Vol 14 (1957 1959) 1 376

Page 1






OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO

SECONDA SERIE

SAGGI-DISCORSI-ARTICOLI VOLUME XIV

O Proprietà letteraria riservata

Istituto Luigi Sturzo Gangemi Editore Piazza San Pantaleo 4. Roma Nessuna parte di questa pubblicazione può essere memorizzata, fotocopiata o comunque riprodotta senza le dovute autorizzazioni; chiunque favorisca questa pratica commette un illecito perseguibile a normadi legge.

ISBN 88-7448-841-6


LUIGI STURZO

POLITICA DI QUESTI ANNI CONSENSI E CRITICHE (Dal gennaio 1957 allagosto 1959)

A nlra di

Concetta Argiolas

Con introduzione di

Gabriele De Rosa

PRIMA EDIZIONE ITALIANA

GANGEMI EDITORE


PIANO DELL'OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL'ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMASERIE: OPERE I I1 111 IV

- L'Italia e il fascismo (1926).

V-VI VI1 VI11

- ChiesaeStato(I939). - La Vera vita. - Sociologia del soprannaturale (1943). - L'Italia e l'ordine internazionale (1944).

IX X XI N1

-

- La comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). - La società: sua natura e leggi (1935).

- Politica e morale (1938). - Coscienza e politica. Note e suggerimenti di politica pratica (1953).

Problemi spirituali del nostro tempo (1945). Nazionalismo e internazionalismo (1946). La Regione nella Nazione (1949). Del metodo sociologico (1950). - Studi e polemiche di sociologia (1933-1 958).

SERIE: SAGGI - DISCORSI - ARTICOLI SECONDA

I

- L'inizio della Democrazia in Italia. -Unioni professionali. - Sintesi sociali

II 111

- Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-191 5). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (19 15-191 8). - I1 parcito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). - Riforma statale e indirizzi

IV V

- Il partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). - I1 partito popolare italiano: Pensiero antifascista (1924-1925).

(1900-1 906).

politici (1920-1 922).

VI VI1 VI11

- La libertà in Italia (1925). -Scritti critici e bibliografici (1923-1926). - Miscellanea londinese (1926-1 940). - Miscellanea americana (1940-1945).

- La mia battaglia da New York (1943-1946). IX-XiV- Politica di questi anni. - Consensi e critiche (1946-1959).

TERZA SERIE: SCRIITI VARI I

- I1 ciclo della creazione (poema drammatico in quamo azioni).

II 111 IV

-Versi. - Scritti di letteratura e di arte. - Scritti religiosi e morali. - Scritti giuridici. - Epistolario scelto.

V VI VI1

1. Lettere a Giuseppe Spataro (1 922-1959). 2. Carteggio L. Scurzo - M. Scelba (1923-1956). - Scritti storico-politici (1 926-1949). - La mafia. - Bibliografia. -Indici.


AVVERTENZA

Prosegue e si conclude con questo volume dell'opera Omnia di Luigi Sturzo la raccolta degli articoli giornalistici pubblicati dal sacerdote di Caltagirone negli anni 1957,1958 e 1959. Oltre agli articoli comparsi sui quotidiani nazionali e locali, tra i quali spicca «Il Giornale d'Italia», sono stati inseriti, per completezza ed in considerazione dell'importanza degli argomenti trattati, anche gli articoli che Sturzo pubblicò in quegli stessi anni su riviste specializzate come «Il Diritto dell'Economia», «Orizzonti», «Sociologia»e ((L'Annuariodel parroco)). Fra i 203 testi sono compresi inoltre i messaggi e le lettere inviati da Sturzo in occasione di convegni, congressi o incontri di studio, di cui non sempre la stampa diede notizia; tale scelta è stata dettata dal desiderio di rimanere in linea con quanto a suo tempo predisposto dallo stesso Sturzo per la pubblicazione dei suoi scritti, tra i quali è stato compreso e conservato, infatti, anche questo tipo di materiale. Tutti gli scritti sono presentati in ordine cronologico, per data di pubblicazione, e sono stati riprodotti fedelmente dagli originali; ogni difformità di gafia o di punteggiatura è pertanto addebitabile a tale scelta. Alla fine di ogni articolo sono stati indicati il nome della testata sulla quale fu pubblicato per la prima volta e la relativa data di pubblicazione. In rari casi, da noi segnalati come dattiloscritti, non è stato possibile precisare la testata e quindi la data di pubblicazione, mancando tali indicazioni tra le carte di Luigi Sturzo ed avendo riportato esito negativo i successivi controlli effettuati sui quotidiani e sui periodici nazionali e locali sui quali egli era solito pubblicare. Non 2 escluso, dunque, che tali scritti acquistino oggi valore di inediti. Infine, nelle note a pie' di pagina sono state riprodotte alcune lettere scritte da Sturzo in merito agli argomenti trattati nei suoi articoli; per meglio comprendere il clima di acceso dibattito provocato dall'intensa attività pubblicistica di Sturzo si è deciso di pubblicare anche alcune significative lettere di consensi o critiche inviate dai suoi lettori di quegli anni. Tutte le lettere riprodotte in nota sono inedite e provengono dall'Archivio Luigi Sturzo (A.L.S.); per ognuna di esse sono state segnalate le collocazioni archivistiche, che sono tuttavia da considerarsi prowisorie, essendo il suddetto fondo in fase di ordinamento. Concetta Argiolas



Introduzione

1. Ultimo volume degli articoli di Luigi Sturzo deiia serie "Politica di questi anni (19571959) ",dell'Opera Omnia, poco più di due anni e mezzo, con 203 scritti, una media di circa quattro interventi a settimana; un dato che da solo ci dice deli'intensità del lavoro del Nostro; stupefacente se si considera l'età di Sturzo, allora, fra 86 e 89 anni con un fisico, a vederlo, fragile, lieve. La sua salute, delicatissima, fra suore e medici, era sorvegliata al punto che sembrava vivesse sotto una campana di vetro, con un vitto centellinato, misurato granimo. Se poi aggiungiamo la nutrita e variatissima corrispondenza, alla quale attendeva assiduamente ogni giorno, con ogni sorta di umanità, intellettuali didiversa condizione e ruolo, politici e managers, vecchi e nuovi amici, degli anni siciliani, del PPI, dell'esilio, gente semplice, postulanti o curiosi, per una firma, per un grazie; anche uomini di curia e di governo, si ha un'idea di quale fosse la sua giornata. L'accesso al suo studiolo semplice, disadorno, era scrupolosamente amministrato da Suor Candida, che dava al visitatore il tempo, la durata della conversazione. Le sue rubriche telefoniche e degli appuntamenti serali, fitte di nomi, sono la fotografia di questa sua giornata movimentata, durante la quale si addensavano problemi, questioni, domande di una stagione politica, in continuo fermento, culturalmente vivace, creativa, attraversata da forti, grandiose p%sioni che accompagnavano la ricerca di una nuova realtà costituzionale, costruita sulla riconquistata libertà, aperta al futuro. Stagione di grandi e accesi dibattiti, nella quale prendeva forma finalmente uno Stato tutto da inventare, da organizzare e articolare i n una società scardinata, sconvolta dai disordine di una guerra, che aveva seminato odi, dilacerazionidelia coscienza nazionale, violenze, vendette e orrori spesso decretati da tribunali privati, fàziosi e crudeli.

2. Gli scritti che Sturzo ha dedicato alle riforme istiruzionalj, alle leggi elettorali, alla riforma delle Regioni, al rapporto dei partiti con lo Stato, alla mano pubblica e al sistema del controllato-controllore, alla moralizzazione della vita pubblica, ai monopoli pubblici e privati, alla politica economica e alla gestione delle partecipazioni statali occupano migliaia e migliaia di pagine, senza contare che molti di questi temi sono il coerente sviluppo di un pensiero, come ha scritto lo stesso Sturzo, che risale alle sue prime battaglie amministrative nel Mezzogiorno, agli anni 1897-98, da lui stesso citate più volte, anche negli scritti qui raccolti. Rivendicava fermamente l'originalità della sua battaglia contro la voce facile e corrente che era diventato antistatalista durante il soggiorno negli USA. Una leggenda di comodo, che tendeva a mettere in contrasto lo Sturzo antistatalista con lo Sturzo delle lotte contadine in Sicilia, organizzatore di casse rurali e della cooperazione, la sua lotta contro il latifondo e per la riappropriazione degli usurpi delle terre demaniali effettuati ai danni délla comunità'. Municipalista di ferro, Sturzo, attentissimo alla lezione dei-~ascisiciiiani,

'

Rinvio a due libri recenti, Urnberto Chiararnonre, il mrrnic;Pafismodi Luigi S t u m . Pro-sindaco di Caltagirone (1899-1920). Morcelliana, Brescia 1992; Oscar Gaspari, L italul dn Munit-tpi Domdi, Roma 1798.


nutriva la massima diffidenza verso lo Stato interventista, una minaccia per il Comune, visto e vissuto - rubo l'espressione a Sabino Cassese -come "forza creatrice del diritto esistente in periferia". Lo Stato - affermò Sturzo nel 1905 - "non può sostituirsi ai Comuni, perché il meridionale conosce solo uno Stato corruttore, uno Stato politico, uno Stato analfabeta". La verità era ed è, dunque, che la radice dell'antistatalismo sturziano andava ricercata nell'esperienza attiva, ma anche culturale, della più rigorosa tradizione meridionalista, da lui vissuta, ripensata e arricchita con l'esperienza del PPI, con il programma dei "liberi e forti", di quel nuovo e singolare partito, il solo nel quadro europeo, promosso da cattolici, ma non cattolico, anzi, dichiaratamente "aconfessionale", come I'avrebbe voluto Rosmini il quale - ricordava Antonio Fogazzaro - si era interdetto "di indicare la fede religiosa fra le condizioni della eleggibilità politican2. La sua storia, la storia di questo popolarismo - non potrei dirlo meglio di come ha scritto Gianni Zen - "non comincia dal centro, dai vertici, dallo Stato, ma dalla terra, dai municipi, dal locale, dalla periferig3, in altre parole il PPI prese le mosse dalla società civile, prima di entrare nella società politica. Dunque, la diffidenza verso lo Stato interventista aveva in Sturzo due antiche componenti che si intrecciavano strettamente: il suo meridionalismo, che faceva perno neua difesa delle autonomie, del governo amministrativo dei Comuni e nella riforma agraria; la seconda componente, teorica e operativa insieme, era nell'idea di uno Stato libero e garante dei diritti collettivi e privati, lontano dall'immagine dello Stato-prov~ i d e n z adello , Stato produttore economico, dello Stato interventista, se non nei casi in cui si fosse rawisata la necessità di una integrazione pubblica nei settori di interesse sociale e generale, nei quali l'iniziativa privata era deficiente. Riforma burocratica e organizzazione regionalista dello Stato costituivano, infine, la parte costruttiva del suo programma politico fin dal 1919.

3. Gli anni Trenta poi, che Sturzo visse tra Londra e Parigi, con un tormento senza fine per I'inarrestabile emergere del totalitarismo di massa, di destra e di sinistra, coniugato alla potenza della macchina militare e al culto autoreferenziale del mondo della tecnica, gli fecero temere per la sorte stessa della civiltà. L'intera tradizione del costituzionalismo liberale, dal 1848 a Weimar, gli sembrò compromessa, resa negoziabile, cedibile nel patto scellerato con il dittatore, e prima di esso vide in pericolo i fondamenti, l'essenza stessa del cristianesimo, su cui si era costruita nei secoli l'Europa, tanto da augurarsi, alla fine della guerra, per tutti i popoli un bagno nel francescanesimo, a spegnere tutti gli orgoche lo vide in prima linea con Magli e le superbie idolatriche del Potere. Q~ell'es~erienza, ritain e Bernanos, a denunciare i rischi mortali per le democrazie, conferiscono all'antistatalismo sturziano la forza e lo sgomento insieme di un triste presagio owero di una colpa per ogni gigantismo statalistico, coperto o nascosto dal manto di un riformismo tutto assistenzialista e prowidenzialista, favorito dal dilatarsi di un funzionalismo pubblico, benefattore e dispensatore di grazie ai vari clientelismi di partito e ai compiacenti monopoli pri-

*

A. Fogazzaro, La figura di Antonio Rosmini, in Pro A. Rosmini nel primo centenario &/la sua nascita, 24 marzo parte I, Milano, 1897, poi in A. Fogazzaro, Discorsi, Milano 1898, pag. 224. Continua I'arricolo di Zen: "11 Parrito nasce come interprete di una società, di un mondo cattolico, che oggi non esiste più. Il I'artito nasce quindi dai bisogni, dalle sofferenze del quoridiano, dalla richiesta di una d o mocrarica rappresenranza politica per chi non ha voce. Ecco il municipalismo, I'antisratalismo t...), la teoria d o gli enti inrermedi, la dialetrica sussidiaria - solidarierà, la lotta al h r o solidarismo assisrenzialista come ai narcisismo individualista". Gianni Zen, Quei richiami infondati a Luigi Stnrw, in "Il I'opolo", 16 luglio 1998, p.2.


vati. Di qui il tono alto, polemico, liquidatorio di molti suoi scritti, anche quando certi "distinguo" sarebbero stati necessari, tenendo conto che la nascita e il formarsi di una imprenditorialità di Stato, nella fattispecie I'IRI, era da collegarsi alla crisi economica del primo dopoguerra, alla concezione di un intervento integrativo e sussidiario dello Stato nei settori in cui il collasso della banca mista avrebbe potuto provocare devastazioni amplissime. Beneduce, Menichella, Saraceno non erano statalisti; Sturzo l'ammetteva, però li redarguiva come "statolatri", il che non era nemmeno giusto. Ma quel che vedeva Sturzo, e lo si legge in questi scritti, il possibile trasformarsi dell'interventismo pubblico in economia in un veicolo del socialcomunismo, non gli consentiva indulgenze, correzioni, ripensamenti. Non ci fu ombra di keynesismo nei suoi convincimenti economici, nemmeno con l'aiuto di San Tommaso. La sua ricetta per il Mezzogiorno era molto semplice, forse utopica, certo opposta non solo alla pratica del trasformismo, come combinazione di interessi fra burocrazia locale e nazionale e partiti, ma anche alla nascita di "cattedrali nel deserto"; la sua scelta era per le agevolazioni creditizie, meno fiscalismo, incentivi per la imprenditorialità piccola e media, cooperazione in ogni campo, ristrutturazione viaria per agevolare e rendere meno costosi i trasporti, una impegnativa e rigorosa politica forestale, per contenere lo sfascio idrogeologico, valorizzazione e modernizzazione delle amministrazioni locali, autonomia scolastica, così di seguito. I suoi discorsi, nei quali affiorava molto spesso l'antica ira per il sonno, gestito anche dall'alto, di un Sud contemplativo, consentivano rarissime pause, come quando scrisse dei cari alberi delle sue terre e dei boschi dilapidati o anche - fra gli ultimi articoli - quando si chiese perché non si imparasse nelle scuole, come si imparano le poesie, l'inno alla carità di San Paolo. Così dialogo non ci fu con i suoi amici DC o fu molto tenue, quando ingaggiò per tempo la battaglia sulla partitocrazia, "la malattia che mina la democrazia attuale", lo scrisse già nel 1951. Altre realtà rendevano difficile un passaggio rapido, un vero e proprio salto di qualità da una società "protetta", vigilata, corporativizzata, come era la nostra società durante il ventenni0 del regime fascista, a una società liberal-riformista, decentrata, sburocratizzata, con larghe autonomie, come era nel pensiero di Sturzo. Alcuni effetti poi storici-politici delle alleanze di guerra si fecero sentire nelle scelte della classe politica: la legittimazione di fatto, mondiale, derivata dai trattati della guerra antihitleriana, di una presenza comunista anche in Italia, la sua larga base popolare che si estendeva, penetrava anche nel mondo delle parrocchie; un ceto medio affezionato ai modi protettivi della mano pubblica, non formato né minimamente educato ai rigori dell'autodisciplina; una burocrazia resistente che aveva rafforzato come non mai i suoi poteri negli anni delle grandi riforme previdenziali del fascismo e delle gestioni corporative, ancora in grado alla fine della guerra di contenere e raffreddare ogni progetto sistematico di riforma, costituivano l'intricatissimo banco di prova per la politica di D e Gasperi e dei suoi collaboratori. iMediare, assumersi il ruolo di partito di centro, in queste condizioni, in una fase oggettivamente rivoluzionaria rispetto al passato, con una Chiesa, culturalmente scoperta rispetto alla sconvolgente novità di un mondo-nemico, che irrompeva oltre i confini del Silkzbo, con un Paese, infine, che non aveva più nulla del colore e del calore di casa comune, che fu del decennio giolittiano, essendo divenuta terra di confronto e di agonismi visibili e invisibili di interessi strategici mondiali; mediare, dunque, tenendo la giustizia in alto, al di fuori delle rabbie ideologiche e di classe, progredire conservando le garanzie civili e politiche della tradizione democratica-liberale; mediare, in conclusione, sull'assillo di tali condizionamenti fu la grande impresa di Alcide De Gasperi. Tanto più grande perché il suo partito fu il meno partito, il meno ideologico fra tutti i partiti una volta ciel-


lenisti, "una sorta di confederazione socio-partitica"4, variatissima nella stuttura del consenso, a servizio della prima politica italiana che possa dirsi, dopo quella di Cavour, di respiro europeo.

4. Sturzo ha sempre riconosciuto alla DC non solo il ruolo di partito di centro, ma anche I'obbligo di svolgerlo ovvero "di compiere pienamente la sua funzione di centro parlamentare e interclassista e mantenere allo stesso tempo la direttiva del governo dello Stato". Anche nei momenti più aspri delle critiche e delle polemiche contro le scelte o gli orientamenti, che riteneva sbagliati, dei dirigenti, degli uomini di governo ed esponenti del partito, non dimenticò mai il ruolo positivo della DC nella ricostruzione del Paese: "Giustizia vuole - scriveva il 28 marzo 1957 - che si riconosca quella che fu la funzione della DC, come elemento mediatore e temperatore dei gravi risentimenti sia per la guerra perduta e le dolorose conseguenze di guerra che colpivano esponenti del regime passato, sia i risentimenti e le aspirazioni incomposte delle forze irrompenti del socialismo e del comunismo. Tale funzione mediatrice fu attuata anche presso le autorità politiche e militari alleate di fronte alla reciproca diffidenza e alla volontà di ridurre l'Italia ad una condizione intollerabile di umiliazione e di isolamento". Per Sturzo il quinquennio 1944-1948 era stato il periodo migliore della DC, quello che aveva segnato il passaggio dallo stato di guerra alla normalità legale, dalla monarchia alla repubblica, dalla collaborazione ciellenista al governo dei partiti. In questo periodo scriveva Sturzo - "il presidente De Gasperi emerse per la sua abilità e moderazione, ottenne nel 1948 la fiducia della maggioranza degli italiani e allo stesso tempo conquistò una certa fiducia anche presso le nazioni alleate, principalmente dal Governo americano". Non che fosse venuta meno per il periodo successivo la "funzione mediatrice della DC", ma riteneva che essa non avrebbe avuto più il "serio sviluppo" che era nelle scelte e nelle modalità della politica degasperiana: il che era awenuto perché i "problemi pratici della ricostruzione", quelli economici, "con i relativi aspetti sociali", in primi~la disoccupazione, avevano preso il soprawento sugli altri problemi dell'attuazione degli istituti fondamentali della Costituzione: "Nella congerie dei provvedimenti si trovò facile via ad un crescente interventismo statale con un conseguente e irrefrenabile sperpero per I'erario". Ecco la prima bestia, lo statalismo, una bestia "enorme" che Sturzo individuò nel cammino verso la democrazia: un lungo cammino, che egli autobiograficamente datava dal 1897, da quando decise di impegnare il movimento cattolico a Caltagirone per la conquista del Comune, contro "il sistema delle vecchie consorterie". "È questa una di quelle bestie - così la descrisse in uno dei suoi ultimi articoli (21 giugno 1959), a meno di due mesi dalla morte - che si traveste e trasmuta in modo da non farsi riconoscere. Spesso si fa credere bestia domestica molto utile, come la vacca, il cavallo, il cane; perfino come il gatto quando dà caccia ai topi, non quando va in cucina a rubare i polli e il formaggio". Questa bestia, lo statalismo, era per Sturzo come un cancro, si riproduceva e diffondeva nel corpo dello Stato attraverso tante metastasi: vi era uno statalisrno degli enti statali e parastatali, vi era anche quello degli enti locali, regionali e provinciali. Ma poiché la bestia dello statalismo non va mai sola, Sturzo indicava la seconda bestia che incontrò nel cammino verso la democrazia, la partitocrazia, che si insinuò nelle fibre del nostro Stato fin dalla fondazione, sino a dilatarsi nelle forme mostruose dello Stato fascista, passate poi in eredità allo Stato repubblicano, post-fa-

"nrico

X

Nassi, Alride De Gasperi: lirtopia &lcentro, Giunri, Firenze 1997, p. 280.


scista. La connessione fra statalismo e partitocrazia era così vista da Sturzo: "Lo statalismo è largamente promosso e favorito dai partiti, essendo queste associazioni di fatto senza responsabilità legale, più facilmente operano attraverso la conquista di posti quanto più numerosi (gli enti si moltiplicano a centinaia e si contano a migliaia) (...) ". Ma non era il partito come tale - e la precisazione era importante per Sturzo - "responsabile della degenerazione collettiva che investe la vita pubblica italiana (e non solamente in Italia); è lapartitorrazia, ci06 il proposito di imporre le finalità e i metodi di un'associazione politica di lotta al sistema governativo, parlamentare e presidenziale della democrazia". Attentissimo Sturzo a non eccedere, con il discorso sulla partitocrazia, a non scivolare verso le polemiche antipartitiche. In un passo, che richiama toni alla Tocqueville, Sturzo ammoniva: "A coloro fra i nostri, che si lamentano delle troppe dispute e le troppe discussioni fra i partiti, delle ambizioni dei capi, dei debordamenti ai limiti costituzionali dei vari organi del potere statale, debbo in questa sede rispondere che gli inconvenienti alla libertà sono compensati ad usura dai vantaggi che essa reca, tanto in via assoluta, quanto in confronto di quel che succede nel mondo delle dittature, di tutte le dittature". Strutturalmente legate alle insidie e ai pericoli della partitocrazia, furono le due proposte di legge di Sturzo: riconoscimento giuridico dei partiti e divieto a essi di "accettare contributi di ministeri, enti e gestioni statali", di banche di diritto pubblico, di cooperative, consorzi e "di ogni altra gestione autonoma, statale e non statale". L'assenza di quel "divieto" favorì il clima delle reciproche impunità, delle solidarietà taciute fra i partiti sulle fonti di finanziamento, preparando così il terreno a Tangentopoli. I1 parlamento non prese mai sul serio le ipotesi sturziane: le ritenne troppo lontane dalla realtà; con l'atmosfera giustificazionista proprio della guerra fredda, i partiti divennero a poco a poco una sorta di stato nello stato, cinte fortificate di interessi di massa, macchine di mobilitazione collettive, obbedienti a logiche di schieramento, che conducevano a bilanci straboccanti, in cui si confondevano pubblico e privato. Infine, la terza bestia, Ikbuso deldenaropubblico, e qui si smarrisce il conto degli abusi, che furono sempre crescenti; Sturzo non ne fece l'elenco, "per brevità", in quel suo articolo, uno degli ultimi, del giugno 1959; lo aveva già fatto e lo ripeté più volte da quando sbarcò in Italia nel 1946. Sul futuro, la sua previsione non era mai stata molto confortante: "Ecco il motivo e la caratterizzazione della mia lotta allo statalismo; perché questo discardina l'articolazione inrermedia della società; porta all'accentramento negli enti statali e relativa burocrazia; collega partiti politici e sindacati allo Stato e all'anti-Stato (che sono lo stesso); perché un giorno crollerà lo Stato accentratore di oggi pur con una libertà mezza incatenata, e salirà al potere I'anti-Stato anch'esso accentrato e con il cadavere della libertà sorto i piedi" (29 luglio 1958). Un giorno sarebbe salito al potere Iknti-Stato?Due versioni avrebbero potuto darsi del pronostico sturziano: che un giorno non si sarebbe più visto lo Stato oppure si sarebbe arrivati a una specie di regime social-democratico, il più confacente al costume dell'italiano medio: "La verità è che i partiti non tutelano né possono tutelare l'economia nazionale per il fatto che i partiti, tutti i partiti non hanno e non possono avere capacità di sintesi, né vedute a lunga scadenza". Venendo meno questa capacità, inevitabile è la discesa verso il pragmarismo, verso il vivere "nel particolare, del caso per caso, alla giornata, dovendo ogni giorno tamponare le situazioni interne ed esterne che ne corrodono la compagine". Non fa eccezioni Sturzo, la malattia contagia tutti i partiti; non si lotta più per un programma, per una "veduta a lunga scadenza", per un impegno nel presente che apra al futuro, e questo declino, accettato e vissuto come ultima risorsa di sopravvivenza, può trovare la compia-


cenza anche del "popolo italiano": "Per di più - scriveva Sturzo - un popolo come I'italiano non ha istinti gregari, è individualista; pensa a se; e, in larga parte, si disinteressa alla politica salvo a mormorare: il medio italiano o si adatta al meno peggio owero diviene fazioso. Donde lo sminuzzamento dei partiti, i contrasti fra i vari raggruppamenti; le lotte per il primato; le aspirazioni dei più intraprendenti ad avere posti; il dissidio fra capi e sottocapi". Nemmeno la DC, partito di centro, più degli altri "italiano", espressione del "medio italiano" si sottraeva a questa condizione. Non può negarsi che Sturzo sia stato fra i pochi politici del suo tempo, attentissimo agli aspetti sociologici - di "psicologia politica" avrebbe detto (20 agosto 1958) -della vita dei partiti e dei comportamenti della classe politica: lettore di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, Sturzo era portato a ricercare nelle sue analisi quegli elementi di fatto, di mentalità e di comportamento che, come scrisse una volta a proposito degli Elementi di scienza epolitica del Mosca, "servono alla migliore conoscenza positiva delle attività umane e all'orientamento nelle valutazioni dei fenomeni politici e sociali". Sturzo integrava, però, la sua attenzione sociologica con la valutazione finalistica, con le "vedute a lunga scadenza", con il fondamento di una responsabilità etica, che egli vedeva scarsa nella stessa DC, "la quale dovrebbe essere un partito unificato da grandi ideali e da un'autodisciplina volontaria, fatta di convinzione" (20 novembre 1957). 5. Sosteneva Sturzo che non c'era un solo statalismo, ma diversi statalismi, a livello tanto locale che nazionale. Lo statalismo, che più lo preoccupava era quello scolastico, anche per la sua lunga e tenace battaglia a cui dagli inizi del secolo partecipò nel movimento cattolico per la libertà scolastica, anzi per la "libertà integrale e indivisibile". Scriveva Sturzo: "Scuola libera, cultura libera come in America, come anche in Inghilterra, nel Belgio, Olanda, nella Svizzera. Allo Stato il compito propulsivo, integrativo, di garanzia per I'osservanza delle leggi sanitarie e degli obblighi della prima istruzione. Non lo Stato monopolizzatore dei titoli di studio; non lo Stato che impone programmi e limiti scolastici; non lo Stato che accentra tutte le scuole sotto unica disciplina; non lo Stato che mette pastoie al libero insegnamento, lo contrasta e lo degrada. Le offese alla libertà delle scuole in Italia durano da un secolo; con il correre degli anni sono aumentate le competenze della burocrazia statale e sono state annullate perfino le competenze civica e municipale in materia di scuole elementari". Siamo oggi ancora dentro questo quadro offensivo per la libertà della scuola? Passi avanti si sono compiuti, per lo meno questi problemi sono all'ordine del giorno e si ha meno timore di affrontarli, non si ha più il sospetto, che burocrazia e governi del Paese hanno nutrito dallo Stato liberale al fascismo, che dietro la domanda della libertà scolastica si affacciasse il vecchio, tenace clericalismo, il subdolo nemico del Codice napoleonico e dello Stato moderno, regolatore della società civile. Tuttavia, le remore, le resistenze, le abitudini del dirigismo a controllare e condizionare le autonomie e le libertà della scuola di ogni ordine e grado, sino ai programmi degli studi, appaiono oggi meno esplicite, più educate e riservate, ma soprawivono. "La nostra - scriveva Sturzo - può dirsi libertà corzdizionata" (3 maggio 1958). Non è segno forse di dirigismo statalista - potremmo rilevare ancora oggi - decidere dall'alto come si debba insegnare e ripartire la storia nelle scuole? Come si debbano dividere e trattare i secoli, dando preminenza a questo o a quel secolo? I1 linguaggio astruso e fumoso con il quale oggi si inoltrano le circolari ministeriali ai presidi delle scuole per spiegare quali debbano essere i criteri di lettura e di interpretazione dei fatti storici, non sono forse la manifestazione di un tenace vizio ideologico, di incanalare secondo gli invisibili interessi dello Stato l'insegnamento della storia, che, fra tutti gli insegnamenti, è certo il più complesso e delicato a far-


si? Nientemeno, ci sarebbe stata una ben nutrita raccolta di "saggi" per varare siffatti parti, una caricatura della visione platonica del ruolo dei "sapienti" nella condotta dello Stato. Anche quanto scriveva ~ t u i z onel 1958, prima dei moti studenteschi, che esplosero dieci anni dopo, con alla mano i testi di Marcuse e di Adorno, ci aiuta a riflettere nelle deficienze delle nostre Università e le insipienze legislative che le resero ancora più visibili e intollerabili: "Oggi tutti parlano della decadenza delle Università italiane nonostante i grandi nomi di chiarissimi professori. L'abbandono di ogni disciplina; la compiacenza dei dirigenti alle assenze di alunni e di professori, molti dei quali non risiedono in loco o non hanno veri e continui contatti con gli scolari in singolo e con la scolaresca al completo; il numero eccessivo degli iscritti senza aule e attrezzature scientifiche sufficienti sono gli effetti più palesi dello statalismo accentratore e inefficiente" (23 aprile 1958). Critiche ancora dolci, ancora al di sotto della realtà, se ricordiamo la devastante situazione delle nostre Università, le convulsioni degli anni Settanta sino alla attuale fase depressiva, di arrendevolezza e stanchezza, alla quale ci auguriamo possa assegnarsi un termine con le ultime leggi, più larghe nel riconoscere maggiore autonomia e iniziativa alle Università locali, ma tutte ancora da verificare. Infine, quell'altra osservazione di Sturzo sulla intromissione dello Stato anche nella cultura artistica con la nomina da parte del governo dei sovrintendenti dei teatri e con la costituzione di "una direzione generale alla presidenza del Consiglio per i testi e le cinematografie come ai tempi del Minculpop: la RAI monopolio di Stato orienta musicisti e artisti". Non c'era ancora la legge de11'8 per 1000 con la quale la Presidenza del Consiglio, dando cento solo a se stessa, ha distribuito generosamente contributi dello Stato a questo o a quell'altro ente "benemerito". È vero che ora queste "competenze" sono passate al Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, che sta cambiando struttura e forma, speriamo senza farne una corporazione chiusa, e con il minore statalismo possibile. Si arriverà a respirare un'aria più tranquilla, più fiduciosa fra gestione, problemi della vita culturale, della tutela e della conservazione dei beni artistici e librari con l'annunciata riforma?

6. Sturzo avrebbe potuto mai immaginare il crollo del Muro di Berlino, e con esso il disintegrarsi del "socialismo reale"? Nemmeno il rapporto di Kruscev sui crimini di Stalin, nemmeno le agitazioni e i sollevamenti in Polonia e in Ungheria gli dettero l'impressione che riuscissero a influire sugli orientamenti politici ed ideologici del partito comunista italiano e sui suoi alleati "nenniani", "imperterriti". Scriveva 1'8 marzo 1957: "La crisi dei comunisti italiani non è quella di un partito autonomo, che vive delle proprie forze e che può disfarsi per uno sconquasso Interno; i comunisti italiani subiscono gli effetti di azioni e reazioni al di fuori del proprio ambito politico, (.. .) che tutto ciò possa scuotere le basi del comunismo italiano, quello conosciuto da iMosca (. ..) non è improbabile. (. ..) Non svaluto il fenomeno, ma non vale la pena soprawalutarlo". La chiave di lettura della politica economica per Sturzo, era neHa misura e nel grado di espansione dello statalismo, il quale era per lui molto più di un ossessivo processo interventista nei gangli e nei ruoli della pubblica amministrazione; era una malattia subdola, perché avvinceva, legava fra loro interessi di parte anche opposti. "Noi siamo - scriveva Sturzo - dentro una rete formata, consapevolmente o no, da tutti gli sripendiati statali, siano o no parlamentari, da tutti gli stipendiati degli enti, siano apertamente o occultamente uomini politici, da tutti i burocrati, siano o no legati nei sindacati di categoria" (20 novembre 1957). Lo Stato - ammoniva - "si va sfaldando, perdendo terreno con l'avanzare della sua contraffazione, lo statalismo dominato da una classe dirigente invisibile perché anoni-


ma incoerente e irresponsabile". La prima, se non la sola rivoluzione, che Sturzo riteneva necessaria, fu proprio quella della burocrazia con la sua ramificatissima classe dirigente, invisibile, perché numerosa, anonima, organica, perché inserita nel sistema come una forza di natura, infine irresponsabile. Che poi elementi della burocrazia potessero sedersi in Parlamento, era, per Sturzo, sommamente "incongruo". "Oggi", ma è un oggi che non è solo quello di Sturzo degli anni '50, "perfino magistrati, presidenti e consiglieri di Stato rilevano la toga e scendono in piazza a sollecitare i voti degli elettori". Quindi, l'atto di accusa: "L'anello di congiunzione della partitocrazia con la burocrazia politicante e con il funzionarismo degli enti statali e parastatali, che amministra miliardi senza rischio e senza corrispondente responsabilità, è un incentivo allo sperpero, al favoritismo, all'inosse~anzadelle leggi, e rende difficile qualsiasi retta amministrazione governativa e arriva a paralizzare, in certi settori, anche il Parlamento" (2 gennaio 1958). In ultima analisi, scriveva Sturzo: "La stessa DC ufficiale, che da anni detiene il potere statale da sola o con altri, non ha purificato il sangue infetto di un certo imprecisabile statalismo forse per incapacità critica owero per il facile accesso agli enti statali. Se le sinistre arrivassero al Governo, gli attuali responsabili della vita pubblica, DC e non DC, si accorgerebbero troppo tardi di avere essi stessi aperta la porta al nemico. L'ipotesi deve far tremare certi miei amici, forse statalisti per rassegnazionev (15 gennaio 1958). Potrebbe dirsi che Sturzo vedeva nello statalismo molto più di un processo degenerativo del ruolo dello Stato in economia, vedeva in esso, come si è detto, il veicolo che avrebbe potuto condurre il comunismo e i suoi alleati dentro lo Stato. Bellissima quella categoria degli "statalisti per rassegnazione" il cui "lasciare andare" era egualmente compromettente. Ma c'era in Sturzo un altro timore, che con gli "statalisti per rassegnazione", non sarebbe stato facile l'ingresso nel Mercato Comune. Sturzo awertì chiaramente, e per tempo, l'incompatibilità che si sarebbe creata fra l'Italia statalista e il Mercato Comune; lo scrisse e lo ripeté più volte: "O (l'Italia) si mette sulla linea della piccola Europa (Mercato Comune) e delle nazioni a mercato libero (area del dollaro e area della sterlina e franco svizzero); owero accetti di passare dal lato alla Russia e paesi satelliti. Ma volere da un lato far parte del Mercato Comune, e politicamente del Patto Atlantico, e rendere la nostra economia costosa e senza sbocchi, perché falsata dall'interventismo statale, è una contraddizione in termini". Incalzava: "Alla vigilia del Mercato Comune non è solo l'Italia che dovrà rivedere la propria struttura economica, ma anche la Francia. I paesi del Benelux hanno già fatto l'esperienza di un reciproco adattamento fra di loro; la Germania si presenta chiaramente strutturata e ben promettente. L'Italia subisce due condizionamenti che la rendono ritardataria: la mancanza di idee chiare nel campo politico per via di un sinistrismo anti-economico e dannoso per le stesse classi operaie; e il più spinto individualismo nel carnpo dell'economia privata che porta il singolo a tollerare tutta la ingerenza caotica e oppressiva dello Stato, pur di godere dei propri vantaggi, dei favori o privilegi o tolleranze governative, che riesce a procurarsi" ("Il diritto dell'economia", agosto-settembre 1958).

7. Può parlarsi di un "pantantistatalismo" di Sturzo, di una visione ossessiva verso lo Stato, anche quando assumeva la veste del Welfare State? Sturzo mantenne sempre ferma la distinzione fra lo statalismo, che egli definiva come fenomeno degenerativo dell'intervento statale per sistema in campi non propri o con prowedimenti lesivi dei diritti dei cittadini, e la social securis; "uno dei più nobili scopi deiio Stato moderno, nel senso di non far mancare l'assistenza a coloro che non hanno i mezzi per procurarsela offrendo loro un'organizzazione capillare adatta allo scopo. Nulla da dire sul fine: molto sui mezzi e sull'orga-


nizzazione" (20 agosto 1958). E proprio parlando del Mezzogiorno Sturzo riconosceva la legittimità di una serie di interventi statali, fra questi indicava per primi "le facilitazioni creditizie, specie oggi che lo Stato ha di fatto il monopolio delle banche; a parte gli interventi americani sia a fondo perduto che con prestiti di favore". Considerava "intervento legittimo e pubblicistico" quello della Cassa del Mezzogiorno, a proposito della quale ricordava "la lotta da lui sostenuta e da altri e formalmente perduta, per introdurre fra gli scopi della Cassa anche il compito di facilitare l'industrializzazione, disposizione omessa nel testo legislativo per paura degli industriali del triangolo Torino - Genova - Milano". Queste affermazioni fanno parte di un articolo intitolato "Saragat e il Mezzogiorno" (2 agosto 1958)5.Si tratta di qualcosa di molto di più di un articolo di circostanza, in cui Sturzo affrontava estesamente il problema del rapporto fra etica ed economia. "La conclusione - scriveva - può sembrare audace o fuori dalla realtà per coloro che guardano la economia come autonoma, scienza astratta inflessibile, formula matematica inalterabile, cosa esatta solamente nei rapporti di quantità guardati nella più schematica astrazione, il cui valore è stato ed è notevole per potere bene comprendere la parte determinante che ha il condizionamento quantitativo nella vita associata. Ma non può indicare il modo come potere alterare tale rapporto in più o in meno; né i processi qualitativi della quantità di beni, né le attuazioni istituzionali che inventiva e pratica mettono in essere dando moto a sistemi economici concreti e sviluppi di continuo adattamento". Ma rimanendo nel Mezzogiorno, Sturzo lamentava che lo Stato facesse ancora poco per la "rinascita dello spirito forestale"; quel che si era realizzato era inadeguato: "In un paese -scriveva - dove la montagna copre circa dodici milioni di ettari e altrettanto più la collina (anch'essa in molti luoghi franosa), e dove solo cinque milioni di ettari sono pianeggianti, l'albero deve essere il più rispettato degli esseri viventi, perché è quello che fa vivere tutti gli altri, compreso I'uomo". Inadeguatezza dello Stato, ma anche della famiglia, della scuola, della disciplina civica, della organizzazione stradale. "L'albero è amato solo a parole; -scriveva Sturzo - nel fatto è bistrattato e sfruttato da tutti. L'albero deve essere guardato sempre come una promessa per il futuro. L'albero da frutta vi fa aspettare alcuni anni; l'albero da legno vi fa aspettare ancora di più; l'albero di protezione vi fa aspettare sempre perché serve e non si vede a che cosa serve se non quando non c'è più. Ma I'uomo non ha pazienza; l'albero fa aspettare troppo, mentre l'orto e il campo di grano fanno aspettare pochi mesi. Ma chi non sa che per avere l'orto e il campo, si deve pur avere I'albero che riveste le montagne, che sistema le acque, che rinsalda le zone franose, che corregge i margini dei fìumi? ". L'articolo reca la data del Gsettembre 1957: potrebbe utilmente leggersi anche oggi, pensando al recente disastro duvionale, fangoso del Sarnese. Diagnosi antiche, che risalgono alla tanto vituperata età borbonica, se non prima. La politica per la cura dei mali del Mezzogiorno - attorno alla quale dibattono gli uffici studi di non so quante presidenze statali e non statali, sperimentalisti di ogni scuola e indirizzo - riceverebbe ancora qualche utile suggerimento rileggendo le pagine classiche del meridionalismo, da Giustino Fortunato a quel piccolo sacerdote di Caltagirone, che nel suo studiolo conventuale continuava con l'ansia e l'attesa di sempre, a chiedere un po' di cuore e di intelligenza storica per le sue montagne, i suoi fìumi e torrenti, per i suoi boschi. Lo sappiamo, oramai, da alcuni anni, non è più moda, è diventata una noia questo cercare - siamo pochi a farlo, è vero -

Suiie vicende della Cassa del Mezzogiorno, ricostruite su fonri inedite delllArchivio Sturzo, si veda: Sergio Zoppi, Il Mcmgiorno di Dr Gaspm.c Strino (1944-1959).Rubbertino, Catanzaro 1998.


un qualche raccordo, non parlo di lezioni, con il passato; siamo tutti incollati in un presente gommoso, che si costruisce con i residuaci di una cronaca, in cui il falso e il vero si scambiano i ruoli, nella vaghezza fosforescente, madreperlacea, di un centro che non c'è. Sturzo, che da giovane aveva letto gli statuti delle comunità montane del Cadore, aveva condotto a Caltagirone, all'epoca della sua sindacatura, una disperata battaglia per difendere i boschi della sua città. Guardando alla realtà degli anni '50 doveva ammettere: "i terreni sono spolpati perché le montagne sono nude". Gli fu risparmiato lo spettacolo dello sfascio idrogeologico, fattosi palese e frequente, negli ultimi anni, fra incuria dei municipi, devastanti speculazioni edilizie in mano alla mafia, ancora insufficienza di una politica di forestazione, che pur sarebbe stata necessaria premessa per una seria industrializzazione nel Mezzogiorno, insieme con la creazione e modernizzazione degli sbocchi e dei traffici commerciali: "Le mie critiche fondamentali - scriveva in un articolo di circa un mese prima dalla sua morte - sono due: la prima che nel Mezzogiorno si è trascurata o non si è curata, come era dovere prevalente, la ripresa agrario-forestale o la relativa trasformazione tecnico-produttiva sia per se stessa, sia come premessa di concorrente industrializzazione tanto agraria che di altra specie; la seconda critica, che non si sono tenuti efficacemente in vista o si sono trascurati gli sbocchi commerciali e i mezzi adeguati ad equilibrare gli sviluppi dei traffici locali e quelli di esportazione in lontani mercati esteri e nazionali" ("L'industrializzazione del Mezzogiorno", 14 luglio 1959). Nell'articolo qui citato, Sturzo aveva lanciato I'invito, che gli stava molto a cuore, ai politici: "Torniamo alle montagne: non sarà possibile realizzare incrementi seri e duraturi di produttività in pianura se la montagna non è sana e produttiva arich'essa; se non si ritorna all'economia forestale e pastorizia sul piano moderno (...)" (23 giugno 1959).

