Maccaronari

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Angelo Abenante

Maccaronari

prefazione

Antonio Alosco postfazione

Giuseppe Zollo

= Novus Campus


progetto editoriale

VINCENZO ESPOSITO immagine

molino azionato da altro tipo di ruota calcatoria

AGOSTINO RAMELLI, LE DIVERSE ET ARTIFICIOSE MACCHINE, PARIGI, 1588 in copertina: LAVORATORI DEL PASTIFICIO MANZILLO, 1900

edizione digitale © 2011 NOVUS CAMPUS


Ai mugnai e pastai torresi che resero prospera la cittĂ e, invitti, operarono per la libertĂ ed il progresso



Angelo Abbenante

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Prefazione

La presente ricerca di Angelo Abenante più che uno studio a caratte­re scientifico, di cui peraltro contiene molti elementi, costituisce un atto di amore verso la sua città, Torre Annunziata, e la sua gente. Abenante ne ricostruisce in una certa misura la storia (ben più ricca per la verità), essendo stata la cittadina vesuviana all’avanguardia del movimento operaio dell’intera Italia meridionale dalla fine dell’Ottocento agli anni del secondo dopoguerra attraverso le vicende dell’arte bianca, quella molitoria e della pasta. La pasta di Napoli, famosa ancora oggi in tutto il mondo, venne in­ventata e prodotta nella zona di Torre Annunziata e Gragnano, ed è qui che ha avuto uno sviluppo prima a carattere artigianale e poi industria­le, assorbendo manodopera che già a fine Ottocento superava le milleseicento unità e che negli anni di maggiore crescita, agli inizi del Novecento, raggiunse la ragguardevole cifra di oltre tremila lavoratori diret­tamente impe­ gnati nella produzione. Ad essi bisognava aggiungere le attività indotte, soprattutto portuali e marinare, che facevano ascen­dere il numero complessivo di quanti vivevano del lavoro della pasta (com­ presi i familiari) ad oltre diecimila persone. L’arte bianca, quindi, forniva possibilità di vita quasi all’intera popolazione torrese che, in quegli anni, d’altronde, registrava un incremento demografico proprio in relazione alle opportunità lavorative. Alla fine del secolo XIX operavano centodue pastifici. Ciò consentì al Comune di respingere la richiesta della grande fab­brica inglese di cannoni Armstrong, installata a Pozzuoli dal 1886, in fase di espansione, di costruire nel territorio torrese un nuovo sta­ bilimento. Ciò anche per non sconvolgere la natura dei luoghi che consentivano, attraverso il clima, l’acqua, il vento, l’habitat idea­le per produrre i maccheroni, già apprezzati in tutto il mondo. Sotto questo aspetto, lo sviluppo dell’industria molitoria sconvolse le scelte urbanisti­ che: la città si espanse con la creazione di nuovi quartieri più vivibili, che andavano ad aggiungersi ai vecchi per lo più medievali. Lo sconquasso sarebbe stato però certamente maggiore con l’installazione di stabili­ menti metallurgici. D’altro canto, i lavoratori metallurgici torresi dell’Ilva riceveva­no un salario inferiore a quelli dei mugnai e pastai, che avevano con­quistato, con lotte memorabili, condizioni di lavo­ ro tra le più avan­zate d’Italia, sconfiggendo, in molte occasioni, arretratezze padronali e resi­ stenze di ogni tipo. Le lotte per il lavoro sono l’aspetto che attraggono maggiormente l’interesse di

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Abenante, memore del suo antico ruolo di sindacalista, anche se in riferimento esclusivo a quelle del settore oggetto del libro. La storia di Torre operaia è di grande interesse e per molti aspet­ti entusiasmante e smentisce, ammesso che ve ne sia bisogno, le affer­mazioni circa una “torbida” Torre Annunziata avanzate da R. Colapietra in Napoli tra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano, 1960. Innanzitutto, bisogna precisare, correggendo un errore della storiogra­fia, che la prima Camera del Lavoro d’Italia è stata costituita all’inizio del 1891 a Gragnano (con giurisdi­ zione anche sulla vicina Torre) proprio da lavoratori gragnanesi e torresi dell’arte bianca, preceden­do di alcuni mesi quelle di Piacenza e Milano, unanimamente conside­rate pri­ mogenite. La Camera del Lavoro di Torre Annunziata, fondata ad inizio del nuo­vo secolo, divenne la più organizzata e combattiva della provincia di Napoli e trovò in Gino Alfani, uno dei pionieri del socialismo par­tenopeo passato poi al Partito Comunista d’Italia ed eletto per questo partito alla Came­ra dei Deputati nel 1924, un dirigente attivo e capace che la dires­ se per molti anni, proiettandola all’avanguardia dell’intero movimen­to operaio italiano. Dopo la parentesi fascista, essa divenne, per me­rito dei dirigenti locali e di Enrico Russo, segretario generale prov­visorio della risorta Confederazione Generale del Lavoro, la più im­portante del “Regno del Sud”. Su questa tradizione operaia, Torre Annunziata è stata per moltissimi anni una rocca­ forte rossa ed a testimonianza di ciò, basti ricordare che fu l’unico comune della provincia di Napoli a votare in maggioranza per la Repubblica nel referendum istituzionale. Ritornando al tema specifico della ricerca, Abenante ci fa seguire le vicende con viva partecipazione da ciò scaturisce una narrazione non certo asettica, ma viva, palpitante. La vita dei lavoratori torresi della pasta era segnata, come è naturale, non solo da con­ quiste e da condizioni floride; anzi si dovettero superare situazioni di estremo degrado concernenti l’orario di lavoro (si iniziò da una giornata lavorativa di 12-15 ore), malattie professionali (artrosi e tubercolosi, in primo luogo), sfruttamento minorile e così via. Né vanno sottaciute situazioni ambientali di una contrada che, benché fosse considerata in un certo periodo di sviluppo la Manchester del Sud, registrava nell’area una diffusa disoc­ cupazione con tutto quello che ciò comportava in termini di ricatto padronale col timore di perdere il posto di lavoro e di organizzazione del crumiraggio durante le vertenze. Giocò un suo ruolo anche l’aspetto, per così dire, psicologico da cui derivava una certa sudditanza verso il padrone, che abitava una parte della struttura produttiva e che si com­ portava da schiavista. Si dovette superare anche una sorta di mentalità luddistica, che portò alla distruzione delle macchine, che creavano disoccupazione. Si arrivò, quindi, a considerare lo sviluppo tecnologico come una risorsa in favore del lavoratore, da cui dove­ vano scaturire una riduzione dell’orario di lavoro, festività, pagamento dell’orario straor­ dinario ed altre provvidenze. Abenante, però, con animo sereno, dimostra di apprezzare anche una certa imprendi­ torialità attiva, sensibile alle innovazioni ed allo sviluppo, in opposizione ad una più dif­ fusa immobilità fatalistica. Abenante ricorda le fasi di maggiore crisi del settore, dopo averne giustamente esaltati i momenti più significativi: lo sciopero generale del 1901, uno dei primi d’Italia, e quello del 1904 di ben settantatre giorni. Mette altresì in evidenza il ruolo avuto dalle donne, sia operaie che mogli di operai, ma anche di quelle imprenditrici, spesso vedove con piglio da carabiniere, che però riuscirono a portare avanti, se non a potenziare, l’attività. Le crisi si verificarono soprattutto in relazione ad eventi bellici, quali la prima e la seconda guerra mondiale, che interruppero il flusso delle esportazioni verso gli Stati Uniti,

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i maggiori acquirenti mondiali della pasta, per l’interruzione della fornitura di grano dal Mar Nero a causa della rivoluzione bolscevica ed anche in relazione alle scelte sbagliate di economia autarchica del regime fascista. Il colpo di grazia l’arte bianca lo ricevette però dall’invenzione di una macchina, com­ pletamente automatizzata per l’intero processo produttivo, che produceva pasta annullan­ do i fattori ambientali e la stessa professionalità dei lavoratori. Gli imprenditori non furono in grado di adeguarsi e riversarono su questi le difficoltà con sottosalario ed i sistemi ormai classici di inadempienze contrattuali. Da ciò scaturì una conflittualità permanente ed una crisi progressi­va ed irreversibile da cui la cittadina vesuviana non si è più ripre­sa, nonostante l’azione politica e parlamentare - documentata in appendice - svolta dallo stesso Abenan­te, divenuto poi, deputato e sena­ tore del collegio. Antonio Alosco

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Capitolo primo La pasta di Napoli

Napoli è stata la capitale della pasta alimentare. La pasta ha rappresentato, per lungo tempo, l’immagine della città nel mondo, lo ste­ reotipo del lazzaro mangia maccheroni è stato, tra il pittoresco e la realtà, il suo emblema. Non c’è stato viaggiatore del Gran Tour che non restasse colpito dallo spettacolo dei vermicellai napoletani. Nelle strade buie e pericolose, agli angoli dei quadrivi, caldaie fumanti, un pentolone d’acqua bollente, un tendone, erede dei velari romani, un bancone con una montagna di cacio grattugiato e tanti piatti, erano allora centri di vita e di aggregazione. Si vendevano all’aria aperta maccheroni a piattelli, di due e di tre soldi, che i napoleta­ ni, per brevità, indicavano, dal loro costo, ’nu duie’ e ’nu tre’ e nell’ottocento, costavano due soldi la libbra e non erano, quindi, alla portata di tutti, accessibili alla borsa dei laz­ zari solo la domenica o i giorni festivi.1 Lo stesso Goethe ne fu colpito e nel suo diario annotò che i maccheroni: “fatti di pasta di farina fine, accuratamente lavorata, ridotta in forme diverse e finalmente cotta, si trovano dappertutto, e per pochi soldi. Si cuociono per lo più semplicemente, nell’acqua pura e vi si grattugia sopra del formaggio che serve a un tempo di grasso e di condimento”.2 Attorno al banchetto del maccaronaro si svolgeva un rito. Il servire era arte: “li solleva con una forchetta di legno, li distribuisce nel piatto e di una mano si vale a reggerli, l’altra pone sulla piramide del formaggio e di quella non dannosa polvere, sparge i maccaroni”.3 Il mangiare non era da meno: “il mangiator del volgo si fa forchetta di due dita, solleva i maccaroni o vermicelli mezzo palmo sopra la bocca, e poi facendo un lieve movimento di girazione spirale ve li caccia dentro con destrezza che rivela la pratica e mastica senza mai sporcarsi”.4 E ogni sera, dietro al bancone, con un grande grembiule bianco sulla pancia, il pizza­ iolo, il maccaronaro, il tavernaro lanciavano nel buio il grido di richiamo, ognuno con cantilene diverse. Giravano per la città anche venditori ambulanti: una cesta, una sporta legata al collo, sostenuta dalle braccia, divisa in tanti scomparti per sistemare i vari tipi di pasta; “tutta la rotonda famiglia maccaronica, cominciando dai maccaroni di zita, e venendo giù pei maccheroni propriamente detti, maccaroncelli, vermicelli, vermicellini, spaghetti e fidelini poi lasagne colle laganelle, tagliarelle, lingue di passero ed altri membri della medesima famiglia schiacciata, e poi le varie specialità di paste della Torre o della costiera di Amalfi, per le

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quali ci vorrebbe tutto un vocabolario”.5 Ricercata era la pasta d’a costa, di Amalfi, sinonimo di bontà insuperabile. Amalfi era stata nei secoli un fiorente centro di commercio granario, lì si incontravano acquirenti provenienti dai più svariati paesi del Mediterraneo: francesi, spagnoli, proven­ zali, catalani nonché tunisini e tripolini.6 Dai loro intensi traffici con gli arabi di Sicilia gli amalfitani carpirono il segreto della conservazione della pasta che, essiccata al sole, poteva essere esportata senza inacidire. L’impasto di acqua e derivati del grano era comune in tutto il Mediterraneo, notizie sull’utilizzazione di questa graminacea nell’alimentazione si perdono nella notte dei tempi. Il grano era conosciuto da tempi antichissimi, in un silos di El Fajum si é trovato grano del 4600 a. C. L’antico Egitto ci ha tramandato statuette raffiguranti donne inginoc­ chiate per terra a macinare grano duro facendo scorrere un rullo su lastroni di pietra. In Mesopotamia si usava la tracta, un semolino di grano duro che, tagliuzzato in piccoli pezzi, si faceva seccare al sole.7 In una tomba etrusca, la grotta bella, del IV secolo a. C., sono venuti alla luce, scolpiti nel marmo, strumenti tradizionali per lavorare la sfoglia di semola o farina: spianatoio, mattarello e rotella tagliapasta. I romani conoscevano diverse qualità di frumento tenero e duro e Plinio ce ne traman­ da notizia: triticum, zea, alica e spelta. Pestavano il grano in mortai di legno, un lavoro massacrante affidato agli schiavi in punizione. Dopo verranno macine di pietra lavica spinte da asini o schiavi per ricavarne un semolino. Nessuno, però, ha finora saputo indicare l’epoca o la tribù che per prima abbia frantu­ mato chicchi di grano per ricavarne farina da impastare con acqua e cuocere in pentole e non più su pietre roventi. A ben ragione, il Columbro scriveva: “Chi mai fosse tra i ghiottoni L’inventor dei maccheroni Vi son dispute infinite Né decisa é ancor la lite”8

La storia celebra i campi di battaglia dove si incontra la morte ma sdegna di parlare dei campi dei quali viviamo, svela i nomi dei re bastardi, ma non può dirci l’origine del fru­ mento. Gli impasti da grano degli antichi davano prodotti da consumare subito. È il siriano Bar Alì che, nel IX secolo, scrive per primo di un manufatto di semola essiccato al sole e poi cotto, e il geografo arabo Al Idris, nel Libro di Ruggiero del 1154, descrivendo Trabia, a ponente di Termini Imerese in Sicilia, parla di “…incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi molini nonché di vasti poderi ove si fabbrica tanta pasta da esportare in tutte le parti, specialmente in Calabria e in altri paesi mussulmani e cristiani…” Dal grano, gli arabi avevano ricavato una vivanda divina, e gli stessi amalfitani diven­ tarono produttori di pasta, ma la potenza commerciale di Amalfi era legata all’indipen­ denza del ducato. Nella metà del 1300 vi fu un susseguirsi di disgrazie: l’assalto e il sac­ cheggio ad opera dei pisani, il terribile maremoto che distrusse parte della città, i moli e i magazzini, in uno con la decadenza dei traffici causata dall’espansione islamica e il cre­ scere della pirateria, avviarono il declino dell’antica Repubblica. Profughi e artigiani amalfitani cercarono rifugio sulle creste del villaggio di Gravano Piro, detto poi Gragnano, e lungo le rive di Torre della Nunziata, per continuare la loro attività di maccaronari, allora abbinata e sussidiaria a quella della macinazione dei cere­ ali.

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In queste due località ritrovarono condizioni ideali: in quel periodo, lungo i monti che da Gragnano volgono al mare, decine di piccoli rivoli alimentavano tanti molini idraulici. I più avventurosi si spinsero a Torre della Nunziata per la possibilità di approvvigionar­ si degli sfarinati prodotti dai molini idraulici a ruote serviti dalle acque del Sarno ove era installato un sistema avanzato di molini che non aveva pari in Italia.10 Accanto ad Amalfi, Gragnano e Torre Annunziata divennero città pastaie: “Colpiva lo straniero lo spettacolo degli stenditoi di pasta lungo le strade e qualcuno annotava che la fabbricazione dei celebri maccheroni napoletani è fatta la più volte in siti di buon aria. Offrono le migliori fabbriche Portici, lungo la linea di Napoli, le due Torri famose per istoriche ricordanze, erette per difesa dei nostri lidi, e la incantevole costiera amalfitana, ma celebratissima come il suo vino, è la pasta di Gragnano e fra tutti per la loro proporzione cilindrica sono reputati i maccaroni della zita”.11 A Napoli, maccarone, farina, pasta, gnocco, molino, molinaro entrano nel linguaggio corrente, diventano modi di dire, proverbi, che resistono all’usura del tempo. Nei giochi dei ragazzi che saltano la campana o nei loro girotondi; nei canti a figliola che nascono nei vicoli della città, così come nell’opera buffa napoletana, maccheroni, molino e gnoccolara animano le trame. Fin dal XVIII secolo, maccarone è sinonimo di sciocco, di uomo limitato, imbelle, quasi stupido, nonché zotico e grossolano. Qualcuno ha ipotizzato una connessione tra Macco, principale maschera della commedia atellana di osca memoria e maccarone, che nell’uso corrente può quindi anche essere inteso come sempliciotto. “ò ’nammurato mio fa ò scrupoloso, a suulo a suulo nun me dà nu vaso Se ’mbroglia, se ’mpapina, fa ò scurnuso I’ ò chiammo ’o maccarone senza ’o ccaso”12

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Maccarone è usato anche nel linguaggio della corte borbonica. Ferdinando I pubblicamente chiamava il figlio Francesco “lasagnone” perché grasso e imbelle, ma anche i soldati svizzeri del reggimento Tito, ammutinatisi nel luglio del 1859, avvinazzati, protestavano contro il sovrano, chiamato Re maccarone.13 Maccarone travalica i confini e diventa all’estero sinonimo di italiano, è stato per anni l’epiteto dispregiativo rivolto ai nostri emigranti: abbuffatori di spaghetti.14 Anche gli inglesi, nel 1820, stanchi delle ciarle dei deputati napoletani che non riusci­ vano a deliberare sui ‘mezzi urgenti della difesa della patria’ minacciata dall’Austria con­ traria alla Costitu-zione strappata al Borbone, per sfregio inviarono ai parlamentari una balla di fazzoletti dipinti a stampa con al centro una grande caldaia piena di maccheroni cotti. Il presidente dell’Assemblea li serviva in piatti sul cui orlo era scritto a chiare lettere Parlamento Napoletano.15 Recentemente, pur nella drammatica situazione dei campi di concentramento nazisti, gli italiani deportati, i più odiati dopo russi ed ebrei, erano chiamati maccaroni non solo dai tedeschi, ma anche dai deportati di altri paesi.16 Maccarone meritava sorte migliore non fosse altro che per la sua antica etimologia. Si affannano storici e filologi a scavare nel passato per cercare l’origine del nome. Alcuni fanno riferimento al greco makaria, pietanza di farina d’orzo, una specie di polenta oppure all’altro termine macar, beato, a significare vivanda dei beati, dei defunti nonché all’altro termine greco laganoz da cui il latino laganum, strisce fatte di farina ed acqua. Altri scomodano i classici latini da Orazio: inde domum me ad porri et ciceri refero laga-

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nique catinum [torno a casa al mio piatto di porri, ceci e lagane-lasagne], (Libro I°, Satira II, verso 27 e Satira IV, verso 2), ad Apicio che nel De re coquinaria, ricettario di pasticci, ne riporta uno di sfoglie di pasta - laganum - alternate a strati di carne. I napoletani hanno trovato la loro risposta con il filologo Emmanuele Campolongo che ha attribuito maccarone ad un colloquio tra due celebri ghiottoni, uno dei quali, a mensa, mangiandone, disse che erano cari e l’altro aggiunse non solo cari ma caroni.17 E la fantasia non è stata da meno nel ricercarne le origini, attribuite al mago Chicco vissuto sotto il regno di Federico II di Svevia. Il mago trafficava in un antro buio attorno a pentoloni bollenti fino a che il segreto fu carpito da Jovannella, moglie del cuoco del re, che, apprezzando la bontà dei maccheroni cotti, ne diffuse l’uso tra il popolo.18 In realtà la favola rispecchia l’ipotesi non infondata che siano stati i cortigiani di Federico, venuto a Napoli dalla Sicilia, a far conoscere questa vivanda già popolare nell’isola abitata da arabi, non a caso i maccheroni di farina asciugati al sole furono intro­ dotti a Napoli tra il millecento e il milleduecento. A Napoli i maccheroni sono menzionati ufficialmente per la prima volta in una pram­ matica del 1509, un vero codice annonario del viceré Conte di Ripacorsa, Don Giovanni d’Aragona, che intimava: “…quando farina saglie per guerra o carestia, o per l’indispositione de stagione de cinque carlini in su el tumulo non si debbano fare taralli, susamelli, ceppule, Maccarune, Trii, vermicelli, ne altra cosa de pasta excepto in ccaso di necessità de malati.”19 Negli atti privati, a Napoli, fin dal 1295 si parla di maccaroni acquistati dalla madre di Carlo d’Angiò e recentemente si è trovato un trattato di terapia delle febbri del maestro salernitano Giovan Ferrario I, signore di Gragnano, che già nella prima metà del secolo XII prescriveva vermicelli per guarire i tisici e ne parlava come di un cibo di uso corren­ te.20 Ma è Pulcinella il gran mattatore, col suo piatto di maccheroni, diventa la trasposizio­ ne teatrale dell’antica aspirazione popolare ad avere nù piatte ’e maccarune, è l’eterno affamato, la maschera di miseria che per secoli ha attanagliato il popolo. Si moltiplicano in Italia e all’estero le farse di Pulcinella, si compongono inni e peana e la maschera di Pulcinella col suo piatto di maccheroni fumanti, vive nei musei, nelle gallerie d’arte, in quadri ed affreschi o ceramiche di modesti artigiani o di grandi artisti come il Tiepolo. È lo stesso Pulcinella che, incollato sui pacchi e sulle cassette, ha portato, poi, nel mondo la pasta di Napoli.

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Capitolo secondo ’U ’ngegno

Per secoli il maccarone è stato una vivanda costosa, per ricchi, sia per la esigua quan­ tità che si poteva produrre a mano sia per l’alto costo delle spezie alle quali si accompa­ gnava. Era pasta (gnocchi, tagliolini, lasagne, dette anche lagane, ravioli o pasta tagliata in piccoli pezzi come noci) condita, prima dell’arrivo del pomodoro, con sugo di carne, burro, cacio grattato nonché con spezie e odori o con zucchero e canditi. Era un lavoro duro affidato all’energia umana, soprattutto alle donne di casa: l’impasto veniva fatto a mano nella martora, poi lo si faceva gramolare su un tavolato, lo schianaturo, mediante manipolazione con la forza delle braccia e poi, con un apposito strumento, che i napoletani chiamavano lanaturo o lagnaturo, veniva disteso a sfoglia. Questa, a sua volta, era arrotolata e tagliata a larghezze differenti, che facevano dare denominazioni diverse alla pasta, dalla più stretta, tagliolini, tagliatelle, fettuccine, pappardelle, alla più larga, lasagna; o, arrotolata in fili sottili attorno a un ferro rigido, diventava fusilli, oppu­ re, divisa in piccoli pezzetti che venivano fregati su una apposita tavola a disegni diversi per righi e puntini, per ottenere i cosiddetti tufoli e le orecchiette e, se fregati, invece, sulla grattachecca, diventavano gnocchi.1 Erano i maccaroni cantati da Jacopo Vittorelli: Io canterò la sconosciuta origine della famosa pasta Maccheronica Togliendola al silenzio, e a la rubigine Per celebrarla sulla cetra armonica. Ma il bravo Pulcinella con quel frivolo Stuolo di scioperanti non si sciopera Farina dal buratto, acqua dal rivolo Piglia, e va meditando un capo d’opera Fa un bel pastone e in men ch’io non descrivono, Quinci a stenderlo in falde egli s’adopera Poscia in tondi cannei tutta la raggomitola E quei cannei Maccheroni intitola Così sta scritto nei vetusti codici, Che i Maccheroni un giorno si facevano.2

Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V, nella sua Opera stampata a Venezia

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nel 1570, ci tramanda il ricordo della preparazione delle tagliatelle, dei millefanti, dei maccheroni al ferro e degli gnocchi: “Millefanti: si stende la farina sopra una tavola, si spruzza su di essa mediante scopettina, acqua tiepida e sale, si rivolta la ferina con una paletta in modo da ottenere tanti granelli come il miglio. Si passano a un crivello, si fanno seccare al sole. Tagliatelle: due libra di farina con tre uova ed acqua tiepida. Si impasta un quarto d’ora. Si stende sottilmente col bastone (mattarello), e quando la sfoglia è asciutta, ma non troppo, si spolvera la farina col setaccio perché non attacchi. Si avvolge attorno ad un bastone, si toglie quest’ultimo, si taglia, si lascia asciugare e si toglie dai tagliarelli il farinomio col setaccio. Maccheroni al ferro: Si prepara l’impasto… Si taglia in strisce larghe un dito e lungo quattro dita. Si mette un ferro di calza lungo un palmo sopra le strisce e si da forma al maccherone con la palma della mano in modo che scorra il ferro. Si cava il ferro e si lascia asciugare il maccherone. Gnocchi: Si prepara l’impasto… se ne prende quanto una noce… si fanno i gnocchi sopra la tavola, tirandoli sottilmente con tre dita.3 Agli inizi del secolo XVII la produzione manuale è sconvolta dall’arrivo di due macchi­ ne semplici: ’ngegno e la gramola. La produzione domestica dei maccaruni si avvale così di una macchina primitiva, anch’essa però mossa dalla forza muscolare dell’uomo. ’U ’ngegno era un cilindro di legno ricavato da un unico blocco d’albero, un grosso tron­ co di rovere o un grande tronco di quercia, unito da grossi chiavettoni e rivestito all’inter­ no di rame, con un pistone a vite che spingeva a pressione l’impasto verso il fondo dove prima dei fili e dopo una trafila davano forma ai maccheroni. L’avvitamento, la pressione del pistone, era ottenuta direttamente dalla rotazione della vite di pressione mossa da una leva solidale ad essa e collegata ad un verricello verticale manovrato da uno o più operai oppure, nel caso del tornio orizzontale utilizzato per la pasta corta, spinto da una grossa ruota animata da ragazzini che si arrampicavano con mani e piedi sui suoi raggi. Per dare maggiore spinta alla leva, gli addetti si aiutavano spingendola con la testa e un grosso permanente callo sulla fronte si accompagnava alla conseguente prematura calvizie. Per avere buoni maccheroni era decisivo l’impasto di semolato ed acqua calda che veni­ va lavorato con la forza delle gambe e dei piedi in una madia di legno o di ferro: un uomo in piedi sull’impasto coperto da un panno, reggendosi ad una fune per mantenere l’equili­ brio, pestava con forza e velocità, con cura e competenza; erano “uomini cenciosi nel modo più ributtante, e senza veruna cura e politezza”.4 Nel corso dei tempi si constatò che l’impasto risultava migliore se prima di passarlo nello ’ngegno fosse stato sottoposto a una forte pressione, così come per secoli la massaia aveva fatto da sempre con la forza delle braccia, e alla primitiva pressa si associò la gramola, un grosso tavolato di noce, impiantato in un angolo del locale di lavorazione. Al di sopra del tavolato ruotante una lunga stanga, un asse di legno molleggiato, a sezione triangolare col vertice rivolto verso il basso che muoveva l’impasto mediante il saltellamento di operai che, seduti sulla stanga, la facevano molleggiare con apposito e sincronizzato moto di alzata e seduta.5 La gramolatura durava due o più ore, ogni operaio seduto sulla stanga, muoveva la gamba sinistra, batteva con forza il piede per terra per elevarsi con la stanga, agitava la mano sinistra in aria, e seguiva con la testa tutti i movimenti che faceva in cadenza, accompagnandosi con una nenia che comandava il ritmo6, questo lavoro era così penoso che un vigoroso operaio, dopo averlo compiuto per quattro ore, doveva essere adibito ad altra mansione.7 Era un lavoro massacrante, dall’impasto alla torchiatura.

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Non c’era, come per i mugnai, energia idraulica o animale che potesse sostituire quella muscolare dell’uomo o dei bambini. L’introduzione delle due macchine semplici sconvolge l’antico sistema di produzione, con esse i maccheroni iniziano l’avventura che li porterà alla conquista del mondo; si avvia la produzione dei vermicelli, una vivanda povera, che si mangiava appena lessa e che alla fine surclasserà l’antica pasta fatta a mano da condire con spezie pregiate. Nel napoletano, soprattutto a Gragnano e a Torre della Nunziata, è l’epoca delle piccole bot­ teghe artigiane a conduzione familiare (le botteghe delle lasagnaie) che si installano in tutti i vicoli alla ricerca ossessiva di spazi per asciugare al sole i maccheroni di fresca fattura. Piccoli laboratori che utilizzano uno stanzone con la madia e le due nuove macchine fondamentali, un locale per la prosciugazione, una camera per deposito, un banchetto davanti alla porta per la vendita e dove prestano la loro opera soltanto membri della stes­ sa famiglia. Alinari ci ha tramandato il ricordo fotografico di questo sistema di produzione: un uomo che si regge ad una corda con i piedi in una vasca ove impasta semola ed acqua calda; operai seduti sulla stanga che gramola l’impasto; ’u ’ngegno con i fili di pasta che escono dal fondo e l’operaio che li taglia; tanti ragazzini che si arrampicano sui raggi della ruota; file di canne con la pasta esposta al sole. Notizie di queste macchine semplici risalgono alla fine del XVI secolo. Nell’Archivio storico del Banco di Napoli è conservata una ricevuta di pagamento per l’acquisto, il 13 maggio del 1596, di un ’ngegno da maccaruni confermando così che già allora a Napoli vi fosse un commercio di questi strumenti di produzione.8 ‘U ‘ngegno, si diffonde rapidamente come si evince dalla notizia che nel 1630 a Roma nella vicinanze di S. Francesco a Riva una bottega di vermicellai usava “un torchio con tutti li rifornimenti e stanghe”.9 Il nuovo strumento di lavoro della pasta genera interesse anche nella letteratura dell’epoca, nel 1630, Giovanni Battista Basile, nella IV novella della Quarta giornata de Li Cuntu de li Cuntu, scrive: “Jannariello ch’essenno passato per la trafila, mo se ne jeva mbruodo de maccarune” e lo Sgruttendio aggiunse: Maccarune belle care, Belle, janche Vranche, a branche Da lo nciegno quann’ascite: S’a’ no panno Spase v’hanno La via lattea me parite.10

E, ancora nel Seicento, il Vittorelli scrive: Che i Maccheroni un giorno si facevano Ora gli speme il torchio, e in più di dodici Fogge diverse ogni convito beano.11

L’introduzione di queste macchine rende accessibile il prodotto a strati sempre più vasti della popolazione. La bona menestella mmaretata sarà definitivamente sconfitta dai vermicelli che contri­ buirono a trasformare i napoletani da mangiafoglie a mangiamaccheroni tanto che già nel Settecento, durante la carestia del 1764, le autorità annonarie di Napoli stimavano neces­ sarie ai bisogni della capitale trecentomila tomoli di grano e ben centomila dovevano darsi ai facitori di maccheroni.

