Gnanca omo - di Paolo Perini

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Paolo Perini

GNANCA OMO! La vita ai tempi del deflettore

INVENETO



INTRODUZIONE di Roberto Cristiano Baggio

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n intreccio giocoso sul filo della memoria. Paolo Perini ripercorre con leggerezza gli anni dell’adolescenza in una Bassano molle, appena sfiorata dal ’68, dove uscire dalle righe significava essere segnati a dito. Era città bacchettona, attenta alla facciata e al perbenismo imperante, capace di offendersi se qualcuno tentava di scalfirne l’aura buonista senza tuttavia accorgersi che così offriva il fianco a critiche e scandali portati alla ribalta dal “Commissario Pepe” impersonato da un grande Tognazzi o da un Silvio Noto in vena di avventure pecorecce sulla via tracciata, nel Veneto ingenuo e guardone, da Pietro Germi. Perini si muove in questa città con il candore del ragazzino che scopre il mondo oltre il giardino di casa, attraverso i racconti dei fratelli più grandi, le cronache “lunari” di Tito Stagno, le sfreccianti vittorie di Emerson Fittipaldi, le canzoni a fil di voce di Lucio Battisti, gli apprezzamenti del maestro che gli affida la parte di S. Giuseppe nella recita natalizia e la cocente bocciatura al ginnasio per mano di due acide e vendicative professoresse. 3


Ripercorre le antiche vie immaginandosi cavaliere di ventura, guidato dagli odori che allora segnavano indelebilmente botteghe e officine, seguendo un percorso che dalla minuscola stazione della Littorina, a un passo dall’inquietante Tempio Ossario, si dipanava preciso e netto nel cuore di Bassano, passando davanti al molino di via Verci, all’Ausonia in procinto di chiudere, al misterioso ed affascinante Bottegon dov’era racchiuso tutto il mondo, alla vetrina di Campagnolo, dove la mamma acquistò la camicia da notte mentre stava recandosi all’ospedale in preda alle doglie, sino alla pescheria all’angolo di piazza Garibaldi dove le “masanete” brulicavano una sopra all’altra, in una disperata ricerca di libertà, nella grande cesta di ferro. Un microcosmo variegato, un distillato di ricordi e sapori riemersi all’improvviso con una carica dirompente, come se il tempo si fosse fermato solo un attimo e non fossero trascorsi quarant’anni. L'autore ha memoria forte e scrittura facile. Voci e volti riemergono dal passato: lo ziovero, lo ziofrate, la compagna di recita più bella di tutta la scuola, la giovane professoressa con la minigonna che gli fece amare la letteratura turbandone i sogni adolescenziali, il sindacalista che gli metteva a disposizione il ciclostile, la chitarra sulla quale strimpellare i primi accordi smoccolando per il “fa” a causa dell’indice teso sulle sei corde a for-

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mare un capotasto mobile, la caccia alle farfalle e la raccolta di figurine. Non quelle dei calciatori ma degli animali che già allora lo incuriosivano e lo stuzzicavano. “Gnanca omo” eppure già inconsapevolmente aperto alle sfide della musica banale e terribile della vita, al mistero della natura che cambia senza cambiare. Paolo Perini segue gli arabeschi dell’esistenza, con la consapevolezza che solo rimanendo bambini dentro si può continuare a guardare avanti con occhi stupiti.

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«La libertà - dirò - è un fatto, voi mi legate ma essa resiste...» Ivan della Mea (1963)

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PRIMA CHE NASCESSI IO Per capire la nostra storia bisogna rifarsi ad un tempo remoto... (F. Guccini - 1973)

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gomberiamo subito il campo da un equivoco: questa non è un’autobiografia, è una successione di storie. Mi riguardano ma riguardano soprattutto una città e un tempo in cui queste storie capitavano diffusamente. E se non erano queste erano storie simili. Era infatti il contesto culturale e sociale a produrle prima ancora che il libero arbitrio, e il sostanziale isolamento in cui si viveva dieci anni dopo la fine della seconda guerra. Anche l’arretratezza tecnologica faceva la sua parte, dato che la maggior parte degli strumenti di comunicazione, di scambio e di crescita culturale individuale e di massa di cui oggi disponiamo non esistevano, a cominciare dal computer, da internet per finire al telefono cellulare. La mobilità delle informazioni e delle idee, delle merci e delle persone hanno permesso infatti l’acquisizione di una libertà materiale e culturale che allora non c’era e che

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per fortuna stava per cominciare. Un diario confidenziale di quegli anni, insomma, ma meno personale di quel che potrebbe sembrare. E che comincia così. Prima che nascessi io c’erano un sacco di cose, ovviamente, e ne mancavano altrettante, oltre a me. Di quelle che c’erano, alcune mi paiono proprio necessarie, e meno male che c’erano: gli elastici, per esempio. Alcune altre sarebbero poi state inventate. Ma prima di arrivare al computer e ai cellulari si è passati per la plastica, la minigonna, il sottovuoto, la pillola... e la strada è stata lunga e tortuosa. A dire il vero non è che proprio tutte fossero necessarie, ma è sempre meglio averle avute e averle casomai buttate via. Molte invece non ci sono ancora, e pare impossibile: abbiamo la tecnologia per andare su Marte ma non perché il letto si rifaccia da solo, la mattina. Secondo me farà un sacco di soldi chi ci arriva per primo. Non su Marte... Prima che nascessi io, in casa mia erano già stati fatti due fratelli (a proposito di cose di cui non si sentiva il bisogno...). Comunque, per farla breve, prima di nascere c’era un grande silenzio e non si aveva bisogno di niente... Che meraviglia! "Per forza, non c’eri!", obbietterà qualcuno. Certo che non c’ero, ma questo cosa significa, che

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non se ne possa parlare? Fior di intellettuali - cardinali, calciatori, avvocati - dibattono quotidianamente su tutto, la vita oltre la vita, il paradiso e l’inferno, il tunnel con la luce e via discorrendo; si discute di quel che verrà dopo, non si può discutere di quello che c’era prima? Anche perché di sicuro - dopo - ci saranno i vermi e invece prima - altrettanto sicuramente - non c’erano. E questo è già un bel vantaggio. Poi accaddero anche tutte le cose che qui cerco di descrivere proprio come sono accadute. Per come si sviluppano, a qualcuno che non c’era potranno sembrare un brodo primordiale piuttosto mostruoso. Credo che fosse proprio così. Neppure il mondo di adesso, d’altro canto, è proprio una meraviglia... Forse perché i due mondi sono strettamente collegati e uno si è evoluto sull’altro, anche se “evoluto” mi sembra una parola grossa... Cedere alla tentazione di paragonare quegli avvenimenti con i tempi di oggi è umano, e la comparazione di per sé non è né utile né dannosa; l’importante è che non sia noiosa. Ripescando un po’ nel bussolotto, mi sono divertito a trovare cose che non mi aspettavo, e spero che divertano anche voi. Questo libro - insomma - è come un tema di

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quelli assegnati a scuola, a contenuto libero: si poteva parlare di qualsiasi cosa senza mai andare fuori tema. Poi si riusciva ad andare fuori tema lo stesso, perché i pensieri fortunatamente sono liberi... Ecco: diciamo che io ho continuato a farlo. La cosa più bella sarebbe che ognuno di noi facesse il suo componimento, così scopriremmo le cose di tutti e quanto siamo uguali e diversi gli uni dagli altri. Ma soprattutto, dalla somma di tante storie, potrebbe nascere - allora sì - una vera storia universale. Sarebbe un modo per capire e migliorarci. Io la leggerei volentieri... Si tenga poi conto anche di un problema tecnico: scrivendo quel che scrivo, ho dovuto evitare di prendermi delle denunce. Non so se ci sono riuscito, lo saprò più avanti. Di ciò che scrivo non ho condotto verifiche; riporto quel che pensavo, capivo o si diceva allora. Opinioni, dunque, e fatti condizionati dall’età. Quando parlo di qualcuno o di qualcosa, lo faccio con gli occhi di allora, e dentro c’è sempre dell’affetto. No, forse non sempre, ma spesso; quando non c’è lo si capisce. In questo caso si tratta di un modo di fare giustizia: avrei dovuto farlo allora ma ero piccolo, si diventa grandi anche per questo... Comunque qualcuno è chiamato per nome,

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qualcun altro no. Spero di avere scelto bene. Infine, ho deciso di aprire ogni capitolo con un verso di una canzone perché le canzoni - secondo me - allargano gli orizzonti e accomunano. Ci sono un sacco di canzoni che parlano di noi; io ho scelto le mie. Poi ho chiuso ogni capitolo con un post scriptum perché, anche quando si è alla fine, resta sempre qualcosa da aggiungere. Spesso più di qualcosa. P.S. Io sono nato in Via della Pace e il giorno in cui è successo - il nove di luglio del 1955 - veniva pubblicato a Londra il manifesto di Bertrand Russel e Albert Einstein con cui i due scienziati chiedevano al mondo di rinunciare ad ogni arma nucleare. Via della Pace e il primo Manifesto pacifista della storia mi sembrano una bella coincidenza. Qualcuno crede alle coincidenze?

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QUANDO SONO NATO IO Appena giunto su questa terra... (F. Guccini - 1967)

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uando sono nato io era estate e faceva caldo. Probabilmente è per questo che amo il fresco. A fare i conti, dovrei essere stato concepito agli inizi di ottobre, più o meno quando i fratelli più grandi avevano appena cominciato ad andare a scuola e forse i miei genitori cominciavano a patire l’improvviso silenzio in casa. Che i genitori si accoppino - con la "o" larga, naturalmente - è un concetto che sfugge ai figli, una specie di mistero, specie quando cominciano ad aver presente cosa significhi l'accoppiamento in termini di intreccio psicofisico. Infatti, fino a una certa età, l’accoppiarsi fa schifo. Poi no (per fortuna). E poi, diciamo la verità: come si fa a farlo silenziosamente? E quando, se noi figli siamo in casa tutto il giorno e loro lavorano tutto il giorno e la sera si è stanchi (più loro che noi)? E se poi uno

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improvvisamente entra in camera, e i figli fanno tutto improvvisamente?... E poi, cavolo, alla loro età!... Ad ogni mio compleanno mia madre mi racconta la stessa storia, e cioè di essere partita da casa, non lontano dalla sponda del Brenta, e di essersi incamminata per raggiungere l’ospedale, dall’altra parte del centro, perché dovevo nascere. "Dovevo" significa semplicemente che a quel punto la cosa era diventata - oltre che inevitabile - urgente! Dunque, con la pancia del caso, mia madre si fermò in piazza da Campagnolo per comperarsi una camicia da notte e averne almeno una per la degenza. Forse anche per la decenza... Credo che la fortuna dei Campagnolo sia cominciata con le camicie da notte delle mamme. Infatti, che i bambini nascessero in ospedale, era proprio una novità perché fino ad allora tutti erano nati in casa, dove certamente non serviva alcun tipo di camicia. Era il tempo in cui un sacco di cose nuove si affacciavano all’orizzonte e solo per il fatto di essere nuove apparivano anche migliori. Trattandosi della fine del dopoguerra (i dopoguerra sono lunghi molto più delle guerre) e della miseria materiale (spesso più lunga ancora), poco ci voleva alle cose nuove sembrare migliori

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di quelle vecchie. Insomma, era l’inizio del boom economico e credo che tutte le cose che fanno "boom" comportino qualche fatica (anche una nascita deve essere un bel boom!) e qualche entusiasmo. Fatto sta che quando giunse all’ospedale, mia madre fu bloccata di sotto perché non c’era il tempo di salire in ostetricia. O forse l’ostetricia non era ancora stata inventata... Così sono nato in portineria, e non so se questa novità abbia rappresentato un bel progresso per mia madre! Riflettendoci, forse questo è il motivo della mia indole vagabonda: se nasci davanti a una porta, è logico che ci prendi confidenza; è una questione di imprinting... Così mia madre mi racconta questa storia e mi dice che mettere al mondo me non gli è costata nessuna fatica (tanto più che era ora di comprarsi una camicia nuova...). Magari era anche per il fatto che aveva già avuto due figli, e che dunque la strada era stata percorsa. Comunque dopo di me ne ha fatti altri tre e mi resta il dubbio che, se io l’avessi messa un po’ più in difficoltà, forse si sarebbe risparmiata... Di quando ero bambino ricordo poco o nulla, ma il problema di per sé non si pone. Però, siccome ogni tanto sento riportare ricordi di infanzia

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precocissimi - qualcuno assicura di ricordare cose accadutegli a due anni d’età! - mi domando se ciò sia davvero possibile o si tratti semplicemente di aver fatto propri i ricordi attraverso il racconto degli altri, dei familiari... Io possiedo invece ricordi netti ma scollegati tra loro e soprattutto privi di una precisa collocazione temporale. E i più vecchi risalgono - bene che vada - ai cinque anni o forse sei. Qualche volta mi viene la tentazione di ricostruire le cose in modo più preciso chiedendo la collaborazione ad altri, ma diffidando dei ricordi miei, faccio fatica a fidarmi di quelli degli altri i quali, nel frattempo, hanno raggiunto un’età avanzata - più della mia! - e a quel punto potrebbero essere insorte altre problematiche... Ad esempio, non mi ricordo del pancione di mia mamma - tanto per restare in tema - quando aspettava le mie sorelle più piccole: avevo nove anni e la cosa mi sembra impossibile, ora. Tanto più che sarebbero state due, anche se nessuno lo sapeva ancora! Ricordo invece il giorno in cui sono tornato a casa da scuola e, invece di andare a casa mia, sono stato prelevato sul pianerottolo dalla vicina. “Tua mamma oggi ha da fare”, disse. Porco cane se aveva da fare!

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P.S. Forse Dio, quella volta, aveva detto anche “ti fermerai da Campagnolo a comperare una camicia da notte�, prima della famosa minaccia del partorire con dolore e del lavorare col sudore...

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GLI ZII Con il corpo sono qui ma la mente mia non c'è... (C. Caselli - 1968)

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ono cresciuto convinto che lo zio - inteso come figura astratta - svolgesse una funzione sostitutiva del ruolo paterno. Zierno? A differenza del padre, però, non aveva difetti. Infatti gli zii non badavano a spese (i padri ci badavano eccome!); quando erano con noi lo erano per davvero (i padri avevano sempre anche altre cose da fare) e non ci rimproveravano mai se non quando era oggettivamente necessario (come ad esempio quando stavamo per ammazzarci...). Il papà invece ci rimproverava molto prima. Poi mi ero fatto anche l'idea che gli zii - non i miei, tutti - fossero sterili. Intrinsecamente. Infatti i miei zii non avevano figli; anche per questo erano sempre a disposizione. Infine, essendo più giovani dei miei genitori, possedevano un'energia inesauribile. Insomma: mi ero fatto questa idea. Attenzione: sto parlando degli ziiveriepropri,

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non di quelli misteriosi che ogni tanto apparivano e scomparivano come il cattivo tempo d’estate: se ne annunciava l’arrivo, se ne osservava il passaggio, se ne commentava la deriva, sperando che l’incontro non lasciasse segno alcuno. In questo caso si trattava probabilmente di parenti - anche se non necessariamente - e in quanto tali venivano accolti, ma non appartenevano davvero alla famiglia: erano portatori di usi, costumi, pensieri, modi, accenti, che ci erano sconosciuti e risultavano inspiegabili rispetto ai nostri. Questo bastava per farceli sentire diversi. Misteriosi, appunto. Oggi siamo abituati a un mondo più informale e trasparente in cui separazioni, convivenze, coppie di fatto, famiglie allargate, unioni non ortodosse, matrimoni misti, si sviluppano alla luce del sole, fortunatamente. Anche allora si sviluppavano, ma nel buio dell'ombra. E non era colpa della guerra, a cui fino ad allora venivano attribuite le responsabilità di qualsiasi malanno... Esemplare è la storia di una zia, apparsa e sparita una mattina sopra una Lambretta. A un certo punto ho creduto che non fosse mia zia o addirittura che non fosse mai esistita, una specie di sogno. Perciò una volta ho chiesto ingenuamente spiegazioni, e mi è stato risposto “Eh... una volta,

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sai... non si sapeva come fare..." Allora ho capito che era esistita. Sembra che una volta non si avesse dimestichezza con “certe cose" (ma di cosa si trattava?) le quali venivano tenute nascoste, trasformate in tabù, più per mancanza di strumenti che per vergogna. Così oggi di lei mi rimane la sua immagine eterea, di traverso sul sellino posteriore, tutte e due le gambe sullo stesso lato, le braccia a sistemare la gonna e a cingere un uomo. E l’odore della miscela bruciata dalla motoretta che parte. Poi c’era un altro zio misterioso che arrivava da lontano, e ricordo il terrore che mi prendeva quando la notizia della sua visita cominciava a circolare per casa. Infatti era molto fisico e aveva l’abitudine di stringerci a sé con un impeto che io - piccolino - vivevo come violenza più che affetto. Arrivava dall'Emilia e veniva raramente a trovarci. L’Emilia era distante, a quel tempo, come la maggior parte delle cose che stavano a più di tre chilometri da casa, a portata di bici. Di lui si diceva - sottovoce - che fosse comunista. All'inizio ho creduto che fosse una malattia contagiosa e ciò mi impediva di essere sereno nei suoi confronti. Invece era simpatico, rideva chiassosamente con la bocca spalancata e una fila di denti grandi e bianchi.

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Ora che ci penso, forse era una dentiera... Poiché aveva una "certa età", alla sua risata associo uno scomposto movimento di rughe facciali e una magrezza che si scuoteva dentro ai suoi vestiti impeccabili. Se, da bambino, tutti quelli che hanno due anni più di te sono vecchi, lui era Matusalemme... Possedeva un albergo ed un cane gigantesco dei quali ho sentito raccontare a più riprese ma di cui non ricordo nulla. Forse anche l’albergo era gigantesco. Forse anche il cane era comunista. Forse era anche sposato, ma non so come. "Eh... una volta, sai... non si sapeva come fare..." Fino a qualche anno fa nel nostro Veneto tutti avevano almeno uno zio prete o una zia suora. Io ce l'avevo frate e la cosa suonava un po' esotica, perciò m'inorgogliva. Ogni tanto capitava in casa. Era uno zio strano perché innanzitutto vestiva stranamente: oltre al saio color tabacco, portava una lunga barba come credo fosse in uso presso gli ziifrati. In più camminava coi sandali ma scalzo. Anche d’inverno. Diciamo la verità: queste erano le domande che interessavano a un ragazzino come me: perché

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un vecchio con la barba lunga, peloso in generale, va in giro scalzo e con la gonna scura come le donne? In più aveva dei piedi enormi sia perché tutte le cose dei grandi appaiono tali sia perché strisciare per terra e specialmente sotto il tavolo è sempre stato l'orizzonte preferito dai bambini, e i piedi si muovono a quell'altezza lì... Aveva le unghie delle dita grosse - ora so che si trattava di alluci - e marroni, coriacee e tutte graffiate. Ai miei fratelli più grandi facevano ridere, a me impressione. In confronto alle mie erano pornografiche. Dal collo del saio, dietro, pendeva un cappuccio triangolare e appuntito. Quando questo zio stava seduto, la punta della lunga appendice raggiungeva la mia altezza. Poiché egli passava interminabili pomeriggi a giocare con le carte a un solitario complicato e vasto tanto da occupare tutto il tavolo della cucina, la cosa impediva al resto della famiglia ogni suo utilizzo creando una percepibile tensione; infatti, quello era l'unico tavolo della casa e vi si faceva di tutto. Vuoi per il nervoso, vuoi per fare di necessità virtù, noi fratelli giocavamo a chi riusciva a slinguazzare la punta del cappuccio senza farsi vedere. Inventavamo un fastidiosissimo e provocatorio girotondo intorno al tavolo e, transitando dietro lo ziofrate, ci allungavamo con la lingua

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dapprima a leccare la stoffa appuntita, poi a suggere il nettare lasciato dal concorrente precedente. Credo che la cosa fosse schifosa sotto molti profili che non sto qui a enumerare, ma il gioco ci faceva morire dal ridere. Quando questo zio, dopo qualche giorno, se ne ripartiva, tutto il settore meridionale del cappuccio aveva assunto un’intensa e misteriosa colorazione carbonesca... P.S. Qualche tempo dopo tornò a trovarci vestito normale. Senza cappuccio. Con le scarpe. In compagnia di una donna. Nessuno fece domande. Una volta, sai... non si sapeva come fare...