8. Infine, come sarebbe entrato in Europa il Mezzogiorno? Quale avrebbe potuto essere la sua collocazione? La scelta della capitale europea al Nord lo lasciò perplesso: "Oggi - scriveva - scegliere per capitale d'Europa una delle capitali dei sei Stati, sia pure Parigi (...), sarebbe un errore. Non si tratta di comodità di trasporti, di ambientazione culturale, di adattabilità edilizia; si tratta di creare un ambiente proprio, una figura storica a sé, che rappresenti non la Francia o la Germania o l'Italia o il Benelw, ma l'Europa, e sia una realtà oggi della piccola, domani della grande Europa". Avrebbe voluto che si tenesse presente il Mediterraneo "come un epicentro europeo e centro internazionale di decisiva importanza". Guerre e paci, sviluppo di civiltà e creazione di ricchezze - aggiungeva - "si concentrano qui, e noi sud-europei ne siamo i testimoni attivi o passivi, partecipi e anche vittime, secondo le grandi e piccole vicende storiche. Awicinare il Mediterraneo vuol dire capirlo, amarlo, conquistarlo non al potere ma alla civiltà: come è possibile che l'Europa possa essere concepita tutta al Nord (...)?" Sulle sponde del Mediterraneo "si sentono gli echi di Atene e di Roma, di Siracusa e di Cartagine, di Tessalonica, Alessandria, Cesarea, Bisanzio, Gerusalemme". Questo inno al ~ e d i t e i r a n e osarebbe piaciuto forse a Braudel: negli uffici di Bruxelles, sui tavoli delle regole e delle tecnologie del Mercato Comune e dell'Euro, non avrebbe mai potuto arrivare. Gabriele De Rosa


La libertà si difende sempre' I1 primo dell'anno è giunta in portineria la notizia che Nenni «ha devoluto alla Croce Rossa e ad altre istituzioni di beneficenza i quindici milioni del premio Stalin per la pace ». Che egli li abbia ben conservati da anni per attendere il l" gennaio 1957 a tirarli dal cassetto e pensare alla CRI e alla beneficenza della propria ((parrocchia»,è una ipotesi che vale la pena mettere in giro; ci si ride dietro. I quindici milioni del 1953 furono da Nenni ben ricevuti, in nome della pace, e bene spesi nel modo migliore possibile, del quale non abbiamo diritto o interesse a saperne di più. I milioni del 1" gennaio 1957, caro Nenni, sono altri soldi, di altra provenienza, avuti non ci interessa come o da chi; si tratta comunque di denari che non portano il nome di Stalin e alla cui erogazione benefica non si potrà attribuire alcun senso di riparazione per aver ritenuto i puzzolenti rubli della Mosca del 1953. Se Nenni voleva fare un gesto di riparazione, avrebbe dovuto restituire allo sportello

l A proposiro dell'articolo pubblichiamo la corrispondenza inrercorsa con il segretario politico della DC. Lerrera del 4 gennaio 1957 di Amintore Fanfani: Caro Don Luigi, leggo il Suo articolo odierno sul *Giornale d'lralian. E mi spiace rilevare che a resrimonianza della partirocrazia Lei asserisce che fu il Parrito ad imporre a Tarrufoli e quindi al Gruppo senaroriale di non apportare utili modifiche ad una nota legge. Lei non doveva citare questo caso, perché proprio in detro caso, Lei sa, il Parrito, cioè i responsabili del Parrito, sosrenevano la strada giusta, cioè quella della paziente ricerca delle norme migliori; mentre coloro che Lei esalta ad ogni occasione - anche oggi - come i legittimi detentori della verirà e i difensori della liberrà sostennero la strada sbagliara. Sinceramente credo che in tutta la Sua polemica a favore de li eletti e contro i partiri, Lei commetta un errore, quello cioè di credere che i primi (gli eletti) sono purificati al contatto con gli elerrori; mentre i secondi (cioè i partiti) sono ingannari dalla mancanza di contatto con gli elerrori. L'errore Suo è di non vedere che i Partiri debbono forzaramente interpretare la generalità degli elettori e quindi sono cosrrerri (per fortuna) a non allonranarsi dalla verità; mentre gli eletri sono condotti a non sa er resisrere alle interpretazioni parziali (di collegio o peggio di gruppo, o di clientela) prendendo degli abbagi e votando ... non bene. Proprio l'esempio da Lei cirato (ma non è il solo) dimostra che i overi responsabili della parritocrazia democristiana (e Lei lo sa) decidevano bene e incoraggiavano a fare una egge per bene; rnenrre gli irnpeccabili, da Lei difesi, decidevano e votavano male facendo una I e p e che qoreva essere perfezionara. Le scrivo queste cose, affinché Ella rifletta se er caso a Sua azione in difesa dell'eletto e a discredito dei partiti, ralvolra non incoraggi gli .anarchici. a cre4rsi messi della Prowidenza e sanri rribellin della supposra tirannia, che poi - nemmeno a farlo a posra - risulta essere non «tirannia parrirocrarica),, ma interpretazione oculara degli interessi comuni. Scusi il mio intervenro, ma dovere d'amicizia mi obbligava a dirle francamente che il Suo santo e nobile zelo può trascinarla fuori del seminato, castigando gli innocenti e premiando i colpevoli. Saluti cordiali, Suo aff. mo Amintore Fanfani. In: A.L.S., b. 450, fasc. «Leggi Idrocarburi),, 1957 n. 35D.

f

P

Lettera del 5 gennaio 1957 al Segretario Politico della DC, on. Aminrore Fanfani: Caro Fanfani, forse saprai che esco da una grave malartia e sono tuttora convalescente. Appena srarb meglio, ti racconterb quel che è passato dopo la nostra ultima conversazione fino al 20 di dicembre, circa gli idrocarburi; e vedrai che il mio attacco risponde alla esarraza dei farti. Circa la parritocrazia rornerb a scrivere molro diffusamente, lieto se dalla polemica ne uscirà un sistema di responsabilità che oggi non esiste. A& mo Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 455, fasc. «PPI», 1357.


dell'Erario Russo i 1 5 milioni con la dicitura <pertardivo rif2uto di un premio che avrei dovuto rijutare appena conosciuti i delitti di Stalin ». Ma un Nenni così coraggioso non esiste; esiste un Nenni che da dieci mesi è berteggiato sulla stampa come premio Stalin per la pace, non ostante la celebre denunzia di Kruscev. Quest'ultirno è ora disposto a dichiararsi staliniano per schiacciare gli imperialismi, quelli dell'ungheria e della Polonia; povera gente, far per giunta la figura dell'agnello della favola, quando il lupo che stava in alto si lagnava che l'agnello, che stava nel basso, gli sporcasse l'acqua del ruscello. Bene; lasciamo lì Nenni col suo Kruscev; non se n'è distaccato in dieci mesi di pensamenti, non se n'è distaccato mettendo la etichetta del premio Stalin ai soldi tardivamente usati a gloria di Stalin per la Croce Rossa Internazionale. Ci penserà due volte la Croce Rossa, espulsa dall'ungheria, a ricevere i pretesi soldi del premio Stalin. Lhtto d i libertà che si chiedeva a Nenni non è venuto col 1957: non è una occasione perduta; è una catena al piede di più per questo servo del Cremlino. E dire che c'è gente che spera ancora.

D a un Nenni terra terra (quello dell'impiego dei quindici milioni di Stalin fatto due volte, una prima per uso e consumo proprio, e una seconda per il mondo che vorrebbe gabbare col gesto della beneficenza), passando ad un Nenni, filosofo della storia operaia, troviamo l'uomo più confuso e involuto possibile. Egli, aper il partito socialista, trova necessario dare una soluzione organica a tutti i problemi atruali, cosa tanto più vera mentre dura e si estende nel mondo operaio il travaglio aperto all'inizio del 1956 dal XX congresso di Mosca. I problemi che il congresso pose, dove non sono esplosi (politicamente in Polonia, insurrezionalmente in Ungheria) tendono ad essere anch'essi chiusi e imrnobilizzari. La presenza del nemico diviene un elemento di freno o addirittura di compressione o di violenza (essa sì, controrivoluzionaria) laddove proprio per sgominare il nemico solo può riuscire valida l'azione intesa a risolvere le contraddizioni politiche ed economiche di esperienze di potere, caratterizzare dalla forzatura della realtà e dalla interdipendenza di tutti i fattori della vita sociale. La crisi che in questo momento ha il suo nodo tragico in Ungheria, investe il movimento operaio in generale. Essa è la conferma drammatica della necessità di verificare la ideologia, la politica, le strutture organizzative ».Che bel pezzo descrittivo, chiaro e lampante, questo di Nenni! E la critica dello stalinismo? o quella dell'antistalinismo? ... è la critica di Mosca owero dei dirigenti polacchi e ungheresi? ... è la critica del passato o del futuro? Tanti enigmi per un lettore come me, abituato a volere leggere quattro dove ci sta quattro e sette dove ci sta sette. Qui niente; Nenni, dopo tanto girovagare nella stratosfera ((dellarealtà e della interdipendenza di tutti i settori della vita sociale », fa sapere essere giunta finalmente l'ora, per i partiti socialisti, di porre la loro alternativa alla DC. Si scosse la montagna e nacque un ridicolo sorcio. La risposta di Saragat (o coincidenza involontaria di due discorsi; ma non ho morivo di indagare in proposito) ha un tono ottimista che potrebbe dirsi esagerato, anche se accompagnato da una elegante coppa di champagne alla mezzanotte di S. Silvestro; il tenore però è chiaro: «I1 1957, scrive Saragat, vedrà quindi non soltanto aumentato il nostro peso politico, ma anche accresciuta l'esigenza nella coscienza di tutti i lavorarori di una unificazione socialista sottratta ad ogni funesto equivoco e ad ogni tortuosa ambivalenza. L'unità socialista si deve fare e si farà dando alla $asse lavoratrice italiana lo strumento delle


sue lotte vittoriose ed abbandonando al loro triste destino coloro i quali si sono fatti e continuano a farsi strumento della più odiosa delle tirannidi)). Se il significato delle parole di Saragat si estende fino a Nenni, sarebbe un atto di liberazione; se la riserva di mettere in salvo Nenni vi fosse implicita, la sconfitta sarebbe anzitutto della libertà.

Quante occasioni si perdono per la difesa della libertà? Moltissime. Ed è per questo che, in condizioni di debolezza politica, abbiamo mai sopportato l'offensiva Nenni-Saragat del 1953 e del 1956, per la apertura a sinistra, creando l'equivoco dell'ingerenza comunista nel campo sindacale del lavoro come cavallo di Troia della unificazione. La verità è semplice: chi non ha il coraggio di distaccarsi subito da un passato, che come tale lo stesso Nenni vorrebbe odiare, manca ai propri fini etici e politici; e mai troverà la strada della conversione. Aspettare che Nenni cambi, è un errore di Saragat, giustificabile forse davanti alle masse, alle quali non si ha il coraggio di dire la verità, perché la massa italiana non è educata a sentirsi dire la verità in faccia. L'unificazione socialista, dice Saragat, «dovrà essere sottratta ad ogni funesto equivoco »; quello del sindacalismo apolitico per conto di Mosca, dico io; «e ad ogni tortuosa ambivalenza », diie Saragat; anche quella di un comunismo di riserva per costituire la maggioranza del governo socialista di alternativa, dico io. Se è così, Nenni è già fuori, senz'altra discussione; la menzogna è fugata dalla verità che dà la vittoria alla libertà. Gli uomini della DC non credano di essere immuni da questa tinta di menzogna che o h s c a la verità e viola la libertà, se pur ammettendo come naturale sviluppo un socialismo unificato con Nenni, non riescono a convincere il loro pubblico di sinistra che si tratta di un socialismo classista, per conto di Mosca che ne avrà tutti i vantaggi. Anche gli amici della DC non dicono alle loro masse tutta la verità; non sanno superare la paura della verità e della libertà. Ciò dipende in fondo dallo spirito della partitocrazia che ha invaso tutti dal giorno in cui fu deificato in Italia il partito unico, e poi sostituito con i partiti dei comitati di liberazione e poi con i partiti di governo tripartito, quadripartito e così via. I partiti hanno preso il posto dei gruppi parlamentari: i primi, organizzazioni private senza responsabilità legali; i secondi, eletti per legge dai relativo settore elettorale; i primi formanti autopotere senza base costituzionale, i secondi costituenti il Parlamento; i primi rappresentanti una finzione, la menzogna; i secondi, la realtà e quindi laverith. Se i partiti stessero al loro posto, rispettando Governo e Parlamento, tutto andrebbe bene. Ma con la partitocrazia non è così. Quando un partito decide di fare approvare una legge senza modifiche dall'altro ramo del Parlamento (il 19 dicembre scorso tenevo il mio discorso al Senato), sarà obbligato a chiudere gli occhi a quegli errori da me denunziati, ingoiare i rospi della menzogna che impastavano quegli articoli, e così via, per fare passare la volontà legislativa. Quale volontà? Lo domandino i lettori al mio amico Tartufoli, che confessò al Senato di opporsi ai miei emendamenti, perché così era stato prestabilito. Il partito vinse; non il Parlamento; né la verirà. Per stare in tema, uno dei punti neri del nostro sistema parlamentare è quello del funzionamento delle commissioni in sede deliberante; manca la pubblicità prevista per le sedute (cosa enorme nel diritto pubblico) perché l'assenza del pubblico e della stampa attenua il senso di responsabilità, e facilita le leggine di favore, di privilegi di categorie, di vantaggi personali, rendendo il sistema degno di una soppressione generale senza rimpianti.


Ebbene, quando i Parlamenti si riducono a centri per i piccoli affari della burocrazia statale e questa si sviluppa a vista con i mille enti extra statali, l'unico frutto visibile è quello dell'allineamento chilometrico dei volumi della Gazzetta Ufficiale con sempre maggiore diminuzione dei margini di libertà. È questo il motivo per il quale molti impiegati si contentano fin da oggi di un solo padrone, il socialista, perché il primo a fare del sociaiismo di Stato sarebbe proprio lo Stato stesso. Domandarne all'on. Pastore, che ne è maestro. Ed eccoci al punto: La libertà non è solo parlamentare, ma è anche parlamentare; La libertà non è solo politica, ma è anche politica; La libertà non è solo giuridica, ma è anche giuridica; La libertà non è solo economica, ma è anche economica. Così di seguito: ogni attività umana va regolata da norme che ne escludono il disordine; ma la norma in regime di libertà è allo stesso tempo auto-norma, auto-disciplina, auto-regola, perché è fatta dalla propria verità vissuta ed amata. A questa libertà non si può rinunziare, senza rinunziare a se stessi e alla civiltà democratica nel senso vero e completo della parola (che per noi è civiltà cristiana). Ecco perché siamo contrari all'unificazione socialista con Nenni, perché manca di sincerità e di libertà: ogni soluzione, con Nenni, conterrà l'equivoco e la finzione, la duplicità. Ma, siamo anche contrari alla partitocrazia, sia socialista, sia democristiana, perché amiamo, al disopra dei partiti, la verità e la libertà, convinti che per la libertà occorre combattere sempre per sempre realizzarne i benefici. Vita amara questa della lotta per la libertà; ma che merita di essere vissuta.

IL Giornale d'ltalia, 5 gennaio 1957

La critica di Sturzo e i filo-socialisti Si accusa Don Sturzo che, dal ritorno in patria, con la sua critica non risparmia i socialisti, i partitini, anche la D C , specie l'ala sinistra; mentre nel trentennio della sua atrivirà politico-sociale in Italia (1895-1924), e nello sresso esilio, le sue critiche, oltre che a Giolitti nominatim, andavano alla classe politica di allora, la demo-liberale; andavano ai nazionalisti, ai fascisti, agli industriali, non sempre ai socialisti, mai ai sindacati dei lavoratori. Ci sono forse due Sturzo: uno anre e uno post? ovvero il secondo Sturzo rinnega il primo, il vecchio non riconosce il giovane? Quelli che parlano così, non conoscono l'uomo. A parte la senilità, che se gli articoli non dimostrano, è un fatto innegabile, 85 anni a novembre, Don Sturzo è stato sempre uguale a se sresso, costantemente un critico di coloro che detengono il potere. Nel primo trentennio erano ai potere i democratici-liberali o liberali-democratici (come usavano chiamarsi), poi vennero i nazional-fascisti; nel presente decennio sono i democristiani col contorno dei partitini (sia contemporaneamente, sia parzialmente, sia a turno, salvo i cinque mesi del governo Pella). La critica si dirige a chi fa e a chi parla; i governi del dopo guerra han parlato molto, han legislaro mo!tissimo (troppo, dico io); hanno fatto e sbagliato parecchio; nessuno di loro pensa divenire un Mussolini che «ha sempre ragione)).


Dell'altro lato, la critica di Don Sturzo ai nenniani e ai sinistroidi della coalizione governativa (ogni partito ha la sua freccia al fianco sinistro) k per quello che essi dicono e, quando hanno un bricciolo di potere, anche municipale, per quello che fanno. È chiara la mia posizione? Spero di si. H o forse rinunziato alle mie idee del cinquantennio 1895-1945? Si faccia avanti chi me lo provi, carta alla mano; ma costui avrebbe il dovere di leggere e di rileggere i miei discorsi politici, i miei scritti del tempo; troverà la critica dello statalismo perfino più forte di quella di oggi; e dire che fra lo statalismo del 1920 e quello del 1956 ci corrono chilometri di distanza; troverà la critica agli enti statali e parastatali; allora di importanti non vi erano che le Ferrovie e I'INA; le banche erano libere, l'IN1 non esisteva, I'ENI non era neppure sognabile. Oggi? se ne contano duemila. Solo sulla proporzionale ho cambiato nel 1950; il perché è noto dai miei articoli. Veramente non sono stato a cambiare io che ho sostenuto la proporzionale in Italia e all'estero per più di trent'anni; la situazione politica attuale e i nuovi metodi del quadripartito hanno reso pericolosa la proporzionale. Nel 1919 non esisteva un socialcomunismo così forte e minaccioso da poterci presentare all'elettorato nazionale come alternativa di governo; sarebbe bastato qualche milione di voti guadagnati dai cosidetti utili idioti per dare l'Italia in mano a Mosca, facendone uno Stato satellite. Se monarchici e missini, pur ai margini della Costituzione, non avessero cercato di guadagnare quei voti, che in parte sarebbero andati a gruppi locali senza vedute politiche e perciò orientabili, di qua e di là, verso i partiti maggiori, i'ipotesi della bilancia che cade dal lato sinistro non sarebbe stata e non sarebbe neppure oggi del tutto Fuori luogo. La mia opposizione alla proporzionale è stata anche diretta al modo come viene attuata in Italia (a differenza dagli altri paesi), sì da rendere difficili le maggioranze parlamentari e quelle amministrative nei comuni e nelle provincie e nelle regioni. Per dippiù, ho fortemente combattuto il nostro sistema preferenziale che (ad eccezione del partito comunista) ha reso acuta e personalistica la lotta all'interno di tutti i partiti. Chi può rispondere alle mie osservazioni? Nel fatto, nessuno ha risposto, perché i democratici moderni evitano le polemiche, si adontano delle critiche, non amano le discussioni, arrivano perfino a impedire gli interventi parlamentari che possano in certo modo mettere in dubbio certe verità precostituite, sia dal governo, sia dal partito.

Secondo rimarco: Sturzo non tiene conto delle benemerenze del socialismo né dei torti delle imprese verso la classe lavoratrice. Se si vorrà arrivare a una certa democrazia sociale, è necessaria l'intesa dei cattolici di sinistra con i socialisti. Non sono d'accordo neppure con queste affermazioni; le ho combattute da segretario del partito popolare; le combatto nel 1956. Mettiamo in chiaro alcuni punti: non negai nel 1922 la possibilità di collaborazione politica del partito popolare con il partito socialista, non lo nego oggi, purché sia come allora libero e autonomo. Nego che Nenni (non ostante la sua lettera a Rusconi) sia apertamente legato al comunismo, sia apparentemente distaccato ma nella stessa scia politica e sociale del comunismo, possa essere alleato della democrazia; farebbe cadere il paese nel caos e porterebbe alla dittatura di sinistra. Nego ancora che possa esservi alcun vantaggio per le classi operaie, con la perdita delle attuali alleanze internazionali, con la soppressione delle libertà anche quelle di oggi sia pure infette di partitocrazia.


Nego infine che il tentativo di una collaborazione di sinistra, anche se contenuta nel quadro formale della Costituzione vigente, portando ad un orientamento statalista ancora più marcato, possa far superare quella crisi economica che ne deriverebbe, rendendo fittizio e vano ogni beneficio che si proporrebbe per la classe operaia. I molti o pochi utili idioti, quelli in buona fede s'intende, dovrebbero prendere esatta conoscenza di quel che awiene nei paesi occidentali: Europa continentale, compresivi i paesi scandinavi; Inghilterra e altri paesi anglosassoni; Stati Uniti d'America e paesi affini. Dovunque il vecchio capitalismo deli'ottocento è in netto declino; ma, per quanto si vada sviluppando l'intervento statale, quello reso necessario dalla guerra o quello rimasto in piedi dopo la guerra, il fulcro dell'economia generale è tuttora l'impresa privata con il più largo sviluppo azionario, con la partecipazione di interessi collaterali e con l'aperta tendenza di un'intesa di collaborazione fra impresa e mano d'opera. Le prospettive dell'automazione (non si potrebbe trovare una parola italiana meno ostica?) per quanto possano preoccupare per il pericolo di trasformazione (è stato sempre così), aprono un awenire migliore basato sulla cooperazione dell'impresa con il lavoro. Questi esempi delle nazioni più progredite non interessano i nostri filo-nenniani, che vorrebbero attuare in Italia il primo esperimento socialista, come se non fosse bastato per l'Italia aver voluto fare, con alla testa un ex-socialista, il primo esperimento fascista. Difatti, non è esistito un governo basato su principii socialisti e, secondo me, non ne esisterà mai; perché il socialisn~onon potrebbe esistere in una economia tuttora libera senza perdere i suoi connotati; né porrebbe divenire una dittatura senza accettare le basi politiche o del comunismo leninista o stalinista che sia owero del fascismo sociale. I1 laburismo inglese non ha creato lo Stato socialista. Si dice in Inghilterra che Attlee fece quel tanto di socialismo che impedì di farne il resto. I paesi scandinavi hanno anch'essi un mezzo socialismo che sta fra il laburismo borghese e l'interventismo statale con queli'adattamento gregario che è consono alla loro psicologia. I1 governo belga (tre quarti socialista e un quarto liberale), non ha attuato e non potrà attuare il socialismo economico politico. Il Belgio resta sempre monarchico e democratico, con un capitalismo assai sviluppato e un'economia floridissima. I socialisti al potere non sono stati abili ad assicurare miniere di carbone, un buon sistema di sicurezza sociale. La Francia ha i suoi guai coloniali e non è disposta a socializzarsi; la Germania libera va verso una prosperità eccezionale; il socialismo non è una prospettiva per quel paese, che vanta oggi, sul piano della libertà economica, una ripresa che nessuno statista avrebbe potuto prevedere. L'Olanda? il Lussemburgo? la Svizzera? la stessa Austria? gli Stati Uniti? il Canadà? ma dove vivono i nostri filo-socialisti laici e i cattolici di sinistra? Vadano pure a pregare Nenni che si distacchi dai comunisti e gli credano sulla parola; non è Nenni premio Stalin? H a forse egli buttato via questo titolo dopo le rivelazioni di Kruscev? E non butterà neppure via il legame con Togliatti e C.

LIAzione Popolare, 14 gennaio 1957

Crisi dei comunisti e crisi dei non-comunisti La crisi dei comunisti italiani non è quella di un partito politico autonomo, che vive delle proprie forze e che può disfarsi per uno sconquasso interno; i comunisti italiani su-


biscono gli effetti di azioni e reazioni al di fuori del proprio ambito politico. Negli ultimi mesi una fede, un sistema, un potere, sono stati scossi; e i comunisti, in quanto hanno vissuto di quella fede, si sono rafforzati di quel potere e sono dentro a quel sistema, ne risentono i contraccolpi; s'intende, chi più chi meno, secondo le posizioni e le sensibilità di ciascuno. I1 partito italiano, pur appartenendo al complesso del comunismo mondiale, ha una importanza assai relativa; può anche essere svalutato, se e in quanto, in un determinato momento, potrà non giovare alla causa del potere di Mosca; il cui interesse principale, in Europa, è quello di tenere a posto i satelliti, non importa se con la forza, con l'inganno o con le promesse. È vero che i tentativi di rivolta, uniti al malcontento generale, sono per Mosca un campanello di allarme, sia riguardo al tipo di comunismo attuato nel Centro Europa, sia riguardo alla capacità dei partiti comunisti locali a imporsi senza l'intervento dei carri armati moscoviti; però, nel gioco politico internazionale, le repressioni drastiche valgono molto a dimostrare che esiste una mano di ferro e un potere che non cede. Dall'altro lato, i partiti comunisti inpartibus infdelium (Francia, Italia e altrove) se possono servire a contenere l'offensiva atlantica o a fare localmente da diversivo, saranno da Mosca sostenuti e valorizzati; se certi gruppi non servono più, saranno cambiati; se altri gioveranno, saranno rafforzati. Le stesse discussioni pro e contro lo stalinismo o il kruscevismo servono ad allenare ifedeli e a mettere in vista gli infedeli. A Mosca giova sempre quella fedeltà che fa approvare quello, e solo quello, che parte dal Cremlino, in tutti i momenti e in tutte le fasi, anche quando il Cremlino confessa di avere sbagliato, per poi confessare di avere sbagliato di aver confessato di avere sbagliato. È questa l'essenza della concezione del potere assoluto, ex nihilista, ex marxista, ex leninista e così di seguito. La logica? la vera logica non si troverà in questo groviglio. Ma una certa logica vi è: quella del potere per il potere, sostenuto da un popolo che non ha nome, per una dittatura burocratica egemonica, quella installatasi in Russia dal 1917, che cadrebbe il giorno in cui non avrebbe più il puntello di quel mito popolare che si chiama «comunismo».

Non parliamo, perciò, di crisi del comunismo di Mosca, nel grande gioco internazionale che copre oramai gran parte dei continenti, meno quell'occidente che voglia o sappia difendere se stesso e difendere con sé tutta l'umanità, svolgendo lo stesso compito che ebbe la Cristianita, medievale e rinascimentale, nel combattere per un millennio contro 1'Islarnismo. Gli alti e bassi di Mosca, interni e internazionali, sono segno di forze in lotta che cercano un equilibrio; equilibrio che non potranno trovare, perché non sorretre dal dinamismo finalisrico del bene comune. Lenin o Trotski, Stalin o Beria, Malenkov o Kruscev, e molti altri nomi che individuano i vari metodi del potere politico di mosca, non saranno mai espressione di un popolo né di un'idea, né di un dinamismo sociale che si sviluppi nella logica di un sistema: sono e saranno espressione di un potere cieco, fine a se stesso, in quanto impone, per esistere, una sempre maggiore potenza materiale in contrasto con tutta la tradizione umanistica, compresa la millenaria tradizione che alla Russia arrivò da Bisanzio. Il dono che Dio ha fatto all'umanità, con la scoperta delle forze nucleari, può divenire altro mezzo di rawedimento sopra la strada dell'impegno morde, owero mezzo di distruzione per l'impegno materialistico del potere per il potere. La lotta contro il comuni-


smo di Mosca ha questa posta; lotta difficile, ardua, piena di rischi, di grandi rischi; lotta, non convivenza con il comunismo. E qui permetta il lettore, più che al sociologo al sacerdote, di affermare che la Chiesa come centro di forze spirituali dà la possibilità del superamento del comunismo, non sul terreno della prevalenza materiale, ma su quello dell'influsso dei valori morali (fra i quali necessaria la libertà) che vivificano i cicli di lotte secolari e continue nelle quali è sempre impegnata l'umanità. C'è una Prowidenza che, non ostante tutto, guida gli uomini di buona volontà, e ci fa vedere con altro occhio anche i piccoli problemi del proprio ambiente nel quadro dei problemi della grande storia.

Oreste Mosca ha diretto al suo amico sen. Reale una lettera interessante che vale la pena leggere due volte, per rendersi conto come il comunismo possa essere sentito quale mito trasformatore della società perfino da coloro che ne conoscono tutte le malefatte, e pur vi partecipano con le proprie attività. Quando si è moralmente indotti a denunziare le malefatte dei comunisti, si cerca di distinguere fra mito e attuazione; fra il «il dio comunismo)) e il pontefice-carnefice ((Stalin),. Tutto ciò potrà essere effetto di fanatismo, owero mezzo di giustificazione del proprio passato, o motivo di orgoglio politico e personale. Sarà sempre dei pochi; gli altri, i seguaci dei sindacati, gli iscritti alle camere di lavoro e ai circoli giovanili, i lettori dell' Unità piegheranno alla disciplina di partito per paura del peggio, per istintiva difesa delle loro posizioni, per acuto sentimento della lotta locale; per timore di un futuro difficile che fa preferire un presente di attesa. I Maglietta solidali con Reale, che poi smentiscono e sono smentiti e tornano a smentire e così di seguito, non mancheranno al Nord e al Sud; come non mancheranno coloro che dalla bufera di questi giorni trarranno maggiore convincimento che dopo tutto, gli ungheresi ribelli meritano più di quanto hanno sofferto; e che nessun paese ha diritto di ingerirsi in casa dei satelliti di Mosca, i quali, proprio in questi giorni, hanno di nuovo riconosciuto (o dovuto riconoscere) alla Russia il diritto di intervento manu militari. Che tutto ciò possa scuotere le basi del comunismo italiano, quello riconosciuto da Mosca, creando correnti di dissidenza più larghe di quelle di Cucchi e Magnani, non è improbabile. È certo che presso la gioventù e presso le zone operaie evolute, il comunismo, come mito guardato dall'esterno, ha meno presa oggi che non ne abbia avuta nel passato. Le manifestazioni degli intellettuali comunisti, che criticano il comunismo senza lasciarlo, serviranno a scopi personali, non convinceranno della passata condotta, né saranno indice della condotta futura di molta gente. Non svaluto il fenomeno, ma non vale la o . mancheranno fra costoro i topi che scappano appena sentono pena ~ o ~ r a w a l u t a r lNon che la barca fa acqua. Siamo anche alle riprese sindacali a scopo politico, come quelle preannunciare nel campo agricolo, dove però non mancano zone comuniste già immunizzate dalla passata propaganda; mentre altre son tuttora suscettibili ai nuovi incitamenti sindacalisti, per mancanza o per falsa rotta della propaganda avversaria; certe situazioni del Sud possono dirsi addirittura incancrenite. Che il credito dei dirigenti comunisti italiani sia venuto meno, non può essere negato; che il tamponamento Togliatti riesca poco o molto, si vedrà alla prima occasione: la veri& è che la crisi comunista italiana esiste oggi principalmente come riflesso temporaneo di


fatti esterni; la crisi morale del comunismo teorico, del comunismo storico e del comunismo «mito>)forse verrà; non sembra che ancora sia per la strada.

Sia sulla stampa che fra i partiti è stata discussa l'opportunità o meno di adottare provvedimenti contro il comunismo; il Governo ha escluso l'idea di leggi di eccezione, ed ha fatto bene. Simili iniziative, prima di divenire leggi esecutive, creano tale reazione da svalutare in partenza quel piccolo vantaggio che si crede possa derivarne. Secondo me non occorrono leggi speciali; basta l'osservanza di quelle che esistono senza cedere a favori personali e senza chiudere uno o due occhi, sia per gli amici che per gli avversari. Non scendo ad esemplificazioni; tutti sanno da anni quale vantaggio abbiano tratto i comunisti dal commercio con l'oltre-cortina. E non parliamo dei vantaggi tratti da certi consorzi ed enti, comprese le cooperative anch'esse sottoposte avigilanza governativa. Sono proprio necessari i concorsi governativi per certi film di orientamento socialcomunista, e per certe iniziative pseudo-artistiche sostenute da centri comunistoidi? Fo punto, perché l'articolo verrebbe troppo lungo; non persecuzione politica; non discriminazione civile; solo serietà, a non dire altro, da parte della pubblica amministrazione verso correnti e personaggi che pubblicamente approvano i metodi tirannici usati in Ungheria. È il minimo che si possa richiedere. Passando dalla pubblica amministrazione ai partiti, è da notare anzitutto il solito atteggiamento di colleganza del Partito socialista col Partito comunista. Che i socialisti non si affrettino ad aprire le braccia ai comunisti dissidenti e criticheggianti, è, oltre tutto, utile salvaguardia della propria personalità di partito, già compromessa dalla lunga colleganza politica. Per giunta, alla vigilia del congresso di Venezia, il PSI auspica che sia sgombrato l'equivoco di un Partito comunista più stalinista di prima. Purtroppo tutto ciò è nel campo dei desideri insoddisfatti. L'equivoco di un socialismo unificato, con dietro le spalle un comunismo, sia politicamente che sindacalmente rafforzato, è quello che si prospetta a Venezia. Forse sarà questo il motivo del contegno stratosferico della DC riguardo alle conseguenze dell'unificazione socialista, coricando più sulle difficoltà ~ r a t i c h edell'unificazione, che sullo spirito di rivincita che lo stc .so tentativo porta nel campo del PSI e del PCI. I1 Partito saragattiano forse farà le spese sia dell'unificazione fatta sia dell'unificazione mancata. Certo non sarà tonificato dagli ex comunisti ai quali sembra voglia aprire le porte. Quale vantaggio ne verrebbe da tale groviglio alla D C non è chiaro non solo a chi scrive, ma a molti italiani pensosi dell'awenire della Patria. In momenti internazionali così difficili, un piegamento a sinistra da parte italiana potrebbe portare, nel campo dei rapporti esteri, effetti di notevole turbamento. È questo il momento nel quale viene messa alla prova la dottrina Eisenhower; l'Inghilterra e la Francia, nel subire il contraccolpo dell'operazione Suez e dei sussulti coloniali, tendono alla ripresa europea; il Medio Oriente dovrà trovare nel proprio rafforzamento il disincaglio da Mosca. L'Italia non può rinunziare alla politica atlantica, europea e mediterranea, che è la sua politica, né estraniare la sua economia da quella americana, e da un più largo sviluppo nei paesi liberi. È possibile che in tale situazione, si inserisca nella nostra politica interna ed estera il giochetto PSI+ PCI e più o meno PSDI, il quale giochetto, per la maggioranza governativa, e quindi pel governo, non sarebbe altro che una trappola da topz?

IL Giornale d'ltalia, 16 gennaio 1957


Statalismo ottimista Sopra una schematica ma succosa rassegna quindicinale leggo il seguente periodo: «È forse inutile attardarsi sulle note polemiche a proposito dell'iniziativa pubblica o privata. È meglio prendere atto della realtà: lo Stato dispone di una massa enorme di beni. Non gli sono pervenuti per donazione o successione, né li ha confiscati con metodi rivoluzionari o espropriati con atti di imperio, ai fini monopolistici o di concorrenza sleale. Li ha invece acquistati - almeno la maggior parte - con denaro della collettività. Per giunta, a prezzo talora esorbitante, comunque.. . di mercato, e non fallimentare, sebbene talora questi beni provenissero da fallimenti dell'iniziativa privata o, meglio, dell'awentura privata D. Mi si dice che lo scritto sia di un caro amico di tradizione popolare; quel ((forseinutile» tradisce uno stato d'animo di rassegnazione anche degli antistatalisti di razza e non di interesse (e credo siano pochi oggi in Italia) di fronte all'invadente statalismo attuale che nei fatti (se non nella teoria) ha già di molto superato lo statalismo fascista. In Sicilia si dice: ((piegati,giunco, ché passa la piena)); dunque non più polemiche circa l'iniziativa privata divenuta un tenue giunco di fronte alla piena dello statalismo. Ma non è così. Anche oggi la tanto bistrattata iniziativa privata è quella che tiene in piedi la economia nazionale, la quale fallirebbe, se dovesse prevalere la iniziativa pubblica, col ritmo che, inconsciamente e senza seri criteri economici, vi ha dato l'attuale democrazia. L'autore aggiunge che lo Stato (perché non parlare di governo fascista?) acquistò le partecipazioni con i quattrini dei contribuenti, talora ((aprezzo esorbitante)) riparando «al fallimento.. . dell'awentura privata)). Ciò si riferisce all'IRI (e non a tutto I'IRI) e nemmeno a molti altri enti di diritto pubblico creati prima, durante e dopo il fascismo; né alle partecipazioni di azioni di società private, acquistate dal demanio sia occasionalmente, sia per ragioni politiche ed economiche, non sempre molto chiare. Basta pensare all'ente mastodontico che si chiama ENI per comprendere i passi fatti in questi ultimi anni. È bene ricordare che l'operazione IRI fu fatta per riparare in parte alle conseguenze della prima guerra mondiale e all'euforia del periodo post-bellico, dovuto non solo ad awenture di gente inesperta, ma anche a speculatori sfrenati e ad imprevidenza della pubblica amministrazione. I1 primo intervento governativo fu diretto alla liquidazione di quel che non reggeva in piedi e con il proposito del ritorno alla iniziativa privata, a prezzi di mercato, di quel che poteva essere risanato. La sistemazione statalista venne in un secondo tempo, per ragioni politiche, forse per pressioni della nuova burocrazia e per il vantaggio di quei privati che per tale operazione poterono rendersi indenni di colpe e di responsabilità anche penali. Insomma, togliere ai privati il passivo e versarlo sulla comunità dei contribuenti è un'operazione che prende l'aspetto, ci sia o non ci sia, dell'interesse pubblico. È inutile riandare dati e fatti di un passato crollato con la guerra; le responsabilità che oggi possono utilmente essere rilevate sono quelle della democrazia del dopoguerra per la rotta presa in materia di economia statizzata, sia quella ereditata dal fascismo sia quella di nuova marca. Il mio amico, continuando il suo articolo, scrive: ((Queste premesse ci fanno comprendere con chiarezza i due principali compiti del nuovo Ministero. Primo: esercitare un adeguato controllo, al fine di garantire la buona amministrazione di questo patrimonio. Secondo: agire nell'interesse del legittimo proprietario (che è la collettività nazionale), senza rinunce o debolezze per malintesi interessi pubblici o per interessi particolari di privilegiati gruppi privatistici)).


