APPROFONDIMENTO
Noi... giovani
Libertá di Parola Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino (Voltaire)
2/2010 —— alla morte il tuo diritto a dirlo.
N°
Chi sono i giovani di oggi? È una domanda che abbiamo deciso di girare, sottoforma di questionario, direttamente ai protagonisti della nostra indagine: ovvero i ragazzi dai 15 ai 25 anni che vivono nella nostra provincia e che abbiamo incontrato in diversi contesti, dalla scuola al centro di aggregazione, dalla stazione delle corriere alla sede della nostra associazione. Un campione di risposte di cui abbiamo scelto di pubblicare quelle più significative, lasciando ai ragazzi la parola e al lettore l’interpretazione della stessa. a pagina 9
IL TEMA
Fare cultura nell'era dei tagli a pagina 2
L'ASSOCIAZIONE
Commercio equo e solidale, l'altra metà del mondo a pagina 6
INVIATI NEL MONDO
Pierpaolo Mittica "Benvenuti nell'inferno indonesiano" a pagina 13
LA MOSTRA
"Espiazioni" di Renzo Quaglia, dal carcere alla pittura a pagina 15
L' EDITORIALE
Voi che vivete sicuri… di Pino Roveredo Le visite a zia Italia, spesso erano delegate a noi bambini, perché gli adulti avevano tanto da fare, ma soprattutto avevano poca o nessuna pazienza da mettere a disposizione. La zia Italia parlava tanto, parlava sempre, quando rammentava gli assenti, spesso si commuoveva, e quando accarezzava il viso di noi bambini, immancabilmente piangeva, La zia Italia usava omaggiare le nostre visite con piccole trecce di pane zuccherato: le code degl’angeli,
così le chiamava lei, e poi, osservandoci, puntualmente si metteva a piangere e ad applaudire i nostri appetiti. Ogni tanto si staccava dallo spettacolo e si sedeva vicino alla finestra, e con il solito libro in mano, iniziava, usando il tono della preghiera, a leggere sempre la stessa pagina. “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo… “ Di tanto in tanto, interrompendo la sua preghiera, la zia Italia sospirava lo zio Vittorio, compagno strappato dal loro momento migliore, per essere internato, maltrattato, offeso e umiliato, nell’infamità prigioniera di Auschwitz. Quando l’avevano portato via, indossava lo splendore euforico
dei vent’anni, un petto gonfio di coraggio, e una dignità rabbiosa che si sarebbe ingoiata il temporale. Quando è tornato, gli avevano piegato la schiena, disossato il corpo, ucciso il sorriso, e tolto dal piacere di vivere la voglia di festeggiare la libertà… “ …Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no… “ La zia Italia, con le stesse scosse, raccontava i deliri che svegliavano lo zio Vittorio… -Alles raus! Kapò feroci come una maledizione picchiavano sulle teste dei deportati stivati nelle cuccette: più si è lenti, e più si diventa bersaglio! Qualcuno perde lo zoccolo, un altro il berretto, e così
Kullander boys al torneo antirazzista
continua a pagina 4
a pag. 18
DAL BON INTENDITOR...
Nostalgia ramarra continua a pagina 16
L'EVENTO
CULTURA IN CRISI, MA NON DI IDEE Arte “a chilometri zero” e più collaborazione tra i promotori. La ricetta anti tagli de L'Arlecchino Errante di Guerrino Faggiani Certo che i nostri sono tempi difficili: solo un ingenuo potrebbe dire il contrario. Ma se a ciò si aggiunge un “però è strano, al di là della botta dei tagli regionali e delle conseguenti difficoltà, come soddisfazioni a noi non è mai andata meglio”, allora la riflessione si amplia. Questo in particolare lo afferma Ferruccio Merisi, bergamasco di 57 anni, “immigrato” direttore e fondatore a Pordenone, nel 1987, della Scuola Sperimentale dell’Attore. Siamo andati a tastargli il polso sullo stato della cultura in provincia. Merisi da trent’anni sta aggiustando il tiro su come fare, tanta è la sua esperienza nel teatro. Formatosi all’università Cattolica di Milano, in quei tempi l’unica al Nord in cui si poteva studiare cinema e teatro, dopo varie e “forti” esperienze è approdato in città, dando vita alla Scuola. “Ora i mezzi sono quelli che sono – dice - e la cultura in ge-
nerale ne sta facendo le spese; la nostra associazione dipende in gran parte dai finanziamenti pubblici per quanto riguarda la operatività sociale sul territorio; il Comune e la Provincia ci aiutano molto anche per quanto riguarda una sede che sia centro di formazione e aggregazione (che può vantare oltre quattromila presenze l’anno)". "A differenza di altri enti della Regione però - continua - non facciamo pesare i nostri stipendi sui contributi, nemmeno per un centesimo; i contributi vengono utilizzati solo per le attività e le manifestazioni; e dunque per quello che riguarda il nostro impegno in queste attività, poche o tante che riusciamo a farne, siamo dei veri e propri volontari”. “Per vivere – prosegue - mettiamo dunque a frutto fuori casa la nostra capacità ed esperienza, con corsi, spettacoli e conferenze. Siamo un gruppo di liberi professionisti. Ci unisce anche la regola di autotassarci (il 20 per cento
fisso del guadagno personale) per sostenere la Scuola. Ma non siamo dei filantropi esaltati. Ci guadagniamo, a fare i volontari. Con l’attività sociale gratuita abbiamo la possibilità di imparare molte cose e di migliorare nella nostra professione…E di vivere e far vivere meglio la nostra Città”. Del resto per Merisi non sarebbe nemmeno possibile fare in altro modo. “Credo che proprio in momenti come questo dobbiamo continuare a sacrificare il nostro tempo, facendo sforzi di fantasia, producendo cultura di qualità a chilometri zero, riducendo i costi per la comunità”. Viene però da chiedere se tra le varie associazioni ci sia collaborazione o piuttosto rivalità. “Io penso che la concorrenza faccia bene – risponde Merisi - se ti spinge a fare sempre meglio, ma la trovo stupida se la usi come unica regola in una zona come Pordenone, dove il bacino d’utenza è limitato. Mi piacerebbe perciò
che ci fosse più dialogo e sinergia, noi abbiamo lavorato molto per questo ed ancora lo stiamo facendo”. La comunicazione tra i diversi promotori di eventi e di cultura quindi, secondo Merisi è la strada da percorrere per affrontare quello che sarà il momento più difficile. “Visto che dobbiamo fare con poco perché non collaborare? Fondendo le nostre esperienze e risorse possiamo offrire una “tentazione” culturale e civile migliore, e tenere vivo l’interesse della gente”. Per Merisi tutto questo rientra nella necessità di scuotere le persone, a Pordenone come altrove, e allontanarle per qualche attimo dai suoi costosi riempi-tempo-libero individuali. “Che ci siano o non ci siano soldi pubblici – dice a chiusura del nostro incontro non dobbiamo smettere di fare cultura, perché è solo la cultura che ci aiuta a comunicare e a capirci, a sperare in un futuro, e a lavorarci”.
La cultura del cinema, la settima arte, a Pordenone e da oltre 30 anni porta la firma di Cinemazero, l’associazione culturale che ha in Andrea Crozzoli, socio fondatore e attuale responsabile della programmazione, una delle sue anime storiche. Il pubblico pordenonese è cambiato profondamente, analogalmente al pubblico in tutta Italia. “Certo. Oggi, ad esempio, gli over 60, che 30 anni or sono erano una piccola percentuale, rappresentano un buon terzo del nostro pubblico. Questo perché la scolarizzazione ha cambiato la figura del nonno. Ci sono ex professori, docenti, liberi professionisti, impiegati che anche dopo la pensione continuano una loro vita sociale frequentando cinema, teatro ed altri momenti di consumo culturale. Un terzo del pubblico è poi rappresentato dalla fascia di età media che ha gusti precisi, che è informata e che si reca al cinema per vedere quell’autore di cui ha già letto. Il fenomeno dell’abbandono della sala a metà film a Cinemazero è, infatti, praticamente assente. Il nostro in altre parole non è uno spettatore casuale. L’altro terzo del nostro pubblico è infine rappresentato da giovani, quelli sensibili al cinema di qualità”.
Il cinema finisce a zero Crozzoli, "Non temiamo internet e i multisala. Il vero nemico della cultura di qualità saranno i tagli ai finanziamenti" la nostra redazione culturale
Com'è oggi il mercato cinematografico? “Il mercato internazionale è vivo in quelle cinematografie che sanno contaminarsi, che cercano coproduzioni ed escono dagli stretti confini nazionali come la Francia che ha contatti con le sue ex colonie e coproduce film in Vietnam o in Senegal e così via. Noi in Italia purtroppo siamo estremamente provinciali: le nostre storie sono difficilmente esportabili, perché riduciamo il nostro cinema ad un fatto condominiale, rischiando di seppellire definitivamente il glorioso passato. In generale il mercato cinematografico è in rapida trasformazione, con il digitale che avanza a grandi passi in tutta Europa e a piccoli passi in Italia. Un cambiamento che non significa solo cambio del supporto con il quale si proietta (da pellicola a file digitale), ma anche apertura a nuovi contenuti.”
Offerte per tutti i gusti In città è buona la qualità delle proposte mentre aumentano i luoghi della cultura di Milena Bidinost “Da anni a fare cultura in città è il volontariato. L’amministrazione si è assunta solamente un ruolo di coordinamento, ma i veri protagonisti sono le associazioni”. Onore al merito ai numerosi sodalizi della città nelle parole dell’assessore comunale alla Cultura, Gianantonio Collaoni, che sposta invece l’attenzione su ciò che il territorio offre dal punto di vista logistico. “Pordenone – spiega – negli ultimi anni si è lentamente dotata di spazi adatti a ogni tipo di offerta. Ai luoghi storici e prestigiosi, come il teatro Verdi, il palazzo Mantica e l’ex Convento di San Francesco, se ne sono aggiunti di nuovi”. Inaugurata proprio il 5 giugno è la nuova biblioteca multimediale e multidiscliplinare di piazza XX Settembre, mentre prossimi ad aprire i battenti, tra settembre e novembre, sono la nuova galleria d’arte moderna in Villa Galvani e lo spazio espositivo dedicato alla fotografia di via Bertossi. A seguire è atteso anche il completamento dei lavori di recupero delle ex officine Marson alle spalle del castello di Torre che sarà sede museale per l’Immaginario scientifico di Trieste. “Anche a guardare alle proposte, il carnet di eventi che in città viene preparato ogni anno – prosegue Collaoni – riesce a coprire interessi di ogni tipo, dalla musica al teatro e al cinema. Le potenzialità per continuare a fare bene della buona cultura quindi – conclude – ci sono. La sfida del futuro sarà piuttosto la necessità per le associazioni di abbandonare i personalismi e unire forze e risorse”.
Concorrenza su internet: il cinema è a rischio? “La televisione, dissero, avrebbe segnato la fine del cinema. Le videocassette, dissero, pure, così come i dvd o l’home theater. Lo stesso diranno con la prossima televisione in 3D. Per non parlare di internet. Ma il cinema come rito collettivo non è certo a rischio per l’ingresso nella società di internet. Questo perchè la qualità della visione sul grande schermo, in una sala con centinaia di altre persone che vivono assieme le stesse emozioni, non è surrogabile con internet”. Concorrenza multisala: cos'è cambiato in città? “La città si è arricchita, o meglio la periferia. Dopo decenni di chiusure dei cinema in città finalmente un multiplex alle porte di Pordenone ha invertito la tendenza. Questo permette alla massa dei giovani in età adolescenziale di frequentare e consumare cinema. Non perdere l’abitudine ad uscire di casa per andare al cinema è fondamentale per la sopravvivenza della settima arte. Poi, con il tempo, l’adolescente affina i suoi gusti e cambia anche genere di film passando a prodotti più maturi, prodotti che sollecitano i neuroni. Ciò che vedo perciò non è concorrenza, ma osmosi. Del resto a nessuno verrebbe in mente di affermare che i concerti rock fanno concorrenza alla musica classica”. Come mantenere alta la qualità dell'offerta alla luce dei tagli alla cultura? “Il punto centrale della questione è che fin dall’inizio della nostra storia abbiamo utilizzato i fondi in maniera ponderata, per noi quindi i tagli ai finanziamenti pubblici rischiano di incidere direttamente sulle proposte, di scarnificare le iniziative, di cancellare tutto quello che non ha un ritorno economico immediato come le retrospettive, le pubblicazioni, gli incontri con l’autore. In questo modo si mortifica un ammortizzatore sociale determinante nella convivenza di una società civile, com’è appunto quello della cultura”.
