in the fictitious but still realistic society they belong to remain a taboo topic for authors and publishers» (Pellitteri 2011, 2).
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 189
dentità di genere che vede nella donna un essere deterministicamente destinato alla pace e all’amore. Alla Wonder Woman di Marston, Steinem e Jenkins la rinuncia alla lotta non è richiesta perché inserita e giustificata all’interno della norma, mentre, nel mito antico, le Amazzoni o morivano o, conformandosi alla norma, rinunciavano alla propria indole guerriera finendo con lo sposare l’eroe67
Il risultato, in entrambi i casi e nella sostanza, non cambia: una preservazione della tradizionale spartizione dei ruoli che, pur finendo con l’ammettere (nella versione moderna) la presenza della donna al di fuori dell’‘oikos’ e nelle sfere della forza e della lotta fisica, concede questi spazi a patto che siano animati da valori di pace e amore. Valori che (fisiologicamente secondo Marston e, pure, parte dei femminismi) gli uomini o non hanno o hanno generalmente difficoltà a comprendere e condividere fino in fondo68. Mentre nel mondo antico, quindi, le Amazzoni rappresentavano una ‘sfida’ all’ordine patriarcale ed erano l’Alterità da sterminare, catturare e normalizzare nell’istituzione del matrimonio, Wonder Woman continua a essere rappresentata (anche sul grande schermo) come meritevole di rispetto e degna portavoce dei bisogni del proprio genere. Tuttavia, come opportunamente notato da Ruby Blondell riguardo alla riproposizione del mito amazzonico nella serie televisiva Hercules: The Legendary Journeys (prodotta dal 1995 al 1999), «this aspect of contemporary ideology […] frequently displays a superficial veneer of feminist values as popularly conceived (women are ‘powerful’ and their voices must be heard), while constantly undercutting it»69
67. deAcy 1997, 154-57. Sul tema del matrimonio all’interno degli antichi miti amazzonici, infra pp. 196-7.
68. Significativamente, nel finale del film, Steve (che ha precedentemente confessato a Diana di non credere nell’esistenza di Ares e, dunque, sostanzialmente nella ragione che l’ha portata tra gli umani) sacrifica la propria vita facendo esplodere un aereo ad alta quota per evitare una strage. Sono quindi l’eroismo e il sacrificio dell’uomo a permettere alla donna di liberare tutto il proprio potere perché affranta dalla morte e resa ancora più potente dall’amore. Dopo la notte di passione con il pilota, infatti, di fronte agli stratagemmi di quest’ultimo che la ostacolano nel primo tentativo di uccidere Ludendorff, Wonder Woman proclama la propria indipendenza («What I do is not up to you») proseguendo per la propria strada senza il sostegno e l’approvazione dell’uomo. La strada, però, si rivela significativamente errata, visto che Ludendorff non è Ares e il suo assassinio non pone fine alla guerra.
69. blondell 2005, 198. In questo senso, la Wonder Woman della Jenkins sembra ancora incarnare uno dei tanti paradossi che l’hanno resa una figura problematica (cfr. gibson 2016, 286). A titolo esemplificativo, si ricorderà che, nel 2016, la nomina della supereroina a simbolica ambasciatrice delle Nazioni Unite per i diritti delle donne fu accolta con forti critiche legate proprio alle ambiguità del personaggio, difficilmente considerabile un modello di empowerment privo di stereotipi (cf. ross 2016). «Wonder Woman — or Princess Diana, or Diana Prince, as she is called in her secret identity — has succeeded as a multibillion-dollar consumer industry and a fictional character in a continuous sixty-four-year storyline, largely because of the contradictions that propel her actions, abilities, and attitudes and define her as an Amazon princess» (stAnley 2005, 145, cf. 161-65). «She is a warrior and an Ambassador of peace; she is an Amazon and a woman seeking heterosexual romantic entanglements. She is a symbol of feminist hope, and a woman designed for male readership» (MccAll 2011, 94).