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Nel Seicento, quando la pasta non fu più un cibo per soli ricchi, napoletano e maccherone divennero un binomio inscindibile. Nnò nge songo mai Juornate Che non magnano Maccarune12

È un rapporto personale, familiare, di appagamento che ancora oggi il napoletano sta­ bilisce con il piatto di pasta: ’nu vermicello a vongola abbundante cu ò ppetrosino cruro è a ddore’ e scoglio, e a primma forchettata, t’hè ‘a scustà si no svenisce, mentre l’arravuoglie.13

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La cottura dei maccheroni in famiglia, specialmente la domenica, assumeva le caratte­ ristiche di un antico rito, all’ora del pranzo risuonava imperiosa la voce della capofamiglia o di chi era ai fornelli: «Preparate la pasta, l’acqua sta per bollire». Si trattava di spezzare i lunghi fili di pasta, quasi sempre ziti, perché allora non c’erano le confezioni cellofanate, la pasta era avvolta in carta spessa detta cuoppo. Ed iniziava il rito: la monaca di casa, ossia la vecchia zia o la figlia avanti negli anni ma ancora nubile, riuniva intorno al tavolo i piccoli di casa, scartocciava la pasta e dava ad ognuno un filo dopo l’altro per spezzarlo in modo uniforme, senza superare i cinque-sei centimetri. Era un gioco, una festa, erano liti ed allegria pregustando il pranzo prossimo e la storia continuava a tavola alla ricerca del responsabile del lungo maccherone uscito dalla zup­ piera. Antiche consuetudini spazzate via dal progresso e che Galdieri ha ricordato con nostal­ gia: ‘Cchiù ccerto è che so maccaruna e’ zita L’aggiu ‘ntiso ‘e spezzà trasenno ‘a porta. È `overo? E s’è capita Tutt”a cucina d’ogge: So’ braciole, so’ sfilatore ‘annecchia: Niente cunzerva: tutte pummarole Passate pe’ setaccio.14

L’arrivo del pomodoro dal Perù, nel Seicento, diede ai maccheroni il loro naturale com­ plemento. Superata l’iniziale diffidenza verso questa solonacea considerata velenosa per la sua somiglianza alla pianta della belladonna, i zite cu ‘o rraù’ divennero il non plus ultra della leccornia maccaronica: ‘I’ mo, trasenno p’a porta aggio sentito l’addore d’o rraù Perciò ...stateve bbona: ve saluto Me ne vaco gnors’ì.. ca si m’assetto Nun me ne vaco cchiù.15

Ed anche la preparazione della salsa col pomodoro era occasione per familiarizzare. Non esistevano prodotti conservati o in scatola e d’estate, famiglia e amici uniti facevano le bottiglie.

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Acquistato all’ingrosso anche un quintale e più di pomodori, grossi e piccini, attorno a un tavolaccio li spaccavano in più pezzi per poi imbottigliarli oppure li spremevano ridu­ cendoli in polpa liquida. Le bottiglie tappate erano poste in un pentolone a bollire e la polpa ad essiccare al sole per concentrarla e ricavarne conserva. E quante discussioni sulla qualità del prodotto, sulla propria capacità di tapparle bene col sughero, sulla peri­ zia dimostrata non facendo scoppiare nessuna bottiglia nel corso della bollitura. E quanta soddisfazione, alla fine, poter dire alle amiche “che mai come questa volta tutto era andato magnificamente”, e che i pomodori per il ’rraù erano stati assicurati al desco familiare. E quante discussioni al mercato o nei luoghi di villeggiatura sul lavoro svolto per fare le bottiglie: quante ne erano state fatte? Di che tipo? Passate o a spicchi? Dove era stato acquistato il pomodoro? Di che tipo e qualità? San Marzano, pomodorini o lamponi del Vesuvio, oppure di Terzigno? E poi, infine, non era da tutti saper preparare un buon ’rraù. In tal caso non si poteva che rimpiangere il passato: ’O rraù ca me piace a me m’ò ffaceva sulo mammà ’A che m’aggio spusate a te ne parlammo pè ne parlà Io nun songo difficultuso. Ma luvammiell”a miezo st’uso Si, va buono: comme vuò tu, Mo ce avessem’appiccecà? Tu che dice? Chest’è rraù? E io m’ò magno pe m’ò mangià.

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M”a faje dicere nà parola? Chesta è carne c’à pummarola.16

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Capitolo terzo Le innovazioni

Francesco Alvino, nel suo viaggio da Napoli a Castellammare, nella metà dell’Ottocen­ to, scriveva: “I maccheroni sono di varie sorte. Altri si lavorano a mano, altri col torchio. I primi dà monaci sono detti strangolapetri, e dà preti son domandati strangolamonici: chi non ha la chierica si contenta di chiamarli maccheroni di casa, benché altra volta li dicesse trii e trilli, quasi tres digitilli, perché piccioli pezzetti di pasta incavati con le tre dita di mezzo della mano. Questi sono i veritables macherons dè Napoletani. I secondi van suddivisi in molte maniere, ed escono fuori da una tazza forata per opera di compressione. Il torchio che fa tal lavoro è da noi nominato trafila ed ingegno, ed oggidi n’è molto perfezionata la costruzione”.1

Nel comparto alimentare dei mugnai e pastai, per soddisfare la domanda si moltiplica­ no le richieste di autorizzazione per nuovi impianti, favorite anche dalla politica protezio­ nistica del governo borbonico che incoraggia le ricerche ed assicura un mercato ai pro­ dotti dell’industria meccanica locale. Numerose officine, oltre alla Pattison che era una delle più importanti del Regno, ope­ rano nel settore delle macchine da molino e pastificio (Giordano, Albano, Rispoli, Orsini, Ducoster) senza tener conto delle tante piccole aziende artigianali che lavorano il bronzo per le trafile. Il molino a cavallo o ad acqua non regge più, si sperimentano nuove soluzioni produt­ tive: nel 1836, l’imprenditore Canfer avanza istanza per un mulino a triplice forza motri­ ce, alimentato dall’energia del vento, del vapore e degli animali, mai simultaneamente;2 nel 1840, l’intendente di Napoli esprime parere favorevole alla concessione di brevetti sui mulini a vapore, dato che le macchine poste lungo il Sarno erano insufficienti alla richiesta sociale, soprattutto nella stagione calda; per la siccità e l’uso delle acque per irrigazione;3 nel 1850, il molino De Luca, in Torre Annunziata, in sostituzione delle antiche tracine, speri­ menta la turbina Dombè, con macchine costruite in legno e dotate di pale in lamine di ferro che producevano un effetto utile ben maggiore degli antichi molini.4 Sono gli ultimi tentativi di utilizzare al meglio la forza idraulica perché, alla fine del Settecento, l’uso del vapore come forza motrice introduce radicali innovazioni nei proces­ si produttivi, l’arrivo del molino a cilindri svincolerà definitivamente l’attività molitoria dalle fonti energetiche naturali e ne determinerà lo spostamento nell’area urbana.

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Antonio Dati installerà a Torre Annunziata, nel 1868, il primo rudimentale molino a palmeto in largo Fabbrica d’Armi e nel 1882 lo trasformerà in molino a cilindri, ma sarà Domenico Orsini che, nel 1881, installerà, in via Oplonti il primo molino a cilindri con annesso pastificio. L’introduzione del molino a cilindri fu accompagnato da modifiche ed innovazioni anche delle altre strutture produttive necessarie alla preparazione dei grani da macinare: semolatrici, macchine pulitrici, miscelatori di farine, separatori e raccoglitori di polveri. Anche la conservazione del grano subì sostanziali innovazioni: dai grani stoccati in sacchi o in fosse entro terra alla rinfusa si passò all’uso di depositi in silos che permette­ vano una migliore conservazione e costi minori. Interessanti furono anche le innovazione nel settore pastaio. Lo stesso Francesco di Borbone, nel 1823, colpito sfavorevolmente dal metodo usato per l’impasto, provò “sdegno misto a disgusto nel vedere in qual modo abietto uomini miserabili e cenciosi, con i piedi sudati a causa dello sforzo, pestassero l’impasto nella madia”5 e incaricò il Reale Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze di progettare un pressario automatico da maccherone, l’uomo di bronzo, per superare l’abominevole metodo usato per l’im­ pasto. La soluzione non ebbe mercato anche se la macchina fu provata ed installata soltanto nel pastificio dello Spadaccini a Napoli. Diversa fortuna ebbero, invece, le altre innovazioni che interessarono, nel corso dell’Ot­ tocento il settore pastaio e che sconvolgeranno il processo produttivo vedendo, alla fine, la madia sostituita dall’impastatrice meccanica, il laminatoio (ò lammenniere) dalla gra­ mola ed il glorioso ’ngegno dalla pressa idraulica. Un processo caratterizzato da lenti perfezionamenti. Il Pastificio Pellegrino, nel 1829, ottiene il brevetto per una macchina atta ad impasta­ re il grano, una macchina a cilindri con un meccanismo per l’impastamento di diverse qualità di farine impiegate anche per la confezione dei maccheroni. Il Pastificio Savarese, nel 1844, ottiene la privativa per due macchine, una atta a gra­ molare, l’altra a trafilare la pasta, entrambe a trazione animale.6 La gramolatrice consen­ tiva a cinquantacinque rotoli di semola, stemperata nell’acqua, di ridursi in pasta in mez­ zora; un buon vantaggio rispetto alle vecchie stanghe che impiegavano ore con il faticoso lavoro di tre uomini. L’altra macchina consentiva di uscire dai buchi della trafila, produ­ cendo nel corso di dodici ore otto cantaia di maccheroni. Nel 1846, all’esposizione svoltasi a Genova a settembre, la medaglia d’argento viene assegnata al signor Giuseppe Doglio per un torchio per pasta: nel meccanismo (’ngegno) le parti che solevano farsi in legno sono da lui sagomate col bronzo e ferro fuso. Inoltre, l’introduzione del vapore per riscaldare il bacino o campana del torchio ha un perfezio­ namento che dà modo di regolare il grado di calore da applicarsi al telaio, ciò che si fa pressappoco oggi con gli scaldini volanti.7 Nel 1850 l’antico torchio in legno è sostituito dal torchio meccanico, completamente in ferro e bronzo: ’o ’ngegno, incomincia ad andare in pensione. Nel 1870, la ditta Pattison avanzò, senza esito, la richiesta per una macchina gramolatrice per far muovere a mano, avanti e indietro, la semola; nello stesso anno, introdusse la pressa Pattison, i primi torchi idraulici e la semolatrice che separa la semola dalla crusca; mentre la ditta Candeloro di Pontedecimo costruisce la prima gramola a vapore; nel 1878, due tec­ nici italiani realizzano a Marsiglia la prima semolatrice meccanica, che fu appunto detta marsigliese. Nel 1880 la ditta Pattison sostituirà il torchio a vite verticale con movimento a mano con il torchio idraulico a gotto montante che sarà poi ulteriormente migliorato con l’in­

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troduzione del gotto fisso e del pistone discendente che porteranno ad una produzione media di un quintale di pasta ogni venti minuti. Inoltre, introduce la pressa a due campa­ te in modo che quando una era sotto pressione l’altra veniva nel frattempo caricata e, nel 1882, introduce la pressa idraulica mossa da una macchina a vapore e la gramola circo­ lare a coltelli che, ai primi del novecento, sarà sostituita dalla gramola a rulli conici e poi da quella a rulli cilindrici. Nel 1883 le impastatrici con albero a palmole sostituiranno quelle con movimento a mano e il lavoro dei piedi. Infine, nel 1890, la ditta Frette di Salerno produrrà la pressa automatica che, con pochi accorgimenti, sarà alla base dell’attività manifatturiera della pasta fino agli anni cinquanta. Con le innovazioni cresce la potenzialità produttiva, la manifattura della pasta si avvia a diventare un’attività autonoma non più marginale rispetto a quella molitoria e a supe­ rare la dimensione familiare e artigianale. “Or dai fori della trafila son partoriti i maccheroni, manifattura liscia, lucente, di colore appena dorè, sapida e collosetta: alcuni nella loro lunghezza non hanno pertugio, e son questi le lasagne, le fettucce, i tagliarelli, i vermicelli, gli spaghetti, i fidelini e le nocche; altri hanno il buco, e son maccheroni di zita, i mezzani e i maccaroncelli, tutti pregevolissima roba che vuol essere fatte a tre quarti di cottura, e condita con la salsa dello stracotto dè toscani, stufatino dè romagnoli e stufato (non ragù) dè napoletani, il quale è difficile assai a cuocersi, e i forestieri non sanno farlo un fico”.8

Il nuovo processo produttivo migliora anche la qualità della pasta; la pasta di Napoli sarà ricercata per il suo colore adamantino, la sua capacità di reggere la cottura, il suo sapore, la sua capacità di sposarsi con legumi ed ortaggi. I maccheroni di Napoli si riconoscono facilmente. “Non sono avvolti a matassa come quelli di Genova: sono assolutamente diritti. Il foro che li attraversa da un capo all’altro è esattamente eseguito. Non si spezzano mai cuocendo e ciò che li distingue è il colore giallo dorato. Se li si spezza il loro interno è brillante, ciò non si verifica con altre specie di pasta”.9

La pasta di Napoli conquista vari premi: all’esposizione di Parigi del 1856, la medaglia di bronzo è assegnata “a la ville de Naples pour une colletion de pates”.10 I maccheroni invadono rapidamente tutta la penisola e poi lentamente, in un secolo, l‘Europa e le Americhe dove gli emigranti meridionali offrirono il primo consistente mer­ cato. Scapparono a centinaia di migliaia dalle nostre miserie, portavano nel cuore la spe­ ranza in una vita migliore e nel sacco gli spaghetti da regalare al parente o all’amico che aveva garantito per loro. Le innovazioni non interessarono temporalmente tutte le imprese: a lungo convis­ sero le nuove presse con il vecchio ’ngegno; piccoli laboratori continuarono a fabbri­ care la pasta con gli antichi sistemi. Ancora, alla fine dell’Ottocento, qualcuno con­ statava: “Da noi non si adoperano madie meccaniche per bagnare le semole, l’impasto non si compie con le ruote di ferro a lamine, la pasta non è premuta nelle forme con strettoie a vapore, né a vapore si compie il riscaldamento delle stesse forme e se il disseccamento non è così trascurato come nell’esordio vedemmo essere in qualche altro comune, non è fatto gradatamente, quantunque con rapidità per mezzo dell’aria calda e rinnovata; eppure questo sarebbe il mezzo migliore per impedire alle paste di fermentare e di diminuire il loro colorito... Insomma la lavorazione è tuttavia quale era primitivamente e, quel che è più, si afferma da molti che l’antico sarebbe il metodo migliore ed ha contribuito a fortificarli in questo pregiudizio l’esperienza, non so se bene o mal fatta, dè moderni processi”.11

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Molti artigiani-imprenditori, di fronte alle necessarie innovazioni da apportare al pro­ cesso produttivo, non hanno il coraggio o la capacità e le competenze per affrontare la nuova sfida: manifestano perplessità, appaiono disorientati; così come annotò nel 1870 la Commissione Parlamentare d’inchiesta industriale che, a proposito dei mugnai campani, scrisse: “Quello che colpisce di più è la totale disinformazione sui metodi più progrediti di macinazione, l’assenza di chiari e precisi obiettivi per lo sviluppo e il miglioramento della loro industria, la mancanza stessa di una serie di rivendicazioni al di là di quello molto generico e generale relativa all’abolizione della tassa sul macinato”.12

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In effetti l’odiosa tassa sul macinato, che aveva imposto alle classi più povere il peso dell’accumulazione capitalistica postunitaria, inflisse un duro colpo all’attività molitoria campana e portò ad una drastica concentrazione dell’attività anche nella provincia di Napoli. l mulini di Gragnano non sopportarono il peso della nuova tassa, il grido d’allarme fu lanciato, nel 1878, dal deputato locale Agostino Bertani che scrisse al Ministro dell’Agri­ coltura: “Gragnano è un paese di quattordicimila abitanti che vive della fabbricazione delle paste e conta ben trentadue mulini ad acqua ma dal giorno dell’infausta applicazione del contatore, l’industria è in uno stato miserevole… Gragnano, un tempo così florida con centodieci fabbriche di pasta, che mandava i suoi maccheroni per tutto l’universo, oggi è in lenta decadenza, è affetta da tisi cagionata dal contatore, che fu la ruina del nostro commercio… Le fabbriche di pasta, l’una dopo l’altra, scemato l’utile e il capitale, debbono tutte chiudere, e il popolo numeroso ed affranto non avrà più pane né lavoro”.13 I mulini torresi, più evoluti, fronteggiarono meglio la crisi, traendo altresì beneficio dalla scomparsa dei concorrenti. Ma la crisi portò le due città pastaie ad una differenziazione produttiva che sarà la sal­ vezza per Gragnano e la rovina per Torre: mentre quest’ultima continua l’abbinamento della macinazione dei grani con la produzione delle paste, Gragnano concentrerà le pro­ prie risorse soltanto nella fabbricazione delle paste. Tra i consumatori, le opinioni sulla bontà della pasta si dividono, si accende una pole­ mica, che dura secoli, sui vari sistemi di produzione. “Alla comune maniera di fabbricare tal pasta si è unita oggi la macchina idraulica e tra i seguaci dell’uno e dell’altro sistema si eccita già una maccaronica emulazione’14

Nei primi anni del secolo, cambiano i sistemi di produzione, vengono introdotte nuove macchine ed anche il prodotto cambia denominazione: l’antico impasto di acqua e farina, nel poema gioioso di Antonio Viviani, Li maccheroni di Napoli, del 1824, assume un nuovo nome, spaghetti.

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Capitolo quarto Il prosciugamento

Alla fine dell’Ottocento il sistema di produzione ha raggiunto una perfezione che dure­ rà mezzo secolo e determinerà la definitiva fortuna di Gragnano e di Torre Annunziata. Per avere una buona pasta il fattore decisivo era la prosciugazione. Artefice, conoscitore profondo delle varie fasi del processo produttivo, è il capopastaio (ù mpastatore) che, alla competenza lavorativa, doveva unire capacità divinatorie, da stre­ gone o astrologo, per poter predire il corso del tempo e dei venti e decidere il tipo di pasta da produrre e gli accorgimenti da adottare per assicurare il corretto asciugamento della pasta. Per secoli è risuonata l’esortazione, figlia dell’esperienza: “La pasta si fabbrica con lo scirocco e si asciuga con la tramontana”. A mezzodì e a mezzanotte erano i momenti in cui si doveva decidere il formato da pro­ durre. Questa responsabilità è del capopastaio, quasi sempre analfabeta, cresciuto in fabbrica da piccolo, passato per tutte le mansioni del processo produttivo (ragazzo, insaccatore, tiracanne, sfilacanne, appenditore, prosciugatore, alzacanne, spanditore, serrapresse, gra­ molista, impastapasta, guaglione ’è l’astriche, capopastaio), è considerato uno di famiglia dai proprietari che lo ricordano ragazzino, monnezzaro, con la sporta al braccio a racco­ gliere i fili caduti dalle canne. Il capopastaio e il proprietario discutono alla pari il da farsi e l’opinione del primo è rispettata. La stima e la considerazione aumentavano allorché al vecchio proprietario succedevano i figli che non conoscevano ancora tutte le malizie del mestiere. Geloso e fidato custode dei segreti aziendali, la sua opera iniziava dalla scelta dei grani. Preliminare al processo produttivo, era la vagliatura e il ripasso dei grani eseguito con trabattori, scuotitori che avevano lo scopo di eliminare le impurità (fili di juta, glomeruli di sfarinati, scheggette legnose, etc) e la miscelazione, dosando i diversi tipi di sfarinati in rapporto al tipo di pasta da produrre. Il dosaggio è sempre stato un segreto aziendale dato che certi nostri grani, pur essendo classificabili come duri dal punto di vista botanico, non erano affatto idonei alla produ­ zione dei famosi spaghetti da cuocere al dente, perciò era necessario l’apporto di grani duri importati dall’estero, grani canadesi e russi (Manitoba e Taganrog) che crescono nelle regioni dell’estremo Nord del pianeta e ricevono in abbondanza gli indispensabili raggi ultravioletti che conferiscono al cereale una specifica quantità di glutine.1

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L’impasto e l’idratazione richiedevano, poi, attenzione e cura perché non tutte le paste avevano bisogno dello stesso impasto. Per i formati grossi, o maccheroni, l’impasto doveva essere piuttosto duro, di una durezza di un punto inferiore a quella richiesta per i formati di fettuccine, fettuccelle, vermicellini e capellini. Per gli spaghetti, bucatini, lingue di passero, l’impasto doveva essere più molle. Inoltre, nelle giornate umide, di scirocco o di pioggia, esso deve essere più consistente e deve essere normale solo nelle giornate in cui l’aria sia tiepida e secca o tramontana.2 Il fuochista che doveva preparare l’acqua calda era sempre il primo ad entrare in fab­ brica; l’impasto doveva essere pronto per l’inizio del turno. Nel cuore della notte, nei vicoli, risuonava la voce del ragazzo, (ù chiammatore) man­ dato a svegliare gli operai il cui turno di lavoro era determinato dal tipo di pasta da pro­ durre “Genna, scetete, se esce a pasta longa”, e ai duri di orecchio era riservato il battito della canna sulla porta o sulla finestra. L’orologio era allora un lusso per gli operai! La successiva gramolazione aveva bisogno di particolare attenzione: bisognava stende­ re con le mani l’impasto nella vasca mentre i rulli continuavano a girare e lo stesso occor­ reva fare per tagliare blocchi di sfarinati già gramolati per portarli alle presse per l’estru­ sione. Il governo della gramola era gravido di pericoli, soprattutto di quella a rulli scana­ lati, che, per la mancanza di una adeguata protezione, era soprannominata la macchina strappabraccia perché senza pietà stritolava dita e braccia degli addetti. Era difficile trovare nelle città pastarie lavoratori con tutte le dita delle mani. Per avere una bella pasta liscia e colorita era necessaria anche un’ottima trafila in bron­ zo, nichel o altro materiale inattaccabile agli acidi che si formavano per la fermentazione dei residui dell’impasto, inoltre occorreva rimuovere questi residui, togliere la rosa, con un lavoro certosino paziente, buco dopo buco, senza rovinare la trafila con sbavature. Fino a pochi anni fa, a Torre Annunziata, in Corso Garibaldi, di fronte al sottopassaggio dello Spolettificio, due vecchietti assisi su piccoli sgabelli attorno a un panchetto, con appositi arnesi, un piccolo concavo scalpello, passavano buco dopo buco la groviera della trafila per renderla pulita, liscia, lucida ed evitare che vi restasse attaccato anche il più piccolo granellino della rosa, capace di rovinare, striandola, un’intera partita di pasta. La trafila ha consentito la moltiplicazione dei formati, alla fantasia di sbizzarrirsi, dai vermicelli alle lasagne, fettuccine, fresine, tagliatelle, lingue di passero, linguine, linguet­ tine, manfredini, tripolini, ziti, zitoni, mezzani, mezzanelli, candele, maccaroncelli, per­ ciatelli, bucatini, vermicelli, vermicellini, spaghetti, spaghettini, capellini, capellini d’an­ gelo, per ricordare soltanto alcuni formati di pasta lunga. La varietà interessava anche la pasta corta con i formati delle penne, maniche, dai sedani ai rigatoni, alle farfalle, farfal­ line, tofarelli chifferi, denti di leone, occhi di lupo. Dalle trafile uscivano anche le pastine, anellini, avemaria, cinesini, pustelle, chifferini rigati, canestrini, fidelini, stelline, perline, verette, anelli, i diversi semi (melone, mela, cicoria), i numeri, le lettere, le carte da gioco, gli animaletti e altre fantasie adatte ad invogliare i più piccoli a mangiare la minestra. Un catalogo di pastificio proponeva fino a centocinquanta formati; si sono contati, nel corso del secolo scorso, fino a ottocento formati. Lo stesso Giorgetto Giugiaro, ai più noto come designer di alcuni famosi modelli di auto, si è cimentato nel disegnare un formato di pasta corta. All’uscita dalla trafila, la pasta era disposta su canne lunghe circa due metri e collocate l’una accanto all’altra su appositi stenditoi prima all’aria aperta, al sole, e poi negli scanti­ nati delle aziende. Gli alzacanne portavano, a coppia, contemporaneamente, anche quattro canne tra le dita di una sola mano e l’abilità consisteva nella capacità di evitare che nel trasporto i

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maccheroni ancora freschi si attaccassero tra loro o, peggio ancora, si allentassero caden­ do a terra e correvano per esporre all’aria e al sole la pasta per l’incartamento, ossia per un asciugamento immediato, parziale, della pasta appena uscita dal torchio. Gli alzacanne si riconoscevano facilmente dalle mani tozze e deformate e dalle dita grosse e callose, indurite dal peso delle canne. Dopo che l’esposizione all’aria l’aveva asciugata soltanto esternamente, la pasta si depo­ sitava in un locale fresco senza la minima corrente d’aria per almeno dodici ore, per il rinvenimento, permettendo così all’acqua, l’umido rimasto all’interno, di venire alla superficie. Infine, la pasta, si trasportava in grandi stanzoni, ai piani superiori, e si lasciava ripo­ sare per almeno otto giorni d’estate, ed anche venti-trenta giorni d’inverno, per ottenere la prosciugazione definitiva a mezzo della ventilazione naturale. Il capo pastaio doveva sorvegliare attentamente i suoi asciugatoi al cambio dei venti: “Se c’è l’aria buona, fresca del Nord, tanto utile, terrà aperte le finestre e le porte dei saloni di prosciugazione affinché quest’aria circoli e produca i suoi benefici effetti, difendendo altresì la pasta con sacchi e tende nei punti troppo esposti al soffio perché un vento secco può spaccare la pasta. Se a mezzanotte a questo vento succede lo scirocco, immediatamente si dovranno chiudere tutte le aperture, poiché quel vento umido fa rinvenire la pasta.3 Per tutte queste operazioni, i marciapiedi, le piazze, gli androni, i lastrici solari non erano sufficienti per accogliere gli stenditori che reggevano la pasta, ondeggiante come tanti steli di grano al sole. C’era sempre il pericolo dell’inclemenza del tempo e, quando, come furie scatenate si vedevano gli operai agitarsi, affannarsi a riportare la pasta al coperto, il temporale era in arrivo! Più aumentava la produzione e più spazi occorrevano per la prosciugazione; la man­ canza di spazi diventò un ostacolo all’incremento delle attività produttive. Nel 1919, un meccanico di pastificio a Torre Annunziata, tale Cirillo, si pose il proble­ ma di come essiccare la pasta con un sistema artificiale. Nacque il vento Cirillo: “un enorme cassone di legno riscaldato da un braciere mentre una ventola meccanica distribuiva uniformemente il calore”.4 Con questo sistema e con quello successivo dell’ingegnere Tommasini (gabbia sulla quale si disponevano le canne di pasta e che accelerava le fasi agitando l’aria in ambiente riscaldato) si avviava un processo innovativo che, combinando calorifero e ventilatore, riduceva i tempi e svincolava la prosciugazione dalla volubilità del tempo e dalla incostan­ za del clima. A partire da questa innovazione, si giunse, poi, ad avere un calorifero ad aria calda, avente ai lati due ventilatori a pale centrifughe che aspiravano l’aria dal calorifero e la immettevano nello stanzone adibito al prosciugamento. I tempi di essiccazione si abbatterono, la pasta lunga era pronta in tre-quattro giorni, quella corta era insaccabile in ventiquattro ore. Ma anche con queste innovazioni occor­ reva attenzione. Bisognava saper guardare i maccheroni perché “se la ventilazione era troppo energica o prolungata, la pasta si spaccava, se invece era insufficiente fermentava ed ammuffiva; se riscaldava troppo senza ventilare sufficientemente faceva diventare friabile la pasta che si spaccava nella cottura”.5 Inoltre, se la pasta riceveva l’aria da un solo lato veniva ad asciugarsi inegualmente, e più precisamente, mentre il lato esposto era asciutto, l’opposto restava bagnato, ancora umido, di guisa che, se quest’ultimo si fosse voluto portarlo all’incartamento completo, si sarebbe verificata la spaccatura della pasta. Per evitarlo occorreva spostare continuamente le canne di pasta, per faccia e per punta.6

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In definitiva, anche il saper disporre gli stenditoi nei locali di prosciugazione era un’ar­ te, perché la pasta doveva crescere ’ncuorpe’, doveva asciugarsi da sola. Sbagliare una sola di queste operazioni, canniava la pasta, che veniva segnata da una venatura bianca lungo tutto il filo e doveva essere venduta come scarto, munnezzaglia. Infine, occorrevano abilità e intuito per sentire la pasta, per saper valutare quando fosse pronta per essere sfilata dalle canne. I metodi erano empirici: si rompeva un filo di pasta con i denti incisivi, se opponeva una resistenza vitrea era asciutta oppure si spezzava accanto all’orecchio, se il suono era secco come una lama di acciaio che si spezzi, la pasta era pronta. Per l’esportazione il punto di essiccazione era diverso, la pasta doveva contenere una piccola quantità d’acqua che sarebbe evaporata nel corso del lungo viaggio per le Americhe, una quantità tale che all’arrivo fosse perfetta, senza difetti. E così i pastai impararono a produrre la pasta cu’ sangue vive, col sangue vivo. La professionalità acquisita dai lavoratori nel corso degli anni era la più sicura garan­ zia per il successo di una partita di pasta, di un marchio, di un’azienda. Questi lavoratori, non a caso, erano molto richiesti dai paesi che si avviavano a produr­ re pasta.