LA MUSICA E LA RIVINCITA DELLA PERIFERIA Molteni, "Oggi le nuove band sperimentano di tutto. È l'effetto dell'immigrazione" di Elisa Cozzarini Sono una delle band giovanili più conosciute in Italia e vengono da Pordenone. I Tre Allegri Ragazzi Morti sono nati sedici anni fa, hanno pubblicato sei dischi ufficiali e si sono esibiti dal vivo più di mille volte. Il posto più lontano dove hanno suonato? L’Argentina, in un tour organizzato dal Fogolâr Furlan nel 2005. Enrico Molteni, il bassista, dice: “Pordenone non è Londra, ma non ce la passiamo male, anzi. La nostra fortuna è che abbiamo un passato legato alla musica: alla fine degli anni Settanta il “Great Complotto” ha portato il punk in Italia e ha coinvolto un sacco di gente a Pordenone. In tanti sono rimasti anche professionalmente nel settore”. I Tre Allegri hanno fondato l’etichetta “La Tempesta” nel 2000, all’inizio solo per i loro dischi, poi sono cresciuti aprendo ad altri musicisti. “Quello che guadagniamo lo reinvestiamo e i dischi rimangono di proprietà dell’artista: questo fa la differenza tra noi e le etichette classiche”, spiega Enrico. In tutto hanno prodotto 36 cd, dei pordenonesi Sick Tamburo ed Enrico Berto, ma anche Il teatro degli orrori, Le luci della centrale elettrica… Una volta all’anno organizzano una data con tutti i gruppi della Tempesta: per il 2010 sarà il 10 luglio a “Ferrara sotto le stelle”. Da sottolineare che è l’unico appuntamento italiano della manifestazione. Il segreto del successo dei Tre Allegri, per Enrico, è la capacità di comunicare ai tanti ragazzi che si identificano nella vita ordinaria della provincia. “L’Italia è fatta soprattutto di piccole realtà come la nostra: Pordenone è la provincia - continua il bassista - chi ci segue sa bene da dove veniamo, anche se magari non saprebbe
indicarlo sulla carta geografica”. Ma Pordenone è anche viva dal punto di vista culturale. Secondo il musicista, “da una parte ci sono realtà consolidate e attive come Cinemazero, dall’altra c’è un interesse delle istituzioni a promuovere manifestazioni importanti come Pordenonelegge e Pordenone Pensa”. E c’è un pubblico attento e selettivo, anche difficile, che chiede di essere stimolato nel modo giusto. “Ma se riesci a intercettarlo – aggiunge - proponendo qualcosa di interessante, la risposta è positiva, anche se i numeri restano ridotti per la piccola dimensione della città”. E prosegue: “In questo momento di tagli alla cultura, bisogna imparare a usare i soldi nel modo più efficiente possibile, evitando di spendere in produzioni sbagliate, che non interessano alla gente. È vero però che il cinema, ad esempio, costa molto più della musica e che attirare spettatori è sempre più difficile, perché film e musica si trovano facilmente online. Noi non sappiamo neanche più quanta gente ascolta i nostri dischi”. L’ultimo album della band, “Primitivi del futuro”, uscito il 5 marzo, è con Paolo Baldini degli Africa Unite e il risultato è musica reggae con i Tre Allegri. “Oggi nel panorama musicale pordenonese c’è più libertà – commenta -. Mi spiego, negli anni Settanta finivano tutti nello stesso calderone del punk e new wave. Adesso ci sono moltissimi microgruppi che fanno dal reggae al metal, dal rock all’hip hop. Entrano in scena persone e sonorità nuove, da tutto il mondo, per effetto dell’immigrazione. Io penso che sarebbe bello se riuscissimo a mischiarci ancora di più, ma per questo ci vuole tempo”.
segue dalla prima pagina
Voi che vivete sicuri… è facile che perderanno anche la vita! Gli appelli di notte sono i peggiori: il gelo picchia sulle ossa, la stanchezza ti afferra per il petto e ti trascina a terra, e chi chiude gli occhi corre il rischio di non aprirli mai più!... – “…Considerate se questa è una donna / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno… “ La vita gira dentro un dito: a destra il forno creamatorio, a sinistra il lavoro. <Arbeit macht frei> (Il lavoro rende liberi): la fame strozza, la fatica uccide, la disperazione si chiama fuori! In quel luogo <senzadio> la morte degl’altri non è più un dispiacere, muoiono tutti, e tutti non hanno più un nome, ma solo numeri tatuati, e zio Vittorio li scandisce ogni giorno, tutto il giorno… “Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandoci alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca / I vostri nati torcano il viso da voi” Lo zio Vittorio è morto con la tubercolosi degli internati, e dopo anni di sospiro, la zia Italia lo ha seguito. Io, per spiegare il 25 Aprile ai miei figli, gli ho regalato il libro di Primo Levi… “Se questo è un uomo”.
SAREMO PRIVATI ANCHE DELL'ACQUA Dalla fine di quest’anno l’acqua in Italia potrebbe non essere più pubblica. A Parigi, per risparmiare, vanno nella direzione opposta di Gino Dain e Elisa Cozzarini Parigi, dicembre 2009. L’acqua torna al pubblico, dopo 25 anni di gestione privata. Eau de Paris calcola che così il Comune, e dunque la collettività, risparmierà 30 milioni di euro l’anno. Italia, 2010. Andiamo nella direzione opposta: il decreto Ronchi del 2009 stabilisce che dalla fine di quest’anno la gestione del servizio idrico dovrà essere affidata a privati attraverso gara. Le società a totale capitale pubblico, che oggi gestiscono i servizi “in house”, potranno continuare a lavorare solo se diventeranno a capitale misto pubblico-privato, dove il privato sia scelto attraverso gara e detenga almeno il 40 per cento. In Italia la privatizzazione della gestione idrica è iniziata con la legge Galli del 1994. Ma questa norma stabilisce che sia data priorità agli affidamenti diretti a società pubbliche, “in house”, rispetto alla messa a gara. Invece, nell’Italia di oggi, la parola
CELOX
Non si finisce mai d’imparare di Manuele Celotto Padova, qualche anno fa. Le feste di Natale si avvicinano e non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione; la speranza di tornare a casa ai domiciliari si fa sempre più debole e devo passare un altro anno e mezzo qui dentro. Devo trovare qualcosa da fare nel modo più assoluto. Già ma cosa? Lavorare è quasi utopia; le possibilità non sono molte e le richieste un’infinità. Per i pochi corsi che ci sono idem. Chiedendo un po’ in giro vengo a sapere che la cosa più facile a cui accedere è la scuola, istituto di ragioneria. Dopo la solita trafila di domandine ed attese varie, mi convocano per un colloquio e poi per delle “prove”. Morale: potrei anche fare il terzo anno ma purtroppo siamo già alla metà di febbraio e le lacune in alcune materie (le mie ultime frequentazioni scolastiche risalgono a 15 anni fa o forse più) non mi consentono il recupero entro la fine dell’anno quindi mi ritrovo al secondo. Il giorno stesso vengo trasferito di braccio e il seguente inizia la scuola. Anche se sei sempre in carcere, quella è una realtà diversa; frequenti la scuola e quindi esci dalla cella alla mattina per rientrare verso l’una per il pranzo; la metà della giornata la passi fuori e fai qualcosa di interessante. Con la scuola non ho avuto difficoltà perché si trattava di nozioni che dovevo rispolverare e riallacciare, ma questo vale per me; la maggior parte di chi frequentava la scuola non era italiano e spesso mi trovavo ad aiutare i compagni che si perdevano su tante ma-
“privatizzazione” sembra essere il dogma per il futuro. Sono diventati privati molti servizi che fino a poco tempo fa lo Stato, con i propri limiti, era obbligatorio a erogare al cittadino, a prezzi ac-
cessibili. I servizi demandati allo Stato sono un bene imprescindibile per la comunità e il nostro paese, che si dichiara democratico, alla resa dei conti, sta togliendo terra da sotto i piedi dei cittadini, senza che vi sia alcun motto vero di indignazione per le decisioni prese. O forse sì: il 24 aprile è iniziata in tutta Italia la raccolta di firme per un referendum sull’acqua pubblica. In regione già 7.500 persone hanno aderito alla proposta per i tre quesiti abrogativi, di cui 1.000 in provincia di Pordenone. «Vogliamo togliere l’acqua dal mercato e i profitti dall’acqua - sottolinea il Comitato promotore del Friuli Venezia Giulia - vogliamo restituire questo bene comune alla gestione condivisa dei territori. Per garantirne l’accesso a tutte e tutti. Per tutelarlo come bene collettivo. Per conservarlo per le future generazioni». Acqua, energia e istruzione, a nostro parere, essendo servizi verso la comunità, non sono privatizzabili. Si dice che il passaggio ai privati è dettato dall’obiettivo di ridurre gli sprechi nella distribuzione, meno burocrazia, più efficienza. Dicono che le bollette non potranno lievitare a dismisura. Chissà se sarà così? Il terzo quesito referendario riguarda proprio l’aumento delle tariffe. Si chiede di abrogare la parte del testo che consentirebbe al gestore di caricare sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza alcun obbligo di reinvestire i guadagni per il miglioramento della qualità ed efficienza del servizio. Meditate gente, meditate.
terie, non solo con l’italiano. La prima soddisfazione è stata nello scoprire che, nonostante la ruggine degli anni, le mie nozioni erano ottime. Questo mi ha permesso di fare conoscenza con un po’ di persone che aiutavo per motivi di studio e con un paio di loro di fare una bella amicizia. L’ambiente scolastico era particolare per un’infinità di motivi. Se per certi versi si può accostare ad una scuola serale per l’età, per tante altre cose non credo esistano paragoni. Chi frequenta la scuola spesso deve passare lì dentro un bel numero di anni e questo diventa un modo per impegnare il tempo; se poi riesce ad arrivare al diploma meglio. Spesso succedeva che la scuola, quando subentrava qualche problema, venisse messa un po’ in disparte; la presenza era solo fisica. Ma quasi tutti avevano un paio di materie in cui si appassionavano (che spesso erano storia e diritto), quindi le lezioni non erano mai noiose né diventavano un monologo del professore. Ovviamente anche chi insegna lì dentro deve un po’ modificare i suoi metodi di insegnamento, soprattutto perché le classi sono un miscuglio di nazionalità e per quanto bene spieghi un prof., gli italiani sono minoranza. L’ambiente in generale (le persone che frequentano la scuola sono tutte allo stesso braccio) era tranquillo e questo mi ha permesso di dedicare allo studio la gran parte delle energie. Quando c’erano i compiti in classe tante volte ci si trovava per studiare visto che quasi tutti ci tenevano a prendere un bel voto se era possibile, quindi non mancavano impegno ne “spirito di squadra”. Le lezioni di ginnastica (se non pioveva) erano al campo sportivo ed erano sempre partite a basket o pallavolo; erano i momenti più simili alla vita reale. La scuola era diventata il mio impegno principale come da ragazzo. Sapendo che il periodo da passare lì terminava prima che l’anno scolastico fosse finito, avevo preso la scuola con una tale serietà ed impegno che ho finito il programma su (quasi) tutte le materie con più di due mesi di anticipo. La soddisfazione è stata grande anche perché la media voto raggiunta era molto alta. Anche se il “posto” non era eccezionale, conservo un ricordo positivo di (quasi) tutte le ore passate a scuola ma anche dei tanti momenti passati a studiare perché oltre allo studio (e l’arricchimento personale) ho potuto conoscere o fare amicizia con delle persone.
CODICE A SBARRE
L'ANGOLO DELLA FRANCA
TRASFORMAZIONI
"Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla" di Franca Merlo C’è un aforisma dell’antico saggio cinese Lao Tze: "Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla". Interpretare ciò che accade è forse più importante dell’accadimento stesso, perché dà il senso di ciò che sta succedendo. Una ricerca di senso oggi ci è più che mai necessaria, in un mondo che va alla deriva. Inquinamento, guerre, corruzione dilagante, graduale riduzione della democrazia, speculazione che porta recessione, tanta comunicazione e tanto isolamento... Che amarezza, se ci guardiamo intorno. Il saggista e poeta Marco Guzzi esamina questa deriva e la coglie come fragilità: la modernità ha messo in crisi ideologie e credenze religiose, adesso è in crisi lo stesso strumento critico: non c’è più una fondazione razionale alla nostra vita, mancano significati condivisi. Ci prende il senso del vuoto e c’è allora chi vorrebbe ritornare al passato e diviene fondamentalista, chi invece si rassegna a vivere accontentandosi delle piccole concrete gratificazioni che può raggiungere. Ma la crisi si può davvero supe-
rare solo vivendola fino in fondo. Comprendendo che la figura di umanità che sta tramontando in questa nostra cultura occidentale, deve tramontare. Perchè, dice Guzzi, “ciò che sta tramontando è il nostro io bellico, quella modalità di essere umani, di costruire la nostra identità (sessuale o religiosa o politica) contrapponendoci polemicamente all’altro da noi: odiando, separandoci, escludendo, facendo insomma la guerra. E’ questa la figura di umanità che sta tracollando dentro e fuori di noi. Questo è il segno più grande di questi tempi. Questo è il segno da capire. Tutto ciò che in me si regge sulla separazione, sull’autosufficienza, sulla chiusura autoriflessa, sta miseramente mostrando la propria nullità essenziale. Questo è il senso evolutivo del nichilismo. E tutto ciò che a livello storico-culturale e religioso abbiamo costruito su quella forma mentis ego-centrata, escludendo e uccidendo l’altro, sta crollando e crollerà fino in fondo.” Si fa sempre più strada la convinzione che non si può andare avanti così, pena l’autodistruzione. Da questa perdi-
ta, compresa e accettata, può nascere qualcos’altro. E’ necessario morire come bruco, per diventare farfalla. Guzzi si domanda: abbiamo un modello di questa dinamica, dove si mostri che l’estrema fragilità costituisca il luogo di nascita di nuovo Uomo? “A me sembra che i misteri della Pasqua non ci parlino d’altro. Tra il venerdì santo e la domenica di Pasqua l’essere umano si trans-figura infatti proprio attraversando la crisi definitiva di ogni pretesa di autosufficienza. In tal senso la disperazione odierna può essere il luogo propizio di un passaggio di umanità… la porta stretta della trans-figurazione.” ”Le donne e gli uomini di oggi hanno bisogno (…) di percepire in questa fine ineluttabile il fresco e profumato respiro di un Ricominciamento. Hanno bisogno di un annuncio credibile della Pasqua, che ci sappia dire nelle nostre concretissime situazioni: “Sì, una forma della tua personalità si sta sfaldando, un certo modo di essere maschio o femmina non ha più senso, una certa modalità di essere cristiano o musulmano o buddista sta letteralmente scomparendo, determinati modi di essere (…) di sinistra, di destra etc. sono svuotati di senso, sono maschere vuote ormai, maschere mortuarie. Ma tutto ciò è un bene. Ti stai liberando di infinite illusioni, presunzioni, arroganze, egoismi inconsci. Stai crescendo. Non avere paura. La tua fragilità, perfino la tua disperazione, sono il luogo privilegiato del mutamento (…) Ciò che c’è di buono non andrà mai perduto. Al fondo di ciò che può sembrare un fallimento c’è l’invenzione di Dio, la sua creatività, la sua bontà, il suo disegno che vuole fare di te ben altro rispetto a tutto ciò che tu credi di essere e che continui disperatamente a difendere.” ”Io penso che se sapremo trasmettere questo messaggio, che è davvero una buona notizia, il Vangelo sarà compreso e accolto ad un nuovo livello, proprio attraverso la grande crisi pasquale che stiamo attraversando.”