Morena Deriu4. Una questione di abbigliamento e di aspetto
Tra i tratti che fanno di Wonder Woman un modello, caratterizzandola — forse più di altri — nel fumetto, nella serie televisiva e anche nella versione cinematografica, rientra l’aspetto fisico, sottolineato dal noto travestimento (in sostanza, un costume da bagno a stelle e strisce). Lo stesso Marston considerava, del resto, l’avvenenza dell’eroina una componente fondamentale della donna a cui gli uomini avrebbero dovuto (e voluto) sottomettersi70 . Ora, nelle culture antiche come in quelle moderne, l’abbigliamento è fra i tratti che meglio riflettono l’identità di un gruppo e/o di un individuo, giacché combina insieme i progressi tecnici e i valori estetici di una società. «In a way, clothes are a language in which individual garments constitute vocabulary»71 . Nel caso delle antiche Amazzoni, l’abbigliamento — così come rappresentato dall’iconografia — ne conferma lo status di combattenti ‘pari’ (cf. Il. 3.189, 6.186) e, allo stesso tempo, ‘altre’ rispetto agli eroi. Mentre, infatti, questi ultimi sono rappresentati come ‘eroicamente nudi’, le Amazzoni appaiono generalmente abbigliate72. La ceramica arcaica le presenta inoltre in maniera molto simile, se non identica, agli opliti, in un’affinità solo formale che «sembra condizione necessaria perché esse siano antagoniste degne di eroi come Achille»73. Il codice eroico prevedeva, infatti, un’imprescindibile equivalenza tra i partecipanti al duello, mentre a segnalare l’appartenenza dell’Amazzone al sesso femminile è la pigmentazione bianca della pelle, un tratto notoriamente destinato a distinguere le donne dagli uomini74 Abbandonati i lunghi pepli femminei per una tunica sopra il ginocchio, stretta in vita e senza maniche, più adatta al combattimento, l’abbigliamento delle Amazzoni sembra talvolta ricordare anche le giovani spartane e, talaltra, le seguaci di Dioniso, talora arricchito da una pelle di animale gettata intorno al corpo, a sottolinearne la provenienza barbara75. La produzione attica le dota inoltre sempre più spesso di «‘barbarian’ equipment of various kinds, such as pajama-like outfits and crescent shields»76, rendendole protagoniste di una progressiva ‘barbarizzazione’ che «pare proiettarle in una sfera non solo esotica ma anche erotica tanto più che le Amazzoni erano raffigurate (e perciò considerate) quali creature di indubbia bellezza»77
La presenza di tratti barbari nell’iconografia amazzonica aumenta quindi con la metà del VI sec. a.C., quando si fa progressivamente più simile a quella di
70. finn 2014, 14 e 16.
71. glebA 2008, 13.
72. Cfr. MAyor 2014, 117-28. Sull’iconografia delle Amazzoni, bothMer 1957.
73. brunori 2010, 93-101. La studiosa evidenzia opportunamente come la ceramica arcaica rappresenti in maniera peculiare lo scontro tra gli eroi greci e le Amazzoni straniere sotto le spoglie di una cronaca di una sconfitta annunciata.
74. Su questi aspetti si veda estesamente brunori 2010, 95.
75. AndrisAno 2006, 51.
76. blondell 2005, 189, cf. hArdwicK 1990, 23-30; AndrisAno 2006, 49-50.
77. brunori 2010, 99.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 191
Sciti, Persiani e Traci. Se da un lato, inoltre, la variante scita può essere verosimilmente compresa con riferimento a una serie di scontri lungo le coste del Mar Nero, la più tarda variante persiana è spiegabile alla luce non solo del conflitto tra Atene e i Persiani ma anche delle nuove possibilità di rappresentazione offerte dalla tecnica a figure rosse 78. Infine, la combinazione di elementi etnici differenti, soprattutto in età classica, «was possibly intended to emphasize their exotic and mythical aspect»79, esprimendo così l’identità del gruppo a cui appartenevano.
Ebbene, nel mondo dei comics, «the costume is an integral means of identification from the superhero to the audience […] By connecting the masked icon with certain characteristics, readers are able to position themselves in alliance or association with the figure»80
Nella pellicola della Jenkins, la riproposizione della tradizionale divisa marstoniana appare giustificata dalla necessità di movimento della guerriera (arrivata a Londra, mentre prova i tailleur militari, Diana si chiede come sia possibile combattere in simili vesti)81. Di fatto, però, l’uniforme conferma la supereroina nel ruolo di oggetto dello sguardo maschile ed eterosessuale 82 .
A Londra, infatti, la bellezza della donna è ammirata sia nei succinti abiti amazzonici sia nelle più castigate vesti ‘militari’. «Certainly she’s not the most beautiful woman you’ve ever seen?», domanda ironicamente a Steve Etta, la cui fisicità è in evidente opposizione con quella di Diana83
A essere ‘Altra’ nell’aspetto rispetto a Wonder Woman non è però la sola Etta. Ancor più significativa al riguardo appare, infatti, l’Alterità della intelligente quanto spietata Dott. Poison. La scienziata pazza, specializzata in chimica e veleni, è anche questa figura che appartiene alle origini novecentesche del
78. Sul rapporto simbolico tra Amazzoni e Persiani, supra, p. 178. Sull’iconografia scita, probabilmente dovuta all’associazione con l’uso dell’arco, bothMer 1957; Vos 1963.