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LA STANZA SCURA E' vero che dalle finestre non riusciamo a vedere la luce... (C. Lolli - 1976)

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ssendo a un certo punto la mia famiglia cresciuta di numero, qualcuno di noi veniva "dislocato" dalla nonna, a cui volevamo molto bene. Era una donnina minuta, che portava una treccia sottile avvolta sulla testa a mo’ di corona. Quella volta che la sfilava davanti allo specchio - succedeva di rado che si facesse vedere - si scioglieva in una rada capigliatura bianca fatta di fili sottilissimi e lunghi che componevano un velo. Andavo volentieri da lei e solitamente si passava il pomeriggio passeggiando lungo il viale alberato sotto casa sua. Me la ricordo d’estate, con un vestitino blu a piccoli pallini bianchi e le maniche corte, dalle quali sbucavano due braccia sottili e dalla pelle bianchissima, sotto cui scorrevano delle vene blu molto vistose. Quando il tempo non era buono, si rimaneva a casa, in salotto: lei sedeva a lavorare a maglia, coi

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ferri, io facevo le mie cose. Abitava al secondo piano di un vecchio palazzo di Viale delle Fosse e il cui aspetto mi appariva complessivamente lugubre: grosse inferriate alle finestre, soffitti molto alti, pavimenti scuri, come gli infissi e i mobili... Aveva un divano di velluto bordeaux e ai braccioli pendevano due aggressivi musi di leone fatti di ottone, con un anello alle narici. Possedeva una cassapanca che apriva raramente e che dunque suscitava il mio interesse. Era però collocata dentro a una stanza tenuta sempre chiusa. Quella stanza - che lei stessa chiamava stanzascura - mi suscitava più paura che interesse. Anche perché, dentro, una volta ci avevo intravisto una faccia. Era un ritratto, ma non stava appeso al muro bensì in piedi, montato su un piedestallo verticale, di legno, appena dentro alla porta. Era una persona di famiglia che però non conoscevo. Certamente era morto. La somma delle cose era impegnativa e, quando arrivavo dalla nonna, passavo molto rapidamente davanti a quella porta - per fortuna chiusa - della stanzascura. Un giorno la nonna mi disse: «vai nella cassapanca e prendimi la scatola di latta che c’è dentro». «Nella stanzascura?! »

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«Si». Un momento: io dovrei andare nella stanzascura? Da solo? Non so che faccia abbia fatto, ma d'istinto l’abbassai a pochi centimetri dal quadernetto su cui stavo disegnavo, cominciando a colorare a più non posso. Coloravo, coloravo, e intanto il cuore batteva: era arrivata l’occasione per curiosare nella cassapanca, ma come avrei potuto entrare in quella stanza da solo? «Nella scatola ci sono i punti da incollare», aggiunse armeggiando con il filo. Incollare i punti che lei ritagliava dalle confezioni di biscotti e di caffè era una cosa che adoravo. Perché? Per via della Coccoina, la mitica colla che profuma di mandorla: solo aprire il coperchietto era una sensazione paradisiaca. In realtà aprire il coperchietto della Coccoina era ogni volta un'impresa perché tendeva inesorabilmente ad incollarsi al suo barattolino, facendo corpo unico. Con la Coccoina ognuno di noi intratteneva un rapporto personale molto intenso perché, una volta aperta - e ciascuno vantava tecniche diverse per farlo - bisognava diluire con un po’ d’acqua l’impasto eburneo che si era così essiccato nel tempo da mostrare larghe ferite sulla sua superficie come la terra africana nei mesi di siccità. E poi, per iniziare la delicata

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emulsione, bisognava sfilare il pennellino dalla sua sede centrale a cui rimaneva incollato come un pargolo, e rendere anch’esso morbido, magari schiacciandolo tra i polpastrelli del pollice e dell’indice bagnati con la saliva. Se andavi di fretta lo infilavi in bocca... Solo una grande perizia portava al risultato di ottenere una colla - e una lingua! - della giusta collosità che produceva l'attesa ondata di profumo, segnalando il ritorno in vita del magico composto. Qualche grande sosteneva che quell’odore fosse tossico, che si trattasse di acido cianidrico. La cosa ci lasciava del tutto indifferenti. Erano quelli oramai convertertiti al Vinavil, in verità più versatile ma più lento nell'asciugatura. L'unico suo vero vantaggio era la pellicola che si formava versandone qualche goccia sul palmo della mano ed il piacere di toglierla come una seconda pelle. Ma gli effetti olfattivi della Coccoina erano tutta un'altra cosa. Non so come si facesse prima di lei, dato che con essa si incollava ogni cosa. Bastava modificarne la consistenza a seconda del tipo di materiale da incollare, sia che fossero figurine, cartoline, fogli di quaderno, cartone ondulato, punti di carta o punti di stagnola. I quali - e chiudiamo la digressione - stavano nella scatola di ferro. Dentro la cassapanca.

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Nella stanzascura. Col morto. Ci sono andato? Ci sono andato. Con gli occhi chiusi. Non ho visto niente. Quasi niente... Il morto era in piedi... Con gli occhiali... La cassapanca l’ho beccata al primo tentativo. Così anche la scatola di lamiera. Quella volta la Coccoina ha funzionato come l’aceto quando stai per svenire: appena l’ho aperta, ogni neurone si è risvegliato dal torpore pauresco ed è tornato al suo posto. P.S. Per quasi trent’anni il mio sogno ricorrente - tutti ne hanno uno, credo - è stato quello di essere inseguito su per le scale del palazzo di mia nonna, e più correvo più restavo fermo sul gradino. Da sotto qualcuno mi inseguiva e piano piano sentivo che mi arrivava dietro e mi stava per prendere. Secondo me era quello della stanzascura...

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MIO MAO Quand'ero piccolo non stavo mica bene... (G. Gaber - 1971)

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e figurine erano il principale gioco che accompagnava le nostre giornate. Anche perchĂŠ ci impegnava a lungo e con poca spesa, combinazione fondamentale per essere gradita al comitato centrale (=genitori). Tutto aveva inizio la domenica mattina quando, subĂŹta la messa con qualche parente, si passava da Mio Mao a prendere, a seconda dei casi, due cordoni di liquirizia e cinque bustine di figurine; un ghiacciolo e cinque bustine di figurine; cinque bustine di figurine e basta. Le prime due combinazioni dipendevano dalle condizioni meteo e dalla stagione ("Guai a te se ti compri il ghiacciolo con questo freddo!"). La terza dall'avvicinarsi di una qualche forma di carestia che poteva essere rappresentata dalla nascita di una sorella, dall'inizio della scuola di qualche fratello piĂš grande oppure - tragedia! dalla nascita di una sorella e l'inizio della scuola

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di qualche fratello più grande! Mio Mao era un uomo vecchio nell'aspetto, curvo, vestito elegantemente, i capelli imbrillantati e il fare circospetto. Ci fiondavamo dentro alla sua piccolissima bottega sotto i castagnari mati - i grandi stavano fuori a fare discorsi - verso la chiesa della Trinità e lui ci serviva con apparente calma e senza mai perderci di vista un attimo. Spendevamo le nostre venti lire - la paghetta (o la mancia, come la chiamavamo noi) - con frenesia, uscivamo con in bocca, penzolanti, le rispettive prede commestibili - tiramolle, Helack, ciucciotti... (non esisteva il chupa chups) - e tra le mani il pacchetto delle figurine. Con un senso che stava tra il pudore e la riservatezza, ciascuno di noi si appartava qualche passo distante dando febbrilmente inizio al rito dell'apertura delle bustine. Si alternavano presto grida di gioia a commenti scurrili - che si sarebbero confessati il sabato successivo: "ho detto brutte parole..." - finché ognuno di noi veniva richiamato all'ordine dai rispettivi accompagnatori e ci si avviava verso casa. Questo era il primo round. La partita vera e propria si sviluppava il pomeriggio stesso, quando tutti i ragazzi si riunivano in patronato - dopo le funzioni - per giocare, finché altri accompagnatori facevano cose più serie,

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suppongo. Si cominciava dal comunicare le novità del mattino: quante pagine dell'album erano state riempite, quante invece ancora no, quante figurine doppie e quante mancanti. Si viveva una profonda contraddizione: da una parte, chi finiva l'album era un eroe; dall'altra, completare l'album era la cosa più triste che potesse capitare poiché produceva il calo del desiderio. La caratteristica che distingueva i veri collezionisti dai perdigiorno era il gonfiore che emergeva da dentro i pantaloni corti e che spingeva incessantemente all'infuori. Più era grande, più eri temuto. Tanto per non essere frainteso, tale gonfiore aveva una forma vistosamente quadrangolare, e dunque non si trattava di appendice naturale: era il voluminoso, amato, macerato, lurido pacchetto di figurine doppie. O triple. Anche quadruple, perché piuttosto di buttar via una figurina se ne assisteva al suo naturale sfarinamento, che era l'unica vera malattia delle figurine di allora, fatte di carta grossolana e stampate con colori che imitavano solo lontanamente quelli veri. L'inizio del secondo round - la parte più attesa, quella dello scambio - era preceduta da una specie di guerra psicologica: l'analisi a vista del gonfiore del pacco - malcelato nella tasca o talvol-

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ta esibito a seconda della strategia - suggeriva le dimensioni e quindi la potenza di fuoco disponibile. In questa fase spesso si bluffava, aumentando surrettiziamente il volume del solido con la mano al fine di produrre sudditanza psicologica nel concorrente. Quando all'unisono udivamo nella nostra testa malata l'inconfondibile colonna sonora di Mezzogiorno di fuoco, ciascuno estraeva la sua Colt. Superata la prima emozione, con apparente nonchalance si sfilava l'elastico e ci si preparava allo scontro. Cioè allo scambio. La sofisticata arte dello scambio implicava l'utilizzo di tutte le abilità di cui si disponeva, una vera scuola di vita. Spesso entravano in campo questioni mai risolte, vertenze che si credevano sepolte nel trapassato remoto, favori non restituiti, provocazioni subite e - più spesso ancora - cose che non c'entravano niente e che si inventavano lì per lì. Le trattative venivano perciò mediate da futuri commercianti, aspiranti giudici... La vera baruffa si scatenava solo quando qualcuno interferiva nella trattativa con proposte scandalose, facendo concorrenza sleale oppure ricattando l'avversario con strumenti subdoli. Tra veri amici lo scambio procedeva invece con criteri legittimi. E si passava al terzo round, che rappresentava da una parte un semplice premio

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di consolazione - accumulare quantità infinite di doppioni - dall'altra il prolungamento del divertimento: il gioco del muretto. Vi erano varie versioni, la più comune delle quali - per i pochi ignavi che non ne conoscono le regole (saranno di sicuro femmine...) - consisteva nell'accostare il margine di una figurina ad una parete e lasciarla cadere da un'altezza prestabilita, a mo' di foglia morta. Il primo che andava con la propria figurina sopra ad una di quelle già a terra, vinceva tutte le figurine che erano state lanciate fino ad allora, giacenti. Una seconda versione era rappresentata dal lancio della figurina addosso ad una parete, a turno. Poi come sopra. In entrambi i casi io stavo a guardare, ma non per vigliaccheria. Il problema era che tutti collezionavano figurine di calciatori - Del Sol, Hamrim, Pizzaballa - mentre io di animali. Si, si, proprio di animali. Fantastica collezione! A dieci anni - e Piero Angela non esisteva ancora - conoscevo già lo gnu e l'okapi. Fisicamente erano uguali (le figurine, non le bestie) e tecnicamente si potevano scambiare, lanciare, tenere in tasca come le altre, ma a chi è che potevano interessare lo gnu o l'okapi?! Niente paura: quando alla fine della interminabile raccolta mi mancarono 12 esemplari e non

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c'era verso di trovarli, uno zioveroeproprio me li fece arrivare direttamente dalla Panini. Wow! Potei sfoggiare così un album completo - cosa rara - che quando era chiuso, tra pagine, figurine, strati di Coccoina secca e briciole di panino, era spesso più di 15 centimetri!

P.S. Qualche anno dopo uscì la collezione dei cantanti. Erano cartoline di grande formato, fotografie che ritraevano le star e i complessi di maggiore successo, I Delfini, I Corvi, Marianne Faithfull... Avendo io qualche anno di più, disponevo di piccole risorse proprie che andavo ad investire totalmente nelle buste a sorpresa. Credo di aver suscitato molta invidia nei collezionisti più piccoli, così uno di loro si vendicò rubandomi dalle mani nientemeno che l'introvabile Antoine, appena estratto dall'ennesima busta. Il ladruncolo sarebbe più tardi finito in galera. Per spaccio di droga, non per colpa di Antoine. Però, come diceva mia madre, c'è sempre una giustizia!

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I GIOCHI Nostra patria il mondo intero, nostra legge la libertĂ ... (Anonimo - 1904)

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dire la veritĂ , quello delle figurine era una passione, non un semplice gioco. La si portava con noi in ogni momento, anche quando non la si poteva esplicitare (a letto, per esempio). I giochi erano altri, cominciavano e finivano. Spesso si cominciavano per permettere ai grandi di stare in pace: "perchĂŠ non vai a giocare da un'altra parte?". Da un'altra parte poteva essere ovunque: la scelta del luogo dipendeva dalle variabili del momento, dal numero dei giocatori, se pioveva o c'era il sole, dall'ora (dopo pranzo, prima di cena?...), dalla voglia... Nel 99% dei casi "da un'altra parte" era in strada: le auto erano talmente poche e lente che difficilmente rappresentavano un pericolo. Quella era l'arena preferita e vi si faceva di tutto. Se eravamo un gruppetto, il gioco piĂš praticato era quello delle automobiline. Esistevano delle

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macchinine da corsa molto piccole, 4 o 5 centimetri di lunghezza, di metallo colorato e con le ruote in plastica. Non so come arrivassero a noi, forse da scambi contro-natura - figurine per auto? - o forse si ereditavano dai fratelli. Il gioco consisteva nell'allineare i modellini alla partenza, tirare i dadi a turno e portare avanti la macchinetta di tanti "piedi" quanti ne indicava il numero uscito. Uno di noi faceva da unità di misura, in modo da non avvantaggiare chi aveva i piedi più lunghi: si partiva dalla macchinetta e si procedeva avanzando un piede davanti all'altro, il tacco ben puntato addosso alla punta del piede retrostante. Chi arrivava prima al cancello piccolo dei Rodighiero (se il tempo a disposizione era poco ci si accontentava dei De Antoni) vinceva tutte le macchinette in gara. Se c'era carenza di macchinette, si vinceva e basta, e fino alla gara successiva si poteva vantarne il merito. Ogni tanto succedeva qualcosa di assolutamente straordinario e incomprensibile: un giorno, inspiegabilmente, un giocatore regalava tutte le sue macchinette agli altri - "toh, sono vostre" - annunciando che non avrebbe più giocato con noi perché non gli piaceva più. Inaudito! Ho capito dopo che la cosa rappresentava uno scatto di anzianità: un gioco da bimbetti, come quello, andava bene fino a una certa età, poi basta,

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si cominciava ad aspirare ad altre emozioni. Attenzione: per altre emozioni non si intendeva - per carità! - quello che pensate voi bensì, per fare un esempio, il ping-pong o il calcio-balilla, cose che necessitavano di un trasferimento al Centro Giovanile che, per quanto vicino - distava cinquecento metri per la strada e la metà scavesso campi - era appannaggio di chi aveva già acquisito una certa autonomia. Abbiamo giocato per anni a macchinette e sul lungo periodo ciascuno di noi - dato che il gioco non si basava sull'intelligenza - ha lasciato in eredità ai più piccoli lo stesso modesto numero di modellini. Potenza della statistica! Un secondo gioco an plein air era quello dei "cuerciéti", oggi tappi-corona. Consisteva nel tracciare sull'asfalto, con il gesso, un percorso ad anello molto curvilineo e spingere a turno in avanti ciascun concorrente con dei colpetti di dito, solitamente il pollice trattenuto dall'indice e poi rilasciato a molla. Chi usciva con il coperchietto dai bordi laterali della pista tornava al suo posto, saltando il turno. Vinceva chi completava per primo il numero dei giri stabiliti. Anche in questo caso il divertimento stava nel rendere più belli ed efficaci i nostri coperchietti che - a differenza di oggi - presentavano sul

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fondo una guarnizione fatta in sughero, estraibile. Ciò permetteva di sommare più sugheri ottenendo un peso maggiore, cosa che rendeva più veloci e governabili i medesimi tappi. Ciascuno, poi, ritagliava da una figurina la faccia di un ciclista (quelle dei calciatori erano sacre!) - Gimondi, Motta, Anquetil... - e la posizionava sopra ai sugheri avvolgendo il tutto in una pellicola di nylon: si creava così un pacchettino compatto con sopra la faccia del ciclista, e lo si infilava nel tappo. Naturalmente, chi vinceva si teneva i ciclisti degli altri e formava una vera squadra-corse. Il massimo era costruire con la sabbia un velodromo vero e proprio, con tanto di curve paraboliche e sottopassi. Ci si metteva due ore a realizzarlo e vi si giocava dieci minuti. Sempre all'aperto - tra le siepi, negli incolti o lungo il fiume - si costruivano capanne usando arbusti e rami secchi. Se si era megalomani, si usava abbattere appositamente anche alberi interi con sistemi poco ortodossi. La capanna era la sede sociale della "banda" - più o meno ogni strada o contrada ne formava una - che si confrontava con quella delle vie più vicine. Una specie di cosca criminale ma in piccolo. L'obiettivo di ogni vera banda era quella di

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distruggere la capanna degli altri: era il modo che avevamo per rafforzare l'identitĂ e gratificare il pitecantropo che era in noi. La distruzione della capanna avversaria - solitamente con il fuoco - dimostrava la supremazia dell'uomo sull'uomo e dava una certa gratificazione: sottintendeva innanzitutto il diritto al saccheggio delle figurine, ma qualche volta induceva ad abbandonarsi a forme creative di tortura nei confronti di qualche prigioniero ribelle. Era il nostro modo da maschialfa di giocare a mamma-casetta. Il nostro capobanda era Marino, il quale presentava qualche aspetto caratteriale vagamente sadico: ci costringeva, per entrare nella sua banda e godere della sua protezione, a pratiche di sottomissione molto spartane come quella di buttarsi dal tetto di una casa in costruzione per finire sopra un mucchio di sabbia. Erano di quei tempi i primi condomini a tre-quattro piani, e i piĂš deboli rientravano a casa vistosamente contusi. Due fratelli del nostro gruppo erano figli di commercianti d'alimentari. I loro genitori erano notoriamente dei tiranni e spesso non li lasciavano uscire di casa. CosĂŹ andavo io da loro: ero l'unico ad avere compassione... Si giocava con quel che c'era, il piĂš delle volte si trattava di imballaggi di cartone o di altri

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contenitori. Rinunciando a tutte le possibilità offerte da quell'infinita quantità di scatoloni, noi ci dedicavamo alla creazione di detersivi in polvere ai quali davamo nomi accattivanti - Puliben, Sbiancatutt, Superlux - sminuzzando e mescolando pezzettini di camera d'aria e di ogni altro materiale pulviscolare inerte di varia e spesso dubbia provenienza. Aggiungevamo avanzi di vero detersivo in polvere, raschiato dagli angoli dei fustini vuoti, e il gioco era fatto. Credo si trattasse della sindrome di Calimero, eh, Ava, come lava! Con qualche ragazzino di più elevata estrazione socio-economica si giocava coi trenini, ma la cosa richiedeva tempo e perciò accadeva raramente. Rivarossi o Lima? Le solite contrapposte scuole di pensiero - Coppi o Bartali, Beatles o Rolling Stones, Macintosh o Microsoft? - cominciavano già allora a fronteggiarsi mentre si tentava di costruire - con l'ausilio di libri e stecchini di ghiacciolo - instabili cavalcavia che crollavano sotto la nostra presunzione. Quando era ora - finalmente! - di assemblare i convogli e godere del loro autonomo dinamismo, azione quasi soprannaturale per l'epoca, immancabilmente era ora di tornare a casa.

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Se pioveva, si rimaneva ognuno a casa sua, a inventare nuovi giochi, come vessare le sorelline più giovani con la "giostra della paura": sfruttando lenzuola, coperte e corde per stendere la biancheria, costruivo labirinti entro cui sarebbero dovute transitare. Al buio, le incaute venivano terrorizzate con urla, scosse, corpi estranei e sostanze repellenti. Finiva quando la giostra crollava. Se proprio ero solo, mi accontentavo di disegnare: riempivo interi block-notes di lampadari a goccia fatti con la biro. Barocchi, aristocratici e soprattutto simmetrici. Non era un'attività diffusa tra i coetanei... Anche a pranzo o a cena, a dire la verità, mi dedicavo all'arte: scolpivo pezzi di formaggio e altre materie prime - mele, pere... - forgiando sculture astratte che poi ingoiavo con grande soddisfazione. Forse più che un gioco era una forma gastroartistica di design... Poi c'erano i giochi segreti, le cose proibite. Qualche volta coincidevano ma non sempre. Ovviamente quasi tutte le cose che facevamo erano proibite, ma noi avevamo ben presente quali lo fossero per colpa della pigrizia degli adulti e quali - invece - perché si rischiava la vita o la prigione (le due cose erano per noi equiva-

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lenti). Per farmi capire meglio: anche chi diceva le bugie avrebbe dovuto andare in prigione, ma noi sapevamo che bastava confessarsi e scontare la pena relativa (tre avemarie). Invece, andare dentro alla grotta della morte era proibito proprio. La grotta della morte era sul Monte Crocetta. Si trattava di una galleria di guerra, credo, ma verticale come un pozzo. Probabilmente serviva a nascondere cose, più che persone. Fatto sta che era buia e pericolosa, e dunque provocava emozioni forti. Ci buttavamo dentro i sassi per sentire quanto era profonda, e si sentiva un din din rimbalzare più volte tra le pareti ma non arrivava mai in fondo. Attraversava sicuramente la terra e sbucava dall'altra parte, in Australia credo. Nessuno ebbe mai davvero il coraggio di entrarvi, per fortuna. Un altro luogo di questo genere era una riva che dava sul fiume, in città. In quel punto l'acqua era molto profonda e passava sotto ad una casupola che serviva a regolarne il flusso. Un argine di cemento, stretto tra l'acqua e le case, permetteva un rischiosissimo transito per sbucare più in là, nei pressi del ponte, dove si usciva più comodamente. Lungo la riva crescevano dei sambuchi. Un giorno vi trovai un paio di amichetti

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- evidentemente il luogo non era proprio segreto - che fumavano dei rametti di sambuco. «Sono come le sigarette, prova», mi invitarono. Che furbi, pensai. Così provai a fumare: era la prima volta. Non avevo esperienza e forse neppure tecnica; mancò poco che finissi in acqua in preda ad una crisi di tosse. Era gratis e molto trasgressivo, ma si moriva o soffocati o annegati. Meglio di no. Il gioco più segreto era invece quando potevo salire in soffitta, dove avevo una cassa di legno su misura. Ci stavo dentro appena, rannicchiato, ma da quella scomoda posizione immaginavo di navigare su un fiume tropicale tipo Rio delle Amazzoni. Una scopa faceva da pagaia e con quella tenevo a bada i coccodrilli. Ogni tanto arrivavano anche i pirati - il Rio delle Amazzoni pullulava di pirati! - ma con il mio fucile, cioè la stessa scopa girata dall'altra parte, ne facevo strage e i pirati andavano in pasto ai coccodrilli. P.S. Ecco perché quei coccodrilli eran tutti belli grassi...

