Interni 599 Marzo / March 2010

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THe MaGazInE OF INTeRIors AND coNTeMPoraRY DesIGN N° 3 Marzo/MARCH 2010 MensILe/monTHLY ITaLIa € 8,0

A € 16,0 – B € 15,0 – F €15,0 GR € 12,0 – P cont. € 13,0 – E € 13,0 – CH Chf 20,0

Poste Italiane SpA - Sped. in A.P.D.L. 353/03 art.1, comma1, DCB Verona

INteriors&architecture Case Da SPaGna e PorToGaLLo e MusEI DaL MonDo INcontro Enzo MarI racconTa PaoLo ULIan INdesign GeomeTrIe a sPeccHIo OGGeTTI BIoDeGraDaBILI IL BaGno soTTILe INSERTO sPecIaLe IN&OUTdoor

UnDerWorLdDesIGn PaTrIcIa UrQuIoLa 2_In599_cover.indd 1

MensiLe/monTHLY wITH comPLeTe EnGLisH TexTs

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INdice/contents MarZo/march 2010

INterNIews INitaly 19 22

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design

Mario TRimarchi: E adesso silenzio/time for silence produzione production sogni di vetro/Glass dreams la nuova dimensione del benessere/The new dimension of wellbeing combinazioni materiche/Materic combinations

showroom

exits space a Milano/IN MILAN spazio alla ceramica a milano/Space for ceramics in Milan 39 fiere fairs marmomacc incoNtra il design a/meets design in verona 45 tendenze Trends zoo design 51 anniversari anniversaries IN copertina: due particolari dell’installazione Macrosterias zucchetti, 80 anni e oltre/80 years and beyond realizzata da Patricia Urquiola per Budri in occasione di Marmomacc (Verona, 30 settembre-3 ottobre 2009). l’installazione 52 giovani designer young designers Chiara moreschi si ispirava alle geometrie e alle forme dei micro organismi naturali, ricreate grazie all’impiego di 30 tipi di marmi e onici 55 fashion file con l’inserimento di vari legni, lavorati e composti tra loro Leitmotiv per talent hub di furla/for Furla Talent Hub con sofisticate tecniche di intarsio e traforo. 57 protagonisti protagonists on the cover: two details of the installation Macrosterias Bob Noorda created by Patricia Urquiola for Budri at Marmomacc (Verona, 30 Sept-3 Oct 2009). The work was based on the geometries and forms of natural microorganisms, recreated using 30 types of marble and onyx with the insertion of different types of wood, worked and combined with sophisticated inlay and perforation techniques.

INternational

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fiere fairs

Singapore Design Festival 2009 65

office & contract

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Il Padiglione Italia a/The Italian Pavilion in Shanghai protagonisti protagonists David Sarkisyan

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project

light chairs

nuove geografie NEW geographies delocalizzare l’artigianato/Delocalizing crafts 72 tendenze Trends fascino retrò/Retro charm 75 showroom laufen forum a basilea/in Basel 77 ritrovi Venues Occhio allo chef!/Keep your eye on the chef! 78 food design EAT WELL, SAVE THE PLANET 83 fashion file Roland Mouret 70

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INdice/CONTENTS II

INtertwined mostre EXHIBITIONS LA RINASCITA DI NAPOLI/THE REBIRTH OF NAPLES 91 concorsi COMPETITIONS PREMIARE LA BELLEZZA/REWARDING BEAUTY 93 sostenibile SUSTAINABILITY MINI DESIGN AWARD 2009 96 progetto città CITY PROJECT CRITICAL CITY LA CITTÀ FRAGILE/THE FRAGILE CITY 103 in libreria IN BOOKSTORE 106 cinema CINEMA E TECNOLOGIA/CINEMA AND TECHNOLOGY 109 info & tech CLIMATIZZAZIONE A CINQUE STELLE/5-STAR CLIMATE CONTROL 84

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INtopics

INservice 111 120

traduzioni TRANSLATIONS indirizzi FIRMS DIRECTORY

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editoriale EDITORIAL DI/BY GILDA BOJARDI

INteriors&architecture

abitare in-out, non solo in spagna LIVING IN-OUT, NOT JUST IN SPAIN A CURA DI/EDITED BY ANTONELLA BOISI 2

madrid, spagna/SPAIN, casa selgas cano PROGETTO DI/DESIGN BY JOSÉ SELGAS E/AND LUCIA CANO/ SELGASCANO ARQUITECTOS FOTO DI/PHOTOS BY CHRISTIAN SCHAULIN PRODUZIONE DI/PRODUCTION BY KERSTIN ROSE TESTO DI/TEXT BY ANTONELLA BOISI

8

8

madrid, spagna/SPAIN, casa zafra uceda PROGETTO DI/DESIGN BY NOMAD/EDUARDO ARROYO FOTO DI/PHOTOS BY ROLAND HALBE TESTO DI/TEXT BY ALESSANDRO ROCCA

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murcia, spagna, una casa di metallo MURCIA, SPAIN, A METAL HOUSE PROGETTO DI/DESIGN BY PACO SOLA FOTO DI/PHOTOS BY JORDI BERNADÒ TESTO DI/TEXT BY ALESSANDRO ROCCA

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coimbra, portogallo, una casa bifronte

COIMBRA, PORTUGAL, A DOUBLE-FACE HOUSE PROGETTO DI/DESIGN BY JOAO MENDLES RIBEIRO FOTO DI/PHOTOS BY FERNANDO GUERRA TESTO DI/TEXT BY MATTEO VERCELLONI 26

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le flaine, francia, spazio aperto al monte bianco

FLAINE, FRANCE, SPACE OPEN TO MT. BLANC PROGETTO ARCHITETTONICO DI/ARCHITECTONIC PROJECT BY MARCEL BREUER PROGETTO D’INTERNI DI/INTERIOR DESIGN BY ANDREA MEIRANA FOTO DI/PHOTOS BY ALBERTO FERRERO TESTO DI/TEXT BY ANTONELLA BOISI

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antofagasta, chile + ofunato, giappone/JAPAN: due speranze cresciute nel cemento TWO HOPES GROWN IN CEMENT FOTO E TESTO DI/PHOTOS AND TEXT BY SERGIO PIRRONE

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tel aviv, istrael, holon design museum PROGETTO DI/DESIGN BY RON ARAD ASSOCIATES FOTO DI/PHOTOS BY LUCHFORD APM TESTO DI/TEXT BY MATTEO VERCELLONI

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INdice/CONTENTS III

INsight INcontro 42

paolo ulian raccontato da enzo mari ENZO MARI NARRATES PAOLO ULIAN DI/BY MADDALENA PADOVANI INscape

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scuole a vendere/ SCHOOLS FOR SALE DI/BY ANDREA BRANZI INarts

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brian donnelly & KAWS DI/BY GERMANO CELANT

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INprofile 54

roberto sambonet: la natura, la buona forma ROBERTO SAMBONET: NATURE, THE GOOD FORM DI/BY MATTEO VERCELLONI

INdesign INcenter

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geometrie a specchio/ MIRROR GEOMETRIES DI/BY NADIA LIONELLO FOTO DI/PHOTOS BY EFREM RAIMONDI

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design metamorfico/METAMORPHIC DESIGN DI/BY NADIA LIONELLO INproject

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designing clouds DI/BY STEFANO CAGGIANO

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cambio campo

CHANGING FIELDS PROGETTO DI/DESIGN BY MARCO FERRERI FOTO DI/PHOTOS BY MIRO ZAGNOLI TESTO DI/TEXT BY ODOARDO FIORAVANTI 80

libere asimmetrie

FREELY ASYMMETRICAL PROGETTI DI/PROJECTS BY SETSU E SHINOBU ITO, PATRICIA URQUIOLA, BENEDETTO QUAQUARO DI/BY MADDALENA PADOVANI 86

gli oggetti al contrario

OBJECTS BACKWARDS PROGETTI DI/PROJECTS BY FRESH WEST DI/BY STEFANO CAGGIANO INview 78

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destinati a dissolversi DESTINED TO DISSOLVE DI/BY LAURA TRALDI INproduction

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il bagno sottile/ THE SLENDER BATH DI/BY KATRIN COSSETA

INservice 102

indirizzi ADRESSES DI/BY ADALISA UBOLDI

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traduzioni FIRMS DIRECTORY

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INtopics / 1

EDiToriaLe

I

n-Outdoor è il tema portante di questo primo numero primaverile. Il rapporto tra interni ed esterni è cruciale nelle case presentate, localizzate perlopiù in Spagna, dove affacci, geometrie, materiali, facciate e coperture risultano studiati in funzione dei paesaggi che circondano le costruzioni, così come lo è nelle tre recenti speranze ‘cresciute’ nel cemento, tra cui l’Holon Design Museum a Tel Aviv firmato Ron Arad, che sottolineano il valore di un’architettura in grado di dare orgoglio a un luogo. Cambiata prospettiva, il nostro fil rouge ha trovato ulteriori declinazioni. Perché l’importanza di guardare la natura per arrivare alla ‘buona forma’, la forma delle idee, è il tratto distintivo del lavoro interdisciplinare di Roberto Sambonet. E dentro-fuori, come in un gioco di geometrie allo specchio, sono anche gli scenari sports in gomma proposti da Marco Ferreri che portano in casa l’immaginario outdoor. Materia del nostro inserto di approfondimento sono stati ancora accessori, barbecue e luci insieme a quegli arredi da esterno che vivono benissimo dentro casa. Alla fine ci siamo chiesti: e qual è il ruolo del designer? Quello di captare, interpretare, declinare con la sua sensibilità le esigenze del momento, proponendo trends, resta prioritario. Così se una tendenza emerge chiara nel settore bagno diventato sempre più sottile, con le nuove apparecchiature che celano le tecnologie, la visione ancora idealista di protagonisti del progetto italiano quali Paolo Ulian raccontato da Enzo Mari, suggerisce che il ‘viaggio’ riguarda un modo di pensare la vita e la professione: come minimizzare, ad esempio, lo scarto legato alla realizzazione di un prodotto. Un approccio etico-ecologico, dunque. Abbiamo monitorato l’ interesse di molti designer per il riciclo, per i materiali organici e biodegradabili, per un design che si dissolve. È un segnale da guardare con ottimismo. Gilda Bojardi

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SoTTo GLI aLBerI progetto di JosĂŠ Selgas e Lucia Cano/Selgascano Arquitectos foto di Christian Schaulin / produzione Kerstin Rose testo di Antonella Boisi

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INteriors&architecture

Nei dintorni di Madrid, una casa-origami nella natura fatta di pochi materiali assemblati in modo creativo, in equilibrio tra dimensione ipogea e viste del cielo. Manifesto della poetica e luogo di ideale risorsa personale per JosĂŠ Selgas e Lucia Cano, marito e moglie e soci dello studio Selgascano Arquitectos.

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N

Qui sopra e nelle pagine precedenti: le due piattaforme in acciaio verniciato e finitura in gomma di riciclo trattata che definiscono i manti di copertura e il quadro di riferimento compositivo della costruzione, in planimetria disegnata con il suo contesto verde. L’area d’ingresso dell’abitazione anticipa il mood di leggerezza e raffinata eleganza degli interni arredati con un mix di citazioni colte e design d’antan. Come la seduta rossa bachelor chair disegnata nel 1955 da Verner Panton per fritz hansen e la lampada a sospensione di George Nelson nel catalogo di Modernica.

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ati entrambi a Madrid nel 1965, laurea alla Escuela Tecnica Superior de Arquitectura di Madrid, training formativo a Napoli con Francesco Venezia per José Selgas, e nello studio del padre, Julio Cano Lasso – uno dei protagonisti più sensibili del modernismo spagnolo – per Lucia Cano, i due soci fondatori dello studio madrileno Selgascano Arquitectos hanno certo molto da raccontare, se anche il Guggenheim Museum di New York dedica loro uno spazio di sperimentazione progettuale in calendario fino al 28 aprile. Di certo racconta della loro visione questa casa pensata e realizzata già qualche anno fa, per accogliere la loro dimensione più privata e familiare. Si ritaglia il proprio spazio su un leggero pendio coperto da piante di leccio, olmo, frassino, acacia, pruno e platano. Costruita, assecondando l’orografia del terreno, secondo uno sviluppo che in sezione raggiunge un metro sotto il livello terra, basamento in cemento e ossatura in acciaio, appare come una ‘grotta’ moderna avvolta da un paesaggio naturale allo stato puro che cerca il dialogo con lo spazio interno e con la forza espressiva dei suoi selezionati ingredienti: legno, acrilico, poliestere, fibreglass per le superfici, metallo per gli infissi e tanto vetro trasparente ed extrachiaro per le vetrate continue che ne disegnano il perimetro su tutti i fronti. Qual è stata la tensione narrativa sottesa a questo risultato? La memoria di un’architettura della modernità, firmata Le Corbusier, 1957: il convento de La Tourette, a Eveux, nei dintorni di Lione, una costruzione in cemento armato rinforzato con piani a sbalzo, dentro un contesto rurale, un terreno lasciato nello stato originale, incolto e senza terrazzamento; un edificio che non si integra con il luogo che l’accoglie perché domina il paesaggio. “Il Corbu aveva affermato il desiderio che il cortile vuoto all’interno de La Tourette venisse ‘seminato’ naturalmente di piante portate dagli uccelli e dal vento. Lasciò un vuoto nella

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L’UNICO spazio SU CUI ABBIAMO LAVORATO È QUELLO esterno: GLI interni EMERGONO COME residuo DI QUESTO focus

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propria architettura affidandolo alla natura. Noi abbiamo voluto che il progetto della nostra casa fosse realizzato in contrapposizione a questa idea” spiegano José Selgas e Lucia Cano. “È la natura ad averci lasciato un vuoto e qui, solo in questo luogo, l’abbiamo potuto riempire con qualcosa che è architettura, gesto razionale e programmatico. Tutte le piante provengono dai lotti confinanti e si sono propagate spontaneamente. Abbiamo misurato le altezze delle chiome degli alberi, i loro perimetri, le essenze per poi riportare tutto in planimetria. Concordiamo tuttavia con Le Corbusier nel non avere mai realmente cercato la mimetizzazione o l’integrazione del costruito nel paesaggio, né quanto viene definito architettura organica. La nostra casa si adatta per contraltare al sito. In Italia, alcuni ponti dell’autostrada vengono dipinti di colore azzurro cielo. È un

mascheramento infantile e tenero, che funziona secondo le previsioni soltanto in alcune giornate e in determinati momenti. Eppure lo consideriamo bellissimo, proprio quando si riesce a scoprire il trucco. Il fine ultimo è (sarebbe esagerato affermare “sempre”) quello che si ammira. Nel nostro caso il lotto di terreno disponibile era già ‘soffocato’ da qualcosa che valeva la pena conservare, e l’unica scelta ragionevole è stata quella di riempire le restanti interfacce, le uniche zone possibili, gli spazi residuali tra gli alberi, che non avevamo assolutamente intenzione di toccare. Un rispetto in modo maniacale!”. La casa risulta dunque posizionata sotto due ampi manti di copertura (con struttura in acciaio e finitura in gomma di riciclo trattata), una di colore blu e l’altra rosso-mattone, spesse piattaforme dai profili variegati come quelli di un fiore, che

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Il living con il camino a sbalzo su disegno (come la libreria) intorno al quale si organizzano le aree relax con la poltrona Butterfly e la seduta Orange Slice Chair entrambe disegnate da Pierre Paulin per Artifort. La zona pranzo-studio con le sedie DSX in fibreglass e acciaio cromato disegnate da Charles e Ray Eames nel 1950, oggi nel catalogo Vitra. La cucina è risolta con un piano di lavoro continuo e attrezzato sotto-finestra in Corian®DuPont. Una camera da letto e un bagno. Tutti gli ambienti godono di viste privilegiate sul paesaggio esterno, filtrate da leggeri scuri in legno su disegno.

cercano, tramite sapienti occhi vetrati, di condurre lo sguardo in alto, al di sopra dell’ambientazione naturale, verso il cielo, a oriente. Il progetto è risolto proprio da questi due elementi compositivi. La casa resta un’addizione sottostante, adagiata con i suoi volumi vetrati e irregolari che seguono le linee di copertura su altrettanti piani di calpestio movimentati da uno sviluppo a gradoni, attrezzati per trascorrere la maggior parte del tempo all’aperto e resi confortevoli dai pavimenti a doghe di legno dipinto. Giallo sole, carta da zucchero, bianco: ciascuno è connotato da un preciso colore e si trova a una quota differente per facilitare l’accesso agli ambienti. Una piattaforma accoglie le aree giorno, nell’altra si trova la zona notte (formata da tre camere da letto con bagni dedicati): “Ognuna corrisponde a una dimensione interiore della casa e non è nulla senza l’altra.

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L’unica considerazione che si può fare circa lo spazio interno è che esso passa inosservato. Emerge come residuo della relazione con l’unico spazio su cui abbiamo lavorato, quello esterno. Le piattaforme orizzontali lo coltivano in una generica vicinanza ma con metaforica distanza. È la distanza all’interno della quale si può parlare di natura inanimata, riprodotta o astratta, che riflette la terra e il cielo, che partecipa a entrambi senza appartenere a nessuno dei due. Le similitudini nel suo profilo zoomorfo o antropomorfo, le analogie tra i cavedi-punti panoramici sferici e gli occhi e tra gli altri lucernari e la colonna vertebrale di un organismo vivente sono solo coincidenze!”. Negli interni resta comunque il valore di una costruzione tutta su misura per seguire le irregolarità, spesso spigolose, della planimetria: dall’arredo fisso

della cucina risolto con un piano essenziale e continuo sotto-finestra alla quinta (uno snello telaio di metallo con pannelli scorrevoli bianchi) che separa l’ambiente dal living-studio con camino sospeso, dalla passerella in metallo dipinto che introduce all’area della libreria sviluppata per un’intera parete agli scuri in legno con pannelli orizzontali flessibili adottati come filtro nelle camere da letto. Pochi mobili selezionati di product-design, classici della modernità firmati Pierre Paulin, Charles Eames, Verner Panton, qualche nota cromatica accesa sottolineata anche dal rosso/blu delle controsofittature a travi di metallo e null’altro: l’effetto di sospensioneleggerezza dell’architettura è garantito dalle vetrate continue, con sviluppo a nastro fisso o flessibili come un origami, che sono cannocchiali costanti sulla natura e sulle sue metamorfosi.

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La Forma CASA ZAFRA UCEDA È L’ultima produzione di Arroyo, FIRMATA SEMPRE CON LA SIGLA NoMAd, ED È UNA villa unifamiliare NEI DINTORNI DI MADRID, AD Aranjuez, IN UN COMPLESSO RESIDENZIALE AFFIANCATO DA UN CAMPO DA GOLF.

progetto di NoMad / Eduardo Arroyo foto di Roland Halbe testo di Alessandro Rocca

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DeLLe IDee

L’AFFACCIO SUL GIARDINO MOSTRA IL SOGGIORNO, LA SALA DA PRANZO E LA LOGGIA DEL PIANO SUPERIORE. LA GRIGLIA METALLICA FILTRA LA LUCE DEL SOLE E PROTEGGE DALLE PALLE VAGANTI DEL VICINO CAMPO DA GOLF.

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iente porte né finestre per una casa che, a partire da un quadrato di 12 metri di lato, inventa geometrie di grande forza espressiva sia sulle trasparenti facciate metalliche che nell’organizzazione degli spazi interni. Cinquecentosessantamila euro per costruire trecentoventi metri quadrati: Eduardo Arroyo è ormai da tempo uno degli architetti europei più inventivi e spregiudicati, un pensatore che elabora le teorie più ermetiche per poi arrivare a risultati che, al contrario, hanno grande impatto ed evidenza. Ricordiamo, tra le sue opere di maggiore importanza, la plaza del Desierto a Baracaldo e casa Levene all’Escorial, un altro saggio di abilità e di rigore progettuale. Se per casa Levene, l’architetto Arroyo aveva trovato ispirazione nel bosco fitto che circondava il sito, in questo

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caso affronta un terreno normalizzato da una lottizzazione banale che riserva a ogni costruzione l’identico spazio, senza punti di riferimento significativi né dal punto di vista urbano né da quello paesaggistico. Arroyo reagisce alla debolezza del luogo facendo della sua costruzione non un sistema ricevente, rispetto al contesto, come era villa Levene, ma al contrario un potente sistema emittente, un vero e proprio condensato architettonico che diffonde immagini forti e suggestive. Il motore che dà energia al progetto, il concetto guida, è la separazione del perimetro esterno, un quadrato di 12,45 metri e mezzo di lato determinato dalle distanze obbligate dai margini del lotto, e gli spazi interni, che sono organizzati secondo una spazialità assolutamente irregolare.

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La casa non ha neppure una porta interna, gli ambienti si snodano uno nell’altro in maniera fluida, aggirando le pareti in diagonale. L’intero piano terra è dedicato al living che, nella parte centrale, occupa l’intera altezza dell’edificio. il divano flap che campeggia al centro dello spazio disegnato da francesco binfaré È prodotto da edra.

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Il piano superiore è avvolto nella griglia metallica, con inserti apribili, che permette di selezionare le vedute sul paesaggio e di graduare l’intensità della luce naturale. Camere e bagno affacciano su due patii che espongono la collezione di cactus dei proprietari.

Il baricentro è occupato dal soggiorno, che si sviluppa su due piani di altezza e che, come spiega Arroyo, “cresce in lunghezza come un serpente. Contiene la scala e tutti i flussi e gli impianti e mette in scena due magiche risorse: un pannello in policarbonato iridescente che, a seconda della luce esterna, cambia colore, disposto davanti a una parete completamente specchiante che moltiplica lo spazio interno”. Il rapporto tra gli interni e l’esterno è cruciale, perché ogni affaccio è disposto in funzione dei paesaggi che circondano la casa: un piccolo centro storico, il fiume e il bosco e, in lontananza, le montagne. Il piano superiore, che ospita le camere da letto e i servizi, è un volume eroso da entrambe le parti: l’interno è svuotato dal volume del soggiorno e all’esterno si aprono i tre giardini pensili riservati alla collezione di cactus del proprietario. Il piano superiore è avvolto in una elaborata griglia metallica (è anche

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uno scudo protettivo contro i colpi sbagliati dei golfisti!) dotata di un sistema di pannelli mobili che si regolano in funzione della stagione e delle vedute prescelte. La luce filtra attraverso la griglia, indugia sui giardini pensili e, smorzata e diluita, scivola sugli spigoli e lungo le pareti sghembe degli interni colando e fermandosi nel soggiorno. Casa Zafra Uceda sperimenta un modo particolare di confrontarsi con le richieste del committente. In un certo senso, è proprio mettendo all’opera i desideri del cliente che Arroyo evita le soluzioni convenzionali e, spingendo al limite ogni soluzione, dimentica intenzionalmente i bisogni impliciti, scontati, per rispondere con la massima sollecitudine ai bisogni espliciti: le vedute selettive verso l’esterno, il piacere del giardino segreto, un soggiorno centrale spazioso e articolato su cui ci si può affacciare come su una piccola piazza privata.

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La casa di metallo progetto di Paco Sola foto di Jordi Bernadò testo di Alessandro Rocca

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Vivere insieme, lei e lui, una giovane coppia che lavora e viaggia molto, insieme alle proprie memorie, ricordando la tradizione familiare di un’attività basata sulla lavorazione del ferro e aggiungendo scoperte fatte per il mondo, come le domestiche dolcezze del patio giapponese o le durezze dei loft americani. Tutto a partire da un lotto di appena 100 mq all’angolo di una piccola strada de La Alberca, un quartiere residenziale alle porte di Murcia, in Spagna.

L

La casa occupa un lotto d’angolo di appena 100 mq e si impone come un volume tecnologico in forte discontinuità nell’edilizia tradizionale del quartiere. Il lato su cui si apre l’ingresso mostra i due livelli della casa. Il contatto con il blocco in titanio è filtrato da un minuscolo cortile, riparato da un cancello in ferro battuto. Il rivestimento è completamente di metallo: lastre diagonali in titanio e pannelli in acciaio corten colorato dal processo di ossidazione. La grande finestra intensifica il rapporto con la città: è un punto di osservazione sull’esterno ma anche un momento di esibizione della vita domestica.

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a casa si impone nell’angolo, al termine di una serie di costruzioni minuscole, con grazia perentoria, distribuendo il suo piccolo volume su una serie di piani connotati dai diversi materiali ferrosi. Sui due lati, le cornici in acciaio ossidato corten si differenziano: da una parte la finestra è uno schermo piatto a filo della parete; dall’altra, un visore aggettante, quasi un bowwindow all’olandese che oltrepassa la facciata e sembra offrire una veduta indiscreta all’occhio del passante. Sopra il corten bruno rossastro brillano le lastre in titanio disposte in diagonale, un inserto luccicante e dinamico che rende l’angolo più acuto e più netto. Curiosamente, nonostante il poco spazio disponibile la casa assume un disegno molto complicato e denso, il volume sembra quasi compresso e avvolto su se stesso. Per esempio, su un lato si forma una piega, poco più che una scanalatura, che corre da terra fino al tetto e definisce, sul bordo della strada, un

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Il soggiorno a doppia altezza è circondato da un percorso sospeso, in vetro, che conduce alla sala da pranzo ubicata a un livello intermedio tra il primo e il secondo piano. In sospensione lampade Bubble di Foscarini e, a terra, IN-out di METalarte. La poltrona in cuoio rosso è di Enrico Pellizzoni, divano di Gamamobel, tavolo da pranzo Phil di Ciacci.

NONOSTANte le dimensioni ridotte, la continuitÀ che sale È un’esperienza innegabile e gli ambienti si susseguono a contatto l’uno dell’altro

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Micropaesaggio: la passerella sospesa si affaccia sul giardino in miniatura, piccola camera luminosa tra l’interno e l’esterno, e la cucina, illuminata con O-space color arancio, disegnata da luca nichetto e giampietro gai per Foscarini.

piccolo patio, la cui proprietà è assicurata da una cancellata in corten lavorato come ferro battuto. La varietà dei materiali, la serie di porte e finestre tutte una diversa dall’altra, le tessiture diagonali e orizzontali e le dimensioni ridotte fanno della casa un elemento urbano singolare. Il progetto si adegua all’analoga piccolezza della strada e delle costruzioni confinanti ma cerca di marcare la propria differenza attraverso un desiderio di espressività, di presenza e di forma che va oltre l’occasione, che chiede attenzione e cura, che non si lascia scoraggiare dalla noncuranza del vicinato. All’interno, come spiega Paco Sola, “è uno spazio continuo che dal piano inferiore sale a zig-zag fino al tetto” e, nonostante le dimensioni ridotte, la continuità che sale è un’esperienza

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Anche il tetto, come tutto il resto della casa, è posto su due livelli sfalsati. In basso si trova la piscina, alloggiata in un accogliente invaso di legno, mentre salendo ancora si accede a una terrazza panoramica in cui il parapetto è rivestito da leggere lastre in policarbonato colorato. Veduta del soggiorno dalla cucina, con la rampa che porta alla sala da pranzo, all’ammezzato, e prosegue per la camera da letto e il tetto a terrazza. In primo piano la lampada a sospensione O-Space di Foscarini.

innegabile. Gli ambienti si susseguono a contatto l’uno dell’altro, mantengono le loro caratteristiche individuali, ma nello stesso tempo si compenetrano mescolandosi e sovrapponendosi. I bagni sono racchiusi da vetri serigrafati mentre le camere da letto sono separate da pannelli mobili, alla giapponese. In un certo senso, si tratta di un piccolo loft arrotolato intorno alla scala, oppure, se si preferisce, di un grande monolocale in cui le varie zone di un ambiente unitario si dislocano su livelli differenti, guadagnando spazio e luce

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dallo sfalsamento verticale. Al piano terra, sopra il garage, si trova il soggiorno, attorno a cui corre una curiosa balconata sospesa, con la cucina e un piccolo bagno. Percorrendo la scala, che sormonta il tavolo da pranzo, si giunge alla zona notte, con le due camere da letto e il vuoto sul soggiorno a doppia altezza, e infine al terzo livello, che è occupato per metà da un’altra camera da letto e per l’altra metà ospita la terrazza con piscina, circondata da un variopinto parapetto in fogli di policarbonato a colori.

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design bifronte A Coimbra, in Portogallo, la ricostruzione di una piccola casa su tre livelli nel centro storico si trasforma in un metodo d’intervento per operare sul costruito legando memoria storica e segno contemporaneo.

progetto di Joao Mendles Ribeiro foto di Fernando Guerra testo di Matteo Vercelloni

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vista della casa verso strada con la facciata storica restaurata e arricchita di nuovi abbaini in copertura.

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na piccola casa dai segni gentili, sviluppata su tre livelli ospitando altrettanti appartamenti, anticipata da uno spazio cintato a creare una sorta di filtro privato tra la strada e gli interni; così si presentava nel centro della città questa costruzione dei primi del ‘900 in pessime condizioni statiche e in grave stato di generale abbandono. La strada più breve, netta e meno problematica, era senza dubbio quella della demolizione e ricostruzione, della sostituzione totale di un tassello urbano di cui nessuno avrebbe forse sentito la mancanza. È proprio in tali

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verso il giardino una serie di volumi aggrappati al fronte scandisce la nuova figura architettonica che fa da contrappunto alla facciata storica.

situazioni che la scelta progettuale, la sensibilità dell’architetto, gioca un ruolo fondamentale e in questo caso ha delineato il difficile e sperimentale percorso da seguire: il tentativo di salvaguardare la memoria, tipologica e urbana, della casa rispondendo pienamente alle nuove esigenze abitative senza rinunciare ad un esplicito approccio contemporaneo dal punto di vista della disposizione degli spazi, dei materiali impiegati, della figura compositiva dell’insieme. Così liberati gli ambienti interni e risanate le strutture anche in relazione ai nuovi ampliamenti previsti, la facciata principale sulla Rua António José Almeida è stata completamente restaurata insieme allo spazio cintato prospiciente, riprendendo cornici e modanature della regolare scansione

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nemo propheta in patria? per fortuna non sempre è così. PER Luca Nichetto, GIOVANE designer muranese CRESCIUTO tra le fornaci, LA recente collaborazione CON Venini RAPPRESENTA il coronamento DI UN sogno E LA DEFINITIVA consacrazione.

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Sogni di vetro 2. 1. vasi della collezione otto, sviluppata per venini da luca nichetto. realizzata in edizione limitata di cinque pezzi per ogni forma e combinazione di colori, la collezione è in vendita unicamente nei negozi venini di milano, venezia e murano (foto archivio venini). 2. un momento della lavorazione dei vasi in fornace (foto nichetto & partners). 3. un’immagine dei vasi appena ‘sfornati’ dai maestri vetrai muranesi i quali, partendo dalla forma del vaso cilindrico, hanno ottenuto una forma tronco conica, successivamente tagliata alla sommità del corpo così da evidenziare le diverse sfumature cromatiche all’interno di ciascun esemplare. (foto nichetto & partners).

