INdice/contents noVemBre/NOVEMBER 2010
INterNIews INitaly
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produzione production smart technology a ognuno la sua porta/To each his door virtuosismi materici/Virtuoso matrix oltre la superficie/Beyond surfaces la famiglia si allarga/Extended family giovani designer young designers Fabio flora project
DESIGN NEL PARCO/Design in the park street lighting 42 IN copertina: un dettaglio della sedia operativa Sayl disegnata da Yves Béhar per Herman Miller. Ispirandosi ai principi costruttivi dei ponti sospesi e applicando il suo caratteristico approccio di ‘eco-smaterializzazione’, il designer ha messo a punto un innovativo schienale interamente sospeso, privo di intelaiatura rigida. Gradi diversi di tensione applicati al materiale dello schienale pressofuso garantiscono il sostegno costante della zona sacrale, lombare e dell’intera colonna vertebrale; nello stesso tempo, la sedia è libera di adattarsi alla forma e ai movimenti della persona. disponibile anche la versione imbottita. on the cover: detail of the Sayl operations chair designed by Yves Béhar for Herman Miller. Based on the construction principles of rope bridges, and applying his characteristic approach of ‘eco-dematerialization’, Béhar has developed an innovative back that is completely suspended, without a rigid frame. Different degrees of tension applied to the material of the die-cast back guarantee support for the various zones of the human back and the whole spinal column; at the same time, the chair is free to adapt to the form and movements of the user. Also available in an upholstered version.
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showroom
twils a/in cessalto (TV) anniversari anniversaries lo/The spazio primario di/of carlo de carli AEM - Un secolo con milano/One century with Milan concorsi competitions anci creative award DES/IN-premio cifarelli INternational
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giovani designer young designers
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produzione production
aamu song e/and johan olin
architetture mobili/Mobile architectures 61
project
il colore del legno/The color of wood 65
showroom
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luxury living a parigi/in paris sostenibile sustainability 2050.il pianeta ha bisogno di te/Your planet needs you
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fiere
eire 2010 e/and social housing award 74
festival
DMY 2010 award winner
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INdice/CONTENTS II INtertwined
progetto città CITY PROJECT people meet in/in the veneto
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food design
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People eat in architecture mostre Exhibitions Lucca digital photo festival le cento sentinelle del/The 100 ‘sentinels’ of voralberg cambiare il mondo con un vaso/Changing the world with a vase scampoli d’ ‘estate indiana’/Indian summer remnants baci dal/Kisses from rÖda stein di gÖteborg sapore di sale, sapore di mare/Salt, sea 98 in libreria in bookstores 101 info & tech dalla nuvola alla carta/From the cloud to paper 25 anni di notebook/25 years of notebooks 106 contract & office il sogno del teletrasporto/The dream of the teleport beam 108 cinema shanghai 111 fashion file Milano Fashion Week Design AMANDA CAINES e/and GUMDESIGN 84
INtopics 1
INservice 118 126
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editoriale editorial di/by gilda bojardi
traduzioni translations indirizzi firms directorY
INteriors&architecture
vivere all’italiana
living Italian-style a cura di/edited by antonella boisi
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torino, teatro privato
private theater progetto di/design by lorenzo prando e/and riccardo rosso foto di/photos by santi caleca testo di/text by franco debenedetti 8
val tidone, cà maloni progetto di/design by sonia calzoni foto di/photos by paolo rosselli testo di/text by antonella boisi
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crema, soft loft
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progetto di/design by ottaviano design studio foto di/photos by alberto ferrero testo di/text by antonella boisi 16
messina, camera di luce
Light chamber progetto di/design by rita simone foto di/photos by paolo utimpergher testo di/text by antonella boisi
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non solo effimero
NOT JUST TEMPORARY
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japan, gc prostho museum research center progetto di/design by kengo kuma & associates foto di/photos by daici ano
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switzerland, vacheron constantin headquarter progetto di/design by bernard tschumi architects foto di/photos by esto photographics testi di/text by matteo vercelloni CAse HIstory
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torino, marco boglione a basicvillage con basicnet di/by antonella boisi
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INdice/CONTENTS III
INsight INtoday 32
12a mostra internazionale di architettura, venezia di/by matteo vercelloni INmostra
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g.b. piranesi alla fondazione cini di venezia di/by francesco vertunni
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steven holl a lecce di/by alessandro rocca
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INarts 46
in assoluto: mccracken
absolutely: Mccracken di/by germano celant INpeople
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odoardo fioravanti VS marco ferreri di/by Maddalena Padovani
INdesign INcenter 56
neutral design di/by nadia lionello foto di/photos by simone barberis
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note di turchese
turquoise notes di/by katrin cosseta foto di/photos by enrico suà ummarino
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INproject 70
lavori in pelle
skin works progetto di/design by FranÇois azambourg di/by Cristina Morozzi 76
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ogni cosa è una scoperta
everything is a discovery progetti di/Projects by Yves Béhar di/by Cristina Morozzi INview 76
design e nuvole
design and clouds di/by Laura Traldi
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INfactory
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massimi sistemi
chief systems testo di/text by Rosa Tessa foto di/photos by Giacomo Giannini INproduction 90
living kitchen di/by andrea pirruccio foto di/photos by maurizio marcato
INservice
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indirizzi firms directorY di/by adalisa uboldi
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traduzioni translations
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EDiToriaLe
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osa ci piace sottolineare di questo numero novembrino così denso di architetture, design e approfondimenti tematici? Il valore e il fil rouge di una parola-chiave: sperimentazione che, nella nostra visione, fa rima con ‘non effimera’. Abbiamo notato che, di fatto, un buon progetto è quello che riesce ad arrivare al cuore, ad ‘abitare il vuoto’ e a puntare sulla comunicazione e sul dialogo. Non ci sono rigidi confini tra spazio, volume, abito, corpo, disciplina e approccio, quando le ‘relazioni preferenziali’ si nutrono di emozione e di interazione. Lo ribadisce Kazuyo Sejima, curatrice della 12a Biennale di Architettura di Venezia, con il titolo scelto per identificare il programma di questa edizione: People meet in architecture. I contenuti di questo numero ri-focalizzano lo stesso percorso. Nella rubrica Interiors&Architecture gli architetti esplorano infatti un modo di progettare e vivere all’italiana che coincide con un’attenzione al riuso e alla valorizzazione del patrimonio esistente. Ma non solo. Firmano realizzazioni internazionali, da musei a luoghi di lavoro, che mettono a frutto compiutamente le loro ricerche progettuali, testate durante lo sviluppo di precedenti installazioni temporanee. Anche i protagonisti della sezione Indesign, da Marco Ferreri ad Odoardo Fioravanti, pur differenti tra loro per intenti ed esiti, sono però accomunati da una costante tensione sperimentale che porta in primo piano l’innovazione: di materiali, tecnologie di produzione, espressioni tipologiche, formali e concettuali. È il plus-valore di una trasversalità che allarga anche il significato sociale del design. Così, non ultimo, l’evento Milano Fashion Week Design svoltosi durante la settimana della moda, all’interno dell’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II, è stato un primo approccio, ancora embrionale, per mettere in scena il fertile legame tra fashion e design il gc Prostho museum research center, in giappone, progetto di kengo kuma & associates system, in una città aperta e accogliente. Gilda Bojardi
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INteriors&architecture
TeaTro PrIvaTo
L’abitazione torinese DI FRANCO DEBENEDETTI, IL racconto autobiografico DI UN PROGETTO IN CUI IL tempo della vita COINCIDE CON IL tempo del design, MENTRE spazi E oggetti SI CARICANO DI valore comunicativo E simbolico, DI parole E storie
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progetto di Lorenzo Prando e Riccardo Rosso foto di Santi Caleca testo di Franco Debenedetti
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iù dei libri letti, più delle fotografie conservate, sono le case che si sono abitate a raccontare una vita. Ancor di più quando la casa non è né di famiglia né di proprietà, e il permanervi non è frutto di abitudine o di convenienza, ma il risultato di ripetute volontarie conferme. In questo caso ripetute per quarant’anni. Come l’architettura è prima di tutto del committente, così lo è, a maggior ragione, il progetto di una casa: al committente sarà dunque consentito, rovesciando la nota prospettiva, fare il ritratto della sua casa “dal” suo personale “interno”. Di questo ritratto fa parte qualcosa che le fotografie di Santi Caleca non possono riprodurre, la casa com’era prima, nei primi dieci anni in cui vi ho vissuto. Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso me l’avevano fatta dura come duri erano gli anni di fine ’60, rigorosa come rigorose credevamo fossero le nostre idee. Una casa senza i muri divisori della pianta originale per consentire la vista su tre lati,
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pagina a lato. la ‘Torre Littoria’ vista da piazza Castello, con la quale Armando Melis corona la nuova via Roma progettata da Piacentini: è uno dei primi edifici a struttura metallica costruiti a Torino. dal balcone si vede palazzo Madama, costruito intorno alla porta romana di levante, al quale Juvarra sovrappose la splendida facciata barocca contenente lo scalone di accesso.
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L’ingresso del piano inferiore: le ante scorrevoli appese al traliccio metallico dividono all’occorrenza l’ambiente unico. Sulla sinistra, un grande quadro di Salvo, Ercole e l’Idra di Lerna, tra le finestre un’opera di Aldo Mondino. contro il pilastro, La consolle di appoggio e la rete porta-posta appositamente pensati per la casa come i lampadari in tela che corrono lungo l’intero soffitto. I mobili in legno sono prodotti da Fritz Hansen, i tappeti prodotti da Fès in marocco sono stati disegnati da Prando & Rosso.
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gli antoni che dividono gli spazi scorrono su tralicci metallici. Sulla destra, il volume cilindrico della scala interna che collega i due livelli dell’abitazione. il mobile libreria in ebano e mogano con scaffali in acciaio inox incernierati è stato realizzato su disegno. tavolino cubolo in fibroresina progettato da Pietro Derossi per il Piper club di Torino (1965) e tavolino Drake progettato per la casa e poi prodotto da Sawaya & Moroni. tavoli di bruno mathsson per Fritz Hansen e sedie di kazuide takahama per Simon international. il giardino pensile progettato da Paolo Pejrone: le strutture in rete metallica creano percorsi e fondali di edera, inquadrando vedute spettacolari sul centro di Torino.
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geometrica come un Mondrian, maniacalmente rigorosa nei dettagli, costruita per così dire per ablazione, via tappeti tende soprammobili poltrone, con poche significative presenze: i tavolini “cubolo” del Piper Club, due zattere rosse e due verdi Torneraj, prototipi della Gufram, le pennellate nere di Hans Hartung, uno strappo di Rotella. Il palloncino rosso di Mondino e l’orto di Gilardi verranno accolti solo più tardi. Una casa con cui ho dovuto combattere, e che ho amato moltissimo: e che avverto come una presenza visibile a me solo, la traccia nascosta della casa che qui è illustrata, quella fatta nel 1982 da Lorenzo Prando e Riccardo Rosso. “ Se l’architettura degli interni è il teatro
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dell’abitare – scrive Adolf Loos – all’architetto non resta, allora, che una sapiente regia dello spettacolo”. Lo spettacolo era cambiato. Cambiato nella mia vita: mi serviva un piano in più, collegato dalla scala interna dentro il tamburo giallo. Cambiato nel mondo esterno: al radicalismo del decennio precedente era subentrata l’attenzione alla continuità storica, sentita non (solo) come vincolo, ma come deposito di segni in cui è possibile riscoprire un significato, se del caso rovesciando quello originario. È spinta al limite del possibile l’intuizione filologica della prima versione rispetto all’ossatura metallica della torre, nel ripristinare la vocazione dell’edificio al plan libre, rimasto “in pectore” al Melis per l’inadeguatezza
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della cultura architettonica italiana del tempo in cui la torre venne costruita. Abbandonate le divisette della prima versione e la loro ondulata illusione di intimità, ora i tre grandi pannelli scorrevoli disposti a raggiera più che delimitare gli spazi, accennano appena a una loro definizione. L’annessione del terrazzo, popolato dai solidi geometrici di Paolo Pejrone acquista un valore, anche simbolico, di apertura all’esterno. Apertura di spazi, enunciata nella prima versione, qui compiutamente dispiegata. Apertura a diverse suggestioni di gusto: ai mobili progettati espressamente, preziosi per materiale e dettagli, generati dalla fascinazione sia dei legni rari sia degli oggetti industriali, carrelli, griglie, trafilati
metallici, si sposano nuovi innesti, alcuni recuperati da vite passate, come divani e poltrone dentro le loro nuove usse, altri, come i tappeti, ispirati a luoghi esotici. Nei successivi quasi trent’anni apparentemente nulla di rilievo è cambiato dal progetto del 1982. Solo perché il baricentro geografico della mia vita si è poi spostato? La realtà, di cui solo ora sono consapevole, è che il rapporto progettuale tra committente ed architetti non si è da allora mai interrotto, si è solo spostato dalla casa a degli oggetti “di casa”: quelli che dal 1986 al 2009 ho commissionato a Lorenzo e Riccardo quali doni di Natale per i miei amici. Appena visibili in queste immagini, sono diventati, più compiutamente
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Il locale bagno è aperto sulla camera da letto e solo un’anta scorrevole lo separa dagli altri spazi. La cabina vasca-doccia in acciaio inox disegnata appositamente riflette il paesaggio esterno. la cucina progettata per la casa è costituita da un lungo ‘tavolo’ in acciaio inox con gambe rivestite da nylon rosso colato a stampo, antiurto, sotto il quale sono inseriti carrelli con varie funzioni. oltre la finestra, il paesaggio torinese, con la Mole Antonelliana, piazza Castello, la cupola della Sindone.
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descritti e illustrati, Les très belles heures de F.D.( 22 publishing, Milano, 2009, ndr). Per la loro destinazione ad amici, dunque a potenziali ospiti della casa, e per la continuità culturale con Lorenzo e Riccardo cresciuta e consolidatasi nei decenni, quegli oggetti sono la prosecuzione della casa, intesa sia come abitazione sia come progetto. Trasfigurati metaforicamente come doni, cadenzati anno dopo anno nel tempo, questi oggetti d’uso diventano non solo i “veri indizi”, per dirla con Loos, del modo d’abitare, ma la continuazione e l’evoluzione di come il modo di abitare viene progettato e descritto. E fanno dei quarant’anni che il committente ha trascorso in Via Viotti un singolare work in progress.
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Sul mobile-fioriera in acciaio inox e cristallo, l’installazione di Giulio Paolini del 1983 Le temple de la gloire (una citazione da Voltaire) che compone una testa di epoca romana con un cuscino dorato, è corredata da una serigrafia eseguita espressamente per Franco Debenedetti.
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A Nibbiano, IN Val Tidone, NEL contesto rurale DEL piacentino, L’INTERVENTO DI rigoroso recupero DI UN complesso architettonico TIPOLOGICAMENTE E MORFOLOGICAMENTE specializzato, METTE IN SCENA UNA proposta abitativa RICCA DI sfumature E comfort.
IL FRONTE/RETRO DEL CORPO PRINCIPALE, SPARTANA COMPOSIZIONE DI PIENI/VUOTI IN PIETRA LOCALE, INTONACO E LEGNO.
Cà MaLonI progetto di Sonia Calzoni design team Maurizio Bocola foto di Paolo Rosselli testo di Antonella Boisi
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i due distinti corpi di fabbrica ristrutturati dialogano visivamente grazie alle ampie vetrate in un gioco continuo di rimandi tra dentro e fuori. gli scheletri degli edifici originari, ancora segnati da pilastri in laterizio, sono stati recuperati in modo rispettoso e rivitalizzati grazie all’innesto di nuovi elementi essenziali in acciaio, cristallo e legno, come i serramenti. un angolo dell’area living ricavata nel corpo di fabbrica principale con il pavimento in pietra arenaria crema. dettaglio del sistema di chiusura flessibile di una finestra realizzato con doghe di legno naturale disposte orizzontalmente.
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ascina e rustici in Val Tidone, appennino piacentino, tre corpi distinti disposti a formare una piccola corte irregolare. Tutt’intorno un prato che accompagna il declivio verso il torrente, con un pero, un ciliegio e dei frassini preesistenti e nuovi gelsi, alcuni pioppi argentati, una parrotia e dei carpini a filare lungo la recinzione. Al momento dell’intervento di recupero ad uso residenziale del piccolo centro agricolo primi ’900 ampliatosi nel tempo con le esigenze del suo contesto, tutto versava
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in grande stato di abbandono. La disomogeneità dei volumi e la semplicità della loro articolazione sono stati adottati da Sonia Calzoni come riferimenti del progetto volto a rispettare i caratteri originari dell’organismo architettonico, pur soddisfacendo le esigenze della nuova residenza che ne attualizza e nobilita i caratteri. “La differente tipologia dei fabbricati” spiega “ha suggerito scelte tra loro diverse. Il fienile mantiene inalterata la struttura originaria dei pilastri in mattoni e della copertura in coppi. Ho soltanto chiuso le campate con ampie vetrate in cristallo ed acciaio interrotte in corrispondenza della soletta arretrata dei due livelli, con particolare attenzione al contenimento dello spessore dei profilati metallici. Ricercavo l’effetto di una scatola di vetro trasparente e riflettente che rendesse percepibili le funzioni introdotte e la scala di collegamento tra i due piani. All’esterno a
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sopra, una zona di disimpegno al primo piano dove è stata organizzata la zona notte che comunica visivamente col piano sottostante. nel box parzialmente vetrato è stato ricavato un bagno. due ambienti notte che mixano, all’interno di strutture archetipe epurate di segni superflui, pochi e selezionati arredi. il bagno verde è trattato in cristallo retrosmaltato nella zona doccia e a smalto sulle pareti.
schermatura dell’edificio ho posizionato dei frame in doghe di legno orizzontali montate su pannelli scorrevoli, mentre all’interno sono delle veneziane a garantire un filtro rispetto all’esterno. Per l’edificio più grande (comprendente un’abitazione, un granaio, una stalla e un portico), la riorganizzazione spaziale ha previsto la creazione di due livelli: un piano terra per la zona giorno e un piano primo per la zona notte. Mentre il porticato antistante è divenuto un ampliamento della zona giorno: uno spazio a doppia altezza in relazione col paesaggio circostante grazie a un sistema di vetrate completamente apribili. Infine il piccolo deposito in pietra è stato restaurato in modo conservativo e mantiene la funzione di deposito e ricovero attrezzi”. Grande cura nella ricerca di un equilibrato rapporto tra volumi pieni e vuoti e scelte materiche attentamente ponderate rispetto al genius loci sono i
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valori prioritari del progetto. Restaurate infatti le parti esistenti in intonaco e pietra, tutti i nuovi tamponamenti perimetrali, necessari a recuperare maggior volume per la nuova residenza, sono stati rivestiti in doghe di legno naturale disposte orizzontalmente. “Le doghe a spessore variabile” precisa Sonia Calzoni “mimano le chiusure in legno che spesso venivano realizzate nelle cascine per stivare materiali nei granai, ovvero conservano la peculiarità di “contenitore” propria delle origini. Formano delle superfici continue, apribili solo in parte in corrispondenza delle finestre di cui costituiscono anche il sistema di oscuramento. E nella parte corrispondente al portico del piano terra si aprono anche ripiegandosi verso l’alto: un’ulteriore pensilina verso l’esterno”. Un dentrofuori intimamente connesso, come era ieri, come sarà domani.
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soft Loft concepito come un cottage di tradizione scandinava, uno spazio invitante dove coltivare l’illusione di abitare all’aria aperta
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INteriors&architecture / 13 pagina a fianco, l’angolo del pranzo-living in prossimità dell’ingresso. tavolo su disegno, sedie di kartell, divano di B&B Italia, lampada a sospensione di fontana arte. sotto: sketch delle funzioni e del concept. più in basso, l’area-relax con il biliardo, l’ attrezzatura fitness, e con due icone del design: una vanity fair rossa di poltrona frau e la classica barcelona in acciaio e pelle di mies van der rohe per knoll international.
progetto di Ottaviano Design Studio foto di Alberto Ferrero testo di Antonella Boisi
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all’ agricoltura all’architettura e al design il passo può essere breve, quando si coltiva una passione autentica. Anche da autodidatta. Così è stato per Ottaviano Ciabatti, laurea in agraria e studio a Crema dal 2006 che vive la sua svolta dopo un viaggio in India e la scoperta della bellezza dell’arredo locale. Inizia a proporlo, secondo personali percorsi di ricerca estetica e armonia visiva, nelle abitazioni degli amici, con una sensibilità atipica che perde progressivamente l’approccio decorativo per trovare l’interesse architettonico. Fino alle ultime sfide: i progetti di un charity center a Bali e di un mini-resort a Phuket in Thailandia comprendente residenze-spa-ristorante, entrambi lavori in fieri.
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vista, dalla zona letto con corredo di libreria di entrata libera, del volume della kids home concepito come un cottage rivestito all’esterno di assi di legno verniciate di bianco e segnato da una serie di finestrelle che prendono luce naturale dall’ambiente finestrato.
“Non vorrei sembrare presuntuoso, ma mi ispiro a Galileo: il mio stile è nel pensiero, volto a raggiungere obiettivi di volta in volta diversi” spiega. Nella fattispecie di questo interno a Crema, le esigenze di un giovane 50enne, single di ritorno, che condivide spesso la sua dimensione abitativa con quattro figli, hanno ispirato un preciso concept: quello di uno spazio unitario e invitante alla socializzazione, al dialogo e alla relazione, in cui ciascuno potesse però ritrovare propri spazi unici e privilegiati. Le potenzialità del contenitore, un ex magazzino lungo e profondo, con alti soffitti e la parete più lunga finestrata in modo quasi continuo, come unico importante serbatoio di luce naturale, hanno stimolato la realizzazione. Il fulcro ordinatore del progetto è diventato infatti la kids home, una casa nella casa, una seconda scatola, bianca all’esterno e verde all’interno, segnata da una serie di irregolari finestrelle interne e aperta al passaggio sui lati corti, che è stata modulata in quattro isole-letto democraticamente uguali, per consentire una totale autonomia alla vita dei ragazzi. Fuori da questa, la narrazione restituisce invece la composizione di tre distinte e compiute isole domestiche relazionate secondo una logica di continuità e fluidità in una successione visiva open: dalla zona ingresso con cucina, living, pranzo, biliardo, fitness alla zona living davanti al camino con mini-piscina; fino alla stanza da letto padronale con bagno e guardaroba dedicati. Per rendere più incisiva la costruzione di un soft loft la zona davanti al camino è stata rialzata; ciò ha consentito l’integrazione a filo pavimento della mini-piscina rivestita in tessere di mosaico vetroso e
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una certa intimità del letto che risulta posizionato a quota inferiore e appoggiato su spartani bancali pittati di bianco. “Così alla fine” spiega Ciabatti “se il volume della casa nella casa definisce ed articola gli spazi abitativi, evocando l’immagine di un cottage in legno scandinavo usato come casa di vacanza, tutto intorno un paesaggio in negativo fatto sempre di doghe di abete laccato bianco, vernice verde, luce naturale e poco altro, restituisce la sensazione di libertà e di benessere della vita all’aria aperta”. È il respiro di una dimensione indoor percepibile come outdoor, soprattutto vicino ai lunghi tronchi d’albero che campeggiano nell’angolo del pranzo.
il corridoio distributivo della kids home finito con vernice verde lucida, una forte campitura di colore sottolineata dalle luci al neon. disimpegna ingresso, quattro stanze e due bagni. la cucina mixa sapore industriale con la nota di colore affidato al sistema di partizione decorativa algue dei fratelli bouroullec per vitra.
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la zona relax di fronte al camino vista dall’ area notte. elemento ordinatore che definisce l’articolazione spaziale tra i due ambienti, la mini-piscina a filo pavimento rivestita in tessere di mosaico bisazza.
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monolite di luce
progetto di Rita Simone foto di Paolo Utimpergher con la collaborazione di Antonino Savojardo testo di Antonella Boisi
A Messina, un’abitazione su due livelli pensata come un open space dentro un volume unitario scandito dagli arredi fissi che rispettano rigorose geometrie classiche e la scelta del total white per abbracciare appieno la luce e il panorama dello Stretto
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La zona dei libri è stata organizzata con grandi scaffalature a tutta altezza integrate nella struttura muraria, su disegno. La scala a chiocciola in ferro verniciato bianco conduce al soppalco che accoglie la zona notte. Tra gli arredi vintage, mix match di recupero, una Poltrona originale anni cinquanta prodotta da poltrona frau. pagina a fianco: vista, dalla finestra del living, del porto di Messina e dello Stretto. nei disegni, dall’ alto: lo stato di fatto, il diagramma delle demolizioni, delle ricostruzioni, la pianta del soppalco.
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il volume rivestito in fogli di laminato Abet Print che contiene le attrezzature dedicate al bagno. sotto: la palazzina in cui si trova l’abitazione, parte dell’ex fondo basicò destinato ai dipendenti delle poste.
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essina, centrale quartiere Montalto, giardini ed edilizia post terremoto dei primi del secolo scorso. All’ultimo piano di una palazzina del fondo Basicò, in origine destinato ai dipendenti delle poste, viste panoramiche sullo Stretto, si trova l’abitazione dell’architetto Rita Simone che, nella fattispecie, ha lavorato per se stessa, facendo della ristrutturazione del proprio interno un’occasione di sperimentazione progettuale. “Le peculiarità del contesto” spiega “hanno determinato le scelte compositive e la ricerca di una visuale a 360° in un ambiente configurato come una vera e propria camera di luce”. La totale demolizione sia dei tramezzi interni che dell’incannato di copertura esistenti hanno prodotto una “scarnificazione” del sistema strutturale cruciforme e dei muri perimetrali con il risultato di ottenere una grande fluidità spaziale. L’involucro è stato trattato come un open space virtualmente articolato in quattro aree funzionali veicolate dal posizionamento baricentrico di un
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la penisola della cucina verso l’area pranzo. la vista, nella zona soppalcata, del letto illuminato da un lucernario, mette in evidenza il sistema strutturale cruciforme della costruzione.
‘volume-armadio contenitore’ e di una pedana leggermente rialzata ortogonale ad esso. L’eliminazione del controsoffitto ha altresì permesso la realizzazione di un piano soppalcato – anch’esso in posizione baricentrica rispetto al sistema strutturale – con entrambi i lati longitudinali in affaccio sulla doppia altezza che lo circonda. In questo modo si è amplificata la dimensione del vuoto sia in sezione sia in pianta supportata dal ruolo degli arredi fissi, affidati tanto alle pareti perimetrali ritagliate da un nastro di librerie e armadi a scomparsa quanto al volume centrale che accoglie servizi igienici, ulteriori armadi ed elettrodomestici. Sulla pedana rialzata, invece, una penisola-contenitore è stata destinata alla funzione cottura. Il piano superiore, collegato con una scala dalla forma plastica, è stato organizzato a zona notte comprensiva di spogliatoio, lavabo e vasca da bagno. “Quest’ultima” spiega Rita Simone “è l’unico elemento posizionato in modo non assiale al quale è stato delegato il compito di ‘ritagliare’ diversamente lo spazio. Il sistema geometrico, infatti, composto dall’impianto rigoroso centrale delle travi aeree e dal nuovo piano orizzontale che appare sospeso, si piega, improvvisamente, in una sua parte, generando una complessità inaspettata”. La scelta radicale del total white per l’involucro (compresi i pavimenti in battuto di cemento) accentua la luminosità degli ambienti, che accolgono con garbo arredi d’epoca giocati di contrasto con le superfici in alluminio dell’isola cucina centrale e con il mosaico di vetro adottato per il rivestimento del bagno.
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la penisola del blocco cucina, realizzata interamente su disegno, vista dalla zona pranzo. Piano cottura a incasso in vetro ceramica di Siemens.
