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FAMA E PUBLICA VOX NEL MEDIOEVO

ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D’ASCOLI”

Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXI edizione del

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Premio internazionale Ascoli Piceno

(Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009)

a cura di

I SA LORI SANFILIPPO e ANTONIO RIGON

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2011

III serie diretta da Antonio Rigon

Il progetto è stato realizzato con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

Comune di Ascoli Piceno Fondazione Cassa di Risparmio Ascoli Piceno Istituto storico italiano per il medio evo

© Copyright 2011 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno

Coordinatore scientifico: I SA LORI SANFILIPPO

Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO

Redazione: SILVIA GIULIANO

ISBN 978-88-89190-86-9

Stabilimento Tipografico « Pliniana » - V.le F. Nardi, 12 - 06016 Selci-Lama (Perugia) - 2011

Sono trascorsi oltre vent’anni da quando l’allora sindaco Gianni Forlini pensò di promuovere Ascoli, la sua storia, le sue bellezze monumentali, con un premio di spessore internazionale che servisse a promuovere le cento torri nel panorama culturale internazionale.

Nasceva così il Premio Internazionale Ascoli, con la presenza di autorevoli studiosi di rilevanza internazionale: Jacques Le Goff, Elémire Zolla, Franco Cardini.

In questi anni il Premio ha costantemente proposto momenti di assoluto valore, mantenendo sempre ad altissimo livello l’impostazione originaria, diventando un appuntamento d’obbligo per la medievistica.

Oggi aggiungiamo un ulteriore, prestigioso, tassello a questo impegno culturale dando alle stampe, gli atti relativi alla XXI edizione del Premio che tratta di un tema affascinante quale “Fama e publica vox nel Medioevo”.

Un nuovo volume della collana “Atti del Premio Internazionale Ascoli Piceno” aperta presso il prestigioso Istituto Storico Italiano per il Medioevo di Roma e che consente una affascinante lettura utile alla comprensione delle dinamiche che oggi chiameremmo “comunicazione”.

Il tema trattato risponde a degli interrogativi molto interessanti. Come si diventava famosi nel Basso Medioevo? Come si rovinava una reputazione? Quali i meccanismi che regolavano la circolazione delle notizie e le loro fughe?

Ma, consentitemi, siamo in presenza di un ulteriore, importante, veicolo promozionale per la nostra città, che con il suo impianto urbanistico davvero unico ha stabilito un mix affascinante con il Premio internazionale Ascoli Piceno che tanto lustro ha dato e dà alla nostra Ascoli Piceno, perché il Medio Evo, come scrisse Jacques Le Goff, è “un periodo vitale,

di grande progresso, un periodo tutt’altro che buio, anzi meravigliosamente colorato. Un mondo molto concreto ma anche straordinariamente capace di sognare”.

il Sindaco GUIDO CASTELLI

ANTONIO RIGON

Introduzione ai lavori

«Quid est fama?» Che cos’è la fama? Chiunque abbia consuetudine con i documenti medievali e precisamente con quelle straordinarie fonti che sono i testimoniali dei processi sa che questa domanda viene posta dai giudici a quei testimoni che a proposito di un personaggio o di un fatto si appellano non ad una conoscenza diretta, ma a ciò che si dice e che hanno sentito dire: alla fama, alla voce pubblica, alla buona reputazione che circonda un individuo o alla conoscenza collettiva di un fatto.

Le risposte sono varie, approssimative, talvolta anche divertenti. Interrogato nel settembre 1275 a proposito della vertenza tra un mercante veneziano e una nobildonna padovana su cosa fossero la pubblica voce e la fama un notaio rispondeva: «id quod per homines dicitur» (ciò che è detto dagli uomini). E richiesto di specificare dove fosse diffusa quella fama («ubi est illa fama?»), riguardante fatti e figure del processo, non aveva dubbi: a Venezia e a Padova; erano stati gli homines di quelle città a crearla. Ma quanti uomini occorrevano per darle vita? Dai dieci in su –precisava. E come si costruiva? Attraverso la voce 1 .

Risposte inevitabilmente soggettive ma concrete rispetto a domande che rinviavano ad alcuni dei canoni scolastici utilizzati dai giuristi per analizzare la fama: che voce sia, da dove provenga, quanti contribuiscano a formarla.

La fama non è di per sé un termine giuridico, eppure – come spiegava in un fondamentale volume del 1985, un maestro di questi studi come Francesco Migliorino – assieme al suo contrario, l’infamia, suscitò un grandissimo interesse tra i giuristi medievali. E lo suscitò perché si trattava di

1 Archivio di Stato di Padova, Diplomatico, part. 4133 A.

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ANTONIO RIGON

«problemi centrali della società medievale» 2 . La buona fama è richiesta per testimoniare nei tribunali; è consustanziale all’esercizio di alcune professioni; determina l’inclusione o l’esclusione dalla compagine sociale; è al cuore di meccanismi vitali della politica, dell’economia, delle istituzioni; è una componente essenziale della vita morale e culturale. Determina il credito, la finanza, la cittadinanza, l’istituto matrimoniale, le parentele; caratterizza l’istituzione universitaria; opera potentemente nell’universo religioso, nell’arte, nella letteratura. «Un individuo è giudicato dai suoi simili – e qui cito ancora Migliorino – per l’insieme dei comportamenti, per il blasone, per la potenza economica, per il ruolo che occupa, per lo stile di vita che conduce, per le compagnie che frequenta; la fama, così, finisce per essere un mezzo di pressione verso la conformità, mentre l’infamia diventa la sanzione sociale della trasgressione e la stigma della diversità e dell’emarginazione» 3 .

Molti studi – da quelli del Le Goff a quelli del Geremek, per citare due storici notissimi –, ci hanno da tempo illustrato il quadro articolato dei mestieri leciti ed illeciti nel mondo medievale, la riprovazione morale e la messa ai margini di categorie e ceti sociali bollati dal marchio di indegnità morale ed infamia. D’altro canto la tutela della propria fama era condicio sine qua non per mercanti che fondavano le proprie fortune economiche sulla stima e la fiducia del prossimo; per uomini di governo consapevoli delle proprie responsabilità; per quanti si assumevano compiti di guida spirituale nella Chiesa. Il prelato e il reggitore di una città, scrive in un suo sermone quell’Agostino da Ascoli, frate agostiniano, docente a fine ‘200 nel convento degli Eremitani di Padova, studiato da Arianna Bonato nella tesi di laurea premiata quest’anno con la targa “Vito Fumagalli”, devono vivere ordinate, perché sono sotto gli occhi dei sudditi, come un bersaglio sta di fronte ad una freccia. Se non si comportano così trascinano nella fossa (dell’infamia, aggiungiamo noi) i sudditi 4 . E al predicatore, scrive sempre nel XIII secolo un altro frate, il francescano Giovanni de la Rochelle, maestro reggente in teologia nella “magna domus” parigina dei frati Minori, sono assolutamente necessarie per la propria credibilità la

2 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, pp. 9-20 (a p. 9 la citazione). 3 Ibid., p. 46. 4 «Prelatus et rector ponitur sicut signum ad sagittam ante oculos subditorum, debet vivere ordinate, alias secum subditos in faveam trahit» (A. Bonato, Religione e città: i “Sermones dominicales et quadragesimales” di Agostino da Ascoli, Tesi di laurea specialistica, Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2008/2009, relatore A. Rigon, p. 98; e per notizie su Agostino da Ascoli vedi ibid., pp. 25-31).

INTRODUZIONE AI LAVORI

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buona fama e l’irreprensibilità di vita («necessaria est fama bona sive irreprehensibilitas 5 vite»).

Gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito perché enorme è il peso della fama e dell’infamia nella vita individuale e associata dell’uomo medievale. Consapevoli di questo, i giuristi di quell’epoca manifestarono un grandissimo interesse per il tema, introducendo distinzioni sottili, innovative e feconde come quella di infamia iuris e infamia facti 6 . I letterati a loro volta resero la fama oggetto di trattati e materia di racconti; gli artisti ne inventarono la figura, innalzarono monumenti a personaggi famosi, riprodussero schiere di uomini illustri.

La fama di santi e di reliquie taumaturgiche mobilitò folle di fedeli, la reputazione di magistri e di centri universitari richiamò studenti, la risonanza di predicatori riempì chiese e piazze. Chiacchiere e dicerie alimentarono d’altro canto innamoramenti per fama, mentre parole ed immagini sguaiate marchiarono di infamia nemici ed avversari (si pensi alla pittura infamante sulla quale scrisse un ottimo libro Gherardo Ortalli) 7 .

La “presenza della voce” nella cultura medievale, evocata da Paul Zumthor in un noto saggio del 1984 8 , di quella voce che, come affermava il testimone del processo citato all’inizio, costituisce il vettore della fama, è «una delle scoperte più appassionanti di questi ultimi decenni» (lo ha scritto in un limpido contributo sui professionisti della parola, recentemente ristampato, Carlo Delcorno) 9 .

La storiografia italiana, salvo lodevoli eccezioni (e il richiamo ai lavori di Migliorino è d’obbligo), ha dedicato poca attenzione al tema della fama e della publica vox. Di certo è mancata una riflessione generale. Da qui la proposta di questo convegno tematicamente innovativo, come altri che lo hanno preceduto in questa sede ascolana. La struttura generale segue le linee di approfondimento sin qui indicate: il diritto, la religione, l’economia, la società, l’università, la letteratura, la musica, le vie della conservazione epigrafica della fama. Questi gli ambiti nei quali il ruolo e il peso della fama e della mala fama saranno esaminati. Ed è appena il caso di ricordare che non sono né pochi né irrilevanti gli elementi di continuità

5 Cfr. Balduinus ab Amsterdam o.f.m. cap., Tres sermones inediti Joannis de Rupella in honorem s. Antonii Patavini, «Collectanea franciscana», 28 (1958), sermo III, p. 53. 6 Migliorino, Fama e infamia, pp. 85-138, 171-197. 7 G. Ortalli, “… pingatur in Palatio”. La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma 1979. 8 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Bologna 1984. 9 C. Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, cur. G. Baffetti - G. Forni - S. Serventi - O. Visani, Firenze 2009, p. 21.

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ANTONIO RIGON

con il tema della damnatio memoriae affrontato nel convegno dello scorso anno ad Ascoli. Che cos’è infatti la damnatio memoriae se non una proclamazione di infamia che si estende oltre la morte, decretata dall’opinione pubblica e da chi la guida?

I convegni ascolani sono manifestazione di una progettualità delineata sin dall’inizio dall’attuale comitato scientifico che ha colto nella dimensione culturale e politica la linea guida e l’ambito in cui operare, innovando nei temi e nei metodi e aprendosi alla più ampia collaborazione internazionale. I primi risultati del nostro lavoro, consegnati negli Atti dei convegni puntualmente pubblicati dall’Istituto Storico italiano per il Medio Evo, hanno sinora riscosso il consenso e il plauso della comunità scientifica, ma anche di un pubblico più vasto. Tutto questo è stato possibile perché abbiamo ricevuto l’appoggio convinto dell’Amministrazione comunale, della Fondazione Cassa di Risparmio, della Provincia e della Camera di Commercio di Ascoli Piceno. Sin dall’inizio i nuovi amministratori hanno manifestato interesse per le attività e le iniziative da noi svolte che, del resto, hanno ormai una lunga tradizione e sono poste al servizio della cultura e della città.

Un grazie particolare va al Presidente dell’Istituto superiore di Studi medievali “Cecco d’Ascoli” Luigi Morganti e ai suoi collaboratori infaticabili nel promuovere, organizzare, lanciare i convegni e dare lustro al Premio internazionale Ascoli Piceno che, come mostra anche l’adesione offerta quest’anno dal Presidente della Repubblica, è una solida realtà del nostro paese.

PRIMA GIORNATA

FRANCESCO MIGLIORINO

“La Grande Hache de l’histoire” Semantica della fama e dell’infamia

Fama e infamia hanno una lunga storia. Proveremo a leggerla alla luce dell’instancabile traffico tra i valori e i significati di una cultura (e di una società) e quei sistemi di veridizione che si pongono da sempre come traduzione di senso. Attivissimi a scongiurare i poteri e i pericoli che si annidano nella produzione del discorso 1 . Inesauribili nella loro ostinata inclinazione a classificare, significare, identificare. Uno spazio metaforico in cui si costituisce la Verità. Anzi, un infallibile congegno grazie al quale l’inimicizia tra il vero e il falso scandisce i suoi tempi, dietro lo specchio dell’immagine sociale del sé 2 .

Fama e infamia hanno un che di portentoso. Si annidano negli scantinati più oscuri dell’anima dopo aver lasciato spie, emblemi e tracce nella parte visibile dei corpi. Un fiume carsico che accompagna le epoche storiche: oltre le rivoluzioni, anzi nonostante le rivoluzioni. L’affermazione, la rimozione o il mascheramento di fama e infamia si intrecciano seguendo una rotta che va ben oltre i tempi di un’esperienza giuridica data, per mostrare – anche ai nostri giorni – i segni di un’inquietante continuità 3 . C’è sempre un misterioso e impenetrabile scarto tra la sicurezza con cui teologi e giuristi descrivono le varie cause d’infamia e la porosità di un’area semantica che è portata quasi naturalmente a lasciar tracimare le più rassicuranti distinzioni, fino al punto da ospitare con amorevole cura un numero sempre maggiore di uomini infami 4 . Sullo sfondo e all’orizzonte, il più

1 Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. it., Torino 1972. 2 Pierre Legendre si serve della metafora lacaniana dello specchio per mostrare come sia stato “fabbricato” il soggetto dell’ordine giuridico occidentale: cfr., soprattutto, Dieu au miroir. Étude sur l’institution des images, Paris 1994. 3 Cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, pp. 21 ss. 4 Cfr. in proposito le dense pagine di P. von Moos, Das Öffentliche und das Private im

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radicale dei partages: da una parte la natura spirituale dell’uomo che sente spirare il soffio della salvezza, dall’altra la misera postura del corpo che rimane prigioniero della sua ferina carnalità. A restare impigliati sono tutti gli uomini, non solo quelli «visibilmente crudeli» 5 . Con le stesse parole di Georges Perec, potremmo dire anche noi che «L’Histoire avec sa grande hache» 6 si abbatte sugli uomini con la ferocia della sua pesante scure (grande Hache). Ne annichilisce, altresì, le singole insignificanti storie brandendo la sua pretenziosa maiuscola (grande Ache).

L’infamia è uno di quei nomi che da sempre espone e dilapida i suoi mezzi, una metafora baroca che si spinge al punto da raccontare l’intera vita di un uomo in due o tre scene, lasciando — sotto il clamore di un titolo — una superficie d’immagini, un brusio di voci in cui resta ammutolita una folla di patiboli e di pirati, di mascheramenti e d’imposture. Come nella História universal de la infamia di Borges 7 , anche nella Vie des hommes infames di Foucault è indicibile la distanza tra la magniloquenza del termine e la disarmante ovvietà dei suoi abitatori. «Vite di qualche riga o di qualche pagina», riunite in un pugno di parole da esperti botanici che le hanno volute per sé dentro i recinti dell’ignominia. C’è da restare sgomenti per l’accanimento e l’ostinazione alla vita di un congegno che ha abbandonato per secoli solo brandelli di esistenze oscure, un pallido riflesso di quella spaventevole grandezza con cui quelle vite maledette — nel breve bagliore d’un lampo — si sono mostrate a chi le attorniava, per sparire subito dopo «senza mai essere state dette» 8 .