Dissento anzitutto nella formula che suppone che in materia di gestioni economiche lo Stato (nel senso di pubblica amministrazione affidata ad uomini politici ed a funzionari) possa essere capace di ((esercitareun adeguato controllo al fine di garantire la buona amministrazione di questo patrimonio),. Questo io chiamo statalismo ottimista. Mi sa dire I'articolista a che punto si trovano le denunce alle autorità giudiziarie per uso illegittimo e privatistico di certi fondi dell'Alto Commissariato dell'igiene e della sanità? E che cosa si è rilevato dalle denunce fatte circa l'Istituto Nazionale Assicurazione (INA), circa l'Ente Siciliano di Elettricità (ESE); e perfino dei processi iniziati per lo scandalo dell'amministrazione INGIC e quel10 del Poligrafico? Si tratta di alcuni fatti che, al di fuori di iniziative di governo, sono capitati nelle mani dell'autorità giudiziaria. Se si facesse un'inchiesta seria ed effettiva sull'amministrazione degli enti pubblici che agiscono sul piano delle private aziende, si troverebbe, salvo rarissime eccezioni, tale sperpero di denaro, tale inflazione impiegatizia, tale gioco di interessi politici e partitici da disperare della correttezza e regolarità di simili gestioni. I1 mio amico, anche lui, è costretto a confessarlo, continuando l'articolo: «Primo compito, dicevamo, è quello della buona amministrazione. Bisogna scegliere amministratori capaci e responsabili; invece è spesso prevalso, purtroppo, il criterio clientelistico.Non sono mancate le teste di legno, in quanto erano considerate utili ad impedire che fosse esercitato un effettivo e adeguato controllo su grandi aziende che hanno la disponibilità di un patrimonio imponente, talora ridotto ad uso e consumo non di pubblici enti ma di gruppi privati)). Come può egli credere che un nuovo ministero, senza tradizioni, senza attrezzature, assommando poteri di vigilanza e controllo degli attuali ministeri competenti, sarà più vigilante, saprà meglio controllare, superando l'intrigo politico, alto e basso, e l'intrallazzo burocratico che oggi regna indisturbato? E crede che il Parlamento aiuterà quel ministro zelante che vuol mettere un po' d'ordine? Lo domandi al sottosegretario Preti che esce, sconfitto dalla sua.. . presunzione. Del resto, anche sull'INGIC il Parlamento fu reticente e solo ebbe fretta di varare in quattro e quattr'otto la legge che pose in libertà prowisoria i ritenuti responsabili delle malefatte. Io non sono contrario a disposizioni legislative per eliminare gli inconvenienti della detenzione preventiva; ma non posso ritenere che ciò debba servire a portare alle lunghe un processo che dovrebbe bollare metodi affaristici perfino di funzionari statali in un ente di diritto pubblico amministrato da rappresentanti, fra gli altri, dei ministeri dell'Interno e delle Finanze, certo i meglio organizzati per antica tradizione.

I1 mio amico può rispondere che la gestione del denaro, sia pubblico che privato, porta sempre con sé gravi tentazioni; non si cambia la natura umana; ma normalmente la pubblica amministrazione, quando non vi è direttamente implicata, esercita il controIlo e colpisce i responsabili che vengono meno al loro dovere. Purtroppo, oggi lo Stato è interessato in migliaia di enti, la gestione dei quali ha carattere privatistico; il controllo è fatto in modo insufficiente (a non dire altro); l'evasione fiscale è normale; l'ingerenza dei partiti tollerata; i deficit sono regolarmente colmati dal Tesoro. Se avessi tempo, farei la collezione dei decreti legislativi, delle leggi e leggine di questo decennio, delle quali leggi molte passate alla tollerante trafila delle commissioni parlamentari, per sanare deficitsotto il pretesto di aumentare il capitale o la dotazione statale di tali enti. Il Poligrafico insegna. In fondo: la gestione degli enti statali e parastatali ha due caratteristiche che la rendo-


no antieconomica e onerosa: la mancanza del rischio e l'attenuazione fino all'eliminazione delle responsabilità. E quando si sa che non esiste rischio si perde il senso della realtà economica; e quando si è sicuri di non incorrere in responsabilità si opera con facilità e faciloneria: c'è chi paga. Si parla del controllo del nuovo ministero come di un toccasana. Chi controlla? I1 burocrate che non ha pratica di gestioni economiche, al quale basta la regolarità formale delle carte? L'ente della cellulosa e carta per anni si è contentato di lettere d'ufficio del Ministero dell'Industria per versare somme a destra e a manca, senza altra decisione che fosse formalmente impegnativa da parte del governo. I1 nuovo Ministero delle Partecipazioni anzitutto curerà di mantenere per tali enti l'agilità necessaria al tipo di gestioni private essendo anch'essi nella zona dell'economia di mercato. E allora?Vedremo che cosa sarà inventato per dare l'impressione che il mondo degli enti pubblici sia cambiato con la creazione di un ministero. La mia impressione è ben diversa; il nuovo Ministero cercherà di estendere le sue competenze nelle zone della iniziativa privata ancora libere e semilibere, per trasformare l'economia italiana in senso statalista o per attuare un dirigismo sempre più esteso, in modo da controllare anche il respiro del povero italiano. Dopo di che, io prego il mio aniico di fare una corsa nella Germania dell'ovest e andare ad informarsi come sia potuto avvenire il miracolo della ripresa economica di un paese vinto, diviso in due, militarmente occupato, con una distruzione di beni quasi totale; e vedrà che gran parte della ripresa è basata sulla libertà di iniziativa e sull'economia di mercato. Con dir ciò non intendo che si creda che io nego in determinati casi l'intervento statale. Non nego I'intervento, nego l'interventismo; non nego le direttive di Stato, nego il dirigismo; non nego che ci siano enti statali, nego la statizzazione dell'economia. Se poi lo statalismo verrà colorato con l'ottimismo, arriveremo facilmente a vedere, dietro lo statalismo ottimista, il sindacalismo di Stato (vedi Pastore), il socialismo di Stato (vedi insieme Saragat-Nenni) e lo Stato comunista (vedi Togliatti). L'errore di coloro che sono in buona fede deriva da una falsa visione della moderna economia, credendo che lo Stato col suo sempre più largo intervento possa riparare le sperequazioni, dare lavoro ai disoccupati ed elevare il livello delle classi operaie; avverrà proprio il contrario. Per prova di fatto, se la teoria non basta, valga il confronto fra gli Stati occidentali a mercato libero con quell'intervento statale limitato al settore pubblico e non esteso a quello privatistico (vedere specialmente, Stati Uniti d'America, Canadà, Svizzera) e le economie controllate della Russia e dei Paesi satelliti sulla base del socialismo classista. I Paesi ad economia mista, come l'Italia, hanno il doppio danno di un'economia privata inceppata e intisichita ovvero privilegiata e quindi parassita, che rende meno di quel che potrebbe rendere, e di un'economia statale che costa molto, anzi moltissimo, assai più di quella privata. I1 che si traduce in termini usuali con il noto lucro cessante e danno emergente.

Il Giornale d'Italia,24 gennaio 1957

5Non confondiamo cattolici sociali e socialisti A sentire parlare certi cattolici e leggerne gli scritti su temi sociali, ci si sente subito l'influsso del marxismo, anche se vi manchi il pensiero e la teoria; proprio come awiene per i


cibi che rivelano la presa dell'aglio o della cipolla per il solo fatto di essere stati tagliati con lo stesso coltello usato per quei ruberi. Se il caso fosse raro, non impressionerebbe; se non producesse infezione, potrebbe trascurarsi; se, pur facendo un certo effetto non penetrasse nella prassi, sarebbe da rilevare, e non da temere. Ma oggi siamo a un punto, per il quale, nel campo del pensiero e in quello dell'azione sociale e quindi etica e politica, il giovane cattolico (e non solo il giovane) in non pochi casi va attenuando la propria personalità, configurandosi al tenore e alle prese del socialismo. Di fronte a un fenomeno così strano si pone il problema se per attuare il benessere delle classi lavoratrici, e quindi una adeguata trasformazione della società, basti a noi cattolici la nostra dottrina, la nostra tradizione, e l'attività conseguente, -sia associata ad altri sia in contrasto, secondo la dinamica delle forze politiche; - ovvero, se sia necessario non solo allearsi al socialismo, ma mutarne orientamenti, linguaggio e finalità. I1 nostro passato di cattolici italiani, ci ha dato una personalità non confondibile e unica, sia nel difficile periodo del dissidio aperto fra Chiesa e Stato, sia nei periodi di bonaccia e di speranze, sia nella nostra partecipazione attiva alla vita politica e, infine, alla creazione di proprio partito (il popolare 1919), di proprie confederazioni (la sindacale e la cooperativista 1918). I cattolici italiani prima del fascismo ebbero oltre che una dottrina, (la cattolica sociale) un nome (democrazia cristiana) un partito (popolare) un'insegna (libertas). La lotta al fascismo fu fatta in nome proprio, e se insieme agli altri, con propria personalità e con proprie idee. Sarà bene rileggere le cronache giornalistiche del Congresso di Torino e il discorso-relazione del segretario politico. Se è vero che la maggior parte dei popolari, anche umili artigiani e impiegati di provincia, pur sotto il fascismo, tennero fede all'idea del partito, si deve confessare che uomini di cultura e giovani inesperti del campo cattolico accettarono dal fascismo il sistema politico e l'idea corporativa, credendo che il corporativismo dei cattolici tipo Volgesang e De Mun, e anche quello del Toniolo, fossero, più o meno bene, attuati da Mussolini. Purtroppo, come nel ventenni0 certi cattolici sociali mutarono del fascismo metodi e dottrine politiche e corporative, pur professando apertamente le dottrine sociali cristiane; così dopo la liberazione, nella Democrazia Cristiana divenuta il partito di governo e il partito-guida, anzi il partito indispensabile, non mancano coloro che orientano, non solo la politica contingente delle alleanze, ma la politica sociale direttiva verso una concezione che non è nostra e non può essere nostra: la concezionesocialista. In genere, sotto il fascismo non pochi perdettero il senso della personalità politico-sociale dei cattolici; oggi, da non pochi, si tende a confondere la personalità politico-sociale dei cattolici con quella dei socialisti. Le prove? presto date. Appena tornato in Italia, mi sorpresero, da parte cattolica gli attacchi alla borghesia; una specie di acuto risentimento contro l'impresa detta padronale; il favore dato all'occupazione della terra; un diffuso e sempre crescente statalismo come rimedio a tutti i mali; il favore alle nazionalizzazioni; il rifiuto a definire la DC come partito interrlassista perché secondo il loro pensiero, nella società moderna vi saranno categorie, settori, ma non classi; come se fossimo al periodo precedente alla rivoluzione francese. Pensai: i giovani in Italia oggi soffrono di disorientamento; prima il corporativismo e poi le socializzazioni di Salò; in seguito la collaborazione con socialisti e comunisti nella resistenza e nelle organizzazioni sindacali, riunite in unica confederazione; (ora se ne riparla di nuovo); infine, la spinta a rivedere, non le dottrine sociali cattoliche, ma le possibili applicazioni di esse con le teorie marxiste e i residui hegeliani di Croce e Gentile. L'elenco potrebbe continuare, ne ho parlato e scritto più volte. Ricordo la gran mera-


viglia recata a diversi che non si conoscevano (e non si conoscono ancora) quando scrissi che borghesi siamo tutti noi che ci occupiamo di politica; borghese era De Gasperi e lo è Fanfani; Gronchi e Gonella; Saragat, Nenni e Togliatti non sono che borghesi, borghesissimi che fanno da capo-partito. Il dizionario italiano, anche quello compilato in questo felice decennio, all'aggettivo borghesedà il significato normale di cittadino del ceto medio, del libero professionista, dell'agiato possidente, detto anche piccolo borghese, in contrapposto a grosso borghese, a ricco uomo di affari, so bene che certa borghesia non ha gesto artistico, non ha la finezza aristocratica cara a paesi come la Francia e l'Italia; mostra di essere materialista, godereccia, e fa la figura dei nuovi arricchiti. Anche Dante attribuiva i mali di Firenze alla gente nova e ai szibitiguadagni: fenomeni naturali di una società in crescenza. La metteremo al bando? Per certi cattolici di sinistra il borghese, anche se avesse le tradizioni di un Rossi e di un Borsalino, che crearono industrie italiane di primo ordine apprezzate in Italia e all'estero; o di un armatore come Vincenzo Florio o Tagliavia a Palermo, Costa a Genova, e così di seguito, sono da bollare nel senso marxista, e, come padroni, da eliminare dalla struttura sociale. Già, la figura del padrone, cioè capo di un'azienda industriale o agricola, anche del tipo di Leon Harmel (quello della democrazia cristiana di Leone XII) non avranno più posto nella società democratica cristiana coniata dai sinistri. Aboliremo le grandi industrie italiane anche se dànno lavoro a migliaia di operai, trattandoli bene, riconoscendone i diritti personali e sindacali, solo perché sono in mano a borghesi? le metteremo in mano allo Stato? Vedo che i modernissimi sorrideranno sotto i baffi a leggere l'articolo di un così poco aggiornato giornalista quale sono io, e mi ricorderanno che «L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro)).La definizione della nostra Costituzione fu il frutto di un compromesso, nel quale tutti i partiti potessero leggervi i propri programmi. Forse che la borghesia non lavora? il professionista, l'industriale, l'agricoltore (agrario per dispregio) non lavorano? L'Italia è un paese di lavoratori; gente che non lavori e viva alle spalle degli altri non ce n'è; salvo gli invalidi, gli inabili, i disoccupati tutti degni della solidarietà civica e cristiana e degni dell'assistenza pubblica e privata. Ci saranno in Italia (come altrove) parassiti, sfruttatori, giovani debosciati; minoranze spregevoli da classificare con coloro che vivono ai margini della società civile. Occorre interessarsi anche di costoro per ricondurli (se possibile) al retto sentiero. Potrei continuare a dire che pur ammettendo il disuso della frase classi sociali, nel senso di separazione e di opposizione, senso acuito dai socialisti con la loro dittatura delproletariato e il trionfo dell'unica classe quella dei lavoratori, non è consentibile né possibile il livellamento sociale (se ne parla in Inghilterra dai laburisti dopo il fallimento della politica delle nazionalizzazioni); né il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione allo Stato (socialismo di Stato); né la dipendenza dell'ente pubblico di ogni attività produttiva e di ogni possibilità rimunerativa del lavoro umano. Queste prospettive socialiste o comuniste della politica e della economia, sono in sostanza soppressione di libertà, affossamento della personalità umana, dominio di un'oligarchia di Funzionari gerarchizzati con la conseguenza dell'aumento ipertrofico della spesa pubblica e della diminuzione della produttività nazionale. L'idea del cattolico sociale è ben altro; anzitutto salvaguardare i valori della personalità umana, della libertà, di ogni libertà compresa quella di iniziativa; evitare il controllo dello Stato (che è controllo oligarchico) su tutta la vita del paese; e allo stesso tempo dare la possibilità alle categorie (o classi) lavoratrici di elevarsi, di trovare lavoro nell'aumento della produzione e nella pacifica cooperazione o solidarietà civica.


Lo Stato intervenga, anzitutto, prelevando da coloro che possono, i mezzi per fronteggiare i bisogni pubblici, integrando la iniziativa privata, sostituendola, in via eccezionale, quando questa fa difetto ovvero è in crisi e, nel rispetto dei diritti e nell'adempimento dei doveri, rimettendo nel paese quella disciplina, quel senso di responsabilità, quella parsimonia che caratterizza il vero democratico e dà esempio di moralità cristiana. A me non h impressione se un provvedimento sociale possa avere anche i consensi dei socialisti e dei con~unisti;a me urta pensare che fra due soluzioni quella onesta, equilibrata, e vantaggiosa per il paese e l'altra demagogica e sowertitrice, si preferisca la seconda perché appoggiata dai socialisti e non la prima perché passerebbe per soluzione .. . di destra! Ecco l'aberrazione che io combatto non solo presso la gioventù infatuata di sinistrismo, ma anche presso qualche cattolico che si vuol classificare: ((tutto chiesa e sagrestia)).

LIAzione Popolare, 28 gennaio 1957

11 mito della Sinistra Abituati a parlare di sinistra e di destra - il centro non è nominato molto né poco, salvo per svalutarlo come centrismo e squalificarlo come immobilismo- ora che si è alla vigilia dell'unificazione socialista vale la pena cercare di capire che cosa è nella sua realtà politica questa idolatrata «sinistra». Anzitutto, la sinistra attuale non ha nulla a che vedere con la cosiddetta sinistra storica arrivata al potere nel 1876; la quale era tanto borghese, nel senso marxista della parola, quanto lo era la destra storica. Le promesse di miglioramenti economici caddero nel nulla per la crisi del successivo ventennio, in parte superata con lo sbocco emigratorio specialmente meridionale, in parte esasperata con le rivolte delle folle disoccupate, delle quali la più grave quella dei fasci in Sicilia. Come e più della destra, la sinistra in Parlamento si faceva e disfaceva per l'azione di uomini notevoli, ma con istinti dittatoriali, quali Depretis, Crispi, Zanardelli e Giolitti. Così l'epoca dei due partiti venne a finire; mentre erano per nascere l'estrema destra e l'estrema sinistra, conservazione e rivoluzione. Ma la conservazione non la fecero Starabba di Rudinì, Pelloux, Sonnino; la rivoluzione non la fecero Ferri, Turati, Barbaro, Bissolati, De Felice-Giuffrida; il ventennio 18951914 servi a far riprendere quota all'Italietta di allora, a fermare la reazione e a introdurvi istituzioni democratiche (suffragio universale), a conquistare la Libia, a consolidare la finanza e a sviluppare l'industrializzazione del Nord. Nello stesso tempo si ebbero due fenomeni interessanti: il riformismo socialista capeggiato da Turati, che attenuò il rivoluzionarismo verbale dei politicanti di estrema, e il possibilismo dei cattolici capeggiati, sotto due angoli diversi, dal marchese Cornaggia e dall'aw. Filippo Meda, cui faceva da contrapposto e da spinta la democrazia cristiana di Murri. Senonché, la prima guerra mondiale, la rivoluzione bolscevica, la crisi politica ed economica del dopoguerra, l'entrata in campo del partito popolare, la pressione agraria della Valpadana, la cessione dei poteri dello Stato di fronte ad una pseudorivolta armata ripor-


tarono l'Italia fuori della cerchia dei paesi liberi. Né destra, né sinistra; partito unico, quello fascista.

I1 punto di partenza del nuovo mito della sinistra va cercato proprio qui. La resistenza unì comunisti e socialisti e azionisti, e, a certa distanza, liberali e cattolici. M a la coalizione dei comitati di liberazione, sorti alla caduta del regime e durante l'occupazione, non poteva dare altro che la prova delle difficoltà a convivere; se non era per l'abilità di Bonomi e di De Gasperi e la necessità di frontegiare gli eventi avversi, gli urgenti bisogni del paese e le incomprensioni della conferenza di pace, non si sarebbe potuto arrivare fino al maggio - - 1947 a mantenere un tripartito così radicalmente in contrasto interno di convinzioni, di idealità, di interessi. Eppiire fu in quel periodo che la sinistra si affermò e che il sinistrismo prese piede, anche quando il paese, dopo i primi saggi elettorali del 1945 e 1946, e dopo i governi del CLN e del tripartito, diede alla DC la maggioranza assoluta del 18 aprile 1948. Dal corporarivismo, che era di fatto un inquadramento politico, si era passati nell'Alta Italia, sorto il governo di Salò, alla repubblica sociale e all'esperimento della socializzazione delle fabbriche. Le distruzioni di guerra aprivano la via alle più impensate riforme; tutti si impancarono ad economisti e a riformatori; l'unificazione dei sindacati operai sulla base tripartitica fece credere alla possibilità di una intesa permanente per le più ardite innovazioni. È naturale che contando sull'elettorato di massa, la prima esperienza dei partiti e dei sindacati fu fatta nelle campagne, proprio con la occupazione delle terre tollerata e legalizzata. Seguirono i blocchi, le statizzazioni anche nel campo del commercio. Non d ò la colpa a nessuno: è il clima di guerra e di dopoguerra che produce questa flora velenosa. Tutti, o quasi, si trovarono poco preparati a farvi fronte, e non acclimatati al nuovo ambiente, come Corbino, Soleri venuto meno troppo presto, Gilardoni, anche lui scomparso, e pochi altri del Parlamento prefascista. L'unico che fu inteso dal suo posto di governatore della Banca d'Italia e di ministro del bilancio, fu Einaudi, ma al 1948 era già al Quirinale. Le idee le più estreme si fecero strada e penetrarono anche nella DC: il passaggio dai principi del codice di Malines ad uno statalismo socialisroide sembrò maturo alla sinistra cattolica; c'era, e c'è tuttora una sinistra cattolica. Quel che più ha colpito nel decennio è stato l'uso del linguaggio marxista; per mettere in vista problemi già esaminati dalla scuola cristiano-sociale con presupposti teorici e con soluzioni pratiche di ben diverso stampo. Per dippiù un fraseggio critico usato dagli iniziati serviva a contrabbandare metodi e finalità poco cristiane. Noto soprattutto lo spirito di dispregio della categoria degli imprenditori, l'irrazionale e anticristiana posizione socialista di attribuire alla categoria le colpe dei singoli, di misconoscerne i diritti, con la chiara tendenza, in alcuni, del passaggio allo Stato delle grandi aziende private (statizzazione o nazionalizzazione) owero alle categorie operaie (socializzazione tipo fascista o tipo bolscevico). La statizzazione è sembrata la via più facile delle riforme, senza mai esaminare il costo quasi sempre superiore al reddito, né lo sbocco inevitabile verso il socialismo di Stato. La cosiddetta ((riformadi struttura)), che avrebbe dovuto giovare alle classi operaie, si risolve quasi sempre a vantaggio del funzionarismo degli enti statali, parastatali e semistatali; il meno adatto e meno preparato ad amministrare aziende industriali e commerciali e


perfino agricole e le stesse fonti di energia, per le quali un'economia industrializzata può veramente esistere e competere nel mondo moderno. A completare il quadro del mito di sinistra debbo far notare che hanno avuto la loro parte di responsabilità sia quegli industriali che hanno awersato le sane riforme e ne hanno pagato lo scotto a tutti i partiti; sia quegli altri che, pur favorendo un certo riformismo equilibrato, han cercato di conciliarsi le due estreme di destra e di sinistra. mancanza di convinzioni? mancanza di chiara visione politica? mentalità formate nel passato fascista, e anche prima, sviluppate con interventi governativi nel campo doganale e in quello dei prezzi di Stato? Dall'altro lato, la destra politica ha creduto di potere svalutare la repubblica con I'appoggiarsi sull'idea monarchica; mentre i missini han cercato di far rivivere, allo stesso tempo, l'idea fascista antidemocratica, l'idea corporativa e quella più avanzata della socializzazione delle imprese. Così si è rafforzato il mito di sinistra non solo nel frasario corrente e nella ricerca di basi per le riforme economiche, ma anche nella situazione politica. Lo stesso quadripartito, che doveva centr$care la politica italiana nel czmpo economico sociale si è trovato scoperto a sinistra, proprio per una visione inesatta delle riforme sociali orientate verso lo statalismo socialistoide, credendo così di potere risolvere la questione operaia, vincere la disoccupazione ed elevare il livello morale ed economico del lavoratore. Questo falso orientamento ha fatto sì che in ogni partito esista una sinistra, contro iin centro che per definizione soffriràdi immobilismo, e di una destra affetta da reazionarismo; così son divisi i democristiani, così i liberali e i socialdemocratici; hanno anche le loro sinistre i socialisti di Nenni e perfino i comunisti di Togliatti; quest'ultimi con la briglia. Quando avremo il piacere di un partito socialista unificato, ci sarà la stessa solfa: l'ala sinistra, quella che per essere di sinistra non dimenticherà i colleghi comunisti, spingerà i socialisti verso le proposte estremiste adatte a convogliare i voti dei rossi; e, senza bisogno di nuovo patto, si formerà, sulla base del mito della sinistra, il fronte popolare, che darà lo sgambetto al quadripartito che finora ha governato sotto la etichetta di centro ma subendo l'influsso della sinistra.

11Giornale d'ltdlia, 6 febbraio i957

L'Alta Corte siciliana' Sig. Direttore, La prego di consentirmi, quale giudice anziano dell'Alta Corte per la Regione siciliana, di chiarire o rettificare qualche affermazione del dottor Michele La Torre, fatta nell'articolo pubblicato col titolo: «Due Alte Corti sono troppe». Egli scrive che lo statuto siciliano sia stato «convertito in legge costituzionale». I1 testo esatto della legge è il seguente: «Lo statuto siciliano, approvato col decreto legislativo del 15 maggio 1946 n. 155, fa parte delle leggi costituzionali della Repubblica ai sensi e per gli effetti dell'art. 116 della Costituzione». Non avrei rilevato la differenza delle diciture se più oltre il dott. La Torre non avesse

Lettera del 4 febbraio 1957 al direrrore del quotidiano -11 Glob~», don. Iralo Zingarelli.


scritto quanto segue: ((Unospirito attento e spassionato avrebbe potuto chiedere: se lo statuto del 1946 deve essere riveduto e coordinato (con legge ordinaria), perché lo si dichiara legge costituzionale così com'è? E se fino dal 1946 si previde il logico e necessario coordinamento con la Costituzione, come può l'Assemblea costituente, prima di tale coordinamento, dare allo Statuto la patente di legge costituzionale?».E conclude che l'Assemblea costituente fece «salvo l'obbligo del coordinamento)). In verità, il testo di legge costituzionale non fa salvo il coordinamento, né impone un tale obbligo. Non mi rendo conto come un giurista quale è La Torre possa leggere nel testo quel che non vi è, là dove si parla di «modifiche ritenute necessarie dallo Stato o dalla Regione)); il riferimento alla Regione è probante, non avendo questa alcuna voce in materia di coordinamento, che il Decreto legislativo riferiva all'Assemblea costituente. L'Alta Corte nella sua decisione del 19 luglio -10 settembre 1948, non accettò la tesi «che la procedura costituzionale per il coordinamento si potesse fare con legge costituzionale)) come scrive il dottor La Torre; ma che ogni modifica allo Statuto siciliano, - senza eccettuare le proposte ritenute necessarie nel I biennio, - vanno fatte con legge costituzionale. I1 dott. La Torre può leggere il testo cristallino della sentenza, scritta dal prof. Filippo Vassalli, alla cui probità, scienza giuridica e chiarezza di idee non c'è persona colta che non abbia reso omaggio; e si convincerà del mio rilievo (l'Alta Corte per la Regione Siciliana - I Giuffrè, 1954 - pagg. 39-44). Il fatto, poi, che nei due anni dal febbraio 1948 al febbraio 1950, nessuna proposta di legge ordinaria di coordinamento fosse stata presentata in una delle due Camere, può significare sia I'adesione alla «cosa giudicata));sia la mancanza di materia di coordinamento; sia la inopportunità politica dell'iniziativa. L'unica questione sollevata in Parlamento, durante la 1.a legislatura, in occasione della legge sulla Corte costituzionale, è stata quella della esistenza o meno dell'Alta Corte; furono presentate allora due proposte: una per l'abolizione e l'altra per la fusione con sezione distinta. In tale occasione, il Senato affermò in un ordine del giorno accettato dalla maggioranza la necessità della procedura costituzionale. I1 disegno di legge sulla sezione speciale (che era stato redatto dall'on. V. E. Orlando e presentato dal professor Caronia e da altri) decadde con lo scioglimento del Parlamento; ma nella scorsa estate è stato ripresentato alla Camera ed attende regolare procedura. Escludo che l'Assemblea siciliana si sia, in merito, mostrata rigida; ricordo I'adesione data, su richiesta dell'onorevole Gronchi allora presidente della Camera, alla proposta di legge costituzionale per una Sezione presso la Corte costituzionale. A questi precedenti va aggiunto quello della nomina, da parte dell'Assemblea dei due rami del Parlamento, di due giudici dell'Alta Corte, avvenuta nell'otcobre del 1954 nelle A. Sandulli. persone degli attuali giudici effettivi, aw. G. 8. Migliori e Si dovrebbero nominare altri due giudici uno effettivo al posto del dimissionario giudice Bracci e uno supplente per il posto lasciato dal defunto prof. Vassalli. La richiesta ufficiale è stata fatta solo il 2 agosto scorso, da me, quale giudice anziano, al presidente della Camera, onorevole Leone, il quale rispose che si sarebbe accordato con il presidente Merzagora allora in ferie. Debbo ritenere che il rimando fino ad oggi sia dipeso da motivi di opportunità procedurale, con riferimento ai lavori delle due Camere e mai (come pensa il dr. La Torre) dal proposito di sabotare l'Alta Corte, la quale ha anche compiti più larghi e diversi di quelli della Corte costituzionale. Non fo apprezzamenti per la via presa dal Governo, durante la impossibilità di funzionamento dell'Alta Corte, di ricorrere alla Corte costituzionale, per non venir meno alla discrezio-


ne impostami daila pur temporanea posizione di giudice anziano, per la vacanza del presidente

T. Perassi, dimissionario perché nominato, insieme al prof. Bracci, aila Corte Costituzionale. Ringraziamenti e distinti ossequi. Luigi Sturzo

/I Globo, 6 febbraio 1957

Costituzione e costume Sui quotidiani e nelle riviste di cultura non è mai cessato il dibattito sui problemi costituzionali. È buon segno che la classe politica italiana avverta qualche cosa di manchevole, di incoerente, di surrettizio nella struttura della nostra democrazia parlamentare. Il più usuale rilievo è quello della mancata attuazione di vari istituti previsti dalla Costituzione. A quasi sette anni e mezzo dall'insediamento del Parlamento della Repubblica, non sono state ancora approvate tutte le leggi di attuazione, né è stata compiuta la revisione delle leggi, per adeguarle alla lettera e allo spirito costituzionale. Fu da me rilevata in Senato, durante la discussione del disegno di legge Tremelloni, la grave mancanza di una legge che regoli il contenzioso tributario. È di questi giorni il dibattito parlamentare sui tribunali militari. La Corte Costituzionale, in due anni e mezzo non attuata per un errore legislativo, emendabile ma non emendato, pare che arrivi in porto in mezzo a compromessi parlamentari molto discutibili. I1 disegno di legge sul Consiglio superiore della Magistratura è da discutersi; il consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, già approvato da una delle camere, attende il voto dell'altra e così la legge elettorale regionale, mentre la legge sul diritto di sciopero è ancora da venire. In questo quadro di carenza costituzionale, non mancano strane proposte sulla cosidetta integrazione del Senato. Da alcuni mesi in qua si parla anche di una più impegnativa funzione del Presidente della Repubblica, e perfino di una fÙnzi.one «istituzionale»dei partiti. Dal completamento della Costituzione si va così verso una revisione della democrazia parlamentare, messa a base della Repubblica. Revisione e trasformazione di istituti? per legge? per legge costituzionale o per intimo sviluppo e per costumario adattamento? Ci siamo dimenticati, a pochi anni di distanza, dello spirito e della lettera della Costituzione e delle preoccupazioni, non ingiustificate, dei costituenti, e della stessa opinione p u b blica, all'indomani della caduta del fascismo e della fine della guerra. Si volle allora una costituzione rigida e fu circondara di due colonne d'Ercole: la Corte Costjtuzionaie è una speciale e non facile procedura per la revisione, proprio per mantenere fermo il tipo scelto di democrazia parlamentare. Per evitare facili interpretazioni deformanti, si escluse che con legge ordinaria si potesse attenuare o modificare la disciplina costituzionale; e ad evitare deviazioni furono fissati principi generali da attuarsi con la normale legislazione, regolando, nei casi di legge Yiolatrice della Costituzione, anche il diritto di ricorso del singolo cittadino. Ciò nonostante, è sempre vero che il costume ha una sua parola da dire, ha un posto, sia pure secondario, per fare funzionare gli ingranaggi istituzionali; è come I'olio che è necessario per togliere la ruggine, per fare agire i meccanismi con la maggiore agilità possibile. Ma quale costume? Nei paesi dove le costituzioni hanno una storia di secoli ed hanno informato gl'istituti attivi della nazione, la tradizione, penetrando nella coscienza popola-


re, creando il rispetto della continuità, l'attenta difesa dei diritti acquisiti, e fornendo i mezzi di tutela nelle subdole e surrettizie infiltrazioni di poteri personali, limitanti le libertà fondamentali, è la migliore garanzia dello spirito costituzionale. Noi abbiamo solo la tradizione risorgimentale, con tutti i suoi difetti e tutte le passionaiità. Gli "statuti", oltre che storicamente tardivi, furono elargiti dai sovrani locali (che poi li ritirarono); l'unico mantenuto fu lo statuto albertino, esteso poi dal Piemonte alle altre regioni a mezzo di plebisciti. A questi parteciparono ben poche categorie di cittadini, dato il sistema elettorale censitario che costituì inizialmente I'oligarchia borghese, rappresentante solo idealmente la nazione. Si sviluppò, pertanto, un sistema accentratore, atto a imporre il nuovo regime, non mai a formare una tradizione popolare e un costume di pieno rispetto alle libertà fondamentali. L'Italia doveva, purtroppo, passare attraverso le rivolte del Mezzogiorno, quelle anarchiche del Centro, quelle dei fasci in Sicilia; le dittature militari, gli stati d'assedio, il regicidio, le leggi Pelloux. Quando sembrava conquistato un sistema costituzionale quasi democratico, modificando insensibilmente lo statuto e rendendolo popolare, viene la prima guerra. Questa diede alla nazione le provincie irredente di Trento e Trieste, e all'attività politica e parlamentare I'intervento aperto dei cattolici nella vita pubblica (gennaio 1919) e la successiva abolizione del non expedit (novembre 1919). Ma poco dopo lo statuto aibertino fu violato da chi aveva il dovere, confermato da giuramento, di osservarlo e farlo osservare; la Camera, tra il silenzio degli eletti, fu insultata dal nuovo cap o del governo; il Paese non reagì e la dittatura soffocò le libertà costituzionali. H o ricordato queste fasi, per avvertire che i sette anni, nei quali la costituz,ione repubblicana è in vigore, non bastano a creare una tradizione, e a fare entrare in funzione un costume e, più che altro, farlo entrare nella coscienza popolare. Tutti siamo facitori della tradizione e del costume; ma saranno le generazioni future quelle che usufruiranno, se "i rivoluzionari" e "gli aperturisti" non manderanno per aria quel che si sta costruendo, e se non faranno come i fascisti del 28 ottobre 1922, i quali credettero di fissare in quella infausta data l'anno I della nuova era. Quando, dopo il discorso, alle due Camere riunite, del nuovo Capo dello Stato, (che non era un messaggio nel senso costituzionale della parola), ho letto certe interpretazioni non solo di cambiamento di stile (che è ammissibile fra l'attuale presidente e il suo predecessore), ma di significato costituzionale; e quando, insieme a tale interpretazione, ho rilevato apertamente o tra le righe, la delineazione di una diversa configurazione presidenziale, ne sono rimasto sorpreso e turbato, non per il gran pubblico ai quale piace sempre sia un Giolitti manovratore, sia un Mussolini demagogo, ma per via di certe firme di autorevoli costituzionalisti o di non insignificanti uomini politici. E quando sul giornale della DC (non so se ufficiale o di semplice propaganda) leggo certi articoli (col pseudonimo, è vero), sulla legittima e felice insersione dei partiti nel sistema parlamentare e governativo, affermando come sorpassate certe disposizioni costituzionali; ovvero leggo anche certi consensi di giuristi aila tesi che fa dei ministri "i delegati al governo", debbo pensare che non solo non esiste per costoro la cosidetta costituzione rigi& ma che basti un discorso o la massa della DC a far dimettere Pella o Scelba o la frase di Maiagodi sulle delegazioni per creare quel "costume" che annulli i presupposti giuridici e i disposti positivi della nostra Costituzione. Q u i siamo sulle sabbie mobili, che, possono da un momento all'aitro inghiottire parecchio del nostro sistema costituzionale. Non è questo il costume che vale e che è degno di essere chiamato "costume"; sì bene quello che deriva, anzitutto, da una elaborazione spontanea, sia giuridica che politica, che dia luogo a discussioni pubbliche, a studi approfondi-


ti, a giurisprudenze di magistrati, tramandando da una legislatura all'altra, da una generazione all'altra, il meglio di quanto viene elaborato, corretto e realizzato nel campo delle attività istituzionali. Tutto ciò, senza violentare le disposizioni di legge, senza abbandonare le forme, senza turbare il senso del più convinto rispetto verso la carta fondamentale della nazione, che è insieme patto reciproco e atto di autorità popolare. Se gli antichi dicevano: qui cadit aforma cadit a toto, e ne avevano ragione, trattandosi di diritto privato, perché anche il diritto pubblico veniva riguardato come contrattuale; noi, pur riconosceiido al diritto pubblico una sua speciale formazione politica, oltre che giuridica, riteniamo sostanziale la forma prescritta al cambiamento costituzionale, senza la quale cade ogni possibilità di modifica. Le interpretazioni derivanti dalla pratica attuazione della Costituzione non possono vioiarne la strunura e lo spirito, né alterarne il significato letterale. La Corte costituzionale è nata a questo scopo, è nata per dare sicurezza alla nazione di una costante tutela del diritto popolare. I1 Presidente della Repubblica ha funzioni di tutela della Costituzione in tutti gli atti ai quali egli deve apporre la sua firma e in tutti gli interventi richiesti dalla sua alta funzione di Capo dello Stato. I presidenti delle Camere sono garanti della funzionalità e quindi del costume e della tradizione parlamentare. I1 presidente del Consiglio dei Ministri lo è della regolarità e del costume dell'amministrazione. In tutto si riflette lo spirito della Costituzione, che dovrebbe essere ritenuta la più alta espressione della vita nazionale; e come tale insegnata nelle scuole secondarie e universitarie e fatta apprendere, in sunti ed estratti, nelle scuole elementari come la carta dei diritti del popolo italiano. Con questo spirito, ben vengano le modifiche e le riforme costituzionali, ma non prima che ne sia stata fatta l'integrale e organica attuazione.