In redazione c’è stato recapitato a mano questo scritto indirizzato a Bchatnia, il ragazzo di cui abbiamo pubblicato una lettera nel numero scorso di Ldp. Ne diamo opportuna pubblicità. Ciao Bchatnia ho 43 anni e sono italiana. Ho passato vent’anni in quello che tu chiami tunnel della droga, ne sono uscita ed anche da tanto, ma mi sono infilata in un altro: quello del metadone, altra bestia nera da combattere. Abito in un paesello bello bello ma con la gente che parla parla, con un pseudo fidanzato che picchia picchia ed una mamma che amo amo, ma che non mi vuole più. Leggo tanto, forse troppo, e scrivo per un paio di settimanali nazionali che ormai pubblicano i miei scritti da 10 anni. Vado da racconti d’amore strappa lacrime, a febbrili vicende di fantomatici personaggi cibernetici che mi intrippano più del lettore, tutta farina del mio sacco e della mia mente contorta. Sono le 5 del mattino, caffè caldo tv al minimo il cane ai miei piedi il cuore batte il giorno nasce.. ed il mio aguzzino è di la che dorme e fa il padrone anche con i cuscini: tutti a terra. Pazienza questa violenza sta per finire. Pensa che per 8 anni ho pesato più di cento kg, ora dopo solo sei mesi di distacco da “lui” sono tornata al mio peso originale di 51. Nessuna dieta, i chili se ne sono andati senza che cambiassi una virgola della mia vita, a parte l’averlo abbandonato. E nonostante per forza maggiore sia tornata da lui non ho rimesso su neanche un etto. L’auto stima è cresciuta ed anche il senso di inadeguatezza è sparito. Anche aver scritto questa lettera mi ha fatto bene e spero che ti tenga compagnia, che muri porte e sbarre svaniscano presto. Ora mi accoccolo sul divano col mio esserino peloso, spengo la luce chiudo gli occhi e aspetto che il giorno si faccia. Lettera firmata
MONDO ELPY
I due volti dell’invidia di Mauro La Placca L’invidia è un sentimento nascosto che uccide l’anima e la rende triste e la induce a tristi tentazioni; una morte che genera morte continua nell’animo, quando il desiderio di diventare come la persona ammirata, con l’occhio dell’invidia, rende l’animo inquieto e inappagabile. Da qui l’invidia diventa un moto nascosto nell’animo, che studia mille possibilità per raggiungere l’appagamento desiderato, la soddisfazione di essere finalmente come la persona ammirata. Oh! Che triste sentimento, che prende licenza di sentire mille pensieri in modi oscuri per ottenere con la nostra volontà il bene che possiede un anima, un uomo, una donna. L’odio divide, l’amore unisce, e l’invidia è un moto tra questi due che è omicida, ma che può essere motivo di
grandi patimenti e lunghe preghiere. Vi è poi un invidia nobile perché muore per donarsi, senza volere niente in cambio, e per questo va all’opposto dell’invidia che genera la morte. Quindi l’invidia è un terribile morbo dell’anima, ma l’invidia può anche essere buona. Se si invidia con innocenza, con cuore da bambino, la vita dei santi, questa invidia desidera il bene in tutte le anime e i doni, per comprendere, discernere, vigilare e pregare. Se invidiare significa possedere una virtù, un carisma, la radice, l’ispirazione di questa invidia va cercata e giudicata severamente; se ciò che si vuole ottenere è un grande desiderio di condividere e ridistribuire con gratitudine ciò che si è ottenuto, senza compromessi, donando completamente se stessi, la radice è buona. L’invidia è un umiliazione che fa alzare la testa. Vorrei, è questo un desiderio mio, che in cielo dimenticassimo la parola invidia, con tutto il male senza fine che essa ha provocato, e che sa sprigionare in un attimo nei nostri affetti. Invece, tutti coloro che si sentono invidiosi ma in modo benevole, chiamino pure il loro sentimento ammirazione. Perché ciò che è ammirato, fa nascere il desiderio naturale di essere imitato.
VOGLIO ESSERE CONSUMATORE EQUO E SOLIDALE Dal 1990, L'Altrametà promuove uno stile di vita contro lo sfruttamento dei paesi poveri di Alessandra Gabelli La prima casa del commercio equo e solidale a Pordenone è stata un piccolo negozio in via Gorizia, una laterale di corso Vittorio Emanuele. Alla fine degli anni ’80 un coordinamento di gruppi per la pace, di diversa estrazione politica e religiosa, comincia a organizzare eventi sui temi della pace e campagne di sensibilizzazione sui paesi più poveri del Sud del mondo. È’ in occasione di queste iniziative che vengono proposti alla città anche i primi prodotti del commercio equo e solidale. La risposta della gente è positiva ed emerge la richiesta di una presenza continuativa sul territorio, così nel 1990 nasce l’idea di creare un’associazione con lo scopo di promuovere a Pordenone e provincia i principi e i prodotti del commercio equo. Apre solo alcuni giorni la settimana, in base alla disponibilità di tempo dei volontari. La bottega, come altre in Italia, nasce infatti come un’esperienza
di puro volontariato. Solo successivamente, quando cresce la vendita dei prodotti e la gestione si fa sempre più complessa, si decide di assumere dei dipendenti. Così, nel 1994, viene fondata la cooperativa “L’Altrametà”, per seguire gli aspetti più propriamente commerciali e finanziari. Il negozio prosegue il suo cammino trasferendosi in via della Motta, al numero 18. «I volontari continuano ad avere un ruolo fondamentale - spiega l’attuale presidente, Cinzia Florean - . E’ anche grazie al loro contributo che si riescono a mantenere prezzi equi per il consumatore e per i produttori, riducendo i costi di distribuzione. Sono loro i primi promotori e testimoni dei principi che animano il commercio equo». Fare commercio equo e solidale non significa solo vendere: è necessario promuovere la conoscenza delle dinamiche di produzione e distribuzione a livello globale, informando sugli squili-
bri economici tra Nord e Sud del mondo, per scardinare i meccanismi di sfruttamento economico dei paesi più poveri. Negli anni “L’Altrametà” si è impegnata a promuovere campagne informative come quella contro il debito e quella contro l’impiego di lavoro minorile. Ha organizzato incontri sul tema della finanza etica e ha attivato progetti nelle scuole primarie e secondarie sull’educazione allo sviluppo e sull’intercultura. L’associazione “L’Altrametà” ha continuato a esistere, accanto alla cooperativa che gestisce la bottega, proprio per promuovere queste iniziative di informazione. In vent’anni di attività, inoltre, circa quaranta produttori provenienti da diversi paesi del Sud del mondo, dai produttori di carcadè del Kenya a quelli di cacao della Bolivia, dai designer della bigiotteria messicana alle tessitrici degli slums della periferia Mumbai (India), sono passati per Pordenone per portare la loro testimonianza e raccontare del loro paese, della loro cultura, della loro cooperativa, del loro rapporto con le organizzazioni del commercio equo. Nel 2001 "L’Altrametà" cresce ancora e si trasferisce in un negozio più ampio, sempre in via della Motta, ma al numero 12. Si forma
anche un nuovo gruppo di volontari e apre la bottega di Sacile. Dagli inizi del 2000 a oggi, il commercio equo in Italia è cresciuto molto e si è ampliata l’offerta dei prodotti, dall’alimentare (caffè, tè, cacao, frutta secca e frutta fresca, legumi, cereali), all’oggettistica, al tessile per la casa (ceramiche, tovaglie, tendaggi, lampade), all’abbigliamento e alla recente linea di cosmetici. «Questa crescita ha spinto L’Altrametà a tentare una nuova sfida: ci siamo ingranditi ulteriormente, aprendo un nuovo spazio di vendita in viale Martelli – prosegue Florean - Il negozio è molto più grande e la posizione permette di dare maggiore risalto e visibilità ai prodotti del Sud del mondo e alle nostre attività». Oggi “L’Altrametà” ha in tutto quattro dipendenti, per le botteghe di Pordenone e Sacile. Accanto a loro, i soci volontari continuano a svolgere un lavoro insostituibile: sono cinquanta persone che a titolo gratuito si mettono a disposizione, chi prestando un turno in bottega, chi occupandosi di sistemare e riordinare il magazzino, chi organizzando banchetti e vendite sul territorio, chi dedicandosi alle iniziative culturali e agli incontri nelle scuole.
Commercio equo e solidale Nasce in Europa negli anni ’60, con lo scopo di stabilire rapporti commerciali più giusti con i paesi poveri. La prima centrale italiana di importazione del commercio equo e solidale, Ctm Altromercato, nasce nel 1988 a Bolzano. Oggi è un movimento globale che coinvolge oltre un milione di piccoli produttori e lavoratori, più di 3.000 organizzazioni di base in 50 Paesi nel Sud del mondo. In Italia i prodotti del commercio equo si possono trovare in alcuni supermercati e nelle 350 Botteghe del Mondo, socie del Consorzio Ctm Altomercato, Il commercio equo opera nel maggior rispetto del benessere sociale, economico e ambientale dei piccoli produttori del Sud del mondo: questi ultimi sono sostenuti nello sviluppo delle proprie abilità e nella consapevolezza dei propri diritti, rispettando le tradizioni artigianali, agricole e culturali dell’ambiente in cui vivono, e promuovendo un ambiente lavorativo sicuro e salutare, libero da ogni forma di discriminazione sociale. Ricevono una retribuzione equa, ovvero concordata tra le parti tramite il dialogo e la partecipazione, considerata equa dai produttori stessi e sostenibile per il mercato. Per saperne di più www.altromercato.it
Quando bere un buon caffè non è solo una questione di gusto L’unico elemento che accomuna una tazzina di caffé del commercio equo e solidale ad una di una qualsiasi marca da supermercato è la provenienza. Non un solo chicco di caffé, infatti, è prodotto nei paesi occidentali. Tutto il resto è una questione di percentuali. Nel commercio tradizionale, circa il 90 per cento del costo del caffè si ferma nel Nord del mondo. Solo il 10 per cento finisce nel Sud del mondo e al contadino va solo il 3 per cento del prezzo totale, una percentuale che copre a malapena i costi di produzione. La parte che finisce nel paese produttore, infatti, viene divisa tra più attori: l’esportatore, il grossista, la fabbrica che si occupa della lavorazione. E noi consumatori finali paghiamo un prezzo al dettaglio di ben sette volte più alto rispetto a quello pagato ai paesi produttori. Il commercio equo, invece, punta a una logica opposta: instaura collaborazioni dirette con i produttori, senza intermediari, e garantisce rapporti duraturi e prezzi stabili, calcolati in base al costo di una vita dignitosa nel paese produttore. Di un pacco di caffé del costo di 2,95 euro, il 32,8 per cento va al contadino: una bella differenza, sia per noi che lo consumiamo, sia per i piccoli coltivatori del Sud del mondo.
"Ho scoperto il valore dell'altra metà del mondo" Da tredici anni Antonia fa la volontaria per la cooperativa. È lei che oggi accoglie il cliente nel negozio di viale Martelli di Guerrino Faggiani La signora Antonia la potrete trovare ad accogliervi dal banco del negozio di viale Martelli 6, attuale punto vendita della cooperativa "L’Altrametà". Il suo apparire non stona con i graziosi articoli che la circondano, e
spenderà volentieri due parole sulla biodiversità e il commercio equo solidale con i neofiti curiosi di spirito, che entrano a dare un’occhiata. Antonia è una dei volontari che mette a disposizione il suo tempo per la cooperati-
va. E’ la fedelissima del gruppo, dato che la sua collaborazione è iniziata tredici anni fa. Chissà quanti operatori avrà visto passare in questo tempo. Che genere di persona sceglie di fare volontariato da voi? I volontari sono soprattutto ragazzi Possiamo dire che il dato prevalente del nostro operatore è la giovane età. E’ in genere preparato ben motivato e di buona cultura, e solitamente donna. Per quanto mi riguarda, è stato da mio figlio che ho ricevuto la folgorazione. Lui gestiva un banchetto equo solidale per l’oratorio, fui arruolata un Natale e da allora da questo mondo non mi sono ancora congedata. Ho sempre amato viaggiare e lo faccio ogni volta che posso. Ovunque vado ne approfitto per assecondare la mia passione e per cercare con i miei occhi, prodotti e manufatti fuori dai circuiti di massa. Con i clienti del negozio, così, mi ritrovo a parlare della cooperativa di sole donne di Gujant, nell’India, che tanto mi sta a cuore. Oppure dei fiori che mi sono rimasti impressi, fatti a mano con materiali inusuali da un’altra comunità”.
senza intermediari “Infatti, la filosofia della cooperativa non è la carità, ma l’acquistare il prodotto pagandolo per il suo reale valore, dando loro così anche la dignità e l’orgoglio di guadagnarsi da vivere con il lavoro delle proprie mani. Nel nostro negozio sono innumerevoli gli articoli: dall’artigianato agli alimentari, dalla cosmesi e l’editoria a articoli per nozze e cerimonie. Particolarmente vivo il laboratorio interno di bomboniere che, visto il successo ottenuto, richiede un impegno particolare in energie. Come riesce un volontario a conciliare il tempo con gli impegni e la famiglia? Semplicemente assecondando la sua passione e il piacere che essa sa dare. E poi è meglio lavorare qui che non a casa".