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Capitolo quinto Torre Annunziata

Torre Annunziata è stata la città della pasta. Ne era passata acqua sotto i ponti da quando, nel 1319, Carlo, duca di Calabria, conce­ deva quattro moggia di terra ad alcuni cavalieri perché erigessero una cappella con ospe­ dale, sotto il titolo della vergine Annunziata, all’incrocio della strada che portava a Scafati e Castellammare, in una località infestata da ladroni tanto che al tempo di Alfonso I, il feudatario Orsini costruì una torre di difesa e protezione. Così il luogo cominciò ad essere abitato e d’allora si chiamò Turris Annunciatae de Schifato.1 Ma la fortuna del borgo venne dalle acque del mare e del Sarno che spinsero i profughi amalfitani a continuare in questo borgo la loro attività di maccaronari. Da tempo, lungo il corso del fiume si erano insediati molini mossi dal fluire delle acque, molini che per la prima volta non soltanto alleviarono la fatica domestica, ma diedero inizio alla diffusione dell’uso della forza motrice non umana.2 Si ridussero i costi e si migliorò la resa del prodotto. Allora, il Sarno era al centro della zona molitoria più evoluta del Mezzogiorno e, insieme all’Irno e al Fibreno, era stato il principale agente per la sostituzione della fonte energetica umana con quella naturale. L’elevata produttività del molino ad acqua aveva marginalizzato l’uso di quelli a mano e di quelli a trazione animale. Fin dal secolo XII, molini del Sarno lavoravano a pieno ritmo, i loro sfarinati erano esportati fuori dal Regno ed assicuravano anche l’approvvigionamento alla città di Napoli. I rifornimenti di grano giungevano, via mare, dai due principali granai del Regno, il Tavoliere di Puglia e la Sicilia. Nel Seicento, il pur cospicuo numero di molini ad acqua dell’area napoletana, le mole di porta Capuana e quelle ubicate ad Oriente, lungo il Sebeto, erano comunque insuffi­ cienti per soddisfare la richiesta degli abitanti di una città popolosa come Napoli. Per evitare le rivolte causate dalle frequenti carestie, generate oltre che dagli eventi naturali soprattutto dalle speculazioni, fin dal Quattrocento la città di Napoli aveva crea­ to gli uffici dell’annona per calcolare annualmente il fabbisogno di grano e di farina: da quei tempi i Seggi napoletani deliberavano il quantitativo di grano necessario alla città ed eleggevano i deputati alle compere del frumento. Questi correvano per il Regno e mandavano, per terra e per mare, come meglio pote­ vano, il grano acquistato che si riduceva in farina nei molini di Castellammare, Gragnano, Torre Annunziata e Vietri.3

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Nel 1587 i feudatari, proprietari dei molini lungo il Sarno, grazie ai loro avanzati sistemi di produzione, stipularono un contratto che fissava il prezzo di molitura del grano a due grani in meno a tomolo di quello che i napoletani pagavano ai mugnai di Amalfi, Gragnano e di Scafati4 e, quando nel 1653, il duca di Guisa si impadronì dei molini lungo la riva del Sarno e vietò la macinazione per l’approvvigionamento della città di Napoli, grossa sventura fu.5 Non a caso, quindi, nel 1592 il conte Muzio Tuttavilla aveva chiesto licenza reale per portare l’acqua di una delle sorgenti del Sarno alla Torre della Nunziata, con un canale artificiale e fornire altresì alla città di Napoli sfarinati a prezzi altamente competitivi.6 A tale scopo fece venire da Roma il celebre architetto Domenico Fontana che nello stendere il progetto contemplò che un cunicolo passasse sotto la collinetta chiamata Civita, senza lontanamente immaginare che proprio lì si trovavano le rovine di Pompei. “…spesso accadeva che, nel corso dei lavori, gli operai s’imbattessero in qualche tronco di muro… trovassero monete del tempo di Nerone o lapidi di marmo con nomi di cittadini romani. Nessuno diede peso a quelle scoperte, per ben sei anni. Fino al 1600 si continuò a scavare il canale del conte fino a che una lapide non rivelasse che si trattava della città sepolta”.7

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Il canale, nella sua estremità, muoveva tre ordini di mulini, il primo alla curva di via Sepolcri, il secondo al corso Garibaldi ed il terzo al largo Tiglio ora piazza Matteotti. La costruzione del canale del conte trasferì parte dell’attività molitoria dalle rive del fiume al centro del piccolo borgo che, alla fine del settecento, aveva 3.336 abitanti con 775 abitazioni oltre a venti magazzini per diversi usi, in parte laboratori artigianali di mac­ cheroni e di semola.8 Ma il canale del conte non fu l’unica realizzazione del genere: nel 1629 il conte di Celano provvide alla sistemazione delle acque del Sarno, a valle di Scafati, fino alla foce e altri mulini si insediarono, in località Bottaro, accanto a quelli del Tuttavilla. Alla fine del Seicento, alla foce del fiume si installarono anche i molini Dino accanto a quelli di casa ventotto, con innovazioni che ressero nel tempo assicurando competitività al sistema produttivo e nuove occasioni di lavoro. Erano molini a ruota, allora gli unici in Italia e, grazie a tale primato, che durerà a lungo, Torre Annunziata diventò il più avanzato centro di molitura del Regno. Lo sviluppo dei molini idraulici non soppiantò però del tutto la miriade di piccole mole sparse per la campagna (cirmoli) ove la forza umana e il sonnolento apparentemente eter­ no ruotare dell’asino o del cavallo attorno alla macina, o di una rozza cieca divenuta disa­ datta ad altri servizi, o un mulo o un ciuco, si aggiravano come forza motrice da mane a sera attorno ad un albero, spesso in uno stambugio oscuro ove il lezzo del fimo calpestato si univa a quello della muffa, in ambienti saturi di esalazioni ammoniacali.9 La disponibilità di sfarinati fece si che la produzione manuale e domestica della pasta si localizzasse in locali adiacenti ai molini. La conferma è nella documentazione catastale del settecento ove l’attribuzione della qualifica professionale nei molini porta, di frequente, la dizione lavorante maccaronaro.10 Accanto all’energia idraulica del fiume Sarno, il piccolo borgo aveva l’ulteriore vantag­ gio di essere punto di transito obbligato per le Calabrie e disponeva inoltre di una costa che, benché sprovvista di porto, consentiva l’approdo a velieri e barconi per il trasporto delle merci. Lungo la riva che si stendeva da capo Oncino alla petra Herculis (scoglio di Rovigliano) da tempo immemorabile approdavano commercianti e pirati ed il traffico è continuato fino ai primi anni del secolo scorso. Al suo approdo le saragolle della capitanata potevano giungere agevolmente quando ancora all’inizio del secolo diciannovesimo inviare merci via terra dalla Puglia a Napoli

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era un’avventura per i pedaggi che si dovevano pagare (a volte nove volte la tassa di passo o di pedaggio per un tratto di circa cinquanta miglia a baroni e pubblicani senza contare gli incerti, tutt’altro che infrequenti, di aggressioni, unica attività di quel tempo in conti­ nuo sviluppo).11 Decisivo, dunque, era stato per lo sviluppo della cittadina la sua ubicazione dato che nella transizione dall’economia medioevale a quella moderna, alla fine del settecento, sempre maggiore peso hanno avuto nello sviluppo dei centri abitati i fattori di posizione quali l’essere in punti di transito obbligato, presso ponti o incroci stradali, o disporre di energia idraulica o di approdi sicuri.12 Non a caso, scrivendo di Torre, il Galanti affermò: “Di tutti i villaggi di Napoli, questo mi sembra il meglio situato perché in luogo eminente ed ha una campagna vasta e aperta verso Scafati”.13 Valutazione ribadita all’inizio del secolo dal Presidente della Camera di Commercio di Napoli che nel 1904, parlando della pasta torrese, affermò che: “…una prima condizione è la vicinanza del mare, che può spiegare la benefica influenza sulla produzione, con il minor costo del carbone e delle materie prime provenienti dall’estero e con la più facile esportazione ... altro coefficiente naturale è costituito dalla mitezza del clima, e più specificatamente dalla luce, di cui si avvantaggiano determinate industrie, quali la fabbricazione delle paste da minestra”.14 Infatti, un fattore determinante per lo sviluppo delle attività dell’arte bianca a Torre Annunziata è stato anche il suo clima. Se gli arabi di Sicilia avevano offerto il metodo per essiccare al sole la pasta fresca, a Gragnano era stato perfezionato il processo di prosciugazione, sottoponendo la pasta dello ’ngegno ad un’azione combinata ed alternata di aria calda e fredda per evitarne ina­ cidimento e rotture. I lavoratori di Gragnano, per primi, portarono i maccheroni appena trafilati freschi un quarto d’ora nelle grotte a temperatura di zero gradi e, poi, un quarto d’ora al sole di mezzogiorno, dando vita ad una conservazione di lunga durata.15 Il processo di prosciugazione che dura da secoli, era stato così definito. Quest’azione, però, doveva essere effettuata alternativamente in breve spazio di tempo e occorrevano siti ove si riscontrassero frequentissimi cambiamenti meteorologici nelle ventiquattrore. La perfezione si poteva trovare nella zona di Torre Annunziata laddove il clima cambia sistematicamente quattro volte al giorno.16 Non a caso Torre è “là dove i venti caldi soffiano dal Vesuvio e la freschezza provenienti dal mare asciugavano la pasta alla consistenza giusta, ne’ troppo fragile nè troppo umida”.17 Alla fine del Settecento l’attività produttiva impressiona i viaggiatori del “Gran Tour”. L’Abate di Saint-Non scrive: “…quella specie di pasta che si chiamano maccheroni costituiscono per Napoli una parte di commercio assai notevole. Questi maccheroni si fabbricano nel luogo detto Torre dell’Annunziata presso il Vesuvio. Ed è con una qualità di grano chiamata saragolle che viene dalla Sicilia e dal Levante che si preparano tutte queste paste delle quali si fa un grande consumo nel Paese stesso e in tutto il resto d’Italia”18 e, nel 1769, il Lalande aggiunge: “E a Torre Annuziata, a quattro leghe da Napoli, che si trovano gli operai di pasta fine per lo più dato che i maccaronari di Napoli che fanno la pasta ordinaria, hanno diritto d’impedirne loro di lavorare in città ... si distinguono più di trenta tipi di pasta: Fidelini, Vermicelli, Punte d’Aghi, Occhi di pernice, Acini di pepe. queste sono le paste fini. Maccaroni, Trenette, Lasagnette, Pater Noster, Ricci di foretana, queste sono le paste doppie.19 Aumentata a ritmo sempre costante nel corso del settecento, la produzione pastaia conquistava nuovi mercati per suoi prodotti, sconfiggendo, dopo aspri contrasti, per bontà e prezzo, le resistenze dei ‘vermicellai napoletani’, che, stretti in corporazione, non consentivano la vendita in città della produzione torrese.

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Nel 1795, a Napoli la vendita delle paste e della farina fu liberalizzata e le corporazioni perdettero gli antichi privilegi, con la prammatica che chiaramente affermava: “Vi sono in Napoli alcune corporazioni o sian Cappelle di Marinari e Maccaronari, le quali han goduto per lo passato di alcuni privilegi e prerogative particolari. Or sebbene queste non sians’interamente abolite, si reggono però unicamente per l’utile de loro privati stabilimenti ma non possono in verun modo turbare l’economia degli altri venditori che non sono scritti alle medesime corporazioni”.20 Il primato della città è riconosciuto anche da storici ed economisti di quel periodo come Alessandro Betocchi, che scrive: “Quando, volgendo ad occidente della città di Napoli, ti indirizzi verso il contado che si stende ai piedi del Vesuvio, una grata impressione ti desta il vedere esposte per la strade, sopra bastoni e canne, le paste prodotte da quelli del luogo, il gran polverio che viene dal transitare d’ogni sorta di veicoli che insozza e deturpa le paste’ , perché le aziende per l’incartamento della pasta utilizzano sia il cortile del palazzo che la strada, la piazza il vicolo antistante”21 e, ricordando il prodotto della sponda di Amalfi, la pasta della costa, afferma: “Questa regione però ha perduta la supremazia, che le spettava per essere stata la culla della industria e il vanto che avevano specialmente i comuni di Amalfi, Maiori e Minori ora è stato ereditato da due paesi della nostra provincia, Gragnano e Torre Annunziata, che considerano quella delle paste come principale loro ricchezza”.22 La pasta di Napoli, prodotta a Torre e Gragnano, era garanzia di qualità. Torre diventò una città ricca! L’Amministrazione comunale, dopo l’eruzione del 1651, che aveva procurato molti danni e primo fra tutti l’occlusione del canale del conte, avviò un vasto programma di opere pubbliche che ancora resistono all’incuria del tempo e degli uomini. Ripristinò il canale del conte, contribuì alla spesa necessaria allo spostamento nelle campagne di Scafati della polveriera che minacciava la città posta com’era al Largo fab­ brica d’armi; costruì, a proprie spese, con la somma di 2.273.650 lire di allora, il porto che entrò in servizio nel 1871 e nel 1877 fu classificato porto sicuro sostituendo così il molo (l’antico scaricaturo) e la scogliera del 1841. Un porto con due moli di difesa: la banchina di ponente lunga 180 metri e quella di terra lunga 270 metri. Migliorano anche le operazioni portuali perché sulla banchina è impiantata una gru girevole in ferro, della portata di sette tonnellate che consente ai basti­ menti di grossa portata di ormeggiare al molo di ponente, mentre sulla banchina si pos­ sono imbarcare e sbarcare direttamente le merci senza bisogno di ponti di levante.23 Con la navigazione a vapore alla fine dell’Ottocento, traffici ed esportazioni si intensifica­ rono: in un solo mese, ottobre 1871, ben trentadue bastimenti e coralline attraccarono ai moli; nel dicembre dello stesso anno quattordici bastimenti aspettavano il loro turno in rada.24 Impressionava il gran movimento delle navi che, da mane a sera, scaricavano sempre grano, “proveniente in buona parte dalle lontane terre bagnate dal mar Nero e caricavano gallette, biscotti e paste lavorate, su navi che si spingono fino alle remote Americhe, facendo concorrenza ai biscotti inglesi ed alle farine viennesi e ungheresi”.25 L’incremento dei traffici fu condizionato anche dalla liberalizzazione del commercio del grano e, nel 1865, con l’esportazione del grano pugliese verso paesi esteri, per i mulini e pastifici torresi si pose la necessità d’approvvigionarsi di grano russo ed egiziano. Torre diventò uno dei maggiori centri di commercializzazione ed esportazione di gra­ naglie assieme a Marsiglia e Londra. Fra il 1861 e il 1864 le importazioni dalla Russia aumentarono del cinquanta per cento, anche perché i grani duri di Tangarog, per la loro ricchezza di glutine, erano necessari ai mediocri grani nostrani.26 Si importava grano, tanto grano, dalle lontane pianure di Manitoba, nel Nord Dakota, oltre che dalle steppe russe e si esportavano farina e pasta

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oltre che nelle Americhe anche ad Odessa, Pietroburgo, Amburgo, Svezia e nei paesi rivie­ raschi dell’Africa mediterranea. Montagne di sacchi di grano e di carbone sfuso ingombravano con le loro piramidi le banchine del porto. Nuvole di bianchi gabbiani volteggiavano sull’area portuale alla ricerca di chicchi di grano ed i loro striduli richiami accompagnavano l’affollarsi delle voci di comando, di imprecazioni e di sollecitazioni dei vastasi (scaricanti) o degli addetti alle chiatte che si accostavano, fino alla metà dell’ottocento, alle navi per il trasbordo dei sacchi di grano. E dal porto partivano carretti dalle ruote gigantesche (ù traine) carichi di sacchi acca­ tastati a piramide, con le stanghe tese alla bardatura del cavallo, così tese che davano l’impressione che da un momento all’altro il cavallo dovesse essere sollevato in alto men­ tre, bianco di schiuma, avanzava per le cale del porto. La paranza di cavalli doveva trasportare anche i ragazzini che si appollaiavano sulle code del carro e lì restavano nonostante i colpi di frusta del carrettiere che, a torso nudo, assiso come un dio sui sacchi, guidava il carro. E al porto si recavano, negli anni bui della dittatura fascista, popolani torresi per veder sventolare a poppa delle navi sovietiche quella bandiera rossa che aveva caratterizzato i loro ideali e alla cui ombra avevano conquistato, con lotte memorabili, condizioni di lavo­ ro tra le più avanzate d’Italia, sconfiggendo arretratezze padronali e delinquenza locale. A fine secolo, nel 1896, si edificarono i magazzini generali sull’area portuale, ma l’Am­ ministrazione Comunale non limitò il proprio impegno soltanto alle attività portuali, nel 1879 trasformò l’antico convento di S. Francesco in uno dei primi ospedali comunali d’Ita­ lia, nel 1887 costruì l’acquedotto che trasporta ancora oggi l’acqua potabile dalle foci del Sarno; affrontò i problemi della infanzia finanziando la scuola Arte e Mestieri che era stata fondata da privati nel 1870 e l’acquisì poi al patrimonio comunale nel 1896 per “fornire a tutti gli operai l’istruzione elementare e ai fabbri e meccanici l’istruzione professionale”.27 Nel 1864, il Comune inaugurò un Asilo infantile per “immegliare le condizioni morali e civili della plebe e anche perché per la povertà in cui vive, non può togliere al lavoro una parte della sua giornata per dedicarsi a siffatte cure”.28 “Si progettò la via Circonvallazione dalla piazza della stazione centrale delle ferrovie dello Stato alla via Vesuvio, perché la via del Popolo oberata dal passaggio giornaliero dei carri e delle carrozze non era più adeguata all’intenso traffico delle merci”.29 La città diventa centro di attrazione per le popolazioni contermini, infatti, dal 1818 al 1861, registra un forte incremento demografico, la popolazione aumenta del 72 per cento; nel 1860 la città, che contava già tredicimila abitanti, che nel 1881 diventeranno ventimi­ la, è fra le prime venti città meridionali. Le attività cittadine garantivano possibilità di lavoro extragricolo, e i nuovi venuti si ammasseranno nei vecchi quadrilateri medioevali, in alloggi fatiscenti e carenti di servizi e tale situazione si protrarrà per anni. Nel 1951 l’indice di affollamento a Torre era di 2,57 abitante per vano, mentre in Campania era di 1,88.30 Nel 1877 la città ha bisogno di spazi e ingloba dai comuni di Boscotrecase e Boscoreale i quartieri dell’Oncino e Delle Grazie, configurandosi come una lunga striscia di terra a ridosso della costa da Castellammare a Torre del Greco. Cosa fosse diventata la città è scritto nella deliberazione del Consiglio Comunale che, nella seduta plenaria del 19 maggio 1927, nell’esprimere la propria contrarietà allo scor­ poro della frazione di Pompei, a seguito del concordato con la chiesa cattolica, ricordò: “Torre Annunziata che fin dalla creazione si distinse per la propria operosità e per l’ardimento delle proprie iniziative nel campo dei commercio e della industria che le diedero presto reputazione mondiale, assunse dopo la costruzione del suo porto mercantile (costruzione

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eseguita interamente a spesa del Comune) un così rapido sviluppo da assorbire subito due larghe zone dei vicini comuni di Boscotrecase e di Boscoreale, le frazioni cioè Grazie e Oncino, ad essa aggregate con decreto reale del 22 febbraio 1877. Da quell’epoca, divenuta, in ragione del suo porto, il naturale sbocco di tutto il vasto hinterland costituito dai comuni dietrostanti fino al circondario di Nola ed oltre e per i favorevoli mezzi di comunicazione, centro di irradiazione commerciale per tutti i comuni contermini che hanno in esso il naturale svolgimento dei loro affari e trovano per i loro concittadini facile collocamento di mano d’opera e ben compensata esplicazione di ogni attività in Torre che ha realizzato uno sviluppo prodigioso per l’aumento delle sue fabbriche e per l’impianto di nuove industrie che la fanno considerare il maggiore centro commerciale, industriale e bancario del Mezzogiorno d’Italia; che ha accresciuto numericamente la sua popolazione da sedicimila nel I877 a quarantamila oggi, senza tener conto della popolazione fluttuante costituita da operai di altri comuni che impiegano qui la loro opera, è tutta contenuta nel modesto territorio di solo dieci chilometri quadrati, con una proporzione di quattromila abitanti per chilometri quadrati.”.31 Lo sviluppo economico della città era stato impetuoso, disordinato, volontaristico soprattutto a cavallo del XIX secolo tanto che attività industriali diverse da quella del settore dell’arte avevano trovato difficoltà ad insediarsi. Alla fine del secolo l’Amministrazione Comunale respinse l’istanza della ditta Armstrong che intendeva acquisire un’area lungo la spiaggia della salera per impiantarvi un’impresa metallurgica. “Che faremo noi se gli operai abbandonassero le nostre fabbriche… Chi farà più i nostri maccheroni se arriva questa fabbrica?” gridavano gli imprenditori mugnai e pastai.32 L’llva, per poter operare, dovrà fare ricorso ai lavoratori provenienti d a l l ’ h i n t e r l a n d boschese: il lavoro ai forni era pesante, pericoloso e retribuito meno di quello dei mugnai e pastai. Tutta la città vive dell’arte bianca. Lo sviluppo di questa attività produttiva continuerà fino a dopo la prima guerra mon­ diale. Nel censimento delle forze produttive del 1874 Betocchi scrive che a: “Torre Annunziata ove vi sono 140 fabbriche e ove si producono paste e pastine per 250.000 quintali... si produce anche farina e semola, credo altri 250.000 quintali sicché il consumo medio di grano di detto comune è di pressoché 130.000 quintali di grano. I maggiori industriali in Torre: i fratelli Palumbo, De Simone, Cuccurullo, Massa, i signori Prisco, De Matteo, Cesaro, La Rocca, Formisano, Russo, Iennaco, Giordano. Questi sono i fabbricanti di maccheroni sebbene taluni anche di pastine. Producono queste ultime i signori Palmieri, Scala, Montella etc.”33 A fine secolo, anche nel settore dell’arte bianca, il processo di industrializzazione è caratterizzato dalla sostituzione delle macchine al lavoro dell’uomo, con l’uso di nuove fonti di energia (vapore, gas, etc.) e di nuovi materiali, dal ferro ad altre leghe metalliche, nella costruzione dei nuovi mezzi di produzione. La produzione pastaia si avviava ad essere una vera e propria industria attraverso gran­ di complessi forniti di generatori a vapore e di nuovi sistemi di lavorazione a cilindri.34 Nel 1889 i motori a gas in esercizio a Torre Annunziata sono nove, il gas povero prov­ vede all’illuminazione elettrica dei Magazzini Generali e del pastificio dei Fratelli Manzillo, il più grosso complesso industriale del settore dell’Italia Meridionale, il molino e pastificio Scafa si insedia, nel 1883, all’angolo di via Cuparella, con una produzione di centocin­ quanta quintali di pasta al giorno, mediante il metodo di essiccazione naturale.35 Nel 1891, su duecentotredici fabbriche di pasta attive in tutta la provincia ben centodue sono localizzate nel comune di Torre Annunziata, ma solo undici sono fornite di motori meccanici, le rimanenti eseguono il lavoro mediante torchi a mano.

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Le aziende occupano più di 1.688 addetti e di questi ben 536 sono mano d’opera mino­ rile al di sotto di quindici anni. A fine secolo si lavoravano trecentocinquantamila quinta­ li di pasta e pastine.36 A cavallo del secolo che finiva, l’impegno all’ammodernamento è una sfida da vincere per gli imprenditori torresi, i motori a vapore e le innovazioni nel processo produttivo sconvolgono le antiche strutture e le consolidate attività tradizionali. Non ci sono i capitali sufficienti e così artigiani e imprenditori sono costretti a cercarli. L’intervento della Società Assicurazioni Diverse (Sad), una finanziaria napoletana, garantisce gli investimenti necessari. La Sad, fondata e diretta da Massimo Levi e Teodoro Cutolo nel 1824, sostenne il rin­ novamento delle strutture produttive in cambio della cessione del controllo finanziario e organizzativo delle stesse imprese che saranno gestite da fiduciari della finanziaria. Ai vecchi proprietari erano demandati soltanto compiti di direzione tecnica: non erano più padroni nelle loro aziende! La dipendenza si aggravò ulteriormente quando i Cutolo padre e figlio costituirono un’altra società, anch’essa controllata dalla Sad, per il commercio dei cereali da fornire all’industria molitoria.37 A Torre, tutto è nelle mani della Sad: credito, produzione e commercio dei grani. La Sad avrà suoi uomini anche nell’amministrazione comunale e diventerà l’arbitro delle scelte sociali e politiche della città. Il ricordo di quell’esperienza segnerà profondamente gli imprenditori che coveranno una generalizzata diffidenza verso ogni forma di attività associata e non agevoleranno l’iniziativa dell’Orsini che, alla vigilia della prima guerra mondiale, aveva avviato la prati­ ca per l’istituzione di un consorzio fra tutti i pastifici e molini di Torre Annunziata per il miglioramento e l’unicità dei prodotti38 e, negli anni cinquanta, respingeranno ogni invito del Comune democratico e del sindacato ad avviare iniziative comuni in difesa del settore preferendo la morte lenta, per asfissia, ad un qualsiasi tentativo associativo. All’inizio del nuovo secolo l’apparato produttivo ha superato la crisi, il processo di ristrutturazione è completato: i centodue pastifici del 1895 sono ora, nel 1904, appena, quarantasette, lavorano a pieno regime ed esportano in tutti i continenti. Lo sviluppo industriale ha anche condizionato le scelte urbanistiche, l’espansione della città. Accanto all’antica struttura urbana caratterizzata da residenze artigiano-mercantili preottocentesche, sviluppate su due o tre piani, intorno ad un dedalo di fondachi e vicoli privatizzati all’uso, accanto ai vecchi quartieri medioevali, si aprono nuove strade funzio­ nali alle esigenze delle attività produttive: strade larghe con aree, piazze e marciapiedi vasti, esposti al sole e ai venti. Si costruiscono nuove aziende, grossi complessi che devo­ no avere spazi per il processo di prosciugazione e per le aumentate attività commerciali Sono i munnazzei, voluminosi complessi edilizi di due o tre piani, con ampi androni, vasti scantinati e lunghi, alti stanzoni, ben aerati nei piani superiori usati per la prosciu­ gazione che si alternano a residenze borghesi ottocentesche localizzate sia sulle aree di complemento del centro che su regolari e geometrici lotti di espansione della periferia. Sono i nuovi molini e pastifici che sostituiranno le obsolete strutture artigiane ove mini­ mo era lo spazio per la residenza, e che vedevano al piano terra l’ambiente di lavoro e ai piani superiori i locali di soggiorno e, collegati con scale, terrazze e ballatoi ove spandere la pasta.39 Valenti operai diventano imprenditori. Alla fine dell’Ottocento, i nuovi, moderni, complessi produttivi occupano le aree di espansione: accanto al già ricordato mulino e pastificio di Domenico Orsini in via Oplonti, e al complesso Scafa si installano nuove imprese: il mulino De Nicola e Cirillo del 1884,

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al rione Grazie, il mulino SAM a largo Genzano, il mulino di Francesco Cirillo in via Oplonti. Moderni pastifici si impiantano lungo le nuove strade, al corso Umberto in fila: i pastifici Pagano e Cirillo, Manzo, Montella, Formisano; in via Vesuvio il pastificio Monaco; in via Maresca il Voiello; a via Vittorio Veneto il complesso Gallo; in via Roma l’azienda di Mennillo e Montuori; al corso Vittorio Emanuele Iennaco e Scala; il pastificio Vitagliano accanto al complesso Scafa alla cuparella; a piazza Matteotti il pastificio di Liegro; a via Mazzini l’Inserra e in via Gioacchino Murat il complesso Ciniglio e l’azienda Fogliamanzillo. Anche nei vecchi vicoli (Via Commercio, via Fortuna, vico Luna, via Eolo, via Carlo Poerio etc.) le antiche strutture artigianali si trasformano in fabbriche. Sono aziende che svolgono la loro attività in una continuità di spazio interno-esterno, utilizzando per l’incartamento sia il cortile del palazzo sia le strade, la piazza o il vicolo antistante. I marciapiedi e le piazze, ogni spazio utile è occupato da stenditoi che reggono pasta. Ancora oggi impressiona la larghezza dei marciapiedi come quelli del Corso Umberto, larghissimi su un solo lato, là dove batte il sole. Accanto alle aziende, tanti venditori di granaglie che in tutte le ore del giorno passava­ no ai crivelli grano e granaglie per eliminare la pula che svolazzava come piume di pri­ mavera per tutta la strada. Era l’epoca in cui specialisti inviati anche da aziende estere ad impiantare nuove moderne macchine, restavano a Torre per tentare l’avventura imprenditoriale come quel Messier Rho che si naturalizza col nome di Monsurrò ed avrà il suo pastificio. Tutte le imprese fabbricavano tre classi fondamentali di formati: pasta lunga, pasta corta e pastine, solo poche producevano matasse o nidi.40 La differenziazione era anche nella qualità. A fine secolo, “due principali specie di lavorazione si fanno, oltre una terza, la nera di cui si lavora ad uso di fornitura e per utilizzare gli avanzi non adoperati nella qualità fine. Si esportano le migliori qualità, le mediocri e le infime si serbano al consumo locale”.41 Cosa fosse l’arte bianca per la città lo scrisse con efficacia su l’Avanti, nel 1904, il socia­ lista Oddino Morgari: “Torre Annunziata vive dell’industria delle paste. I grani le giungono dalla Russia su dei piroscafi, trecento lavoratori del porto mettono quei grani a riva; cinquecento mugnai li riducono in semole in quattordici grandi mulini a vapore; ottocento pastai trasformano queste semole in paste in cinquantaquattro pastifici, duecento meccanici, fuochisti e falegnami ne dirigono e riparano le macchine; altrettanti carbonai le forniscono di combustibile dal mare; trecento uomini della carovana di piazza fanno i servizi esterni con dei carretti a mano; cento carrettieri trasportano le paste a Napoli; cinquanta facchini della ciurma della ferrovia le caricano sui treni; cinquanta lanzaiuoli, su delle barche, delle lanze, le menano via mare a piccole partite; e i già descritti lavoratori del porto, che han fornito la materia prima, cioè il grano, ricevono ora il prodotto di ritorno e lo imbarcano sopra le grosse navi - che lo porteranno specialmente in America. Sono così quasi tremila persone e, colle loro famiglie, più di diecimila quelle che vivono direttamente in Torre, con l’industria delle paste, e si dividono in più di venti categorie di mestiere che però allacciano siffattamente le loro operazioni l’une con le altre che, se un anello della catena si ferma, tutti gli altri si debbono fermare. Allora scoppia lo sciopero generale, tutta la vita della città si arresta e la stampa italiana è costretta a occuparsene come fa in questi giorni”.42 Erano anni d’oro per Torre, considerata la Manchester dell’Italia Meridionale. La pasta prodotta nei suoi munazzei conquistava premi: il pastificio di Pasquale Sarnacchiaro, ex operaio, vinceva il premio all’esposizione di Parigi del 1900 e la medaglia d’oro all’esposi­ zione internazionale di Padova del 1913.