LIAzione Popohre, 10 febbraio 1957

monopoli privati e CIP Anche per i monopoli privati bisogna distinguere quelli di diritto da quelli di fatto; i primi possono, anzitutto, derivare da un brevetto riconosciuto e garantito dallo Stato per il periodo di anni fissato dalla legge. Si può discutere circa il periodo di estensione del diritto di brevetto, non se ne può disconoscere la portata giuridica, morale e sociale. Date le condizioni del nostro Paese in materia di invenzioni utili e di diffusione dei brevetti nostrani all'estero, e di brevetti esteri in Italia, occorre incoraggiare e non mai scoraggiare la invenzione scientifica applicata all'industria. I1 monopolio privato può anche derivare da concessione statale; ad esempio, quello dei fiammiferi o delle banane. Le attribuzioni di servizi ritenuti di interesse generale creano delle posizioni monopolistiche; vedi gli enti del riso e della canapa, i consorzi agrari e molti altri; non li approvo ma esistono, a tipo privato e con marca di Stato. Tutti gli altri che possono essere realizzati da privati sarebbero monopoli di fatto, o ne avrebbero la tendenza a divenire tali per vantaggi sia naturali sia acquisiti per merito, O anche per intrigo, ovvero in conseguenza di maldestri interventi statali. Bisogna ringraziare coloro che hanno il merito di avere rialzato le quaiità del prodotto e di averne, allo stesso tempo, mantenuto o ridotto il prezzo, sì da essere divenuti i più


ricercati produttori. Vigevano che ha la fama delle scarpe modello anche all'estero; Rossi O Martini che esportano vermut a mezzo mondo; le vecchie ditte di Florio e di Woodhouse per il marsala di un tempo, sarebbero monopoli di fatto? Nessuno li classifica come tali per via della tradizione, la qualità, l'organizzazione commerciale, perché in teoria non è iinpedita la concorrenza, come non è impedita per il panettone, non ostante I'insuperabilità del panettone di Milano. I monopoli che oggi sorio denunziati, apertamente o subdolamente, sono quelli attribuiti alle nostre grandi socierà, che hanno potenza finanziaria, campo esteso di attività, gruppi di società dipendenti o collegate, nonché altre società all'estero autonome ma collegate. A prima vista, ogni italiano dovrebbe essere orgoglioso di uno sviluppo industriale COsì largo e imponente, e non dovrebbe apriori mostrarsi ostile, come fanno non solo le sinistre politiche, ma anche certi sindacalisti. Intendiamoci: se il sindacalista difende gl'interessi dei lavoratori e degli impiegati delle grandi imprese, fa il proprio dovere; ma se cerca motivi extrasindacali di attrito presso categorie che sono oggi più favorite per salari, contratti, stabilità di lavoro, prowidenze sociali (a parte quelle statali), farebbe la demagogia dei beati possidentes in confronto ai semi-occupati e ai disoccupati, e verrebbero meno al compito di migliorare le relazioni umane fra gli imprenditori e le categorie di impiego e di lavoro. H o detto (<aprima vista», perché vi sono punti discutibili che lasciano perplessi. I1 primo è quello della protezione doganaie quando arriva ad essere addirittura proibitiva; I'altro, del doppio prezzo garantito, basso all'estero, alto all'interno, gavando la differenza sul consumatore italiano; peggio ancora quello dei prezzi di imperio, fissati dal CIP, e così via. Se a questa armatura statale, si aggiungono poi i cartelli, le intese limitative della produzione owero delle zone di mercato (di non facile attuazione in un paese individualista come il nostro) il monopolio di fatto verrebbe affermato con doppia azione, una politica per l'intervento statale e una privatistica ancora più caratterizzata. Per quanto riguarda questa ultima, occorre dire che la nostra legislazione è carente; la lacuna potrà essere colmata da qualche legge prudente e savia, e non certo con la declamazione contro le grandi imprese, senza le quali l'Italia sarebbe alla coda della economia moderna e avrebbe un reddito nazionale molto più limitato di quello attuale. La legge dovrà contenere norme giuridiche chiare ed evitare inframmettenze politiche. Soprattutto occorre non trascurare l'educazione e la formazione di una mentalità comprensiva delle esigenze del pubblico e di quelle del lavoratore. A ciò debbono contribuire la scuola, le associazioni di categoria e le iniziative specializzate, quali le Relazioni Umane che già vanno acquistando credito e simpatia. Con. Malagodi nel 1955 e gli on.li Villabruna, La Malfa ed altri nel mese scorso, hanno presentato al riguardo, proposte di legge che dovrebbero essere bene esaminate e chiaramente discusse, per le ripercussioni che potrebbero avere nel settore economico. È da tener presente che il problema centrale del monopolio privato va collegato all'inrerventismo statale, che oggi imperversa nel nostro Paese come una epidemia. La legislazione antimonopolistica presuppone un mercato libero; ma il nostro mercato, specie nei settori più interessanti, non è libero; è controllato, coartato, vincolato. Per la parte più vitale dell'attività economica, lo Stato o crea propri monopoli, owero impone sistemi monopolistici alle iniziative private, o ne favorisce l'istinto pur con la convinzione di tutelare e il produtrore e il consumatore. Più volte mi è capitato di parlare con deputati, senatori, sottosegretari e ministri sui monopoli veri o creduti tali di certe !grandi imprese. Per esempio, l'industria cementizia è


accusata di monopolismo. A parte che i cementifici non sono monopoli né di diritto né di fatto; né per materia né per località (ve ne sono in tutte le regioni e di diversi proprietari, anche di enti pubblici); ma non è forse il prezzo del cemento fissato dal CIP? A questa domanda un ex ministro mi ha risposto di non &ere al CIP Purtroppo il CIP esiste e funziona. O si crede alla concorrenza o si crede ai prezzi di imperio. I cartelli privati si possono proibire per legge; ma i prezzi di imperio sono purtroppo fissati in forza di legge. Ricordo di un parlamentare favorevole alla statizzazione dei prodotti farmaceutici; questi portava per prova della sua tesi gli alti prezzi dei farmaci, senza pensare che esiste il CIP (comitato interministeriale dei prezzi) formato esclusivamente da ministri, né ricordare che I'ACIS (Alto Commissariato Igiene e Sanità) ha funzioni di sorveglianza come quelle di un ministero. I farmaci sono talmente controllati e i prezzi così rigorosamente fissati, che il prefetto può far chiudere quelle farmacie che vendono al di sotto del prezzo di Stato. È il colmo, ma è così. In conclusione, il prezzo di Stato sarebbe da un lato la garanzia del produttore e dall'altro la garanzia del venditore; niente affatto la garanzia del consumatore, che è tutto il Paese. Le lamentele per i prezzi alti dei fertilizzanti non sono mai cessate; un motivo di più per scrivere e gidare contro la Montecatini, società di primaria importanza, che anche all'estero fa onore alla nostra industria, al cui progresso ha largamente contribuito. Ebbene, i fertilizzanti sono venduti al prezzo fissato dal CIP; perché il cittadino non si lamenta delle paternepremure statali! Manca la concorrenza; doveva farla la Federconsorzi; si dice che ce la farà I'ENI. E che ben venga la concorrenza, a patto che sia sullo stesso piano con i privati in libero mercato, senza privilegi fiscali come quelli concessi all'ENI e che la Federconsorzi potrà reclamare, perché definita per legge: cooperativa. La incoerente politica economica di questo dopoguerra serve a mantenere ancora bardature e privilegi dell'epoca autarchica, creando per giunta nuovi enti statali privilegiati monopolistici; diffidando delle libertà proclamare a parole e contraddette con i fatti; avendo in prospettiva il monopolio statale dell'energia nucleare proprio al momento stesso in cui gli Stati Uniti d'America incoraggiano gl'impianti privati di tale energia; tutto ciò alla vigilia di grandi cambiamenti economici, come quelli del Mercato comune europeo e del1'Euratom e della nuova tecnica che ne deriva. Se gli attuali governanti sono così statalisti, che cosa farebbero i socialisti unificati? Ce lo diranno Nenni e compagni, che pensano, con la benedizione dei laburisti, ad una Europa neutralizzata, statizzata e socializzata; e ce lo diranno anche tutti quegli altri che aspettano l'unificazione socialista come l'avvento dell'era della prosperità.

11Giornale ditali&, I 3 febbraio 1957

IO.

Può l'uomo politico essere cristiano integrale? cristiano: «Siate perfetti come il PaA nessuno Dio nega la grazia per essere dre vostro celeste è perfetto». Si può supporre che Dio la neghi agli uomini politici, che come capi, legislatori, amministratori sono necessari alla società? San Paolo, nell'ingiungere a Timoteo di pregare per tutti gli uomini, scrive di pregare «per i re e tutti quelli che stanno in posizione elevata, affinché possiamo condurre una vi-


ta tranquilla e quieta, in tutta pietà e dignità»; in linguaggio corrente è chiaro che lo scopo è l'ordine pubblico (tranquillità e quiete) e buona amministrazioiie (pietà e dignità). Pertanto, se i governanti sono cattivi, a parte il danno che recano alla comunità, è colpa loro, non mai del mancato aiuto di Dio perché adempiano il loro dovere e si mantengano buoni cristiani. Nessun dubbio che ci siano stati re e governanti buoni e anche santi; basta ricordare S. Luigi re di Francia, S. Edoardo re d'Inghilterra e altri ben noti, pur facendo (se occorre) la parte dovuta alla leggenda; leggenda, però, non esiste per S. Tommaso Moro, che non fu sanro perché martire, ma fu martire perché santo; come S. Francesco Borgia era già un cristiano perfetto essendo governatore della Catalogna per divenire poi, da gesuita, religioso perfetto e arrivare agli onori degli altari. Ciò avveniva in regimi assoluti, nei quali la teoria del principe non legato alla legge lasciava troppo libera la via agli arbitri, quantunque tale legge non fosse applicabile anche alle ingiustizie e ai delitti (e le regie erano spesso centri di intrighi e di dissolutezza). Quando si passò ai regimi rappresentativi, con larga partecipazione alla vita politica, l'arbitrio fu limitato, denunziabile pubblicamente la ingiustizia, meglio regolata la legge; ma, dall'alrro lato, si rese più facile la demagogia, più accessibile il potere, e col potere l'abuso, anche quello del pubblico denaro; e le tentazioni ebbero, ed hanno, nella vita politica, un campo molto più vasto. Ma chi può affermare che il cristiano, nell'ufficio affidatogli, non fosse in grado di resistere alle tentazioni, regolarsi secondo coscienza, seguire la legge morale, obbedire alle leggi giuste, emendare le leggi ingiuste e curare il bene comune? Molti degli uomini politici in quasi due secoli di diffuso regime rappresentativo e libero, han dato esempio di probità, correttezza, spirito di sacrificio. E superfluo farne i nomi; avranno avuto i loro difetti e la coscienza loro avrà forse rimproverato quelle deficienze che sono il retaggio di ogni uomo nato nel peccato originale. Ma di molti di costoro, nell'esercizio del loro particolare ufficio e nel generale loro comportamento, si ricordano e la volontà di servire la buona causa e gli esempi di virtù morale e civile. Che avessero potuto fare degli sbagli in politica non si nega; che avessero mancato ai doveri della loro coscienza cristiana, non risulta. Lo stesso si esige nel campo morale dal professionista privato, medico, awocato, ingegnere, uomo di affari, commerciante, banchiere. Non ricordo più il nome di quel direttore di banca tedesco vissuto alla fine del secolo scorso, del quale si è parlato come di un sanro: pare ci sia in corso un processo informativo delle sue molteplici virtù. Penso che S. Matteo, chiamato dal telonio all'apostolato, doveva già essere ben disimpegnato dall'aaaccainento al denaro e ben disposto a sentire la voce del Maestro. I1 Vangelo, narrando la conversione del pubblicano Zaccheo ci fa sapere che durante il pranzo promise a Nostro Signore di restituire il malrolto dando fino il quadruplo; ma per S. Matteo, nel pranzo dato dopo la chiamata, non si fa cenno a pentimenti di colpe, né a conseguenti riparazioni. In conclusione: se il Vangelo afferma essere la via del cielo assai stretta, e perciò impossibile a percorrerla per i superbi e di difficilissimo esito per i ricchi, quegli uomini politici e amministratori pubblici che sono esposti a montare in superbia e a subire le tentasono perciò stesso obbligati, se vogliono rimanere buoni zioni di ingiuste lo~u~letazioni, cristiani, di stare molto più vigilanti degli alrri, e di pregare Dio che accordi loro con maggiore abboridanza la grazia dello stato.

La Rocca, 15 febbraio 1957


La politica estera del PSI.. .

... è molto semplice: nez~tralismodi fondo, europeismo condizionato e classista; par$smo, specialmente per l'ltalia. Il lettore è pregato di non credere alle mie sottolineature; per esserne convinto legga bene il testo della Mozionepolitica conclz~sivadel 32" Congresso del PSI (32" perché il PSI pretende di essere l'erede unico e autentico del socialismo prefascista). Del resto in politica estera, meno l'europeismo allora inesistente, i socialisti «storici» erano rimasti al disarmo universale e all'internazionalismo di classe. Ma nel 1914 la 2" Internazionale diede la prova provata della sua inconsistenza, quando i socialisti tedeschi e austriaci accettarono la politica di guerra di Guglielmo I1 e di Francesco Giuseppe; i socialisti francesi parteciparono al governo non solo per la resistenza, ma anche per la resa incondizionata e lo schiacciamento completo della Gerniania. È vero: i Socialisci italiani furono in maggioranza neutralisti; non essi soli, ma Giolitri, sia pure sotto condizione, nonché un certo numero di cattolici del campo politico allora discretamente giolittiani (siamo poco dopo il patto Gentiloni), molti altri cattolici per sentimento o per prudenza. La frazione socialista interventista si staccò dal ceppo; Mussolini fondò il Popolo d'Italia; Bissolati e Bonomi divennero ministri. Ricordo la riunione di Zimrnerwald insieme a Lenin ed altri con l'intervento dei socialisti italiani; ricordo la frase di Claudio Treves: «a dicembre non più in triricea));ricordo Caporetto e il seguito, e a guerra finita, l'accanimento socialista per svalutare la difficile vittoria ottenuta con tanti sacrifici. Questi ricordi non sono inutili; il neutralismo internazionale è solo un'ombra alla quale i socialisti danno corpo; può esser buona a svalutare i doveri di resistenza e le possibilità di ripresa. Quando i socialisti sono al potere è un altro paio di maniche, perché, volere o no, sono obbligati a difendere gl'interessi di tutti e, se del caso, fare anche la guerra, come è capitato alla Francia sotto il governo Mollet. Capiterebbe lo stesso ai laburisti britannici, non ostante il pacifismo di Bevan. A proposito del quale occorre dire chiaramente che l'idea dei laburisti di far cadere i Governi dei democratici cristiani della Germania e dell'Italia nasce più dalla tradizione inglese che dalle convinzioni socialiste; credendo ancora alla tesi del tempo di una Germania sconfitta e di un'Italia svalutata. Solamente ora al Foreign Offìce si cominciano a rendere conto della necessità di irrobustire l'Europa della quale bon gré malgré, la Gran Bretagna deve far parte. Gli inglesi sono lenti a comprendere i problemi dei popoli al di là della Manica e molti di loro, per abitudine o per convinzione, pensano ancora con le idee di un tempo passato. Bene: il PSI dunque ci propina l'ispirazione neutralista, come pillole per diventare giovani. Ecco il testo: «Il PSI, fedele alla sua ispirazione neutralista, si batte per il superamento dei blocchi militari, il disarmo progressivo, il rafforzamento e l'universalità dell'ONUn. Se non ci fosse fa premessa neutralista (che non ha mai conchiuso nulla), il resto potrebbe essere un bel pezzo di propaganda adatto per i comizi di tutti i partiti. I1 Congresso di Venezia prosegue: <(Massimacostante preoccupazione del Partito è quella di sottrarre il popolo ad ogni awentura di guerra, che per l'Italia particolarmente sarebbe una catastrofe irreparabile». Perché «per l'ltaiia particolarmente?».Se si mettono in azione le armi nucleari non vi sarà paese belligerante, o anche neutrale, che ne eviterà le tragiche conseguenze. Questo


pericolo, e solo questo, rende improbabile una terza guerra mondiale. I1 dono che ci ha fatto la scienza è tanto per il bene quanto per il male; ma, nel caso di guerra, il male porterebbe al suicidio della stessa umanità. 1 socialisti, beati loro, hanno lo specifico proprio aper sottrarre il popolo ad ogni avventura)); infatti è scritto nella Mozione di Venezia che «I1Partito è pronto a concorrere ad una politica europeista che, saldamente appoggiata al movimento socialista ed operaio, (leggi, comunista) tenda a fare dell'Europa una forza di progresso sociale e democratico, di mediazione e di pace)). Ecco il piano: partiti socialisti al potere in Francia, in Germania e in Italia; laburisti in Gran Bretagna; distacco dell'Europa occidentale dal patto atlantico per poter fare da mediatrice fra gli Stati Uniti d'America (dove non esiste un serio partito socialista) e la Russia (dove è al potere il comunismo). Un'Europa armata o disarmata? Il PSI tace; la qualifica «forza diprogresso democratico e sociah non esclude ma non include il riarmo dell'Europa; la quale da sola, anche se armata, non potrebbe reggere. Un'Europa che comprenda anche i Paesi oltre cortina, Germania Est, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Romania, Bulgaria? La Mozione tace anche questo insignificante Però in altro punto è svelato il mistero, dove si fa una distinzione notevole fra i movimenti operai con i quali il PSI intende mantenere o allacciare rapporti: «quelli dell'occidente che lottano in condizioni analoghe alle nostre, quelli dell'oriente che hanno dovuto conquistare il potere con la violenza contro classi ed istituzioni chiuse ad ogni esperienza di vita democratica, ed ai quali la rivoluzione industriale attuata nel quadro di un'economia socializmta, e l'alto livello culaprono nuove vie democratiche» (sono io che sottolineo). turale ormai ra~izinto, Non poteva farsi elogio più smaccato e più falso dei regimi comunisti di oltre cortina, con dippiù confondendo paesi come la Germania, la Cecoslovacchia, la Polonia, 1'Ungheria, -gli Stati baltici e balcanici da un lato e la Russia di Stalin, la Russia barbara dali'altro; e ritenendo per giunta che in tali paesi il potere sia in mano alla classe operaia, mentre è solo in mano ad un funzionarismo prepotente e senza scrupoli. Un congresso che, a parte ogni altro motivo, afferma quanto sopra proprio mentre continua la rivolta in Ungheria (della quale la Mozione non fa il minimo cenno) e mette in un fascio oppressi e oppressori, si è squalificato da sé e non merita credito. Come dimenticare che i paesi satelliti sono «preda di guerra))pur essendo stati paesi liberi, indipendenti, civilizzati e ora da dodici anni soggetti ad una potenza straniera, che non rispetta la libertà e la dignità umana? E tali paesi con a capo la Russia dal congresso di Venezia sono posti al di sopra dell'occidente democratico, che invece è presentato come sfruttatore e oppressore della classe operaia e fautore della guerra. Narra una leggenda popolare siciliana che una volta i cardinali elessero un papa di origine ebraica; ma dopo l'elezione furono assaliti dal dubbio che non fosse un vero cristiano. Fecero allora suonare tutte le campane di Roma, e ail'eletto che ne domandò il perché, risposero che era nato il vero Messia. A questa notizia egli di scatto esclamò: ((L'avevodetto io che il Messia doveva ancora venire!)).Così i cardinali lo riconobbero come vero ebreo, e ne scelsero un altro. Nenni e compagni del PSI, dopo avere attestato la loro fede ne!la democrazia e nella libertà, dopo avere affermato la propria indipendenza dal partito comunista, e la volontà di rispettare l'alternativa al potere con i partiti «borghesi»,hanno fatto come il «papa ebreo)) della leggenda siciliana, esaltando i governi dei paesi comunisti, Russia e satelliti, affermando


esservi stato attuato il passaggio del potere alla classe operaia in una democrazia instaurata con «la rivoluzione industriale),, «l'economia socializzata* e «l'alto livello culturale». Nenni stesso, criticando coloro che in base ai risultati elettorali continuano a svalutare la tesi dell'unificazione socialista e lo stesso congresso di Venezia, fa appello alla Mozione votata all'unanimità come il distillato puro del pensiero del PSI; ma è questo pensiero che per noi non è equivoco, né equivocabile; ed è perfettamente in linea col mancato ricordo, nella Mozione stessa, dei patti sottoscritti dalllItalia: Atlantico, NATO, UEO, del mantenimento delle nostre alleanze; del nostro diritto di difesa in caso di aggressione anche dalla Russia; della necessità del riarmo dell'Italia fino a che la Russia non accetta con l'occidente il reciproco controllo degli armamenti. Purtroppo, per il PSI si tratta di un mondo trascurabile, inesistente, proprio il mondo nel quale oggi viviamo, per il quale oggi siamo in piedi e possiamo dire la nostra parola. I signori del PSI che, pur superati dagli eventi, vogliono arrivare a prendere il potere a nome della classe operaia che essi pretendono di rappresentare, parlano ancora nel 1957 come parlavano i socialisti di mezzo secolo fa; ma allora non c'era Mosca, mentre oggi c'è; e i socialisti continuano, volere o no, a portare acqua al mulino di Mosca. Se Togliatti non ha capito ciò, il peggio è per lui; ma se Saragat non l'ha capito, se Segni e Fanfani, se Malagodi e Pacciardi non l'hanno capito, il peggio è per l'Italia.

Il Giornale ditaha, 20 febbraio 1957

Costituzione e Parlamento3 Sono esattamente nove anni da quando la Costituente chiuse le porte, e intanto il Parlamento è ancora in debito ai costituenti e a noi per la attuazione di molti articoli rimasti in asso. Chi ricorda più l'articolo 40 «I1 diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano»?Quali leggi? Quelle che lo proibiscono non sono più valide contro I'affermazione di un diritto; e quelle che io regolano non esistono ancora. La Corte costituzionale arrivò in porto solo l'anno scorso; sono ancora da mettere in funzione il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Non parliamo delle disposizioni transitorie; per esempio, la Vi che riguarda gli organi giurisdizionali; in materia tributaria siamo fuori della Costituzione e in attesa di una revisione costituzionale. Strano sistema: quello di emendare la Costituzione prima di attuarla, senza avere provato se vi sono o no inconvenienti; e intanto la adeguazione delle leggi che doveva farsi dentro tre anni (Disp. IX) non è ancora in discussione, e se non fosse intervenuta mesi fa la Corte costituzionale ancora avremmo l'ammonizione di polizia. I1 caso delle regioni è uno dei più significativi; il Parlamento ne ha boicottata I'attuazione non ostante la disposizione Vi11 che ne fissava le elezioni dentro l'anno (1949).

L'articolo era preceduto dal seguente corsivo: Fedeli al principio di lasciare liberti di iudi7io e di parola ai nostri autorevoli collaboratori e per il risperto che dobbiamo, nei caso panicolare, all'afca pe~onaliridi don Luigi Sruno, pubblichiamo volentieri questo suo articolo, anche se, nella materia specifica, com'h noto, dissentiamo da alcune sue proposizioni.


Il governo chiese la proroga di tale data, e per quanto ritardata tale richiesta non sembrò ciilatoria; ottenne anche la seconda proroga, ma il peggio venne dopo, quando il Parlamento non solo non richiamò il governo all'osservanza del disposto costituzionale, ma portò alle lunghe i vari disegni di legge di attuazione presentati sia dal governo sia per iniziativa parlamentare. Nella presente legislatura siamo arrivati alla decisione di giorni fa, che può dirsi antiregolamentare e, secondo me, abusiva. 11 Senato fin dal febbraio 1955 ebbe ad approvare la proposta di legge Amadeo per la quale, nella prima costituzione delle regioni a statuto ordinario, l'elezione viene fatta dai consiglieri provinciali. Da allora la proposta è alla Camera, passata in sede referente alla I commissione. Dopo due anni di attesa, che è che non è? La Commissione delibera di sospenderne l'esame pur trattandosi di proposta approvata dal Senato, per dare la precedenza ad una proposta di legge costituzionale di iniziativa parlamentare che abolisce I'istiruto regionale, tranne per le quattro regioni a statuto speciale e già in funzione. Tale procedura è semplicemente aberrante. I1 regoiainento all'art. 35 prescrive che «le relazioni delle commissioni devono essere presentate alla Camera nel termine massimo di due mesi, non comprendendo in esso le vacanze)).Nel caso da me citato sono passati mesi e mesi, anche sottratte le vacanze. Ciò non ostante una commissione in sede referente arriva a sospenderne l'esame; ma con quale diritto? e in forza di quale disposto regolamentare? Non risulta che l'enormità della procedura sia stata denunziata alla Camera, né che il presidente della Camera abbia rilevato il caso. Non sono io il solo che ne fa rilievo sulla stampa; ne hanno scritto la La voce Repzcbblicana e Società Nuova. Se basta una proposta di legge costituzionale ad ostruire l'iter di un disegno di legge di esecuzione della costituzione, perfino alla distanza di nove anni dalla promulgazione e otto anni dalla scadenza del termine fissato, la costituzione potrà essere annullata tutta e intera, a volontà di qualsiasi deputato che proponga l'abolizione di questo o quello articolo, e di una commissione in sede referente che sospenda i disegni di legge di esecuzione. I1 sabotaggio che ne deriva, con nessun rispetto nel caso attuale della approvazione del disegno di legge Amadeo data dal Senato, si estende ad un altro caso assai più grave del primo. I1 ministro dell'Interno, on. Tambroni, invece di sol!ecitare la decisione della Camera dei Deputa:i riguardo la elezione dei consigli regionali, per poi dare corso alla modifica degli organi regionali di controllo sui Comuni e sulle Provincie, ha presentato un disegno di legge (che per me è incostituzionale) ricostituendo la giunta provinciale amministrativa in forma non rispondente al prescritto statiltario. Avrebbe dovuto fare la proposta nei termini dell'art. 130 della costituzione e mettere infine un disposto transitorio da applicarsi al periodo strettamente richiesto per la nomina dei consigli regionali. Nello stesso tempo il ministero delle Finanze avrebbe dovuto proporre il disegno di legge di coordinamento delle entrate delle regioni, secondo il voto approvato dal Senato. Questa la dura realtà presente. Intanto: Trieste aspetta la legge per governarsi da regione speciale; affare gravissimo rilevato dal Senato due anni addietro con un voto speciale, del quale il governo non ha tenuto conto. I1 Friuli-Venezia Giulia ha il diritto di avere la sua regione, ;l cui statuto speciale sancito dall'art. 1 16 della costituzione fu sospeso con la disposizione X per noti motivi politici da tempo sorpassati. Oggi, invece di applicare regolarmente la costituzione, si va destando un movimento che deve preoccupare: quello di costituire nuove provincie, con nuove prefetture, nuovi uffici sussidiari, provveditori agli studi, medici provinciali, camere di commercio e così di seguito. Se non sbaglio, la proposta per la provincia di Pordenone è stata bocciata; non così quelle per Oristano e per Isernia. Ora c'è in corso anche quella di Cassino. Sono fatti que-


sti a larga risonanza in tutte le città che aspirano ad avere una prefettura, che del resto sarebbe superflua in tanti piccoli e medi centri, dato che il controllo degli - enti locali, in base alla vigente costituzione, deve passare alle regioni. In fondo alla questione regionale, a parte i pregiudizi politici, che l'esistenza quasi decennale delle regioni a statuto speciale non ha attenuati come era da sperare, ci sta l'awersione dell'alta burocrazia centrale che si sente punta nel suo prestigio, nella tradizionale posizione accentratrice, nella indisputabilità dei poteri dicasteriali. Non ammetterà mai tale burocrazia che vi siano enti territoriali anche parzialmente sottratti al proprio potere. Un'altra preoccupazione ha fermato governanti e parlamentari dal dare corso all'istituzione delle quindici regioni, temendo che i socialcomunisti, una volta in sella, la farebbero da padroni assoluti. Le preoccupazioni sono molto esagerate oggi come erano discretamente esagerate negli anni decorsi. Quando il Parlamento fissò che la legislazione regionale a tipo comune deve attendere di volta in volta le leggi quadro del parlamento, ne svuotò la potestà legislativa. Non mancano altri poteri allo Stato compreso il diritto dello scioglimento dei consigli regionali e la possibilità di invio di commissari. Chi ha paura non fa niente di buono. La lotta contro i rossi non si evita ma si affronta proprio sul terreno della legalità. Secondo la proposta di legge Arnadeo e in base alle elezioni amministrative del maggio scorso su quindici regioni a statuto normale, se ne avrebbero dodici in mano all'attuale coalizione governativa e tre in mano al socialcomunismo. Altre combinazioni potrebbero darne otto alla DC da sola; tre alla DC col centro governativo e una alla DC con la destra. Non fo l'ipotesi del distacco del PSI dal PCI non tanto perché prematuro, quanto perché il PSI non andrebbe mai a sottoporsi al deprecato centrismo e all'odiato immobilismo della DC. Comunque sia, il peggio che potrebbe capitare è la costituzione di maggioranze regionali di sinistra nei soliti centri che non i partiti di centro né quelli di destra hanno fin oggi saputo smontare: Emilia-Romagna, Toscana e Umbria; anche la dolce Umbria, I'Umbria francescana della grande storia. Ebbene, 1'Umbria regione (non è una profezia) potrebbe essere riguadagnata non certo con la giusta causa dei patti agrari, che il Mercato comune farà superare, ma invece con le opere pubbliche e con gli impianti industriali che la regione e quindi gli stessi umbri potrebbero e saprebbero attuare. La Romagna andrebbe distaccata dall'Emilia; Ravenna dovrà rientrare con maggiore impegno nel ciclo delle attività nazionali politiche ed economiche. Bologna sarà tolta ai rossi con una politica più realistica o meno infantile, che dir si voglia. La Toscana è la più difficile perché la più dura a modificare atteggiamenti e vedute, la più corriva nel mantenere odi e contese: la storia parla da secoli. È possibile tenendo presente un simile quadro regionalistico rendersi conto a quale idea politica e amministrativa si ispirano coloro che vogliono aumentare le provincie? Oggi e non domani si deve attuare il piano regionale e fermare la demagogia delle nuove provincie che sarebbero superflue e ingombranti.

Il Giornale d'Italia, 24 febbraio 1957

Stato di diritto e Stato «di fatto» Non ostante che da tempo molti ciechi civili fossero in attesa dell'assegno vitalizio, la

29


legge del 9 agosto 1954 non poté essere attuata che dopo l'approvazione del Regolamento, andato in vigore nel febbraio passato, a un anno e mezzo di distanza. Lo stesso è awenuto, non solo per molte leggi ordinarie, ma anche per molti degli articoli della Costituzione alla cui attuazione venne disposta l'emanazione di leggi ordinarie. Invero, la Corte costituzionale attese la sua legge fino all'l l marzo 1953; poi ne attese I'attuazione fino al novembre 1955. Solo in questi mesi sta per essere varato il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. Per attuare il disposto dell'art. 13 della Costituzione circa le restrizioni alla libertà personale, si è attesa fin oggi la presentazione al Parlamento del disegno di legge; il che è awenuto in seguito alla decisione della Corte costituzionale sulla illegittimità dell'arnmonizione di polizia. Con l'articolo 16 si riconosce al cittadino la libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi parte del territorio, salvo le limitazioni di legge per motivi di sanità e di sicurezza. Ebbene, ancora oggi è in vigore la legge fascista che impedisce al lavoratore la ricerca di lavoro fuori del territorio del proprio Comune. I1 colmo di tale metodo può essere indicato dalla non esecuzione degli articoli 39 e 40 della stessa Costituzione. Per il primo, i sindacati, per potere stipulare contratti collettivi debbono essere registrati, e la registrazione si fa secondo norme di legge, delle quali il Parlamento fin oggi non è affatto occupato. Dippiù: per l'articolo 40 il diritto d i sciopero si esercita nellkmbito delle leggi che lo regolano. Queste leggi non esistono; ma i contratti collettivi di lavoro si stipulano e il diritto di sciopero si esercita, e come. Per gli impiegati statali, la situazione è più complicata: il citato articolo 40 si trova nella prima parte della Costituzione al titolo terzo, nel quale sono trattati i rapporti economici sotto l'aspetto privatistico e fissati i criteri per le leggi di esecuzione. Alla pubbI'ica amministrazione e relativo personale si applicano gli articoli 97 e 98, che si trovano nella seconda parte della Costituzione, dove sta scritto che «ipubblici impiegati sono al servizio della nazione». E chiaro che se nei rapporti privati il diritto di sciopero, per quanto legittimo, non possa oggi esercitarsi per mancanza di norme legislative, è anche chiaro che per i suddetti impiegati l'articolo 40 non è affatto applicabile, non perché manchi la legge, ma per il carattere pubblico del ((serviziodella nazione». Questa legge è anche collegata al tipo di stato giuridico che lega l'impiegato allo Stato e viceversa; è anche questa la tesi prevalente del Consiglio di Stato, e della Corte dei conti. I1 Governo, qualsiasi governo, pur convinto della tesi, si è trovato oscillante nell'applicarla, di fronte alle pressioni delle categorie organizzate, dei sindacati e delle confederazioni operaie e impiegatizie, e, purtroppo, anche nei confronti dei partiti politici e relativi gruppi parlamentari sia di maggioranza che d'opposizione. La difesa dell'impiegato non implica il riconoscimento del diritto di sciopero; ma la demagogia prevale sul buon senso e sui doveri della legalità democratica. Né il Parlamento ha mai richiamato i governi all'adempimento del loro dovere di presentare i disegni di legge sulla registrazione dei sindacati e delle norme che regolano gli scioperi. A quasi nove anni di distanza siamo al punto in cui si era prima che la Costicuente fosse convocata.

A che cosa si deve tanta carenza governativa? Anzitutto alla poca vigilanza del cittadino ed elettore. Quando vi è uno sciopero nei pubblici trasporti i cittadini utenti, - e non quelli che vanno in macchina, ma i meno abbienti e più modesti, - mormorano, si la-


mentano e cercano mezzi di fortuna. A sciopero finito si spera che quello sia stato l'ultimo. Quando fanno sciopero gl'impiegati, ne soffrono le centinaia di migliaia di persone che hanno interessi da tutelare; il mandato di pagamento o il certificato di buona condotta, il documento per la pensione di guerra. Naturalmente, si mormora contro il governo e contro la burocrazia. Riaperte le porte, il pubblico rasserenato torna a salire e scendere le note scale e ad attendere nelle poco pulite antisale. La colpa maggiore è dei sindacati operai e impiegatizi, che dello sciopero senza norme di legge hanno fatto un'arma di lotta anche contro la pubblica amministrazione: a scopo sowersivo quelli della CGIL; a scopo di proselitismo quelli della CISL, YUIL e la CISNAL. I capi sindacalisti trattano col governo da pari a pari, minacciando per giunta scioperi inconsulti e illegittimi; nessuno fa loro rilevare essere al di fuori dei termini di legge, e continuano a intessere trattative ponendosi sul terreno delle finzioni giuridiche. Dall'una parte e dall'altra si cercano dei compromessi che rendano vano l'enunciato della Costituzione che gli impiegati pubblici sono a servizio della nazione. In questo clima, perfino l'insegnante crede con lo sciopero di potere affermare un vero diritto, senza comprendere che egli avvilisce il suo alto ufficio di educatore. Anche i magistrati discussero tempo addietro sul diritto di sciopero; i magistrati che costituiscono uno dei più alti poteri dello Stato, al livello del potere esecutivo e indipendente da ogni altro potere e solo subordinato alla legge. Si domanderà: come potranno funzionari ed impiegati statali far valere le proprie ragioni per i miglioramenti di stipendio e di carriera, senza usare del diritto di sciopero? Le leggi sullo stato giuridico ed economico degli impiegati, dei funzionari, degli insegnanti, dei magistrati, dei corpi armati, debbono prevedere anche norme adatte allo scopo, sì da far rinascere nel corpo impiegatizio quell'atmosfera di fiducia che oggi manca e neppure lo sciopero potrà loro ottenere. Occorre essere chiari: anche i privati cittadini, impiegati in enti che esercitano servizi pubblici autorizzati dallo Stato, dalle regioni, dalle provincie, dai comuni, non possono avere riconosciuto il diritto allo sciopero, essendovi di mezzo l'interesse della generalità; anche per essi occorrono norme di legge che ne garantiscano i diritti senza consentire loro il simultaneo e concertato abbandono di servizio. È stata, in questo dopo guerra, una jattura per la nostra patria che Parlamento e Governo, i soli organi statali responsabili di fronte alla nazione, abbiano permesso non solo l'ingerenza irresponsabile di partiti e sindacati nelle delicate funzioni del potere legislativo e attivo; ma anche tollerato quel continuo prevalere che costituisce una verapartitocrazia e in molti casi anche una sindacatocrazia irresponsabile e sopraffattrice dei diritti e degli interessi della collettività. È deplorevole che l'Italia sia ridotta ad uno stato di fatto, fuori del binario legale, con la graduale attenuazione di quella che è la concezione e la realizzazione dello «Stato di diritto». LIAzione Popolare, 24 febbraio 1957

14. La politica sindacale del Partito socialista Nella Mozione del congresso di Venezia sta scritto: «Nella politica sindacale i sociali-

3l


sti, il cui posto è nella CGIL, operano per la costituzione di un unico sindacato, autonomo e indipendente dai partiti e dai governi, secondo le aspirazioni delle masse lavoratrici)). I socialisti hanno già scelto; essi restano nella CGIL, cioè con i lavoratori comunisti e nel quadro del primato comunista. Per addolcire la pillola hanno soggiunto che cercheranno (operano per) di formare il sindacato unico ((liberodai partiti e dai governi». Quale sindacato in Italia è sottoposto ai governi? Ciò awiene nei Paesi oltre cortina, on. Nenni, ma in Italia può dirsi il contrario, che il governo sia sottoposto ai sindacati, e non da ora. La legge che regola gli scioperi, voluta dall'art. 40 della Costituzione, non è stata mai discussa in Parlamento; fino ad oggi il governo è stato impotente, qualsiasi governo, (Segni, Scelba, Pella, De Gasperi) a risolvere I'inestricabile rebus. Dall'altro lato, ad eccezione della CGIL, che ne dipende per i fondi forniti attraverso o dal partito comunista, sia fondi nostrani che fondi dall'estero, nessun altro sindacato può dirsi che ne dipenda. La CISL ha anch'essa le sue fonti segrete di rifornimento e non sono certo tramite la DC né dalla DC, la quale, per conto suo, deve bussare a diverse porte; anche il PSDI deve trovare affannosamente mezzi di vita per sé, mentre I'UIL cerca e trova per conto suo. In Italia, purtroppo le organizzazioni politiche e sindacali sono alla dipendenza di ignoti (N.N. di un tempo), perché per ogni singolo socio non traggono dalle tessete quanto occorre a comprare due o tre pacchetti di sigarette fumabili. I1 parassitismo è generalizzare in Italia anche fuori dei partiti e dei sindacati; è stata questa un'eredità fascista accresciuta in seguito dalla crisi di guerra. Non si può parlare di libertà dove non c'è autofinanziamento; né si può parlare di unione, dove il finanziamento non viene dalle possibilità interne della propria associazione. Ecco tutto. Lasciando da parte il domani, Nenni e i suoi han fatto i conti per il presente: su quattro milioni di confederati, oggi scesi a tre milioni e tanti, i socialisti disposti a lasciare la CGIL non arriverebbero a ~in~uecentomila; pochini per contarsi di fronte al pubblico; preferiscono restare sotto l'insegna della lotta di classe della CGIL, quale centro ~indipendente dai partiti e dai governi))!Intanto la CISL e I'UIL guadagnano posti nelle commissioni interne delle fabbriche, il che non è una buona propaganda per I'awenire irenico della unificazione sindacale. Per la indipendenza dei sindacati italiani aspetteremo che sappiano imitare i sindacati esteri e contribuire deproprio, anche per le future sorti progressivedella unificazione socialista.

Ed ora i socialisti del PSI non ci vengano a cantare la loro acquistata indipendenza dai comunisti e Saragat e Folchi lascino di mostrare di crederci. Sta scritto nella Mozione - che resterà quale famoso documento diretto a imbrogliare le carte, e parecchi ci son caduti, che ((l'unità è il bene massimo dei lavoratori. Essa non è tuttavia un mito. È una conquista. Non è più nocivo all'unità dei lavoratori della ipocrisia che consiste nel mascherare i contrasti dal cui chiarimento e dal cui superamento essa trova nuovo slancio e nuovo vigore)). (Penso che qui si tratti dei contrasti tra la CGIL, la CISL e I'UIL). La Mozione continua: «Ma i contrasti ideologici e politici (fra comunisti e socialisti?pare così) non debbono impedire che i lavoratori si trovino uniti nella difesa dei loro interessi, nel sindacato, nelle cooperative, negli organismi di massa (quali? ipartitz?), nelle pubbliche amministrazioni)). E perché no nel Parlamento? non si trattano spesso problemi che toccano i lavoratori? Invero, nella questione dei patti agrari, socialisti e comunisti manovrano già d'intesa. Né mancano all'imbroglio anche i sindacalisti, i quali, un po' per pudore un po' per contarsi, han-


no introdotto il metodo degli scioperi antigovernativi in giorni distinti. Così il povero cittadino in due giorni non ha posta per lo sciopero della CGIL e in due altri giorni per lo sciopero della CISL d'intesa con I'UIL. A parte la novità dei giorni distinti, - non insignificante per il cittadino consumatore del gas o utente del servizio postale e ferroviario, - I'unificazione per la tutela sindacale in sostanza si sviluppa nell'equivoco politico che soffoca la vita italiana. E ciò, non tanto per volontà del PSI, - che dice di presentarsi bello e autonomo, purificato dalla infezione ungherese del comiinismo e poi continua la tresca, - quanto per la gara demagogica dei sindacati italiani, che sono lieti di farla al governo, come è lieto ogni contribuente italiano quando può farla al fisco. Non è questo lo spirito di resistenza che si dovrebbe sviluppare nel Paese contro il comunismo bolscevico, contro il socialismo camaleontico, e anche contro quel sindacalismo che io qualifico come profittatore. Non si scandalizzi il lettore delle qualifiche che uso, perché rispondono ad una verità incontrastata che oramai da dieci anni incombe su di noi. Pur essendo maggioranza del Paese, noi subiamo una minoranza parlamentare rossa che comanda mentre i partiti al potere cedono; subiamo la minoranza sindacale rossa che comanda, mentre la maggioranza del lavoro cede. Vecchia storia de «i più tirano i meno» del Giusti; dove i meno sono il soggetto, perché i meno hanno la iniziativa, hanno creato l'ambiente e gli strumenti adatti a dominare coloro che non vogliono e non sanno reagire e combattere.