79. shAPiro 1983, 111.
80. sPieldenner 2013, 242. Per la rappresentazione come uno dei processi attraverso cui si attua il processo di identificazione nei comics, ibidem, 236-37.
81. «How can a woman possibly fight in this?», domanda Diana a Etta.
82. «Wonder Woman has always been a slave to heterosexual male fantasy; and though the girdle of obedience was politically corrected to a girdle of truth by the 1980s, the idea of compulsion originating in sexual desire remains the same» (stAnley 2005, 164, cf. MAyor 2014, 93: «Modern ‘Amazon’ fantasies often picture women wearing curvaceous metallic chest armor molded in the shape of breasts, à la Wonder Woman and Xena, Warrior Princess […] But such erotic ‘breasted’ armor is impractical and dangerous. Experienced female soldiers of any era know that breast-shaped metal chest armor would be life-threatening. Why? Because cone- or dome-shaped projections would direct the force of blows of weapons toward the sternum and heart. Even a fall could be fatal, causing the sharp metal separating the breast hollows to injure or even fracture the breastbone. Therefore, armored fighting women in antiquity would have worn padding under chest plates shaped exactly like the men’s, presenting a flat surface or a ridge down the center to deflect blows away from the heart»).
83. Significativamente, già a Themyscira l’abbigliamento di Diana appare più succinto di quello delle altre Amazzoni, che pure sono rappresentate mentre si allenano alla lotta e combattono, e dovrebbero necessitare, quindi, della stessa libertà di movimento della principessa.
Morena Deriumito e che compariva già in Sensation Comics #2 nel 1942 e in Wonder Woman #151 (1999) nei panni della Principessa Maru.
Lasciando da parte il motivo dell’associazione della donna con i veleni, sebbene di un certo interesse in termini di identità di genere (caratterizza, infatti, tradizionalmente il genere femminile e ha radici tanto lontane da comparire anche nel mondo antico)84, quel che è significativo in questo contesto è l’invalidante sfregio sul viso di Dott. Poison.
Nell’immaginario comune, infatti (che non trova però cospicui riscontri iconografici)85, le antiche guerriere sono note per la mancanza di un seno, una mutilazione a cui allude, già in età antica, la paraetimologia del nome (che vi leggeva un α- privativo seguito dalla radice di μαζός, ‘seno’, cf. D.S. 2.45.3, 3.53.3) e che rientra nel quadro ‘altro’ di queste ‘donne non donne’86
Secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, alle nuove nate le Amazzoni ‘bruciavano […] la mammella destra, affinché, visto che sporge nella piena maturità fisica, non costituisse un impedimento’87
Nell’immaginario sotteso al mito antico, dunque, attraverso la simbolica mutilazione del seno, l’inabilità del corpo femminile alla guerra è naturalizzata e non provata, giacché il fisico delle guerriere è dato come non adatto alla lotta e, nello specifico, non adeguato a tirare con l’arco e a reggere uno scudo, proprio per la presenza dei seni. Di qui, la rimozione di uno dei tratti prerogativa del sesso delle Amazzoni, così da permettere a queste ‘donne non
84. Per l’associazione tra donne, magia e veleni nel mondo greco antico, dalla Circe dell’Odissea in poi, ogden 2002, 98 sgg.; strAtton; KAlleres 2014.
85. «Amazons of myth and art were always portrayed as beautiful heroic women, the equals of the handsome aristocratic Greek heroes. Perhaps physical asymmetry in artistic scenes would be jarring to Greek aesthetic sensibilities» (MAyor 2014, 89, cf. stewArt 1995, 579 e 584 con bibliografia).
86. Tra gli antichi, ἀμαζών gode comunemente di due diverse ipotesi etimologiche: da un lato ἄνευ μαζῶν ‘senza seni’, appunto, e dall’altro ἅμα μαζῶν ‘vivendo insieme’, con allusione alla corrispettiva usanza amazzonica (cfr. Isid. Etym. 9.2.64). Gli studi moderni propendono, invece, per etimologie di origine orientale (cf. b onf Ante 1983; cecchi 2010 ; MAyor 2014, 85-88; DELG s.v. Ἀμάζων). «La paretimologia nasceva […] in una cultura, quella greca, in cui i soprannomi potevano costituire una carta d’identità efficace a parlare di un individuo e dove conseguentemente i nomi si imponevano o si leggevano a conferma o riconferma di un destino. In realtà il nome delle Amazzoni sembra derivare da quello di una tribù iranica (*ha-mazan): la più accreditata ipotesi d’interpretazione propende per attribuire alla denominazione la valenza di ‘guerrieri’» (AndrisAno 2006, 45). Per una diversa lettura, stewArt 1995, 579: «One wonders if the name A-mazon or ‘breastless’ originally referred not to some obscene self-mutilation, as asserted by Hippokrates (Airs, Waters, Places 17) and repeated countless times since, but to the sexual unripeness of the nubile adolescent».