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Un designer che può ancora fregiarsi dell’etichetta di ‘giovane’, dopo aver mietuto consensi per meriti squisitamente professionali, viene contattato dall’azienda più importante della sua città (un’azienda dalla storia nobile e leggendaria) per sviluppare una collezione di vasi in edizione limitata. Un incipit fiabesco per introdurre una storia realmente accaduta: il giovane designer in questione è il muranese Luca Nichetto, mentre l’azienda è Venini, uno di quei marchi dall’identità talmente forte per cui basta citarne il nome per evocare momenti di gloria progettuale. “Nonostante abbia già lavorato con brand importanti, non ho mai cercato un contatto con Venini, forse per quel timore reverenziale ispirato da un’azienda che può annoverare Sottsass tra i suoi collaboratori” ci ha confidato Nichetto “Per questo, quando l’art director dell’azienda, Roberto Gasparotto, mi ha proposto di realizzare un progetto per loro mi è sembrato di sognare, e per diversi motivi: intanto perché provavo un bisogno fisico di tornare in fornace; poi perché per me è un onore essere il primo muranese a lavorare per Venini a oltre 80 anni

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da Vittorio Zecchin; infine per una ragione sentimentale, visto che mio nonno ha iniziato a lavorare per questa azienda a soli sette anni e lì vi ha svolto l’intera gavetta fino a diventare maestro vetraio”. Il sogno di Nichetto si è oggi concretizzato in Otto: una collezione di vasi di forma tronco conica ‘segnati’ dal taglio netto alla sommità del corpo, taglio che disvela gli otto strati di vetro

e la varietà di sfumature cromatiche all’interno di ciascun esemplare. Quasi a sottolinearne la preziosità, Otto è stata realizzata in edizione limitata di cinque pezzi per ogni forma e combinazione di colori, è destinata unicamente ai negozi Venini di Milano, Venezia e Murano e, solo successivamente, sarà riproposta con altre combinazioni di colore in produzione seriale. (Andrea Pirruccio)

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il volume del piano terreno della zona giorno esteso verso la piscina pensata come uno specchio d’acqua segnato dai muri di confine.

delle aperture, riproponendo il piccolo balcone in ferro battuto sopra la porta d’ingresso ad un livello leggermente rialzato sopra la cava sottostante; ridando infine colore alla fascia dipinta sotto il cornicione conclusivo su cui poggia il tetto a falde in tegole, interrotto da un originale abbaino a cui se ne sono aggiunti di nuovi, della stessa dimensione, ma di figura differente. Proprio sulla diversità, sul contrappunto tra figura storica e intervento attuale, gioca l’intero intervento che riprendendo i tre livelli originari e collocando la nuova scala nella posizione di quella preesistente, riorganizza in modo radicale gli spazi interni sviluppando la nuova grammatica compositiva sul fronte interno, verso il nuovo essenziale giardino con piscina. Il piano interrato

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è stato ampliato per ospitare il garage, impianti, spazi di servizio e una stanza studio che si affaccia lateralmente, con una grande vetrata anticipata da una panca-gradino in pietra, su un nuovo piccolo patio a verde impiegato come efficace pozzo di luce naturale. Il livello ingresso è stato sviluppato verso l’interno con un volume regolare che concorre alla composizione del nuovo fronte segnato da addizioni volumetriche sovrapposte e innestate sulla bianca facciata che segue il profilo della costruzione originaria. Il lungo parallelepipedo del piano rialzato, leggermente rialzato rispetto a quello del giardino, si spinge verso lo specchio d’acqua assumendo la piscina come naturale prolungamento della casa verso l’esterno, legandosi

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l’interno rivestito di legno di betulla su tutte le superfici del cubo di corten appeso alla facciata verso il giardino. seduta Eames Plastic Side Chair di Charle & Ray Eames, produzione Vitra.

al deck di contorno tramite la terrazza, rivestita dello stesso materiale ligneo, ricavata nella conclusione del volume subito dopo la vetrata a tutt’altezza che segna la conclusione dello spazio living. Al primo piano è stata disposta la prima zona notte da cui emerge come un riuscito ‘parassita architettonico’ un secondo elemento di ampliamento volumetrico: un cubo di corten ‘appeso’ al fronte in muratura, che si configura come una sorta di arredo abitabile, una capsula-laboratorio internamente rivestita di legno di betulla su ogni superficie, con tagli-feritoie perfettamente oscurabili che permettono diverse configurazioni d’uso – studio, stanza relax, rifugio contemplativo – e molteplici visuali verso lo skyline cittadino.

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in soggiorno: poltrone Sushi di Carlo Colombo per Zanotta,divano Yeats di Piero Lissoni per Living Divani.

Infine il sottotetto mansardato, arricchito di nuovi abbaini, è stato trasformato in zona notte padronale con un nuovo luminoso bagno di marmo bianco, uno spazio studio e un’ampia cabina armadio. Anche qui non manca l’elemento ‘sospeso’, il volume che si connette e si distacca dal fronte interno. Si tratta di un piccolo balcone ligneo, posto in corrispondenza con un nuovo abbaino-portafinestra, composto da una sommatoria di tavole orizzontali la cui geometria permette di ricavare feritoie d’osservazione, trasformando questa ulteriore capsula geometrica en plein air in un vero e proprio belvedere, intimo ed esclusivo, parte di un crescendo compositivo che affianca al fronte storico una dinamica composizione per la facciata opposta.

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in sala da pranzo: tavolo Gamma di Jasper Morrison per Cappellini, sedie Wishbone di Hans Wegner per Carl Hansen & Son. Lampadario Ph Artichoke di Poul Henningsen per Louis Poulsen. in basso: vista della scala e dello spazio giorno.

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All’interno del celebre ski resort town di Le Flaine, in Alta Savoia, progettato da Marcel Breuer negli anni Sessanta, un’unità abitativa, rivisitata con sensibilità e padronanza di mezzi compositivi dall’architetto genovese Andrea Meirana, recupera il senso del vivere il paesaggio montano con qualità e comfort.

spazio aperto aL MonTe BIanco

progetto di Andrea Meirana team di progetto Luca Parodi, Ilaria Cargiolli, Mauro Valsecchi, Magalie Ehret foto di Alberto Ferrero testo di Antonella Boisi

Viste nel paesaggio innevato dello ski resort town di Le Flaine progettato da Marcel Breuer, una realizzazione cominciata nel 1959 e terminata nel 1981. Le linee dinamiche delle costruzioni incemento armato a vista armonizzano conla morfologia del sito. All’interno di un edificio del complesso si trova l’unità abitativa ristrutturata da Andrea meirana.

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ra il 1968 quando, sui prati verdi di Flaine, nell’Alta Savoia, in Francia, per iniziativa di Éric Boissonnas, lungimirante promoter, vengono costruiti l’hotel Le Flaine e gli edifici in cemento armato situati nei dintorni, che portano la firma di Marcel Breuer, ungherese, prima studente, poi insegnante del Bauhaus, a Dessau, in Germania. Il maestro aveva già realizzato le celebri sedute in tubolare d’acciaio, dalla Cesca alla Wassily (risalgono agli anni Venti), come del resto i suoi primi arredi per le case della Bauhaus, diventate icone di riferimento

per i progettisti di tutto il mondo. Ma, soltanto nel 1981, anno della sua morte, verrà completato il centro della stazione montana che l’aveva visto impegnato dal 1959 nell’elaborazione del masterplan insieme al team formato da L. Chappis, G. Chervaz, A. Gaillard e D. Pradelle. Nel disegno dello ski resort town, Breuer applica quelle teorie moderniste di estetica/funzionalità che così aveva sintetizzato: “L’architettura di Flaine è un esempio dell’applicazione del principio d’ombra e luce. Le facciate degli edifici sono tagliate come punte di diamanti. I raggi del sole ‘incidono’ i fronti da angolature differenti; dal loro riflesso risultano illuminazioni a contrasto. L’orizzontalità delle linee di livello alle quali risultano assoggettati gli edifici si oppone al rilievo caotico della montagna. Ciascun edificio utilizza al meglio le moderne tecniche di costruzione in cemento armato, pietra, legno e vetro. Lo spazio interno non risulta mai plastico, statico,

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L’area giorno. La continuità tra le varie zone è sottolineata dalla pavimentazione in rovere ricostituito da antichE assi alternata alla pietra posata a casellario. Il pensile rosso è la ricostruzione di un modello di Breuer ricavato da fonti di archivio. Su disegno sono anche Il tavolo da pranzo, L’elemento centrale polifunzionale in listelli di pietra, la panca in cuoio retroilluminata con strisce led, e tutto il blocco-cucina con piano di lavoro in pietra e rivestimento in pannelli di rovere spazzolato e cerato. di produzione invece le sedie Y-Chair di carl Hansen & Son (design Hans Wegner 1950), i divani l’homme et la femme esse di edra (design francesco binfarÈ), le lampade fisse di kreon.

finito. Piuttosto dinamico e aperto, definito da quinte flessibili, cura dei dettagli costruttivi e chiarezza di espressione formale. La composizione si integra nel selvaggio paesaggio di Flaine, umanizzandolo”. Oggi il resort è stimato un complesso architettonicourbanistico di altissima qualità ed è stato posto sotto vincoli di tutela. Il cemento plasmato come fosse legno nel contesto alpino sottolinea l’assenza di distonia: la contemporaneità del design di Breuer (i suoi pezzi sono tutt’ora in produzione) riflette un’architettura non obsolescente in termini di abitabilità, sebbene design & architettura portino con sé patine del tempo differenti. Tant’è che il recente intervento di recupero curato dall’architetto genovese Andrea Meirana all’interno di un’unità abitativa mette in risalto il livello qualitativo

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dell’architettura originaria insieme al calore delle atmosfere abitative ai piedi del Monte Bianco. “Riprogettare un appartamento di 75 mq all’interno di un edificio di Breuer” spiega Meirana “ha rappresentato una sfida, perché è sempre difficile modificare un layout con alto valore intrinseco. Ogni tentativo non sembrava mai migliore dello stato di fatto”. Eppure, volutamente, il nuovo intervento risulta chiaro, compiuto e distinto. “Era necessario” continua “riportare gli spazi a modalità abitative più consone a nuove esigenze, rimediare alle casuali modifiche impresse negli anni da precedenti proprietari, utilizzare al meglio gli strumenti compositivi e la palette materica offerti dall’architettura moderna. Solo con queste premesse è stato possibile accogliere le richieste della

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La vasca da bagno in pietra locale è affiancata dalla doccia con piano in acciaio inox celato dal rivestimento lapideo con fessura laterale per la raccolta dell’acqua. La superficie in vetro di divisione tra doccia e corridoio è a polimeri attivi, quindi trasparente quando la doccia non è in uso. Le luci a stelo di memoria conventuale sono realizzate su disegno con tecnologia a led.

committenza senza perdere il concept originario e il controllo di ciò che sarebbe stato nuovo”. I volumi, l’organizzazione spaziale, il modo di veicolare la luce all’interno degli ambienti sono ancora guidati dal primo impianto. La pianta lunga e stretta configurata a L con la zona-pranzo come cuore del living aperto sull’area d’ingresso e sulla cucina passante verso gli ambienti notte (due camere da letto con servizi dedicati) restituiscono l’idea di una casa trasformista fatta di quinte e diaframmi adattabili, racchiusi nella geometria di mini-cubi pensati come scatole abitabili. Il contesto delle Alpi francesi e la presenza protagonista del Monte Bianco hanno suggerito il resto. Innanzitutto nella scelta accurata dei materiali: pietra fiammata, legno sabbiato e trattato con cera e cenere, cuoio naturale opaco. Materiali autoctoni, naturali, destinati a metabolizzare un processo di invecchiamento che il tempo rende più prezioso. E appropriati al luogo, anche in termini di colore e texture, perché coerenti alla percezione del sito. Il cemento armato a vista delle travi è stato recuperato nell’aspetto originale con un trattamento di pulizia effettuato con dischi diamantati e intervallato da luci di design di segno minimale. Il tavolo da pranzo è un pezzo su misura in acciaio cerato e tavole di rovere con mono gamba rettangolare per consentire facilità di spostamento verso la panca quando occorre, soprattutto nelle giornate di mal tempo, più spazio libero. I nuovi elementi d’arredo fissi – il mobile passante in listelli

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Il blocco bagno privato nella camera principale, finito in pannelli di rovere spazzolato e cerato a cenere, segna il cambio di struttura del solaio originario da travatura in calcestruzzo a vista a solaio in getto pieno.

di pietra e ante in rovere con braciere del caminetto ecologico al centro e luci sovrastanti integrate per l’illuminazione indiretta del tavolo, la cucina con piano di lavoro in pietra dal forte spessore e l’intero blocco-attrezzature rivestito con pannelli in rovere spazzolato e cerato, un volume scandito da campiture che si raddoppiano nello specchio posizionato in modo da calibrare la sua riflessione e dilatare l’effetto di profondità della stanza verso il monolitico corridoio tappezzato di armadiature ghiaccio a tutta altezza – che compongono il paesaggio interno alimentano il quadro dei parallelismi e dei rimandi storici. Così il camino è una citazione di quello realizzato da Breuer per la hall dell’hotel Le Flaine; il pensile rosso acceso del soggiorno richiama le geometrie, le proporzioni, il sistema costruttivo e di chiusura di mobili presenti in molti soggiorni delle ville americane da lui progettate. È stato ricostruito in modo fedele, attingendo da fonti di archivio. La pedana in legno ricostituito da antiche assi che demarca l’area del soggiorno dalla cucina e il pavimento di pietra posata su disegno a casellario riprendono i piani di calpestio all’aperto dei rifugi alpini; il monolitico corridoio bianco evoca l’immagine delle cime ghiacciate e della neve fuori dalle finestre. Adolf Loos, nel 1913, trattando delle Regole per chi costruisce in montagna, docet: “Non costruire in modo pittoresco. La natura sopporta soltanto la verità”. Sembra che a Flaine, né Breuer prima, né Meirana dopo, l’abbiano dimenticato.

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Due speranze

cresciute nel cemento foto e testo di Sergio Pirrone

Due opere molto diverse, un intento comune che viaggia tra i viali sinuosi della cultura fino alle grandi strade asfaltate: l’immagine di un’architettura che regala l’orgoglio dell’appartenenza a un luogo che ha riacquistato o acquisito una personalità forte e vivida.

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Vista della corte interna che si apre alla caffetteria e al foyer della sala conferenze. pagina a lato: vedute esterne dei due musei. il Museo Del Desierto, verso est, le rovine della fabbrica d’oro, la citta’ di Antofagasta e il deserto. sotto: l’Ofunato Civic Cultural Center and Library, verso ovest e le colline che proteggono la cittadina di Ofunato.

Museo del desierto de Atacama

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ella II Regione il sole che non dà scampo, fa seccare la terra fino a farla diventare cenere rossa. La sua coltre spazzata dal vento oceanico spolvera il deserto roccioso, quello duro che non conosce dune, né oasi. I cercatori d’oro boliviani di due secoli fa non avevano vita facile ad attraversare il confine. Dagli scavi delle miniere d’oro di Pulacayo e Oruro, i treni a carbone partivano verso il Cile per un viaggio che durava parecchi giorni e aveva come meta una città di frontiera, Antofagasta, tra il deserto e le spiagge oceaniche. Il sud della città, case colorate davanti al Pacifico, era punto d’arrivo e di partenza. Il costone roccioso era stato trasformato in una fabbrica per la raffinazione dell’oro, la Establecimiento Industrial Playa Blanca. A pochi metri dalle onde, il metallo sarebbe stato lavorato e stivato nei barconi di legno, rotta l’Inghilterra. Questa è la storia delle Ruinas de Huanchaca, resti di una fabbrica che raffinò oro e speranza per

dieci anni, poi dismessa nel 1902. Dimenticati fino al 1974, questi massi curiosi vengono riscoperti e dichiarati monumento nazionale. Il segno dell’uomo lasciato sul territorio, nel tempo può produrre ricchezza. Il suo riutilizzo può diventare l’icona di una comunità, di una regione, appiglio nella storia e speranza di un futuro migliore. In quegli anni il Cile stava scoprendo quanto i casinò potessero fruttare in termini economici e turistici e decide di costruirne uno proprio di fronte alle rovine. L’investitore privato si dovrà però far carico della salvaguardia delle rovine e della costruzione del Museo del Desierto de Atacama. Il concorso architettonico nazionale, del 1996, prevede una serie d’edifici che avrebbero dovuto integrare l’antico col nuovo, all’interno di un parco culturale. In quegli anni, Ramón Coz, Marco Polidura, Eugenia Soto e Iñaki Volante erano giovanissimi. Vinsero con un progetto che sarebbe stato realizzato, solo in parte, tredici anni

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vista interno-esterno verso ovest attraverso una della quattro grandi vetrate che intervallano le cinque sale espositive. interno del ‘corridorio espositivo’ asse nord-sud del progetto.

dopo. Il promontorio proteggeva la città, sotto le rovine e oltre la fuga verso il tramonto oceanico. L’architettura doveva poggiarsi discreta, neutra e presto ingiallita dalla sabbia. L’aria salmastra l’avrebbe presto intaccata e il tempo unita alla terra, a quelle rovine. Ad indicare l’imponenza di quelle torri scolpite dal tempo sarebbe stato il dorso inclinato e le dita di cemento allungate verso ponente. Il loro ritmo avrebbe richiamato la scansione di torri e muraglioni, di una cattedrale nel deserto terrazzata e disegnata dalla regolare alternanza di pieni e vuoti, di guglie e sale aperte alla lavorazione del prezioso metallo. Le cinque sale espositive accolgono mostre permanenti, due destinate alle ere geologiche del deserto di Atacama, due alla miniera e ai suoi abitanti e una dedicata all’universo creato. Esse spiovono e si agganciano perpendicolarmente all’asse nord-sud che unisce l’entrata principale alla caffetteria. Questo pettine espositivo quasi simmetrico subisce il fascino della sottrazione, dell’alternanza degli estremi. Le grandi aperture vetrate alternano

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i cunei di cemento, la luce di ponente abbaglia lo spazio, lo taglia orizzontalmente, mentre quella di levante si diffonde verticalmente attraverso le due corti aperte. Il blocco orientale contiene uffici, servizi e una sala conferenze. Oltre quei resti fossili intrappolati in vetrine illuminate da led, lo sguardo va al di là del taglio di vetro e, riquadrate sotto quel cornicione, incrocia le rovine. La storia a volte lega luoghi e racconti distanti tra loro, alieni ma uniti da coincidenze e dall’agire degli uomini. In Cile, non poco distante da Atacama, si racconta che esattamente dall’altro capo del mondo ci siano le terre ardue del Giappone. Che i villaggi dei pescatori della prefettura di Iwate non siano poi cosi distanti dalle miniere di rame di Antofagasta e che si tratta sempre di gente che vive e rischia sullo stesso oceano. Fredde, queste coste rocciose, mare e vento le hanno stratificate disegnando caverne buie ed insenature profonde. Una di queste accoglie la città di Ofunato, 40.000 abitanti principalmente dedicati all’industria peschiera. La natura qui non fa la storia. Gli uomini qui

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vista notturna esterna dal fronte stradale. veduta dal basso verso l’alto delle pareti scalari sovrastanti la caffetteria e adiacente la grande sala concerti.

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devono controllarla e manipolarla col cemento. Lo fanno mentre il naturale diventa artificiale e l’artificiale diventa finalmente storia. Davanti allo spettro del progressivo spopolamento delle città di frontiera, il governo di Ofunato pensò che un polo culturale avrebbe potuto arginare il fenomeno attirando nuove anime e creando un indotto per la comunità. Il budget giapponese non è quello cileno e il nuovo Ofunato Civic Cultural Center and Library è un gigante di cemento chiaro, possente e sfaccettato. Poco incline ai colpi d’occhio, difficile da interpretare, la sua figura è complessa come lo possono essere incastro e sottrazione di volumi geometrici che giocano a nascondersi. Mentre i suoi piani perimetrali poggiano sul prato, l’incrocio accoglie l’ultima opera di Chiaki Arai. Classe 1948, distante per età e prospettive dai tre giovani cileni, ha scelto di non svendere il mestiere alla fama, di mantenersi coerente a se stesso. Crede in quest’opera e racconta quanta difficoltà ha richiesto un’architettura che ha la pancia disegnata da curve di livello in cemento e le spalle

come caverne. Come siano sovra-dimensionate forma e funzioni, come solo in Giappone si possa costruire un complesso culturale con un teatro da 1.100 posti, una libreria su due livelli, spazi multifunzionali, laboratori, sale per incisione, sale riunioni, per un paesino periferico. Il genius loci cileno, quello discreto dei passi che costeggiano la rovina, quello del meno è più, affronta qui la possenza di un protagonismo architettonico che però guarda lontano. Qui le colline sono verdi, la terra vulcanica e il freddo hanno indurito la sabbia rossa, ma anche qui, come ad Antofagasta, si cerca un’icona. Se ad Antofagasta questo viene affidato ad un casinò privato, qui è l’intera comunità che se ne fa carico. Così funzionari comunali e cittadini formano il comitato Let’s Create Ofunato City Hall. Seminari e laboratori decidono il programma funzionale, mentre Chiaki Arai presenta la sua ipotesi progettuale. Una scatola architettonica che contenga l’essenza di una comunità, e la rappresenti ricordando il suo territorio, le sue

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la caffetteria vista dal piano terra con le sedute Costes disegnate da Philippe starck nel 1985 per driade aleph. Hanno struttura in tubolare di acciaio verniciato nero, scocca in compensato curvato finito mogano e cuscino fisso in schiuma poliuretanica rivestito in pelle nera. veduta della doppia altezza della stessa caffetteria dal livello d’entrata alla sala concerti. lo spazio foyer che abbraccia la sala concerti e a cui si agganciano rampe e scale d’accesso.

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coste, l’oceano ed il cielo. I cunei incassati nel cemento sporchi di sabbia, vissuti dal vento e scoloriti dal sole, sono un ricordo lontano quanto la traversata del Pacifico. Ad Ofunato l’architettura è una scultura perfetta. Struttura ed ornamento di una caverna squarciata dalla luce di levante, gli intradossi caldi delle curve di livello si possono toccare, seguire nel chiaro scuro, fino alle entrate del teatro. Magnifico scenario, le pareti rivestite di legno grigio sono grotte marine, il controsoffito è l’ondulare di nuvole nel vento. Cinti da passaggi saliscendi che portano ai piani sfalsati in cui foyer e sale tecniche si aggrappano a travi stellari, pareti scoscese e volumi incastrati dalla luce zenitale, ci si rende conto di che opera è l’Ofunato Civic Cultural Center and Library.

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Apice costruttivo d’inarrivabile difficoltà, rivela come una speranza possa nascere anche nel cemento. Due punti di un mappamondo, due cittadine ancorate tra montagna e oceano, passato e futuro, due studi d’architettura agli antipodi per generazione e preparazione. Che hanno in comune queste opere se non il cemento? Se non la stessa speranza di non perdersi nell’oblio del tempo aggrappandosi tenacemente ad un libro, un gioiello, un resto fossile, uno spartito musicale. Come l’amore, come il vento che soffia tra Sud e Nord dell’Oceano Pacifico, la cultura possiede il talento di unire luoghi e menti, di raccontare storie d’altri tempi e senza tempo, di far credere che, in fondo, Atacama e Ofunato non siano poi così lontane.

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HoLon DesIGn MuseUM una terza speranza cresciuta nel cemento: In Israele dopo quattro anni di lavori è in fase conclusiva la costruzione del Design Museum di Holon, a sud di Tel Aviv. Disegnato da Ron Arad come un’opera iconica, esibisce il suo aspetto di monumento contemporaneo radicandosi però al disegno della piazza e aprendosi verso il cielo con una corte interna che amplifica lo spazio dell’intorno. viste dell’ architettura esterna: i fronti con andamento spiraliforme negano ogni gerarchia, la struttura in cemento a vista si integra con le fasce di corten che formano un acrobatico nastro concepito come elemento di unione tra spazio esterno ed interno.

foto courtesy Luchford APM testo di Matteo Vercelloni

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n’opera in fieri. Il Design Museum di Holon si inserisce in un più vasto programma di sviluppo culturale della città destinata a diventare il centro di riferimento della ricerca e della didattica per Israele. Da questo punto di vista il nuovo edificio si pone anche come un segno simbolico, evento architettonico che segna l’inizio di un ambizioso percorso da costruire nel tempo, votato alla diffusione della cultura in senso lato. Se quello di Holon è il primo museo dedicato al design del Paese, l’edificio oltre ad affrontare nei suoi programmi l’impatto della cultura del design in relazione al disegno urbano e alla vita quotidiana, si offre come luogo flessibile e aperto all’organizzazione di eventi culturali, spettacoli, mostre. L’organizzazione degli spazi si caratterizza nella disposizione su due livelli di due grandi gallerie espositive disassate che superano i duemila metri quadri disponibili. Si tratta di ambienti regolari passibili di trasformazione in base ai diversi allestimenti che si svilupperanno nel tempo, secondo le esigenze delle esposizioni e degli eventi; una sorta di dichiarati ‘spazi neutrali’ che non intendono avere una precisa e marcata caratterizzazione architettonica proprio per non incorrere in situazioni vincolanti e garantire la massima adattabilità anche per le collezioni permanenti. Alla voluta razionalità e all’articolazione planimetrica delle due gallerie museali risponde la complessità della soluzione esterna scandita nella facciata da una sovrapposizione di fasce in corten chiamate

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a formare un nastro architettonico che si insinua tra le due gallerie e avvolge con andamento spiraliforme l’intera struttura edilizia, negando ogni gerarchia dei fronti e trasformando il museo in una grande forma scultorea di riferimento urbano. Proprio dallo spazio pubblico della piazza prospiciente il nastro metallico prende vita, diventando elemento di unione tra esterno ed interno, segnando i percorsi di accesso e accompagnando il pubblico nella scoperta del museo. Il dinamico sviluppo a vortice della pelle strutturale in corten si integra con la struttura in cemento a vista dei blocchi architettonici, creando anche un efficace contrappunto cromatico oltre che compositivo. Lo spazio pubblico della piazza sembra volutamente proseguire nell’edificio che unisce alla funzione museale quella di spazio urbano; le acrobazie del nastro scultoreo si inseriscono nel corpo architettonico passando sotto il volume della galleria del primo livello per creare un ampio porticato di accesso. Da qui il corten si sviluppa e sale tra i due corpi disassati per definire una corte sospesa che sottolinea il suo valore pubblico ed è sovrastata dal dinamismo dell’elemento di facciata aperto in questo caso verso il cielo e chiamato anche a schermare la forte luce del sole, formando delle ampie zone d’ombra per il pubblico. Come afferma lo stesso Ron Arad: “la capacità di creare e sfruttare la tensione tra l’organizzazione interna di spazi concatenati adatti all’esposizione museale e il dinamismo dell’involucro esterno rappresenta il principio guida del progetto del museo.”

Vedute e renderings degli spazi interni (in fase conclusiva) organizzati su due livelli con due grandi gallerie espositive disassate. Lo spazio pubblico della piazza sembra proseguire nell’edificio tramite il nastro scultoreo di corten che si inserisce nel corpo architettonico passando sotto il volume della galleria del primo livello per creare un ampio porticato di accesso.

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PAOLO ULIAN raccontato da ENZO MARI

di Maddalena Padovani

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Tra gioco e discarica È IL TITOLO DELLA MOSTRA CHE LA TRIENNALE DI MILANO HA DEDICATO LO SCORSO FEBBRAIO A Paolo Ulian. CURATORE D’ECCEZIONE, IL PIÙ INTEGRALISTA DEI MAESTRI DEL DESIGN ITALIANO: Enzo Mari. A CONFRONTO I DUE GRANDI PROTAGONISTI DEL PROGETTO, CHE CONDIVIDONO LA STESSA visione etica della vita e della professione.

L’

SOPRA, IL PARAVENTO ACCADUEÒ, REALIZZATO SEZIONANDO E IMPILANDO BOTTIGLIE DI PLASTICA, 1996. NELLA PAGINA ACCANTO: ENZO MARI TRASCINA PAOLO ULIAN SUL SUO SCI-VOLANTE, UN TAPPETINO DA BAGNO CHE, DOTATO DI MANIGLIE IN TESSUTO, SI TRASFORMA IN GIOCO DA CASA, 2009 (FOTO PAOLO VECLANI). LA MOSTRA PAOLO ULIAN. TRA GIOCO E DISCARICA HA CHIUSO IL PRIMO CICLO DI RASSEGNE DEL CREATIVE SET DELLA TRIENNALE DI MILANO DEDICATE AI NUOVI DESIGNER ITALIANI.

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incontro avviene nello studio di Enzo Mari in piazzale Baracca a Milano, un luogo ‘mitico’ che tutti gli studenti di design vorrebbero visitare e che attraverso le pareti annerite, le vecchie attrezzature da lavoro, gli oggetti e i prototipi accatastati, le tracce di migliaia di lavori, parla delle tante battaglie combattute dal più radicale e incorruttibile dei protagonisti del progetto italiano. In questo spazio che sembra essersi fermato ai gloriosi anni Sessanta, all’epoca in cui tutto veniva inventato e riprogettato con il semplice obiettivo di rendere migliore e più funzionale la vita quotidiana, non c’è una sola cosa che rimandi all’immagine ‘glam’ oggi associata al design. È lo stesso Mari a precisare da subito, con la nota e inflessibile determinazione, la sua assoluta distanza da una disciplina che oggi, a suo parere, è asservita alle leggi del marketing e quindi ha fatto del designer un semplice interprete di tendenze. Garbato e discreto come sempre, Paolo Ulian ascolta con reverenziale ammirazione. Dai suoi occhi traspare tutto l’entusiasmo per il grande impegno, quasi inaspettato, che il suo Maestro – da cui ha imparato le basi del mestiere prima come studente, poi come apprendista – ha dedicato alla cura della sua ultima mostra personale allestita alla fine di gennaio presso la Triennale di Milano (Paolo Ulian. Tra gioco e discarica, 27 gennaio-28 febbraio 2010, catalogo Electa). Non capita spesso che un designer si occupi dell’ideazione e dell’allestimento

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Qui sopra, una veduta dell’allestimento curato da Enzo Mari. In primo piano a sinistra, la colonna realizzata da Ulian e Mari utilizzando le tegole di scarto derivate dalla lavorazione del marmo per la realizzazione del rivestimento delle moderne colonne cilindriche (in alto, una foto delle tegole e alcuni schizzi esemplificativi del loro utilizzo di recupero). Nella pagina accanto, un prodotto di Ulian presentato nella categoria Minimizzare lo scarto. Si tratta del vaso Vago, 2008, ottenuto dalla sovrapposizione di 24 anelli concentrici di marmo (produzione Up-group).