Verrebbe da dire, con Nietzsche, che indicibilmente più importanti sono i nomi dati alle cose di quel che esse sono 9 . Con lo stesso nome si

Mittelalter. Für einen kontrollierten Anachronismus, in Das Öffentliche und Private in der Vormoderne, cur. G. Melville - P. von Moos, Köln-Weimar-Wien 1998, p. 39. 5 Il recente libro di Giacomo Todeschini propone un avvincente scandaglio dei discorsi dell’esclusione nell’età medievale: Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007. 6 G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Paris 1975, p. 13. L’espressione «L’Histoire avec sa grande hache» ricorre anche come titolo di un’intervista a Robert Bober curata da Christian Delage e Vincent Guigueno, apparsa in Le Cinéma face à l’Histoire, «Vertigo», 16 (1997). 7 J.L. Borges, Storia universale dell’infamia, trad. it., Milano 1997. 8 M. Foucault, La vita degli uomini infami, trad. it., in Archivio Foucault, II, Poteri, saperi, strategie, cur. A. Dal Lago, Milano 1994, pp. 245-262. 9 F. Nietzsche, La Gaia Scienza, trad. it., in Opere filosofiche, cur. S. Giametta, I, Torino 2002, p. 156: «Questo mi è costato la più grande fatica e ancora continua a costarmi la più grande fatica: vedere che è indicibilmente più importante come le cose si chiamino che non che cosa siano. La reputazione, il nome e l’apparenza, la considerazione, l’usuale misura e peso di una cosa […] sono, a forza di crederci, e di crederci sempre più di generazione in generazione, per così dire concresciuti gradualmente con e dentro la cosa e ne sono diven

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sono costituiti tipi umani volta a volta diversi, sotto lo stesso nome si sono radunate sempre nuove valutazioni e nuove verosimiglianze. Nel caso della fama e dell’infamia non milita la consueta dialettica tra significante e significato, s’instaura piuttosto la mirabile performatività di parole che si alimentano senza sosta delle situazioni reali che esse stesse hanno contribuito a creare: un ordine sempre uguale a se stesso per gli infiniti discorsi che le hanno chiamato e continuano a chiamarle alla vita 10 .

Una tela di ragno in cui l’uomo si scopre «impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto» 11 : è fabbricata con gli attrezzi del linguaggio, si fa forte dello scudo della norma, fa vanto delle sue categorie universali, si muove all’unisono con i pensieri che le istituzioni pensano, giorno dopo giorno battezza, denomina e rinomina i comportamenti umani 12 . Uno scenario in cui fama e infamia funzionano come una sorta di metadenominatore per pensare come intrinsecamente simili i tipi umani che esse radunano all’interno della medesima classe, racchiusi da quei confini che sono socialmente controllati e culturalmente costruiti 13 .

Fama. Non è un termine giuridico, eppure essa suscita l’interesse dei Maestri del diritto che vi intravedono, grazie ai suoi generosi slittamenti semantici, rilevanti possibilità di mediazione sociale 14 . Il diritto, infatti, è fortemente interessato a strutturare e standardizzare le norme sociali con alto contenuto etico, in modo tale che esse funzionino come indicatori dei comportamenti sentiti come giusti dai membri della comunità 15 . È per sua

tati il corpo stesso. Fin dall’inizio, l’apparenza si è trasformata alla fine quasi sempre in sostanza e funziona come sostanza […] non dimentichiamo neanche questo: basta creare nuovi nomi e giudizi di valore e verosimiglianza per creare col tempo “cose” nuove». 10 Cfr. F. Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, pp. 62 ss. 11 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it., Bologna 1987, p. 41. 12 Cfr. Migliorino, Il corpo come testo cit., p. 9. 13 Ibid., p. 65. Per un’euristica dell’antropologia culturale nella ricerca storica, cfr. i bei lavori di C. Wickham, Gossip and Resistance among the Medieval Peasantry, «Past and Present», 160 (1998), pp. 407-580 e di T. Kuehn, Fama as legal status in Renaissance Florence, in Fama. The politics of talk and reputation in medieval Europe, cur. T. Fenster - D. Lord Smail, Ithaca-London 2003, pp. 27-46. 14 Per un quadro completo della varietà dei significati cfr. A. Walde - J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1938, pp. 450 s.; Thesaurus Linguae Latinae, VI/1, Lipsiae 1925, coll. 206 ss. 15 Nell’immaginario collettivo la fama è, a volte, simbolo ed esempio, serve a rappresentare il genio di un individuo eccezionale. Sul nesso tra il concetto di gloria e lo sviluppo dell’idea di individuo alle soglie dell’età moderna, cfr. A.F. Müller, Gloria Bona Fama Bonorum. Studien zur sittlichen Bedeutung des Ruhmes in der frühchristliche und mittelalterliche Welt, Husum 1977, pp. 7 ss.; con riferimento soprattuto all’onore, F. Zunkel, Ehre, Reputation, in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, II, Stuttgart, 1975, pp. 1-63.

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natura pervasivo, invade ogni sfera del sociale, ha un tipico potere di rispecchiamento di fenomeni altrimenti asintomatici 16 . Allo stesso modo della mentalità, il diritto è una struttura «che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo» 17 . Ordinare e strutturare è connaturato con il fenomeno giuridico, costituisce, anzi, il fondamento stesso della prassi umana, serve oggi allo scienziato sociale per definire «il modo umano di essere-al-mondo» 18 . I giuristi del diritto comune furono in ciò maestri impareggiabili.

Avviene così che gli interpreti assumano progressivamente il concetto di fama all’interno del loro vocabolario per rappresentare sia la reputazione di cui ciascuno gode nell’opinione degli altri, sia una conoscenza incerta e non garantita dei fatti: da una parte dunque la fama hominis, dall’altra la fama alterius rei inter homines existentis 19 .

Entrambi i significati sottintendono i concetti più ampi di opinio e di publicum e si fondano sui processi di comunicazione attraverso la pubblica opinione: una pubblica opinione, però, che non può intendersi per quei secoli come attività razionale capace di giudizio critico, bensì come raffigurazione della realtà nelle opinioni di una moltitudine che si limita ad esprimere un tacito consenso attraverso abitudini di vita conformi alle norme 20 .

Siamo in un’età in cui prevale una sorta di cosmologia comunicazionista «che si esprimeva variamente nella teologia, nell’alchimia, nell’astrologia e nella “magia naturale”» 21 . Il simbolismo medievale, intriso di idee neoplatoniche, faceva dell’universo una mirabile Teofania e contribuiva a rappresentare le cose del Creato come un fedele signaculum di un Dio comunicativo che era insieme principio regolatore e cibernetico 22 . Una grandiosa e nobile raffigurazione del mondo, una cattedrale d’idee, la più ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile.

Quella società diffondeva e scambiava una pluralità di messaggi sia

16 M. Sbriccoli, Storia del diritto e storia della società. Questioni di metodo e problemi di ricerca, in Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro, Milano 1986 (Per la storia del pensiero giuridico moderno, 22), pp. 127-148: 141 ss. 17 F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in La storia e le altre scienze sociali, Roma-Bari 1974, p. 162. 18 Z. Bauman, Cultura come prassi, trad. it., Bologna 1976, p. 91. 19 Cfr. Alberto Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Albertus Gandinus und das Strafrecht der Scolastik, II, Die Lehre, Berlin-Leipzig 1926, pp. 51-75, 99-105. 20 Cfr. soprattutto J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it., RomaBari 1971. 21 Cfr. A. Wilden, Comunicazione, in Enciclopedia Einaudi, III, Torino 1978, p. 621. 22 Cfr. U. Eco, Il segno, Milano 1973, pp. 94 ss.

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impliciti sia espliciti 23 . Come avviene oggi, il pensiero e i processi cognitivi avevano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nella sfera sociale. Per usare una bella immagine di Mary Douglas, «la reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo per pensare» 24 .

È stato acutamente osservato che, nell’età medievale «finché ognuno teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente colpito dalla singolarità degli altri». Quando, invece, la singolarità assumeva le forme inquietanti della malattia mentale, la diversità era vissuta e rappresentata come estraneità dal corpo sociale: il demente diventava der Fremde, “l’esterno che sta dentro”, scompaginava col suo comportamento l’ordine del discorso, insinuava nel prossimo il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza 25 . I signa furoris si sostanziavano in gesti e azioni che sono descritti con cura dalla criminalistica tardo medievale. Il folle, fra l’altro, era riconoscibile perché tirava sassi per la strada, rideva senza motivo, si comportava in modo sconcio, dilapidava il patrimonio come fanno i prodighi, pronunciava parole sconnesse, non ricordava il suo stesso nome 26 . Ma, quel che più interessa, era folle chi come tale era rappresentato per famam nella pubblica opinione 27 .

La fama contribuisce dunque alla stabilità e alla coesione sociale: da una parte, essa è uno dei modi in cui si realizza la comunicazione, dall’altro è un efficace sistema di etichettamento. L’appartenenza ad un gruppo, ad un ceto, ma anche ad una compagnia di malfattori doveva essere riconoscibile a tutti. In un tempo in cui i motivi conflittuali e dinamici della società mettono in crisi continuamente gli assetti sociali e istituzionali, con l’emersione di nuove figure professionali ed il consolidamento di repentine fortune patrimoniali, la rappresentazione nella coscienza collettiva dello stile di vita, dell’onorabilità, della potenza economica di un individuo serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza 28 . Ciò vale soprat

23 Per una società cetuale attenta ai simboli il vestiario è un campo semiologico privilegiato e non può ridursi ad una funzione di protezione e di ornamento: Identità cittadina tra medioevo ed età moderna, cur. P. Prodi - M.G. Muzzarelli - S. Simonetta, Bologna 2007, soprattutto pp. 105 ss. 24 Cfr. P.P. Giglioli, Introduzione a M. Douglas, Come pensano le istituzioni, trad. it., Bologna 1990, p. 11. 25 Bauman, Cultura come prassi cit., p. 204. 26 D’altronde, de-lirare evoca l’idea di uscire dal seminato (l’attraversamento della lira), con tutte le sue connotazioni di sterilità e di eccesso: R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari 2000, p. 30. 27 Cfr. M. Boari, Qui venit contra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e XVI, Milano 1983, pp. 60-74. 28 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss.

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tutto per i ceti emergenti che basano la loro ascesa sociale e la conquista di uno status più elevato sulle capacità tecniche e imprenditoriali, sul monopolio della conoscenza delle leggi, su una affidabilità riconosciuta da tutti. Il fenomeno riguarda, però, anche i vecchi gruppi dirigenti che, «pur distinti da funzioni disparate e da diverse ideologie», tendono a ricollocarsi, nella gerarchia sociale, all’interno dell’unico genus della nobilitas 29 . La nobiltà di un personaggio si sostanziava nel suo mostrarsi nobile ed era provata dalla «fama di una floridezza e di una connessa condizione di vita» 30 : per Bartolo, poteva dirsi nobile «qui nobilis appellatur vel reputatur» 31 .

Alla mente medievale era estranea l’idea del “Perturbante” (Unheimlich). Chi non godeva di una buona reputazione era assimilato allo sradicato e al vagabondo 32 . Ordine e armonia, dunque, gerarchie e status. L’ordine in quanto struttura «evoca la costanza, la fissità, l’immodificabilità, la regolarità». Il mutamento, all’opposto, mette in discussione l’assetto, è un’intollerabile «sfida nei confronti delle forme, delle strutture consolidate ed ordinanti» 33 . Per l’uomo medievale non si dà unità se non come connessione gerarchica di parti diseguali. «L’ordine sociale è un momento di un ordine universale e ripete in se stesso la logica gerarchica della totalità». In questa visione, però, le singole parti sono anche momenti di un’indissolubile unità; parti di un corpo che vive della disuguaglianza, ma anche della solidarietà dei suoi componenti 34 . La comunità era mantenuta in vita grazie alla capacità di rendere l’altro familiare, di «trasformarlo in una persona compiutamente definita». Una trasparenza «che i moderni scrittori di utopie avrebbero sognato come un indice di società ideale», ma che a quel tempo «era una realtà quotidiana, un effetto naturale della continua e totale apertura della vita di ogni singolo membro della comunità allo sguardo di tutti gli altri» 35 .

Si può ben capire, allora, perché le spregiudicate attività finanziarie e commerciali di banchieri e mercanti ricevessero le critiche preoccupate di

29 Cfr. E. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ toscani e ai caratteri di un ceto medievale, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Milano 1982, p. 23. 30 Cfr. G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e Firenze tra XII e XIII secolo, «Studi Medievali», ser. III, 17 (1976), p. 48. 31 Cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari 1988, p. 6. 32 Cfr. S. Cerutti, Giustizia sommaria. Pratica e ideali di giustizia in una società di Ancien Régime (Torino XVIII secolo), Milano 2003, p. 63. 33 Cfr. P. Costa, Ordine, mutamento, secolarizzazione: un’ipotesi interpretativa, in La dislocazione della religione lungo l’epoca moderna, Catania 2003, p. 11. 34 Ibid., p. 14. 35 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, trad. it., Torino 2007, p. 53.

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zelanti e ascoltati predicatori. Gli infamissimi mercatores che a causa del loro dissesto, fuggivano dalla città portandosi appresso beni e contanti, davano a vedere l’insanabile aporia tra la sollicitudo per il rischio che è insito nell’attività commerciale e l’idea stessa di equilibrio. Nelle fasi espansive e in quelle recessive, mercanti e banchieri sono stati le componenti meno docili ad un disegno di stabilità e di ordine. Da parte degli altri corpi sociali è come si sentisse che il ceto dei mercanti era il solo da cui poteva temersi un’insidia alla gerarchia elaborata 36 .

La communicazione fra gli uomini che stava tanto a cuore ai mercanti diventa ora uno strumento di regolazione sociale. I falliti vengono effigiati, infatti, con toni pesanti ed esasperati di scherno in luoghi pubblici dotati di una forte carica simbolica: il postribolo, la piazza principale, più spesso il palazzo del podestà 37 . Ciò dà la misura del potere comunicativo che per lungo tempo i segni iconici hanno avuto sugli uomini: un potere inquietante che oggi facciamo fatica a comprendere, abituati come siamo a padroneggiare le immagini, a metterle a distanza, a valutarle nella loro dimensione più propriamente estetica 38 .

Come sempre, però, l’infamia milita associata alla fama. Per l’Anonimo Trecentista, autore di un trattatelo de mercatura, il commerciante non ha amico «sì grande né sì carissimo» quanto la «chiara fama»; questa « spesse volte aiuta e difende a luogho e a tenppo che l’uomo nulla ne stimerebbe», fino al punto che «tutte le cose che sono disotto il cielo e disopra la terra stano e sono per lui» 39 . Se – come afferma Benedetto Cotrugli 40 – il mercante deve essere integro «non solo in pensamento, et saldo d’animo et indubitato lo nome», va da sé che «i falliti mai più dovrebbero havere fede né credito, maxime quelli che per captività hanno fallito»: questi, anzi, «si debbono havere come persone infame et adulteratori della mercatura» 41 .