87. 2.45.3
(cfr. 3.53.3). Le traduzioni di Diodoro Siculo sono di cordiAno; zorAt 1998; il testo è quello di beKKer; dindorf 1888-1890. Ippocrate (Art. 47) presenta la cauterizzazione del seno destro come tipica delle donne sarmate (le stesse per le quali Erodoto, in 4.110 sgg., individua le Amazzoni come antenate), ma non le presenta come Amazzoni. «Comme s’il refusait de mélanger les données sérieuses, scientifiques, de son étude ethnographique des effets du climat, avec des éléments jugés trop légendaires ou mythiques, de mêler l’ethno-médicine à la fable» (cArlier-détienne 1980, 22). Sulla digressione diodorea sulle Amazzoni, MAyor 2014, 44-46.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 193
donne’ di dedicarsi a un’attività tradizionalmente parte della definizione del genere maschile.
Ora, l’assenza della mutilazione nell’Amazzone Wonder Woman rappresenta una metamorfosi se non dell’antico mito greco quantomeno dell’immaginario comunemente associato alle sue protagoniste. È una trasformazione che va spiegata alla luce di quanto la moderna mitologia rappresenta: l’incarnazione delle esigenze di bellezza e potenza nutrite dal pubblico, espresse e sottolineate dall’aspetto da pin-up della supereroina. Wonder Woman, infatti, è abile alla guerra perché ha una fisicità che le altre donne (quelle ‘comuni’) non possiedono, ma a cui aspirano o dovrebbero aspirare. In quest’ottica, la mutilazione non avrebbe senso88 . Inoltre, come nell’immaginario antico l’Alterità delle Amazzoni, avversarie dei grandi eroi, poteva concretarsi fisicamente nell’allusione alla mutilazione del seno, così in quello moderno, l’Alterità della nemica da sconfiggere è segnata da un invalidante marchio fisico. Dott. Poison è raccapricciante anche fisicamente per via della cicatrice che ne deturpa irrimediabilmente il viso. La sua fisicità — come quella orfana di un seno delle mitiche guerriere — si oppone così a quella proposta a modello. Dott. Poison, inoltre, è una burattina nelle mani di Ludendorff, mentre Wonder Woman non permette che nessun uomo le dica cosa fare («What I do is not up to you»), ma — va ricordato — l’indipendenza della moderna Amazzone non è fondata su scienza e conoscenza (come le malvagie azioni della Poison, che risultano così ‘virilmente’ ascritte alla sfera della ‘cultura’89) ma su una forza animata da un deterministico spirito di altruismo e sacrificio. Nel moderno immaginario mitologico di fumetti e supereroi, per lo più popolato da figure virili e generalmente destinato a un pubblico maschile, il fisico da pin-up di Wonder Woman può essere dunque letto (in linea con le ancora valide osservazioni di Eco) come la rappresentazione di un modello — calato dall’alto e rispondente alle logiche di mercato — delle aspirazioni e i desideri di fruitrici e (forse soprattutto) fruitori del fumetto prima e dei Superhero movies poi, due prodotti fortemente tipizzati in termini di identità di genere90
88. «In Western cultural history […] wounds and scars are commonly held to be ‘manly’ attributes. Women, by contrast, are supposed to look perfectly neat. Peter Lehman observes for filmic representations of wounds in patriarchal culture that, in contrast to women ‘whose power comes from beauty’ […], ‘a scar on a man’s face frequently enhances rather than detracts from his power’» ( finK 2016, 137). La statuarietà della supereroina rientra pienamente fra i topoi della rappresentazione del supereroe: il corpo «as a smooth and perfect machine» (Pellitteri 2011, 6) è parte integrante del simbolismo che ne illustra poteri e superiorità.
89. Sull’opposizione natura/cultura in quanto connotata in termini di genere femminile/maschile, ortner 1974.
90. «Most consumers […] digest their superheroes not by reading, but by viewing big-budget cinema adventures and buying associated merchandise. It is now licensing, not publishing, where corporate profit is realized» (stAnley 2005, 143, cf. McAllister 1990, 67-69). Sui fumetti e il loro pubblico, stAnley 2005, 152 (con bibliografia); gibson 2008; gibson 2016,
Morena DeriuA questo riguardo, l’aspetto di Wonder Woman nella pellicola della Jenkins risulta significativo sia rispetto al mito antico sia riguardo al contemporaneo scenario cinematografico e televisivo, dove figure di combattenti e guerriere indossano sempre più spesso «functional, gender-neutral uniforms»91, proponendo anche fisicamente rappresentazioni alternative, dove la non conformità non è necessariamente un segno di inferiorità/alterità, ma è anzi marca di « empowerment over , escape from , or interference with the patriarchal hegemony»92 .