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“Torre Annunziata era la regina della pasta e l’odore che si avvertiva nell’aria era appunto l’odore dei maccheroni lunghi e fluenti come capigliature femminili, anche questi dei tempi passati. Ordinatamente appoggiati alle canne e allineati sui cavalletti di legno ad asciugare all’aria sui terrazzi o nei cortili dei pastifici non ancora provvisti di celle di prosciugazione. Seccando ai venti quei lunghi fili sottili o spessi secondo il tipo della trafila da cui erano usciti s’intridevano anche del sentore del mare: Questa commistione di aromi rendeva così particolare e famoso il prodotto nel mondo. Non lo so… ma so che quell’odore giallastro, caldo e pastoso leggermente acidulo, ha nutrito la mia infanzia e quella dei miei amici e coetanei: un odore che era un vessillo di nobiltà... Col dopoguerra quell’odore é scomparso, uno alla volta questi pastifici e molini hanno cessato la loro attività arrendendosi alla concorrenza del Nord. e così quell’ odore é restato un ricordo diciamo pure una nostalgia; la nostalgia di un tempo irrimediabilmente perduto vivo oggi solo nella memoria”.43

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Capitolo sesto La condizione operaia

Lo sviluppo economico non si era accompagnato a quello sociale e le condizioni di vita del popolo e dei lavoratori erano inaccettabili. Non si era avverato l’auspicio che le fab­ briche di maccheroni avrebbero determinato la ricchezza della popolazione, che lo svilup­ po dell’economia si sarebbe tradotto in benessere per tutti.1 Il sindaco della città, Vincenzo Gambardella, rispondendo al questionario dell’inchiesta agraria dell’onorevole Jacini nel 1877, dichiarava una mortalità infantile del 35%, l’esi­ stenza di un grandissimo numero di analfabeti, un’alimentazione di pane e piante erba­ cee, abiti ordinariamente di lana ruvida ed un solo pasto, alla sera, quando mangiavano una vivanda calda dopo aver fatto colazione di pane a mezzogiorno.2 Nelle fabbriche, le condizioni di lavoro restavano drammatiche: “Abbiamo visto due stabilimenti rappresentanti i due tipi dell’industria delle paste: il congegno a mano dove l’operaio è costretto ad un lavoro assolutamente bestiale e il congegno a macchina che riduce il lavoro strettamente manuale ed è causa della disoccupazione. Ma sia con l’uno che con l’altro sistema il povero pastaio è sempre pagato con tariffe di fame”.3 Un dirigente della Camera del lavoro di Gragnano prima e della Cgil nazionale dopo, ci ha ricordato che: “Nel 1859, a Torre Annunziata sono aumentati i mulini e le fabbriche di pasta alimentare. Le poche notizie pervenute sulla condizione dei lavoratori dicono che si lavora dall’alba al tramonto e che la situazione rimane all’incirca quella del secolo scorso”.4 E ancora, nel 1880: “si lavora tre stagioni all’anno e la maggior parte degli operai non supera, a fine secolo le due lire se non attraverso il cottimo, con dei livelli massimi che non superano le 3,50 lire e questo quando all’inizio dei secolo le due lire di salario costituivano lo spartiacque tra la miseria assoluta e quella relativa”.5 Il metodo della retribuzione era distinto e diverso in rapporto a funzioni e qualifiche: gli abburrattatori e quelli che dividevano le semole erano pagati a mesata; chi faceva la pasta, secondo il ruolo, con mercede quotidiana o anticipazioni settimanali.6 Si lavorava generalmente a cottimo, retribuiti non in rapporto alla prestazione data, alle ore di lavoro, ma alla pasta prodotta; si era pagati in natura o metà in natura e metà in denaro. La giornata lavorativa non era inferiore alle dodici-quindici ore giornaliere con inizio dettato dalle necessità della produzione, e soltanto nel 1902, con uno sciopero unanime di due giorni i lavoratori conquistarono la giornata lavorativa di dodici ore. Ricevevano il loro salario nelle bettole condotte da confidenti e costretti a spendervi parte della loro mercede.

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La riscossione della paga era fissata in opificio la domenica mattina. C’era sempre qual­ cosa da sistemare e qualche imprenditore di buon animo, anche custode di virtù religiose, pretendeva che i lavoratori lo accompagnassero alla funzione religiosa. L’assunzione era discrezionale così come il licenziamento e, nel corso degli scioperi, era prassi normale che gli imprenditori assoldassero schiere di crumiri, trovando compren­ sione ed appoggio nelle autorità costituite. Le malattie professionali, quelle afflizioni che si qualificavano allora come mali sociali, facevano strage di mugnai e pastai che, sottoposti a un lavoro duro, pieno di pericoli, si ammazzavano di fatica ed erano colpiti da malattie croniche che nessun servizio sanita­ rio, allora, riconosceva o assisteva. Una delle caratteristiche dell’attività produttiva della pasta era la velocità nel susseguir­ si delle operazioni, ogni ritardo era irrecuperabile, danneggiava il prodotto. Il processo produttivo non consentiva soste o ritardi, era una lotta contro il tempo, non aveva nessuna pietà per gli uomini che passavano di corsa dall’asfissiante caldo umido delle sale di produzione all’aria aperta, al vento di tramontana. Dalle finestre raso terra si vedevano i reparti di lavorazione: uomini scalzi, in mutande o con un sacco legato alla cintola, che gramolavano o pressavano il tutto in un ambiente caldo umido, piacevole per chi osservava dalla finestra, ma micidiale per chi vi lavorava. I bruschi passaggi di temperatura a corpo seminudo procuravano gastriti, reumatismi, catarri e bronchiti, anche con casi di tubercolosi, senza dimenticare che la lavorazione dell’impasto umido trasmetteva mali artritici e deformava le mani. Non diversa era la condizione dei mugnai, minacciati continuamente dalle particelle di farina che, disperdendosi nell’aria ostruivano non solo la gola ma anche lo stomaco e i polmoni. Le macchine setacciatrici e lo scuotimento dei sacchi associavano alla farina anche pulviscoli che provocavano con estrema facilità tossi persistenti, asma e cisposità agli occhi, nonché pruriti per tutto il corpo, affezioni cutanee e sottocutanee e, spesso, distur­ bi all’apparato uropoietico. Non a caso, nel 1301, re Carlo allontanò dai quartieri del centro di Napoli le attività ritenute insalubri e tra questa anche quella molitoria. Tutto questo senza tener conto delle lesioni meccaniche e delle malattie dell’apparato locomotore; degli incidenti sul lavoro e del fatto che il fracasso delle ruote e delle mole, generando onde sonore elevate, incideva sui timpani e spesso provocava sordità.7 Eppure, quei lavoratori, produttori di ricchezza, erano uno scandalo per le classi diri­ genti, tanto da poter affermare pubblicamente: “è da deplorare la indecenza di operai,i quali laceri o seminudi, volgari nei modi e nelle parole attendono alla lavorazione delle paste alimentari”.8 Peggiore era lo stato degli addetti alle attività portuali. Organizzati in ciurme di imbarcatori, stivatori, lanzaiuoli, stivatori di bordo, segatori di bordo, misuratori erano soggetti alle angherie e soprusi anche fisici dei caporali, che, spesso, erano collegati al sottobosco malavitoso che ruotava attorno alle attività produt­ tive locali e, più volte, furono utilizzati in funzione antisindacale. Erano i caporali ad assumere, secondo il loro arbitrio e convenienza, e a distribuire la paga. Si scaricavano grano e carbone, un lavoro duro e sfibrante che abbisognava di forza e abilità. Montagne di carbone occupavano le banchine, il migliore, il Cardiff, lucente come ossi­ diana, era tagliente e procurava abrasioni e ferite. Una parte del carbone andava in una piccola fabbrica, le mattonelle, che lo trasformava

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in ovuli per le Ferrovie dello Stato. L’elettrificazione della rete le assestò il colpo di grazia. Era una vita disumana e pericolosa, i lavoratori respiravano polvere nera sospesa nell’aria che irritava le mucose nasali, colmava gli alveoli polmonari (pneumocoriosi) pro­ vocando asbestosi; per lo sforzo, subivano danni all’apparato locomotore, senza parlare della facilità dei frequenti incidenti per la specificità del percorso da nave a molo.9 Fra la nave, la chiatta e la banchina venivano collocate, a mo‘ di passerelle, tavole di legno: il lavoratore salito a bordo, copertasi la testa con la punta di un sacco, si caricava sulle spalle una cuffia di circa un quintale di carbone e quindi, ridiscendeva a terra per depositare il proprio carico sul mucchio, sotto il peso del suo carico, la passerella, sulla quale egli correva veloce, oscillava paurosamente col rischio concreto di farlo cadere in mare. Accanto ai cumuli di carbone si ergevano sul molo montagne di sacchi di grano coper­ te da teloni per la pioggia. Era un lavoro massacrante anche quello dei braccianti, i vastasi, che scaricavano o caricavano dalle navi o nelle aziende sacchi di grano o di farine o cassette di pasta; tra­ sportavano i colli, superiori al quintale, correndo incurvati, in modo che il peso si appog­ giasse sull’intera schiena del portatore; afferravano il sacco con le due mani, trattenevano il respiro e il fiato con grande tensione per tutti i muscoli, specialmente per quelli del torace e dell’addome, e non di rado si verificavano rotture dei vasi del petto. Il facchino nel momento in cui metteva il peso sulle spalle, inspirava una grande quan­ tità di aria e poi ne espirava poca perciò le vescichette dei polmoni si gonfiavano notevol­ mente, tanto che i vasi polmonari eccessivamente tesi si potevano facilmente rompersi provocando asme irreversibili. Il peso provocava, ostacolando il movimento del sangue verso le parti superiori delle gambe, dilatazioni delle vene che, col tempo, diventavano varicose. I facchini, inoltre, diventavano con l’andare del tempo gobbi, in quanto nel trasporto, le vertebre della schiena si piegavano in avanti e acquistavano quella conformazione che li rendeva storpi. Non di rado, soffrivano anche di ernia perché, trattenendo il respiro sotto sforzo, con grande facilità dannegiavano il peritoneo.10 Non da meno era la condizione e lo sfruttamento in fabbrica dei ragazzi indispensabi­ li sia nel periodo dello ’ngegno sia successivamente: “Chi in Torre non conosce la condizione e lo sfruttamento dei poveri ragazzi pastai? Essi all’età di sette-otto anni lavorano in onta alla legge sino a quattordici-quindici ore su ventiquattro, con un salario minimo di 17 centesimi. ed un massimo di 80 centesimi al giorno. Essi, i piccoli proletari, sono costretti ad andare all’una dopo mezzanotte per ritornarsene a casa storpiati e piangenti alle 17 del giorno seguente. Guai se uno di essi cerca, durante il lavoro, di riposarsi un minuto che subito il capo pastaio si avventa sul malcapitato bambino e giù schiaffi, calci e sputi sul viso”.11 Il ragazzo era l’addetto alle commissioni dentro e fuori la fabbrica, quando non doveva, come un criceto in gabbia, scalare gli assi della ruota che imprimeva movimento alla vite dello ’ngegno oppure correre per l’azienda a raccattare nei cesti i fili di pasta persi nel corso delle varie operazioni, era, in pratica, un piccolo schiavo, a volte, senza alcuna con­ siderazione anche da parte degli stessi lavoratori adulti. Non diversa era, e lo è stata fino agli anni cinquanta, la condizione dei ragazzi addetti ad attività “collaterali” ma indispensabili all’arte bianca, i cassettai. Le segherie, fornitrici di cassette di legno per la spedizione della pasta, sono state il regno incontrastato della violazione di tutte le norme a tutela dei lavoratori, ubicate in androni, capannoni e tettoie esposti alle intemperie, impegnavano decine di ragazzini dai cinque ai nove anni che assemblavano e inchiodavano cassette, prelevando i chiodi dalla bocca per accellerare i

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tempi di lavorazione perché ognuno era responsabile della confezione della cassetta e la paga era commisurata alle cassette finite. I più bravi riuscivano in un giorno a battere fino a dieci-quindicimila chiodi, ma l’aria inquinata dalla polvere da legno, gli acidi che accompagnavano i chiodi, l’esposizione alle intemperie causavano malanni fino alla tubercolosi. Alle rare ispezioni degli organi preposti al rispetto delle leggi sul lavoro, dopo la liberazione, la piazza centrale di Torre si trasformava in vociante assembramento di ragazzini festanti per il momento di libertà. Anche l’impacchettamento delle paste, che avveniva su un lungo tavolaccio al vento, sotto una tettoia in un angolo del pastificio, era prerogativa di decine di ragazzi, qualche donna e un pesatore, tutti al servizio di un caporale appaltatore del servizio. Yves Montand ricorda: “All’inizio il mio lavoro consisteva nel riempire dei sacchetti di cellofane gialli. Stavo seduto in una cantina rischiarata da una feritoia e, tutt’attorno erano impilati enormi sacchi di juta colmi di pasta di diverso formato, conchiglie, vermicelli, tagliatelle, spaghetti. Ero solo ma di tanto in tanto, una capa veniva a controllare quello che facevo”.12 Le agili dita dei ragazzini avvolgevano i fili di pasta in una bella carta spessa, di colore celestone, su cui incollavano bordi ed etichetta del pastificio. I fogli usati erano di carta pesante, robusti e lucenti, quasi impermeabili, e avvolgevano la pasta e le casse da esporta­ zione per preservarle da impurità che potessero alterare il completamento della prosciuga­ zione durante il lungo viaggio per mare. Sul pacco di pasta, ’u cuoppe, spiccavano, per la policromia dei colori, le etichette del pastificio e quelle che indicavano quantità, qualità (pasta di pura semola, o mista, cioè pasta di tipo 0 e doppio 0) e formato (candele, ziti, spaghetti, vermicelli etc.). I pacchi erano progettati e confezionati in modo da trovare posto perfettamente sugli scaffali delle botteghe. Quei fogli usati erano ricercati per essere utilizzati poi per pacchi, pacchetti, incartare colazioni oleose ma soprattutto per foderare libri e quaderni di scuola. Erano fogli che il potecaro non negava a nessuno, ne aveva sempre, perché la pasta si comprava anche sfusa, non necessariamente bisognava comprare l’intero pacco, la pasta si pesava senza carta, l’acquirente depositava direttamente sulla bilancia la quantità scel­ ta e non pagava il peso della carta. Si comprava a credenza (a credito): un piccolo unto e bisunto libricino, quasi sempre con la copertina nera che reggeva meglio le macchie di grasso, sgualcito, arrotolato, ripor­ tava data e quantità degli acquisti e si pagava secondo le disponibilità, a fine settimana o mese e sempre nascevano discussioni e contestazioni su quanto era segnato. Alla poteca si acquistava anche la monnezzaglia, pasta di diversi formati raccolti a terra nel pastificio o segnata (canniata), che era molto richiesta, perché costava meno e si ven­ deva in grandi casse di legno. Ed anche qui quante discussioni con chi pretendeva di scegliere i tipi di pasta che abbisognavano alla sua minestra o che voleva soltanto pasta corta o lunga. Ma si restava amici anche dopo le accese discussioni e gli inevitabili epiteti di ladro e imbroglione rivolti al potecaro perché ci si conosceva tutti, si sapeva “vita morte e miracoli di ogni cliente”. La poteca era un centro di vita sociale, di incontri tra le massaie, di solidarietà tanto che mai un bottegaio ha negato la pasta ai figli degli scioperanti che non potevano pagare subito. Nonostante tutto, alla fine del secolo, nel 1898, di fronte al susseguirsi di tante innova­ zioni il Giornale dei Mugnai nel suo bollettino numero 6, poteva, a ben ragione annotare che “fino a pochi anni or sono la macchina della pasta non era che un adamitico congegno: a Napoli s’impastava a mano nella martora, si gramolava a stanga pure a mano, si torchiava in tronchi a vite con arganelli”.

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Il divario tra sviluppo produttivo e condizione umana era diventato intollerabile nella seconda metà dell’Ottocento anche perché il processo di ammodernamento non era stato indolore. I lavoratori non avevano dimenticato la dura repressione subita nel 1878 quando si installò una nuova macchina, la semolatrice meccanica, detta la marsigliese, che sostituì, di colpo con un solo operatore, il lavoro di cinque o sei operai che scuotevano i crivelli. Erano lavoratori qualificati dato che la qualità delle paste dipendeva anche dal numero di volte che veniva setacciata la materia prima: sei volte le semole per le paste di prima qualità, cinque per quelle di seconda e quattro per quelle di terza.13 A Torre scoppia la rivolta, durata cinque giorni, gli operai invadono e devastano gli stabilimenti, spezzano le paste, bruciano le macchine affamatrici non lasciandone una, percuotono le guardie, negli scontri muore un industriale. Intervenne l’esercito, furono effettuati numerosi arresti, cinquanta rivoltosi furono condannati con pene dai due ai tre anni di carcere. Le marsigliesi furono ristabilite ovun­ que.14 “La modernità toglie lavoro”, “Le macchine sono la rovina dell’operaio” furono le parole d’ordine perdenti: infantilismo ed inesperienza associativa fecero considerare ogni innovazione apportatrice di disoccupazione, di miseria, nemica dei lavoratori. I lavoratori, istintivamente, avevano raccolto l’appello di chi, alla fine del Settecento, di fronte alla rivoluzione industriale, aveva levato inni contro le innovazioni: “Distruggete il vapore, il feroce Moloch Voi, migliaia di lavoratori, segategli la mano, o da un giorno all’altro condurrà a rovina il nostro Paese!”15

Le conseguenze di quest’atto luddistico furono pesanti. A parte i lunghi anni di detenzione cui furono condannati lavoratori scelti nel mucchio, grande fu l’abbattimento della classe operaia che, quando nel 1884 si introdussero i moli­ ni a vapore, le impastatrici, le gramole e le presse meccaniche e metà degli operai restò disoccupata, non reagì.16 Di fronte a questa situazione, uomini semplici, lavoratori, animati dagli ideali del socialismo, coraggiosi nonostante arresti e persecuzioni di un apparato statale che consi­ derava ogni forma di associazione, di contestazione o di sciopero un’attentato alla sicu­ rezza nazionale, avviarono forme elementari di organizzazione dei loro compagni di lavoro. Dopo la dura ed infausta esperienza della lotta contro le marsigliesi, la propaganda socialista indica nuove mete per il riscatto del lavoro, non più ostilità verso le “macchine che ci tolgono lavoro”, perché non sono le macchine “la rovina dell’operaio” ma è il sistema che “è responsabile della nostra miseria ed in attesa di risolvere il conflitto sociale, occorrono unità e lotta con un forte sindacato per ridurre l’orario di lavoro, abolire le prestazioni a cottimo, ottenere salari migliori, difendere la salute, riconquistare la dignità offesa dall’arroganza padronale”.17 Unirsi, dunque, per migliorare le condizioni di vita ed essere partecipi dei benefici dello sviluppo economico e non leggere soltanto su qualche giornale che: “è stato il lavoro assiduo e intelligente degli operai di Torre Annunziata che ha reso prospera la locale industria”.18 Nel maggio del 1862 fu costituito il Comitato Masaniello al fine di “migliorare le condizioni della classe infima della società tanto moralmente quanto materialmente, classe per circa due secoli tenuta in abietto stato da feroce tirannide”.19 Nel 1883 si costituisce la prima Società di mutuo soccorso che nel 1891 si trasforma in Camera del Lavoro con quattro leghe: metallurgici, pastai, mugnai e falegnami che orga­

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nizzano circa quattromila soci. Con la direzione di quell’apostolo del socialismo che fu Gino Alfani, la Camera del Lavoro diventerà un baluardo di democrazia, sarà “il principale simbolo delle lotte sindacali nel Sud, una roccaforte alla quale guarderanno i lavoratori dei paesi vicini”.20 Con la costituzione della Camera del Lavoro inizia una stagione di lotte memorabili. La scelta dei lavoratori di darsi una organizzazione stabile provocò la reazione degli industriali che, nel 1900, su iniziativa dell’avvocato Federico Orsini, organizzarono la Borsa del Lavoro21, una delle prime associazioni imprenditoriali in Italia, l’unica in Campania, fino al 1917, quando si costitui l’Unione Industriali di Napoli. Le parti sono pronte per lo scontro; gli anni dal 1901 al 1904 saranno caratterizzati da aspri conflitti sindacali che coinvolgeranno tutta la città, con successi e sconfitte, con una somma indescrivibile di sacrifici che i lavoratori dovranno subire fino all’eccidio dei con­ tadini a Cattori: “inermi contadini giacciono esanimi sulla terra in una pozza di sangue”22 per affermare il diritto ad una vita decorosa e per veder riconosciuto il sindacato come loro agente contrattuale. Il I maggio 1896, il sindacato, molto forte nonostante le perse­ cuzioni e i numerosi arresti subiti, organizza un corteo al quale partecipano migliaia di lavoratori. Per impedire la manifestazione intervengono un battaglione di cavalleria e uno di fan­ teria. Di fronte alla ferma reazione, la truppa invade e incendia la Camera del Lavoro e quindi impone alla città lo stato di assedio, protraendolo per quindici giorni.23 Ma è del 1901 il primo sciopero generale per aumenti salariali, uno dei primi in Italia. La città è posta in stato d’assedio. Percorsa di giorno e di notte da pattuglie di guardie, carabinieri e soldati che dormono sul piede di guerra con doppia giberna. Questi poveri ragazzi sono gettati in vasti scantinati e da cinque giorni dormono sulla paglia, ammuc­ chiati come bestie. La vita cittadina è quasi sospesa. Non una dimostrazione, non un grido, non un incidente ma calma, invito alla calma su tutta la linea, anche sui manifesti affissi sulle mura della città. È il vero sciopero classico moderno: alla parola d’ordine i lavoratori hanno abbando­ nato gli opifici senza scambiare una sola parola coi padroni, hanno incrociato le braccia e si sono raccolti nella loro casa, la Camera del Lavoro. Il mantenimento della calma è diventata una preoccupazione quasi ossessiva e, forse, non a torto. Lo spiegamento di armi e armati è indice che non si andrebbe per il sottile in una repressione che sarebbe la fine di tutto il larghissimo movimento proletario di questa città. Intanto le prove di solidarietà sono splendide “….gli scaricatori del porto si rifiutano di scaricare, ogni mattina cinque barbitonsori si recano gratis alla Camera del Lavoro e radono i peli a quanti più scioperanti”.24 È inconcepibile per ex artigiani diventati imprenditori e che considerano le aziende loro creature, che gli operai, morti di fame, da loro assunti per carità, rivendicassero dirit­ ti e volessero contrattare le proprie condizioni di lavoro. Si sciopera e si ottengono le prime conquiste con l’accordo del settembre del 1901: “il lavoro sarà di dodici ore con un’ora di riposo; il personale non meno dell’attuale e la produzione non maggiore della ‘potenzialità dei macchinari’; il lavoro straordinario sarà pagato nella prima ora a 0,27 centimetri. e la seconda a 0,50 e non potrà prolungarsi per più di due ore; il lavoro domenicale sarà pagato doppio o compensato dal riposo settimanale; la pulizia sarà retribuita; le multe saranno versate in una cassa che sarà divisa tra gli operai; per i braccianti ai sacchi non si dovrà superare il quintale”.25 “Non è quanto avevamo chiesto, l’importanza vera della vittoria sta nel suo significato morale: finora gli operai erano trattati come servi delle gleba, erano a completa disposizione

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dei padrone e qualche volta svillaneggiati e schiaffeggiati anche. Ora hanno parlato da pari a pari con gli imprenditori”,26 che, però, pensano già alla prova di forza, non a caso, nel periodo di gestione delle imprese da parte della Sad, la Borsa del Lavoro sarà diretta da un generale dei carabinieri. Gli imprenditori, spalleggiati dalla Sad, aspettano solo l’occasione per sconfiggere il movimento di lotta, disposti anche ad annullare tutte le singole commissioni e perdere il guadagno dell’anno, tutelati nelle loro obbligazioni “tanto che il Banco di Napoli e la Banca d’Italia che spalleggiavano la banca d’anticipazione, si sono gentilmente prestati a riportare tutte le scadenze a fine anno”.27 Alcune questioni aziendali, come la richiesta di aumenti per i ragazzini-lavoratori e la protesta contro i soprusi di un capopastaio, offrirono il motivo agli imprenditori per non riconoscere come controparte la Camera del Lavoro e la sua gestione del collocamento. La lotta proseguì per venticinque giorni, perché era chiaro che “lo sciopero è stato determinato da una questione che supera di molto i limiti di interesse locale e una sua sconfitta avrebbe una grande ripercussione su tutta l’organizzazione dei nostri lavoratori”.28 L’arbitrato prefettizio consacrava la vittoria dei lavoratori.29 Dopo l’eccidio a Cattori dei contadini che protestavano contro la decisione comunale di appaltare lo spurgo dei pozzi neri, nel 1904 si giunge alla prova di forza: scioperano i lavoratori portuali decisi a porre fine alle angherie dei camorristi, intermediari ed appal­ tatori dei lavori, e contro il rinnovato tentativo del padronato di scegliere i propri dipen­ denti, discriminando gli iscritti al sindacato. Fu proclamato lo sciopero generale con lavoratori decisi a tutto perché “morire val meglio che mal vivere”.30 Mugnai, pastai, falegnami e scaricatori del porto per settantadue giorni si astengono dal lavoro reclamando il riconoscimento da parte padronale della Camera del Lavoro come loro agente contrattuale e la gestione del Collocamento come nel passato. Ottengono soddisfazione eliminando, così, l’opera nefasta degli intrallazzatori che da secoli ruotavano attorno alle attività imprenditoriali e che, fin dal Settecento, erano stati messi al bando con due prammatiche31 di re Ferdinando che condannavano e vietavano ogni forma di sensalia o di imposizione di tangenti nel commercio degli sfarinati; la prima del 1781 e la seconda del 1785 che, incise nel marmo, furono esposte sullo stabile di fron­ te al Corso Garibaldi, allora la più trafficata area che dal porto menava alle manifatture. La gestione del collocamento da parte del sindacato spazzerà dalla scena cittadina tutta quella consorteria malavitosa cresciuta all’ombra delle attività produttive e sarà anche un grande fattore di solidarietà: fino all’ultimo, quando le basi produttive del settore si andava­ no progressivamente restringendo e gli organici erano ridotti al lumicino, la Camera del Lavoro si apriva all’alba in attesa delle richieste per sostituire in azienda il personale assente. A turno gli occupati offrivano ai loro compagni disoccupati la possibilità di lavorare uno o più giorni, se il bisogno era grande o impellente, le giornate disponibili aumenta­ vano anche se chi aveva la fortuna di essere stabilmente occupato non prestava la sua opera che per pochi giorni la settimana. In ogni epoca, nel periodo del massimo sviluppo o in quello del declino produttivo del settore, non è mai venuta meno la solidarietà tra i lavoratori. Difficilmente vi è stato fino agli anni cinquanta un settore animato da tanta generosità, i mugnai e pastai sono stati, negli anni, una scuola di solidarietà e di democrazia. Era il retaggio delle lotte comuni per conquiste che, all’inizio del secolo, segnarono profondamente la vita cittadina tanto che la Camera del Lavoro diventò una vera e pro­ pria istituzione.32 La Camera del Lavoro fu artefice di progresso accogliendo nelle proprie file gli umili ed oppressi, dagli impiegati privati ai contadini, agli ex operai diventati piccoli operatori

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autonomi di quella galassia di tante opportunità che allora offriva il settore dell’arte bian­ ca; era la casa dei diritti civili e sociali. La parola d’ordine vincente fu “Tutti dentro”. L’organizzazione della Camera del Lavoro era strutturata in leghe: barbieri, carbonai di banchina, carbonai di bordo, calzolai, carrettieri, ciurma facchini di marina, ciurma fac­ chini di ferrovie, contadini, facchini dei magazzini fiduciari, facchini dei magazzini misu­ ratori, impiegati, meccanici esterni, mugnai, pastai, scaricatori di porto, scaricatori e legatori di bordo, spazzini e vetturini. La quota di iscrizione alla Camera del Lavoro di Torre Annunziata era di 2 lire all’anno a fronte delle 6 lire di Salerno e dei 60 centesimi di Napoli.33 A costo di grandi sacrifici si conquistarono diritti d’avanguardia e migliori condizioni di vita; forte fu sempre l’avversione contro il crumiraggio, si andava alle lotte, agli sciope­ ri, quasi sempre ad oltranza, con la parola d’ordine “Meglio cornuto, che crumiro”. Non era un’insulto ma un attestato di stima per le loro compagne che sempre erano state in prima fila nelle lotte, era la riaffermazione della loro decisa volontà di resistenza ad ogni costo. E le donne torresi sono state generose e indomite! “Torre l’hanno fatta ricca le donne, le operaie, le mogli degl’imprenditori, le sorelle, una grande tempra, un coraggio da felini, e l’hanno distrutta gli uomini, pigri irresoluti, incapaci di sentire il futuro e ancora i figli che hanno sperperato tutto”.34 Sin dal secolo XIV sono state le donne torresi a dedicarsi alla lavorazione della pasta, messa poi ad asciugare al sole su tendoni di tela. Producevano i maccarune ’e ccase, fatti di grano duro acqua e sale; colpivano l’immaginazione dei viaggiatori stranieri del sette­ cento per la loro capacità di manipolare l’impasto di pasta fine creando le più diverse forme: dai pesci piatti come le sogliole e simili, ai legumi secchi più svariati, come i fagio­ li e le lenticchie.35 Nelle nuove aziende le donne saranno poi addette ai lavori più ingrati come il lavaggio del grano e l’impacchettamento. Sempre accanto ai loro uomini in ogni manifestazione o lotta, “sono le popolane che ogni sera affollano la Camera dei Lavoro, che confortano gli uomini, che provvedono al meschino nutrimento, che affrontano audacemente, il bimbo appeso al capezzolo, la forza pubblica. ...Che portano ogni cosa al monte di pietà fino al corredo del bambino lattante”.36 È la donna “...Che va a raccogliere le erbe in campagna o ad elemosinare dai contadini. ...Che va a strappare il figlio dallo stabilimento e lo trascina alla Camera del Lavoro perché in casa non vuole il denaro del tradimento”.37 Sono le donne che invadono molini e pastifici per spezzare il crumiraggio organizzato dagli industriali e che affrontano, senza paura, gli assalti dei soldati e le piattonate della cavalleria. Anzi contro di questa seppero difendersi legando coltelli alle lunghe forcine (pertiche usate a sostegno delle corde del bucato) e organizzando palizzate contro gli assalti della cavalleria. Le più audaci colpivano le parti basse del cavallo per disarcionare il cavaliere! Sono le stesse che affrontavano con fierezza le aule di tribunali come quando, dopo i tumulti dei 1898, trascinate in catene, ricordarono al presidente di essere già state condannate a tre anni per lo stesso reato, e ascoltarono impavide l’arrogante risposta del colonnello Mondani: «Va bene, vi hanno già condannato a tre annetti, ora vi prenderete il resto». E le due torresi, la Fiore e la Bavarese assieme agli altri imputati socialisti si manten­ nero fino all’ultimo piene di dignità e non smentirono la loro fede perché sapevano che la difesa del lavoro era tutta la loro vita.38 Le mogli degli imprenditori non erano da meno, è rimasto vivo il ricordo di donne come Anna Setaro, Rubina Passeggia, Anna Dati, Giuseppina Pagano, Anna Carotenuto,