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1.2. Cidori, dall’installazione di Kengo Kuma, nell’evento DECODE ELEMENTS, Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milano, 2007, all’ architettura del recente gc prostho museum research center, da lui realizzata in giappone. 3.4. da Democratic Ecology, prototipo di pala eolica su progetto Philippe Starck per l’evento Green energy Design, Università Statale di Milano, 2008 a Revolution Air, pala eolica in produzione per Pramac, nell’ evento INTERNI ThinkTank, Università Statale di Milano, 2010. 5.6. da L’involucro attivo, progetto di Bernard Tschumi, Colonne di San Lorenzo, Milano, evento INTERNI in Piazza, 2002, alla vacheron constantin di plan les ouates, nei pressi di ginevra, realizzazione che ne riprende forme e materiali.
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7.8. da sssth! Installazione in legno di Michele de Lucchi, con listone giordano, per l’ evento DECODE ELEMENTS, Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milano 2007, al suo intervento negli interni dell’archivio fondazione Carisbo ricavato nell’ ex chiesa di San Giorgio a Bologna, 2009. 7.
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Operare nell’ambito dell’allestimento temporaneo può favorire e stimolare ‘un seguito’. Gli eventi di INTERNI, organizzati ogni anno in occasione della settimana del design milanese, hanno sottolineato nel tempo il ruolo di incubatori per sperimentazioni in senso lato, in grado di unire la dimensione del design a quella dell’architettura e di proporre, nella pratica seguente
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Non solo Effimero di Matteo Vercelloni
dei professionisti coinvolti, una serie di dichiarazioni progettuali in forma costruita permanente. Non solo effimero dunque, ma un procedimento espositivo che offre l’occasione per test in grado di tradursi in prodotti industriali seriali o in opere di architettura
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A Hida Takayama nella prefettura di Gifu, in giappone, il nuovo GC Prostho Museum Research Center trova uno stretto rapporto con la storia del luogo, trasformando il Cidori, un tradizionale gioco per bambini, in forma architettonica dove una fitta trama di listelli di legno si unisce come una pelle volumetrica all’edificio sottostante
Cidori progetto di Kengo Kuma & Associates foto di Daici Ano
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pagina a fianco, vista complessiva in esterno della struttura spaziale progettata da kengo kuma che poggia su una base in calcestruzzo. nell’immagine piccola: il rimando all’installazione per l’evento di interni, nel 2007. la pelle lignea tridimensionale disegna la scala interna, lo spazio a tutt’altezza dell’ingresso e parte degli arredi del museo-centro ricerca.
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l Cidori è un antico gioco giapponese che si potrebbe paragonare in sostanza al Meccano occidentale. Affascinato da questo antico ‘meccanismo matematico’ e ludico, Kengo Kuma ha declinato il Cidori in chiave architettonica, trasponendolo alla dimensione di struttura spaziale. Sviluppata in architettura urbana e permanente nella città di Hida Takayama, in Giappone. Per un edificio che unisce la dimensione museale a quella di centro ricerca Kuma, in collaborazione con la sensibilità dell’ingegnere Jun Sato, ha voluto definire un’architettura che alla struttura in calcestruzzo unisce la pelle lignea tridimensionale del Cidori; chiamata a costruire lo spazio a tutt’altezza dell’ingresso, a rivestire parte degli ambienti, a disegnare la scala interna e parte degli arredi, a scandire infine l’immagine esterna della costruzione. La densa e regolare facciata composta dall’incastro dei listelli di legno forma una matrice che ricorda le antiche costruzioni lignee giapponesi e allo stesso tempo denuncia la sua modernità nell’andamento modulare che dalla base cresce in altezza allargandosi sui lati. Separato dall’esterno su due fronti da una vetrata interposta, l’ingresso appare di grande impatto, soprattutto nelle ore serali, quando la luce dona all’edificio un aspetto dorato che ne colora la base di attacco al suolo circondata dal verde del prato. Sopra un pavimento di pietra, la struttura del Cidori accoglie nella sua maglia quadrangolare oggetti e manufatti che conferiscono all’ambiente il suo aspetto museale per tutta la superficie del piano terreno. Proseguendo ai due livelli superiori, con zone di lavoro e di riunione, il Cidori disegna una scala interna che si affaccia sull’atrio sottostante e penetra quasi come una struttura vegetale a crescita biologica controllata negli spazi di lavoro.
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Costruita a Plan-les-Ouates nei pressi di Ginevra e frutto di un concorso internazionale di progettazione la sede e manifattura della Vacheron Constantin si propone come un moderno Landmark architettonico, un segno riconoscibile e inequivocabile, immagine contemporanea di una delle più antiche fabbriche di orologi del mondo
Un foglio di architettura progetto di Bernard Tschumi Architects foto di Esto Photographics
U
n progetto che si basa su un’idea programmatica di base portata alla scala dell’edificio costruito. Tschumi ha lavorato immaginando un grande foglio materico dalla doppia faccia; da un lato, quello esterno, rivestito di lamiera goffrata riflettente, quasi uno scudo metallico che ricorda le casse degli orologi Vacheron Constantin, dall’altro una lamina di legno in grado di portare negli interni un alto grado di comfort e di accoglienza. Usando questa grande pelle bifronte come un elemento compositivo il percorso del progetto si esplicita in modo chiaro e convincente. Una struttura architettonica di base scandita da una vetrata continua pensata come zoccolo trasparente dell’intero volume accoglie quale copertura una membrana architettonica predefinita. Questa segue un andamento plastico partendo dal suolo, nella parte più bassa dell’edificio, per disegnare il
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fronte-retro che, proseguendo verso l’alto e piegandosi in orizzontale, diventa copertura. La prima porzione dell’edificio, destinata alla produzione, cancella così l’idea di capannone industriale, unendosi alla parte che ospita gli uffici senza soluzione di continuità. La membrana metallica si innalza per definire i fronti principali di quattro piani fuori terra e la loro copertura. La facciata cangiante, interrotta da tre tagli di finestre a nastro, si ferma prima di toccare il suolo, rientrando nell’interno con una curva conclusiva per appoggiarsi sopra il basamento vetrato. I fronti laterali proseguono il trattamento di facciata trasparente dello zoccolo, sottolineando il carattere compiuto del ‘foglio architettonico’ che, come un magico tappeto volante, si adagia sulla struttura sottostante, disegnando in un istante la forma dell’edificio. (Matteo Vercelloni)
qui sopra, la pelle bifronte dell’edificio: lamiera goffrata riflettente in esterno e lamina di legno come rivestimento dello spazio interno. sotto: il rimando all’installazione messa a punto per l’evento di interni nel 2002. pagina a fianco, tagli di finestre a nastro disegnano i fronti seguendone le curve e definendo il carattere del foglio architettonico.
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marco boglione ritratto nello spazio hobby della sua abitazione-loft ricavata su una porzione di copertura piana di basicvillage. pagina accanto, scorcio dall’alto dell’originario complesso industriale del maglificio calzificio torinese (1916) ristrutturato da marco boglione con l’ architetto armando baietto e trasformato in basicvillage, un micro-villaggio che rimarca il valore della sua integrazione con un tessuto urbano a destinazione mista di fabbriche e residenze. al suo interno, gli spazi di lavoro di basicnet, uffici, isole creative e ricreative, commerciali e nove residenze-loft. in primo piano, il roof garden destinato agli eventi.
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hi mi ama mi segua! Chi non ricorda lo slogan (con prorompente corredo) della Jesus Jeans che ha tappezzato i muri delle città italiane negli anni Settanta? Certo, non l’ha dimenticato Marco Boglione, torinese, classe 1956, studi di ingegneria mai terminati, allora direttore marketing del brand. Che ha ereditato alla lettera il significato di quella fortunata campagna di comunicazione. Tant’è che nel 1994, dopo aver rilevato dal fallimento le ceneri del Maglificio Calzificio Torinese di proprietà del compianto maestro e amico Maurizio Vitale con i relativi brand, dà vita alla sua lungimirante Weltanschauung (visione complessiva del business e dell’impresa), inventandosi BasicNet(work), gruppo comprendente i marchi Kappa, Robe di Kappa, K-Way, Jesus Jeans, Superga, alias lo sportswear informale per uomo-donnabambino. Diventa, per dirla con Rudyard Kipling, il capitano coraggioso di una nave quotata (dal 1999) alla Borsa di Milano, un fatturato consolidato nel 2009 di 154 milioni di euro (+ 9,9 % rispetto al 2008). Come nasce la sua storia? “Da un sogno” racconta. “Trasformare un’idea in un’impresa globale che non produce né distribuisce, ma lavora solo con i propri licenziatari a cui viene offerto un insieme di servizi integrati attraverso il web, il vero sistema nervoso dell’azienda che gestisce online tutti i processi della catena dell’offerta”. In concreto cosa significa ? “Significa curare direttamente il rapporto tra produttori e distributori: dalla ricerca e sviluppo stile del prodotto al marketing, dal disegno e realizzazione delle collezioni all’industrializzazione attraverso selezionate trading companies, dalla scelta e coordinamento della rete dei licenziatari che gestiscono in prima persona i rapporti con i retailers locali alla logistica, dall’amministrazione alla finanza”. Una precisa prospettiva. Perché? “Sono sempre stato convinto che pensare in modo diverso convenga” spiega. “BasicNet non nasce come azienda tessile o di abbigliamento. Da principio i nostri valori intangibili sono stati: brevetti, stile e software, per alimentare il network degli imprenditori che producono i nostri marchi. Se all’inizio ci fossimo conformati per annullare i rischi avremmo azzerato la capacità d’inventiva. Senza dimenticare che ai prodotti-icona, cinque-sei pezzi immutabili da oltre trent’anni (come le scarpe Superga o le polo Robe di Kappa) e ai prodotti strategici, ricorrenti di anno in anno, senza una lunga storia ma richiesti dal
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Il capitano
progetto di Armando Baietto foto di Alberto Ferrero e archivio BasicNet testo di Antonella Boisi
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Marco Boglione, fondatore e presidente di BasicNet - titolare dei marchi Kappa, Robe di Kappa, K-Wa, Jesus Jeans e Superga - spiega come si lavora a BasicVillage, la ‘cittadella’ torinese della sua impresa strutturata per unire casa & bottega, flessibilitĂ e visione globale in tempo reale, grazie al web
e la sua nave
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Il tetto prestato all’installazione della piscina per colleghi, dipendenti, collaboratori, oggi rimossa. una vista del ristorante, aperto anche al pubblico. il cortile coperto, denominato tettoia gregoretti, fulcro di basicvillage, la nuova agorà del villaggio dotabile di palcoscenico per eventi open air. l’ingresso al basicvillage e al nuovo parcheggio multipiano progettato da armando baietto. sul cortile dell’ex fabbrica si affacciano le vetrine di differenti attività commerciali.
pagina accanto, scorcio dello spaccio aziendale. all’interno dell’ outlet, le collezioni dei marchi kappa, robe di kappa, jesus jeans, superga e k-way, esposte in aree dedicate per brand, con vendita assistita anche da sistema informatico avanzato.
mercato, si affiancano i prodotti stagionali. Questi ultimi sono i meno importanti dal punto di vista economico (un 80% dello sforzo fa il 20% di fatturato) però definiscono il segmento in cui il pubblico valuta la nostra capacità di stare al passo con i trend. E tagliare i campionari equivale a far morire un’azienda che si nutre della capacità di reinventarsi”. Quali sono stati i suoi riferimenti ideali in termini di affinità elettive? “Steve Jobs anni Ottanta. Un idolo, uno dei pochi che ha davvero cambiato qualcosa in meglio nel mondo, decretando la nascita della popular electronic, l’informatica popolare. Sul piano dei rimandi, siamo più simili a Mc Donald’s che alla Nike: abbiamo fatto con le magliette la stessa cosa da lui fatta con gli hamburger. Ovvio, c’è una marginalità di guadagno minore rispetto ai concorrenti, ma anche una sostenibilità maggiore, perché non abbiamo capitale di rischio né
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struttura piramidale. Il licenziatario non è un venditore, ma un collega-imprenditore che difende la propria posizione. La figura del manager è diversa: deve trovare un riscontro di convenienza a ogni cosa che fa nell’immediato. L’imprenditore può buttare il cuore oltre l’ostacolo, fare le cose per il bene comune, il successo e il suo ritorno personale”. In questo senso si considera un buon imprenditore? “Mi sento utile e appagato. Opero per l’interesse di chi lavora con me. Ma migliorare il benessere complessivo, far crescere l’azienda, mi porta a un tornaconto personale. Così l’attenzione alla qualità dell’ambiente di lavoro dei miei colleghi a BasicVillage, la libertà di rimanere in contatto con l’ambiente esterno, le televisioni in tutti gli uffici, l’accesso a Facebook, la palestra con personal trainer, il campetto di beach volley e la piscina sul tetto o il servizio di commissioni personali, anche per chi non ha la segretaria non è una concessione: è una furbata. Più faccio star bene chi lavora con me, più lo faccio sentir parte del mio progetto, più riesco a motivarlo, più ottengo”. Sarà per questo che a BasicVillage, il quartier generale di BasicNet, dove Boglione lavora e vive, si respira un’aria diversa. Siamo nella zona nord orientale di Torino, a ridosso del centro storico. La percezione di essere in una dimensione inconsueta si avverte subito, superato l’ingresso con la targa Maglificio Calzificio Torinese (1916). C’è ancora il sapore della carpenteria e dei serramenti della fabbrica di matrice tayloristica. Ma, gli spazi dove prima trovavano posto telai per la produzione e reparti di taglio e cucito ora accolgono attività commerciali al piano terra, uffici al primo piano, residenze-loft e aree per il tempo libero sulle
coperture piane. Perfino un nuovo parcheggio multipiano aperto alla città. L’intero complesso industriale della sede storica è stato ristrutturato con la collaborazione dell’architetto Armando Baietto. Oggetto di un vero e proprio recupero conservativo, è diventato un micro-villaggio che sottolinea ancora di più il valore della sua integrazione originaria con un tessuto urbano a destinazione mista di residenze e fabbriche. “Anche questo progetto” spiega Boglione “resta un segno del pensare differente. Non abbiamo voluto copiare nessuno. Notevole l’esperienza di Adriano Olivetti a Ivrea, ma non mi sento molto diverso da tanti imprenditori con la classica casetta con la tavernetta sulla collinetta e il capannone a 50 metri. È più comodo vivere e lavorare nello stesso luogo. E non è una novità: anche Francesco Giuseppe dormiva sotto una tenda con le truppe”. Si considera un buon committente? “Le Corbusier diceva che un buon architetto ha un buon committente; io mi ritengo tale, perché avevo una visione chiara e l’architetto Baietto ha saputo entrare bene nel mio bisogno: mantenere le radici dell’azienda, la sua cultura e storia, rivitalizzando il tutto, attraverso un sistema cardio-vascolare e nervoso adeguato ai tempi”. Così, sul cortile dell’ex fabbrica, oggi la nuova agorà del villaggio, si affacciano le vetrine del centro commerciale (con il negozio monomarca Superga, lo Spaccio e il Gigastore aziendale), il supermercato, il bar, la filiale di una banca, la lavanderia, l’agenzia-viaggi e il ristorante-pizzeria Fratelli La Cozza. Gli spazi di lavoro sono diventati al piano seminterrato laboratori multimediali e sale conferenze; al piano terra, uffici
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spazi di vita all’aperto, rural chic, che comprendono le appendici green dell’orto, della serra e del recinto per le galline, circondano la residenza-loft di marco boglione ricavata sulle coperture piane dell’ex fabbrica. come gli altri otto loft pensati per ospitali soggiorni a breve-medio termine. concepiti secondo un design basic, che mixa recupero, memorabilia e affreschi tematici ispirati ai differenti marchi del gruppo. la costruzione spaziale aperta del loft di marco boglione, una ‘scatola’ articolata su due livelli, con varie isole domestiche compiute dedicate al relax e al lavoro.
sotto, il bagno ricavato da una serra. pagina a fianco, la camera da letto, accolta in una casetta-capanna in ferro e lamiera con guardaroba a vista.
direzionali e centri ricerca; sopra, ci sono nove ospitali loft per soggiorni a breve-medio termine. “Il mio loft è il più grande con il recinto per le galline, l’orto e la serra sul tetto” racconta Boglione. “Un grande rettangolo di ferro, lamiera, parquet industriale con soppalco per continuare a lavorare ma anche rilassarsi; in soggiorno trovano posto un mega-divano a otto posti, insieme al calcio balilla e al sacco appeso per la boxe; poi, un tavolo da pranzo dove si mangia anche in venti; la camera da letto è una ‘casetta-capanna’ con guardaroba a vista; il bagno è stato ricavato da una serra. All’ingresso, c’è la parete con la scritta ‘L’immaginazione è più importante della conoscenza’, una frase di Einstein in cui mi riconosco come filosofia. Ma anche gli altri loft hanno arredi di design basic, memorabilia e affreschi tematici, ognuno ispirato a un differente marchio del gruppo. I mobili sono quasi tutti di recupero: molti erano negli uffici della vecchia azienda. Amo lo stile privo di patine. Ogni cosa sembra minimale, preferisco però parlare di massimalismo essenziale. All’ingresso del ristorante una scritta recita: garantiamo che qui niente è disegnato da Starck. È
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un modo per sottolineare che cerchiamo eccellenza nella diversità. In fondo, cose anche brutte dal punto di vista della fascinazione estetica, accostate in modo ordinato e rese funzionali nell’insieme, possono convivere benissimo”. Qual è il plus di BasicVillage? “È un’entità viva per lo spirito dei tempi. Soltanto nel centro commerciale circolano circa 1000 persone al giorno. Durante le Olimpiadi Invernali del 2006, siamo stati il quartier generale degli sportivi russi e il roof garden, un prato all’inglese panoramico con ampi terrazzamenti in legno, ha ospitato suggestivi eventi”. Ma, la cosa straordinaria di questo luogo fuori dal comune resta soprattutto quanto offre in termini di comfort quotidiano: la possibilità di conciliare tempi e spazi della giornata lavorativa con dimensioni più private, dallo sport alla tintoria, dalla prenotazione auto con driver al servizio baby parking. L’opportunità di una casa & bottega nell’epoca di Internet, che riduce lo stress degli spostamenti, con metodo e creatività. Mica poco considerato che a BasicNet lavorano circa 400 persone e sono oltre 1500 le risorse umane attive a tempo pieno per il gruppo in circa 100 Paesi.
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L’installazione Balancing Act di Anton Garcia-Abril & Ensamble Studio, inaugura alle corderie dell’ Arsenale il tema dell’interazione con lo spazio in cui è ospitato; le gigantesche travi in calcestruzzo, frammento in scala reale della Casa Hemeroscopium a Las Rozas nei pressi di Madrid (2008), creano una diagonale volumetrica rispetto all’andamento lineare dell’edificio. (foto sergio pirrone) pagina a fianco, Cloudscape di Transsolar & Tetsuo Kondo Architects occupa un’intera sala delle corderie, con un’eterea passerella metallica praticabile che si avvolge all’intorno delle colonne di mattoni, mentre una densa nuvola artificiale ne stempera la figura d’insieme reinventando la dimensione dello spazio complessivo. (foto Matteo Vercelloni)
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RacconTI DI ArcHITeTTura di Matteo Vercelloni
“People meet in Architecture” È IL TITOLO-PROGRAMMA DELLA DODICESIMA Mostra Internazionale di Architettura DIRETTA DA Kazuyo Sejima E ORGANIZZATA DALLA Biennale di Venezia. APERTA SINO AL 21 NOVEMBRE, È UN invito A RIFLETTERE SULLE “potenzialità dell’architettura NELLA società contemporanea” CHE L’EDIZIONE DI QUEST’ANNO SI È POSTA COME obiettivo ALL’INTERNO DI UNA libertà espositiva LASCIATA AI SINGOLI partecipanti.
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Qui Sopra: The Boy Hidden in a Fish di Smiljan Radic + Marcela Correa, installazione che apre il percorso espositivo delle corderie. al centro: Il Decay of a dome dello studio cinese Amateur Architecture Studio. a destra:la ricostruzione dello spazio di lavoro Work Place dello Studio indiano Mumbai Architects. (foto s.p.)
A
scolto dei luoghi, consapevolezza ambientale, riuso del patrimonio architettonico esistente e del manufatto urbano, spinta progettuale verso l’interazione con gli spazi, ricerca di nuovi modelli concettuali per la città del domani; sono queste alcune possibili chiavi di lettura che emergono fortemente in modo corale e allo stesso tempo specifico all’interno della Biennale veneziana che Kazuyo Sejima (prima donna chiamata a dirigere la kermesse internazionale di architettura e vincitrice quest’anno con il suo partner Ryue Nishizawa dell’ambito Pritzker Prize, riconoscimento massimo nel campo architettonico) propone ai visitatori in modo esplicito e anticelebrativo.“Un’ esposizione d’architettura è un concetto provocatorio, dato che è impossibile portare in mostra gli edifici veri e propri, i quali devono essere dunque sostituiti da modelli, disegni e altri oggetti. In quanto architetto, ritengo che sia compito della nostra professione utilizzare ‘lo spazio’ come un mezzo per formulare il nostro pensiero. Ogni
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partecipante ottiene un suo spazio e agisce come curatore di se stesso” (K. Sejima). Quello che si incontra nel lungo percorso della mostra è in fondo una serie di ‘racconti’, esperienze di possibilità architettoniche declinate in una miscela di diversità espressive che non intende individuare né correnti emergenti, né poetiche di riferimento, e nemmeno celebrare protagonisti del momento dimenticando il termine di archistar. Tutto è mostrato in modo diretto, con una certa sincerità, tesa da un lato a creare ‘emozioni’ attraverso l’espressione della necessaria pluralità dei diversi punti di vista, e dall’altro, per molte installazioni, ad assumere lo spazio espositivo non tanto come un contenitore in cui ‘collocare’ progetti, ma piuttosto come occasione per interagire con il luogo, costruendo una forte mediazione. Un’azione questa che, se a livello espositivo, obbliga a una nuova interpretazione ed esperienza dello spazio da parte del visitatore, in quanto momento progettuale sottende il valore e il tema del riuso del manufatto architettonico che emerge in vari allestimenti e partecipazioni nazionali. Le corderie dell’Arsenale si aprono con il ‘sasso abitabile’ dello studio Smiljan Radic + Marcela Correa, una sorta di nido ancestrale, di interno protettivo che, in chiave simbolica, richiama alla casa e al tema dell’abitare domestico che ancora si incontra in modo significativo in questa Biennale. Ma, dopo il film di Wim Wenders in 3D dedicato al Rolex Learning Center di Losanna di SANAA (il
il giardino astratto e artificiale della repubblica Popolare Cinese disegnato da Zhu Pei. (foto M.V.)
manifesto dell’architettura come luogo d’incontro da parte di Sejima), è il Balancing Act di Anton Garcia-Abril & Ensamble Studio a inaugurare il tema dell’interazione con lo spazio in cui è ospitato; le gigantesche travi in calcestruzzo (che ripetono, quale frammento in scala reale, la soluzione della Casa Hemeroscopium a Las Rozas nei pressi di Madrid (2008), sorta di strepitoso collage di elementi strutturali impropri all’universo domestico) creano una diagonale volumetrica rispetto all’andamento lineare dell’edificio. La stessa tensione e qualità progettuale si ritrova poco più avanti nella sala occupata dall’installazione
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L’installazione reclaim a cura del Regno del Bahrain (per la prima volta alla Biennale di architettura e premiata con il Leone d’Oro per i padiglioni nazionali) propone la ricostruzione di alcune capanne di pescatori distribuite in modo spontaneo lungo la costa con materiali di recupero. (foto M.V.)
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Vacant NL, where architecture meets ideas è l’installazione proposta dall’Olanda come riflessione sul riutilizzo del patrimonio architettonico di città e territorio. (foto M.V.)
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A sinistra, Studio Andrea Branzi, per una nuova carta di Atene: Agronica, 1995. a lato, un’immagine di AilatI riflessi dal futuro, a cura di Luca Molinari al Padiglione Italia. sotto, il padiglione del Belgio, nella mostra Usus/ Usures organizzata dallo studio ROTOR, assume materiali provenienti da edifici comuni, “tracce di usura”, presentati però con una tecnica di ‘spiazzamento concettuale’, quali improprie opere d’arte appese nelle sale. (foto M.V.)
Cloudscape di Transsolar & Tetsuo Kondo Architects, dove un’eterea passerella metallica praticabile si avvolge in modo sinusoidale all’intorno delle colonne di mattoni, mentre una densa nuvola artificiale ne stempera la figura d’insieme, reinventando la dimensione dello spazio complessivo; o ancora, proseguendo nel percorso, dopo ‘l’officina di architettura’ (Work Place) dello Studio Mumbai Architects, nell’ambiente buio di Olafur Eliasson, Your split second house, in cui dei getti d’acqua a spirale provenienti dal soffitto sono ‘fissati’ nello spazio da luci stroboscopiche in grado di disegnare geometrie variabili e ‘immobili’ nel vuoto. Per poi trovare il Decay of a Dome del cinese Amateur Architecture Studio, sorta di scheletro ligneo in grado di creare una cupola in breve tempo, uno spazio leggero trasportabile e variabile per forma e dimensione, via via che la struttura, assemblabile in gruppo, aumenta in altezza. Il tema del ‘riuso’ si ritrova in altri allestimenti anche a livello di partecipazioni nazionali; il Belgio, nella mostra Usus/ Usures organizzata dallo studio ROTOR, assume materiali provenienti da edifici comuni, “tracce di usura”, presentati però con una tecnica di ‘spiazzamento concettuale’, quali improprie opere d’arte appese nelle sale del padiglione. Ecco che una moquette rossa sagomata copre un’intera parete; sul lato opposto una scala in ferro si affianca a una serie di sedie d’attesa, mentre altri brani materici, frammenti di spazi vissuti, riempiono in ordine gli spazi. La Russia nella mostra Factory Russia, curata da Sergei Tchoban e altri, affronta il tema della trasformazione delle zone industriali del Paese, assumendole come paesaggi storici in cui operare con attenzione. L’attenzione al patrimonio costruito
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esistente torna anche nel padiglione olandese a cura di Rietveld landscape, con un modello urbano sospeso nel vuoto e osservabile dal primo livello che mostra le possibilità di riutilizzo e di riconversione degli edifici della città esistente. In Preservation OMA illustra la propria filosofia rispetto alla conservazione, forse anche per l’impegno locale di Rem Koolhaas (Leone d’oro alla carriera) che nei giorni del vernissage presentava alla città per conto di Benetton il suo avveniristico progetto di riconversione del Fontego dei Tedeschi a fianco del ponte di Rialto. Anche Luca Molinari, curatore di Ailati (un’Italia allo specchio) – dove nel padiglione Italia ha selezionato “opere di resistenza contro il consumo di territorio e la cementificazione che vede il nostro Paese tra i primi al mondo”– annuncia un futuro in cui il riuso e una più consapevole attenzione al patrimonio esistente saranno riferimenti obbligati: “non potremo più permetterci di consumare nuovo territorio, di aggiungere opere ad opere, si tratta di una priorità politica fondamentale a cui l’architettura dovrà dare il suo contributo tecnico e culturale. Non avremo più bisogno di costruire nuovi oggetti “moderni” per vivere il nostro tempo, ma potremo re-interpretare abilmente il patrimonio che abbiamo, lavorando dall’interno, modificando con forza, densificando, demolendo con chiarezza, liberando spazi senza sentire il bisogno di riempirli subito”. Alla meritevole sezione antologica e critica che raggruppa per temi-problemi di attualità e di riferimento una serie di progetti in corso e costruiti di architetti italiani anche poco noti si affianca la sala Italia 2050, in collaborazione con la rivista WIRED, con installazioni ‘creative’ che non offrono uno
Sopra: un’immagine del modello New Communities, new polarities nell’allestimento di Aldo Cibic rethinking Happiness: New realities for Changing lifestyles.