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dell’esposizione di un altro designer. Se la mostra in questione è poi quella di un protagonista indiscusso del nuovo design italiano, come Ulian, e ad occuparsene è un personaggio del calibro storico di Enzo Mari, viene spontaneo chiedersi quali siano le ragioni di questa scelta, per poi cercare di cogliere le sfumature e gli aneddoti di quello che sembra un incontro tra i titani di due epoche diverse. Perché proprio Enzo Mari come curatore della tua mostra? Ulian: “Non è stata una scelta immediata. Quando mi hanno detto di pensare a un curatore, mi sono venuti in mente i tanti critici e teorici del design che il più delle volte, però, si limitano a scrivere un testo di presentazione senza entrare nella concreta ideazione della mostra. Solo successivamente mi è venuta l’idea di coinvolgere un progettista e ho pensato a Enzo Mari. Sapevo che lui mi avrebbe stimolato e fatto emozionare; non immaginavo, però, quanto entusiasmo e quanto lavoro avrebbe dedicato a questa esposizione e oggi mi reputo davvero felice di avere fatto questa scelta”. Secondo te, quali sono le idee, gli elementi o i valori che vi accomunano? Ulian: “Io penso che sia una sorta di leggera follia che ci fa andare avanti sulle nostre rispettive strade, cercando di perseguire quello che a nostro giudizio è giusto per noi e per il mondo, senza

tenere conto di tanti fattori, primo fra tutti quello economico. L’obiettivo è il sentimento dell’uomo, l’aspetto etico del progetto e della vita che il più delle volte è compromesso dalle leggi del mercato”. Professor Mari, per quali motivi ha accettato di occuparsi della mostra di Paolo Ulian e quali sono gli aspetti del lavoro di questo designer che più apprezza e trova affini alla sua personale visione del design? Mari: “Conosco Paolo da più di vent’anni. Ha lavorato per un anno nel mio studio e prima ancora era stato mio allievo presso l’Isia di Firenze. Avevo un buon ricordo di lui e avevo avuto modo di rivederlo di tanto in tanto a Milano durante la kermesse del design di aprile. Lo avevo incontrato anche in occasione della sua ultima mostra allestita l’anno passato presso la Fabbrica del Vapore. Ciò che avevo colto era appunto una componente umana distaccata dalle problematiche ottuse della professionalità del designer. Io e Paolo abbiamo avuto due formazioni diverse, se non altro per ragioni anagrafiche. La mia è avvenuta in un periodo in cui esisteva, a livello sociale e collettivo, un’idea del design basata sul concetto dello standard e in cui si credeva al design come strumento per migliorare a livello universale la vita dell’uomo. Oggi questa idea non esiste più; il design risponde ormai alle logiche della moda, al principio della diversità fine a se stessa, secondo il quale gli oggetti devono essere presentati ogni sei mesi in un modo diverso. Ai tempi della mia formazione non esistevano le scuole di design. La mia fortuna è stata proprio quella di avere imparato sul campo questo mestiere, senza peraltro sapere cosa fosse il design, semplicemente osservando l’arte e l’operato dei grandi maestri e studiando le modalità con cui migliorare gli oggetti allora prodotti dall’industria. Paolo, invece, si è formato all’Accademia e poi ha conseguito il diploma in design. Di tutti i suoi lavori, quelli che risultano più deboli sono proprio quelli legati agli insegnamenti di design. In lui ravviso però un parallelismo di vissuto, di ideali e di utopia, la stessa visione idealistica che animava i miei primi anni di lavoro. I tempi sono ovviamente cambiati; il design è diventato nel frattempo una metastasi, ma questa sua scelta di rimanere fuori dalle regole della professione e di lavorare su determinati principi, come la minimizzazione dello scarto, mi ha portato a condividere e apprezzare da sempre le sue idee progettuali. Se mi guardo in giro vedo ben poche esperienze paragonabili a quella

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di Paolo Ulian. Per questo ho partecipato a questa mostra come fosse una mia mostra, cercando di mettere a fuoco certi concetti su cui io stesso lavoro da sempre”. Per la mostra avete disegnato a quattro mani un pezzo speciale. Di cosa si tratta? Mari: “È una colonna che mostra come potrebbero essere impiegati gli elementi di scarto derivanti dalla lavorazione del marmo per la produzione delle lastre curve utilizzate in edilizia per il rivestimento delle colonne moderne cilindriche. Per ciascuna lastra ne viene prodotta una di scarto che solitamente finisce in discarica. Abbiamo voluto dimostrare come questi ma anche altri elementi di recupero possano essere utilizzati per realizzare oggetti di vario uso e varia tipologia”. Ulian: “Questa colonna rappresenta quello che si può fare di bello con il negativo dell’esistente. Dimostra che con la stessa quantità di materiale con cui si realizzano 200 colonne se ne possono fare 400”.

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Tutti oggi parlano di progetto ecologico, di recupero e riciclo. Non pensa che spesso si abusi di questi concetti? Mari: “Si tratta perlopiù di interventi pubblicitari che nulla hanno di ecologico. Si è iniziato a parlare di ecologia trent’anni fa, quando le discariche hanno cominciato a diventare delle montagne. Il problema sembrava riguardare i criteri e le modalità della loro razionalizzazione; è stato così che si sono affinati gli strumenti economici per il radicamento della mafia. Un altro esempio: le centrali nucleari, abolite da un referendum popolare nel 1987. Un grande risultato, se non fosse che l’Italia ha continuato e continua ancora oggi a dipendere dall’energia nucleare prodotta in Francia a pochi chilometri dal nostro paese. Quando si parla di prodotto ecologico, ci si dimentica, almeno in Italia, che siamo nelle mani dell’industria che non ha ideali ma solo una regola ferrea: qualsiasi produzione deve dare un reddito. Cosa significa, dunque, intervenire sull’ecologia? Partiamo dal presupposto che chi produce design in Italia lavora in una situazione controllata sul piano sindacale e che il risultato della sua attività è comunque un prodotto di qualità. Non dimentichiamo, però, che per produrre si consuma energia e materie prime, la cui provenienza e la cui qualità sono difficilmente controllabili. È dunque impossibile garantire che un prodotto sia ecologico nell’interezza del suo percorso di vita. Quando parliamo di progetto ecologico entriamo dunque nel retaggio demenziale delle scuole, che affrontano i problemi senza conoscerne e comprenderne la complessità. Per farlo realmente bisognerebbe ipotizzare soluzioni radicali che appartengono però all’utopia. Questa mostra non pretende certo di dare delle risposte universali ma semplicemente di evidenziare come l’unico progetto ecologico oggi possibile sia modificare i comportamenti della gente. Se la mostra sarà riuscita a comunicare questo messaggio anche a una sola persona, avrà raggiunto il suo obiettivo”. Tra gioco e discarica è il titolo che a suo parere riassume l’operato di Paolo Ulian. Ci spiega questo concetto? Mari: “Nel lavoro di Paolo Ulian io ravviso la componente etica che hanno i bambini nella loro prima fase di esperienza e

A sinistra, Pannello decorativo in cartone ondulato fustellato, 1990. Sopra e sotto: dalla categoria Reinterpretare oggetti esistenti, Cardboard vase, 2009, vasi realizzati modellando involucri di cartone goffrato comunemente utilizzati per imballare e proteggere bottiglie e vasi in vetro. In basso, Portauovo, 2000, supporto per uovo à la coque che utilizza i comuni piatti di casa come contenitori per il pane tostato e i residui del guscio.

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In questa pagina, Progetti dalla categoria Il gioco del design. A sinistra, vasi in terracotta Rosae, 2009, Attese Edizioni.

Sopra, Guanto toglipelucchi, 2005, prodotto da Coop nel 2008; una freccia indica la direzione di utilizzo e un gancio integrato permette di appenderlo all’asta del guardaroba. Sotto, Birdfeeder, 2003, contenitore con paletta raccoglibriciole che diventa una mangiatoia per uccellini. Modello realizzato per Droog Design.

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conoscenza del mondo. Come loro, Paolo cerca di apprendere facendo le cose, giocando. Il gioco rappresenta il più alto livello di conoscenza per i bambini, che proprio attraverso l’attività ludica raggiungono, nel giro di due anni, la completa percezione del mondo a partire da zero. In un qualche modo Ulian fa la stessa cosa: analizza la realtà per quello che è, la sviluppa, si diverte, segue varie direzioni di conoscenza, alcune delle quali si rivelano più valide e interessanti, altre meno. I progetti sono stati suddivisi nella mostra in quattro categorie: contestare lo spreco mortale della discarica; minimizzare lo scarto; reinterpretare oggetti esistenti; il gioco del design. Le prime tre riguardano la componente etica dei progetti; l’ultima è composta da oggetti molto semplici che evidenziano la componente più ludica del lavoro di questo progettista”. Secondo lei, qual è il tratto distintivo della generazione di progettisti a cui appartiene Paolo Ulian? Mari: “In Europa ci sono oggi 3-4 milioni di giovani diplomati in design, la metà dei quali non riuscirà mai a fare il mestiere di progettista. La parte rimanente è composta da coloro che credono che il design sia un’attività prevalentemente decorativa e poi da chi, come Ulian, guarda all’essenza degli oggetti con la semplicità e l’ingenuità del designer che non ha a disposizione gli strumenti della produzione. La loro dimensione obbligata è purtroppo quella dell’autoproduzione”. Ci parli di un progetto di Paolo rispetto al quale le è capitato di assumere una posizione critica. Mari: “Ci siamo trovati a discutere della ciotola ‘forata’ che, in caso di rottura, si scompone in frammenti circolari utilizzabili come piattini. La mia critica spontanea è stata: perché pensare a un oggetto che si deve rompere? Non avrebbe più senso progettarlo in modo che possa durare a lungo?”. Ulian: “Il mio intento era in realtà stimolare la gente a guardare con occhi diversi quello che solitamente viene considerato uno scarto. Invitarla a considerare ciò che viene gettato nella spazzatura e che potrebbe prestarsi a un utilizzo diverso e inaspettato”. E i progetti che invece le piacciono di più? Mari: “Mi vengono subito in mente alcuni progetti da lui realizzati ancora da studente, come

quelli con il cartone cannettato usato nelle sue naturali qualità decorative ma con l’obiettivo di evitare ogni spreco di materiale. Mi piace poi il contenitore con paletta per le briciole di pane, che diventa una mangiatoia per uccellini, perché emerge la componente umana del progetto. Oppure il supporto per uova alla coque che utilizza i comuni piatti di casa come contenitori per il pane tostato e i residui del guscio: una piccola invenzione che introduce qualcosa che non c’era reintepretando un oggetto già esistente”. La scelta di confrontarsi con un personaggio così importante e intransigente come Enzo Mari è stata sicuramente coraggiosa. Si è trattato di un confronto stimolante? Ulian: “Ho voluto che Mari godesse della massima libertà di giudizio e di selezione. Per cui ho accettato ogni sua idea e ogni sua critica, anche quelle che magari hanno penalizzato progetti a cui sono molto affezionato. Le sue critiche costituiscono per me uno stimolo importante, un suggerimento per migliorare il mio lavoro. Per esempio, parlando dei vasi in ceramica che ho disegnato prendendo spunto dagli imballaggi di cartone ondulato, mi ha detto: perché non utilizzare direttamente il cartone? E così è stato: ho preso quelli solitamente usati per proteggere le bottiglie di vetro e vi ho inserito all’interno mezza bottiglia di plastica tagliata. Così è nato il vaso che ho esposto alla mostra, così Enzo Mari mi ha aiutato a migliorare un progetto e ad esprimere meglio un’idea che avevo sviluppato solo allo stato latente”. Mari: “Io riesco a capire una cosa solo quando la affronto da un punto di vista progettuale. Mi viene in mente quello che fece Richard Sapper quando venne chiamato a far parte della giuria del Compasso d’Oro. All’assegnazione dei premi, assieme alle motivazioni della scelta volle aggiungere i consigli per migliorare i progetti. Questo per dire che un progettista non può fare a meno di approcciare un tema senza assumere un atteggiamento progettuale. Così è stato per la mostra di Paolo: il nostro modo di pensare è lo stesso, l’utopia a monte è molto simile, per cui analizzando determinati progetti non ho potuto fare a meno di calarmi in essi e cercare talvolta di evidenziarne i limiti o le possibilità di sviluppo e miglioramento”.

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di Andrea Branzi

È

da tempo che su questa rivista segnalo il business internazionale della formazione nel settore del progetto, soprattutto design e moda, che negli ultimi dieci anni sta crescendo in tutti i Paesi industriali o in via di industrializzazione. Si tratta di un fenomeno che non risponde a un fondamento culturale, ma all’urgenza di ‘innovazione’ che caratterizza tutto il settore dei beni di consumo, dei servizi, della comunicazione, del retail e della promozione, che a fronte della crescente concorrenza internazionale costringe qualsiasi impresa per entrare (o per restare) sul mercato, a introdurre continuamente, nei propri cataloghi e nelle

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sCuoLE a VenDeRe proprie strategie, elementi minimi o massimi di ‘innovazione’, sia essa di natura tecnica, estetica, funzionale o commerciale. Alla faccia di ciò che pensava il vecchio design razionalista, che immaginava un mercato omologato fatto di prodotti eterni, oggi in altre parole vale la legge universale che afferma che “non si puo produrre ciò che gia esiste” e che occorre attingere senza sosta all’energia innovativa che il design è in grado di fornire. Per questo motivo il design sta diventando in tutto il mondo una ‘professione di massa’, non tanto per elaborare orizzonti di gloria culturale, ma per fornire a un mercato industriale in grande difficoltà quell’energia necessaria per sopravvivere e espandersi di fronte alla concorrenza globalizzata. È cresciuto a dismisura il numero delle scuole e delle università, pubbliche o private, che

insegnano a coltivare le capacità creative delle ultime generazioni, non per cambiare il mondo ma piuttosto per fornire quel carburante indispensabile alla sopravvivenza delle imprese, sommerse nei mercati iper-saturi del capitalismo globalizzato. Si tratta di un business della formazione ‘creativa’ che ha acquisito dimensioni multinazionali, dove si muovono realtà finanziarie enormi, che in questi ultimi tempi hanno cominciato a guardare con interesse anche verso l’Italia, che, a torto o a ragione, è considerata la patria del design più pregiato. È ancora recente la notizia ufficiale che la Laureate International Universities (multi-nazionale americana che possiede 45 scuole in 20 Paesi, con un totale di più di 500.000 studenti) ha acquistato a Milano la Nuova Accademia delle Belle Arti (NABA) dalla famiglia Cabassi e la Domus Academy di Maria Grazia Mazzocchi.

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universalmente considerata la mecca del design, Milano, italia, È anche sede delle più qualificate scuole che preparano i giovani aspiranti designer internazionali: ora, due delle capostipiti, sono state vendute dagli italiani e acquistate dagli americani. quale il futuro?

Si tratta di due scuole che rappresentano la parte più nobile della tradizione didattica italiana. La NABA è presieduta da Alessandro Guerriero, fondatore a suo tempo di Alchymia, e Domus Academy è stata co-fondata e a lungo diretta dal sottoscritto; dunque, due istituzioni che hanno fatto parte di quel vasto fenomeno di rinnovamento del design italiano che, durante gli anni Settanta e Ottanta, abbiamo chiamato il Nuovo design italiano, i cui protagonisti vi sono confluiti dando un importante contributo al rinnovamento delle pratiche didattiche in tutto il mondo. Già da tempo Domus Academy era in mano a manager e amministrativi, che, se ne hanno garantito la sopravvivenza economica, certamente non ne hanno garantito la crescita né numerica, né culturale. In altre parole il

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processo di ‘normalizzazione’ era già in corso e la recente vendita ne costituisce la logica conclusione: del resto, si può comprare soltanto da chi vuole vendere. È probabile che gli americani eccentueranno questo processo: gli USA hanno una pessima tradizione di didattica nel design, visto come strumento esecutivo del marketing aziendale e paradossalmente (ma non troppo) la Laureate International Universities è attiva in molti settori e particolarmente specializzata nella formazione alberghiera: chi vuol capire intenda… Design e Borsa non si sposano facilmente: le complicate vicende del gruppo finanziario italiano, entrato recentemente in questo settore, stanno infatti a dimostrare che il design non è una fabbrica metalmeccanica e insegnare a produrre ‘innovazione’ è molto diverso che insegnare economia, informatica o gestire buoni alberghi e pensioni.

nelle immagini: studio azzurro, fanoi, 2009, video-installazione sulla scalinata del popolo a potenza, in occasione della mostra arte in transito (estate 2009). Fanoi è un’opera ‘dantesca’, visionaria e realistica al contempo, segnata dal doppio registro della finzione, propria della creazione artistica, e della realtà, costituita dai volti e dai racconti del genius loci. catalogo electa. foto di salvatore laurenzana.

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BrIan DonneLLy & KAWS L’universo dei graffiti, quanto la società informatizzata, sono aspetti complementari di una pretesa a coinvolgere e rendere interscambiabili i dati, attraverso un display che va dalla parete di un edificio o della metropolitana allo schermo elettronico. di Germano Celant

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on meraviglia che il percorso di una generazione nata nel decennio della apparizione di graffiti, gli anni Settanta, tenda all’intrecciodi tanti universi, apparentemente antitetici, ma complementari. Anche KAWS (Brian Donnelly), nato nel 1974, proveniente dal New Jersey, si nutre di questi prodotti culturali e della loro affermazione sia come comunicazione di strada che come network di diffusione dell’arte in un territorio mondializzato, che aprono orizzonti sconfinati al suo esprimersi. Nel corso del suo viaggio nel mondo delle immagini, Brian Donnelly (KAWS) ha dapprima sperimentato l’esternità che ha informato i graffiti.

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Giovanissimo e già interessato ai comics e all’arte, si è lasciato sedurre dall’attrazione irresistibile, per un ragazzo del New Jersey, dall’apparizione dei cartelloni pubblicitari posti su capannoni industriali o su muri periferici, e si è affidato all’esteriorità, segreta e anonima, di un tag come KAWS. È arrivato a dispiegare la sua scritta (arricchita spesso dal simbolo dei pirati, il teschio con le ossa a croce, ma con le cavee degli occhi coperte da una doppia X, a significare, secondo i cartoon, la sua ulteriore morte), basata sulla velocità dell’esecuzione, che, nell’articolarsi attraverso linee e colori, si è contrassegnata di una ricca mutabilità. Si è riflesso all’esterno, a New York, sulla scia di Taki 183 e Futura, di Jean-Michel Basquiat (SAMO) e Keith Haring, intervenendo sulle superfici urbane e imponendo il suo tag, in stile ‘selvaggio’, sui cartelloni pubblicitari, da Marlboro a Chanel. Un’esperienza da writer che si manifesta dal 1993 ed espande il suo territorio visivo, così da essere riconosciuto nella comunità graf newyorkese, insieme a West e Zephyr, e, nel 1996, approda a San Francisco, così da intrecciarsi con il percorso creativo di Barry Mc Gee (TWIST) e la sub-cultura della California del Nord. Qui riceve da McGee la chiave per aprire le vetrine che nelle

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IN QUESTA PAGINA: Beautiful Losers, 2005, acrilico su muro, Orange County, Museum of Art, Newport Beach (California). nella pagina accanto: Curtains, 2008, Acrilico su tela (68 x 86 inches).

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in questa pagina, da sinistra: Untitled, 2002, acrilico su tela montata su pannello (20 x 16 inches); Companion, 2006, Vinile (altezza 48 inches).

cabine telefoniche ospitano i manifesti pubblicitari delle case di moda, realizza il primo cartellone pubblicitario nelle pensiline degli autobus, e li modifica con un suo intervento immaginario, sensuale e ironico. Un passaggio importante per le conseguenze future del suo procedere, perché riconduce tutto l’esistente a un materiale d’uso creativo. Da questo momento l’appropriarsi di qualsiasi immagine, forma o volume, sia essa giacca o dipinto, cartoon o giocattolo, si fa possibile così da rimetterla in gioco secondo la sua interpretazione. Ecco gli sviluppi futuri che includono la rivisitazione de The Simpsons, che con KAWS diventano The Kimpsons, la rielaborazione di altre immagini trasformate in Kaws Bob e in Kurfs, e la riformalizzazione dell’omino Michelin o di Mickey Mouse tradotta in Chum and Companion. Ma, tornando ai cartelli delle fermate degli autobus e delle cabine telefoniche, è interessante notare come, nella maggior parte dei casi, dal 1996 al 2002 l’intervento consistesse nella sovrapposizione della maschera di un fumetto oppure nella ‘sostituzione’ della testa, che veniva rimpiazzata, con estrema meticolosità pittorica, da un volto, dal carattere scheletrico, piatto e monocromo, dalle connotazioni fumettistiche che al posto degli occhi presentavano due X, simile a quello già apparso nel primo graffito su cartellone Marlboro, 1995. Il fatto che la maschera, che copre i volti delle modelle, vestite o seminude, presenti uno

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sguardo sbarrato è indice di un corpo vissuto da un personaggio impersonale, che non intende rivelarsi, ma che nelle due XX trova un suo logo che come il marchio della Mercedes, della General Motors o della Fiat, diventa un segno di riconoscimento : “Utilizzo le X alla stesso modo in cui la Mercedes usa il ‘grill’ sulle sue auto... li vedi balenare di sfuggita nello specchietto retrovisore e sai subito che tipo di auto hai dietro di te”. Un esserci senza esserci, utilizzando la potenza del comunicare di moda, per stabilire un emblema che alla fine possa affiancarsi agli altri loghi, così da creare prodotti d’arte riconoscibili perché collegabili a un marchio, trasformazione industriale del tag manuale. Il salto nel mondo del ‘design artistico’ avviene in relazione al contatto con il marchio Hectic, a Tokyo, e Hikaru Iwanaga di Bounty Hunter, la compagnia che produce toys dell’artista in tiratura limitata. Non dimenticando che, dal 1980, il mondo dei giocattoli si arricchisce di gadget che affiancano film come Stars Wars ai Transformers, prodotti a Hollywood, sollecitando quindi un’amplificazione del concetto di gioco, che arriva a includere dal fantasioso al mostruoso, è in questo clima culturale e artistico che il giovane Brian Donnelly (KAWS) si trova a confrontarsi quando, sollecitato da Hectic Clothing (1997-98), s’impegna in una scelta oggettuale, non più manuale ma industriale. Il risultato è Companion, 1999, che si offre come fusione tra le diverse identità iconiche dell’artista.

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È infatti un ‘manichino’, prodotto con la Bounty Hunter Company, specializzata in giocattoli, con le fattezze che richiamano, in una sorta di ibrido immaginario, il corpo di Mickey Mouse con una testa che è dissolta nel già citato ‘simbolo dei pirati’. La costruzione in 3D del manichino, essere meccanico e metafisico, è di fatto il primo passaggio dalla pittura e dalla grafica alla scultura, un linguaggio che lo avvicina all’esperienza ‘sognata’ di poter lavorare come Oldenburg. Rispetto alla produzione di The Store, del 1961, dove gli oggetti sono ancora un unicum, il Companion che KAWS mette in circolazione è prodotto in 500 esemplari per ogni colore, per un totale di 1.500 unità. Alla prima scultura, dai diversi colori, seguono nel 2002 The Chum e The Accomplice, in edizione di 1.000 copie, che, ripercorrendo l’iconografia di Companion, l’arricchiscono di varianti materiche, che rendono in bronzo o in fiberglass l’oggetto. Sul piano dell’immagine, The Accomplice si trasforma in un ‘coniglio’ dolce e morbido, con guanti e lunghe orecchie, mentre The Chum è chiaramente una interpretazione dell’omino Michelin. Seppur questi oggetti sembrano ricalcare un ‘mercato’ di immagini conosciute in quanto incorporano ‘figure’ e stereotipi già circolanti, essendo trasformate, senza soffocarle o parodiarle, attestano una possibilità di incorporazione che rivela la lettura di KAWS rispetto al mondo delle cose. Innanzitutto, l’esuberanza gridata dei graffiti si traduce qui in un silenzioso personaggio che sembra giocoso e piacevole, ma il cui sguardo è accecato. Nel 2001, per la mostra presso il grande magazzino giapponese Parco, Kaws creò una serie chiamata Packaged Paintings con l’assistenza di Nigo dell’azienda giapponese d’abbigliamento A Bathing Ape (BAPE), pitture che riprendono The Kimpsons. Saranno subito seguiti, nel 2003, dai grandi dipinti, commissionati da Nigo stesso e dalla successiva variante dei Kurfs e di Kawsbob, 2009, che seguono la linea del display dei giocattoli-gadget, avvolti in una confezione di plastica trasparente, per essere protetti e non essere toccati, quando messi in vendita nei negozi. Ancora con Medicom produce Bearbrick e la sequenza dei suoi ‘toys’, che include anche una versione, ingrandita e gonfiata del Companion, 2002, che viene commercializzata anche tramite il sito Internet, arrivando a essere venduta, in tutto il globo – dalla Cina alla Thailandia, dal Giappone all’America Latina – nell’arco di poche ore. Un processo di commercializzazione che ha adottato sistematicamente dal 2002, e che, con l’affermazione e la creazione della sua linea di prodotti, si espande fino ad aprire nel 2006, in collaborazione con Medicom Toy, Original Fake, il suo negozio di Aoyama (Tokyo), laddove esistono i multi-center di Comme des Garçons, Prada, ABathing Ape, Hysteric Glamour e Issey Miyake.

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a sinistra: Package Painting, 2001, acrilico su tela (18 x 22 inches). Small M Landscapes, 2001, acrilico su tela (48 x 48 x 1 1/2 inches ).

Seppur sempre proteso ad assumere – dai graffiti ai toys – un atteggiamento nichilistico verso la snobberia e il dandismo del mondo dei musei e delle gallerie d’arte, KAWS, subito dopo l’esperienza dei cartelloni pubblicitari e e dell’advertising di moda nelle cabine telefoniche, nel 2002 s’impegna, anche su commissione di Nigo, a dipingere grandi tele – come Untitled (Orange Fence), 2002 e Untitled (Chompers Fence), 2003 – su argomenti che rieccheggiano le manipolazioni pubblicitarie nei kiosks, quanto le barriere che i graffitisti dovevano superare per lasciare il loro tag, oppure trattano il soggetto de The Kimpsons, che consiste a volte in scene di famiglia con i protagonisti con lo sguardo coperto dalla doppia X oppure di frammenti di cartoon, come Kawsbob oppure Kurfs, 2007. Quasi sempre in una visione frontale, le immagini sono dipinte in maniera piatta, tipica dei manga giapponesi, e sembrano volere rigenerare il suo racconto che è diventato obsoleto e atemporale. Dotando i comics di un nuovo volto, l’artista sembra aspirare a un’attualizzazione del loro passato, che non può essere solo giocoso e lirico, ma anche spaventevole e mortifero: ecco la ragione di una maschera con gli occhi ‘cuciti’, che non guardano avanti, ma all’interno delle proprie storie, quanto la presenza di catastrofi ecologiche che trasformano la figura umana in un ammasso di fumo nero (Limited Time Only, 2006), quanto di scheletri e di mostri (Untitled - Pink Skeleton,

2007), motivi che alla fine convergono in scene truculente, violentemente colorate, dove il mondo sembra rovinare su i protagonisti, da The Long Way Home a Gatekeepers a Floating the Rumors, 2008. In altri dipinti a predominare è il carattere illustrativo della storia, che include anche racconti figurali degli ‘attori’, cari a KAWS, come Original Fake Companion. Nel contesto di una società mondializzata, dove le reti contribuiscono a creare cose prive di significato, se non quello relativo al puro comunicare, non rimane forse altro che parlare del vuoto e del nulla che sta nello sguardo , simbiolizzato da quelle due X che sembrano oramai appartenere ad un universo cieco, abitato solo da marchi e da logo: un mondo di morte. Un superare la superficie del character per rappresentarne l’assenza e il vuoto di una comunicazione mediatica mondializzata, ma al tempo stesso un evidenziare come qualsiasi prodotto estetico, oggi, non possa che rappresentare un fallimento dell’arte che non è stata in grado di cambiare il mondo. Una realizzazione del sé, come KAWS, nel nulla di un cartoon o di un comic che sembra attestare un’unica speranza, quella di avvicinare tramite il linguaggio delle immagini conosciute ma rielaborate, dai The Kimpsons a Companion, un pubblico di rgazzi e di sconosciuti, che, in un mondo d’inesistenza ,possano mutare e cominciare a esistere, coscienti di una situazione sociale e comunicativa, scheletrica e mortale.

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Roberto Sambonet, la natura, la buona forma

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dall’alto: Studio per la composizione di un set fotografico per il sistema di pentole RSt Set, biro rossa su carta, 1974, Archivio CSAC; Antipastiera e legumiera in acciaio con settori modulari, Sambonet, 1975; Triangoli appetizer, contenitori in acciaio inossidabile impilabili e componibili, Sambonet, 1966.

di Matteo Vercelloni

Un percorso d’indagine della realtà compiuto in modo interdisciplinare, dove il progetto è somma di una sensibilità artistica e figurativa che indaga la struttura visibile delle cose. Roberto Sambonet (1924-1995), pittore, grafico e designer, ci insegna a guardare gli oggetti con attenzione. Le sue creazioni contengono storie, citazioni, culture, geometrie, rintracciate in ciò che ci circonda.

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Nella pagina accanto: un autoritratto di Roberto Sambonet del 1962; un Dettaglio della Pesciera in acciaio, Sambonet, 1957 (premio Compasso d’Oro nel 1970). Forse la creazione più famosa di Roberto Sambonet, è esposta in musei in tutto il mondo (foto Archivio Roberto Sambonet).

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al mondo familiare che lo circonda sin dall’infanzia Roberto Sambonet sembra assorbire tre fondamentali fattori che lo accompagneranno per tutta la vita, dagli anni della formazione a quelli della maturità artistica e professionale. Dal padre Guido, tra i fondatori della Sambonet Spa, azienda produttrice di posate e stoviglie per la tavola, Roberto assimila il sapere della fabbrica, dei modi di lavorare i metalli, della razionalità del prodotto; dal nonno materno, Francesco Bosso, il ruolo centrale dell’arte come strumento di indagine del reale; dallo zio Vittorio, esploratore in Cina, l’importanza del ‘viaggio’ come fattore di conoscenza. Questi tre riferimenti-guida si rispecchiano nelle vicende della sua formazione: dopo l’iscrizione nel 1942 alla facoltà di architettura del Politecnico di Milano, abbandonata dopo un anno per dedicarsi alla pittura e frequentare l’Accademia delle Belle Arti di Brera, Sambonet approfondirà il percorso artistico a Bergamo, dove nel 1946 segue l’Accademia Carrara con i corsi di affresco tenuti da Achille Funi. È in questo periodo che inizia ad esporre i suoi dipinti, prima di partire nel 1948 per il viaggio in Brasile che si rivelerà un percorso di formazione e approfondimento di un metodo di osservazione e di lavoro segnato in modo incisivo dalla natura del Paese – assunta come unicum sinergico tra paesaggio umano e culturale, geografico e botanico – e dagli incontri con Lina

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Dall’alto, in senso orario: Cesti, china su carta, 1952; Forme vegetali, matita su carta; studio per posate Metron, matita su carta; Diagonale, posacenere in cristallo, Baccarat, 1971; Cesto, borsa sferica in giunco, prodotto da Vittorio Bonacina e distribuito da La Rinascente, 1951.

