The west inside

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THE WEST INSIDE • VANNI GIANNOTTI

Mount Rainier National Park, Washington Per gli indiani del Nord Ovest il monte Rainier era Tahoma, ovvero “La Montagna”, il che suonava di per sé come qualcosa che esclude ogni dubbio. Anche per chi, ai giorni nostri, ha avuto il privilegio di salire i suoi crinali questa è “La Montagna” poiché, per la sua solitaria imponenza e per l’incomparabile bellezza, incarna il significato stesso del termine. Tra tutte le montagne che ho visto il Monte Rainier è quella che più di tutte esprime una propria personalità.

Anche il Monte Mc Kinley, in Alaska, deve avere una gran bella personalità ma non posso dire che sia tra le montagne che ho visto poiché, seppur trovandomi sotto il monte, questo era coperto dalle nubi, come accade quasi sempre. So che la cosa parrà strana giacché il concetto di personalità è legato a quello di persona, ma se verrete qui, meglio se più di una volta, inizierete a pensare che tutta la vita ruoti attorno al monte, che tutti gli esseri viventi siano in qualche modo


legati ad esso ed influenzati da questo sovrano capriccioso che deciderà se dare o prendere, se dispensare o distruggere.   Anche il Rainier, come il Mc Kinley riesce a creare un proprio microclima, a volte indipendente dal contesto che lo circonda, però le possibilità di vederlo bianchissimo e svettante sono decisamente superiori. Il suo profilo, ammantato di candidi ghiacciai, incombe sull’oceano regalando, nelle infrequenti giornate di sole, una veduta superba a bordo dei traghetti che solcano la baia di Seattle. Questo è forse il principale problema del Rainier, ovvero il fatto che è troppo vicino alla popolosa costa dello stato di Washington e, specialmente durante il weekend, da Seattle, Tacoma, Olympia, Everett o Bellingham le strade si riempiono e molte più persone si dirigono al monte.

piranno. Qualche giorno di anticipo, e la strada che conduce ad Eunice Lake, il luogo prediletto dai fotografi del Rainier, potrebbe essere ancora chiusa per neve.     Qualche giorno di ritardo, e la miracolosa profusione di lupini azzurri, pennelli rossi indiani, ed altri fiori alpini che nascondono quasi completamente il verde dei prati a nord di Paradise, potrebbe essere già sfiorita. ùIn quel periodo la luce è al massimo, così limpida da far risaltare i colori in modo inusuale. I ghiacciai sono così vicini che sembra di poterli toccare e la vita, nella breve estate a queste altitudini, è un’autentica esplosione, un trionfo di gioia e bellezza.

Non mettetevi per nessuna ragione in auto il venerdì pomeriggio di un bel giorno d’estate, in quel caso tutto quello che potrete vedere sarà faccia del vostro vicino, la targa dell’auto davanti o il continuo andirivieni di aerei sopra la vostra testa mentre sarete fermi sulla “5” o sulla “495”.

Non meno della candida vetta si rendono

indimenticabili le pendici della montagna. Già dagli ingressi meridionali del parco di Nisqually o di Ohanapecosh si entra in una delle più incantevoli foreste del mondo, le old growth forest, cioè le foreste di antica crescita.   Dopo che avrete opportunamente scelto un bel martedì o mercoledì, arrivare al Rainier sarà facilissimo, da Seattle un’oretta o poco più. Quel che vi resta da decidere è da quale ingresso entrare nel Parco. Potendo scegliere a piacimento il momento dell’anno in cui venire al Rainier, consiglierei la seconda metà di luglio, non proprio la fine del mese, un po’ prima. È una questione di delicato equilibrio, i più attenti alla precisione nella ricerca dei miracoli naturali ca-

La crescita della rigogliosa foresta è il risultato delle condizioni climatiche assolutamente uniche che caratterizzano Mount Rainier.


L’INGRESSO DI CARBON (NORD OVEST)   L’ingresso di Carbon River è, se possibile, ancor più selvaggio. La strada segue per un po’ il corso del fiume in un’ampia valle alle pendici del monte, regalando una bella vista sul versante settentrionale e sui ghiacciai avvinti alla cima poi, quando l’asfalto finisce d’improvviso, la via sterrata s’infila in una selva intricata che è quanto di più simile si possa immaginare a una foresta incantata uscita da una fiaba. Il sottobosco è fresco e rigoglioso, grandi felci e piante di liquirizia sormontano muschi e licheni, più in alto i rami contorti e frondosi s’intrecciano alla ricerca di uno spiraglio di luce, quasi sempre negato da una volta compatta di dimensioni irreali. I grandi abeti svettano verso il cielo ad altezze comprese tra i settanta e i cento metri, i tronchi rossicci sono poderosi e perfettamente diritti dando l’impressione di essere le colonne che sostengono questa impalcatura fantastica. Qui sotto anche i suoni sono molto diversi, il rumore dei passi risulta più ovattato e ovunque si avverte una sorta di eco alle voci umane ed al festoso cinguettio degli uccelli. Di tanto in tanto il sole, con un bagliore preciso, trafigge la volta facendo brillare le gocce di rugiada. Dopo alcune miglia, così d’improvviso come v’era entrata, la strada esce dalla foresta e inusitato appare il Rainier così vicino che pare di poterlo toccare, così bianco sul cielo blu che non sembra vero. Oltre a questo belvedere tra i boschi si trova una barriera di legno che impedisce il passaggio sino a che la strada non è completamente libera dalla neve, situazione che normalmente non si verifica prima dell’inizio di luglio. Se il passaggio è aperto si può proseguire alla volta di uno dei laghi più incantevoli del parco: Eunice Lake.   La polverosa carrozzabile tra i boschi finisce qualche miglio più avanti, in un piccolo parcheggio a ridosso di un altro lago smeraldino, il Mowik Lake. Sistemato lo zaino in spalla mi incammino giù dal sentiero attraverso il quale, in meno di un miglio ci si inerpica nella foresta che cela la vista del monte e del lago.