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due immagini della partecipazione di Singapore con la mostra 1000 Singapores – A Model of the Compact City. (foto M.V.) sotto: un ritratto di Kazuyo Sejima prima donna chiamata a dirigere la Biennale internazionale di architettura e vincitrice quest’anno, con il suo partner Ryue Nishizawa, dell’ambito Pritzker Prize. (foto s.p.) a fianco: Un’immagine di Hong Kong attraverso la lettura fotografica di Michael Wolf.
scenario altrettanto stimolante. Nel tema dell’architettura come luogo dell’incontro non manca ovviamente la dimensione domestica affrontata nelle corderie dell’Arsenale dall’installazione 7 houses for 1 house di architecten de vylder vinck taillieu; una nuova tipologia che nella forma di una ‘casa’ ne raggruppa sette indipendenti. Case, ma costruite senza architetti, sono quelle dei pescatori presentate nella mostra Reclaim nel padiglione del Regno del Bahrain (per la prima volta alla Biennale e Leone d’Oro per i padiglioni nazionali); capanne distribuite in modo spontaneo lungo la costa con materiali di recupero, ma ‘luoghi felici’ in cui i pescatori si ritrovano per il tè delle cinque o per le partite di backgammon. A queste
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architetture spontanee si affiancano le case unifamiliari presentate in una sorta di abbecedario volumetrico dall’Estonia; quelle che compongono in modo indipendente il paesaggio urbano di Tokyo nel padiglione Giapponese (Tokyo Metabolizing), quelle del Portogallo e dell’Atelier Bow-Wow declinate in una serie di sperimentazioni compositive. Una casa, densa di memoria e concettuale, può essere intesa l’arca del padiglione greco curato da Phoebe Giannisi e Zissis Kotionis. Una piccola arca lignea (Old seeds for news Cultures), conserva al suo interno i profumi delle spezie del mediterraneo: “le dure conseguenze dei problemi economici che affliggono le città fanno volgere lo sguardo verso la campagna e la terra fruibile, le quali assumono i tratti della risorsa vitale che ha in sé la potenzialità di accrescere l’occupazione, la qualità della vita e la strutturazione alternativa della produzione, ma anche di dar vita a comunità, creare reti di contatti e sviluppare pratiche sociali”. Un messaggio che sembra essere in sintonia con le installazioni a scala territoriale dello Studio Andrea Branzi (Per una nuova Carta di Atene) che nella definizione e nella ricerca di nuovi “modelli deboli di urbanizzazione” dedica una certa attenzione ad una possibile nuova forma di agricoltura. Sullo stesso piano e alla scala di un Rural Urbanism si collocano i modelli insediativi di Aldo Cibic (Rethinking Happiness: New realites for changing lifestyles), microrealities presentate nella
seducente forma di coloratissimi modelli popolati. Ancora in chiave urbana e di vasta scala si colloca il padiglione di Singapore che presenta una striscia tridimensionale della sua città-stato (nella forma di un lungo plastico lineare) cui corrisponde il modello della città compatta, in cui si intrecciano architetture e tipi insediativi tra loro diversi ma uniti in un’unica piattaforma senza soluzione di continuità specchio di una comunità multirazziale. Mentre Hong Kong presenta un’immagine della città tra presente e futuro, tra densità edilizia e il nuovo recente concorso per il West Kowloon Cultural District che cambierà il profilo del waterfront di Kowloon sul Victoria Harbour in cui sono impegnati lo studio di Norman Foster, OMA e Rocco Design Architects. Nella serialità riuso-casa-territorio non manca la dimensione del giardino: quello reale, Il Giardino delle vergini (menzione speciale), del paesaggista olandese Piet Oudolf autore delle sistemazioni a verde dell’High Line newyorkese; quello astratto e artificiale della repubblica Popolare Cinese disegnato da Zhu Pei affiancato da un labirinto metallico in scala ridotta, e quelli di natura disegnata (Persian garden) presentati dall’Iran.
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l’architetto scellerato di Francesco Vertunni
foto courtesy Fondazione Giorgio Cini onlus
A Venezia presso la Fondazione Giorgio Cini una grande mostra dedicata a G.B.Piranesi che affronta ogni aspetto progettuale del maestro veneziano dall’architettura al ‘design’, alle capacità artistiche di incisore e vedutista
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pagina a fianco uno scorcio della mostra con la riproduzione parietale dello “spaccato della bottega ad uso caffè detta degli inglesi” da Diverse maniere dì adornare i cammini,1769.
la macchina scenica ideata da Michele De Lucchi all’interno del percorso espositivo per contenere la proiezione tridimensionale della serie di incisioni sulle Carceri d’invenzione.
A fianco: la riproduzione tridimensionale in marmo a cura del laboratorio Factum Arte di Adam Loewe del “Vaso antico di marmo che si vede in Inghilterra presso il Signor Dalton” in: Vasi, candelabri, cippi, sarcofaghi, tripodi (1778).
Sotto: la comparazione tra l’incisione “Veduta del Romano Campidoglio con Scalinata che và alla chiesa d’Araceli” (da Vedute di Roma) e la lettura fotografica di Gabriele Basilico presa dallo stesso punto di vista oggi.
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Architetto scellerato è il titolo del famoso saggio che lo storico dell’architettura Manfredo Tafuri rivolgeva alla complessa opera di Giovan Battista Piranesi identificando in questo progettista settecentesco i prodromi del modernismo e dell’avanguardia. A Piranesi è dedicata la mostra le Arti di Piranesi (sino al 21 novembre) che riporta nella sua città l’opera nel suo complesso, non solo esponendo la serie delle incisioni conservate presso la Fondazione, ma soprattutto rendendo ‘viva’ e attuale una produzione progettuale di riferimento per la cultura architettonica e figurativa settecentesca. La mostra, ideata da Michele De Lucchi, si sviluppa in un percorso che attiva e rende vibranti le incisioni piranesiane tramite una serie di invenzioni espositive e museali in grado di amplificare il messaggio, già acuto di per sé, delle famose incisioni. Così se il Campo Marzio (1762) – strepitoso collage di tipologie antiche fuse nella forma di città, che tanto ha influenzato la cultura architettonica contemporanea in quanto “horror vacui e richiesta di linguaggio” (Tafuri) – troneggia poco dopo l’ingresso, la serie delle Carceri d’invenzione è presentata, oltre che con le incisioni
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originali, in una proiezione tridimensionale all’interno di una torre disegnata da De Lucchi che ricorda le macchine piranesiane e in una comparazione video in dissolvenza e sovrapposizione che evidenzia gli sviluppi tra la prima stesura e quella finale. Nella sezione degli oggetti, frammenti estratti da composizioni più vaste o oggetti disegnati in modo compiuto, si trasformano, grazie al laboratorio di Adam Loewe Factum Art di Madrid, in manufatti reali declinati in materiali nobili. Camini e vasi di marmo, candelabri e tripodi di bronzo, una magica caffettiera nichelata, traducono, ‘ricreano’, in oggetti concreti quelli immaginati da Piranesi e rimasti sulla carta. Ancora, sottolineando il concetto che la storia è sempre ‘storia contemporanea’, la sala in cui sono raccolte le vedute di Roma e di Paestum vede l’occhio fotografico di Gabriele Basilico confrontarsi con le immagini piranesiane; incisione e fotografia si affiancano mostrando non solo i cambiamenti del paesaggio nel tempo, ma anche le libertà prese da Piranesi per rappresentare la ‘sua’ veduta, a volte volutamente d’invenzione nell’aberrazione prospettica costruita.
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modello del knut hamsun center, hamarØY, NORWAY (2009). la personale di steven holl restituisce il processo del suo design, dal momento del concepimento fino alla realizzazione. La mostra è stata realizzata da Steven Holl Architects: Annette Goderbauer, Janine Biunno, Julia van den Hout a New York e Paola Iacucci e Antonella Mari a Lecce. A corredo della mostra è stato presentato, in traduzione italiana, uno dei testi fondamentali di steven Holl Urbanisms, Lavorare con il Dubbio, Melfi, 2010. acquerelli di steven holl proiettati su una parete di pietra leccese del castello.
Sogni di pietra foto di Alfio Garozzo testo di Alessandro Rocca
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Una mostra al castello di Acaya mette in rapporto l’immaginazione e la cultura di un progettista nordamericano, Steven Holl, con uno spazio cinquecentesco e con un materiale intriso di storia e di memoria come la pietra salentina, utilizzato per quattro sculture pensate e digitalizzate tra Pechino e New York e realizzate a Lecce
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a mostra Su pietra, visitabile nel castello di Acaya, a pochi chilometri da Lecce, fino al 15 gennaio dell’anno prossimo, espone disegni e modelli di alcuni degli ultimi progetti di Steven Holl a cui aggiunge, come contributo originale, quattro sculture disegnate dall’architetto americano e realizzate nella pietra di Cursi, materiale d’eccellenza del barocco leccese. Prodotta dalla Provincia di Lecce, dall’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce e dall’Osservatorio Urbanistico Teknè, la mostra segue una serie di personali dedicate a Heinz Tesar, Alvaro Siza ed Eladio Dieste, ed è una preziosa occasione per un contatto ravvicinato con le ultime idee e progetti di Steven Holl. Sessantatré anni, americano di Seattle con studi a New York e Pechino, Holl si è affermato negli States con progetti di piccola e media dimensione e di squisita fattura, e ha sfondato a livello internazionale con il
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una sala del castello, allestita con disegni, modelli e oggetti dei progetti di steven holl. focalizza l’attenzione l’ animazione virtuale della proiezione sul muro di pietra salentina, riuscito dialogo tra storia e contemporaneità. sotto, veduta esterna del castello di acaya, a pochi chilometri da lecce, progettato dall’ingegnere de gian giacomo dell’acaya, xvi secolo.
concorso per il palazzo del cinema di Venezia, perduto con il plauso della critica, e quindi con il museo Kiasma, costruito ad Helsinki. La mostra, come ha scritto Francesco Moschini, “illustra il processo del design dal momento del concepimento iniziale fino alla realizzazione, documentandone le varie fasi inerenti alla creazione di modelli, al disegno e all’animazione virtuale”. E Steven Holl si presta molto bene a questa indagine perché una delle sue caratteristiche più spiccate è sempre stata l’elaborazione e la condivisione, di un vasto materiale preparatorio formato da acquerelli, un genere di cui è un virtuoso, e da modelli di studio, schizzi e documenti di vario genere. Una componente importante, nella ricerca di Holl, sono anche la scrittura e l’attività editoriale. All’inizio della sua carriera, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, i dieci fascicoli della sua rivista, Pamphlet, presentavano progetti e pensieri per un’architettura alle prese con un problematico superamento dell’epoca modernista. La via immaginata e seguita da Holl, e chiaramente mostrata nella mostra leccese, si caratterizza per il dialogo forte e costruttivo tra le sensazioni più effimere e aleatorie del corpo nello spazio e la statica materialità dell’architettura. Una scommessa saldamente fondata sul pensiero fenomenologico e senz’altro vinta, per la capacità di convincere il pubblico attraverso una seduzione avvolgente, facendo leva sulla sensorialità e su una spettacolarità dolce e rispettosa, senza gli eccessi aggressivi che caratterizzano la maggior parte delle opere delle cosiddette archistar. Dall’ampliamento del Nelson-Atkins Museum di Kansas City al Knut Hamsun Center, in Finlandia, ai numerosi progetti già terminati o in corso d’opera in Cina, il lavoro di Holl si configura come una visione personale e originale che diventa comprensibile e condivisibile anche grazie a iniziative come questa, che mettono in rapporto l’immaginazione e la cultura di un progettista nordamericano con uno spazio cinquecentesco, come quello del castello di Acaya, e con un materiale intriso di storia e di memoria come la pietra salentina.
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sopra , masterplan del SHENZEN’S VANKE CENTER (IL GRATTACIELO ORIZZONTALE), 2009. sotto: le quattro sculture disegnate da steven holl e realizzate nella pietra di cursi, materiale d’eccellenza del barocco leccese, da Pimar e De Luca.
Il 30 novembre di quest’anno Steven Holl riceve il Riba Jencks Award, il premio che l’associazione degli architetti inglesi, per mano del critico di architettura e paesaggista Charles Jencks, conferisce a chi si distingue nel difficile esercizio di promuovere tanto la riflessione teorica che la pratica della costruzione. Nelle passate edizioni il premio è stato attribuito a Zaha Hadid, Foreign Office Architects, Peter Eisenman, Cecil Balmond, UNStudio, Wolf D. Prix & Coop Himmelb(l)au e Charles Correa, progettisti di successo che sono anche ricercatori inquieti, che si mettono in gioco affrontando ogni progetto con spirito inventivo, correndo il rischio della novità. Jencks, l’artefice del premio, è a sua volta un personaggio atipico: americano, critico di successo negli anni Settanta, alfiere del postmodernismo nel decennio successivo, si è poi trasferito in Scozia dove ha intrapreso una seconda vita dedicata alla progettazione di giardini e paesaggi. E Jencks, attualmente all’opera anche nell’area milanese del Portello, coglie, come spunti importanti dell’architettura di Holl, l’attenzione allo studio della luce e dei suoi effetti sulle superfici che portano a spazi tattili e vibratili, sensoriali, così come erano quelli disegnati dal maestro veneziano Carlo Scarpa. (A.R.)
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John McCracken, Shogun, 1965
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In assoluto: Mccracken L’artista californiano ha teso sempre più a semplificare i suoi moduli volumetrici, che, nel corso del tempo, si sono ridotti a un plank (tavola) e ad un block (blocco). L’idea è quella che ogni forma materiale, come la sua percezione, si definisce come in sé di Germano Celant
John McCracken, Untitled (yellow), 1967.
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John McCracken, Violet Block in Two Parts,1966.
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John McCracken, Blue Post and Lintel I, 1965.
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avvento di una ricerca, primaria e riduttiva, definita minimal art, dal 1964 mette in discussione le polarità – espressive e figurali, materiali e ottiche – che avevano informato dall’arte informale alle vicende cinetiche e pop Contro l’impulso soggettivo e l’assemblage casuale, emerge allora la consapevolezza di un operare come processo essenziale ed elementare, limitato e ridotto ai termini specifici del colore e della forma, dello spazio e del tempo. Alla credenza che l’acquisizione del reale e del quotidiano, promossa dal Nouveaux realisme quanto dal New dada, sia la via più diretta per conoscere l’insieme contestuale, ora si contrappone una tecnica di accertamento che si attiene solo alla logica del costruire. Qui i volumi e le articolazioni spaziali vengono determinate dall’ambiente e le verità auto-referenti degli insiemi tri-dimensionali sono il risultato di un azzeramento massimo delle componenti formali, che arrivano a ridursi alle figure elementari del cubo e del parallelepipedo, che
sono le dominanti architettoniche dell’International style affermatosi in America. In tale senso, l’erezione riduttiva dei volumi, dei materiali, dei colori e della procedura costruttiva porta alla formulazione cognitiva di una serie di ‘immagini tri-dimensionali’ che sono aniconici. Infatti, non interessano i problemi iconici, d’ordine individuale e sociale, ma piuttosto ci si focalizza sulle unità standard del display della ‘cosa’, quindi si studiano le relazioni tra pavimento, pareti, soffitto e dimensione scalare dell’oggetto quanto le loro varianti e combinazioni. Si passa pertanto dai composti –simbolici ed espressivi, metaforici e letterari – delle ricerche antecedenti, agli ingredienti costruttivi e ai risultati complessi delle entità elementari. Seguendo le teorie di John Dewey e di Ludwig Wittgenstein, s’intrecciano la visione esperienziale e la decifrazione concettuale che vengono così a essere contrapposte al metodo romantico e astratto che aveva informato l’eroismo dell’Espressionismo astratto quanto il suo racconto per immagini senza forma. La tendenza analitica della Minimal art coincide sostanzialmente con un’indagine sui fatti, sulle cose osservabili e sul rapporto fra tali fatti e cose.
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John McCracken, Yellow Pyramid, 1965.
L’intersezione tra colore e luce, volume e spazio è il fulcro della ricerca di John McCracken che, sin dal 1963, ha lavorato sull’irradiamento cromatico e luminoso di una forma tridimensionale nell’ambiente. Partito dai fenomeni d’accumulazione semplice – quale la piramide e il portale, dove i cubi o i parallelepipedi si sommano per creare un’immagine – l’artista californiano ha teso sempre più a semplificare i suoi moduli volumetrici, che nel corso del tempo si sono ridotti a un plank (tavola) e ad un block (blocco). Sono “single things”, che per McCracken “refer to nothing outside, but which at the same time possibly refer, or relate, to everything”. L’idea è quella che ogni forma materiale, come la sua percezione, si definisce come ‘in sé’, ma non in maniera assoluta, ma in rapporto a una condizione ambientale e psichica. Di fatto le ‘cose’ di McCracken sono insiemi cromatici chiusi, che aumentano la loro intensità in relazione ad altri elementi simili, ma di diverso colore, oppure in dialogo con l’architettura in cui sono collocati. Sono dei ‘rilevatori’ di fenomeni volumetrici e ottici, che aumentano l’intensità del colore e della superficie materica quando sono relazionati uno ad uno, ma esprimono una visione
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assoluta e pura quando si relazionano alla complessità di spazi espositivi diversi. Accanto alle articolazioni elementari e all’esperienza fisica dell’oggetto introdotti dalla Minimal art, l’artista californiano introduce una meditazione sulla luce e sul suo riflesso sulla superficie, utilizzando materiali sintetici come la lacca e il fiberglass, così che le sue opere risultino un ‘ponte’, quasi anti-materico, tra scultura e pittura, tanto da includere nel loro presentarsi sia il pavimento che la luce sottopone a mutazioni percettive differenti, rendendoli quindi cose ‘mutanti’, dove variano l’andare e il venire del colore, quanto la sua intensità e la sua fluidità. Questa mutabilità si lega all’essenza percettiva di un’esperienza sulla luce che è tipica degli artisti in California. Per cui il fare di McCracken non va visto solo come minimal, ma come fenomenico, nel senso dell’impermanenza della percezione che si lega alla variazioni atmosferiche e ambientali, come si verifica nelle opere di Maria Nordman e di Robert Irwin. Un’attenzione cosciente su ciò che una cosa è, nella sua essenza, associata al vuoto che la circonda quanto alla natura del contesto.
Inoltre, il colore è storicamente associato alla fragilità del quadro (ed escluso dalla maggior parte della scultura) ed è quindi ‘relativo’ allo spazio bi-dimensionale, mentre con McCracken si offre come ‘realtà’ autonoma ed estremamente concreta. Assimilabile a un peso e a un ingombro, a una forma e a un volume, a qualcosa che ha efficacia in sé, senza agire all’interno di un altro territorio. Per questa ragione, l’artista ha continuato sino ad oggi a farlo valere come un ‘sé’ indipendente, al punto di enunciarlo in tutte le condizioni ‘scultoree’ possibili, anzi, conoscibile proprio in relazione a tutte le sue varianti. Ecco, allora, il manifestarsi di parallelepipedi o di piramidi, di cubi o di assi, la cui interazione cromatica garantisce, attraverso la medesima caratteristica, la singola realtà autonoma di rosso, verde, giallo, blu, nero... La ripetitività è forma di senso e l’essenza di un ‘sé’ duraturo nel tempo: una meditazione sul colore che è cardine della ricerca artistica. I singoli planks e blocks risultato quindi testimonianze di una esperienza cromatica che aspira continuamente a superarsi, mostrandone la progressiva purificazione, quanto l’infinitezza.
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L’uno si definisce un designer industrioso, l’altro un progettista di pensieri. Il primo prende atto di un modo nuovo di produrre e di creare bisogni, il secondo crede ancora nei sogni e nella poesia del lavoro dei Maestri. A entrambi Triennale Design Museum ha dedicato una mostra personale, mettendo in parallelo le espressioni di due diverse generazioni del progetto italiano
oDoarDo Fioravanti
di Maddalena Padovani
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idea forse un po’ azzardata di mettere a confronto due personaggi così diversi – il ‘maestro’ Marco Ferreri e il ‘giovane’ Odoardo Fioravanti, due progettisti che, almeno per ragioni anagrafiche, occupano ruoli molto differenti nel panorama del design italiano – nasce in occasione dell’inaugurazione quasi contemporanea delle mostre personali a loro dedicate dalla Triennale di Milano. Per Ferreri si tratta di un’importante antologica (Progettarepensieri, a cua di Silvana Annicchiarico, 6 ottobre - 6 gennaio 2011), volta a documentare 35 anni di attività dell’architettodesigner-grafico-artista che i critici definiscono il passaggio chiave tra le generazione dei Maestri e la Nouvelle Vague italiana. La rassegna di Fioravanti (Industrious Design, 22 settembre – 24 ottobre 2010) è certo più piccola, ma non per questo meno importante per il designer che in soli cinque anni di libera professione ha saputo distinguersi tra i nomi nuovi del progetto italiano. Tanto che Silvana Annicchiarico l’ha scelto per aprire il secondo ciclo di mostre sui giovani ospitate nel CreativeSet.
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Marco Ferreri
L’incontro avviene proprio in questo contesto, dove Fioravanti ha trasferito momentaneamente la sua attività giornaliera perché la sua intenzione è presentare in prima persona i suoi progetti, spiegare direttamente ai visitatori il senso e i dettagli della sua personale ricerca. Ancora alle prese con la preparazione del suo allestimento, Marco Ferreri arriva tenendo sottobraccio una raccolta di disegni, immagini, prove di stampa, articoli di giornali che parlano del suo variegato universo immaginifico e di un lavoro difficile da classificare nelle correnti categorie del design. Da una parte, Progettarepensieri: un titolo che allude alla componente più concettuale del progetto e introduce a una mostra pensata per catturare lo stupore e l’emozione del visitatore. Dall’altra, Industrious design:
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una mostra che già negli intenti si propone di mettere in luce l’aspetto più pragmatico e operativo dei progetti di Fioravanti. Quali sono gli intenti di queste presentazioni? Ferreri: “Io credo che i nostri siano due modi opposti di partire e terminare. Odoardo lavora sul progetto emozionale, io invece lavoro sull’emozione che il progetto dell’oggetto suscita in me ma che forse non ha lo stesso effetto sull’acquirente finale. Odoardo ha un approccio assolutamente coerente con la migliore tradizione del design italiano, attento non solo alla forma ma anche ai modi con cui definisce la forma. Che significa: provare tante cose, cercare di capire come funzionano, ricercare soluzioni che funzionino sia tecnicamente che esteticamente. C’è però, a mio avviso, una sostanziale differenza tra la nuova generazione di designer italiani, a cui Odoardo appartiene, e quella dei designer degli anni ’50-’60. Per i vecchi Maestri, che io ho avuto modo di conoscere direttamente, l’emozione, o meglio, l’emozionamento, non era mai un fine della ricerca, bensì quell’attimo magico, unico e imprendibile che faceva diventare poesia un aspetto tecnologico. Questo aspetto, a cui ancora io mi sento legato, è stato superato dalla nuova scuola di designer, che, non me ne vogliano, io definisco più ‘glamour’ rispetto a quelli del passato”. Fioravanti: “Marco ha fondamentalmente ragione. Bisogna dirlo: oggi capita che alcuni miei coetanei disegnino allo scopo di catturare l’obiettivo fotografico. Marco, invece, gode di una caratteristica tutta sua che è quella di essere uno scrittore anche quando progetta. Lo scrittore ha un rapporto interiore con quello che fa, un rapporto molto lungo, intimo, combattuto. Per Marco il progetto è un piacere del tutto personale, estraneo a ogni ricerca di consenso allargato. È una sorta di rapporto a due, molto bello e molto intenso, che difficilmente ammette la presenza di terzi e che talvolta non è del tutto comprensibile ad altre persone. Penso, per esempio, alla sua lampada Soap: un progetto bellissimo ma introverso, comprensibile per i progettisti ma forse un po’ meno per la gente comune, pieno di delicatezze e di complessità nascoste che solo un occhio esperto e molto attento sa cogliere, però”. Qual è il concept delle mostre? Ferreri: “Abbiamo definito un percorso centrale, allestito con teli, pensato come uno stomaco delle idee. Il percorso è introdotto da sei croci in marmo inclinate a 30 gradi intitolate Piccole crisi. L’ispirazione di questa piccola installazione nasce da una rubrica de laRepubblica intitolata Piccole crisi senza importanza, con cui Salvatore Mannironi faceva periodicamente la cruda cronaca dei disastri dell’industria manifatturiera italiana. La mostra inizia dunque con un ritratto dello stato di fatto. L’inclinazione delle croci, però, suggerisce due diverse soluzioni: una possibile risalita, oppure, al contrario, la caduta definitiva. La seconda tappa è rappresentata da un altro progetto inedito: Moto Tessuto, uno specie di scooter che ho sviluppato assieme a Dainese, la cui caratteristica è quella di avere il motore elettrico nella ruota posteriore e la carrozzeria di tessuto, dotata di tasche per il contenimento delle batterie, che può essere levata come un vestito e cambiata secondo le necessità di trasporto: un posto, due posti, con il cane, per le pizze, eccetera. A seguire, ci sono altri progetti-pensieri riconducibili ai vari ambiti in cui lavoro.
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novembre 2010 Interni A sinistra: Fork, lampada con diffusore termoformato; il taglio permette l’innesto di un tubo in alluminio piegato che ha la funzione di tenerla in sospensione (prototipo). Accanto, dall’alto: multipresa elettrica dotata di un braccio a leva regolabile che permette di appenderla a piani di spessori diversi (prototipo). Armillaria, sgabello e tavolo da bar in polietilene stampato in rotazionale, produzione Plust, 2010. Online, sistema di arredi urbani in cemento armato stampato, legno e acciaio, che sfrutta come binari le canaline di raccolta delle acque, produzione Pircher, 2010.
Per esempio, il Libroletto da me progettato assieme a Munari e pensato per far giocare i grandi assieme ai bambini; ma anche una poltroncina gonfiabile che sperimenta sull’oggetto d’arredo la tecnologia dell’air bag. Ai lati di questo percorso centrale si snodano altri due percorsi espositivi dedicati a molti dei tanti oggetti e prodotti che ho sviluppato nel corso di questi 35 anni di lavoro”. Fioravanti: “Per me si tratta, ovviamente, di un percorso molto più breve, anche perché ho scoperto solo a 24 anni che il design era qualcosa di più e di diverso del disegno delle automobili. L’apertura del mio studio risale solo al 2006, per cui la mostra si basa su quello che ho progettato nel corso degli ultimi 4-5 anni. Per questo al termine ‘retrospettiva’ preferisco il concetto di ‘prospettiva’: più che guardare indietro, la mia mostra si propone di fotografare ‘in movimento’ quanto sta succedendo oggi e quello che potrebbe avvenire in un immediato futuro. Non a caso, a 11 oggetti del passato recente ho voluto affiancare nove progetti del tutto nuovi, alcuni presentati quest’anno, altri di prossima produzione, più altri tre ideati appositamente per la mostra ma ancora in cerca di un produttore. Ho cercato di raccontare in maniera onesta e chiara il modo in cui io lavoro e i ragionamenti che stanno dietro i miei oggetti. Ho volutamente usato una forma di racconto un po’ didascalica perché penso che il pubblico abbia il diritto di essere informato sulle ragioni per cui uno scolapasta viene esposto in un museo. Per questo ho usato una formula espositiva a più livelli: al livello inferiore sta l’oggetto finito, a quello superiore l’elemento da cui trae ispirazione”. Con il suo lavoro e la sua mostra, Marco sembra affermare la necessità e l’importanza di un ‘progettare libero’ che spazia tra le varie discipline. Al contrario, Odoardo sottolinea l’aspetto sempre più ‘industrious’ del designer, il cui ruolo è oggi sempre più simile a quello di una factory che fornisce all’industria soluzioni complete e finite. Si tratta di due visioni diverse del mestiere del designer, oppure sono complementari tra loro? Fioravanti: “Il concetto di industriosità nasce dalla presa di coscienza di una profonda trasformazione del ruolo del designer – non esprimo giudizi in merito ma semplicemente ne prendo atto – che oggi si occupa in modo sempre più allargato e completo dello sviluppo del prodotto. Quando ero studente mi raccontavano che Magistretti era solito descrivere i progetti per telefono. Oggi non è certo così: per essere credibili, i giovani designer devono saper ‘vendere’ i loro progetti alle aziende avendo già
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Sotto: binocolo per Palomar, con corpo in polipropilene stampato a iniezione (prototipo).