Bo e Pietro Maria Bardi, impegnati in quegli anni nello sviluppo del Museu de Art di Sao Paulo. Natura e arte, la conoscenza dei lavori di Max Bill e di Paul Klee introdotti da Bardi, insieme a quelli di Brancusi e dei neoplasticisti; le frequentazioni con Oscar Niemeyer, Lucio Costa e con il paesaggista Roberto Burle Marx, fanno dei cinque anni di permanenza in Brasile un vero e proprio laboratorio formativo per Roberto Sambonet. Per capire il suo design occorre comprenderne il metodo che lo sostiene: un metodo che sfugge al profilo del designer italiano del suo tempo, essendo Sambonet lontano dalla formazione di architetto e più vicino a quella di un artista. Proprio in Brasile, staccandosi dalla cultura figurativa dello spazio domestico, Sambonet codifica un proprio universo formale dove i ‘soggetti’ indagati sono foglie e rami della foresta tropicale, paglie e oggetti artigianali d’uso quotidiano, la luce e le onde del mare; in sostanza, la realtà che lo circonda. Una realtà che è indagata attraverso gli strumenti del disegno, della pittura e della grafica, per essere ‘smontata’, depurata e sintetizzata, nello sforzo di mettere in luce la struttura che la presiede, le linee di riferimento utilizzabili poi per altre composizioni, tra cui il progetto di design. Un procedere compositivo che ricorda quello enunciato nella serie di incisioni (1945-46) che Pablo Picasso dedicò alla figura del toro, distillandone forme e fisionomia per arrivare a tracciarne un sistema di linee astratte, essenziali e lucide: una ‘struttura’ perfetta. Un metodo che per Sambonet non ha però come fine il solo ‘esperimento pittorico’, e che si esplicita anche nella pratica del ritratto, sia esso di persona o di un frutto, dove la figura è destrutturata con linee-guida nitide e precise, le stesse che ritroveremo poi nel progetto di design. I volti dipinti da Sambonet, gli oggetti, i frammenti di natura, sono come i suoi paesaggi, accomunati dallo sforzo per raggiungere e scoprire la struttura nascosta delle cose. Da questo punto di vista disegno e pittura, grafica e design, sono per Sambonet diverse

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modalità di interpretazione e di restituzione della stessa complessità, quella della natura che lo circonda. Manifestazioni compositive che partono dalla medesima sperimentazione, possedendo una loro autonomia artistica, ma che si riconducono poi ad un unico denso progetto, così come ha indicato tra gli altri la mostra a lui dedicata curata da Enrico Morteo per Torino World Design Capital nel 2008 (Roberto Sambonet, designer, grafico, artista, Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica, Torino, 8 aprile-6 luglio 2008, catalogo Officina Libraria Editore). È facile cadere nell’equivoco di collocare ‘Sambonet designer’ in un’improbabile corrente minimalista in nuce, se non si comprende l’opera completa di questo outsider del progetto italiano per cui ogni oggetto, più che pensato in funzione del prodotto, è parte del processo interpretativo della realtà. In questo senso gli oggetti di Sambonet, se osservati con attenzione, contengono storie, citazioni, culture, geometrie di riferimento scovate sotto la pelle delle cose. Superando l’approccio funzionalista, la posizione razionalista e lo spirito idealista tesi a rintracciare una proporzione aurea del mondo impiegabile quale base astratta per la produzione di nuove forme armoniche, Sambonet procede per tentativi, per avvicinamenti verso il senso fisico delle cose in un sapiente gioco combinatorio del progetto. Succede così che, nei suoi studi dedicati alle forme vegetali, Sambonet colga il particolare dell’innesto di una foglia sul gambo quale soluzione per un manico di posata; e che le chine che analizzano i riflessi sul mare si ‘traducano’ nei triangoli di acciaio modulari accostabili (‘triangoli appetizer’, 1966, Sambonet) o in alcuni portaceneri per Baccarat (1971). Una teoria sull’uso dello spazio e una ricerca della regola sono denunciati nelle pentole Center, minisistema che combina una padella per friggere con la bistecchiera impiegata anche come coperchio; nei bicchieri impilabili (Empillage, per Baccarat, 1971) e nella serie Center Line (1963-65, in produzione

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con il marchio Sambonet nel 1971), dove ad otto contenitori in acciaio inox, impilabili uno nell’altro come una matrioska, corrispondono tegami dello stesso diametro utilizzabili come coperchi o come vassoi da portata. I Crateri di ghiaia per la sponda del Ticino al ponte della Milano Torino, immortalati a china e carboncino nel 1969, sono forse lo spunto per una ricerca sul vuoto e il pieno tradotta nella famosa Bol à Caviar, nei bicchieri Tir Bar, nei vasi della serie Préhistoire (Baccarat, 1971 e 1977). Mentre lo studio di un’ostrica, come una sorta di object à réaction poétique di memoria lecorbusieriana, si traduce in un piccolo piattino di cristallo dalle geometrie frattali (Huitre, Baccarat 1987). Tutti prodotti in gran parte offerti in un packaging predisposto dallo stesso Sambonet e pensato non per nascondere, ma per mostrare, o piuttosto per ‘rivelare’ il valore del suo contenuto. In questo libero e sapiente gioco di rimandi, Sambonet sostituisce alla pratica della citazione quella della catalogazione di ‘materiali’ con cui costruire nuove realtà; così, nelle analogie strutturali adimensionali, il progettare una tavola per Ginori o Baccarat o lo studio per un set fotografico (Rst Set, 1974) equivale ad un progetto urbanistico per un quartiere. Era “fare architettura”, sosteneva. E a proposito della sua Pesciera, Compasso d’Oro 1970, esposta in musei di tutto il mondo, affermava: “la pesciera nasce dallo studio della natura, non come imitazione, ma come esempio, per andare oltre”.

In alto: bicchieri impilabili Empilage a sezione concentrica, Baccarat, 1971; Sistema di pentole Center line in acciao inossidabile, 1963-1965 (Sambonet 1971). Qui sopra: Tir Bar, bicchieri in cristallo a capacità differenziata, Baccarat, 1971; vasi in cristallo pieno Serie Préhistoire, Baccarat, 1975-77.

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Indesign MAGICO FRUTTO DI riflessioni E FORME, IN CUI specchiarsi ALL’OCCASIONE PER RICONOSCERSI, PER SCOPRIRE E curare IL PROPRIO aspetto, PER SCORGERE UN DETTAGLIO INATTESO PRIMA DI USCIRE DI CASA O PER ammirarsi DI SFUGGITA. Elemento decorativo insostituibile PER LA NOSTRA autostima E PER I FEDELI DELLE ARTI GEOMANTICHE.

GeomeTrie a sPeccHio foto di Efrem Raimondi / di Nadia Lionello

COLOMBINA, SPECCHIO A FORMA ORGANICA, GIREVOLE NELLA CORNICE IN VETRO COLORATO BIANCO, ROSSO O NERO, CM 80X72, DI DORIANA E MASSIMILIANO FUKSAS PER ALESSI. SPECCHIO DELLA COLLEZIONE MARIE ANTOINETTE POP, ISPIRATA AGLI INTERNI FRANCESI DEL ‘700, CON CORNICE E POMOLI IN MDF LACCATO BIANCO O IN NOCE NAZIONALE, CM 86X80, DI SAM BARON PER CASAMANIA. RADAR, CONTENITORE IN ROVERE FUMIGATO O LACCATO LUCIDO, IN TRE ALTEZZE E LARGHEZZE E DUE PROFONDITÀ, CON ELEMENTI A GIORNO LACCATI LUCIDI O OPACHI, COMBINATI IN QUATTRO DIVERSE COMPOSIZIONI, CON PASSACAVI PER IMPIANTO HI-FI, DI PIERO LISSONI PER CASSINA. GONDOLA DELL’AMORE, REALIZZATA DA LLADRÒ IN EDIZIONE LIMITATA DI 3000 PEZZI, IN PORCELLANA LAVORATA E DIPINTA A MANO.

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Grandi dimensioni per lo specchio con decoro serigrafato della collezione Sweet, diametro cm 150, di Paola Navone per Gervasoni. Brillante 03, della serie di specchi in cristallo sagomato con decorazioni incise, diametro cm 80, di Alessandro Mendini per Glas. Chef, specchio con struttura in alluminio naturale, verde o arancione, caratterizzato dal bordo ondulato. Ăˆ dotato anche di luce rgb che permette di creare un cerchio di luce nell’intercapedine tra specchio e struttura, diametro cm 80, di Marco Merenda per Rapsel. Twin, poltrona di Piero Lissoni per Living rivestita con tessuto di cotone stampato bettina della collezione 2010 di rubelli.

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Penthouse, specchio scultura con cornice in acciaio inox con interno colorato rosa, verde, azzurro e scala di grigi multicolore, cm 90x15, di Marta Giardini per OC Opinion Ciatti. Superficie riflettente frammentata da moduli componibili inclinati, su supporti in lamiera, per lo specchio Fittipaldi, cm 90x90, di Giovanni Tommaso Gattoni per Tonelli Design. Un’interpretazione in chiave moderna della classica bergÈre, la poltrona Dion è realizzata da MinotTi con struttura in legno massello, imbottitura in poliuretano e rivestimento in tessuto sfoderabile o fisso in pelle, con cuscino poggiareni imbottito in piuma d’oca. design Rodolfo Dordoni. specchio Circle, della collezione Gallery, con cornice trasparente o fumé, in vetro da 6 mm curvato e sagomato, cm 81x81, di Marco Acerbis per Fiam.

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MotherBoard, composto da lastre di vetro accoppiate con specchio interno decorato con incisione al laser, di Romolo Stanco per Edizioni Galleria Colombari. Sheesha, Set di specchi da 3, 5 o 7 elementi con pattern serigrafati ispirati alle cuciture tradizionali indiane, montati su supporti che permettono la libera movimentazione degli elementi. di Doshi_Levien per Moroso. Zeiss, specchio extralight molato e bisellato a mano con cornice in legno laccato bianco o ad effetto tessuto nei colori castagna, sabbia e canapa. Fa parte di una serie di tre specchi di differenti misure, cm 80x78, 104x92 e 156x151, di Luca Nichetto per Gallotti&Radice. Flowers, tavolini in tre differenti misure, forme e altezze, con struttura in metallo verniciato nero o cromato lucido e piano laccato opaco, di Roberto Lazzeroni per Lema. La primavera, candelabro della serie Le quattro stagioni, in porcellana biscuit. Ăˆ la riproduzione dell’ originale proveniente dall’archivio storico di Richard Ginori 1735.

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DEsIGn MeTamoRFIco di Nadia Lionello

Marmi e pietre RISCOPRONO NUOVI ASPETTI ATTRAVERSO PROCESSI E tecnologie di lavorazione, SEMPRE PIÙ ALL’AVANGUARDIA, E NUOVE IDEE PROGETTUALI. L’ORIGINARIA ROBUSTEZZA E COMPOSIZIONE DELLA MATERIA SI trasforma, NELLA SERIALITÀ DELLA PRODUZIONE, IN NUOVE E UNICHE suggestioni.

OCEANO, ELEMENTI MODULARI CM30X60 SOVRAPPONIBILI, PER RIVESTIMENTO DI PARETI INTERNE ED ESTERNE, REALIZZATI IN ARENARIA PIETRA DI SARNICO CON LAVORAZIONE A FRESA CNC E WATERJET. DESIGN DENIS SANTACHIARA PER GHIRARDI.

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SWELL, LAMPADA-SCULTURA A LED, IN MARMO BIANCO, O IN ALTRI MARMI E COLORAZIONI, COMPOSTA DA 12 CORONE ELLITTICHE CONCENTRICHE, LAVORATE CON TECNICA WATERJET, E DIFFUSORE ACRILICO. DISEGN SETSU & SHINOBU ITO PER LA COLLEZIONE BIANCO LUCE DI LUCE DI CARRARA. MICENE, COLLEZIONE DI LAMPADE CON STRUTTURA IN METALLO VERNICIATO, DIFFUSORE IN VETRO SOFFIATO, E SUPPORTO PER L’ INNESTO DI LAMELLE IN ALABASTRO BIANCO DA 3 MM, O ALTRE PIETRE. DESIGN LUCIDIPEVERE PER CA’BELLI.

EXTRUDED TABLE 3, TAVOLO IN MARMO STRIATO OLIMPICO ESTRUSO DISEGNATO DA MARC NEWSON E REALIZZATO IN EDIZIONE LIMITATA DI 10 ESEMPLARI DA FURRER. COURTESY OF GAGOSIAN GALLERY, FOTO DI GIORGIO BENNI.

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LP1, lampada in marmo calacatta oro, bianco Carrara o nero del Belgio, realizzata con lavorazione CNC E finitura lucida a mano. design Raffaello Galliotto per Serafini Marmi. Stump, tavolino in marmo bianco Carrara, cm 36x30xh45, tagliato in pasta, levigato e trattato antimacchia. design Pierre Charpin per Ligne Roset.

Cubo, marmetta in marmo bianco Carrara con decoro realizzato con fresa CNC, riproducibile su marmi diversi. design Raffello Galliotto per Lithos. Sunshare, seduta per esterni realizzata con tecnologia cutting-edge da Tor Art, in12 esemplari, da un blocco unico di marmo bianco Carrara, con finitura levigata a mano. design Emmanuel Babled.

Ponte, tavolo basso in marmo bianco Carrara cm150x50xh35, realizzato con lavorazione CNC, con finitura levigata opacA. dESIgn james Irvine per Marsotto Edizioni.

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Hole, modulo parete cm 210x115x spessore cm14, della linea Materia, realizzata con tecnica CNC, su spessori Di massello di marmo Calacatta con rifinitura realizzata a mano. design Corcione Tinucci per Anzilotti Marmi. Haussmann, tavolo tondo o ovale in marmo bianco Lasa, con base tornita e piano a reticolo traforato con Finitura opaca, e soprapiano in cristallo trasparente extrachiaro. design Franco Poli per Matteograssi.

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RUGIADA, LASTRE IN MARMO BIANCO CARRARA CM25X50 CON DECORO IN RILIEVO REALIZZATO CON TECNICA DI SABBIATURA IN BASSORILIEVO CON FINITURA SPAZZOLATA REALIZZATO DA Q-BO. VOLUME IN MARMO PAVONAZZETTO TRAFORATO E LEVIGATO A MANO, DELLA COLLEZIONE SOLIDI PLATONICI. DESIGN FRANCO POLI PER PALMALISA ZANTEDESCHI.

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Bronze Murales, composizione realizzata con lastre in ardesia nei formati da cm 3, 4.5 e 6x20 o 60, con finitura naturale, Prodotto da Artesia. Saturnia double sink, lavabo doppio sospeso in marmo grigio di tunisi, scavato con tecnologia cnc da unico blocco, con sistema di scarico a scomparsa, della collezione Saturnia. design Philippe Nigro PER PiBa Marmi. Caso, vaso in marmo bianco di Carrara Satuario e Bardiglio grigio nuvolato, lavorato al tornio, con finitura levigata fine. design Matali Crasset per Up Design. Infinito, lastre fresate in pietra Piombo o pietra d’Avola, crema d’Orcia, Avana o nei marmi bianco di Carrara, botticino o travertino, cm30x60, Alfredo Salvatori. Dry, lavabo a colonna in marmo Crema Marfil, lavorato a tornio e fresa, levigato e cerato, con bordo superiore innestato in marmo Ebano. design Enzo Berti per Decormarmi.

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Designing Clouds Dalla strana mescola di presenza e assenza, che costituisce la nuova materia del progetto, nascono oggetti dal segno indistinto. Come nuvole dense di informazione ma rarefatte nella forma, esprimono la sensibilità dell’epoca digitale e della partita, ancora tutta aperta, tra reale e virtuale. di Stefano Caggiano

Disegnata da Marc Sadler per Robots, La sedia Phalène è realizzata in tondino di acciaio di due diversi diametri: 10 mm per la struttura portante, 5 mm per le nervature piegate ed elettrosaldate su stampo. La sua struttura a intreccio si ispira alla eterea matericità delle ali delle farfalle.

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Sotto e a destra, La serie Growth di Elisabeth Gutierrez, composta di elementi d’arredo per esterno e interno realizzati in tubino d’acciaio curvato e saldato. L’ispirazione organica del segno, pur estremamente essenziale, è determinata dall’intento di “portare la natura dentro casa”, applicandone la trama estetica a mobili che possono essere usati tutti i giorni.

Sotto, la lampada Andrew di Dima Loginoff, la cui forma è ottenuta dalla sovrapposizione di anelli in plastica e acciaio intervallati dal vuoto. L’insieme evoca la presenza e allo stesso tempo l’assenza di una tradizionale lampada da tavola.

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li oggetti fanno anche questo: scompaiono. Mentre il progetto tradizionale consisteva nella messa in forma di una materia resa ‘dura’ dallo spessore del tempo e della cultura di cui era intrisa, il design di oggi lavora con una materialità scorrevole che non è mai possibile arginare del tutto e nella cui progettazione la permanenza è diventata un disvalore. La forma degli oggetti si fa essa stessa indistinta, e la materia

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assume la consistenza di una mescola di presenza e assenza perfettamente illustrata da un progetto come la lampada Andrew della ex hair stylist oggi apprezzata designer russa Dima Loginoff. Stessa sensazione aleggia nella seduta Phalène di Marc Sadler per Robots, che nella sua forma filamentosa accoglie l’estetica reticolare dell’era di internet, e nella panca Growth di Eli Gutierrez, la cui anima organica allestisce un equilibrio di delicate tensioni in tubino di metallo collocabili sia all’interno che all’esterno della casa. Ma l’oggetto che sfida con più forza iconoclasta la nebulosa fisicità delle cose è forse

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In alto, Il progetto Neverending di Luca Nichetto presentato da Andreoli. Consiste in un sottile nastro senza fine in Corian DuPont che si materializza in un sistema di sedute e tavolini e sistema espositivo modulare a parete divisoria. Il progetto deriva dallo sviluppo di un’idea presentata tre anni in occasione della mostra I Have a Dream, organizzata sempre da Andreoli. Sopra, Il progetto Odalisque di Pryor Callaway, un oggetto dalle forme brancusiane realizzato stampando una resina bianca additivata con polvere di marmo che rende la pelle dell’oggetto più ‘tattile’ e simile a quella di una vera scultura.

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Springtime dell’eindhoveniano Frank Winnubst, il quale ha fatto finta di prendere sul serio l’idea che la forma segua dalla funzione mettendo a nudo le interiora a molla di una poltrona per farne linguaggio estetico e percezione virtuosa. In generale, stiamo assistendo a una crescita di interesse del design per le forme ‘fumose’, non esattamente definibili, che ci dicono del tentativo a cui i progettisti si sentono chiamati di contenere/ liberare la strana materia di cui è fatto l’inizio del XXI secolo. La nostra è infatti l’epoca del cloud computing, il computer che diventa nuvola, cioè dei dispositivi info-elettronici che non sono più semplici ‘contenitori’ di informazioni ma punti di accesso alla rete, anzi alla ‘nuvola’ di informazioni e applicazioni distribuite in remoto che l’utente non ha più bisogno di possedere e utilizza a seconda delle necessità. È con questa tattilità

evanescente che è chiamato a confrontarsi il progetto del sensibile (il design); è a questo ‘gas’ di bit che si aggregano a formare immagini e funzioni per il tempo necessario a un utilizzo che ci stanno preparando i sempre più numerosi oggetti dalla consistenza aeriforme. Anche il progetto Neverending Evolution di Luca Nichetto, un sistema senza fine di sedute, tavolini e divisori – la prima idea risale a tre anni fa con il laboratorio brianzolo Andreoli, che invitò vari designer a sfruttare il composito DuPont Corian fino ai limiti del possibile – dà spazio alla nuova poesia che sgorga della sparizione in atto della realtà. Ma disegnare il vuoto può anche voler dire disegnare senza segno. La seduta in fibra di vetro C-Lounge, ancora della Loginoff che questa volta si ispira alla calla, e la panca in resina

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Qui sotto, La collezione di sedute a forma di nuvola Cloud disegnata da Jason Phillips, composta da sfere che si intersecano in vario modo. Realizzate in fibra di vetro con la tecnica dello stampaggio, sono adatte sia per interni che per esterni e disponibili in vari colori.

In basso, Il progetto Springtime di Frank Winnubs, una seduta cubica interamente composta da molle, di cui solo quelle dello strato più alto sono state ricoperte di maglia.

Al centro, Il concept C-lounge di Dima Loginoff, Ispirato alla calla. Pensata in Corian o fibra di vetro, la seduta si sviluppa in forme pure e ideali, eppure seducenti come il bozzolo di un fiore.

Odalisque di Pryor Callaway (giovane designer del Mississipi con base a New York), individuano un compromesso tra la forma che le cose non possono non avere e la massa leggera della materia liberata dal segno, che tende a gonfiarsi come una nuvola e ad emanare da sé la propria foggia. Una cifra estetica avvertita da un altro designer di stanza a New York, Jason Phillips, il quale, non a caso, ha battezzato appunto Cloud Seating il suo progetto di sedute in fibra di vetro esplicitamente ispirate agli ammassi di nubi cumuliformi. Perché forse è vero che i progettisti, che un tempo costruivano la realtà, oggi la stanno accompagnando verso la sparizione. Ma il design sembra dirci che questo processo non coincide (come gli esteti apocalittici hanno troppo frettolosamente sentenziato) con la sostituzione di pezzi di reale con pezzi di virtuale, ma piuttosto

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con una schizofrenica alternanza di addensamenti e rarefazioni da cui stilla un’energia protoprogettuale che non ha fini da raggiungere ma ottuse rigidità da lasciarsi alle spalle, come la fantasia di bambini che impastano le nuvole generando ‘design’ magnifico e provvisorio: “AMLETO: Vedete laggiù quella nuvola che sembra un cammello? POLONIO: Sacripante! È un cammello davvero! AMLETO: O forse somiglia a una donnola. POLONIO: Infatti, ha la forma di donnola. AMLETO: Non pare una balena? POLONIO: Tale e quale, una balena.” (Shakespeare, Amleto, atto III, scena II)

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testo di Odoardo Fioravanti foto di Miro Zagnoli

CamBIo CamPo Calcio, calcetto, tennis, basket e atletica. Sono questi gli scenari proposti da Marco Ferreri con Sports, una linea di tappeti realizzati da Regenesi con la gomma normalmente utilizzata per rivestire i campi sportivi. Un gioco di paradosso che stravolge l’uso di un materiale e porta dentro casa l’immaginario outdoor.

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C’

è chi sostiene che ci vuole coraggio per fare il mestiere di designer e fronteggiare il futuro, occuparsi di quello che ancora non c’è e che ci dovrebbe – forse – essere. Il designer si trova ad avere un ruolo assertivo con cui attesta la sua posizione al confine tra il noto e l’ignoto, con l’ostentata sicurezza di chi è intimamente insicuro. Ogni volta che fa nascere un nuovo oggetto riafferma la realtà, ribadisce la tridimensionalità delle cose. Questa riflessione affiora alla mente guardando il nuovo lavoro del maestro italiano Marco Ferreri per Regenesi, azienda fondata nel 2008 da Maria Silvia Pazzi con una vocazione ecologica e una specializzazione nell’utilizzo di materie riciclabili e riciclate postconsumo. Si tratta di Sports, una serie di tappeti realizzati con la gomma normalmente utilizzata per pavimentare i campi da gioco sintetici. Sì, quelli su cui a tutti è capitato di scivolare durante le lezioni di educazione fisica, con la conseguenza di un’ustione da sfregamento… L’idea di Ferreri è lampante: riportare su questi tappeti proprio le cromie e le strisce tipiche di quei campi, effettuando delle inquadrature così strette da rendere il collegamento meno ovvio, ma parimenti efficace. Le strisce, che sui campi rappresentano i confini dello spazio di gioco e delle aree che rimandano ai regolamenti, in casa perdono il loro senso di delimitazione e partecipano a un gioco molto più sregolato. Così potremmo incontrare nel bel mezzo di un salotto qualche metro quadro di Coppa Davis, un pezzettino di Stadio Meazza. Ferreri campiona la realtà, un po’ come faceva

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Joseph Cornell: ne raccoglie pezzetti che trasporta fuori luogo, dimostrando la potenza evocativa di un colore, di un segno. Il progetto, già bello, incontra poi l’obiettivo di Miro Zagnoli che completa il circolo virtuoso di questi prodotti, raccontandoli con scatti zenitali in cui, sospesi sopra ai tappeti, si vedono proprio gli ‘attrezzi’ tipici di quei giochi. Una racchetta galleggia a mezz’aria su quello da tennis, il pallone a spicchi sorvola la lunetta del basket, il pallone del calcio si staglia su un prato sintetico. Si manifesta l’intento dadaista di ritagliare pezzi di realtà materiale, incorniciarli, cambiargli funzione spostandoli di luogo e tempo, per poi fotografarli di nuovo, raccontarli di nuovo. Questo fa pensare alle storie popolari che si tramandano di generazione in generazione. Vengono ripetute e di volta in volta si rafforzano, diventando, se possibile, ancora più vere.

disegnati da Marco Ferreri, I tappeti Sports sono realizzati da Regenesi in Sportflex, una speciale mescola prodotta da Mondo utilizzando gomma riciclata proveniente da eccedenze interne di produzioni precedenti. I tappeti sono disponibili in cinque varianti, ciascuna dedicata a uno specifico sport, nelle dimensioni 240x180 cm e nello spessore 4,5 mm.

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Libere asimmetrie di Maddalena Padovani

La nuova era dei sistemi componibili a parete. Tre librerie, tre aziende, tre diversi principi progettuali, ma un forte e innovativo elemento in comune: i divisori variamente posizionabili sui piani. Il risultato: strutture sempre pi첫 aeree, grafiche e versatili che si piegano alle pi첫 diverse esigenze e disegnano geometrie personalizzabili a piacere.

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Inori prodotto da Fiam Italia su progetto di Setsu e Shinobu Ito, Inori è un sistema di elementi modulabili in vetro. La struttura per basi d’appoggio è disponibile in tre lunghezze (120, 180 e 240 cm) con profondità 35 cm, nelle finiture vetro extralight retroverniciato bianco e fumé retroverniciato nero e argentato. I ripiani sono realizzati in quattro misure: 60, 90, 120 e 180 cm, profondità 35 cm. Disponibili in due altezze diverse (32 o 42 cm), i montanti sono liberamente posizionabili tramite sistema di ancoraggio e scorrimento a binario applicato su ogni singolo ripiano. Le composizioni possono raggiungere un’altezza massima di 130 cm, nelle strutture autoportanti, e di 180 cm nelle strutture con ancoraggio a muro.

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Quando si parla di vetro viene spontaneo pensare a oggetti d’arredo dalla forma scultorea e monolitica. Con Inori, la novità di prodotto presentata da Fiam Italia all’inizio di quest’anno, questo materiale viene tradotto – per la prima volta nella storia dell’azienda pesarese – in un sistema libreria componibile, fatto di elementi assemblabili liberamente secondo le richieste funzionali ed estetiche dell’utilizzatore finale. Il sistema porta la firma di Setsu e Shinobu Ito, alla loro terza esperienza di prodotto per lo storico marchio del vetro. In questo progetto, i due designer giapponesi arrivano a esprimere con compiutezza tutti i tratti distintivi della loro caratteristica mediazione culturale tra simbolismo orientale e pragmatismo occidentale. Dal primo tipo di approccio deriva il nome stesso della libreria, Inori, che in giapponese significa pregare: un’azione

rappresentata dalla forma ad ala del montante, che richiama la posizione congiunta delle mani solitamente assunta dagli orientali per sottolineare l’atto del ricevere, donare e ringraziare. Oltre a essere l’elemento simbolo del progetto Inori, il montante ad ala definisce di fatto anche l’innovativo principio strutturale del sistema componibile. La sua scultorea trasparenza cela infatti un profilo in alluminio, posto alla sua estremità, che ne permette il fissaggio e il libero scorrimento sul binario inserito nei ripiani in vetro. Potendo intervenire su più variabili compositive – la posizione di ciascun montante, la distanza tra i montanti, il numero e la dimensione dei ripiani – l’utilizzatore finale risulta così in grado di scegliere la configurazione più adeguata alle sue esigenze: una libreria, ma anche un espositore, un contenitore o un portatv, in soluzioni con sviluppo a parete oppure autoportanti. “Alla base dei nostri progetti”, spiega Setsu Ito, “c’è sempre stata la ricerca dell’interazione tra utente e soggetto e tra utente e ambiente. Si parla spesso di flessibilità e componibilità, ma non sempre questi principi sono guidati da un precisa idea formale che dia un senso compiuto alla libera interpretazione da parte dei fruitori. Il sistema Inori, invece, si basa su un elemento che, pur essendo molto semplice, è anche fortemente identificato sul piano segnico. La piega del montante in vetro attribuisce una forte personalizzazione alla libreria e nello stesso tempo risulta funzionale in termini di resistenza e stabilità. Per noi la forma di un oggetto non deriva mai da un segno univoco, quanto dalla relazione che si instaura volta per volta, e in modo diverso da situazione a situazione, tra i vari elementi che concorrono a definirla, nonché tra questi elementi e l’ambiente circostante. Non ci interessa progettare oggetti con un mero valore estetico e funzionale, ma l’atto che si svolge attorno a questi oggetti”.

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Sequence

Non è un segreto che Patricia Urquiola preferisca disegnare singoli oggetti d’arredo piuttosto che mobili di concezione sistemica. Lo dimostra il fatto che non compaia alcuna cucina nel ricchissimo portfolio di progetti di design sviluppati in questi ultimi anni. Eppure, porta proprio la sua firma la nuova libreria componibile Sequence con cui Molteni & C. rinnova le sue proposte di prodotto per la zona giorno. Che si tratti però di qualcosa di nuovo e di diverso rispetto ai tradizionali sistemi parete di razionalistica concezione appare già a prima vista, grazie a due fondamentali dettagli che attribuiscono a questa libreria un senso di estrema leggerezza: l’assenza di spalle laterali e la libera disposizione – simmetrica o asimmetrica – dei divisori. Il progetto sfrutta il know how tecnologico e le soluzioni già sviluppate dall’azienda di Giussano per attrezzare le cabine armadio con pareti autoportanti. Alla designer spagnola è spettato il compito di tradurre queste soluzioni in un prodotto in grado di entrare con grazia e discrezione nella zona living, disegnando aeree geometrie a parete liberamente personalizzabili che all’occorrenza supportano elementi di chiusura e di contenimento. L’innovativo principio strutturale di Sequence, che lo differenzia rispetto ai sistemi a schema fisso, riguarda la libertà di posizionamento delle spalle divisorie di 8 millimetri di spessore, molto più sottili rispetto a quelle comunemente impiegate in questo genere di prodotto. Piani e schienali sono privi di forature; il fissaggio della struttura avviene nella parte posteriore del mobile eliminando tutta la ferramenta a vista. In questo modo, ogni singolo

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vano può essere diviso e ‘disegnato’ secondo le specifiche richieste dell’utilizzatore finale, ma con un tratto leggero che, pur attribuendo una riconoscibile presenza grafica alla parete, minimizza l’importanza strutturale dell’insieme. L’assenza di fianchi enfatizza il senso di leggerezza delle composizioni, da cui emerge solamente il tratto orizzontale di un elemento a trave di forte spessore. Oltre a dividere visivamente lo spazio della libreria, questo elemento permette l’inserimento e lo scorrimento di ante in materiali diversi come il vetro serigrafato o l’acciaio traforato, che con i loro motivi geometrici e le loro texture diventano superfici di vivacizzazione decorativa della struttura aerea. Allo stesso modo, anche i divisori possono essere scelti nella versione in laminato traforato al cui interno può essere eventualmente installata una lampada a led; scenografici nella loro presenza luminosa, ma rigorosi nel loro aspetto high-tech, diventano elementi di forte caratterizzazione di un prodotto che interpreta con grazia e contemporaneità il concetto del sistema.

Disegnata da Patricia Urquiola e prodotta da Molteni & C, Sequence è una libreria componibile caratterizzata dall’assenza di spalle laterali. Presenta un elemento a trave di forte spessore su cui possono scorrere ante in materiali diversi come acciaio traforato in diverse finiture, legno, superfici laccate in originali colori oppure vetro serigrafato con motivi geometrici. I piani strutturali e i divisori sono rivestiti in alluminio verniciato che danno solidità a tutta la libreria, anche in caso di presenza di moduli di grande ampiezza.

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Tok La libreria modulare Tok, realizzata da Cerruti Baleri su progetto di Benedetto Quaquaro, è composta da un elemento montante in estruso di alluminio verniciato bianco, piani in legno laccato bianco (lunghezza 100, 150, 200, 250 e 300 cm, profondità 36 cm), basi in acciaio verniciato nero con piedini regolabili. Il montaggio del sistema avviene attraverso il posizionamento del montante, collegato ai piani attraverso la ferramenta di fissaggio che lo accompagna, grazie a una semplice chiave a brugola. L’interasse massimo tra due elementi è di 200 cm, mentre lo sbalzo massimo alle estremità del piano è di 50 cm.