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VII

IL CALCIO Nino non aver paura di tirare un calcio di rigore... (F. De Gregori - 1982)

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oool!..." "No, traversa!..." Queste erano le uniche parole che potevano scatenare la rissa. Infatti, nel calcio praticato - e vi era solo quello - ognuno era giocatore ed arbitro; nessuno avrebbe mai osato mettere in discussione alcune regole non scritte. Ad esempio, se il terreno era in forte pendenza, a metà partita si cambiava di campo. Tutt'al più restavano da affrontare le variabili del caso specifico: quando la linea di fondo somigliava poco a una linea, si battevano i calci d'angolo oppure ogni tre corner si calciava un rigore? E quando i giocatori erano dispari, si sarebbe giocato con una porta sola o alla squadra in inferiorità numerica si concedeva il portiere "volante", cioè col diritto di prendere la palla con le mani in ogni luogo del campo? E se il campo era delimitato da pareti o muretti, era valido il gioco di sponda? Queste erano le vere questioni da risol-

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vere, altro che la Guerra Fredda! Rimaneva solo la temuta disputa sulla traversa, una vera spada di Damocle. E' da specificare che il calcio era per qualcuno una disciplina specialistica e dunque poteva essere praticato solo nei luoghi deputati, cioè in un campo di calcio regolamentare e in tutte le altre condizioni canoniche, numero di giocatori, arbitro, ecc. Una cosa da fanatici, dunque, che si poteva realizzare aderendo ad una delle due società bassanesi allora esistenti, l'A.C Bassano e la Virtus Bassano. La prima operava nel versante nord-est della città - praticamente all'estero - mentre la seconda aveva sede al Centro Giovanile, centro della terra. La contrapposizione fra le due compagini era tremenda, le due tifoserie nemiche acerrime, e il mondo già allora pareva diviso in due, più o meno come oggi. Tutto dipendeva invece dall'esistenza di due soli campi sportivi posti agli antipodi, e le distanze risultavano allora - infinite. Per gli altri, cioè per i non fanatici, il gioco del calcio - anzi del pallone: xoghémo baeòn? - era appunto un gioco come gli altri, qualcosa da fare ovunque. La parola "ovunque" deve essere presa alla lettera: per strada, in mezzo al sorgo, in garage... Il calcio praticato era la cosa più naturale e

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flessibile che ci fosse al mondo, a cominciare dai giocatori, che potevano essere anche solo due, purché possessori di una palla. Così, se si era in due, si giocava in strada, si sceglieva come porta il cancello di una casa, e la scelta dipendeva più dal grado di tolleranza della padrona piuttosto che dalle sue misure (del cancello, si intende). Uno contro uno, senza portiere. La maggior parte del tempo la si passava a suonare i campanelli e a saltare le recinzioni per andare a recuperare il pallone, e non sempre la cosa riusciva. In questo caso la partita finiva per abbandono - o sequestro - della sfera, spesso inseguiti da qualcuno. Se si era un gruppettino, invece, la partita cominciava con il rituale delle formazioni: due capitani - i giocatori universalmente ritenuti i migliori - chiamavano a turno un compagno, e le due squadre si formavano in una progressione qualitativamente decrescente che si concludeva con gli incapaci, l'ultimo dei quali era quasi sempre il proprietario del pallone di cuoio. Al quale dunque non si poteva negare un posto in squadra, anche se era predestinato a stare in porta. Come si capisce, non avevamo grande considerazione per il ruolo del portiere... Che il pallone fosse di cuoio era una questione più di prestigio che di comodità; infatti, colpirlo

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di testa, era ogni volta un trauma dato che non era mai gonfio al punto giusto. Ben che andasse, si rientrava a casa con le gambe a chiazze viola, livide delle pallonate a bruciapelo. Fatte le squadre, si faceva il campo, elemento meno necessario di quel che si possa pensare: il suo perimetro poteva anche essere rettangolare ma non era un obbligo. In uno slargo - un incrocio, un piazzale, un cortile, un seminativo, un parcheggio... - si determinavano alcuni apici (possibilmente quattro) identificandoli a seconda dei casi con lampioni, spigoli di cemento armato, alberi di prugne, insegne, paraurti e via elencando. Individuati infine due lati - possibilmente contrapposti ma non necessariamente paralleli vi si determinavano le porte con capi di vestiario - berretti, maglie - o solidi generici possibilmente morbidi (merendine, mucchietti d'erba, scatoloni, quel che si trovava). E finalmente si poteva cominciare a giocare. E' a questo punto che ciascuno viveva con ansia il momento in cui sarebbe esploso il paradosso della traversa che - come tutti i paradossi - si presentava con un enunciato formalmente corretto ma conteneva implicitamente l'inganno. Infatti, la traversa era una linea virtuale e immaginaria sottesa fra due pali, anch'essi immaginari. CosĂŹ, quando il pallone entrava - ma dove? - passando

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di poco sopra il portiere, c'era sempre qualcuno che si agitava: traversa, traversa! Si capisce che la cosa non poteva sortire alcunché di buono. In questo caso, dopo una rissa furibonda, si tornava a casa arrabbiati. Solo quando non lo si poteva praticare, il calcio lo si andava a vedere. Raramente e gratis. Io avevo la possibilità di stare in panchina, con lo zio allenatore. Da lì venivano pronunciate parole nuove, per me, come arbitro cornuto. L'idea che l'arbitro avesse le corna me lo faceva piacere sempre per via delle figurine degli animali - l'alce canadese, la gazzella di Thompson - ma soprattutto per la presenza di un tifoso dalla voce squillante che usava indirizzare all'arbitro una lunga e raffinata perifrasi - arbitro, senti il richiamo della mamma: muuu!!! - la quale rieccheggiava nello stadio tra gli applausi. Che forza! Le uniche partite che si potevano vedere in tivù erano quelle della nazionale. A Città del Messico, nel 1970, l'Italia in finale perse 4 a 1 con il Brasile. Noi ragazzi eravamo ormai d'accordo di festeggiare e dunque, anche se avevamo perso, prendemmo le bici e andammo a fare scorribande sul Ponte Nuovo, dove erano in corso dei lavori, segnalati da alcune

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bocce a petrolio. Spargemmo il petrolio sul ponte per vendicare l'onore perduto, e lo incendiammo. L'azione fu spettacolare. Dannunziana, direi. P.S. Spero che il reato sia andato in prescrizione...

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VIII

IL CENTRO GIOVANILE Seduti sui gradini di una chiesa... (F. Battiato - 1980)

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l Centro Giovanile - per noi ragazzi il patronato - era il luogo dei giochi ufficiali. Si trattava di un grande edificio entro cui si svolgevano attivitĂ a carattere religioso ma vi facevano da contorno anche un bar, una sala giochi e - fuori - un parco-giochi, un campo di pattinaggio e un campetto da calcio in terra battuta. Vi erano poi anche delle vere strutture sportive ma erano riservate ai fanatici. Successivamente il tutto sarebbe stato ammodernato e ampliato, diventando oggi un luogo qualsiasi. A parte il bar, tutto il resto era gratis (o quasi). Il patronato era un luogo aperto che poteva essere usato sia come parcheggio per bambini (non esisteva la scuola a tempo pieno) sia come una vera e propria agenzia educativa. Infatti tutto sembrava autogestito democraticamente da noi ragazzini - gli spazi, gli orari, le attivitĂ - anche se invece gli adulti c'erano eccome, onnipresenti

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senza farcelo notare. Tra questi vi era Amedeo. Signore buono ed educato, appariva e scompariva con assoluta discrezione senza mai interferire. Ma c'era. Non so che ruolo avesse e si diceva che non godesse di buona salute, ma la cosa non condizionava apparentemente né la sua né la nostra vita. Era un angelo custode. Ogni tanto, per i corridoi, passava qualche prete che invitava con poca convinzione ad andare a fare qualcosa di incomprensibile come assistere alle funzioni. Quando invece ci chiedeva cose normali - raccogliere le foglie, portare la sabbia sul campo, far su la rete della pallavolo - eravamo contenti di farlo. Poi tornavamo a fare i fatti nostri. I fatti nostri si svolgevano principalmente nel parco-giochi, l'unico esistente in città, e nel suo terribile tunnel che attraversava da una parte all'altra una collinetta di qualche metro. Ci si strisciava dentro passandoci appena, e la cosa era entusiasmante. Dentro al tunnel ci si fermava, si incrociavano quelli che provenivano dal senso contrario - cosa proibitissima! - e ci si nascondeva da una specie di guardiana a tempo pieno, la seconda persona più cattiva presente al Centro Giovanile, dato che impediva di fare i giochi più divertenti come sep-

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pellire gli altri nella sabbia o far saltare per aria coi petardi le poche mamme presenti. Di peggio c'era solo una suora, una donna tarchiata permanentemente incazzata. Spesso ci inseguiva urlante e dondolante, e provocarla per noi era una vera mission. Ricordo bene il suo nome ma è meglio evitare... Il secondo posto piÚ interessante del patronato era la sala-giochi. Vi erano il calcetto, i peccaminosi flipper e il biliardo, tutti a pagamento. Con il primo ci giocavamo l'intero pomeriggio grazie ai berretti infilati dentro alle buche delle porte che fermavano le palline; nel secondo si svuotavano i risparmi di una settimana in un battibaleno; il terzo faceva soggezione, era riservato ai grandi e ci rimaneva estraneo. Dal punto di vista linguistico, la sala era una fucina molto produttiva, una finestra sul mondo. Tilt e game over sono state le prime parole inglesi imparate dalla mia generazione. Dai giocatori di flipper si apprendevano gradi di parentela - to sorèa vaca! - ed espressioni forbite come "lavora, puttana". Non ne capivamo il senso etimologico ma comunque poi ci si andava a confessare e passava tutto, come col Formitrol. Il ping-pong era il mio gioco prediletto. Ci

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si portava le spatole da casa perchĂŠ quelle che davano al bar sembravano mangiate dai castori. Anche la pallina. Al ping-pong ogni tanto giocava anche Natalino. Si trattava di un bravo ragazzo - forse giĂ uomo - affetto da una sindrome che gli impediva i normali movimenti. Vestiva elegantemente e fumava come un turco sigarette senza filtro che teneva permanentemente incollate al labbro inferiore. Beveva, anche. Queste cose non gli impedivano di vendere bandierine italiane con l'effige degli alpini sul Ponte Vecchio, la prima forma di marketing che si sia vista in cittĂ . Per giocare a ping-pong si facevano i turni: chi perdeva, usciva e veniva sostituito dal primo della fila. Quando arrivava Natalino le regole saltavano. Anche lui saltava, ma sopra il tavolo! Da lĂŹ eseguiva un servizio imprendibile sia per via del suo corpo disarticolato sia per via del vino. Ne usciva un infinito campionario di finte! Portava sempre una elegantissima cravatta e camminava come Quasimodo, il campanaro di Notre Dame. Le partite con lui finivano quando stramazzava al suolo all'indietro, scomparendo alla vista del suo avversario che qualche volta ero io. Inizialmente, ad ogni sua rovinosa e rumorosa caduta, tutti accorrevano spaventati; poi abbiamo

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capito che non sarebbe morto in quel modo. Nel labirinto di quel centro parrocchiale stava anche un cinema dove il sabato pomeriggio venivano proiettati dei filmetti a dir poco sconcertanti: biografie di martiri, vite di beati imberbi, storie esemplari e senza senso, propedeutiche - credo - a sollecitare in noi le più nascoste virtù ed invece secondo noi completamente grame. Cose da scongiuri con gli sputi e toccamenti di palle! Solo rarissimamente - forse per errore - partivano dei film che ci piacevano un mondo - Stallio e Ollio, indiani e caubòi... - e noi facevamo venir giù il teatro con i piedi: pavimento, seggiole, pareti e soffitto, tutto regolarmente di legno, producevano una nuvola tossica di polvere entro cui sparivamo per qualche minuto. Se il finale era stato particolarmente gradito, ci si sputtanava le ultime dieci lire con un ghiacciolo, in compagnia del quale si tornava a casa. Tornare a casa significava uscire di corsa, scavalcare il muro, saltare dentro negli orti delle casette operaie, attraversare il campetto abbandonato della littorina e scapicollare ciascuno a casa propria, chi arriva ultimo è un baùco! P.S. Più che un treno la littorina era una monovolu-

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me a gasolio che viaggiava su rotaia. Fatta piÚ di legno che di ferro. Portava a Vicenza passando sopra il Ponte Nuovo. La sua principale caratteristica era che non aveva un avanti e un dietro. Era bifronte, insomma. La seconda, che faceva una puzza terrificante. Oggi il campetto è una strada a quattro corsie. Senza erbacce, perciò...

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IX

L'ABBIGLIAMENTO Vorrei essere il vestito che porterai... (L. Dalla - 1996)

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rbait mach frei. Chi pensa che il ragazzino sulla copertina di questo libro sia un orfano di Mauthausen si sbaglia. Quando l'ho vista nella scatola di latta di mia madre, tra le altre, non ci volevo credere. «Perché?», - mi ha chiesto lei, con la faccia che ha quando fa l'offesa ma fa finta di non esserlo o per lo meno non vorrebbe darlo a vedere. Come si può osservare, la faccia mesta, leggermente incredula, e l'aspetto emaciato non dipendevano dalla polvere degli anni né dall'apparecchio fotografico ma dal paltò. Chissà di cosa era fatto, forse di cartone ondulato, avrei voluto chiederle. Lei allora si è messa ad annaffiare i gerani perché la giornata era molto calda... Mi era rimasta una seconda domanda - perché col paltò ma senza le braghe? - ma a quel punto non era il caso. Solo più tardi, sbollita l'offesa,

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passandomi vicino, mi ha borbottato che a quel tempo i vestiti si passavano di fratello in fratello e il fatto che ciò capitasse doveva essere considerata una fortuna, altro che! Il paltò dunque era del fratello più vecchio, passato poi a quello di mezzo e infine giunto a me. «E comunque sotto il paltò c'erano anche le braghe. Ma corte, per questo non si vedono». Di fronte a ciò mi viene l'impulso di riassumere gli avvenimenti più sconvolgenti del 1969 e chiedere quale mi abbia più segnato: - Jan Palach si dà fuoco per protestare contro l'invasione dell'Unione Sovietica in Cecoslovacchia; - l'uomo sbarca sulla Luna (anche se non tutti ci credono ancora); - Charles Manson e i suoi amici satanisti compiono un massacro nella villa dei Polanski; - a Woodstock si radunano 400 mila hippies per un festival musicale che resterà nella storia; - alla Banca dell'Agricoltura milanese una bomba fascista fa una strage; - io giungo in calzoncini corti in una classe mista - la prima della mia carriera scolastica - del più autorevole e rispettato ginnasio del Triveneto sotto gli occhi stupefatti delle tiratissime neoliceali, truccate, scollate e vertiginosamente in gonna. Quel giorno il rientro a casa fu tragico.

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Poi fortunatamente le cose si evolvero: il piÚ grande dei fratelli cominciò ad ingrassare, il secondo ad allungarsi e io - che culo! - rimasi piccolo e insignificante. Potei per questo cominciare ad allestire un guardaroba tutto mio e le combinazione cromatiche che presi a sfoggiare - rosso, giallo, verde e viola tutti insieme, alla faccia del grigio e del marrone - rimasero indelebili nella storia dell'istituto. Erano i colori dell'emancipazione. P.S. Quesito: quando il paltò si sdruciva, la mamma lo portava dal falegname o in carrozzeria?

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LA MIA CITTÀ/1 Respirerò l'odore dei granai... (Zucchero - 1989)

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ella mia città riuscivo ad orientarmi magnificamente. Anzi, mi correggo: in qualsiasi posto fossi, sapevo perfettamente dov'ero. Non che ci andassi da solo, dato che ero piccolo; ci andavo con qualcuno a cui davo la mano e che mi accompagnava. Insomma: era lui che doveva andare da qualche parte e io ci andavo insieme. Non sapevo leggere, non conoscevo i nomi delle vie, non avevo la bussola, eppure sapevo in ogni momento esattamente dov'ero senza usare gli occhi. Ho avuto la fortuna di crescere in una città che profumava. Ma non che profumasse tutta di un profumo; ogni zona possedeva uno specifico profumo. Dipendeva da dov'eri. Abitando vicino al fiume, si andava in centro per Via della Colomba. A piedi, naturalmente,

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perché le macchine non servivano per fare cinquecento metri. Così si imboccava regolarmente Via Verci. Il primo profumo era quello dell'olio motore. Inconfondibile! Credo che la mia passione per le moto sia nata lì dove c'era la Guzzi. Sopra la saracinesca giganteggiava un'aquila d'oro ad ali spiegate e io rallentavo il passo spiando dentro gli uomini sporchi di nero da capo a piede. Dentro, si intravedevano moto rosse, gigantesche e luccicanti. Il profumo d'olio esausto era come il Vicks Vaporub, apriva i polmoni. Non si faceva in tempo a passare sull'altro lato della strada che già un altro profumo si sostituiva al precedente: era quello della carta di Botton. Dentro al suo portone spalancato, accatastate nel buio, pile di cartoni stesi formavano quadrati condomìni esalanti particelle cellulosiche che stimolavano le narici. Un muletto li spostava, andava e veniva in continuazione, creando nuove pile, nuovi quartieri. Quando si stava per raggiungere il fondo della via, proprio all'angolo prima di girare verso Piazza Libertà, esplodeva il profumo della farina. C'era un mulino che macinava frumento, lì, in centro città, quasi in piazza. Da non credere! Fuori, in mezzo al selciato imbiancato, un tapis

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roulant caricava e scaricava attraverso le finestre del primo piano sacchi di macinato. Il rumore che proveniva dalle finestre aperte era quello delle ruote che giravano, delle pulegge di legno, delle cinghie di trasmissione fatte di cuoio. Svoltati per via Bellavitis, il profumo del pane svaniva solo per lasciare posto a quello del cordame che saliva dai Portici Lunghi, portato dalle brezze del Brenta. Mai bottega monotematica ha avuto una vetrina tanto varia! Se avevi bisogno di un gemmo di spago, la scelta era così ampia che potevi disquisire intere mezz'ore prima di andartene soddisfatto. D'altra parte, con una bobina di cànavo giocavi per settimane! Dalla piazza centrale si potevano scegliere molte direzioni; se si girava a sinistra si andava in Piazzotto Montevecchio. Non capivo perché lo chiamassero "dei zoccoli" quando invece doveva essere chiamato "delle banane", perché lì c'era una cosa che non ho mai visto in nessun altro posto al mondo: una specie di "edicola" che vendeva esclusivamente banane. Costosissime banane perché ancora rare, esotiche, caschi che pendevano da tutte le parti. Se tenevi la destra, passata la chiesa di San Giovanni, potevi odorare il profumo dell'unica pizzeria allora esistente. Se invece ci si infilava dall'altra parte, in via Matteotti, allora un po'

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la tramontana e un po' la discesa favorivano l'espandersi del profumo di baccalà. Accatastati e appesi in ogni angolo della bottega, gli enormi pescioni rinsecchiti e senza testa venivano impugnati come mazze da baseball e incartati stile filoncino. C'era anche una macchina a rulli entro cui veniva ammorbidito quello che sembrava un pezzo di cartone informe. Se era già tempo di tornare, si scendeva per la via "delle meringhe" sperando che una ricorrenza speciale prevedesse la sosta da Scarmoncin: spumiglia, cacao, vaniglia, marzapane, crema, nocciole, torrone; quando si rientrava, bisognava lavarsi i denti senza neanche aver mangiato! Superata la pasticceria, si entrava nella zona d'influenza del cuoio: prima della Porta Dieda, infatti, suole, tomaie, forme di legno ma soprattutto meravigliosi cordoni di pelle per fionde predisponevano ogni terminazione nervosa all'eccitazione; superata la Porta, gli odori dei collanti della bottega del calzolaio della discesa Brocchi provocavano visioni mistiche. Se il giro era più ampio, invece, dalla Piazza Libertà si proseguiva sull'altra piazza, dove a fare da angolo c'era una bottega di spezie: dalla porta uscivano frammenti di ciò che io identificavo con l'India, la Cina ed altri luoghi inimmaginabili allora.

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Poco più avanti, di fronte alla fontana, stazionava il profumo delle matasse di cotone e di lana grezza. Appese ad un'asta oscillavano a mo' di turibolo, spargendo intense fragranze di greggi. Per poco, però, perché all'angolo con via Da Ponte l'odore di pesce fresco resettava atmosfera, ionosfera, stratosfera. Sui piani di marmo si muovevano lentissimamente polipi, aragoste e granséole; dentro ai secchi si agitavano le une sulle altre montagne di mazanette. Lo spettacolo era impressionante! Da qui si poteva rientrare per via Museo, non senza essersi impregnati del pungente profumo dello zabaione di Toffano, oppure proseguire per Via Barbieri (via Jacopo Da Ponte era stretta e trafficata...) dove - quasi irraggiungibile dentro a un antro scuro - si nascondeva una falegnameria interamente foderata di segatura. Vi si muoveva un uomo gentile in càmice nocciola, anch'esso ricoperto di trucioli come di coralli la barriera. Lo si distingueva - tanto era mimetico - solo quando azionava una polverosa toupie, ed il rumore ti guidava verso di lui. Neanche la tramontana che scendeva dal Viale dei Martiri riusciva a portarsi via l'odore di legno. Rimaneva poi un'altra bottega di grande fascino, anche se non per le narici. In fondo a Via Roma, semisepolta dagli avanzi, la vetreria Marcon for-

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niva ogni forma di vetro. P.S. Anche oggi la cittĂ profuma ma di un solo profumo: quello dei gas di scarico. Solo in alcune zone si insinuano isolotti di iracondo e penetrante puzzo di fritto. O tempora, o mores!