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Sopra: Capostipiti, sculture sonore realizzate con Davide Mosconi, Fiumana d’arte, Castel di Tusa (Me), 1993. A piena pagina: Mezzo Maiale, piastrella componibile su tutti i lati, produzione Bardelli, 2008-2010 (la serie comprende anche Mezza Gallina, Mezzo Coniglio, Mezza Papera, Mezza Mucca, Mezzo Pesce).
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Fog, tavolino con piano in vetro acidato e corpo in polietilene stampato in rotazionale, produzione Casamania, 2011. Il top in vetro sfuoca i colori dei piani che formano la base del tavolino, creando un effetto di ‘sospensione’ al suo interno.
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Sotto: Poltroncina Airbag, applicazione sperimentale della tecnologia dell’air-bag a un elemento d’arredo. Progetto sviluppato con Dainese D-Tec, 2010. Accanto, dall’alto: Akkappamono, accappatoio realizzato in tessuto GoDai composto da carta washi e seta. La carta washi assorbe l’umidità, la seta è sensuale, supporto ideale per i decori ripresi dalla tradizione giapponese. Produzione GoDai, 2010. Installazione Paraluce realizzata con Magis e Osram all’interno della basilica di San Lorenzo Maggiore a Milano, 2005. Moto Tessuto, concept di scooter sviluppato con Dainese D-Tec. Il motore elettrico è posto nella ruota posteriore; la carrozzeria in tessuto contiene gli elementi della batteria, il resto del telaio è vuoto. Come un vestito, la carrozzeria si trasforma e si adatta alle diverse esigenze di trasporto urbano: un posto, due posti, con il cane, per le pizze, per la chitarra…
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In alto A destra: installazione Piccole Crisi, realizzata con Anzilotti Marmi, 2010.
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realizzato il prototipo, individuato la tecnologia giusta per la produzione, tracciato un’idea per pubblicizzare il prodotto. In poche parole, le aziende si aspettano dai designer non solo il progetto di un prodotto ma anche la proposta di un modo di raccontarlo. Succede qualcosa di analogo a quanto avvenuto nel mondo della musica: le aziende ‘scaricano’ dal mondo delle idee i progetti già fatti, sviluppati e finiti, senza partecipare attivamente al processo creativo. Da qui il mio interesse per la figura industriosa del designer che oggi si dà da fare, sempre più, per riempire i ‘buchi’ di un sistema produttivo che in realtà finisce per occuparsi semplicemente della distribuzione e della commercializzazione dei prodotti”. Sostieni anche che gli oggetti, oggi, soffrono di un eccesso di comunicazione… Fioravanti: “A me piace l’idea che una persona possa mettere del suo nella comprensione degli oggetti, quindi mi fanno paura i prodotti troppo ammiccanti e comunicativi che inducono una sorta di pigrizia interpretativa da parte dei consumatori. Penso che un prodotto debba educare alla bellezza e stimolare la lettura e la scelta di un significato personale, magari diverso per ciascuno di noi. Un oggetto che ‘esibisce’ un preciso significato perde subito interesse, non risulta avere più niente da dire dopo il suo consumo immediato”. Condividi questa visione del design contemporaneo? Ferreri: “Il problema è che oggi la parte più bella del design viene lasciata agli uffici marketing. E questo è un problema che io soffro in modo particolare. Gli uffici marketing studiano, si arrovellano, discutono, ti tormentano, ti fanno fretta, per arrivare infine a definire un prodotto che è esattamente uguale a quello della concorrenza. Da due anni a questa parte, però, le cose sono fortunatamente cambiate e le aziende sono tornate a credere che ci debba essere un pensiero e una missione alla base del loro lavoro. I bisogni della gente sono talmente evidenti, numerosi e vuoti di proposte, che sarebbe una follia non prenderne atto e rimanere ancorati a una visione imbalsamata della produzione. Non si tratta solo di rimettere al centro il bene comune, ma di cogliere anche un’importante opportunità sia per chi progetta che per chi produce”.
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PEBBLE, TAVOLINO IN MATERIALE PLASTICO STAMPATO CON TECNICA ROTAZIONALE, BICOLORE O COLORE UNICO, ADATTO ANCHE PER ESTERNO. DI MATTHIAS DEMACKER PER BONALDO.
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Oggetti non colore restituiscono dettagli e forme nette, una realtĂ senza mediazioni cromatiche, che rievoca il linguaggio fotografico del bianco e nero. Nuovi arredi dalle cromaticitĂ neutre introducono un audace accostamento in tinta piĂš vivace: il turchese
NeuTRaL DesIGn di Nadia Lionello - foto di Simone Barberis
Wallas, poltrona con basamento in tubolare metallico verniciato e seduta in poliuretano flessibile stampato, rivestita in pelle non sfoderabile. Di Jean Marie Massaud per Poliform.
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Joko, sedia con struttura in metallo con imbottitura in poliuretano, rivestibile in tessuto, pelle naturale o sintetica a scelta del cliente (nella foto tessuto di cotone Marimekko). Adatta anche per contract. Di Bartoli Design per Kristalia. Flux, sedia in tondino di acciaio verniciato. Di Jerszy Seymour per Magis.
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Suita sofa, sistema di divani e poltrone singoli o combinabili, con struttura metallica, imbottitura in poliuretano e rivestimento in tessuto. Ăˆ possibile il montaggio di mensole o schienali rialzati; i piedini sono in alluminio pressofuso lucidato, nero o bianco. Di Antonio Citterio per Vitra. Super Impossibile, poltroncina in policarbonato a colore pieno lucido, composta da due scocche, bianca interna e nera esterna o viceversa, saldate al laser. di Philippe Starck per Kartell.
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Sancarlo, poltrona ergonomica, o divanetto, con imbottiture in densitĂ variabile, montate su struttura tubolare metallica laccata, adatta anche per spazi collettivi. Di Achille Castiglioni e realizzata da Tacchini. da disegno originale del 1982.
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Bolle, tavolini-contenitore composti da piani circolari in lastra d’acciaio tornito e base in tubolare metallico verniciati. Di Nathan Yong per Living.
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Jumper, poltroncina con struttura in legno e gambe in acciaio imbottita e rivestita in tessuto di lana lavorato a maglia. Di Bertjan Pot per Established & Sons. Tapas, contenitore multiuso, adatto anche per ufficio, con struttura in legno laccato bianco opaco e ante rivestite in feltro. Di Lagranja Design per Emmebi.
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Send Monocolor, sedia impilabile nella versione per esterno, con struttura in alluminio pressofuso, laccata con polipropilene con seduta e schienale in polipropilene caricato con fibra di vetro. Di Claudio Dondoli e Marco Pocci per Desalto. Zyla, sedia impilabile, fino a quattro unitĂ , in massello di faggio con schienale in multistrato di faggio laccati. Di Patrick Jouin per Ligne Roset.
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L’Eau, di Archirivolto Design per Calligaris, sedia impilabile con struttura in metallo cromato e monoscocca in tecnopolimero San, a effetto onde concentriche, in vari colori trasparenti.
Pattern, di Arik Levy per Emu Advanced Collection, sedia con struttura in lamiera imbutita verniciata, con motivo decorativo esagonale su sedile e schienale; gambe in lamiera imbutita saldate alla scocca.
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NoTe DI TurcHese
Dalla sempre attuale palette neutra tra gli estremi del bianco e nero, emerge quest’anno, con decisione, un colore: il turchese. Una tinta sinonimo di calma e benessere, che combina le serene qualità del blu e la forza vitale del verde. Un chiaro messaggio di ottimismo di Katrin Cosseta eleborazione immagini di Enrico Suà Ummarino
Willy, di Guglielmo Ulrich per Poltrona Frau, riedizione di una poltroncina a pozzetto disegnata nel 1937. struttura e schienale hanno braccioli in acciaio, molleggio con cinghie elastiche, imbottitura in poliuretano espanso da stampo. Il rivestimento in Pelle Frau del Color System è impreziosito da cuciture a losanga.
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Layer Panels, di Arik Levy per Viccarbe, distribuiti in Italia da Misuraemme, pannelli fonoassorbenti rivestiti in tessuto.
Achille, di Jean-Marie Massaud per MDF Italia, poltroncina con struttura in tubolare metallico schiumato con gomme poliuretaniche espanse. ha rivestimento rimovibile in tessuto disponibile in vari colori.
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Andersen Slim, di Rodolfo Dordoni per Minotti, poltrona extralarge con piede in metallo pressofuso colore Peltro finitura extra-lucida anti-touch, rivestimento in pelle o tessuto. disponibile anche con pouf.
Saari, di Lievore Altherr Molina per Arper, poltroncina a seduta ampia; struttura imbottita in legno, rivestimento in tessuto, pelle o ecopelle, gambe in acciaio, verniciate, cromate o impiallacciate.
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May, di Bartoli Design per Arflex, poltroncina imbottita a pozzetto, con bracciolo alto o basso, rivestita in tessuto, pelle o cuoio; struttura metallica schiumata a stampo con poliuretano flessibile.
Mark Table, di Marc Thorpe per Moroso, tavolino a sbalzo in lamiera verniciata in vari colori.
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Valdemar Chair di Martin Kechayas e Christian Nørgaard per Normann Copenhagen, poltrona con scocca interna in legno imbottita, rivestita in tessuto Kvadrat. Anche le gambe tornite in legno di faggio, sono interamente rivestite in tessuto.
Ella, di Damian Williamson per Zanotta, sedia con gambe in lega di alluminio lucidato o verniciato, scocca in poliuretano schiumato autoestinguente con inserto in acciaio e molleggio su spirali di acciaio. Rivestimento sfilabile in tessuto o pelle.
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Lavori in pelle
di Cristina Morozzi
Alchimista delle materie, François Azambourg ha creato, in collaborazione con l’Associazione dei conciatori francesi, una collezione d’arredi che utilizza il cuoio come materia strutturale e ne sfrutta le proprietà elastiche e acustiche
Chaise Capiton, sedia cucita, gonfiata, riempita di resina e quindi modellata in rotazionale.
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Da sinistra: Fauteuil Frisoline, seduta costituita da due fogli di cuoio incollati su una rete. La griglia della rete impressa nel cuoio diventa motivo decorativo. Luminaire Cannellé, lampada da terra con diffusore in pelle di agnello, armata con bacchette di legno che disegnano sulla superficie un motivo di scannellatura, simile a quello delle colonne greche. Transat, chaise longue costituita da una struttura in acciaio e da strati di cuoio incollati su una superficie in morbido poliuretano. Sotto: Table Haute Promenade, tavolo alto con struttura in legno scolpito, rivestita di pergamena di pelle d’agnello in tensione.
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rançois Azambourg, una carriera costellata di premi – tra gli altri, creatore dell’anno del Salone del Mobile di Parigi nel 2009 e Grand Prix du Design de Paris nel 2004 – nel panorama della giovane generazione è una figura anomala. Più alchimista che designer, studia nuove miscele materiche partendo dai materiali naturali, come il lino e le pelle, rende strutturale la carta, tesse le fibre ottiche, espande i tessuti. Ma, a differenza di molti suoi coetanei, designer-artigiani che amano mettere le mani in pasta per creare superfetazioni formali e accumuli organici, disegna forme nitide ed essenziali pertinenti alla miglior tradizione industriale. Il suo lavorare sulle materie non è finalizzato alla ricerca di effetti speciali, all’enfatizzazione delle sagome, ma alla riduzione e all’alleggerimento. Nelle sue mani i materiali mutano le loro proprietà: l’alluminio, senza perdere la sua resistenza, assume l’aspetto goffrato di una carta di cioccolatino; il tessuto, iniettato di poliuretano, diventa strutturale; la fibra di lino, mescolata alla resina, è plasmabile come la plastica; il cuoio si gonfia come un pneumatico. È dedicato al cuoio il suo ultimo progetto ‘Interieurs cuir’, realizzato assieme all’Associazione dei conciatori francesi e proposto nel settembre 2010 presso Lieu du design, un nuovo spazio dedicato al design in Faubourg Saint-Antoine a Parigi. Il progetto prende le mosse da una precisa richiesta dei conciatori: affrancare il cuoio dalla sua sudditanza al mercato del lusso, trovando soluzioni di alta qualità estetica per le seconde scelte. Pane per i denti di Azambourg che si è messo al lavoro,
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evitando tutti gli ‘a priori’ e cercando di rivelare nuovi aspetti del materiale, per riportare anche le seconde scelte verso il mercato alto. Il progetto è iniziato con un progressivo avvicinamento al cuoio, che Azambourg pensava di conoscere e che, invece, gli ha rivelato molte sorprese. Si è concentrato sulla parte strutturale, eliminando l’aspetto decorativo, senza trascurare le tipiche lavorazioni da selleria. Ha abbinato il cuoio al poliuretano, ricreando il rapporto tra pelle e muscoli. Non ha rivestito delle forme predefinite, ma con il supporto della tecnologia ha fatto in modo che dal cuoio scaturissero delle sagome solide, capaci di reggersi in piedi senza sussidi strutturali. Ha applicato al cuoio la tecnica dei gonfiabili: la sua Fauteuil Air Cuir, simile a una nicchia, si gonfia come un pallone da calcio, diventando strutturale. Ne ha sottolineato le proprietà acustiche nella radio in latta, rivestita di pelle di capra con altoparlanti in pergamena di cuoio. Ha bagnato il cuoio per tenderlo come una pelle di tamburo su sagome scolpite in legno (Table Basse Chévre). Gli ha regalato un effetto stropicciato nel paravento con struttura di alluminio (Paravent Froissé). Per il suo pezzo di bravura, la Chaise Capiton, ha cucito un vestito su misura, aderente come un guanto, poi ha bagnato il cuoio per renderlo elastico, quindi ha gonfiato l’involucro con l’aria ed infine, una volta seccato, l’ha riempito, per dargli resistenza strutturale, con un 1 kg di resina. Da un processo rivoluzionario nasce una sedia con effetto capitonné, priva di scocca, avveniristica, ma dotata di una confortante eco di memoria.
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RENDERE eccitante la sostenibilità. OFFRIRE AL CONSUMATORE NUOVE ESPERIENZE CON meno spreco di materia. COINVOLGERLO, DANDOGLI LA SENSAZIONE DI ESSERE partecipe di un processo creativo. QUESTI GLI OBIETTIVI DEL LAVORO DI Yves Behar
OGnI cosa è una scoPerTa di Cristina Morozzi
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a sedia è un progetto aspirazionale: ogni designer, prima o poi, nel corso della sua carriera si cimenta nel suo disegno, nella speranza di consegnare un capolavoro alla posterità. Di sedie ce ne sono tante, forse troppe. Ettore Sottsass amava dire che “ci sono più sedie che culi!”. Difficile inventarne una nuova. Yves Behar, nativo di Losanna, studio (Fuseproject) a San Francisco (32 persone) e a New York (otto) ci prova con Sayl, la nuova seduta operativa di Herman Miller, presentata
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Nella pagina accanto: Yves Behar disegna la trama della rete elastica che, agganciata ad un arco di acciaio inossidabile, costituisce lo schienale della sedia operativa Sayl di Herman Miller, presentata lo scorso ottobre a Colonia in occasione di Orgatec.
Sopra: Un dettaglio dello schienale a rete. Sotto, la versione definitiva della seduta con la rete elastica a pressione differenziata proposta in colore rosso. A sinistra, Yves Behar lavora a uno dei quaranta prototipi realizzati per giungere alla soluzione definitiva della sedia.
lo scorso ottobre all’Orgatec di Colonia. E parte dal corpo, indagando il rapporto simbiotico tra sedia e silhouette. “Prima di tutto”, dichiara, “ho pensato a cosa si poteva togliere. Mi sono venuti in mente i ponti di liane tesi tra due sponde, leggeri e flessibili, ma capaci di sopportare grandi pesi. Ho eliminato la scocca rigida, sostituendola con un arco in acciaio alle cui estremità è fissata una rete stretch. La forma non è disegnata, ma è il risultato della tensione elastica”. La rete a compressione differenziata,
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Amplify, serie di lampade a sospensione ideate da Behar per Swarovski Crystal Palace, aprile 2010. Sono costituite da lanterne di carta a forma di cristallo, all’interno delle quali la luce di un unico led è riflessa e moltiplicata con giochi d’ombra da un solo grande cristallo Swarovski.
Mission one, moto carenata di forma avveniristica disegnata per Mission Motor. L’elevata potenza si combina a un basso consumo di carburante.
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Computer di base XO, sviluppato con Nicholas Negroponte e destinato ai bambini poveri: è rivestito in morbido poliuretano e costa solo 100 dollari. Con questo progetto Yves Behar ha vinto il premio Index nel 2006.
progettata appositamente, al pari della pelle umana protegge e sostiene. Il principio è quello dell’amaca che si adatta al corpo. Pare un gioco, ma per arrivare al modello definitivo ci sono volute ben 40 prototipazioni. Il risultato è un’ergonomia dolce, distante da quella ortopedica delle tradizionali sedie operative. Ma anche una nuova immagine della sedia da lavoro che, smesso l’abito formale, veste una colorata tuta da ginnastica. La richiesta della Herman Miller era di avere una sedia competitiva, anche in termini di prezzo, per il mercato medio. Yves ha accettato la sfida: ridurre appartiene alla sua filosofia. “Bisogna”, non si stanca di ripetere, “levare tutto il possibile, alleggerire, dematerializzare, creare nuove esperienze con meno: meno materia, meno segni... È necessario convincere che il meno è bello. Anche la sostenibilità può essere eccitante!”. È, ad esempio, il caso di Mission One, la moto a basso consumo dalla sagoma avveniristica disegnata per Mission Motor. Gli utenti vanno ingaggiati e resi partecipi, creando oggetti capaci di offrire vantaggi concreti. Nelle mani di Behar la tecnologia avanzata si umanizza e assume le sembianze del gioco. Perde la sua rigidità per avvicinarsi alla morfologia umana. Il corpo è una delle macchine più perfette, la pelle uno dei tessuti più performativi. Sayl è la controforma di un corpo seduto, alleggerita dal peso dei muscoli. È una sorta di placenta protettiva che offre un’immediata suggestione di comfort. Ineccepibile dal punto di vista ergonomico, regala la percezione d’essere accolti in un grembo. Behar ci tiene a precisare che i progettisti devono avere una visione a 360 gradi sul mondo, che ogni angolo va scandagliato, perché la missione del design è quella di produrre cambiamenti accessibili al maggior numero di persone possibili. “Solo se si produce una modificazione, non esclusivamente nella forma ma anche nella percezione e nell’utilizzo, ha senso disegnare qualcosa di nuovo. Può una sedia modificare il modo di affrontare il lavoro in ufficio? Forse sì, se non si disegna solo una sedia, ma un modo di stare seduti. Behar ne ha inventato uno che dà la sensazione di non poggiare su una struttura, ma piuttosto di essere avvolti come in un marsupio. La sedia operativa Sayl con il suo schienale in rete elastica, simile ad un ricamo tridimensionale, calza come un guanto, offrendo una sensazione di gradevole simbiosi. L’approccio al lavoro diventa così più naturale. Umanizzare la sedia, non già attribuendole grottesche sembianze antropomorfe, ma conferendole le prestazioni della pelle, equivale a stabilire un nuovo rapporto tra persone e strumenti. Significa, come auspica Behar, inventare una nuova tipologia capace di produrre un cambiamento. D’inventore merita l’appellativo, sia si tratti di
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Occhiali ‘See better to learn better’, destinati ai bambini indigenti messicani con difetti di vista. sviluppati assieme ad Augen, azienda messicana tra i primi dieci produttori mondiali di lenti, sono provvisti di una montatura bicolore in Gilamid, una plastica molto flessibile. Scatola da scarpe ‘Clever little bag’ per Puma, che riduce del 65 per ecento l’uso del cartone. Il packaging è costituto da un sacchetto di stoffa rossa utilizzabile anche per trasportare le scarpe in valigia e da una fustella di cartone da imballaggio, sagomata, che si ripiega per formare il fondo e i fianchi della scatola. È stata presentata lo scorso giugno al design Museum di Londra.
un computer (XO, il computer da 100 dollari sviluppato assieme a Nicholas Negroponte e destinato ai bambini poveri, con cui ha vinto il prestigioso premio Index nel 2006), di una scatola da scarpe (Puma, presentata al design Museum di Londra lo scorso giugno), di un dispenser per preservativi (New York city condom, commissionatogli dal ministero delle Sanità, lanciato per San Valentino 2010), o di un paio di occhiali da vista per bambini messicani indigenti (See better to learn better). Del resto, la sua storia come designer inizia in giovane età con un’invenzione improbabile: un ibrido tra una tavola da surf e una paio di sci (le sue passioni sportive) costruito nell’illusione di aumentare la velocità. “Ho studiato design”, dichiara, “non per fare lo stylist o il colorista, ma per creare qualcosa che prima non c’era, o che perlomeno abbia dei valori che altri manufatti tipologicamente analoghi non possiedono. I miei oggetti parlano alle persone perché intervengono nel loro modo di vivere. La pubblicità è il prezzo che le aziende devono pagare se non sanno essere originali”.
Orologio da polso Vue, creato per Issey Miyake e presentato alla Fiera dell’orologeria di Basilea lo scorso giugno. È dotato di un innovativo vetro cilindrico montato su cassa d’acciaio e di un meccanismo che evidenzia sul display l’ora corrente, rendendo evanescenti le ore passate e quelle future. L’effetto intende sottolineare lo scorrere del tempo.
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design e nuvole di Laura Traldi
Ci sono quelli kult come Valentina, Corto Maltese e Tex. Ma anche quelli nazional popolari come i Gormiti. Gli eroi dei fumetti entrano nel mondo del progetto d’autore. La loro ‘missione’? Raccontarlo in modo accessibile
Sopra: la locandina di ‘Made in Japain’, mostra sulle aziende di design spagnole voluta dall’ICEX in occasione della Tokyo Design Week, presentata e raccontata da una storia a fumetti ideata dalla collettiva CuldeSac. Accanto, l’illustratore al lavoro. sopra, a destra, Gormiti: personaggi e prototipi in cera di Gianfranco Enrietto, prodotti da Giochi Preziosi. Sono in mostra al Triennale Design Museum, terza interpretazione, Quali Cose Siamo, a cura di Alessandro Mendini, fino al 27 febbrario 2010. Foto di Fabrizio Marchesi. Nella pagina accanto, quattro pagine della storia illustrata.
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A destra: Snakkes di Benito Cortázar per Northern Lighting, una lampada retroilluminata a LED che funge anche da lavagna. Sotto, una pagina del catalogo di Skitsch che ha per protagonista Luca Nichetto, con le illustrazioni di Andy Rementer.
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llo Spazio Krizia, allo scorso FuoriSalone, i foglietti-paralumi scelti da Ingo Maurer per una rivisitazione del suo storico chandelier Zettel’z erano pieni di scritte e disegni. Nessuna frase d’amore, però. Piuttosto, un’accozzaglia di Brooom, Baaang e Oow, circondati da coloratissimi fumetti. E che dire di Cappellini che ha trasformato il pulitissimo sgabello Ribbon disegnato da Nendo in un Topolino? O di Capo D’Opera che ha scelto Corto Maltese di Hugo Pratt per decorare i suoi mobili contenitori? Davvero la cartoon mania sembra dilagare nel mondo del design. Del resto, al Design Museum della Triennale non c’erano forse anche i Gormiti di Gianfranco Enrietto? Più che una tendenza estetica, però, l’interesse del mondo del design per il fumetto va forse letto come un moto di apertura verso una nuova semplicità comunicativa da parte di un universo ancora spesso troppo élitario. Spiegando la sua idea curatoriale per il Design Museum, Alessandro Mendini parla infatti di quel “grande e infinito mondo che vive parallelo a quello del design istituzionale ed è fatto di un design invisibile e non ortodosso”, che però fa breccia nel cuore della gente
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Sopra: L’orologio da parete MGU021 di Marti Guixé per Alessi, Perfetto per disegnarci sopra. Accanto: Mickey’s Ribbon, una rivisitazione in chiave Disney dello sgabello Ribbon dei Nendo per Cappellini, in lamiera di metallo tagliata a laser, piegata e laccata lucida; La collezione ‘Il Falso Kandinsky’ di Giuseppe Canevese per EnneZero, dedicata a Valentina di Crepax.
raccontando storie in modo semplice ed immediato: utilizzando cioè il linguaggio universale delle immagini. La presenza dei Gormiti (come del resto di tanti altri fumetti) alla Triennale può quindi essere letta come un omaggio da parte della cultura del design all’immediatezza e alla semplicità espressiva del mondo dei cartoon che già tanti comunicatori stanno sfruttando egregiamente. È il caso ad esempio di CuldeSac, l’hub creativo di Valencia, invitato dall’Instituto Español de Comercio Exterior (ICEX) a sviluppare la strategia di comunicazione per la collettiva di aziende spagnole alla Tokyo Design Week (29 ottobre – 4 novembre). “Volevamo coinvolgere emotivamente il pubblico, dar vita a un’esperienza da vivere e poi anche da ricordare”, dice Pepe Garcia, uno dei fondatori. Per fare ciò ha scelto di creare un cartoon in cui una nonna narra al suo nipotino la storia dell’affascinante Japain, una sorta di pangea primordiale fatta dall’unione di due Paesi geograficamente (e anche culturalmente) estremamente distanti tra loro, la Spagna e il Giappone. “La scelta del fumetto come mezzo di comunicazione è stata una conseguenza naturale della nostra volontà di celebrare il Paese ospitante al
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pari di quello ospitato”, continua Garcia. E per garantire una qualità che non facesse sfigurare Japain davanti all’arte dei manga giapponesi, i CuldeSac hanno disturbato Paco Roca (National Comic Award 2008) per la realizzazione grafica e Alfredo Llorens (già scultore presso Lladrò dal 1997) per quella delle bambole in ceramica ad altezza uomo, ispirate ai personaggi del fumetto, che sono state posizionate sullo stand: perfette per ispirare i giapponesi allo scatto-ricordo-cum-gadget. Una trovata apparentemente semplice, ma potenzialmente a grande impatto mediatico, assicura Garcia. “Il fumetto piace al grande pubblico”, dice. “Non ha pretese di intellettualismo, appare per quello che è, viene letto anche da chi normalmente rifiuta la parola scritta. E poi, nella versione cartone animato, si è rivelato un’arma vincente su YouTube per far veicolare la mostra ben oltre i confini fisici della Tokyo Design Week”. Concorda Cristina Morozzi, direttore creativo di Skitsch. “Il valore delle cose oggi non viene solo dalla garanzia di qualità ma anche dalla loro capacità di saper raccontare”, dice. “La scelta del fumetto permette di trasformare la comunicazione del prodotto in una narrazione immediatamente
La lampada Blub con paralume in carta e struttura in legno, autoprodotta dal designer tedesco Christian Lessing.