In altre parole serve passione. L’equo solidale è un commercio che permette a comunità locali dei paesi poveri di sottrarsi allo sfruttamento e alla legge della distribuzione delle corporazioni, immettendo i loro prodotti direttamente sui nostri scaffali
In Bolivia, tra i profumi di cacao de El Ceibo Nei laboratori della storica cooperativa della periferia di La Paz di Alessandra Gabelli Dall’istante in cui entri a El Ceibo il profumo di cacao ti inebria e ti segue da un ufficio all’altro, fino ai laboratori della storica cooperativa. Sono nella periferia più povera di La Paz, la capitale della Bolivia, nella fabbrica dove lavora Bernardo Apaza. È forte l’emozione di ritrovare una persona conosciuta anni prima, e che mai avrei pensato di rivedere, ed è intensa anche l’emozione di vedere con i miei occhi quello che c’è dietro ai prodotti che noi volontari del commercio equo vendiamo dall’altra parte del mondo. Ogni anno uno o due produttori vengono a visitare le botteghe italiane. È importante che vedano dove sono commercializzati i loro prodotti e per noi volontari è utile ascoltare la loro esperienza. Bernardo venne a Pordenone nel 2004. Così, quando tre anni fa, volai in Bolivia per un’esperienza di volontariato, mi venne l’idea di andarlo a trovare sul posto di lavoro. Neanche il tempo di rifletterci su, che in una stradina di La Paz mi imbatto proprio in un negozio de El Ceibo. Entro, spiego alla commessa che sono una volontaria italiana del “comercio justo” e che vorrei rintracciare Bernardo, così lei mi dà le indicazioni per incontrarlo. Chiamo, mi presento e ci accordiamo per vederci qualche ora dopo. Per raggiungere la fabbrica prendo un “micro”, un furgoncino di trasporto collettivo, diretto a El Alto, la parte alta della città dove le case si affastellano una sull’altra. Qui, nella strada principale, non in una zona industriale come mi sarei aspettata, si trova El Ceibo. In questa fabbrica si produce il cacao per il mercato interno, mentre all’estero si esportano le fave di cacao, che
vengono lavorate e trasformate in cioccolato negli stessi paesi dove il prodotto finito è venduto. Le fave provengono dalle piantagioni della zona amazzonica della Bolivia, una regione dove è molto diffuso lo sfruttamento dei lavoratori da parte degli intermediari. El Ceibo ha realmente cambiato le cose per ottocento famiglie di campesinos, commercializzandone i prodotti all’estero grazie al commercio equo e solidale. La visita è l’occasione per Bernardo di ricordare le tappe di quei dieci giorni intensi in giro per l’Italia e per me di sentire più forte questo legame che unisce Sud e Nord del mondo, attraverso un commercio che a molti sembra utopico, ma che concretamente fa la differenza.
EL CANTON DE GUERI
Ou... go fat par cior el telefono “Cossa falo quel la? Chi che le?” In mezzo al niente in una stradina bianca della Meduna tra canne alte di mais e sotto il sol leone, con la mia bici stavo guadagnando strada verso il paese. Un tipo in lontananza poggiato con i gomiti sulla capote della sua Panda stava chiedendo troppo al telefonino che strapazzava tra le mani. Man mano che mi avvicinavo vedevo sempre più chiaro che la Panda pendeva verso il ciglio della strada in modo esagerato. “Ardito come parcheggio, aaa.. ma lè dentro el foss.” Le due ruote destre erano dentro uno scavo stretto ma fondo seminascosto da erba incolta. Il tipo accortosi di me fermandosi ridette un futuro al telefonino e cominciò a guardarmi. Vidi che la sua curiosità diventò stupore e un sorriso gli accese il volto. Lo guardai bene.. “Ma varda.. ma quel li lè.. porco bestia vara chi che lè!” Ou Stefano l’atu messa cusì in parte par via del trafico? Tasiii.. stavo ciolendo el telefono sul sedil in parte.. croc dentro el foss E no te riesi più a vignir fora? Macchè! Ma atu visà qualchi dun par telefono? Vegnelo a tirarte fora? Mah.. sto stupido de telefono qua nol funsiona nient Vara che piomba che te ga.. par forsa nol funsiona! Vutu che fasso mi? Ou.. ho fat par cior el telefono.. croc dentro el foss. A lè maledetto, el cede de colpo Dame qua dai, ciamo mi No no, peta.. eco eco.. pronto? Chi elo? A giusto son mi che ciamo Ou Stefano ara chel riva un gippon. Sto qua el te tira fora come nient Cosa? Vara un gippon Aaa speta.. ma mi lo conoso sto qua, si si lè lu! Dal fuori strada ormai fermo a quattro passi da noi una faccia uscì dal finestrino. Elo cussì che se parcheggia? Ou.. ho fat par cior el telefono.. croc dentro el foss La faccia rientrò e disse qualcosa ad altre facce. Come risposta le portiere si aprirono e tre tipi sorridenti scesero. Me par che l’ultimo bicer el te gà fato mal Come fatu a saverlo? Perché lè sempre cussì, lè sempre l’ultimo chel te frega, quei prima noi conta (?!) ti te gà da eser el più inteligente qua Gatu na corda? Un traino qualcossa? Gò bira! Dai che se fasen na bira.. ciapè qua. Vara gò anche formaio Dal cofano della panda apparirono: una motosega con tanica di benzina, un quarto di forma di formaggio ed uno scatolone di birra. Vedo che te gà viveri Stavo andando a taiar legne qua de la boscheta Te pol star fora tre giorni co tuta sta roba qua Ciapa un toc de formaio, lè bon, senti mo..
Bon veramente Ei vardè un trator. Quel li l’ha sicuro qualcosa, vutu che un trator nol abi drio na cadena na roba Varaa.. a lè Toni Meloc col fiol. Ei tonii Cosssa sucedelo qua? Ou.. ho fat par cior el telefono.. croc dentro el foss Toni atu qualcossa par tirarla fora? Gò un toc de cadena coi ganci se te vol Oro oro, ei riva n’altra machina Ah lè i me amici, quei del telefono Comincia a esser frequentà sto posto Bon giorno a tutti. Cossa atu combinà qua? Sotu andà dentro el foss? No te scampa niente a! Ti invese te ga da eser el più scaltro. Ciapa qua, meti in boca un toc de formaio che lè meio No no Ciapè anca na bira Ou dai che la gò ganciada, dai che la tiremo fora, monta dentro Stefano chel va in retromarcia col trator Pronti qua Dai che la vien, dai dai.. eco. Bon bon te son fora In che senso? No digo co la machina Aa.. ciapa qua na bira, ciapè qua formaio Stefano tirete in parte che lè na machina che là da pasar Ma lè un dei Buranel, quel li lè quel chel lavora ala Sanussi. Eila Buranel Sa elu u chi, na fiesta? Ou.. ho fat par cior el telefono.. croc dentro el foss Ee, chel fosal u li a leis propitu.. Giust! A lè proprio giust pa andà dentro, a lè maledeto, el cede de colpo Ma no tu has neancia frenat! Ou.. ho fat par cior el telefono.. ciapa qua na bira No no, hai da si a ciasa Dai ciapa qua! No voi vado via. Ma stait atens che ve ten de uoli Lè andà via.. a lè andà via veramente! Quel li l’ha chiuso co mi, no lo saludo più. Ciapè qua formaio Bon ades vado via anca mi, devo ingrasar el trator Ciapa n’altra bira No vado via se vedemo, va pian e sta a destra Ou, come sta a destra? Più a destra de cussì!? Andemo via anche noi va, lè meio, che qua la ga ciapà na bruta piega, so gia mi come che la va a finir, meio che andemo Bon anca noi lora, se vedemo Alla prossima adunata, gavenio da spetar tant Stefano? Ou.. gò fat par cior el telefono.. Quel giorno ho ribevuto una birra dopo tanto tempo che non lo facevo, e non l’ho fatto in occasione di chissà quale grande evento, ma con una compagnia creatasi dal nulla in pochi minuti e scioltasi in altrettanti. Ci siamo trovati in mezzo al nulla, tutta gente con cui ci si era persi di vista e per incredibili coincidenze ci siamo ritrovati quel giorno, quel momento, in mezzo alla Meduna. Quale migliore occasione per bere una birra, mangiare un po’ di formaggio buono e fumare una sigaretta. E poi.. potevo non farlo? Stefano me l’avrebbe permesso?
PANKA A SCUOLA
A LEZIONE DI VITA Gli alunni della 2Aso dell'Istituto Flora all'indomani dell'incontro con i Ragazzi della Panchina “Sentendo parlare i ragazzi delle loro esperienze siamo riusciti a percepire la loro fragilità e quindi anche perchè hanno fatto questo. Ci sarebbero molte altre cose da scrivere ma sono difficili da spiegare e con queste poche righe volevamo ringraziare i ragazzi dell'associazione per aver avuto il coraggio, la voglia e la pazienza di raccontarci le loro storie che ci sono servite da insegnamento. Grazie”. Cristina, Giada, Gilda, Laura,Maicol e Susi “È stato molto istruttivo perché al contrario di quello che pensiamo, anche le sostanze che noi consideriamo “droga leggera”come la canna creano indipendenza. È stato interessante ascoltare le loro vite e tutte difficoltà vissute mentre si drogavano e quando si disintossicavano. Infine abbia-
mo capito che ci si può divertire senza sostanze che possono rovinare la vita”. Linda, Sara e Jennifer “Noi siamo liberi di fare ciò che vogliamo nella vita ma ci sono scelte che è meglio non fare e la droga è una di queste perchè se non si riesce ad uscire da quel giro il prima possibile c'è il rischio di esagerare con le dosi e morire; infatti una scelta e anche quella di smettere e accorgersi che la vita è bella senza fare scelte fare che continuando a ripeterle possono rivelarsi dannose”. Kevin, Serenella, Anna, Giulia, Cristina, Alex, Laura e Cristian.
L'APPROFONDIMENTO ————————————————————————
NOI .... GIOVANI di Luca Marian Chi sono i giovani di oggi? Qual è il loro aspetto, le emozioni che colorano i loro pensieri, le bussole che scelgono come orientamento? Sono domande che in occasione di questo approfondimento di Ldp abbiamo deciso di girare, sottoforma di questionario, direttamente ai protagonisti della nostra indagine: ovvero i ragazzi dai 15 ai 25 anni che vivono nella nostra provincia e che abbiamo incontrato in diversi contesti, dalla scuola al centro di aggregazione, dalla stazione delle corriere alla sede della nostra associazione. Un campione di risposte di cui nelle pagine successive abbiamo scelto di pubblicare quelle più significative, lasciando ai ragazzi la parola e al lettore l’interpretazione della stessa. La domanda non è di certo originale, dato che chi siano i giovani se lo sono chiesto puntualmente tutte le generazioni una volta diventate adulte, quasi a voler segnare un confine tra “noi” e “loro”. Ciò che cambia sono le definizioni, gli interessi, l’interazione con il tessuto sociale e sicuramente il sentire. Chi sono dunque gli hippy, i rocker o i mod, i punk o i paninari, i dark o i gabber, i grounger o i metallari del 2010? In modo semplicistico con la parola “Truzzo” si può indicare una persona appartenente alla cultura moderna "house" o una persona amante delle discoteche, della musica techno e, negli ultimi anni, anche chi predilige macchine con elaborazioni o impianti audio modificati. Gli “Emo”, d'altra parte, ascoltano di solito musica alternativa e anch'essi prestano molta attenzione al look, che è androgino, con frange asimmetriche e trucco sugli occhi per entrambi i sessi. Nella lettura dei circa 60 questionari consegnati il look, appunto, è risultato un elemento da sottolineare: il definirsi in base all'aspetto e allo stile piuttosto che alle idee sottostanti (“Io sono Truzzo perchè me lo sento dentro, e soprattutto dagli abiti che porto...”). L'elemento fondamentale sembra il basarsi sull'esteriorità nell'argomentare la maggior parte delle questioni poste, ad esempio la descrizione di sé, descrivendosi a prescindere dai propri obiettivi di realizzazione attraverso il
modello scelto, spesso, inoltre, facendolo per negazione (“sono Truzzo perchè non mi piacciono gli Emo...”). Per questo motivo persone non particolarmente attente al proprio look, o non simpatizzanti per l'una o l'altra “cultura” si sono spesso espresse in modo molto sintetico, dando la sensazione di non volersi raccontare ad un livello “altro” rispetto a quello di adesione ad un determinato canone suggerito dalla tendenza del momento. Le risposte si sono talvolta dimostrate sintetiche, inoltre, probabilmente anche perchè i giovani d'oggi non si sentono in generale portatori di un desiderio di comunicare un cambiamento che trascenda il proprio “guscio vitale”. Assorbono ciò che basta al proprio vedersi allo specchio in modo ammiccante e convincente. In questo trova forse ragione d'esistere il diffuso disinteresse per la politica, per la religione, per la lettura di quotidiani, in favore di mezzi (internet, facebook) con i quali amplificare la sensazione di poter entrare in contatto con il mondo intero restando seduti in camera propria. Forse anche i giovani respirano un'aria in cui non c'è sudore e bandiere che sventolano, ma uno strisciante qualunquismo, i mille click di un mouse e tanta velocità, diventata, per assurdo, quasi paralizzante. Insomma la dittatura dell'immagine sta svuotando di contenuto e di propositività l'agire dei giovani? Davvero i giovani d'oggi sono diversi da quelli di un tempo? Potrebbe sembrare, anche se forse è un'illusione ottica. Ogni società è in evoluzione, ed è quasi ironico e dolce vedere come i giovani siano nello stesso tempo motore del cambiamento e ansiosi segugi timorosi di rimanere indietro. Forse anche oggi i giovani semplicemente cercano un modo per rispondere alle domande di sempre, che tutti ci siamo posti in tutte le epoche, vestendo nei colori degli abiti una qualche verità sussurrata inconsapevolmente, come il desiderio di essere protetti da un mondo che alza l'asticella, tutto questo aggrappandosi ad un treno che pensano di sicuro non passerà più, ma che, probabilmente, l'ultimo non sarà.