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XI

CAROSELLO La televisiun la ga na forsa de le첫n... (E. Jannacci - 1975)

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hi pensa che Carosello fosse semplicemente televisione proviene da un altro pianeta. Qualcuno potrebbe sostenere oggi che si trattava di promozione commerciale ma si sbaglia: Carosello era una seduta di psicanalisi infantile, un po' Alice e un po' Cappuccetto Rosso. Era la porta per un mondo "altro". Comunque passasse la giornata, Carosello la chiudeva rassicurante. Anzi: la giornata era suddivisa in aC. e dC., e il dC. contemplava esclusivamente il bacio della buonanotte. "Se non aiuti tua sorella, niente uovo col prosciutto, stasera...". L'uovo col prosciutto - prima del mezzo litro di latte che chiudeva ogni cena - ci stava proprio bene. Il prosciutto, poi, manteneva caldo e cremoso il tuorlo che dunque - quando era ora - inondava la gola voluttuosamente. Meglio delle ostriche.

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"Se non prepari la tavola, non ti faccio la crema fritta...". La crema fritta era qualcosa di più. Rinunciarvi era una privazione di una certa entità ma talvolta un insano moto d'orgoglio - caratteristico dell'età - poteva indurre all'eroico sacrificio. "Se non finisci i compiti, niente Carosello!" Come? Eh no, questo andava contro le convenzioni di Ginevra. Fosse esistita Amnesty International... Perché arrivare a tanta cattiveria se non erano ancora state tentate le altre abituali armi di dissuasione come l'inseguimento con la scopa, il tiro delle ciabatte o il sequestro delle biglie? Forse perché le mamme non fanno prigionieri? Carosello raggruppava su di sé la situazione comica, la gag, la storiella, il cartone animato, ma rappresentava anche una finestra sullo stato dell'evoluzione socio-economica e tecnologica del tempo. Spesso vi venivano presentati oggetti, accessori e prodotti totalmente sconosciuti e inconcepibili, invenzioni mai viste: frullatore, lavatrice, scooter, lavastoviglie... Dietro a Gino Bramieri, che consigliava "ma signora badi ben che sia fatto di moplen", ci stava Giulio Natta, premio Nobel per 1963 la chimica. Non solo: ad accompagnare Angelino per il detersivo dell'Agip vi era Mozart

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e a ideare Unca Dunca, Olivella e Mariarosa, Carmencita e il Caballero misterioso e infine il pianeta Papalla vi erano - udite udite! - Bruno Bozzetto, Marco Biassoni e Armando Testa, veri geni della comunicazione. I fratelli Pagot proponevano Jo Condor e Osvaldo Cavandoli inventava la quintessenza dell'animazione, la "Linea" della Lagostina. Ancora oggi bisogna guardare a loro per la storia della nostra modernità. E tra i protagonisti - dietro o davanti la macchina da presa - vi erano Cesco Baseggio, Mario Soldati, Renzo Arbore, Gianni Boncompagni, Aldo Fabrizi, Totò, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, i fratelli Taviani, Ugo Gregoretti, Citto Maselli, Luigi Malerba, Giuseppe Patroni Griffi, Ermanno Olmi... Non era dunque un caso che davanti a Carosello stessero grandi e piccoli: i primi commentavano desiderando, immaginando, progettando, discutendo, divisi tra innovatori e conservatori (un giorno mio padre arrivò in casa con una lavastoviglie ma mia madre lo costrinse a restituirla!); noi piccoli - invece - a giocare più modestamente a memorizzare i tormentoni pubblicitari. Questo era Carosello, quando la televisione era un'altra cosa. Era l'alfabetizzazione di Non è mai troppo tardi. Era Febo Conti, il Maicbongiorno dei piccoli. Erano le stereofoniche Kessler.

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Questa - si può dire - fu la tivù fino al 10 giugno 1981. Quel giorno Alfredo Rampi, un ragazzino di sei anni, cadde dentro a un pozzo artesiano stretto e profondo incastrandosi dapprima trenta metri sotto terra, poi scivolando oltre i sessanta. Le squadre di soccorso non servirono a nulla. Neppure ce la fece un ometto piccolo e magro - Angelo Licheri - calato a testa in giù dentro a quel cunicolo largo trenta centimetri. Trenta centimetri! Niente da fare: il bimbo morì davanti alla televisione e tutti ci rimanemmo male. Da quella volta la televisione cambiò anima. P.S. In vent'anni - dal 1957 al 1976 - Carosello interruppe le trasmissioni solo nei tre giorni successivi alla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969). Fu un vero lutto. L'interruzione, intendo dire...

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XII

A SCUOLA I segni delle mie fatiche e dei riguardi... (P. Conte - 1988)

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scuola ero bravino. Avevo un maestro maschio, il maestro Marcadella. Credevo che ai maschi fosse proibito fare la mae-

stra... Era un uomo alto, aveva un fare deciso, i capelli brizzolati e una fronte che scendeva a spiovente. Alle mamme ricordava Amedeo Nazzari ("e chi non beve con me, peste lo colga!"), e credo che la cosa non dispiacesse loro. Forse dispiaceva ai papĂ ... In una scuola in cui le classi erano suddivise tra maschi e femmine, oltre a insegnarci quel che si insegna normalmente alle elementari, ci trasmetteva nozioni e insegnamenti propri del genere maschile e attinenti a discipline extra-scolastiche: come si cammina per strada, come si va in bicicletta... Essendo un ragazzino pacato ed affidabile, venivo usato per far da tramite tra lui - che svol-

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geva ruolo di coordinatore - e il resto del corpo insegnante. La bidella svolgeva altre mansioni come tener pulita la scuola, andare a comprare i panini per chi era senza, custodire i ragazzini più irrequieti, eccetera. Così, frequentemente, andavo a portare comunicazioni ad altre maestre, ed in particolare ad una. Che odiavo. Era brutta, vecchia e madèga. Non ho niente contro i brutti, niente contro i vecchi né contro chi non è sposato, appartenendo anch'io - in qualche modo - a tutte queste tre categorie. Il problema vero era che lei mi metteva in imbarazzo di fronte alla classe - femminile indicandomi come esempio di bontà, diligenza e buona educazione. Pareva una tentata vendita! Avevo sei o sette anni, e una presunta educatrice avrebbe dovuto manifestare maggior sensibilità verso la mia timidezza anziché invitare le proprie alunne a fidanzarsi con me. Per cui è vero che era brutta, che era vecchia e madèga, ma il problema era che era stronza. Ma come fai a capirlo, a quell'età... Il primo tema fu Damo e Deva. Sicuramente il maestro aveva detto Adamo ed Eva, ma si andava a scuola apposta per imparare a mettere per iscritto i pensieri. La classe fu entusiasta dell'argomento, esercita-

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ta com'era in famiglia, tra rosari e litanie. Damo e Deva erano i primi uomini, quelli fatti da Dio. Non nel senso di "venuti bene" ma nel senso che era stato Dio a farli. Di loro sapevamo tutto: la costola, la mela, il serpente, il sudore, il paradiso terrestre, ma i loro nomi - prima di quel momento - erano stati sempre e solo suoni. Damo e Deva, appunto. Fu una strage, scolasticamente parlando: d'altra parte, fino ad allora avevamo solo pronunciato parole. Anche le preghiere erano solo suoni: "O GesĂš d'amore acceso non viavessi mai offeso, o mio caro buon GesĂš, fa chiotarmi sempre piĂš". Viavessi era voce del verbo viavai; chiotarmi era la prima persona singolare di chiotarsi. Riflessivo. In quinta elementare, in occasione del Natale, il maestro decise di rappresentare la nativitĂ dal vivo. Si trattava di costruire una capanna - noi maschi eravamo esperti - dentro cui collocare una Maria e un Sangiuseppe. Ci sarebbero stati anche - ovviamente - il bue e l'asinello, tutto il corollario dei pastori e delle pastoresse, ma per coinvolgere tutti gli alunni della scuola ci sarebbero stati anche gli arrotini, i maniscalchi, gli allevatori, i contadini e ogni altra rappresentanza sindacale riconosciuta successivamente dallo statuto dei lavoratori. Ci sarebbero stati anche i cedri del

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Libano. Vivi naturalmente... A fare la Madonna e San Giuseppe sarebbero stati coloro - tra gli alunni - che avessero eseguito il miglior tema sull'avvenimento medesimo dal titolo "E' nato". A parte che, a Pasqua, a nessun insegnante sarebbe passata per la testa l'idea di assegnare un tema dal titolo "E' morto", il destino volle che lo svolgimento migliore fosse il mio. Trovato dunque il Sangiuseppe. La predestinazione volle che al ruolo di Maria fosse designata - ma non per meriti scolastici - la più bella ragazzina della scuola di cui erano innamorati tutti coloro a cui la tempesta ormonale aveva già tarato il cervello (quindi non io...). Si chiamava Paola, ed apparteneva alla classe di quella maestra lì (anche questo nome è meglio evitare...). Fu così che molte mattine furono dedicate alla realizzazione del tutto. In particolare, Paola ed io trascorrevamo molto tempo ad imparare a memoria i dialoghi del caso, ad eseguire la sceneggiatura nell'invidia generale e per la felicità della maestra (stronza). La cosa non dispiacque neppure a me, ma non per quei motivi lì. La rappresentazione avvenne la vigilia di fronte al pubblico dei genitori, molti dei quali piangenti, e io vi partecipai in stato di trance totale. Perciò

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non ricordo null'altro se non che alla fine avevo il mal di testa. Finite le elementari, capitai in una scuola diretta da un preside nazista: durante la ricreazione si piazzava alla finestra che dalla presidenza dava sul cortile - dove noi ci gustavamo dieci minuti quotidiani d'aria - e con le braccia puntate sul davanzale, il mento sollevato verso l'alto, controllava nervosamente che nulla producessimo al di fuori di una modica emissione di anidride carbonica. Forse era un ecologista. Qualora avesse solo subodorato - anche in via ipotetica - che da parte nostra ci fosse stata l'intenzione di spostare un sassolino, di addentrarci in un pensiero sconveniente o che sfuggisse semplicemente al suo progetto di ordine universale, si esibiva in strabilianti scatti d'ira, vere crisi epilettiche, diaboliche convulsioni psicomotorie. Quindi indicava col dito il presunto colpevole e lo faceva trascinare dalla task-force dei bidelli in presidenza. Era pazzo furibondo. Credo sia morto, ma se è morto è successo comunque troppo tardi. Anzi: se scopro dov'è sepolto gli vado a sputare sulla foto. Fortunatamente alle stesse medie c'era anche un angelo, la professoressa di italiano. Era una

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donna elegante, dolce e preparata, il classico innamoramento infantile. Mi premiava per il romanticismo dei miei scritti e per la fantasia delle descrizioni. Forse anche per il mio bisogno di sicurezza: in una classe maschile in cui i più nobili ruttavano e manovravano vistosamente con la mano dentro ai pantaloni, gli sarò sembrato meritevole oltre che disorientato. A scuola con me c'era anche "Ovomaltina", un tipetto che chiamavamo così perché faceva merenda col cioccovo anziché coi panini o le brioche, come i comuni mortali. Oggi è diventato un luminare di nonsocosa; allora era invece solo uno stronzetto presuntuoso, figlio di un grande luminare di nonsocosa. Se la prendeva con me perché ero l'unico più piccolo di lui. La mia amatissima prof se ne accorse e un giorno mi prese a tu per tu e mi fece un breve discorso amorevole e stimolante. In sostanza voleva dire: «Perché non lo aspetti fuori?». Che donna! La cosa mi sembrava eccessiva, in verità, ma la sfida tra i due nanerottoli della classe piacque ai miei compagni. Così ci radunammo - erano le 13 - fuori del cancello grande. La situazione apparve subito paradossale: nessuno dei due voleva davvero la rissa, ma il gruppo dei compagni disposti in cerchio formava

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una specie di ring da cui difficilmente si poteva uscire. E tifavano per me. Anzi, qualcuno scommetteva... "Dai, cosa aspetti, fagli vedere!" mi incitavano, ma io non sapevo da che parte si cominciava una rissa... Finché qualcuno mise in atto la più perfida delle provocazioni: «Gnanca omo!...» Qui bisogna fermarsi un attimo. Io non credo esista una frase in italiano che concentri su di sé, in maniera così sintetica ed efficace, l'offesa che peraltro, nonostante le apparenze, non ha alcuna implicazione sessuale. Per farlo, bisogna affidarsi a una perifrasi lunghissima che metta insieme il significato di incapace, cacasotto, imbranato e via discorrendo. Forse vi sarebbe una parola italiana adatta allo scopo: pusillanime. Ma ve la immaginate una baruffa tra preadolescenti veneti, con qualcuno che grida "pusillanime"? Ecco, appunto... E così, a questa bieca provocazione, il mio avversario reagì con un quasi-pugno. E a quel punto ero chiamato alla quasi-controffensiva. La lite durò poco perché, nonostante fossimo entrambi vistosamente sottosviluppati, io ero tutto nervi, lui figlio di papà. Io costruivo capanne, lui mangiava merendine, e la differenza ebbe il suo peso. Così gli saltai addosso e grazie forse al peso del

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cappotto lo stesi a terra salendovi sopra. Venni portato in trionfo, e da allora fui rispettato. Tra gli insegnanti c'era anche un bravo prof di disegno. Fu lui a cogliere la mia vocazione artistica e a indirizzarla verso obiettivi diversi dai lampadari a goccia e dalle sculture di formaggio. Mi mise per buona parte dell'anno a ritrarre con la matita i volti dei miei compagni di classe, le mani, le dita, in posizioni ogni volta diverse. Fu un anno davvero proficuo sotto il profilo artistico. I miei compagni - invece - non ne potevano più... Siccome sembra che almeno un imbecille - qualche volta due - nel corpo insegnante ci debba essere, anche al ginnasio l'ho beccato io. Era una orrenda insegnante di italiano prossima alla pensione. Correva voce che la figlia avesse posato per una rivista porno, e allora non ci si era ancora abituati. Lei si sfogava segando chi non le si mostrava sufficientemente devoto, specialmente tra i maschi. Faceva coppia con una collega di una grezza e subdola cattiveria che le derivava - probabilmente - dalla poca fortuna sotto il profilo fisico. In più insegnava matematica, che non era un vantaggio né per noi né per lei. Avendo oramai una certa età, poteva anche mettersi il cuore in pace; invece

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perseguitava noi neoginnasiali. Il risultato fu che venni rimandato a settembre e poi bocciato. Che coppia di bastarde! Devo ammettere che quella bocciatura si rivelò una fortuna: infatti l'anno successivo fui inserito in una classe che si rivelò un gruppo formidabile sotto la guida di un'insegnante di lettere giovane e bella da svenire. Portava delle minigonne che erano fantascienza. Non a caso fu in quell'anno che mi partì la botta ormonale... Essendo inoltre molto preparata, rappresentò per tutti noi una vera occasione di maturazione incarnando non solo fisicamente quel rinnovamento generazionale che in periferia tardava a venire, e farsi interrogare era una vera gioia. Quell'anno diventammo tutti repubblicani; più a sinistra la nostra coscienza non ce lo permetteva ancora. Fu il passaggio dal ginnasio al liceo ad essere traumatico. Il corpo-insegnanti era coordinato da una pia donna che fu vittima della nostra esuberanza. La costringemmo, lei che arrossiva al solo guardare negli occhi noi maschi, e "maschi" era una parola esagerata, a tradurre dal greco le Baccanti, la tragedia di Euripide in cui Dioniso, dio del piacere fisico, si dedica ad orge lussuriose.

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Traducevamo dal greco le parole usando il nostro magro e sconcio vocabolario in fatto di sesso. Lei trasaliva e ci correggeva con perifrasi di stampo ottocentesco che non comprendavamo e di cui - quindi - ci ostinavamo a chiedere spiegazioni. Ma lei non si arrendeva. In quella stessa sezione un suo collega neolaureato spiava invece tra le gambe delle nostre compagne tanto da indurle ad adottare i calzoni tutte le mattine in cui avevamo la sua materia. AnzichÊ insegnare, si metteva in mostra raccontandoci un sacco di incredibili balle. Credo odiasse gli alunni ed avesse in particolare seri problemi con il genere femminile. PiÚ tardi fu allontanato. L'insegnante di educazione fisica, invece, aveva la fissa dello yoga; noi speravamo di giocare a pallone o a pallacanestro ma lui ci teneva seduti a terra in posizioni complicate. Rischiammo la depressione ma oggi posso dire che era avanti coi tempi. Forse qualche volta è un torto anche questo... Il prof di storia e filosofia era sicuramente cattolico, sicuramente comunista e forse qualcos'altro. Spesso si toglieva gli occhiali e infilava le mani dentro alle orbite ravanandovi per tempi che sembravano infiniti. Noi rimanevamo in apnea. Però sapeva tutto. Anzi, sapeva troppo... Passava da momenti di vera tenerezza per

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Sant'Agostino, Emmanuel Kant, Abelardo ed Eloisa, ad insulti contro la nostra ignoranza e il vuoto che frequentemente ci riempiva. Eravamo incantati e intimoriti. Quando interrogava, ci massacrava. Io andavo in catalessi e non capivo più un cazzo anche se qualcosina, magari, l'avevo studiata. Un compagno di classe, una bella faccia tosta, tentò di fregarlo attribuendo costantemente le proprie impovvisazioni filosofiche ad un critico inesistente, un certo Neureuter. Dopo qualche tempo di inutili ricerche, il povero insegnante chiese all'alunno di fornirgli le fonti. Fu così che, dopo aver aggirato la questione in mille modi, il fedifrago dovette ammettere che il Neureuter era semplicemente uno sciatore austriaco neanche tanto bravo. Con quest'insegnante facemmo una gita scolastica molto originale andando a soggiornare in una chiesina abbandonata sulle Creste di San Giorgio. Ci intrufolammo persino dentro al Buxo de'a torta, una grotta naturale dall'ingresso avventuroso. Quando fummo dentro, davanti a un altare di stalattiti, cantammo tutti insieme una struggente canzone popolare. Le volte dell'ipogeo risuonarono meravigliosamente. A svettare fra tutti, però, era il preside, un intellettuale libertario vecchia maniera, un pò fuori

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dalla realtĂ . Ogni tanto - con grande discrezione - entrava in classe (a quei tempi ci si alzava in piedi) e, nell'imbarazzo generale esponeva con grande pacatezza dei ragionamenti incomprensibili, discettando - credo virtuosamente - di attualitĂ e politica, di filosofia e sociologia, senza tralasciare - ne sono sicuro - dottissimi riferimenti letterari. Intanto che parlava, fissava con lo sguardo il nulla. Dopo una lunga e silenziosa pausa, si riprendeva; quindi salutava con un inchino e usciva. Noi rimanevamo basiti, sciolti in una sorta di marinatura da cui stentavamo ad uscire. Guardavamo supplici l'insegnante di turno aspettando da lui spiegazioni che anch'egli faticava a trovare, mentre cercava di scrollarsi di dosso lo tsunami. Solo dopo qualche minuto, senza nulla aggiungere, riprendeva la lezione. Era come fosse mancata la corrente elettrica, un black-out improvviso, un'ipnosi di gruppo. P.S. Dalla volta della rappresentazione natalizia non ho piĂš visto la Madonna. So soltanto che molti anni piĂš tardi la dava via. Non so se le ha fatto bene quella recita...