Ai bordi del camminamento spuntano fragole selvatiche, altre bacche sconosciute, e molti fiori montani dalle campanule aranciate. Raggiunta la sommità della collina che separa i due laghi, finalmente si scende ed in mezz’ora di cammino appare, incorniciato da una messe di lupini turchesi, il lago Eunice, intonso tra le montagne, meravigliosamente piatto, smeraldino e trasparente.   L’ingresso di Carbon sarà il primo che incontrate arrivando da Puyallup, ma paradossalmente dovreste tenerlo per ultimo. Questo è l’ingresso più selvaggio, meno spettacolare nella sua lunga parte iniziale e a volte anche più pericoloso per le frane o le piene del Carbon River. Direi che questo è l’ingresso riservato agli esperti del Rainier, a coloro che tornano per terza o la quarta volta e vogliono vedere quale sia la prospettiva scelta dal fotografo David Muench per immortalare il monte. La vostra meta sarà l’Eunice Lake che potrete raggiungere con una passeggiata di diverse ore da Ipsut Creek dove si trova un campeggio all’ombra di abeti di Douglas centenari. Più semplice, ed io ve lo consiglio senz’altro, sarebbe raggiungere il lago dalla strada n. 165 che entra nel Parco leggermente più a Sud e arriva al bel lago Mowich. Questa strada è chiusa per neve fino ai primi giorni di luglio e arriva ad un piccolo parcheggio in uno spiazzo ghiaioso.   Da lì continuate a piedi fino alla riva del lago e tenete la vostra sinistra per prendere la strada al lago Eunice. Il monte sparirà dalla vostra vista per tutto il tempo della passeggiata (circa un’ora e mezza), sotto la foresta sarete tormentati dal più terribile sciame di zanzare che abbiate mai potuto sperimentare. Gli insetti riusciranno, con facilità disarmante, a perforare i vostri jeans e, per quel che posso sapere io, saranno completamente disinteressati ai vostri spray contro gli insetti. Però ad un certo punto vi apparirà un angolo d’acqua verde smeraldo, in una conca incorniciata da belle conifere.


Per la foto da cartolina dovete girare tra i rovi attorno al lago; giunti dall’altra parte vi riapparirà il monte bianchissimo che si specchia nelle acque immobili del lago.   C’è qualcosa di magico in questa montagna solitaria ed inviolabile mentre riflette la sua imponente figura in un piccolo, limpido e tremolante specchio d’acqua. Ed anche di raro, poiché la sua cima rimane spesso celata dalle nubi, come fossero attratte da una gigantesca calamita. Contemplate la montagna incorniciata dal verde smeraldo dei torreggianti abeti di Douglas, e proverete la stessa stupita meraviglia che, di tanto in tanto, provoca nella foresta l’incontro col grande cervo di Roosevelt. Ecco perché a mano a mano che conoscerete il Rainier, finirete per considerarlo dotato di una notevole personalità propria. Vi sembrerà che sia il monte stesso a decidere se mostrarsi in tutta la sua grandiosità dispensando viste mozzafiato ed incontri emozionanti, oppure se celarsi come il più prezioso dei tesori. È una montagna provvista di grande magnetismo, che incute rispetto per le sue ampie spalle coperte fino al limitare delle nevi pe-

renni, da una delle più lussureggianti foreste del pianeta e che reclama lo stesso rispetto per il silenzio del sottobosco trafitto da pochi raggi di sole e per i minuscoli e delicati fiori che potreste distruggere con un passo.

Sebbene le pendici del monte siano interamente circondate da foreste di antica crescita, ovvero foreste che non hanno conosciuto nel corso dei secoli la benché minima influenza da parte dell’uomo, gli accessi dal lato sud ne mostrano alcune tra le più spettacolari sezioni.


L’INGRESSO DI NISQUALLY (SUD OVEST)   Questo è l’ingresso principale del Parco, il più antico e quello dove potete prendere la strada che vi porta a Paradise, che dovrebbe essere la vostra meta principale se vi trovate al Rainier per la prima volta o se avete azzeccato il periodo della fioritura dei prati alpini.