5. Themyscira, ‘Alterità’ e ‘Norma’ in un’isola
Il discorso sull’aspetto fisico delle protagoniste di Wonder Woman non interessa solamente la supereroina, Etta e Dott. Poison. Anche tutte le Amazzoni che abitano Themyscira sono infatti fisicamente statuarie. Costituiscono inoltre una comunità di sole donne, convinte del fatto che, quando si tratta di procreare, gli uomini siano essenziali, ma per il piacere (parola di Diana a Steve93) la questione cambia. Ora, proprio in ragione di questa marstoniana società di sole donne, nel mito moderno dell’Amazzone Wonder Woman, la curiosità e le preoccupazioni del pubblico si sono concentrate a più riprese sulla possibile omosessualità della protagonista, assurta a vera e propria icona della comunità LGBTQI+94 . A questo proposito, il primo a puntare letteralmente il dito contro la supereroina fu, nel 1954, Frederic Wertham in un saggio (Seduction of the Innocent) che portò alla cancellazione di una serie di fumetti e al ridimensionamento in termini di eteronormatività di quelli che sopravvissero. Per Wertham, Wonder Woman e le sue collaboratrici erano lesbiche, il cui comportamento rappresentava una minaccia per la salute mentale del giovane pubblico95 .
In epoca più recente e con toni diversi, in un’intervista («Exclusive Interview: Greg Rucka on Queer Narrative and WONDER WOMAN») rilasciata a comi-
287-90 («the comic as a medium has typically been defined as addressing a male audience», 290). A proposito di genere e Superhero movies, roblou 2002.
91. grAf 2015, 79.
92. finK 2016, 138, a cui si rimanda per esempi di rappresentazioni di questo tipo nel cinema di R. Rodriguez e Q. Tarantino.
93. Mentre lasciano Themyscira, Diana dice a Steve che «men are essential for procreation but when it comes to pleasure […]unnecessary».
94. Cf. ruelAs 2011; sPieldenner 2013, in partic. 239-40 sul potere rappresentativo e identificativo per la comunità gay della società di sole donne presente su Isola Paradiso. Per una interpretazione in chiave queer del fumetto dalle origini fino agli anni Novanta, Peters 2003.
95. Wonder Woman «is always a horror type. She is physically very powerful, tortures men, has her own female following, is the cruel, ‘phallic’ woman. While she is a frightening figure for boys, she is an undesirable ideal for girls, being the exact opposite of what girls are supposed to want to be» (werthAM 1954, 35, cf. sutton 2010, 25-26; MAtsuuchi 2012, 124-25). Sul forte criticismo educativo che si sviluppò nei confronti dei comics già a partire dagli esordi, McAllister 1990, 58 e 61-62.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 195
cosi-ty.com un anno prima dell’uscita della pellicola, il fumettista e disegnatore Greg Rucka (tra gli autori di Wonder Woman dal 2002 al 2017) confermò ai fans le preferenze omosessuali della supereroina96, e già in Wonder Woman #173 (ottobre 2001) due Amazzoni sono rappresentate come amanti. Nel fumetto, tuttavia, «the hints of homoeroticism that continue to characterize the narrative are designed to appeal more to straight male sexuality than female homosexuality, in keeping with Marston’s original mission to convert (heterosexual) men to his views»97 .
Ebbene, il motivo della supposta omosessualità delle leggendarie guerriere non solleticava l’attenzione degli antichi fruitori del mito quanto dei moderni98. I primi appaiono, infatti, maggiormente interessati a comprendere come una società di sole donne potesse perpetuarsi e non come potesse procurarsi piacere nel frattempo. Le fonti parlano di incontri più o meno violenti e/o consenzienti con uomini di varia provenienza al fine di perpetuare la stirpe99 .