... quelli del nuovo millennio
FEDERICO, 22 anni di Pordenone
E’ disoccupato, single, bicicletta e ginnastica sono gli sport che di solito pratica, la moto uno dei suoi hobby. Di politica non si interessa, così come nemmeno di religione. In questo caso però dice: “Ho una mia concezione e mi considero di mentalità aperta”. Ogni tanto gli capita di vedere un Tg.
Ti senti più Truzzo o Emo e perchè? Mi sento più Truzzo. Secondo me essere Truzzo è principalmente uno stile di vita basato sul divertimento senza pensare troppo al futuro e avendo questa leggerezza anche nel rapportarsi con le persone. Ci piace andare alle feste con della musica “spinta” e ballabile e conoscere ragazze. Gli Emo non mi piacciono. Sono dei gruppi di persone all’interno dei quali le distinzioni sessuali sono meno marcate e c’è maggiore ambiguità nei comportamenti, ad esempio anche a livello di look: smalto, trucco, tintura per capelli anche per i ragazzi, frange enormi, capelli sparati in aria...Tutto questo mi sembra una forzatura nel modo di apparire. Non condivido questo modo che loro hanno di esprimere le emozioni, ad esempio nella sofferenza e nel pessimismo. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi? Internet la vedo come un’opportunità di conoscere nuove persone per poi incontrarsi. Secondo me invece non è una cosa positiva usare il computer come un modo per rifugiarsi in un mondo virtuale. Sui giornali e la tv mi sembra tutto enfatizzato per far notizie e vendere. Pregi e difetti degli adulti? Un difetto degli adulti è che spesso pensano di avere una maggior forza nel sostenere le proprie opinioni solo in base alla loro esperienza e alla loro età. Nonostante questo mi trovo bene con loro perchè le loro maggiori esperienze sono fonte di insegnamento. Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Un signore “pien de schei”. Fare di uno dei miei hobby o passioni la mia professione, ad esempio personal trainer o istruttore di qualche sport. Mi piacerebbe anche aprire un locale, dove ci sia ogni sera il pienone, per stare in mezzo a tanta gente. In futuro mi piacerebbe diventare papà, e avere un “bel pezzo di moglie”.
ALEXANDRA 17 anni di Azzano Decimo
CLAUDIA, 15 anni di Valvasone
Di nazionalità rumena, studia al liceo psico-pedagogico. Si allena a pallavolo due volte alla settimana, ha il fidanzato e nel tempo libero ascolta musica e legge. Tra i suoi interessi c’è la religione e l’attualità: ama infatti tenersi aggiornata grazie ai mass media. Quanto invece alla politica, confessa: “Proprio non mi piace”.
E’ studentessa all’Istituto d’arte. Dice no a tutto: non pratica sport, non hai il ragazzo, non si interessa di politica né di religione. A volte le capita di vedere un notiziario e in assoluto le piace dormire.
Ti senti più Truzzo o Emo e perchè? Sinceramente non mi sento particolarmente né l'una né l'altra, però ho più dell'Emo poiché sono una ragazza solitaria, che ama i propri amici per cui farebbe di tutto. Certo non mi deprimo però mi piace pensare alla mia vita e a ciò che mi appartiene. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi? I mezzi di comunicazione mi legano al mondo che mi circonda, che non conosco, che magari vorrei conoscere meglio e non ne ho l'occasione o l'opportunità. Mi sento parte di questo universo, e so cosa e chi mi circonda. Pregi e difetti degli adulti? Sanno consigliarti e aiutarti quando ne hai bisogno, visto che le loro esperienze le hanno già fatte. Difetti? A volte dimenticano di essere stati anche loro giovani. Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Da grande?? Ho tanti sogni, diciamo che ho sogni XXXXL. Vorrei diventare mamma e moglie, avere una famiglia felice e unita, basata e fondata sull'amore e sulla fiducia. Ecco come mi vedo da grande: sposata con il ragazzo che amo e mamma. Sul profilo lavorativo mi vedo come psicologa per bambini o disabili. Voglio avere un futuro felice e tranquillo, so che ci saranno momenti difficili, ma vicino a coloro che amo e mi amano ce la posso fare.
Ti senti più Truzza o Emo e perchè? Emo anche se mi definisco alternativa, ascolto rock, punk metal e anche emocore, non mi piace il modo di essere dei Truzzi perchè non mi piacciono le disco e perchè per me sono fatti tutti con lo stampino, cioè sono tutti uguali. Gli Emo invece si vestono meglio, hanno uno stile più personale. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi ? Seguo la Tv (mi piace Mtv) e navigo su internet. Secondo me la vita oggi con internet è più semplice. Adesso è più facile avere amici, ma spesso sono falsi amici, perchè con internet non conosci le persone veramente. Pregi e difetti degli adulti? Gli adulti sono rimasti indietro, non capiscono che siamo nel 21° secolo e che chiunque può vestirsi come vuole senza che gli altri giudichino. Non è giusto che gli adulti pensino male dei propri figli. Gli adulti non hanno pregi, sono solo dei rompiballe. Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Non ho un'idea del mio futuro e penso che non l'avrò per tanto, ma di certo non mi vedo né sposata né con figli.
GIACOMO, 16 anni di Pordenone
ALEX, 18 anni di Brugnera Attualmente è in cerca di un lavoro e quanto alle donne si limita a dire: “Esco con qualcuna”. Per lui niente politica, né religione. L’attualità la segue al Tg e quanto al resto il tempo libero lo dedica alla pratica delle arti marziali e alle uscite in disco con gli amici.
Studia al liceo classico e gioca a basket, suo hobby principale. Si interessa poco di politica, per niente di religione, ma è abituato a tenersi informato su ciò che accade leggendo giornali o ascoltando i Tg. Libero da impegni sentimentali, ama divertirsi con gli amici e ascoltare musica. Ti senti più Truzzo o Emo e perchè? Essere Truzzo significa ascoltare musica house e uscire un sacco con gli amici, mentre essere Emo essere depressi e chiusi in sé. Gli Emo sono masochisti: dopo eventi traumatici si deprimono e si tagliano per trasferire il dolore emotivo a quello fisico. Io mi sento più Truzzo perchè sono legato alla musica e alla mia compagnia. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi? Attraverso internet e i social network i giovani si fanno un'impressione diversa rispetto a quella reale e tendono a estraniarsi dal mondo. In genere trovo differenze tra le notizie presenti nei vari giornali, io ne leggo diversi e poi cerco di farne una “media”. La Tv ormai è un mezzo di comunicazione solo per rincretinire le persone. Anche se sappiamo che certi programmi sono stupidi, comunque, spesso li guardiamo lo stesso. C'è anche qui un farsi del male (come gli Emo), questa volta livello cerebrale. Pregi e difetti degli adulti? Oggi si parla meno con i genitori, si preferisce dire le cose agli amici (spesso virtuali). Gli adulti non ti ripagano a sufficienza del lavoro (scuola) e anche se sanno di aver fatto le “cazzate” non lo ammettono di fronte a noi per essere dei punti di riferimento e farci rigare dritto. Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Vorrei avere una famiglia, non mi piacerebbe avere una vita solitaria. Riguardo al lavoro: vorrei un lavoro dinamico, dove potermi relazionare con altre persone, non centrato solo sul mio benessere ma anche su quello degli altri.
DINO, 15 anni di Chions Nella vita studia e gioca a rugby, la sua passione. Dice di essere un single, “impegnato” un po’ con tutte, di interessarsi di politica, la sua, e di rispettare tutte le fedi. Segue l’attualità quando capita e in cima ai suoi hobby ci mette il riposo. Ti senti più Truzzo o Emo e perchè? Truzzo, perchè mi piace la musica truzza e l'abbigliamento colorato, e non Emo perchè sono dei figli di papà e si tagliano le vene perchè soffrono, e da grandi diventeranno capi e direttori che comanderanno. Comunque anche se il mio stile tende ad essere Truzzo ci metto anche uno stile un po' mio. In generale, comunque, penso che questi momenti e queste mode, nello sviluppo di ognuno, vengano poi abbandonati. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi? L'informazione è tutta una mafia, è fatta solo per interessi propri dei potenti, ma alla fine ci aiuta ad andare avanti. Facebook ad esempio mi ha fatto conoscere molta gente e mi ha fatto anche lavorare, ma la cosa più brutta è che la gente si fa i “cazzi” miei. Pregi e difetti degli adulti? Io oggi sono in marina e mia mamma lo sa perchè è comprensiva, tra noi c'è un forte dialogo e con lei mi confido, mentre se mio padre mi becca mi ammazza... Penso che gli adulti in generale cerchino di farci mettere la testa a posto, ma a volte comprendono le nostre “pazzie” perchè anche loro da giovani ne hanno fatte di cretinate! Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Vorrei diventare una persona importante e buona, ma senza farmi mettere i piedi in testa da nessuno.
ELISA, 18 anni di San Giovanni di Casarsa Studentessa del liceo Majorana di Pordenone, non è proprio quella che si dice un’amante dello sport. Le attenzioni le riserva piuttosto al suo fidanzato, e ai suoi amici, compresi quelli del gruppo Scout di cui fa parte.. Di politica non si interessa, di religione invece si e quanto all’informazione, la cerca qualche volta nei telegiornali. Ti senti più Truzza o Emo e perchè? Mi sento più Truzza, se proprio devo scegliere. Gli Emo sono definiti “depressi” e non mi sento parte di questa categoria perchè mi piace godermi la vita e cercare di affrontare da sola e in modo intelligente i miei problemi Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi? Il mezzo che più seguo è Facebook perchè riesco a trovare vecchi amici, tipo delle medie. A volte vorrei non essermi mai iscritta perchè perdo un sacco di tempo che potrei impiegare in modo differente. Alla sera guardo anche la Tv, ma non giornali e Tg perchè non mi interessano. Preferisco programmi poco impegnativi (Grande Fratello, La pupa e il secchione, Chi vuol esser milionario...). Pregi e difetti degli adulti? Con gli adulti non ho un buon rapporto perchè non riesco a parlarci, le nostre idee e visioni di vita non sono affatto compatibili. Ogni cosa che dicono la prendo come una critica. Sarà l'età, ma anche coi miei genitori non trovo feeling! Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Da grande mi vedo sposata, con figli. Sarò psicologa e avrò una mia famiglia cresciuta e educata secondo i miei valori.
Ti senti più Truzzo o Emo e perchè? Io sono Truzzo perchè me lo sento dentro, e soprattutto si vede dagli abiti che porto. La differenza tra Truzzi e Emo è che noi abbiamo il nostro stile tutto colorato, con collane e braccialetti di colori strani e soprattutto tipi di capigliatura diversi, mentre gli Emo sono tutti dark e soprattutto hanno l'usanza di tagliarsi, sono sempre tristi, non aprono mai bocca e non escono molto a divertirsi, al contrario di noi Truzzi che siamo aperti e usciamo sempre. In pratica dal mio punto di vista e da quello di molte persone hanno una vita monotona e noiosa. Spesso comunque la cosa centrale è l'aggregazione. A volte persone emarginate e considerate sfigate scelgono dei modelli di comportamento o look per sentirsi parte di qualcosa. Cosa pensi, cosa ti piace e cosa segui dei mezzi di comunicazione di oggi ? Riguardo alla televisione penso sia un modo molto efficace per mandare informazioni ecc... e anche molto influente. I giornali non sono molto seguiti dai giovani, piuttosto noi usiamo internet con Facebook,e le chat che sono molto utili per conoscere persone ecc... Pregi e difetti degli adulti? Secondo me gli adulti (non tutti, però la maggior parte) sono troppo ossessivi nei confronti dei propri figli ed è per questo che la maggior parte dei figli è ribelle e non segue le regole perchè più si impedisce una cosa più la si fa... mentre i genitori un po' più permissivi crescono figli un po' più normali e equilibrati, essendo che hanno qualche libertà in più. Come ti vedi da grande, cosa vorresti diventare? Non ho le idee molto chiare essendo che ho appena finito la scuola...per ora prendo quello che arriva, anche se mi piacerebbe lavorare in un negozio di abbigliamento, insomma vorrei buttarmi sulla moda.