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Nunziata La Rocca, Nunziata Ruggiero e la Ciniglio, colonne portanti delle imprese, ed alcune, rimaste vedove, continuarono con successo l’opera dei mariti, lasciando ai figli aziende floride. Anche dopo le ristrutturazioni, per lungo tempo, nel munnazzeo un angolo del fabbri­ cato era riservato a residenza dell’imprenditore e famiglia. Il vecchio artigiano, diventato capitano d’industria, non abbandonava la tradizione di casa e poteca e le donne curavano figli e pasta perché, come si diceva allora, per lavorare nel pastificio bisogna nascervi e crescervi: la fabbrica e la famiglia erano tutto il loro mondo! Scendevano nello sgabuzzino di legno e vetro accostato ad un lato dell’androne e la padrona portava i conti, riceveva i grossisti, controllava i pesi, urlava ordini, imprecava per la qualità delle semole o per una sbadataggine nel lavoro, preparava gli spaghetti per i rappresentanti che prima di acquistare intendevano provare la tenuta della pasta. Si vedevano, a volte, persone forestiere girare nell’androne col piatto di spaghetti fumanti e allora tutti attenti a non dare fastidio perché “si stava concludendo un affare”. “Chella, a signora, Ciniglio, era ’na carabiniera, nun permetteva che se perdesse nu solo file è maccarune” ha ricordato un vecchio pastaio, il senatore Nicola Corretto.39 Al sabato, quando lunghe file di carri, birocci e carrette attendevano il turno per fare acquisti direttamente in fabbrica, le donne, mogli degli imprenditori, esercitavano tutto il loro comando con competenza. Erano istruite, cresciute in mezzo ai maccheroni, più colte dei loro mariti che, a volte venuti dal nulla, privi dei requisiti simbolici dei ceti ele­ vati quali l’istruzione, il buon gusto, la spregiudicatezza, spesso non sapevano tenere la posizione fattasi senza cadere nel plebeo, nel ridicolo.40 Negli anni si è tramandata la storiella, vera o falsa, dell’imprenditore torrese che, per comunicare al figlio soldato che era in corso la pavimentazione con basoli di pietra vesu­ viana della strada di accesso al pastificio, scriveva: “Caro ....davanti al munnazzeo stanno facendo una basilicata”. Erano uomini coraggiosi, erano quegli antichi imprenditori che si erano fatti da sé, a volte analfabeti come i loro dipendenti, tenaci, determinati che non esitavano a sporcarsi le mani per insegnare a qualche novellino come si fa. Erano profon­ di conoscitori del loro mestiere come quei carrettieri che trasportavano le casse da distri­ buire alle rivendite e ai negozi di Napoli e che non conoscendo lettere e numeri, usavano “pochi geroglifici segnati col carbone sulle casse delle paste e non c’era verso che la loro contabilità sbagli un centesimo”.41 Nelle lunghe serate d’inverno, i vecchi pastai ricordavano episodi di lotte e di sofferen­ ze, come di quella volta che di fronte ad uno schieramento di bersaglieri con fucili spia­ nati e baionette innestate, l’onorevole Todeschini, indossata la fascia tricolore da deputa­ to, gridò “Fate largo, dove passa Todeschini passa il popolo!” e una fiumana di donne si riversò nel piccolo varco, scompaginando la barriera e mettendo in fuga i crumiri. Oppure parlavano della stima e dell’affetto che nutrivano per Gino Alfani, che affron­ tato da un dissidente sindacale con una rasoiata ebbe il collo squarciato e non volle avan­ zare denunzia perché l’aggressore “era un lavoratore”. Ricordavano quando la forza pub­ blica circondò la Camera del Lavoro per eseguire un mandato d’arresto nei confronti del deputato Francesco Misiano che indossato cappotto e cappello, uscì a passo svelto dalla sede, circondato da un gruppo di lavoratori; inseguito dalle guardie e fermato, risultò essere un pastaio che aveva indossato cappello e cappotto del Misiano che nel frattempo era diventato uccel di bosco. E i colloqui tra Filippo Russo, vecchio bracciante, vastaso, sindacalista, perseguitato politico, assessore municipale e il cavaliere Domenico Orsini, suo ex datore di lavoro e consigliere di minoranza. All’affermazione del Russo: «qui non stiamo nel munnazzeo. Il tempo del vostro comando è passato», l’Orsini rispondeva: «Filippo, dopo quarantanni

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che siamo stati assieme in fabbrica non hai ancora capito che se io m’iscrivo al tuo parti­ to tu verrai sempre dopo di me!». O i colloqui dei pastai con il sindaco Pasquale Monaco che lo ricordavano quando arri­ vava nel pastificio del padre con la fiammante divisa della Nunziatella, orgogliosi ora di ritrovarsi assieme nel partito dei lavoratori; o delle gare vinte per la bontà del prodotto del loro pastificio. Erano dialoghi pieni di passione, senza astio, era ricordare quanto li aveva accomuna­ ti in fabbrica. Erano altri tempi, la società torrese si reggeva su due pilastri, proprietà e lavoro, due colonne forti, contrapposte ma animate dalla stessa passione per il lavoro e per la fabbri­ ca, con l’orgoglio di essere i migliori maccaronari. Inflessibili nel difendere le rispettive ragioni nel rispetto della dignità di ciascuno ma accomunati da una vita spesa nel munazzeo che assieme avevano contribuito a far pri­ meggiare. Era un mondo ingiusto, un mondo di sacrifici inimmaginabili ma nel quale si lavorava, ciascuno per la propria parte, per costruirsi un avvenire, una sicurezza per il domani.

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Capitolo settimo La battaglia del grano

Nei primi anni del XIX secolo l’apparato produttivo torrese dell’arte bianca era consi­ stente: nel 1910 nella sola provincia di Napoli si produceva il sessanta per cento della pasta italiana e nel 1913 l’esportazione italiana toccò la cifra record di settecentomila quintali in gran parte assorbiti dagli Stati Uniti d’America.1 La crisi del settore iniziò negli anni venti quando si aggravarono i contraccolpi che si avvertivano da tempo. La prima guerra mondiale aveva interrotto l’esportazione negli Stati Uniti d’America, la rivoluzione russa aveva sottratto alla produzione la principale e più qualificata area d’importazione di grani duri pregiati mentre cominciavano ad avere consistenza produt­ tiva le nuove imprese sorte, durante la guerra, nell’Italia centrale con l’incoraggiamento delle autorità militari per contrastare il monopolio delle aziende campane al fine di otte­ nere contratti più vantaggiosi. La crisi si aggravò allorché il fascismo decretò la Battaglia del Grano: l’Italia doveva diventare autosufficiente. Un Paese che all’inizio del secolo produceva soltanto il trenta per cento del proprio fabbisogno di grano e che, nel 1921, aveva importato ben trentatré milioni e mezzo di quintali di grano non doveva essere più tributario dell’estero. Fu l’inizio della fine dell’industria campana dell’arte bianca. La localizzazione costiera degli impianti diventava un fattore negativo, soprattutto per i grandi complessi molitori non più agevolati dalla favorevole incidenza delle spese di trasporto via mare e penalizzati dall’applicazione della soprattassa dell’Appennino, nelle tratte tra Napoli e Foggia e tra Napoli e Termoli, per cui un quintale di grano pagava da Foggia a Napoli quanto da Chicago a Napoli.2 “Non togliete il pane ai figli dei nostri lavoratori, acquistate prodotti italiani” fu la parola d’ordine della battaglia del grano. Per incrementarne la produzione, si susseguirono norme restrittive e decreti, dai trentotto milioni di quintali di grano prodotti nel 1920 si passò agli ottantuno milioni del raccolto del 1938. Ma a quale prezzo? Tutti gli impianti (molini e pastifici) furono sottoposti a controlli, si stabilì il divieto di avviare nuove imprese, si inasprirono le tariffe doganali fino al divieto d’importazione di grani dall’estero. Fu imposto l’ammasso obbligatorio del grano, favorendo così ulteriormente le aziende del centro e del Nord ubicate nelle aree di produzione del grano.

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Nel 1931 si impose che la percentuale di grano estero impiegabile nella macinazione non doveva superare il 15% e successivamente, nel 1936, si impose che si dovesse macina­ re soltanto grano proveniente dagli ammassi in cambio della clausola del franco molino. La clausola adottata nel 1936 del franco molino, livellò le condizioni di acquisto del grano nazionale e consentì alle imprese meridionali di vivacchiare, di tirare stentatamen­ te avanti.3 I molini operavano su contingenti assegnati dal Ministero delle Corporazioni e nel 1940 il divieto di avviare nuovi impianti industriali o di ampliare o modificare gli esistenti fu esteso anche all’industria della pastificazione. Fu un breve respiro dato che l’insufficienza del grano duro nazionale accentuò l’utiliz­ zazione del frumento tenero peggiorando la qualità della pasta che si distinse in pasta di pura semola e pasta comune a seconda che si impiegassero nella fabbricazione semole di grano duro o farine di grano tenero a tutto danno delle nostre produzioni che si erano sempre caratterizzate per la loro qualità. Le industrie campane erano costrette a supplicare contingenti al Ministero delle Corporazioni cercando di far valere la maggiore potenzialità installata, o a ricorrere a speciali sistemi di lavorazione del grano tenero estraendo da questo i graniti con cui sup­ plire alla carenza di grano duro, quel grano duro indispensabile per migliorare, con opportune consociazioni, la qualità delle semole dei nostri grani. Tutto questo era la negazione di quella politica di libero scambio che aveva fatto grande l’industria campana ed era stata una costante aspirazione degli imprenditori del settore. Non a caso, nel 1881, al primo Congresso dei Mugnai italiani, svoltosi a Torino, gli imprenditori si erano dichiarati contrari alla richiesta avanzata dal mondo agricolo sull’aumento del dazio sull’importazione del frumento estero perché sarebbe stato esizia­ le per questa industria e non avrebbe portato nessun efficace contributo all’agricoltura. E aggiungevano: “i grani nostrani non bastano non solo perché la produzione nazionale non eguaglia la consumazione, ma anche perché le qualità necessarie non si riscontrano tutte anche nei nostri grani migliori. I produttori di farine e di semole non possono fare a meno dei grani esteri, di frumenti della Russia, dell’India, dell’Africa, i quali hanno tutti quegli elementi che or si richiedono dal gusto più raffinato del pubblico. Se adunque si imponesse su questi grani esteri un dazio maggiore si avrebbero due conseguenze funeste: l’una di far aumentare il prezzo delle farine, l’altra di impedire ai mugnai italiani di sostenere la concorrenza estera”.4 Erano stati facili profeti: la battaglia del grano, per assicurare un reddito tra l’altro modesto agli agricoltori, invogliò la messa a coltura ad alto costo di terreni marginali, dalla bassa resa per ettaro, e non consentì alle imprese di partecipare al crollo del prezzo del grano sul mercato internazionale. I grani italiani costavano di più e non erano competitivi. Le ripercussioni furono catastrofiche per i pastifici: nel 1939 la proporzione fra la pro­ duzione napoletana e quella italiana era ridotta al ventitré per cento. Nel corso della seconda guerra mondiale ci fu un lieve sollievo perché, con la compia­ cenza dei gerarchi fascisti, corrompibili con un pacco di pasta, nei controlli si impastava di tutto, per un popolo affamato costretto a sopravvivere con le misere razioni assegnate dalle tessere di guerra. Dalle aziende si articolava un florido mercato nero e in questa nefasta azione gli imprenditori associarono i lavoratori che ricevevano di nuovo, come all’inizio del secolo, parte del salario in natura (’a ’mbracata), quando semola e farina valevano oro. Gli eredi di quella classe operaia che più volte avevano piegato la tracotanza padronale erano ora dettaglianti al mercato nero! e gli imprenditori redditieri di un prodotto che trovava

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comunque un mercato. All’inizio degli anni cinquanta, l’apparato produttivo torrese era ancora consistente: otto mulini con una potenzialità di cinquemilasettecento quintali giornalieri e ventotto pastifici con una produzione di quattromila quintali; lavoravano pochi giorni alla settimana, abbisognavano di radicali innovazioni. Nel 1930 la ditta Braibanti, utilizzando l’intuizione di un vecchio pastaio, aveva brevet­ tato una macchina completamente automatizzata per produrre pasta ed eseguire l’intero processo produttivo: mescolatura, impasto, trafilatura ed essiccatura. “Era nata la macchina che avrebbe sconvolto le antiche certezze e la pasta si poteva fabbricare anche dove non vi erano le condizioni climatiche favorevoli, in tutte le stagioni, con qualsiasi clima, anche in condizioni atmosferiche pessime, come freddo, pioggia, neve, nebbia, vento, di giorno e di notte”.5 Le aziende torresi erano obsolete, marginalizzate, con strutture e dimensioni inadegua­ te alla nuova sfida, gli stessi stabili delle imprese non erano idonei per il rinnovato pro­ cesso produttivo. La riconversione dell’apparato produttivo non era più rinviabile. Ma il coraggio non apparteneva più agli eredi degli antichi pionieri, fatalisti si conso­ lavano dicendosi: “Dio provvede, solo il Padreterno può fabbricare i maccheroni meglio di noi!”, ma non sapevano, o facevano finta di non sapere, che non c’era più bisogno dell’aria o del vento e tanto meno della necessaria e vincente professionalità dei pastai torresi. La nuova tecnologia aveva annullato tutti quei fattori climatici e di professionalità che avevano fatto la fortuna della pasta di Torre e di Gragnano. Le innovazioni non avevano più bisogno delle vecchie professionalità, ma di attenzione ai quadri di comando che sovraintendevano ad un processo produttivo sempre più veloce, sempre più completo, integrale, dalla miscela delle semole all’impacchettamento in carta cellofanata e trasparente. La continua non aveva bisogno dell’intelligenza dell’uomo e offriva tanti vantaggi: omo­ geneità, facile regolazione e durezza uniforme dell’impasto, qualità ed aspetto costante dei prodotti, eliminazione dei passaggi e delle soste della lavorazione, riduzione al mini­ mo degli scarti che possono essere reinseriti nel ciclo produttivo, massimo grado d’igiene, notevolissimo risparmio di mano d’opera, considerevole rendimento di produzione. Anche il problema della essiccazione era stato risolto con nuovi impianti meccanici a funzionamento rapido e continuo (camere ventilate, tunnel etc.). La pasta all’uscita della continua viene immessa in una stenditrice che la introduce nella galleria d’incartamento ove viene assoggettata ad azioni alternate di ventilazione e rinvenimento, la sfilatrice permette anche il taglio delle paste nella lunghezza desiderata.6 La continua Braibanti è un meccanismo integrato, completamente automatizzato, con pro­ grammazione e controllo elettronico. La pasta, ormai, non si fabbrica più, si stampa, con macchine sempre più potenti e il prodotto è sempre più cristallizzato, uscito da un trafila al teflon che conferisce alla pasta una superficie levigata, traslucida certamente ma anche senza quelle piccole impercettibili rugosità o rotture puntiformi che agevolavano la cor­ retta prosciugazione e trattenevano sugo e condimento. E se l’essiccazione, poi, ad alta temperatura provoca un effetto parboiled che la rende impermeabile al sugo, l’acquirente non può fare paragoni col passato, “esprimere rimpianti per la bontà della pasta di una volta quando si fabbricavano senza forni essiccanti, quando l’acqua del Serino e il sole concorrevano a dare alla pasta consistenza e sapore, quando l’essiccamento avveniva all’aria aperta”.7 A nulla servono le dissertazioni svolte nel corso dell’85° Impackima di Milano dove tecnici specialisti, in un convegno sulla cottura e l’estrusione della pasta, hanno espresso preoccupazione circa l’eventuale influenza negativa sulla qualità nutrizionale del prodot­

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to, soprattutto per quanto concerne l’idratazione dell’impasto e l’essiccamento del prodot­ to, dell’introduzione delle alte e altissime temperature nella tecnologia di produzione della pasta.8 Il modo di produzione era sconvolto e gli imprenditori non andavano oltre le richieste parziali, settoriali, limitate. Di fronte alle innovazione del processo produttivo l’Associazione Industriale Mugnai e Pastai dell’Unione Industriali “constatava che il sistema dell’ammasso non è in condizione di soddisfare le richieste perché la superficie coltivata a grano duro è inadeguata e s’invoca l’acquisto di grano duro dall’estero”, e, ancora nel 1957, si chiede soltanto il rinnovo della legge sull’importazione di grano estero a reintegro dei prodotti esportati.9 Nella seduta straordinaria del Consiglio Comunale di Torre Annunziata, dell’undici novembre 1958, il rappresentante dei piccoli e medi imprenditori, il cavaliere Arcangelo Arpaia chiedeva l’aumento dei contingentamenti per le imprese meridionali, l’ammasso totale della produzione granaria, l’albo delle imprese abilitate al commercio dei grani con l’estero, la contingentata importazione di grani esteri per le aziende rivierasche, crediti agevolati e riduzione di imposte e di tariffe. Questo, secondo il relatore, per sopperire allo svantaggio di approvvigionamento delle imprese meridionali dato che: “l’incremento della produzione granaria giunto ai 90/100 milioni di quintali, annulla il provvedimento di franco molino, in quanto le aziende ubicate sui luoghi di produzione granaria, trovano tutto l’anno il grano a mercato libero a condizioni di prezzo più vantaggioso di quello statale, mentre i molini che si trovano nelle zone di non produzione, come la Campania, sono anch’essi costretti ad approvviggionarsi sul mercato libero, con una maggiore spesa fra trasporto e ingaggio che raggiunge circa le 600 lire al quintale’.10 Il sistema di produzione era sconvolto dalla nuova tecnologia, il mondo andava verso la libertà dei commerci e gli imprenditori rivendicavano ancora parziali misure corpora­ tive invece di misurarsi con la realtà che imponeva innanzitutto l’ammodernamento dell’obsoleto apparato produttivo, ricercando anche forme consortili che andassero dalle nuove strutture produttive al credito agevolato, fino alla commercializzazione della pasta di Napoli. Non c’era più spazio per le imprese caratterizzate da scarsa potenzialità, da un’arretra­ ta organizzazione finanziaria e prive di capacità commerciale. Il richiamo della pasta di Napoli quale sinonimo di qualità era in discussione di fronte all’aggressività di campagne pubblicitarie e al costo del prodotto delle aziende del Nord. Dopo gli anni cinquanta, a Napoli e provincia, la situazione era quasi senza più speran­ za, su cinquanta pastifici censiti nel 1967 la potenzialità produttiva era fino a cento quin­ tali giornalieri in diciotto unità, da centouno a trecento in ventuno aziende e da trecento­ uno a cinquecento in nove, mentre soltanto due pastifici superavano i cinquecento quin­ tali di potenzialità giornaliera, ritenuta minima indispensabile per un’attività competitiva. Iniziava il lento declino dell’industria pastaia di Torre Annunziata.11 La crescita, la fusione, l’impianto di nuove strutture produttive e commerciali, la ricerca di forme consortili erano le condizioni irrinunciabili per accedere al credito e salvare l’at­ tività industriale. I tentativi e le proposte avanzate dal sindacato e dal Comune per costituire consorzi, associazioni di servizi e di finanziamenti, per avviare nuove imprese in sostituzione delle preesistenti, si scontrarono con la più ottusa delle insensibilità ed anche con “la gelosia del marchio”, marchio che è scomparso con l’azienda. Gli imprenditori restarono sordi agli inviti, ad ogni proposta che andasse oltre la pro­ pria azienda. Ad ogni proposta associativa si levava il lamento: “Chi dirigerà la nuova azienda se ci associamo? Ed io che farò nell’azienda? Il mio marchio che fine farà?”.

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Cercarono di sopravvivere: qualcuno tentò interventi parziali; qualcun altro ammoder­ nò in parte, ma la sfida esigeva capitali e nuove capacità imprenditoriali; tutti non trova­ rono di meglio che scaricare la crisi sulle spalle dei lavoratori che furono costretti a subi­ re violazioni contrattuali e sociali. Gli imprenditori, per cercare di realizzare risparmi, peggiorarono le condizioni di vita dei lavoratori che, posti di fronte alla minaccia del licenziamento, subirono la perdita di tutti i loro diritti costati tanti sacrifici ai loro padri. Si costituirono apposta nuove associazioni imprenditoriali con lo scopo di non rispet­ tare i contratti sottoscritti dall’Unione Industriali. Un vergognoso sottosalario colpì la categoria che era stata già pesantemente penalizzata dalla violenza fascista che, eliminan­ do con la forza le organizzazioni sindacali, aveva ridotto le retribuzioni reali tanto che nel 1930 esse erano il 67% di quelle del 1913.12 Quando neanche questo offriva margini di sopravvivenza, inventarono le cooperative di pura prestazione di mano d’opera: il proprie­ tario licenziava i dipendenti che, associati, rilevavano parte dell’attività produttiva azien­ dale, e precisamente soltanto la produzione e la prosciugazione delle paste; la gestione generale, l’amministrazione, l’acquisto e la vendita restavano nelle mani dell’imprendito­ re. Si stabilirono le tariffe a quintalato lavorato, che non garantivano i minimi contrattua­ li, un secolo di sacrifici vanificati, si era tornati agli albori del secolo passato, quando si veniva retribuiti a quintalato prodotto. Tra disoccupazione e condizioni bestiali, i lavoratori non ebbero alternative. I vecchi operai si domandavano: “Contro chi scioperiamo ora? A che serve il sindacato? Come e contro chi facciamo valere i nostri diritti?”. Un sindacato stretto tra la disoccupazione e l’avallo di questa ultima perfidia dovette condurre sul terreno sindacale e parlamentare l’iniziativa per ottenere che fossero vietate le prestazioni di pura mano d’opera con la legge n.169/1969. Ma alcuni imprenditori andarono oltre, si verificarono fallimenti concordati, piccoli imbrogli come quell’impresa che aveva escogitato il sistema di sostituire la pasta acquista­ ta dalle autorità militari con altra di qualità inferiore spostando le porte dei depositi con­ trollati senza alterare i sigilli; altri diventarono subfornitori di grandi imprese del Nord ed alla fine vendettero il marchio a gruppi industriali che hanno continuato a contrabbanda­ re la propria produzione, effettuata fuori della regione, come pasta di Napoli quando quell’azienda era stata trasformata in case di abitazione. Vi fu chi, multato per infrazioni alle leggi sociali, ne addossò l’onere ai dipendenti, e chi per controllare la produttività, installò microfoni in tutti i reparti. Tutto questo non li salvò dal dissesto. Una dopo l’altra chiusero i battenti aziende il cui marchio per secoli aveva varcato oceani e montagne. Nello stesso tempo si moltiplicavano le iniziative e le lotte contro i licenziamenti per dismissione di attività, per il rispetto di tutte le norme del contratto di lavoro e per miglio­ ramenti di fatto del salario e delle tariffe per le cooperative. Aspro fu il contrasto nelle assemblee sindacali per superare l’antica forma di lotta (scio­ pero ad oltranza valido all’inizio del secolo quando la capacità produttiva era inferiore alla richiesta) ma ininfluente negli anni cinquanta. Si trovarono nuove forme di lotta: lo sciopero articolato due ore a fine ed inizio turno o nel corso dello stesso turno. Fu la formula vincente perché le presse non potevano esse­ re lasciate con dentro l’impasto che sarebbe diventato cemento ed avrebbe rovinato la macchina. Scioperare così voleva dire iniziare ore prima a pulire pressa e trafila, rientra­ re la pasta etc. Era praticamente una giornata di produzione perduta. Si ottennero parziali successi: i pastai delle fabbriche chiuse furono assunti all’Ilva di Bagnoli, le retribuzioni furono mag­

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giorate, le ferie e le festività furono corrisposte, le tariffe delle cooperative furono aumen­ tate, fino alla loro soppressione. Lo scontro sociale interessò la città. Alte si levarono le grida di dolore degli imprenditori: “Il sindacato fa fallire le fabbriche chiedendo il rispetto dei contratti”. Altrettanto dura fu la risposta operaia: “Non vi salverete affamando i lavoratori se non si ammoderna l’apparato produttivo ricercando nuove fonti di finanziamento di fronte al vostro fallimento generazionale. Voi state distruggendo l’opera dei vostri padri che sapevano essere imprenditori. Associatevi, insediamo aziende moderne, operiamo assieme per una nuova politica del credito etc.”. D’altra parte le agevolazioni creditizie erano interdette a questi imprenditori, privi di garanzie reali perché le loro stesse imprese, i munazzei, con strutture edilizie planimetri­ che superate non erano atte ad essere utilizzate né per il nuovo processo produttivo e tanto meno come garanzie reali. Occorrevano nuovi capitali, che gli imprenditori non avevano, una gestione diversa del credito agevolato per consentire ai piccoli e medi imprenditori meridionali di far fronte alle nuove esigenze produttive invece di continuare a favorire la penetrazione dei gruppi più aggressivi del Nord. Da queste considerazioni nacque l’iniziativa del gruppo parlamentare comunista per la costituzione di un Ente pubblico finalizzato alla riorganizzazione del settore, con l’obiet­ tivo di determinare le condizioni necessarie alla piccola e media industria meridionale per effettuare la sua indispensabile riconversione produttiva, salvaguardando, nello stesso tempo, con lo sviluppo, i livelli di occupazione. Il Disegno di Legge, presentato in tre successive legislature, nonostante le sollecitazioni dei proponenti, non giunse mai in discussione. La maggioranza non ebbe il coraggio di prendere posizione, lo lasciò marcire negli scantinati parlamentari il disegno di legge per non mostrare il volto di chi ha sempre ritenuto statalismo soffocante ogni iniziativa ordina­ trice dello sviluppo economico.

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Postfazione Ascesa e declino della civiltà della pasta

Quando l’argomento è la civiltà materiale il punto di partenza non può essere che Braudel: “Ora, ogni volta, l’agricoltura ha puntato fin dall’origine su questa o quella pianta dominante, per poi costruirsi in funzione di quell’antica scelta prioritaria, da cui tutto o quasi sarebbe dipeso. Tre di queste hanno conosciuto una fortuna particolare: il grano, il riso, il mais. Ancora oggi continuano a disputarsi le terre arabili del mondo. Si tratta di “piante di civiltà”, che hanno organizzato la vita materiale e talvolta psichica degli uomini, a grande profondità, fino a diventare strutture quasi irreversibili.”1 Se il grano organizza la vita materiale e psichica degli uomini, figuriamoci la pasta. Non è un caso, quindi, che Angelo Abenante comincia con lo scrivere del distretto dei pastai di Torre Annunziata e finisce col compiere un viaggio dentro la propria storia civi­ le e politica, col risultato che soggetto ed oggetto della narrazione si mescolano e la bio­ grafia dell’autore diventa anche un pezzo della storia dei pastai. Dopo aver letto il libro di Abenante rimane la sensazione che si è compiuto un viaggio in una realtà remota, perché delle trame sociali, economiche e culturali di quel mondo è rimasto solo il prodotto, la pasta, come il lascito di una civiltà scomparsa. Mi spiego meglio: fin dal primo capitolo del libro si avverte che la pasta raggruppa una complessa esperienza fatta di professionalità, di informazioni e di saperi che si propaga nella socie­ tà e nel territorio costruendo strutture sociali, sistemi tecnologici e sistemi urbani, riti collettivi, una cultura della convivialità, e un immaginario ed una espressione collettiva. Nelle civiltà noi riconosciamo un principio ordinatore che si spande nella sfera economi­ ca, sociale e culturale, dando forma coerente a comportamenti e scelte di attori indipen­ denti. Una convergenza quasi involontaria dell’agire, che riesce ad elaborare le tensioni che emergono in seno alla collettività senza distruggere l’ordito sociale e le energie neces­ sarie allo sviluppo. Nelle civiltà noi registriamo uno stile che fornisce la stessa patina di colore a uomini, cose, comportamenti, espressioni verbali e relazioni sociali. Come osser­ va Ignacy Sachs, lo stile proprio di una civiltà “è quel quid, difficile da cogliersi, che rimane dopo che si è descritto un popolo, i suoi eserciti, la sua tecnica e la sua economia, la politica e le arti, le province e le città, le classi e le stratificazioni sociali, i costumi e la morale. Ogni cultura e/o civiltà è caratterizzata da certe forme di espressione e di comportamento, dall’ethos e dai valori che la distinguono dalle altre. Tuttavia tale specificità non può essere colta al F. Braudel, Le strutture del quotidiano, Einaudi, 1982, pag. 83.

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livello di questo o quell’aspetto isolato. Bisogna cercarla piuttosto nella combinazione dei vari caratteri di cui si compone una civiltà.”2 Abenante ci fa cogliere il quid della civiltà della pasta mettendo insieme in rapida suc­ cessione, e spesso miscelandoli, i vari ingredienti della civiltà della pasta, la letteratura, la produzione, la tecnologia, la sapienza artigianale, il lavoro, il territorio, e quindi ci spiega perché quella civiltà è scomparsa. La rapidità del racconto è essenziale per assorbire il quadro d’insieme. Ne riassumo brevemente le tappe fondamentali: Dal XIII al XVIII secolo si accumula, con un lunghissimo periodo di formazione, un’en­ ciclopedia di tradizioni, esperienze e conoscenze presso le botteghe artigianali locali. Negli ultimi decenni del XVIII secolo avviene il passaggio da bottega artigianale ad opifi­ cio, con l’introduzione di nuove tecnologie per la gramolatura e la torchiatura, che con­ sentono una scala di attività più elevata e richiedono una divisione sociale del lavoro. Contemporaneamente si mette a punto la complessa sequenza di fasi per l’asciugatura della pasta. Il nuovo processo produttivo assicura maggiore efficienza del processo di trasformazione e una più elevata qualità del prodotto, consentendo all’industria pastaia di Torre Annunziata una continua espansione fino circa il 1880. Dal 1880 al 1914 si ha il periodo aureo del distretto pastaio, con notevoli investimenti che si sviluppano secondo tre direttrici: l’ammodernamento tecnologico con l’introduzio­ ne di tecnologie meccaniche in tutte le fasi di trasformazione e con la produzione pubbli­ ca di energia; interventi nei servizi logistici collegati al processo di trasformazione (porto, ferrovia, magazzini generali); sviluppo di servizi finanziari con la creazione della Sad e poi della Banca Commerciale di Torre Annunziata. La struttura produttiva si articola in tre strati: grandi fabbriche industriali, un numero rilevante di piccole e medie aziende un ele­ vato numero di piccoli pastifici. Dal 1915 al 1944 prende corpo la crisi. Con la prima guerra mondiale e con la politica autarchica del fascismo si interrompono i rapporti con l’estero, sia in importazione di materie prime sia in esportazione. Un’industria già provata, con metà del potenziale pro­ duttivo inutilizzato, viene quindi travolta da una innovazione tecnologica radicale (la Braibanti), che integra in una sola macchina continua le macchine precedenti (semolatri­ ce, gramola, pressa). Contemporaneamente, l’introduzione di stenditrici automatiche e di essiccatoi ruotanti elimina del tutto la rendita di posizione delle imprese di Torre Annunziata nella delicata fase dell’asciugatura della pasta. Dal 1945 al 1970 vi è l’estinzione progressiva e completa del distretto. Le imprese sopravvissute alla seconda guerra mondiale non riescono a competere né con le imprese del Nord, avvantaggiate dalla ricostruzione, né con quelle degli altri Paesi. Oggi sopravvi­ ve solo un opificio. Questa visione sintetica ci serve per porre la domanda: “Perché una comunità apparen­ temente solida scompare nel giro di qualche decennio?” La risposta immediata è che i pastai di Torre Annunziata non avevano capito che l’ambiente istituzionale, competitivo, tecnologico era mutato, e questa cecità li aveva condannati. Tuttavia, questa risposta rimanda ad un’altra domanda: “Perché i pastai, all’apice del proprio successo, non erano in grado di capire il nuovo?” E qui la risposta si fa più complessa. Per rispondervi è neces­ sario capire a fondo perché le energie che hanno sostenuto per decenni il primato mon­ diale possano esaurirsi.