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A sinistra: Il sistema lavanderia Tex di Giugiaro Design per Colavene: il suo scheletro in alluminio ospita i vari accessori come il lavatoio o il cesto per la biancheria. Il decoro a fumetti è realizzato su un robusto tessuto idrorepellente. Sotto: Il mobile contenitore San Marco della collezione Corto Maltese tratto dal fumetto di Hugo Pratt. Progetto di Manuela Pelizzon e Silvano Pierdonà per Capo D’Opera. In basso: Una striscia tratta dal libro a fumetti Bozii di Jacopo Zibardi; il pouf in MDF dipinto a mano di OreosDesign.
comprensibile ai più”. Per questo, allo scorso FuoriSalone, Skitsch ha affidato a un personaggio inventato, Mr Bello, scaturito dalla penna dell’illustratore Andy Rementer, il ruolo di principale narratore in un viaggio di avvicinamento al marchio, ai suoi spazi vendita e ai suoi prodotti. Il fumetto, insomma, permette di dare quel tocco di leggerezza che trasforma un messaggio in una storia da ricordare. E spesso anche di far riflettere e sorridere allo stesso tempo, come nel caso delle strisce satiriche di Jacopo Zibardi: il suo esilarante Bozii è un universo in cartoon completamente dedicato al mondo del design che, visto attraverso gli occhi del personaggio (un giovane aspirante designer) è certamente molto meno glitterato di quanto non si immagini! Del resto anche gli artisti Pop, negli anni ’50 e ’60, attinsero a piene mani dall’immaginario in 2D per creare opere il cui scopo era anche quello di ‘svecchiare’ l’ideale artistico e il concetto del bello, abbracciando una cultura (almeno apparentemente) popolare. Il che non significava necessariamente produrre arte per la massa quanto far assurgere nell’olimpo dell’‘Arte’ le icone della cultura di massa. Allo stesso modo oggi, dopo gli anni della serietà minimalista e del glamour ultra déco, l’immediatezza del fumetto potrebbe rivelarsi un’arma interessante nella corsa per avvicinare la cultura popolare a quella più tradizionalmente élitaria del design. Cosa forse più necessaria oggi di quanto non lo sia mai stata prima.
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Zettel’z di Ingo Maurer, lampada a sospensione con struttura in acciaio inossidabile e vetro satinato termoresistente, qui nella nuova versione a fumetto, presentata allo Spazio Krizia lo scorso aprile.
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STA PER ESSERE ULTIMATA LA nuova architettura AZIENDALE DI Poliform AD INVERIGO SANTA MARIA, IN PROVINCIA DI COMO. PROGETTATA DA Carlo Colombo, SARÀ INAUGURATA A DICEMBRE E RAPPRESENTERÀ UN polo nevralgico PER LO SVILUPPO FUTURO DEL GRUPPO, INSIEME ALLE NUOVE contaminazioni creative foto di Giacomo Giannini - testo di Rosa Tessa
MassImI sIsTemI
LA POLIFORM FACTORY DI AROSIO, UNITÀ CHE OSPITA LA PRODUZIONE DEI SISTEMI ARMADIO, DEI COMPLEMENTI GIORNO E NOTTE E UNO SHOWROOM AZIENDALE. RAPPRESENTA UNA DELLE NOVE UNITÀ DEL GRUPPO, TUTTE DISLOCATE NEL TERRITORIO COMASCO.
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Nella pagina accanto, tavolino Dama in cedro. Design del centro Ricerca e Sviluppo Poliform.
Sopra, libreria Wall System e, sullo sfondo, sedie BB, design Riccardo Blumer e Matteo Borghi.
Fatturato 2009 103 milioni di euro Superficie stabilimento 100 mila m2 Dipendenti 554 Mercati principali Italia 51% Europa 25% (escluso Italia) USA 5%
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arcato il confine tra Milano e Brianza, a Inverigo si trova la prima e più maestosa delle nove insegne dei rispettivi poli produttivi di Poliform, uno dei più dinamici gruppi italiani dell’arredo. Inoltrandosi in questo polmone verde della Lombardia, si incontrano gli altri stabilimenti e uffici del gruppo che producono armadiature, librerie, cucine firmate Varenna, contract, imbottiti
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e sedute. Sono distribuiti nel territorio comasco, posizionati a qualche chilometro l’uno dall’altro, tra Arosio, Lurago d’Erba e Mirovano. Ma è a Santa Maria che Poliform sta ultimando una nuova unità aziendale che sarà inaugurata il prossimo dicembre. Architettura, il nuovo progetto di Carlo Colombo Ideato da Carlo Colombo, uno degli architetti e designer a cui l’azienda è storicamente legata, il nuovo spazio, rappresenta un luogo nevralgico per il futuro del gruppo. “Si tratta di un progetto molto complesso, durato anni”, spiega l’architetto, “che attraverso forme, composizioni e giochi di luce unisce simbioticamente aree vecchie e nuove dello stabile”. Il nuovo polo aziendale raggrupperà tutti gli uffici e gli showroom di Poliform, un ristorante e due grandi sale posa per i servizi fotografici che vengono realizzati tutti internamente per editare gli innumerevoli cataloghi aziendali. “Avevamo bisogno di un luogo che rafforzasse ancora di più la nostra identità di marchio e di prodotto” spiega Giovanni Anzani, uno dei tre soci di Poliform insieme ad Alberto e Aldo Spinelli che con alcuni
dei loro figli tengono le fila di tutte le attività del gruppo. “L’idea”, spiega Anzani, “è che questo nuovo polo possa rappresentare il cuore pulsante di Poliform. Al suo interno concentreremo tutte le attività strategiche, tranne la produzione che continuerà ad essere dislocata nelle sedi tradizionali”. È, invece, Aldo Spinelli che ha seguito direttamente la realizzazione e la progettazione di questa nuova architettura. Negli ultimi mesi è sempre stato in cantiere, facendo, passo passo, ogni scelta insieme all’architetto Colombo: materiali naturali come il legno che copre gran parte della struttura nuova, l’impianto di pannelli fotovoltaici e un progetto botanico di piantumazione che ricoprirà gran parte della recinzione. Insomma questo building vuole essere il riflesso dell’immagine forte del marchio Poliform che, nato negli anni Settanta, si è consolidato soprattutto negli ultimi dieci anni attraverso la determinazione dei titolari: Nino Anzani a capo della comunicazione. Alberto Spinelli dell’area sviluppo e prodotto e Aldo Spinelli, responsabile della produzione. Un gruppo compatto, dove ognuno ha un ruolo preciso, ma dove tutto è condiviso.
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NELLE SALE DI POSA DEL NUOVO BUILDING DEL GRUPPO A INVERIGO SANTA MARIA CHE SARÀ INAUGURATO A DICEMBRE. È UN CENTRO DI 12 MILA METRI QUADRATI CHE RIUNISCE TUTTI GLI SHOWROOM DEL GRUPPO, UN RISTORANTE E UNA SALA POSA ESCLUSIVAMENTE DEDICATA ALLA REALIZZAZIONE DELLA COMUNICAZIONE AZIENDALE. A SEGUIRE L’IMMAGINE E LO STYLING DI POLIFORM È SIMONA SPINELLI (NELLE FOTO ALLE PRESE CON UN SERVIZIO FOTOGRAFICO).
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la linea di levigatura bordi, all’interno di uno stabilimento Poliform, per la realizzazione di ante per armadi e librerie.
Immagine e comunicazione La prima persona ad aver messo piede nella nuova architettura di Poliform è Simona Spinelli, figlia di Aldo, poco più che trentenne, architetto, dall’intelligenza vivace e dall’ani mo curioso. È responsabile dell’immagine e dello styling del gruppo, un’area strategica visto che riguarda, a cascata, i 700 negozi che vendono arredi Poliform, di cui 30 diretti. Premesso che il gruppo è leader nei sistemi d’arredo, con la produzione di pareti attrezzate e armadiature e ha un profondo know how tecnologico nelle cucine con il marchio Varenna, è proprio parlando di immagine che questa realtà industriale si differenzia da altre simili che hanno i suoi stessi standard qualitativi. È una mosca bianca nel settore per l’assiduità con cui, negli ultimi dieci anni, si è preoccupata di costruire la propria identità di marchio. “La comunicazione è una componente strategica nella nostra azienda. Si intreccia con lo sviluppo del prodotto e la distribuzione”, spiega Giovanni Anzani. “Noi, più che vendere singoli prodotti, proponiamo un’idea di casa, che può essere più tradizionale, più giovane, più borghese o più disinvolta. Attualmente la collezione è declinata in nove differenti tipologie abitative, da
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quella più tradizionali a quella più innovativa e alla portata delle tasche delle giovani coppie”. “Non vendiamo prodotti, ma stili di vita” “La sfida per Poliform oggi è cercare di svincolarsi da schemi predefiniti, abbinando il prodotto vintage con quello ipertecnologico e disegnato, quello in legno con quello stampato in plastica. Credo che la tendenza che si coglie maggiormente sia di assoluta contaminazione”, spiega Paolo Mojoli che, di formazione designer industriale, è, di fatto, un uomo di comunicazione e da dieci anni accompagna Poliform nella definizione dell’immagine e nella ricerca di modi efficaci per interpretare nuovi stili di vita. Altro fronte che indica uno sviluppo futuro di Poliform è nella ricerca di prodotti che, sempre più numerosi, vadano al di là dei sistemi d’arredo. “Noi teniamo fede alla nostra missione e identità”, racconta Alberto Spinelli, responsabile prodotto. “Il nostro zoccolo duro continuano ad essere i sistemi d’arredo per la zona giorno e notte che, insieme alle cucine, fanno la parte del leone nel nostro business. Ma è anche vero che da qualche anno stiamo arricchendo la nostra offerta con tavoli, sedi, madie e imbottiti che ambiscono a diventare pezzi iconici del nostro catalogo”.
Contaminazioni “Il modo di arredare le case diventerà sempre più casual” spiega Alberto Spinelli, “e ai complementi si chiede di avere un alto tasso di tecnologia, una personalità sempre più delineata e una particolare sensibilità ai temi della sostenibilità”. Se tra i designer storici dell’azienda ci sono nomi come Paolo Piva e Carlo Colombo, negli ultimi anni i linguaggi si sono moltiplicati, contribuendo ad estendere la famiglia tipologica di prodotti. I contributi sono stati e continuano ad essere innumerevoli. “Con Jean Marie Massaud stiamo facendo una ricerca sui materiali ecosostenibili con un occhio molto attento ai costi. È finita l’epoca del lusso che non bada a spese”, commenta Spinelli e anticipa: “Con Riccardo Blumer, invece, stiamo lavorando sul concetto di case e arredi leggeri”. Testimonianze creative Da Marcel Wanders a Paola Navone, da Vincent van Duysen a Jean Marie Massaud, fino ad abbracciare una nuova schiera di progettisti internazionali, Poliform si confronta sempre più con nuovi orizzonti creativi. Numerosi i contributi dei trentenni, a cui appartiene Rodrigo Torres, colombiano di nascita e milanese d’adozione:
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dall’alto in basso in senso orario, cabina di verniciatura (manuale a spruzzo); linea di foratura fianchi per le cucine; particolare dell’inseritrice di spine su ripiani.
“Poliform è una delle poche aziende che riesce a vendere, più che un prodotto, un sistema di pensiero”, racconta il designer. “Per lei ho fatto pezzi che mi piacciono molto perché sono onesti da un punto di vista comunicativo e costruttivo”. Appartiene alla stessa generazione anagrafica di Torres, Emmanuel Gallina che nei progetti con Poliform ha trasferito il suo approccio di riscoperta dei materiali tradizionali interpretati con una mano molto contemporanea. Di tutt’altra natura il contributo di una veterana come Paola Navone che per il gruppo, crea “prodotti soffici da mettere in relazione con le pareti attrezzate”, come lei li definisce. Un’attitudine simile verso forme essenziali e materiali duraturi unisce lo spirito dell’azienda alla creatività di Vincent Van Duysen: “Tengo tantissimo all’integrità dell’oggetto e del design che si ritrova nelle mie architetture, come nello stile di Poliform”, spiega l’architetto belga. “Ma, l’elemento in cui si intravede una nuova fase di sviluppo nella crescita aziendale è ravvisabile nel fatto che, nei prodotti, accanto al rigore delle forme stia entrando anche qualche nota poetica. È un segnale importante di rinnovamento. Che senso avrebbero una vita e una casa senza emozioni?”.
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ROBERTO GAVAZZI, AMMINISTRATORE DELEGATO DI BOFFI, SI LASCIA ALLE SPALLE APRILE, LA NUOVA CUCINA DISEGNATA PER L’AZIENDA BRIANZOLA DA PIERO LISSONI. APRILE VALORIZZA L’IMPIEGO DI MATERIALI QUALI LEGNI (LAVORATI CON TRATTAMENTI ESCLUSIVI), ACCIAIO INOX E PIETRE. ULTERIORI COMPLEMENTI AL PROGETTO SONO LE CAPPE E I PIANI SNACK IN LEGNO MASSELLO CON GAMBE IN INOX.
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Monolitiche E RIGOROSE O COLORATE E flessibili, LE NUOVE cucine ACQUISTANO VALORE (E vita) ANCHE GRAZIE AI PERSONAGGI CHE LE ‘abitano’, SIANO ESSI designer, imprenditori O presenze ESTEMPORANEE
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di Andrea Pirruccio foto di Maurizio Marcato
PAOLA NAVONE ‘RISPONDE’ AGLI SCATTI DEL FOTOGRAFO MAURIZIO MARCATO. A FIANCO, MENU, LA CUCINA DISEGNATA DALLA STESSA NAVONE PER BONTEMPI NELLA VERSIONE CON BASI CON ANTA NELLA FINITURA ICE OAK, PENSILE NELLA FINITURA STAMPA VETRO E TOP IN ACCIAIO.
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sotto: Massimo Iosa Ghini con il suo progetto sviluppato per Snaidero: E-Wood, cucina con anta realizzata in rovere termico, uno speciale trattamento durante il quale il legno viene sottoposto a un procedimento di essiccazione a 190° che determina una modifica della struttura chimica, con conseguenze positive sia in termini di stabilità dimensionale, sia di colore. In merito alla finitura superficiale, la bellezza del legno è stata ulteriormente valorizzata da una lavorazione che garantisce l’effetto ‘piallato a mano’.
IN ALTO A SINISTRA: È provvisto di una colonna multimediale che permette di guardare la tv il modello SieMatic S2 AL, CON ante color alluminio opaco, piano di lavoro in acciaio lucido e pannelli a parete con ante in vetro nella tonalità bronzo dorato con apertura a pressione. SOPRA: Prototipo sviluppato da Panasonic Electric Works con la supervisione di Naoto Fukasawa, il sistema cucina monoblocco rappresenta una riuscita combinazione di design e funzionalità. La particolare struttura del bancone nasconde il piano cucina, mentre un sistema di illuminazione indiretto conferisce alla composizione un fascino discreto.
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Michael Young sorseggia un caffè nella ‘sua’ Tetrix, la cucina disegnata per Scavolini e progettata su moduli rettangolari da 36x60, abbinati tra loro su assi orizzontali: una soluzione che permette la massima personlizzazione. A caratterizzare il progetto, le ante realizzate applicando a filo lastre di vetro temperato, lucido o opaco, su pannelli in decorativo.
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Federica e Lorenzo Toncelli (proprietari dell’azienda omonima) e Stefano Stefanelli — il designer che per Toncelli ha sviluppato Progetto 50, qui ironicamente ritratto con la testa in una gabbia: immagine che richiama una delle ultime campagne pubblicitarie del marchio — posano orgogliosamente accanto a Progetto 50, una collezione di mobili per la cucina che reinterpreta la tradizione artigianale toscana attraverso l’utilizzo di tecniche produttive all’avanguardia. Nella foto, l’isola realizzata in mousse di cemento e il mobile contenitore in legno solcato.
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Pausa lettura su Checkers, di Giorgio Armani per Armani/Dada, la cucina dal bancone operativo con piano di lavoro in granito nero assoluto e lavello e piano cottura incassati. Le ante sono in vetro trasparente con rivestimento sottostrato a vista in tessuto tecnico impermeabile color argento o in vetro acidato. Ante, basi e colonne sono disponibili anche in santos o rovere nero.
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Francesco Del Tongo (membro della direzione generale dell’omonima azienda) ‘verifica’ personalmente le qualità di Keramos, il modello che ha disegnato e che si connota per l’impiego massiccio di un materiale inconsueto (almeno per l’ambiente cucina) come il monolite ipergres. Nella composizione a isola, il monolite ipergres è utilizzato per ante, top, coprifianchi, vano giorno e anche per la grande vasca rotonda del lavello.
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IN ALTo a sinistra: Argento Vivo, la cucina dalle forme arrotondate disegnata da Roberto Pezzetta per G&D Cucine, nella nuova versione in cui il bianco opaco dominante è in contrasto Con il nero della zona di preparazione e cottura. ‘Guest Star’ della foto è GianMaria Dolfo, uno dei proprietari dell’azienda. SOPRA a sinistra: Una combinazione ottenuta con i sistemi bulthaup b3 e bulthaup b2, da cui si sviluppa un progetto in grado di ridefinire e ridisegnare gli spazi, e in cui si respira un’atmosfera conviviale. La composizione sviluppa l’idea di una cucina aperta, che può essere composta e completata a piacere in base al gusto di ciascuno. sopra: Daniele Lago (direttore marketing e designer di Lago) posa accanto ad alcune delle sue creazioni: la cucina 36e8 (ormai celebre per la sua peculiare modularità basata sul quadrato 36,8 x 36,8) e la nuova dispensa N.O.W., che integra sia il forno sia il frigo con il minimo ingombro. A FIANCO: ultimi ritocchi per il sistema dc 10, design vincenzo de cotiis per rossana. realizzata in ottone brunito e pietra, la cucina è stata concepita unicamente nella versione a centro stanza.
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sopra: Ammirata come un’opera d’arte, New Logica System (design Gabriele Centazzo per Valcucine) si distingue per il nuovo schienale attrezzato, in grado di ospitare tutte le attrezzature da cucina, tra cui la cappa. Il piano è realizzato in vetro trattato con nanotecnologie che aumentano la resistenza ai graffi. in alto a destra: Una successione di aree di lavoro sviluppate secondo criteri razionali definiscono il progetto Spatia, di Antonio Citterio per Arclinea. Spatia integra l’ambiente cucina con il living. L’isola è in marmo di Carrara bianco lucido, con tavolo in rovere nordico. Il doppio sistema pocket contiene i blocchi cottura e lavaggio, la lavastoviglie e il biocompattatore tritarifiuti. a fianco: Cattura l’attenzione il modello Ecocompatta, design Paolo Rizzatto per Veneta Cucine. Si tratta di un modulo cucina di dimensioni ridotte (310x800x200 cm), ma completo in quanto a funzioni. Ecocompatta si sviluppa a partire dall’idea di riduzione: formale, dimensionale e di costi.
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IN ALTO A SINISTRA: È da valorizzare con un’illuminazione idonea Twelve, la cucina progettata da Carlo Colombo per Varenna. Il nome è da riferire ai 12 mm che definiscono l’estetica, basata sullo spessore sottile delle linee orizzontali. Twelve è improntata a un’essenzialità assoluta (enfatizzata dall’assenza di maniglie) e dall’utilizzo di materiali tecnici, come l’acciaio e il vetro per il top. sopra: Ludovica e Roberto Palomba rifiniscono gli ultimi dettagli di Radical, la cucina sviluppata per Elmar. Il modello si distingue per la centralità attribuita ai valori green, con soluzioni quali l’utilizzo del frassino termotrattato e di lamiere realizzate in alluminio riciclabile al 100%. Tra gli elementi centrali di Radical, l’isola dedicata al lavaggio e alla cottura e la cappa in lamiera verniciata. A sinistra: da cesar, cucina kalea, design G.V. plazzogna. il modello si distingue per lo spessore dell’anta (appena 12 mm) e per la particolare finitura rovere a taglio di sega in tinta cognac. gli elementi a giorno, posizionati a sbalzo in profondità e in altezza sull’isola, sono utili a schermare parzialmente la cucina, dando vita a un dialogo con la zona living.
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Disegnata per Binova da Paolo Nava e Fabio Casiraghi, Prima AV (avant-garde) è connotata dalla presenza dei nuovi pensili a soffitto sospesi su un sistema di binari dedicati. I ripiani, in essenza o in laccato, si integrano con la struttura portante verticale in acciaio inox. Sullo sfondo, un divertito Paolo Bolletta, responsabile marketing Binova.
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Merita un’illuminazione adeguata Carrè, la cucina disegnata da Marc Sadler per Ernestomeda e caratterizzata dalla maniglia ricavata da un incavo nell’anta. ampiamente personalizzabile, Carrè può contare su 46 varietà di laccati opachi e altrettante di lucidi, sia per le ante, sia per le maniglie, queste ultime realizzabili in legno (nelle versioni palissandro e ulivo) o in acciaio.
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Possiede anche una ‘nicchia’ nella quale ritirarsi. È Mesa, la cucina sviluppata da Alfredo Häberli per Schiffini, presentata nella nuova finitura nero gomma, con piano di lavoro in ocean black e bancone a sbalzo in acciaio inox.