QUANDO AD ESSERE GIOVANI ERAVAMO NOI In una Pordenone anni Settanta più piccola e senza cellulari e computer ci sentivamo degli eroi di Ennio Rajer Dovrei raccontare degli anni ‘80? Ho 52 anni, molti ricordi sono sepolti, ma ci posso tentare. Poco tempo fa un tizio mi saluta:“Ciao, come va?”, dice. Io lo guardo, mentre mi parla dei bei tempi, della compagnia, della Nerina, di questo e di quello, ma non c’è alba: non mi ricordo un bel niente. Lo assecondo, annuisco mentre lui continua a descrivermi volti e situazioni, ma riesco solo a ricordare il punto di ritrovo, il mitico bar Municipio di Pordenone ed il suo gestore, Bruno, che ha speso tutta la sua vita come barman, perfetto nella sua professionalità, cinquant’anni spesi dietro un bancone. Pordenone era piccola, ma di certo migliore, soprattutto lo era la gente. Se avevi sete, “no problem”, c’erano fontane d’acqua fresca a bizzeffe, addirittura potevi entrare in un bar e, se lo chiedevi con gentilezza, potevi berti un bicchiere di acqua naturale, gratis. Il motorino potevi fartelo e disfartelo, non c’era l’obbligo della targa e nemmeno quello del casco e questo, sotto lo stretto profilo della sensazione di libertà, per un centauro appassionato come me, non è cosa trascurabile. Oltre a tutto questo, molti altri fattori, economici e sociali, rendevano la vita più semplice per la gioventù. Penso che adesso la vita per un giovane sia molto più complicata, impegnativa e deludente, solo che non se ne accorgono. D’altronde come potrebbero? Sono venuti al mondo “l’altro giorno”! Una cosa rimane immutata, quella voglia di vivere, l’entusiasmo e le passioni che li spingono, come il motore di una “Formula uno”, a muoversi freneticamente nelle vie e nelle piazze, indaffarati come formichine operose. Sono belli, curati, vestiti bene, con il cellulare in tasca che utilizzano con maestria, quasi fosse una protuberanza del corpo, una terza mano intelligente. Onestamente provo una piccola vena d’invidia nei loro confronti, anche perché io ho sprecato tanto tempo nel correre dietro a vicende negative, in una forma di autolesionismo non ho dato ascolto alle persone giuste. D’altro canto, il futuro per loro, a mio avviso, non è affatto roseo, la crisi che sta strozzando l’Europa e molti altri paesi sviluppati è la punta di un iceberg che sta affiorando inesorabilmente. Trovare una collocazione nel mondo del lavoro diventerà un’ardua impresa. La fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80 sono stati, per me, il periodo più felice della mia vita. Penso lo sia stato anche per i miei amici e per chi mi era vicino dato che quello che possedevo, sia materialmente che “spiritualmente”, lo condividevo con loro. In cambio ottenevo amicizia, stima, considerazione ed ammirazione. Nel maggio
del 1976, a 18 anni ed un giorno, dopo aver speso diecimila lire in tutto, avevo la patente B in tasca. Ho comprato e rivenduto una quantità di moto e macchine tale che nemmeno io non ricordo con esattezza come abbia avuto il tempo ed il modo di farlo e con quale ordine cronologico. Ricordo bene alcuni episodi e personaggi e vorrei avere la capacità di trasmetterli telepaticamente, con tutte le immagini, gli oggetti, le facce, le corporature, gli odori ed i colori, i sentimenti e le sensazioni. La Comina, l’ampio spiazzo sterrato in periferia di Pordenone, era il nostro santuario, con buchi e collinette era abbastanza grande per sfogare la passione per il motocross, il sabato pomeriggio eravamo numerosi, un piccolo esercito di centauri. Avevo costruito un go-kart artigianale, motore 150 cc due tempi a tre marce smontato da una vecchia vespa, correvamo lontani dalla pista per le moto, nello sterrato piano, a tavoletta potevi sterzare di colpo, il veicolo si imbarcava, le ruote all’esterno si alzavano da terra, ma non si “cappottava” mai. Ricordo una sera che Ezio, poi diventato vigile urbano a Cordenons, stava con due amici comuni al bar dove si poteva ascoltare musica country-rock. Io arrivai con la mia auto, loro con una vecchia Fiat 600. “Perché non ci facciamo un paio di derapate in Comina?”, dissero. Non lo avessero mai detto! Con il piglio dell’esperto pilota mi misi alla guida della 600, gli altri tre a bordo riponevano incondizionata fiducia nelle mie doti di guidatore. All’inizio fu uno spasso, i fari illuminavano ben poco le piste e le curve apparivano all’improvviso, colpi di freno, scalate, derapate ci coinvolgevano, tra emozioni di paura, sollievo, divertimento: meglio del lunapark. Improvvisamente, in terza piena, mi apparve la buca, ampia, inaspettata ed inevitabile, ci entrai dentro in frenata, la macchina perse aderenza e si intraversò, poi iniziò a ribaltarsi, quando si fermò adagiata sul fianco, uscimmo dalla portiera come gli astronauti della Gemini 7, nemmeno un graffio, più divertiti che preoccupati. Alla fine della fiera quello che mi resta nel cuore di quel periodo è un tesoro inestimabile di sensazioni vissute intensamente. Sono sicuro che molti miei coetanei lo possono capire e condividere con me nel loro cuore e nella loro mente. Nel nostro piccolo siamo stati degli eroi, quello che abbiamo fatto è stato illuminato dal sole, la luce riflessa è partita dalla terra verso lo spazio infinito. Sta ancora viaggiando incontrastata, intoccabile, inattaccabile, ammantata di gloria.
IL VISIONARIO: REAL LIFE In treno, di fianco a me due madri e i rispettivi figli adolescenti. “Allora Amsterdam?” . “Ah benissimo! Van Gogh poi è la mia passione..” “Mamma, andiamo in bagno” “Sì ok… E poi ti dirò, adesso che non sono qua i ragazzi, che una cannetta me la sono anche andata a fare al coffee shop. Mi è toccato dire a Elisa che ero stanca una mattina e l’ho lasciata andare in giro con suo fratello. Sai com’è loro manco sanno cosa sono ‘ste robe da sessantottini..” “Ahahaha..” Pochi minuti dopo.. “ Com’era il bagno? Pulito?”
“Treno,mamma”. “Mi sa che devo andarci anch’io”. “Vengo con te”. “Insomma ti dicevo che non sapevo come togliermi mia madre dai coglioni per andare al coffee shop. Per fortuna che una mattina era stanca. Io e mio fratello l’abbiamo mollata in albergo e ci siamo tirati su due botti da paura. Meritava.” “E quando siete tornati non si è accorta di niente?” “Figurati se lei si immagina. Mia madre, ma l’hai vista? Quando siamo tornati dormiva come un ghiro”.
INVIATI NEL MONDO
Piepaolo Mittica "Benvenuti all'inferno" In anteprima per Ldp, il fotoreporter pordenonese racconta la vita dei minatori dell'Indonesia di Milena Bidinost “A sud dell’isola di Java, in Indonesia, esiste un vulcano chiamato Ijen. All’interno del suo cratere negli anni Sessanta i primi minatori piantarono dei tubi di metallo per estrarre lo zolfo. Da allora ogni giorno i minatori partono dal campo base ai piedi del vulcano e, dopo tre chilometri di arrampicata, discendono le pareti del cratere. Arrivati in fondo, con una lancia di metallo spaccano le lastre di zolfo in condizioni estreme a temperature che superano i 200 gradi, immersi in fumi tossici. I gas sulfurei bruciano i polmoni, la pelle, gli occhi. Li senti tossire, arrancare in mezzo alla nube tossica. Finita l’estrazione i minatori si caricano sulle spalle dai 60 ai 100 chili di zolfo e ritornano, con due ore di cammino, fino al campo base. Questo per due volte al giorno, per sei euro al giorno. Uno stipendio che permette loro a mala pena di sopravvivere”. Così Pierpaolo Mittica, odontoiatra spilimberghese per necessità, fotoreporter freelance di fama internazionale per passione, anticipa sulle pagine del suo sito internet (www.pierpaolomittica.
com) l’ultimo dei suoi inferni: luoghi dimenticati dall’informazione, in cui la gente vive al limite del concepibile. Luoghi che Mittica incontra nei suoi viaggi e che immortala nei suoi scatti. Dopo Chernobyl, il suo progetto più famoso, dopo l’India, ora il giovane fotoreporter pordenonese sta lavorando alla sua prossima mostra e alla sua nuova pubblicazione, che sarà distribuita dal suo prestigioso editore, la Trolley di Londra. L’Indonesia e i minatori della miniera di zolfo del vulcano Ijen sono i protagonisti di questi scatti, immortalati nel novembre del 2009 mentre era in viaggio assieme alla compagna Alice. Si tratta di un progetto inedito, che il fotoreporter ha scelto di anticipare in esclusiva a “Libertà di Parola”. “All’interno del cratere – è il suo racconto – lavorano circa 400 minatori, con turni di 15 giorni di lavoro e 15 di riposo. Sono uomini che non arrivano quasi mai ai 55 anni di vita, che vivono nei villaggi e che fanno ciò per guadagnare il 30 per cento in più di quanto guadagnerebbero dalla terra”. I
minatori vivono al campo base: un dormitorio fatto di baracche di lamiera prive di luce e acqua. “Abbiamo trascorso con loro 15 giorni, fotografando e riprendendo a video la vita nel campo e tutte le fasi del viaggio dentro e fuori dal cratere – prosegue Mittica –. La prima volta che siamo scesi è successo di notte ed è stato come ritrovarsi alle porte dell’Inferno. Un caldo umido insopportabile, le nubi tossiche che improvvisamente ti avvolgono, ti tolgono il respiro e la vista, bruciandoti gli occhi e impedendoti di fare un passo. Noi avevamo l’attrezzatura per proteggerci -
dice - e ci sembrava di morire. I minatori lavorano senza nulla”. Sono scorci di un luogo difficile da raccontare, perché al confine dell’immaginazione: altri fotografi di fama li hanno già rubati, come lo stesso Salgado, inserendoli però all’interno di lavori più ampi. Il reportage che nel 2011 vedrà la luce per mano del fotoreporter pordenonese sarà invece la prima monografia sullo Ijen, sul campo base e soprattutto su quegli uomini che si guadagnano la sola sopravvivenza combattendo i fumi tossici che escono dalla gola della terra.
Professione fotoreporter Quando ho realizzato questa foto io e Alice eravamo appena usciti dalla nube tossica. Ho visto la faccia sconvolta di Arsito, questo è il suo nome. Facevo fatica a tenere gli occhi aperti a causa del bruciore e delle lacrime e continuavo a tossire incessantemente. Arsito era così impegnato a cercare di respirare che non si è accorto della mia presenza, se non quando ci siamo incrociati e “consolati” a vicenda con una pacca sulla spalla per essere usciti dalla nube. Solo in un secondo momento ho pensato alla mia faccia, che doveva essere molto più sconvolta della sua. Pierpaolo Mittica
Per lui la fotografia è una risposta alla sete di verità di un pubblico di nicchia, che sa fermarsi a guardare e a riflettere. Pierpaolo Mittica, classe 1971, è odontoiatra e fotoreporter freelance. Ha realizzato reportage sociali in Cina, Vietnam, Cuba, Bosnia-Herzegovina, Kosovo, Serbia, Bielorussia, Ucraina, India, Indonesia. Due le pubblicazioni, “Balcani, dalla Bosnia al Kosovo” e “Chernobyl l’eredità nascosta”, da cui è nata una mostra scelta dal Chernobyl National Museum di Kiev in Ucraina per le celebrazioni del ventennale del disastro. Due i premi, il Friuli Venezia Giulia Fotografia (2006) e l'EIUC Photography Competition (2009). Le foto dell’Indonesia partecipano al Paducah Photo '10 exhibition allo Yeiser Art Center negli Stati Uniti.
PANKAKULTURA
LA CITTÀ SECONDO YOUTUBE Da Di Meo a I Tre Allegri Ragazzi Morti, ecco la Pordenone dell'era di internet di Elisa Cozzarini L’alluvione del 2002, un incidente d’auto, Gigi Di Meo in tv. Il più cliccato però resta il video sull’Ufo avvistato nel 2007. A cinque anni dalla nascita del sito più popolare al mondo, questa è Pordenone vista dal web Gli Ufo, Gigi Di Meo che «si cala le braghe in diretta», l’alluvione del 2002, Anna Ciriani alias madameweb, un incidente in Piazza Duca D’Aosta, i Tre Allegri Ragazzi Morti, la playlist con i video di Marco Travaglio, il Great Complotto, il country Christmas, etc: questa è Pordenone secondo YouTube. O meglio, questi sono i primi risultati video che compaiono digitando la parola chiave “Pordenone” nella maschera di ricerca di youtube.com. YouTube compie cinque anni
quest’anno e ogni mese si arricchisce di oltre venti milioni di nuovi filmati. Il primo fu caricato il 23 aprile 2005 e si intitola “Me at the zoo”, cioè “Io allo zoo”, dura 19 secondi e mostra un ragazzo davanti al recinto degli elefanti in uno zoo. Il video più cliccato della storia, invece, a oggi è “Charlie bit my finger – again!”, cioè “Charlie mi morde il dito – di nuovo!”. È stato visualizzato quasi 185 milioni di volte. Come mai un tale successo? Le immagini non mostrano altro che due bambini e quello più piccolo che morde il dito del più grande. «Le caratteristiche principali dei filmati di YouTube sono la brevità, l’accessibilità e la semplicità», spiega Marco Rossitti, direttore artistico de “Le voci dell’inchiesta”, festi-
Editoria, un futuro ancora da scrivere Mondadori: "Oggi siamo alle prese con ricerca di qualità e logiche di profitto. Quanto al domani, la nuova frontiera si chiama libro multimediale" di Guerrino Faggiani
val del documentario e inchiesta giornalistica organizzato da Cinemazero. Prosegue Rossitti: «Il contenuto dei filmati su YouTube è dimesso, spesso quotidiano e con la presenza dell’autore all’interno del video. Ricorda i primi film del cinema, come “Le repas de bébé”, “Il pasto del bambino”, dei fratelli Lumière, realizzato nel 1895, anche questo disponibile su YouTube». Tra i video che parlano della nostra città, quello più cliccato è “Video eccezionale UFO in pieno giorno a Pordenone”, caricato il 24 luglio 2007: da allora l’hanno visto ben 1.468.559 persone e il dato è del 1^ maggio. La descrizione è: «Eccezionale video di un Ufo che in pieno giorno sorvola i cieli della Val Cellina, Montereale
di Vajont PN. A detta degli esperti il miglior filmato dell’esistenza degli Ufo esistente al mondo. Tratto dal Tg di Antenna3». Non è l’unico video sull’Ufo di Pordenone, è solo quello più visualizzato. Altri vorrebbero dire l’ultima parola proclamando: “La verità sull’Ufo di Pordenone”. E poi ci sono tante altre miniverità, perché chiunque può pubblicare gratuitamente un filmato sul più noto sito di video sharing. C’è ippoperrita che mostra Pordenone dal suo terrazzo “from my house”, skullfriend che racconta la città natale sua e di bruschetta 93 filmandola col cellulare dal motorino e supera le 2 mila visualizzazioni. Se volete fare un salto nel passato cliccate “Pordenone 1975”.