I. Sachs, “Civiltà”, in Enciclopedia Einaudi, 1978, vol. 3, pag. 109.

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Quando una civiltà scompare non è sufficiente attribuire la colpa ad un singolo evento esterno, che nel nostro caso è il blocco del commercio internazionale o la tecnologia con­ tinua che sconvolge il processo produttivo. In realtà c’è qualcosa dentro la collettività che si blocca, c’è qualcosa che paralizza gli attori sociali e non consente loro di interpretare i fatti nuovi. Si blocca cioè il meccanismo sociale di apprendimento, ed è su questo punto che vorrei articolare una breve riflessione. Un distretto industriale è innanzitutto un sistema che apprende, ovvero un sistema che con continuità riesce a mettere a punto una nuova capacità d’azione. Affinché la capacità di apprendimento possa svilupparsi sono necessarie tre condizioni: Gli attori del sistema devono poter sviluppare esperienze sufficientemente ripetute, varie e condivise. In altri termini la realtà che sperimentano gli attori sociali (tecnologia, mercati, produzione, relazioni sociali) deve presentarsi sotto forme di situazioni abba­ stanza caratterizzate. La ripetizione consente l’accumulo di capacità pratiche e di cono­ scenze tacite, la varietà mantiene una tensione verso l’apprendimento, mentre la condivi­ sione consente lo sviluppo di un sistema di relazioni e di scambio sociale che accelera i processi di apprendimento e consente la realizzazione di un capitale cognitivo e sociale a beneficio di tutti. Vorrei sottolineare che il termine chiave di questa condizione sta negli avverbi sufficientemente e abbastanza. Se le esperienze sono sempre totalmente nuove o sempre totalmente ripetitive allora non c’è possibilità di apprendimento. Nel periodo di sviluppo di Torre Annunziata troviamo esattamente questa condizione, che possiamo definire di “esperienza situata”. La seconda condizione dell’apprendimento è la varietà degli schemi d’azione preserva­ ti nella memoria collettiva della comunità. Il patrimonio di cultura, valori e conoscenze, che consente di riconoscere e di interpretare il nuovo, deve poter tollerare al proprio inter­ no elementi divergenti e conflittuali per consentire l’emergere di interpretazioni differen­ ti e l’intrecciarsi di una comunicazione orizzontale come sistema di insegnamento reci­ proco. Se, al contrario, la memoria sociale si impoverisce perché tutti omogeneamente aderiscono ad una sola formula produttiva, quella che appare di successo, allora il siste­ ma cade in quella che viene definita competency trap, la trappola della competenza, ovve­ ro la presunzione di aver raggiunto la soluzione ottimale, e di non aver nient’altro da imparare. È esemplare il fatto che, di fronte alla macchina continua Braibanti, l’opinione diffusa degli industriali, riportata da Abenante, è che nessuna macchina poteva compete­ re con l’esperienza dei pastai e col clima di Torre Annunziata. Ugualmente esemplare è la incapacità dei pastai di Torre Annunziata di aggredire il mercato nazionale, una volta bloccati i mercati internazionali. Solo una memoria collettiva sufficientemente condivisa, ma non bloccata sulle conoscenze ed opinioni dominanti, poteva consentire il dispiegarsi del complesso meccanismo dell’imitazione/innovazione che sta alla base della vitalità del distretto. La terza condizione riguarda il livello di consapevolezza degli attori circa le proprie aspettative, i propri obiettivi, i propri progetti, i propri punti di forza ed il proprio ruolo. Il sistema apprende, ovvero modifica i propri schemi d’azione, quando gli attori del siste­ ma sono consapevoli che è necessario il cambiamento di qualcosa per preservare qual­ cos’altro di più profondo. Se gli attori hanno l’obiettivo di mantenere il primato mondiale, allora il processo di apprendimento si allarga, l’attenzione al nuovo è più forte, il raggio d’azione si amplia, e gli attori sono disponibili a modificare i processi produttivi ed anche l’assetto del territorio, perché ritengono la modifica di questi elementi funzionali e subor­ dinati all’obiettivo primario, così come è accaduto a Torre Annunziata nel periodo aureo. Viceversa, se l’obiettivo è la sopravvivenza, anche il processo di apprendimento si ridi­ mensiona, l’eventuale modifica riguarda fatti sempre più circoscritti, finché il processo di apprendimento si interrompe del tutto ed il sistema muore.

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Maccaronari

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Angelo Abbenante

La storia del distretto industriale dei pastai di Torre Annunziata ci ha insegnato che il sistema si mantiene vitale finché mantiene vive e lascia coesistere all’interno del gioco sociale le esigenze opposte di Ripetitività e Varietà delle situazioni sperimentate dagli atto­ ri del sistema, di Condivisione e Diversità della memoria collettiva, di Mantenimento e Cambiamento delle aspettative degli attori. Quando il sistema sociale perde la tensione necessaria e, all’apice del proprio successo, fa prevalere i requisiti di Ripetitività delle esperienze, di Condivisione dei valori e di Mantenimento delle aspettative, che annichili­ scono i requisiti opposti di Varietà, Diversità e Cambiamento, allora il sistema si trova senza difese interne e non sa interpretare il nuovo. Nell’intervista impossibile a Italo Calvino, Montezuma afferma che: “Per battersi con un nemico bisogna muoversi nel suo stesso spazio, esistere nel suo stesso tempo.”3 È un’affer­ mazione vera anche per i pastai di Torre Annunziata. Anche per essi il nuovo si fa avanti come un messaggero che viene da un altro tempo e da un altro spazio. Per circa trent’an­ ni vecchio e nuovo coesisteranno, col passato che si protende sempre più esausto verso il futuro ed il futuro che appare sempre più estraneo. Poco più avanti Montezuma aggiunge: “Tutto era da decifrare, ogni fatto nuovo dovevamo per prima cosa inserirlo nell’ordine che sostiene il mondo e fuori dal quale nulla esiste. Ogni nostro gesto era una domanda che aspettava una risposte. […] Anche voi avete bisogno di classificare sotto i nomi dei vostri dei ogni cosa nuova che sconvolge i vostri orizzonti, e non siete mai sicuri che siano veri dei o spiriti maligni, e non tardate a caderne prigionieri.” Il libro di Angelo Abenante non solo ci aiuta a capire quali dei maligni avevano dappri­ ma consentito e quindi bloccato il gioco sociale di “fare i maccheroni” a Torre Annunziata, ma fa anche qualcosa in più: nelle ultime pagine, quando ci racconta la storia dei tre dise­ gni di leggi mai arrivati a conclusione, ci fa capire che siamo noi a costruire i nostri dei.

I. Calvino, Interviste Impossibili, Bompiani, 1975, pagg. 83-93.

3

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Angelo Abbenante

=

Maccaronari

Ascesa e declino della civiltà della pasta - Quadro sinnottico Anno

Territorio e società

Tecnologie

Dal medioevo fino alla fine del ’500 si utilizzano le stesse tecniche del pane: madia, stenterello, coltelli.

1225

1553-1592

Il nobile Muzio Tuttavilla nel 1553 acquista il feudo di Torre e nel 1592 decide la costruzione del Canale del Conte per farvi giungere le acque del Sarno.

1587-1613

Le sorgenti di Gragnano vengono vendute dai signori locali alla famiglia QuirogaDe Antonio iniziano i lavori di incanalamento e la costruzione di 25 mulini tra Gragnano e Stabia.

1596

Ricevuta per l’acquisto di un ’ngegno da macaroni.

1600-1620

Introduzione della gramola a stanga e del torchio nel napoletano. Passaggio dall’artigianato alla manifattura organica. Il procedimento rimarrà invariato fino alla prima metà del XIX secolo.

1629

Industria e Mercati

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Il Conte di Celano costruisce il Canale Bottaio per sistemare le acque del Sarno.

1630

Descrizione degli strumenti del vermicellaio in un atto notarile romano.

1767

Moulin illustra gli arredi e gli utensili del vermicellaio.

1829

Brevetto di una macchina impastatrice a cilindro. L’ingegner Spadaccini pubblica una guida all’organizzazione di uno stabilimento.

1833 1836

Sperimentazione di mulino a vapore.

1844

Macchina per gramolare e trafilare a trazione animale.

1845

La pressa idraulica sostituisce Opposizione alla fabbrica di il torchio di legno. Fenicio da parte dei piccoli artigiani gragnanesi.

1846

Torchio per pasta in bronzo e ferro fuso.

1848

Antonio Dati realizza il primo molino rudimentale a mola con due palmenti

1850

Primi torchi meccanici in fer- 8 mulini e 28 pastifici. ro e bronzo della Pattison.

1856

Premio per la pasta Napoli all’esposizione di Parigi.

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=

Maccaronari

Angelo Abbenante

Ascesa e declino della civiltà della pasta - Quadro sinnottico Anno

Territorio e società

Tecnologie

Trattato commerciale con la Francia. Diminuisce l’affluenza dei grani pugliesi sui mercati locali.

1863-1865

1864

Asilo infantile

1866

Sviluppo della concorrenza di Marsiglia.

1869-1884

Tassa sul macinato.

1870

Scuola Arte e Mestieri.

1871

Entra in funzione il porto di Torre Annunziata.

Torchio idraulico e semolatrice della Pattison.

Sono censite 140 fabbriche.

1874

60

Industria e Mercati

1878

Proteste operaie e repressio- Invenzione della marsigliese, ne. la prima semolatrice meccanica.

1879

Ospedale

1880

I pastifici cominciano ad occupare l’area compresa tra Corso Garibaldi e via Mazzini.

Introduzione dei mulini a cilin- Sorgono i primi complessi dro. Torchio idraulico a gotto industriali. montante della Pattison.

1882

Pressa idraulica con macchina a vapore e gramola a coltelli della Pattison.

1883

Impastatrice con albero a palmole.

1887

Acquedotto.

1889

9 motori a gas in esercizio.

1890

1891

Viene costituita la Camera del lavoro.

1896

Corteo sindacale. Costruzione dei magazzini generali nell’area portuale.

Pressa automatica.

Fino alla prima guerra mondiale si sviluppano i mercati esteri (periodo di massimo splendore).

Solo 11 fabbriche su 102 utilizzano motori a vapore o a gas. Le rimanenti utilizzano torchi a mano. Installati 141 HP.

102 fabbriche a Torre Annunziata (48% della provincia) con 1678 addetti (52% della provincia).

Il Pastificio di Pietro Farro Sarnacchiaro riceve il Gran Premio all’Esposizione Alimentare di Parigi.

1900

1901

Sciopero generale.

1904

Sciopero dei lavoratori portuali.

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Installati 1993 HP (45% della provincia).

47 fabbriche a Torre Annunziata (24,45% della provincia) con 1414 addetti.


Angelo Abbenante

=

Maccaronari

Ascesa e declino della civiltà della pasta - Quadro sinnottico Anno

Territorio e società

Tecnologie

Industria e Mercati

1910

Il 60% della pasta italiana è prodotta nella provincia di Napoli.

1913

Il Pastificio di Pietro Farro Sarnacchiaro riceve la medaglia d’oro all’Esposizione di Padova

1919

Vento Cirillo per la prosciugazione.

1930

Invenzione della continua Braibanti che rivoluziona il processo produttivo.

Il salario è pari al 67% di quello del 1913.

Installati 2919 HP (40% della provincia).

49 pastifici con 2251 addetti (45,58% della provincia).

1931

Comincia la battaglia del grano che blocca i rapporti con i mercati esteri.

1939 1940

Introdotto il divieto di creare nuovi impianti.

1950

Nel dopoguerra fino al 1970 la crisi dell’arte bianca.

1967

Proposta di legge di Abenante.

50 pastifici, la maggior parte piccoli.

1971

8 pastifici.

1979

3 pastifici, di cui solo uno di dimensioni industriali.

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APPENDICE



=

Angelo Abbenante

Maccaronari

I pastifici di Torre Annunziata nel 1983 Elenco dei pastifici con indicazione del numero di schedatura, nome del proprietario, via e numero civico, primo dato sull’attività produttiva, data di chiusura della ditta, classe. N. 1) 2) 3) 4) 5) 5a) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20) 21) 22) 23) 24) 25) 26) 27) 28) 29) 30) 31) 32) 33) 34) 35) 36) 37) 38) 39) 40)

Denominazione Voiello Giovanni Vitagliano Iovino Luigi Vitagliano Voiello Giovanni Voiello Giovanni Cirillo Luigi D.A.U.N.I.A (Pagano e Cirillo) S.A.P.E.C.A. Manzo Michele S.A.P.E.C.A. (Pagano) Bonifacio Gennaro Guaraldi Costantino Monaco & Co. Ferraro-Sarnacchiaro Casotti Luigi Arpaia Arcangelo Formisano Domenico Formisano Domenico Ruggiero Ferdinando Dati Antonio Manzo Iennaco Villani Anna Carbone Costanzo Carotenuto Caso Antonio Gallo Salvatore Raiola Giuseppe Iennaco Ciniglio Ignazio Fogliamanzillo Felice Russo Giovanni De Simone Annunziata Turano-Gallo De Martino Donato Lettieri Salvatore Francesco Di Liegro Giuseppe Angrisani Giuseppe Malacrio Francesco

Indirizzo Corso Umberto 219 Via P. Fusco 4 Corso Umberto 178 Corso Umberto 205 Via Maresca 12 Via Maresca Via M. Morrone 39-45 Corso Umberto 131 Corso Umberto 93-107 Corso Umberto 104 Corso Umberto 93-107 Via Vesuvio 24 Via Vittorio Veneto 3 Via Vesuvio 45 Via Vesuvio 55 Via Vesuvio 69 Via Carlo Poerio Corso Umberto 28 Corso Umberto 21 Corso Umberto 365 Via Eolo 10-14 Via Luigi Zuppetta Vico Luna 44 Via Dante 144-146 Via Dante Via Vittorio Veneto 315 Via dei Sepolcri 40 Via Vittorio Veneto 234 Via G. Murat 43-49 Via G. Murat 15-21 Via G. Murat 5-13 Via G. Murat 3 Via G. Murat 8 Via Commercio Via Sambuco Via Sambuco Via G. Murat 28-32 Via della Fortuna 88-94 Piazza Matteotti 9 Via Alfonso De Simone Via Castello

Inizio attività 1879 int. al 1930 1904 1930 - 1900 1896 1864 1892 1865 1892 1904 1933 1883 1902 1904 1880 1865 1865 1880 1848 1910 1880 1920 1920 intorno al 1900 1934 1919 1920 1900 1890 1931 1880 1881 1880 1936 1880 1920 1904 1934 1930

Fine attività dopo il 1960 1950 intorno al 1915 1950 1977 1930 circa 1960 dopo il 1960 1960 intorno al 1920 1960 1950 1950 1958 1960 dopo il 1920 1954 1939 1939 1968 1958 1950 intorno al 1950 1960 1934 1945 dopo il 1950 1969 dopo il 1951 dopo il 1925 1956 1973 1953 1951 dopo il 1950 1950 dopo il 1950 intorno al 1950 1968 1939 1950

Classe

A3 A2 B A2 A2 A1 A1 A1 A1 A1 A2 A2 A2 A2 A2 A1 A1 C A2 A1 A1 A2 A2 A2 A2 A2 A2 A2 B1 A2 A1 A1 A1 A2 A2 A1 A1 A2

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Maccaronari

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N. 41) 42) 43) 44) 45) 46) 47) 48) 49) 50) 51) 52) 53) 54) 55) 56) 57) 58) 59) 60) 61) 62) 63) 64) 65) 66) 67) 68) 69) 70) 71) 72) 73)

Denominazione Bucciero Nunziato Amoruso Angelo Lettieri e Giordano Carotenuto Di Casola La Rana Pappalardo Orsini Domenico Ruggiero Masi Vincenzo La Rana De Laurentiis Irlando Antonio Setaro Nunziato La Rocca Francesco Afeltra Pasquale Inserra Salvatore Malacario e Mazzella F.lli Gargiulo Di Nola Teodoro Iennaco Gennaro Vitagliano Gaetano Vitagliano Gaetano Filippone Achille Vicinanza Angelo Voiello S.A.M. Fogliamanzillo Giuseppe Borrelli Carmine Montuori Eduardo Mennillo Alessandro Iapicca Carmine Pinto e Balsamo Fabbrocino & Racconto

= Indirizzo Via Stella 46-48 Via Nicolò d’Alagno 2-12 Via Oplonte 25-29 (Oplonti) Via Oplonte 37-41 (Oplonti) Via Oplonte 57-65 (Oplonti) Via Oplonte 67-77 (Oplonti) Via Oplonte 84-100 (Oplonti) Via Oplonte 54-62 (Oplonti) Via Oplonte 34-44 (Oplonti) Via Oplonte 12-22 (Oplonti) Via Mazzini 13-23 Via Mazzini 37 Via Mazzini 45-53 Via Mazzini 74-82 Via Mazzini 66-72 Via Mazzini 48-56 Via Commercio Via Mazzini 40-46 Via Mazzini 26-36 Corso Vittorio Emanuele III Corso Vittorio Emanuele III Corso Vittorio Emanuele III Corso Vittorio Emanuele III Via Gasometro Via Speranza Largo Genzano Via Roma 10-26 Via Roma 23-31 Via Roma 104 Via Roma 100-108 Via Roma Viale Manfredi 17-29 Piazza Risorgimento

Angelo Abbenante Inizio attività 1940 1934 1880 - - 1920 1881 - 1934 - dopo il 1920 - 1904 1934 1880 1938 1933 1929 1880 1878 1889 1889 1884 1904 - 1933 1938 1920 1960 1934 1938 1939 1860

Fine attività 1958 1950 1954 1945 1945 1939 1920 1945 1939 1945 1939 1939 in attività in attività 1954 1966 1961 1967 1967 1950 1961 1961 1971 1930 1945 1961 1961 intorno al 1955 1960 1965 1950 1950 in attività

Classe A1 A1 A1 A2 A1 A1 A2 A1 A1 A2 A2 A2 A2 A2 A2 A2 A4 A2 A2 A4 A4 C C A3 C A2 A3 A4 A3 A3 A3 B2

Classificazione dei pastifici I pastifici schedati sono stati classificati in tre distinte classi a seconda delle tipologie: Classe A: considera l’evoluzione dell’impianto del pastificio dal tipo edilizio abitativo a quello industriale ed è suddiviso in quattro tipi: A1 impianto del XVII - XIX sec. «presenta caratteri non dissimili dalla tipologia abitativa tradizionale: la struttura di base varia da 3 a 5 campate (di cui la centrale di solito contiene la scala), di dimensioni variabili a seconda della disponibilità di spazio dovuta all’inserimento in un prospetto stradale, che ne predetermina la dimensione in larghezza; ogni singola campata si presenta suddivisa in più ambienti». A2 impianto della seconda metà dell’800 «presenta caratteri simili al tipo precedente, anche se la maggior elasticità della struttura consente l’utilizzazione massima della campata in lunghezza»

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Angelo Abbenante

=

Maccaronari

A3 impianto dei primi decenni del ‘900 «presenta la massima riduzione dello schema planimetrico dei muri portanti trasversali: rimane sostanzialmente legato ai tipi precedenti essendo ancora inserito in un prospetto stradale». A4 impianto dei primi decenni del ‘900 «presenta uno schema non dissimile da quello ricorrente, tuttavia se ne distacca per la ripetizione del modulo, che ora si moltiplica, producendo l’immagine del tipico contenitore industriale multipiano ormai svincolato dal contesto urbano». Classe B: include gli impianti con struttura portante caratterizzata da solai retti da pilastri isolati che sostituiscono l’ingombrante struttura muraria interna. Questo tipo si riscontra in particolare nei grossi impianti di mulini, a causa del maggiore ingombro dei macchinari. Classe C: include impianti a struttura mista caratterizzati dalla compresenza di due o più tipi precedentemente analizzati. Si tratta per lo più di impianti di grandi dimensioni, dove l’attività del pastificio è associata a quella molitoria. Fonte: Paola Gargiulo - Lea Quintavalle, “L’industria della pastificazione a Torre Annunziata e Gragnano”, in Aa. Vv., Manifatture in Campania, Guida Editori, Napoli, 1983.

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=

Fonte: Paola Gargiulo - Lea Quintavalle, ibidem.

Individuazione dei pastifici di Torre Annunziata riportati in elenco

Maccaronari Angelo Abbenante


Angelo Abbenante

=

Maccaronari

CAMERA DEI DEPUTATI IV Legislatura Proposta di legge n. 4498 d’iniziativa dei Deputati Abenante, Caprara, Jacazzi, Baucci, Bronzuto, Abbruzzese Presentata il 24 ottobre 1967 Ristrutturazione e riorganizzazione dell’industria molitoria e della pastificazione ONOREVOLI COLLEGHI! - Il problema dell’industria molitoria e della pastificazione da tempo ha richiamato l’attenzione delle forze democratiche e dei lavoratori interessati alla salvaguardia e allo sviluppo di questo settore produttivo. La crisi si trascina da anni trasformando città in cimiteri di industrie, soprat­ tutto nel Mezzogiorno e in Campania. La prossima scadenza comunitaria (abbattimento dei dazi doganali al 1° luglio 1968) trova il settore in condizioni non competitive, con aziende gracili, destinate a soccombere. In questi ultimi anni dal 1949 al 1964 negli altri paesi del Mercato comune è andato avanti un processo di concentrazione e di razionalizza­ zione produttiva: in Francia i pastifici si sono ridotti da 420 a 110 con una produzione che al 75 per cento è effettuata in 9 stabilimenti; in Germania si è passati da 400 a 44 unità. Le condizioni di inferiorità della nostra industria risultano evidenti quando si considera che la potenzialità produttiva automatica, è del 70 per cento in Francia, del 75 e 80 per cento in Germania e del 30-35 per cento in Italia. Il settore caratterizzato dal prevalere di piccole e medie industrie non ha partecipato alla evoluzione delle tecniche produttive delle paste alimentari, tecniche che in questi ultimi anni hanno subito un salto qualitativo. Le aziende senza margine di autofinanziamenti hanno effettuato investimenti enormemente inferiori a quelli realizzati negli altri paesi comunitari. Né si prevede un’inversione di tendenza: le previsio­ ni confindustriali sullo sviluppo del settore per i prossimi anni sono caratterizzate da insufficienti investi­ menti e da una progressiva riduzione dell’occupazione. I prossimi mesi saranno decisivi: il settore ha un potenziale produttivo esuberante; i paesi del Mercato comune sono autosufficienti né vi sono vaste possibilità di allargamento del mercato interno nazionale. Per fronteggiare la concorrenza dei partner comunitari e per salvaguardare le nostre esportazioni nei paesi terzi è più che mai necessario avviare rapidamente un processo di ristrutturazione, di diversificazione e specia­ lizzazione produttiva. In questi ultimi anni la politica di aiuto alla piccola e media industria, l’azione speciale verso il Mezzogiorno sono stati provvedimenti insufficienti ad avviare questo processo. Da queste considerazioni nasce la necessità di un piano generale di ammodernamento e di ristruttura­ zione che utilizzi gli strumenti pubblici di intervento diretto e indiretto e che stabilisca un nuovo rapporto tra l’intervento pubblico e il potere decisionale che affidato agli imprenditori non ha impedito la decadenza del settore. La nostra proposta di legge offre una soluzione dato che non si tratta tanto di fronteggiare difficoltà transitorie quanto di dare l’avvio ad un processo di radicale rinnovamento del settore. L’articolo 1 istituisce pertanto un Ente pubblico con la partecipazione degli enti locali, dei rappresentanti dei lavoratori e dei ministeri interessati con il compito di adottare i provvedimenti necessari allo sviluppo del settore. L’articolo 2 definisce i compiti dell’Ente. Compiti vasti che vanno dalla riorganizzazione produttiva alla tutela del consumatore per evitare inconvenienti come quello ultimo allorché, alla riduzione del prezzo del grano non è seguita la riduzione dei prezzi delle paste alimentari. Ma l’obiettivo prioritario dell’Ente è quel­ lo di garantire l’occupazione e per questo ha potere di approntare un piano di sviluppo utilizzando strumen­ ti molteplici (controllo degli investimenti delle grandi imprese, sviluppo di iniziative consortili, assistenza tecnica, scientifica, ecc. soprattutto alle piccole e medie industrie). L’articolo 3 dispone che il piano quinquennale di settore sia considerato parte integrante del piano di sviluppo economico avviando così un’articolazione democratica dei centri di direzione nel campo economi­

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Maccaronari

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Angelo Abbenante

co e fornendo al programmatore strumenti validi d’intervento. L’articolo 4 autorizza l’IMI ad emettere obbligazioni per il finanziamento del piano e sancisce l’obbligo di assicurare l’assoluta priorità alla piccola e media azienda. L’articolo 5 stabilisce che l’Ente, sentito il Comitato interministeriale per la programma­zione, determini con proprio decreto le zone a prevalenza di industrie dell’arte bianca nelle quali insorga una rilevante disoc­ cupazione in conseguenza delle difficoltà produttive del settore. L’articolo 6 è diretto ad ottenere contributi per l’organizzazione dì mostre e per sviluppare ogni altra iniziativa atta alla valorizzazione del prodotto in Italia ed all’estero. L’articolo 7 impone l’obbligo per gli imprenditori beneficiaLi di rispettare gli accordi ed i patti sindacali stipulati per la categoria e per la zona. E perché la norma non resti inoperante l’Ente può adottare provve­ dimenti fino alla revoca dei benefici concessi. L’articolo 8 ed i successivi riguardano le provvidenze sociali a favore dei lavoratori del settore. Tali prov­ videnze non debbono essere considerate come misure di carattere assistenziali e con finalità contingenti ma tendono ad assicurare ai lavoratori i mezzi di sostenimento durante il processo di riorganizzazione, e soprattutto a garantire una riqualificazione professionale in rapporto alle nuove iniziative produttive che si rendessero necessarie per assicurare l’occupazione ai lavoratori espulsi dal settore. Per questo gli ultimi articoli della propo­sta di legge prevedono la collocazione dei la­voratori a Cassa integrazione guadagni per il periodo di tempo necessario al riassetto delle attività produttive, la correspon­ sione per tale periodo dell’80 per cento del salario, il pen­sionamento anticipato per la donna a 45 anni e per gli uomini a 50. Sono previsti altresì corsi di addestramento professionale concordati con l’Ente pubblico e decisi da un Comitato composto da rappresentanze dei lavora­tori, dei comuni e dell’Ufficio e dell’Ispettora­ to del lavoro, corsi che saranno finanziati da una apposita gestione da costituirsi nell’ambito del fondo per l’addestramento professionale dei lavoratori.

70 PROPOSTA DI LEGGE ART. 1. È istituito l’Ente pubblico per la riorganizzazione e lo sviluppo della industria molitoria e della pastifi­ cazione. L’Ente svolgerà la propria attività secondo le direttive di un Comitato, presieduto dal ministro del bilan­ cio o da un suo delegato e composta da un rappresentante del ministero dell’industria, un rappresentante del ministero dell’agricoltura, un rappresentante del ministero del commercio estero, da tre rappresentanti dei lavoratori, eletti questi ultimi, ogni due anni, a suffragio diretto dai lavoratori del settore e da tre rap­ presentanti degli enti locali eletti dai consigli comunali delle zone particolarmente interessate all’attività del settore. ART. 2. L’Ente è tenuto ad elaborare un piano quinquennale di sviluppo del settore secondo i seguenti criteri: a) garantire i mezzi di occupazione ed assicurare comunque l’assorbimento immediato dei lavoratori espul­ si dalla produzione; b) promuovere in forma generale ed equilibrata un incremento di produttività mediante il rinnovamento tecnico e la riorganizzazione produttiva; c) stimolare e dirigere lo sviluppo selettivo e specializzato delle piccole imprese; d) impedire la formazione di posizioni di monopolio nel corso del naturale pro-cesso di concentrazione tecnico-produttiva; e) evitare il decadimento delle zone geografiche colpite dalla crisi del settore; f) tutelare gli interessi dei consumatori;

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Angelo Abbenante

=

Maccaronari

Nell’ambito delle finalità del piano l’Ente: - promuove ed organizza d’intesa con i ministeri competenti i vari interventi previsti dalla vigente legisla­ zione e accerta che essi corrispondano alle fina­lità del piano; - appronta un piano particolare di sviluppo delle piccole imprese, comprensi­vo di un servizio pubblico di ricerca scientifica, di consulenza tecnica, di promozione commerciale per tali imprese; - assume il potere di esame, approvazione e controllo dei programmi di inve­stimenti delle grandi imprese del settore. L’Ente concorda e definisce con i ministeri competenti la politica fiscale, creditizia, di scambi interna­ zionali, ed ogni altra condizione di favore per il settore determinabile dallo Stato allo scopo di garantirne la rigorosa connessione con le finalità del piano. ART. 3. Il piano quinquennale di settore viene assunto come parte integrante del programma di sviluppo econo­ mico generale. ART. 4. Per il primo biennio del piano, il fondo speciale di cui all’articolo 1 del decreto legge 14 marzo 1965, n. 123 è integrato dal ricavo netto di obbligazioni che, fino all’importo nominale massimo di venti miliardi di lire, lo Istituto mobiliare italiano è autorizzato ad emettere. Le disponibilità derivanti da tali integrazioni dovranno essere utilizzate per il perseguimento degli obiet­ tivi del piano, particolarmente ed in via prioritaria per il Finanziamento della riorganizzazione, dell’amplia­ mento e dell’ammodernamento delle piccole imprese.