Non creda il lettore che io abbia cambiato opinione circa il sindacalismo operaio, necessario oggi come ieri. Io voglio i sindacati liberi, autonomi, autosufficienti; non ammetto e non ho mai ammesso gli scioperi nei pubblici servizi: a cominciare dalla scuola e a finire alle poste, alle ferrovie, ai mercati comunali. Lo sciopero è strumento di difesa nei conflitti privati, non mai contro i governi e contro i parlamenti, che rappresentano i poteri supremi dello Stato per il bene comune. In caso di conflitto con la pubblica amministrazione occorre per vie legali e non con il disservizio pubblico. Le tre confederazioni hanno sempre ostruito la via a!la legge sullo sciopero, per poter essere esse i padroni del campo e ricattare qualsiasi governo. Azione questa sabotatrice della Costituzione e sopraffattrice dei diritti e delle garanzie del cittadino. Su questa piattaforma il PSI vuole costruire l'unità operaia, al di fuori delle ideologie e dei partiti, il che, in un Passe dove lo Stato copre almeno un terzo dell'economia nazionale, significa voler fare del sindacato un partito; e quale? L'unico, il social-comunista con alla base la lotta di classe. Che sia così, lo dice i1 Manifesto di Venezia: ((1lavoratori non hanno altro mezzo che la lotta di classe. La storia del risveglio e del crescente riscatto dei lavoratori italiani è classista; la loro esperienza sindacale dalia quale dipende in definitiva tanta parte della democrazia sociale e politica italiana è classista; i più efficaci mezzi di difesa dei lavorazori sono classisti; lo sviluppo delle forze produttive tende ad associare alla classe operaia tutti coloro che compiono un lavoro socialmente utilee sono sfruttati dall'altrui privilegio». Cunque, tutti classisti nel mondo costruito da Nenni e compagni, anche coloro che appartengono alle classi medie e professionali, medici, ingegneri, awocati, insegnanti, giornalisti, impiegati pubblici e privati, commercianti, eccetera, perché compiono un lavoro socialmente utile. Chi sono iprivikgiaticontro i quali è bandita la lotta di classe, che poi sarebbe la lctra di tutte le classi che compiono lavoro utile? Lo Stato da quale lato è oggi? Da quello di tutte le suddette


classi?e i comunisti dove si trovano a destra o a sinistra? fra i lavoratori e fra coloro che compiono un lavoro socialmente utile (e quanto utile!) ovvero fra i privilegiati? Siamo in piena confusione nenniana e psiana, creare per arrivare a bandire la lotta contro coloro che sono dell'altra classe, i capitalisti, i borghesi, i padroni. Per essi c'è il via dall'Italia socialista; mentre i comunisti ci stanno e ci staranno come lavoratori uniti nella lotta di classe. Vorrei sapere se proprio i Valletta, i Faina, i Pirelli siano da contarsi fra coloro che fanno lavoro socialmente utik ofia iprivikgiati, proprio più privilegiati che non siano i Togliatti, i Nenni e i Basso, i Saragat, i Fanfani, i Malagodi, i Pacciardi, e altri capi partito, che non si sa se compiano un lavoro socialmente utile o un lavoro politicamente dannoso. Lo sapremo quando il socialismo sarà al potere con il loro consenso o la loro paziente attesa. Sarebbe bene che in materia sindacale, non dico Nenni e C., ma i Pastore, i Viglianesi, gli Storti fossero aggiornati con i metodi americani e gli stessi metodi inglesi e tedeschi, e non facciano più della demagogia di mezzo secolo fa che costò all'Europa gli esperimenti del fascismo e dell'hitlerismo, della conseguente guerra mondiale, e delle crisi piene di incognite e di ansie. Proprio oggi, nello sviluppo di ripresa di unlEuropa, buttata a terra dalla bufera, le insidie bolsceviche e le prospettive dei politicastri del socialcomunismo, oggi come ieri, in combutta non solo sindacale rna anche politica, (Saragat se ne convincerà) vogliono portarci alla tragedia di una lotta di classe che danneggerebbe tanto gli operai organizzati (e coloro che fanno lavoro socialmente utile) nonché i disoccupati, quanto quegli altri che lavorano nel campo delle imprese o della politica o della cultura o dell'arte, i quali, quale ne sia la loro classifica, sono cittadini di questa bella Italia, troppo bella per coloro che la vogliono rovinare per conto di quell'altro paese che attende il momento della rivincita comunista. È chiaro?

Il Giornale d'ltalia, 1 marzo 1957

La legge sugli idrocarburi e le nostre risorse petrolifere Esposi al Senato il mio pensiero sul disegno di legge 1605, divenuto legge dello Stato; nel rispondere oggi all'invito rivoltomi, non posso non mettere in vista quei motivi, che mi spinsero a presentare vari emendamenti, i quali, non ostante non fossero stati accettati, sono tuttora, secondo me, di attualità. 1" La più grave novità della legge sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi, non solo in confronto alla legislazione straniera, ma anche a tutta la nostra legislazione e alla sostanza e allo spirito di ogni legge, è data dagli articoli 44 e 45, nei quali è stato introdotto il principio della decadenza di diritto di una concessione statale in corso di esecuzione, senza prevedere alcun indennizzo, il che si risolve nettamente in una confisca. Gli articoli in parola prevedono ciò per un numero limitato di coltivazioni, e, per giunta, quasi tutte povere; anche per questo motivo doveva usarsi non solo giustizia ma equità comprensiva. 11 pregiudizio che reca un simile precedente, per nuovi ricercatori e concessionari, è di una Forcata eccezionale, perché fra le altre eventualità contrarie dovrà essere


tenuta in conto la possibilità di leggi successive che revochino permessi e concessioni senza alcun indennizzo, o con insufficiente indennizzo in rapporto al danno che ne deriva. . L'industriale italiano abituato, purtroppo, a ottenere dalla pubblica amministrazione leggi di protezione, larghi interventi, provvedimenti compensativi; e nello stesso tempo a subire improwidi fiscalismi, incomprensioni di incompetenti, interventi turbativi; costretto, perciò, a fare e rifare le scale dei ministeri, perdendo lunghe giornate e ore preziose, per discussioni interminabili che finiscono spesso in maniera dilatoria, daranno poco peso agli articoli 44 e 45, in quanto contano più sul compromesso politico che sul valore giuridico degli atti pubblici. Non è lo stesso per lo straniero, il quale, essendo in casa altrui, esige la certezza del suo diritto e la sicurezza dei suoi investimenti. È stato questo uno dei motivi che ha determinato la Gulf-Italia a rinunziare sia ai permessi avuti nel territorio continentale e sia alle richieste di altri permessi. 2" Altro punto discutibile che tale società avrà forse tenuto presente sarà stato quello degli oneri fiscali che aggiunti ai diritti di coltivazione (royalties) rappresentano un gravame notevole sia in senso assoluto che in rapporto alla incertezza dei ritrovamenti di petrolio nel sottosuolo italiano. Avevo proposto al Senato di aggiungere una disposizione che temperasse la onerosità fiscale del disegno di legge, fissando una quota gaduale di ammortamento minerario, in rapporto alla esauribilità dei prodotti di coltivazione; il che corrispondeva al sistema della depletion allowance in uso sia negli Stati Uniti d'America che nel Canadà. La fretta di varare la legge impedì che si entrasse nel merito delle proposte. 3" I1 congegno stesso della legge ha due presupposti finalistici poco conciliabili con gli interessi delle imprese petrolifere private; 1) limitare le estensioni di ricerca ai privati e allargare il campo di ricerca dell'ente statale; 2) rendere molto ristrettivi i disciplinari con i privati, quasi a scoraggiarne l'intervento. Solo così si possono spiegare certe particolari disposizioni, che non si riscontrano nelle leggi degli altri paesi democratici e liberi a sviluppata e intensa produzione petrolifera. Tutto sommato, il legislatore non ha tenuto presente quale doveva essere lo scopo precipuo della legge; quello, cioè, di ottenere un largo concorso di ricercatori privati, che in gara con l'ente statale, si dessero al più sollecito rilevamento di dati necessari (ove non fossero già acquisiti) per procedere sollecitamente alla perforazione di un numero sempre crescente di pozzi. Non è facile dire se l'Italia nasconde nel suo sottosuolo poco o molto petrolio (oltre il metano); occorre perciò affrettare le ricerche, perché il petrolio è necessario; forse molto più necessario oggi che domani; I'awenire potrà riservarci delle sorprese. Basta pensare d'affare del canale di Suez (chi l'avrebbe sognato?); e anche, sotto certi aspetti al futuro mercato europeo comune, nel quale per vari settori l'Italia ha uno sviluppo industriale e commerciale inferiore a quello dei paesi con i quali sarà collegata. Superfluo dire che una delle principali cause di tale inferiorità è la insufficienza di fonti di energia (principale il petrolio), e il costo elevato di quelle che già abbiamo, specie il metano. Intanto è da notare che non esistono imprese petrolifere italiane specializzate e con capitali suficienti, attrezzature adeguate e personale preparato. Le stesse poche g a n d i imprese nostrane, che si sono avventurate in questo campo, si sono collegate o con I'AGIP o con società estere, per dei tentativi non ancora sufficientemente sviluppati. Lo stesso ente statale, prima o dopo l'istituzione dell'ENI, ha dato poco sviluppo alle ricerche nella zona dell'Alta Italia, dove dal 1953 I'ENI ha l'esclusiva per legge. I1 ministro Cortese affermò avere ricevuto molte richieste di permessi; questo sarebbe


un dato di fatto importante se le ditte richiedenti daranno affidamento di capacità tecniche e finanziarie, sul quale punto si attendono notizie precise. Per rimediare alla incerta e claudicante situazione attuale nel campo delle ricerche si dovrebbero con urgenza adottare alcuni provvedimenti correttivi o completivi degli effetti che la legge verrà a produrre; a) anzitutto mettere un po' di ordine nell'ENI e società dipendenti perché si cerchi di indirizzare la principale attività di siffatto ente statale verso la ricerca proprio nelle zone avute in esclusiva (Alta Italia) e in quelle altre già assegnate nel resto del territorio. La migliore cosa sarebbe quella di studiare un piano di lavoro e fissarne gradualmente i termini per le ricerche, oltre i quali, sia per l'esito negativo che per mancata esecuzione, dovrebbe dichiararsi la decadenza, lasciando le relative zone a disposizione del governo per concederle all'iniziativa privata. I1 ministro Cortese, durante la discussione della legge, fece qualche allusione a questo problema, accennato anche dall'on. Dosi in un recente articolo. b) accertare, se ve ne saranno, le difficoltà che si frappongono alla iniziativa privata per la ricerca di idrocarburi, e prowedere ad eliminare le cause con la celerità necessaria ora che gli avvenimenti internazionali hanno dato così evidente ammonimento sulla situazione del petrolio in Europa, per disponibilità di merce e per spese e difficoltà di trasporto. Si dirà che tali proposte sono premature, non avendo ancora avuto applicazione la legge Cortese; e per giunta, metterebbero in allarme quanti hanno cercato in Parlamento e fuori di ostacolare l'iniziativa privata nel campo delle ricerche petrolifere. Non nego che la prima impressione, per gente che tiene gli occhi chiusi, sia proprio questa; ma che cosa si è fatto fin oggi, per fare loro aprire gli occhi? si vuole proprio perdere ancora del tempo prezioso? Del resto, il primo punto delle mie proposte non è contrario alla legge e per ora non esige altro che un piano di lavoro per 1'ENI con dei termini precisi e perentori. Lo studio del piano suddetto potrà essere deciso dagli organi di vigilanza e di controllo dell'ENI, sentito il consiglio delle miniere, anche per valutare fin da ora i mezzi a disposizione dell'ente e per escludere qualsiasi distrazione di fondi per altre iniziative meno urgenti, siano queste in Italia che all'estero. Certo il procedimento di decadenza e le successive procedure per cedere le zone di risulta all'industria privata esigono un disegno di legge, che potrà essere proposto e discusso durante il primo periodo di ricerche fissato dal Piano. Tutto ciò non impedisce la piena esecuzione dell'attuale legge, mentre giova a rimettere I'ENI nel suo ruolo esatto della ricerca e coltivazione degli idrocarburi. Neppure la seconda proposta porta ostacolo all'esecuzione della legge Cortese, non trattandosi che di accertamenti di fatto e di ulteriore prowedimento, se del caso, per accelerare le ricerche. I1 sistema di chiudere gli occhi sui fatti e poi ripetere sotto voce che i n Italia non esiste petrolio deve essere sorpassato da un coraggioso impulso alle ricerche. Se nel decennio decorso non avessimo sbarrato la porta all'iniziativa privata e scoraggiato tutto il mondo a tentare ricerche in Italia, avremmo potuto avere un impiego di molti miliardi in lavori che oggi non sarebbero perduti e che nel fatto sarebbero stati utilissimi al nostro paese, senza nessun aggravi0 per il nostro bilancio e per il contribuente, e con dippiù un notevole allenamento di manodopera, esperienza di operatori che ora sarebbero preziosi. Non si dimentichino gli sbagli del passato per non ripeterli nel presente e nell'awenire.

Concretezza, 1 marzo 1957


16. L'alternativa socialista Si legge nella Magna Charta di Venezia, la lunga e complicata Mozione approvata all'unanimità nel fatidico congresso socialista del febbraio 1957 (pare che siano passati degli anni e non è che un mese), si legge, dico, che ((l'azionesocialista è diretta a creare un'alternativa politica e di governo, e non esclude, anzi ricerca e sollecita l'intesa con le forze laiche e cattoliche che abbiano comuni obiettivi democratici». Per chiarire il periodo, dopo il verbo abbiano occorreva mettere con i socialisti o con noi «comuni obiettivi democratici)). Se non è così, quel «comuni» si riferirebbe «ai laici e cattolici)); in tal caso occorreva aggiungere ((fradi loro». chiaro che lkzione socialista (soggetto del periodo) nel ricercare e sollecitare tale intesa mette implicitamente sullo stesso piano gli obiettivi democratici dei socialisti, quelli dei laici e quelli dei cattolici. Chiarito per ora questo punto e salvo a confrontare, se del caso, gli obiettivi democratici di La Malfa e Villabruna con quelli dei cattolici e trovarvi la comunione con quelli socialisti, passiamo ad esaminare come si potrebbe formare, per i socialisti unificati, la alternativa politica e di governo. Nel testo in esame, al periodo precedente a quello sopracitato si legge che ((11Congresso afferma che la azione delle masse costituisce l'impegno permanente del partito, il quale in essa consolida la sua struttura e si lega in modo organico con il popolo)). Benedetto I'italiano della Mozione; è quasi tutto complicato, semi-oscuro, pieno di sottintesi e di equivoci. Dobbiamo pigliare il filo delle idee in questo giuoco del partito che consolida la sua struttura con l'impegno dell'azione delle masse e così il partito socialista si lega in modo organico con il popolo. I1 partito sarebbe qui Ikpparato (come si dice), o meglio i quadri-jùnzionanti o, se vuolsi, la ckzsse dirigente, che spingerebbe l'azione delle masse (quelle dei sindacati) le quali, nel consolidarne la struttzira, legherebbero il partito socialista al popolo. I1 significato della parola popolo in questo punto ci lascia perplessi: si tratta del popolo italiano (la totalità dei cittadini di ogni classe) o del popolo in senso classista? Dato che la Mozione esclude i cosiddetti privilegiati, che nel linguaggio classista e in una democrazia ckzssista si sa chi sono, il popolo del PSI non sarebbe tutto il popolo italiano, ma un popolo speciale, quello al quale si legherà il partito socialista e con il quale tenterà a creare l'al-

ternativa politica e di governo.

Lecco non è Milano, né Torino, né Genova; ma è una cittadina del Nord industrialmente sviluppata, a contatto con quella Svizzera democratica, - dove non occorre Iazione delk masse alla quale è impegnato il partito socialista per consolidare la sua stnrttura e legarsi in modo organico col popolU; - là il popolo è, vivaddio! democratico per secolare tradizione e per pratica attuazione, contando sulle masse senza essere azionate dal PSI. Torniamo a Lecco; è bastato il dissidente d.c., l'ex sindaco Bartesaghi, a far precipitare (nel senso scientifico) la situazione elettorale mettendo a nudo la consistenza dei partiti in lotta. Fra tali partiti PSI e PSDI elettoralmente pre-unificati sono stati battuti. I1 popolo (quello vero) non ama equivoci. Anche le elezioni del Trentino erano state un campanello di allarme, un po' lontano dal centro, ma abbastanza squillante. Saragat ha compreso la situazione ed è rimasto nel gabinetto Segni, senza ascoltare gli inviti e le intimidazioni di Nenni a ((superareil centrismo» per rnettere (secondo Nenni) la premessa dell'alternativa di governo del futuro socialismo unificato. Prima di Saragat lo aveva compreso Pacciardi, ma ha dovuto piegarsi a La Malfa, testardo


e siciliano. Per la alternativa manca molta strada, non ostante che Nenni conti sui voti dei comunisti, i quali nel linguaggio della Mozione sarebbero inclusi due volte: la prima, nella categoria delle masse da azionare; la seconda, in quella del popolo cui collegarsi. Togliatti sorride sotto i baffi, facendo capire che non sono stati i comunisti a perdere la battaglia di Lecco, ma proprio i socialisti alleati e unificandi. k vero; Lecco non sarà tutta l'Italia; i comunisti perderanno i loro, ma non a profitto dei socialisti sempre divisi e sempre unificandi. Invero, dal giorno della loro organizzazione (1892) ad oggi, hanno dato tale esempio di dissidenze interne, ed han preso tanti aggettivi qualificativi e specificativi, da non dare affidamento, né oggi né in avvenire, che possano mantenersi uniti, con proprio programma, propri orientamenti pratici e proprie ideologie. I1 dirsi democratici oggi è tanto facile per tutti, anche per i comunisti che opprimono l'Ungheria e per quegl'italiani di nascita che non si vergognano dell'esserne solidali; costoro appartengono a quel popolo cui collegarsi a mezzo delle masse azionate dal partito di Nenni. C'è da ridere! I1 più buffo, per non dire altro, è il passo dove ai laici si accoppiano i cattolici per fare insieme con i socialisti unifiati il bel fritto misto del governo di alternativa. Pei laici ex-azionisti, radicali, unionisti sociali, e repubblicani (quei repubblicani che mertono Mazzini in sofitta, non gli altri) passi pure; tanto, possono trovare un linguaggio comune e una poltrona nel futuro gabinetto Nenni; ma i cattolici di iniziativa o di sinistra, è proprio uno sbaglio grosso. Ci furono cattolici nel primo gabinetto Mussolini con la troppo buona intenzione di normalizzare la rivoluzione e con la vana speranza di fermare gli eccidi fascisti e di favorire la religione. Dopo sei mesi, spinte o sponte, se ne andarono. Ma che i cattolici, sia pure di sinistra, possano oggi credere a Nenni e fare la seconda esperienza col romagnolo d i turno, è un po' troppo grossa. Anche i più infatuati di non bene intesa socialità e sognatori di un governo di collaborazione fra democristiani e socialisti, non pensano affatto ad una alternativa di governo della quale Nenni pretenderebbe il primo turno. È vero: nella Mozione sta scritto che ((ilPSIaccetta senza riserva i principi democratici sanciti nella costituzione, tanto nella ipotesi che sia minoranza, quanto nella ipotesi che sia maggioranza)); ma Nenni ne ha fatte tante di affermazioni ed ha mostrato con tanta evidenza di non saperle o non poterle mantenere, (un vero distacco dai comunisti sarebbe il suo crollo) che simile affermazione perde di consistenza e di realtà. I1 PSI, unificato col PSDI e alleato con repubblicani, radicali e altri gruppi più piccoli (escludo i cattolici) potrà trovare una maggioranza possibile senza i comunisti? Certo che no; e allora non parliamo di alternativa; se sarà unito con i comunisti, forse che siforse che no potrà puntare sulla maggioranza; in tal caso si dovrà parlare di alternativa social-comunista da un lato e democristiana dall'altro. Volersi nascondere dietro un dito è gioco di bambini. La rivoluzione economica, che nella Mozione di Venezia suona come le trombette dei bersaglieri, caratterizza l'alternativa politica e costituzionale del PSI una volta arrivato al potere, alternativa per attuare «il socialismo classista, contro il capitalismo e il clericalismo in combutta),; sono queste definizioni precise consacrate nella Mozione di Venezia. Se nelle premesse di tale Mozione sta anche scritto che ((ilPSI è convinto che sia giunto il momento per una grande iniziativa socialista che assicuri nel nostro Paese la democraziapolitica e attui la democrazia sociab; a un mese di distanza queste grosse parole han perduto il loro significato; e mentre Morgan Philip~~residente del Comisco ha rimandato a luglio, per l'assenza del rappresentante del PSDI, l'esame della unificazione del socialismo italiano, I'ex sottosegretario agli Esteri, il laburista Mayhew, ha pubblicato sulla Star di Londra un forte articolo che può dirsi I'epicedio dell'alternatiua. Per capirne il senso basta riportare il seguente periodo: «Ma che diavolo è questo Nenni, da dare consigli a tutti quanti? La sua carriera poli-


rica dimostra che egli non ha mai visto giusto. Per lunghi anni ha sostenuto la politica di Stalin e di Beria contro l'occidente, contro gli interessi del popolo italiano; ha fatto opposizione al Piano ~Marshalle alla NATO: ha commesso, uno dopo l'altro, fantastici errori di giudizio. Ed ecco che oggi, finalmente, dopo tanti anni, Nenni ha scoperto la verità sul comunismo. La sua casistica marxista, che gli era servita per I'imperialismo di Stalin, la tirannide, l'aiitisemitismo, la persecuzione delle minoranze, lo abbandona dinanzi all'attacco di Kruscev contro l'Ungheria, per il quale egli non riesce a trovare spiegazioni. Gli ammiratori di Nenni ci diranno che le sue mosse erano dettate da ragioni tattiche, dalla situazione esistente in seno al movimento socialista italiano, ma questo è sempre stato il grosso guaio, con I'on. Nenni, fin dalllinizio». Per trovate nella equivoca prosa di Nenni la conferma del secco giudizio di Mayhew, basta leggere sull'Avanti! di sabato un periodo, che è un capolavoro dello stile nenniano, tortuoso e sfuggente, distaccato e intanto unito con i comunisti; autonomo e legato, democratico e classista: «I1 PSI sa quali problemi crea alla classe operaia l'attiva presenza nelle lotte di un partito comunista di massa come quello italiano.. . I1 fatto per esempio che il partito socialista dà un giudizio diametralmente opposto a quello del partito comunista sui fatti di Ungheria o sul concetto stesso di vita democratica delle masse, non gli ha impedito di essere coi comunisti nella lotta per la giusta causa permanente. Contro ogni degenerazione del concetto di autonomia in esclusivismo o in frattura pregiudiziale della classe operaia, il partito socialista trova e troverà sempre una valida protezione nel principio che lo anima: quello della solidarietà di classe dei lavoratori, quello della unità dei lavoratori nelle loro concrete rivendicazioni),. E ora, amici cattolici chiamati in causa da Nenni, La iMalfa e compagni laicisti, Villabruna e radicali carandinizzati, andate pure a rileggere la Magna Charta di Venezia e ritroverete nella alternativa politica e digoverno lo spettro comunista e nello sfondo dietro tale spettro i popoli ungherese, polacco, rumeno e di tutti i Paesi satelliti, sia gli Stati messi in vista dai recenti tragici awenimenti, sia quelli che soffrono nell'angoscia dell'oppressione ridotti al silenzio dall'apparato bolscevico. L'Italia, quella che sta dall'altra parte dell'alrernativa, bon gré malgré, per ora si contenta della DC con Saragat e Malagodi, sia pure con una maggioranza di stretta misura, ma in attesa delle prossime elezioni, nel prossimo autunno ovvero nella primavera del 1958. Il Paese dovrà scegliere la sua sorte.

Il Giornale d'ltalia, 7 marzo 1957

Anno pre-elettoraie4 A meno di tre mesi passerà l'ultimo settegiugno del quinquennio; il primo, quello del 1953, diede a Nenni la fregala della apertura a sinistra; la quale attraverso il congresso socialista di Torino (dove si affacciò benevola la figura di Gonella) e attraverso l'incontro di Lettera del 24 marzo 1957 ai sign. Francesco Valperga di Torino: Caro Va1 perga,


Pralognan e la proposta di unificazione socialista (giugno 1956), è andata a dare nelle secche di Venezia. Se l'incanto è stato rotto, i ripensamenti non cessano, gli inviti e le rimasticature continuano, mentre si comincia a parlare di elezioni generali. Saranno queste nell'autunno del 1957 o nella primavera del 1958? I1 segreto è nella mente di Giove; il Presidente della Repubblica sembra preferire la scadenza del quinquennio fissato per la Camera dei deputati, nientre si augura che il Parlamento faccia in tempo a mettere in riga la scadenza del Senato per evitare un probabile decreto di scioglimento. Gli eventi ~arlamentarie di ~oliticagenerale potranno anche far modificare le previsioni; l'onorevole Malagodi avrebbe voluto le elezioni appena dopo il congresso di Venezia; Saragat pareva della stessa opinione; si disse che Fanfani, come il marchese Colombi, ((fra il sì e il no, fu di parer contrario)). Oggi per alcuni lo svincolamento dei cinque repubblicani dal quadripartito sarebbe stata la celebre goccia nel vaso; troppo poco per lo scioglimento della Camera. Ora è il tripartito che non regge; i socialdemocratici, avendo convocato il loro congresso pel prossimo giugno, sono disposti a rimanere al governo per raccogliere in questi tre mesi frutti partitici abbondanti, come, quelli del celebre art. 17 della legge Tremelloni e altre demagogie del genere; naturalmente, non vorranno essere soverchiati da Pastore nella faccenda dei patti agrari, e così in altre leggi dette sociali, parola ritenuta magica di fronte alle masse. 11 [ripartito di oggi non può essere un rabberciamento per tre mesi, o più, dando al PSDI il tempo di discutere ancora per mesi e mesi l'unificazione socialista, prima per il congresso di giugno, poi per la riunione del Cornisco a Vienna nel luglio, poi per fissare le condizioni definitive in agosto e settembre, periodo di vacanze, differibile in ottobre o novembre. La scelta fra partecipare al governo di oggi per preparare un governo di domani, o rompere il governo di oggi per un governo di alternativa socialista in vista delle elezioni deve essere fatta subito: tertium non datur. Per circa dieci anni, con poche parentesi, il PSDI è stato al governo collaborando con la democrazia cristiana, e per vari periodi anche insieme al partito liberale. Che ora pensi di passare all'opposizione per un'alternativa di governo, e pertanto, tirando le somme, decida di uscirne, nulla di meraviglia. Ma troppi mesi son passati dal colloquio di Pralognan; a questa ora il PSDI ha tutto in mano per convincersi della sincerità, lealtà, serietà della con-

1 cuoi ricordi (ti avrò dato del tu al Congresso di Torino del 1923 e lo continuo oggi) mi arrivano raditi, perche evocano tempi e posizioni nei quali era apprezzata fra noi la lotra per la libertà e la chiarezza d e e posizioni politiche del partir0 che rivolse il suo primo appello ai liberi eforri. La mia artuale campagna, per una ripresa di chiarezza, di posizioni contro la unificazione socialista ha rnolti consensi, ma ha molri avversari, sia per incomprensione politica sia per annebbiamento prodotti da un'infiltrazione rnamista nelle stesse file dei sindacati liberi, delle Acli e della DC. Bisogna non perdersi di animo; chi ha l'iniziativa aila fine supera le difficoltà. 11 silenzio che si fa dai cattolici di sinistra attorno ai miei articoli. è il segno che non si ha il coraggio delle p r ~ r i *:ie , Quel che mi importa è che ciascun di noi faccia il proprio dovere, secondo i ettami di coscienza e nella piena adesione ai principi cristiani. 11 resto lo farà Dio come e quando disporrà la Divina Prowidenza. È meglio confidare in Dio che confidare negli uomini, dice il Sairnjsra. Spedisco due opuscoli che raccolgono molti dei miei articoli del 1956, e manderò il 3"opuscolo che uscirà in aprile. Mando anche un opuscolo edito dal Comirato Civico Zonale di Torino sul socialismo; vale la pena diffonderlo. Cordiali saluti Luigi Sturzo. In: AL.S., b. 455, fasc. cPPIr, 1957.


versione del PSI; troppi equivoci sono nati fra quella che è democrazia libera e quello che vorrà essere il socialismo classista. Troppa confusione recano un Saragat al governo ancora per mesi e mesi e un Nenni all'opposizione che sfrutterà tutte le difficoltà parlamentari della maggioranza; neppure i liberali potranno consentire ai futuri socialisti unificati di arrivare freschi al potere con l'appoggio della CGIL (dove prevale una maggioranza comunista), per sentirsi chiamare in causa durante un altro anno come privilegiati, capitalistie sfiuttatori del popolo lavoratore. Lasciare che Nenni esalti il Mercato comune e I'Euratom, come awenimenti voluti dal socialismo, e di scagliarsi contro le possibili speculazioni padrenali ai danni delle masse operaie; che g i d i contro il tradimento DC-liberale perché non accettano la giusta causa permanente, e sollecitare il voto a favore del futuro governo socialista d'intesa con laici e cattolici di sinistra, sarebbe la più stupida politica che si possa immaginare. Tanto più che la proporzionale pura servirà a farla pagare cara a quegli stessi che l'hanno imposta, voluta o consentita. L'insipiente tolleranza della DC e del PLI è cominciata a Pralognan nel giugno 1956; e trae origini dall'apertura a sinistra a causa delle elezioni del giugno '53; se tutto ciò continuerà dal giugno 1957 per finire non si sa bene se nell'ottobre successivo ovvero al fatidico 2 giugno 1958, avremo un altro anno e tre mesi di doppio gioco, cioè il colmo della stupidità politica attuata da persone intelligenti.

Si domanda: la DC che ne pensa? È quel che mi domando anch'io: la DC che ne pensa? H a scatenato la polemica della giusta causa per lasciarla invelenire con l'aiuto di Pastore. Questi dice di non fare politica di partito, ma pura, purissima azione sindacale; e, pur polemizzando egregiamente con i comunisti ed anche con Nenni, finisce per servire la loro triste causa e la causa di Mosca. Si sono accorti d i ciò i suoi amici anticomunisti dei Sindacati americani con i quali la CISL è collegata? non si sa, ma l'atteggiamento di Pastore peserà sulla futura politica estera di un governo socialista unificato, se le elezioni politiche saranno compromesse dall'attuale insipienza. Stia sicuro I'on. Giulio Pastore che il primo colpo del socialismo unificato sarà dato proprio ai Sindacati liberi: allora, addio politLapastoriana o pastoresca che sia; allora si vedrà quale il costo che del loro sinistrismo dovranno parare non soloforze sociali, espressione di Pastore, ma la basedi Mattei, politica socialeexgronchiana e i sinistrorsi di iniziativa democratica. La D C , come partito-guida e come responsabile della maggioranza governativa, dovrà oggi e non domani ritrovare il suo tono e prendere in mano l'iniziativa che da Pralognan in poi, di proposito o per sorpresa, ha lasciato ai due cugini socialisti, Saragat e Nenni. A Trento si riaffermò, ma I'attesismo pel congresso di Venezia prese il soprawento. Fu per colpa di Segni? Fu per le simpatie di Gonella verso il PSI? fu per i viaggi esplorativi di Fanfani all'estero? fu per la pressione della sinistra cattolica? Fra le note del Popoloe le notizie delle agenzie di stampa non si arriva ad avere sicura spiegazione. Intanto è scoccata I'ora della decisione governativa, mentre si è allontanata I'ora della unificazione socialista, checché ne dica Nenni l'ottimista o Nenni il giocoliere; e checché ne pensi Saragat, il quale scrive e parla bene, anzi benissimo; ma anche lui ha nel suo partito i sinistri e gli incerti come ce li ha Fanfani. L'ora governativa è scoccata ~ e r c h dsi deve fin da ora sapere quale dovrà essere il governo che farà le elezioni e su quale terreno le farà; essendo necessario dissipare I'equivoco della alternativa socialista. Non si illudano Segni, Fanfani e gli altri che possano


riprendere quota all'ultima ora o che possano tentare una crisi quando alla vigilia tutti i partiti, più che pensare al paese, penseranno al proprio interessato esito elettorale. N é si illuda I'on. Gonella, che non manca di mostrare una certa inclinazione per una collaborazione della Democrazia Cristiana con i socialisti unificati; perché una volta unificati, laicizzati, carandinizzati, all'insegna del socialismo classista, i futuri socialisti preferiranno l'intesa e la sottintesa con i comunisti a una qualsiasi collaborazione con la DC. Che se per caso la DC avrà un numero minore di seggi degli stessi socialisti unificati, allora sì che sarà trattata da minorenne e da minorata. Né creda I'on. Pastore di mantenere quello che ha ottenuto nei Consigli di fabbrica; né i cattolici contino sul rispetto di Nenni per la religione. Quel «clericalismo» del quale parla Nenni nella Mozione di Venezia è la parola rivelatrice di tutto il veleno anticlericale accumulato in dodici anni di governo DC dai laici del Mondo e dell'fipresso, che Nenni conta convogliare nella sua futura maggioranza. Con tali prospettive si va ad aprire l'annopre-elettorale.

Il Giornale d'Italia, 13 marzo 1957

Proteggeremo gli infingardi e incrementeremo i litigi5 Si discutono i patti agrari nel 1957 come se ne discuteva nel 1949; otto anni sono passati invano. Le bonifiche promosse dai vari consorzi locali e dalla Cassa per il Mezzogiorno, i progressi della tecnica agraria, le differenze fra zone già progredite ed ora in crisi e zone depresse in ripresa non si tengono presenti; il mercato comune, al quale volere o no, si arriverà presto nella cosiddetta «piccola Europa)) (che mostra di voler superare egoismi nazionali e ristrettezze di vedute locali), non ha fatto riflettere sui nuovi problemi dell'economia. Gli stessi sindacalisti si mostrano ciechi e sordi, non arrivando a rendersi conto del danno che arrecano ai lavoratori occupati e disoccupati che essi credono di proteggere. L'aspetto della Camera dei deputati è desolante; i parti agrari sono discussi in funzione dei patti e degli stessi politici. La sopravvivenza del governo Segni al voto della Camera per il passaggio degli articoli è stata scontata; la discussione degli articoli ne mostra I'equivoco. Ne sentiremo ancora di teorie e di propositi che mancano di consistenza e abbondano di demagogia. Nel gioco dei partiti per le modifiche e nel proposito aprioristico di non consentire emendamenti (così è stato per la legge sugl'idrocarburi), non si può sperare di essere ascoltati; si scrive per I'awenire. Lo stesso han fatto e fanno tecnici, esperti, studiosi, pur sapendo che la loro voce si sarebbe perduta nel clamore politico. La bandiera della ((giustacausa))a lungo raggio dei democristiani e la bandiera della «giusta causa permanente))da concedersi ai beati possidentes di marca socialcomunista e radico-repubblicana sono spiegate al vento della politica parlamentare; l'altra, meno contrastata politicamente ma non meno discutibile, quella del ((dirimodi prelazionen e in coda, perché meno realistica, quella sull'«equo canone», sono attese da tutti gli awocarucci e causidici di pretura per la prevista inflazione

Con questo arricolo Luigi S m n o cominciò una nuova collaborazione con ~L'Europeo)).

42


di vertenze fra le parti contraenti. In tale clima migliorare la produzione dei campi, tecnicizzare il lavoro e adeguare le coltivazioni ai mercati sono parole vuote; avremo una intensa coltura di cause giudiziarie e un notevole incremento di funzionari, sia al centro che nelle provincie, per tenere in piedi e fare osservare i 69 articoli della futura legge. Sarà bene rendersi conto, anzitutto, di quel che saranno gli effetti del mercato europeo; awenimento da tenere presente fin da oggi con idee chiare e con prowedimenri e piani opportuni e tempestivi. Il piano Vanoni, poi schema, per questo settore resterà un ricordo per le cronache della DC e per la polemica delle sinistre. Disco rosso alla partenza del treno

Come bene scriveva giorni fa il professor iMario Bandini, che se ne intende, il mercato comune porterà vantaggi di sicuro sul piano generale e svantaggi di sicuro nelle aziende agrarie più arretrate e nei settori che non reggeranno ai prezzi di concorrenza, come sarebbe per noi quello del grano. Egli afferma, in proposito, una verità che il nostro Ministero di Agricoltura e tutti i governi del dopoguerra non hanno mai tenuto presente, che «l'alto prezzo "relativo" del grano determina la persistenza di situazioni depresse sia dal punto di vista economico che da quello sociale in molti territori italiani)).Con la libertà internazionale cadranno le bardature protettive e i prezzi del CIP, niente ammassi obbligatori, niente prezzi di imperio; circolazione libera. E allora? Bisogna cambiare sistema; dove la tecnica non aiuta, occorre cambiare le colture. Occorreranno grandi trasformazioni e costose imprese. Ci vorranno in agricoltura nuovi e imponenti capitali privati e pubblici; soprattutto cooperazione fra Stato e privati, fra proprietari e conduttori; competenza e fiducia, fiducia e competenza, altrimenti resteremo in coda. La Camera nel discutere il disegno di legge sui patti agrari, congegnato con le migliori intenzioni ma con una miopia irrimediabile, non si è resa conto del problema incombente del futuro mercato europeo; per giunta, non si è accorta esservi nelle pieghe dei 69 articoli disposizioni atte a dare incentivi ai socialcomunisti e ai sindacalisti scriteriati di sinistra per eccitare la lotta di classe a tipo politico, mentre certe disposizioni finiscono con togliere incentivo alla specializzazione della manodopera e a far superare l'arretratezza delle colture e l'insufficienza dei mezzi tecnici in uso. Chi dice queste cose è tacciato dalle sinistre di essere d'accordo con gli «agrari»,parola di dispregio, s'intende, ed eccitante. Questi pretesi nemici dell'umanità lavoratrice saranno degli egoisti, come lo sono tutti gli altri uomini; avranno anche individualmente sfruttato dei dipendenti, cosa che può capitare anche al dipendente verso il padrone quando può prendersi la rivincita. Non mancano agrari e lavoratori ragionevoli siano essi ignoranti e arretrati owero intelligenti e progressisti, che sanno fare i propri affari e quelli dei loro dipendenti e viceversa. Molti padroni e lavoratori hanno fatto miracoli anche su terreni ingrati. La spinta alta tecnicizzazione esiste ed è effettiva. Macchine ci vogliono, adatte alle colture e alle località, macchine adatte a piccole e a gandi aziende. La formazione della piccola proprietà agricola senza i consorzi fra i proprietari per l'uso delle macchine costose e per le opere di comune servizio, ritarda i progressi sperati, non essendo i costi di produzione compensati dai prezzi di mercato. L'agricoltura in zone depresse rende poco ed esige sacrifici. Nelle zone montane e dell'alta collina piemontese, nell'Appennino rosco-emiliano, perfino nell'umbria, i contadini disertano e vanno in città. Lo stesso succede con ritmo meno pronunziato nel ~Mezzogiorno. In questo clima non si tratta di difendere il contadino disdenato, tranne in certe zone


ad alta produzione in Lombardia, Venero, Romagna-Emilia e Toscana; ma di preoccuparsi delle terre rimaste vuote e di quelle che fra non molto rimarranno senza coltivatori o senza braccia sufficienti, perché non sono redditizie. E qui si inserisce il problema dei rimboschimenti e della tutela delle zone rimboschite; dell'allevamento animale e della produzione lattiera; della industrializzazione dei prodotti agricoli e della specializzazione delle qualità; dei mezzi rapidi di commercio per l'interno e per l'estero; della organizzazione e della selezione e garanzia delle qualità pregiate, specie del vino, per reggere tanto alla presente che alla futura concorrenza. Credono i deputati che han votato il passaggio agli articoli e, peggio, gli altri che vi si sono opposti solo per una persistente demagogia di partito, che il regolamento drastico e rigido dei patti di coltivazione agevoli la necessaria trasformazione agraria del paese in vista del futuro mercato europeo? I1 problema P aperto ma non ancora studiato. Occorre che i privati, dai vari punti di vista tecnici ed economici, e la pubblica amministrazione dal prevalente punto di vista degli interessi generali (e non di quelli degli enti statali e parastatali che dovranno adeguarsi anch'essi se non si voglia che i loro deficit, aumentando ancora di più, restino a eterno peso dell'erario), si diano a studiare ed attuare le premesse necessarie al futuro mercato unico; invece di dilazionarne l'attuazione con presentare i problemi di categoria come disco rosso alla partenza del treno. A questa mia critica si può obbiettare, dai deputati o dal governo, che la situazione del blocco dei contratti agrari, protratta dall'inizio della guerra, è talmente incancrenita che occorre provvedervi, dato che il passaggio diretto dal blocco alla libertà non sarebbe politicamente attuabile. D'accordo: nia la soluzione voluta oggi, prolunga i vincoli attuali di 18 anni per l'affitto, di 15 anni per la mezzadria e di 12 per la colonia parziale (e non si sa, mentre scrivo, la sorte che questi numeri avranno alla Camera e al Senato). Si tratta sempre di una immobilizzazione che, unita agli anni del blocco, prende un aspetto preoccupante. Nell'epoca delle rapide trasformazioni di colture, di economia e di tecnica, una servitù della gleba all'inverso e imposta dallo Stato è proprio un controsenso.