36 Cfr. F. Migliorino, Mysteria concursus. Itinerari premoderni del diritto commerciale, Milano 1999, pp. 65 s. 37 Cfr. G. Ortalli, «… pingatur in Palatio…». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI, Roma, 1979, p. 25; S.Y. Edgerton Jr., Pictures and punishment. Art and criminal prosecution during the florentine renaissance, Ithaca 1985, p. 64; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino 1992, pp. 69 ss. 38 Cfr. V. Valeri, Rito, in Enciclopedia Einaudi, XII, Torino 1981 pp. 210-243. 39 Ed. G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico Italiano», 110 (1952), p. 118. 40 Singolare figura di mercante attivo negli affari e nella politica, incline alla riflessione giuridica e alle meditazioni letterarie, Benedetto Cotrugli Raguseo scrive un manuale (1458) che è un esempio mirabile di pedagogia sociale e di etica mercantile. Si deve a Ugo Tucci l’edizione critica dell’opera con una ricca e densa introduzione: Benedetto Cotrugli Raguseo, Il Libro dell’Arte di Mercatura, cur. U. Tucci, Venezia 1990. 41 Ibid., p. 216.

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Per questa via, la buona fama diventa un attributo non solo del singolo, ma di tutta la corporazione. Serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza 42 . Entra come strumento probatorio nel processo mercantile rendendo affidabili, pro se, le scritture del mercator bonae conditionis et famae. Serve, soprattutto, a determinare lo stato d’imminente decozione che tanto affaticava i giuristi in tema di azione revocatoria 43 .

Si resta ammirati dalla duttilità e dalla capacità di adattamento alla prassi di una nomenclatura che, viceversa, manteneva una buona dose di rigidità nelle opere dei giuristi medievali 44 . Un vero e proprio scarto che risulta tanto più significativo nel mondo degli affari, da sempre ostile al formalismo del diritto stretto e più propenso ad assecondare un dinamismo sostenibile, governato dai principi della sicurezza e della rapidità 45 .

Nel campo della dottrina di diritto comune, la fama alterius rei inter homines existentis diventa un rilevante istituto di diritto processuale: come strumento probatorio concorre con altre prove alla formazione della sentenza, a condizione, però, che sia confermata da testi di provata fede e dirittura morale 46 .

42 Negli statuti fiorentini si dispone che il creditore debba indicare nell’istanza di fallimento l’arte di appartenenza del decotto: C. Pecorella - U. Gualazzini, Fallimento (storia), in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano 1967, p. 222. La riprovazione sociale colpisce l’intera corporazione quando il mercante subisce l’onta della pittura infamante o di una condanna per spergiuro: A. Sapori, La mercatura medievale, Firenze 1972, p. 23. Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss. Fra i requisiti richiesti per l’iscrizione nella matricola della corporazione gli statuti prevedono anche la buona fama: V. Piergiovanni, Diritto commerciale nel diritto medievale e moderno, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale, Torino 1989 4 , pp. 9 s. 43 Cfr. C. Pecorella, Fides pro se (1978), ora in Studi e ricerche di storia del diritto, Torino 1995, pp. 427 ss.; M. Fortunati, Scrittura e prova. I libri di commercio nel diritto medievale e moderno, Roma 1996; Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 118 s. 44 Si pensi solo alle figurazioni labirintiche che la fama evoca in letteratura: sulla «Casa della Fama», vedi le belle e dense pagine di P. Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Bologna 2007, pp. 175 ss. 45 Cfr. Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 117 ss. 46 Cfr. almeno J.Ph. Lévy, Le problème de la preuve dans les droits savants du Moyen Âge, in Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions, XVII/2, Bruxelles 1965, pp. 137-167; A. Giuliani, Il concetto di prova, Milano 1961; R.C. Van Caenegem, La preuve au Moyen Âge occidental, in Recueils cit., XVII/2, pp. 691-753; G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo medio e moderno, Napoli 1979; R. Fraher, Conviction according to conscience. The medieval Jurists’ debate concerning judicial discretion and the law of proof, «Law and History Review», 7 (1989), pp. 23-88; I. Rosoni, ‘Quae singula non prosunt collecta iuvant’. La teoria della prova indiziaria nell’età medievale e moderna, Milano 1995; M. MacNair, Vicinage and the antecedents of the jury, «Law and History Review», 17 (1999), pp. 537-590.

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Ci sono avvenimenti che non sono oggetto di esperienza diretta, eppure sono conosciuti da tutti, senza che se ne sappia indicare un’origine precisa. A volte non superano la soglia della diceria e del pettegolezzo o restano confinati nell’ambito del solo vicinato, altre volte si propagano rapidamente e raccolgono il consenso della pubblica fama: la scomparsa di un tale che si è messo in viaggio da troppo tempo induce a presumere una morte violenta; le notizie di scontri armati tra fazioni avverse corrono di bocca in bocca fino a diventare memoria vivente dell’intera città 47 . Ciò avviene quando la comunicazione sociale si avvale di una fitta rete di relazioni intersoggettive: lo scenario è quello della città, i giochi dello scambio riguardano non solo le merci ma anche le notizie e la conoscenza.

Si diffida, però, della naturale propensione della fama a colonizzare il linguaggio, sfuggendo al controllo dei suoi vigili (e interessati) censori. I giuristi, perciò, preferiscono definirne limiti e contenuti, assegnandola ad un livello prestabilito nella gerarchia delle prove e distinguendola dai concetti simili di notorio, manifesto e pubblico. Nelle loro opere essi depurano il termine del suo significato di diceria e conoscenza fallace, per attribuirgli una connotazione tecnica: la fama è analizzata in rapporto alla sua origine e diffusione, alla natura e alla rilevanza dei fatti che contribuisce a diffondere e, assunta nel processo come prova semiplena, è sottoposta a regole rigorose prima di poter produrre i suoi non secondari effetti giuridici 48 .

Gli effetti della fama probata sono considerevoli. In campo civile essa opera validamente come mezzo di prova dello status personarum: la sentenza emessa in giudizio in cui compare un filius familias senza il consenso paterno resta valida se questo è ritenuto pater familias per pubblica fama; analogamente è valido un testamento rogato davanti a sette testi, di cui uno era servo ma reputato libero da tutti 49 . Ma è nel campo criminale che la fama facti può finalmente dispiegare liberamente le sue più autentiche incli

47 Cfr. in proposito il Tractatus de fama del giurista bolognese Tommaso di Piperata, in Tractatus criminales, ed. Giovan Battista Ziletti, Venetiis 1563, ff. 1r-14r; Tractatus Universi Iuris, XI/1, Venetiis 1584, ff. 8r-10r. 48 Nella prima metà del secolo XII prende corpo una teoria della notorietà che avrà come esito più rilevante la rigorosa definizione dei concetti che si richiamano alla categoria dell’evidenza e della pubblicità. In tale processo di elaborazione dottrinaria la fama, nel confronto col notorio ed il manifesto, appare spesso come conoscenza non garantita dei fatti (multum fallax et facilis) e finisce per essere assegnata ai livelli più bassi della gerarchia delle prove. Per i contributi più significativi di legisti e canonisti cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 49 ss. e letteratura citata. 49 Thomas de Piperata, De fama cit., ff. 7r-v. Per il collegamento, per famam, dell’immagine sociale con quella giuridica di ceto, cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p. 33 s.

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nazioni. Soprattutto, a partire dal Lateranense IV essa diventa il presupposto per l’inquisitio ex officio e finisce per soppiantare l’istituto altomedievale della testimonianza collettiva giurata 50 . Da una parte dà un formidabile contributo all’assemblaggio dei materiali per la costruzione del nemico interno, dall’altra muove e dirige il fervore di inquisitori e scomunicanti.

Nel suo significato di buona reputazione, la fama è associata di buon’ora al termine di existimatio per connotare l’inviolata capacità giuridica di una persona. Ancor meno preciso di existimatio, il termine fama ha il merito di esprimere una forte carica di suggestione emotiva: la riprovazione sociale, l’isolamento dalla comunità per una scarsa considerazione, colpiscono prima e spesso più duramente delle sanzioni approntate dal potere legale. La fama mantiene anche nel Corpus iuris civilis tale suo carattere indeterminato, sicché è sempre ricondotta all’infamia e alle pene di stima, senza rivestire mai una chiara, definita connotazione positiva. Gli interpreti medievali rilevano la somiglianza dei due termini (existimatio/fama), usati spesso nelle fonti come sinonimi. Essi, però, si sentono attratti maggiormente dalla porosità e, forse, dai richiami simbolici di fama: la preferiscono ad existimatio, perché ha uno spettro più ampio di applicazione e riesce, più di quella, a collegare l’infamia legale del Corpus all’infamia di fatto regolata dalle norme sociali. Nella scuola di Irnerio la fama è associata, con evidenti echi agostiniani, a quella dignitas che fa dell’uomo la più mirabile delle creature 51 . Uno status dignitatis che - come chiarisce bene Azzone - «non ponitur in diffinitione pro honore publico ut alias sed pro potentia cuilibet homini a natura tributa quia homo est» 52 . Per questa via, grazie all’accostamento ad un ben noto frammento di Callistrato sulle cognitiones extraordinariae (Dig. 50.13.5.1), la fama è definita in rapporto alla capacità giuridica e alla dignitas nella sua più nobile raffigurazione: «fama est illesae dignitatis status moribus et legibus comprobatus, cum sit idem quod opinio et quod existimatio» 53 . Dietro l’immagine riflessa della fama, però, è sempre in agguato il suo

50 Per un quadro d’insieme del fenomeno, cfr. G. Alessi, Processo penale (dir. interm.), in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano 1987, pp. 360-401; Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari 2001, pp. 23 ss.; J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XII e -XIV e siècle), in La Preuve en justice: de l’Antiquité à nos jours, sous la direction de B. Lemesle, Rennes 2003, pp. 119-147. 51 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 74 s. 52 Ibid., p. 78. Sulla definizione di Alberto Gandino, che accoglie una tradizione ormai consolidata, cfr. M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, p. 97. 53 Ibid., p. 76.

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doppio. Verrebbe da dire, con Freud, il perturbante, con tutto il suo fardello di sciagure. L’infamia, ossia la mala fama, rende pubblica, visibile a tutti la trasgressione, esige una sanzione sociale che non esclude quella prevista dall’autorità, ma che ha efficacia e contenuti proprî. Se vi è stata offesa grave e scandalo per la comunità, il sistema di controllo sociale comporta per l’infame la pubblica riprovazione, l’isolamento, l’emarginazione, mentre il potere legale appronta una serie di esclusioni e di incapacità giuridiche ed etichetta le turpes personae con marchi e segni esteriori riconoscibili alla vista di tutti 54 . L’infamia legale, infatti, è una pena accessoria che rende più gravosa la condizione del condannato, ma può anche diventare uno stigma che si aggiunge al disprezzo per una condotta di vita turpe e indegna.

Sull’infame ricade una serie rilevante di incapacità: perde dignità e uffici e non può rivestire incarichi onorifici; non può postulare in favore di altri; non può promuovere un giudizio in veste di accusatore, né prestare una valida testimonianza; perde il diritto di fare testamento; se è nominato erede, contro di lui spetta ai fratelli e alle sorelle del defunto una querela inofficiosi testamenti 55 .

Proviamo ad immaginare quali effetti spaventosi produca l’infamia nel caso di individui che conducono la loro esistenza nel pieno godimento dei diritti civili e politici, che poggiano la loro fortuna economica sulla rispettabilità, che occupano nella gerarchia sociale un ruolo di comando: ciò vale nella realtà cittadina dove si afferma una nuova visione dei rapporti tra i privati, ma anche nel mondo feudale, dove la tutela della propria fama è un imperativo di vita per il signore e l’infamia è causa d’estinzione della nobiltà 56 .

Si può ben capire la preoccupazione di quel Raniero miles di Vico che, per avere schernito con parole irridenti un tale che faceva bella mostra della sua stravagante pettinatura, scoprì che alla modesta pena pecuniaria cui era stato condannato si sarebbe accompagnata l’infamia derivante dall’actio famosa esperita dal suo avversario. Il beneficio della restituito in integrum concesso da papa Innocenzo III serviva appunto a salvarlo da una imprevista limitazione della sua capacità giuridica. Soprattutto, serviva a metterlo al riparo da una sciagurata degradazione sociale. In fondo, la decisione papale — ispirata a criteri di equità — faceva salvi, insieme con lo status di Raniero, anche la coesione sociale di un piccolo borgo feudale del Basso Lazio 57 .

54 Cfr. U. Robert, I segni d’infamia nel Medioevo, trad. it., Soveria Mannelli 2000. 55 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 139 ss. 56 Cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p. 33. 57 Cfr. F. Migliorino, In terris Ecclesiae. Frammenti di ‘ius proprium’ nel ‘Liber Extra’ di Gregorio IX, Roma 1992, pp. 177 ss.

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L’infamia è per i ceti abbienti l’equivalente della pena di morte per gli esclusi e i diseredati. L’eventualità di perdere la fama è per un individuo capace di diritti l’equivalente di un imminente e funesto pericolo di morte; a sottolinearlo è Accursio in una glossa ad un frammento di Marciano in cui l’intervento del servo a difesa del dominus «periculo vitae infamiaeve» diventa una giusta causa di manumissione. L’infamia, però, non appare così dannosa per chi ha poco o nulla da perdere; il giudice comminerà la pena dell’esilio a vita, quando il condannato è così miserabile da non temere il «damnum famae» 58 .

Anche l’infamia, dunque, svolge la funzione di regolatore dei rapporti di status. Per le persone di bassa condizione, per le meretrici, i lenoni o gli usurai la marginalità sancita dalla pubblica opinione trova una conferma nell’intervento del potere legale; per gli appartenenti ai ceti dominanti, l’infamia diventa una sanzione vera e propria con conseguenze disastrose, perché li priva dei più rilevanti diritti civili.

Dalle prime elementari glosse grammaticali, gli interpreti vanno costruendo una fitta ragnatela di classificazioni. Tentano di mettere in sistema i luoghi più diversi (e contrastanti) del Corpus. Generazione dopo generazione. Il risultato? L’infamia è ipso iure, per sententiam o ex genere poenae. C’è chi è notato immediatamente, prima ancora di una pronuncia giudiziale; chi sconta la pena accessoria dell’infamia per la condanna subita in una actio famosa; chi ancora perché subisce l’onta di una pena disonorevole 59 .

Si sa, i giuristi medievali dissimulano una disinvolta infedeltà al testo romano. Nonostante lo maneggino come una “scrittura sacra”, essi guardano più volentieri alla realtà del loro tempo, sono i costruttori di un nuovo diritto e di un nuovo ordine 60 . A partire da quei venerandi testi e da quei dispersi materiali. Si può ben capire, allora, come la più innovativa e fortunata delle loro invenzioni sia stata la dottrina dell’infamia facti. Ben oltre il testo giustinianeo. A fondamento di questa geniale innovazione, la comune (e visibile) condizione di svantaggio degli infami e dei turpi.