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ABET LAMINATI spa V.le Industria 21 12042 BRA CN Tel. 0172419111 Fax 0172431571 www.abet-laminati.it abet@abet-laminati.it ALESSI spa Via Privata Alessi 6 28887 CRUSINALLO DI OMEGNA VB Tel. 0323868611 Fax 0323868804 www.alessi.com info@alessi.com ARCLINEA ARREDAMENTI spa V.le Pasubio 50 36030 CALDOGNO VI Tel. 0444394111 Fax 0444394260 www.arclinea.com info@arclinea.it ARFLEX SEVEN SALOTTI spa Via Pizzo Scalino 1 20034 GIUSSANO MB Tel. 0362853043 Fax 0362853080 www.arflex.it info@arflex.it ARPER spa Via Lombardia 16 31050 MONASTIER DI TREVISO TV Tel. 04227918 Fax 0422791800 www.arper.it info@arperitalia.it AUGEN www.augenoptics.com B&B ITALIA spa S. Provinciale 32, 15 22060 NOVEDRATE CO Tel. 031795111 Fax 031791592 www.bebitalia.com info@bebitalia.com BASICNET spa Largo Vitale 1 10152 TORINO Tel. 0112617530 www.basicnet.com BINOVA spa Via Indipendenza 38 06081 PETRIGNANO D’ASSISI PG Tel. 075809701 Fax 0758097020 www.binova.com binova@binova.it BISAZZA spa V.le Milano 56 36075 ALTE DI MONTECCHIO MAGGIORE VI Tel. 0444707511 www.bisazza.com info@bisazza.com BOFFI spa Via Oberdan 70 20030 LENTATE SUL SEVESO MB Tel. 03625341 Fax 0362565077 www.boffi.com boffimarket@boffi.com BONALDO spa Via Straelle 3 35010 VILLANOVA PD Tel. 0499299011 Fax 0499299000 www.bonaldo.it bonaldo@bonaldo.it
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DAINESE spa Via dell’Artigianato 35 36060 MOLVENA VI Tel. 0424410711 Fax 0424410700 www.dainese.com info@dainese.com DE LUCA EDIL CAVE Str. Prov.le Martano - Soleto 73010 ZOLLINO LE Tel. 0836660758 www.pietradicursi.it info@pietradicursi.it DEL TONGO INDUSTRIE spa Via Aretina Nord 163 52040 TEGOLETO AR Tel. 05754961 Fax 0575496278 www.deltongo.com deltongo@deltongo.it DESALTO spa Via per Montesolaro 22063 CANTÙ CO Tel. 0317832211 Fax 0317832290 www.desalto.it info@desalto.it ELMAR srl Via E. Salgari 18 31056 BIANCADE DI RONCADE TV Tel. 0422849142 Fax 0422849789 www.elmarcucine.com elmar@elmarcucine.com EMMEBI srl Via C. Monteverdi 28 20031 CESANO MADERNO MB Tel. 0362502296 Fax 0362509602 www.emmebidesign.com info@emmebidesign.com EMU GROUP spa Z.I. Marsciano 06055 MARSCIANO PG Tel. 075874021 nr verde 800012346 Fax 0758743903 www.emu.it info@emu.it ENNEZERO srl Via delle Crede 8 33170 PORDENONE Tel. 0434571482 Fax 0434511875 www.ennezero.it ennezero@ennezero.it ENTRATALIBERA srl GLAMOUR DESIGN STORE C.so Indipendenza 16 20129 MILANO Tel. 0270006147 Fax 0276115126 www.entratalibera.mi.it info@entratalibera.mi.it ERNESTOMEDA spa Via dell’Economia 2/8 61025 MONTELABBATE PU Tel. 072148991 Fax 07214899780 www.ernestomeda.com contatti@ernestomeda.com ESTABLISHED & SONS 5-7 Wenlock Road UK LONDON N1 7SL Tel. +44 20 76080990 Fax +44 20 76080110 www.establishedandsons.com info@establishedandsons.com
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N. 606 novembre 2010 November 2010 rivista fondata nel 1954 review founded in 1954
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direttore responsabile/editor GILDA BOJARDI bojardi@mondadori.it art director CHRISTOPH RADL caporedattore centrale central editor-in-chief SIMONETTA FIORIO simonetta.fiorio@mondadori.it consulenti editoriali/editorial consultants ANDREA BRANZI ANTONIO CITTERIO MICHELE DE LUCCHI MATTEO VERCELLONI
Nell’immagine: l’architetto inglese john pawson ritratto all’interno dell’archetipo di casa, in pietra riciclata lithoverde di salvatori, progettata e realizzata per l’evento interni think tank, aprile 2010. in the image: The English architect John Pawson shown inside the house archetype, in recycled Lithoverde stone by Salvatori, designed and built for the event Interni Think Tank, April 2010. (FOTO DI/phOTO BY nicolÓ lanfranchi)
Nel prossimo numero 607 in the next issue
Interiors&architecture
Monografia/Monograph: John Pawson INsight
Cavalli, segugi & cacciatori: arredi in stile wilderness
Horses, hounds & hunters: furnishings in wilderness style
INdesign
Venti del nord North winds
Rivoluzione tessile
Textile revolution
Speciale Danish Design
Special on Danish Design
redazione/editorial staff MADDALENA PADOVANI mpadovan@mondadori.it (vice caporedattore/vice-editor-in-chief) OLIVIA CREMASCOLI cremasc@mondadori.it (caposervizio/senior editor) ANTONELLA BOISI boisi@mondadori.it (vice caposervizio architetture/ architectural vice-editor) KATRIN COSSETA internik@mondadori.it produzione e news/production and news NADIA LIONELLO internin@mondadori.it produzione e sala posa production and photo studio rubriche/features VIRGINIO BRIATORE giovani designer/young designers GERMANO CELANT arte/art CLARA MANTICA sostenibilità/sustainability CRISTINA MOROZZI fashion ANDREA PIRRUCCIO produzione e/production and news DANILO PREMOLI hi-tech e/and contract MATTEO VERCELLONI in libreria/in bookstores ANGELO VILLA cinema TRANSITING@MAC.COM traduzioni/translations grafica/layout MAURA SOLIMAN soliman@mondadori.it SIMONE CASTAGNINI simonec@mondadori.it STEFANIA MONTECCHI internim@mondadori.it SUSANNA MOLLICA segreteria di redazione/editorial secretariat ALESSANDRA FOSSATI alessandra.fossati@mondadori.it responsabile/head ADALISA UBOLDI adalisa.uboldi@mondadori.it assistente del direttore/assistant to the editor BARBARA BARBIERI barbara.barbieri@mondadori.it contributi di/contributors: ANTONELLA GALLI MICHELANGELO GIOMBINI CRISTINA MOROZZI ALESSANDRO ROCCA RUTH SLAVID ROSA TESSA LAURA TRALDI fotografi/photographs DAICI ANO SIMONE BARBERIS SANTI CALECA ESTO PHOTOGRAPHICS ALBERTO FERRERO ALFIO GAROZZO GIACOMO GIANNINI MAURIZIO MARCATO SERGIO PIRRONE PAOLO ROSSELLI ENRICO SUÁ UMMARINO STEFANO TOPUNTOLI PAOLO UTIMPERGHER promotion ADRIANA AURELI
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ARNOLDO MONDADORI EDITORE 20090 SEGRATE - MILANO INTERNI The magazine of interiors and contemporary design via D. Trentacoste 7 - 20134 Milano Tel. +39 02 215631 - Fax +39 02 26410847 e-mail: interni@mondadori.it Pubblicazione mensile/monthly review. Registrata al Tribunale di Milano al n° 5 del 10 gennaio1967. PREZZO DI COPERTINA/COVER PRICE INTERNI + ONBOARD € 10,00 in Italy PUBBLICITÀ/ADVERTISING Mondadori Pubblicità 20090 Segrate - Milano Pubblicità, Sede Centrale Divisione Living Direttore: Simone Silvestri Responsabile Vendite: Lucie Patruno Coordinamento: Silvia Bianchi Agenti: Ornella Forte, Claudio Bruni, Fulvio Tosi Agenzie e centri media Lombardia: Patrizia Rossetti Tel.: 02/75422675 - Fax 02/75423641 www.mondadoripubblicita.com Sedi Esterne: LAZIO/CAMPANIA CD-Media - Carla Dall’Oglio Corso Francia, 165 -00191 Roma Tel.: 06/3340615 - Fax: 06/3336383 email: carla.dalloglio@tiscali.it PIEMONTE/VALLE D’AOSTA/LIGURIA Comunication & More Fulvio Tosi - Luigi D’Angelo Via Bologna, 220 - Int.17/13 - 10154 Torino Tel.: 011/8128495 - Fax:011/2875511 email: communication2@mondadori.it TRIVENETO Mediagest Srl - Gaetano Fusetti / Paola Zuin / Elfi Sartori Galleria dei Borromeo, 4 - 35137 Padova Tel.: 049/8752025 - Fax: 049/8751461 email: mppd01@mondadori.it VERONA F.C.G. Pubblicità / Enzo Filippini Via Alberto Mario, 10 - 37121 Verona Tel.: 045/8000868 - Fax: 045/591081 email: mpvr01@mondadori.it EMILIA ROMAGNA/SAN MARINO Marco Tosetti / Irene Mase’ Dari Via Pasquale Muratori, 7 - 40134 Bologna Tel.: 051/4391201 - Fax: 051/4399156 email: irene.masedari@mondadori.it TOSCANA/UMBRIA Marco Marucci - Gianni Pierattoni Paola Sarti - M.Grazia Vagnetti Piazza Savonarola, 9 - 50132 Firenze Tel.: 055/500951- Fax: 055/577119 email: mondadoripubblicita.fi@mondadori.it ABRUZZO/MOLISE Luigi Gorgoglione Via Ignazio Rozzi, 8 - 64100 Teramo Tel.: 0861/243234 - Fax: 0861/254938 email: monpubte@mondadori.it PUGLIA/BASILICATA Media Time - Carlo Martino Via Diomede Fresa, 2 - 70125 Bari Tel.: 080/5461169 - Fax: 080/5461122 email: monpubba@mondadori.it CALABRIA/SICILIA/SARDEGNA GAP Srl - Giuseppe Amato Via Riccardo Wagner, 5 - 90139 Palermo Tel.: 091/6121416 - Fax: 091/584688 email: monpubpa@mondadori.it ANCONA Annalisa Masi Via Virgilio, 27 - 61100 Pesaro Cell.: 348/8747452 - Fax: 0721/638990 email: amasi@mondadori.it
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Interni novembre 2010
INtopics
editorial
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What should we emphasize about this November issue, full of architecture, design and indepth looks at specific themes? The value and leitmotiv of a key term: experimentation, that in our vision rhymes with ‘not temporary’. We have noticed, in fact, that a good project is the one that touches the heart, to ‘inhabit the void’, wagering on communication and dialogue. There are no rigid boundaries between space, volume, dress, body, discipline and approach, when ‘preferred relationships’ are nurtured by emotion and interaction. This is underlined by Kazuyo Sejima, curator of the 12th Architecture Biennial of Venice, with a title chosen to identify the program of this edition: People meet in architecture. The contents of this issue put the same path back into focus. In the feature Interiors&Architecture, the architects explore a way of designing and living, in Italian style, that coincides with a focus on reuse and enhancement of the existing heritage. But there’s more. They also create international works, from museums to offices, that fully demonstrate their design research, tested during the development of previous temporary installations. The protagonists of the Indesign section, from Marco Ferreri to Odoardo Fioravanti, though with different intentions and results, share a constant experimental drive that brings innovation to the fore: of materials, production technologies, typological, formal and conceptual expressions. This is the added value of a transversal approach that also widens the social meaning of design. So, last but not least, the event Milano Fashion Week Design, held during fashion week inside the Ottagono of Galleria Vittorio Emanuele II, was an initial attempt to shed light on the fertile connections between fashion and the design system, in an open, welcoming city. Gilda Bojardi
INteriors&architecture
Private theater p. 2 project Lorenzo Prando and Riccardo Rosso photos Santi Caleca - text Franco Debenedetti The Turin home of Franco Debenedetti, the autobiographical story of a project where the time of life coincides with the time of design, while spaces and objects take on communicative and symbolic value, like words and stories. More than the books you have read, the snapshots you have kept, the houses you have lived in tell the story of your life. Even more so when the house is neither a family legacy or owned, and its character is not the result of habit or convenience, but of repeated, intentional confirmations. In this case, repeated for forty years. Just as architecture belongs, first of all, to its client, so the design of a home is for its inhabitant: so the client has the right, reversing the perspective, to make a portrait of his house from his personal “interior”. Part of this portrait is something the photographs of Santi Caleca cannot capture, namely the way the house was before, in the first ten years in which I lived there. Giorgio Ceretti, Pietro Derossi, Riccardo Rosso had made it hard, like the 1960s were hard, rigorous, just as we thought our ideas were rigorous. A house without the dividing walls of the original plan, to permit views on three sides, geometric like a Mondrian, maniacally rigorous in every detail, built by ablation, so to speak, with carpets curtains knickknacks armchairs, a few meaningful presences: the “cubolo” tables of the Piper Club, two red rafts, two green Tornerajs, prototypes of Gufram, black brushstrokes of Hans Hartung, a ripped Rotella. The red balloon of Mondino and the garden of Gilardi came later. A house with which I had to struggle, and one I really loved: now I sense it as a presence visible to me alone, the hidden trace of the house illustrated here, the one done in 1982 by Lorenzo Prando and Riccardo Rosso. “If interior architecture is the theater of living – Adolf Loos writes – then the task of the architect is skillful directing of the performance”. The performance had changed. My life had changed: I needed another level, connected by the internal staircase inside the yellow drum. The outside world had changed: the radicalism of the previous decade had been supplanted by a focus on historical continuity, sensed not (only) as a constraint, but as a storeroom of signs from which it was possible to rediscover a meaning, perhaps even by reversing the original meaning. Pushing the philological intuition of the first version to the limit with respect to the metal skeleton of the tower, restoring the building’s open plan vocation, which remained “in pectore” for Melis due to the inability of the Italian architectural culture at the time the tower was built. Having abandoned the divisions of the first version and their undulated illusion of intimacy, now the three large sliding panels arranged like spokes, rather than bordering spaces, simply hint at their definition. The annexing of the terrace, populated by geometric solids by Paolo Pejrone, took on a value – also in symbolic terms – of openness to the outside. Openness of spaces, begun in the first version and fully developed here. Openness to different suggestions of taste: custom furnishings with precious materials and details, generated by fascination with rare woods, but also industrial objects, trolleys, grilles, metal sections, in new graftings, some recovered from past lives, divans and armchairs in new covers, or carpets inspired by exotic places. Over the next almost thirty years apparently nothing important happened, nothing has changed since the project in 1982. Is that only because the geographic center of gravity of my life has changed? Actually, and I realize this only now, the project relationship between client and architects has never ceased to exist, it has just shifted from the house to the its objects, the ones I have commissioned, from 1986 to 2009, from Lorenzo and Riccardo, including Christmas presents for my friends. Though barely visible in these images, they have become – with more complete description and illustration – Les très belles heures de F.D.( 22 publishing, Milan, 2009, ed). Since they are for friends, and therefore potential guests, and due to the cultural continuity with Lorenzo and Riccardo that has grown and been consolidated over the decades, those objects are the continuation of the house, seen both as a dwelling and as a project. Metaphorically transfigured as gifts, in a cadence, year after year, these useful objects become not only the “true clues”, to say it with Loos, of the way of living, but also the continuation and evolution of how that way of living is designed and described. And they make the forty years the client has spent on Via Viotti a singular work in progress. - Caption pag. 3 Facing page: the ‘Torre Littoria’ seen from Piazza Castello, with which Armando Melis completed the new Via Roma designed by Piacentini: one of the first buildings with a metal framework made in Turin. From the balcony one sees Palazzo Madama, built around the Roman gate, on which Juvarra superimposed the
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splendid baroque facade containing the access staircase. The entrance of the lower level: the sliding doors hung from a metal trestle divide the single space when needed. Left, a large painting by Salvo, Hercules and the Hydra of Lerna; between the windows, a work by Aldo Mondino. Against the pillar, the console and the postal deposit specially designed for the house, like the canvas lamps that run along the entire ceiling. The wooden furnishings are produced by Fritz Hansen; the carpets from Fez, Morocco, were designed by Prando & Rosso. - Caption pag. 4 The large doors that divide the spaces slide on metal guides. To the right, the cylindrical volume of the internal staircase that connects the two levels of the house. The bookcase in ebony and mahogany with stainless steel hinged shelves is a custom piece. Cubolo table in fiberglass designed by Pietro Derossi for the Piper Club in Turin (1965) and the Drake table designed for the house and later produced by Sawaya & Moroni. Tables by Bruno Mathsson for Fritz Hansen and chairs by Kazuide Takahama for Simon International. The garden designed by Paolo Pejrone: the structures in metal screen create paths and backdrops of ivy, framing spectacular views of the center of Turin. - Caption pag. 6 The bath is open to the bedroom, and only a sliding door separates it from the other spaces. The tub-shower cabin in stainless steel, a custom piece, reflects the external landscape. The kitchen designed for the house is composed of a long ‘table’ in stainless steel with legs covered with red moulded impact-proof nylon. Under the table, trolleys with different functions are inserted. Beyond the window, the cityscape of Turin, with the Mole Antonelliana, Piazza Castello, the Dome of the Holy Shroud. - Caption pag. 7 On the cabinet-planter in stainless steel and glass, the installation by Giulio Paolini, dated 1983, “Le temple de la gloire” (a quotation from Voltaire) that combines a Roman head with a golden cushion, is accompanied by a silkscreen made for Franco Debenedetti.
Cà Maloni p. 8 project Sonia Calzoni - design team Maurizio Bocola photos Paolo Rosselli - text Antonella Boisi At Nibbiano, in Val Tidone, in the rural setting near Piacenza, a rigorous renovation project for a typologically and morphologically specialized architectural complex leads to a residential solution full of nuances and comforts. Farmhouse and rural structures in Val Tidone, in the Apennines near Piacenza, three separate volumes arranged to form a small irregular courtyard. Around them, a meadow that slopes down to a stream, with a pear tree, a cherry tree and ash trees, already there before the project, and some added mulberry trees, poplars, hornbeams along the boundary. Before the project of conversion, for residential use, of this small agricultural settlement from the early 1900s, which had grown over time, everything languished in a state of abandon here. The lack of uniformity of the volumes and the simplicity of their layout have been utilized by Sonia Calzoni as points of reference of a project that attempts to respect the original character of the architectural organism, while responding to the needs of a new residence that updates and enhances that character. “The differing typologies of the buildings”, she explains, “suggested different choices. The hayloft maintains its original structure of brick pillars and roof tiles. I have just closed the spans with large glass and steel partitions, interrupted at the floor slab set back on the two levels, with particular care to contain the thickness of the metal sections. I was looking for the effect of a transparent, reflecting glass box that would make the functions perceptible, as well as the staircase connecting the two levels. Outside, to screen the building, I have placed frames of horizontal planks mounted on sliding panels, while inside Venetian blinds provide a filter with respect to the outside world. For the larger building (including an apartment, a hayloft, a stall and a portico), the spatial reorganization called for the creation of two levels: a ground floor for the living area and a first floor for the nighttime zone. The portico in front of it has become an extension of the living area: a two-storey space, connected to the surrounding landscape thanks to a system of glazings that open completely. Finally, the small stone storage shed has been restored in a conservative way, and maintains its function as a storeroom and tool shed”. Great care has gone into finding a balanced relationship between full and open volumes, relying on materic choices connected with the local tradition and context. The existing parts in stucco and stone have been restored, while all the new perimeter enclosures, required to create a larger volume for the new residence, have been covered with natural wood planks, arranged horizontally. “The planks of variable thickness”, Sonia Calzoni explains, “imitate the wooden enclosures often made in farmhouses to store materials in the haylofts, so they conserve the particular character of a “container” that is part of the origins of the place. They form continuous surfaces that open only in part, at the windows, for which they form a kind of shutter system. In the part corresponding to the ground floor portico they also open, folding upward: another canopy for the outside spaces”. Inside and outside are closely connected, as it was yesterday, as it will be tomorrow. - Caption pag. 9 Front/back of the main volume, a Spartan composition of full and empty parts in local stone, stucco and wood. - Caption pag. 10 The two separate restructured volumes establish a visual dialogue thanks to the large glazings, in a continuous game of indoor-outdoor connections. The skeletons of the original buildings, still featuring brick pillars, have been restored in a respectful way and revitalized thanks to the insertion of essential new elements in steel, glass and wood, like the windows. A corner of the living area created in the main building, with flooring in cream-colored sandstone. Detail of the flexible closure system of a window, made with natural wood planks arranged horizontally. - Caption pag. 11 Above, a landing on the first floor, which contains the bedroom zone, in visual communication with the lower level. The partially glazed box contains a bathroom. Two nighttime spaces that mix spare, well-chosen furnishings inside archetypal structures freed of any superfluous signs. The green bath features back-painted glass in the shower zone and enamel for the walls.
Soft Loft
p. 12 project Ottaviano Design Studio photos Alberto Ferrero - text Antonella Boisi
Conceived as a cottage of the Scandinavian tradition, an inviting space in which to nurture the illusion of living outdoors. From agriculture to architecture to design the path can be short, if there’s authentic passion involved. Even for the self-taught. That’s what happened to Ottaviano Ciabatti, with a degree in agrarian studies and a studio in Crema since 2006. The breakthrough came after a trip to India and the discovery of the beauty of the local
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decors. He began by working in the homes of friends, proposing his own personal route of aesthetic research and visual harmony, with an atypical sensibility that gradually lost its decorative approach and moved toward architecture. All the way to the latest challenges: the projects for a charity center in Bali and a mini-resort at Phuket, including residences-sparestaurant, both works in progress. “I don’t want to seem presumptuous, but I am inspired by Galileo: my style is in thought, aimed at achieving different objectives, case by case”, he explains. In this interior in Crema the needs of a young 50-year-old man, back to being single, who often shares his home with his four children, called for a precise concept: that of a unified space, conducive to socializing, conversation and relationships, where every person can find his own unique, favorite spaces. The potential of the container, a former warehouse, a long, deep structure with high ceilings and almost continuous glazings on the longest wall, as a single reservoir of natural light, was the main stimulus. The ordering fulcrum of the design, in fact, became the “kids’ home”, a home within a home, a second box, white outside and green inside, marked by a series of irregular internal windows, open to passage on the short sides, shaped into four democratically equal bed-islands to permit total autonomy. Otherwise, the narrative moves toward the composition of three distinct, complete domestic islands, that relate to each other according to a logic of continuity and fluidity, in an open visual sequence: from the entrance zone with kitchen, living, dining, billiards and fitness areas, to the living zone in front of the fireplace with a small swimming pool, all the way to the master bedroom with its own closet. To make the construction of a soft loft more incisive, the zone in front of the fireplace has been raised; this permits the seamless insertion in the floor of the small pool, covered with glass mosaic tiles, and provides a certain intimacy for the bed, positioned at a lower level and resting on Spartan skids painted white. “So in the end”, Ciabatti says, “while the volume of the house within the house defines and organizes the living spaces, evoking the image of a Scandinavian wooden cottage, a vacation home, everything around it is a reverse landscape, also made of white painted pine boards, green paint, natural light and little else, to convey a sensation of freedom and wellbeing, like outdoor living”. An indoor dimension that feels like being outdoors, especially near the long tree trunks placed in the corner of the dining area. - Caption pag. 13 On the facing page, the corner of the dining-living area near the entrance. Custom table, chairs by Kartell, divan by B&B Italia, hanging lamp by Fontana Arte. Below: sketch of the functions and the concept. Further down, the relaxation area with a billiard table, fitness gear, and two design icons: a red Vanity Fair armchair by Poltrona Frau and the classic Barcelona in steel and leather by Mies van der Rohe for Knoll International. - Caption pag. 14 View from the bedroom, with a bookcase from Entrata Libera, of the volume of the ‘kids’ home’, designed like a cottage covered on the outside by white painted wooden boards, and marked by a series of small windows that bring natural light from the windows of the main space. The corridor for access to the kids’ home is finished with glossy green paint, a vivid color field underscored by the fluorescent lights. Entrance, four rooms and two bathrooms. The kitchen mixes an industrial tone with a note of color provided by the Algue decorative partition system by the Bouroullec brothers for Vitra. - Caption pag. 15 The relaxation area in front of the fireplace, seen from the nighttime zone. The ordering feature that defines the spatial layout between the two zones is the small swimming pool clad in Bisazza glass mosaic tile.
Monolith of light p. 16 project Rita Simone photos Paolo Utimpergher in collaboration with Antonino Savojardo text Antonella Boisi In Messina, a home on two levels, conceived as an open space inside a single volume paced by fixed furnishings that follow rigorous, classic geometric lines, with the choice of total white to fully embrace the light and the panorama of the Strait. Messina, in the central Montalto neighborhood, gardens and post-quake buildings, from the early 20th century. On the upper level of a building of the “fondo Basicò”, originally for postal employees, with fine views of the Strait, the home of the architect Rita Simone is a place she designed for herself, making the interior restructuring an opportunity for design experimentation. “The specificities of the context”, she explains, “have determined the compositional choices and the pursuit of a 360° view in a space configured as a true chamber of light”. The total demolition of the internal partitions and the existing roof have produced a “stripping down” of the cruciform structural system and the perimeter walls, generating great spatial fluidity. The enclosure is treated as an open space, virtually divided into four functional areas connected with the central positioning of a ‘closet-storage volume’ and a slightly raised platform perpendicular to it. The elimination of the suspended ceiling also permits the creation of a loft level – also at the center of the structural system – with both longitudinal sides overlooking the two-storey space around it. In this way the size of the place has been increased, in both the section and the plan. The fixed furnishings are placed on the perimeter walls, cut by a ribbon of bookcases and hidden cabinets, and at the central volume that contains the bathrooms, more closet space and the appliances. On the raised platform a peninsula-cabinet is set aside for cooking. The upper level, connected to the rest by a sculptural staircase, is organized as the nighttime area, complete with dressing room, washstand and bathtub. “The latter”, Rita Simone says, “is the only element positioned in a non-axial way, with the task of ‘cutting out space’ in a different way. The geometric system composed of the rigorous central arrangement of the aerial beams and the new horizontal level that seems to be suspended suddenly bends, in one part, to generate unexpected complexity”. The radical choice of total white for the enclosure (including the concrete floors) accentuates the luminosity of the spaces, that welcome with aplomb period furnishings that form a contrast with the aluminium surfaces of the central kitchen island and the glass mosaic used for the facings in the bath. - Caption pag. 17 The zone of books has been organized with large full-height shelves built into the wall structure, in a custom design. The spiral staircase in white painted iron leads to the loft with the bedroom zone. Among the vintage furnishings, an original Fifties chair produced by Poltrona Frau. Facing page: view from the window of the living area of the port of Messina and the Strait. In the drawings, from top: the condition before the project, the diagram of the demolition, the reconstruction, the plan of the loft. - Caption pag. 18 The volume clad in sheets of Abet Print laminate that contains the bath fixtures. Below: the building that contains the apartment, part of the former Basicò program of housing for postal employees. The kitchen peninsula, looking toward the dining area. View of the loft zone with the bed lit by a skylight; note the cruciform structural system of the construction. - Caption pag. 19 The peninsula of the kitchen block, all custom made, seen from the dining area. Built-in glass-ceramic range by Siemens.
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Not just temporary
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by Matteo Vercelloni Operating in the field of temporary installations can lead to other developments. The events produced by INTERNI every year during Design Week in Milan act as incubators, over time, for experimentation that combines the dimensions of design and architecture, proposing – in the projects of the professionals involved – a series of design statements that can take permanent constructed form. Not just temporary, then, but an exhibition procedure that becomes an opportunity to test ideas that later become industrialized products or works of architecture. - Caption pag. 20 1.2. Cidori, from the installation by Kengo Kuma, in the event DECODE ELEMENTS, Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milan, 2007, to the architecture of the recent GC Prostho Museum Research Center in Japan. 3.4. From Democratic Ecology, the windmill prototype designed by Philippe Starck for the event Green Energy Design, State University of Milan, 2008, to Revolution Air, the windmill produced by Pramac, in the event INTERNI ThinkTank, State University of Milan, 2010. 5.6. From the Active Enclosure, a project of Bernard Tschumi, Colonne di San Lorenzo, Milan, in the event INTERNI in Piazza, 2002, to the Vacheron Constantin of Plan les Ouates, near Geneva, using the same forms and materials. 7.8. From Sssth!, the installation in wood by Michele De Lucchi, with Listone Giordano, for the event DECODE ELEMENTS, Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milan 2007, to his project in the interiors of the Carisbo Foundation archives, in the former church of San Giorgio in Bologna, 2009.
Cidori p. 22 project Kengo Kuma & Associates - photos Daici Ano At Hida Takayama in Gifu prefecture, Japan, the new GC Prostho Museum Research Center has a close relationship with the history of the place, transforming the Cidori, a traditional children’s toy, into an architectural form where a dense pattern of wooden slats is joined like a volumetric skin to the building below. The Cidori is an ancient Japanese toy, something like the Meccano construction toys of the West. Fascinated by this old, playful ‘mathematical mechanism’, Kengo Kuma has converted the Cidori into architectural terms, shifting it to the dimension of a spatial structure. Developed in permanent urban architecture in the city of Hida Takayama, Japan. For a building that combines the functions of a museum and a research center, Kuma, in collaboration with the engineer Jun Sato, has created a work of architecture with a concrete structure and the three-dimensional wooden skin of the Cidori; utilized to construct the full-height space of the entrance, to clad part of the rooms, to form the internal staircase and part of the furnishings, and to create the external image of the facility. The dense, regular facade composed of interlocking wooden slats is a reminder of ancient Japanese wooden constructions, but also reveals its modernity in the modular shape, that grows from the base, widening at the sides as it rises. Separated from the exterior on two sizes by glazing, the entrance has great impact, especially in the evening, when the light gives the building a gilded look, coloring the base surrounded by a green lawn. Above a stone pavement, the structure of the Cidori gathers objects in its quadrangular grid that give the entire ground floor space the character of a museum. Continuing to the two upper levels, with work zones and meeting rooms, the Cidori forms an internal staircase that overlooks the atrium below and penetrates, almost like a plant structure of controlled biological growth, into the work spaces. - Caption pag. 23 On the facing page: overall exterior view of the spatial structure designed by Kengo Kuma, resting on a concrete base. In the small image: the link with the installation for the event produced by Interni in 2007. The three-dimensional wooden skin forms the internal staircase, the full-height space of the entrance, and part of the furnishings of the museum-research center.
An architectural sheet p. 24 project Bernard Tschumi Architects - photos Esto Photographics Built at Plan-les-Ouates, near Geneva, after an international competition, the headquarters and factory of Vacheron Constantin is a modern architectural landmark, the contemporary image of one of the oldest watch manufacturers in the world. A project based on a programmatic idea taken to the scale of a constructed edifice. Tschumi has worked by imagining a large double-face materic sheet; on one side, the exterior is covered with embossed reflecting sheet metal, almost a metal shield, like the cases of the Vacheron Constantin watches; on the other, a layer of wood gives the interiors a high level of comfort and warmth. Using this large double-face sheet as a compositional element, the project proceeds in a clear, convincing manner. A basic architectural structure marked by continuous glazing conceived as a transparent base of the entire volume, with a pre-set architectural membrane as its covering. The membrane has a sculptural shape, starting from the ground, in the lower part of the building, and continues upward, bending horizontally to become a roof. The first portion of the building, for production, thus erases the idea of the industrial shed, joining with the part that contains the offices, in a seamless solution. The metal membrane rises to form the main facades of the four above-ground levels, and the roof. The facade with its mutable appearance, interrupted by three openings for ribbon windows, stops before reaching the ground, turning inward with a conclusive curve to rest on the glass base. The lateral facades continue the transparent treatment of the base, underlining the completeness of the ‘architectural sheet’, which like a magical flying carpet rests on the structure below, instantly creating the form of the building. (Matteo Vercelloni) - Caption pag. 24 Above, the double-face skin of the building: reflecting embossed sheet metal on the outside, and a layer of wood on the inside. Below: the link with the installation created for the event produced by Interni in 2002. Facing page: ribbon windows are inserted in the facades, following the curves and defining the character of the architectural sheet.