Saranno protetti i contadini injngardi Se a questo si aggiungono le difficolti di vendita dei terreni per il diritto e il congegno assai coniplicato della ((prelazione))e le possibili vertenze per l'interpretazione della «g'iusta causa))e dell' ((equocanone)),si comprende che il blocco attuale diverrà di fatto un blocco permanente. Se si vuole fare un'indagine per vedere quale categoria di favoratori sarà la favorita e quale la danneggiata, punto questo fin oggi non esaminato, si vedrà chiara la vera finalità del complesso gioco parlamentare. Ricordo che a casa mia e di certi miei parenti, che avevano piccoli e medi fondi a coltura mista estensiva e arborea (grano -vigneti - ((giardini))), quando si trovava una famiglia contadina onesta e lavoratrice, si teneva carissima e spesso entrava nell'ambito della familiarità, rispettata da padre in figlio, tanto da parte del proprietario quando da parte del contadino. Ci furono & anni buoni per ambo le parti (prima che la fillossera invadesse i vigneti) e gli anni scarsi e di crisi. Oggi è lo stesso: con la differenza che allora il contadino restava in campagna, oggi cerca la città; allora il figlio del contadino (che non poteva arrivare a farsi prete o frate se ne avesse la vocazione, ovvero non poteva cambiar mestiere e fare il carrettiere o l'artigiano rurale) restava contadino; oggi si


va in città o nei comuni dove esistono industrie, e se non lavora lui lavorerà la figlia nelle filande o il figlio nelle fabbriche. 1 protetti .dai patti agrari saranno i contadini infingardi, quelli che non sanno il mestiere, i turbolenti e faziosi; quelli che non avrebbero altre prospettive che di restare ad ogni costo sul fondo, trovando modo di essere favoriti dai sindacati o dai partiti. C'è di più: i periodi contrattuali troppo lunghi tolgono la possibilità di trovare posto per le nuove famiglie, per i disoccupati riqualificati, per coloro che han lasciato il fondo per malattia poi superata, o per crisi domestiche e tentativi di emigrazione, e così via. Tutti costoro staranno alla porta delle scadenze, le quali non aprono che qualche spiraglio occasionale. Così ci saranno famiglie di disoccupati senza speranza costrette a cercare altri mestieri o ad emigrare per disperazione. L'intercambio periodico (a giusto periodo, s'intende, non ogni anno o due come nel passato e solo in certe regioni) serviva e servirebbe ad assestare le aziende: le famiglie cresciute di unità cercheranno un'azienda più grande; quelle che invece ne han perdute, una più piccola; la famiglia che si è dovuta spostare di luogo vorrà il podere più vicino e così via. Questo dinamismo automatico è cessato; la burocratizzazione e l'interventismo statale e la causidicità delle vertenze prendono il luogo della spontaneità contrattuale. Questo è il dirigismo socialistoide che ha fatto tante belle prove in Ungheria, in Polonia, in Cecoslovacchia, paesi un tempo prosperi, e ora in gravissime difficoltà per la stessa vita quotidiana. Nel caso presente si sono commessi due errori che vanno insieme collegati: si è violata la Costituzione e si è presa la via sbagliata. Costituzionalmente la materia è di competenza delle regioni, sia di quelle a statuto speciale (quattro delle quali in funzione fin dal 1947-48), sia di quelle a statuto ordinario ancora da costituirsi (articoli 116 e 117). Inoltre la Costituzione, con l'art. 44, autorizza la statuizione di obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata ((secondole regioni e zone agrarie» per due fini collegati insieme: il «razionale sfruttamento del suolo» e gli ((equi rapporti sociali),. Nel caso del presente disegno di legge mancano tali requisiti: specialità regionale e zonale, razionale sfruttamento ed equità dei rapporti.

Presto i nodi verranno alpettine Il ministro avrebbe dovuto presentare un disegno di legge-quadro a linee fondamentali per le regioni ordinarie, affidandone temporaneamente l'applicazione ad organi esistenti (quali le Camere di commercio, industria e agricoltura e gli ispettorati agrari) per fissare il testo adatto per regioni e zone agricole; e avrebbe dovuto fissare alle quattro regioni esistenti un termine per provvedere a leggi analoghe in base ai rispettivi statuti. Così sarebbero stati salvaguardati gl'interessi delle parti, le esigenze locali e la legittimità costituzionale. Le eventuali vertenze di categoria si sarebbero dovute lasciare alle organizzazioni sindacali delle parti, rispettando la libertà di contrattazione. I nodi verranno al pettine presto: i socialisti e comunisti, che con la ((giustacausa permanente), vogliono arrivare a portare il maggior turbamento possibile nell'agricoltura, agiteranno le masse con la solita propaganda demagogica, e faranno cosl dimenticare il colpo avuto per i fatti della Polonia e la rivolta dell'Ungheria che ancora brucia loro le carni. I sostenitori della nuova legge da parte loro, liberali compresi, non saranno in grado di prevenirne i dannosi effetti né di modificarne gli sviluppi; e se ne pentiranno per il danno che


avranno arrecato all'agricoltura italiana e per avere lavorato, non per il ((redi Prussia» come si diceva un tempo, ma per il ((dittatoredi Mosca)). L'Europeo, 17 marzo 1957

I1 mito della «destra» Esiste oggi una «Destra»?Ebbe fortuna la destra storica del Risorgimento, che poi fu idealizzata proprio da quando aveva perduto i contorni di destra, sia per l'esistenza più o meno consistente di una destra «reazionaria e clericale));sia per le combinazioni, con elementi di partiti e di gruppi di diversa origine, fatte da una destra che poteva dirsi ((centro)). Comunque fossero andati i fasti e i nefasti del parlamento subalpino e italiano, la cosiddetta destra storica tenne il campo per ventotto anni e non risorse più. Quella di Starabba di Rudinì e di Arcoleo, quella di Sonnino e quella di Pelloux non furono esumazioni della prima; furono tentativi per ridare alla politica della sinistra storica un raddrizzamento che alla fine andò a cozzare con gli stati d'assedio, le dittature militari, i processi politici, finiti, di conseguenza, con la vittoria dei partiti popolari e del giolittismo. Destra il Fascismo? No; dittatura, sì; definirlo con altro nome che quello di fascismo sarebbe una stortura. Ma perché insistere su destra e sinistra? Come Giolitti utilizzò le forze conservatrici e cattoliche per tenere nei limiti del suo gioco i socialisti, così usò dei socialisti per l'alterna vicenda della sua sperimentata capacità al governo di un popolo indisciplinato e conformista quale l'italiano. Si può dire che Mussolini fu il Giolitti della dittatura, mentre Giolitri fu il Mussolini del parlan.ientarismo costituzionale; ambedue dittatori, uno proclamatosi duce, militarista e imperialista; l'altro borghesuccio di provincia, funzionario intelligente e fedele, abile e fermo nel giuoco governativo, senza folle acclamanti né sfilate militaresche. Così abbiamo toccato il centenario del ((Quarantotto))con un parlamento del tutto nuovo, nel quale la sinistra socialcomunista, dopo avere per tre anni partecipato al governo provvisorio dei partiti riuniti nei comitati di liberazione, poté formare, con altri piccoli gruppi, la possa sinistra sicura di arrivare al potere. Una sinistra, questa, niente affatto erede della sinistra storica, nettamente borghese; né della estrema sinistra del periodo turatiano e bissolatiano dell'inizio di questo secolo; e neppure dei partiti socialista e comunista, disciolti dal fascismo; ma quella del socialcomunismo di Togliatti e Nenni dipendenti da Mosca. La cosiddetta destra attuale, chiamata anche al plurale «le destre)), ha avuto la disgrazia di non essere destra; non essere in linea con la costituzione; non essere d'accordo fra i vari partiti dello stesso rango, né avere con essi elementi comuni di un programma costruttivo. Nella polemica giornalistica si suole fare distinzione fra destra politica e destra economica; la destra economica non sarebbe un partito, ma cercherebbe di influire su vari gruppi che ne sostengono gli interessi; la destra economica (secondo il linguaggio degli altri partiti, dei sindacalisti e degli aclisti) sarebbe soprattutto formata dalle tre confederazioni padronali (sottolineato con accento non benevolo) dell'industria, dell'agricoltura e del commercio. La destra politica, invece, sarebbe rappresentata dai missini e dai monarchici delle due qualificazioni, nazionali e popolari, (per intenderci, Covelli e Lauro).


Erroneo dire che si tratti di unica linea parlamentare; fra i tre gruppi - - - non esistono affinità positive, solo posizioni negative, sulle quali non si può né si potrà mai formare una coalizione efficiente. Prima condizione per una larga ala parlamentare è quella della possibilità di partecipare al governo o di conquistare il potere; i tre singolarmente non presentano tali possibilità; i tre collegati non potranno poi formare un partito vitale che possa attirare il prevalente interesse del corpo elettorale. Le mie non sono dermazioni arbitrarie, derivano dall'e~~erienza di questi anni; dalle stesse premesse politiche ed economiche dei rispettivi programmi; nonché dalla mancanza di consistenza interna dei singoli gruppi. Nessuna affinità programmatica vi può essere fra il MSI che sostiene la socializzazione delle imprese industriali e i monarchici che favoriscono l'iniziativa privata. Né è possibile conciliare un partito che si richiama ai precedenti repubblicani di Salò con quegli altri che guardano a Lisbona per una restaurazione monarchica. È vero che i monarchici italiani non hanno fatto l'errore dei monarchici francesi, i quali, per un secolo sostennero la restaurazione sulla base dell'antiparlamentarismo e della reazione sociale; ma la posizione costituzionale di Lauro e Covelli è ancora più claudicante di quella francese per via dell'art. 139 della Costituzione. Lo sbaglio iniziale è stato quello di dare al partito la qualifica di monarchico, sperando così di conquistare le masse sotto l'insegna sabauda. Con i bolscevici italiani all'ordine di Mosca e i loro compagni - - del PSI, con i radicosinistri e i laico-anticlericali messi sull'attesa, con le punte di sinistra di parte cattolica, con i sindacati in grandissima maggioranza orientati verso l'equivoco della sinistra sociale, il problema monarchico non ha attrattive tali da poterne fare oggetto di rivendicazione popolare; né ha base economica che si affondi nella tutela degli interessi delle varie classi sociali strette attorno alla bandiera dinastica. La grossa borghesia e le famiglie nobili, che sono monarchiche per tradizione e per ricordi romantici dei toro padri, oggi non hanno alcuna iniziativa politica, né rappresentano una forza nell'attività pubblica. Chi può credere possibile, col conformismo attuale pur messo in sordina per il conformismo futuro, che la destra arrivi a formare un partito di governo? Ci vogliono idee poche e chiare; uomini con la testa a posto e il polso fermo, spirito di conquista e di sacrificio. Un partito che non tende a prendere il potere o a partecipare al governo con proprie idee, propri mezzi, proprie forze, sarà sempre un partito nato morto, una bandiera che non sta diritta al vento, un'idea che svanisce nella nebbia. Destre storiche e destre borghesi che han resistito alla polemica socialista, sono tuttora quelle degli Stati Uniti d'America, della Gran Bretagna e dei dominions di popolazione anglosassone e assimilata. Conservatori evoluti in paesi prosperi e progrediti, han tenuto testa ai più gravi rivolgimenti e alle guerre saldamente combattute e vinte, mantenendo integri i propri istituti tradizionali; e adeguandoli, allo stesso tempo, allo sviluppo più ardito dell'economia e della tecnica. La borghesia italiana fin dal 1890 ha vissuto di paura delle masse anarcoidi e di quelle orientate verso un socialismo rivoluzionario. Giolitti tentò di convogliarle verso la monatchia e il parlarnentarismo; ma gli stessi riformisti non poterono superare la pregiudiziale antimonarchica e antiborghese e non vollero far parte di alcun governo. Allora - sia nel primo dopoguerra - la borghesia del Nord e gli agrari di Val~adanasi servirono delle squadre fasciste e puntarono sulle magiche virtù del manganello, plaudendo alla dittatura durata poco più di un ventenni0 e finita nella tragica seconda grande guerra. Ma come sul tronco antiborghese del vecchio socialismo non si poteva innestare il nuovo sociaicomunismo, così sul troncone di una borghesia profittatrice del fascismo non si poteva innestare una de-


stra borghese in clima repubblicano e sociale, che fosse allo stesso tempo un partito conservatore di quanto di buono abbiamo ereditato dal passato, e veramente progressista nell'adeguarsi agli sviluppi economici e politici dei paesi civili di oggi. La politica negativa, anrisocialcomunista e antiquadripartito delle tre destre attuali non rimedia al presente, né costruisce pel futuro. La politica negativa delle tre destre che arriva, nelle provincie, nei comuni a formare di volta in volta con i socialcomunisti un fronte amministrativo e nel parlamento un fronte di opposizione, produce nell'elettorato un continuo disorientamento; lo spirito individualista e anarcoide prevale e supera qualsiasi politica costruttiva, sia pure a largo raggio e a lunga scadenza. Nei problemi di interesse nazionale si leva a destra qualche voce sana, ma senza risonanza nel Paese, perché non trova appoggio nella grande stampa che, non ostante tutto, è sempre la più letta ed ascoltata dal medio italiano. Nel campo internazionale, prevalgono nelle destre i vecchi pregiudizi antinglesi, antiamericani, antifrancesi; così non si ricostruirà mai una politica realista ed efficiente; e si farà sempre il giuoco dell'equilibrismo fra Mosca e Washington; dell'isolazionismo e neutralismo italiano che gioverebbe solo ai fini del socialcomunismo. In dodici anni le cosiddette destre non sono state e non sono la vera destra che occorre, sì bene un semplice obiettivo contro cui le sinistre scagliano, per diversivo, i loro strali politici e il centro ha buon giuoco per ripetere le discriminazioni equidistanti, tanto comode quanto insincere. Ebbene: occorre per la nuova Italia democratica una vera destra. Benedetto Croce sperava che la destra liberale riprendesse il posto dell'antica destra nel difendere la libertà e farne una religione! Purtroppo, i liberali al governo sono tuttora impigliati con I'ENI e con I'IRI; con il ministero delle partecipazioni e con i patti agrari; con la legge sugli idrocarburi, l'art. 17 della legge Tremelloni e il piano-schema Vanoni concepito dirigisticamente. Che si può sperare da costoro in nome della libertà? Se tirano un po' la corda, ecco Saragat a minacciare le dimissioni. I1 nostro Parlamento manca di un'ala destra che possa, essa e non Nenni, stabilire le premesse di un'alternativa di governo. Ma la borghesia sana e le classi medie non riescono a creare un movimento nazionale democratico che ne esprima le esigenze, di fronte ad un socialcomunismo e ad un socialismo classista, intenti a soffocare l'iniziativa privata, a seppellire con lo statalismo trionfante, il residuo delle libertà tradizionali; mentre il Parlamento resta esautorato e il Governo minato anche nella pur debole difesa dello Stato democratico.

Il Giornale d'/&La, 2 1 marzo 1957

La funzione del Centro

I più celebri partiti di centro, dal secolo scorso in poi, sono stati i Zentrum dell'impero germanico al Reichstage quello irlandese alla Howe of Commons tali partiti, senza partecipare al governo, obbligarono uomini di altissima statura politica della Germania e dell'Inghilterra ad accettarne posizioni e proposte e furono vittoriosi nelle storiche lotte del «Kulturkampf»e per la libertà dell'Irlanda. Questa posizione di centro tenuta dal 1899 al 1904 nel piccolo ambiente di un Consiglio comunale di provincia allenò colui che scrive questo articolo, si da ottenere nelle ele-


zioni del 1905, con le sole forze della nascente Democrazia Cristiana di allora, una maggioranza tale da potere da sindaco amministrare quel comune per un intiero quindicennio. Con lo stesso spirito, nel gennaio 1919, egli fondò il Partito popolare quale partito di centro, col proposito di mantenerlo al di fuori delle responsabilità di governo fino al momento che potesse divenirne l'elemento costruttivo e decisivo. Purtroppo, dopo sei mesi dalle elezioni del novembre '19, che diedero ai popolari cento seggi, il gruppo parlamentare dovette cambiare tattica, perché i liberali, divisi com'erano, non potevano da soli tenere testa alla destra e alla sinistra; né mantenere l'ordine pubblico minato dagli scioperi politici e dai ovimenti sovversivi. Fu così giocoforza prendere la posizione di partito di rincalzo senza eale influenza direttiva nel governo. Per giunta, invece di gatitudine ne ebbe i risentimenti ei liberali, mentre i socialisti e poi anche i fascisti tentavano, ciascuno per proprio conto, a disintegrazione dello Stato costituzionale.

\

I

La Democrazia Cristiana del secondo dopoguerra ha avuto due condizioni a suo favore: essere un vero centro collaborante nei comitati di liberazione e nei primi Governi di emergenza sotto l'occupazione militare (Badoglio, Bonomi e Parri), e divenire per via elettorale il partito-guida del Paese assumendo la direttiva di governo. Per contrappeso, ebbe una forte ala sinistra con orientamento verso il socialismo di Stato; ed ebbe nella Costituente e nel Parlamento una destra debole, politicamente divisa in vari gruppi. Pertanto la DC non poté assumere in pieno la funzione di governo di centro, con proprie finalità e complete responsabilità; ha subito l'usura del sinistrismo fino alla prospettiva, sia pure lontana ma non del tutto improbabile, di essere soppiantata da una sinistra formata da socialisti e comunisti e da radico-laici di varie tendenze.

Come sia stata possibile nel dodicennio '45-57 siffatta involuzione spirituale prima che politica non è facile esplicare in un breve articolo; oggi interessa soprattutto che l'esperienza del passato riesca utile ad evitare il peggio. Il carattere democratico e ispirato a principi cristiani impone alla DC, nelle circostanze presenti, l'obbligo di compiere pienamente la sua funzione di centro parlamentare e interclassista e mantenere allo stesso tempo la direttiva del governo dello Stato. I servizi resi al Paese dalla DC debbono essere tenuti presenti anche da colui che non ha mai mancato di metterne in vista le deviazioni. Giustizia vuole che si riconosca quella che fu la funzione della DC, come elemento mediatore e temperatore dei gravi risentimenti sia per la guerra perduta e le dolorose conseguenze di guerra che colpivano esponenti del regime passato, sia i risentimenti e le aspirazioni incomposte delle forze irrompenti del socialismo e del comunismo. Tale funzione mediatrice fu attuata anche presso le autorità politiche e militari alleate di fronte alla reciproca diffidenza e alla volontà di ridurre l'Italia ad una condizione intollerabile di umiliazione e di isolamento. Se nel duplice compito di mediazione, la DC non riuscì sempre come era sperabile, tanto nella politica interna a temperare gli eccessi dei comunisti del Nord, quanto nell'amministrazione a impedire l'eccessiva intraprendenza, oltre i limiti legali, dei collaboratori di sinistra, che con piani lungimiranti tentavano prendere forti posizioni nelle masse; ciò poté essere, in un primo tempo, per tattica dilatoria adatta ad evitare scontri dei quali non si potevano misurare le conseguenze. In sostanza, i passaggi dailo stato di guerra alla normalità legale, dalla monarchia alla repubblica, dalla collaborazione ciellenista al governo di partito, furono fatti nel triennio 1944-47, senza gravi disordini di piazza, senza tentativi insurrezionali, pur operandosi la triplice rivoluzione di guerra, di regime e di libertà.


In questo periodo il presidente De Gasperi emerse per la sua abilità e moderazione, ottenne nel 1948 la fiducia della maggioranza degli italiani e allo stesso tempo conquistò una certa fiducia anche presso le nazioni alleate, principalmente dal Governo americano. Dalla vittoria del 18 aprile in poi, la funzione mediatrice centrista della DC non ebbe serio sviluppo mentre incombevano gravi e urgenti problemi di governo. La Costituente aveva lasciato due consegne per il nuovo Parlamento: attuare la Costituzione nei suoi istituti fondamentali e riorganizzare l'amministrazione con criteri di piena funzionalità, e nella adeguazione delle leggi alle statuizioni costituzionali. Questi impegni furono dilazionati, mentre urgeva la soluzione dei problemi pratici della ricostruzione e di quelli economici, con i relativi aspetti sociali, dei quali principale la disoccupazione. Nella congerie dei prowedimenti si trovò facile via ad un crescente interventismo statale con un conseguente e irrefrenabile sperpero per I'erario. Ciò non ostante, e non ostante molti sbagli, dovuti alla mole e all'urgenza dei provvedimenti e ai metodi parlamentare e burocratico, l'uno e l'altro non adeguati al ritmo di vita nazionale rinascente dopo le rovine di guerra, la ricostruzione, con gli aiuti americani, prese un largo sviluppo, sì da mettere l'Italia in prima linea nella rinascita europea. Purtroppo, e qui venne meno il compito della DC, le crisette ministeriali dei partiti collaboranti al Governo, per dissensi di orientamento, diedero luogo a tale infiltrazione di partitocrazia, da insinuarsi fino alle più delicate nomine governative, al dosaggio di posti per ogni partito senza badar troppo al merito e alla competenza. I problemi economici delle masse e quelli delle categorie impiegatizie statali e parastatali presero il soprawento sui problemi di struttura politica e giuridica. I rapporti di lavoro incombenti per la grave disoccupazione e per la impreparazione professionale della mano d'opera, furono affrontati con prowedimenti improvvisati. All'attivo va segnata I'impostazione del problema meridionale e I'awiamenro datovi verso possibili soluzioni, sia con i provvedimenti industriali creditizi del dicembre 1947 e successivi, sia con la creazione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno; sia con prestiti americani e successivi interventi, rendendo possibile il passaggio dal nichilismo dei governi di anteguerra e del fascismo alle attuali realizzazioni positive e serie, per quanto ancora non del tutto adeguate. La politica agraria - occupazione di terre, blocchi di fitti, stralcio di riforme, legge sui patti e contratti, - è stata determinata da un orientamento erroneo a causa delle posizioni demagogiche delle sinistre. La correzione centrista è stata debole e inefficiente; le campagne sono diventate in maggioranza rosse, anche là dove un tempo il centro dei contadini era la parrocchia. In questo ramo il centrismo non ha funzionato altrimenti che per tamponare le falle, pur dando agli avversari motivo di risentimento; gli uni, i sinistri, accusand o la DC di timidità; gli altri, i destri, i medi e piccoli possidenti, accusandola di mancanza di realismo agrario e di equilibrata giustizia. La verità è che dodici anni sono passati in continue contestazioni; se certi provvedimenti, sia pure eccessivi, fossero stati presi d'urgenza nell'immediato dopoguerra e nel clima rivoluzionario del passaggio di regime verso la ricostruzione del paese, a quest'ora sarebbero già stati scontati; e pur riconoscendone I'eccessività economica o la mancanza di equità legale, avrebbero avuto una parziale giustificazione dal punto di vista politico. Dopo di allora, si è trattato di sowertimento a freddo dei principi basilari della convivenza, di inutili sacrifici imposti alla proprietà a vantaggio di nessuno, tranne che per i lavoratori infingardi e per i profittatori politici della sinistra.


D e Gasperi tentò di sostenere Saragat per sgretolare Nenni, il che non ebbe conseguenze nel campo socialista, ma ne ebbe parecchie nello stesso Governo, che impostato sulla collaborazione con liberali a destra e socialdemocratici e repubblicani a sinistra, dovette subirne le continue oscillazioni e pressioni. I liberali smontarono la pardia per la politica agraria; i socialdemocratici per motivi interni di partito andarono via e poi tornarono di nuovo e De Gasperi pazientemente li attese lasciandone vuoti i seggi ministeriali. Né volle mai fare assumere alla DC l'intera responsabilità di governo (come si fa in Inghilterra e in America) per una specie di pudore, sì da contentarsi di avere a fianco, per un certo tempo, solo il Partito repubblicano quasi a titolo simbolico. Tale politica portò la DC a modificare le leggi elettorali e a subirne le conseguenze. L'errore di una proporzionale elettorale per tutti i corpi e per tutte le amministrazioni è stato grave, ma derivava dalla iniziale partitocrazia dei Comitati di liberazione. Per giunta, ogni partito della coalizione cercò di imporre un sistema o un particolare provvedimento elettorale che potesse risolversi a proprio vantaggio. Lo studio delle molteplici leggi elettorali per la Camera, il Senato, le Regioni, le Provincie e i Comuni ci dànno la prova di un travaglio partitico, dal quale esula la ricerca di principi direttivi e di sistema, ritenuti fondamentali per ogni democrazia parlamentare e moderna. L'esito delle elezioni del 7 giugno 1953 diede un forte colpo al centrismo e inchiodò la DC a tenere il Governo sotto la minaccia continua di ricatto dei partiti collegati e sotto il tiro del doppio gioco dei partiti estremi. Unavolta scartata la destra come indesiderabile, il quadripartito fu chiuso in una torre assediata, con una sola uscita possibile: l'apertura a sinistra. I1 principale compito di un centro assediato sarebbe stato quello di assicurarsi e di mantenere tutte le sortite possibili; non mai quello di chiudere con un muro di solido cemento le altre sortire meno una, la obbligata. Ci sarebbe ancora la porta dello scioglimento delle Caniere e dell'appello al paese; un rimedio questo legittimo e adottato da tutte le democrazie, dove il capo dello Stato non ha dirette responsabilità di governo; già in uso anche in Italia sotto la monarchia. Ma anche questo rimedio sembra che non possa essere a disposizione del Governo, per via di una interpretazione restrittiva che ne attribuirebbe la esclusiva responsabilità al capo dello Stato. Tale interpretazione nelle attuali condizioni potrebbe portarci a situazioni non desiderate né desiderabili. La politica estera di De Gasperi e dei Governi succedutigli è stata più aweduta e più fortunata di quella parlamentare, di quella interna, di quella elettorale. Si può discutere questo o quell'atteggiamento; si possono criticare le soluzioni date a problemi particolari, a parte, s'intende, la iniquità del Trattato di pace, oggi in gran parte superato. Ma pur accettate le conseguenze di una guerra perduta e di un mal congegnato armistizio, il resto è servito a rimettere il nostro paese al rango che ci spetta nella vita internazionale; e, in alleanza con i paesi occidentali, assumendo la responsabilità che tale politica comporta. Questa posizione ci dà l'obbligo di tenere saldo il centro e forte la politica interna, per evirare i peridi Mosca. coli di un sinistrismo neutralista che finirebbe col fare il gioco Valgano le antiche e nuove esperienze a fare assumere d a DC, alla vigilia delle nuove elezioni, un atteggiamento di centro parlamentare e interclassista, senza piegamenti e senza paure, rispondendo ciò al carattere della propria insegna: Libe~tns,ai fondamenti di democrazia e di cristianesimo del proprio titolo, ai più vivi interessi e alle più sensibili artese del popolo italiano.

Il Giornale d'ltalia, 28 marzo 1957


Il vero carattere delle Casse rurali 11 recente convegno delle casse rurali e artigiane, inaugurato solennemente in Campidoglio, ha richiamato alla mia mente i bei tempi di fervida attività in questo campo, la bellezza di sessantacinque e più anni addietro, quando l'indimenticabile don Cerutti girava l'Italia a questo scopo, a nome della Unione economico-sociale (allora i due termini stavano congiunti) dell'opera dei Congressi e dei Comitati cattolici. Trent'anni dopo si poteva costituire la federazione delle casse rurali; arrivavano a circa quattromila. La lotta contro l'usura nelle campagne era stata affrontata con criteri sani e con esito favorevole, in quei paesi e paesini dove tali istituti erano stati fondati. Si sa, non tutti ebbero larga fortuna; ~arecchine ebbero troppa, sì da portare i dirigenti ad estendere il credito in altri campi (acquisto di sementi e attrezzi agricoli, affittanze collettive e simili), aumentando così i rischi di una cooperativa a responsabilità illimitata. Per alcuni andò bene, per altri andò male. Con sani provvedimenti governativi per il credito agrario, furono in seguito facoltate certe banche, tra le quali il Banco di Sicilia e il Banco di Napoli, a potere servirsi, con determinate condizioni e garanzie, delle casse rurali e agrarie come enti intermediari, riscontrandone gli effetti. 11 successo di tale operazione accrebbe anche la fiducia nelle stesse casse. I1 primo dopoguerra e l'avvento del fascismo al potere non furono propizi a simili istituti di credito, guardati di malocchio perché in maggioranza tenuti da cattolici, e venne la tempesta: le casse bene attrezzate fecero le spese di quelle male in gamba; in gran parte furono costrette a passar di mano owero ad essere poste in liquidazione. La lorta fu impari e durò parecchio; dopo circa iln decennio vennero dal 1932 in poi una serie di leggi che regolarono le casse superstiti. Dopo la seconda guerra se ne sono trovate ancora in piedi, più o meno malconce e alcune anche prospere, per un certo numero; queste hanno formato il primo nucleo della rinascita. Oggi ce ne sono poco più di settecento. Onore al Trentino, il qude con le sue 199 casse, quasi tutte salvate nei ventennio, è in testa alle altre provincie; seguono la Lombardia con 107 e il Veneto con 74; la Sicilia e 1'Emilia-Romagna ne hanno 64 ciascuna; 37 la Toscana; 36 il Friuli-Venezia Giulia; 32 le Marche; 31 il Lazio; 26 la Campania; il resto diviso fra le altre regioni. Come centro esiste l'Ente nazionale delle casse rurali, agrarie ed enti ausiliari, le cui funzioni di guida, ispezione e propulsione sono state, da un ceito tempo, riassunte con buoni propositi, rianimando energie che parevano sopire owero rivolte ad altre attività sociali. I1 problema delle casse rurali va inquadrato nel problema più generale del credito, che merita di essere tenuto nella più attenta considerazione. È di questi giorni un comunicato del Comitato interministeriale del credito circa gli sportelli bancari, degno di essere segnalato. Gli sportelli di credito per i centri rurali anche piccoli, è bene che siano tenuti da enti locali e di modesta portata; lo sportello delle grandi banche in quei posti non sarebbe adatto; anche le casse di risparmio a tipo regionale non possono sopportare la spesa di molti sportelli che gaverebbero sul costo del denaro. In Italia si sa, ~ a ~ h i a m interessi, o per ogni specie di operazione i più alti e gravosi di ogni altro paese civile; e mentre i grossi si rifanno sui prezzi di monopolio, e i monopoli di Stato hanno da largheggiare come nessun altro, la piccola agricoltura ne resta soffocata. Pertanto le casse e le agenzie locali debbono essere renute nella modestia delle spese, limitate ai giorni di mercato e festivi o nelle ore di ritorno dal lavoro dei campi; riuscendo oltre che meno costose anche accostevoli per una


clientela alla quale lo sfarzo dei locali e dell'arredamento, come si fa in Italia dalle grandi banche, (e non se ne sa il perché), sarebbe senz'altro controproducente. La conoscenza del mondo contadino, il contatto personale dei dirigenti, la possibilità di comprensione delle necessità individuali, rendono la cassa un centro apprezzato dalla generalità dei soci e dei clienti; mentre il personale delle grandi banche, reclutato dal centro si sente come relegato e in punizione quando deve prestar servizio in centri agricoli, in villaggi di montagna, e non pensa ad altro che al trasferimento in un centro urbano come una vera liberazione. Dove non esistono tali casse esiste l'usura; il contadino e l'artigiano ci cadono. Sono anche in giro (non solo nelle campagne ma anche nelle città) certe società clandestine e temporanee, che dopo un certo giro di denaro vengono sciolte per crearne altre e così di seguito. Sarebbe bene che i servizi di polizia e di finanza se ne interessassero, anche a scopo fiscale. Passando ad altro rilievo, debbo dire che non ho mai compreso il perché le casse rurali e artigiane siano state obbligate ad accettare il cartello bancario. Io non sono favorevole al sistema italiano del cartello fra le banche, e lascerei a ciascuna la responsabilità della propria azienda, sicuro che i dirigenti, sia quelli di banche statali o dove lo Stato direttamente o indirettamente ne è interessato, sia le banche autonome e le private, sapranno amministrare con oculatezza. Basta la vigilanza a tenere in riga quelle che scantonano; mentre è bene che vi sia quella tale libertà di gara e di concorrenza che non fa male a nessuno e fa bene a molti. Le casse rurali debbono mantenere basso il costo del denaro e quindi debbono poter economizzare in tutto il campo della loro gestione. Per il credito agrario vi sono Provvedimenti statali che debbono raggiungere lo scopo istituzionale senza intralci (che non mancano) da parte degli enti gestori di tali fondi. Tutto ciò dovrebbe fare aggetto di accurato riesame anche da parte della Vigilanza e dello stesso ministero del Tesoro. Un altro motivo che oggi rende difficile la creazione di nuove casse, è lo stato d'animo che si è formato presso certe categorie agricole e artigiane, per via di un interventismo statale veramente eccessivo. Molti sono abituati a pensare che lo Stato debba far tutto, debba provvedere a tutto, debba intervenire in tutti i rami dell'economia. Lo Stato per essi si identifica col Governo, con i ministri, i deputati, i senatori, i capi partito centrali e locali, i capi dei sindacati e così via, non escluso il capo dello Stato, al quale oramai si rivolgono molti per le più impensate richieste, perfino per colmare i deficit societari o personali che siano, e impedire il fallimento. Bisogna ridare alle classi lavoratrici fiducia in se stesse, nella propria iniziativa, nella utilità della cooperazione, nella bontà delle iniziative private e anche nel vantaggio del rischio sia pure limitato, che possa servire da spinta: vexatio dat intelhctum. Auguro che i nuovi pionieri delle casse rurali e artigiane prendano incoraggiamento dalle maggiori difficoltà dell'oggi in rapporto al passato di mezzo secolo addietro; sappiano chiedere al governo quel che è giusto; sappiano tenere lontano dalle loro società economiche l'intrigo politico e la tentazione speculativa; si sforzino a destare nel contadino la coscienza della propria personalità di lavoratore e di cooperatore, anche nella modestia dei mezzi di fortuna e nelle strettezze della vita familiare, provvedendo in forma opportuna a quelle altre iniziative, che rispondono alle esigenze del lavoro agricolo e artigiano e a quelle delle famiglie; esigenze che non potrebbero essere soddisfatte dalle casse rurali e artigiane per la loro speciale caratteristica di istituti di credito a responsabilità illimitata da mantenersi gelosamente intatta. Il Giornale ditalia, 3 aprile 1957


L'alto costo del denaro Perché l'Italia ha il più alto costo del denaro? È questa una indagine che dovrebbe essere fatta sia dal punto di vista del costo della vita, sia da quello del Mercato comune fra Stati europei. I1 nostro sistema bancario, nella sua struttura e nei principali istituti, - quelli che coprono la maggior parte delle attività di raccolta di denaro e di operazioni a terzi, - è nelle mani dello Stato. La parola «Stato»in questa materia è un'insegna e anche un mito; isticuti, banche o banchi sono in mano a personale di nomina governativa e di enti pubblici, la Vigilanza è di nomina governativa, come lo è il Governatore della Banca d'Italia, pur essendo questa ultima a carattere composito, pubblico e semi-pubblico, governativo e autonomo. Lo Stato c'entra, ma per fortuna, il governo si limita solo alle nomine dei presidenti e di qualche rappresentante di ministeri. Da un certo tempo si sente anche l'intrigo dei partiti; attenti ai mali passi! In un Paese conformista, di un conformismo specialissimo perché conciliabile con il nostro individualisnio di fondo, fu in'ventato, sotto il fascismo, il cartello bancario. Anche in regime libero, banche statali, istituti di diritto pubblico, banche di interesse nazionale, casse e banche autonome, cooperative di credito e banche private hanno liberamente (si dice liberamente) conchiuso una convenzione che fissa i tassi passivi per la raccolta del denaro; perfino le piccole banche e casse locali hanno, liberamente slntende, dovuto accettare tale cartello. Oggi siamo a questo punto: per i depositi vincolati il tasso di interesse è fissato al 4 per cento; per gli sconti di effetti a 4 mesi al 5, 25 per cenro; per i crediti in conto corrente al 7, 50 per cento. Aggiungendo, più o meno, 1'1 per cento per il fisco e 1'1 per cento per spese generali, le operazioni attive potrebbero essere compiute con un tasso variabile fra il 7, 25 e il 9, 50 per cento. Anche per queste cifre siamo ad un costo di denaro che non si riscontra in alcun altro paese civile. Ma la realtà è ben superiore; vi sono punte più alte di quanto io scrissi in un mio articolo, denunziando il fatto di prestiti col 12 per cenro annuo. H o avuto notizia di una non recente circolare riservata della direzione centrale di una banca ai suoi corrispondenti locali con la quale, per tutte le operazioni di credito di esercizio, veniva fissato il tasso del 13 per cento. Un lettore meridionale del mio articolo sopra citato mi scriveva che un cerco istituto aveva fatto pagare il 14 e un altro il 16 per cento. Tali eccessi possono derivare o dalla valutazione del rischio dell'operazione che si prevede dover durare alcuni anni, pur con i soliti rinnovi alle scadenze regolamentari, ovvero dalle spese generali dell'ente, che si presumono o sono superiori alla media comune. Purtroppo, banche e istituti di credito hanno un complesso di spese generali molto gravoso; anzitutto per il numero di istituti e di sportelli, eccessivo in rapporto ai risparmi che vengono raccolti. Nel 1938 vi erano 1.849 enti di credito con 7.384 sportelli; oggi ce ne sono 1.243 (sono diminuite banche e casse private, banche popolari e alcune casse di risparmio minori) con 7.964 sportelli. Nel 1938 gli impiegati di tali istituti arrivavano a 97 mila (in cifra tonda); oggi sono arrivati a 150.000 non ostante le macchine che allora non erano in uso. Non fo il paragone degli stipendi e delle pensioni fra bancari e statali e di altri enti pubblici; i primi pur avendo ottenuto fino alla 16" (e in certe banche la 17") mensilità, computabile anche nella liquidazione pensionabile (a parte la buona uscita per limici di età non-


ché altri notevoli vantaggi), non sono affatto contenti dell'oggi e pensano al domani, forse in vista della svalutazione della lira, svalutazione alla quale le banche stesse contribuirebbero con le spese eccessive e l'alto costo del denaro. Primi rimedi: fermare le spese bancarie; bloccare il numero del personale esistente per una graduale riduzione, rendendone più intensa l'attività; preferire le operazioni redditizie a quelle di poco reddito e poco utili all'incremento produttivo; cercare di diminuire i tassi in corrispondenza alle giuste e sicure economie; indirizzare i clienti al pili utile impiego del denaro da prestare. Le banche hanno anche una funzione educativa e direttiva (non dico dirigista) per quel che è l'incremento produttivo, alla quale funzione debbono destinare il migliore e il più adatto personale del quale dispongono. I1 Tesoro e la Vigilanza hanno propri doveri da adempiere con prowedimenti atti a rendere meno difficile la diminuzione del costo del denaro. L'obbligo fatto agli istituti di credito di tenere vincolati presso la Banca d'Italia il 25 per cento dei depositi rispose alle preoccupazioni che si avevano circa il pericolo dell'inflazione nel dopoguerra e anche per mantenere allora una quota sicura di liquidità bancaria per i casi di emergenza. A dieci anni di distanza la quota del 25 per cento risulta eccessiva. In Inghilterra tale deposito è costumario non obbligatorio e non supera il 10 per cento; lo stesso sistema si usa nel Belgio e nell'olanda; in Germania si ha il 12 per cento; il 20 per cento è fissato per le città di New York e Chicago, mentre per tutte le altre piazze degli Stati Uniti è solo il 14 per cento. In Francia si arriva al 30 per cento ma non si deposita denaro liquido, sì bene titoli di Stato. Questo ultimo sistema sarebbe da adottare in Italia anche mantenendo il 25 per cento. Ignoro se il ministro Medici, così comprensivo dei bisogni generali, sia di questa opinione; spero che il governatore Menichella non faccia obiezioni. Comprendo bene che oggi la Banca d'Italia è costretta a fare la fornitrice di denaro sia per lo Stato sia per gli enti statali. I quattrocento e più miliardi di depositi liquidi delle banche consegnati alla Banca d'Italia sono serviti per gli anticipi agli ammassi obbligatori di cereali e simili. E sperabile che si arrivi al sistema degli ammassi facoltativi, e si lasci gradualmente un maggiore margine al libero commercio, evitando lunghi e perfino continuativi immobilizzi di denaro. Ci saranno vantaggi e svantaggi di qua e di là; ma il ritmo produttivo sarà più accelerato per lo stimolo che ne riceverà l'agricoltura a migliorare o a variare le colture, invece di fossilizzarsi in un sistema di alti costi, di alti prezzi e di colture povere. Un altro passo spetta al Governo, quello di diminuire le spese inutili, superflue, improduttive e dannose; ce ne sono tante, comprese le awenture, le costruzioni e le pubblicità dell'EN1, la passività dell'IRI, le malefatte del Poligrafico e le perdite di enti che il Tesoro copre di un rigido silenzio, come quelle di una certa società che per affari in Persia andò a perdervi quasi un miliardo. Ora in Persia c'è Mattei per conto dell'ENI o di società dipendente dall'ENI, con un bel gruzzolo di dollari ottenuti dall'Uffìcio cambi. Quanti ce ne vorranno in seguito nessuno può dirlo; solo è noto che Mattei fa gli affari generosamente tenendo per sé solo il 25 per cento e lasciando alla Persia il 75 per cento, mentre americani e inglesi contrattano col 50 e 50. Lo Stato è abituato da anni e anni ad accollarsi le più sballate operazioni dei suoi enti: comprese quelle della cinematografia statizzata che ora si spera di vedere eliminata; compresi i dpfirit che si sono accumulati da anni per le gestioni GRA ed ENDIMEA, organi provvisori di soccorso e di servizio improvvisati nel 1944 dagli alleati, e per intrigo burocratico, consacrati in seguito quali enti presi a balia da PantaIone. I1 ministro del Tesoro ha cominciato a tagliare molti nodi gordiani, ma sembra che uno se ne tagli e dieci nodi vengano formati da mano invisibile.