Nel 1883 un esploratore arrivato nel Nord Ovest su una carovana, tale James Longmire, iniziò ad esplorare e ad ascendere il Ranier poi a guidare gli altri su di esso. Una notte, accampati vicino al fiume Nisqually, i cavalli di Longmire si smarrirono. Inseguendoli, si imbatté in una serie di piccole sorgenti minerali.   Nel 1890 portò sul posto la moglie. Quando Martha Longmire vide il prato alpino completamente ricoperto di fiori alpini multicolore davanti al massiccio candido del vulcano eslamò:  “Oh questo dev’essere il Paradiso!!”

La Valle così pèrese il nome di Paradise Valley. I coniugi Longmire costruirono un rifugio rustico vicino alle sorgenti e aprirono un sentiero per la cittadina di Ashford.   Nel 1899, precisamente il 2 marzo, il Congresso istituì il é Parco Nazionale di Mount Rainier per preservare quella che sembrava “un isola artica nel mezzo di una zona temperata”. Con l’inizio del nuovo secolo le prime automobili uscite dalla fabbrica della Ford iniziarono a varcare la porta d’ingresso del nuovo Parco nazionale, il quinto in ordine cronologico ad essere istituito.


Le possibilità di pernottamento all’interno del Parco sono a Longmire oppure a Paradise, entrambi raggiungibili dall’ingresso di Nisqually, ma che troverete certamente esauriti salvo prenotazione con largo anticipo. Al Paradise Inn è difficile persino trovare un parcheggio se arrivate durante il weekend o non siete molto mattinieri. Però è da qui che partono alcuni dei sentieri più belli del Parco.

Lasciate la vostra auto e salite, con calma, verso il Wonderland Trail, verso la cima del monte che appare nitida davanti a voi.   La prima volta ci sono arrivato a fine giungo, di mattina presto, quando l’alba inizia a tingere di rosa l’imponente cima del monte ricoperta dai ghiacciai. La strada finisce appena oltre il limite arboreo. Nelle giornate terse la veduta, di quassù, provoca un tuffo al cuore. Più in basso immense foreste di secolari abeti di Douglas, pini sitka, e cedri rossi cingono i fianchi della montagna in un abbraccio smeraldo, pronunciando i declivi e celando rombanti cascate di acque algide e cristalline. Più avanti, in direzione sud, la cima del Monte Adam, perfettamente conica, svetta biancheggiando dalla foresta.   Ancora più a sud, quel che resta di Mount S.Helen scaraventato in ogni direzione dalla esplosione vulcanica del 18 maggio 1980.


Il Monte Rainier è uno stratovulcano, ovvero un vulcano conico costituito dalla sovrapposizione, nell’arco di centinaia di migliaia di anni di vari strati di lava pomice e ceneri vulcaniche solidificate. Solo il 10% dei vulcani della Terra sono stratovulcani e si trovano generalmente in zone di subduzione, cioè dove una placca tettonica scorre sotto un’altra. Come ha insegnato il S.Helens, fratello minore del Rainier, i materiali espulsi da uno stratovulcano possono formare una colonna eruttiva alta anche 40 km.   Anche il Rainier, come il S. Helens, è un vulcano attivo e sebbene semi dormiente è considerato una minaccia La sommità esplose circa 5800 anni fa, quando il vulcano era alto 4800 metri, circa 400 metri in più rispetto ai 4392 metri di oggi. 2500 anni fa poi un’altra esplosione formò un secondo cratere collegato al primo da una serie di tunnel intervallati dai ghiacciai perenni.

Più in alto invece, oltre ai prati fioriti ed i nevai che coprono il sentiero, rimane solo la cima e la sua mistica immanenza. Ancora una piccola distanza, o almeno così pare da questo punto, e oltre il candore dei ghiacciai, l’unico limite è il cielo. Mi trovo solo sulla montagna in una frizzante mattina di fine giugno e provo quassù un’immensa gioia e consapevolezza contemplando, il disegno del Creatore mentre il mondo, di sotto, si risveglia ignaro di questa meraviglia.

Due volpi rosse, appena sotto del pendio, si avventano su un gruppo di oche canadesi che in uno sbatter d’ali si disperdono in diverse direzioni per ricompattarsi più avanti in un volo silenzioso e perfetto. Li ammiro ancora per un momento intanto che le volpi, senza fretta, guadagnano la macchia dall’altra parte della strada. Di tanto in tanto si fermano rotolando l’una sull’altra e scambiandosi effusioni, come se la preda sfumata non le avesse interessate


per nulla, poi spariscono del tutto. Così dedico la mia attenzione ad un picchio dal fosforescente manto blu - azzurro che rimbalza goffamente fino ad un rigagnolo alimentato dal breve e copioso disgelo.   Più a valle, tra i massi levigati dall’acqua, anche una marmotta fa capolino per salutare il giorno. Quando si accorge di me si erge, ritta sulle zampe posteriori, tra l’azzurro intenso dei lupini. Per qualche incomparabile attimo ci fissiamo a vicenda, immobili come siamo, ed io posso vedere il suo cuore che batte nel petto, all’impazzata, prima che con una piroetta mi giri le spalle e sparisca tra i fiori. Oramai ha fatto giorno del tutto e in una gloriosa mattina d’estate inondata di sole m’incammino verso valle.