L’infamia facti resta sempre una specificazione dell’infamia legale, ma mantiene una significativa affinità con l’ignominia sociale. Occorre, però,

58 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., p. 140. 59 Sulle distinzioni dei glossatori, cfr. ibid., pp. 85 ss. 60 Furono soprattutto «l’entusiasmo per la ricerca di rationes, e la sempre più sfacciata infedeltà al dettato normativo» a produrre un tipo di interpretazione estremamente ‘creativa’. L’intelletto del giurista, a partire dal Duecento, «cambiò traguardo: anziché applicarsi a ‘comprendere’ le fonti antiche si mosse a ‘costruire’ su di esse»: E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, p. 392.

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distinguere: questa opera liberamente nella sfera metagiuridica, mentre l’infamia di fatto riceve una disciplina dogmatica ed attrae a sé ipotesi che altrimenti resterebbero soggette alla mutevole e incerta valutazione della pubblica opinione 61 .

I risultati sono rilevanti. Si delimita il campo di applicazione dell’infamia di diritto, rendendone più sicura l’efficacia e, al contempo, si raccolgono – sotto la categoria dell’infamia – ipotesi, come la condictio furtiva e l’interdictum unde vi, che per definizione sono azioni non infamanti 62 . Mirabile manovra della gaia scienza del diritto: da una parte essa pone limiti, alza barriere, proclama interdetti, predica il Vero e il Falso. Parla a uomini lasciati bambini. Ma non basta: rende leggibile a pochi, non a tutti, il suo ordine del discorso. Per questa via, l’infamia resta in buone mani. Diventa un formidabile strumento di controllo sociale e di pressione verso la conformità 63 .

Nel suo significato più ampio, l’infamia di fatto non è una pena vendicativa, né è necessariamente collegata con la colpa. Nella canonistica classica spesso coincide con la decoloratio famae e nelle sue fasi formative è presupposto processuale per la purgazione canonica. Eppure, i suoi effetti sono rilevanti nella promozione agli ordini sacri, nell’esercizio degli atti legittimi, nella facoltà di muovere un’accusa o di prestare una testimonianza. Nonostante Graziano non mostri di conoscere la distinzione tra infamia iuris e infamia facti, nelle opere dei decretisti l’infamia di fatto assume un ruolo crescente ed è riferita ai luoghi (moltissimi) in cui le fonti antiche della Chiesa riferiscono di una non bona conversatio di persone che, a causa del loro scadimento morale, sono giustamente tenute fuori dai riti liturgici e da quelli mondani 64 .

Le due regole apostoliche per la promozione al reggimento della diocesi e per l’ordinazione sacerdotale erano lette con limpida consapevolezza dagli eredi della riforma gregoriana. «Oportet enim episcopum sine cri

61 Per l’importante contributo dato dalla canonistica cfr. P. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs von Gratian bis zur Glossa ordinaria, Köln-Graz 1966, pp. 17 ss.; G. May, Die Infamie im Decretum Gratiani, «Archiv für katholisches Kirchenrecht», 129 (1960), pp. 390 s., che rileva giustamente come sull’uso non tecnico di popularis infamia e di sinister rumor si fondò il procedimento straordinario per inquisizione. 62 La condictio furtiva è un’azione intentata per il risarcimento della cosa quando non può aver luogo la rei vindicatio. L’interdictum unde vi è un’azione tendente a far rientrare in possesso di un bene mobile chi ne è stato spogliato con la forza. Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 190 s. 63 Cfr. anche E. Peters, Wounded Names. The medieval doctrine of infamy, in Law in Medieval Life and Thought, cur. E.B. King - S.J. Ridyard, Sewanee, Tenn. 1990, pp. 43-89. 64 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 177 ss.

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mine esse» e «oportet autem illum et testimonium habere bonum» diventavano il fondamento della distinzione tra l’irregularitas ex culpa e quella ex defectu famae. Nel primo caso l’impedimento derivava dalla criminalis infamia, concetto che serve da spartiacque tra il crimine e il peccato; nella seconda ipotesi, lo scadimento della fama presso la comunità dei fedeli impediva al pretendente di essere ordinato sacerdote 65 .

La maggiore attenzione prestata dai canonisti all’infamia di fatto ha indotto a credere che questa fosse estranea alla ideazione teorica dei maestri civilisti. Il termine, invece, è già usato dalle prime generazioni di glossatori, forse dallo stesso Irnerio, ma con un’attenzione ed un significato diversi, perché diverse erano le fonti oggetto dell’esegesi di quegli antichi giuristi. Gli interpreti dei testi giustinianei considerano come cause dell’infamia di fatto quelle ipotesi, non previste nell’Editto del Pretore, in cui si fa riferimento a una indeterminata indegnità morale che, di solito, è definita coi termini di turpitudo o di levis macula.

Andiamo alle fonti. Può accadere che un tale è chiamato in tribunale non per rispondere di un reato, ma perché col suo comportamento ha dato occasione a numerose lagnanze. Non viene pronunciata una sentenza, perché non c’è stato un processo. Il giudice, tuttavia, rimprovera duramente l’uomo e lo esorta a cambiar vita. Il biasimo lascia il segno e, secondo i legisti, non resta senza effetti. Certo non equivale alla nota d’infamia, ma assomiglia molto al biasimo e alla maledizione del padre per il figlio diseredato.

E ancora. Un avvocato parla in difesa del cliente senza fermarsi un solo attimo. Non prende fiato. Vomita una appresso all’altra tutte le sue parole. Impedisce al patrono dell’altra parte di addurre prove contrarie. Peggio. Ha l’ardire di chiedere al giudice di non dare la parola all’avversario. Il giudice, paziente oltre ogni limite, alla fine lo zittisce in malo modo e gli dà pubblicamente del sycophanta. Le severe parole del magistrato trapassano, con lo stesso acume di una punta affilata, la rispettabilità dello sconsiderato. Tanto più, perché la censura è pronunciata in pubblico e nel tempio mondano della giustizia 66 .

Un paio di casi, tra tanti, per scoprire come i civilisti riescano — per argumenta — a interdire gli infami di fatto dalle cariche onorifiche e per svantaggiarli, non di poco, nelle loro capacità processuali. Se, però, dietro le teorie cerchiamo di intravedere gli uomini in carne e ossa, troviamo

65 Cfr. F. Gillmann, Zur Geschichte des Gebrauchs der Ausdrücke “irregularis” und “irregularitas”, «Archiv für katholisches Kirchenrecht», 91 (1911), pp. 56 ss.; B. Löbmann, Der kanonische Infamiebegriff in seiner geschichtlichen Entiwicklung, Leipzig 1956, pp. 9 ss. 66 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 187 ss.

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quelle stesse masse umane che portano già i segni dell’esclusione nella loro banale esistenza. In un tempo in cui gli intellettuali contribuiscono con le loro dottrine a legittimare un sistema di gerarchie e di privilegi legali, l’infamia facti è destinata a diventare il riconoscimento giuridico di una marginalità che appare naturale e necessaria all’equilibrio sociale.

Infami di fatto, dunque, e infami di diritto. Classificazioni che funzionano al modo della galleria di anormali raccolti e ritratti negli album di Lombroso. Rassicurano le persone rispettabili che non si riconoscono in quei nasi deviati e in quelle fronti sfuggenti. La società bipartita fra infami e persone dabbene conferisce un’identità a tutti, forse più a questi che ai primi. Se non altro, perché gli uomini infami sanno bene di esserlo. Tutti gli altri temono fortemente di diventarlo.

Siamo in presenza di una tecnologia del riconoscimento, che identifica controllando e controlla identificando. Una macchina astratta 67 che, incurante della fatica e dell’usura, s’industria senza sosta a classificare e raccogliere gli individui che concretamente sono utili al suo funzionamento. Un portentoso congegno che delimita, incide, segna, marca, definisce quello spazio che in tanto è disposto ad accogliere alcuni in quanto esclude tutti gli altri 68 . A questo scopo, teologi e giuristi hanno prodotto – nell’età medievale – uno straordinario investimento di sapere, per assegnare nomi, per denominare e rinominare classi di atti. Sono stati i veri maestri dell’ordine dogmatico, gli interpreti autentici del rapporto tra la parola e le istituzioni, i gelosi custodi del discorso.

Siamo giunti ad un intrico di questioni cruciali. Come si concilia il potere di certificare la fama e l’infamia – rimesso ad una cerchia ristretta di intellettuali – con un regime della verità che non può non fondarsi sul consenso universale? Com’è pensabile la coesistenza di un’opinione pubblica, sostenuta da valori positivi, e di un’opinione privata divergente e, per di più, scandalosa? Con quali procedure si costituisce il criterio della consensualità e dell’universalità?

Il tema del consensus omnium viene discusso da filosofi e giuristi attingendo ad una categoria della logica aristotelica, mediante cioè la definizione di Endoxon. L’Endoxon, ossia il riconosciuto, è nella Topica e nella Retorica ciò che sembra giusto a tutti, alla maggior parte, oppure

67 Per il concetto marxiano di astrazione reale, cfr. R. Finelli, Astrazione e dialettica dal Romanticismo al capitalismo: saggio su Marx, Roma 1987; Finelli, Un parricidio mancato: Hegel e il giovane Marx, Torino 2004. 68 Sul punto basta solo accennare alle pagine di E. Goffman, Asylums: le istituzioni totali, trad. it., Torino 1961, e di Douglas, Come pensano le istituzioni cit.

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ai sapienti 69 . Ed è appunto nella sfera del probabile, nell’ambito cioè degli atti umani, che funziona il criterio della certezza sufficiente: per dirla con Boezio, «quae videntur omnibus aut pluribus aut sapientibus» 70 .

L’opinione di un ceto guadagna in questo modo la dignità universale attraverso coloro che la rappresentano, per la fama e l’onore che essi hanno di potere dire ciò che vogliono dire 71 . Da qui, l’insistito richiamo delle fonti giuridiche all’immagine di un’opinio dehonestata apud bonos et graves, per stigmatizzare quel defectum famae che è il risultato di una vita reprensibile e che non sempre è collegata a una condotta delittuosa 72 . Al modo dei testes synodales, anche i boni et graves homines rinviano agli onesti e probabiles endoxoi della logica aristotelica.

Ma se i giuristi, con le loro categorie, elaborano una critica dell’infamia, altrove è in piena attività un’analitica dell’infamia. Ingranaggi diversi della medesima macchina: modelli discorsivi da una parte, congegni istituzionali dall’altra. Insieme, una mirabile rappresentazione bipartita della condizione umana.

Lo ius commune definisce che cos’è l’infamia, da quali cause nasce, qual è il suo rapporto con il reato, con la sentenza, con la pena. Detta i tempi della sua durata e fissa le condizioni per la sua remissione. Nel momento stesso, però, in cui essi delimitano con scrupolo le deroghe ai precetti del diritto comune, s’industriano a lasciare incerti e sfumati i contorni dell’infamia facti, fanno di questa una sorta di grande contenitore a cui attingere, con abili manovre ermeneutiche, nuovi tipi e nuove classificazioni.

Dalla critica all’analitica: gli iura propria si preoccupano non della definizione dell’infamia, ma del suo effettivo funzionamento. Come nella colonia penale di Kafka, una quotidiana e incisiva scrittura, che ha di mira

69 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., p. 33 e letteratura citata. 70 Boezio, De differentiis topicis I, in Patrologia latina, LXIV, Turnholti 1979, col. 1180C-D. 71 Cfr. J.A. Swanson, The Public and the Private in Aristotele’s Political Theory, Ithaca 1992. 72 Cfr. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs cit., p. 11 ss. L’opinio dehonestata apud bonos et graves, equivalente ad un defectus famae, si ritrova nelle Assise di Ruggero II, tit. 35, de mordisonibus, l. Comperit (ed. G.M. Monti, Lo Stato normanno-svevo. Lineamenti e ricerche, Trani 1945, p. 158): «… Si vero tanti reatus non levis suspitio de eo fuerit, vel preferite vite sue probrosus cursus extiterit, opinionemque eius apud bonos et graves dehonestaverit, de calumpnia prius actore iurante, non ut actenus set ceteris super hoc legibus sopiti set moribus, igniti ferri subeat iudicium…»: Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 183 ss.

“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE” 21

soprattutto i corpi, la loro postura, la loro disposizione nello spazio, la loro trasparenza che mette a nudo un’anima corrotta e perversa. Questa è una procedura in cui si distinguono, per zelo, gli ordinamenti cittadini e quelli regi, quando impongono ai condannati pene crudeli e infamanti: cavalcare un asino a ritroso stringendo la coda fra le mani; portare un sasso appeso al collo, tenere una mitra sul capo o una sella sul dorso; restare per lungo tempo alla berlina con la catena. E ancora: quando li marchiano a fuoco sulla fronte, sulla spalla o sul braccio, oppure quando impongono il sanbenito all’eretico o il copricapo con la campanella alla meretrice 73 . Questi riti crudeli sono una mirabile messa in scena della derisione e del disprezzo, sono una sorta di drammatizzazione della vergogna.

La fama, d’altra parte, non è una virtù morale, è un bene prezioso da curare. Non riguarda tanto la propria coscienza, quanto la personale capacità di autodisciplina, quella costante vigilanza che ogni uomo deve esercitare per il bene di quanti fanno affidamento sulla sua buona reputazione. Una sorta di strategia di autodifesa per evitare la perdita della fama, ancor più che il peccato stesso. Si non caste tamen caute, ammoniscono i teologi quando richiamano la necessità metamorale di scongiurare il pericolo di uno scandalo: meglio con una condotta irreprensibile, se necessario però anche con una moderata dissimulazione 74 . I peccati occulti, allora, restano confinati nel temibile colloquio che il penitente instaura con la sua coscienza, al cospetto di un amorevole ed esperto medico dell’anima. Lontano dai tribunali, dove rischierebbero di procurare, attraverso la comunicazione sociale, un danno ancora maggiore nella coscienza dei più 75 .

Va da sé, però, che la macchina mitologica è sempre al lavoro, nella sua ostinata pretesa di istituire alla vita gli uomini: tutti gli uomini, infami e no.

73 Cfr. A. Pertile, Storia del diritto italiano, V, Storia del diritto penale, Torino 1892, pp. 341 ss.; C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia. Dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, Milano 1906, pp. 424 ss. 74 Cfr. J.-P. Cavaillé, Dis/simulations. Religion, morale et politique au XVII e siècle, Paris 2002, p. 380. 75 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., pp. 41 ss.