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XIII

VARIA UMANITA' I matti vanno contenti tra il campo e la ferrovia... (F. De Gregori - 1987)

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uori della scuola il mondo era diverso. Anzi, più che diverso, divergente. Il giovedì mattina, giorno di mercato, scendeva a Bassano "el mato de Valstagna". Non so chi fosse: in questo modo veniva chiamato un signore di una certa età che, con qualsiasi tempo, calzoncini corti e camicetta hawaiana, si produceva in acuti barriti grazie ad un corno che portava con sé. Una specie di cervo in amore, un barrito di elefante. Lo faceva in mezzo alla folla, senza preavviso, per lo spavento delle donne che giravano tra i banchi. Che poi fosse matto davvero, non credo; a quei tempi il termine indicava tutti coloro che in qualche modo sfuggivano alle rigidissime regole sociali. Anche i manicomi ospitavano per lo più depressi, alcolisti, disabili, disadattati, persone - insomma - accomunate anche solo da una

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banale forma di diversità o da uno stile di vita anticonformista. Il matto di Valstagna, dunque, era sfuggito al manicomio, per fortuna sua, ben prima della legge Basaglia. Si girava da soli a piedi e in bicicletta, allora, nonostante la giovane età: non vi erano stranieri da cui fuggire - erano gli italiani ad emigrare né delinquenti da evitare. Al massimo, qualche ubriacone. Molino era uno di questi. Piccolo, cappello calcato sulla testa, barba bianchissima da rasare, occhi arrossati, trascinando a mano la sua bici che usava per tenersi in piedi, ripercorreva a memoria la strada di casa intrattenendosi con ogni passante. Sbornia allegra, la sua, e quotidiana. Fermava vecchi e giovani, e per ognuno aveva un ragionamento da proporre, una battuta salace. Poi, nel colmo della balla, intonava con voce impastata ma possente le arie più note. Talvolta, quando sentiva l'odore di casa, si lasciava crollare al suolo ché tanto qualcuno avrebbe provveduto a consegnarlo a destinazione. Si raccontava che fosse stato un grande artigiano del legno, abile tornitore, e che dalle sue mani fossero uscite le colonnine del Ponte Vecchio. Quando noi ragazzini lo prendevamo in giro, non si scomponeva più di quel che era già scom-

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posto, e in maniera scoordinata ma amabile si allungava per fare una carezza, specie alle ragazzine. Chissà se il suo vero nome era Molino... Altra persona curiosa e perciò attraente per noi ragazzi, era Notte. Lungo, magro allampanato, cortese e abbronzato fino al midollo estate e inverno, svolgeva mansioni di fatica in un consorzio edile vicino al patronato. Girava seminudo, calzoncini corti e scarponi imbiancati dalla polvere di cemento. Possedeva una straordinaria mimica facciale che sfruttava le sue innate caratteristiche, e quando entrava al bar per bere una pasquetta - un bianco leggero - noi lo osservavamo incuriositi dall'originale déshaibillé. Soprattutto dalle costole che rigavano il suo magrissimo torace... Lui ci faceva le facce, e noi scappavamo via. Eccentrico era anche un distinto giovanotto dai capelli lunghissimi, biondi e dall'aspetto aristocraticamente hippy. Aveva il nome di un'isola esotica. Di lui si dicevano le cose più strane ma la città era piccola e la gente mormorava. Poi c'erano invece quelli che - sfruttando i gradini dei portici - si affacciavano sulla piazza arringando la folla. Spesso presentavano particolari caratteristiche somatiche o modi di vestire che attiravano l'attenzione. Ognuno di loro aveva

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un soprannome. Infine, uno solo mi faceva un po' paura perchÊ parlava in modo incomprensibile ma soprattutto - da giovane - aveva infilato una lucertola dentro alla schiena di mia madre. Lei ne rimase terrorizzata e trasmise la sua paura anche a noi. Oggi, però, amo le lucertole... P.S. A dire il vero c'era anche una vecchia che si dichiarava amante del vescovo, Wanda Osiris. Wanda Osiris era il nome di lui, però, non di lei...

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XIV

I SUPEREROI Non per entrare nel merito del motore... (F. De Gregori - 1987)

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uando ero piccolo, le cose brutte che pensavi potessero capitarti erano abbastanza poche: sbucciarsi un ginocchio, venire derubati di un pallone o - peggio! - di un pacco di figurine. Prendere un canotto di cerbottana nell'occhio era considerata una vera catastrofe. Ma per evitare qualsiasi genere di tragedie bastava seguire qualche semplice - anche se fondamentale - regola come farsi il segno della croce prima di uscire, non accettare caramelle da chi non conoscevi e soprattutto dire le preghiere prima di dormire. La prima regola era difficile da tenere a mente, la seconda - invece - molto facile, dato che in cittĂ ci si conosceva praticamente tutti. Alla terza non scappavi neanche morto, se eri sveglio. Se invece ti eri giĂ addormentato sul divano, allora la mamma - santa donna! - evitava di svegliarti e le preghiere le diceva lei per conto terzi, tanto,

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valevano lo stesso! Io credo che esistessero anche allora i pedofili, gli stupratori e gli extracomunitari (cioè quelli che venivano da un'altra parrocchia) ma gli adulti non ne parlavano. Dagli juventini, invece, ci difendevamo da soli... A ogni modo, a proteggerci dalle malegrazie del mondo e dalle sue degenerazioni avevamo un supereroe. Non un cartone animato, non un fumetto; uno vero, in carne ed ossa. Vivo, insomma. Non so se ogni città ne avesse uno... Il nostro si chiamava Giacobbo e faceva il vigile urbano. Taglia e moto avevano grossomodo le stesse dimensioni, anche se la prima si sviluppava in verticale e la seconda in orizzontale. Lui, corpulento, indossava un giubbotto nero di pelle. Le sue braccia larghe sul manubrio formavano una possente prua. La stazza complessiva oscurava il sole. Lei, la moto, era un Falcone Guzzi. Lunga oltre due metri, alta uno e di un colore rosso fuoco, fendeva la strada come un fuoribordo. Essendo - credo - una cinquecento monocilindrica e a quattro tempi, tra una fase di scoppio e l'altra passavano interminabili secondi. La marmitta emetteva musica, non rumore.

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La moto, a vederla da ferma, era alta come me. A girarci intorno ci si impiegava un bel po'. L'accensione con la pedivella sembrava l'avviamento di una turbina: il grande volano vorticava e la terra tremava. Giacobbo e il Falcone formavano una combinazione invincibile. I superpoteri erano: a) la superforza; b) la supervelocità; c) la telepatia. Infatti Giacobbo era sempre presente quando c'era bisogno. Quando lo sentivi arrivare da lontano, o magari solo transitare qualche isolato più in là, qualsiasi tensione si scioglieva: se ti trovavi a un passo dal pericolo, ti sentivi al sicuro; se stavi per commettere un delitto (come ad esempio dire "stupido" a qualcuno), ti trattenevi dal farlo. Funzionava come quando i nostri genitori sentivano arrivare il brontolìo di Pippo, l'aereo da bombardamento che nella fase finale della seconda guerra mondiale faceva incursioni notturne sulle città. Viaggiava da solo, a bassa quota, e a un certo momento della guerra non bombardava più; bastava il suo passaggio per far scappare tutti nei rifugi. Era diventata un'arma psicologica. Anche Giacobbo lo era.

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La parola supereroe, in verità, non esisteva a quel tempo, essendo Nembo Kid - cioè Superman - l'unico ad essere dotato di poteri davvero straordinari. Gli altri - che poi erano Batman e Flash Gordon - erano dotati sì e no come Giacobbo. Gli eroi dei fumetti, infatti, erano più che altro uomini selvaggi. Come Akim. Akim - la scimmia bianca - era un bambino superstite di una tragedia aerea avvenuta nella giungla. Diventato grande grazie ai gorilla, andava vestito di un perizoma leopardato passando di albero in albero per mezzo delle liane. Aveva anche una donna - Rita - a cui aveva salvato la vita e che poi si era decisa di stare con lui. Anche lei in costume leopardato. Akim, con l'aiuto della donna e soprattutto degli animali con cui dialogava perfettamente, toglieva dalle rogne una volta scienziati imbranati, un'altra volta capitribù sprovveduti. Combatteva contro cercatori di diamanti, abbattitori di foreste, trafficanti d'armi e altre figure porche. Un vero giustiziere, ma senza armi: pacifista e ecologista. Il fumetto era un buffo fascicolo orizzontale, una striscia alta sei-sette centimetri e larga venti. In bianco e nero, naturalmente. Stesso taglio avevano anche altri eroi, via via meno super: Capitan Miki, con Doppio Whisky e

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Dottor Salasso; il grande Blek Macigno, accompagnato dal professor Occultis e dal piccolo trapper Roddy; Il Comandante Mark, con Mister Bluff e Gufo Triste. Si trattava fondamentalmente di sottomarche di eroi più titolati come Tarzan, David Crockett, Tex o Mandrake. Poi vi erano altre riviste come Topolino o - per i più grandicelli - Il Monello e L'Intrepido, vere e proprie riviste per ragazzi. Anche il mondo dei fumetti svolgeva funzioni educative o - meglio - di condizionamento culturale. Nel 1934 era nata la rivista L'Avventuroso, di produzione americana - Gordon, l’Uomo Mascherato... - con trame avvincenti e qualche donnina piuttosto disinvolta. Era stato subito un grandissimo successo, specialmente tra gli adolescenti, così nel 1937 la Chiesa si inventò Il Vittorioso, con racconti patriottici in linea con le posizioni autoritarie dell'epoca. Il primo visse cinque anni, il secondo arrivò al 1970. Potere della chiesa... P.S. Comunque, a Giacobbo, la cryptonite gli faceva un baffo...

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XV

VERRA' LA MORTE E AVRA' I TUOI OCCHI Quando la morte ci chiamerà...(F. de Andrè - 1968)

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ino a una certa età la morte non esiste. Sia intesa come una persona che muore sia come concetto astratto. C'è un momento della vita in cui, invece, accade che un lutto - per la prima volta - si faccia strada nello stomaco e lavori dentro. Può essere per una persona conosciuta oppure no, ma è soprattutto per come accade che quella morte non ti lascia più. Prima non era mai successo... La mia "prima volta" fu durante l'alluvione del 1966. Avevo dunque undici anni e pioveva da giorni. La sera del 3 novembre - un giovedì - ero andato con la bici sulla riva del fiume a vedere l'acqua crescere: tutti eran lì a guardare la potenza della corrente nera che piegava il legno del Ponte Vecchio e i colpi inferti dagli alberi che l'acqua trasportava, a sentire le vibrazioni e i rumori che producevano, gli sconquassi... La piena aveva

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raggiunto il colmo delle sponde e durante la notte sarebbe tracimata di sicuro, dicevano gli adulti. L'attrazione e la paura erano grandi insieme. Leggevo la preoccupazione sui volti, sentivo la cronaca di quel che succedeva poco più a monte, dove stavano crollando ponti, case, fabbriche, dove piazze e strade erano sepolte, e più a valle, dove le esondazioni stavano isolando ogni angolo di pianura. Mi ero fatto l'idea di una fine del mondo senza possibilità di scampo anche perché l'elettricità andava e veniva, le forze dell'ordine bloccavano gli incroci, la gente bestemmiava, le ferrovie erano interrotte, le sirene urlavano giorno e notte. Anche le scuole erano chiuse, e continuava a piovere. Quella notte di pioggia - e in più anche di nebbia - si sparse la notizia che la diga di Arsié stesse per crollare: fu un attimo ripescare nell'oscuro della memoria le immagini del Vajont di tre anni prima. Così dalla Valbrenta ebbe inizio un grande esodo proprio mentre il bacino artificiale, invece, veniva svuotato per evitare rischi. Ma fu proprio l'apertura della diga ad alimentare la piena e conseguentemente il panico. I giorni seguenti passarono nell'impotenza generale e le uniche notizie - sconfortanti - erano quelle di Venezia e Firenze provenienti dai telegiornali. Finalmente domenica arrivò il sole, e si

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vide che il fiume era per lo più rientrato nel suo alveo, mentre le case del lungobrenta mostravano fino a che punto erano state sepolte. Sembrava tutto finito. E invece Pino Scotton, lavorando sulla riva vicino al ponte, finì in acqua con la ruspa per lo smottamento della sponda. Io c'ero stato in quel punto e ancora mi sognavo di notte l'acqua nera, le onde feroci, i tronchi sbattere a casaccio, dove prendo prendo. Erano finite sott'acqua anche le colonnine di Molino, e il manufatto si era arcuato in modo impressionante uscendone mortificato come dopo la guerra. Avevo sentito i racconti dei grandi e se i grandi avevano paura, cosa potevo sentire io che ero piccolo? Pino Scotton era sparito lì dentro, con la ruspa. Quel buio, quell'acqua... Quell'uomo... Era un giorno di festa, ma non so perché. C'era un sacco di gente in Viale dei Martiri e altrettanta in Prato Santa Caterina, intorno a una grande croce di stoffa adagiata sull'erba. Eravamo tutti con la testa all'insù e seguivamo un paio di aerei che sorvolavano Bassano - scuri e lenti - e ad ogni passaggio si alzavano più in alto, sempre più piccoli. C'era anche uno speaker che parlava e descriveva quel che succedeva. A un certo punto dal primo degli aerei saltò

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giù un uomo e poi un altro e poi un altro ancora. Si distinguevano appena e precipitavano paurosamente nel vuoto finché a un certo punto, quasi istantaneamente, aprivano il paracadute e si trasformavano in grandi corolle candide che scendevano lentamente quasi cullandosi. I primi che raggiunsero terra centrarono - chi più chi meno - la croce, ed il presentatore ne sottolineava l'abilità; i paracaduti parevano ancora quelli dei film di guerra, delle semisfere non molto dissimili dagli ombrelli con cui ci lanciavamo dal terrazzo, per gioco. Mentre tutti applaudivano anche l'altro aereo era pronto a sputare il suo grappolo di uomini coraggiosi. Qui accadde qualcosa di inspiegabile: quando tutti gli uomini si trasformarono in vele, uno proseguì la caduta libera. Quando anche lo speaker se ne avvide, cominciò a tranquillizzare il pubblico: «Tranquilli, non succede nulla. Ora aprirà il paracadute di emergenza e dopo lo spavento scenderà come gli altri». Invece il paracadute d'emergenza si impigliò non so dove e dunque non si aprì. L'uomo cadde a bomba, perpendicolare, sul tetto del garage vicino alla stazione. Sfondò coppi, soletta, travi, pavimento e si schiantò, mentre lo speaker continuava ad animare lo spettacolo. Fu così che la morte cominciò a far parte della

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mia vita. Anno 1967: non era un idolo, non cantava canzoni orecchiabili. Non lo si sentiva alla radio. Non lo si vedeva in tivù. Eppure le musiche delle sue canzoni arrivavano, belle e intense, specie se confrontate con le altre del tempo. Non parliamo poi delle parole: "E se ci diranno che per rifare il mondo c’è un mucchio di gente da mandare a fondo... noi risponderemo no... E se ci diranno che nel mondo la gente o la pensa in un modo o non vale niente... noi risponderemo no... E se ci diranno che è un destino della terra selezionare i migliori attraverso la guerra... noi risponderemo no no no no no". Non c'era niente altro da aggiungere, proprio niente. Luigi Tenco era proprio forte. Stesso anno, circuito di Montecarlo e il suo fascino perverso: il mare, le colline, la città, e le macchine che entravano nella galleria, frenavano ai tornanti, si sfioravano continuamente in quella pista così stretta. Lorenzo Bandini correva con la Ferrari e si sa che i ragazzini tifano sempre per i più forti. Le auto erano ridicole, assomigliavano a dei sigari tenuti troppo tempo nel taschino, ma con le ruote. Bandini era in testa e quando Brabham ruppe il

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motore, la pista si riempì d'olio. Il pilota italiano vi finì sopra, ma sbandò soltanto. Però venne sorpassato, e per recuperare posizioni il ferrarista si mise ad andare a più non posso. A un certo punto tutti lo videro affrontare la chicane del porto a una velocità assurda. Infatti sbandò, sbatté e volò in aria ricadendo a terra avvolto dalle fiamme. Dopo tre minuti il sigaro smise di fumare. Fino ad allora molti di noi pensavano che i piloti fossero immortali. E ancora: Gigi Meroni era un capellone, e fuori dei concerti non se ne vedevano tanti. Nel mondo del calcio, poi! Era anarchico, creativo, provocatore: aveva passeggiato per Torino con una gallina al guinzaglio per prendere in giro la stampa che continuava ad inventare stupidaggini pur di parlare di lui. Sarebbe stato un ottimo modello per me, qualche anno dopo, e invece, una domenica sera, dopo una partita, attraversando la strada, venne investito da un'auto e rimase lì per sempre. P.S. Però, che anno di merda, il '67 ...

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MANUALE DI SOPRAVVIVENZA Donne in cerca di guai... (Zucchero - 1985)

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on so come mai, forse per il nostro bene, ma quando eravamo ragazzini un sacco di gente ci riempiva la testa di insegnamenti assurdi. Faccio degli esempi. Il primo - il più diffuso - era che se ti tocchi diventi cieco. A parte che certi punti del corpo li trovi anche ad occhi chiusi, io non so come si toccassero gli altri. Comunque ci vedo bene... Il secondo: se baci una donna sulla bocca la metti incinta. Questa era una minaccia molto seria. Un sacco di ragazzi un po' più grandi di me già scopavano allegramente, a quel tempo, ma per precauzione - non baciavano mai sulla bocca. Prevenire è meglio che curare... Terzo: se prendi una spina devi togliertela subito perché sennò cammina controcorrente e arriva al cuore e muori. Noi vivevamo in mezzo ai rovi e lo scenario che ci veniva prospettato era decisamente funesto.

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Comunque le spine ce le toglievamo perché facevano male e forse per questo ci siamo salvati. Quarto: i pipistrelli si attaccano ai capelli. Noi però eravamo tutti coi capelli corti perché, prima dei pipistrelli, erano stati i pidocchi ad attaccarsi! Un quinto insegnamento decretava che quando ti scotti ci devi mettere sopra l’olio, immediatamente. Così più di qualcuno - ubbidiente - arrivava a scuola grigliato come una costicina di maiale. Qualcuno integrava anche con timo e rosmarino... Sesto: devi stare attento quando vai in piscina perché c’è una sostanza che fa diventare l’acqua rossa se ci fai pipì dentro. A noi è andata bene perché la prima piscina, dalle nostre parti, è stata costruita negli anni Settanta e noi avevamo già vent'anni... Comunque la mia generazione ha preferito imparare a nuotare alla fine degli anni 90, non si sa mai... A questo terrifico manuale di sopravvivenza, che ci veniva fornito in dote, andavano poi ad aggiungersi i traumi che ogni ragazzino, abilissimo, si procurava da solo. Per esempio, un sabato pomeriggio apparve un fachiro, in piazza Garibaldi. Uno si immagina un fachiro con la pelle olivastra, il turbante, un tappeto di chiodi. No: immaginate un vecchio alto,

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magro, normale insomma, che si ferma vicino all'edicola, si toglie scarpe, braghe e maglietta, rimane in mutande e si porta disinvoltamente in mezzo alla piazza con in mano un sacchetto di plastica pieno di qualcosa che si muove ma non si capisce cos'è. A un certo punto, quando si è formato l'inevitabile capannello di gente attirata anche dal cartello con scritto "FACHIRO", lui tira fuori dal sacchetto un piccolo rospo e, sollevandolo sopra la testa in modo che tutti lo vedano, se lo infila lentamente nella bocca spalancata verso l'alto, inghiottendolo. Così alcune spettatrici svengono; altra gente, invece, viene attirata dal trambusto. Dopo il primo, il fachiro estrae ad uno ad uno tutti i rospi che ha e ritualmente li inghiotte, sottolineando ogni volta l'azione con enfasi e gesti plateali. A quel punto sfila un berretto e passa a chiedere l'obolo. Nessuno ha il coraggio di tirarsi indietro e tutti mettono mano alle tasche, con la faccia imbambolata. Anche perché non si capisce se e come la rappresentazione andrà avanti. Perché, infatti, va avanti. Dopo la questua, il fachiro torna al centro dell'anfiteatro umano e comincia a massaggiarsi lo stomaco con le mani. Non solo: mentre lo fa, agisce di glottide somigliando a un fenicottero in

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corteggiamento. Poi, al massimo dell'eccitazione orofagea, si sporge in avanti e vomita a piccoli grappoli la ventina di rospetti ingurgitati. Sono tutti molto arzilli, gli anfibi, e si mettono subito a saltellare felici sul lastricato tra le scarpe del pubblico, sguazzando nella tiepida pastina in brodo che li aveva accompagnati nell'espulsione. Gli spettatori fanno un salto indietro per evitare più gli schizzi che gli anfibi, e poi si mettono a imitare il fachiro vomitando chi spaghetti al sugo, chi baccalà alla vicentina, chi altri prodotti tipici locali. Il fachiro, soddisfatto di tanta solidarietà, rincorre i rospetti tra il vomito degli astanti acchiappandoli uno a uno e rimettendoli nella sporta di plastica. Saluta con un inchino e se ne va. Credo che nessuno di quelli che eran lì quel giorno oggi ami i rospi e neanche la pastina in brodo. Ci sono invece - poi - traumi più seri, quelli che si fanno strada nell'inconscio senza rumore, lavorando come tarli nel tempo. Te li porti dietro senza potere nulla e, in fondo, pipistrelli e fachiro sono niente in confronto... Sono quelli che appartengono alla sfera più intima, riguardano il sesso e la sua scoperta, che spesso passa per vie imprevedibili.

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Per fortuna c'era un libro che aiutava - Noi e il nostro corpo - e che parlava di tutto ciò che concerneva la sessualità femminile, quella maschile e le loro combinazioni. Belli e realistici anche i disegni. Le nostre madri passarono buona parte del loro tempo a nasconderlo. I figli anche (dopo aver acquistato la seconda copia...). Fatto sta che una sera eravamo tanta gente in mezzo alla campagna, persone di tutte le età, ad assistere al batimarzo, il capodanno contadino con cui si inaugura la buona stagione e si fa festa intorno a un grande falò, alla bubarata... Per i grandi, vin caldo, per i piccoli - io tra questi - anche. «Bivi, iocàn, chetefabén, iocàn...» Avrò avuto dodici anni ma già ho accennato al mio ritardo di crescita, i peli, gli ormoni e il resto. Mi si affianca una coetanea notevolmente sviluppata par via de queo (= a proposito di ciò che si preferisce sottintendere...). Aveva un enorme paio di cose, davanti, che poi ho saputo essere tette. Sarò sincero: in seguito le avrei apprezzate. Non quella volta là, però... Era almeno venti centimetri più alta di me. Era buio e non sapevo chi fosse. Non so perché in mezzo a quel disastro di possibilità scelse proprie me per le sue fantasie. Forse l'istinto materno... Dapprima mi si posò dietro, sovrastandomi. Poi, accorgendosi che le sue parti migliori fun-

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gevano per me solo da inerte poggiatesta, mi si affiancò e mi prese sotto braccio. Fino a quel punto l'azione non aveva destato sospetti, anche perché eravamo tutti in una specie di grande girotondo. Poi, però, mi si avvicinò all'orecchio e sussurrò: «Me vutu?». «.....» «Me vutu?» «Come?...» «Mi vuoi?» Non era una questione di dialetto; non riuscivo semplicemente a comprendere il senso della domanda. Cosa voleva dire "mi vuoi"? Così non risposi. Qualcuno afferma che "chi tace acconsente", io penso piuttosto che "chi tace sta zitto" ma lei non apparteneva a questa corrente di pensiero. Così mi si piazzò davanti, questa volta, e addosso a me, per giunta, premendo il suo lato B sul mio lato A completamente inerte. Come se ciò non bastasse, senza voltarsi, prese con le sue mani le mie e le infilò attraverso i fianchi sotto il maglione e poi su, fin quelle cose lì. Che erano - diciamo così - libere. Rimanemmo in quella posizione per parecchio tempo, io con le mani morte. Lei non doveva esserne entusiasta. Infatti dopo un po' me le sfilò e si voltò arrabbiata: «Mi sposi sì o no?», chiese.