Quassù ci sono i prati più belli che mai potrete vedere. Il suolo vulcanico, le abbondanti precipitazioni primaverili, le giornate lunghissime di sole estivo e chissà quali altri fattori rendono questo piccolo lembo di terra più unico che raro. Salendo, l’altitudine vi taglierà il respiro, ma farà la stessa cosa con molti altri e l’esercito dei camminatori si farà via via più rarefatto, le persone lasceranno il posto a volpi e marmotte e dentro di voi benedirete l’idea di essere venuti al Parco Nazionale di Monte Rainier.

Lo Skyline Trail nella sua parte iniziale è pavimentato ed accessibile alle sedie a rotelle, poi in poche centinaia di metri si scrolla la foresta di dosso e comincia ad offrire le viste più spettacolari sui prati alpini e sul ghiacciaio Nisqually.


Il monte, tuttavia, è un sovrano capriccioso che in un batter di ciglia può volgere le condizioni atmosferiche in modo radicale, ed anche alla metà di luglio può capitare di imbattersi in una tempesta di neve.   Fuori dalle ampie vetrate del Paradise Inn la tormenta di neve investe la foresta con rapide folate successive, ma voi potrete guardarla dall’interno dello sfarzoso chalet di montagna, in una atmosfera quanto mai ovattata e accogliente. Il brusio degli astanti e le note di un pianoforte si fondono al crepitio che proviene dal monumentale camino in pietra che si trova in fondo al grande salone. Da qui vi sarà più chiaro il significato della parola “rifugio”.

INGRESSO DI OHANAPECOSH (SUD EST)   L’ingresso a sud est del Parco denominato Stevens Canyon Entrance provvede alle migliori viste della fitta foresta pluviale che cinge la base del monte. Non molto distante dal Centro Visitatori di Ohanapecosh si dipana lo splendido “Grove of the Patriarchs Trail”, il sentiero più conosciuto di questa parte del Parco


Il sentiero breve (1 miglio) e facile (poco più di 50 metri di dislivello) parte subito dopo l’Ohanapecosh River Bridge, contiguo al parcheggio del Centro Visitatori e vi conduce ad una ricca foresta di alberi antichi e giganteschi. Subito si avverte un cambio di percezioni. I suoni si fanno ovattati e tuttavia profondi, quasi si propagassero all’interno di una verde campana e ne ricevessero una sorta di eco. Ovunque, tra le felci e sugli alberi, le sentinelle del mondo animale osservano l’incedere degli umani, e quando occasionalmente scoperti, scompaiono in un lampo, così che tutti, si tratti del chipmunk, del grande gufo grigio o dello scoiattolo volante del Nord Ovest, non sono altro che estemporanee apparizioni.   Fuori dal bosco il sole di montagna è così forte da offendere pelle, mentre qui si procede in una umida, densa e sempiterna ombra. In mezzo scorre l’Ohanapecosh, un torrente trasparentissimo, che apertosi un varco tra gli alberi, accoglie generosamente il sole e ne rimanda bagliori dorati che danzano sulla volta smeraldo apparentemente inamovibile. Ma qua e là alcuni di questi giganti, sradicati, giacciono sul terreno costringendo a passare fra il tronco ed il sistema delle radici fuori terra.

Le foreste di vecchia crescita comprendono alcuni degli ecosistemi più ricchi e produttivi della Terra. Queste fitte foreste di conifere vestono i pendii inferiori e le valli del Monte Rainier da 580 metri fino ad oltre 2000 metri di altitudine, per due terzi del paesaggio del Parco. Esse rappresentano un eccezionale esempio delle foreste vergini che un tempo coprivano la maggior parte del Nord Ovest Pacifico. Gli abeti di Douglas, i cedri rossi e le cicute occidentali che dominano la foresta sono però solo una parte della intera comunità di animali, piante, clima, geologia, suolo, luce solare e acqua che rendono questo luogo così maestoso.


Il Ciclo Continua

“Un albero morto può essere altrettanto affascinante e ricco di personalità nella morte come lo è stato in vita. Anche nei suoi momenti finali, quando il tronco massiccio giace prono e si è modellato in una cresta ricoperta di muschi e funghi, realizza un fine appropriato e nobile. Arricchisce e rinfresca la terra. E più tardi, come parte di un mondo verde e crescente, risorge.” Edwin Way Teale