A proposito del costo sopportato dal Paese per enti statali e parastatali, facciamo per nostra edificazione un confronto della percentuale dei risparmi che le banche hanno investito in titoli pubblici e in titoli azionari privati: nel 1938 il 64 per cento era nel settore pubblico e il 36 per cento in quello privato e se ne lamentava il disquilibrio; ma nel 1956 siamo arrivati al 76 per cento nel settore pubblico e discesi al 24 per cento in quello privato: è ciò tollerabile? Se vogliamo dilettarci di raffronti, eccone un altro: il portafoglio della Banca d'Italia del settembre 1956 segnava un complessivo di 401 miliardi, dei quali soltanto 4 miliardi e 385 milioni troviamo nel portafoglio ordinario per operazioni del settore privato. Ritorno indietro all'agosto I 9 14, l'anno della prima guerra mondiale: dei 2 miliardi e 136 milioni della circolazione solo 133 milioni erano andati al Tesoro e il resto agli affari privati; ebbene, nel settembre 1956 dei 1.632 miliardi di circolazione, solo 4 miliardi e 385 milioni sono andati agli affari privati, il resto allo Stato e agli enti statali. È così? Potrà la Banca d'Italia ritornare alle sue funzioni nel campo della produttività se non si rettifica l'andazzo dello Stato? Due sono le direttive da seguire: arrivare nel 1958-59 al pareggio (il ministro Zoli l'ha promesso) costi quello che costi; sopprimere le gestioni statali superflue, inutili e dannose, e restringendo la espansione costosa e irrazionale degli enti (e qui alludo all'ENI in prima linea), e controllandone tutte le amministrazioni. Questi sono i più gravi ed urgenti problemi dell'oggi.

Il Giornale d'Italia, 13 aprile 1957

Ai democratici cristiani della Repubblica Argentina6 Nel mandare, a mezzo dei cari Jorge Steverlynck - Javier Ayerza - Eugenio Holmber, più fervidi auguri per la rinascita della Repubblica Argentina in regime democratico, il mio pensiero e il mio affetto si rivolge a tutti i democratici cristiani argentini, la cui partecipazione alla vita pubblica segnerà un passo notevole di chiarificazione politica e di attuazione dei principi della scuola sociale cristiana. Moralità e solidarietà sono nello spirito della giustizia che sta alla base della Res Publica. Pur nelle difficoltà delle classi operaie, sta a voi potere assicurare al paese l'equilibrio umano nel dovere cristiano e le riforme sociali nel processo provvidenziale della umanità. Il saluto fraterno di chi ha sempre amato l'Argentina arrivi come messaggio di bene per il migliore vostro avvenire. A mons. Miguel de Andrea l'omaggio più devoto; a tutti il saluto pieno di speranza. Luigi Sturzo

Dattiloscritto, 17 aprile 1957 (Non appare pubblicato)

In: A.L.S., b. 506, fasc. «AI[. e 1. pubbl. del Prof. L. S.*, marzo-aprile 1957.

56


La riforma del Senato Secondo il titolo del disegno di legge 1931 si tratterebbe solo di «modifiche alla durata e alla composizione del Senato della Repubblica)); ma a leggervi dentro si tratta di modifiche rtformatrici; e se nella relazione si afferma essere stato rispettato il principio regionale della composizione del Senato, invano se ne cercano le tracce nel dispositivo. Basta notare che l'aggiunta di un'ottantina di nuovi seggi verrebbe fatta sopra un albo rigido di candidabili, la cui «elezione»verrebbe automaticamente proclamata in base al totale di voti ottenuti in tutta la nazione dalla lista che porta uno dei contrassegni usati per le elezioni nei singoli collegi delle regioni. Dove si vede che le regioni vi entrano come i cavoli a merenda. Le regioni potranno adottare contrassegni locali quanti ne vogliono; ma se tali contrassegni non avranno corrispondenza in campo nazionale con quelli delle altre regioni, e se nessuno degli iscritti all'albo abbia adottato in precedenza determinati contrassegni, l'esito per la pretesa regionalità sarà semplicemente negativo. C'è di peggio: l'anzianità di mandato e di cariche parlamentari o ministeriali avute dagli iscritti all'albo, è al di fuori di qualsiasi considerazione regionalistica. Può awenire che i senatori «aggiunti»,li chiamo così per intenderci, potrebbero appartenere a sei o sette regioni, lasciando le altre, come dire?, a bocca asciutta. Poco male, mi diranno i contraddittori; a noi non interessa il rapporto regionale, vogliamo gente esperta a dare un po' di tono al Senato. Sia pure questo lo scopo della proposta. È da pregare I'estensore della relazione a ricredersi là dove egli aEeerma che ~l'integrazione (del Senato) intende rispettare il principio democratico dell'elettività nonché il criterio della "base regionale" sancito dalla Costituzione)). Né l'uno né l'altro rispetto esiste; neppure quello della elettività; a proposito della quale mi sembra di essere passato al di là della cortina di ferro, a sentire parlare di lista rigida che si voti per il sì e per il no; ogni partito esistente (i partiti futuri se lo vedranno loro) cerca nell'albo i suoi contrassegnati e li trascrive in lista rigida. E veniamo all'albo: secondo l'articolo 2 del disegno di legge, questo conterrà tutti i deputati e senatori presenti e passati, compresi i costituenti e i consultori, messi in lista in ordine di anzianirà di mandato, owero, a parità, in ordine di anzianità di carica ministeriale o parlamentare; a pari anzianità, prevale il numero di voti personali ottenuti nell'ultima elezione. L'automatismo dell'albo limita l'ordine delle liste nazionali, e crea per giunta, una categoria particolare di parlamentari che chiamerei di prima classe; coloro che hanno avuto la fortuna di divenire ministri, sottosegretari, alti commissari, a parte i vicepresidenti, questori e segretari e presidenti di Commissioni permanenti e di gruppi parlamentari nelle due Camere. I ministri sopra tutti si assicurano il seggio senatoriale contro ogni concorrenza e con assai limitate probabilità di perderlo ((vitanatura1 durante)). È un po' troppo (mi dispiace di scriverne potendo essere io rinfacciato del mio senaroriato a vita, avuto a 81 anni e del quale non ho affatto colpa, non avendolo mai sollecitato anzi avendolo rifiutato per quasi tre mesi); dico un po' troppo perché la categoria dei ministri e sottoministri ha già dei vantaggi: stipendi parificati a quelli dei primi posti della burocrazia e relativi aumenti, pensionabilità, cooperative edilizie, personale proprio di gabinetto e di segreterie e così di seguito. Se oggi non manca un certo rimestio nei partiti di coalizione governativa per divenire almeno sottosegretari, domani i motivi di malcon-


tento della base parlamentare aumenteranno in vista del fùturo canonicato, nel senso medievale della parola. Il disegno di legge nasconde nelle sue pieghe un altro assurdo mettendo nell'albo i nomi di ex parlamenrari che abbiano avuto il licenziamento per bocciatura elettorale, rientrando così per la porta di servizio a dispetto del corpo elettorale. Pour la bonne bouche, si vuol sapere a che cosa serve l'albo rigido? Non solo a togliere ai partiti e agli elettori il gusto di dare l'ordine di lista che vogliono o il voto preferenziale che desiderano; ma anche a creare una disparità fra i candidati che per avere molti colleghi di contrassegno più anziani di loro resteranno a piedi; mentre altri colleghi meno anziani con diverso contrassegno avranno il laticlavio pur non essendo stati sottosegretario di Stato né segretario della Camera o del Senato. L'ordine dell'albo non è quindi un ordine unico assoluto, irreformabile; è un ordine composito, secondo i dieci o quindici contrassegni, sotto i quali i futuri senatori aggiunti saranno piovuti nelle diverse liste nazionali. Non sarebbe stato meglio lasciare libera scelta agli elettori regionali per quei seggi da assegnare ad ogni Regione in rapporto alla relativa popolazione, pur limitando la scelta fra gli iscritti dell'albo di eleggibilità? Passiamo all'art. 3 che dà il diritro di nomina a vita agli ex presidenti delle assemblee della Camera e del Senato, comprensivi, a dieci anni di distanza, i presidenti dell'assemblea costituente. A me sembra più opportuno mettere tali nomi nell'albo, senza aprire una specie di corsa al posto di presidente, con i possibili intrighi di corridoio in occasione propizia per guadagnare a buon mercato il seggio vitalizio; siamo uomini e non superuomini. E poiché il riferimento dell'articolo a persone benemerite è evidente, potrà più dignitosamente trovarsi una soluzione aumentando il numero dei senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica fino a quindici invece dei dieci dell'articolo 4. A questo punto si domanda: perché non si è affrontata la riforma di struttura del Senato? e perché il relatore ci tiene a dichiarare che struttura e funzioni del Senato sono rimaste intarte? Era questa la buona occasione, che è stata perduta, preferendo una modifica che più esattamente dovrà dirsi deformazione. A me sembra che i proponenti si siano impegolati in questo pasticcio per un erroneo presupposto, quello della integrazione, ciò si desume dal vecchio titolo del disegno di legge, che è rimasto come sottotitolo della relazione al paragrafo sull'articolo 2, dove si ribadisce l'idea di integrazione del Senato. Integrazione? Non è forse integro il Senato che corrisponde al disposto del testo della Costituzione? Non lo è, scrive il relatore, perché il Senato della Repubblica aveva 107 senatori di diritro, che sono decaduti con la prima legislatura; non awertendo egli che la Costituente stessa, nell'approvare la terza disposizione transitoria, dichiarò che tale «elargizione extra-costituzionaie» valeva solo per la prima composizione del Senato. Il disegno di legge attuale non è pertanto una integrazione del Senato; non vuole essere una modifica della struttura né una specificazione di funzioni, ma solo un aumento di seggi per un maggior numero di componenti elencati sulla base di una competenza che si presume acquistata con l'esercizio del mandato parlamentare. A questi modesti scopi sarebbero bastati, come ho detto, oltre che la diminuzione della popolazione requisita per la costituzione dei collegi elettorali e l'aumento di numero delle nomine di senatore a vita, un certo numero di seggi aggiunti ai collegi della regione per le nomine da parre dei relativi elettori da scegliere fra i candidati iscritti nell'Albo degli eleggibili.

Il Giornale ditalia, 26 aprile 1957


Libertà e autodisciplina. Dove andremo a finire? H o letto che in Italia le disgrazie di strada sono molto elevate non tanto per velocità Non è da meravigliarsene: noi italiani siamo individualisti, e quanto per indi~ci~linatezza. quanto più individualisti tanto più indisciplinati. Siamo pronti a seguire più gli impulsi del sentimento, che il ragionamento e la fermezza di una volontà illuminata. Doni e manchevolezze di natura, questi, che una educazione intesa a sviluppare le facoltà superiori della intelligenza e della volontà, non solo corregge ma potenzia con gli stessi valori che sentimento e fantasia immettono nella vita. È così che noi non sappiamo godere della libertà né riusciamo a ben difenderla quand o è minacciata, né a riconquistarla da soli quando è perduta, né a temperare con l'autodisciplina le leggi limitative ed esorbitanti che il potere pubblico spesso ci regala. Perché la libertà possa essere posseduta e mantenuta nella sua effettiva e completa realtà, occorre che siano rispettate tre condizioni indeclinabili: ordine, responsabilità, rischi. Se si rifiuta l'ordine si cade nell'anarchia; se si rifiuta la responsabilità si cade nella dittatura; se si rifiutano i rischi si cade nella inazione e nel marasma. In ognuno dei tre casi, nessuno potrà esercitare i diritti che la libertà garantisce, perché l'anarchia impedisce ogni sana attività per le sopraffazioni dei faziosi; la dittatura, per esperienza antica e recente, ((passasul cadavere della libertà»; la inazione ne fa venir meno i benefici. Punto di convergenza fra la libertà teorica e la libertà pratica è I'autodisciplina. È questa che garantisce il diritto proprio nel rispetto del diritto altrui e fa assumere le responsabilità delle proprie iniziative con la sicurezza di poterne sopportare i rischi. Così I'autodisciplina esclude sia l'imposizione dall'alto sia l'esercizio del potere repressivo. Che in regime di libertà debbano esservi codici e leggi penali non può mettersi in dubbio: vi saranno sempre in questo mondo briganti, assassini, truffatori, ladri. I codici e le leggi, fatti in regime libero da liberi cittadini, sono diretti a creare un ordine normale, nel quale tutti, senza eccezione, sono giuridicamente uguali, anche i trasgressori, e tutti trattati come esige il rispetto della persorialità umana. È così che, in un vero regime di libertà, l'accusato si presume innocente; perché è meglio affrontare il rischio di assolvere un reo che privare di garanzie l'innocente accusato a torto. La libertà consente in ogni campo la maggiore larghezza di iniziativa privata, a una sola condizione, che la stessa larghezza ciascuno riconosca agli altri e non cerchi di contrastarli od ostacolarli nelle loro iniziative. Contropartita di tale libertà è il senso di responsabilità che la libertà esige in ciascuno, quale ne siano la condizione, il posto, il potere. Nel campo della cultura ciò si esplica sulla base di quel che ciascuno reputa sia la verità. Nessuno può rivendicare per sé la libertà di mentire, come non può rivendicare la libertà di uccidere o di rubare. N é è a dire che l'omicidio e i1 furto cadono sotto la sanzione penale mentre la menzogna come tale non vi cade, tranne che non si trasformi in un reato recante di fatto un danno alle persone: diffamazione, truffa e così via, perché la menzogna rimane sempre un'offesa morale alla convivenza umana, la menzogna è per sé sostanzialmente antisociaie. Ad impedirne l'uso valgono l'educazione, la persuasione, I'autodisciplina, il costume, la condanna della pubblica opinione. L'autodisciplina è indice di elevatezza morale; chi non la comprende sta al di sotto degli animali, i quali per istinto possono contenersi fino a che non sia eccitata qualche partidovrebbero concolare sensibilità. A formare la convinzione e la pratica dell'autodi~ci~lina


correre la famiglia e la scuola. H o letto di un popolo primitivo, di recente scoperto nel centro africano, il cui modo di riprovazione e di ammonimento è quello dello sguardo muto e fisso nella persona ritenuta colpevole; questa deve capire da sé la riprovazione e l'obbligo dell'ammenda. Se è così è degno di nota; si tratta di una esperienza antica e tradizionale, passata in costume di alto valore psicologico, degna quindi di civile rilievo. Ricordo che nella mia famiglia i genitori usavano spesso il rimprovero tacito e penetrante. Se la persona libera non si educa all'autodisciplina, qualsiasi società è destinata a vivere fra I'arrovellamento e il disordine, ovvero subire la durezza di una disciplina imposta dall'alto e l'avvilente tutela di un dittatore. Se per tutti I'autodisciplina deve essere la regola del vivere in società a maggiore ragione deve essere la regola di coloro che presiedono ai vari organi dello Stato, sia nei rapporti reciproci sia nei rapporti con i singoli cittadini e le relative associazioni. Perciò si richiede dai capi maggiore comprensione deile cosiddette wpublic relationsn e maggiore cura nella pubblica gestione; dai loro collaboratori, maggiore senso di rispetto e di corresponsabilità. Purtroppo, le leggi moderne sono redatte con una precisazione che le trasmuta addirittura in regolamenti; nella pratica si ottengono gli effetti opposti; quei limiti, quelle barriere, quelle rigide e minute disposizioni urtano spesso il buon senso e vessano i cittadini; si sente il bisogno di evaderne, attraverso raccomandazioni politiche, indebite ingerenze e perfino con subdoli intrighi. Non sempre la colpa è degli impiegati; vi sono leggi così mal fatte, la cui osservanza non risponde al buon senso e agli interessi generali; la ricerca di qualche ripiego sembrerà a molti una congrua soluzione. A parte questo caso limite, in genere la insofferenza di una regolamentazione eccessiva è una delle cause che induce alla indisciplina nell'osse~anzadelle leggi. Più grave è il caso di coloro che, pur rappresentando i poteri dello Stato, varcano i limiti loro imposti dall'ordinamento giuridico. È accaduto più volte che il Parlamento abbia approvato certe «interpretazioni autentiche» di leggi per sé molto chiare, anzi cristalline; estendendone le disposizioni a casi non previsti dalla legge, allo scopo di darvi effetto retroattivo. I1 ricorso a questo mezzo arbitrario e illegale è stato invano deplorato; è capitato perfino il caso di usare tale sistema in seguito a sentenza del magistrato, con disposizioni tali da includervi quegli stessi casi sui quali la magistratura ebbe a pronunziarsi con sentenza esecutiva. Se uno Stato di diritto e rappresentativo, quale il nostro, non mantiene nette le distinzioni e i limiti dei poteri e il reciproco rispetto delle competenze fra i diversi organi della pubblica autorità, non vi sarà vera libertà né vero ordine costituzionale; {introduce l'arbitrio a mezzo di leggi. Quello che dico per i poteri del Parlamento riguardo l'autorità giudiziaria, è da ripetersi per l'autorità giudiziaria, Corte costituzionale compresa, nei riguardi del Parlamento. Lo stesso è a dire del governo e dei singoli ministeri e dei reciproci rapporti, riguardo la rigida osservanza e delle leggi e dei limiti di competenza. A proposito di una indiscrezione circa l'invio di una lettera del presidente della Repubblica al capo di uno Stato estero, si è discusso giorni fa se e fino a qual punto egli abbia invaso i poteri governativi o viceversa, se il governo abbia ecceduto nei suoi poteri. Non conoscendo i termini della vertenza rimasta in penombra, mi limito a rilevare l'indiscrezione augurando che non vi sia stata violazione di poteri dall'una parte o dall'altra; ma esigendo più chiarezza in cose, per quanto assai delicate, che toccano la struttura del nostro ordinamento statale, e la garanzia dei diritti e dei doveri nell'osservanza, per ciascuno, dei limiti del proprio potere. La partitocrazia è uno dei più gravi effetti della mancanza del senso del limite. I partiti in democrazia hanno una funzione indispensabile, quella di organizzare i cittadini per


la tutela e I'esercizio dei loro diritti politici, formare e guidare l'opinione pubblica, agitare i problemi di vita collettiva e cercarne la soluzicne, ed anche influire, dal di fuori, sulle linee della politica governativa e legislativa. Ma spetta solo al Parlamento I'esercizio della sovranità legislativa che non deve essere violata da nessuno. L'esistenza dei gruppi di deputati e di senatori, distinti secondo il segno elettorale ovvero per scelta individuale, non vincola la coscienza, né può violare la libertà dei singoli parlamentari. Spetta pertanto ai deputati e ai senatori, che rappresentano la nazione, e non mai al partito dal quale provengono, la responsabilità della formulazione delle leggi e il controllo della politica governativa e dell'amministrazione pubblica. I partiti preparano l'attività parlamentare con la discussione dei propri programmi, con le campagne politiche, con gli impegni presi di fronte agli elettori; creano così l'ambiente adatto all'attuazione del proprio indirizzo e delle aspirazioni degli associati. Questi sono sempre una minoranza nel complesso elettorale del paese. La DC ha avuto quasi un milione e mezzo di iscritti, mentre nelle elezioni ha ottenuto fino a tredici milioni di voti; e così gli altri partiti in scala discendente fino ai numeri più scarsi dei gruppettini improwisati. A quale titolo si pensa di soverchiare il Parlamento, fino a prestabilirne i voti e a fissarne le leggi? Sarebbe un tentativo illegittimo, che potrebbe assumere la figura di reato, quello di impedire il libero esercizio delle funzioni parlamentari in un paese libero e democratico. Si è preteso di interpretare a favore della partitocrazia l'accenno della Costituzione sui gruppi parlamentari che si trova nell'articolo che autorizza la formazione delle commissioni riunite in sede legislativa; ma l'accenno è chiaramente diretto a far mantenere in tale sede la configurazione esistente in aula. Se i partiti pretendono di dirigere essi la politica, dovrebbero anzitutto indurre il Parlamento a modificare la Costituzione, assumendo la responsabilità di organo-corpo giuridico, in base a limiti fissati da leggi. Sapremo così una buona volta che la nostra non è più una democrazia parlamentare, sì bene una democrazia partitica o meglio una partitocrazia pseudo-democratica. Che dire poi dell'intrusione dei partiti e delle relative dirigenze nell'attività amministrativa dei ministeri e degli enti statali? Non vi è nomina che non sia proposta o sostenuta da questo o quel partito; si cerca anche di imporle apertamente. Vi sono ministri, è vero, che hanno resistito e sanno resistere; altri no; altri, peggio, si fanno essi stessi parte diligente dei partiti cui appartengono per incrementarne la clientela. Dove va a finire la responsabilità personale dei ministri o collettiva del Consiglio dei ministri? Non viene così ferita in radice? Quale demoralizzazione porti tale opera disgregatrice della pubblica amministrazione, IO sanno gli stessi impiegati che nelle promozioni si vedono lasciati in coda da altri di dubbi meriti e di breve anzianità; lo sanno coloro che al momento di arrivare all'agognato traguardo si vedono sostituiti da altri meno preparati e meno anziani. Riconosco essere malto difficile la giusta valutazione dei meriti; si può fallire; ma il preconcetto politico, il palese arbitrio, lo spirito di clientela feriscono il senso di giustizia. Se tale esempio parte dal centro della vita politica e della amministrazione statale, che cosa succederà negli enti statali, nei comuni, nelle province o nelle regioni? Sotto il fascismo vi erano i federali e i cosiddetti ras locali che spadroneggiavano. La cattiva abitudine si è trasmessa subito ai comitati di liberazione centrali e locali. L'infezione passò ai partiti; i quali, imitando i comunisti, cercarono mezzi superiori alle proprie forze, formarono burocrazie e squadre di propagandisti (agir-prop), organizzazioni periferiche pagate dal centro, in certi casi furono pagate perfino le tessere degli iscritti. L'«apparato» (si chiaina così) dei vari partiti prese subito un carattere dispotico sia all'interno dei partiti, sia con gli estranei e le stesse autorità presso le quali sentiva di potersi imporre.


In tale ambientazione la formazione di fazioni in seno agli stessi partiti è facile conseguenza del contrasto fra i detentori del potere e gli estraniati, fra i parlamentari favoriti e gli avversati, fra gli aspiranti e gli arrivati; fra le stesse clientele; i quali tutti, per i lunghi cinque anni della legislatura, almanaccano e lavorano per il giorno fatidico della elezione, non tanto per sconfiggere l'avversario, quanto per accaparrare preferenze. Con questi stati d'animo permanenti, come si può essere ascoltati da costoro quando si parla di difesa della libertà, di autodisciplina, autolimitazione e simili? Essi non hanno altro timore che perdere il traguardo della prima scelta, la inclusione in lista; e se inclusi, il timore di perdere l'ultimo traguardo, il numero dei voti di preferenza. Dio mi guardi dall'estendere questo stato d'animo a tutti gli ottocento e più parlamentari di Roma, ai circa trecento consiglieri regionali, ai seimila (su per giù) consiglieri provinciali, ai duecento e più mila consiglieri comunali. Eccettuo subito coloro che sono o si sentono superiori alla passione della medaglietta o al seggio amministrativo; eccettuo anche gli altri che sono sicuri e della inserzione in lista e degli amici elettori che daranno loro il voto di preferenza. Ma vi sono coloro che, entrati nell'ingranaggio politico, non possono più uscirne; specialmente quelli che del mandato parlamentare, assembleare, consiliare han fatto ragione di vita anche dal punto di vista economico familiare, raccogliendo stipendi, indennità, gettoni di presenza, partecipando a cooperative di case, sperando, dopo certi anni di mandato, la pensione elargita da parlamenti e parlamentini. Senso del limite? Dovere di autodisciplina? Parsimonia nelle spese? Come è possibile che in tanto sperpero gli italiani non aspirino a divenire tutti degli stipendiati, salariati, pensionati dello Stato? L'andazzo è reso più grave dai mille e più enti e gestioni statali e parastatali, con le loro pubbliche e private filiazioni, per i cui amministratori non ostante i controlli più diversi, non esistono effettivi limiti alle spese palesi e occulte; né impedimenti alla formazione di clientele per affari economici e politici incontrollabili; e purtroppo non mancano partiti a trarne profitto. Dove andrà l'Italia se i migliori di ogni partito politico non sentono oggi il dovere di prendere posizione perché prevalga la legge sull'arbitrio, la regola s ~ l l ' i n t r i ~la o ,parsimonia sulla prodigalità del denaro pubblico, il senso di responsabilità sull'incoscienza ed obliterazione dei propri doveri? La mia non è un'accusa di irresponsabilità rivolta a tutta la classe dirigente: questa in gran parte è paralizzata da tre cause estranee alla propria volontà. Primo, la necessità di far fronte al comunismo bolscevico e a quel socialismo che vi si è collegato; gli altri partiti hanno creduto necessario imitarne l'apparato, i metodi, le enormi spese, la demagogia e vi si sono impegolati; Secondo, la legge elettorale sulla base di una proporzionalità non corretta, e con I'aggiunta dei molti voti di e delle troppo larghe circoscrizioni; si sono così create le premesse di una ~elettoralite»permanente in tutti i candidati e i candidabili, la quale malattia inficia la vita degli stessi partiti; Terzo, la molteplicità dei posti guadagnabili con l'intrigo di partito, i larghi cornpensi sia nelle amministrazioni degli enti statali, sia nelle rappresentanze pubbliche, dalle quali si allontanano i più degni e i più preparati e vi affluiscono non pochi che mai avrebbero sognato un simile «Lascia o raddoppia))politico. Quando il senso del limite è caduto e i freni non giocano più, ci vanno di mezzo la libertà dei cittadini e il benessere del paese.

L'Europeo, 28 aprile 1957


Primo maggio cristiano Tra il 1890-91 ero seminarista in Caltagirone; si parlava del prossimo primo maggio come di un giorno di fredda rivolta sociale. I1 mio professore di matematica, un laico che mi aveva preparato alla licenza liceale, mi portò poco prima un foglio rosso che i socialisti di Catania, capeggiati da Giuseppe De Felice, avevano pubblicato affermando le rivendicazioni del lavoro a mezzo della lotta di classe. Stavo finendo i corsi teologici e per giunta insegnavo in quarta ginnasiale; non avevo altri pensieri; quel foglio mi fece l'impressione dell'apertura di una finestra sul mondo. Seguì a pochi giorni l'Enciclica Rerum Novarum, che destando pratiche aspirazioni maturò in me l'orientamento sociale verso il quale non avevo sentito in precedenza alcuna particolare attrattiva. In Sicilia si ebbero poco dopo i moti dei fasci di lavoro, lo stato di assedio, la dittatura militare; giorni di ansia e di preoccupazione in tutti i ceti. La ripresa di azione cattolica nell'Isola fu improntata a pratiche realizzazioni sociali; presto al 1" maggio dei socialisti si contrappose il 15 maggio, data del1'Enciclica. Ma il primo maggio si era diffuso in tutto il paese e si era imposto come giornata precorritrice delle future sorti del socialismo, come imponente affermazione della lotta di classe; non mancarono intemperanze e tentativi di rivolta; gli anarchici vi mescolavano qualche bomba per darvi impressione terroristica. Poi venne lo stato di assedio del '98, i processi e le condanne, fra le quali quella di don Albertario, direttore del1 'Osservatore Canolico di Milano; lo scioglimento dei centri di Azione Cattolica e la susseguente protesta di Leone XII. Seguirono il regicidio e nuovi tentativi di rivolta. Fu sotto il nuovo regno di Vittorio Emanuele 111 il ritorno alle libertà costituzionali. Da allora il l " maggio fu meno torbido e meno osteggiato; mentre il 15 maggio non fu guardato, come era stato prima del '98, quale edulcorara imitazione del I " maggio rivoluzionario, ma andò mano a mano raccogliendo i consensi della maggioranza dei cattolici. Nell'aprile-maggio del 1903 mi trovai nell'Alta Italia per prendere contatti con quei gruppi democratici cristiani; ebbi così l'esperienza di un 1" maggio per me assai difficile nel viaggio da Torino a Milano dove, per giunta, arrivando la sera, trovai chiuso lo sportello per il deposito dei bagagli, nessun mezzo di trasporto, nessun portatore, nessuna vettura; dovetti andare a piedi trascinando la mia pesante valigia dalla stazione centrale di allora fino a via S. Tomaso, dove mi dava gentile ospitalità quel parroco, l'indimenticabile don Marazzani. Mi fu di compenso il 15 maggio successivo, con una gita sul lago Maggiore in un giorno di splendido sole, folla di operai e di operaie, canti e discorsi, fede ed entusiasmo. Non si gridava abbasso, non si invocava la lotta di classe; si affermavano i diritti del lavoro, le leggi protettive, gli accordi sindacali e si inneggiava a Leone XIII. La concezione cristiana e interclassista della società era allora convinzione comune, pur nella rivendicazione degli inalienabili diritti della personalità umana e della vita della famiglia. I1 contrasto delle due concezioni, la cristiana e la marxista, poneva di fronte le organizzazioni operaie dei campi opposti; un po' da per tutto sia nelle sale che nelle piazze fra gli oratori delle due parti si ebbero larghi dibattiti, che presero il nome di contraddittor!. Ricordo il fervore con cui si affrontavano e non gli inconvenienti cui potevano dar luogo per i contrasti politici e l'effervescenza giovanile. Ma non trovarono molto favore nei dirigenti dell'azione cattolica. L'organizzazione sindacale delle masse operaie fu per lungo tempo monopolio sociali-


sta. Le leghe democratiche cristiane ebbero con ritardo un centro di organizzazione unitario e riconosciuto, dopo che l'Unione Popolare, superata la crisi dell'opera dei Congressi e della Democrazia Cristiana, cercò di convogliare su unico piano tutte le categorie sociali per la formazione dei cattolici e la loro organizzazione nel campo religioso-sociale. Solo nel 1918 fu creata la confederazione italiana dei lavoratori che per differenziarla dalla confederazione rossa fu detta confederazione bianca. Questa in poco tempo, raggiunse il milione degli iscritti; I'aw. Valente, I'on. Gronchi, I'on. Grandi ne furono i segretari generali, fino allo scioglimento ordinato dal regime fascista. Durante quasi un decennio di notevole attività, gli operai cattolici mantennero la tradizione della prima democrazia cristiana, nel festeggiare il 15 maggio. Tale festa, sotto il fascismo e il monopolio delle corporazioni, fu mantenuta in sordina da gruppi locali di azione cattolica. La ripresa del 1944-45 fu influenzata dalla volontà alleata di creare unica confederazione dei lavoratori, con il segretariato tripartito: comunisti-socialisti-democristiani. Coloro che volevano riorganizzare la confederazione bianca restarono in minoranza. I1 l" maggio fu la data comune della festa del lavoro; festa accettata dalle varie confederazioni dopo che fu rotta la convivenza di tre tronconi socialmente diversi e politicamente avversi. La Chiesa ha sanzionato tale festa del lavoro, non certo nelle sue origini rivoluzionarie e neppure nello spirito di lotta di classe; ma nella rivalutazione morale del lavoro umano, comune a tutti gli uomini come dovere e come espiazione; nell'affermazione della personalità umana uguale per tutti gli uomini nella loro origine di creature di Dio e nella loro destinazione soprannaturale, nella fraterna e cristiana convivenza di tutti, pur nelle terfra gli individui. rene inevitabili di~u~uaglianze La festa di S. Giuseppe fabbro, istituita per il 1" maggio, è nello spirito della tradizione dei primi secoli del Cristianesimo, quando le feste pagane ebbero la corrispondenza in quelle cristiane, passando dal carattere terreno e sensuale, a quello soprannaturale della fede, della speranza e della carità.

La Rocca, 1 maggio 1957

Ministero pre-elettorale Siano le elezioni a novembre o a primavera; sia il nuovo ministero un quadripartito o un monocolore; siano a capo del governo Segni o Zoli, Pella o Scelba; si tratterà, né più né meno, che di un ministero preelettorak. Pur mettendo nella bilancia il desiderio, perfettamente umano, dei parlamentari in carica di allontanare le elezioni fino al limite statutario, desiderio che darebbe un po' di ossigeno anche al monocolore, potrà capitare, a quale possa essere il nuovo governo, il colpo di grazia di una crisi extra-parlamentare. Comunque sia, la vita difficile di un monocolore (Pella ebbe poco meno di un semestre) o quella di un quadripartito con i contrasti di convivenza, si ripercuoterà sul Parlamento che ne sarà più o meno paralizzato. Proviamo a fare qualche cenno delle leggi necessarie e urgenti da dover varare ad ogni costo. Anzitutto i bilanci del prossimo esercizio 1957-58. Non abbiamo che il mese di giugno perché parlamento e governo siano in regola con la Costituzione; altrimenti, si dovrà ricorrere ad una legge di esercizio prowisorio, rimandando al luglio e forse anche al set-


tembre la discussione del resto dei bilanci. Intanto occorrerà provvedere alla ratifica degli accordi per l'Euratom e per il Mercato comune europeo e di parecchi altri trattati internazionali, il cui rimando alla prossima legislatura sarebbe inopportuno o dannoso. Per evitare il decreto di scioglimento del Senato e allineare il periodo elettorale delle due Camere, sarà necessario portare immediatamente al pubblico dibattito il disegno di legge costituzionale, superando in tempo le due successive approvazioni volute dalla Costituzione. In tal caso, dovrà essere presentato, discusso e approvato anche in tempo, e non in fretta all'ultima ora, il disegno di legge elettorale, necessario per la esecuzione della stessa legge costituzionale. Tutto ciò impegna il parlamento da oggi ad ottobre, con l'aggiunta di qualche altra legge di maggiore urgenza. Quale? Non sarà facile procedere ad una adeguata selezione fra la selva di disegni di legge governativi e di proposte d'iniziativa parlamentare, che si trovano presso le commissioni delle due Camere. Si tratta di circa duemila e trecento testi in corso di esame. Se si dovessero approvare tutte nelle cento sedute, quante sono prevedibili da giugno di quest'anno al marzo del '58, dovrebbero essere approvati almeno quindici disegni di legge per seduta. Enorme! Per rispetto alla Roma di tutti, dell'Italia come capitale; del Papato come sede; degli Stati amici come centro di convergenza di affari e di convegni; per turisti e viaggiatori di tutto il mondo, si dovrebbe finalmente varare quella legge richiesta da decenni e oggi in corso di discussione. Se è vero che per la vita organica dello Stato vale meglio una legge mediocre che nessuna legge, lo stesso dovrà dirsi per la capitale. Nel fatto, il disegno di legge in corso di esame è davvero mediocre, mediocrissimo. Con le rettifiche che si vanno maturando in commissione, purtroppo senza il consenso o con le riserve del rappresentante del governo, si potrà finalmente portare in porto, evitando di lasciarne l'eredità al nuovo parlamento, il quale non potrebbe occuparsene che solo verso la fine del 1958. Metto subito in riga la leggina sulle spedalità per regolare meglio i rapporti fra Comuni, ospedali e Stato, ed evitare inconvenienti che riescono dannosi allo stesso esercizio ospedaliero. Fra le varie leggine proposte in materia di pensioni, alcune sono state già approvate dall'un ramo del parlamento e messe all'ordine del giorno dell'altro ramo. È da augurare che almeno queste dentro l'anno arrivino in porto. Metterei in riga anche il disegno di legge sulla presidenza del Consiglio dei Ministri, pur rinviando quelle disposizioni che lasciano perplessi o dànno luogo a forti dissensi. Del resto, si tratta di leggi che si maturano col tempo e l'esperienza; volerle formulare complete in tutto e per tutto sarebbe una pretesa non redizzabile, né mai realizzata. La stessa constatazione vale per il disegno di legge sul consiglio superiore della magistratura. Vana è pretesa degli uni e degli altri (magistrati e governo) di dare la soluzione perfetta ai rapporti fra i diversi poteri. Sarà meglio contentarsi, per la prima volta, di una approssimazione quanto pih possibile all'equilibrio. 2 difficile trovare a priori, specie da un corpo politico quale il parlamento, la forma che eviti gl'inconvenienti di una autonomia assoluta dell'ordine ovvero quelli di una coordinazione che non si risolva in una certa dipendenza dal potere esecutivo. Data Pa possibilità di modificare le leggi, e dato che nessun ordine, neppure quello costituzionale è al di hori del potere legislativo, a me sembra che sarebbe da mettere alla prova la magistratura, affidandoci al senso di responsabilità di coloro che comporranno il nuovo consiglio superiore e ne avranno la direzione. Aggiungerei due condizioni: la prima, che la formazione di tale consiglio sia tale da rispondere alla fiducia del parlamento e del paese; seconda che si preveda chiaramente il modo come il parlamento possa esercitare il suo controllo, perché è suo diritto e dovere poter conoscere e di-


scurere e deliberare anche in materia di amministrazione della giustizia. Se il parlamento può mettere sotto accusa perfino il capo dello Stato, deve anche poter interloquire sull'andamenro di tutti gli organi dello Stato; l'indipendenza dei quali, regolata da legge, non può mai sfuggire al controllo del popolo a mezzo del parlamento che n'è l'unica espressione sovrana. Leggi finanziarie ed economiche: ne segnalo alcune: anzitutto quella sulle commissioni tributarie, urgente quanto mai, non ostante la decisione della Corte costituzionale; due o tre riguardano prowedimenti necessari per la retta amministrazione e la regolarità ed equità contributiva. Metto fra tutte queste la proposta di legge, d'iniziativa parlamentare, sul famoso articolo 1 7 della legge di perequazione. L'attuale regime delle borse, e il conflitto che ne è seguito, non può protrarsi più a lungo senza ulteriore contrazione di entrate fiscali sia per paralisi negli affari sia per fuga di capitali all'estero. Sarà bene che il pubblico conosca quanto sia stato fin oggi il lucro cessante (per I'erario) e il danno emergente (per l'economia nazionale). Dopo di che ciascuno assuma le proprie responsabilità. Non è lecito in politica finanziaria fare come lo struzzo e mettere la resta sotto l'ala. I1 passato è oramai scontato. Vedo che l'elenco si fa lungo. Chi potrà pensare a far passare la legge sui brevetti? o quella sulla ricerca degli idrocarburi nelle zone sottomarine? o quella sui patti agrari? o quelle recenti sull'isrruzione pubblica e privata, sulle quali hinc et inde l'opinione dei competenti è assai discorde? Se il governo resiste ai venti di tramontana, il primo dovere del parlamento sarebbe quello di approvare i bilanci dentro il prossimo febbraio e, in ogni caso, prima che vengano indette le elezioni; è da sperare che i settanta giorni dalla convocazione ai comizi si riducano a quaranta come si fa in paesi più cauti e meno formalisti del nostro. Approvati i bilanci e qualche altra legge o leggina urgentissima, suonerà la campana delle elezioni: deputati e senatori, presenti e futuri, tutti sul chi vive. In quel periodo non c'è altro da fare. Alle leggi penseranno gli eletti del maggio-giugno 1958. Sostanza di questo articolo: che i signori del futuro tri-quadripartito o del futuro monocolore, non pensino a riforme di grande risonanza (se ce ne sono), a colpi di leggi stupefacenti, a iniziative che toccano la fantasia demagogica. Non si preoccupino degli oppositori di sinistra e neppure di quelli di destra. Filino dritto: leggi serie, amministrazione rigorosa a servizio dello Stato; solo così, anche per pochi mesi, saranno dei benemeriti del paese.