In Diodoro Siculo, per esempio, si dice che le Amazzoni libiche conservassero la propria verginità per tutta la durata del servizio militare; terminatolo, ‘andavano con gli uomini per fare figli’ (3.53.1 προσιέναι μὲν τοῖς ἀνδράσι παιδοποιίας ἕνεκα)100. Secondo Ippocrate (Aër. 17), invece, le mitiche guerriere non perdevano la verginità prima di aver ucciso tre uomini, mentre per Erodoto (4.117), tra i Sarmati, le discendenti delle Amazzoni potevano sposarsi solo dopo aver ucciso un uomo, in una associazione tra la sfera ‘maschile’ della guerra e quella ‘femminile’ del matrimonio, che non risultano scisse, come in Diodoro, tra un ‘prima’ e un ‘poi’101
L’interesse dell’uomo greco, dunque, non ruotava intorno alla possibile omosessualità delle combattenti, ma interessava il destino dei neonati (e il maschile non è, nemmeno in questo caso, generalizzante), in linea con il proprio immaginario socio-culturale. Significativamente, nella digressione intorno alle mitiche guerriere, Diodoro fa riferimento anche ai ‘nati maschi’,
96. Cfr. sAntori 2016.
97. stAnley 2005, 164.
98. «In antiquity, Amazons were assumed to be strongly heterosexual. The women warriors were, as Plutarch put it [cfr. Thes. 26], ‘natural lovers of men.’ Indeed, some ancient beliefs about physiognomy maintained that it would be natural for ‘manly’ Amazons to be especially attracted to ‘manly’ men. According to this theory, it was overly feminine women who would be attracted to loving other women. Virile women, like Amazons — who could overcome the weak, ‘effeminate’ traits in themselves — were assumed to desire virile men» (MAyor 2014, 134).
99. Cfr. MAyor 2014, 129-41.
100. «So until they marry and lay aside their weapons, Amazons are unruly teenagers: unripe, undeveloped, undomesticated, and unrestrained. Living beyond the confines of polis society, they mate with men at their own convenience and pleasure and maim or kill the male infants born of these promiscuous liaisons […] Far from the demure virginity prescribed by law and custom, their sexual life is a continual series of flagrantly public onenight stands. In this way they represent not only the threat that every adolescent girl poses to her father’s authority and to the stability of the family, but the lure of forbidden fruit as well» (stewArt 1995, 580).
101 hArtog 1992, 192-93.
Morena Deriuτῶν δὲ γεννωμένων τοὺς μὲν ἄρρενας (2.45.3), a cui le Amazzoni ‘storpiavano sia le braccia che le gambe, rendendoli inutili alle funzioni militari’ (2.45.3), secondo un’usanza riportata anche da Ippocrate (Art. 53) e allusa da Pompeo Trogo (Hist. Fil. 2.4 si qui mares nascerentur, interficiebant)102 . Nella pellicola della Jenkins, la questione della omosessualità delle Amazzoni è allusa ma non sviluppata, anche se il dolore di Melanippe (Lisa Loven Kongsli) alla morte di Antiope (Robin Wright) in battaglia non lascia troppi dubbi sulla natura della loro relazione. Di fatto, però, abbandonando Themyscira, Diana abbandona la liminalità di un mondo dove gli uomini non compaiono e sono considerati tutt’altro che essenziali per il piacere, relegando così al passato l’universo di sole donne in cui è cresciuta.
La scelta di collocare l’utopico mondo di pace di Themyscira su un’isola è, a questo riguardo, significativa103. Dall’Odissea in poi, infatti, le isole appaiono frequentemente come ‘mondi altri’, le cui rappresentazioni possono oscillare tra utopie di ricostruzione e di evasione104. All’isolamento e alla liminalità di Themyscira corrisponde, infatti, quella delle sue abitanti: donne guerriere in grado di vivere, come (peculiarmente) già le loro antenate, una vita soddisfacente senza uomini e l’istituzione del matrimonio105 Themyscira si presenta, dunque, come un mondo ‘altro’ in cui la ‘norma’ sembra, tuttavia, fare problematicamente ingresso attraverso la fisicità delle guerriere, conforme — come quella di Wonder Woman — ai canoni di una statuarietà oggetto dello sguardo maschile eterosessuale e delle correlate aspirazioni di quello femminile106
Tra gli umani, inoltre, Diana ha una relazione con Steve, ispirata dall’amore e non finalizzata a procreare. Sulla barca con cui la supereroina lascia
Themyscira (una scena che fa da ponte tra l’utopica isola di pace e la violenta realtà terrestre), la principessa interroga l’uomo sulle convenzioni circa l’amore e il matrimonio nel mondo degli umani. Il secondo, infatti, è assente dall’isola esattamente come anche tra le Amazzoni dell’antico mito greco107
Nel film della Jenkins e nell’immaginario antico, dunque, l’incontro/scontro dell’Amazzone con l’uomo porta quest’ultima (non senza problematicità) a rinunciare e/o a perdere almeno parte della propria Alterità in nome di ciò
102. Per una lettura simbolica del parallelo tra la mutilazione del seno e quella a cui le Amazzoni sottoponevano i maschi, cArlier-détienne 1980, 27-28.