Naturalista, fotografo, scrittore


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Le cose di grande età o bellezza non appaiono a ll’improvviso. Esse richiedono tempo. Mille anni fa un grande incendio devastò la valle del fiume Ohanapecosh. La foresta che possiamo vedere oggi è nata dalle ceneri di una foresta ancora più antica. Ha impiegato un migliaio di anni per diventare la complessa e diversificata foresta di cui oggi godiamo. La foresta resiste su un isola circondata dal fiume Ohanapecosh. Il fiume provvede ad un abbondante rifornimento di acqua e nutrienti. Periodiche inondazioni depositano sul terreno diversi minerali. Il sentiero ad anello “Grove of the Patriarchs” vi condurrà attraverso uno dei più mirabili esempi di foreste giganti. Qui abeti, cedri e cicute raggiungono e volte superano i 70 metri di altezza. Camminando in mezzo ad essi non si può non pensare a quante volte il mondo è cambiato durante la loro crescita. Essi sono sopravvissuti a secoli di tempeste invernali, eruzioni vulcaniche, incendi e inondazioni. Anche se molte delle loro cime sono morte, gli alberi continuano a vivere. Questo ci costringe a pensare che noi non possiamo creare le foreste primeve, possiamo solo cambiarle, cambiarle in qualcosa di differente, spesso peggiore.


L’INGRESSO DI SUNRISE (NORD EST)

L’ingresso nord est è caratterizzato dalla maggiore altitudine, e può essere chiuso per neve fino ad estate inoltrata. Dopo la White River Entrance Station, una strada molto panoramica denominata White River Road vi porta al parcheggio di Sunrise.

marmotte fischiando avvertono i compagni del vostro arrivo.   Ulteriori informazioni possono essere trovate sul sito www.nps.gov\mora  vSe non riuscite ad alloggiare nel Parco, il

Come la parola stessa vi consiglia l’alba è un momento magico per ammirare il cono ghiacciato del vulcano che s’ammanta della prima luce rosata del giorno mentre la notte ancora indugia in fondo alla valle.   Al limitare del parcheggio partono sentieri verso piccoli limpidi laghetti orlati da lupini. Le

villaggio più vicino al in cui pernottare è Ashford (stato di Washington, sigla Wa).



THE WEST INSIDE • VANNI GIANNOTTI

San Juan Island, Washington   Il segreto meglio conservato d’America si trova nel Pacifico, mezz’ora di nave a Nord Ovest di Seattle. Pochi luoghi del Nord ovest degli Stati Uniti offrono una bellezza naturale così diversa, spettacolare come la contea di San Juan. Queste isole, viste dall’alto, appaiono come una manciata di smeraldi gettati da una gigantesca mano nell’oceano, in un punto assai protetto del Pacifico, racchiuso nello stretto di San Juan de Fuca tra le montagne dell’Olympic Peninsula, i vulcani delle Catena delle Cascades e l’isola di Vancouver.

a troneggianti abeti e cedri rossi. Tutti sono i ncoraggiati a godere degli splendidi panorami, conservando la magica ecologia delle isole e cercando di avere un impatto con esse il più lieve possibile.

L’arcipelago San Juan, che da un punto di vista geografico include anche le isole del Golfo della Columbia Britannica canadese, comprende più di 700 isole. La geologia della contea di San Juan è stata scavata dai ghiacciai milioni di anni fa, e varia dalle pianure agricole a piccoli rilievi. Oltre 14.000 abitanti risiedono in queste isole, ma per lo più qui ci sono le seconde case dei residenti di Seattle.   Le isole dell’arcipelago sono facilmente raggiungibili con un servizio di traghetti ma, nello stesso tempo riescono a conservare un magnifico isolamento e una natura tranquilla e intatta. I visitatori che vengono qui per passarvi un breve tempo, decidono spesso di rimanervi più a lungo, oppure di ritornarvi. Le persone convivono con i cervi, le aquile, le orche, in mezzo

I residenti delle isole sono diversi così come le terre cui danno il nome di casa: gli isolani infatti sono attori, tenutari di fattorie dove si allevano gli alpaca, artigiani, agricoltori, pescatori, albergatori, scrittori. Questa diversità conferisce alle isole un carattere unico. La massima parte delle attività commerciali nella contea avviene nel Villaggio di Lopez, presso


Lopez Island, a Eastsound sull’isola di Orcas a Friday Harbor sull’isola di San Juan. Diversi piccoli alberghi e alcuni resort offrono ospitalità e servizi.   Le isole possono essere raggiunte da diverse città del Nord Ovest con un servizio di traghetti puntuale ed efficiente divenuto ormai addirittura un simbolo dello Stato di Washington. Almeno durante tutta l’estate ci sono molte corse durante il giorno ma è necessaria una prenotazione.   Io non amo cozze o vongole ma ho letto che, trovandosi qui, è consigliata la Toby’s Tavern. Lo stile marinaro di Coupeville farà il resto. Oggi la pesca ha assunto dinamiche ed organizzazione industriali, le rotte hanno un raggio assai più ampio ed il paese, poco più di un gruppo di belle dimore vittoriane raccolte in una felicissima collocazione digradante sulla piccola baia di Penn Cove, perdendo la caratterizzazione mercantile ne ha guadagnato in attrattiva turistica, come buon ritiro per una vacanza tranquilla.