“Imperi di carta e poteri forti” è stato il tema della serata dedicata alla grande editoria dalla rassegna “Pordenone Pensa”. Per sviluppare il tema, sul tavolo dei relatori assieme a Gianluca Vigo moderatore della serata, sono convenuti Martina Mondadori, consigliere di amministrazione dell’omonima casa editrice, e Martin Angioni, amministratore delegato di Mondadori Electa, l'holding specializzata nell'editoria dedicata all'arte. Sin dalle prime battute partendo dalla fondazione delle prime case editrici, i relatori hanno evidenziato l’importanza per la crescita di un paese, dei testi scelti e pubblicati dagli editori che diventava un’arma potentissima che ambiva a diventare di massa. Ma in quei tempi gli italiani piuttosto che alle librerie erano costretti a campi e fabbriche. Una scelta coraggiosa fu allora quella di portare i libri nelle edicole, pubblicandoli a stralci sui giornali. Da cosa nacque cosa e gli italiani cominciarono a farsi dei propri gusti e ad entrare nelle librerie per soddisfarli, fino a quando il libro fu pronto a camminare con le proprie gambe e pian piano diventare il fenomeno più o meno di massa dei nostri giorni, dove a detta di Martina Mondadori e Martin Angioni: “Anche se la regola del profitto regna sovrana, ogni casa editrice comunque si porta addosso il dna delle proprie origini e ancora svolge il proprio lavoro con passione ed etica come ai tempi pionieristici dei fondatori. “Ora le dinamiche sono diverse – hanno detto - non basta più la letteratura classica a reggere il sistema, le strategie sono più complesse ed incerte e richiedono dei veri professionisti di ruolo”. La ricerca continua di nuove pubblicazioni e di autori anche non di nome, richiedono però un forte tributo al prodotto di qualità. Pur di far introiti vengono pubblicati libri anche poveri di contenuti, ma di sicuro ritorno. In Italia i maggiori successi di incasso non derivano affatto dai classici. Però la legge del business obbliga a queste strategie. E infatti grazie a questo che gli editori possono pubblicare testi che altrimenti non vedrebbero mai la luce e lanciare dei perfetti sconosciuti. E’ un ruolo che loro stessi si attribuiscono di dovere. E a forza di pubblicazioni ogni tanto c’azzeccano e scoppiano delle stelle. Un esempio è Paolo Giordano che a 26 anni con il suo primo libro ha vinto lo “Strega”. L’editoria del futuro invece è un grande enigma, è in atto una rivoluzione epocale, la nuova frontiera si chiama “libro multimediale”, suoni colori e movimento, la tecnologia è ancora agli albori ma la strada ormai è inesorabilmente segnata. La carta stampata verrà surclassata? Secondo Martin Angioni il libro diventerà come una bella cosa da possedere, uno sfizio: “Come piace avere un bel paio di scarpe, allo stesso modo piacerà avere una bella copia di un libro”. Il futuro dunque è ancora tutto da scrivere.
Le "Espiazioni" di Renzo Quaglia Promossa da Rdp, la mostra è ospitata alla bastia del Castello di Torre fino al 27 giugno di Andrea Picco È la prima volta che i Ragazzi della Panchina affidano alla pittura il ruolo di strumento di comunicazione con la città. E significativo è il titolo che l’autore, il pordenonese Renzo Quaglia, 49 anni e un passato difficile, ha scelto per questa sua esposizione. “Espiazione”, è stata inaugurata il 29 maggio e fino al 27 giugno sarà visitabile nella bastia del Castello di Torre di Pordenone il sabato dalle 15 alle 19 e la do-
menica dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19. La mostra, come scrive la critica d’arte Chiara Tavella, “indica un passaggio e salda insieme la colpa, l’espiazione della colpa e la liberazione da essa perché possa finalmente aprirsi una fase nuova.” Se sul versante individuale i conti con se stesso sono in pari, questo tuttavia può non bastare se nell’intimo resta una sorta di colpa pubblica non saldata, di conto rimasto aper-
Un artista libero dalla colpa Dal carcere alla pittura, Quaglia rovescia su tela la rabbia di un vissuto non facile di Chiara Tavella L’arte è tante cose, per fortuna: è, o per lo meno è stata, bellezza, equilibrio, passione, concetto… ma anche impulso, istinto, inconscio, gesto che parte da tutto l’essere dell’artista e agisce sulla tela così che questa risulta quasi un’estrinsecazione di sé, un territorio dove permane l’impronta di un evento interno – alla psiche, o forse al cuore, o anche alla pancia, si potrebbe dire. Un’arte “di pancia”: lo è stato molta arte dal dopoguerra in poi, all’interno del vasto mondo dell’informale e delle sue ramificazioni, soprattutto quelle più gestuali come l’action painting. “Di pancia” è anche il lavoro di Renzo Quaglia, che rientra così in uno dei linguaggi più vitali dell’arte contemporanea, e questo non per studiata intenzionalità quanto per un’adesione profonda, forse addirittura inconsapevole, alle istanze più genuine di quel movimento. L’aspetto gestuale, di forte istintualità, si percepisce soprattutto nelle opere esclusivamente pittoriche, dove il segno si fa particolarmente dinamico e violento, un turbinare di segni, con le spatolate di nero che aggrediscono le pennellate colorate dello strato sottostante come se volessero cancellarle e ricoprire tutta la tela. Sembra di assistere a un combattimento corpo a corpo, nel corpo del colore, che non a caso in altre opere, in cui è utilizzata una caratteristica tecnica polimaterica, prende letteralmente “corpo” trasformandosi in rilievo. Qui il colpo di spatola affonda in una massa spessa di colore-materia, il gesto perde forse un po’ della sua velocità ma in compenso acquista il senso dello sforzo, dell’energia con cui è stato impresso e che si è resa necessaria per plasmare la materia resistente e inerte. L’origine ideale di questi lavori in realtà non è gestuale, sta in una gran-
to con il tessuto sociale, proprio perché il proprio percorso non è stato conosciuto e quindi riconosciuto come tale dagli altri. Emerge così dal profondo il bisogno di ricomporre anche una propria immagine sociale che restituisca quella dignità pubblica persa in quelle che sono a tutti gli effetti cerimonie pubbliche di degradazione (il proprio nome sui giornali, il carcere, la condanna sociale) e la necessità di un atto per così dire riparatorio, condiviso, pubblico. Ecco il perché della mostra. Nel passaggio dal “monstrum”, ossia qualcuno etichettato in quanto diverso della norma, che subisce quindi passivamente lo sguardo giudicante di chi rispetta la norma, alla “mostra”, ossia permettere volontariamente agli altri di accedere alla sfera più intima di sé, sta la sintesi di un percorso doloroso, in cui “si guarda dentro l’abisso e l’abisso ci guarda dentro”. E tuttavia tutto questo può non bastare, se il
cambiamento non modifica anche l’atteggiamento degli altri nei nostri confronti. Oltre ad essere opere di indubbio valore, le tele di Quaglia assumono quindi anche il ruolo di veri e propri manifesti, invitati illustri alla cerimonia che sancisce la fine della sua espiazione, l’estinguersi del suo debito sociale. Perché tutto ciò avvenga, e qui sta il ruolo dell’Associazione “I Ragazzi della Panchina” , è necessario che ci sia un mediatore tra i due attori, individuo e società. Qualcuno riconosciuto da entrambi che li porti ad incontrarsi in una cornice diversa da quella in cui si erano incontrati in precedenza. Qualcuno che ristabilisca la comunicazione tra due parti distanti tra loro, che permetta loro di conoscersi e riconoscersi a vicenda. L’apertura della mostra è anche l’apertura di un nuovo territorio d’incontro e di scambio, in cui ognuno porta la propria ricchezza ed è perciò indispensabile.
de tela astratta, stipata di minuscole forme geometriche intensamente colorate e incastrate le une con le altre, simili a circuiti elettronici o a una moderna metropoli vista dall’alto: un ingranaggio senza fine che riempie, con una sorta di horror vacui, tutto lo spazio della tela e dal quale non restano vie di fughe, un “meccanismo mentale” (la definizione è dell’artista) che acquista un senso simbolico e, come l’enorme macchinario di Tempi moderni, ma senza l’ironia di Chaplin, ingloba tutto ciò che gli si avvicina. Qualcosa di questo “meccanismo” resta anche in molti lavori polimaterici, in certi grafismi, certe incisioni come ruote dentate, certe file di tasselli che sembrano cremagliere, impresse nello spessore del colore. Ma il segno qui è più forte, si libera e finisce per avere il sopravvento, impazzando sulla tela come bora. Espiazioni è il titolo dato dall’artista a questa mostra, un titolo significativo, che indica un passaggio e salda insieme la colpa, l’espiazione della colpa e la liberazione da essa perché possa finalmente aprirsi una fase nuova. Ed è veramente un gesto liberatorio quello a cui si assiste, un gesto che rovescia sulla tela, spazio-simbolo del mondo, tutta la rabbia di un vissuto non facile e travolge, con questa sua selvaggia bellezza, ogni residuo del “meccanismo mentale” che ingabbia il nostro mondo tanto “bello e buono”.
DAL BON INTENDITOR...