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Bisogna essere molto prudenti con le voci perchè fanno presto a trasformarsi in verità. Qualche considerazione su fama e publica vox nell’Italia comunale

Processo a Pietro

Una notte del mese di settembre dell’anno 1342 Paola, moglie di Salvi di Rustichino, calzolaio, fu violentata. Cinque mesi più tardi, era il 24 febbraio, il marito si presentò davanti al giudice dei malefici di Siena per denunciare della violenza Pietro di Meo, pizzicaiolo, e sua moglie e complice Buonafemmina: la quale, diabolicho spiritu instigata, con inganni e blandizie persuase la vittima, all’epoca dei fatti sua vicina, a trascorrere la notte con lei adducendo una (falsa) assenza del marito. Che invece rapidamente e a tradimento in casa, si gettò sul letto dove dormiva Paola e approfittò di lei. Del reato, che si era consumato nella casa dei due imputati, a Siena, nel Borgo Nuovo di Santa Maria, affermò Salvi calzolaio, era pubblica fama 1 . Appellandosi alla pubblica fama di ogni loro affermazione, i due si difesero negando ogni circostanza, proclamando la loro innocenza e rivendicando una buona ed integerrima reputazione: io sono innocente, disse Pietro di fronte al giudice dei malefici, la notte in cui il reato è avvenuto ero fuori Siena, non ho indotto mia moglie ad ingannare Paola, non

1 Archivio di Stato di Siena (da ora ASS), Podestà 32 (1341 feb 24- 1342 nov 19): il registro, di 46 carte, è mutilo in fine. L’accusa di Salvi strutturata in articula: «Volo et intendo probare (...) primo quod publica vox et fama est et fuit Senis in burgo et contrata Burgi Novi Sancte Marie quod dicti Pietrus et domina Bonafemmina eius uxor commiserunt et perpetraverunt proditorie omnia et singula in dicta accusa contenta, videlicet quod dicta domina Bonafemmina suasit et proditorie seduxit dictam dominam Paulam uxorem mei dicti Salvi quod veniret ad iacendum secum et dicendo quod dictus Petrus maritus ipsius domine Paule <sic> erat absentem a civitate Senarum [...] et facta suasione et proditorie ipsa domina Paula ivit ad iacendum cum dicta domina Bonafemmina. Et [publica vox et fama est] quod ipsa domina Paula iacente in lecto cum dicta domina Bonefemmina dictus Petrus immediate intravit lectum ipsius domine Bonefemmine in quo iacebat dicta domina Paula [...] et nefande et proditorie commisit carnaliter cognitionem cum dicta domina Paula [...].»: c. 2r.

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sono stato a letto con lei, non ho abusato di lei; l’accusa di Salvi è falsa, calunniosa e costruita contra veritatem; io sono uomo di buona fama e così sono reputato da tutti quelli che mi conoscono. Buonafemmina gli fece eco: io sono innocente, non ho dato alcun aiuto a Pietro, nè ho persuaso donna Paola a giacere nel mio letto; l’accusa è falsa, calunniosa e costruita contra veritatem; io sono una donna onesta e di buona reputazione e così sono reputata da tutti quelli che mi conoscono 2 .

Fermiamo per un momento la proiezione di questa storia processuale che non diversamente da tanti casi giudiziari coevi rivela essere spia, tappa e arma di una controversia interpersonale, una delle tante che tessono la spessa trama di quella endemica conflittualità tra individui e gruppi che percorre trasversalmente il corpo sociale e che ora e qui coinvolge il pizzicaiolo e due suoi vicini, due fratelli, tintori, con i quali, dichiarerà lo stesso Pietro, egli tempo prima aveva avuto una rissa, se l’erano date di santa ragione, anche a colpi di spada, e da allora – nonostante la stipula di una pace – «ut inimici se gerebant» 3 . Un processo che dunque si configura (e che andrà letto ed interpretato) come un campo di gioco, in cui gli antagonisti si affrontano utilizzando specifiche armi dialettiche e modi di azione 4 . Dipanandosi lungo un filo logico e narrativo che parte dalla vox ed

2 Ibid., cc. 11r-13r: La difesa di Pietro in articula: «dictus Petrus erat absens tempore et loco in accusa contentis [...] ac etiam est purus et innocens a quolibet persuasione quam asseritur feceisse dictum Petrum dicte domine Bonafemmine [...] ut duceret dictam dominam Paulam ad iacendum secum [...] et de hoc est et fuit publica vox et fama. Item quod publica vox et fama fuit et est quod dictus Petrus tempore et loco in accusatione contentis non accessit ad lectum [...] nec cognovit carnarliter eam nec persuasit dicte domine Bonafemmine [...]. Item quod dictam accusam facta per dictum Salvi de dicto Petro est falsa et chalupniosa et contra veritatem instituta et de hec est publica vox et fama. Item quod dictus Petrus est homo bone condictionis et fame et sic habitus et reputatus fuit toto tempore vite sue a cognoscentibus eum. Item quod de omnibus et singulis supradictis est et fuit publica vox et fama». La dichiarazione di Buonafemmina: «[...] publica vox et fama est et fuit maxime in contrata burgi Sancte Marie in qua dicta domina Bonafemmina habitat, quod ipsa domina Bonafemina est pura et innocens a qualibet persuasione et condutione quam diceret factam per dictam dominam Bonafeminam de dicta domina Paula ac etiam a quolibet auxilio, favore et consilio quod diceretur esse prestatum per dictam Bonafeminam Petro marito suo tempore et loco in accusatione contentis ut cognosceret carnaliter dictam dominam Paulam [...]. Item quod dicta accusatione facta per dictum Salvi de dicta domina Bonafemina est falsa et chalupniosa et contra veritatem instituta et de hoc est publica vox et fama. Item quod dicta domina Bonafemina est et fuit mulier bone et honeste vite et bone conditionis et fame et sic habita et reputata fuit toto tempore vite sue ab omnibus cognoscentibus eam. Item quod de omnibus et singulis supradictis est et fuit publica vox et fama». 3 Ibid., c. 36r. 4 Sul significato del processo, sul rapporto tra attività giudiziaria e forme della produzione documentaria si rivela utile l’esempio perugino studiato da Massimo Vallerani:

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arriva all’azione del giudice passando per un punto centrale costituito dalla fama, assunta qui nel suo doppio significato di ‘reputazione’ e ‘opinione comune’, il processo di Pietro al pari di altri tratti da documentazione giudiziaria toscana, cui farò brevemente riferimento nel corso di queste righe, ben si presta a discutere ed introdurre alcuni aspetti relativi al funzionamento della fama nelle città comunali del basso medioevo, il modo in cui era usata, il modo in cui instaurava e dava forma alle relazioni tra individui e al dialogo fra individui e istituzioni. Con una premessa necessaria al mio discorso che ne costituisce in parte anche le conclusioni: la fama/reputazione oggetto delle considerazioni che seguono ha radici giuridiche e normative; essa partecipa della cultura, del potere vigente e dominante; essa è – attraverso le sue raffigurazioni elaborate, promosse, veicolate dalle autorità, – emanazione diretta del ‘politico’. Parimenti, la fama/notorietà non ha nulla di spontaneo o volatile: è un dispositivo altamente formalizzato e regolato che obbedisce a precisi meccanismi di formazione e manifestazione 5 . A quest’altezza cronologica, sia il dispositivo che il modello sono entrati pienamente a far parte dell’armamentario con cui gli individui gestiscono la propria vita, le proprie relazioni, i propri conflitti, con cui osservano e classificano i comportamenti, con cui, consequentemente, elaborano e plasmano, in sede processuale, la propria autobiografia 6 .

La fama costituisce la trama della strategia processuale di Salvi e di quella di Pietro. I due dimostrano di conoscere bene le sue modalità di funzionamento, entrambi tentano di manipolarla ingaggiando nel vicinato una battaglia per il suo controllo, ma con tutta probabilità, se il giudice avesse loro chiesto quid est? – la domanda con cui si apre la sequenza di domande attraverso le quali la dottrina impone di verificare se essa ha quegli attributi che ne garantiscano l’attendibilità e la rendano inconfondibile, a livello giuridico dalla vox – probabilmente neanche loro avrebbero potuto e saputo spingersi oltre la formula standardizzata e inamidata con cui tutti, o la quasi totalità, dei testimoni, risponde al giudice: «quod dicitur

Conflitti e modelli procedurali nel sistema giudiziario comunale. I registri di processi di Perugia nella seconda metà del XIII secolo, «Società e Storia», 48 (1990), pp. 267-299; Vallerani, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia 1991. 5 F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico dei secoli XII-XIII, Catania 1985. 6 Si vedano a questo proposito le stimolanti considerazioni conclusive scaturite dall’analisi di alcuni processi celebrati dal tribunale parigino dello Châtelet, a fine Trecento, in M. Vallerani, La fama nel processo tra costruzioni giuridiche e modelli sociali nel tardo medioevo, in La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna 2007, pp. 93-111.

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per maiorem partem vicinorum et illorum de burgo», «id quod dicitur per gentes», «dictum gentium», «id quod dicitur a gentibus», «id quod dicitur per maiorem partem gentium».

I testimoniali, lo sappiamo, non sono documenti innocenti, molti sono i filtri (dall’orale allo scritto, dal volgare al latino), molte le interferenze, molti i condizionamenti e le censure 7 . I racconti dei testimoni, stravolti, spezzati, ricomposti in stile indiretto (dicit, vidit, audivit), canalizzati entro il reticolo degli articula denuntiationis che impostano l’andamento dell’interrogatorio, appaiono ingessati entro modelli formali e ripetitivi, livellati secondo formulari che li assimilano e li codificano secondo schemi fissi. Un rullo compressore, l’interrogatorio e il suo riversamento nella scrittura, che modifica, stravolge, reinterpreta fatti e racconti. Di questo occorre essere consapevoli. Dietro ed oltre la rigidità del racconto testimoniale riusciamo tuttavia abbastanza chiaramente a scorgere l’attrito prodotto dallo scontro di codici e linguaggi divergenti: silenzi, reticenze, imbarazzi, «quot homines faciunt famam»? c’è chi non risponde, c’è chi dice di non sapere, c’è chi dice uno, due, sei, da dieci in su, da venti in su, trenta, c’è chi dice cento, c’è chi dice la maggior parte, c’è chi dice tutta la gente, c’è chi dice più sono gli uomini che parlano e meglio faciunt famam, c’è chi risolve la faccenda ammettendo che fama potest dici in magna quantitate et in parva, impossibile cogliere e restituire un senso a questa contabilità privata se non richiamando l’urto di universi concettuali inconciliabili; il giudice ha fatto una domanda, il teste – suo malgrado – darà una risposta: che cos’ è la fama? non lo so perchè fino ad oggi non ho mai letto roba di leggi 8 .

Di fronte al giudice, il testimone deve chiarire luoghi, circostanze, tempi, modalità di nascita e diffusione della fama. «Quid est», «ubi est», «ubi subrexit», «quot homines faciunt famam», cos’ è la fama, dove è dif

7 J.-C. Maire Vigueur, Giudici e testimoni a confronto, in La parola all’accusato, a cura di J.-C. Maire Vigueur - A. Paravicini Bagliani, Palermo 1991, pp. 105-123: 118-119. Su altro versante, vedi le considerazioni e l’analisi esemplare sviluppata su fonti inquisitoriali da G. Grado Merlo, Streghe, Bologna 2006 (particolarmente p. 8) Sul livellamento formale e l’uniformità tipologica delle contese di cui rendono conto le carte giudiziarie dei secoli XIII-XIV, I. Lazzarini, Gli atti di giurisdizione: qualche nota attorno alle fonti giudiziarie nell’Italia del Medioevo (secoli XIII-XV), «Società e Storia», 58 (1992), pp. 825-845. 8 «Interrogatus quid sit publica fama dicit quod non legit adhuc leges quod ipse sciat»: la citazione, come altre nel testo, è tratta dalle carte processuali riguardanti una disputa fondiaria che si svolse negli anni Settanta del Duecento a Siena che ho esaminato in R. Mucciarelli, La terra contesa. I Piccolomini contro Santa Maria della Scala. 1277-1280, Firenze 2001, pp. 97, 100 (Iohanninus Ranuccii: «a centum hominibus supra faciunt famam”), 138 (Rossus Albonecti: «sicut plures sunt melius faciunt famam»), 141 (Fede notarius quondam Ranerii: «quod per famam potest dici in magna quantitate et in parva»).

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fusa, da dove nasce, quanti uomini la fanno? Per soppesarne ed ammetterne la capacità probatoria, la dottrina determinava quali dovevano essere i suoi caratteri. Intanto andavano chiarite le diverse accezioni di fama : «una est fama hominis, alia est fama inter homines. Fama hominis dicitur in bona parte, in mala parte dicitur infamia [...]. Fama inter homines est duplex: nam quedam est fama de uno homine in genere bonitatis, vel malitie. Nam fama est, quod est bonus, vel malus, quod est fur, vel latro [...] Quaedam est fama de aliquo facto particulari»: dunque, in questa seconda accezione, si dà una fama sulla persona e una fama che nasce su un fatto specifico 9 . Questa, che andava provata per testes, di specchiata buona fede e buona reputazione, si riteneva formata quando la maggior parte degli uomini della civitas, del castrum, della villa, della vicinia erano a conoscenza del fatto : «si queratur a teste, quomodo scis – argomenta nel corso del Duecento il bolognese Tommaso da Piperata – debet respondere quia ita sentit maior pars populi civitatis». Altro attributo necessario era il suo carattere manifesto, pubblico: disquisiva Bartolo da Sassoferrato: «quid est fama? Respondeo, est communis opinio voce manifestata. Qua re dico voce manifestata? Fama enim dicitur a fando, hoc est loquendo, unde nisi sit locutio non diceret fama», e commentando la definizione di Tommaso che interpretava e spiegava la fama come communis opinio («fama et communis opinio et communis estimatio sunt idem») 10 specificava, «est verum, quando communis opinio et communis estimatio voce manifestantur» 11 . Dunque la fama si affida alla voce, ha bisogno della voce che la costruisce. Bartolo mostrava di riprendere ed accettare il nesso etimologico che molti secoli prima, il padre dell’enciclopedismo medievale, Isidoro di Siviglia, aveva coniato: «fama autem dicta quia fando, id est loquendo, pervagatur per traduces linguarum et aurium serpens» 12 . La fama che si diffonde attraverso i tralci delle lingue e delle orecchie, strisciando come un serpente, è stata così chiamata in quanto

9 Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), In secundam Digesti Novi partem (commentaria) ..., Venetiis 1580, lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn 5-6. 10 «Dicitur fama quod homines alicuius civitatis, villae, vel castri, vel vici, vel contratae alicuius communiter opinantur et existimant, sive sentiunt , illud verbis sive loquella asserendo [...]», traggo la citazione da R. Fraher, Conviction According to Conscience: The Medievale Jurist’s Debate Concerning Judicial Discretion and the Law of Proof, “Law and History Review”, 7 (1989), pp. 23-88: 69 nota. 11 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi partem cit. 12 Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, ed. A.V. Canale, libro V, XXVII, Delle pene stabilite nelle leggi [26], Torino 2004, pp. 422-423.

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fando...: fando, forma impersonale del verbo fari, cioè discorso che circola, racconto diffuso 13 .

Quando Salvi e la moglie Paola cominciarono a mettere in giro la voce dello stupro qualche giorno dopo il fatto, nella contrada del borgo Nuovo di Santa Maria dove era avvenuto, dove essi vivevano, lo fecero avendo ben cura di farlo publice et palam, in modo manifesto, di fronte ad un pubblico di vicini e soprattutto vicine: che infatti durante l’interrogatorio, attestando la pubblica fama del reato, raccontarono di come il giorno della festa di Sant’Angelo, donna Paola avesse loro detto di quel che era successo, di come Buonafemmina l’avesse imbrogliata e di come fosse rimasta vittima della violenza di Pietro 14 .