WHIDBEY ISLAND   Per raggiungere l’arcipelago delle isole San Juan quasi certamente vi capiterà di attraversare lo stretto istmo di Whidbey Island. Volendo esser precisi l’isola Whidbey non va ricompresa nell’imprecisato numero di isole (da qualche decina a qualche centinaio a seconda della marea) che formano lo straordinario arcipelago delle San Juan, ma la morfologia e l’atmosfera di questi luoghi non fanno che confutare la geografia, ed io voglio considerarle parte di questo mondo a se stante. Sull’isola di Whidbey che si sviluppa verticalmente si percorre senza fretta la strada fino al piccolo villaggio marinaro di Coupeville, il più antico dell’arcipelago.   Fondato nel 1852, prese il suo nome da Thomas Coupe, Capitano di Vascello proveniente dal New England, terra di balenieri, che per primo intuì le potenzialità commerciali questo tratto di costa e, in modo sbrigativo, le proclamò come proprie.

Per una qualche motivazione che non so spiegare, l’arcipelago delle San Juan è vezzeggiato da un microclima particolarmente favorevole e non è infrequente godersi il sole sulle isole mentre le Montagne Olimpiche sono coperte dalle nubi o l’isola di Vancouver, più a nord, è avvolta dalla nebbia.   Molto simile a Coupeville è la cittadina di Langley, forse con qualche negozio di più ed una diversa veduta dell’Oceano e delle vette frastagliate e taglienti delle North Cascades. La città più grande dell’isola è Oak Harbor che ospita anche una base piuttosto grande dell’aeronautica americana, probabilmente localizzata qui quando il nemico si trovava dall’altra parte dell’oceano e aveva gli occhi a mandorla. Per l’idea che mi sono fatto, in occasione dei miei diversi passaggi da queste parti, le esercitazioni, e di conseguenza il disturbo arrecato dal frastuono dei caccia, sono concentrati in una breve fascia oraria nel tardo pomeriggio.


Vi sono molte godibili attività durante l’estate. Tanto per cominciare questo il miglior luogo di tutti gli Stati Uniti continentali, i Lower 48 come sono chiamati, ovvero tutti gli Stati ad esclusione dell’Alaska e delle Hawaii, per osservare l’aquila dalla testa bianca.   C’è in particolare una piccola strada di campagna che si chiama Boon Road, un paio di miglia prima a sud di Oak Harbor, che si addentra tra i campi ondulati tra le fitte macchie di conifere.   Sui campi, qua e là, si aprono piccoli laghetti quasi completamente coperti da ninfee e visitati da nugoli di oche e germani. Parcheggiate la vostra auto all’ombra dei grandi cedri e godetevi per un po’ il silenzio.Osservate il giallo dei campi tra il verde smeraldo dei pini mossi dalla brezza che arriva su dall’oceano che si trova giusto in fondo alla strada. Guardate i cavalli e il loro lento pascolare su e giù per le colline, non abbiate fretta e non perdete di vista il cielo azzurro e le cime degli alberi, quasi certamente le aquile arriveranno, e se vi trovate qui nel periodo del corteggiamento, all’inizio dell’estate, non mancheranno di emozionarvi con le evoluzioni e le acrobazie più ardite.

Proseguendo ancora in direzione nord si arriva in un punto assai panoramico il Deception Pass. Un bel ponte ad arco di ferro verde supera una gola entro la quale scorre l’ocea-

no, e unisce Whidbey Island con Fidalgo Island. Continuate a tenere la strada n. 20 ed arriverete ad Anacortes che rappresenta il miglior punto per prendere il traghetto per le Isole San Juan.   Nella piccola insenatura del porto la nave è accompagnata da un gran andirivieni di gabbiani che lanciano striduli versi l’uno sull’altro poi i motori prendono a girare più forte e la prua del Washington Ferry fila veloce verso Ovest tagliando le onde in una bianca spuma che si dissolve pian piano dietro la nave ricomponendosi nel profondo blu. Fuori del porto, l’unico suono che sormonta il vento è quello scafo che sbatte sull’acqua.   La durata dell’attraversamento di questo braccio di mare varia tra una e due ore.A questo punto non vi resta che decidere quale sarà l’isola della vostra visita.


SAN JUAN ISLAND

San Juan è l’isola che da il nome all’arcipelago. Questo luogo ameno era il buon ritiro del famoso attore western John Wayne, che certo immaginiamo meglio in sella ad un bronco piuttosto che al timone di una barca bianca che scivola tra i verdi fiordi di questo luogo spettacolare. All’Hotel de Haro di Roche Harbour potete soggiornare nella John Wayne suite prima di scendere alla spiaggia e pagaiare nelle tranquille acque della baia riparata.