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Io ricordavo che a baciare si rischiava ma a sposarsi no, per cui credo di avere acconsentito. Avevo tanto caldo, però. Forse per via del fuoco... Anche lei aveva caldo, ma per via di altro, credo... Non l'ho più vista. Per fortuna. Davanti a casa mia, di là della strada, abitava il mio migliore amico. Stessa mia età. Aveva una sorella un po' più giovane ma assai sveglia, trecce lunghe, sguardo furbo. Un giorno mia madre finì in ospedale (nessun nuovo fratello, per carità!) e io fui loro ospite. Così lei prese a frequentare la nostra camera dove dormivamo, studiavamo e giocavamo. La mia presenza rappresentò per lei - credo - occasione di mettere alla prova le sue armi di seduzione, in corso di perfezionamento. Perciò prese a proporci sfilate di moda che si trasformavano lentamente e sistematicamente in striptease. Ricordo il mio candore iniziale nell'osservare la disinvoltura di quel tipetto indiavolato e lo spavento di sentire che dentro di me il cuore - finalmente! - accelerava. Dopo qualche giorno sono tornato a casa mia, e la cosa è finita. Anzi, è cominciata... Intorno ai diciott'anni succedeva spesso che tra

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coetanei si condividessero gli appartamenti. Così era per un'amica, che ospitava da poco una sua compaesana. Una sera fui invitato a cena ma lei - l'amica - ci piantò in asso dopo il dolce, colpa di un impegno pregresso. Rimasi così con la compaesana a chiacchierare sul divano, a raccontare di noi, sorseggiando qualche liquore. Aveva un corpo ben tornito, un casco di capelli scuri. Piano piano prendemmo confidenza e così venne da sé che finimmo nella camera di lei. Era estate e superati i primi istanti, quelli che servono a capire da dove e come cominciare, ci sfilammo piano piano quel che c'era da sfilare e ci infilammo sotto le lenzuola con la sola luce di un lampione che arrivava dalla finestra aperta. Ora non mi sembra necessario soffermarsi sui particolari della progressione, appartenendo noi tutti alla medesima specie; fatto sta che a un certo punto mi ritrovai sopra di lei, a tu per tu con le sue mutandine. Fu allora che intravidi un ricamo sulla tela davanti, che le copriva quella che Ivano Fossati chiama "la bella speranza". Ero incuriosito, perché quel ricamo formava delle parole che nella penombra non riuscivo a leggere. Allora allungai la mano e senza dire nulla accesi la lucetta del comodino. Quando ripresi posizione lessi quel che c'era scritto.

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C'era scritto: "COSA ASPETTI?". P.S. ChissĂ che fachiri aveva visto lei...

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XVII

DOPO LUNGA E DOLOROSA MALATTIA Sulla Topolino amaranto si va che è un incanto... (P. Conte - 1975)

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ella Topolino amaranto la mia famiglia viaggiava in cinque ed essendo io il più piccolo, dovevo stringermi sul sedile di dietro, in mezzo ai fratelli più grandi. Anche perché l'utilitaria della Fiat disponeva, come recitava la formula tanto elegante quanto astuta, di due + due posti a sedere anticipando quello che la fisica evidenziava non appena aprivi lo sportello, rigorosamente controvento: qui dentro ci stanno due persone ma, se proprio proprio ce la fate, provate a farcene stare anche altre due. La Polizia non può dire niente; anzi, può essere che vi faccia pure i complimenti! Per fortuna la versione della nostra macchina possedeva il tettuccio di tela apribile. Era una cabrio, dunque, e a parte la questione d'immagine (avere una cabrio pareva un lusso sfrenato), la cosa comportava due grossissimi vantaggi, uno

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per l'azienda e uno per il proprietario. La prima risparmiava quasi due metri quadri di lamiera verniciata, sostituendola con una teletta marroncina - lisa anche da nuova - e un pezzo di plastica giallastra che fungeva da finestrino posteriore; il secondo, il proprietario, poteva stipare il quinto passeggero, quello in esubero, infilandolo dall'alto e lasciandolo andare per caduta al suo posto, stile crauto in botte. Ciò nonostante la nostra Topolino sfrecciò come non mai in strade raramente asfaltate e per lo più deserte, essendo da poco iniziata la motorizzazione del Paese. Quando nacque la mia prima sorella, cioè il sesto passeggero, si passò alla 600: una quattro posti veri e propri, senza trucchi, e dunque noi sei stavamo come nababbi, dentro. A dire il vero qualcuno in famiglia aveva sperato in una 600 Multipla. Si trattava di un modello completamente assurdo e palesemente in contrasto con qualsiasi criterio di efficienza aereodinamica. Il suo profilo ricordava quella di una goccia, ma il davanti era quello tondo, il dietro la punta. Somigliava ad un crostaceo di terra, uno di quelli che si raggomitolano su se stessi facendo la pallina quando sono disturbati. Una specie di mouse alla rovescia, il davanti al posto del di dietro.

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L'idea fu bocciata immantinente e non solo per ragioni economiche. Poi arrivarono altre due sorelle insieme - guarda tu gli scherzi della natura - e mio padre fece il grande salto. Eravamo diventati otto e lui si presentò a casa con un pulmino 850 blu pavone (non chiedetevi cosa voglia dire "blu pavone"). Non volevamo credere ai nostri occhi: sembrava una corriera, aveva quattro porte - quattro porte! - e ben sei posti regolamentari; con il nostro curriculum, in otto ci potevamo giocare anche a calcio! Si trattava di un perfetto parallelepipedo alto quanto largo. In curva rischiava regolarmente il capottamento se non fosse stato per noi che, come in barca a vela, ci spostavamo a destra e a sinistra a seconda dei casi. Consumava più olio che benzina ma allora né l'uno né l'altra costavano più di tanto. Era indistruttibile. Quando si ammalò, morì. Completamente, senza farla tanto lunga... La cosa non mi riguardò perché, nel frattempo, i fratelli più grandi avevano acquistato una 500 usata, celeste come i ghiaccioli all'anice. Potevo occasionalmente disporne avendo oramai raggiunto anch'io la maggiore età. Aveva anch'essa

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il tettuccio apribile - tradizione di famiglia - ma soprattutto possedeva i sedili ribaltabili, cosa che la rendeva estremamente appetitosa. L'unico problema nello svolgimento delle attività implicite nella reclinabilità dei sedili - quelli anteriori, ovviamente - stava nella leva del cambio la quale sovente manifestava l'intenzione di partecipare alle attività manuali e pratiche con il rischio di serie conseguenze lacero-contuse in parti del corpo piuttosto delicate. Ci fu una lunga ricerca, dunque, nel rendere compatibile quel pomolo, il quale in origine presentava una sconveniente forma a cono rovesciato. Si optò per un eburneo pallino di biliardo, debitamente forato con una punta da 14 e poi siliconato alla leva. Quando acquistai un'auto tutta mia, le poche disponibiità economiche e i combinati disposti sparigliarono le priorità e mi dettero in sorte una NSU Prinz. Usata. Grigio topo. La NSU Prinz era la macchina delle suore, ma solo di quelle di una certa età. Quelle giovani - o un po' più moderne - sfrecciavano indiavolate sulle Simca 1000, uguali in tutto e per tutto a una scatola di sarde. Sotto sale. La NSU Prinz, invece, somigliava in tutto e per tutto a una vasca da bagno. Matrimoniale però.

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Era simmetrica: il davanti e il dietro erano perfettamente uguali come nei disegni dei bambini. Siccome era tedesca, mi ero fatto l'idea che fosse stata disegnata in qualche campo di concentramento. Forse per questo qualcuno, al suo passaggio, si toccava e faceva gli scongiuri. Quando giravi la chiavetta dell'accensione, il motorino d'avviamento emetteva un suono nasale che solo dopo molti secondi si trasformava nel rumore di un phon, che era il suo carattere distintivo, da accesa. Il problema era che correva anche come un phon. D'altra parte, i tedeschi sono coerenti... Il mio personale salto di qualità in campo automobilistico mi venne fornito dall'acquisto di una Mini Minor. Usata. Color amaranto. Per quei tempi era un piccolo bolide: nello scatto ai semafori bruciava tutti lasciando ben altri modelli con un palmo di naso. Rimaneva inchiodata all'asfalto anche nelle curve contropendenti, quando erano asciutte. Aveva anche la particolarità di disporre di un'unica chiave con la quale si aprivano le due portiere, il cofano, il tappo per la benzina ed anche si accendeva il motore. Questa comoda caratteristica - tutte le altre vetture erano dotate di grandi mazzi di chiavi - facilitava però le cose a qualsiasi ladruncolo:

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chi riusciva ad aprire la portiera - lo si faceva con una banalissima clip - era matematicamente certo di portarsela via. Una volta tornai da Torino in treno. Mi venne riconsegnata dalle forze dell'ordine qualche giorno dopo. Una seconda volta tornai in autobus da Merano. Venne ritrovata anche quella volta lì in perfette condizioni. Poi da Firenze. Quella volta vi trovarono dentro una bottiglia di vino. Simpatici i ladri toscani... La frequenza e la facilità di impadronirsene era tale che più che di furto si trattava di multiproprietà. Allora la vendetti e mi portai a casa un'Alfa Sud. Blu. Usata. La scelsi perché prodotta a Pomigliano d'Arco, nel Mezzogiorno. Pensavo così di contribuire a risolvere la questione meridionale. Alla fine ne uscì una vettura moderna: la carrozzeria era firmata da Giorgetto Giugiaro, la trazione era anteriore, cosa assolutamente inusuale per l'epoca; il volante era regolabile in altezza, i comandi per le luci, gli indicatori di direzione e i tergicristalli erano tutti raggruppati su due leve poste ai lati del volante invece che qua e là sul cruscotto come pulsanti di abat-jour. Infine, aveva i sedili reclinabili come la 500, l'aderenza alla strada come la Mini minor e fortunatamente nulla della NSU. Fantastico!

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Mi deluse, però, quando si ammalò precocemente di varicella: sotto la luce obliqua di un romantico tramonto, scoprii che la verniciatura cominciava a satinarsi ad ampie chiazze. Il processo si estese a tutta la carrozzeria senza che un dermatologo mi sapesse indicare una cura efficace. Infine la vernice prese a sollevarsi in vescicole nerastre che al massimo del gonfiore si aprivano, lasciando penetrare l'acqua e intaccare il metallo dalla ruggine. Forse era nata per i tiepidi climi del sud. Se l'avessi saputo l'avrei vaccinata ma non era scritto nel libretto di istruzioni. Dopo lunga e dolorosa malattia... Così arrivò la Lancia Fulvia, modello berlina. Usata. La Fulvia - a me coetanea - era bianca e aveva la cloche sul volante, occupato anche da un secondo cerchio metallico che era il clacson. Diciamo che la cosa era nell'insieme assurda e quando avevi da svoltare dovevi manovrare come te l'avevano insegnato alla scuola guida, senza fare il passamano. Ciò obbligava ad una postura aristocratica e anche se dentro di te bestemmiavi - specie sui tornanti - da fuori non si vedeva. Il retro della macchina finiva con due alette all'insù come il dio Mercurio; invece era un boeing: prima di raggiungere la velocità desiderata,

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dovevi rullare a lungo sulla pista e per fermarti sarebbe stato utile un paracadute! Infatti pesava come fosse di piombo e per questo anche ll cambio delle marce era faticoso e lento: la leva doveva essere inserita con precisione millimetrica. In particolare, dalla seconda alla terza pareva un rito religioso, quasi un'elevazione. Dalla Fulvia passai alla 131. Fiat. Usata. Era sempre andata a gas. La inaugurai in una vacanza in Basilicata. Laggi첫, non esistendo alcun distributore di gpl, feci il pieno di benzina. Poco dopo la lasciai parcheggiata in pieno sole sul ciglio di una gravina per andare a visitare alcune chiesine rupestri. Bellissime! Era la fine di luglio, appena dopo pranzo. Facevano almeno 40 gradi. Dopo un paio d'ore tornai all'auto per rientrare. Fu proprio in centro a Matera che la macchina decise di andare a fuoco: la benzina era fuoriuscita dai tubicini del carburatore rinsecchiti dal disuso. Ricordo perfettamente la scena: a un certo punto, dai bocchettoni d'aria posti ai lati del cruscotto, uscirono delle lingue di fuoco. Feci in tempo ad frenare e a buttarmi fuori di corsa precipitandomi a chiamare i pompieri da un telefono pubblico. In cinque minuti furono sul posto. Poi la scena

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prosegue dentro di me come al rallentatore: salta giù un pompiere gigantesco, si piazza davanti alla macchina, solleva sopra la sua testa una scure enorme - tipo alabarda - e la pianta in mezzo al cofano. Apre la lamiera come una scatoletta d'acciughe e parte una vampata di fuoco che sembra un grisù. Richiude il cofano, passa dietro alla macchina e ripete il gesto atletico, infilandosi poi ad armeggiare nel portabagagli per interrompere l'afflusso del gas dal serbatoio. Vuoto, naturalmente, ma lui non lo sapeva... Intorno, alla distanza di sicurezza, si crea un girotondo di curiosi: «La macchina può esplodere!» «Ci sono bambini, dentro!» «I bambini, i bambini!» «Non ci sono bambini!» «Meno male!» «La plastica si fonde...» «Le lamiere scricchiolano...» «I vetri resistono!» Spettatori, pompieri ed io assistiamo alla lenta consunzione dell'automezzo. «Che macchina era?» - mi chiede qualcuno. «Una centotrentuno», rispondo sconsolato. «Ah, un accendotrentuno...», mi fa eco una signora. Vedi il nome, alle volte...

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E si che da ragazzini si andava a fare rally... Sognavamo un futuro da piloti e invece avevevamo un presente da cretini... P.S. Non so come mai ma ho avuto l'impressione - dopo aver sostituito lo spigoloso pomolo della 500 con il candido pallino da biliardo - che le mie compagne di avventura gradissero.

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XVIII

LA MIA CITTÀ/2 Piccola città io poi rividi le tue pietre sconosciute... (F. Guccini - 1984)

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urante uno dei miei giri in bicicletta, un giorno mi sono fermato sul Ponte Vecchio. Credo fosse la prima volta. Tirava un brezza che pelava le orecchie nonostante la buona stagione. Ci passavano anche le automobili, allora: cosa avranno mai i turisti a venir qui, a parte il bacin d'amor?, mi sono chiesto. Così ho cominciato a guardarmi intorno. Verso nord, in effetti, la veduta era piacevole: lontano, sullo sfondo bluastro delle montagne, si stagliavano le verdi quinte collinari di Sant’Eusebio, il rosso della pieve ed il candore di Villa Bianchi Michiel. Più vicine, invece, le case affondavano le fondamenta sull'acqua, come a Venezia. In alto, sulla destra, le mura di sasso e le merlature del castello chiudevano la visuale. Sotto di me si vedevano - tra le colonnine - le travature lignee infilarsi poderose nella corrente e pettinarle come fa la mano in un sacco di gra-

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noturco. Poi però mi sono portato sull'altro parapetto, verso sud. Dio mio, da lì tutto cambiava nonostante le belle balconate di fiori sospese sull’acqua! A sinistra svettavano infatti le orribili protuberanze di palazzo Sturm, appena mascherate dai salici piangenti; di fronte, l’osceno Ponte Nuovo azzerava ogni speranza; a destra, il macello vecchio operava a pieno regime. Ma perché, mi sono chiesto, tanta insipienza? Ho così cominciato a fantasticare una città più bella e son partito con la mia bacchetta magica. Il Ponte Nuovo è davvero orribile; la seconda guerra l’aveva abbattuto ma era stato rifatto uguale. Che occasione persa! Basterebbe collocare un bel sistema di specchi a coprire gli scheletrici pilastri in modo da riflettere tutt’altro panorama: ve lo immaginate, dal ponte di legno, quale meraviglia? Perfetto. Sono sceso poi per la via del macello, ho fatto sparire vacche e macellai, mi sono infilato su per i gradini di Viale Diaz e sono arrivato sul ponte. Quando ci sono stato sopra sono trasalito: l’assurdo edificio dell’Ossario ingombrava l’orizzonte. Quante cose belle si sarebbero potute costruire con quei milioni di mattoni in terracotta al posto di quel pachiderma presuntuoso, retorico e sconnesso dal resto della città? Perfino le timide

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casette di Via Bonaguro parevano uscire dalla penna di un grande pittore. Al posto del lugubre tempio ho fatto così apparire un bel parco urbano, uno slargo, un giardino d’alberi e un bel po' di panchine. Poi ho preso salita Brocchi - il fatto che venisse chiamata così significava che ci si poteva anche andare in su - e sono sbucato in Piazzale Trento. Qui troneggiava l’edificio delle scuole Mazzini, una chilometrica barriera di cemento informe ipocritamente nobilitato da qualche timido vezzo. Per fortuna che davanti, tra gli alberi, due enormi vasche d’acqua allietavano la vista. Quelle le ho tentute - tanto poi le ha fatte sparire qualcun altro! - e il resto via, con la mia bacchetta magica. Dal piazzale, ora, si potevano ammirare la cima della torre civica, le punte dei campanili della piazza e perfino il castello! Mi sono infilato dunque in Viale delle Fosse e poi ho svoltato per Via Da Ponte. Che meraviglia: marmi, archi, colonnine, spioventi, grondaie, intonaci, portoni, cortili, ogni palazzo un’opera d’arte. Solo quell’orribile sfregio architettonico progettato dal Bonfanti da eliminare: abracadabra, sparito! Ho fatto le piazze con la testa in su, rischiando di inforcare auto e pedoni: la torre, la chiesa di San Francesco, la fontana... E poi giù nell'altra

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piazza, la loggia, i portici, le statue, San Giovanni e il suo stupendo campanile! Rimaneva da ritoccare Via Verci - un paio di condomini da buttar giu - per poi rientrare a casa perchĂŠ si stava facendo tardi. In mezza giornata avevo fatto proprio un bel lavoro! P.S. Possibile che nel secolo scorso si siano costruite soltanto schifezze?

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IX

L'ETA' DI MEZZO Quei giorni perduti a rincorrere il vento... (F. De Andrè - 1966)

I

ntanto era iniziata l'età di mezzo, quella né carne né pesce. Sembra che sia normale, a un certo punto della vita, solo che il punto non è certo e neppure è propriamente un punto. Si tratta piuttosto di una linea che dura nel tempo, più del dovuto. Non è come la nebbia, che capisci quando ci entri e quando ci sei in mezzo sai che da qualche parte finsice; è piuttosto come quando sei in treno e vedi muoversi il panorama, fuori: è lui che si muove o sei tu? Insomma, per prudenza sarebbe bene pensarci prima di aprire la portiera e scendere. Nell'età di mezzo, quando fai cose interessanti - praticamente tutte - nessuno ti fa i complimenti. Specialmente i grandi. Quando fai cose stupide, invece, son tutti lì a rinfacciartelo, a lapidarti. Invece dovrebbero darti una mano perché è come se tu fossi in prova. E infatti magari alle due del pomeriggio ti lanci da una casa in costruzione su

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un mucchio di sabbia perché il capobanda esige da te la prova del coraggio e due ore dopo, con la sabbia ancora nelle scarpe, disquisisci se ti fanno più effetto le tette o quella cosa lì. A parte che io ero per le tette, nell'età di mezzo queste due cose - la prova del coraggio e il dibattito sulle tette, intendo - servono entrambe a farti diventare grande. Ci vorrebbe una ghiandola che accendesse una luce o una scritta, producesse un suono dentro nella testa o anche solo una vibrazione. E invece le vibrazioni ci sono, eccome!, ma di tutt'altro genere. Eppure ci sono degli elementi che dovrebbero farti capire che sei dentro in questa fase del cacchio: ad esempio se ti attacchi in camera il poster di Caterina Caselli vicino a quello di Ho Chi Min. O quello di Angela Devis vicino a quello dei Camaleonti. O se vai a fare volontariato alle case operaie e tornando a casa suoni il campanello del vigile antipatico e poi scappi! O fai la gara a chi dice con un solo rutto nome, cognome e indirizzo completo del tuo capo scout e poi piangi (di nascosto) quando ammazzano Bob Kennedy. Insomma: non basta che crescano i peli o i brufoli per farti capire che stai diventando grande ed, anzi, odi i grandi che te lo dicono tanto da sperare di star piccolo come sei per sempre. Poi, però, dall'età di mezzo si esce. Di solito...