La fama non tollera i segreti che si perdono negli oscuri e tenebrosi meandri del non detto, dell’ indicibile, del ne-fando 15 . A Modena, nel 1299, durante il dibattimento del processo contro Palmieri di Montale, accusato dal proprietario del campo di aver rubato della saggina, l’unico testimone a sostegno dell’accusa spiegherà al giudice che la pubblica fama di quel reato risaliva al giorno prima, 20 novembre (l’accusa era stata mossa il 6), quando due uomini di Montale cominciarono a dire a tutti i convicini riuniti in pleno arengo che Palmieri era l’autore del furto 16 .

E a Siena fu nel luogo pubblico per eccellenza, la piazza del Campo su cui si affaccia il palatium comunis, che secondo l’opinione dei testimoni si levò la voce dell’innocenza di Pietro quando, cinque mesi dopo il reato, Salvi si recò al banco del giudice dei malefici per la denuncia: Pietro certamente sapeva quello che stava per succedere. Il tempo trascorso tra la messa in giro della voce (a settembre) e l’accusa al podestà, suggeriscono che i suoi antagonisti, quelli che Pietro chiamava hodiosi et malivoli inimici, avevano cercato forse di esercitare su di lui una qualche pressione, ave

13 Il legame della fama con il verbo “dire” (fari) era chiara fin dall’epoca di Varrone: ma l’atto del fari, presuppone nel mondo antico, una modalità del dire abbastanza specifica. Esso è usato per definire la parola degli indovini, è voce che rivela segreti nascosti, è voce profetica, è la prima parola dotata di senso del bambino: vedi i diversi contributi raccolti nel volume La potenza della parola, cur. S. Beta. Atti del Convegno di Studi (Siena 7- 8 maggio 2002), Fiesole 2004. 14 «Dixit quod initium ipsius vocis et fame processit a dicta domina Paula quia ipsa domina Paula dixit predicta contenta in dicta accusa cum ipsa teste et cum pluribus aliis vicinis», «audivit dici a dicta domina Paula et a pluribus vicinis de dicta contrata Burgi novi» ASS, Podestà 32, cc. 5v, 7v (le testimonianze delle vicine alle cc. 5v-8v). 15 J. Chiffoleau, Dire l’indicibile. Osservazioni sulla categoria del «nefandum» dal XII al XV secolo, in La parola all’accusato cit., pp. 42-73. 16 Registrum comunis Mutine (1299). Politica e amministrazione corrente del Comune di Modena alla fine del XIII secolo, ed. P. Bonacini, Modena 2002, p. 220.

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vano tentato una negoziazione prima di ricorrere al giudice: tentativo fallito ma che aveva dato modo a Pietro di reagire: in palatio comunis, post istitutionem accusam predictam, la gente, che conosceva bene Pietro, cominciò a dire che Pietro era innocente e che si trattava di una truffa colossale ordita da certi suoi nemici, e voce su voce, anche questo fatto, ben presto, diventò di pubblica fama 17 .

La battaglia per il suo controllo cominciava: dopo 9 mesi dall’inizio del primo processo, Pietro, controattaccando, sapeva di aver vinto e rivendicava che della sua innocenza nel borgo di Santa Maria era ed era sempre stata pubblica fama («sic a maiori parte vicinorum ... publice dicebatur et dictum fuit et dicitur absque aliquo contrario»). Il 13 novembre cominciò un secondo processo: nell’articolata accusa per falsa testimonianza e induzione di falsa testimonianza, il pizzicaiolo ricostruì i fatti e chiedendo che venisse fatta giustizia, individuava i responsabili della macchinazione nei due tintori e nella loro cerchia di amici e parenti 18 .

L’economia della pubblicità

Non sapremo mai esattamente come si formasse o come venisse influenzato il parere del vicinato riguardo ad un episodio. Tra il fatto (informazione del fatto) e l’opinione c’è tutta una mediazione rappresentata da elementi molto diversi assai difficile da cogliere per lo storico. Certo è che per la comunità i gesti e le parole affermate in pubblico avevano un peso: diciamo pure che avevano valore probatorio almeno fino a quando un gesto o una parola non li avesse pubblicamente contraddetti e contestati; per questo Pietro, lo abbiamo sentito, poteva rivendicare la pubblica fama della sua innocenza adducendo il motivo che della sua innocenza tutto il vicinato parlava absque aliquo contrario.

Analisi sulle carte giudiziarie di area toscana ci dicono che le azioni violente, pubbliche ed esplicite, se non ottengono una risposta immediata (altra violenza, ricorso giudiziario) si configurano come rituali fondanti un diritto 19 . Di contro: le azioni segrete non hanno valore di prova.

17 «Ser Lippus tintor testis.. interrogatus unde habuit initium ista publica fama dixit quod in palatio comunis Senarum post istitutionem accusam predictam» (ASS, Podestà 32, c. 16r). 18 Ibid., c. 34r «et sic a maiori parte vicinorum dicti burgi.. publice dicebatur ... et dictum fuit et dicitur absque aliquo contrario». Il secondo processo, cc. 33r- 46v. 19 C. Wickham, Dispute ecclesiastiche e comunità laiche. Il caso di Figline Valdarno (XII secolo), Firenze 1998 (Fonti e studi di storia locale, 10), p. 72.

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Nelle dispute fondiarie questa dinamica appare evidentissima: quando nel 1277 un arrogante magnate senese volle contestare il diritto di proprietà di un pezzo di terra all’ospedale di Santa Maria della Scala lo fece attraverso una sequenza di azioni di guerra, presentandosi sul luogo a cavallo, in arredo visibilmente aggressivo e bellicoso («armatus cervelleria, spontone et cultello»), a capo di una banda di fideles e meçaiuoli armati di tutto punto, eseguendo precisi e ripetuti gesti: riempì le fosse, ruppe i vomeri, allontantò i lavoratori, picchiò i conversi dell’ospedale e di fronte al pubblico attento dei presenti pronunciò, forte e chiaro immagino, quelle parole che assieme ai gesti si sarebbero tanto ben impresse nella memoria dei testimoni – «ego nolo quod laboretis pro hospitale, laboretis pro me si vultis» – e di lì a poco nella rete dell’opinione pubblica della comunità come segni che volevano negare qualcosa (il diritto dell’ospedale) ed imporre qualcosa d’altro (il proprio diritto). E quella era una cosa che probabilmente tutti capivano. Era il linguaggio di una grammatica condivisa. Era, diciamo, “senso comune” 20 .

Se non ponessimo mente a questa grammatica condivisa, non si comprenderebbe lo statuto privilegiato assegnato dalla legislazione popolare di pieno Duecento alla pubblica fama come uno dei criteri di riconoscimento dei magnati 21 : coloro che l’«opinio vulgo appellat et tenet vulgariter potentes nobiles vel magnates». La grandezza-grandigia ha un’immagine pubblica: essa vive grazie ad alcuni indicatori formali, un certo tipo di organizzazione delle strutture familiari, il ricorso a un sistema di segni riconoscibile (stemmi, blasoni), prestigiosi possessi immobiliari, privilegi signorili, dominio sugli uomini, cavalli, armi, uso della forza, prepotenza: insomma uno stile di vita che rinvigorisce ogni giorno la fama/reputazione del magnate e consequentemente la pubblica fama/notorietà della sua reputazione.

20 La citazione dai testimoniali pubblicati in Mucciarelli, La terra cit., pp. 101 e 105; sui rituali visibili come creatori di prove ampie esemplificazioni v. C. Wickham, Legge, pratiche e conflitti. Tribunali e risoluzioni delle dispute nella Toscana del XII secolo, Roma 2000. 21 Così lo Statuto del Capitano del Popolo di Firenze (1289): «QUI DEBEANT APPELLARI ET INTELLIGANTUR POTENTES, NOBILES VEL MAGNATES. Item, ut de potentibus vel magnatibus de cetero dubietas non oriatur, illi intelligantur potentes, nobiles vel magnates, et pro potentibus nobilibus vel magnatibus habeantur, in quorum domibus vel casato milites est vel fuit a XX annis citra, vel quos opinio vulgo appellat et tenet vulgariter potentes nobiles vel magnates»: G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, cur. E. Sestan, Milano 1966 [ed. or. 1899], p. 161. Sul ruolo della fama per la definizione dei magnati, C. Klapisch-Zuber, Honneur de noble, renommée de puissant: la définition des magnats italiens (1280-1400), «Medievales» 24, (1993), pp. 81-100 (numero monografico dedicato a La Renommée). Per una visione d’insieme della normativa si rinvia al classico G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatiza nei comuni dell’alta e media Italia, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 12 (1939), pp. 86-133.

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Non diversamente, nell’impennarsi del conflitto che più o meno contemporaneamente vedeva fronteggiarsi nella penisola seguaci dell’Impero e seguaci della Chiesa, poiché come la condizione magnatizia anche la militanza attiva dentro una pars si lega a prepotenti segni di riconoscimento, fu ancora la fama ad essere chiamata in causa: cito a titolo d’esempio e per comodità il passaggio con cui a Siena, negli anni in cui sta per maturare l’avvento di un governo guelfo di stampo popolare, nei patti che prefiguravano il primo tentativo di ricomposizione del quadro politico istituzionale cittadino, lacerato da anni di lotte, si stabiliva che nessun famosus de parte – guelfo o ghibellino – potesse entrare a far parte dell’organizzazione di popolo 22 : la fama raccoglie qui, ancora una volta, sia la reputazione sia la notorietà di quella reputazione.

Tangio di Guadagno, pratese, passato a parte guelfa, appena eletto all’ufficio dei Dodici per il bimestre luglio-agosto 1298, si difendeva con accanimento davanti alla curia del Capitano del popolo negando di essere ghibellino o persona sospetta di ghibellinismo come denunziava il suo accusatore 23 e pertanto inabile ad accedere alle cariche del Comune. Adducendo come prova incontrovertibile della sua identità di parte, tutti i segni esteriori dell’appartenenza faziosa, tanto nel pubblico quanto nel privato, così ricomponeva il profilo della sua autobiografia, accertata e comprovata dalla pubblica fama: ho vissuto la mia vita negli ultimi dieci anni come vero, fedele e manifesto guelfo, «conversando, utendo et parentelas faciendo cum guelfis, loquendo pro parte guelfa et contra partem ghibellinam» e generalmente facendo tutto ciò che i guelfi veri e fedeli e manifesti fanno 24 . Una vita organizzata, rappresentata, raccontata attraverso una

22 L’accordo tra Parte guelfa e Comune di Siena, datato 13 maggio 1267, fu pubblicato da U.G. Mondolfo, Il Populus a Siena nella vita della città e nel governo del comune fino alla riforma antimagnatizia del 1277, Genova 1911, pp. 71-81, recentemente commentato e riedito in A. Giorgi, Quando honore et cingulo militie se hornavit. Riflessioni sull’acquisizione della dignità cavalleresca a Siena nel Duecento, in Fedeltà ghibellina, affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, cur. G. Piccinni, 2 voll, Pisa 2008, I, pp. 133-207: 191-192; vedi anche P. Cammarosano, Tradizione documentaria e storia cittadina. Introduzione al Caleffo Vecchio del Comune di Siena, Siena 1988, p. 73. 23 «[...] denuntiatur et accusatur quod Tangus quondam Guadagni de porta Travallii est persona suspecta et ghibellina et pro ghibellino habetur ab hominibus terre Prati et quod fuit confinatus ghibellinus, qui Tangus electus fuit ad officium de Duodecim consiliarii terre Prati et quod ipse Tangus dictum officium recepit et iuravit et acceptavit [...] petitur per nos dictum Tangum de predicta receptione et acceptatione officii puniri et condempnari secundum formam statuti Comunis»: Archivio di Stato di Prato (da ora ASPo), Comune, Atti giudiziari 476, quat. IV, cc. 67r-69r; 71r-78v; 85r-89r (1298, luglio 3). 24 All’accusa, Tangio aveva risposto negando: «Tangus Guadagni [...] negavit se esse vero publicus et manifestus guelfus terre Prati de parte guelforum popularium terre Prati.

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sapiente economia della pubblicità. E Tangio fu assolto: erano stati ascoltati molti testimoni, molti dei quali testimoniarono di essere certi che Tangio era ghibellino ed aveva avuto un passato ghibellino, ma molti altri testimoniarono di essere certi che lui fosse guelfo perché, con argomentazioni non prive di tautologia, dicevano che Tangio era stato console dell’Arte della Lana (i ghibellini non potevano rivestire cariche direttive nelle arti), aveva fatto parte dei consigli del comune, era stato accolto nella società di popolo dei Trecento Sacrati, era stato autorizzato a portare le armi (privilegio accordato ai popolari guelfi), dimenticando che proprio sulla liceità di quei ruoli e di quei privilegi si stava discutendo 25 . Tangio, forte di un passato ancorché abbastanza recente in parte guelfa, di un ruolo attivo nella corporazione e negli organi comunali, forte infine di relazioni d’amicizia e parentele con noti e tra i maggiori dei popolani guelfi, vide riconosciuta la sua integrazione politica. La fama del suo guelfismo bastava in quell’anno 1299 – cioè nel contesto di un comune popolare saldamente guelfo per il quale Montaperti era poco più di un ricordo sfuma

Item interrogatus si umquam fuit confinatus pro parte ghibellina dixit quod non. Item interrogatus si fuit electus ad officium XII pro duobus mensibus videlicet presentis mensis julii et augusti futuri et ipsum officium juravit et recepit dixit quod sic [...] et alia in dicta denuntia et accusa contempta negat»: ibid., c. 67v (8 luglio). Il 9 luglio presentò la sua difesa strutturata, come prassi, in articula: « In primis ipse Tangius est et publice habetur et tenetur in terra Prati per pratenses vere et fidus et manifestus guelfus; item quod ipse Tangius tractatur et approbatur est et fuit iam sunt X anni et ultra per pratenses ut guelfus et tamquam guelfus ponendo et permittendo ipsum esse ad consilia Comunis Prati et ad custodiam terre Prati pro parte guelfa et contra ghibellinos; item quod dictus Tangius gerit vitam suam et gessit iam sunt X anni et satis ultra ut guelfus verus et fidus et manifestus, conversando, utendo et parentelas faciendo cum guelfis et in parte guelfa loquendo pro parte guelfa et contra partem ghibellinam et generaliter ea faciendo que guelfi fidi et veri et manifesti faciunt. Item quod de predictis est publica vox et fama [...] »: ibidem, c. 77r. 25 Fra testimoni dell’accusa e della difesa, si presentarono alla curia del capitano del Popolo 64 testimoni: un buona parte di quelli presentati dall’accusa (25) affermarono, chi per aver visto, chi per pubblica fama, che Tangio era considerato ghibellino, proprio come il padre, e come persona «suspecta de parte ghibellina» era stato mandato a confino; qualcuno, invece, che aveva sentito dire che ora era guelfo («iuravit partem guelfam»), qualcun altro reputava che fosse più ghibellino che guelfo («ipsum magis esse ghibellinum quam guelfum») in pochi dichiareranno di non sapere nulla: ibid., cc. 67r-69r; 71r-78v; 85r-89r. Dello stesso tipo il processo a Finuccio di Cambio, ibid., 478, quat. III, c. 45r; quat. IV cc. 1r-11v. Per una ampia contestualizzazione degli eventi, ivi inclusi i processi in oggetto, rinvio a S. Raveggi, Protagonisti e antagonisti nel libero Comune, in Prato. Storia di una città. Ascesa e declino del centro medievale (dal Mille al 1494), cur. G. Cherubini, Firenze 1990, pp. 613-736: 676. Per la vicenda di una famiglia pratese accusata di ghibellinismo nel Trecento, V. Mazzoni, Ascesa e caduta di una famiglia di popolo nel Trecento: gli Zagoni di Prato, «Ricerche Storiche», 32/1 (2002), pp. 3-45.