Case History
The captain and his ship p. 26 project Armando Baietto photos Alberto Ferrero and BasicNet archive - text Antonella Boisi Marco Boglione, founder and president of BasicNet – owner of the brands Kappa, Robe di Kappa, K-Way, Jesus Jeans and Superga – explains how people work at BasicVillage,
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a series of chairs, while other materic segments, fragments of lived-in spaces, fill the various rooms. Russia, in the exhibition Factory Russia curated by Sergei Tchoban and others, approaches the theme of the transformation of industrial zones, seeing them as historical landscapes in which to operate with great care. Care for constructed heritage is also the focus of the Dutch pavilion curated by Rietveld landscape, with an urban model suspended in the void and observed from the first level, showing the possibilities of reuse and conversion of buildings in the existing city. In Preservation, OMA illustrates its philosophy on conservation, reflected in the local endeavors of Rem Koolhaas (Leone d’oro for the career), who during the opening presented, for Benetton, his futuristic project of conversion of the Fontego dei Tedeschi, next to the Rialto bridge. Luca Molinari, curator of Ailati (Italia in the mirror) – in an Italian pavilion that selects “works of resistance against consumption of the territory and the cementification, a field in which our country is a world leader”– also announces a future in which reuse and care for existing heritage are obligatory references: “we can no longer afford to consume new territory, to add works upon works; this is a fundamental political priority, in which architecture has to make a technical and cultural contribution. We will no longer need to construct new, “modern” objects to live in our time, we can skillfully reinterpret the heritage we already have, working inside it, modifying, altering density, demolishing with clarity, freeing spaces without feeling the need to immediately fill them up again”. The interesting selection grouped in terms of themes and issues of a series of projects in progress or already built by Italian architects, including some less famous names, is accompanied by the room Italia 2050, in collaboration with the magazine WIRED, featuring ‘creative’ installations that do not offer an equally stimulating scenario. The theme of architecture as a meeting place obviously has to include the dimension of the home, approached at the rope yards of the Arsenal in the installation “7 houses for 1 house” by Architecten de Vylder Vinck Taillieu; a new typology that groups seven independent houses inside the form of one ‘house’. Houses built without architects, by fishermen, are seen in the exhibition Reclaim in the section of Bahrain (its first time at the Biennale, winner of the Leone d’Oro for national entries); huts built spontaneously with recycled, salvaged materials, but also ‘happy places’ where fishermen meet for tea at five, or for games of backgammon. These cabins are close to the single-family homes presented in a sort of volumetric primer by Estonia; those that independently make up the urban landscape of Tokyo, in the Japanese pavilion (Tokyo Metabolizing), those of Portugal and of Atelier Bow-Wow, organized in a series of compositional experiments. One house, dense with memory and concepts, can be seen in the Greek pavilion curated by Phoebe Giannisi and Zissis Kotionis. A small wooden ark (Old Seeds for New Cultures), containing the aromas and spices of the Mediterranean: “the harsh consequences of economic problems that afflict cities make us look to the country and the land, which take on the features of a vital resource that has the potential to increase employment, quality of life and an alternative organization of production, but also to give rise to communities, to create networks of contacts and to develop social practices”. A message that seems to be in tune with the installations on a territorial scale of Studio Andrea Branzi (Towards a new Athens Charter), which define and pursue new “weak models of urbanization” with a certain amount of attention paid to a possible new form of agriculture. On the same plane and scale of Rural Urbanism, we find the settlement models of Aldo Cibic (Rethinking Happiness: New realities for changing lifestyles), microrealities presented in the seductive form of very colorful models. Urban design on a vast scale is also the focus of the Singapore pavilion, offering a three-dimensional strip of the city-state (in the form of a long linear model) which corresponds to the model of the compact city, in which different architectures and settlement types seamlessly intertwine, joined by a single platform to reflect a multiracial community. Hong Kong presents an image of the city between the present and the future, of great density, and the recent new competition for the West Kowloon Cultural District, which will change the profile of the Kowloon waterfront on Victoria Harbour, involving the studios of Norman Foster, OMA and Rocco Design Architects. In the reuse-hometerritory complex the dimension of the garden is also very important: the Garden of the Virgins (honorable mention) by the Dutch landscape designer Piet Oudolf, responsible for the landscaping of the High Line in New York; the abstract, artificial garden of the People’s Republic of China, designed by Zhu Pei, beside a metal labyrinth on a small scale; and the garden of nature, the Persian Garden presented by Iran. - Caption pag. 32 The installation Balancing Act by Anton Garcia-Abril & Ensamble Studio ushers in the theme, in the Rope Walk of the Arsenal, of interaction with the host space; the gigantic beams, an actual-size fragment of the Hemeroscopium house at Las Rozas near Madrid (2008), create a volumetric diagonal with respect to the linear layout of the building (photo Sergio Pirrone). Facing page, Cloudscape by Transsolar & Tetsuo Kondo Architects occupies an entire room, with an ethereal metal walkway that wraps around the brick columns, while a dense artificial cloud blurs the overall figure, reinventing the overall space (photo Matteo Vercelloni). - Caption pag. 34 Above: The Boy Hidden in a Fish by Smiljan Radic + Marcela Correa, installation that opens the exhibition itinerary in the Rope Walk. Center: the Decay of a Dome by the Chinese studio Amateur Architecture. Right: reconstruction of a Work Place by the Indian studio Mumbai Architects (photo S.P.). The abstract artificial garden of the People’s Republic of China, designed by Zhu Pei (photo M.V.). - Caption pag. 35 The installation Reclaim contributed by the country Bahrain (its first time at the Architecture Biennial, winner of the Leone d’Oro for the national pavilions) shows the reconstruction of fishermen’s cabins that spring up spontaneously along the coast, made with salvaged materials (photo M.V.). - Caption pag. 36 Vacant NL, where architecture meets ideas, the installation contributed by Holland as a reflection on reutilization of the architectural heritage of the city and the territory (photo M.V.). - Caption pag. 37 Left, Studio Andrea Branzi, toward a new Athens Charter: Agronica, 1995. To the side, an image of “Ailati riflessi dal futuro”, curated by Luca Molinari at the Italian Pavilion. Below, the Belgian pavilion, in the exhibition Usus/Usures organized by Studio ROTOR, uses materials from common buildings, “traces of wear”, presented with a technique of ‘conceptual disorientation’, as improper art works hanging in the rooms (photo M.V.). Above: image of the New Communities, new polarities model in the installation by Aldo Cibic, Rethinking Happiness: New realities for Changing Lifestyles. - Caption pag. 38 Two images of the contribution of Singapore, with the exhibition 1000 Singapores – A Model of the Compact City (photos M.V.). Below: a portrait of Kazuyo Sejima, the first woman to direct the International Architecture Exhibition of Venice and winner this year, with her partner Ryue Nishizawa, of the prestigious Pritzker Prize (photo S.P.). To the side: an image of Hong Kong in a photographic interpretation by Michael Wolf.
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INmostra
The wicked architect
p. 40 by Francesco Vertunni - photos courtesy Fondazione Giorgio Cini onlus
In Venice, at Fondazione Giorgio Cini, a major exhibition on G.B. Piranesi addresses every aspect of the Venetian master, from architecture to ‘design’ to his artistic prowess as an engraver and capturer of views. The Wicked Architect is the title of the famous essay by architectural historian Manfredo Tafuri on the complex work of Giovan Battista Piranesi, in which he identifies this 18th-century designer as a forerunner of certain aspects of modernism and the avant-garde. Piranesi is also the subject of the exhibition “The Arts of Piranesi” (until 21 November), bringing his work as a whole back to his native city, not only with the series of etchings held by the Foundation, but above all with a timely look at his output and its impact on the architectural and figurative culture of the 1700s. The show, with exhibit design by Michele De Lucchi, has a dynamic itinerary that adds vibrance to the etchings with a series of display inventions capable of amplifying their already formidable impact. Thus the Campo Marzio (1762) – the amazing collage of ancient typologies combined in the form of a city, which has had such an influence on contemporary architectural culture, as “horror vacui and demand for language” (Tafuri) – is seen shortly after the entrance. The series of the Imaginary Prisons is shown not only with the original etchings, but also with a three-dimensional projection inside a tower designed by De Lucchi, and in a video that uses dissolves and overlaps to reveal the developments from the initial sketches to the final version. In the section on the objects, fragments extracted from larger compositions, or objects drawn in a complete way, are transformed – thanks to the workshop of Adam Loewe Factum Art of Madrid – into real articles made with noble materials. Fireplaces and vases in marble, candelabra and tripods in bronze, a magical nickel-plated coffeepot all translate or ‘re-create’, as concrete objects, the things imagined by Piranesi on paper. Underlining the concept that history is always ‘contemporary’, the room that contains the views of Rome and Paestum allows the photographic gaze of Gabriele Basilico to interact with the images of Piranesi; etchings and photographs face off, not only showing the changes that have happened over time, but also the liberties taken by Piranesi to represent ‘his’ view, at times with intentional inventions of perspective and proportion. - Caption pag. 41 On the facing page, view of the exhibition with the reproduction on the wall of the view of the “Caffè detta degli Inglesi” from “Various Ways of Adorning Fireplaces”, 1769. The setting by Michele De Lucchi in the exhibition itinerary for the three-dimensional projection of the series of etchings of the Imaginary Prisons. To the side: the three-dimensional marble reproduction, by the workshop Factum Arte of Adam Loewe, of the “Antique marble vase found in England at the home of Mr. Dalton” in: “Vases, candelabra, gravestones, sarcophagi, tripods” (1778). Below: comparison between the etching “View of the Capitol, Rome” (from Views of Rome) and the photographic interpretation by Gabriele Basilico taken from the same vantage point today.
Dreams in stone
p. 42 photos Alfio Garozzo - text Alessandro Rocca
An exhibition at the Acaya Castle juxtaposes the imagination and culture of a North American architect, Steven Holl, with a 16th-century space and a material steeped in history and memory, Salento stone, used for four sculptures invented and digitalized in Beijing and New York, then made in Lecce. The exhibition “Su pietra”, at the Acaya Castle, a few kilometers from Lecce, until 15 January, includes drawings and models of some of the latest projects by Steven Holl, and also the original contribution of four sculptures created by the American architect and made with Cursi stone, the material par excellence of Lecce baroque. Produced in the Province of Lecce, by the Institute of Mediterranean Cultures of the Province of Lecce and the Osservatorio Urbanistico Teknè, the exhibition follows a series of solo shows on Heinz Tesar, Alvaro Siza and Eladio Dieste, and is a fine opportunity for close contact with the latest ideas and projects of Steven Holl. Now 63 years old, born in Seattle, educated in New York and Beijing, Holl has gained renown in the United States with exquisitely made projects of small-medium scale, and then reached international acclaim thanks to the competition for the Palazzo del Cinema in Venice, where his project, though not the winner, met with the applause of critics, and then with the Kiasma Museum built in Helsinki. The exhibition, as Francesco Moschini writes, “illustrates the design process from the initial moment of conception to the construction, documenting the various phases of the creation of models, drawings and virtual animation”. Steven Holl is a good example to examine for this type of study, because one of his most outstanding characteristics has always been the making and sharing of a vast quantity of preparatory materials, composed of virtuoso watercolors, working models, sketches and documents of different kinds. Writing and publishing also play a major role in Holl’s research. At the start of his career, in the late 1970s and early 1980s, the ten issues of his magazine, Pamphlet, presented projects and thoughts for architecture, in the moment of its problematic evolution beyond the modernist era. The path imagined and followed by Holl, and clearly illustrated in the exhibition, stands out for its strong, constructive dialogue between the temporary sensations of the body in space and the static material nature of architecture. A wager solidly based on phenomenological thinking and undoubtedly a winning one, thanks to the capacity to convince the public through seduction, working on sensory perceptions and a gentle, respectful approach to the spectacular, without the aggressive excess found in many of the works of the so-called starchitects. From the addition to the Nelson-Atkins Museum of Kansas City to the Knut Hamsun Center in Finland, to the many projects already built or now under construction in China, Holl’s work stands out as a personal, original vision that becomes understandable thanks to initiatives like this exhibition. - Caption pag. 43 Watercolors by Steven Holl projected on a wall of the castle in Leccese stone. Model of the Knut Hamsun Center, Hamaroy, Norway (2009). The solo show on Steven Holl illustrates the process of his design, from the initial idea to the construction. The exhibition has been produced by Steven Holl Architects: Annette Goderbauer, Janine Biunno, Julia van den Hout in New York, and Paola Iacucci and Antonella Mari in Lecce. To accompany the exhibition, an Italian translation has been done of one of the fundamental writings of Steven Holl, in “Urbanisms, Lavorare con il Dubbio”, Melfi, 2010. - Caption pag. 44 A room of the castle displaying drawings, models and objects of projects by Steven Holl. The virtual animation of the projection on the wall in Salento stone focuses attention on the effective
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dialogue between history and contemporary themes. Below, exterior view of the castle of Acaya, a few kilometers from Lecce, designed by the engineer Gian Giacomo dell’Acaya, 16th century. - Caption pag. 45 Above, masterplan of the Vanke Center (the horizontal skyscraper), Shenzhen, 2009. Below: the four sculptures created by Steven Holl and made with Cursi stone, the material par excellence of Lecce baroque, by Pimar and De Luca.
INarts
Absolutely: McCracken
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by Germano Celant The Californian artist has simplified his volumetric modules over the course of time, reducing them to a plank and a block. The idea is that every material form, like is perception, is defined as and in itself. Since 1964 the advent of a primary, reductive research known as Minimal Art challenges the expressive and figurative, material and optical polarities that had existed, from Informal Art to the Kinetic and Pop episodes. As opposed to the subjective impulse and the random assemblage, what emerges is the awareness of operation as an essential, elementary process, limited and reduced to the specific terms of color and form, space and time. The belief that the acquisition of the real and the everyday promoted by the Nouveau Realisme and the New Dada is the most direct path to understand the entire context is now challenged by a technique of ascertainment that responds only to the logic of construction. Here the volumes and spatial articulations are determined by the environment and the self-referential truths of three-dimensional groupings are the result of maximum zeroing out of formal components, reaching the point of reduction to the elementary figures of the cube and the parallelepiped, which are the architectural dominants of the International Style that emerges in America. In this sense, the reductive erection of volumes, materials, colors and the constructive procedure leads to the cognitive formulation of a series of ‘three-dimensional images’ that are aniconic. In fact, the focus of interest is not iconic problems, of an individual or social order, but the standard units of the display of the ‘thing’. So what is studied are the relations among floor, walls, ceiling, and the scale of the object, their variations and combinations. There is a move from composites – symbolic and expressive, metaphorical and literary – of earlier research, to the constructive ingredients and complex results of elementary entities. Following the theories of John Dewey and Ludwig Wittgenstein, experiential vision and conceptual deciphering intertwine, and are thus put in opposition with the romantic, abstract method that had informed the heroism of Abstract Expressionism, and its narrative through images without form. The analytical tendency of Minimal Art substantially coincides with an investigation of facts, of observable things and the relationship between those facts and things. The intersection between color and light, volume and space is the fulcrum of the research of John McCracken, who until 1963 worked on the chromatic and luminous radiation of a three-dimensional form in the environment. Starting with phenomena of simple accumulation – the pyramid and the gate, where cubes or parallelepipeds combine to create an image – the artist from Californian continued to simplify his modules, which over time became simply the plank and the block. These are “single things”, which for McCracken “refer to nothing outside, but which at the same time possibly refer, or relate, to everything”. The idea is that every material form, like its perception, is defined as if ‘in itself’, not in an absolute manner, but in relation to an environmental and psychic condition. Actually, the ‘things’ of McCracken are closed chromatic sets, which increase their intensity in relation to other similar elements but of different color, or in dialogue with the host architecture. They are ‘sensors’ of volumetric and optical phenomena, that increase the intensity of the color and the materic surface when related to one another. But they also express an absolute, pure vision when they relate to the complexity of different exhibition spaces. Alongside the elementary articulations and physical experience of the object introduced by Minimal Art, the Californian artist introduces a meditation on light and its reflection on the surface, using synthetic materials like lacquer and fiberglass, so that his works become a ‘bridge’, almost antimateric, between sculpture and painting, to the point of including in their presentation both the floor that the light subjects to different perceptive mutations, thus making them ‘mutant’ things where the coming and going of color can vary, and the light’s intensity and fluidity. This mutable nature is connected to the perceptive essence of an experience on light that is typical of artists in California. Thus McCracken’s work can be seen not only as minimal, but also as phenomenic, in the sense of the impermanence of the perception that is connected with atmospheric and environmental variations, as seen in the works of Maria Nordman and Robert Irwin. A conscious attention to what a thing is, in its essence, associated with the void that surrounds us as well as the nature of the context. Furthermore, color is historically associated with the fragility of the painting (and excluded from most sculpture), so it is therefore ‘relative’ to the two-dimensional space, while with McCracken it appears as an autonomous, extremely concrete ‘reality’. Comparable to a weight or a bulk, a form and a volume, something that has its own efficacy, without acting inside another territory. For this reason, the artist has continued until today to make it emerge as an independent ‘self’, to the point of deploying it in all the possible ‘sculptural’ conditions, making it knowable precisely in relation to all its variants. We see the manifestation of parallelepipeds or pyramids, cubes or boards, whose chromatic interaction guarantees, through the same characteristic, the single autonomous reality of red, green, yellow, blue, black... The repetition is a form of meaning and the essence of a ‘self’ that lasts in time: a meditation on color that is pivotal to artistic research. The single planks and blocks therefore bear witness to a chromatic experience that aspires to continuously surpass itself, demonstrating its progressive purification and infinite nature.
INpeople
Odoardo Fioravanti vs Marco Ferreri
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by Maddalena Padovani One calls himself an industrious designer, the other a designer of thoughts. The first notes a new way of producing and creating needs, the second still believes in the dreams and poetry of the work of the Masters. The Triennale Design Museum has held solo shows of both, a parallel look at the expressions of two different generations of Italian design. The
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perhaps risky idea of comparing two designers that are so different – the ‘mentor’ Marco Ferreri and the ‘youth’ Odoardo Fioravanti, who if only for demographic reasons play two very different roles on the Italian design scene – is prompted by the nearly simultaneous opening of their solo shows at the Milan Triennale. For Ferreri the show is an important retrospective (Progettarepensieri, curated by Silvana Annicchiarico, 6 October - 6 January 2011), documenting 35 years of activity of the architect-designer-graphicdesigner-artist critics have named as a key point of passage between the generation of the Masters and the Italian Nouvelle Vague. The show on Fioravanti (Industrious Design, 22 September – 24 October 2010) is smaller, but no less important for the designer, who in just five years of professional practice has managed to stand out among the new names of Italian design. So much so that Silvana Annicchiarico has chosen him to open the second cycle of exhibitions on young talents, hosted in the CreativeSet. The encounter happens precisely in this context, where Fioravanti has temporarily moved his daily activity, because his aim is to present his projects firsthand, directly explaining the meaning and details of his personal research. Still working on his installation, Marco Ferreri arrives with a collection of drawings, images, proofs, newspaper articles that talk about his varied universe of images, and his work that is hard to classify in the current categories of design. On the one hand, Progettarepensieri: a title that alludes to the more conceptual component of design, for an exhibition conceived to amaze and excite visitors. On the other, Industrious Design: an exhibition whose intentions are to shed light on the more pragmatic, operative aspects of Fioravanti’s work. Ferreri: “I believe we have two opposite ways of starting and finishing. Odoardo works on emotional design, while I work on the emotion the design of the object triggers in me, though it may not have the same effect on the end user. Odoardo has an approach that is absolutely consistent with the best tradition of Italian design, paying attention not only to form but also to the ways it is defined. Which means: trying lots of things, trying to understand how they function, looking for solutions that function both technically and aesthetically. But in my view there is a substantial difference between the new generation of Italian designers, to which Odoardo belongs, and that of the designers of the 1950s and 1960s. For the old Masters, whom I have been able to personally get to know, the emotion, or more precisely its communication, was never a goal of the research, it was that magical, unique, ineffable moment that made a technological aspect become poetry. This aspect, to which I still feel attached, has been surpassed by the new school of designers, whom I would call – I hope they don’t mind – more ‘glamour’ than those of the past”. Fioravanti: “Marco is basically right. It should be said: today some of my contemporaries design with the aim of seducing the camera’s lens. Marco, instead, has a characteristic that is all his own, that of being a writer even when he designs. The writer has an inner relationship with what he does, a much longer, intimate, struggle-filled relationship. For Marco the project is an utterly personal pleasure, extraneous to any pursuit of wider consensus. It is a sort of relationship of two entities, very beautiful, very intense, which seldom admits the presence of third parties, and is not always fully comprehensible to others. I’m thinking, for example, of his Soap lamp: a very beautiful but introverted object, understandable for designers but perhaps not so clear to normal people, full of delicacy and hidden complexities only an expert gaze can grasp”. What is the concept of the exhibitions? Ferreri: “We have outlined a central path, set up with canvases, conceived as a stomach of ideas. The path starts with six marble crosses, inclined by 30 degrees, entitled Small Crises. The inspiration for this small installation comes from a column in La Repubblica entitled “Piccole crisi senza importanza”, with which Salvatore Mannironi periodically chronicled the disasters of the Italian manufacturing industry. The exhibition, then, starts with a portrait of the state of things. The inclination of the crosses, though, suggests two different solution: the possibility of returning up, or the possibility of a definitive fall. The second stop is another new project: Moto Tessuto, a sort of scooter I have developed together with Dainese, whose characteristic is that of having an electric motor in the back wheel and a fabric body, equipped with pockets to contain the batteries. The cover can be removed like a dress and changed according to different needs: one rider, two riders, a dog, pizza, etc. Next come other project-thoughts connected with different areas of work. For example, the Libroletto I designed together with Munari, to encourage adults to play together with kids; but also an inflatable chair that experiments with airbag technology for a furnishing object. To the sides of this path, two other branches feature many objects and products I have created over the course of 35 years of work”. Fioravanti: “For me, obviously, the itinerary is much shorter, also because I didn’t discover that design was something more, something different than the design of automobiles until I was 24. The opening of my studio dates back to just 2006, so the show is based on what I have designed over the last 4-5 years. So instead of ‘retrospective’ I prefer the term ‘perspective’: rather than looking back, my show is a snapshot ‘in motion’ of what is happening today and what might happen in the immediate future. It is no coincidence that 11 objects from the recent past are joined by 9 completely new projects, some presented this year, others about to go into production, and three others made for the exhibition and still in search of a producer. I have tried to narrate, honestly, the way I work and the reasoning behind my objects. I have intentionally used a rather caption-like form of narration, because I think the audience has the right to be informed about the reasons why a colander is displayed in a museum. This is why I have used a display formula on multiple levels: on the lower level you see the finished object, on the upper level the things that generated its inspiration”. With his work and his exhibition Marco seems to assert the need and importance of ‘free design’, ranging through different disciplines. Instead, Odoardo underlines the increasingly ‘industrious’ side of the designer, whose role today is more and more similar to that of a factory that supplies industry with complete, finished solutions. Two different visions of the job of the designer, or complementary points of view? Fioravanti: “The concept of industriousness comes from awareness of a profound transformation of the role of the designer – I’m not making a judgment, just observing something that is happening – who now works in a wider, more complete way on product development. When I was a student they told me that Magistretti liked to describe his projects over the phone. Today that could never happen: to be credible, young designers have to know how to ‘sell’ their projects to companies, after already making the prototype, identified the right technology for production, outlined an idea of the advertising. In short, companies expect designers not only to offer a project for a product, but also a way of narrating it. Something similar has happened in the world of
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music: companies ‘download’ from the world of ideas, finding projects that are already developed and finished, without taking an active part in the creative process. Thus my interest in the industrious figure of the designer, who works more and more today to fill the ‘gaps’ of a productive system that actually ends up handling only on the distribution and marketing of products”. You also say that objects, today, are plagued by an excess of communication… Fioravanti: “I like the idea that a person can put something of his own into the comprehension of an object, so I am afraid of products that are too friendly and communicative, because they induce a sort of laziness of interpretation on the part of consumers. I think a product should teach people about beauty, stimulating thought and the choice of a personal meaning, which might be different for each of us. An object that ‘displays’ a precise meaning immediately gets boring, it has nothing left to say after the initial impact”. Do you share this vision of contemporary design? Ferreri: “The problem is that today the best part of design is left up to the marketing men. This is a problem that particularly bothers me. The marketing divisions study, discuss, search, they torment you, they push you to come up with a product, in the end, that is exactly the same as that of the competition. Fortunately, over teh last two years things have changed, and companies are going back to the belief that there has to be thinking, a mission, behind their work. The needs of people are so evident, so many, and so without answers, that it would be crazy not to notice, to remain in a state of atrophy. The idea is not just to put the common good back at the center of attention, but to also grasp an important opportunity both for design and for production”. - Caption pag. 52 Left: Fork lamp with thermoformed shade; the cut permits insertion of an bent aluminium tube for hanging (prototype). To the side, from top: electric multisocket with adjustable lever arm to permit hanging from surfaces with different thicknesses (prototype). Armillaria bar stool and table in rotomoulded polyethylene, produced by Plust, 2010. Online system of urban furnishings in moulded concrete, wood and steel, using drain channels as tracks, produced by Pircher, 2010. Below: binoculars for Palomar, with body in injection-moulded polypropylene (prototype). - Caption pag. 53 Above: Capostipiti, sound sculptures made with Davide Mosconi, Fiumana d’arte, Castel di Tusa (Me), 1993. Full page: Mezzo Maiale, tile for combinations on all sides, produced by Bardelli, 2008-2010 (the series also includes Mezza Gallina, Mezzo Coniglio, Mezza Papera, Mezza Mucca, Mezzo Pesce). - Caption pag. 54 Fog table with etched glass top and body in rotomoulded polyethylene, produced by Casamania, 2011. The glass top blurs the colors of the pieces that form the base of the table, creating an effect of ‘suspension’ inside. - Caption pag. 55 Below: Airbag chair, experimental application of airbag technology for furniture. Project developed with Dainese D-Tec, 2010. To the side, from top: Akkappamono, robe made with GoDai fabric, composed of washi paper and silk. The washi paper absorbs dampness, the silk is sensual, and an ideal surface for decorations borrowed from the Japanese tradition. Produced by GoDai, 2010. Paraluce installation made with Magis and Osram at the basilica of San Lorenzo Maggiore in Milan, 2005. Moto Tessuto, scooter concept developed with Dainese D-Tec. The electric motor is placed in the rear wheel; the body is made of fabric, and contains the battery. The rest of the frame is empty. Like a dress, the body can be transformed to adapt to different urban transport needs: one rider, two riders, dog passenger, pizza delivery, a guitar… Upper right: Piccole Crisi, installation made with Anzilotti Marmi, 2010.
INdesign INcenter
Neutral design p. 56 by Nadia Lionello - photos Simone Barberis Non-color objects convey clear details and forms, a reality without chromatic mediation, a reminder of the photographic language of black and white. New furnishings with neutral colors set the stage for a daring combination with a lively tone: turquoise. - Caption pag. 56 Pebble table in rotomoulded plastic, two-tone or solid, also ideal for outdoor use. By Matthias Demacker for Bonaldo. - Caption pag. 57 Wallas chair with base in painted metal tubing, seat in moulded flexible polyurethane, with non-removable leather cover. By Jean Marie Massaud for Poliform. - Caption pag. 58 Joko chair with metal structure and polyurethane filler, covered in fabric, natural or synthetic leather chosen by the customer (in the photo, Marimekko cotton fabric). Also suitable for contract. By Bartoli Design for Kristalia. Flux chair in painted steel rod. By Jerszy Seymour for Magis. - Caption pag. 59 Suita sofa, system of single or combined divans and armchairs, with metal structure, polyurethane filler, fabric cover. Shelves or raised backs can be attached; the feet are in black or white polished die-cast aluminium. By Antonio Citterio for Vitra.Super Impossibile, polycarbonate chair in shiny solid colors, composed of two chassis, white on the inside, black on the outside, or vice versa, with laser welding. By Philippe Starck for Kartell. - Caption pag. 60 Sancarlo ergonomic chair or small sofa with variable-density foam filler, on a painted structure of metal tubing, also suitable for public spaces. By Achille Castiglioni, produced by Tacchini from the original design dated 1982. - Caption pag. 61 Bolle, tables-storage units composed of circular tops in turned steel, with base in painted metal tubing. By Nathan Yong for Living. - Caption pag. 62 Jumper chair with wooden structure and steel legs, padded and covered with knitted wool fabric. By Bertjan Pot for Established & Sons. Tapas multipurpose container, also suitable for offices, with matte white painted wooden structure and doors clad in felt. By Lagranja Design for Emmebi. - Caption pag. 63 Send Monocolor, stackable chair in the outdoor version, with structure in die-cast aluminium, lacquered with polypropylene, seat and back in polypropylene laden with glass fiber. By Claudio Dondoli and Marco Pocci for Desalto. Zyla chair, for stacking of up to four units, in solid beech with back in beech plywood and paint finish. By Patrick Jouin for Ligne Roset.
Turquoise notes p. 64 by Katrin Cosseta - image processing Enrico Suà Ummarino Amidst the always timely range of neutral tones, between the extremes of black and white, this year a single color is emerging with force: turquoise. A tone synonymous
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with calm and wellbeing, combining the serenity of blue and the vital force of green. A clear message of optimism. - Caption pag. 64 Pattern, by Arik Levy for Emu Advanced Collection, a chair with a drawn, painted sheet metal structure and a hexagonal decorative motif on the seat and back; legs in drawn sheet metal, welded to the chassis. L’Eau, by Archirivolto Design for Calligaris, stackable chair with chromium-plated metal structure and one-piece chassis in San technopolymer, with a concentric wave effect, in a range of transparent colors. - Caption pag. 65 Willy, by Guglielmo Ulrich for Poltrona Frau, re-issue of a bucket chair designed in 1937. Structure and back with steel armrests, elastic belting, moulded expanded polyurethane filler. Covered with Frau leather from the Color System, enhanced by diamond stitching. - Caption pag. 66 Layer Panels by Arik Levy for Viccarbe, distributed in Italy by Misuraemme, sound absorbing fabric panels. Achille, by Jean-Marie Massaud for MDF Italia, chair with structure in metal tubing, covered with polyurethane rubber foam. Removable fabric cover in a range of colors. - Caption pag. 67 Andersen Slim, by Rodolfo Dordoni for Minotti, extralarge chair with die-cast metal pewter-tone feet, extra shiny anti-touch finish, covered in leather or fabric. Also available with hassock. Saari, by Lievore Altherr Molina for Arper, chair with large seat; padded wooden structure, covered in fabric, leather or ecoleather; steel legs, painted, chromiumplated or veneered. - Caption pag. 68 May, by Bartoli Design for Arflex, padded bucket chair with high or low armrest, covered in fabric, leather or cowhide; metal structure covered with moulded flexible polyurethane.Mark Table, by Marc Thorpe for Moroso, folding table in sheet metal, painted in a range of colors. - Caption pag. 69 Valdemar Chair by Martin Kechayas and Christian Nørgaard for Normann Copenhagen, chair with internal chassis in padded wood, covered with Kvadrat fabric. The turned legs in beech are also entirely covered with fabric. Ella by Damian Williamson for Zanotta, chair with polished or painted aluminium alloy legs, chassis in flameproof polyurethane foam with metal insert and steel spiral springs. Removable covering in fabric or leather.