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Prodotta da Cerruti Baleri, la libreria modulare Tok segna il debutto di Benedetto Quaquaro come designer solista (per lo stesso marchio aveva disegnato l’anno passato il tavolo-scaletta Scalo, firmato però con il nome Beoc). Non si tratta però di un esordio professionale. Il progettista ligure ha infatti alle spalle un’esperienza ventennale nel campo del design industriale e a dimostrarlo è la concezione tecnica di questo sistema, apparentemente semplice, quasi elementare, che di fatto crea un elemento di rottura e differenziazione in una collezione di pezzi singoli fortemente identificati sul piano segnico. Tok si basa infatti su un solo montante in estruso di alluminio, un profilo a T che combinato con piani in legno di sole cinque lunghezze permette di creare composizioni semplici e articolate, simmetriche e asimmetriche. L’elemento montante è anche la firma estetica della libreria modulare: la sua essenzialità diventa un segno grafico liberamente componibile a parete, la cui presenza tende a scomparire una volta riempiti gli scaffali di libri e oggetti. “L’idea”, spiega Benedetto Quaquaro, “era quella di realizzare un prodotto ‘on demand’, ovvero un prodotto di servizio che oltre

a essere facilmente utilizzabile dal consumatore finale rispondesse anche a logiche razionali di produzione, stoccaggio e spedizione, tali da permettere all’azienda un’elevata velocità di risposta alle richieste dei clienti”. Caratteristica principale del sistema è infatti quella di essere costituito da un numero ridottissimo di parti che rende gli elementi portanti indipendenti l’uno dall’altro. Questo significa che Tok si costruisce per moduli, senza spalle portanti o tiranti a tutta altezza: ogni modulo risulta infatti autoportante e bifacciale. Il montaggio avviene mediante il posizionamento e il fissaggio dei montanti ai ripiani: basta la ferramenta e la chiave a brugola fornite in kit, e chiunque può montare, smontare e riconfigurare la composizione più adeguata alle proprie necessità. Grazie alla sua flessibilità, il sistema modulare permette la creazione di svariate tipologie di prodotto: da piccoli elementi a colonna a grandi superfici di contenimento a parete, per arrivare a configurazioni a panca e partizioni a centro stanza. Sono inoltre allo studio nuovi elementi integrativi, nuovi materiali e nuove finiture che amplieranno ulteriormente le applicazioni di Tok.

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uniti sotto il nome di Freshwest, i gallesi Marcus Beck e Simon Macro esprimono nei loro progetti un design del cortocircuito e dell’ossimoro, proponendo oggetti capaci di nutrire i sentimenti contraddittori che abitano le persone.

GLI oGGeTTI aL conTrarIo di Stefano Caggiano

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2.

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ggi facciamo design per lo stesso motivo per cui gli artisti fanno arte: non per rendere ‘belle’ le cose ma perché in una società post-industriale e post-ideologica, priva di metanarrazioni e ricca di performatività tecnologiche, il senso delle cose non vive all’attuale ma al potenziale. Licenziare oggetti come segni guizzanti felicemente contraddittori è il gioco, serissimo, di Marcus Beck e Simon Macro. Dal 2005 i due designer lavorano assieme sotto il nome di Freshwest, studio con sede a Pembrokeshire, nel Galles, che fin dal nome esprime l’ossimoro in cui si trova sospeso chi tenta di portare nel secolo della smaterializzazione il vecchio, pesante, profondo Occidente, alveo di una civiltà che ha sempre negato e allo stesso tempo esaltato la materia, l’arte, la forma.

La lampada in legno Brave New World dice già tutto questo: precisamente in bilico tra serio e faceto, l’oggetto si sviluppa nell’aria “senza un piano o un progetto”, per inserirsi con forza icastica nella collezione Moooi, sempre impeccabile nel perpetrare gli spiazzamenti linguistici di cui vive. La stessa logica del meccano in legno è applicata anche alla tipologia tavolo, in una palafitta estetica tesa tra il passato organico della terra (il legno degli alberi) e le precisioni collimanti delle costruzioni meccaniche – ma assemblate in modo casuale, quasi fossero rami snodati di un albero post-naturale, o di un’impalcatura pre-tecnologica che sale maestosa verso il cielo. Dalla prospettiva aerea il ritorno a terra si mantiene a distanza, con il tavolino You Are Here, in cui il volto del territorio diventa ragnatela grafica apparecchiata sulla trasparenza del piano.

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1. Marcus Beck e Simon Macro, fondatori dello studio Freshwest, con sede a Pembrokeshire, nel Galles. 2.7. La lampada regolabile e il tavolo Brave New World, realizzati con elementi in massello di rovere montati assieme senza un preciso disegno iniziale, seguendo solo la necessità strutturale di contenere la dimensione dei componenti di legno. La lampada è distribuita da Moooi. 3. composto da 3500 elementi in acciaio inox placcati in oro, Il vaso Scaffold deriva la sua forma da un vaso cinese del XIX secolo. L’acqua è contenuta in una piccola vasca trasparente posta alla base della struttura.

3.

4.

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4. ContemPlates, set di otto piatti in bone china ognuno con una immagine diversa, selezionate tra oltre 200 scatti di persone anonime a passeggio. 6.

5. Vincitore del Elle Decoration Design Award 2007, l’armadio in alluminio composito InsideOut gioca sull’idea di decorazione rovesciando l’esterno con l’interno e usando quest’ultimo come tema decorativo per la superficie dell’oggetto. 6. For Two Hours Only, questo il nome del vassoio da frutta in vetroresina ricavato dal calco (lasciato a risposo per due ore) di un’area di 30x30 cm di spiaggia.

Come grafico è il progetto Inside-Out (premio Elle Decoration 2007), mobile in alluminio industriale i cui segni interiori (mensole e oggetti riposti) diventano decorazione per la pelle esteriore, vera e propria radiografia del design che si diverte a cortocircuitare l’interno con l’esterno. Cortocircuito è del resto una parola chiave per capire i Freshwest, che una volta individuata la rotta proseguono fino al bellissimo Scaffold, un vuoto strutturato composto da 3500 segmenti di tubino placcati in oro idealmente appoggiati al sembiante di un vaso cinese dell’Ottocento, che nell’interpretazione di Beck e Macro esprime una sofisticata fenomenologia dell’essere e dell’apparire che si sottrae come presenza per manifestarsi come assenza. Il gioco, quindi, è quello degli opposti, e della tensione fra i contrari che diventa energia e significato per il progetto, che quando occorre non

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disdegna ‘fotocopiare’ la terra stessa ottenendo un calco dalle dune di una spiaggia per far nascere il vassoio da frutta in vetroresina For Two Hours Only, su cui sono indicati data, ora e luogo da cui è stato tratto il calco. Anche il set di piatti Contemplates porta impresse data e ora degli eventi reali, sempre diversi, trasformati in decorazione grafica. Così, di progetto in progetto, i Freshwest disseminano il mondo di oggetti che potrebbero benissimo essere il loro contrario, perché il design di frontiera non punta a essere gratificante ma nutriente, ponendo l’accento non in ciò che risolve ma nei dubbi che apre. Per infiammare le contraddizioni che tengono accese le persone.

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DesTinaTi a DissoLversi OGGI CI SONO, DOMANI CHISSÀ. ACCANTO ALL’ATTENZIONE PER IL RICICLO, CRESCE L’INTERESSE PER I materiali organici E biodegradabili. I PRO E I CONTRO DI UN DESIGN CHE NON LASCIA TRACCIA.

di Laura Traldi

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pensarci viene quasi paura. Ci vogliono mille anni perché la plastica sintetica, cioè quella derivata dal petrolio, si decomponga. Quando viene incenerita, se contiene cloro sprigiona un gas tossico, la diossina. Vi sono, certo, plastiche facilmente riciclabili, come il PET. Ma altre per le quali il processo di rilavorazione è più costoso di quello della produzione del materiale ex novo. E poi ci sono i numeri. Cento miliardi di chili di plastica prodotti nel mondo ogni anno; due miliardi di sacchetti di plastica utilizzati e immediatamente gettati ogni mese solo in Italia (per smaltirli si producono duecentomila tonnellate di anidride carbonica); sedici milioni di tonnellate di packaging alimentare. E via dicendo.

1.

Che esista un’alternativa alla plastica, lo sanno tutti. Si chiama bioplastica ed è un derivato da materie prime vegetali quali farina o amido di mais, grano o altri cereali. Nasce, si usa, si getta e in qualche mese scompare trasformandosi in concime fertilizzante. Ad oggi, però, come riporta uno studio della CNN, solo lo 0,25 per cento della plastica utilizzata nel mondo è biologica. Uno scenario che non si giustifica a detta di una ricerca dell’Università di Utrecht che dimostra come il 90 per cento dei materiali polimerici potrebbe – tecnicamente parlando – essere sostituito dalla bioplastica. La ricerca nel settore 2. del design sull’utilizzo di materiali biodegradabili ha stentato a partire. Mentre già nel 1940 Henry

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1. La resina con sali tibetani (che hanno effetti benefici di depurazione dell’aria e neutralizzazione di ioni negativi) che Teknai ha presentato all’ultima edizione del MADE. 2. La serie Aperitivo Bio di Pandora Design, un set comprendente bicchieri di Matteo Ragni, piattini tapas di Daniel Fintzi e quattro Moscardini di Giulio Iacchetti e Matteo RagnI. Sono realizzati in un nuovo materiale biodegradabile a finitura glossy. 3. Gaia, urna cineraria biodegradabile riempita di torba e sementi. Una volta interrata si decompone, lasciando le ceneri del defunto a contatto con la torba, trasformandole in sostanze vitali per la crescita della pianta. Progetto di Veronika Gantioler della Facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. 4. Telefono in bamboo di Gert-Jan van Breugel: disassemblabile, biodegradabile e attivabile con batteria che si carica con il movimento.

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5. Per i loro occhiali ispirati alla beat generation, i giovani creativi del nuovo marchio di ottica JPlus hanno optato per una custodia in Mater-Bi. 6. Ecopod, la bara realizzata a mano utilizzando carta di giornale riciclata e polpa di more dall’azienda inglese Arka. 7. È di Ryohei Yoshiyuki la Cup of Coffee, un piccolo contenitore realizzato con fondi di caffè e polveri naturali, utilizzando una tazzina come stampo e cotto al forno. 6.

Ford sferzava colpi d’ascia contro una portiera d’auto realizzata con un materiale a base di soia per dimostrarne la solidità, è stato necessario arrivare al 2000 per vedere il primo prodottoicona biodegradabile effettivamente ‘progettato’: il Moscardino di Giulio Iacchetti e Matteo Ragni per Pandora. Oggi, però, a dieci anni di distanza, il biodegradabile sembra andare alla grande. Allo scorso FuoriSalone, la svedese Södra ha presentato la sedia per bambini Parupu progettata da Claesson Koivisto Rune in DuraPulp, una miscela di polpa di cellulosa e PLA, una plastica organica; mentre all’ultima edizione del MADE, Teknai ha proposto un rivestimento da parete in resina e sali biodegradabili. Per la sua nuova collezione di occhiali, la JPlus, azienda padovana dell’ottica fondata da un gruppo di designer e grafici, ha optato per una custodia in MaterBi; allo stesso modo, Moroni Gomma ha annunciato la distribuzione dei prodotti Wasabi, accessori da tavola di Shinishiro Ogata realizzati in fibra

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1. Il lampadario Cloud Walk di Yu Jordy, in carta riciclata.

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di giunco, bamboo e residui della lavorazione della canna da zucchero. Gettonatissimo anche il cartone, con gli arredi di Philippe Nigro per Skitsch e Studio Job per Moooi, e la carta, con il divano Cloud di Tokujin Yoshioka per Moroso. Dalle idee più bizzarre, come il contenitore in fondi di caffè del giapponese Ryohei Yoshiyuki o la decorazione da soffitto in zucchero di Mariee van der Bruggen fino a quelle più utili, come la bara biodegradabile dell’azienda inglese Arka, passando per le vision tecnologiche come quella di Gert Jan van Breugel con il suo cellulare in bamboo, la biodegradabilità del prodotto è oggi un tema caro ai designer. Ma a quanto serve tutto questo in termini di salvaguardia ambientale? “È normale che i designer vengano attratti dall’idea di lavorare a progetti che hanno un occhio di riguardo sull’ambiente”, dice Giulio Iacchetti. “Alla passione per il design eticamente motivato non deve però corrispondere un’intransigenza progettuale. Il

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biodegradabile ha senso soprattutto se utilizzato ai fini della produzione di oggetti destinati ad un consumo breve. Certo De Fusco aveva ragione quando diceva che tutti gli oggetti che produciamo sono usa-e-getta e che quello che cambia è la quantità di tempo in cui li utilizziamo. E per questo oggi la possibilità di disassemblare e riciclare i singoli elementi di un prodotto è quasi una costante del progettare. Ma francamente che un mobile da salotto sia biodegradabile in toto interessa a qualcuno? Io credo di no”. Ad ogni progetto, la soluzione ecologica più giusta, quindi. Per questo, quando Martini ha chiesto a Iacchetti di pensare ad una nuova scopa per la grande distribuzione, il designer ha deciso di realizzarla con un misto di plastica tradizionale e segatura. “La biodegradabilità dell’oggetto in questo caso era, secondo me, meno rilevante rispetto alla possibilità di inquinare meno nel processo produttivo, data la durata di vita del prodotto, e questa scelta ci ha permesso di utilizzare una quantità decisamente

2. Un pezzo storico ma sempre attuale nel panorama della ricerca sull’utilizzo della carta e del cartone negli arredi: Cartoons di Luigi Baroli per Cerruti Baleri (Compasso d’Oro 1994). 3. La sedia lounge e il mobile contenitore LagunaBook in cartone decorato, dello studio belga Purpl’In. 4. Il divano in carta Paper Cloud di Tokujin Yoshioka per Moroso, presentato allo scorso Salone del Mobile. 5. Un particolare delle ceste in cartapesta prodotte da Villa Collection con l’impiego di quotidiani cinesi.

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1. La collezione Pulp di Jo Meesters, nata da un progetto di ricerca sulle possibilità di riutilizzo della carta riciclata. Il designer ha ricoperto in cartapesta mescolata a vari collanti (come la resina epossidica) ciotole, vasi e caraffe recuperate in discarica (Foto di Lisa Knappe e Jo Meesters).

2. La scopa P’Ulivo, di Giulio Iacchetti per Martini, in segatura e plastica.

inferiore di plastica”, dice. In altri casi, invece, come per il cucchiaino da gelato disegnato per Grom (che sarà presentato a breve), l’uso di un materiale biodegradabile è una conditio sine qua non: per essere in linea con la filosofia dell’azienda, che produce solo con ingredienti biologici e per la destinazione usa-e-getta dell’oggetto. “Non sono scelte da farsi superficialmente”, spiega Iacchetti. “La bioplastica non è un semplice sostituto tout court della plastica tradizionale e 2. presenta sfide notevoli dal punto di vista progettuale e tecnico. Risente molto dell’umidità, ad esempio, e per renderla più resistente sarebbe necessario aumentare gli spessori. Che però vanno contenuti per evitare un’impennata del prezzo”. Nel caso del cucchiaino Grom, il ‘giusto mezzo’ è stato ottenuto con una sezione a C e ad H della struttura

“per garantire la necessaria solidità e il minimo impiego di materiale”, spiega Iacchetti. “Per quanto negativo possa essere sull’ambiente un oggetto prodotto in milioni di unità e destinato ad essere gettato, ad oggi è ancora chiaramente più semplice e meno costoso per un’azienda utilizzare i derivati dal petrolio piuttosto che la bioplastica”. Chi decide di non farlo, insomma, deve essere mosso da motivazioni che vanno al di là del facile guadagno. “Le cose certo cambierebbero se i consumatori esigessero il biodegradabile laddove ha davvero un senso proporlo: nei prodotti usa-egetta”, dice Iacchetti. “O se ci fosse una coralità di aziende della grande distribuzione che decide di prendere una posizione chiara in questo senso, optando in toto per la bioplastica, per esempio per tutti i prodotti monouso per la tavola o per le sportine.”

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Concorda Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont che produce il Mater-Bi, la prima bioplastica italiana: “Le materie prime rinnovabili, in quanto prodotti, non sono, come si tende a far credere, la soluzione a tutti i problemi dell’inquinamento e alla ridotta disponibilità di petrolio”, dice. “Occorre vedere oltre il prodotto e capire i confini del sistema in cui il materiale viene generato, utilizzato, smaltito. Quello che deve cambiare quindi è la mentalità collettiva: si tratta di favorire la transizione da un’economia di prodotto ad una economia di sistema, un salto culturale verso una sostenibilità economica ed ambientale che deve interessare l’intera società e partire dalla valorizzazione del territorio e dalla collaborazione dei diversi interlocutori”. È proprio in vista di un cambiamento di rotta da parte dei consumatori, quindi, che può essere letto il contributo dei tanti progetti di design che oggi si gettano sul biodegradabile:

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Destinati a dissolversi / 93

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3. Il Paperpulp cabinet di Debbie Wijskamp, una credenza realizzata completamente in cartapesta e collanti a base d’acqua.

rinnovandone l’estetica, di fatto, ne migliorano l’immagine agli occhi del pubblico. “Quello che mi attrae nella cartapesta non è la biodegradabilità ma le possibilità che offre a livello di lavorazione e finiture”, dice Debbie Wijskamp, che lo scorso settembre ha presentato alla London Design Week una collezione di arredi e arts de la table in papier mâché. “Quello che cercavo era un nuovo tipo di estetica, fatta di piccole imperfezioni che solo i materiali organici possono dare”. E se il look bio piace, l’ambiente ne ha certo solo da guadagnarci. Se ne sono accorti i creatori di Evostone, una piattaforma culturale e commerciale nata lo scorso dicembre e presentata per la prima volta al MADE per promuovere i materiali organici nel design e nell’architettura. La sua mission: far avvicinare aziende e progettisti ai materiali più ecologici e innovativi provenienti da tutto il mondo, coniugando performance ed estetica e operando anche attraverso una presenza nelle università

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4. La seggiolina Parapu di Claesson Koivisto Rune per Södra, in polpa di cellulosa e plastica organica PLA (Foto di Giacomo Giannini).

e i centri di ricerca. All’avanguardia nella ricerca sui materiali (il MaterBi della Novamont di Novara è tra le bioplastiche più usate a livello internazionale), nel riciclaggio (in Europa gli italiani sono secondi solo alla Germania) e nell’attenzione al sostenibile (siamo tra i primi produttori e consumatori di cibo ‘bio’ al mondo), il nostro Paese è ben posizionato per accogliere la sfida per un futuro più green. Che parte da una rivoluzione culturale: “Il miglior modo di contribuire alla salvaguardia dell’ambiente è convincere la gente ad acquistare bene”, conclude Iacchetti: “prodotti biodegradabili per quanto riguarda l’usa-egetta e, per i beni durevoli, prodotti di qualità: sviluppati con il cervello, realizzati secondo processi ecologici con materiali riciclabili, che ci toccano emozionalmente e dai quali non vorremmo mai separarci.”

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Rubinetti come lame. Lavabi ridotti a sottili fogli ceramici. Piatti doccia a filo pavimento. vasche come esili origami. L’ambiente bagno di tendenza è sempre piĂš lineare ed essenziale, nasconde le tecnologie, esalta il valore della silhouette.

IL BaGno SoTTILe di Katrin Cosseta

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1. Hansalatrava, di bruno sacco e reinhard zetsche per hansa, collezione hansaedition, rubinetto con flusso laminare diagonale. La regolazione dell’acqua avviene tramite un quadro integrato nella base che visualizza la temperatura impostata per mezzo di diodi luminosi. 2. mr splash, di jorge bibiloni e francesca imperiali per Antonio lupi, lavabo freestanding in cristalplant. 3. paper, di giovanna talocci per teuco, vasca da bagno in duralight in versione freestanding; i pannelli di rivestimento si ‘sfogliano’ per creare piccoli ripiani e asole portasciugamani. disponibile con massaggio Blower, Cromoexperience e, su richiesta, con idromassaggio silenzioso Hydrosilence.

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1. abisko, di johan kauppi/we think per eumar, lavabo scultura realizzato in composto di resine polimeriche e polvere di marmo. 2. wave, di meneghello paolelli associati per art ceram, sistema che compone in un’unica fascia sinuosa lavabo, contenitore e specchio; realizzato in korakril. 3. dalla collezione di sanitari freedom di ross lovegrove per vitra, rubinetteria elettronica interattiva e water saving, con tre programmi personalizzabili di gestione dell’acqua. 4. leggera, di gilda borgnini per ceramica flaminia, vasca da bagno centrostanza in pietraluce nella nuova versione colore blu robbiano.

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3. dalla industria-line di moab 80, lavabo a canale da appoggio in acciaio verniciato, su piano in lamiera traforata. design studio moab. 4. krit, di marc sadler per karol, lavabo realizzato in calcestruzzo a fibre, materiale tecnologico utilizzato in edilizia che consente di creare una struttura di solo 1 cm di spessore, per lunghezze variabili.

1. grandangolo g150, di nilo gioacchini per hatria, lavabo in ceramica sospeso o da appoggio, variamente accessoriabile con pianetti e barre portasciugamani. 2. thin, di Angeletti ruzza per azzurra, lavabo ultrasottile in ceramica, finitura bianco opaco.

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1. dalla collezione supernova, di sieger design per dornbracht, Bocca d’erogazione a getto; finiture lucide specchianti, cromato, platinato e champagne. 2. nastro, di peter jamieson per ritmonio, rubinetto, disponibile anche in finitura gold, connotato dalla torsione della canna di erogazione. 3. shui, di paolo d’arrigo per ceramica cielo, lavabo consolle per installazione sospesa, disponibile in ceramica bianca o nera. 4. moove, di marco piva per jacuzzi, piatto doccia per installazione a filo pavimento, in acrilico lucido o opaco, con rilievo centrale ovale o circolare. disponibile in versione quadrata, rettangolare, stondata e rettangolare con lato stondato. 5. Conoflat di kaldewei, piatto doccia in acciaio smaltato a filo pavimento, disponibile in 17 misure e in variante nera. design sottsass associati. 6. hydroplate di cea design, placca per cassetta WC completa di idroscopino a scomparsa, con i pulsanti a filo, in acciaio inossidabile con finitura lucida o satinata. 7. sen, di nicholas gwenael per agape, sistema multifunzionale di rubinetteria componibile in linea, comprensivo di rubinetti a parete, doccetta flessibile, colonna doccia, rubinetti da appoggio e piantane a pavimento, in alluminio anodizzato spazzolato con finitura grigia o nera.

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102 / INservice INdirizzi

AGAPE srl

Via Pitentino 6 46037 GOVERNOLO DI RONCOFERRARO MN Tel. 0376250311 Fax 0376250330 www.agapedesign.it info@agapedesign.it

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Via Padana Inferiore 12/a 29012 FOSSADELLO DI CAORSO PC Tel. 0523818618 Fax 0523822628 www.driade.com info@driade.com

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Via Privata Alessi 6 28887 CRUSINALLO DI OMEGNA VB Tel. 0323868611 Fax 0323868804 www.alessi.com info@alessi.com

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ART CERAM srl

Via Mons. Tenderini 01033 CIVITA CASTELLANA VT Tel. 0761599499 Fax 0761514232 www.artceram.it info@artceram.it

ARTESIA - INTERNATIONAL SLATE COMPANY Via Pezzonasca 27 16047 MOCONESI GE Tel. 0185935000 Fax 0185935001 www.slate.it info@slate.it

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N. 599 marzo 2010 March 2010 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954

on line www.internimagazine.it direttore responsabile/editor GILDA BOJARDI bojardi@mondadori.it art director CHRISTOPH RADL caporedattore centrale central editor-in-chief SIMONETTA FIORIO simonetta.fiorio@mondadori.it consulenti editoriali editorial consultants ANDREA BRANZI ANTONIO CITTERIO MICHELE DE LUCCHI MATTEO VERCELLONI redazione/editorial staff OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (capo-servizio/senior editor) MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (capo-servizio design design senior editor)

Nell’immagine: vista della casa-studio ‘enciclopedia’ di Luigi Serafini a Roma. si trova all’interno di un palazzo cinquecentesco a pochi passi dal Pantheon. In the image: view of the ‘encyclopedic’ home-studio of Luigi Serafini in Rome, inside a 16th-century building near the Pantheon. (foto di/photo by aurora di girolamo)

Aprile 2010 numero 600 april 2010 - issue no. 600 Interiors&architecture

Case-tendenza: nuovo lusso, contaminazioni, modernità gentile, antimimetismo

Trend-homes: new luxury, contaminations, genteel modernity, antimimetism

INpeople

Il futuro del progetto/The future of design Gli opinion leader a confronto Opinion leaders face off

INsight

I 100 anni di/100 years of Gillo Dorfles Rapid building Design spettacolare/Spectacular design INdesign

ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it interni e architettura interiors and architecture KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CLARA MANTICA sostenibilità/sustainability CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores ANGELO VILLA cinema TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations grafica/layout MAURA SOLIMAN soliman@mondadori.it SIMONE CASTAGNINI simonec@mondadori.it STEFANIA MONTECCHI internim@mondadori.it SUSANNA MOLLICA SILVIA FRASCA segreteria di redazione editorial secretariat BARBARA BARBIERI barbara.barbieri@mondadori.it ALESSANDRA FOSSATI alessandra.fossati@mondadori.it ADALISA UBOLDI adalisa.uboldi@mondadori.it contributi di/contributors: STEFANO CAGGIANO ODOARDO FIORAVANTI ANTONELLA GALLI SERGIO PIRRONE ALESSANDRO ROCCA ROSA TESSA LAURA TRALDI

Settimana milanese del design 2010

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Interni Think Tank

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Le scatole del pensiero/Thought boxes Il nuovo grunge/The new grunge Il verde in una stanza/Green rooms Forme in divenire/Becoming forms MILAN DESIGN WEEK 2010

2_In599_R_104_colophon.indd 104

corrispondenti/correspondents Francia: EDITH PAULY edith.pauly@tele2.fr Germania: LUCA IACONELLI radlberlin@t-online.de Giappone: SERGIO PIRRONE utopirro@sergiopirrone.com Gran Bretagna: DAVIDE GIORDANO davide.giordano@zaha-hadid.com Portogallo: MARCO SOUSA SANTOS protodesign@mail.telepac.pt Spagna: CRISTINA GIMENEZ cg@cristinagimenez.com LUCIA PANOZZO luciapanozzo@yahoo.com Svezia: JILL DUFWA jill.dufwa@post.utfors.se Taiwan: CHENG CHUNG YAO yao@autotools.com.tw USA: PAUL WARCHOL pw@warcholphotography.com

ARNOLDO MONDADORI EDITORE 20090 SEGRATE - MILANO INTERNI The magazine of interiors and contemporary design via D. Trentacoste 7 20134 Milano tel. +39 02 215631 telefax +39 02 26410847 e-mail: interni@mondadori.it Pubblicazione mensile/monthly review. Registrata al Tribunale di Milano al n° 5 del 10 gennaio1967. PREZZO DI COPERTINA/COVER PRICE INTERNI € 8,00 in Italy PUBBLICITÀ/ADVERTISING Mondadori Pubblicità 20090 Segrate - Milano Coordinamento/coordinator SILVIA BIANCHI Tel. +39 02 75423343-75422203 Fax +39 02 75423641 silvia.bianchi@mondadori.it www.mondadoripubblicita.com ABBONAMENTI/SUBSCRIPTIONS: Italia annuale: 10 numeri + 3 Annual + 2 Interni OnBoard + Design Index Italy, one year: 10 issues + 3 Annuals + 2 Interni OnBoard + Design Index € 89,50 Estero annuale: 10 numeri + 3 Annual + 2 Interni OnBoard + Design Index foreign, one year: 10 issues + 3 Annuals + 2 Interni OnBoard + Design Index Europa + resto del mondo, via terra-mare/Europe + foreign countries, by surface-sea mail € 125,70 via aerea/air mail: Europa/Europe € 145,00 USA-Canada € 158,80 Resto del mondo/rest of the world € 225,10

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Interni marzo 2010

INtopics

editorial

p. 1

In-Outdoor is the main theme of this spring issue. The indoor-outdoor relationship is crucial in the homes illustrated here, mostly in Spain. Views, geometries, materials, facades, roofs are all designed in relation to the surrounding landscape. The same approach can be seen in the three recent ‘hopes made of cement’, including the Holon Design Museum near Tel Aviv by Ron Arad, which underlines the value of architecture capable of bringing pride to a place. Changing its perspective, our fil rouge finds other dimensions. Because the importance of looking at nature to achieve ‘good form’, the form of ideas, is the distinctive feature of the interdisciplinary research of Roberto Sambonet. And in-out, as in a game of reflected geometries, is also the focus of the sports scenarios in rubber by Marco Ferreri, bringing an imaginary bit of the outdoors into the home. Our insert explores the accessories, barbecues and lighting fixtures for outdoor use, along with outdoor furnishings that work just fine indoors as well. Finally, we ask: what’s the role of the designer? The main priority is still to capture and interpret, with sensitivity, the needs of the moment, proposing trends. So while a trend is emerging in the bath sector, where things are getting more and more slender, with new fixtures that hide their technological content, the perseveringly idealistic vision of two protagonists of Italian design like Paolo Ulian and Enzo Mari suggests that the ‘voyage’ has to do with a way of thinking about life and the profession: how to minimize, for example, the waste connected with the manufacturing of a product. An ethical-ecological approach. We’ve also monitored the interest of many designers in recycling, with organic, biodegradable materials, for a design that dissolves. A signal for optimism. Gilda Bojardi

INteriors&architecture

Under the trees p. 2 project José Selgas and Lucia Cano/Selgascano Arquitectos photos Christian Schaulin / production Kerstin Rose - text Antonella Boisi Near Madrid, an origami-house in nature, made with a few materials assembled creatively, balanced between the underground dimension and views of the sky. A manifesto of the poetics, an ideal personal resource, of José Selgas and Lucia Cano, husband and wife, partners in the studio Selgascano Arquitectos. Both born in Madrid in 1965, a degree from the Escuela Tecnica Superior de Arquitectura of Madrid, training in Naples with Francesco Venezia for José Selgas, and in the studio of her father, Julio Cano Lasso – one of the most sensitive protagonists of Spanish modernism – for Lucia Cano. The two founding partners of the Madrid-based studio Selgascano Arquitectos have an interesting story to tell, and even the Guggenheim Museum of New York has offered them a space of design experimentation, on display until 28 April. This home designed and built a few years ago is part of the tale of their design vision, a part made for their private, family life. It makes its own space on a slight slope covered with vegetation. It adapts to the terrain, with a section that reaches a level of one meter below ground, concrete foundations and a steel skeleton, like a modern ‘grotto’ facing a natural landscape that seeks dialogue with the interior and the expressive force of its selected ingredients: wood, acrylic, polyester, fiberglass for the surfaces, metal for the casements, and lots of transparent and extra-clear glass for the continuous glazings of the perimeter, on all sides. What narrative tension led to this outcome? The memory of a modern work, by Le Corbusier, 1957: the convent of La Tourette, in Eveux, near Lyon, reinforced concrete structure with overhanging levels in a rural context, a lot left in its original state, rugged, without terracing; a building that does not blend into the place, but dominates the landscape. “Le Corbusier expressed the desire that the empty courtyard inside La Tourette be naturally ‘sown’ by seeds brought by birds, or the wind. He left a gap in his architecture, entrusted to nature. We wanted the design of our house to take an opposite tack”, José Selgas and Lucia Cano explain. “Here it is nature that has left a gap, and only in that spot we are able to fill it with something that is architecture, a rational, programmatic gesture. All the plants come from nearby lots and have spread spontaneously. We measured the heights of the trees, their perimeters, incorporating them in the planimetric. Nevertheless, we are in agreement with Le Corbusier, in the sense of never really having sought camouflage or integration of the construction in the landscape, never attempting what is called organic architecture. Our house adapts to the site by contrast. In Italy, certain bridges on the highway are painted sky blue. This is a childish, touching disguise that functions only on certain days, in certain moments. But we think it is gorgeous, precisely in the moment when the trick is revealed. In our case, the available lot was already ‘suffocated’ by something worth conserving, so the only reasonable choice was to fill up the remaining interfaces, the only possible zones, the leftover spaces between the trees, which we absolutely did not want to touch. Maniacal respect!” So the house is positioned beneath two large roofing surfaces (with a steel structure, finished in treated recycled rubber), one in blue, one in brick red, thick platforms with varied profiles, like a flower, that attempt to draw the gaze upward, over the natural setting, toward the sky to the east. The project is resolved precisely by these two compositional elements. The house is like an addition below them, with its irregular glazed volumes that follow the lines of the roofing on surfaces developed in steps, equipped for spending lots of time outdoors, and made comfortable by floors of painted wood. Yellow, pale blue, white: every zone has a precise color and is located at a different level to facilitate access to the rooms. One platform contains the living areas, while the other is for the nighttime zone (three bedrooms with their own baths): “Each portion corresponds to an inner dimension of the house, and could not exist without the other. The sole consideration regarding the interior space is that it goes unobserved. It emerges, like the result of the only space we worked on, namely the outdoor space. The horizontal platforms cultivate space in a generic vicinity, but with metaphorical distance. It is the distance inside which we can talk about inanimate nature, reproduced or abstract, that reflects the earth and the sky, taking part in both without belonging to either one. The similarities in the zoomorphic or anthropomorphic profile, between the spherical viewing points and eyes, between the other skylights and the spinal column of a living organism, are pure coincidences!” The interiors, in any case, conserve the value of a construction that adapts to the irregular design of the planimetric: from the fixed furnishings of the kitchen, featuring an essential, continuous counter below the windows, to the partition (a slender metal frame with sliding white panels) that separates the living-studio area with its suspended fireplace from the painted metal walkway leading to the bookcases along an entire wall, to the wooden shutters with flexible horizontal panels used as a filter in the bedrooms. A few selected furnishings from design catalogues,

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modern classics by Pierre Paulin, Charles Eames, Verner Panton, and some bright touches of color, also underlined by the red/blue of the metal beams of the suspended ceilings, a nothing more: the effect of suspension-lightness of the architecture is guaranteed by the continuous glazings, developing like a fixed or flexible ribbon, as in a work of origami, offering constant views of nature and its metamorphoses. - Caption pag. 4 Above and on the previous pages: the two painted steel platforms finished with treated recycled rubber for the roofs, and the compositional frame of reference of the construction, drawn in the plan with its green context. The entrance area introduces the mood of lightness and refined elegance of the interiors, furnished with an erudite mixture of classic design and citations. Like the red Bachelor Chair designed in 1955 by Verner Panton for Fritz Hansen, and the hanging lamp by George Nelson from the Modernica catalogue. - Caption pag. 7 The living area with the overhanging fireplace, custom made (like the bookcase), around which to organize the relaxation areas with the Butterfly chair and the Orange Slice chair, both designed by Pierre Paulin for Artifort. The dining-studio area with the DSX chairs in fiberglass and chromium-plated steel, designed by Charles and Ray Eames in 1950, now in the Vitra catalogue. The kitchen has been outfitted with a continuous counter below the windows, in DuPont Corian®. A bedroom and a bath. All the spaces have fine views of the landscape, filtered by light custom-made wooden shutters.