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to nella nebbia e i ghibellini non costituivano certo la preoccupazione in cima all’agenda politica – per essere considerato pubblicamente guelfo 26 .

Un tribunale giudicante

Nei processi la fisionomia sociale dei protagonisti e la natura dei reati circoscrive il perimetro e lo spazio della fama: «in negotiis magnis requiritur fama totius civitatis, in negotiis parvis sufficit fama viciniae sue contratae», argomenta Bartolo 27 . Nel processo di Pietro il vicinato, lo abbiamo visto, ha un ruolo fondamentale nella diffusione e formazione della fama: («interrogatus unde habuit initium ista fama dixit quod a vicinis dicti Petri postea accusam istitutam a dicto Salvi») 28 .

Le relazioni di vicinato stabiliscono (spontaneamente, necessariamente) relazioni di sapere sull’altro: «interrogatus quomodo scit, dixit quod est suus convicinus». Ancora Bartolo argomentava: quando dico fama della città o della vicinia, intendo la fama che è «inter homines illius civitatis o viciniae [...] ad quos spectat hoc scire» 29 ... La morfologia urbana, il modo di abitare costituisce un incitamento al sapere sull’altro. Non occorre descriverla ancora: strade tortuose e strette, case addossate le une alle altre che sporgono all’esterno con scale, ballatoi, balconi: la città medievale proietta incessamente la popolazione verso l’esterno e ciascuno verso l’altro; nessuna intimità, l’intimità non esiste, nessun segreto è possibile. Queste forme di rapporto obbligato immergono l’individuo in un tessuto urbano in cui l’occhio dell’altro – che si può compensare soltanto con lo sguardo

26 Per un inquadramento F. Canaccini, Ghibellini e ghibellinismo in Toscana da Montaperti a Campaldino (1260-1289), Roma 2009; S. Raveggi, L’Italia dei guelfi e dei ghibellini, Milano 2009. 27 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi cit., lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn. [11-12-13]: «fama non requirat locum de necessitate [...] ibi non ponitur locus ut significet locum sed ut significet universitatem que moratur in loco. Unde cum dico, fama est in civitate ista, hoc est, inter homines huius civitatis: vel fama est in vicinia, hoc est inter homines illius viciniae [...] » 28 ASS, Podestà 32, c. 17v (Finuccius Baldi testis); e ancora: immagini delle conversazioni fra i vicini del borgo di Santa Maria: «interrogatus unde habuit originem ista fama dixit a gentibus dicti burgi qui dicebant quod non poterant credere contenta in dicta accusa» (c. 21v); «audivit dici ab hominibus de contrata burgi Sancte Marie quod dicta accusa erat instituta contra veritatem» (c. 29r); «interrogata quomodo scit, dixit auditu vicinorum» (c. 30r). 29 Bartolo da Sassoferrato, In secundam Digesti Novi cit., lib. 48, De questionibus, lex X, De minore quattuordecim annis, par. Plurimum, nn. [13-14].

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sull’altro – induce comportamenti specifici. Vita pubblica e vita privata si confondono, rafforzando solidarietà, quotidiana commensalità, forme di promiscuità 30 e insieme esacerbando profondi rancori, ad ogni livello della scala sociale. Hodiosi, malivoli e suoi inimici sono, nelle parole di Pietro, i due fratelli tintori con i quali è venuto alle mani: abitano nella stessa contrada del Borgo Nuovo di Santa Maria, sono suoi vicini ; «per la conversazione della loro invidia (...) nacque il superbo isdegno tra Cerchi e Donati, che erano vicini in Firenze e in contado» racconta Giovanni Villani 31 .

Il vicinato guarda, osserva, ascolta (vidit, audivit, cognovit), dirige il complesso gioco delle voci, crea le reputazioni: ne troviamo efficace restituzione letteraria nella vicenda di Bartalo Sonaglini, il furbo mercante fiorentino che, preoccupato dell’imminente prestito forzoso che il comune si accingeva ad imporre per pagare la guerra con Giangaleazzo Visconi, ebbe l’idea geniale di mettersi sull’uscio di casa e, giorno dopo giorno, lamentare la propria rovina economica coi vicini finchè non fu creduto povero e pieno di debiti 32 . Accertamento della ricchezza a fini fiscali o giudiziari (per con

30 Nei testimoniali i numerosi riferimenti ai rapporti di vicinato che mostrano persone che dividono i pasti e bevono e parlano insieme ci dicono molto sul concetto di comunità e sulle consuetudini che cementavano tali rapporti: «vidit eos conversari ad invicem tamquam amicos et benivolos»; «vidit eos ad invicem conversari amicabiliter»; «vidit eos ad invicem conversare, comedere et bibere in domibus unius alterius»; «vidit ipsos amicari simul et unus ire in domo alterius et uti tamquam vicini»: ASS, Podestà 32, cc. 38r, 39v, 40r, 41v. Del resto, l’accusa a Pietro era falsa, ma del tutto verosimile era il contesto: doveva essere un fatto abbastanza naturale dividere spazi privati, compresa la camera da letto; per questo era credibile che una vicina, Buonafemmina, chiedesse all’altra, Paola, di trascorrere la notte con lei. 31 Giovanni Villani, Nuova Cronica, ed. G. Porta, Firenze 1990-91, IX, XXXIX. 32 « (...) Levandosi la mattina, scendeva all’uscio, e se passava alcuno, e quelli lo chiamava – e dicea: É sonata la campana della convocazione a consiglio? e tornava dentro. Dicea lo amico: Oh che vuol dire questo Bartolo? E quelli rispondea: Oimè, nel mio io son disfatto, perocché mandando mercanzia oltre mare, il mare me la tolse, e sonne rimaso disfatto; però ché per volere pur sostenere il mio onore, debbo dare a certi buona somma di moneta, [...] Dice colui: me n’encresce; e vassi con Dio. L’altra mattina qualunque passava, ed elli dicea, stando sull’uscio, un poco socchiuso, chiamando or l’uno or l’altro: o tale, è sonato a consiglio? e chi dicea siì, e chi dicea no. E tali diceano: oh .. che vuoi dire? Motteggi tu? E quelli rispondea: io non ho da motteggiare, e mi converrà delle due cose fare l’una a levarmi dal mondo o morire in prigione; e in questa maniera continuò più d’un mese, tantochè si ... cominciò a fare l’estimo.. Quando veniano alla partita di Bartolo, ciascuno dicea: egli è diserto, e guardasi per debito. E l’un dicea, É dice il vero, pure una di queste mattine non ardiva uscir di casa.. e l’altro dicea: e anco così disse a me; e l’altro dicea: egli è il vero come costoro dicono; una nave che andava a Torissi, secondochè mi ha detto, gli ha dato la mala ventura. Dice un altro. Egli è codesto, e anco sento, che uno gli ha dato la mala pasqua... E gli posono tanta prestanza quanta si porrebbe a uno miserabile o poco più»: Franco Sacchetti, Il Trecentonovelle, ed. D. Puccini, Torino 2004, nov. 148 (Bartolo Sonaglini con

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sentire esecuzioni di guasto o confisca dei beni): il vicinato funziona ed è riconosciuto dalle istituzioni come credibile interlocutore sovrapersonale 33 .

Strapotente corte della publica opinio, organizza l’insieme delle complicità, delle solidarietà e delle controsolidarietà, vigila, denunzia, censura, secondo protocolli consolidati. Basti pensare al ruolo affidato alla vicinanza dagli statuti societari e comunali: a Bologna, alla metà del Duecento, l’ammissione di un nuovo membro alla societas dei Lombardi, una delle 24 societates armate cittadine, era condizionata, fra le altre cose, al risultato dell’inchiesta che i ministrali della società avrebbero dovuto condurre, per statuto, sul richiedente, interrogando almeno quattro dei suoi vicini, appartenenti alla societas 34 ; a Modena, fine Duecento, i capitani delle cinquantine che formano i quartieri della città, sono tenuti a scegliere quattro vicini, «de melioribus», i quali debbano inquirere, se nella loro zona ci sono uomini «qui habeat famam vel suspictionem latronis vel fauctoris latronis vel receptatoris latronum vel qui vivat sine arte er redditu vel de quo sit suspitio vel presumptio latronis, vel qui vivat de rato» 35 ; a Lucca, nel 1308, è fra i vicini di ciascuna contrada, che si devono scegliere periodicamente quattro uomini bone fame, i cui nomi rimarranno segreti, che devono denunciare e registrare in scriptis tutte le persone, maggiori di 18 anni, male fame, ovvero malfattori, malviventi, giocatori 36 . A Perugia, in virtù della norma statutaria che determina per «homines vicinantie, vel contrate» obbligo di aiuto e soccorso per gli ufficiali comunali nel caso di malefici che si commettessero a Perugia o nel suo contado 37 , il Capitano del popolo può procedere contro tutta la vicinantia di tale Pietro di Giovanni Ildebrandini, vittima di un omicidio, dal momento che tutti i

una nuova e sottile astuzia fa sì che essendosi per porre molte gravezze, d’essere convenevolmente ricco è reputato poverissimo ed ègli posto una minima prestanza), pp. 402-404. 33 A Bologna è fra i vicini che il comune conduce indagini sui beni dei condannati per consentire al capitano del Popolo l’esecuzione dei provvedimenti di giustizia: Archivio di Stato di Bologna (da ora ASB), Comune, Capitano del Popolo, Giudici del Capitano del Popolo, 47 (anno 1283) passim; G. Fasoli, La legislazione antimagnatizia a Bologna fino al 1292, «Rivista di Storia del Diritto Italiano», 6 (1933), pp. 351-392: 387. 34 Statuti delle società del popolo di Bologna, ed. A. Gaudenzi, 3 voll, Roma 1889-1896, I, pp. 36-37 rubr. II, (anno 1291). 35 Il registrum comunis Mutine cit., pp. 211-217. 36 Statuto del comune di Lucca dell’anno MCCCVIII, edd. S. Bongi - L. Del Prete, Lucca 1867, rubr. CLI, p. 228. 37 La norma è in Statuto del comune di Perugia del 1279, ed. S. Caprioli, Perugia 1996, pp 310-11, cap 327: su questo vedi M. Sbriccoli, «Vidit communiter observari». L’emersione di un ordine penale pubblico nelle città italiane del secolo XIII, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 27 (1998), pp. 231-268: 265.

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vicini abitanti nelle venticinque case a destra e a sinistra della via, dove era stato commesso il reato, non aiutarono in alcun modo la vittima, nè catturarono il malfattore né lo denunziarono al podestà 38 .

Delazione, inquisizione, denuncia, ausilio alla giustizia comunale: il vicinato è un soggetto attivo della politica del controllo: soggetto ma anche oggetto, lo esercita, lo subisce.

É noto che, a partire dalla seconda metà del Duecento, l’offensiva dei regimi di Popolo, tesa ad ostacolare e reprimere i tentativi del ceto magnatizio di evadere la giurisdizione comunale, si unì ad una criminalizzazione di comportamenti devianti sanzionati da pene sempre più severe e da cogenti sistemi di controllo e di autodifesa 39 . La centralità della giustizia fu affermata a chiare note attraverso potenti vettori retorici e argomentativi che insistevano sulla necessità di liberare la città dai malfattori, di evitare tumulti e scandali, di far sì che i crimini non rimanessero impuniti. É in questo processo di rafforzamento della giustizia pubblica, nella crescente inclinazione di una «attitudine proattiva» degli apparati di giustizia che sempre più agiscono per garantire ordine pubblico, concordia civium e pax civitatis – come è stato ben messo in luce dalla storiografia – che deve collocarsi la funzione espansiva della fama 40 .

38 Traggo la notizia da Vallerani, Il sistema giudiziario cit., p. 202. 39 G. Milani, Il governo delle liste nel comune di Bologna. Premesse e genesi di un libro di proscrizione duecentesco, «Rivista Storica Italiana», 108 (1996), pp. 149-229; G. Milani, Dalla ritorsione al controllo. Elaborazione e applicazione del programma antighibellino a Bologna alla fine del Duecento, «Quaderni Storici», 94 (1997), pp. 43-74; Milani, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Roma 2003; Sbriccoli,«Vidit communiter observari» cit.; A. Zorzi, Politica e giustizia a Firenze al tempo degli Ordinamenti antimagnatizi, in Ordinamenti di giustizia Ordinamenti di giustizia fiorentini. Studi in occasione del VII centenario. Atti dell'incontro di studio organizzato dall'Archivio di Stato di Firenze, Firenze, 14 dicembre 1993, cur. V. Arrighi, Firenze 1995, pp. 105-147; Zorzi, Controle sociale, ordre public et répression judiciaire à Florence à l’époque communale: éléments et problémes, «Annales E.S.C», 45 (1990), pp. 1169-1188; Zorzi, Negoziazione penale, legittimazione giuridica e poteri urbani nell’Italia comunale, in Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, cur. M. Bellabarba - G. Schwerhoff - A. Zorzi, Bologna 2001, pp. 13-34; Sintesi con taglio didattico: R. Mucciarelli, Magnati e popolani. Un conflitto nell’Italia dei Comuni (secoli XIII-XIV), Milano 2009; A. Poloni, Potere al popolo. Conflitti sociali e lotte politiche nell’Italia comunale del Duecento, Milano 2010. 40 La declamazione della necessità della pena si coniuga con prassi punitive assai fluide e con un sistema-giustizia plastico che include una vasta gamma di soluzioni infragiudiziali: M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, p. 55 e seguenti. Sull’attitudine proattiva della giustizia, Sbriccoli, «Vidit communiter observari» cit., p. 246 (da cui la citazione nel testo).

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Le opportunità che offre in sede giudiziaria sono molteplici: incorporandosi in uno zoccolo normativo che, almeno nei tribunali toscani del XII secolo, assegnava già, alla communis opinio un alto valore probatorio in mancanza di prove certe, e su particolari materie 41 , una delle novità più rilevanti maturata in questo torno tempo fu la sua adozione come dispositivo per avviare un processo. Sotto precisi condizionamenti, la fama, come implicita e corale accusatio 42 mette in moto l’azione giudiziaria, sollecita podestà e capitano ad aprire un’inchiesta ex officio, procedura che come noto si era affermata nei tribunali cittadini come imitazione e rielaborazione di procedimenti ecclesiastici 43 .