L’isola è caratteristica, molto ben curata,

Il traghetto arriva a Friday Harbour, l’unica cittadina degna di questo nome, dove dovrete subito preoccuparvi di trovare una sistemazione per la notte. In questo pezzo di New England in mezzo al Pacifico, infatti non ci sono i motel delle più note catene ma piccole ed eleganti Inns. Personalmente ho alloggiato alla Tucker House, a poca distanza dal porto. Se non trovate posto per la notte infatti dovrete mettere in conto di riprendere la nave per la terraferma prima del tramonto

Nel porto sono alla fonda diverse barche tra cui anche la nostra, quella su cui saliremo per l’avventura alla ricerca delle orche. Riusciremo a vederle? Per questa sera abbiamo prenotato un bed and breakfast a pochi passi dalla piazzetta del porto, la Tucker House, una graziosa casetta in stile vittoriano, affittata dai proprietari per il pernottamento e la prima colazione. Nel giardino crescono dei grossi salici piangenti, mentre il prato che copre il terreno è in stile squisitamente inglese.

impreziosita da bei cestini di fiori appesi ai lampioni lungo le strade che attribuiscono un certo tocco di eleganza all’insieme. Ci sono bellissimi fiori a campanula, il cui nome mi è sconosciuto, di un caldo colore arancione, distribuiti a macchia e sistemati insieme ad altri di colore viola, con un lungo stelo, e a petunie variopinte, così consuete anche nel nostro paese.


I fiordi sono sempre molto suggestivi, la vista sulla Deception Pass è mozzafiato, rilassante; l’acqua verde lambisce le isole su cui le conifere regnano sovrane. Il “must” di Friday Harbour è rappresentato dalla gita in barca per avvistare le orche, o, come le chiamano qui, “killer whales” le balene assassine, dimenticando forse che sono anch’esse una parte, quella apicale, della catena alimentare.

Un bel sentiero, che diparte dal parcheggio di West Side Road, serpeggia tra una rigogliosa crescita di abeti di Douglas, ed un intricato sottobosco di felci e rododendri per scendere fino ad un belvedere sulla costa che offre uno scenario veramente spettacolare. Oltre le acque cobalto dello stretto di Haro si stagliano le cime innevate che sovrastano il Parco Nazionale

Le gite che partono ogni giorno dal p iccolo porticciolo danno la quasi garanzia di avvistamento. Molto popolari sono anche le gite in kayak nelle baie intorno all’isola, che garantiscono acque tranquille e viste mozzafiato. L’attività principe è comunque quella diportistica con una grande quantità di barche a vela di ogni dimensione con le quali si naviga da un porto all’altro e fino in Canada, che in realtà si vede ad occhio nudo nelle limpide e lunghissime giornate estive (a fine giugno il sole tramonta poco prima delle undici di sera). Il Lime Kiln Point State Park è uno dei luoghi migliori per ammirare la magia del tramonto e, con un po’di fortuna, avvistare le orche dalla terraferma.

di Olympic, sulla terraferma. Verso nord, incorniciato dalle propaggini smeraldo della foresta e dai rami rossastri di alberi secolari di rododendro, c’è il vecchio faro bianco a dominare il capo, raggiungibile con una breve passeggiata. Molti visitatori, tuttavia indugiano qui per avvistare più in basso le evoluzioni di orche, delfini, otarie, foche ed in certi periodi anche balene.


LOPEZ ISLAND

ORCAS ISLAND

Questa isola mischia il meglio del carattere agricolo di questo arcipelago con la presenza di boschi, spiagge, scogliere e vedute sulle montagne. Prendendo la strada principale, la Stanley Road, si possono ammirare scene pastorali, poi si può sostare in un’area denominata Shark Reef Park e ammirare magnifici abeti e cedri distribuiti lungo una costa rocciosa, infine si può assistere a un incontro con foche e altri animali marini.

Orcas è l’ultima isola prima che le acque diventino canadesi e l’arcipelago continui con le omologhe Gulf Islands.Curiosamente l’isola non porta questo nome a causa delle orche che popolano le sue acque per tutto il periodo dell’anno.

Si arriva al faro di Cattle Point verso l’isola di San Juan, poi si ritorna attraverso Burt Road, dopo aver girato la Baia dei Pescatori si giunge al Villaggio di Lopez. Qui potete indugiare con uno spuntino o un caffè, facendo shopping o una visita al Museo storico di Lopez, dove sono illustrate le vestigia del passato.

Lo spelling è lo stesso ma il nome l’isola, così come molte altre denominazioni della regione sono dovute agli primi esploratori spagnoli. Orcas porta il nome di un Vicerè messicano. Sbarcati ad Orcas Landing, prendete la strada verso Nord sulla Horseshoe Highway e mantenete la sinistra guidando verso Westsound e Deer Harbour. Entrambe le comunità sono piccole e graziose, offrono un porticciolo, simpatici locali per mangiare e molte opportunità per scattare ottime fotografie. Lungo il percorso, con ogni probabilità, avvisterete cervi, aquile ed altri animali selvatici.   La tappa successiva è ad EastSound, che raggiungerete guidando lungo la “Strada della Foresta Incantata”. Ad Eastsound i visitatori hanno una discreta scelta di negozi, ristoranti e artigianato locale. All’ora di pranzo gustate un panino alla Lower Tavern e date una occhiata al