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ART. 5. L’Ente settoriale, sentito il Comitato interministeriale per la programmazione economica, determina con proprio decreto le zone a prevalenza di industrie dell’arte bianca nelle quali insorge il problema della tutela dei livelli di occupazione e quello del reimpiego. ART. 6. Il Ministro per il commercio con l’estero è autorizzato a concedere contributi per il finanziamento dì iniziative che l’Ente intende adottare per promuovere lo sviluppo delle esportazioni dei prodotti dell’arte bianca, nonché per l’organizzazione di mostre specializzate in Italia e all’estero ed aventi per scopo l’incre­ mento delle vendite e la valorizzazione del prodotto nazionale. I contributi saranno concessi con decreto del Ministro per il commercio con l’estero entro i limiti dei fondi segnati ai relativi capitoli dello stato di previsione della spesa del Ministero e per il pagamento saran­ no seguite le modalità stabilite dalla legge 17 febbraio 1965, n. 51. ART. 7. Nei provvedimenti di concessione dei benefici previsti dalla presente legge e nei capitolati di appalto deve essere inserita clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario di applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dagli ultimi contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali per la categoria e la zona. Tale obbligo deve essere osservato sia nella fase di costruzione dell’impianto che in quella del suo eser­ cizio, per tutto il tempo in cui l’imprenditore beneficia delle agevolazioni previste dalla presente legge. Le infrazioni al suddetto obbligo e alle leggi sul lavoro, accertate dall’Ispettorato del lavoro, ai sensi del

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decreto del Presidente della Repubblica 19 marzo 1955, n. 520 sono comunicate all’Ente, di cui all’articolo 1 della presente legge, che adotterà le opportune misure, fino alla revoca dei benefici stessi. ART. 8. I lavoratori delle aziende molitorie e della pastificazione che, nel corso dell’attuazione dei piani di ristrutturazione approvati dall’Ente secondo l’articolo 1, restano inoperosi, previo esame delle direzioni aziendali con le organizzazioni sindacali, saranno sospesi e messi in Cassa integrazione guadagni per il periodo e i tempi di riassetto delle attività produttive, previsti dai piani stessi. Il trattamento che compete ai lavoratori è pari all’80 per cento della retribuzione globale di cui parte spetta alla Cassa integrazione guadagni nella misura prevista dalla legge 23 giugno 1964, n. 433 e la restan­ te parte è a carico del datore di lavoro. Lo stesso trattamento spetta ai lavoratori delle aziende del settore, eventualmente già sospesi con l’en­ trata in vigore della legge. Ai lavoratori messi all’integrazione, ai sensi delle presenti disposizioni, spettano gli assegni familiari nella misura intera, nonché l’assistenza in caso di malattia, di maternità secondo le modalità vigenti, e i cui oneri sono a carico dei rispettivi enti. I lavoratori che beneficiano dei provvedimenti di cui sopra possono avanzare domanda di pensione di vecchiaia anticipata, purché abbiano compiuto 45 anni se donne e 30 anni se uomini. Qualora non abbiano raggiunto i requisiti minimi di contribuzione previsti dalla legge, essi hanno comunque diritto alla pensio­ ne minima. ART. 9

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A decorrere dall’entrata in vigore della presente legge, i lavoratori dell’arte bianca disoccupati ammessi ad appositi corsi di addestramento professionale da istituirsi ai sensi della legge 29 aprile 1949, n. 264, percepiranno per ogni giornata di effettiva presenza un assegno di lire 500 in sostituzione del trattamento economico integrativo previsto dall’articolo 52 della legge citata ed in aggiunta alle altre provvidenze alle quali abbiano diritto in base alle norme vigenti. I predetti corsi di qualificazione o di riqualificazione professionale possono essere svolti, su proposta degli uffici provinciali del lavoro e della massima occupazione, insieme alle organizzazioni sindacali dei lavoratori sentito il Comitato di cui al successivo articolo 10 oltre che dagli Enti di cui all’articolo 47 della citata legge 29 aprile 1949 n. 264. I corsi di qualificazione devono essere concordati con l’Ente pubblico dell’arte bianca, secondo l’articolo 1 in base alle esigenze ed orientamenti fissati nei piani di reimpiego di tutta la manodopera della zona, nonché in aziende di altri settori. I partecipanti ai corsi che avranno superato l’esame finale matureranno un diritto di priorità nell’impie­ go presso le aziende situate nelle zone geografiche di cui all’articolo 5. ART. 10. In seno alla Commissione provinciale per il collocamento di cui all’articolo 25 della legge 29 aprile 1949, n. 264, è costituito ad iniziativa del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, un apposito Comitato avente il compito di coordinare le iniziative di qualificazione dei lavoratori del settore e di esprimere pare­ re in merito all’attuazione delle iniziative medesime. il Comitato è composto: - da tre rappresentanti delle organizzazioni dei lavoratori;

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- dal capo del circolo dell’Ispettorato del lavoro; - dal direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro; - da due sindaci dei comuni interessati proposti dall’associazione dei comuni. Il Direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro presiede e svolge compiti di coordinamento dei lavori del Comitato. ART. 11 Per provvedere alle spese relative all’attuazione di quanto disposto dai precedenti articoli 9 e 10 è costi­ tuita in seno al “Fondo per l’addestramento professionale dei lavoratori” di cui all’articolo 62 della legge 29 aprile 1949, n. 264, una Gestione speciale per le attività di qualificazione e di riqualificazione professionale dei lavoratori del settore molitorio e della pastificazione. La gestione è alimentata, in relazione alla necessità dell’attività da svolgere, con i i fondi del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale stanziati per l’istruzione e l’addestramento professionale.

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CAMERA DEI DEPUTATI IV Legislatura - Seduta dell’11 gennaio 1968 Svolgimento di proposte di legge PRESIDENTE, L’ordine del giorno reca lo svolgimento di alcuna proposte di legge. Cominciamo da quella di iniziativa dei deputati Abenante, Caprara, Jacazzi, Raucci, Bronzuto e Abruzzese: «Ristrutturazione e riorganizzazione dell’industria molitoria e della pastificazione» (4498). L’onorevole Abenante ha facoltà di svolgerla. ABENANTE, Il settore dell’industria molitoria e della pastificazione continua a versare in precarie con­ dizioni. L’industria della macinazione ha mostrato nei primi 9 mesi del 1966 una contrazione produttiva del 9,4 per cento rispetto allo stesso periodo del 1965; l’utilizzazione degli impianti è scesa al di sotto del 55 per cento, tasso che aveva caratterizzato gli anni 1964 e 1965. L’industria della pastificazione nel 1966 ha segnato per il secondo anno consecutivo una flessione nella produzione. L’accentuato squilibrio tra, la consistenza degli impianti e i livelli di produzione si colloca nel quadro di profonde trasformazioni che il settore ha subito in questi ultimi anni: dai 3.600 pastifici del 1947 si è pas­ sati a 807 aziende, nel 1962, a 694 nel 1964, con un costante aumento della potenzialità installata. Il processo di concentrazione continuerà secondo le previsioni confindustriali entro il 1970 gli impianti di pastificazione dovranno ridursi a 200-300 con la conseguente chiusura di oltre la metà degli attuali sta­ bilimenti. In tale processo di ristrutturazione caratterizzato da una lenta e costante espulsione delle aziende mar­ ginali la Campania ha pagato il prezzo più alto. Il fenomeno non è avvenuto per caso ma è stato la conse­ guenza logica di una politica agricola protezionistica a favore della rendita fondiaria e dell’incapacità imprenditoriale. Il nodo della politica protezionistica granaria ha pesato sull’industria campana che, priva di fonti di approvvigionamento e preclusa ai traffici internazionali, si è trovata in condizioni sfavorevoli relativamen­ te alle industrie che avevano trasferito o installato i loro impianti nei luoghi di produzione ove il grano subiva le oscillazioni della domanda e dell’offerta sfuggendo ai prezzi di ammasso sui quali pesa il costo parassitario della, Federconsorzi. L’alto dazio doganale, l’ammasso obbligatorio e l’adesione al MEC sono stati e sono ostacoli allo svilup­ po dell’industria campana che ha sempre fondato le proprie fortune sul libero commercio del grano. Ancora recentemente è stato ricordato da Agnesi: Torre Annunziata vive dell’industria delle paste. I grani le giun­ gono dalla Russia su dei piroscafi, 300 lavoratori del porto mettono quei grani a riva, 500 mugnai li riduco­ no in semole in 14 grandi mulini, 800 pastai trasformano queste semole in paste in 54 pastifici… Così 3 mila lavoratori insieme con le loro famiglie, più di 10 mila persone vivono direttamente a Torre Annunziata con l’industria delle paste. Questo agli albori del secolo. Torre Annunziata, che diede inizio alla produzione industriale nel settore allorché nel 1848 il molino Dati avviò un complesso a conduzione idraulica, ha visto progressivamente ridursi questa attività. Dagli 8 muli­ ni e dai 58 pastifici del 1949 si è passati oggi a 4 mulini e 14 pastifici. Secondo i dati degli ultimi censimen­ ti (1951-1961) a Torre il comparto alimentare e affini ha subito un grave regresso. Il Mazzetti in un recente studio sull’industria campana scrive: «Soprattutto la branca molitoria e della pastificazione, nei centri tradizionali (Gragnano, Castellammare, Torre Annunziata) ha registrato una vera e propria crisi. A Torre Annunziata, ad esempio, nel 1951 si contavano 79 unità locali con quasi 2.500 addet­ ti, nel 1961 le unità locali sono ridotte a 10 e gli addetti a meno di 2.000.». La crisi dell’arte bianca in questa città è stata in primo lungo la causa fondamentale della decadenza economica della zona. Quando si esaminano i dati del comparto di Castellammare, comparto che compren­ de le sud­dette città, noi riscontriamo che dal 1901 al 1961 gli addetti all’industria sul totale della popolazio­ ne passano dal 40,86 per cento al 25,51 con una perdita secca del 5,35 per cento. Inoltre quella crisi ha formato la causa del progressivo ridimensionamento dell’inciden­za della Campania sulla produzione nazio­ nale. Ma il dato più preoccupante è costituito dallo stato di arretratezza degli impianti meridionali per cui la Campania ha perduto il vecchio primato produttivo. Infatti in questo settore, caratterizzato dal prevalere della piccola e media industria, il rapporto unità locali-addetti non è favorevole al Mezzogiorno. Le aziende

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meridionali (e in questo elemento riaffiorano le pesanti responsabilità degli imprenditori) hanno preferito trascinarsi su bassi salari piuttosto che procedere ad una razionalizzazione dei processi produttivi per cui abbiamo oggi aziende a bassa produttività. Infatti nell’ambito dello stesso comparto delle industrie alimen­ tari del Mezzogiorno il settore dell’arte bianca si caratterizza per una bassa composizione organica del capitale dato che (secondo i dati del censimento del 1961) in termini di occupazione la percentuale del Mezzogiorno sul totale nazionale era del 41 per cento per il settore molitorio e della pastificazione contro un’occupazione che era del 32,1 per cento per il comparto alimentare e soltanto il 13,7 per cento delle indu­ strie manifatturiere. L’automazione dei processi produttivi e quindi la produttività sempre più condiziona la dimensione della fabbrica e la competitività (l’Emilia con meno ore lavorate produce più della Campania). Basti considerare come allo stato della tecnica in uno stabilimento di 150-200 dipendenti è possibile ottenere 20 quintali al giorno di prodotto per occupato, mentre nelle fabbriche di 300 dipendenti si ottengono 28 quintali al giorno per occupato e in quelle di 500 dipendenti ben 38 quintali. Sono questi gli squilibri esistenti nel settore alla vigilia di due importanti scadenze. Il 1° gennaio 1968 è entrata in vigore la legge sulla disciplina della produzione e vendita delle paste ali­ mentari che impone la commercializzazione di due soli tipi di pasta con l’esclusivo impiego di semole e di semolato di grano duro. L’altra, e più importante scadenza è quella del 1° luglio 1968, quando l’abbattimento dei dazi doganali comunitari sarà un fatto compiuto assieme alla libera circolazione delle merci. Si realizzerà quella che è stata definita l’unione doganale nel quadro di una politica comunitaria che ha favorito il consolidamento di strutture monopolistiche senza rompere vecchie posizioni di rendita parassitaria in un’agricoltura che ha acquisito una vera e propria fisionomia protezionistica. Queste scadenze impongono il rilancio a basso costo di una produzione altamente qualitativa per fron­ teggiare la concorrenza este­ra dato che gli altri partner non hanno per­so tempo. Secondo uno studio della Confin­dustria negli anni scorsi, in Francia si rile­va un rapido processo di concentrazione: i 420 pastifici del 1949 si erano ridotti a 110 nel 1964 attraverso un processo che è sfocia­to in nuove, ammodernate unità produttive: il 75 per cento di tutta la produzione è effet­tuato in appena 9 stabilimenti. In Germania il nume­ ro dei pastifici dal 1949 al 1964 si è ridotto da 400 a 44 unità, e sono sorti grandi complessi particolarmen­ te attrezzati ed effi­cienti. Tali processi di concentrazione hanno accentuato le nostre condizioni di inferiorità dato che sempre nel 1964 la potenzialità produttiva automatica era del 70 per cento in Francia, del 75-80 per cento in Germania e solo del 30-35 per cento in Italia. Il ritardo tecnologico è la conseguenza logica degli errori del padronato. Si pensa infatti che nell’arco di tempo 1956-1964, periodo nel quale la tecnica della produzione delle paste alimentari ha subito un salto qualitativo, gli investimenti fissi sono stati per ogni quintale di potenzialità installata in Italia di lire 629 mila, invece in Francia di un milione, in Germania di 1.375.000: all’estero quindi, si è avuto un ammoder­ namento per settore più rapido che in Italia. Le prospettive attuali non sono migliori. Le previsioni elaborate dalla Confindustria sullo sviluppo a medio termine dell’industria riflettono l’assenza di un adeguato impegno del padronato. Secondo le previ­ sioni confindustriali circa la capacità produttiva del Mezzogiorno, intesa sia come valore della produzione potenziale sia come capacita produttiva utilizzata, cioè come grado di utilizzazione degli impianti, il Mezzogiorno non progredirà, il che vuol dire che subirà un peggioramento della condizione attuale. Questi sono, infatti, i tassi della capacità produttiva del Mezzogiorno rispetto a quella nazionale: anno 1965, 35 per cento, anno 1966, 35 per cento, 1967, 35 per cento, 1968, 36 per cento, 1969, 37 per cento. Si prevede cioè un tasso di sviluppo enormemente inferiore a quello ipotizzato per il settore alimentare nel Mezzogiorno che, sempre secondo la Confindustria, dovrebbe avere un incremento annuo della produzione pari al 2,7 per cento. Il pericolo di vedere giungere paste alimentari francesi o tedesche può diventare una realtà, né vi sono molte speranze di poter allargare la nostra esportazione nei paesi comunitari. La Germania, la Francia, il Benelux sono autosufficienti e la realizzata concentrazione produttiva, l’alto grado di utilizzazione degli impianti sono condizioni di svantaggio per l’industria italiana. Gli industriali non avvertono di avere «organismi gracili destinati a soccombere». Credono che la com­ pressione salariale possa essere sufficiente a mantenere in vita le attuali strutture produttive: di qui il loro assurdo e deprecabile rifiuto circa il rinnovo del contratto di lavoro nazionale. Si illudono anche di poter trarre vantaggio dalla nuova disciplina comunitaria sui cereali. Gli accordi MEC, elevando negli altri paesi il prezzo medio di vendita del grano esistente in Italia e riducendo di più di 2000 lire il prezzo del grano duro in Italia, hanno attenuato lo squilibrio dei costi della materia prima fra la Campania e le altre zone

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produttive. Il padronato si è avvantaggiato anche del fatto che il Governo non è intervenuto per ottenere la riduzione del prezzo delle paste alimentari. La riduzione del prezzo del grano duro si è trasformata in pro­ fitto per gli industriali del settore. Il cittadino italiano paga così due volte per l’integrazione granaria: come contribuen­te e come consuma­ tore di paste alimentari. Inascoltato è stato il nostro ordine del giorno che, insieme con altri colleghi comu­ nisti, pre­sentammo nella seduta del 17 luglio 1967: «La Camera, considerato che con l’attuazione del mer­ cato comune dei prodotti cerealicoli si avrà una notevole riduzione del prezzo del grano duro da cui trar­ ranno particolari van­taggi le industrie della pastificazione, impe­gna il Governo ad adottare le opportune mi­sure perché il prezzo delle paste alimentari sia adeguatamente ridotto». Mere parole sono rimaste infat­ ti le affermazioni del ministro Restivo che accettava questo ordine del giorno sostenendo che il Governo si era già orientato in questa direzione per giungere alla riduzio­ne dei prezzi delle paste alimentari al con­ sumo. Le decisioni comunitarie non risolveranno le difficoltà del settore che opera già in un mercato interno pesante. La situazione del mercato interno non offre possibilità di assorbimento molto vaste, L’Italia è nell’ambito del Mec il paese con il consumo più elevato pro capite di pasta alimentare. 30 chili all’anno di fronte ai 7,3 chili della Francia, ai 3,5 della Germania e ai 2 del Belgio. Nonostante ciò, secondo una recen­ te indagine di Vera Cao Pinna, presentata alla conferenza nazionale dell’agricoltura, anche se nel futuro sulla spesa per l’alimentazione la spesa per cereali occuperà una quota sempre minore, passando dal 15 per cento del 1963 al 14,7 del 1970, il consumo di pasta aumenterà (fatto 100 il consumo del 1955-57, nel 1970 esso dovrebbe passare a 104,2). Incideranno certamente in tale processo la emigrazione e l’urbanizzazione che trasformano produttori e autoconsumatori in acquirenti. Questo presuppone un diverso orientamento produttivo per sviluppare paste speciali e nuove, più ricche sotto l’aspetto nutritivo, superando così le diatribe tra coloro che rilevano un miglioramento del tenore di vita e un maggiore consumo di prodotti a base proteica e quelli che invece sottolineano la necessità che almeno un certo numero di calorie debba essere fornito dai carboidrati. La diversificazione produttiva è condizione di sviluppo del settore anche quando si consideri che l’Italia, pur avendo una spesa per consumi alimentari (sulla spesa complessiva) molto più elevata di quella degli altri paesi d’Europa (nel 1956-60 in Italia questa spesa è stata del 45 per cento contro il 36 per cento della Francia, il 33 per cento della Germania occidentale e il 20 per cento del Belgio), si trova però in condizione di netta inferiorità persino nei consumi amidacei allorché si calcolano assieme cereali, legumi secchi, ecc. L’andamento delle esportazioni conferma inoltre la necessità di superare le barriere comunitarie. I maggiori paesi importatori dei nostri prodotti sono paesi non associati al MEC, con i quali più diffici­ li diventeranno gli scambi con il prevalente indirizzo autarchico comunitario, pur avendo quei paesi, come risulta dalle cifre, un’esportazione in aumento. I paesi del Mec invece incidono al riguardo molto limitatamente. Inoltre, possibilità di esportazioni esistono e si rafforzano verso i paesi del terzo mondo, soprattutto completando l’attuale processo produttivo. Infatti, mentre le esportazioni di pasta di semola hanno subito una flessione rispetto al 1965 passando da 510.171 quintali a 404.196 nel 1966, quelle di paste speciali sono passate da 15.396 quintali nel1955 a 26.326 nel 1966, con un incremento del 70,9 per cento. Ma su questo terreno il ritardo dei nostri industriali è noto; abituati a ricavare oro dall’impasto di acqua e semola e farina, non hanno adottato ancora processi produttivi moderni e integrati (dalla pasta, ai mangimi, ai biscotti, alle minestre). Da queste considerazioni nasce la necessità indilazionabile di adottare organici interventi per salvaguar­ dare il patrimonio industriale. Il discorso deve ancora una volta partire dalla revisiono generale della nostra politica granaria. In tutti questi anni, a scapito soprattutto dell’industria meridionale, si è, sviluppata una politica che ha recato uni­ camente vantaggio a quello strumento di parassitismo che è la Federconsorzi. È una battaglia, quella che conduciamo a favore dei lavoratori dell’arte bianca, che si salda con l’azione del movimento democratico per la riforma agraria generale, premessa di nuove forme di conduzione della terra (piccola proprietà contadina associata e assistita), tale da favorire una conversione colturale che le garantisca efficienza e rispondenza alle esigenze nazionali. Bisogna percorrere una lunga strada ancora in un rinnovato interesse e unità tra tutte le forze democratiche del Mezzogiorno. È inutile da parte degli imprenditori continuare a chiedere parziali provvedimenti (tariffe agevolate, franco molino, riordino dell’esportazione a reintegro, ecc.) per riparare ai danni prodotti da una politica agricola governativa che deve essere completamente rovesciata per rinnovare l’agricoltura del nostro paese, riaprire i traffici granari e permettere una produzione a costi internazio­nali competitivi. Ma la situazione dell’arte bianca esige provvedimenti immediati. È un settore, questo, come è stato detto,

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soprattutto di piccola e media industria. In questi ultimi anni la piccola media industria del settore non ha partecipato ai tanto decantati provve­ dimenti finanziari dei vari istituti di credito. L’«Isveimer», il Banco di Napoli, ecc., non hanno apportato grandi benefici. I rigidi criteri bancari, la ricerca di inesistenti garanzie reali, l’erogazione dei fon­di determinata unica­ mente dalla convenienza dei privati, le disposizioni ministeriali sulla delimitazione delle aziende d a finanziare, le pressioni clientelari hanno agito contro l’in­dustria già esistente e le agevolazioni si sono tra­ sformate in un supporto alla penetrazione monopolistica nel Mezzogiorno. L’unica iniziativa di rilievo nel settore è stato il finanziamento che, l’«Isveimer» con « scarsa co­scienza nazionale», ha concesso alla Buitoni invece di farsi promotore di un processo di ristrutturazione di questa tradizionale industria meridionale quando si considera che alla Buitoni il finanziamento è stato di 1.700 mi­lioni mentre altre 156 aziende avevano avuto dai vari Istituti di credito soltanto 11.602 mi­lioni. Per questo è necessaria una radicale riforma del credito sulla base delle proposte dai comunisti avanza­ te più volte anche in sede parlamentare allorché, discutendo il disegno di legge 1771 sulla costituzione dei fondi di rotazione presso l’«Isveimer», IRVIS e CIS, proponemmo il decentramento strutturale di questi istituti di credito, la definizione della piccola e media impresa (capitale so­ciale non superiore a 500 milioni, un rapporto capitale-addetto non superiore a un milione e mezzo o un fatturato non superiore a 1 mi­liardo e 200 milioni e partecipazione diretta dell’imprenditore alla conduzione aziendale). La maggioranza di centro sinistra fece qua­drato per respingere queste richieste, la cui validità è confer­ mata in Questi giorni anche dai rilievi della Corte dei conti, che, parlan­do del credito, ha sottolineato come «i cri­teri in base ai quali vengono concessi i con­tributi alle piccole e medie industrie permet­tono a società di grandi dimensioni di ren­dere autonome varie fasi produttive per poter rientrare fra le categorie di impre­ se ammes­se ai benefici», e ancora «potrebbero com­promettere, gli obiettivi perseguiti dalle legi­slature recando vantaggi ad imprese, che pos­sono reperire i mezzi sul mercato finanziario a detrimento delle imprese minori cui è più difficile il ricorso al credito, ed infine la stes­sa Corte ha sottolineato che è normal­ mente lasciato agli istituti di credito l’accertamento della realizzazione delle imprese finanziarie, accerta­ mento che dovrebbe essere effettuato dall’Amministrazione direttamente in rappor­to ai fini di utilità gene­ rale che soli possono giustificare il concorso dello stato nel paga­mento degli interessi. Nuova politica del credito, quindi, che si collega, all’azione per un ente provvisto di reale potere di inter­ vento verso gli impren­ditori, capace di orientare e dirigere lo sviluppo secondo le esigenze della collettività. Per questo da tempo abbiamo proposto la ri­strutturazione di tutti gli attuali istituti di credito mobiliare e di quelli speciali a medio e lungo termine in istituti di credito per l’in­dustria articolati regionalmente, col­ legati ai competenti organi dell’ente regione con compiti, oltre che finanziari, di assistenza tecnica nella produzione e negli sbocchi e con facoltà di costruire società finanziarie per avviare, iniziative collegate agli obiettivi regionali di sviluppo. Ma il processo di ristrutturazione del settore impone un discorso chiaro anche con l’Iri, con la Cassa per il Mezzogiorno e con i vari Istituti di credito, per un’azione organica e innovatrice. Oggi le aziende a partecipazione statale hanno una vasta gamma produttiva, dalle attività di base alle indu­ strie manifatturiere, ai servizi (supermercati, SME, ecc.). Non si può tollerare ancora che questo enorme potenziale produttivo operi con assoluto distacco dall’industria minore napoletana, operi come un corpo estraneo alla realtà della nostra struttura economica, volto più alla ricerca del massimo profitto che ad una opera di sviluppo armonico della nostra economia. È tempo di avviare un collegamento tra l’industria di Stato e l’apparato industriale napoletano, ricercan­ do sbocchi per l’industria meccanica pubblica e avviando altresì validi programmi di ristrutturazione dell’arte bianca anche attraverso formule nuove (leasing). Ma altrettanto decisa deve essere l’azione del ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Noi non possiamo non ricordare come il piano di coordinamento degli interventi pubblici per i prossimi anni parla della necessità di una profonda ristrutturazione dell’industria alimentare nel Mezzogiorno, di una politica di intervento strettamente coordinata con tutta l’azione, ordinaria e straordinaria prevista per lo sviluppo dell’agricoltura; ma quando si elencano i settori di intervento si passa da quello vinicolo, a quel­ lo oleario, a quello delle bevande alcooliche, a quello caseario, si insiste giustamente sui settori relativi ai prodotti alimentari di qualità, ma non si dice una parola sull’industria molitoria e della pastificazione. Questo settore è condannato al suo destino! Per questo la salvezza oggi di questa industria è affidata unicamente ai lavoratori, alla classe operaia, ai democratici che con la loro azione devono giungere ad un’azione coordinata per un piano generale di ammodernamento e di ristrutturazione che utilizzi gli strumenti pubblici, di intervento diretto (investimen­ ti delle aziende a partecipazione statale, partecipazioni delle società finanziarie di sviluppo) e indiretto

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(credito, infrastrutture, ecc.). È un discorso organico per il quale fin da oggi noi proponiamo la costituzio­ ne di un Ente nazionale di sviluppo per l’industria dell’arte bianca. Il clamoroso fallimento di una genera­ zione, che ha ereditato dai padri una attività industriale costruita dal nulla, non deve ricadere sulle spalle dei lavoratori. Le vittime di questa incapacità imprenditoriale sono state e sono i lavoratori costretti a subire violazioni legali e contrattuali, privati della possibilità di avviare una reale contrattazione integrativa attorno ai pro­ blemi del salario dei ritmi di lavoro e degli organici. Nel settore ovunque è aumentato lo sfruttamento: il pastificio modello del 1964 ha avuto rispetto al modello tipo del 1949 un calo della manodopera del 66 per cento, cioè in un pastificio tipo l’occupazione è scesa da 85 unità del 1949 a 29 unità del 1964. In Campania e a Napoli, in particolare, tale fenomeno è riscontrabile nella situazione di Torre Annunziata. La stessa Unione industriali di Napoli conferma tale processo quando recentemente ha scritto: «Alla dimi­ nuzione del numero delle imprese ha fatto riscontro un generale aumento della capacità produttiva unitaria in conseguenza dell’allo livello di industrializzazione, di automazione raggiunto nelle singole aziende del set­ tore. Il ritmo di aumento è, stato costante e la potenzialità risulta di fatto aumentata del 6 per cento circa dal 1958 al 1960, del 3,5 per cento dal 1960 al 1962 e del 70 per cento dal 1962 al 1964 e del 10 per cento circa dal 1964 al 1966». Eppure i padroni continuano a rispolverare la vecchia e logora tesi dell’impossibilità di sostenere nuovi oneri ribadendo la contrapposizione fra sviluppo dell’industria e salario dei lavoratori. I padroni che sempre hanno respinto l’invito delle forze democratiche a ricercare forme nuove per resistere alla pressione dei gruppi monopolistici e per rompere il monopolio della Federconsorzi non trovano altro rimedio che bloc­ care i salari. Noi anche in questo settore riaffermiamo il valore propulsivo e innovatore della lotta in corso per una nuova condizione operaia. Noi siamo per alti salari e per la libertà nei luoghi di lavoro, perché il più poten­ te stimo­lo al progresso tecnologico sono sempre stati gli aumenti salariali. Né tale richiesta è in contrasto con la crisi e le esigenze della piccola e media industria. Nessuno può tollerare che i lavoratori napoletani con la più alta specializzazione siano i peggio pagati in Italia e nel MEC. Per questo quando poniamo con forza la necessità di eliminare la dilatante fascia del sottosalario, quando lottiamo per nuove conquiste operaie oggettivamente poniamo il problema di una ristrutturazione che renda competitive le aziende, diamo il nostro contributo perché si giunga a una ristrutturazione che stabi­ lisca nuovi rapporti tra costo del lavoro, produttività e ricavi offrendo alla stessa piccola e inedia industria le possibilità di soddisfare le esigenze dei lavoratori e di salvaguardare un patrimonio industriale. La piccola e media industria non si è mai salvata col sottosalario, con le cooperative fasulle; la strada del sottosalario è disseminata di fallimenti di aziende chiuse. Per questo la lotta dei lavoratori è oggi l’unico valido contributo che le nostre città ricevono per riaprire in termini nuovi il discorso sull’arte bianca. Lotta che deve anche dare forza all’iniziativa dei parlamentari comunisti perché l’attuale legislatura superi la vuota formula del centro-sinistra e assicuri «libertà, dignità e sicurezza ai lavoratori approvando le nostre proposte per lo statuto dei diritti dei lavoratori, la democratizzazione del collocamento, la riduzio­ ne dell’orario di lavoro». Da questa battaglia sindacale e parlamentare deve partire l’azione comune per recidere alla base il male che da decenni mina l’arte bianca napoletana ed avviare quel processo di rinno­ vamento che è garanzia di sviluppo industriale, di nuova occupazione e di più alti salari. La nostra proposta di legge offre una soluzione, dato che non si tratta tanto di fronteggiare difficoltà transitorie, quanto di dare l’avvio ad un processo di radicale rinnovamento nel settore. L’articolo 1 istituisce pertanto un ente pubblico con la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori e del potere pubblico, avente il compito di adottare i provvedimenti necessari allo sviluppo di questo tipo di attività produttiva. L’articolo 2 definisce i compiti dell’ente. Compiti vasti, che vanno dalla riorganizzazione produttiva alla tutela del consumatore, per evitare inconvenienti come quello ultimamente verificatosi, allorché alla ridu­ zione del prezzo del grano non è seguita la riduzione dei prezzi delle paste alimentari. Ma l’obiettivo prio­ ritario dell’ente è quello di garantire l’occupazione, e per questo ha potere di predisporre un piano di svi­ luppo, utilizzando strumenti molteplici (controllo degli investimenti delle grandi imprese, sviluppo di ini­ ziative consortili, assistenza tecnico-scientifica alle piccole e medie industrie). L’articolo 3 dispone che il piano quinquen­nale di settore sia considerato parte integran­te del piano di sviluppo economico, avviando così un’articolazione democratica dei centri pubblici di direzione nel campo economico e fornendo al programmatore strumenti validi d’intervento. L’articolo 4 autorizza l’IMI ad emettere obbligazioni per il finanziamento del piano e sancisce l’obbligo di assicurare l’assoluta priorità alle piccole e medie aziende. L’articolo 5 stabilisce che l’ente, sentito il

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Comitato interministeriale per la programmazione, determina con proprio decreto le zone a prevalenza di industrie dell’arte bianca nelle quali insorga una rilevante disoccupazione in conseguenza delle difficoltà produttive del settore. L’articolo 6 è diretto a stabilire l’erogazione di contributi per l’organizzazione di mostre e per sviluppare ogni altra iniziativa atta alla valorizzazione del prodotto in Italia ed all’estero. Con l’articolo 8 si impone l’obbligo per gli imprenditori beneficiati di rispettare gli accordi ed i patti sindacali stipulati per la categoria e per la zona. E perché la norma non resti inoperante l’ente può adottare provvedimenti di carattere san­ zionatorio, che possono arrivare fino alla revoca dei benefici concessi. L’articolo 9 ed i successivi riguardano le provvidenze sociali a favore dei lavoratori del settore. Tali prov­ videnze non debbono essere considerate come misure assistenziali e con finalità contingenti, ma tendono ad assicurare ai lavoratori i mezzi di sostentamento durante il processo di riorganizzazione, a garantire una riqualificazione professionale in rapporto alle nuove iniziative produttive che si rendessero necessarie per garantire l’occupazione ai lavoratori espulsi dal settore. Per questo gli ultimi articoli della proposta di legge prevedono la collocazione dei lavoratori a cassa integrazione guadagni per il periodo di tempo necessario al riassetto delle attività produttive, la correspon­ sione, per tale periodo, dell’80 per cento del salario, il pensionamento anticipato per le donne a 45 anni e per gli uomini a 50 anni. Sono previsti altresì corsi di addestramento professionale concordati con l’ente pubblico e decisi da un comitato con le rappresentanze dei lavoratori, dei sindaci e dell’ufficio del lavoro insieme con l’ispettorato del lavoro, corsi che saranno finalizzati da una apposita gestione da costituirsi nell’ambito del fondo per l’addestramento professionale dei lavoratori. Mi auguro pertanto che la Camera accordi la presa in considerazione e che la competente Commissione discuta la proposta nel più breve tempo possibile. PRESIDENTE. Il Governo ha dichiarazioni da fare?