The form of ideas p. 8 project NoMad / Eduardo Arroyo photos Roland Halbe - text Alessandro Rocca Casa Zafra Uceda is the latest creation by Arroyo, as always under the name NoMAd, a single-family villa near Madrid, at Aranjuez, in a residential complex facing a golf course. No doors or windows for a house that starts with a 12-meter square to invent geometries of great expressive force on the transparent metal facades and in the internal layout. 560,000 euros to build 320 square meters: Eduardo Arroyo is now one of the most inventive and original European architects, a thinker who develops the most hermetic theories to achieve results that, instead, are clearly evident. His works include the Plaza del Desierto at Barakaldo and the Levene house at the Escorial, another good example of ability and rigor. While for the Levene house Arroyo found inspiration in the dense woods surrounding the site, in this house he approaches a terrain normalized by banal lot subdivisions, setting aside an identical space for each house, without significant reference points in terms of urban design or landscape. Arroyo reacts to the weakness of t he place by making his construction not a reception system with respect to the context, as at Villa Levene, but a powerful transmission system, a veritable architectural concentrate that broadcasts strong, evocative images. The motor of the project, the guiding concept, is the separation of the external perimeter, a square measuring 12.45 meters per side, determined by the obligatory distance from the edge of the lot. The internal spaces are organized in an absolutely irregular way. The barycenter is the living area, on two levels, which as Arroyo explains “grows in length like a serpent. It contains the staircase and all the flows and physical plant elements, staging two magical resources: a panel in iridescent polycarbonate that changes color with the light from outside, placed in front of a completely reflecting wall that multiplies the interior space”. The indoor-outdoor relationship is crucial, because every opening is planned to capture the landscapes around the house: a small historical center, the river and the woods, and the mountains in the distance. The upper level, containing the bedrooms and baths, is a volume eroded from both sides: the interior is gutted by the volume of the living area, and outside three roof gardens are used for the cacti collection of the owner. The upper level is wrapped in an elaborate metal grille (also a protective shield to stop errant golf balls!) with a system of mobile panels for adaptation to the seasons and view selection. Light filters through the grille, bathes the gardens and slides, attenuated in its force, over the corners and walls of the interiors, reaching the living area. Casa Zafra Uceda has a particular way of experimenting with the demands of the client. In a certain sense, it is precisely by responding to these desires that Arroyo has managed to avoid conventional solutions. Pushing each response to the limit, he intentionally overlooks implicit, customary needs in order to more vigorously address explicit needs: selective outward views, the pleasure of the secret garden, a spacious, central living area faced by other spaces, like a small private plaza. - Caption pag. 9 The window on the garden shows the living area, dining room and loggia of the upper level. The metal grille filters the sunlight and offers protection against stray golf balls from the nearby course. - Caption pag. 11 The house has no internal doors, so the spaces flow in a fluid, diagonal pattern around the walls. The entire ground floor is for the living area whose central part occupies the entire height of the building. The Flap divan at the center of the space is by Francesco Binfaré for Edra. - Caption pag. 12 The upper level is wrapped by the metal grille, with inserts that open, making it possible to select views of the landscape and to regulate the intensity of the natural light. The bedrooms and bath face two patios set aside for the cacti collection of the owner. The metal house

p. 14 project Paco Sola - photos Jordi Bernadò - text Alessandro Rocca Living together. A young couple who work and travel often, together with their memories, a family tradition of a business based on working with iron, enriched by discoveries made in the world, like the atmosphere of a Japanese patio, or the rigor of an American loft. All on a lot of just 100 sq meters at the corner of a small street in La Alberca, a residential neighborhood at the gates of Murcia, in Spain. The house stands on the corner, at the end of a series of tiny constructions, with assertive grace, spreading its small volume over a series of levels marked by different ferrous materials. On the two sides, oxidized Cor-ten frames stand out: on one side, the window is a screen, flattened against the wall; on the other, it is a protruding viewing point, almost a Dutch bow-window that emerges from the facade and seems to invite the indiscreet gaze of voyeur passers-by. Above the reddish brown Cor-ten titanium sheets gleam, placed diagonally, a dynamic insert that makes the corner sharper, clearer. Curiously, in spite of the limited space, the house takes on a very complicated, dense design; the volume seems to almost be compressed, rolled up. For example, on one side a bend, little more than a groove, is formed that runs from the ground to the roof to create, by the street, a small patio, protected by a Cor-ten gate worked like wrought iron. The variety of the materials, the series of doors and windows, each of them unique, the diagonal and horizontal weaves and the small size make this house a singular urban presence. The project adapts to the small size of the street and the neighboring constructions, but stands out for its accent on expression, presence, form, not discouraged by the context. Inside, as Paco

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Sola explains, “it is a continuous space that rises, in a zig-zag, from the ground floor to the roof”. And in spite of the small size, this rising continuity is a vivid experience. The spaces form a series, in contact but maintaining their individual characteristics, while mingling and overlapping. The bathrooms are enclosed by silkscreened glass, while the bedrooms are separated by mobile panels, Japanese-style. In a certain sense this is a small loft rolled up around a staircase. Or you might see it as a large one-room home, in which the various zones of a unified space are shifted onto different levels, gaining space and light thanks to vertical staggering. On the ground floor, over the garage, the living room is bordered by a curious suspended balcony, beside a kitchen and a small bathroom. Climbing the stairs past the dining table, one reaches the nighttime zone, with two bedrooms and the void of the two-storey living room. Finally, half of the third level is occupied by another bedroom, while the other half becomes a terrace with a swimming pool, surrounded by a colorful parapet in polycarbonate sheet. - Caption pag. 15 The house is on a corner lot of just 100 sq meters, and appears as a technological volume, in strong contrast with the traditional look of the neighborhood. The side containing the entrance displays the two levels of the house. The contact with the titanium block is buffered by a tiny courtyard, protected by a wrought iron gate. The facing is completely in metal: diagonal sheets of titanium and panels of oxidized Cor-ten steel. The large window intensifies the relationship with the city: an observation point, from the inside, but also a moment of display of domestic life. - Caption pag. 16 The two-storey living area is surrounded by a suspended walkway in glass that leads to the dining room placed on an intermediate level between the first and second floors. Bubble hanging lamps by Foscarini and, on the floor, the InOut model by Metalarte. Red leather armchair by Enrico Pellizzoni, divan by Gammamobel, Phil dining table by Ciacci. Micro-landscape: the suspended walkway faces the miniature garden, a small luminous chamber between indoors and outdoors, and the kitchen, lit by orange O-Space lamps designed by Luca Nichetto and Giampietro Gai for Foscarini. - Caption pag. 19 The roof, like the rest of the house, is on two staggered levels. The lower one contains the swimming pool, in a wooden enclosure, while above there is a panoramic terrace whose parapet is clad in light colored polycarbonate sheets. View of the living area from the kitchen, with the steps leading to the dining room, on mezzanine level, and continuing to the bedroom and the roof terrace. In the foreground, the O-Space hanging lamp by Foscarini.

Double-face design

p. 20 project Joao Mendles Ribeiro - photos Fernando Guerra - text Matteo Vercelloni

In Coimbra, Portugal, the reconstruction of a small three-storey house in the historical center becomes an intervention method for operating on existing constructions, connecting historical memory and contemporary signs in a double-face synthesis. A small house with a genteel look, on three levels for three apartments, introduced by an enclosed space to create a sort of private filter between the street and the interiors; this was the condition, in the city center, of a seriously deteriorated construction from the early 1900s. The easiest solution was undoubtedly that of demolition and new construction, the total replacement of an urban segment that probably would not have been missed. It is precisely in such situations that the sensitivity of an architect can play a fundamental role, in this case imagining a difficult, experimental route: an attempt to salvage the typological and urban memory of the house, while responding to new residential needs, without sacrificing an explicitly contemporary approach to the arrangement of spaces, the materials used, and the overall compositional figure. Having freed up the interiors and reinforced the structure, also with an eye on new additions, the main facade on Rua António José Almeida was completely restored together with the enclosed space facing the street, salvaging the cornices and mouldings of the regular openings, and the small wrought iron balcony over the entrance; color was restored to the painted band under the upper cornice on which the pitched tile roof rests, interrupted by an original dormer to which new ones have been added, of the same size but with a different image. Diversity, the contrast of historic figures and new interventions, forms the basis for the entire project, taking the three original levels and putting the staircase in the same position as in the past, while radically reorganizing the internal spaces, developing a new compositional grammar on the internal facade, toward the new, essential garden with swimming pool. The basement has been expanded to contain the garage, the physical plant systems, service spaces and a study that faces, through a large glazing introduced by a stone bench-step, a new, small green patio that functions as an efficient source of natural light. The entrance level develops inward with a regular volume that takes part in the composition of the new facade, marked by volumetric additions overlaid and grafted onto the white facade that follows the profile of the original construction. The long parallelepiped of the mezzanine, slightly raised over the garden level, extends toward the pool, making it a natural outcropping of the house, linking the deck to the surroundings by means of a terrace clad in the same wood, created in the end of the volume immediately after the full-height glazing that marks the conclusion of the living area. The first floor contains the first bedroom area, from which a second volumetric addition emerges like an ‘architectural parasite’: a Cor-ten cube ‘hung’ on the masonry front, a sort of capsule entirely clad in birch, with openings that can be covered to permit different usage configurations – study, relaxation, meditation – and multiple views of the city. The attic, with new dormers, has been transformed into a zone for the master bedroom, with a new, luminous bath in white marble, a studio space and a large closet. Here too we find a ‘suspended’ element, the volume connected to and detached from the internal facade. This is a small wooden balcony, placed at the position of a new glass-door dormer, composed of a sum of horizontal planks whose geometry makes it possible to create openings for observation, transforming this geometric outdoor capsule into a true, intimate, exclusive belvedere, part of a compositional crescendo that combines the historic front with a dynamic composition for the opposite facade. - Caption pag. 21 View of the streetfront with the restored historic facade, enhanced by new dormers on the roof. The facade toward the garden; a series of volumes clinging to the front forms the new architectural figure, in contrast with the original facade. - Caption pag. 22 The volume of the ground floor of the living area, extending toward the swimming pool conceived as a sort of reflecting pool marked by the enclosure walls. - Caption pag. 23 The interior clad in birch on all the surfaces of the Cor-ten cube hung on the facade toward the garden. Eames Plastic Side Chair by Charles & Ray Eames, produced by Vitra. - Caption pag. 24 In the dining room: Gamma table by Jasper Morrison for Cappellini, Wishbone chairs by Hans Wegner for Carl Hansen & Son. Ph Artichoke lamp by Poul Henningsen for Louis Poulsen. In the living area: Sushi chairs by Carlo Colombo for Zanotta; Yeats divan by Piero Lissoni for Living Divani. View of the staircase and the living area.

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Open space at Mont Blanc p. 26 project Andrea Meirana team Luca Parodi, Ilaria Cargiolli, Mauro Valsecchi, Magalie Ehret photos Alberto Ferrero - text Antonella Boisi At the famous ski resort town of Flaine, in Haute Savoie, designed by Marcel Breuer in the 1960s, a residential unit renovated with sensitivity and compositional aplomb by the Genoa-based architect Andrea Meirana, in a return to the sense of living in the mountain landscape with quality and comfort. In 1968, on the green meadows of Flaine, in Haute Savoie, France, thanks to the initiative of Éric Boissonnas, a farsighted promoter, the Le Flaine hotel and nearby structures in reinforced concrete were built, designed by Marcel Breuer, the Hungarian architect who was first a student and then a teacher at the Bauhaus in Dessau, Germany. The master had already created the famous seats in steel tubing, from the Cesca to the Wassily (dating back to the 1920s), which along with the rest of his first projects for the homes of the Bauhaus had become icons of reference for designers all over the world. It was only in 1981, the year of his death, that work was completed for the center of the mountain resort on which he had worked since 1959 to develop the masterplan, together with a team composed of L. Chappis, G. Chervaz, A. Gaillard and D. Pradelle. In the design of this ski resort town Breuer applies the modernist and aesthetic/functional theories he summed up as follows: “The architecture of Flaine is an example of application of the principle of shadow and light. The facades of the buildings are cut like diamonds. The rays of the sun ‘etch’ the fronts at different angles; their reflection causes contrasting lighting effects. The horizontal level lines of the buildings contrast with the chaotic contours of the mountain. Each building makes the best use of modern construction techniques in reinforced concrete, stone, wood and glass. The internal space is never plastic, static, finite. Instead, it is dynamic and open, formed by flexible wings, attention to construction details and clarity of formal expression. The composition fits into the wild landscape of Flaine, humanizing it”. Today the resort is considered an architectural-urban complex of the highest quality, protected by heritage regulations. The recent renovation project by the Genoa-based architect Andrea Meirana for a housing unit brings out the high qualitative level of the original architecture, and the warmth of the habitat atmospheres at the foot of Mont Blanc. “Re-designing an apartment of 75 sq meters inside a building by Breuer”, Meirana explains, “was a challenge, because it is always difficult to modify a layout with a high level of intrinsic value. No attempts ever seemed better than the present state of affairs”. The new intervention is intentionally clear, complete, distinct. “It was necessary to adapt the spaces to new needs, to correct random modifications made over the years by previous owners, using the compositional tools and materic range of modern architecture. This was the only way to meet the requirements of the client without losing the original concept”. The volumes, the spatial organization, the way of conveying light inside the spaces, are all still based on the original design. The long narrow L-shaped plan with the dining area as the heart of the living zone, open to the entrance and the walk-through kitchen leading to the nighttime areas (two bedrooms with baths), retains the idea of a transformable house made of adaptable partitions, enclosed in the geometry of mini-cubes conceived as habitat cells. The context of the French Alps and the looming presence of Mont Blanc suggested the rest. First of all, the careful choice of materials: sunburst stone, sanded wood treated with wax and ashes, natural matte cowhide. Local, natural materials, for a process of aging made more precious by time. And appropriate for the place, also in terms of color and texture. The exposed reinforced concrete of the beams has been restored to its original image by cleaning, with the insertion of minimalist lighting fixtures. The dining table is a custom piece in waxed steel and oak planks, with a single rectangular leg to facilitate movement toward the bench when more free space is required, especially when the weather is bad. The new fixed furnishings – the cabinet in stone with oak doors, with the ecological fireplace at the center and lighting fixtures above for indirect lighting of the table, the kitchen with a thick stone counter and the entire equipment block clad in panels of brushed, waxed oak, a volume paced by zones that are doubled in the mirror positioned to gauge its reflections and dilate the depth effect of the room toward the monolithic corridor lined with ice-colored full-height wardrobes – of the interior landscape contribute to the parallels and historical references. The fireplace is a citation of the one made by Breuer for the hall of the Le Flaine hotel; the bright red hanging unit in the living room is a reminder of the geometry, proportions and construction system of the cabinets found in many living rooms of the houses he designed in America. The wooden platform made with old boards bordering the living area and the stone floor echo the image and materials of Alpine refuges; the monolithic white corridor evokes the image of the icy peaks and the snow outside the window. Adolf Loos, in 1913, in his rules for those who build in the mountains, wrote: “Don’t build in a picturesque way. Nature only tolerates truth”. At Flaine, neither Breuer nor Meirana has forgotten that lesson. - Caption pag. 26 Views of the snowy landscape of the ski resort town of Flaine, designed by Marcel Breuer, a project that began in 1959 and was completed in 1981. The dynamic lines of the exposed reinforced concrete constructions blend with the morphology of the site. The apartment renovated by Andrea Meirana is located in one building of the complex. - Caption pag. 28 The living area. The continuity between the various zones is underscored by the oak flooring made with antique planks, alternating with stone. The red cabinet is the reconstruction of a model by Breuer, based on archival documents. The dining table is also a custom piece, like the central multifunctional element in stone, the cowhide bench backlit with LED strips, and the entire kitchen block with its stone counter and panels in brushed, waxed oak. Design products include the Y-Chairs by Carl Hansen & Son (design Hans Wegner 1950), the L’Homme et la Femme divans by Edra (design Francesco Binfaré), and the lighting fixtures by Kreon. - Caption pag. 29 The bathtub in local stone is placed beside the shower with stainless steel platform, hidden by the stone covering with a lateral opening for the water. The glass surface dividing the shower from the corridor has active polymers, to make it transparent when the shower is not in use. The stem lights, with a monastic look, are custom made with LEDs. The private bath block of the master bedroom, finished with panels of brushed, waxed oak, marks the change of structure of the original slab from exposed concrete beams to a full poured slab.

Two hopes grown in cement

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photos and text Sergio Pirrone

Two very different works with a shared goal, amidst the winding avenues of the culture of big paved streets: the image of an architecture that conveys the sense of pride of a place that has taken on a strong, lively personality. In Region II the sun offers no truces, drying up the earth, making into red ash. Blown by ocean winds it dusts the rocky desert, a harsh

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Interni marzo 2010 place without dunes or oases. Bolivian gold prospectors, two centuries ago, had a hard time crossing the border. From the gold mines of Pulacayo and Oruro the steam trains set off for Chile on a trip that took many days, whose destination was a border town, Antofagasta, between the desert and the ocean. The south of the town, with colored houses facing the Pacific, was the point of arrival and departure. The rocky ridge was transformed into a factory for refining gold, the Establecimiento Industrial Playa Blanca. A few meters from the waves, the metal was worked and stored on wooden ships, ready to go to England. This is the story of the Ruinas de Huanchaca, the remains of the factory that refined gold and hopes for ten years, and was then abandoned in 1902. Forgotten until 1974, these curious boulders were rediscovered and listed as a national monument. Over time, the signs man leaves on the territory can produce wealth. Reutilization can create the icon of a community, a region, a foothold of history and hope for a better future. In those years Chile was discovering the economic and tourism advantages of gambling, and decided to build a casino right in front of the ruins. But the private investors had to promise to safeguard the site, and to build the Museo del Desierto de Atacama. The national architecture competition, held in 1996, called for a series of buildings that were supposed to integrate the old and the new, inside a cultural park. At the time Ramón Coz, Marco Polidura, Eugenia Soto and Iñaki Volante were very young. They won the competition with a project that would be built only in part, thirteen years later. The promontory protected the city, below the ruins and beyond the perspective toward the ocean sunset. The architecture had to be set down there, discreet, neutral, soon to be yellowed by the sand. The salt air would erode it, and time would blend it into the scene of the land, the ruins. The majesty of the towers sculpted by time would by indicated by the sloping back and the cement fingers stretching westward. Their rhythm would evoke the pace of towers and walls, a cathedral in the terraced desert, marked by a regular alternation of full and empty segments, spires and open spaces for the working of the precious metal. The five exhibition rooms contain permanent displays, two on the geological eras of the Atacama desert, two on the mine and its inhabitants, one on the created universe. The slope and attach themselves perpendicularly to the north-south axis that connects the main entrance to the cafe. This nearly symmetrical exhibit array is subjected to the charms of subtraction, the alternation of extremes. The large glazed openings alternate concrete wedges, light from the west floods the space, cutting it crosswise, while light from the east spreads vertically through two open courtyards. The eastern block contains offices, rest rooms and a conference room. Beyond those fossil relics trapped in cases lit by LEDs, the gaze goes past the glazed opening and finds the ruins, framed under that cornice. History sometimes links distant places and stories, due to coincidences and the actions of men. In Chile, near Atacama, they say that on exactly the opposite side of the world one finds the daunting lands of Japan. That the villages of fishermen in Iwate prefecture are not really so far away from the copper mines of Antofagasta, because they are both populated by people who live and risk their lives on the same ocean. Cold rocky coasts, sea and wind that have dug out dark caverns, deep inlets. One of them hosts the city of Ofunato, pop. 40,000, mostly employed by the fishing industry. Nature does not make history here. Men must control it, manipulating it with cement. They do it as the natural becomes artificial and the artificial finally becomes history. Faced with the threat of gradual abandonment of the border towns, the government of Ofunato thinks up a cultural pole designed to stop the exodus, attracting new visitors and creating economic benefits for the community. The Japanese budget is not like that of Chile, and the new Ofunato Civic Cultural Center and Library is a giant in pale concrete. Its complex figure is hard to grasp at a glance, with its interlocking geometric volumes. Its perimeters rest on a lawn, while the intersection welcomes the latest work by Chiaki Arai. Born in 1948, distant in terms of age and outlook from the three young Chilean architects, he has chosen not to compromise his craft for fame, to remain coherent. He believes in this work and talks about all the difficulties involved in making architecture whose belly is formed by topographical curves, in concrete, with shoulders like caverns. He remarks on the oversizing of form and functions, because only in Japan is it possible to build a cultural complex with a 1100-seat theater, a two-storey bookstore, multifunctional spaces, workshops, etching rooms, meeting rooms, in an outlying town. The genius loci in Chile, the discretion of the steps taken beside the ruins, that of less is more, confronts the imposing presence of an architectural protagonism that gazes from afar. Here the hills are green, the volcanic earth and the cold have hardened the red sand, but here too, as at Antofagasta, what is wanted is an icon. While at Antofagasta the task is assigned to a private casino, here the entire community takes on the task. Municipal functionaries and local citizens form the committee Let’s Create Ofunato City Hall. Seminars and workshops define the functional program, while Chiaki Arai presents his design hypothesis. An architectural box that contains the essence of a community, and represents it, evoking its territory, its coasts, the ocean, the sky. The wedges built into the sand-stained concrete, worn by the wind, faded by the sun, are a memory as distant as the crossing of the Pacific. At Ofunato the architecture is a perfect sculpture. Structure and ornament of a cavern penetrated by eastern light, the warm contours of level curves can be touched, followed in the light-and-shadow, all the way to the theater entrances. A magnificent scenario, walls clad with gray wood like marine grottoes, a suspended ceiling like the undulation of clouds in the wind. Enclosed by updown passages that lead to staggered floors, in which the foyer the technical spaces cling to stellar beams, steep walls, volumes interlocked by zenithal light, we can finally get a sense of the Ofunato Civic Cultural Center and Library. A feat of constructive prowess, it reveals how hope can also come from cement. Two points on the globe, two towns between the mountains and the ocean, the past and the future, two architecture studios of different generations and backgrounds. What do these works have in common, besides the concrete? Perhaps the same hope of not getting lost in the oblivion of time, tenaciously clinging to a book, a gem, a fossil, a musical score. Like love, like the wind that blows between the south and north of the Pacific, culture has the talent to join places and minds, to narrate tales of other times, out of time, to make us believe that Atacama and Ofunato are not so far apart, after all. - Caption pag. 31 View of the internal court that opens toward the cafe and the foyer of the conference room. Facing page: exterior views of the two museums. The Museo del Desierto; to the east, the ruins of the gold refinery, the city of Antofagasta and the desert. Below: the Ofunato Civic Cultural Center and Library; to the west, the hills that protect the town of Ofunato. - Caption pag. 33 Interior-exterior view towards the west through one of the four large windows that alternate with the five exhibition spaces. Interior of the ‘exhibition corridor’, the north-south axis of the project. - Caption pag. 34 Exterior nocturnal view from the street. View from below of the walls over the cafe and next to the large concert hall. - Caption pag. 36 The cafe seen from the ground floor, with the Costes seats designed by Philippe Starck in 1985 for Driade Aleph, with structure in black painted steel tubing, chassis in mahogany-finish curved plywood and fixed cushion in polyurethane

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foam, covered with black leather. View of the double height of the cafe from the entrance level of the concert hall. The foyer space that embraces the concert hall, attached to the access ramps and staircases.

Holon Design Museum p. 38

photos Courtesy Luchford APM - text Matteo Vercelloni

A third hope embodied by cement: in Israel, after four years of work, construction is now being completed for the Design Museum of Holon, to the south of Tel Aviv. Designed by Ron Arad as an iconic work, it displays its image as a contemporary monument, rooted in the design of the square, open to the sky with an internal courtyard the amplifies the surrounding space. A work in a state of becoming. The Design Museum of Holon is part of a larger program of cultural development of the city that is destined to become the center of reference for research and education in Israel. From this viewpoint, the new building is also a symbolic sign, an architectural event that marks the beginning of an ambitious plan to be implemented over time, for the spread of culture in the widest sense of the term. The museum in Holon is the first such facility devoted to design in this country, with programs that will examine the impact of design culture on cities and everyday life. But it is also a flexible place for the organization of cultural events, performances, exhibitions. The organization of the spaces features an arrangement on two levels of two large galleries, on different axes, offering over 2000 sq meters of space. These are regular spaces, ready for transformation in different exhibit designs, depending on the needs of the various shows and events; unabashedly ‘neutral’ spaces that avoid precise architectural connotations precisely to avoid creating limitations to future adaptability. The clear rationality and layout of the two galleries contrasts with the complexity of the external solution, marked by a facade that overlays segments of Cor-ten to form an architectural ribbon that winds between the two galleries and wraps the entire structure in a spiral, eliminating any hierarchy of the facades and transforming the museum into a large, sculptural urban landmark. The metal ribbon starts precisely in the public space of the plaza in front of the museum, and becomes a connection between exterior and interior, marking the accessways and accompanying visitors on their path of discovery of the facility. The dynamic development of the structural Cor-ten skin is integrated with the exposed concrete structure of the architectural blocks, creating an effective chromatic and compositional counterpoint. The public space of the plaza seems to intentionally extend into the building, joining museum functions and urban space; the acrobatics of the sculptural ribbon are inserted in the architectural volume, passing below the volume of the gallery on the first level to create a large entrance portico. From here the Cor-ten develops and rises between the two off-axis volumes to make a suspended courtyard that underscores its public value and is topped by the dynamism of the facade element, open in this case to the sky, to screen the strong sunlight, forming large zones of shade for visitors. As Ron Arad puts it: “the capacity to create and exploit the tension between the internal layout of concatenated spaces suitable for museum displays and the dynamism of the external wrapper represents the guiding principle of the design of the museum”. - Caption pag. 38 Views of the external architecture: the facades, with their spiral form, eliminate any hierarchy. The exposed concrete structure is integrated with the Cor-ten bands that form an acrobatic ribbon conceived as a connection between outdoor and indoor space. - Caption pag. 40 Views and renderings of the internal spaces (now being completed) organized on two levels, with two large exhibition galleries, placed off axis. The public space of the plaza seems to extend inside the building thanks to the sculptural Cor-ten ribbon that inserts itself in the architecture, passing below the volume of the gallery on the first level to create a large entrance portico.