INproject
Skin works
p. 70 by Cristina Morozzi
An alchemist of materials, François Azambourg has created, in collaboration with the French Tanners Association, a collection of furnishings that use cowhide as a structural material, taking advantage of its elastic and acoustic properties. François Azambourg, a career studded with prizes – including Creator of the Year at the Paris Furniture Show in 2009, and the Grand Prix du Design de Paris in 2004 – is an anomalous figure in the younger generation. More an alchemist than a designer, he studies new materic mixtures, starting with natural substances like linen and leather. He makes paper structural, weaves optical fibers, expands fabrics. But unlike many of his age group, those designer-artisans who like to get their hands dirty to create formal outcroppings and organic accumulations, he designs clear and essential, pertinent forms, in the finest industrial tradition. His work on materials is not aimed at achieving special effects, at emphasizing profiles; the goal is to reduce and lighten. In his hands, materials change their properties: aluminium, without losing its strength, takes on the embossed look of chocolate wrappers; fabric, injected with polyurethane, gains structural stiffness; linen fiber mixed with resin can be shaped like plastic; cowhide gets inflated like a tire. The latter material is the theme of his latest project, ‘Interieurs cuir’, done together with the French Tanners Association and shown in September 2010 at Lieu du design, a new space at Faubourg Saint-Antoine in Paris. The project starts with a precise request from the tanners: to free cowhide from the so-called luxury market, finding solutions of high aesthetic quality for second-grade materials. A perfect challenge for Azambourg, who went to work, avoiding all the ‘a priori’ factors and trying to reveal new aspects of the material. The project began with a gradual familiarization, which led Azambourg to many surprises. He concentrated on the structural side, eliminating the decorative aspects, though without overlooking the typical kinds of workmanship used by saddlers. He combined cowhide and polyurethane, re-creating the relationship between skin and muscles. He did not wrap pre-set forms, but used technology to make cowhide generate solid profiles capable of standing up on their own. He applied the technique of inflation: his Fauteuil Air Cuir, like a niche, inflates like a soccer ball and becomes structural. He underlined the acoustic properties in his tin radio, covered with goatskin, with loudspeakers made of cowhide parchment. He soaked the cowhide to stretch it like the skin of a drum sculpted in wood (Table Basse Chévre). He gave the material a wrinkled effect, in a screen with an aluminium structure (Paravent Froissé). For his virtuoso piece, the Chaise Capiton, he has sewn a tailor-made garment that fits like a glove, then soaked the cowhide to make it elastic, inflated it with air and then let it dry, filling it later with 1 kg of resin for structural strength. From a revolutionary process, a chair is born with a capitonné effect, without a frame, futuristic, but with comforting echoes of the past. Caption pag. 71 From left: Fauteuil Frisoline, a seat composed of two sheets of cowhide glued to a screen. The grid of the screen imprinted on the cowhide becomes a decorative motif. Luminaire Cannellé, floor lamp with sheepskin shade, reinforced with wooden rods that form a motif on the surface, like the grooves in a Greek column. Transat chaise longue, composed of a steel structure and layers of cowhide glued to a sort polyurethane surface. Below: Table Haute Promenade, a high table with a structure in sculpted wood, and lambskin parchment under tension.
Everything is a discovery
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by Cristina Morozzi Making sustainability exciting. Offering consumers new experiences with less wasted material. Engaging them, giving them the sensation of taking part in the creative process. These are the goals of the work of Yves Behar. The chair is an aspirational project: every designer, sooner or later, tries to design one, during the course of his career, in the hope of passing on a masterpiece for posterity. There are many chairs, perhaps too many. Ettore Sottsass liked to say that “there are more chairs than backsides to sit on them!”. It’s hard to invent a new one. Yves Behar, born in Lausanne, with studios (Fuseproject) in San Francisco (32 persons) and New York (eight) takes a crack at it with Sayl, the new
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operations chair by Herman Miller, presented in October at Orgatec in Cologne. He starts with the body, investigating the symbiotic relationship between seat and silhouette. “First of all”, he says, “I thought about what could be removed. Vine bridges came to mind, stretched across a chasm, light and flexible but capable of supporting weight. I eliminated the rigid chassis, replacing it with a steel arch to which a stretch screen is attached at the ends. The form is not designed, it is the result of elastic tension”. The specially designed screen, with differentiated compression, protects and supports, like human skin. The principle is that of the hammock that adapts to the body. It seems like play, but to reach the definitive model 40 prototypes were needed. The result is gentle ergonomics, far from the orthopedic look of traditional office chairs. But also a new image of the work chair, which sheds its formal garb in favor of a colorful track suit. Herman Miller wanted to have a competitive chair, also in terms of price, for the middle of the market. Yves met the challenge: reduction is part of his philosophy. “We need to remove everything possible, to lighten, to dematerialize, to create new experiences with less: less material, fewer signs... We need to convince people that less is beautiful. Even sustainability can be exciting!”. This is the case, for example, of Mission One, the low-consumption motorcycle with a futuristic profile designed for Mission Motor. Users have to be involved and made into participants, creating objects capable of offering concrete advantages. In Behar’s hands advanced technology is humanized and seems like a game. It loses its rigidity and approaches human forms. The body is one of the most perfect machines, the skin one of the most high-performance materials. Sayl is the counterform of a seated body, lightened of the weight of its muscles. It is a sort of protective placenta that offers an immediate sensation of comfort. Ergonomically perfect, it grants the perception of being cuddled in a lap. Behar points out that designers have to have a 360-degree view of the world, that every corner must be explored, because the mission of design is to produce affordable changes for the greatest possible number of persons. “Only if we produce a modification not just of form but also of perception and use, can we say it makes sense to design something new”. Can a chair change our way of approaching office work? Maybe it can, if you do not just design a chair, but a way of sitting. Behar has invented one that gives you the sensation of not resting on a structure, but of being wrapped up in it. The Sayl operations chair, with its back in elastic screen, like a three-dimensional embroidery, fits like a glove, offering a sensation of pleasant symbiosis. The approach to work becomes more natural. To humanize the chair, not giving it grotesque anthropomorphic forms, but giving it the performance of skin, means establishing a new relationship between people and tools. It means, as Behar hopes, inventing a new typology capable of producing a change. He deserves the name of the inventor, whether the matter at hand is a computer (XO, the 100 dollar computer developed together with Nicholas Negroponte for poor children, winner of the prestigious Index prize in 2006), a shoebox (Puma, presented at the Design Museum of London in June), a condom dispenser (New York City Condom, commissioned by the health department, launched for Valentine’s Day 2010), or eyeglasses for poor Mexican kids (See better to learn better). After all, his story as a designer began when he was young, with an improbable invention: a hybrid between a surfboard and a pair of skis (his favorite sports) constructed with the aim of increasing speed. “I studied design”, he says, “not to be a stylist or a colorist, but to create something that did not exist before, or at least something that has values other typologically similar articles do not. My objects talk to people because they intervene in their way of living. Advertising is the price companies have to pay if they don’t know how to be original”. - Caption pag. 73 On the facing page: Yves Behar draws the pattern of the elastic screen that is attached to an arch of stainless steel to form the back of the Sayl operations chair by Herman Miller, presented in October at Orgatec in Cologne. Above: detail of the screen back. Below, the definitive version of the seat with the differentiated-pressure elastic screen, in red. Left, Yves Behar works on one of the 40 prototypes made to reach the definitive version of the chair. - Caption pag. 74 Amplify, series of hanging lamps, designed by Behar for Swarovski Crystal Palace, April 2010. Composed of paper lanterns in the form of a crystal, inside which the light of a single LED is reflected and multiplied with shadows by a single large Swarovski crystal. Mission One, a motorcycle with a futuristic form, designed for Mission Motor. High power, low fuel consumption. - Caption pag. 75 XO basic computer, developed with Nicholas Negroponte for underprivileged kids: covered with soft polyurethane, created to cost just 100 dollars. With this project, Yves Behar won the Index Award in 2006. ‘See better to learn better’, eyeglasses for poor Mexican children, developed with Augen, a Mexican company and one of the top ten worldwide manufacturers of lenses, with two-tone frames in Gilamid, a very flexible plastic. ‘Clever little bag’ for Puma, for a 65% reduction of the use of cardboard to package shoes. A red fabric bag, also useful to pack shoes in a suitcase, and cardboard packing that folds to form the base and sides of the box. Presented in June at the Design Museum of London. Vue wristwatch created for Issey Miyake and presented at the Watch Fair in Basel in June. Equipped with an innovative cylindrical crystal mounted on the steel case, and a mechanism that highlights the present time, making the past and future hours less evident. The effect underlines the passing of time.
INview
Design and clouds
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by Laura Traldi There are cult comics, like Valentina, Corto Maltese and Tex. But there are also popular characters, like the Gormiti. The heroes of comics enter the world of design. Their ‘mission’? To narrate it in an accessible way. At Spazio Krizia, during the last FuoriSalone, the lampscreens selected by Ingo Maurer to revise his historic chandelier Zettel’z were full of messages and drawings. But no love letters, this time. Instead, a gathering of Broooms, Baaangs and Oowwws, surrounded by colorful comic-strip blurbs. And what about Cappellini, and its transformation of the very clean Ribbon stool designed by Nendo into a Mickey Mouse? Or Capo D’Opera, which chose Corto Maltese by Hugo Pratt to decorate its cabinets? Cartoon mania seems to be spreading in the world of design. After all, the Design Museum of the Milan Triennale has also played host to the Gormiti of Gianfranco Enrietto? Rather than an aesthetic trend, this focus of the design world on comics has to do with openness to a new communicative simplicity, to avoid the impression of addressing only a well-heeled elite. Explaining his curatorial idea for the Design Museum, Alessandro
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Mendini talks about that “big, infinite world that exists parallel to that of institutional design, made of an invisible, unorthodox design”, that finds its way into people’s hearts by narrating stories in a simple, immediate way: using the universal language of images. The presence of the Gormiti (and other comics) at the Triennale, then, can be seen as a sort of tribute, on the part of design culture, to the immediacy and expressive simplicity of the comics and cartoons. Many communicators have taken the cue, like CuldeSac, for example, the creative hub in Valencia, invited by the Instituto Español de Comercio Exterior (ICEX) to develop a communications strategy for the group show of Spanish companies at Tokyo Design Week (29 October – 4 November). “We wanted to emotionally engage the public, to create an experience to be lived and remembered”, says Pepe Garcia, one of the founders. To do it, he decided to create a cartoon in which a grandmother tells her grandchild the story of fascinating Japain, a sort of primordial Pangaea that combines two geographically (and culturally) distant countries, Spain and Japan. “The choice of the comic strip as a means of communicating was a natural result of our desire to focus on both countries”, Garcia continues. To guarantee a level of quality that would not make Japain look bad with respect to the fine art of Japanese manga, CuldeSac called on Paco Roca (National Comic Award 2008) for the drawings, and Alfredo Llorens (a sculptor at Lladrò since 1997) for the life-size ceramic dolls, based on the characters, positioned at the stand: perfect to inspire Japanese visitors to take a souvenir photograph. An apparently simple idea, but with great media potential, as Garcia points out. “Comics appeal to a wide audience”, he says. “They don’t seem intellectual, they are more evident, and are read even by those who normally don’t like to read. In the animated cartoon version, they can be a winning ploy on YouTube, to send word of the exhibition well beyond the physical confines of Tokyo Design Week”. Cristina Morozzi, creative director of Skitsch, agrees. “The value of things today does not come only from a guarantee of quality, but also from their capacity to tell a story”, she says. “The choice of comics makes it possible to transform product communication into a narrative that is immediately understandable for most people”. This is why at the latest FuoriSalone Skitsch used an invented character, Mr Bello, created by the illustrator Andy Rementer, as the main narrator in a voyage of approach to the brand, its sales spaces and products. Comics, in short, can provide that light touch that transforms a message into a memorable story. They can also make people think and smile at the same time, as in the case of the satirical strips of Jacopo Zibardi: his exhilarating Bozii is a cartoon universe entirely focused on the world of design, seen through the eyes of a character (an aspiring young designer), and certainly not as glamorous as it might seem from another perspective! After all, the Pop artists of the 1950s and 1960s made ample use of 2D imagery to create works whose aim was also to rejuvenate the artistic ideal, the concept of beauty, embracing popular culture. Which did not necessarily mean producing art for the masses… it meant raising mass culture to the level of Art. In the same way, today, after years of serious minimalism and ultra-decorative glamour, the immediacy of comics can be an interesting technique in the process of combining popular culture and the elite world of design. Something that is probably more necessary today than ever before. - Caption pag. 77 Above: the poster of ‘Made in Japain’, the exhibition on Spanish design companies organized by ICEX for Tokyo Design Week, presented and narrated by a story, in comics, created by the group CuldeSac. To the side, the illustrator at work. Upper right, the Gormiti: characters and prototypes in wax by Gianfranco Enrietto, produced by Giochi Preziosi. On display at the Triennale Design Museum, third interpretation, Quali Cose Siamo, curated by Alessandro Mendini, until 27 February 2010. Photo Fabrizio Marchesi. On the facing page, four pages of the illustrated story. - Caption pag. 78 Right: Snakkes by Benito Cortázar for Northern Lighting, a backlit LED lamp that also functions as a message board. Below, a page from the Skitsch catalogue with the protagonist Luca Nichetto, illustrated by Andy Rementer. - Caption pag. 79 Above: the MGU021 wall clock by Marti Guixé for Alessi, perfect for doodling. To the side, Mickey’s Ribbon, a Disney-style reworking of the Ribbon stool by Nendo for Cappellini, in laser-cut sheet metal, bent and painted with a glossy finish; the ‘Il Falso Kandinsky’ collection by Giuseppe Canevese for EnneZero, dedicated to Valentina by Crepax. The Blub lamp with paper shade and wooden structure, self-produced by the German designer Christian Lessing. - Caption pag. 80 Left: the Tex laundry system by Giugiaro Design for Colavene: the aluminium skeleton contains the various accessories, like the sink or the hamper. The comic-strip decoration is on sturdy waterproof fabric. Below: the San Marco cabinet from the Corto Maltese collection, based on the comics by Hugo Pratt. Project by Manuela Pelizzon and Silvano Pierdonà for Capo D’Opera. Below: a strip from the book of comics Bozii by Jacopo Zibardi; the pouf in hand-painted MDF by OreosDesign. - Caption pag. 81 Zettel’z by Ingo Maurer, hanging lamp with structure in stainless steel and heat-resistant satin-finish glass, seen here in the new comics version presented at Spazio Krizia in April.
INfactory
Chief systems
p. 82 photos Giacomo Giannini - text Rosa Tessa
The latest corporate work of architecture of Poliform is about to be completed at Inverigo Santa Maria, in the province of Como. Designed by Carlo Colombo, it will be opened in December and represents a nerve center for the future development of the group, together with new creative contaminations. After the boundary between Milan and Brianza, at Inverigo you encounter the first and most majestic of the nine signs of the respective productive poles of Poliform, one of the most dynamic Italian furniture companies. Entering this green zone of Lombardy, you pass other plants and offices of the corporation that makes wardrobes, bookcases, Varenna kitchens, contract furnishings, upholstered furnishings and seating. The facilities are scattered throughout the Como area, at intervals of a few kilometers, in places like Arosio, Lurago d’Erba and Mirovano. At Santa Maria, Poliform is completing a new corporate unit that will open in December. Architecture, the new project by Carlo Colombo - Created by Carlo Colombo, one of the architects and designers with which the company has worked for many years, the new space is a nerve center for the future of the group. “This is a very complex project, requiring years of work”, the architect explains, “involving forms, compositions, games of light, symbolically uniting old and new areas of the facility”. The new corporate pole will gather together all the offices and showrooms of Poliform, a restaurant and
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two large photo studios, for the production of the many catalogues created in-house. “We needed a place that would further reinforce our brand and product identity”, says Giovanni Anzani, one of the three partners of Poliform, together with Alberto and Aldo Spinelli, who with some of their children control all the activities of the group. “The idea”, Anzani explains, “is that this new pole should represent the beating heart of Poliform. Inside, we will concentrate all the strategic activities, except the production, which will continue to take place in its traditional facilities”. Aldo Spinelli has directly supervised the design and construction of this new work of architecture. Over the last few months he has always been on the worksite, making every choice, step by step, together with Arch. Colombo: natural materials like wood to cover much of the new structure, solar panels and a planting project for large portions of the enclosure. In short, this building will be the reflection of the image of the Poliform trademark, founded in the 1970s, which has emerged (especially over the last ten years) thanks to the determination of its owners: Nino Anzani, head of communications, Alberto Spinelli head of product and development, and Aldo Spinelli, in charge of production. A compact group where each member has a precise role, but inside a coordinated team. Image and communication - The first person to set foot inside the new Poliform facility is Simona Spinelli, Aldo’s daughter, in her early thirties, an architect and a person of lively intelligence and curiosity. She is in charge of image and styling in the group, a strategic area that has impact on the 700 stores that sell Poliform furnishings, including 30 direct outlets. The group is a leader in the field of furnishing systems, producing accessorized partitions and wardrobes, with extensive technological know-how in the production of kitchens, with the Varenna brand. Given this product range, the question of image is very important to differentiate Poliform from similar brands that meet similar qualitative standards. The company is a rarity due to its constant attention to constructing the brand’s identity. “Communication is a strategic component of our company. It intertwines with product development and distribution”, Giovanni Anzani explains. “More than selling single products, we propose an idea of the home, that can be more traditional, younger, more bourgeois or more nonchalant. At present, the collection is organized in nine different habitat typologies, from the most traditional to the most innovative, to the most affordable for the budget of a young couple”. “We don’t sell products, we sell lifestyles” - “The challenge for Poliform today is to try to get away from pre-set schemes, combining vintage products with hypertechnological design, wood with moulded plastic. I believe the trend that is emerging most vividly is one of absolute contamination”, says Paolo Mojoli, trained as an industrial designer, an expert on communication who has accompanied Poliform for ten years in the definition of its image and the pursuit of effective ways to interpret new lifestyles. Another front he indicates for the future growth of Poliform is research on products that go beyond the area of furnishing systems. “We keep faith with our mission and identity”, says Alberto Spinelli, head of product development. “Our base continues to be furnishing systems for the living and bedroom areas, which together with the kitchens account for most of our business. But it is also true that for several years now we have been diversifying our offerings to include tables, chairs, cupboards and upholstered furniture, with the aim of creating iconic pieces for our catalogue”. Contaminations - “The way of furnishing the house becomes more and more casual”, Alberto Spinelli explains, “and people want complements that have a high level of technology, clear personality, with a particular focus on environmental sustainability”. While the history of the firm includes collaboration with designers of the caliber of Paolo Piva and Carlo Colombo, in recent years the languages have multiplied, contributing to expand the typological family of products. There have been many different contributions, and the variety continues to increase. “With Jean Marie Massaud we are doing research on ecosustainable materials, keeping a close eye on costs. The era of luxury where cost is not a concern is over”, Spinelli comments. “With Riccardo Blumer, on the other hand, we are working on the concept of light furnishings and homes”. Creative witnesses - From Marcel Wanders to Paola Navone, Vincent van Duysen to Jean Marie Massaud, as well as a new series of international designers, Poliform is working on a wider and wider range of creative approaches. There are many contributions by designers in their thirties, like Rodrigo Torres, born in Colombia but living and working in Milan: “Poliform is one of the few companies that is able to sell not just products, but a system of thought”, the designer says. “I have done pieces for them that I like a lot because they are honest from a communicative and constructive viewpoint”. Another exponent of the same generation is Emmanuel Gallina, who in his projects for Poliform has transferred his approach of rediscovery of traditional materials, interpreted in a very contemporary way. The nature of the work with a veteran like Paola Navone is completely different. For the group, she creates “soft products that establish a relationship with the accessorized partitions”, as she puts it. A similar approach based on essential forms and lasting materials unites the spirit of the company with the creativity of Vincent Van Duysen: “I care very much about the integrity of the object and the design found in my works of architecture, and in the style of Poliform”, the Belgian architect explains. “But the element in which you can glimpse a new phase of development for the company is the fact that the products, alongside the rigorous forms, now include some poetic notes. This is an important signal of renewal. What sense would it make to have a life and a home without emotions?”. Poliform in numbers - Sales 2009: 103 million euros; Plant size: 100,000 m2; Employees: 554; Main markets: Italy 51% - Europe 25% (excluding Italy) - USA 5%. - Caption pag. 82 The Poliform Factory at Arosio, a unit that produces wardrobe systems, living room and bedroom complements, and contains a corporate showroom. This is one of the nine plants of the group scattered throughout the Como area. - Caption pag. 85 On the facing page, Dama table, in cedar. Design by the in-house R+D team of Poliform. Above, the Wall System bookcase and, in the background, the BB chairs, designed by Riccardo Blumer and Matteo Borghi. - Caption pag. 87 The photo studios of the new building of the group at Inverigo Santa Maria, which will be opened in December. It is a center of 12,000 sq meters that combines all the showrooms, a restaurant, and a photo studio for the production of the company’s communications. The head of image and styling of Poliform is Simona Spinelli (seen here as she works on a photo shoot). - Caption pag. 88 The polishing line inside a Poliform plant, for the production of the doors for wardrobes and bookcases. - Caption pag. 89 Clockwise from top, painting cabin (sprayed by hand); line for drilling holes in the sides of kitchen cabinets; detail of the insertion of parts in shelves.
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INproduction Living Kitchen
p. 90 by Andrea Pirruccio - photos Maurizio Marcato
Monolithic and rigorous, or colorful and flexible, the new kitchens take on value (and vitality) also thanks to the personalities that ‘inhabit them’: designers, entrepreneurs, temporary presences. - Caption pag. 90 Roberto Gavazzi, CEO of Boffi, with Aprile, the new kitchen designed for the company by Piero Lissoni. Aprile makes use of materials like wood (worked with exclusive treatments), stainless steel and stone. Complements include exhaust hoods and snack counters in solid wood with stainless steel legs. - Caption pag. 91 Paola Navone ‘responds’ to the snaps of photographer Maurizio Marcato. To the side, Menu, the kitchen she has designed for Bontempi, in the version with base cabinets featuring doors in the Ice Oak finish, hanging cabinets in the Stampa Vetro finish, and steel tops. - Caption pag. 92 Upper left: a multimedia column is included in the SieMatic S2 AL model, with matte aluminium-tone doors, shiny stainless steel counter and wall panels with glass doors in the gilded bronze shade, opened by pressing.Above: a prototype developed by Panasonic Electric Works under the supervision of Naoto Fukasawa, the monoblock kitchen system represents a successful combination of design and functional quality. The particular structure of the counter conceals the range, while the indirect lighting system adds discreet charm. Below: Massimo Iosa Ghini with his project for Snaidero: E-Wood, a kitchen with oak doors, where the wood has been given a special treatment for seasoning at 190° to modify its chemical structure, leading to positive results in terms of stability, prevention of warping and color changes. For the surface finish, the beauty of the wood is further enhanced by a ‘hand-planed’ effect. - Caption pag. 93 Michael Young sips coffee in his Tetrix, the kitchen he has designed for Scavolini, based on rectangular modules of 36x60 cm, combined along horizontal axes: a solution that permits maximum personalization. The doors are made by applying panes of clear or opaque tempered glass on decorative panels. - Caption pag. 94 Federica and Lorenzo Toncelli (owners of the company of the same name) and Stefano Stefanelli — the designer who has created, for Toncelli, Progetto 50, seen here in an ironic pose with his head in a cage: an image that evokes the latest advertising campaigns of the brand — pose proudly beside Progetto 50, a collection of furnishings for the kitchen that reinterprets the Tuscan crafts tradition through the use of advanced production techniques. In the photo, the island made in concrete mousse and the cabinet in grooved wood. - Caption pag. 95 A reading break on Checkers, by Giorgio Armani for Armani/Dada, the kitchen with an operations counter featuring a work top in absolute black granite, with built-in sink and range. The doors are in transparent glass with visible substrate covering in waterproof silver technical fabric, or in etched glass. Doors, base cabinets and columns are also available in santos wood or black oak. Francesco Del Tongo (one of the general directors of the company of the same name) personally ‘tests’ the quality of Keramos, the model he has designed, that stands out for abundant use of an unusual material (at least for the kitchen), namely monolithic hyper-stoneware. In the island composition, the stoneware is used for doors, tops, sides, open compartments and even for the large round sink. - Caption pag. 96 Upper left: Argento Vivo, the kitchen with rounded forms designed by Roberto Pezzetta for G&D Cucine, in the new version in which matte white dominant contrasts with the black of the preparation-cooking zone. The ‘guest star’ in the photo is GianMaria Dolfo, one of the owners of the company. Above left: a combination made with the bulthaup b3 and bulthaup b2 systems, to develop a design capable of redefining spaces, for a lively, convivial atmosphere. The composition develops the idea of an open kitchen that can be organized and completed at will, based on individual tastes. Above: Daniele Lago (marketing director and designer for Lago) poses beside some of his creations: the 36e8 kitchen (famous for its particular modular design, based on a 36.8 x 36.8 cm square), and the new N.O.W. pantry, that contains both the oven and the refrigerator without taking up too much space. To the side: the final touches to the DC 10 system, designed by Vincenzo De Cotiis for Rossana. Made in burnished brass and stone, the kitchen comes only in a center-room version. - Caption pag. 97 Above: admired as an artwork, New Logica System (design Gabriele Centazzo for Valcucine) stands out for its new accessorized back that can contain all kitchen gear, including the hood. The top is made of glass treated with nanotechnologies that increase scratchproofing. Upper right: a sequence of work areas made with rational criteria for the Spatia project by Antonio Citterio for Arclinea. Spatia combines kitchen and living spaces. The island is in white Carrara polished marble, the table in Nordic oak. The double pocket system contains cooking and washing blocks, the dishwasher and an ecological garbage disposer. To the side: the attention-getting Ecocompatta model, designed by Paolo Rizzatto for Veneta Cucine. A compact kitchen module (310x800x200 cm), but complete with all required functions. Ecocompatta starts with the idea of reduction: of forms, sizes and costs. - Caption pag. 98 Upper left: lighting enhances Twelve, the kitchen designed by Carlo Colombo for Varenna. The name comes from the 12 mm that determine the look, based on the slender size of the horizontal lines. Twelve is based on absolutely essential design (underlined by the lack of handles) and the use of technical materials like steel and glass for the top. Above: Ludovica and Roberto Palomba finish the last details of Radical, the kitchen developed for Elmar. The model stands out for the central focus on green values, with solutions like the use of heat-treated ash and sheet metal made with 100% recyclable aluminium. Among the central elements of Radical, the island for washing and cooking, and the hood in painted sheet metal. Left: from Cesar, the Kalea kitchen designed by G.V. Plazzogna. The model features slim doors (just 12 mm) and a particular sawn oak finish in a cognac shade. The open cabinets, positioned under and over the island, are useful to partially screen off the kitchen, establishing a dialogue with the living area. - Caption pag. 99 Designed for Binova by Paolo Nava and Fabio Casiraghi, Prima AV (avant-garde) has new cabinets that hang from the ceiling on a system of tracks. The counters, in wood or lacquer, are integrated with the vertical support structure in stainless steel. In the background, an amused Paolo Bolletta, marketing director of Binova. - Caption pag. 100 Carrè, the kitchen designed by Marc Sadler for Ernestomeda and characterized by the curved handle set into the doors, deserves special lighting. It can be fully personalized, using 46 varieties of matte lacquer and 46 glossy finishes for the doors and handles. The handles can also be in wood (rosewood or olivewood) or steel. - Caption pag. 101 It also has a ‘niche’ for quiet moments. Mesa is the kitchen created by Alfredo Häberli for Schiffini, seen in the new black rubber finish, with ocean black worksurface and cantilevered counter in stainless steel.
06/10/10 14:03