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REALE. Ministro di grazia e giustizia. Il Governo, con le consuete riserve, nulla oppongono alla presa in considerazione. PRESIDENTE. Pongo in votazione la presa in considerazione della proposta di legge Abenante. (È approvata) Il Disegno di legge, mai discusso in Aula, è stato ripresentato al Senato nella V Legislatura, come Disegno di legge n. 257 d’iniziativa dei senatori Abenante, Bertoli, Papa, Fermariello, Lugnano e Poerio, il 17 ottobre 1968 e nella VI Legislatura come Disegno di legge n. 257 d’iniziativa dei senatori Abenante, Bertoli, Papa e Fermariello, il 21 luglio 1971, anch’essi mai discussi in Aula.

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Note

capitolo primo

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M. Serao, Il ventre di Napoli, Ed. L’Unità,1993, pag. 22. W. Goethe, Viaggio in Italia, Vol. II, Sansoni,1948, pag. 820. F. De Bouchard, Usi e costumi di Napoli, Longanesi, Milano,1977, pag. 552. ibidem. ibidem, pag. 511. G. Luzzatto, Breve storia dell’Italia meridionale, Einaudi, Torino, 1958, pag. 53. Donna Moderna, Mondadori, Milano, settembre 1999. G Columbro, “Le muse familiari”, in Molini d’Italia, n. 4,1984. J. H. Fabre, “Ricordi di un etnologo”, in Molini d’Italia, n.4, 1984. F. Assante, “La ricchezza di Amalfi nel Settecento”, Annali di Storia,Università degli studi di Napoli,1967, pag.37. F. De Bouchard, Usi e costumi di Napoli, Longanesi, Milano,1977, pag. 549. R. Viviani, Poesie, Guida Editori, Napoli, 1975, pag.215. M. Topa, Così finirono i Borboni, Fausto Fiorentino Editore, Napoli, 1990, pag. 380. Y. Montand, Vedi che non ho dimenticato, Rizzoli, Milano,1991, pag.55. A. Scarsano, Memorie storiche del Regno, Edizioni Orsana Venosa, 1990, pag. 369. M. Micheli, I vivi e i morti, Arnoldo Mondadori, Milano, 1957, pag.54. T. Semmola, “I maccheroni”, in Omnibus letterario, anno X n. 17, pag. 6. M. Serao, Leggende napoletane, Perino, Roma,1895, pag.94. Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, Vol. II, Giustiniani, Napoli, 1803, pag.166. L. Condorelli, “I vermicelli nelle prescrizioni dietetiche di Giovanni Ferrario”, in Molini d’Italia, dicembre 1968, pag. 453. capitolo secondo

R. Rovetta, Industria del pastificio, H. Hoepli, Milano, 1908, pag. 2. J. Vittorelli, I maccheroni, Stamperia Graziosi a S. Apollinare, Venezia,1803, pag. 90. 3 Molini d’Italia, maggio, 1974. 4 C. Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste, Dante e Descartes, Napoli, 1998, pag. 24. 5 R. Rovetta, Industria del pastificio, H. Hoepli, Milano, 1908, pag. 35. 6 M. Malouin, Description et Details des Artes du Meunier, du Vermcielier et du Boulanger, 1767pag.128. 7 A. Betocchi, Le forze produttve della provincia di Napoli, Stabilimento tipografico del Cav. G. De Angelis, Napoli, 1874, pag. 163, pag.162. 8 Ministero Beni culturali, Pane e potere, catalogo della Mostra, 1991, pag. 56. 9 Mulini d’Italia, n.12, 1957. 10 F. Sgruttendio, “È Maccarune e’ ccasa”, in La torba a taccone, M. Porcelli Editore, Napoli, 1783. 11 J. Vittorelli, I maccheroni, Stamperia Graziosi a S. Apollinare, Venezia, 1803, pag. 90. 12 Biblioteca Nazionale di Napoli, Manoscritto di Dominicus Palmieri, 1561, IX, A. A. 38. 13 R. Viviani, Poesie, Guida Editori, Napoli, 1975, pag. 215. 14 R. Galdieri, “Dummenica” in A. Consiglio, Antologia di poeti napoletani, Parenti, Firenze, pag. 275. 15 R. Galdieri, ibidem. 16 E. De Filippo, ’O rraù’, in Il paese di Pulcinella, Casella, Napoli, 1951, pag. 1. 1 2

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capitolo terzo 1

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F. Alvino, Viaggio da Napoli a Castellammare, Associazione Napoletana per i monumenti, Napoli , 1845, pag.267. A. Potente A. Tolomeo, Il progresso tecnologico nel Mezzogiorno, Mepograf, 1991, pag. 104. A. Potente A. Tolomeo, ibidem, pag.108. A. Potente A. Tolomeo, ibidem, pag. 106. C. Spadaccini, Novello e grande stabilimento di paste, Dante e Descartes, Napoli, 1998, pag. 16. ASN - MAIC - F. 277, Relazione Istituto, 19 agosto 1843. M. G. Canali, “Storia dell’esposizione fatta in Genova nel settembre 1846”, Tipografia Ponthenier, 1847, Genova, in Molini d’Italia, n. 1, Gennaio 1976. F. Alvino, ibidem, pag. 268. A. Bonaiuti, “Italian Scenary”, Londra 1806, in Molini d’Italia, n.1, 1970. M.Petrocchi, Le industrie del Regno di Napoli, Pironti, 1953. A. Betocchi, Le forze produttve della provincia di Napoli, Stabilimento tipografico del Cav. G. De Angelis, Napoli, 1874, pag. 163 G. Aliberti, “L’industria molitoria meridionale nel sec.XIX”, Rivista storica Italiana, anno LXXXI, fasc. IV. G. Aliberti, ibidem, pag. 37. F. de Bouchard, “Usi e costumi di Napoli”, Nobile, 1851, in Molini d’Italia, marzo 1976. capitolo quarto

P. Barracano, “La questione granaria”, in Molini d’Italia, ottobre 1976, pag. 3. R. Rovetta, Industria del pastificio, H. Hoepli, Milano, 1908, pag. 20. 3 R. Rovetta, ibidem, pag. 106. 4 F. Consolo, Il libro dei maccheroni, Mondadori, Milano, 1979, pag. 53. 5 Enciclopedia Italiana, “voce Pasta”, Roma, 1935, pag. 474. 6 R. Rovetta, Industria del pastificio, H. Hoepli, Milano, 1908, pag. 117.

1 2

capitolo qunto

82

N. del Pezzo, “I casali di Napoli”, in Napoli nobilissima n. 1, 1892. G. Cavana, “Contributo alla storia dei molini”, in Molini d’Italia, nov. 1979, pag.513. 3 N. Faraglia, Storia dei prezzi dal 1131 al 1861, Nobile Editore, 1878, pag. 82. 4 F. Assante, “La ricchezza di Amalfi”, Annali di Storia, Università degli Studi di Napoli, 1967, pag. 37. 5 N. Faraglia, ibidem, pag.86. 6 D. Morano, Intorno alla dinamica delle acque della foce al canale del Sarno, Napoli, 1882, pag. 126. 7 E. Conti, Ercolano e Pompei, Einaudi, Torino, 1959, pag. 112. 8 G. Di Martino, Tavolario Pollio, D’Amelio, 1986, pag. 90. 9 AaVv, Enciclopedia delle arti e dell’Industria, voce Pasta, UTET, 1889. 10 F. Assante, “La ricchezza di Amalfi”, Annali di Storia, Università degli Studi di Napoli, 1967, pag. 34. 11 G. Donvito, L’Economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, Vallecchi, Firenze, 1928, pag. 20. 12 Angerio Filangieri, La Campania, supplemento Voce della Campania, n.13, pag. 223. 13 G. M. Galanti, Della Descrizione geografica e politica della Sicilie, Napoli, 1969, pag. 269. 14 L. Petriccione, “Notizie statistiche sulle condizioni industriali della Provincia di Napoli”, 1904, in G. Russo, L’avvenire industriale di Napoli, Unione Industriale di Napoli, 1963, pag. 218. 15 “Il Museo della pasta”, I giorni e le opere, n. 2, 1994, pag. 202. 16 G. Prezzolini, I Maccheroni, Rusconi, Milano, 1998, pag.115. 17 N. Lawson, Un cibo di origine divina, Allemando Editore, Torino,1995, pag. 55. 18 Abate di Saint-Non, “Voyage pittoresque ou description de Naples et de Sicilie”, 1781, in Il commercio del Sud, dicembre 1959, pag. 34. 19 G. Lelande, “Voyage d’un Francais en Italie”, in Campania, Edizioni La Voce della Campania, fasc. Vl, pag. 393. 20 A. Lepre, Contadini, borghesi ed operai nel tramonto del feudalesimo napoletano, Feltrinelli, Milano, 1963, pag. 289. 21 A. Betocchi, ibidem, pag. 163. 22 A. Betocchi, ibidem, pag. 163. 23 G. Strafforello, La Patria, voce Napoli, UTET, Torino, 1898. 24 A. Betocchi, Forze produttive della Provincia di Napoli, G. De Angelis, Napoli, 1874, pag. 206. 25 G. Valagra, “Relazione su l’agricoltura e l’economia rurale nei principato ulteriore”, Avellino, 1879, in Campania, Einaudi Torino, 1990, pag. 45. 26 P. Frascani, “Mercato e commercio a Napoli dopo l’unita”, in Campania, Einaudi, Torino, 1990, pag.192. 27 A. Jossa, Relazione al Consiglio Comunale di Torre Annunziata, 30 novembre 1902, Stabilimento Tipografico G. Maggi, 1903, pag. 19. 28 Sovrintendenza Archivistica Napoli, Discorso inaugurale del sindaco Matteo Gualdi, 7 settembre 1864. 29 A. Jossa, Relazione al Consiglio Comunale di Torre Annunziata, 30 novembre 1902, Stabilimento Tipografico G. 1 2

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Maggi, 1903, pag. 22. Corrado Beguinot, La valle del Sarno, F. Fiorentino Editore, Napoli, 1963, pag.101. Sovrintendenza Archivistica di Napoli, Voce Torre Annunziata, Delibera Consiglio Comunale di Torre Annunziata, seduta del 19 maggio 1927. ’A trummetta, n. 5, 16 marzo 1897. A. Betocchi, Forze produttive della Provincia di Napoli, G. De Angelis, Napoli, 1874, pag. 167. G.Alisio, “I luoghi del lavoro industriale nella seconda metà dell’Ottocento”, in Campania, Einaudi Torino, 1990, pag. 441. F. Rispoli, La provincia e la città di Napoli, Tipografia Di Gennaro e Morano, Napoli, 1902, pag.145. Manifatture in Campania, Guida, Napoli, 1983, pag.170; MAIC, Annali di Statistica, Sez. IV, fasc. XXV, n. 53; G. Strafforello, La Patria, “voce Napoli”, Utet, Torino, 1898. N. De Janni, Storia dell’Industria napoletana, ESI, Napoli, pag. 36. G. Bertacchi, Dizionario Geografico, UTET, Torino, 1910, pag. 115. C. De Seta, I casali di Napoli, Laterza, Bari, 1984, pag. 66. A.Picarelli, L’industria della pasta nel Mezzogiorno, CESAN, Napoli, 1969. A. Betocchi, Forze produttive della Provincia di Napoli, Tipografia Cav. De Angelis, Napoli, 1874, pag. 164. O. Morgari, in V. Agnes, È tempo di pasta, Cangemi, Tarquinia, 1992, pag. 47. M. Prisco, “… e della pasta di Torre Annunziata”, in Qui Touring, dicembre 1976. capitolo sesto

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G. M. Galante, Della descrizione geografica e politica delle Sicilie, Napoli, 1969, pag. 269. Sovrintendenza Archivistica della Campania, voce Torre Annunziata. La Propaganda, 25 luglio, 1901. O. Lizzadri, Le boje, La Pietra, Milano, 1974, pag.18. M. Marmo, Il proletariato industriale in Napoli in età liberale, Guida, Napoli, 1978, pag. 45. A. Betocchi, ibidem, pag.166. S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale, La Nuova Italia, Firenze, 1972, pag. 296-321. A. Jossa, Relazione al Consiglio Comunale di Torre Annunziata, Seduta del 30 novembre 1902, Stabilmento Tipografico G. Maggi, Torre A.,1903, pag. 22. G. Perillo, “Note e documenti sulle lotte dei lavoratori portuali genovesi”, in Movimento operaio contadino in Liguria, ottobre 1955, pag. 26. B. Ramazzini, Le malattie dei lavoratori, Teknos, supplemento n. 5, Padova, 1714, pag. 149. La Propaganda, 27 dicembre 1902. Y. Montand, Vedi, non ho dimenticato, Rizzoli, Milano, 1991, pag. 49. A. Betocchi, Forze produttive della Provincia di Napoli, Stabilimento Tipografico De Angelis, Napoli, 1874, pag. 166. l’Avanti, 27 aprile, 1904. Alberto Carocci, L’Ottocento, Mursia, Milano,1985, pag. 48. Odino Morgari, l’Avanti, 27 aprile, 1904. S. Merli, ibidem, pag. 460. Il Roma, 26 dicembre 1902, Napoli. A. Scirocco, “Associazioni democratiche e operaie nel Mezzogiorno”, in Archivio Storico delle Province Napoletane, Vol. V, 1967. O. Lizzadri, ibidem, pag. 80. La Borsa del Lavoro associava 70 imprenditori, con 37 stabilimenti nei quali erano occupati 1500 dipendenti (v. A. De Benedetti, La classe operaia a Napoli nel primo dopoguerra, Guida, Napoli, 1974, pag. 78). La Verità, n.15, 1 settembre 1903. O. Lizzadri, ibidem, pag. 61. La Propaganda, 21 luglio 1901. La Propaganda, 12 settembre 1901. La Propaganda, ibidem. F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno,Guida, Napoli, 1980, pag.196. La Propaganda, 16 dicembre 1902. O. Lizzadri, Le Boje, La Pietra, Milano, 1971, pag. 61. La Verità, n. 53, 22 maggio 1904. Bandi di Re Ferdinando IV, affissi all’ingresso di Corso Garibaldi

Ferdinando IV per la grazia di Dio Re delle Du Sicilie e di Gerusalemme Infante di Spagna duca di Parma e Piacenza e castro e gran principe ereditario della Toscana D natale Maria Cimaglia Miles e giudice della G. C. della Vicaria e commessario generale della campagna contro publici delinquenti alguzzini e servienti tanto di questo Regio tribunale di campagna quanto di ogni altra corte in solidum e vi significamo come con più reali dispacci della Real segreteria del supremo conseglio delle Reali finan­ ze e Stato questo tribunale incaricato premurosamente a disporre a far eseguire bando p l’abbolizione della sensa­

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lia e de sensali nella Torre dell’Annunziata e nel casale di Bosco Trecase ed ora nuovamente col Real dispaccio de‘ 23 del corrente mese ed anno 1785 gli è stato ordinato di doversi rinnovare il bando di già emanato nell’anno 1781 colla spiega ch’è sovrana determinazione e volontà che debba restar proibita non solo l’esazione di qualunque dirit­ to col pretesto dell’abbusiva sensalia nella Torre dell’Annunziata e nel casale di Bosco Trecase ma assolutamente ancora proibito tutti e qualsivogliano cittadini o forestieri con licenze de rispettivi Baroni degli espressati luoghi e senza di esse l’esercizio del mestiere di sensale onde resti abbolito e dichiarato abbusivo e criminoso il nome e mestiere di sensale e qualunquesiasi esazione di mercede dritto e lucro sotto il pretsto e ragione di sensalia proce­ dente dal nome ed autorità de Baroni de rispettivi luoghi che pero in esecuzione de suddetti supremi reali ordini vi dicemo ed ordinamo che conferendovi personalmente nei divisati luoghi della Torre dell’Annunziata e Bosco Trecase dobbiate in essi ed alta ed intelligibile voce publicare bando col quale farete noto a tutte e qualsivogliano persone la sovrana Real determinazione non solo dell’abolizione dell’esazione del diritto di sensalia ne’ medesimi luoghi sotto qualsivoglia causa o pretesto o colore ma benanche del nome carattere ed officio de sensali siano fore­ stieri o naturali de luoghi con qualsivogliano licenze che tenessero o avessero de rispettivi Baroni e percio niuno sotto la pena dell’immediata carcerazione e di docati mille fisco regio per ciascun controveniente ardisca in avve­ nire di esiggere qualunque dritto sotto la detta figura di sensalia ne di esercitare il mestiere di sensale in detti luo­ ghi_ Ed affinche il presente bando venga a notizia di tutti e da niuno in avvenire si possa allegare causa d’ignoranza vogliamo che si pubblichi e se ne affiggano le copie ne rispettivi luoghi soliti delle università della Torre dell’Annun­ ziata e Bosco Trecase e perchè la memoria ne sia continua e perpetua ordiniamo parimente a tenore de precedenti Reali ordini che il bando predetto si scolpisca in marmo e la lapide sia situata in luogo publico dell’esecuzione del che sarà incombenzato un subalterno di questo medesimo tribunale Il presente si publichi ed affigga come sopra e ritorni a noi colle debite relate di Nevano a 28 aprile 1785 Natale Maria Cimaglia­ Francesco Carofalo - sono di campagna Mag segrio de novi impedito Bando come sopra.

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Delinquenti e strozzini e servienti; tanto di questo Regio tribunale solidum saprete come essendo pervenuta notizia di Torre Annunziata e nel casale di Boscotrecase vi sia nuovamente sensalia o sia mezzania già proibita espressa­ mente con atto emanato da questo tribunale in seguito di Regale consiglio delle Reali finanze per cui la popolazio­ ne malvagita di tali asserti sensali e siano mezzani la Maestà Santo Anno 1800 spedito per l’organo della Regal s. mandato di dare sull’assunto tutti quelle disposizioni di qualunque abuso e contravvenzioni colla informazione di persone con esservi venuto anche alla carcerazione avranno spedito il presente bando col quale sopra enunziato a Citra Praevidicium delle pene nelle quali citiamo e commettiamo come dobbiate neli avvisati luoghi di Boscotrecase ad alta ed inelligibile voce more preconis bando del quale in esecuzione dei pecitati reagli, ordina assolutamente interdetta l’esazione degli abusi qualunque senza pretesto o colore in questa suddetta Torre come altresì certa vie­ tato e proibita a tutti e qualsiasi Baroni rispettivi degli espressati luoghi e senza qualunque sia esazione di mercede diritto e lucro esente dal nome ed autorità dei Baroni i rispettivi minate nell’altro suddetto bando emanato in apri­ le di docati mille per ciascuno cotraveniente fisso tutti in avvenire quanto di sopra sta prescritto alla osservanza e da nessuno possa allegarsi causa di ignoranza affigga come sopra e ritorni a noi coll’atto delle debite relate 32 33 34 35 36 37

Michele De Curtis - bando come sopra. F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno,Guida, Napoli, 1980, pag.196. Bollettino ufficale del Lavoro, n. 2, agosto 1906, Vol. VI, pag. 420. M. Prisco, “La città delle donne”, in La Voce della Campania, 26 agosto 1985. J. B. Labate, Vojage en Italie, 1706, Paris, in S. Serventi, La Pasta, Laterza, Bari, 2000, pag.133. La Verità, n. 5, 11 giugno, 1904. La Verità, ibidem. 38 Walter Mocchi, I moti italiani del 1898, Tipografia Enrico M. Muca, Napoli, 1901, pag. 199. 39 M.Prisco, “La città delle donne”, in La Voce della Campania, 26 agosto 1985. 40 A. de Clemente, Annali V, Fondazione Basso. 41 E. de Bouchard G. Oritano, Da Napoli a Pompei, Longanesi, Milano,1977, pag. 846. capitolo settimo

Nella primavera del 1908 i salari dei mugnai e dei pastai torresi erano quasi il doppio di quelli corrisposti negli stabilimenti di Salerno (v. F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno,Guida, Napoli, 1980); inoltre, nel periodo 1905-1910 i salari dei mugnai e dei pastai torresi eguagliarono quelli dei meccanici della grande industria (Lire 4) per poi superarli nel periodo 1905-1916, 4,5 lire a fronte delle 3,8 dei meccanici (v. M. Marmo, Il proletariato industriale a Napoli in età liberale, Guida, Napoli, 1978). 2 Molini d’Italia, n.1,1976.

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F. Formisano, “Grano duro, problema vitale per l’economia del Mezzogiorno”, in L’Industria Meridionale, Anno V°, fasc. IX, pag. 702. 4 Mugnai d’Italia, Atti del Convegno, Torino, Tipografia Artigianelli, 1881. 5 R. Rovetta, ibidem, pag.118. 6 Ministero delle Finanze, Industria della pastificazione, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1964, pag. 34. 7 Mario Stefanile, La cucina napoletana, Edizioni del Delfino, 1977, pag. 93. 8 85° convegno Inpack-Ina, Milano, in Molini d’Italia, maggio 1985. 9 P. Fabbrocino, “Intervento al Congresso nazionale dei Mugnai e Pastai”, Roma, in Molini d’ltalia, n. 12,1957. 10 Cav. A. Arpaia, Resoconto stenografico, Seduta del Consiglio comunale di Torre Annunziata, 11 novembre 1958. 11 Nel periodo 1962-1963 chiusero nove stabilimenti che occupavano 212 lavoratori, nello stesso periodo l’occupazio­ ne negli altri 17 stabilimenti passa da 906 a 713 addetti con una perdita complessiva di 405 posti di lavoro (Fonte: Camera del Lavoro di Torre Annunziata, 1966). 12 P. Varvaro, Una città fascista, Sellerio, Palermo, 1990, pag.16 3

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immagini

LA CIVILTÀ DELLA PASTA



Angelo Abbenante

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Maccaronari

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M. Malouin, Description et Details des Artes du Meunier, du Vermcielier et du Boulanger, 1767

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Maccaronari

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Angelo Abbenante

Torchio in legno detto ’o ’gegno

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Il torchio e la gramola a stanga: prospetto e sezione. 1) Argano, 2) stanghetta, 3) cuffia di legno, 4) colonna di legno, 5) ruota a cerchi di ferro, 6) panca di legno, 7) stanga, 8) madrevite di bronzo, 9) vite di bronzo, 10) pistone di legno con tacco di bronzo, 11) campana di bronzo, 12) tanonetti (scaldini), 13) impasto, 14) trafila di bronzo, 15) tavola della madia.

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Angelo Abbenante

Maccaronari

Gramole a rulli con movimento a mano

Tagliapenne

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Pressa idraulica

Tagliapenne a mano

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Maccaronari

Angelo Abbenante

Raffinatrice

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Torchio orizzontale Impastatrice con movimento a mano

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Impastatrice con movimento a motore Laminatrice

Macina per semolino


Angelo Abbenante

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Maccaronari

Torre Annunziata, Corso Umberto, angolo Via Vesuvio Pastificio Manzo, 1910 Torre Annunziata, Corso Umberto, asciugatura delle paste, 1880

novus campus

93



= INDICE

Prefazione di Antonio Alosco

5 MACCARONARI

Capitolo primo La pasta di Napoli

11

Capitolo secondo ’U ’ngegno

15

Capitolo terzo Le innovazioni

21

Capitolo quarto Il prosciugamento

25

Capitolo quinto Torre Annunziata

29

Capitolo sesto La condizione operaia

39

Capitolo settimo La battaglia del grano

49

Postfazione di Giuseppe Zollo Ascesa e declino della civiltà della pasta Quadro sinnottico

55 59

APPENDICE I pastifici di Torre Annunziata nel 1983 Camera dei Deputati, IV Legislatura, Proposta di legge n. 4498 Camera dei Deputati, IV Legislatura, Seduta dell’11 gennaio 1968

65 69 75

Note

81 IMMAGINI

La civiltà della pasta

89


Fiumi d’inchiostro sono stati versati nei secoli, per raccontare la pasta di Napoli, tuttavia, raramente, si è dedicata molta attenzione al suo modo di produzione e al lavoro umano necessario per portare sulle nostre tavole il piatto di pasta. Maccaronari è la storia di un fiera comunità di uomini e donne che hanno contribuito, attraverso il duro lavoro, con sacrificio, con la lotta difficile e cruenta, organizzandosi in Camera del Lavoro, come Abenante ben documenta, ad affermare un mestiere ed a rendere famoso un prodotto locale, la pasta di Napoli, in tutto il mondo. La pasta di Napoli venne in­ventata e prodotta nella zona di Torre Annunziata e Gragnano, ed è qui che ha avuto uno sviluppo prima a carattere artigianale e poi industria­le. Abenante ricorda le fasi di maggiore crisi del settore, dopo aver giustamente esaltato i momenti più significativi. Mette altresì in evidenza il ruolo avuto dalle donne, sia operaie che mogli di operai, ma anche di quelle imprenditrici, spesso vedove con piglio da carabiniere che però riuscirono a portare avanti, se non a potenziare, l’attività. Le crisi si verificarono soprattutto per gli eventi bellici che interruppero il flusso delle esportazioni verso gli Stati Uniti, i maggiori acquirenti mondiali della pasta, per l’interruzione della fornitura di grano dal Mar Nero a causa della rivoluzione bolscevica ed anche in relazione alle scelte sbagliate di economia autarchica del regime fascista. Il colpo di grazia l’arte bianca di Torre lo ricevette però dall’invenzione di una macchina, completamente automatizzata per l’intero processo produttivo, che produceva pasta annullando i fattori ambientali e la stessa professionalità dei lavoratori. Gli imprenditori non furono in grado di adeguarsi al nuovo e riversarono sui lavoratori le difficoltà introducendo i sottosalari ed i sistemi ormai classici di inadempienze contrattuali. Da ciò scaturì una conflittualità permanente ed una crisi progressi­va ed irreversibile da cui la cittadina vesuviana non si è più ripre­sa. Maccaronari vuole, al di là delle leggende, ricordare il ruolo che ebbe in questa epopea una città, Torre Annunziata, protagonista del lento e faticoso processo che, con la produzione artigianale, affermò la pasta di Napoli nel mondo. Angelo Abenante, è stato sindacalista della Cgil e dirigente comunista. Inoltre, ha ricoperto l’incarico di Presidente regionale della Lega delle Cooperative, amministratore comunale a Torre Annunziata, consigliere provinciale di Napoli nel collegio di Gragnano. Successivamente è stato eletto deputato e poi senatore. È stato un protagonista delle lotte operaie degli anni sessanta a Torre Annunziata e a Napoli. Ha pubblicato Velia città greca, Edizioni Intra Moenia, 1996, Napoli 1943-1947 una cronaca comunista, Libreria Dante & Descartes, Napoli, 1999; con Aldo Abenante ha curato la ristampa del discorso di Palmiro Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, Edizioni La Città del Sole, 2002. Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli Federico II, è autore di diversi libri, tra i quali, Alle radici del sindacalismo. La ricostruzione della Cgl nell’Italia liberata 19431944, SugarCo, Milano, 1979, Cento anni di socialismo a Napoli, Alfredo Guida, Napoli, 1992, Radicali, repubblicani e socialisti a Napoli e nel Mezzogiorno tra Otto e Novecento, Lacaita Roma-Bari, 1996, Il Partito d’Azione nel “Regno del Sud”, Alfredo Guida, Napoli, 2002. Collabora agli Annali dell’Istituto Ugo La Malfa e ad altre riviste. È autore di alcune voci per il Dizionario Biografico degli italiani ed è membro della direzione dell’Istituto Socialista di Studi Storici. Giuseppe Zollo, ordinario di Gestione aziendale all’Università degli Studi di Napoli Federico II, svolge attività di ricerca, in Italia e all’estero, sui temi delle nuove tecnologie, delle piccole imprese e della valutazione delle competenze individuali ed organizzative. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sia su riviste italiane che straniere. È autore di diversi libri, tra i quali, Software: Tecnologia e Mercato, Il Mulino, Bologna, 1988, Note a Margine, Novus Campus, 2000, New Logics for the New Economy, ESI, Napoli, 2001 con Mario Raffa Economia del software, ESI, Napoli, 2000, e con Corrado lo Storto Problemi di Microeconomia, ESI, Napoli, 1998.

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i libri di Novus Campus è una iniziativa di


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