INsight INcontro

Enzo Mari narrates Paolo Ulian p. 42 by Maddalena Padovani “Between the game and the dump” is a plausible translation of the title of the exhibition at the Milan Triennale, in February, on Paolo Ulian. With an exceptional curator, the most severe fundamentalist among the great masters of Italian design: Enzo Mari. A meeting of two design protagonists from different generations, who nevertheless share the same ethical vision of life and the profession. The encounter happens in the studio of Enzo Mari on Piazzale Baracca in Milan, a legendary place all design students would love to visit, with blackened walls, old tools, piles of objects and prototypes, the traces of thousands of projects, of the many battles waged by the most radical and incorruptible of the protagonists of Italian design. In this space that seems to be stuck in the glorious Sixties, when everything was invented and redesigned with the simple aim of making everyday life better and more functional, you can’t find a single thing related to the ‘glam’ image of today’s design. Mari himself is the first to point out his absolute detachment from a discipline that today, in his view, is a slave to the laws of marketing and has turned designers into mere interpreters of trends. Tactful and discreet as always, Paolo Ulian listens with reverential admiration. His eyes reveal all his enthusiasm for the great, almost unexpected effort his mentor has made – from whom he has learned the basics of the trade, first as a student, then as an apprentice – to curate his first solo show, set up in late January at the Milan Triennale (Paolo Ulian. Tra gioco e discarica, 27 Jan-28 Feb 2010, catalogue by Electa). Designers seldom work on the exhibitions of other designers. And since the show in question is on a true protagonist of new Italian design, like Ulian, and the curator is a personality of the historical caliber of Enzo Mari, we can only wonder about the reasoning behind the decision, to try to grasp the shadings, the anecdotes, of what seems like a meeting of titans of two different eras. Why Enzo Mari as the curator of your show? Ulian: “It was not an immediate choice. When they asked me to think about a curator, I thought about the many critics and theorists of design, but they usually just write an essay, without getting concretely involved in the creation of the show. Then I got the idea of involving another designer, and I thought of Enzo Mari. I knew he would stimulate me and engage the audience; but I didn’t imagine how much enthusiasm and how much work he would put into this exhibition. Today I am very happy to have made this choice”. In your view, what are the ideas, elements or values you two share? Ulian: “I think there is a sort of slight madness that makes us go forward along our respective paths, trying to pursue what we think is right for us and for the world, without taking many factors, first of all the economic factor, into account. The objective is the sentiment of man, the ethical aspect of design and life that is usually compromised by the laws of the market”. Professor Mari, why did

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you agree to work on the exhibition of Paolo Ulian and what are the aspects of his work you appreciate, things that have affinities with your personal vision of design? Mari: “I’ve known Paolo for over 20 years. He worked for one year in my studio, and before that he was one of my students at the ISIA in Florence. I had good memories of him and I had met up with him later, from time to time, during Design Week in April in Milan. I also saw him at his exhibition last year, at the Fabbrica del Vapore. What I saw in him was a human component, detached from the obtuse issues of the design profession. Paolo and I have different backgrounds, if only due to our different ages. My training happened in a period in which, on a social level, there was an idea of design based on the concept of the standard, in which we believed in design as a tool to improve the life of man on a universal level. Today this idea no longer exists; design responds to the logic of fashion, the principle of diversity as an end in itself, so the objects have to be presented every six months in a different way. At the time of my training there were no design schools. I was lucky enough to learn this trade in the field, without even knowing what design was, just observing the art and the activity of great masters and studying ways to improve the objects that were being produced by industry at the time. Paolo, on the other hand, went to the Academy and then took a design degree. Of all his works, the weakest ones are those connected with that design education. But I see parallels in him of experience, ideals and utopia, the same idealistic vision that was there during the first years of my work. Times have changed, obviously; design has become a metastasis, but his choice of staying outside the rules of the profession and working on certain principles, like minimization of waste, have led me to share and appreciate his design ideas more and more. If I look around, I see few experiences comparable to that of Paolo Ulian. This is why I have worked on this show as if it were my show, trying to put certain concepts into focus on which I have always worked myself”. For the exhibition you worked together to design a special piece. What is it? Mari: “It’s a column that demonstrates how the marble scrap produced from the making of the curved sheets used in construction to clad modern cylindrical columns could be utilized. For each sheet a piece of scrap is produced, and usually thrown away. We wanted to show how these and other recovered pieces can be used to make objects of different types”. Ulian: “This column represents the beauty that can be made with the negative of what exists. It shows that with the same quantity of material usually used to make 200 columns, you can actually make 400”. Everyone is talking about ecological design, recovery, recycling today. Don’t you think these concepts are often abused? Mari: “It is mostly a matter of advertising, and it has nothing to do with ecology. People started talking about ecology thirty years ago, when dumps started to become mountains. The problem seemed to be the criteria and modes of their rationalization; that was how the economic tools were developed to help the mafia put down deeper roots. Another example: nuclear power stations were abolished by a referendum in 1987. A great victory, were it not for the fact that Italy has continued to depend on nuclear energy produced in France, a few kilometers away from our country. When we talk about ecological products we often forget, at least in Italy, that we are in the hands of industry, which has no ideals but only one iron rule: any production must make profits. So what does it mean, then, to intervene on ecology? We start with the premise that those who produce design in Italy work in a controlled situation, from a union standpoint, and that the result of their activity is, in any case, a product of quality. But we should not forget that to produce you have to consume energy and raw materials, whose origin and quality are hard to control. So it is impossible to guarantee that a product is ecological throughout its life. When we talk about ecological design we enter the demented realm of schools, that approach problems without understanding their complexity. To really do it you have to hypothesize radical solutions, but they belong to the realm of utopia. This exhibition certainly doesn’t claim to offer universal answers, it just underlines the fact that the only ecological project possible today is to modify the behavior of people. If the show manages to communicate this message even to just one person, it will have achieved its goal”. Between the game and the dump, a title to sum up the work of Paolo Ulian. Could you explain that concept? Mari: “In Paolo Ulian’s work I see the ethical component children have in their first phase of experience and knowledge of the world. Like them, Paolo tries to learn by doing, playing. The game represents the highest level of knowledge for children, and through play they achieve, in just two years, complete perception of the world, starting with nothing. Somehow Ulian does the same thing: he analyzes reality for what it is, develops it, amuses himself, follows different directions of investigation, some of which turn out to be valid and interesting, while others are not. The projects in the show have been split into four categories: challenging the mortal waste of the dump; minimizing scrap; reinterpreting existing objects; the game of design. The first three have to do with the ethical component of projects; the last is composed of very simple objects that shed light on the playful side of his work”. In your opinion, what is the distinctive trait of the generation of designers to which Paolo Ulian belongs? Mari: “In Europe there are now 3-4 million young design grads, half of whom will never manage to do design as a job. The rest are those who believe design is mainly a decorative activity, and then there are those, like Ulian, who look at the essence of objects with the simplicity of the designer who does not have the tools of production available to him. Their obligatory dimension, unfortunately, is self-production”. Tell us about a project by Paolo that made you assume a critical position. Mari: “We had a discussion about the ‘perforated’ bowl that in case of breakage turns into fragments that can still be used as saucers. My critique was spontaneous: why think of an object that has to be broken? Wouldn’t it make more sense to design it in such a way that it would last a long time?”. Ulian: “My aim was actually to stimulate people to look at something that is usually considered waste in a new way. To encourage them to consider what gets thrown in the trash and could, instead, be used in a new, unexpected way”. And which projects do you like best? Mari: “I immediately think of certain projects he did when he was still a student, like those with corrugated cardboard used for its natural decorative qualities, with the aim of avoiding any waste of material. I also like the container with the tool for bread crumbs, which becomes a bird feeder, because the human component of design emerges there. Or the stand for boiled eggs that uses common dishes as containers for the toast and the discarded shells: a little invention that introduces something that wasn’t there, reinterpreting an already existing object”. The choice of working with such an important and demanding personality, like Enzo Mari, was certainly a courageous one. Was it stimulating? Ulian: “I wanted Mari to have complete freedom of judgment and selection. So I accepted all his ideas and all his criticisms, even those that may have penalized projects I’m very fond of. For me, his criticisms are a very important stimulus, a suggestion on how to improve my work. For example, talking about the ceramic vases I designed, based on corrugated cardboard packaging, he said: why not use cardboard directly? So I did: I took the cardboard usually used to protect glass bottles and inserted it inside half bottles of plastic. The result was the vase in the show, so Enzo Mari helped me to improve a project and to better express an idea I had not yet fully developed”. Mari: “I am able to understand something only if I approach it from a design viewpoint. This

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reminds me of what Richard Sapper did when he was asked to be part of the jury of the Compasso d’Oro. When the prizes were assigned, together with the explanations he wanted to add recommendations to improve the projects. I cite that to illustrate the fact that a designer cannot approach a theme without doing it in terms of design. The same thing happened for Paolo’s show: our way of thinking is the same, the utopia behind it is very similar, so analyzing certain projects I could not help but get into them, and at times try to underline their limits or their possibilities for development and improvement”. - Caption pag. 42 Above, the Accadueò screen made by cutting and stacking plastic bottles, 1996. On the facing page: Enzo Mari pulls Paolo Ulian on his Sci-volante, a bathmat with fabric handles to transform it into a household toy, 2009 (photo Paolo Veclani). The exhibition “Paolo Ulian. Tra gioco e discarica” concludes the first cycle of shows of the Creative Set of the Milan Triennale, on new Italian designers. - Caption pag. 43 Above, view of the exhibit design by Enzo Mari. Foreground left, the column created by Ulian and Mari using marble scraps from the production of pieces to clad modern cylindrical columns (above, a photo of the pieces and sketches showing how they could be used). On the facing page, a product by Ulian displayed in the Minimizing Waste category: the Vago vase, 2008, obtained by stacking 24 concentric rings of marble (produced by Up-group). - Caption pag. 45 Left, decorative panel in corrugated cardboard, 1990. Above and below: from the Reinterpreting Existing Objects category, Cardboard vase, 2009, vases made by shaping the embossed cardboard usually used to pack and protect glass bottles and vases. Below, Portauovo, 2000, boiled egg stand using common household dishes for the toast and the shells. - Caption pag. 46 Above, Lint-catcher glove, 2005, produced by Coop in 2008; an arrow indicates the direction of use and a built-in hook serves for hanging on the closet rod. Below, Birdfeeder, 2003, container with crumb collector that becomes a bird feeder. Model made for Droog Design. On this page, projects in the category The Game of Design. Left, Rosae terracotta vases, 2009, Attese Edizioni.

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Schools for sale

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by Andrea Branzi Universally considered the design Mecca, Milano, Italia is also the home of the most qualified schools that train wannabe international designers. Now two of those schools have been sold by the Italians to the Americans. What’s up for the future? Some time ago, in this magazine, I remarked on the international business opportunity of design and fashion education, on the rise in all the industrialized nations. A phenomenon that doesn’t necessarily have a cultural basis, but responds to an urgent need for ‘innovation’ that permeates all areas of consumer goods, services, communication, retailing, promotion. Growing international competition forces all companies to constantly introduce small and large elements of real or apparent ‘innovation’, in technical, aesthetic, functional or commercial terms. Instead of the idea of the old rationalist design, which imagined a standardized market composed of eternal products, today we see a universal law that says “you cannot produce what already exists”, so you have to turn incessantly to the innovative energy supplied by design. This is why design is becoming a ‘mass profession’ all over the world, not to develop cultural horizons but to supply struggling industry with the energy needed to survive in a situation of globalized competition. The number of public and private schools and universities that attempt to cultivate the creative capacities of the new generations is constantly growing, not to change the world but to offer the fuel required for corporate survival. The business of ‘creative’ training has taken on multinational dimensions, involving enormous financial resources. Recently these big operators have also set their sights on Italy, which – rightly or wrongly – is considered the most prestigious design homeland. The official announcement was made right after the holiday season: Laureate International Universities (the American multinational that owns 45 schools in 20 countries, with a total of over half a million students) has acquired the Nuova Accademia delle Belle Arti (NABA) from the Cabassi family, and Domus Academy from Maria Grazia Mazzocchi, both in Milan. These two schools represent the most noble part of the Italian educational tradition. NABA is headed by Alessandro Guerriero, one of the founders of Alchymia, and Domus Academy was co-founded and directed, for many years, by yours truly; so these are two institutions that have been part of that vast phenomenon of renewal of Italian design that during the 1970s and 1980s we called “Nuovo design italiano”, whose protagonists came to these schools and offered an important contribution to the renewal of educational practices all over the world. For some time now, Domus Academy was already in the hands of managers, who ‘managed’ to guarantee its economic survival, but certainly did not ensure its growth, either in numerical or cultural terms. In other words, the process of ‘normalization’ was already happening, and the recent change of ownership is just its logical conclusion: after all, you can only buy things if someone wants to sell them. The Americans will probably speed this process along: the United States has a sorry tradition of bad design education, where design is seen as a marketing tool, and paradoxically (or maybe not) Laureate International Universities is active in many sectors, especially that of training for work in hotels and the hospitality industry: readers can draw their own conclusions from that… Design and the stock market don’t really go hand in hand: the complicated vicissitudes of the Italian financial group that recently entered this sector prove that design is not a steel mill or a factory, and teaching people how to do ‘innovation’ is very different from teaching economics and computer science, or how to run a good hotel. - Caption pag. 49 In the images: Studio Azzurro, Fanoi, 2009, video installation on the Scalinata del Popolo in Potenza, for the exhibition “Arte in transito” (summer 2009). Fanoi is a ‘Dantesque’, visionary and, at the same time, realistic work, operating on the dual level of fiction (that of artistic creation) and reality (that of the faces and narratives of the genius loci). Catalogue by Electa. Photos by Salvatore Laurenzana.

INarts

Brian Donnelly & KAWS

p. 50 by Germano Celant The universe of graffiti and the info-society are complementary aspects of a desire to make data interchange possible through a display that ranges from the wall of a building to a subway train or an electronic screen. Little wonder that the path of a generation born in the decade of the rise of graffiti, the 1970s, tends to intertwine so many apparently antithetical but complementary worlds. KAWS (Brian Donnelly), born in 1974 in New Jersey, also feeds

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Interni marzo 2010 on these cultural products and their rise as street communication and network for the spread of art in a worldwide territory, opening up boundless horizons of expression. During his trip in the world of images Brian Donnelly (KAWS) has experimented, first of all, with the external dimension of graffiti. Very young, already interested in comics and art, he was seduced by the irresistible appeal – for a kid from New Jersey – of the apparition of billboards on industrial sheds or suburban walls, and he relied on the external, secret anonymity of a tag like KAWS. He wrote his tag (often enriched with the symbol of pirates, the skull and crossbones, with a double X inserted in the eye sockets, which in cartoons is also a sign of death), based on speed of execution, articulated in lines and colors, marked by a wealth of mutations. He operated outside, in New York, in the wake of Taki 183 and Futura, Jean-Michel Basquiat (SAMO) and Keith Haring, intervening on urban surfaces and placing his tag, in ‘wild style’, on advertisements, from Marlboro to Chanel. An experience as a writer that manifests itself since 1993 and expands his visual territory, gaining him recognition in the NY graf community, along with West and Zephyr, and in 1996 he reached San Francisco, intersecting with the creative path of Barry McGee (TWIST) and the subculture of northern California. Here, he received from McGee the key to open the glass of telephone booths that contained advertising posters for fashion houses, and he made his first ad posters in the canopies of bus stops, modifying them with his imaginative, sensual, ironic interventions. An important passage for its future consequences on his procedure, because it makes everything that already exists into potential material for creative use. From that moment on the appropriation of any image, form or volume, jacket or painting, cartoon or toy, becomes possible, ready to be altered according to his interpretation. The future developments include the reworking of the Simpsons, who with KAWS become the Kimpsons, of other images transformed into Kaws Bob and Kurfs, the reformalizing of the Michelin man or Mickey Mouse, translated into Chum and Companion. But to get back to the posters at bus stops and phone booths, it is interesting to note that in most cases, from 1996 to 2002, his intervention consists in overlaying the mask of a comic, or ‘replacing’ the head, with meticulous painterly care, with a skeleton-like, flat, monochrome visage, with a comic-book image, featuring the large X in place of the eyes, like what had already appeared in the first graffito on the Marlboro poster, 1995. The fact that the mask that covers the faces of the models, in various states of dress or undress, has a barred gaze, indicates a body inhabited by an impersonal character that does not intend to show itself, but uses the XX as a logo, which like the logo of Mercedes, General Motors or Fiat becomes a sign of recognition: “I use the Xs in the same way Mercedes uses the grill on its cars... you see them appear in the rearview mirror and you already know what kind of car is behind you”. A being there without being there, using the power of fashion communication to establish an emblem that, in the end, can join other emblems, to create art products that are recognizable because they are connected with a brand, the industrial transformation of the manual tag. The leap into the world of ‘art design’ came with the Hectic brand, in Tokyo, and Hikaru Iwanaga of Bounty Hunter, the company that produces limited-edition artists’ toys. We should not forget the fact that since 1980 the world of toys has been enriched by the gadgets that go with films like Stars Wars or the Transformers, produced in Hollywood, leading to an amplification of the concept of play, including everything from the fantastic to the monstrous. It is in this cultural and artistic climate that the young Brian Donnelly (KAWS) operates when, stimulated by Hectic Clothing (1997-98), he makes an objectual choice, no longer manual but industrial. The result is Companion, 1999, a fusion of the various iconic identities of the artist. It is a ‘mannequin’, produced with the Bounty Hunter Company, specialized in toys, whose features remind us, in a sort of imaginary hybrid, of the body of Mickey Mouse with a head dissolved into the above-mentioned ‘symbol of pirates’. The 3D construction of the mannequin, a mechanical, metaphysical being, is actually the first passage from painting and graphics to sculpture, a language that takes him closer to the ‘dreamed’ experience of being able to work like Oldenburg. With respect to the production of The Store, in 1961, where the objects are still one-of-a-kind, the Companion KAWS puts into circulation is made in an edition of 500 pieces for each color, a total of 1500 units. The first sculpture is followed in 2002 by the Chum and the Accomplice, in editions of 1000 copies, that retrace the image of the Companion, enriching it with materic variations, in bronze or fiberglass. On the level of image, the Accomplice is transformed into a sweet, soft ‘bunny’ with gloves and long ears, while the Chum is clearly an interpretation of the Michelin man. Though these objects seem to ape a ‘market’ of known images because they incorporate already circulating ‘figures’ and stereotypes, transformed without suffocating or satirizing them, they indicate a possibility of incorporation that reveals KAWS’s take on the world of things. First of all, the loud exuberance of graffiti is translated here into a silent character that seems playful and pleasant, but still has a blinded gaze. In 2001, for the exhibition at the Japanese Parco department store, Kaws creates a series called Packaged Paintings, with the help of Nigo from the Japanese clothing company A Bathing Ape (BAPE), paintings that return to the idea of the Kimpsons. They are immediately followed, in 2003, by the large paintings commissioned by Nigo and the subsequent variant of the Kurfs and Kawsbob, 2009, in keeping with the line of the display of toy-gadgets, wrapped in transparent plastic packaging, to be protected and not touched when placed on sale in toy stores. With Medicom he produces Bearbrick and the sequence of his ‘toys’, also including an enlarged, inflated version of the Companion, 2002, also sold via Internet, reaching worldwide distribution, from China to Thailand, Japan to Latin America, in just a few hours. A marketing process he has systematically applied since 2002, and which with the success and creation of his line of products has expanded until the opening, in 2006, in collaboration with Medicom Toy, of Original Fake, his store in Aoyama (Tokyo), home of the multi-centers of Comme des Garçons, Prada, A Bathing Ape, Hysteric Glamour and Issey Miyake. Though he is always ready to assume – from graffiti to toys – a nihilistic attitude with respect to the snobbery and dandyism of the world of museums and galleries, KAWS, just after the experience of the advertising and fashion posters of phone booths, set to work in 2002, again commissioned by Nigo, on large canvases – like Untitled (Orange Fence), 2002 and Untitled (Chompers Fence), 2003 – on subjects that echo the ad manipulations in the kiosks, as well as the barriers graffiti artists have to overcome to leave their tags, or the Kimpsons, with family scenes in which the protagonists have their gazes covered with double Xs, or cartoon fragments, like Kawsbob or the Kurfs, 2007. Almost always in frontal views, the images are painted in a flat manner, typical of Japanese manga, and seem to want to regenerate a narrative that has become obsolete, out of time. Giving comics a new face, the artist seems to try to update their past, which can no longer be playful and lyrical, but has to also be frightening and deadly: thus the mask with ‘stitched’ eyes that do not look outward, but inward at their own histories, shunning the presence of the ecological catastrophes that transform the human figure into a mass of black smoke (Limited Time Only, 2006), into skeletons and monsters (Untitled - Pink Skeleton, 2007), motifs that in the end converge in nasty, violently colored scenes where the world seems to crash down on the protagonists, from The Long Way Home to Gatekeepers

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to Floating the Rumors, 2008. In other paintings the main feature is the illustrative character of the story, which also includes figural narratives of the ‘actors’ dear to KAWS, like Original Fake Companion. In the context of a globalized society where networks contribute to create meaningless things, apart from the pure urge to communicate, perhaps all that is left is to talk about the null and void that lies in the gaze, symbolized by those two Xs that seem, by now, to belong to a blind universe inhabited only by brands and logos: a world of death. To go beyond the surface of the character, to represent absence and emptiness of a worldwide media communication, but also to show how any aesthetic product, today, cannot help but represent a failure of art, which has not been able to change the world. A self-realization, like KAWS, in the nothingness of a cartoon or a comic that seems to bear witness to a single hope, that of approaching through a language of known but reworked images, from the Kimpsons to Companion, an audience of kids and strangers, who in a world of non-existence can mutate and start to exist, conscious of a skeletal, mortal social and communicative situation. - Caption pag. 51 On this page: Beautiful Losers, 2005, acrylic on wall, Orange County Museum of Art, Newport Beach (California). On the facing page: Curtains, 2008, acrylic on canvas (68 x 86 inches). - Caption pag. 52 On this page, from left: Untitled, 2002, acrylic on canvas mounted on panel (20 x 16 inches); Companion, 2006, vinyl (height 48 inches). - Caption pag. 53 Left: Package Painting, 2001, acrylic on canvas (18 x 22 inches). Small M Landscapes, 2001, acrylic on canvas (48 x 48 x 1 1/2 inches ).

INprofile

Roberto Sambonet: nature, the good form

p. 54 by Matteo Vercelloni A path of study of reality, in an interdisciplinary approach, where design is the sum of artistic and figurative sensibilities, to investigate the visible structure of things. Roberto Sambonet (1924-1995), painter, graphic artist and designer, teaches us to look carefully at objects. His creations contain stories, quotations, cultures, geometries, discovered in the world around us. From the family setting that surrounds him from early childhood, Roberto Sambonet seems to absorb three fundamental factors that accompany him throughout his life, from the years of training to those of artistic and professional maturity. From his father, Guido, one of the founders of Sambonet Spa, a manufacturer of flatware and tableware, Roberto learns about the factory, ways of working with metals, the rationality of products; from his maternal grandfather, Francesco Bosso, he learns the central role of art as a tool of investigation of reality; from his uncle Vittorio, an explorer in China, he learns the importance of the ‘voyage’ as a factor of knowledge. These three reference-guides are reflected in the process of his formation: after entering the architecture department, in 1942, at the Milan Polytechnic, a course of study abandoned one year later in favor of painting at the Brera Fine Arts Academy, Sambonet continues his artistic education in Bergamo, where in 1946 he attended the fresco courses taught at Accademia Carrara by Achille Funi. In this period he begins to show his paintings, before setting off in 1948 on a trip to Brazil that becomes a path of training, refining a method of observation and work marked incisively by the nature of that country – a synergic unicum of human and cultural, geographical and botanical landscape – and by his encounters with Lina Bo and Pietro Maria Bardi, involved at the time in the development of the Museu de Art of Sao Paulo. Nature and art, knowledge of the works of Max Bill and Paul Klee, through Bardi, together with those of Brancusi and the Neo-Plasticists; time spent with Oscar Niemeyer, Lucio Costa and the landscape designer Roberto Burle Marx, make his five years in Brazil a period of intense growth for Roberto Sambonet. To understand his design we need to understand the method behind it: a method that differs from the profile of the Italian designer of those days, because Sambonet’s training is not that of the architect, but that of the artist. In Brazil, away from the figurative culture of domestic space, Sambonet encodes his own formal universe where the ‘subjects’ studied are leaves and branches of the tropical forest, crafted everyday objects, the light and the waves of the sea; in substance, the reality around him. A reality investigated through the tools of drawing, painting and graphics, to be ‘taken apart’, purified, summed up in the effort to reveal the underlying structure, the lines of reference that can be used for other compositions, including design. A compositional procedure that reminds us of the one formulated in the series of etchings (1945-46) by Pablo Picasso on the figure of the bull, distilling forms and physiognomy to reach the point of tracing a system of abstract, essential, lucid lines: a perfect ‘structure’. But for Sambonet this method is not aimed only at ‘experimental painting’; it also moves toward portraiture of persons or fruit, where the figure is broken down into clear, precise lines, the same lines found in his design. The faces painted by Sambonet, the objects, the fragments of nature are like his landscapes, sharing the effort to achieve and discover the hidden structure of things. From this viewpoint drawing and painting, graphics and design are different modes of interpretation and restitution of the same complexity, that of the nature that surrounds him. Compositional manifestations that start with the same experimentation, with their own artistic autonomy, but always leading back to a single project, as seen in the exhibition on his work curated by Enrico Morteo for Torino World Design Capital in 2008 (Roberto Sambonet, designer, grafico, artista, Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica, Turin, 8 April-6 July 2008, catalogue Officina Libraria Editore). It is easy to fall into the trap of putting ‘Sambonet designer’ into an improbable minimalist current in nuce, if we do not fully understand the complete work of this outsider of Italian design for whom every object, rather than being conceived as a product, is part of a process of interpretation of reality. In this sense the objects of Sambonet, if we observe them carefully, contain stories, citations, cultures, geometries discovered under the skin of things. Going beyond the functionalist approach, the rationalist position and the idealistic spirit bent on finding a golden proportion of the world that can be used as the abstract basis for the production of new, harmonious forms, Sambonet proceeds by trial and error, approaching the physical sense of things in a skillful combinatory design game. In his studies on botanical forms Sambonet captures the detail of the connection of a leaf to a stem, as the solution for the handles of flatware; the ink drawings that analyze the reflections of the sea ‘translate’ into modular steel triangles (‘appetizer triangles’, 1966, Sambonet) or ashtrays for Baccarat (1971). A theory on the use of space and a pursuit of rules can be seen in the Center cookware, a mini-system that combines a frying pan with a steak grill, also used as a cover; in the stackable glasses (Empillage, for Baccarat, 1971) and the Center Line series (1963-65, in production under the Sambonet brand in 1971), where eight stainless steel vessels that fit together correspond to oven dishes with the same diameter that can also be used as lids or as trays. The Gravel Craters for the banks of the Ticino at the bridge on the Milan-Turin motorway, captured in ink and charcoal in 1969, may be the starting point for research on emptiness and fullness that leads to the famous Bol à Caviar, the Tir Bar

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glasses, the vases of the Préhistoire series (Baccarat, 1971 and 1977). While the study of an oyster as a sort of objet à réaction poétique, a reminder of Le Corbusier, translates into a small crystal dish with fractal geometries (Huitre, Baccarat 1987). All products offered, to a great extent, in packaging designed by Sambonet himself, created not to conceal but to display, or even to ‘reveal’ the value of its contents. In this free, skillful game of connections, Sambonet replaces the practice of citation with that of the cataloguing of ‘materials’ with which to construct new realities; the design of a table setting for Ginori or Baccarat, or the study for a photographic set (Rst Set, 1974), reflect constants also found in an urban planning project for a neighborhood. This is “making architecture”, he says. And on the subject of his Pesciera, Compasso d’Oro 1970, seen in museums all over the world, he says: “the Pesciera came from the study of nature, not as imitation, but as an example, to be surpassed”. - Caption pag. 55 From the top: study for the composition of a photographic set for the RSt Set cookware system, ballpoint pen on paper, 1974, Archivio CSAC; antipasto and vegetable dish in steel with modular sectors, Sambonet, 1975; appetizer triangles, stackable containers in stainless steel, Sambonet, 1966. On the facing page: self-portrait of Roberto Sambonet, 1962; detail of the Pesciera in steel, Sambonet, 1957 (Compasso d’Oro prize, 1970). Perhaps the most famous creation by Roberto Sambonet, it is displayed in museums all over the world (photo Archivio Roberto Sambonet). - Caption pag. 56 Clockwise from top: Baskets, ink on paper, 1952; Botanical forms, pencil on paper; study for Metron flatware, pencil on paper; Diagonale, crystal ashtray, Baccarat, 1971; Cesto, spherical wicker bag, produced by Vittorio Bonacina and distributed by La Rinascente, 1951. - Caption pag. 57 Above: Empilage stackable glasses with concentric section, Baccarat, 1971; Center Line cookware system in stainless steel, 1963-1965 (Sambonet 1971). Directly above: Tir Bar glasses in crystal, in different sizes, Baccarat, 1971; Serie Préhistoire crystal vases, Baccarat, 1975-77.

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Mirror Geometries p. 58 by Nadia Lionello - photos Efrem Raimondi Magical results of reflections and forms in which the mirror is an opportunity for selfknowledge, to discover and improve one’s looks, to glimpse an unexpected detail before going out, or for a fleeting moment of narcissism. An indispensable decorative element for self-esteem and for believers in the geomantic arts. - Caption pag. 60 Colombina, mirror with organic form, swiveling in a frame in white, red or black colored glass, 80x72 cm, by Doriana & Massimiliano Fuksas for Alessi. Mirror from the Marie Antoinette Pop collection, based on French 18th-century interiors, with frame and knobs in white painted MDF or domestic walnut, 86x80 cm, by Sam Baron for Casamania. Radar container in smoked or glossy painted oak, in three heights and widths and two depths, with glossy or matte painted open elements, combined in four different compositions, with wiring channels for stereo systems, by Piero Lissoni for Cassina. Gondola dell’amore, made by Lladrò in a limited edition of 3000 pieces, in hand-painted worked porcelain. - Caption pag. 63 Large size for the mirror with silkscreen decoration from the Sweet collection, diameter 150 cm, by Paola Navone for Gervasoni. Brillante 03 from the series of mirrors in shaped glass with engraved decorations, diameter 80 cm , by Alessandro Mendini for Glas. Chef mirror with natural, green or orange aluminium structure and undulated border. Also equipped with RGB lighting to create a circle of light in the space between the mirror and the structure. Diameter 80 cm, by Marco Merenda for Rapsel. Twin chair by Piero Lissoni for Living, covered with Bettina cotton print fabric from the 2010 collection by Rubelli. - Caption pag. 65 Penthouse mirror sculpture with stainless steel frame, inner surface colored pink, green, blue and multicolor gray scale, 90x15 cm, by Marta Giardini for OC Opinion Ciatti. Reflecting surfaces fragmented by inclined component modules on sheet metal supports for the Fittipaldi mirror, 90x90 cm, by Giovanni Tommaso Gattoni for Tonelli Design. A modern interpretation of the classic bergere, the Dion chair is made by Minotti with a solid wood structure, polyurethane filler and removable fabric or fixed leather cover, with lower back cushion filled with goosedown. Design Rodolfo Dordoni. Circle mirror from the Gallery collection, with transparent or fumé frame, in 6 mm curved and profiled glass, 81x81 cm, by Marco Acerbis for Fiam. - Caption pag. 66 MotherBoard, composed of bonded glass panes with internal laser-engraved mirror, by Romolo Stanco for Edizioni Galleria Colombari. Sheesha set of mirrors with 3, 5 or 7 elements, with silkscreen patterns based on traditional Indian stitching, mounted on supports to permit free movement of the elements. By Doshi_Levien for Moroso. Zeiss extralight ground and chamfered mirror, crafted by hand, with frame in white painted wood or fabric effect in the colors chestnut, sand and hemp. Part of a series of three mirrors of different sizes, 80x78, 104x92 and 156x151 cm, by Luca Nichetto for Gallotti&Radice. Flowers tables in three different sizes, forms and heights, with structure in black painted or shiny chromium-plated metal and matte painted top, by Roberto Lazzeroni for Lema. La Primavera, candelabra from the series Le quattro stagioni, in biscuit porcelain. Reproduction of the original from the historical archives of Richard Ginori 1735. Metamorphic design p. 66 by Nadia Lionello Marble and stone rediscover new aspects through avant-garde processes and technologies and new design ideas. The original sturdiness and composition of the material is transformed into new, unique characteristics by mass production. - Caption pag. 66 Oceano, modular 30x60 cm elements for the facing of indoor and outdoor walls, made in Sarnico sandstone worked with CNC and waterjet milling machines. Designed by Denis Santachiara for Ghirardi. - Caption pag. 67 Swell LED lamp-sculpture in white marble, or other marbles and colors, composed of 12 elliptical concentric rings, worked with the waterjet technique, and acrylic shade. Designed by Setsu & Shinobu Ito for the Bianco Luce collection of Luce di Carrara. Micene collection of lamps with painted metal structure, blown glass shade, support of the attachment of strips in white 3 mm alabaster or other stones. Designed by LucidiPevere for Ca’Belli. Extruded table 3 in extruded striated Olimpico marble, designed by Marc Newson and made in a limited edition of 10 pieces by Furerr. Courtesy of Gagosian Gallery, photo Giorgio Benni. - Caption pag. 68 LP1 lamp in gold Calacatta, white Carrara or Belgian black marble, with CNC work and shiny handmade finish. Designed by Raffaello Galliotto for Serafini Marmi. Stump table in white Carrara marble, 36x30xh45 cm, batch cut, polished and treated against stains. Designed by Pierre Charpin for Ligne Roset. Ponte low table in

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white Carrara marble, 150x50xh35 cm, made with CNC workmanship, matte polished finish. Designed by James Irvine for Marsotto Edizioni. Cubo tile in white Carrara marble with CNC milled decoration, which can be reproduced on different types of marble. Designed by Raffello Galliotto for Lithos. Sunshare outdoor seat made with cutting-edge technology by Tor Art, in 12 pieces, from a single block of white Carrara marble with hand-polished finish. Design Emmanuel Babled. - Caption pag. 70 Hole wall module, 210x115xth14 cm, from the Materia line, made with the CNC technique using solid pieces of hand-finished Calacatta marble. Designed by Corcione Tinucci for Anzilotti Marmi. Haussmann round or oval table in white Lasa marble with turned base and perforated grid top with matte finish, and top cover in transparent extraclear glass. Designed by Franco Poli for Matteograssi. - Caption pag. 71 Rugiada slabs of white Carrara marble, 25x50 cm, with relief decoration created with sandblasting, brushed finish, produced by Q-bo. Volume in perforated, hand-polished Pavonazzetto marble from the Solidi Platonici collection. Designed by Franco Poli for Palmalisa Zantedeschi. - Caption pag. 72 Bronze Murales, composition made with slate sheets in the sizes 3, 4.5 and 6x20 or 60 cm, with natural finish. Produced by Artesia. Saturnia double suspended sink in gray Tunisian marble, hollowed with CNC technology from a single block, with vanishing drain system, from the Saturnia collection. Designed by Philippe Nigro for Bipa Marmi. Caso vase in white Carrara statuary marble and gray Bardiglio Nuvolato, worked with a lathe with fine polished finish. Designed by Matali Crasset for Up Design. - Caption pag. 73 Infinito milled sheets of Piombo or Avola stone, Crema d’Orcia, Avana or white Carrara marble, Botticino or Travertine, 30x60 cm, Alfredo Salvatori. Dry column washstand in Crema Marfil marble, lathed and milled, polished and waxed, with upper grafted border in Ebano marble. Designed by Enzo Berti for Decormarmi.