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Quasi tutti... Intanto cominci a mettere in ordine i poster: quello della Caselli vicino a quello dei Camaleonti, quello della Davis insieme a quello di Ho Chi Min. Questo fa già quadrare meglio le cose. Poi, magari, quando sei di ritorno a casa, suoni sempre il campanello del vigile cretino ma stavolta aspetti che esca e lo mandi a quel paese dal vivo, che è una bella assunzione di responsabilità. Infine - e questo è il vero passaggio che sancisce la fine del tunnel - capisci che nessuno può costringerti a scegliere tra tette e quella cosa lì: le scelte obbligate sono altre. Per scegliere, nell'età di mezzo, quando hai scartato tutti quelli che non ti piacciono, cominci a sfogliare il grande album dei personaggi illustri che popolano il mondo, cercando di trovare là quello che non hai trovato altrove. D'altra parte, puntare in alto non fa mai male e siccome il tuo tempo lo passi nella ricerca dei modelli, è bene trovarli presto perché sennò la cosa si fa lunga, dispersiva, e l'insoddisfazione che deriva dal girare a vuoto può fare danni. Ne conosco tanti che non ne sono usciti. Uno - per esempio - ha smesso di parlare per un anno. Un altro andava in giro vestito solo di arancione. Sono cazzi, insomma! Invece, in una fase di massima vulnerabilità

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come questa, la prima cosa da fare è costruirsi una corazza così almeno ti difendi. Le corazze in uso a quel tempo non erano molte. Anzi, erano solo due. Si poteva scegliere fra: - un eskimo verde marcio (col pelo staccabile), jeans, sciarpona colorata fatta a ferri dalla nonna (o anche dalla morosa, se avevi la fortuna di averla...); - un eskimo verde marcio (col pelo staccabile), jeans, fazzoletto palestinese bianco e nero. Era preferibile che l'eskimo non fosse nuovo di bottega ma provenisse dall'American strasse di Livorno. Non so perché proprio quello lì. Dunque, tutti noi andavamo vestiti così forse perché in questo modo, quando eravamo in branco - come le zebre, - il leone rimaneva disorientato... La staccabilità del pelo interno era importante e aveva un doppio vantaggio: tolto il pelo, l'eskimo si portava anche nella mezza stagione (quando pioveva non era impermeabile ma non importava); con il solo pelo potevi vestirti da pastore e andare a cantare la stella, prima di Natale (si doveva pur racimolare qualche soldo...). Tutti gli altri che si vestivano normalmente rappresentavano la massa conformista. Per quel che riguarda il fazzoletto palestinese, era bene che fosse intriso di patchouli, essenza

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profumata dall'intenso odore di cammello che andava a coprire ogni altra esalazione derivante dall'abuso - continuato nel tempo - dei medesimi capi d'abbigliamento. Anche perché non c'era tempo per lavarsi, avevamo cose più importanti da fare. Qualche modello da imitare poteva essere anche individuato a scuola in qualche ragazzo dell'ultimo anno, specie se le tue compagne di classe - quelle che piacevano a te - lo spiavano, poi parlavano tra di loro fitto fitto e si vedeva che facevano pensieri. Oppure se, quando lui parlava in assemblea, stavamo tutti zitti, anche noi maschi, e le ragazze continuavano sempre a parlare fitto fitto e a fare pensieri... Quindi: se aveva la moto, non vedevi l'ora di comprare una moto anche tu; se aveva la barba, allora pregavi che ti crescessero i peli. Ma in fretta, però, perché il tempo era sempre poco. Siccome a me la barba non cresceva, mi restava la moto. Così, a sedici anni, mi feci la patente per guidare una vecchia Vespa 125 ereditata da uno zioveroeproprio. Bisogna avere bene in mente in cosa consisteva quella moto: sembrava un assemblaggio fatto con gli avanzi di una chiatta, due ruote di passeggino e due galleggianti laterali. La moto doveva servire a creare contatto tra i

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generi diversi - quello era il suo vero scopo - ma la distanza tra il sedile davanti e quello posteriore era cosĂŹ abissale, nella Vespa, che quando finalmente ci saliva la tua compagna di classe preferita, dopo un po' ti dimenticavi che ci fosse (se non l'avevi addirittura persa). E credo che si chiamasse Vespa per questo: torace e addome separati, distanti. Un imenottero a miscela, praticamente. Allora per risolvere la questione piĂš importante trasformai la chiatta in una moto da cross: col flessibile rimodellai le bandinelle laterali, ridussi i galleggianti, sostituii i sedili con un sellino monoposto sbarazzino (chi ci si sedeva era costretto a fare corpo unico con me), presi dei pneumatici da fuoristrada - dotazione di una motofalciatrice - e tinsi tutto di arancio e nero. Era una figata che suscitava le invidie di molti motodotati. Preso dall'eccitazione e trascinato dal branco delle zebre motorizzate, mi iscrissi ad una gymcana di paese a cronometro individuale che si sviluppava all'interno di un campo da calcio, tra ostacoli, birilli, buche di sabbia e balle di paglia. Avrei dovuto competere con mostri sacri del trial - Puch, Montesa, Husquarna - e il mio ingresso in Vespa venne salutato dallo speaker con parole di sincera ammirazione. La ola non era ancora stata inventata...

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Quando toccò a me, mi posizionai sulla linea di partenza e mi preparai allo scatto dando maschi colpi d'acceleratore. Al via schizzai in avanti nel delirio degli spettatori increduli, raggiungendo rapidamente la boa per andare ad imboccare il primo salto: si trattava di uno scivolo di legno che arrivava ad oltre un metro d'altezza, più o meno come me. Ero pronto. Mi misi in piedi come Sansone sulla biga, le mani strette a morsa sul manubrio, l'acceleratore al massimo. Decollai, volai e ricaddi piatto come una sogliola. La moto non possedeva veri ammortizzatori ma solo un sistema di leve che bisognerebbe mettere in galera l'ingegnere che l'aveva inventato. Il colpo mi rintronò lungo la spina dorsale fino al cervelletto. I polmoni tossirono, soffocarono e si spensero. Anche il motore tossì, soffocò e borbottando si spense. La Vespa fece qualche metro in avanti sobbalzando come tarantolata. Poi dette un fremito e infine morì. Gara finita. Quella pacca lì mise fine alla moto e - credo anche alla mia adolescenza. La ricerca dei modelli era invece una cosa seria. Chi ne adottava uno - da sommare a quegli altri già acquisiti - era sottoposto a un fuoco di fila incrociato da parte degli amici, i quali servivano

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per questo. Ogni modello a cui cominciavi ad ispirarti doveve essere esente da qualsiasi debolezza, se no che modello era? Ad esso venivano contrapposti modelli alternativi nel tentativo sado-pedagogico di minare le tue non ancora acquisite certezze. Il comitato centrale composto dai più grandi della tua compagnia aveva già stabilito quali fossero i requisiti di base: essere in vita, non essere ricco, non essere di destra. Inoltre era meglio che il tuo modello possedesse una R4, possibilmente rossa. Era meglio ma non indispensabile, per fortuna, come l'eskimo. La selezione dei modelli avveniva per eliminazione diretta, una specie di campionato all'italiana: chi perdeva andava fuori senza possibilità di ripescaggio. Il primo modello a passare la selezione dei probi viri fu Caterina Caselli. Cantava "Nessuno mi può giudicare". Il titolo era un manifesto, in più era una donna e noi eravamo già femministi. Il secondo fu Tommy "Jet" Smith. Aveva appena vinto i centro metri alle Olimpiadi di Città del Messico ed era salito sul podio con il pugno guantato di nero per affermare i diritti degli afroamericani. Il terzo fu Emanuele Rocco, uno dei pochi giornalisti che dallo schermo televisivo si permetteva

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di dire le cose come stavano. Altro promosso fu Demetrio Stratos, allora leader de I Ribelli. Dopo aver spopolato con Pugni chiusi, aveva fondato gli Area, gruppo di ricerca musicale e di impegno politico. Gli unici che potevano tener loro testa erano i Nomadi e gli Stormy Six, e di fatti passarono tutti e tre. E sei! Quando ci accorgemmo che la sfida si andava concentrando sulla musica, si chiuse il settore con Francesco Guccini. Portava l'eskimo, possedeva una R4 (forse, però...), aveva la barba e beveva vino rosso. Da allora anche il vino rosso entrò nella lista dei requisiti e si passò ad altro. Tra gli scrittori superò l'esame Gabriel Garcia Marquez: Aureliano Buendia batteva in tutti i nostri cuori. Quando fu la volta dei calciatori si sfiorò la rissa. Per evitare il peggio, ci si rifugiò nell'esotico Edison Arantes do Nascimento detto "Pelé". Ineccepibile. E per di più nero, altro che Obama! Infine, tentando di sfruttare la spossatezza che si era impadronita dei meno gagliardi - qualcuno superava i 18 anni - tentai di inserire un paio di amiche che furono bocciate. Perché il cuore - imparai allora - doveva rimanere in disparte.

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P.S.. Il cuore, altri organi no...

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XX

LA CAMERA DEL LAVORO Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori porta... (F. Guccini - 1974)

G

uccini, Marquez, Arafat... Certo, modelli a cui ispirarsi, ma nell'età di mezzo forse anche dopo - c'è bisogno di contatto, di dialogo, di verifica, di quotidianità, e non è che si possa frequentare questa gente qui. E allora i modi di diventare grande si andavano a cercare in giro, dove vedevi qualcuno che ti sembrava giusto, qualcosa che ti pareva interessante, e il bisogno spaziava da quello immateriale a quello materiale, perché si mancava di tutto... Di fotocopie, ad esempio. Quando si passa dal non avere niente da dire ad avere necessità di farlo, si vorrebbe gridarlo forte perché tutti lo sappiano. Infatti, chi scopre qualcosa spesso crede di essere il primo a farlo, e forse anche l'unico. In quel tempo le fotocopiatrici non esistevano; magari erano state inventate, e il Pentagono o il KGB le possedevano, ma i comuni mortali no.

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D'altra parte la tivù era nata due giorni prima, si può dire! Al posto delle fotocopiatrici c'erano i ciclostili. Si trattava di una specie di macchina per stendere la pasta, con dei rulli su cui si fissava uno speciale foglio di cera battuto a macchina - senza inchiostro - in modo che vi restassero impresse le impronte delle lettere (e anche dei disegni, che si facevano con uno stuzzicadenti o qualcosa di simile). Agganciato il foglio di cera e inchiostrato uno dei rulli, giravi la manovella e il ciclostile stampava sulla carta ciò che avevi impresso nella matrice. Il meccanismo era intrinsecamente imperfetto: imperfetta la cera, la pressione con cui erano state incise le parole, la scorrevolezza dei rulli, la superficie della carta, la costanza del movimento rotatorio della manovella... Il luogo dove esisteva il ciclostile e il suo uso era sostanzialmente gratuito era la Camera del Lavoro, la sede della CGIL. Ma soprattutto lì c'era Flavio Baù, un vero mago del ciclostile. Un pomeriggio sì e un pomeriggio anche, noi studenti medi occupavamo pacificamente quella sede disordinatamente piena di carta, volantini, libri, gente, e quando non si aveva alcunché da ciclostilare e distribuire l'indomani all'ingresso della scuola, si aiutavano i meno esperti ad apprenderne la sottilissima arte, sviluppando

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la discendenza. Nel frattempo si ascoltavano i ragionamenti dei sindacalisti e dei rappresentanti di tutti i mestieri esistenti a questo mondo, e qualche volta si veniva coinvolti in una delle cose più eccitanti che ci potessero capitare: andare in giro in macchina con l'altoparlante a indìre scioperi, organizzare picchetti, lanciare slogan, occupare fabbriche. Organizzare incontri, dibattiti, tavole rotonde, un vero e proprio apprendistato: imparavamo la pratica della comunicazione, della sensibilizzazione, della persuasione, affinandoci nella dialettica politica e soprattutto nell'autostima. Poi, generalmente soddisfatti, si andava al bar, altra palestra di vita. Quello più vicino era la Veneziana, dalla Marisa, una donna minuta capace di sopportare le nostre intemperanze. Non ci si sostava a lungo, serviva proprio per un "rifornimento" di necessità. Dietro il bancone si erigeva un vecchio e gigantesco mobile a mensole, tutto decorato, che ben si intonava con la carnagione chiara della Marisa. I bar dove andare non erano molti perché attuavamo una rigorosa selezione basata sul fatto che un bar non poteva essere semplicemente un bar. Troppo banale... Quello più adatto al pomeriggio - la mattina si andava a scuola - era il Pick Bar. Ci si poteva sede-

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re all'aperto, si bevevano ottimi spritz ma soprattutto ospitava mostre di tutti coloro che avevano qualcosa di artistico da esporre. Spesso di noi medesimi, dunque. Quest'aria vagamente culturale giustificava la frequentazione anche perchĂŠ non vi erano sale pubbliche dove sperimentarsi. Prima di cena il bar preferito era Il Pozzo. Osteria tradizionale, sul bancone venivano dispiegate orde di bocconcini - cipollotti in agrodolce, acciughe con cappero, sardine sotto sale, mezze uova sode... - che risollevavano lo spirito. Dopo cena, infine, obbligatorio era riversarsi dall'Arduina. L'Arduina era una vecchia donna che gestiva un buco stretto e lungo, in Via Matteotti. In fondo, fatti tre gradini, si apriva uno stanzino dove ci si tratteneva per ore, spesso cantando in compagnia di una chitarra. L'Arduina portava una dentiera che rimaneva miracolosamente chiusa anche intanto che ci raccontava vita morte e miracoli dell'universo mondo. "Ufficio anagrafe", diceva di sĂŠ. Serviva il vino - il piĂš delle volte aspro - in gotti che sembrava non mostrassero differenza tra prima e dopo il lavaggio: una patina tanninica ne oscurava permanentemente i fondi, e noi tiravamo un sospiro di sollievo quando la trovavamo ancora lĂŹ dopo che avevamo bevuto. Qualche volta, invece,

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non c'era piÚ, e lo sfortunato si alzava per uscire e riattivare la circolazione del sangue. Ma all'Arduina si perdonavano queste cose. Non so come pagassero gli altri ciò che si consumava, essendo noi tutti studenti. Probabilmente si trattava di risparmi accumulati con lavoretti estivi, qualche prestazione d'opera occasionale o elargizioni parentali. Forse si trattava dei rimasugli della questua natalizia... C'era anche un bar dove non si pagava niente: era solo un portico dove ci si dava semplicemente appuntamento; cosÏ, se pioveva, eravamo al coperto. "Ci vediamo al bar colonna..." Per tornare alla questione economica, ognuno di noi ragranellava qualche soldo come poteva. Forse per colpa delle figurine, forse per tara genetica, da qualche tempo mi dedicavo a collezionare farfalle. So che non era una cosa rivoluzionaria... Per un po' quella passione significava andare in giro per i campi con il retino, di giorno. Poi presi a girare per le valli. Poi, infine, per la montagna. Man mano che crescevo, aumentava il raggio d'azione dove andare a catturare. Consumato l'interesse per le farfalle diurne, mi ero dedicato a quelle notturne. Andare in giro di notte, dalle due alle quattro del mattino, in bicicletta, era indubbiamente un emozionante privilegio, un indice di emancipazione. Era mia

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madre a svegliarmi, santa donna... Poi, un giorno, conobbi Ferruccio Meneghetti. Ferruccio Meneghetti a quel tempo aveva ottant'anni e faceva il preparatore. Il tassidermista. L'imbalsamatore, insomma. La prima volta che andai da lui, accompagnato da un amico, credevo di essere entrato in una macchina del tempo. E dello spazio. Per raggiungere la soffitta, dove operava, salimmo delle scale buie costellate di crani, trofei, fossili, corna, pelli. Sulle pareti e sui gradini. L'impatto fu impressionante: tutto quello che avevo visto nelle figurine Panini era lÏ, dal vivo. Cioè... dal morto... Quando arrivammo in cima, fummo accolti da alcune galline pepole, vive, questa volta. Ovunque vi erano gabbie di uccelli canterini, vivi anche loro, dunque. Entrammo, e nella semioscurità vidi un anziano signore ripiegato su se stesso, i capelli bianchi pettinati all'indietro e grandi occhiali. Le pareti della stanza erano stipate di gigantesche cassettiere; un odore penetrante, tra cui riconoscevo la canfora, toglieva il respiro. In mezzo, stava un vasto e basso tavolo pieno di ogni cosa. Biologica e non: coltelli, bisturi, forbici, pinze, pinzette, lenti d'ingrandimento, bottiglie, bussolotti; colori a tempera, a pastello, a cera, pennelli; filo di ferro, spago, paglia, gomma,

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gesso, penne, matite, guanti, mascherine, forcine, cartone, cartapecora... E poi occhi, un'infinità di occhi di vetro di tutte le grandezze e colori. Lui aveva sulle ginocchia un piede di ippopotamo svuotato dentro, e con le mani stava mescolando colla e segatura di gomma scura. Un'unghia di quel piede era grande come una mano mia. Alzò lo sguardo per un attimo, e tornò a mescolare l'impasto. Altro che Coccoina! Senza parlare ci sedemmo su degli sgabellini intorno al tavolo, vicino a lui. Per i primi tre quarti d'ora rimasi immobilizzato a guardare le mani del vecchio che, dopo aver amalgamato l'impasto, aiutandosi con una stecca di legno, lo spalmava a mo' di stucco per lisciare la parte inferiore dell'ippopotamo. Cioè del piede, ma io vedevo l'ippopotamo intero! Non lo sapevo ancora, ma avevo davanti a me una istituzione. Già il fatto che fosse nato nel secolo prima del mio, dava un senso di stordità e faceva venire in mente Garibaldi. Aveva fatto la prima e la seconda guerra mondiale in Africa, dove invece di combattere era andato a caccia di coleotteri, a scoprire resti paleontologici, a raccogliere teste per ricavarne calchi di gesso. Ma soprattutto possedeva la più grande collezione di farfalle che io avessi mai visto fino ad allora e che mai avrei più potuto ammirare neppure nei

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musei naturalistici più importanti del mondo. Quei mobili giganteschi che ingombravano le pareti della stanza e la rendevano piccola, ospitavano centinaia di cassetti alti qualche centimetro, larghi un metro ciascuno e profondi poco meno. Centinaia di cassetti per centinaia e centinaia di metri quadrati di superficie interamente tappezzata di farfalle di ogni colore, forma, dimensione, provenienza. Diligentemente preparate, stese, ordinate, classificate, puntate su un foglio di balsa. In uno sgabuzzo del laboratorio, sopra un freezer stracolmo di meravigliosi cadaveri, dentro ad una gabbia pendevano quattro cose solide che sembravano delle enormi gocce d'acqua argentea. Erano bozzoli di Cometa, una grande farfalla del Madagascar, dai colori del limone e dell'arancio e dalle lunghissime code. Meneghetti, ogni sei ore - notti comprese - doveva annaffiarli per mantenere l'umidità del paese d'origine, mentre il calore tropicale era prodotto da una lampadina appesa. Geniale! L'idea di allevare i bruchi di farfalla, creature dolcissime, silenziose e morbide al tatto - tutto ciò che si può desiderare, dunque! - mi prese immediatamente. Approfondendo l'argomento sui libri, scoprì che la più grande delle nostre farfalle notturne depositava le uova sulle foglie di ailanto, che qualcuno chiama "l'albero dei pop-

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corn" per via del suo profumo. Mi misi cosÏ alla caccia dell'arbusto, diffusissimo, ispezionandone le foglie ovunque fosse. FinchÊ un bel giorno, in una siepe della Rambolina, scopersi decine di rami carichi di uova di Cinthia e me li portai a casa. Riempii un portaombrelli d'acqua, e vi infilai il fascio delle fronde dove erano deposte migliaia e migliaia di uova! Nacquero presto i bruchini che presero subito a rosicchiare le foglie a cominciare dai margini. Una volta alla settimana aggiungevo rami freschi e i bruchi vi si trasferivano autonomamente, crescendo a vista d'occhio. Dopo circa un mese qualche centinaio di bruchi verde-azzurri, lunghi e grossi come un dito medio e dotati di decine di protuberanze giallastre, decisero simultaneamente di filare ciascuno un bozzolo, accartocciando una foglia di ailanto ed infilandovisi dentro. E cominciò l'attesa. Una mattina d'inverno, molto presto, tutta la mia famiglia venne svegliata da un urlo che rimbalzò sulla tromba delle scale, amplificandosi: mia madre era scesa in salotto e tutta la stanza era piena di gigantesche farfalle che - immobili su ogni superficie disponibile - si asciugavano le ali muovendole lentamente: il calore dei termosifoni aveva anticipato lo sfarfallamento, e centinaia di falene abitavano la mia casa.

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Cosa fare? Pensai a Meneghetti. Per lui ogni tanto andavamo a catturare nei boschi collinari certe farfalle colorate che egli inseriva in teche ornamentali a scopo commerciale. CosÏ potevamo vantare la sua amicizia e ricevere qualche mancia. Mi acquistò qualche Cinthia - "benedetto ragazzo" - ma le altre le dovetti liberare in pieno inverno, mandandole a morte sicura. Era in quella forma crudele che - a quell'età - esprimevo il mio amore per la natura. P.S. Le gallinelle e gli altri uccellini vivi stavano lÏ da un bel po'. Qualcuno - meno cinico di me - non aveva il coraggio di tirar loro il collo ma siccome li voleva esporre in taverna o in ufficio, li portava da lui. Lui dava loro da mangiare, intanto...