negozio di stampe rare e antiche Darvill, oppure a quello di cappelli Tresfabu.   Nella medesima località si trova il museo storico di Orcas Island, in una casa colonica costruita con grossi tronchi di legno. Le collezioni del museo vi faranno conoscere le popolazioni native che abitavano l’isola e la vita dei primi colonizzatori europei. In questo villaggio si trova una delle strutture ricettive più grandi dell’isola, si tratta dell’Outlook Inn, che si trova proprio davanti alla stretta e spettacolare baia che divide l’isola di Orcas. Scendete in spiaggia per ammirare la potenza dell’oceano chemuove di continuole maree avanti e indietro, con un movimento che a causa della conformazione della baia può quasi essere osservato ad occhio nudo.   Nessun viaggio ad Orcas è completo senza una visita al Parco Statale Moran, sempre sulla Horseshoe Highway. Il promotore del Parco Robert Moran, la cui dimora oggi è diventata il lussuoso Rosario Resort a Cascade Bay, vicino al Parco, comprò migliaia di acri sull’isola e più tardi ne donò una grande porzione allo stato perché ne facesse un Parco.

Il Parco Moran contiene 30 migla (48 chilometri) di sentieri, aree per il picnic al coperto, campeggi, servizi, laghi, cascate e spettacolari vedute, la migliore delle quali è in cima al Monte Constitution. Ad Orcas si può pernottare nel Romantico Orcas Hotel un piccolo albergo in stile vittoriano con la visto sul porto ad Orcas Landing, nel quale vi verrà servita una magnifica colazione sulla veranda a base di caffè espresso e ottimo croissant all’euopea. In alternativa si può optare per uno dei piccoli alberghi gestiti direttamente dai proprietari che si trovano lungo la strada, tra i quali l’Old Trout Inn, la Kangaroo House con bei letti a baldacchino e atmosfera retrò, o la Smuggler House a North Beach, il miglior luogo dell’isola per ammirare spettacolari tramonti.   Dalla spiaggia di North Beach avrete una magnifica vista sull’ultimo vulcano della catena delle Cascade, ovvero Mount Baker, gigante di quasi 4000 metri, che si staglia a ridosso dell’oceano, secondo per altezza e bellezza solo al vicino vulcano di Mount Rainier.


Il monte Moran svetta alla estremità sud occidentale dell’isola e la salita in mezzo un bosco fittissimo fa dimenticare per un momento di trovarsi in mezzo al mare. Le secolari duglasie svettano imperiose al di sopra di un sottobosco rigoglioso, qua e là si apre su un tappeto di digitali rosa. L’America finisce qui, all’estremità nord occidentale dell’isola di Orcas. Sulla spiaggia di North Beach si tuffa nel Pacifico al cospetto di un sublime sole rosso che, come ogni sera, rinnova il suo abbraccio con l’oceano, accendendolo di iridescenti bagliori.

L’ultima luce del giorno, declinando sulla baia, vuole ancora compiacersi sulla cima di Mount Baker, incappucciata di neve. Forse questa lunga giornata d’estate non vuole morire e ogni piccola onda dolcemente sospinta sulla battigia sembra portare un po’ di luce dorata. Così che la notte indugia e l’arancio si fa porpora, fino al violetto mentre tutti i colori dell’indaco si fondono e confondono mirabilmente, rincorrendosi su questa quinta di acqua e cielo. Gli abeti, protesi in schiera dalle scogliere, contemplano l’infinito, verso cui gli ultimi gabbiani sembrano diretti.


Il tramonto sull’oceano gonfia il cuore di straboccante bellezza e sembra suonare come un ammonimento per la conservazione di ciò che rappresenta la nostra vera ricchezza. Tenera è la notte all’Orcas Hotel. La Quinault, l’ultima motonave del giorno, sta prendendo il largo, sfavillante di luci sull’oceano buio. Prima di sparire nella notte lancia un’ultima fragorosa e baritonale nota di sirena. Poi, veloce, scivola via, lontano, e mi lascia solo sulla piccola salita che domina il porto.

Prima di andarsene gli addetti di terra della nave hanno scambiato alcune parole, e un’ultima risata, così risonante nel silenzio, che pare ancora ondeggiare sulle acque scure della baia. Guadagno in pochi passi la veranda dell’Orcas Hotel, ed ora che tutte le scricchiolanti sedie a dondolo sono libere, siedo volentieri, con gesto lento, assaporando questo magico isolamento. C’è un poco di vento, un vento caldo, che fa piacere sentire e poi la luna, la grande e magnifica luna piena che lancia argentei bag liori sull’acqua, che l’oceano conduce cullando fino alla riva e, più lontano, il profilo dei monti che custodisce questa insenatura come un prezioso segreto. Più tardi nella graziosa camera da letto, oltre al graticcio bianco della finestra, al di là dello stormire delle fronde, posso ancora vedere spicchi di luna fino a che, seguendo il suo siderale percorso, non scompare oltre al tetto spiovente, dissolvendo dolcemente la seduzione della sua luce bianca insieme ad ogni mia consapevolezza.


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