Nella battaglia – la più nota tra quelle che il popolo intraprese – contro lo strapotere e le vessazioni di nobili e magnati, l’inquisitio ex officio rispondeva perfettamente alla difficoltà di trovare accusatori contro personaggi potenti: «timore ipsius magnatis, – denunciava lo statuto di Vicenza del 1264 – ipse [potestas] non possit habere [...] testes qui dicant veritatem in servicio suo» contemplando l’obbligo per il magistrato suo officio inquirere veritatem, affinchè «ea inventa bene et alte puniatur ipsum magnatem» 44 . Inoltre, nel contesto del duro disciplinamento penale, perseguito attraverso procedimenti di natura straordinaria che sancirono una riduzione della capacità giuridica dei magnati, individuati nei testi statutari «per famam» si stabilì l’accettazione, come prova giudiziaria piena, della semplice testimonianza de fama, da sola, o in aggiunta alla parola dell’offe

41 A Pisa ad es. il ricorso ad essa fu regolato molto severamente dai constituta. Alla fine del XII secolo la publica fama poteva essere usata solo nei casi relativi a eredità, naufragio, o quando la controversia si riferisse a fatti avvenuti da più di venti anni e non vi fossero, al riguardo, documenti o testimoni. Nel 1233 erano stati ormai aggiunti i casi riguardanti le doti, i feudi, e in seguito, la pirateria (Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, ed. F. Bonaini, 3 voll, Firenze, 1854-1870, II, pp. 696-697: 866). A Siena, nel 1262, la prova della pubblica fama era ammessa nei processi criminali, mancando altre prove, purchè fatta per mezzo di dieci testimoni buoni e legali approvati dal giudice del comune (Il Constituto del Comune di Siena dell’anno 1262, ed. L. Zdekauer, Milano 1897, V, 14). Ampio quadro esemplificativo in Wickham, Legge, pratiche cit. 42 Sbriccoli,«Vidit communiter observari» cit., p. 246. 43 Sul ruolo fondamentale svolto da Innocenzo III nel promuovere il ruolo della fama denunciante vedi J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XII e -XIV e siècle), in La preuve en justice de l’antiquité à nos jours, cur. B. Lemesle, Rennes 2002, pp. 119-147. M. Vallerani, I fatti nella logica del processo medievale. Note introduttive, «Quaderni storici», 108 (2001), pp. 665-693: 679- 680; Vallerani, La giustizia pubblica cit., pp. 34 ss. 44 La citazione, tratta dagli Statuti del comune di Vicenza, è in Vallerani, La giustizia pubblica cit., pp. 72-73.

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so, in tutti i reati commessi dai magnati contro i popolari 45 : dovette essere un colpo durissimo per i grandi ai quali la norma doveva pesare particolarmente se a Firenze, nel luglio 1295, raccontano i cronisti, vedendosi così gravati dagli Ordini di Giustizia, «e massimamente di quell’ordine che [...] lla pruova della piuvica fama fosse per due testimoni», i grandi insorsero, costringendo il governo a rivedere la legge ed alzare la soglia 46 .

La politica del controllo e del disciplinamento aveva un raggio d’azione ben più ampio dei confini tracciati dallo status magnatizio-nobiliare: perché se per un verso magnati, ribelli, ghibellini, gente sospetta di qualsiasi tipo, era sottoposta a un regime di speciale sorveglianza, dall’altro il sistema – che incardinava, sollecitava quando non inchiodava la popolazione ad un ruolo attivo, sia nella vigilanza, sia nella denuncia in alcuni casi sotto la sanzione di pene pecuniarie più spesso sotto la garanzia di una ricompensa grazie all’assegnazione di metà della pena 47 – imponendo alla

45 Ordinamenti di Giustizia: DE PENIS IMPOSITIS ET ORDINATIS CONTRA MAGNATES OFFENDENTES POPULARES , rub. V: «et sufficiat probatio in predictis omnibus et quolibet predictorum contra ipsos magnates facientes et fieri facentes, et quemlibet ipsorum, maleficia supradicta vel aliquod eorum per testes probantes de publica fama et per sacramentum offensi si viveret.. » (1293): Ordinamenti di Giustizia, edd. F. Cardini - P. Pastori, Firenze 1993, pp. 49-55: 51. Nella redazione posteriore (1292-1324), si legge: «e basti la pruova in tutte le predette cose e ciascuna de le predette [...] a la perfine di tre testimoni che provassono di piuvica fama e per lo saramento di colui che fosse offeso, se vivesse [...] con ciò sia cosa che non siano ammessi a provare la detta fama alcuni de la casa di colui che avesse sostenuto la ‘ngiuria nè nimici di colui lo quale si dicesse ch’avesse offeso»: il testo degli Ordinamenti di giustizia in volgare è in P. Emiliani-Giudici, Storia politica dei municipi italiani, Firenze 1851, III-IV, pp. 303-426, la rubrica citata è la numero IV, p. 325. A Parma lo statuto ordina al podestà di punire «si sola vox et fama fuerit contra talem magnatem nobilem vel potentem quod hoc fecerit» citato in Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia cit., p. 258. Anche a Lucca ogni maleficio commesso contro gli uomini delle societates si riteneva provato legittimamente (probatus legitime) da un teste de visu o due de fama «dicentes quod inde sit publica fama»: Statuto del comune di Lucca cit., rub. CLXII, pp. 234-237. 46 «A dì VI del mese di luglio, l’anno MCCLXXXXV, i grandi e possenti della città di Firenze veggendosi forte gravati di nuovi ordini de la giustizia fatti per lo popolo, e massimamente di quello ordine che dice l’uno consorto sia tenuto per l’altro, e che lla pruova della piuvica fama fosse per due testimoni; e avendo in sul priorato di loro amici, sì procacciarono di rompere gli ordini del popolo [...]. Il popolo avrebbe potuto vincere i grandi, ma per lo migliore e per non fare battaglia cittadinesca, avendo alcuno mezzo di frati di buona gente dall’una parte a l’altra, ciascuna parte si disarmò, e la cittade si racquetò sanza altra novità, rimagnendo il popolo in suo stato e signoria, salvo che, dove la pruova de la piuvica fama era per II testimoni, si mise fossono per III; e ciò feciono i priori contra volontà de’ popolani [...]»: Villani, Nuova Cronica cit., IX, XII, p. 29. 47 Ad esempio a Bologna la revisione a cui furono sottoposti gli Ordinamenti Sacrati nel 1284 riguardò proprio questo aspetto: l’esortazione alle accuse e i guadagni che si prospet

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stessa popolazione un modello di comportamento irreprensibile che additava nel civis legalis et bone fame il cittadino ideale 48 , faceva dell’organismo civico, sotto la doppia pressione del modello e del controllo, un insieme di persone costantemente sotto ricatto, costantemente minacciate e sottoposte al giudizio di una società fatta di occhi, di lingue, di orecchie. Occhi, orecchie, bocche, che tutto vedono, tutto sentono, tutto dicono: chiunque scorra le escussioni di testimoni si renderà conto che non c’è aspetto della vita pubblica o privata di un individuo che non sia oggetto di osservazione: la povertà, la ricchezza, l’inimicizia, l’infedeltà, i rapporti di parentela, la salute e la malattia, l’appartenenza faziosa, le abitudini di vita, le infrazioni alle regole, le frequentazioni, le attività professionali: tutto è esposto e sottoposto allo sguardo del tribunale giudicante che è la collettività.

Meglio perder la pecunia, che sottrarre alcuna cosa alla buona fama

La fama/reputazione dell’individuo vive sul filo di un equilibrio molto instabile, molto precario; precarietà tanto più avvertita quanto più alta la coscienza del suo valore di scambio, quanto più volubile e mobile la congiuntura. La (buona) reputazione è una moneta che si spende in società, negli affari, in tribunale, nel matrimonio, una moneta che va custodita con cura: lo sanno bene le donne, per le quali costituisce l’unico vero ornamento che possono esibire in società, dote precipua in grado di modificare persino la destinazione sociale: Jacopo da Varazze, – e con lui molta ideologia matrimoniale del XIII secolo – giudica irreprensibile quella moglie che non ha nessuna macchia nella vita, nella fama, nella coscienza. Nel suo discorso fama e coscienza si incastrano in un abile e raffinato gioco di specchi che fa rimbalzare di continuo il problema dell’irreprensibilità della sposa dall’interno – la sua anima, la sua coscienza – all’esterno dell’imma

tavano per l’accusatore stravolgevano lo strumento giudiziario. Così fu coinvolto il podestà che aveva ampio potere di decidere in merito a quelle accuse che per publicam famam fossero considerate false, di punire l’accusato: S. Menzinger, Giuristi e politica nei comuni di Popolo. Siena, Perugia e Bologna, tre governi a confronto, Roma 2006, pp. 246-247. 48 I requisiti richiesti per l’ammissione negli organismi di Popolo a metà del secolo XIII offrono già un chiaro identikit del popolano idealtipo: vedi ad esempio le norme contenute negli Statuti della Società dei Lombardi, in Statuti delle società del popolo di Bologna cit., I, rub. II, pp. 36-37. Sul tema: A. Poloni, Fisionomia sociale e identità politica dei gruppi dirigenti popolari nella seconda metà del Duecento. Spunti per una riflessione su un tema classico della storiografia comunalistica italiana, «Società e Storia», 110 (2005), pp. 799-821; A. Poloni, Disciplinare la società. Un esperimento di potere nei maggiori comuni di Popolo tra Due e Trecento, «Scienza&Politica», 37 (2007), pp. 33-62.

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ROBERTA MUCCIARELLI

gine pubblica, dove una vischiosa rete di concetti riguardanti l’onore, la reputazione e il loro associarsi alla sessualità esercitava un potere disciplinante di importanza cruciale 49 .

Il mercante-cambiatore Oberto, uomo di «tanta lealtade», protagonista di una parabola del Liber scaccorum composto a fine Duecento dal domenicano Jacopo da Cessole, di fronte alla voce infamante che falsamente lo accusa, preferisce sacrificare il suo denaro piuttosto che subire gli effetti devastanti del discredito che, inevitabilmente, quella voce, avrebbe originato 50 : taci, taci, dice al suo detrattore, ben sapendo quello che sapeva un modesto contadino, abitante in una piccola comunità della Valdorcia senese: una volta partita, una volta messa in moto la vox, non c’è più verso di fermarla («quando homo incipit dicere aliquid et postea illud dicitur ab uno et ab alio»). Voci che si impongono, voci irresistibili: lunghe catene di trasmissione di un sapere indistinto ma attivo che compongono il tracciato potente, assertivo e tenace della fama : «quando homines dicunt aliis res ita est» 51 . Nel corso del Duecento buona parte del rinnovato interesse destato dal peccato della detractio (parola che sottrae, diminuisce, deforma, distrugge la fama del prossimo) può essere ricondotto proprio alla necessità di garantire una corretta ed ordinata gestione della parola dive

49 S. Vecchio, La buona moglie, in Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch- Zuber, Roma-Bari 1990, pp. 129-165. Per una analisi spostata cronologicamente: G. Ruggiero, «Più che la vita caro»: onore, matrimonio e reputazione femminile nel tardo Rinascimento, «Quaderni Storici», 66 (1987), pp. 753-776. 50 Jacopo da Cessole, nativo di Piccardia, compose a fine Duecento un Liber de moribus hominum et officiis nobilium super ludo scaccorum che ottenne un certo successo all’epoca e fu volgarizzato, probabilmente in ambiente toscano, nel corso del secolo successivo, da cui cito: Volgarizzamento del libro de’ costumi e degli offizii de’ nobili sopra il giuoco degli scacchi di frate Jacopo da Cessole, Milano 1829, pp. 89-90: «A Genova fue uno mercatante cambiatore, il quale ebbe nome Oberto, natìo d’Asti; questi fue uomo di tanta lealtade che affermando alcuno falsamente d’avere fatto uno deposito appo lui di CC fiorini d’oro, et egli non trovando di ciò scritta veruna in sul libro della ragione, sì come non dovea; né quello bugiardo inducendo sopra ciò testimonio alcuno, e’l mercatante lealissimo pur dicendo che quello deposito non avea ricevuto, vedendo il detto Oberto che quello rio uomo volle gridare, sì ‘l chiamoe incontanente e disse: taci, figliuolo, e prendi CC fiorini d’oro, che tu di’ che diponesti appo me; et incontanente gli annoverò la detta pecunia; sì che volle anzi perdere la pecunia ingiustamente, che sottrarre alcuna cosa alla sua buona fama». 51 Le definizioni tratte dalle testimonianze edite in Mucciarelli, La terra cit., p. 91 (Orlandinus Marchi) e p. 139 (Bectus Bonifatii). Per una analisi della morfologia sociale delle voci, vere o presunte, nei contesti di antico regime e contemporanei si veda il numero monografico di «Quaderni Storici», 121 (2006), dedicato a Voci, notizie, istituzioni, cur. B. Borello - D. Rizzo; la vox della collettività, come sapere collettivo: C. Wickham, Gossip and Resistance among the Medieval Peasantry, «Past and Present», 160 (1998), pp. 3-24.

BISOGNA ESSERE MOLTO PRUDENTI CON LE VOCI

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nuta in una società sempre più stratificata e complessa elemento costituivo e propulsore del vivere sociale 52 .

La reputazione, la buona reputazione, non è data. «Qui bonis moribus se gubernat, bonam famam acquirit». La persona che si conduce bene nella sua comunità guadagna una buona fama, scrive un giudice-giurista del calibro di Alberto da Gandino (1260-1310), diventa cioè, dilectus civitatis 53 : non basta essere cives, occorre essere boni cives secondo una nozione in cui convergono e perfettamente si compenetrano stile di vita e fisionomia sociale. L’iscrizione alla corporazione, la partecipazione alla vita politica, la credibilità negli affari, la dirittura morale (non bestemmia, non è dedito al gioco d’azzardo, non commette furti, non alimenta zizzagna, divisioni e disordini) sono tutti robusti segni di un felice identikit del civis quale viene definito dall’infittirsi di norme e divieti, che negli statuti delineano chiaramente i comportamenti, ai quali deve tendere e attenersi l’individuo. La stigmatizzazione e la carica di violenza impiegata contro bestemmiatori, sodomiti, giocatori d’azzardo, ruffiani, prostitute, e in generale contro tutti gli homines male fame che popolano quel regno dell’abisso cui ha dedicato riflessioni di ampio spessore Giacomo Todeschini, tracciano un netta linea di demarcazione tra la cittadinanza e le sue proiezioni negative; esse hanno la funzione, attraverso il ricatto del rovescio, di sostenere e mantenere il modello positivo che proprio dall’incontro con il suo doppio, incarnato in figure prive di diritti, maschere senza volto – riceverà forza e concretezza 54 .

Pietro, per tornare al processo con cui si apre questa comunicazione, come ogni individuo, è immerso in un campo politico, di cui ho schematicamente offerto alcune coordinate. I rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, lo investono. Quando Pietro si presentò davanti al giudice, prima come accusato e poi come accusatore, forse sapeva bene che il problema per il giudice non era tanto o non era affatto stabilire la verità del fatto: la meccanica giudiziaria – non solo qui, il dato appare comune a molte realtà europee – aveva ormai affidato un ruolo propulsore alla fama/reputazione degli individui che era riuscita ad imporsi sulla

52 C. Casagrande - S. Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Roma 1987. 53 Per Gandino si rinvia naturalmente all’analisi svolta da Vallerani, Giustizia pubblica cit., p. 97 (da cui traggo la citazione). 54 G. Todeschini, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007; vedi anche Vallerani, La fama nel processo cit., p. 105. Ampia rassegna delle norme statutarie che definiscono la marginalità giudiziaria degli infami: Vallerani, Giustizia pubblica cit., p. 50 e note pp. 70 ss.

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