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XXI

LA MUSICA Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia... (D. Stratos - 1978)

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n giorno, con dei fustini di detersivo e dei coperchi di pignatta, costruii una batteria. La mostrai ad un mio vicino di casa, e lui decise di diventare batterista. Io restai disoccupato ma con cinquemila punti Mira Lanza mia madre si fece mandare una chitarra amplificabile. Pensare che poteva prendersi una lavatrice... La chitarra c'era, la batteria anche, la voce l'avevamo tutti: il gruppo, anzi, il complesso era fatto. Poi convenimmo che era meglio trovare qualcun altro che suonasse una tastiera, un basso o quel che capitava, ma in realtà era più una questione di timidezza che di necessità. Il destino fu generoso perché il papà del batterista era bassista, fisarmonicista, trombettista, chitarrista e se fosse stato un polipo sarebbe bastato da sé. Quindi piovve sul bagnato, e il tastierista saltò fuori - volontario - tra i compagni di scuola:

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eravamo un quartetto. Prima ancora di saper suonare, trovammo il nome al gruppo: I Koala (le figurine Panini avevano colpito ancora...). La seconda cosa di cui ci occupammo - sempre ancora prima di attaccare la spina - fu quella di consolidare l'identità con una divisa. Mettemmo sotto un po' di mamme e ordinammo di scampanare vistosamente i nostri jeans inserendovi una specie di soffietto, dal ginocchio in giÚ, entro cui spiccava un rosso scarlatto: altro che zampa d'elefante! Per finire, costrinsi il volontario ad acquistare un moog, e cominciammo a suonare tra di noi. D'altra parte, come si faceva a fare Impressioni di settembre senza il sintetizzatore? Esordimmo molto presto in una serata di quartiere, con buoni risultati. Avevamo preparato una scaletta di una ventina di brani: Claudio Baglioni, gli Equipe 84, I Camaleonti. Suonavamo anche qualche brano esotico tipo Cumparsita e Eulalia Torricelli. La nostra risorsa strategica era il "Polipo", la cui esperienza bastava e avanzava. Con lui - vero archivio vivente - ci addentravamo in ogni meandro della musica e non vi era richiesta che non venisse esaudita: con la fisarmonica a tutto volume, noi mimando di suonare ciò che non conoscevamo, soddisfacevamo ogni esigenza

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del pubblico, per lo più anziano e soprattutto già ciucco. Per qualche anno battemmo in questo modo sagre di paese, matrimoni, veglioni di fine d'anno, offrendo dignitose prestazioni che ci permisero di accumulare cifre - in nero - che mi sembravano astronomiche a confronto del piccolo commercio clandestino di povere farfalle nostrane, pur in nero anche quello. Facemmo da spalla perfino a Wess & Dori Ghezzi, non so se mi spiego. Quell'esperienza, però, con l'età cominciò a diventare insoddisfacente: non si poteva andare avanti a cantare solo Tanta voglia di lei o El cumbachero... Così, con l'incalzare della canzone d'autore e di protesta - De Andrè, De Gregori, I Rocks, I Ribelli, I Nomadi... - il gruppo si consumò spegnendosi. Era segno che l'età di mezzo, pur con qualche residua contraddizione, era proprio finita. Ma la voglia di musica restava. Nacque allora una formazione tardo-studentesca dal nome impronunciabile e surreale. Nelle intenzioni mescolava contestazione, impegno, solidarietà, internazionalismo. Allende e Valpreda, Don Milani e Che Guevara. Brescia, Milano, Circeo, Seveso... Stragi, non luoghi. Storia, non geografia. Il nostro repertorio comprendeva Ivan Della Mea, Inti Illimani, Mikis Teodorakis. Nei giorni feriali si ciclostilava, in quelli festivi si suonava

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e si cantava. Dalle sagre di quartiere alle Feste dell'Unità , dai veglioni alle fabbriche occupate, da Wess & Dori Ghezzi a Sandro Pertini. Che non era un cantante, ma a cui facemmo da spalla un XXV Aprile. Dal Centro Giovanile al Centro Radio Marostica. Infatti, era arrivato anche il tempo delle "radio libere". L'emittente di stato era troppo controllata dal governo e dall'ipocrisia e vi si sentiva solo robaccia tipo Claudio Villa e Orietta Berti. De Andrè era vietato per le sue canzoni troppo licenziose - Canzone di Marinella, Via del Campo, Bocca di Rosa, Re Carlo - irrispettose dell'ordine costituito, come Il gorilla e La guerra di Piero; perfino gli inoffensivi Giganti venivano censurati. Una radio libera sommava un po' di tecnologia - amplificatore, mixer, microfono, cuffie, giradischi - a un gruppo di volontari disposti a perdere le giornate; la notte per fortuna si mandava un nastro registrato. Con questi pochi mezzi si entrava nelle case: blues, jazz, pop e un po' di controinformazione. Qualche spot pubblicitario registrato con inflessioni marcatamente locali bastava per comprare i dischi di vinile e le prime audiocassette. CosÏ centinaia di piccole radio nacquero in ogni dove. La principale caratteristica di una radio libera era che, dentro, tutto puzzava di fumo. Non solo

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di sigaretta... Per isolare la sede - un garage, una stamberga - si ricopriva ogni superficie sia orizzontale che verticale di moquette grigio cenere, così non si vedeva lo sporco. Comprese le finestre, altrimenti i vetri vibravano. I più poveri usavano i contenitori per le uova, quelli di cartone. Ci si alternava a proporre cose che nessuno avrebbe mai altrimenti sentito, cantautori italiani e band straniere. Fu allora che anche la radio di stato cominciò ad aggiornarsi e a proporre qualcosa di decente, affidandosi - ad esempio - a due sconosciuti conduttori come Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. Nel frattempo cominciammo ad organizzare qualche concerto: Lucio Dalla, Area, Stormy Six ma anche Giovanna Marini, il Coro delle Mondine della Cooperativa dei Cappuccini di Vercelli o la splendida Giovanna Daffini. Era un modo per portare ancora più vicina la "nostra" musica e riconoscere la nostra storia. P.S. La mia rubrica radiofonica si chiamava "Il calendario dei poveri"; trasmetteva canti di lavoro, battipali veneziani, scarriolanti apuani, pastori sardi. Roba allegrissima, federalismo ante litteram!

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FESTA DE L'UNITĂ€ I borghesi son tutti dei porci... (G. Gaber - 1971)

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onoscerai l'Italia". "Vedrai un sacco di gente". "Diventerai uomo". Con queste premesse partii per il servizio di leva, obbligatorio; l'alternativa era il carcere militare - Gaeta o Peschiera - dato che non esisteva l'obiezione di coscienza. Si chiamava servizio di leva sicuramente perchĂŠ levava la voglia di fare qualsiasi cosa. Anche di vivere: a Bari, in caserma, si mangiavano mozzarelle di bufala prodotte a Preganziol, provincia di Treviso, e neanche allora Treviso pullulava di bufale. Il caffelatte consisteva in una brodaglia fangosa - colore alluvione del '66 - su cui galleggiavano delle cose nere che sembravano chiodi di garofano e che neanche il Nucleo Controllo Cucina seppe identificare. L'unico alimento commestibile lo si trovava fuori del cancello, la sera, in libera uscita: erano delle meravigliose olive verdi, giganti, polpose, tenere. Le vendeva una vecchietta a cento lire, confezionate dentro ad

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un cartoccio di carta oleoata. Rappresentarono pressoché l'unico pasto giornaliero per tre lunghi mesi per oltre duemila reclute in fase di addestramento. Il quale consisteva nel marciare avanti e indietro. Anche indietro e avanti. Oppure a destra e sinistra e viceversa. Una cosa da veri servitori della patria. I pochi istanti di quiete si trascorrevano allo spaccio. Il juke-box - tra inni patriottici e canzoni goliardiche - conteneva un unico 45 giri decente, probabilmente sfuggito alla sorveglianza. Si trattava di Compagno di scuola di Antonello Venditti, e la canzone andava a tutto volume, permanentemente. Da quella volta Venditti sta sulle balle a tutta la classe 1955 ma non è colpa sua. Diventai uomo. Infatti, i commilitoni più agiati erano puttanieri, i più poveri si arrangiavano con fumetti in bianco e nero dai titoli evocativi, tipo Sandocaz. I più sofisticati potevano contare su vere e proprie riviste porno, ma in confronto ad oggi erano letture da seminaristi: là dove c'era qualcosa da vedere era pieno di stelline. Sembravano riviste di astronomia... A Verona - dove transitai per qualche mese - la mia compagnia sottostava a un capitano completamente fuori di testa, con la sfortuna - per lui - di avere tra i sottoposti un soldato completamente fuori di testa. Fu uno scontro titanico: entrambi usarono buona parte delle loro energie a combat-

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tersi platealmente per il comando del branco. A rimetterci fu sempre il capitano che se ne andava via in preda a violente crisi di nervi lasciandoci nelle mani di innocui sottotenenti. Per sopravvivere riuscii a farmi commissionare un gigantesco murale per la sala adunate. Abbarbicato su un trabattello, trascorsi quattro mesi dedicandomi alla riproduzione della veduta prospettica di Piazza delle Erbe. Quando Piazza delle Erbe si rivelò troppo semplice e vuota per tirarla lunga e non tornare alle assurde mansioni militaresche, vi collocai arbitrariamente pezzi di altre città, obelischi, fontane, statue. Prato della Valle, l'Arco di Trionfo, il Battistero di Firenze, tanto nessuno se ne accorgeva... Dovetti abbandonare il mio trespolo artistico il 6 di maggio. Quella sera, in caserma, era programmato un film. Il cinema consisteva in un capannone metallico stile hangar entro cui erano disposte decine di file di sedie metalliche ancorate l'una all'altra. Quando qualcuno vi si sedeva, tremava l'intera fila. Quando qualcuno voleva fare il cretino, puntava i piedi sulla fila davanti e spingeva: a quelli davanti sembrava di andare in barca. Poco dopo le ventuno, quella sera, sembrò di andare in barca tutti quanti insieme, dentro al cinema. Pazienza, si vede che i cretini erano aumentati. Poi, però, sembrò di andare in moto-

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scafo, e a tutti cominciarono a girare i coglioni. Poi si cominciò a sobbalzare staccandosi dalle sedute, decollando. Quando è troppo, è troppo, e tutti contemporaneamente ci voltammo per insultare quelli che stavano dietro di noi. Poi saltò la luce, si spense l'audio, e il capannone cominciò a vibrare, a vibrare nel rumore più assordante che io abbia mai sentito. Allora si alzò un urlo - «Miiiinchiaaaaa!» - e un soldato si involò sopra di noi verso l'uscita. Quando tutti fummo fuori al sicuro, lui stava ancora girando per la piazza d'armi correndo come un invasato, invocando una serie di madonne a noialtri sconosciute. Lui era siciliano, noi eravamo veneti e quello era il terremoto del Friuli. Da quella sera, fino alla fine della ferma, la mia compagnia si dedicò a rifornire di coperte, materassi, gruppi elettrogeni, cucine da campo e tutto quanto avevamo in deposito, i senzatetto di Buja e Gemona. Il terremoto fu una vera fortuna perché ci sentimmo utili. Ogni tanto si fuggiva dalla caserma per andare a casa, la sera del sabato, e rientrare l'indomani. Era una cosa ad elevato rischio: stipati in quattro nella solita cinquecento, si raggiungeva la nostra città - cento chilometri esatti - in meno di un'ora, cosa impossibile oggi. La temporanea diserzione prevedeva il transito fulmineo in famiglia a scopo prevalentemente

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economico-sanitario, una sosta presso la fidanzata - se c'era - ed infine il vero scopo della fuga: il ricongiungimento della compagnia di amici maschi, tutti sotto naja, con l'obiettivo di affogare le frustrazioni accumulate durante la settimana. Quella sera c'era la Festa de l'Unità, a Bassano. A quella manifestazione - pur aperta al pubblico - andavano solo i comunisti ortodossi e dunque chi vi partecipava era segnato: per giorni in città non si parlava d’altro. Il muro di Berlino, infatti, era perfettamente in piedi. La Festa stava alla sinistra come la Befana all’infanzia: l’anno intero era finalizzato ad ottenere il massimo dall’evento anche perché era l’unica iniziativa che il PCI aveva in calendario e poi - per il resto dell’anno - più niente. In quell’occasione il popolo rosso aveva deciso di rinnovare la manifestazione e darle un po’ di qualità, a cominciare dal palco dove alle solite orchestrine di ballo liscio si sarebbero finalmente alternati alcuni rappresentanti di un certo rinnovamento musicale, un o per tutti Lucio Dalla. Forse all’insaputa degli organizzatori, un manipolo di giovinastri acquistò un gran mastello da lavandàre e tutto l’occorrente per farci la sangrìa, la cui ricetta era stata appresa un mese prima a Pamplona, durante l’Encierro de San Fermin: pesche, arance, vino rosso e soprattutto Cointreau, un'esagerata quantità di Cointreau da mescolare

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agli altri ingredienti e da lasciar riposare per tutto il pomeriggio in cantina. Alle sette di sera, orario di apertura, un vecchio furgone portò la vasca al centro dell’arena e lì venne scaricata a fatica: settanta litri di nettare denso e rubino esalarono per il prato il suo dolcissimo richiamo, e subito le persone presenti vi si fecero intorno, anche quelli che nelle baracche di lamiera si predisponevano a preparare pasta alla bolognese, costicine arroste, polenta alla griglia e rane fritte. Vuoi per ingannare l'attesa, vuoi per la novità, la bevanda cominciò ad essere dapprima testata, poi servita. La mescita proseguì alla grande! La serata era calda, la sangrìa era fresca: l'alcol mascherato dalla frutta non si sentiva. Così tra le 19 e le 20 l’intero mastello - quasi nocevento bicchieri da un ottavo - andò esaurito scorrendo nelle gole asciutte e negli stomaci vuoti. Alle 20 e 15 i cori che normalmente si alzavano a tarda notte già risuonavano tra i padiglioni. Erano ubriachi gli organizzatori, gli standisti, i cuochi, i cantanti, gli elettricisti, i parcheggiatori e anche i primi fortunati visitatori, tra cui noi. Per questo decidemmo di partire a piedi per andare a smaltire la sbornia con una passeggiata lungo il fiume. Solo che, cammina cammina, ci venne più volte sete e dovemmo fermarci a bagnare il palato in qualche osteria.

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Così, dopo aver a lungo girovagato per la campagna, verso le tre di mattina rientrammo schiaffeggiandoci a vicenda per tenerci svegli ed evitare di stramazzare al suolo, completamente rintronati. «Quanti sono questi?» «Tre!» «No, quattro!», e via una sberla! «E io chi sono?» «Giovanni!» «No, sono Paolo!», e giù uno schiaffo! In natura sono le mamme a rigurgitare il cibo per donarlo ai propri cuccioli. Quella sera fummo noi - cuccioli cresciuti - a farlo sui loro piedi... P.S. Così come il salto con la Vespa pose fine all'adolescenza, così quell'ubriacatura chiuse la mia gioventù. E con essa, questo libro. Anche perché quello stesso anno accadde un fatto assolutamente inspiegabile: vennero aboliti i deflettori. Da quel momento tutti ci saremmo dovuti dotare di aria condizionata per rinfrescare l’abitacolo della nostra auto. Credo che sia cominciato lì il surriscaldamento del pianeta e dunque la fine della nostra civiltà. Sarà una faccenda lunga, come l’estinzione dei dinosauri...

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XXIII

EPILOGO Ma se io avessi previsto tutto questo... (F. Guccini - 1976)

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uando sono morto era un giorno di primavera ma se fosse stato autunno non sarebbe cambiato granché. Quante volte avevo immaginato quel momento... L’avevo immaginato nel senso che ognuno di noi, credo, si sorprende a chiedersi in che modo succederà. Anzi: ognuno di noi vorrebbe poterlo scegliere e condurre a termine nei modi più graditi. Una dipartita celere e indolore, senza sofferenza per sé e per gli altri... Una cosa dignitosa, improvvisa, piuttosto che preannunciata... Trac, magari nel sonno... Io avevo il terrore di morire annegato - l’idea che mi mancasse l’aria mi faceva... mancare l’aria! - e pensavo che mi sarebbe piaciuto morire facendo una di quelle cose che mi davano maggiore serenità, come camminare in montagna, ad esempio. Ho sempre immaginato di morire in un posto preciso, dove cerco di andare ogni anno all’inizio della bella stagione: sul sentiero che sale dal Cant

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del Gal, in Val Canali, al rifugio Pradidali. E' un posto speciale, e chi lo conosce lo sa. Dopo aver attraversato il greto del torrente e risalito tutto quel bel pendio boscoso, sotto le pareti del Sass Maor, si deve superare un balzo di roccia alto più di un centinaio di metri. Il sentiero cambia tono, pendenza, e da dolce e ampio che è diventa angusto. Fa un giro di tornantini stretti e scavati nella dolomia. Ogni volta che si arriva a quel punto bisogna cambiare atteggiamento mentale: non ci si può più guardare intorno ad ammirare i mughi, l’acqua che salta, gli alpinisti su per i campanili, i gracchi che li sfiorano; bisogna concentrarsi per bene sul passo e a ogni tornante tenere conto che il baratro passa da destra a sinistra. Guai ad essere sopra pensiero... Io avevo immaginato che proprio lì, e proprio sopra pensiero, prima o poi avrei messo un piede in fallo. Sarei volato giù inevitabilmente, anche perché lo zaino pesante - il mio zaino è sempre pesante - sposta il baricentro, sbilancia. Ho immaginato che in questo frangente, poi, avrei trovato - chissà come! - la lucidità di apprezzare il volo, quella cosa che sogni fin da bambino e che ovviamente non puoi mai provare e cioè che finché voli pensi, ragioni. Te la godi, insomma! Ecco: avevo l’occasione per farlo. Poi, dopo qualche interminabile secondo, mi sarei schianta-

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to di sotto e amen ma intanto mi sarei tolto quella soddisfazione. Poi guai a mettere una lapide o qualcosa di altrettanto deprimente... Niente funerale in chiesa, per carità!, e neppure Dio del cielo, signore delle cime, vi prego. Piuttosto una cosa ironica, più allegra, stile Blues Brothers... Oppure una cosa bella e basta, come Anime salve... Immaginando di andarmene così, mi sarebbe rimasto solo il rammarico di non aver potuto chiamare gli amici per salutarli, prima. A ciascuno avrei avuto alcune cose da dire. Qualche ringraziamento, qualche parola carina sulle cose fatte insieme, sull’amicizia e sulle passioni condivise, prima di piantarli in asso. Un bacio alle donne che avevo amato... Avrei potuto anche raccontare loro qualche dispiacere vissuto o quanto mi erano mancati Elisabetta, Martina, Italo, Tarcisio, Nerina, Chiara, Bruno, Gigi, Giovanni, Fabrizio, Luciana, Ivan... E di quanto mi sarebbero mancati anche tutti loro, a cui avrei chiesto di farsi da tramite per gli altri che non sapevo più come raggiungere perché spesso - nella vita - le strade si dividono e non sempre si riescono a tenere tutti i fili... Poi mi sarei fatto un giro in elicottero, quello del 118, intendo. Da morto, ovviamente... In alternativa, un altro modo che avrei potuto desiderare sarebbe stato il suicidio. In questo

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caso non avevo ancora deciso come; rimanevo incerto tra una cosa pulita dentro a una vasca da bagno - senza schiuma, però - oppure una manciata di pastiglie buttate giù con la grappa, sotto le coperte. Comunque orizzontale. Forse perché così non si cade e non ci si fa male... Forse anche perché non si fa disordine, intorno... D'altra parte la morte è un passaggio naturale, perché farla diventare brutta o spettacolare? L’unica remora erano il dibattito, i sensi di colpa, i commenti che sarebbero seguiti: era triste, infelice? Era malato? Si sentiva solo? Era andato di cervello? Forse depresso, deluso da qualcosa... Amareggiato? Aveva dispiaceri, problemi economici?... Per carità! Non capisco perché uno debba necessariamente patire il suicidio anziché semplicemente deciderlo. Io mi sarei ammazzato perché era ora di farlo, perché avevo smesso di avere prospettive interessanti, perché non mi trovavo più bene nel mondo in cui stavo. Perché non mi divertivo più come prima... Anche questo libro poteva andare avanti ancora, ma a un certo punto ho detto "è abbastanza, basta così" ma non perché non abbia altre cose da raccontare. Fino a quel momento, comunque, ero stato felice, altrimenti l’avrei fatto prima. Comunque mi seccava che quel gesto avesse potuto creare dispiacere alle persone a cui dispiacere non avrei

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voluto dare per nessun motivo. Alla fine sono morto in un’altra maniera. E adesso mi girano proprio i coglioni per come è successo... Ero in moto. Da solo, per fortuna. Stavo andando per la mia strada quando, a un certo punto, un cretino davanti ha cominciato a rallentare, poi ad accelerare... Gli ho fatto i fari, ma lui niente. Allora, quando sono stato sul rettilineo di là del fiume, ho messo la freccia e l’ho passato. Lui, il cretino, la freccia non l’ha mica messa e ha svoltato di colpo a sinistra. Invece che frenare - cosa del tutto inutile, a quel punto - son riuscito a mandarlo in culo, quel pezzo di merda... C’è un sacco di gente che non mette la freccia, oggi, io non capisco cosa ci sia di così disdicevole. C’è un sacco di gente incivile, evidentemente. Qualcuno non ci crede, ma la maleducazione fa proprio male. A me la maleducazione mi ha ammazzato, per esempio. Mi è proprio dispiaciuto morire in questa maniera del cazzo... P.S. Tra l’altro, quello che mi ha tagliato la strada aveva il rosario appeso allo specchietto retrovisore. Avrei proprio voluto gridargli "gnanca omo!".

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INDICE Introduzione di Roberto Cristiano Baggio I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII

Prima che nascessi io Quando sono nato io Gli zii La stanza scura Mio Mao I giochi Il calcio Il Centro Giovanile L’abbigliamento La mia città/1 Carosello A scuola Varia umanità I supereroi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Manuale di sopravvivenza Dopo lunga e dolorosa malattia La mia città/2 L’età di mezzo La camera del lavoro La musica Festa de l'Unità Epilogo

3 7 12 17 23 28 34 42 49 55 58 64 68 80 84 89 95 104 114 118 128 138 143 150


Stampato presso Tipografia Rumor (VI) nel mese di marzo 2010 per conto di Inveneto


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