INproject

Designing Clouds

p. 74 by Stefano Caggiano A strange mixture of presence and absence, the new material of design, for objects with an indistinct image. Like clouds dense with information but rarified in form, expressing the sensibility of the digital era and the ongoing contest between the real and the virtual. Objects can do this too: disappear. Whereas traditional design meant giving form to a material ‘hardened’ by the depth of the time and culture on which it was based, today’s design works with a slippery material character, liquid, hard to fully grasp, where permanence is a negative value. The form of objects becomes fuzzy, and material takes on the consistency of a mixture of presence and absence, perfectly illustrated by a project like the Andrew lamp by the Russian former hair stylist, now acclaimed designer, Dima Loginoff. The same sensation hovers in the Aria seat by Fabrizio Batoni for Esedra, whose stringy form captures the webby aesthetic of the age of the Internet, and in the Growth bench by Eli Gutierrez, whose organic soul sets up a balance of delicate tensions in metal tubing, for both indoor and outdoor use. But the object that challenges the nebulous physical character of things with the greatest iconoclastic force, perhaps, is Springtime by the Eindhovenite Frank Winnubst, who pretends to take the form follows function maxim seriously, stripping down the springy insides of an armchair to generate an aesthetic language and virtuous perceptions. In general, we are looking at a growing interest of design in ‘smoky’, not exactly definite forms, conveying the attempts of designers to contain/liberate the strange stuff of which the early 21st century is made. Ours, in fact, is an era of cloud computing, of info-electronic devices that are no longer mere ‘containers’ of information, but points of access to the web, or actually to the ‘cloud’ of data and applications distributed remotely, that users no longer have to own, but can just use when required. This evanescent tactile quality is what design has to come to terms with today; this ‘gas’ of bits that group to form images and functions. The project Neverending Evolution by Luca Nichetto, for example, is an endless system of seats, tables, dividers – the initial idea dates back three years, to the Andreoli workshop in Brianza, which asked designers to take DuPont Corian composite to the limits of the possible – that leaves room for the new poetry that emerges from the ongoing disappearance of reality. But designing emptiness can also mean designing without signs. The C-Lounge fiberglass seat, also by Loginoff, inspired by lilies, and the Odalisque resin bench by Pryor Callaway (a young designer from Mississippi based in New York), find a compromise between the form things cannot have and the light mass of matter freed from the sign, which tends to swell like a cloud and emanate its own form from within. An aesthetic approach also visible in the work of another designer working in New York, Jason Phillips, who has chosen the name Cloud Seating for his project of seats in fiberglass. It may be true, then, that designers, once builders of reality, are now accompanying us toward its disappearance. But design seems to be telling us that this process does not coincide (as the apocalyptic aesthetes have hastily opined) with the substitution of pieces of the real with pieces of the virtual, but instead with a schizophrenic alternation of dense and rarified zones, generating a proto-design energy that does not have ends to be achieved, but obtuse rigidities to be abandoned, like the imagination of children that shapes clouds, creating magnificent, temporary ‘design’. Hamlet: Do you see that cloud, that’s almost in shape like a camel? 
Polonius: By the mass, and ‘t is like a camel, indeed. Hamlet: Methinks, it is like a weasel. Polonius: It is backed like a weasel. Hamlet: Or, like a whale? Polonius: Very like a whale. (Shakespeare, Hamlet, Act III, Scene II) - Caption pag. 75 Lower right, the Growth series by Elisabeth Gutierrez, composed of furnishing elements for indoor and outdoor use, made with curved, welded steel tubing. The organic though extremely essential lines reflect the idea of “bringing nature into the home”, applying its aesthetics to furnishings for everyday use. Below, the Andrew lamp by Dima Loginoff. The form is obtained by stacking plastic and steel rings, alternating with gaps. The whole evokes both the presence and the absence of a traditional table lamp. On the facing page, the Aria Chair by Fabrizio Batoni for Esedra, created not by subtraction, but by addition of elements. The structure in drawn steel for outdoor use and epoxy-coated iron for indoor use is made with numerically controlled machines, while the pattern of thread is assembled and welded by hand, making every piece unique. - Caption pag. 76 Above, the Neverending project by Luca Nichetto, presented by Andreoli. A slender, endless ribbon of DuPont Corian materializes in a system of seats and tables and a modular display partition. The project comes from an idea shown three years ago in the exhibition I Have a Dream, organized by Andreoli. Above, the Odalisque project by Pryor Callaway, an object with Brancusian forms made by moulding a white resin laden with white marble dust to make the skin of the object more ‘tactile’, similar to that of a true sculpture. - Caption pag. 77 Below, the Cloud seating collection designed by Jason Phillips, composed of spheres that intersect in different ways. Made with moulded fiberglass, the seats can be used indoors or outdoors, and come in a range of different colors. Center, the C-lounge concept by Dima

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Interni marzo 2010 Loginoff, based on the form of the lily. In Corian or fiberglass, the seat develops in pure, ideal or seductive shapes, like a flower. Below, the Springtime project by Frank Winnubs, a cubical seat entirely composed of springs, with covering only for the upper layer.

Changing fields

p. 78 photos Miro Zagnoli - text Odoardo Fioravanti Soccer, tennis, basketball, track and field. These are the scenarios proposed by Marco Ferreri with Sports, a line of carpets made by Regenesi with the rubber usually used for playing surfaces. A paradox that transforms the use of a material, bringing an outdoor image inside the home. Some say it takes guts to be a designer and approach the future, working on what doesn’t yet exist and should – perhaps – exist. The designer takes an assertive role on the borderline between the known and the unknown, with the brash boldness of those who are secretly insecure. Every time he makes a new object appear he reasserts reality, reinforces the three-dimensional nature of things. This reflection comes to mind looking at the new work of the Italian master Marco Ferreri for Regenesi, a company founded in 2008 by Maria Silvia Pazzi with an ecological vocation, specializing in the use of recyclable and post-consumer recycled materials. The product is Sports, a series of carpets made with the rubber usually used for synthetic playing fields. Right: the kind you can remember slipping on during Phys Ed sessions, with predictably painful results… Ferreri’s idea is bright: to use the colors and stripes typical of playing fields, in such close shots as to make the connection less obvious, but just as vivid. The lines, which on playing fields represent the confines of the space and the areas indicated by the rules, lose their meaning in the home, in a much less regimented game. So in the middle of the living room we can find a few square meters of the Davis Cup, or a scrap of Stadio Meazza. Ferreri samples reality, a bit like Joseph Cornell: he gathers scraps and transports them out of their places, demonstrating the evocative power of a color, a sign. This already beautiful project then meets up with the lens of Miro Zagnoli to complete its virtuous cycle, narrated with zenithal shots in which, suspended over the carpets, we see the equipment typical of the games people play. A racket floats over the tennis court, a segmented ball flies over the basketball key, a soccer ball stands out against the synthetic pitch. A Dada-like intent to cut out pieces of material reality and frame them, changing their function, shifting their place and time, to then photograph them and narrate them again. Like folk tales, passed down from generation to generation. Repeated, reinforced, making them even more true, if possible. - Caption pag. 81 Designed by Marco Ferreri, the Sports carpets are made by Regenesi in Sportflex, a special blend produced by Mondo using rubber recycled from in-house scrap taken from previous manufacturing. The carpets come in five variants, each for a specific sport, in the sizes 240x180 cm, with a thickness of 4.5 mm.

Freely asymmetrical

p. 80 by Maddalena Padovani The new era of wall-mounted systems. Three bookcases, three companies, three different design principles, with one forceful, innovative element in common: the dividers for variable positioning on the shelves. The result: increasingly airy, graphic, versatile structures that adapt to all kinds of uses and create personalized geometries. Inori - The idea of glass brings to mind sculptural, monolithic furnishing objects. With Inori, the new product presented by Fiam Italia at the beginning of this year, the material is translated – for the first time in the history of this Pesaro-based firm – into a system of bookcase components, freely assembled elements to respond to the aesthetic and functional requirements of the user. The system is designed by Setsu & Shinobu Ito, and it is their third product for this historic company. The Japanese duo expresses all the distinctive features of their characteristic cultural mediation between oriental symbolism and occidental pragmatism. The former also leads to the name of the bookcase itself, Inori, which means prayer in Japanese: an action represented by the wing form of the upright, a reminder of the position of hands joined in the act of receiving, giving, thanking. The wing-shaped upright also forms an innovative structural principle. Its sculptural transparency conceals an aluminium section, at the ends, that permits attachment and free sliding on the track inserted in the glass shelves. Able to intervene in multiple compositional variables – the position of each post, the distance between posts, the number and size of the shelves – users can choose the best configuration for their needs: a bookcase, but also a display fixture, a storage unit, a TV stand, in freestanding or wall-mounted solutions. “Our projects are always based”, says Setsu Ito, “on the pursuit of interaction between the user and the subject, the user and the environment. We hear a lot of talk about flexibility and modular design, but these principles are not always guided by a precise formal idea that gives a full sense to the free interpretation made by users. The Inori system, instead, is based on an element that is very simple but also forcefully identified as a sign. The bend of the glass upright gives strong personality to the bookcase and, at the same time, has a true function in terms of strength and stability. For us, the form of an object never comes from a single sign, but from the relationship that develops, case by case, in different ways from situation to situation, among the various parts, and between those parts and the surrounding environment. We’re not interested in designing objects with mere aesthetic and functional value, we want to design the action that happens around those objects”. Sequence - It’s no secret that Patricia Urquiola prefers to design single furnishing objects rather than systems. This is borne out by the fact that there are no kitchens in her otherwise well-packed design portfolio. Yet that is definitely her name on the new Sequence component bookcase with which Molteni & C. is updating its product offerings for the living area. You can tell, in any case, that this is something new and different with respect to traditional rationalist wall systems, thanks to two fundamental details that give this bookcase a sense of extreme lightness: the absence of lateral uprights and the free symmetrical or asymmetrical arrangement of the dividers. The design exploits the technological know-how and solutions already developed by the Giussano-based firm to outfit their wardrobes with self-supporting walls. The Spanish designer’s job was to translate those solutions into a product that can gracefully take its place in the living room, forming airy, freely personalized geometries on the wall, including closure and storage elements where required. The innovative structural principle of Sequence is the free positioning of the dividers, with a thickness of 8 mm, much thinner than the ones usually found in this type of product. The shelves and backs are free of perforations; attachment of the structure happens behind the unit, eliminating visible hardware. In this way every single compartment can be divided and ‘designed’ according to the specific requirements of the user, but with a light touch that minimizes the structural bulk of the whole while offering a recognizable graphic presence on the wall. The absence of sides emphasizes the sense of lightness of the compositions, in which only the

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horizontal line of a thick beam stands out. Besides visually dividing the space of the bookcase, this element permits the sliding of doors in different materials, like silkscreened glass or perforated steel, whose geometric motifs and textures become lively decorative surfaces. Likewise, the dividers can be selected in the perforated laminate version, inside which LED lighting fixtures can be installed; a theatrical, luminous presence, rigorously high-tech, they become highly characteristic elements of a product that interprets the concept of the system with contemporary spirit and grace. Tok - Produced by Cerruti Baleri, the Tok modular bookcase marks the debut of Benedetto Quaquaro as a solo designer (for the same brand, last year, he designed the Scalo table-ladder, but under the name Beoc). But this is not his professional debut. The Ligurian designer has twenty years of experience in the field of industrial design, clearly demonstrated in the technical concept of this apparently simple, almost elementary system that actually makes a clean break with the past, in a collection of single pieces with a strong identity. Tok is based on the use of a single post in extruded aluminium, a T-section that when combined with wooden shelves in just five lengths makes it possible to create simple and detailed, symmetrical and asymmetrical compositions. The post is also the modular bookcase’s aesthetic signature: its essential presence becomes a graphic sign for free composition on the wall, which tends to disappear when the shelves are filled with books and objects. “The idea”, Benedetto Quaquaro explains, “was to make an ‘on demand’ product, a service that can easily be used by the consumer while obeying a rational logic of production, stocking and shipping, allowing the company to rapidly respond to the requests of clients”. The main characteristic of the system is that it is composed of a very small number of parts that make the load-bearing elements independent of one another. This means that Tok is constructed in modules, without structural sides or full-height ties: each module is self-supporting and double-face. Assembly is done by positioning and attaching the posts to the shelves: with the hardware and tools supplied in the kit, anyone can assemble, knock down and reconfigure the composition, adapting to new needs. Thanks to its flexibility, the modular system permits creation of a range of product typologies: from small columns to large wall shelving, bench configurations to center-room partitions. New parts, materials and colors are also being developed to expand the range of possible applications of Tok. - Caption pag. 81 Produced by Fiam Italia and designed by Setsu & Shinobu Ito, Inori is a modular system of glass elements. The structure for the bases is available in three lengths (120, 180 and 240 cm) with a depth of 35 cm, in the finishes extralight white back-painted and fumé black back-painted or silver-plated glass. The shelves come in four sizes: 60, 90, 120 and 180 cm, depth 35 cm. Available in two different heights (32 or 42 cm), the uprights can be freely positioned thanks to a system of anchoring and sliding on a track applied to each individual shelf. The compositions can reach a maximum height of 130 cm, in the self-supporting structures, and 180 cm in structures attached to the wall. - Caption pag. 82 Designed by Patricia Urquiola and produced by Molteni & C, Sequence is a component bookcase characterized by the absence of lateral posts. It has a thick beam on which doors can slide, in different materials like perforated steel in a range of finishes, wood, painted surfaces with original colors or glass silkscreened with geometric motifs. The structural shelves and dividers are covered with painted aluminium, adding solidity to the entire bookcase, even when very wide modules are used. - Caption pag. 84 The Tok modular bookcase produced by Cerruti Baleri and designed by Benedetto Quaquaro is composed of a post in white painted extruded aluminium, shelves in white painted wood (length 100, 150, 200, 250 and 300 cm, depth 36 cm), and bases in black painted steel with adjustable feet. Assembly is done by positioning the post, connected to the shelves with supplied hardware, using the simple tools in the kit. The maximum interval between two elements is 200 cm, while maximum overhang at the ends is 50 cm.

Objects backwards

p. 86 by Stefano Caggiano Working under the name Freshwest, the Welshmen Marcus Beck and Simon Macro express a design of the short circuit and the oxymoron in their products, proposing objects capable of feeding the contradictory emotions that dwell inside people. Today we make design for the same reason artists make art: not to make things ‘pretty’ but because in a post-industrial, post-ideological society, lacking in meta-narratives and full of technological performance, the sense of things doesn’t live on the present, but on its potential. Turning out objects like merrily contradictory signs seems to be the very serious game played by Marcus Beck and Simon Macro. Since 2005 the two designers have worked together under the name Freshwest, a studio located in Pembrokeshire, Wales. Right from the name, the idea is to express an oxymoron that often catches those who try to convey, in the century of dematerialization, the old, heavy, deep Occident, cradle of a civilization that has always denied and at the same time exalted matter, art, form. The wooden lamp called Brave New World says it all: precisely balanced between the serious and the wry, the object develops in the air “without a plan or a project”, to insert itself with icastic force in the Moooi collection, always impeccable in perpetrating linguistic disorientations. The same wooden meccano logic is also applied to the table, in an aesthetic palafitte stretched between the organic past of the earth (the wood of trees) and the precision of mechanical construction – but assembled in a random way, like the knotted branches of some post-natural tree, or a pre-technological scaffolding that rises majestically to the sky. From the aerial perspective the return to earth is kept at a distance, with the You Are Here table, in which the visage of the territory becomes a graphic cobweb set up on the transparency of the top. Graphics also come into play for Inside-Out (Elle Decoration 2007 prize), a cabinet in industrial aluminium whose inner signs (shelves and objects) become decoration for the outer skin, a veritable x-ray of design that amuses itself by short-circuiting inside with outside. The short circuit is a key term for understanding Freshwest, and once they’ve found the route they continue, all the way to the gorgeous Scaffold, a structured void composed of 3500 segments of gold-plated tubing, ideally resting on the countenance of a 19-century Chinese vase, which in the interpretation of Beck and Macro expresses a sophisticated phenomenology of being and appearing that removes itself as presence only to manifest itself as absence. The game, then, is one of opposites, and of the tension between them that becomes energy and meaning for design, which when necessary is not above ‘photocopying’ the earth itself, obtaining a cast of the dunes of a beach to create a fruit tray in fiberglass, For Two Hours Only, on which the date, time and place of the casting are indicated. The Contemplates set also bears the date and time of real events, always different, transformed into graphic decoration. So from project to project the Freshwest due scatter objects in the world that could easily be their opposites, because front-line design doesn’t want to be gratifying but nourishing, putting the accent not on what it resolves, but on the doubts it can raise. To light up the contradictions that keep people alive. - Caption pag. 87 1.

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Marcus Beck and Simon Macro, founders of the studio Freshwest, located in Pembrokeshire, Wales. 2 .7. The Brave New World adjustable lamp and table, made with solid oak pieces assembled without a precise initial design, simply by following the structural necessity of limiting the size of the wooden parts. The lamp is distributed by Moooi. 3. Composed of 3500 pieces of gold-plated stainless steel, the Scaffold vase gets its form from a 19-century Chinese vase. The water is contained in a small transparent tub placed at the base of the structure. 4. ContemPlates, set of eight plates in bone china, each with a different image, selected from over 200 shots of anonymous passers-by. 5. Winner of the Elle Decoration Design Award 2007, the composite aluminium wardrobe Inside-Out plays with the idea of decoration, reversing outside and inside, using the latter as the decorative theme for the outer surface of the object. 6. For Two Hours Only, fruit tray in fiberglass made by casting (for two hours) a 30x30 cm area of beach.

INview

Destined to dissolve

p. 88 by Laura Traldi Here today, tomorrow who knows. Alongside interest in recycling there is a growing focus on organic, biodegradable materials. The pros and cons of a design that vanishes without a trace. It’s almost scary if you think about it. It takes a thousand years for synthetic plastic, derived from petroleum, to decompose. When it gets incinerated, if it contains chlorine it releases a toxic gas, dioxin. Of course there are some plastics that are easy to recycle, like PET. But for others, the process is more expensive than using new material. Then come the numbers. 100 billion kilos of plastic produced every year in the world; 2 billion plastic bags used and immediately thrown away every month, in Italy alone (their disposal produces 200,000 tons of CO2); 16 million tons of food packaging. And so on. Everyone knows that an alternative to plastic exists. It’s called bioplastic and it comes from raw vegetable materials like starch or flour from corn, wheat or other cereals. It is made, used and disposed of, and in a few months it’s gone, transformed into fertilizer. But today, CNN reports, on 0.25 percent of the plastic used in the world is biological. An unjustifiable scenario according to research conducted by the University of Utrecht, showing that 90% of polymeric materials could technically be replaced by bioplastic. Research in the design sector on the use of biodegradable materials has been slow in coming. Though already, back in 1940, Henry Ford took an axe to a car door made with soy-based material to prove its sturdiness, we had to wait for the year 2000 to see the first effectively ‘designed’ biodegradable product-icon: the Moscardino by Giulio Iacchetti and Matteo Ragni for Pandora. Today, though, ten years later, biodegradable finally seems to be taking off. At the last FuoriSalone, the Swedish firm Södra showed the Parupu children’s seat designed by Claesson Koivisto Rune in DuraPulp, a mixture of cellulose and PLA, an organic plastic; while at the latest edition of MADE, Teknai proposed a wall covering in biodegradable salts and resin. For its new eyewear collection JPlus, the Padua-based company founded by a group of designers and graphic artists, opted for a case in MaterBi; likewise, Moroni Gomma has announced that it will distribute the Wasabi products, table accessories by Shinishiro Ogata made in reed fiber, bamboo and leftover materials from the processing of sugar cane. Cardboard is also very popular, with the furnishings by Philippe Nigro for Skitsch and Studio Job for Moooi, along with paper, like the Cloud divan by Tokujin Yoshioka for Moroso. From the most bizarre ideas, like the container made of coffee grounds by Japan’s Ryohei Yoshiyuki or the ceiling decoration in sugar by Mariee van der Bruggen, to more useful things like the biodegradable coffin by the English company Arka, or technological visions like that of Gert-Jan van Breugel with his bamboo cell phone, biodegradable products are all the rage among designers today. But how much impact does all this have to protect the environment? “It’s normal that designers are attracted by the idea of working on projects that respect the planet”, says Giulio Iacchetti. “But the passion for ethical design doesn’t have to go together with a rigid attitude. Biodegradable things make sense above all when they are used to produce objects for quick use and disposal. Of course De Fusco was right when he said that all the objects we produce are disposable, and that what changes is the quantity of time during which we use them. This is why today the possibility of easy dis-assembly and recycling of individual parts of a product is practically a design constant. But frankly, does anyone care if a piece of living room furniture is completely biodegradable? I don’t think so”. So every project has its own most ecological solution. This is why when Martini asked Iacchetti to think about a new broom for the mass market, the designer decided to make it out of a mixture of traditional plastic and sawdust. “The biodegradability of the object, in this case, was less important, in my view, than the possibility of polluting less during the production process, given the life span of the product. And this choice allowed us to use a much smaller quantity of plastic”, he says. In other cases, though, like that of the ice cream spoon designed for Grom (for upcoming release), the use of a biodegradable material is a must: to be in line with the philosophy of the company, that produces only with organic ingredients, and due to the disposable nature of the object. “These are not choices to be made in a superficial way”, Iacchetti explains. “Bioplastic is not a simple substitute for traditional plastic, and it involves some real challenges in terms of design and technical adaptation. It is sensitive to humidity, for example, so to make it stiffer you have to make things thicker. But the increase in material can lead to higher prices”. In the case of the Grom spoon, the ‘happy medium’ was found with a C and H shaped section of the structure “to guarantee the necessary solidity and minimum use of material”, Iacchetti explains. “Though an object produced in millions of units, destined to be thrown away, can be very negative for the environment, today it is clearly simpler and less costly for companies to use petroleum by-products instead of bioplastic”. Those who decide not to use them, in short, have to be motivated by something more than a desire for easy profits. “Things would certainly change if consumers started to demand biodegradable materials where it really makes sense to use them: in disposable products”, Iacchetti says. “Or if there were some coordination among the major retailers, deciding to take a clear position on the issue, opting for complete use of bioplastic, for example in all mono-use products for the table or for take-away packaging”. Catia Bastioli, CEO of Novamont, which produces Mater-Bi, the first Italian bioplastic, agrees: “Renewable raw materials, as products, are not the solution to all the problems of pollution and scarcity of petroleum”, she says. “We need to look beyond the product and understand the limits of the system in which the material is generated, utilized and disposed of. What has to change, then, is the collective mentality: we need to favor the transition from a product economy to a system economy, a cultural leap toward an economic and environmental sustainability that has to involve the entire society, starting with the territory and collaboration among the various actors involved”.

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Hope for a change of orientation on the part of consumers can also be seen in the many design projects that are focusing on all things biodegradable, updating their image to make them more appealing. “What I find appealing about papier mâché is not its biodegradability, but the possibilities it offers at the level of workmanship and finishes”, says Debbie Wijskamp, who presented, in September at London Design Week, a collection of furnishings and arts de la table in papier mâché. “What I was looking for was a new type of aesthetic, composed of small imperfections only organic materials can supply”. If the bio look is a hit, the environment will certainly benefit. This is also evident to the creators of Evostone, a cultural and commercial platform launched in December and presented for the first time at MADE, to promote organic materials in design and architecture. Its mission: to introduce designers and companies to more ecological and innovative materials from all over the world, combining performance and aesthetics and also operating in relation to universities and research centers. In the avant-garde of research on materials (MaterBi by Novamont of Novara is one of the most widely used bioplastics on an international level), in recycling (in Europe the Italians are second only to Germany) and in a focus on the sustainable (we are among the leading producers and consumers of ‘bio’ food in the world), our country is well positioned to meet the challenge of a greener future. Which has to start with a cultural revolution: “The best way to contribute to protect the environment is to convince people to buy carefully”, Iacchetti concludes: “biodegradable products, if they are disposable things, and long-lasting goods of high quality, intelligently developed, made using ecological processes with recyclable materials. Things that communicate on an emotional level, so we want to keep them with us forever”. - Caption pag. 89 1. The resin with Tibetan salts (which have beneficial effects to purify air and neutralize negative ions) that Teknai presented at the latest edition of MADE. 2. The Aperitivo Bio series by Pandora Design, a set including glasses by Matteo Ragni, tapas plates by Daniel Fintzi, and four Moscardini by Giulio Iacchetti and Matteo Ragni. Made with a new gloss-finish biodegradable material. 3. Gaia, biodegradable funerary urn filled with peat and seeds. Once buried it decomposes, leaving the ashes of the deceased in contact with the peat, transforming them into vital substances for the growth of plants. Project by Veronika Gantioler of the Dept. of Design and Arts at the Libera Università of Bolzano. 4. Bamboo telephone by Gert-Jan van Breugel: for easy disassembly, biodegradable, with battery that charges with movement. 5. For their beat generation eyeglasses the young creative talents of the new JPlus brand have chosen a case in Mater-Bi. 6. Ecopod, the coffin made by hand using recycled newspapers and mulberry pulp, by the English company Arka. 7. By Ryohei Yoshiyuki, Cup of Coffee is a small container made with coffee grounds and natural powders, using a cup as a mould, baked in a kiln. - Caption pag. 90 1. The Cloud Walk chandelier by Yu Jordy in recycled paper. 2. A historic but always timely piece, when it comes to the use of paper and cardboard for furnishings: Cartoons by Luigi Baroli for Cerruti Baleri (Compasso d’Oro 1994). 3. The lounge chair and cabinet LagunaBook in decorated cardboard by the Belgian studio Purpl’In. 4. The Paper Cloud divan by Tokujin Yoshioka for Moroso, presented at the last Salone del Mobile. 5. Detail of the papier mâché baskets produced by Villa Collection using Chinese newspapers. - Caption pag. 92 1. The Pulp collection by Jo Meesters, from a research project on the possibilities of reuse of recycled paper. The designer covers, in papier mâché mixed with different binders (like epoxy resin), bowls, vases and carafes found at dumps (photos Lisa Knappe and Jo Meesters). 2. The P’Ulivo broom by Giulio Iacchetti for Martini, in sawdust and plastic. - Caption pag. 93 3. The Paperpulp cabinet by Debbie Wijskamp, made entirely of papier mâché and water-based binders. 4. The Parapu seat by Claesson Koivisto Rune for Södra, in cellulose and organic PLA plastic (photo Giacomo Giannini).

INproduction

The slender bath

p. 94 by Katrin Cosseta Faucets like blades. Washstands reduced to slender ceramic sheets. Shower platforms seamlessly inserted in the floor. Tubs like skinny works of origami. Trendy bathrooms are increasingly linear and essential, concealing technologies and bringing out the value of the silhouette. - Caption pag. 95 1. HansaLatrava by Bruno Sacco and Reinhard Zetsche for Hansa, Hansaedition collection, faucet with diagonal sheet of flowing water. Adjustment is done with a control panel in the base that displays temperature settings with luminous diodes. 2. Mr Splash by Jorge Bibiloni and Francesca Imperiali for Antonio Lupi, freestanding washstand in Cristalplant. 3. Paper by Giovanna Talocci for Teuco, bathtub in Duralight in the freestanding version; the facing panels ‘fold’ to create small counters and towel racks. Available with Blower massage, Cromoexperience and, by request, Hydrosilence massage. - Caption pag. 97 1. Abisko by Johan Kauppi/We Think for Eumar, washstand-sculpture in composite of polymeric resins and marble dust. 2. Wave by Meneghello Paolelli Associati for Art Ceram, system that combines the washstand, cabinet and mirror in a single sinuous unit, made with Korakril. 3. From the Freedom collection of bath fixtures by Ross Lovegrove for VitrA, interactive water-saving electronic faucet with three personalizable water management programs. 4. Leggera by Gilda Borgnini for Ceramica Flaminia, central tub in Pietraluce in the new Robbiano blue version. - Caption pag. 98 3. From the IndustriaLine by Moab 80, countertop canal washstand in painted steel, on perforated sheet metal counter. Design Studio Moab. 4. Krit by Marc Sadler for Karol, washstand in fiber cement, a technological material used in construction, that permits the creation of a structure with a thickness of just 1 cm, of variable length. 1. Grandangolo g150 by Nilo Gioacchini for Hatria, suspended or countertop ceramic washstand with a range of shelf and towel-rack accessories. 2. Thin by Angeletti Ruzza for Azzurra, ultraslim ceramic washstand with matte white finish. - Caption pag. 100 1. From the Supernova collection by Sieger Design for Dornbracht, flow spout faucet in mirror-finish, chrome, platinum and champagne. 2. Nastro by Peter Jamieson for Ritmonio, a faucet – also in gold finish – that stands out for its twisted form. 3. Shui by Paolo D’Arrigo for Ceramica Cielo, console washstand for hanging installation, available in white or black ceramic. 4. Moove by Marco Piva for Jacuzzi, shower platform for flat floor installation, in shiny or matte acrylic, with central oval or circular relief. Available in square, rectangular, rounded and rectangular with rounded side versions. 5. Conoflat by Kaldewei, shower platform in enameled steel, mounted flush with the floor, available in 17 sizes and in the black variant. Design Sottsass Associati. 6. Hydroplate by Cea Design, plate for built-in WC box, complete with hydrobrush and flat-mounted controls, in stainless steel with polished or brushed finish. 7. Sen by Nicholas Gwenael for Agape, multifunctional faucet system, including wall-mounted faucets, flexible handheld shower, shower column, countertop faucets and floor units, in brushed anodized aluminium with gray or black finish.

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