103. Nelle battute iniziali, Hippolyta racconta a Diana di quando «Zeus created this island to hide us from the outside world. Somewhere Ares could not find us. And all has been quiet ever since. We give thanks to the gods for giving us this paradise».
104. Sull’isola nel mondo antico, giAnnini 1967; létoublon; ceccArelli; sgArd 1996, 23-24; costAntAKoPolou 2007, 5.
105. «The Amazon is a female force fully entrenched in liminality; she has excised herself from society and dismissed her need for a husband. The success of her myth as powerful, skilled, and independent individual is directly related to her ability to fight and defend herself» (MccAll 2011, 51).
106. Il film della Jenkins abbandona l’ideale marstoniano che considerava la bellezza femminile come archetipicamente bianca (cf. f inn 2014, 15). Tra le statuarie Amazzoni di Themyscira compaiono, infatti, anche alcune combattenti dai tratti africani.
107. Su questi aspetti, supra, pp. 175-6.
Dal mito al cinema attraverso il fumetto 197
che è presentato come ‘Norma’: l’amore eterosessuale nel caso di Wonder Woman e il matrimonio per le antiche Amazzoni.
Significativamente, infatti, i miti che riguardano le antiche guerriere terminano generalmente o con la morte della donna o con il matrimonio tra i due protagonisti sancendo, in entrambi i casi, la vittoria dell’eroe. Mettendo in discussione la gerarchia naturalizzata tra i sessi, infatti, l’Amazzone è conseguentemente forzata alla sottomissione e/o all’accettazione di un legame che ne limita e contiene l’indole bellicosa, divenendo soggetta al potere maschile 108 . Le vicende di Antiope/Ippolita (cf. D.S. 4.28.1 τὸ τὸν Θησέα καταδεδουλῶσθαι
γράφουσιν, Ἱππολύτην; Plu. Thes. 27.4 Ἱππολύτην γὰρ οὗτος
Ἀντιόπην) sono tra le più significative al riguardo. Secondo alcune fonti, infatti, la nuova signora di Atene e moglie di Teseo — dopo aver abbandonato volontariamente o per forza la propria terra e le altre Amazzoni — imbraccia nuovamente le armi durante l’assalto del proprio popolo alla città per riportarla in patria (cf. Aesch. Eu . 685-91; Isoc. 12.193; Lys. 2.4-6; Paus. 1.2.1), perdendo così la vita109 . In maniera analoga, nel mito cinematografico, lasciata Themyscira, Wonder Woman si conforma all’amore eterosessuale, ma con la morte di Trevor la questione di cosa accadrebbe all’Amazzone (e dunque alla donna che rappresenta) se non sposandosi quantomeno portando avanti la relazione, non è affrontata e non è questione di poco conto anche nella contemporanea società occidentale.
108. «In the context of the Amazonian mythology, rape […] is extended to include reassertion of the submissive, feminine, normative role onto the outsider. Once reassigned to a normative female role, the Amazon could be assimilated into the patriarchal Greek society» (leAl 2010, 7-8). «Women in myth who exhibit andreia are characteristically accorded exceptional status, until in defeat, their femininity is shown to be their most characteristic attribute» (deAcy 1997, 156, cf. 154-57; MccAll 2011, 41).
109. Per Diodoro Siculo, Antiope ‘combatteva insieme a suo marito Teseo’ (4.28.4 συναγωνισαμένην
). Plutarco, invece, riporta sia la tradizione secondo cui ‘nel quarto mese di guerra, tramite Ippolita fu stabilito un accordo’ (Thes. 27.4 τετάρτῳ δὲ
, cf. 27.5) sia quella secondo cui ‘questa donna, che combatteva insieme a Teseo, cadde colpita dal giavellotto di Molpadia’ (Thes. 27.4
); la stessa variante è anche in Pausania (1.2.1), che intreccia varie versioni del mito e descrive Antiope come innamorata di Teseo (Θησέως
) al momento della partenza da Themyscira. Nella testimonianza di Plutarco, dunque, «as an individual the abducted queen is Hellenized, partly to glorify Theseus, partly to reflect the supremacy of the values of Hellenic culture. Yet alongside the idealization of the individual sexual loyalty which follows defeat or capture, Amazons as a group are also presented as invaders of Athens, to be gloriously defeated» (hArdwicK 1990, 21). La natura amazzonica di Antiope, strettamente connessa al rifiuto delle nozze, è ereditata dal figlio Ippolito, con tutte le conseguenze del caso. Il giovane condivide con le Amazzoni lo stesso scarso rispetto per il sedentarismo e il matrimonio, «due pilastri della vita associata tra i Greci […] Chi non accetta la società così com’è, ha davanti a sé un unico fato da accettare: quello di essere cancellato e trascinato in un passato mitico, senza legami con il presente» (ArAtA 2010, 33-39, cf. MccAll 2011, 44-45). Sul mito di Antiope e Teseo attraverso i secoli (anche recenti), si veda anche MAyor 2014, 259-70 e 275-76.