«Il nome, Outlaw Kullander, racchiudeva i nostri orizzonti di gloria fatti di guai, solitudine, dignità, rabbia e poesia»
NOSTALGIA RAMARRA La domenica pomeriggio al Bottecchia il vero spettacolo era sulle gradinate. di Gigi Dal Bon “Certo, si può fare di meglio in un pomeriggio domenicale, se hai più di quarant’anni, una donna che ti stressa per spendere meglio e assieme a lei il tempo piuttosto che star con i soliti quattro fenomeni di tifosi”. E’ questo un pensiero che mi viene dettato dall’aria fredda che punge le ossa e dall’umidità che sale dal cemento freddo delle mini gradinate dello stadio. Un altro amico ci sta per lasciare, niente di grave si trasferisce altrove, ma noi perdiamo un’altra colonna portante, una voce che si faceva sentire molto bene anche fuori dal coro. Ormai il mini gruppo “Out-law” si è sciolto definitivamente. E va bene così, senza rimpianti. Il suo contributo “energetico” per rallegrare l’ambiente si era del resto esaurito da tempo. Il movimento era nato per colpa della passione verde nera di tre o quattro amici all’interno dell’associazione “I Ragazzi della pan-
china”: io “Capezzone” (ma quello vero e non la faccia da sberle che oggi fa da portavoce ad un’altra faccia da sberle), l’amico che parte e il gran “Muso da scagno che sponze” (solo quando è carico, ben si intende). Da un po’ di anni ci portiamo dietro nei vari stadi un sgualcito pezzo di lenzuolo quadrato con un ramarro al centro e la scritta “Aut-law-Pn”. Così per ridere, visto che la maggior parte dei simpatizzanti del gruppo ha precedenti penali; così per dissacrare pregiudizi e fare gioia di gruppo con una variegata fauna cittadina. Il nome ha vinto le primarie prevalendo sull’altrettanto qualificante “Kool-under-Pn” che effettivamente era troppo avanti. Così l’amico “Pugnetta”, artista bello, intelligente e culturalmente avanzato come ama definirsi, ha disegnato l’araldo, “el stemma della fameia ramarra”. I componenti per lo più ruotavano intorno al
Sert, chiaramente consumatori di sostanze, illegali e non solo, visto le birrette. Con gran bontà le varie società che si sono passate il timone ci hanno sempre fatto entrare gratis, così per noi era più facile richiamare personaggi allo stadio: già per molti di noi di soldi ce ne sono pochi in tasca e di certo non li avrebbero mai spesi per qualsiasi spettacolo che non avesse lo sballo incluso. E’ vero, il nostro stadio cittadino non è l’allegria del San Paolo, ma anche noi abbiamo un panorama di compagni non male, che si trovano volentieri, non tanto per la partita di cui a diversi frega poco, ma per il gusto di stare assieme. Tantissimi amici hanno avuto il piacere reciproco di accompagnarci in questi ultimi anni nelle grandi sofferenze e nelle piccole gioie dell’esistenza. Incontrandoci per strada o dopo un giro di telefonate, l’appuntamento era sempre fuori dallo stadio, settore
“Ramarro” gradinate popolari, un’ora circa prima dell’inizio. Alcuni sono venuti poche volte, altri per una o due stagioni, chi saltuariamente in base alle fasi lunari dell’umore, altri non ci sono più, spariti definitivamente dalla tribuna della vita. I volti li rivedo ancora qui sulle gradinate, rivivono nei miei ricordi, anche perché qui ognuno era libero di dare il meglio nello sfogo spontaneo di sé, restituendoci un’abbondante varietà di ben vividi ricordi. Nella memoria di questo vecchio che sono diventato risuonano ancora le voci e i volti di tanti compagni di avventura. Li rivivo al rallentatore, in una moviola personale: tanti momenti di sana e liberatoria allegria che ci voleva proprio, se non altro per dimenticare almeno per due ore il pensiero di esistenze problematiche. Per ognuno di noi, bene o male in tutti questi anni quelle ore di sano sfogo giovavano lo spirito delle anime perse. Certo quan-
do la partita andava male ci si incazzava pure ma almeno ci si sfogava un po’. Ogni domenica era condita dalla gustosa esibizione di quello che a turno si era carburato più del solito, regalando momenti memorabili. L’istinto animale, che l’uomo reprime nella quotidianità si liberava la domenica, come negli stadi delle grandi città così anche negli “stadietti” di provincia come il nostro. Con la differenza che noi abituali frequentatori della trasgressione non eravamo scesi a patti con la repressione degli istinti, che anzi allenavamo quotidianamente, così che la domenica lo spasso di qualche piccolo show era assicurato, e non generava certo violenza. In questo siamo certamente molto diversi dallo spirito dei grandi stadi, diciamo che siamo più ruspanti. Non potrò mai dimenticare il “Toto”, che ci manca tantissimo. Era un uomo che apparteneva alla vecchia guardia in via d’estinzione, aveva viaggiato tantissimo sia con il corpo che con la mente. Era un vero poeta. Quando parlavo con lui era come mettere le ali al cuore, era capace di astrarre e decontestualizzare tutto ciò che capitava attraverso la poesia di un bambino, persona veramente autentica, fragile e sensibile. Se né andato per sua scelta, lasciando dietro di sé un gran vuoto. Fra i tanti ricordi alla moviola lo vedo sventolare il bandierone nero-verde in una meravigliosa giornata di sole, lui che saltella allegramente su e giù dalle gradinate e intona una sua hit personale (forza eroina, forza eroina, forza eroina), strappando il sorriso di tutti i presenti, compresi i giovani della “Naonian-armi”, che rappresentavano la bella faccia della città e il cuore vivo della tifoseria, anche se ogni tanto qualcuno andava troppo sopra le righe e allora il loro capo storceva il naso e mi diceva che non era lì per fare l’assistente sociale, sono certo che non avrà molte altre occasioni nella vita di assistere ad esibizioni surreali come quella. A volte anche le donne ci allietavano della loro presenza in veste di compagne dei tifosi, solidali o rassegnate, oppure solitarie amazzoni di strada, pronte ad esplodere in urli di battaglia oltre al limiti della volgarità maschile: “Pordenone ce l’hai duro come un mattone” e sentirlo uscire con frequenza dalla bocca di una donna, credetemi, fa il suo effetto. L’autrice di questo slogan era un’amica, l’apprezzavamo così com’era, riconoscendo in lei tutta la forza e la fragilità del mondo, fuse assieme in una concentrazione di potenza esplosiva. Tutta la sofferenza di un’amica minata alla radice della vita e che malgrado tutto aveva la capacità di risollevarsi e andare avanti. Fino
alla penultima volta. O il grande “Lebombski”, spudorato come la sua bella faccia tosta, capace di parcheggiare l’auto all’interno dello stadio, tra quella del presidente e la pantera degli sbirri, lui, senza patente. Dotato di una voce da far tremare lo stadio, tanto smaliziata e finemente ironica, sempre rivolta ai giocatori mercenari o scarsi, al suo insindacabile giudizio di tecnico degli spalti. Dirigenti antipatici e alcuni giocatori presi di mira se lo ricordano molto bene. Senza mai dimenticarsi del direttore di gara con la classica battuta, arbitri da dirigere il traffico in camera di tua moglie, se qualcuno gli faceva notare che stava esagerando, la risposta era scontata: “Io pago il biglietto e dove che pago cago”. E che dire della simpatia dell’ormai accasato “Zozzo”, meglio conosciuto dagli intimi “Vutu do sciafe” come amava chiude-
re con stile le discussioni che lo scaldavano o che lo annoiavano. Poi le varie decine e decine di adolescenti: i “Rude Boys”, sani antirazzisti che ho avuto la fortuna di conoscere e con cui ho condiviso le domeniche consacrate alla causa “Pn”. Con tanta voglia di cantare, ironia, storia e colori della città. E “Fegato”? Che aspetta e spera in stretta compagnia la libertà o la chance di qualsiasi comunità terapeutica, per porre rimedio ai propri sbagli e ai guasti di leggi ordine e repressione ad personam, per i frequentatori del disagio sociale. Certezza della pena, che nel nostro bel paese è sicura solo per i poveracci sprovvisti di colletti bianchi o di famiglie borghesi pronte a scucire conti bancari per pagare avvocati in carriera politica per difenderli. Il pungente sarcasmo della “Perpetua” lo incrocio spesso in centro
e la dolce “Vedobeee” che era sempre pronta a cantar e fare su un boto, chissà dov’è ora: “Lampadina” e i suoi Depeche Mode, anche lui chissà dov’è ora. E “Caio” con la sua radiolina sintonizzata sul calcio dilettantistico. E il “Sordo”? Poi c’era anche il “Muto”, nel vero senso della parola. L’impeccabile “The First”, il primero sempre più in discoteca che allo stadio. ”Innominabile”, che veniva solo per tifare contro. Incontenibile l’energia dello “Zulù”, il “Pensilvenico” imbronciato che pensa ai numeri del lotto. “El Madur” e i suoi “Brother” sempre sulle ali dell’entusiasmo, il “Lord” anima culandera del gruppo, il “Pedro” e il “Checco” che va sempre via dopo il primo tempo, “El Putti” duro, massiccio e incazzato sempre. Oggi come è vuoto e triste il nostro stadio senza questi personaggi perdenti per il resto del mondo e la loro pseudo tattica per vincere. Tutti quelli che sono passati dalle vecchie gradinate di cemento ora coperte dalle nuove tribune, per questo teatro vivente a cielo aperto in un palasport al chiuso seduti al cospetto dell’educata e veloce intelligenza cestistica? È impensabile. Tutti assieme abbiamo formato un gruppo compatto e per niente scontato, spudorato, già il nome, “Aut-law Kulander”, è un programma che racchiude i nostri orizzonti di gloria, fatti di guai, malattie, inquietudine, depressione, disoccupazione, etichette, solitudine, sbronze, dignità, rabbia, poesia e soprattutto autoironia. Tutto questo senza pretese di comprendere fino in fondo la stessa passione e ansia. Altri tempi. Non si può far niente, ognuno è padrone del proprio destino. Tristemente ora che tutto questo è finito mi rendo conto di quanto sia stato importante per me. Ogni tanto mi sento un po’ ridicolo e mi stupisco di come mi lascio entusiasmare da questa storia dei ramarri, anche perché il più delle volte si vede uno spettacolo fiacco, lento in queste categorie, non avrei mai immaginato di emozionarmi per gambe che corrono, saltano, si scontrano, cadono rincorrendo una palla per un goal da niente. “Anche sta sera, festa verde nera”
KULLANDER BOYS Anche quest'anno gli amici e i ragazzi della panchina hanno rappresentato l'associazione al 5° torneo anirazzista di calcio a 5 di Stefano Venuto I Ragazzi della Panchina si sono impegnati nel Torneo antirazzista organizzato dal Circolo Libertario E. Zapata di Pordenone. Le date di gioco sono state il 5 ed il 6 giugno, lo scenario invece il campo sportivo di Villanova di Pordenone. Erano presenti 20 squadre di ogni origine e provenienza. Anche noi in realtà siamo scesi in campo a ranghi misti, con giocatori provenienti da Pordenone e provincia, altri direttamente da Udine e provincia, altri dal Ghana e non ultima una presenza colombiana. Insomma eravamo pronti per far pesare a tutte le altre squadre quel potere di integrazione, leggerezza mista a strapotere fisico, umiltà ma consapevolezza nei propri mezzi, responsabilità, grinta agonistica, intelligenza tattica sopraffina assicurata senza soluzione di continuità dal mister Bepy… Pronti via persa, pronti via persa, pronti via pareggiata, pronti via… via… a
casa! Ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso di buttarla sull’importanza dell’esserci, dello stare assieme, del divertimento, della condivisione. A dirla tutta questi erano i presupposti iniziali. Questo non solamente in quest’occasione sportiva, ma tutte le volte che I Ragazzi della Panchina “escono”… dalle loro paure, dai pregiudizi degli altri, dalle proprie case o dalla sede (che per molti risulta esser quasi la stessa cosa) fuori dal mondo sommerso che ci relega osservati e quasi mai conosciuti. Eravamo sul quel campo guidati dalla voglia di mostrare l’altro lato della medaglia, il lato oscuro della luna così affascinante perché nascosto e così pauroso, proprio perché nascosto. Certo che perdere così… al di là di tutto, ci ha fatto inca… volare!!! Grazie a Bepy, Davide, Nicola, Mauro, Gigi, Luca, Walmy, Massimo, Emanuele ed a tutti i simpatizzanti.
Hanno collaborato a questo numero
LDP - LIBERTÁ DI PAROLA Giornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009
—————————————— Guerrino Faggiani Rinasce nel maggio 2006 all’ospedale di Udine. Da lì in poi è blogger (www.iragazzidellapanchina.it/ gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche davanti al computer. “Cosa? Tagliare?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”
—————————————— Pino Roveredo "Attenti alle rose" è il suo ultimo regalo letterario. Capriole in salita, Caracreatura: nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Ha portato in turnèe la Compagnia Instabile a Napoli e Milano: eroico!
—————————————— Elisa Cozzarini È riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. Insomma, Freelance Amstrong
Direttore Responsabile Milena Bidinost Direttore Editoriale Pino Roveredo Capo Redattore Guerrino Faggiani Redazione Andrea Picco, Franca Merlo, Gigi Dal Bon, Ada Moznich, Luca Marian, Manuele Celotto, Elisa Cozzarini, Gino Dain, Mauro La Placca, Alessandra Gabelli, Chiara Tavella, Ennio Rajer, Stefano Venuto Editore Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone
—————————————— Gino Dain Un medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per scaramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta
—————————————— Mauro La Placa Bici, immancabile maglietta nera, occhiali da sole, jeans, testa rasata. Dentro di lui un intreccio di computer e fede, che lo fanno un uomo buono. Insomma: lo hacker che bontà!
—————————————— Luca Marian Basta doppi sensi sulla viola, di senso ormai ce n’è uno solo. memorabili le sue veglie con Andrea nella camera da cinque della compagnia instabile. Chissà chi sarà mai la prossima fortunata protagonista dei loro interminabili discorsi…
Creazione grafica Maurizio Poletto Impaginazione Ada Moznich Fotografie A cura della redazione Foto a pagina 4 e 12 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/ Main_Page
Stampa La Grafoteca Via Lino Zanussi 2 33170 Pordenone
—————————————— Ada Moznich Riconfermata presidente dell’associazione, la sua prima mossa è stata tentare d’ingaggiare Cannavaro coi Kullander. La seconda sarà fare una sede staccata a Dubai per seguirlo nella sua “scelta di vita”.
—————————————— Gigi Dal Bon Uno di quelli a cui i Ragazzi della Panchina devono tutto. Ramarro militante, ha scritto un libro, Karica vitale, che è il ritratto di una generazione. Chi entra in sede chiede: C’è Gigi? e Gigi c’è, sempre.
—————————————— Milena Bidinost Premessa: il direttore non si discute, si ama. Mai si sarebbe immaginata nella vita di finire a Napoli coi RdP e forse un giorno scriverà, di quell’abbraccio totalizzante. Ma a noi preme di più un’altra vicenda: che fine ha fatto, il tappetino del bagno?!?
—————————————— Marta Bottos e Tiziana De Piero Pur di disegnare in esclusiva con il nostro giornale hanno rinunciato a un faraonico contratto con la Disney. La storia dei RdP a fumetti sta riscuotendo un grande successo. Sono pronte per il grande salto. www.nerogatto.it per credere!
—————————————— Manuele Celotto Scrittore, nuotatore, scacchista, attore. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimenticato di uscire dalla parte.
—————————————— Franca Merlo O Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia. ilcannocchiale.it
—————————————— Andrea Picco Su Fb alla voce orientamento religioso ha scritto integralista juventino. Dunque non sa chi ha vinto quest’anno il campionato, la champion e la coppa italia. Non lo sa e non lo vuole sapere.
—————————————— Ennio Rajer Di nobile stirpe, il conte Rajer è avviato ad una fulgida carriera di scrittore. È l’unico ad essersi presentato in sede con le paste la prima volta che vi ha messo piede. Paste nel senso di bignè: i soliti maliziosi…
—————————————— Alessandra Gabelli Si mormora che quando era monella cantava in un gruppo pordenonese, ora da grande è solidale con il sud del mondo. Insegna italiano agli stranieri, che se avessero il voto la vorrebbero come sindaco.
Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: info@iragazzidellapanchina.it Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo della Fondazazione CRUP attraverso il Comune di Pordenone
Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone Tel. 0434 363217 email: info@iragazzidellapanchina.it www.iragazzidellapanchina.it Per le donazioni: Codice IBAN: IT 69 R 08356 12500 000000019539 Per il 5X1000 codice fiscale: 91045500930
La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00
—————————————— Stefano Venuto Il nuovo operatore che si è insediato a febbraio, ha ricevuto il battesimo da "Zio Franco" che appena visto lo ha insultato e lui gli ha risposto: "un attimo che apro la porta e poi ne parliamo" da quella volta sono amiconi.
PROVA A CALPESTARE L'ERBA DI UN PRATO A PIEDI NUDI I RAGAZZI DELLA PANCHINA CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALE DEI RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI PORDENONE