6. Conclusioni
A distanza di centinaia di secoli dalle prime elaborazioni del mito amazzonico, la recente rimitologizzazione proposta dalla Jenkins in Wonder Woman continua a rappresentare l’Amazzone come Alterità. Diversamente da quel che accadeva nel mito antico, però, questa Alterità è presentata come un modello da imitare. Mentre le Amazzoni greche sfuggivano a qualsiasi tentativo di normalizzazione, a Wonder Woman non accade lo stesso. Se alle prime non era concesso assurgere allo stato di eroine, a Diana Prince, invece, è permesso ma a patto di adeguarsi a una precisa identità di genere, la norma di ciò che accettabile e che, peraltro, fa capolino anche nella caratterizzazione della comunità di Themyscira.
Per la supereroina, il ricorso alla violenza e alla forza è così ‘marstonianamente’ giustificato da valori di altruismo, pace e amore, che le sono stati deterministicamente associati dal suo creatore in nome dell’appartenenza al genere femminile. Inoltre, nella rinuncia a qualsiasi mutilazione fisica che anche solo rimandi all’antico immaginario amazzonico, anche il corpo da pin-up sembra rientrare nella norma di un modello calato dall’alto, rispondente alle logiche di mercato.
L’Altro rispetto all’identità di genere accettata e promossa dalla Jenkins è rappresentato dalla geniale Dott. Poison che, altrettanto stereotipicamente, mette la propria intelligenza al servizio degli uomini e quindi del male (un ritorno anche questo alle convinzioni di Marston). La scienziata è una donna diversa anche nell’aspetto, segnato dalla mutilazione sul viso, un tratto non banale in un mondo cinematografico dove le disabilità/mutilazioni del corpo femminile caratterizzano sempre più spesso eroine/guerriere che ereditano la forza battagliera delle Amazzoni e che, allo stesso tempo, scardinano le tradizionali e binarie identità di genere.
Considerando i numeri al botteghino del film della Jenkins (821,9 milioni di dollari), il mito dell’Amazzone, della donna indipendente e guerriera non fa più paura, a patto che, alla fin dei conti, rispetti le regole dei generi110. Il confronto tra vicende antiche e moderne permette di evidenziarne e problematizzarne i limiti ideologici, «[the] traps they hide under their patina of colours and spectacular actions»111
110. A proposito della relazione (proporzionale) tra profitti e legittimazione di valori e punti di vista dominanti, McAllister 1990, 67-69.
111. Pellitteri 2011, 3, cf. KleinbAuM 1983, 201-2: «The Amazon who became the star of stage, screen, and television […] served to reassure men that even if women attempted to undertake activities usually reserved for men, the traditional gender system will always prevail in the end».
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Author (font size 12)
Workplace (font size 12)
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Keywords: font size 12; 5 maximum
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Greek: Unicode, preferably Asteria Unicode (downloadable). Notes: text, note, punctuation mark. Example: word00 .
‘Single quotation marks’: for single words; for translations. «Angle quotes»: for quotes.
“Curly double quotes”: for quotes within quotes.
Text in smaller policy for quotes bigger than 2 lines: 11. Times New Roman. Single line space. Indentation: left: 0,8 cm.
Footnotes: Times New Roman 10.
For bibliography:
At the end of the article. Anglo-Saxon system.
Authors’ names in sMAll cAPs (as well as in the text of the article and footnotes) year, example: wilAMowitz 1914, 000.
In case of 2 authors: Author; Author
In case of titles of one author and various years: Author year a, b, etc.
French indentation: 1,2 cm.
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The abbreviations of ancient authors’ and works’ names are, regarding the Greeks, those of the LSJ; regarding the Latins, those of ThlL. Exceptions:
Aesch. (no A.) Suppl. Sept. Pers. PV Ag. Ch. Eum.
Soph. (no S.) Ai. El. OT Ant. Tr. Phil. OC
Eur. (no E.) Cycl. Alc. Med. Her. Hipp. Andr. Hec. Suppl. HF Ion Tro. IT El. Hel. Pho. Or. Ba. IA Rh.
Pind. (no Pi.) Pyth. Ol. Isth. Nem.
Bacch. (no B.)
Thuc. (no Th.)
Dem. (no D.)
Aristoph. (no Ar.) Ach. Eq. Nub. Vesp. Av. Pax Lys. Thesm. Ran. Eccl. Pl.
Xen. (no X.)