Il Giornale d'ltalia, 1 5 maggio 1957

La risposta del sen. Sturzo al commissario Aeberli7 Onorevole Direttore, ho letto attentamente la lettera del commissario dell'ENDIMEA dr. Enrico Aeberli a proposito dell'accenno fatto nel mio articolo: Lklto costo deldenaro; accenno che egli, con

'

La lunga e dettagliata lettera del dort. Enrico Aeberli al %Giornaled'Iralia,>Fu pubblicata insieme alla risposta di Stuno.

66


una punta critica, definisce consueto tema degli enti statali. Sicuro, consueto anche per i finti sordi. Dell'ENDIMEA ebbi occasione di occuparmi nel 1949 con proposito dell'accenno fatto nei due articoli polemici, che il commissario Aeberli avrebbe potuto facilmente trovare nel volume Politica di questi anni (aprile 1948-dic. 1949) edito da Zanichelli nel 1955, dove fra l'altro avrebbe trovato la cifra esatta della esposizione del1'ENDIMEA verso il Tesoro alla fine del 1947 per £ 802.291.388,67 e la valutazione del materiale in magazzino per £ 743.703.363, 80. I1 problema allora sollevato da me e da altri era più che mai contro il monopolio al quale aspiravano i dirigenti dell'ENDIMEA, dopo averla fatta costituire in ente parastatale, ecco il perché della mia frase pungente rilevata dall'Aeberli: «eper intrigo burocratico consacrato in seguito quali enti presi a balia da Pantalone)). Questo lo stato di allora, per cui il Tesoro si vide costretto a mettervi un commissario, proprio I'Aeberli, al quale qualche tempo dopo fu dato l'incarico di procedere alla liquidazione. La lotta ENDIMEA-ARAR (alla quale accenna il commissario) fece sospendere la liquidazione (dal Tesoro? dal CIR? dagli impiegati preposti? misteri di palazzo). Ci son voluti quasi sette anni (luglio '50-marzo '57) per arrivare ad un resoconto definitivo e al passaggio (per ordine superiore) di tutto il complesso residuo alla commissione stralcio. I1 commissario dice che molto materiale degli alleati era ridotto inutilizzabile, confermando quanto io prospettavo dieci anni addietro nei miei articoli: per il Tesoro si trattò di «lucro cessante,) cioè inutilizzazione negli anni più difficili di una massa di medicinali vendibili al pubblico; per gli ammalati di «danno emergente»,compreso quello di andare al cimitero per mancata distribuzione di medicinali esistenti o monopolizzati da un ente unico. Il monopolio che si tentò di instaurare, fu da me descritto come costoso e incomodo per il pubblico (articolo del 28 agosto 1949), articolo che nessuno poté confutare. Comunque sia, oggi I'ENDIMEA è finita. Avrà fatto anche del bene: lélogiofunebre che ne fa 1'Aeberli può valere quanto i! mio Parce sepulto. Luigi Sturzo

Il Giornale d'ltdlia, 17 maggio 1957

Una lettera di don Sturzo sull'unità dell'Europas Illustre Presidente, mi duole non poter essere presente al vostro Secondo Incontro Internazionale; vi sarò col pensiero e col cuore. Europa oggi parola fatidica, parola di speranza, più che ieri. Anche nei secoli passati, 1'Europa fu ideale e realtà: impero romano, impero di occidente, impero carolingio, sacro romano impero, cristianità. L'Europa fece fronte al pericolo islamico; con aiterna fortuna, creò regni, formò nazionalità, promosse leghe; penetrò da per tutto, per il bene e per il male. La civiltà di oggi e di ieri è europea; dall'Europa si è affermara in tutte le parti del mondo.

Lettera inviata al presidenre del Movirnenro {'incontri per la nuova Europa,,, prof. Danilo Angeletti, in occasione del secondo incontro internazionale a Fermo.


Varie e diverse sono state le civiltà umane. L'Asia mediterranea ne ha avute, come ne ha avute l'Asia centrale e orientale. Ma la voce di Mosè e quella dei Profeti in preparazione dell'awento di Gesù Cristo, ebbero risuonanza nel Mediterraneo. Il centro donde partì I'umanesimo greco e romano cristianizzato, ha dato la fisonomia al mondo. Ciò nonostante, l'Europa ha una storia di sangue fraterno; l'Europa diversa divisa, individualista, irrequieta. Mai si è sentita veramente una e vitale, superando ambizioni di principii, ingordige di profittatori, agitazioni di masse; mai l'Europa ha frenato l'ansia della conquista, ha estinto la sete di dominio. Assoggettare gli altri al proprio vantaggio, dominare popoli ed esigerne tributi, cercare zone di immunizzazione bellica e condurre imprese oltre i confini proprii e oltre gli spazi marini, propagandare la parola di Dio e diffondere la parola dell'uomo, che storia piccola e grande, abusiva ed eroica, materiale e spirituale. In mezzo a tanti conflitti una voce è sempre echeggiata: tutti siete figli di Dio; amatevi come fratelli. La stessa voce profetizzava che nel mondo vi saranno contrasti, lotte e guerre; che i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce; che per andare a portare parole di speranza, di pace e di amore, occorre farsi agnelli in mezzo ai lupi, perché solo il sacrificio per il bene porta alla resurrezione. Pur essendo l'oggi come il passato, il progresso scientifico, meccanico e materiale oggi è più rapido di ieri; incombe pertanto su di noi il pericolo di una catastrofe generale anche per fatti locali e per contrasti di interessi: l'ostruzione del canale di Suez, la rivolta istigata in Giordania, lo scatto di un punto nevralgico qualsiasi per un conflitto potenziale. Perciò l'Europa si è ridestata dalla crisi della seconda guerra mondiale; si va attrezzando economicamente; adegua il suo armamento a quello delle due potenze più forti. Ma la parola di vita ieri ed oggi è sempre la stessa: amatevi come fratelli, voi che siete figli dello stesso Padre. È così che si rinnova lo spirito cristiano della speranza anche nella vita terrena, passeggera e tormentata, perché la speranza viene da una fede inconcussa nella Prowidenza, dalla convinzione che il peccato contro Dio, che è anche peccato contro gli uomini, richiede perdono ed espiazione; e l'amore fraterno si attua in tutte le evidenze della vita, siano queste le più tristi e le più dolorose. Se oggi auspichiamo un'Europa occidentale che sia unita e salda, lo è anche per i fratelli d'Europa che sono sotto il giogo tiranno di governi senza religione e senza libertà. Pur non avendo noi delle serie possibilità immediate e pratiche per venire in aiuto dei nostri fratelli, c'è la solidarietà ideale ed affettiva per quei paesi al di là della cortina di ferro che soffrono ed attendono. La preghiera a Dio è il rifugio del nostro cuore e la speranza vivificata dalla fede. L'avvenire? è nelle mani di Dio. Il presente a noi è stato dato da Dio per poter adempiere il dovere di ogni momento e di ogni occasione. Anche l'Europa unita, mezzo terreno di situazioni contingenti e storiche mentre per i paesi liberi è mezzo di difesa, sarà, lo speriamo, per i paesi oppressi mezzo di liberazione. Non è la guerra nei nostri piani; non è nei nostri desideri; non deve essere nostra iniziativa. Noi vogliamo la pace, la intesa, la libertà per tutti, anche per gli stessi russi e per i popoli di quell'immenso paese, che anch'essi soffrono della dittatura e della miseria. In alto i cuori: la fede in Dio sorreggerà quelli che soffrono e quelli che sperano; sorregga le nostre attività; ci dia forza per adempiere i nostri doveri. I più fervidi auguri agli intervenuti e ai dirigenti nel fraterno e cristiano saluto: P'ax vobis. Luigi Sturzo

Il Popolo, 19 maggio 1957


La vecchia «storia» della nominatività La notizia che il governo Segni diede il nulla osta alla legge della Regione Sarda per l'abolizione della nominatività obbligatoria per i titoli di nuove società industriali da impiantarsi nell'isola, è passata sulla stampa senza rilievo; quasi sotto silenzio. Si tratta di notizia di notevole importanza, sia per la Sardegna, che a quasi dieci anni di distanza si è decisa ad attuare quel che si è fatto in Sicilia con la legge 1" ottobre 1947; sia per il governo centrale che si è indotto ad inchinarsi alla volontà regionale o meglio alle esigenze di un piano di industrializzazione. È stata anche prospettata l'idea di introdurre la stessa legge per favorire le nuove industrie del Mezzogiorno. Se questo nuovo passo verrà fatto dal governo, e potrebbe essere adottato dal parlamento durante la discussione del disegno di legge sulla Cassa per il Mezzogiorno, è da chiedersi per quale ragione si dovrebbe continuare a tenere in piedi la nominatività obbligatoria dei titoli azionari per il Centro e per il Nord. Ci sono delle false posizioni, che una volta adottate, divengono tabù. Nessuno può parlarne senza essere accusato di venire meno alla socialità; di voler proteggere gli evasori; di esonerare dalle imposte dovute i ricchi possidenti che trafficano in borsa. Chi parla così o non conosce i problemi e non li studia; owero ha paura della demagogia dei sinistri. Sarà bene ricordare come sia nata la legge sulla nominativà dei titoli. Credette Giolitti di potere con tale provvedimento risolvere un problema di primo piano e vi si impegnò a fondo. Le mie critiche come economista, e non come segretario politico del partito, non mi portarono fuori di linea. Un ministro popolare, il Meda, poté liberamente avallare il progetto Giolitti e il gruppo popolare della Camera farlo passare, non ostante le preoccupazioni dei cattolici circa l'esistenza di società religiose appoggiate sull'anonimato azionario. La legge fu varata nell'ottobre 1920; ma per la formulazione del regolamento si incontrarono tali difficoltà da perdere invano sei mesi di lavoro. Le elezioni del '21 servirono a smorzare I'euforia portata dalla legge; il ministero Bonomi la pose a tacere; Mussolini la abrogò col decreto del 10 novembre 1722, n. 1431. Così il primo tentativo abortì in poco più di un anno senza lasciare traccia. Ci voleva la guerra mondiale, e il poco slancio dei privati risparmiatori a investire denaro liquido nel prestito bellico del 1940, per arrivare alla vigente legge del 25 ottobre 1941, voluta da Mussolini, sulla nominatività dei titoli azionari e sulla istituzione dello schedario dei titoli stessi. Durante la guerra non si può dire quanto la caduta degli affari di borsa fosse da attribuire alla guerra e quanto alla nominatività; anche perché lo schedario centrale era rimasto sulla carta; oggi, dopo più di quindici anni dalla legge, non è ancora in funzione. Dal punto di vista del vantaggio dell'economia del Paese tale fatto non è da deplorare, per di più serve bene quale esempio di improwisazione legislativa. Questo non è solo dei dittatori; si tratta di belle o brutte idee, nate di un subito e poi nella pratica trovate irrealizzabili owero non realizzate per mancanza di volontà fattiva o per successive perplessità: l'istituzione delle regioni e il consiglio della magistratura sono esempi di attualità. Il che dipende dall'uso della parola (parlata o scritta) prima dell'uso della mente (costruttiva e riflessiva); il vecchio proverbio: «pensa prima di parlare)), in molti casi viene trasformato con il suo opposto: «prima parla e poi pensa». Caduto il fascismo, doveva cadere la nominatività, frutto bellico acerbo e amato. Cosa si


temette? nulla di serio; fu rimandato ogni prowedimento a tempo migliore: urgevano allora attività immediate per l'alimentazione, i trasporti, gli alloggi e, più che altro, i problemi della rinascita di una Italia prostrata e colpita anche nel suo carattere nazionale e internazionale. Le mie insistenze per l'abolizione della nominatività trovarono una strana incomprensione nella Democrazia cristiana. Seppi in seguito che la opposizione veniva dall'on. Vanoni prima al Commercio con l'estero e poi alle Finanze. Gliene parlai più volte. Egli era convinto tanto della utilità della nominatività a scopo fiscale quanto della possibilità di un rapido completamento dello schedario centrale. L'art. 17 della legge detta Tremelloni, era in origine idea dello stesso Vanoni, nacque perché egli pensava di consacrare per i secoli l'obbligo della nominatività e di completarne la funzionalità fiscale. Così si è arrivati al presente impasso: niente operazioni in borsa; schedario centrale ancora inoperante e discretamente costoso; azionariato discardinato; fuga di capitali. La relazione sulle proposte modifiche all'arr. 17 fatte dall'on. Guglielmone alla quinta commissione permanente del Senato, dovrebbe, sia pure sommariamente, essere conosciuta, per comprendere il nesso fra le due leggi e le conseguenze dannose alla nostra economia di un prowedimento di guerra che per pregiudizio o per ignoranza si protrae tuttora senza vederne la fine. Dovrebbe anzitutto tenersi presente l'osservazione del sen. Einaudi, che le poche persone alle quali sarà affidato lo schedario elettronico avrebbero in mano notizie tali da potere, con qualche indiscrezione (anche involontaria e in buona fede), orientare altri per operazioni di borsa a colpo sicuro. E perché mai esporre cinque o dieci funzionari alla continua tentazione degli speculatori? L'invenzione mussoliniana dello schedario centrale giornaliero delle operazioni di borsa verrebbe ad essere uno strano privilegio italiano; nessun paese del mondo ha mai avuto una così luminosa idea. Un dittatore si può prendere tale lusso: una democrazia non certo. Purtroppo, la democrazia italiana ha ereditato parecchio del passato, e non vuole rinunciare alle conquistefatte; la nominatività obbligatoria, e con lo schedario centrale, non ha nulla a vedere con le nominativicà facoltative di altri Paesi. Negli Stati Uniti sono previsti i titoli al portatore e sono in uso i titoli nominativi; questi non sono a scopo fiscale sì bene per comodo delle società stesse, per poter conoscere i propri soci. Come ho detto, là non esiste schedario; il trasferimento dei tiroli si fa mediante girata; questa può essere anche in bianco, così la circolazione anonima del titolo è resa effettiva. I trasferimenti dei titoli sono soggetti ad una imposta di bollo pagata dal venditore, cinque centesimi per cento e per frazione di cento. Le società, a loro volta, pagano i dividendi all'ultimo socio che figura nei propri libri, e questi curerà il trasferimento del pagamento all'effettivo proprietario del titolo. I1 passaggio e il possesso vengono a conoscenza del fisco attraverso le dichiarazioni degli interessati. Così il fisco raggiunge il vero titolare. Semplice, è vero?, ed efficace, si direbbe borghese. In Italia no; si ricorre allo schedario, di natura marxistd C'è anche negli Stati Uniti la tassazione sugli utili d i speculazione d i borsa, da un minimo del 20 per cento a un massimo del 91 per cento, per titoli posseduti solo per un periodo inferiore a sei mesi. H o voluto accennare agli Stati Uniti per dimostrare ai soliti sinistri di ogni partito, che la mia lotta alla nominatività, che rimonta al 1920, non è diretta a proteggere gli speculatori, né gli evasori, né le grandi società commerciali e industriali; ma solo a risanare la nostra economia dalla piaga della legge 25 ottobre '4 1. Del resto, la nuova Germania ovest, che va rinascendo sul serio, ha una nominatività non obbligatoria; tassa gli utili di borsa solo se superiori a determinate cifre per periodi inferiori a tre mesi. Negli altri paesi, comprese Francia e Inghilterra, non sono affatto tassati gli utili di borsa e la nominatività dei titoli è semplicemente facoltativa. Come farà l'Italia


a mettersi in riga con tali paesi nel futuro mercato comune se mantiene il sistema della nominatività e lo schedario elettronico? Il presidente della Camera di commercio di Genova, dr. M. Trombetta, nella sua conferenza del 2 febbraio scorso tenuta alla Società di letture e conversazioni scientifiche, ha avanzato la proposta dell'abolizione facoltativa della nominatività con una relativa imposizione fiscale in forma di alternativa, proposta che merita di essere esaminata e portata al parlamento. Ecco di che si tratta: 1O proposta: una imposta straordinaria per il riscatto facoltativo della nominatività entro un determinato tempo; e conseguente imposta cedolare annuale da pagarsi dalle società sui dividendi. Tale imposta cedolare dovrebbe essere minima nel periodo di riscatto (un quinquennio?) e più elevata in seguito. 2"proposta: abolire la obbligatorietà della nominatività, e sottoporre le azioni ad un'imposta cedolare nominale per coloro che preferiscono le azioni al portatore. Mercato comune, piano Vanoni, industrializzazione del Mezzogiorno, libertà economica etsimilia, parole vane se non si risana il mercato azionario e se l'intervento fiscale non si mantiene nei giusti limiri non solo della misura ma anche dei metodi civili e ordinari, senza schedari elettronici e relative indiscrezioni. Pel momento, compiacimenti e auguri alla Sardegna; e speranze per le altre regioni meridionali.

Il Giornale d'Italia, 23 maggio 1957

Le due anime dello sciopero Lo sciopero è una lotta; come tale può essere rivoltosa o civile; subitanea o premeditata; a scopo tattico o definitivo. Lo sciopero in Italia fu legato alla lotta di classe e al socialismo rivoluzionario; ebbe tutte le fasi sopra accennate, compresa quella dello sciopero politico. I1 fascismo lo proibì, cercando di tutelare gl'interessi operai con il sistema corporativc a carattere politico. Con la caduta del fascismo l'uso dello sciopero venne ripreso subito come una rivendicazione operaia fondamentale. Mancando, però, di una legge che regoli il punto di diritto riconosciuto dalla Costituzione, è rimasto solo come arma dei sindacati e dei partiti, mentre il potere esecutivo è fin oggi disarmato di fronte alle iniziative illegali. Fatto sta: l'ltalia è un Paese dove si intrecciano scioperi politici e scioperi economici; scioperi economico-politici e scioperi politico-economici; scioperi nei servizi pubblici e scioperi nei rapporti privati; scioperi a carattere civile e scioperi intramezzati da violenze di folle. Escludiamo dal novero degli scioperi legittimi quelli che riguardano servizi pubblici e rapporti con enti di diritto pubblico. Noi siamo fra coloro che negano la legittimità di tali scioperi, sia per la retta interpretazione della Costituzione sia per la materia propria del contendere. I1 cittadino come tale, come membro di una collettivirà regolata da Jegg'I, non può essere privato dell'esercizio dei suoi diritti a causa di una vertenza fra ente pubblico e propri dipendenti. Lo stato giuridico non è un contratto bilaterale, è una legge di autorità, che l'impiegato in quanto tale è obbligato ad accettare. Potrà domandare dei miglioramenti: ma ha l'obbligo di sottostare alle decisioni del Parlamento e del potere esecutivo o di la-


sciare il servizio; le vertenze individuali fra l'impiegato e l'ente pubblico si decidono in via contenziosa dal Consiglio di Stato; le richieste collettive delle categorie vengono decise d'autorità (possibilmente dopo sentite commissioni consultive delle parti in causa da istituirsi per legge); così dovrebbe aver termine l'attuale incertezza, politica più che giuridica, della situazione dell'impiegato pubblico in materia di sciopero. Per le vertenze economiche fra datori di lavoro e lavoratori, a qualsiasi titolo esso sia, dovrebbe trovarsi la via per civilizzaregli scioperi, come si sono civilizzate le lotte fra cittadini in materia di interessi con l'istituzione della magistratura; si sono civilizzate, abolend o le faide di famiglia, con il sistema penale di Stato; come si sono civilizzate le lotte pubbliche - un tempo sostenute da fazioni armate, - con il voto libero e segreto per l'elezione dei rappresentanti popolari ai Comuni, alle Provincie, alle Regioni e al Parlamento. E mai possibile, in pieno regime democratico, che si debba assistere ad incendi di cascine, intimidazione di lavoratori, tagli di alberi, distruzione di prodotto, uccisione di animali, e altre violenze che, dal 26 aprile scorso ad oggi, hanno accompagnato lo sciopero del Polesine? Sono fatti di una gravità eccezionale, che indicano uno stato esasperato di lotta di classe, con la mira non tanto di ottenere i miglioramenti contrattuali, quanto di modificare i rapporti di forza, aggravando la situazione politica ed economica della zona. Non è pertanto soddisfacente la deplorazione della CISL dei fatti delittuosi avvenuti, perché, mantenendo la solidarietà sindacale con la CGIL che ha eccitato i lavoratori del Polesine a porre lo sciopero fin dal suo inizio sul terreno della più aperta illegalità e delittuosità, la CISL ne ha assunto sia pure indirettamente, la corresponsabilità, e così anche la UIL. Alla faziosità dei metodi di sciopero è sempre collegato uno scopo politico; né questo è limitato alla supremazia del partito comunista in tutte le zone colpite dallo sciopero; va fino al tentativo di trasportare l'agitazione dal piano locale a quello generale per solidarietà nazionale. Non mancano anche oggi i credenti nelle virtù dello sciopero; costoro non hanno mai studiato la vera storia dei vantaggi e degli svantaggi dello sciopero sia per la classe operaia sia per il paese. Se fossero in buona fede e se spingessero allo sciopero con visione serena e con pratico realismo, i sindacalisti si guarderebbero bene dal ricorrere allo sciopero di violenza, e lascerebbero fuori conto lo sciopero a carattere politico; si limiterebbero allo sciopero economico-dimostrativo, per riprendere le oneste trattative nell'intento di un graduale assestamento sia dell'economia del paese sia dei rapporti fra operai e datori di lavoro. Gli scioperi economici hanno un solo sbocco: le trattative e le intese; se uno sciopero finisce con un vincitore e un vinto, le situazioni che si creano sono già scontate, e, mancando un accordo finale, resta il rancore che impedisce le possibilità di pace. Da ciò si vede quale delicato strumento sia lo sciopero e quale complesso di elementi contrastanti si mettono in azione con lo sciopero; per cui si dovrebbe arrivare a renderlo una extrema ratio civilizzata, e non mai uno strumento usuale di lotta.

Come in ogni guerra vi sono due anime e così in ogni fatto basato sull'uso della forza, vi è in ciascuno dei lottatori l'anima di chi spera di vincere e quella di chi teme diperdere. L'uso della forza non è fine a se stesso; se fermato a metà può essere ripreso; se portato alla conclusione produce sicuri danni alle due parti, sia la soccombente sia quella creduta vittoriosa.


Natura, religione, legge, storia sono state sempre vendicate dall'abuso della forza nei rapporti umani; non c'è stata guerra che non abbia avuto la sua contropartita per ambo le parti; né rivolta che non sia stata pagata dagli uni e dagli altri; non rissa che non porti le ferite di qua e di là; così non c'è sciopero con violenze e lutti che non sia pagato a caro prezzo anche vincendo. Basterebbero l'odio, il rancore, il risentimento, lo spirito di vendetta a renderlo pericoloso. È vano per i capi della CISL dire che deplorano la violenza e che sostengono gli scioperanti; la violenza, se c'è, fa moralmente decadere il diritto che si difende, fa venire meno lo stato di equilibrio fra le parti, fa cessare il rapporto civile che deve mantenersi intatto anche nelle contese. È il complesso di Caino che risorge ogni volta che si leva la mano per colpire. E si crede dai sindacalisti che non si vada formando nella psiche degli scioperanti la convinzione del danno per essi e le loro famiglie? nel presente e nel futuro? e il rincrescimento di non trovare subito una via d'uscita? Nel Polesine si sono tentati gli accordi locali (i cosiddetti ccaccordiniu), salvando la faccia e cercando una pace che è nel fondo del cuore di tutti, anche dei lavoratori rossi, non ostante le istigazioni del sindacato e del partito uniti insieme. Ricordo lo sciopero di Soresina del 1920-21; dopo tanti sforzi si arrivò al lodo Bianchi e s'inneggiò a quel lodo; ma perché tanta distruzione di campi e di stalle se si poteva arrivare al lodo ben prima ancora di una prova di forza? L'uomo è purtroppo un animale irragionevole quando è preso dalla passione; mentre ragiona bene quando supera la fase passionale, trovando la via della saggezza. Noi siamo oggi in mano a certi sindacati e partiti che, sotto la specie di migliorare le condizioni dei lavoratori, hanno mire politiche che tendono a portare l'Italia sotto il giogo del comunismo. Pensare che lo sciopero del Polesine fra gli altri scopi avrebbe quello di impedire l'uso di trebbiatrici meccaniche, come se si potesse impedire il progresso tecnico della produzione. I carrettieri siciliani del secolo scorso erano contrari alle ferrovie; oggi ci sono gli automezzi, e le ferrovie ne hanno la ripercussione. I comunisti nostrani sono dei retrogradi; che ci sta a fare la CISL con costoro? Le intese con la CGIL, anche sul rerreno sindacale, non possono essere immuni da uno scopo politico, che i comunisti perseguono non importa se i fini sindacali di un'azione comune siano o no raggiungibili. CISL e UIL si sono trovate in difficoltà di fronte alle violenze dello sciopero del Polesine; hanno fatto la coda ai rossi che là sono in maggioranza. A che pro? Per la tutela dei propri iscritti, esse dicono: quale tutela? I1 piano delle violenze e dei sabotaggi è stato previsto e realizzato fin dal primo giorno dello sciopero come piano di guerra. C'è da domandarsi se gli avvenimenti del Polesine saranno validi ammonimenti per i sindacalisti democratici, per i partiti, per il governo e per il Parlamento. È questo il momento di mettere il diritto di sciopero sotto la regola della legge per essere mantenuto nei limiti morali e giuridici di vertenza d'interessi privati, colpendone le violenze e denunziandone gli scopi politici; è il momento di fissare la disciplina civica per i tentativi di scioperi nei servizi pubblici, che dovrebbero essere dichiarati illegali. Questo vuole l'Italia dai veri democratici, dagli amanri delle libertà politiche, dagli spiriti previdenti e da tutti coloro che hanno il dovere di cooperare alla creazione di un vero Stato di diritto, nell'attuazione della Costituzione e nel rispetto della legge.

11 Giornale ditalilr, 29 maggio 1 957


Verità contro menzogna Verità significa manifestazione, conoscenza, comunicazione della realtà. E poiché una è la realtà essenziale, infinita e onnisciente, Dio; così Dio è la Verità per essenza, la Verità dalla quale derivano tutte le realtà. Nei salmi si canta: « E la verità del Signore dara in eterno)). Come contro Dio sta Satana, così contro la verità sta la menzogna, della quale Satana è l'esponente e il maestro. La menzogna nega la verità; è il male contrapposto al bene. Dante caratterizza la menzogna come una frode là dove dice: La verità nulla menzognafiodi. La menzogna è veramente la frode della verità, oscurandola, attenuandola, falsandone il significato e i contorni, negandola. La menzogna è il verme che si insinua nella mente creata per condurla dal dubbio all'equivoco, dalle mezze verità alla negazione della verità.

Mosè, a nome di Dio, fra i comandamenti fondamentali della legge pose: non mentir e e nei libri sapienziali è detto: la menzogna uccide lknima. Chi mentisce e sa di mentire mette fra sé e l'altro con cui parla un diaframma; toglie la comunicazione che è verità; ferisce nel suo fondamento i rapporti sociali che per essere razionali debbono basarsi sulla verità. I1 menzognero ferisce anche se stesso, perché mette in sé il seme della discordia, dell'orgoglio, della vendetta, della frode, della sensualità, di tutti i peccati, perché tutti i peccati hanno alla base la menzogna. Non sembri strano al lettore; la menzogna è pervasa di superbia, è un atto di superbia. Che cos'è la superbia se non l'apprezzamento di sé sopra gli altri, o I'apprezzamento degli altri al disotto di sé? E questa è menzogna: nessuno può stimarsi al disopra di un altro, perché non sa quali doni di Dio quest'altro contenga nel suo spirito; perché stimandosi superiore pretende una sottomissione, un omaggio, un apprezzamento indebito, che ferisce i rapporti fra uomini, avendo la menzogna l'effetto di deprimere la persona cui è rivolta, perché faccia od ometta di fare quel che, conoscendo la verità, non farebbe o non ometterebbe. Anche la menzogna per scusarsi, la menzogna dello scolaro che non sa la lezione e del figlio che non ha ubbidito al padre sono riprovevoli, perché tolgono la fiducia, si rivelano manifestazioni di un animo doppio e di una punta di orgoglio che è proprio quello che non fa dire la verità. Ci sono coloro che anche al confessore nascondono o attenuano le colpe e i peccati, preferendo più di esporsi ad un sacrilegio che all'umiliazione doverosa di dire la verità. Se la società umana, senza comunicazione di verità, diviene indocile, indisciplinata, rissosa, piena di livore, di invidia, di orgoglio, addirittura cattiva; la società con Dio senza verità non può esistere.

Dice il proverbio: «In tempo di guerra le menzogne per mare e per terra». È così; ed è l'unica occasione nella quale la menzogna non solo primeggia ma è consentita, perché le due parti in lotta sanno aprioriche I'awersario tende ad ingannare per farlo cadere nel rranello, per indebolirlo, per sopraffarlo e averne vantaggi per l'unico scopo della guerra: la


vittoria finale. Essendo le due parti in lotta e q~iindiin uno stato di completa rottura, la parola rivolta all'awersario ha perduto la natura di mezzo comunicativo, è divenuta di per sé falsa, erronea, dannosa, avendo lo stesso scopo dell'arma che i belligeranti usano per combattere ed uccidere: uccide L'arma e uccide la lingua. Tanto ciò è vero che se durante le fasi bellicie, si concorda una tregua per dare sepoltura ai morti o per esaminare le condizioni di armistizio, con la sospensione deli'uso delle armi, viene sospesa la parola menzognera; la parte che viola i patti di tregua si chiama fedifraga, viola la fede data. Chi non ammette la guerra e giudica la guerra una fase antisociale da doversi e potersi superare (Luigi Stzlrzo, La comunità internazionale e il diritto di guerra, Zznichelli, Bologna, 13-55),non potrà mai consentire all'uso della menzogna come non si consente all'uso delle armi in una futura società internazionalmente organizzata. Ma il fatto presente è una prova controluce di quel che è la menzogna in rapporto alla società: arma di guerra nella fase di rottura a scopo bellico dei rapporti internazionali.

Quel che si dice per la guerra, non si può applicare per qualsiasi altro caso ai rapporti sociali, essendo questi normalizzati; leggi regolano le liti e le vertenze presso i tribunali; leggi, le lotte politiche nei comizi popolari o parlamentari, e così di seguito, per tutte le fasi della vita associata, nelle quali deve prevalere la verità che è giustizia, la verità che è equità, la verità che è bene comune, la verità che è uso della forza in mano all'autorità per punire il colpevole e garantire la vita, diritti, averi a tutti i singoli conviventi in uno Stato organizzato. Errano coloro che ammettono I'uso della menzogna a scopo politico. La politica è basata su principii morali o non è politica, ma abuso del potere a profitto privato, di una casta o classe dominante. Errano anch'essi coloro che ammettono I'uso della menzogna nei rapporti pacifici fra Stati; anche i rapporti fra Stati sono basati sulla verità e sull'onestà. È antichissimo il principio di parta sunt servandz - i trattati si devono osservare - che indica la necessità della buona fede dei rapporti internazionali. La menzogna come ferisce a morte l'anima che la profferisce, come viola i rapporti personali, così danneggia i rapporti pubblici interni e internazionali. Se la prima menzogna rovinò il genere umano; se la Verità incarnata, il Verbo, la Parola di Dio fatto uomo, lo salvò e lo salva per i secoli, il dovere della verità, soprannaturale da credere e da propagare, naturale nei rapporti fra gli uomini, sia impresso nella mente e nel cuore di tutti, sia posto alla base dell'educazione familiare e scolastica quale forma di convivenza e di socialità; animi le lotte stesse civili contro la menzogna e contro il predominio di coloro che si basano sulla menzogna.

Il Meridiano, giugno 1957

La menzogna politica 1. Per fissare il tema in esame, occorre escludere la menzogna usata da uomini politici a vantaggio proprio, ricadendo questa nella classifica delle menzogne usuali e comuni.


Intendiamo per menzogna politica quella di persona investita di autorità civile, - sia capo di stato, prefetto o sindaco, - usata a scopo di bene, per un vantaggio, vero o creduto tale, della regione, della pubblica amministrazione o di determinate categorie sociali. Tale menzogna, quale mezzo illecito per un fine buono, cadrebbe nella condanna della tesi che «il fine giustifica i mezzi)). Purtroppo, se in teoria tale tesi è condannata dalla morale, nella pratica la menzogna, come mezzo per un fine creduto buono a carattere politico o a questo assimilabile, mi sembra che sia usata senza remore di coscienza. I1 fatto rientra nel quadro della diffusione dell'uso quotidiano della menzogna perfino nella famiglia e nella scuola, quasi a difendere la propria individualità da ingerenze indiscrete, a velare la propria condotta anche a coloro che potrebbero avere giusto motivo di conoscerla. Così si diffonde il senso di diffidenza reciproca, di insofferenza della verità, quasi un morboso bisogno di mostrare sentimenti diversi da quelli che si provano. Per gli adulti il fenomeno può essere collegato alla lunga soggezione in un regime di sospetto e di compressione, durante il quale la libera comunicazione reciproca venii.a attenuata e perfino paralizzata dal timore di trovarsi di fronte a persona che avrebbe potuto abusare delle confidenze, o imprudencemence sottolineare atteggiamenti poco conformi alla politica di allora. Questo riiicvo del passato italiano può valere con molta maggiore intensità per i paesi sorto dittatura comunista. Mentre la nienzogna difensiva si sviluppa in regimi assolutisti e dittatoriali, la nienzogna demagogica si sviluppa in rcginii liberi e popolareschi. Nell'uno e nell'altro ambiente, può dirsi essere la nienzogna scontata apriori. I1 fatto è intaiito più grave, in quanto ogni resistenza alla menzogna viene atteniiuta dalla stessa educaziorie familiare e civile: la rivelidicazione dtlla verità riesce difficile, andie perché noti si rrovaiio persone disposte a siipsrare il conforniismo nel primo caso, e ad at'froiirare l2 irrlI~opo12ri~~i nel secondo caso. Di conseguenza la menzogna politica si sviluppa sempre i>iù largamente.

2. Non vi può essere convivenza umana senza !a veriti nella siin triplice accezione di reultà (principio o fatto), convinzione (comune o individuale). ~ornz!r~icfizione(privatao ;?iibblicn). Con pii1 efhcacia nel caso di persona invesrita di aiitorita, lu menzogna falsa la realtà, tradisce la convizione propria e rompe la comiinicazic)ne col complesso sociaie al quak la persona scessa presiede o del quale è rappresentante o esponente, e, o in singolo o con altri insienie, ne h2 la responsabiliti L'alterazione o la negazione della veiit; fitta per mezzo della meii7~gna,ferisce la società nella S L ! ~esseriza, si:: cei rapporti individuali che in quelli organizzativi, quali ne siano le finaliti partico1:iri. Si suole prendere come sc?!sa il farco che anche 1:i verità può produrre una frattura sociale, secondo l'antico proverbio: veritas odiumpurit. Distinguiamo ti2 la verità fattuale e quella dei principi. Questi sono sempre da affermarsi e da difendersi. mentre non sempre n6 a tutti, né con modi indebiti è da comunicarsi la verità di un htco che meriti riserbo; vi sono casi nei quali sarà meglio che un fatto non sia divulgato, specie se può destare delle reazioni dannose, sia pure ingiustificate. Né a fare ciò è necessario ricorrere a certe restrizioni mentali che difTeriscono ben poco dalla menzogna. C'è modo a guardarsi dai molesti, a rispondere ai giornalisti cori la frase inglese: i20 comment, per indicare la inopportunità della domanda e il senso di responsabilità che ha l'autorità nel non palesare quel che non è necessario, né rispondere falsando la verità. La menzogna è sempre intenzionale; quella politica ha quasi sempre lo scopo di far deviare indagini, di trarre in diversa via, di combattere avversari, di prevenire offensive, di met-


tere le premesse per un'azione che si creda utile e così di seguito; è insomma unkrmnpolitica.La finalità buona non giustifica la menzogna; la finalità cattiva o connessa ad altri mezzi cattivi, rende ancora più grave l'uso della menzogna.

3. Abbiamo detto che la menzogna di sua natura, al di fuori di qualsiasi intenzionalità di chi la profferisce, altera e rompe i vincoli della convivenza; pertanto è intrinsecamente un male. La prova controluce è data dal fatto che in una qualsiasi forma di guerra, quando la rottura fra le parti è awenuta, la menzogna risulta un'arma di guerra, come le antiche alabarde, gli schioppi di un tempo, i carri armati le bombe atomiche di oggi. Perciò, allo stesso modo che sarebbe da fedifrago durante gli armistizi riprendere le armi senza una dichiarazione interruttiva, così nello stesso caso sarebbe da fedifrago l'uso della menzogna intenzionale. Al contrario, nelle vertenze politiche e civili dei regimi nei quali la convivenza è mantenuta in forma organica, sia che si tratti di vertenze avanti la magistratura, sia che si tratti di lotte elettorali o dibattiti parlamentari, non è moralmente consentita la menzogna come mezzo di difesa e di offesa, trattandosi dell'esercizio di diritti e dell'adempimento di doveri, per i quali la regola etica è sovrana e da osservarsi dalle parti. Come sarebbe possibile volere allo stesso tempo la convivenza in società sotto tutti i suoi vari aspetti e ammettere come legittimo o anche tollerabile il mezzo che da sé opera la rottura dei rapporti, perché viola la verità oggettiva, fa venir meno la fiducia reciproca e induce nel sospetto di peggiori fatti, quali la mistificazione, il raggiro, l'inganno, la frode che hanno a base la menzogna? Si dice da alcuni che con gli uomini politici si deve applicare l'apprezzamento in uso con i mercanti e i rivenditori, i quali inducono a comprare vantando la qualità della loro merce. Poiché è r?otorio che gli aggettivi usati nella mercatura sono delle amplificazioni, anche se toccano la menzogna non sono creduti senza la verifica della merce; penserà il compratore ad essere diffidente. Sotto tale aspetto, il venditore non rompe i rapporti sociali, poiché rompendoli farebbe il suo danno. È opinione diffusa non reputarsi menzogna quando I'interlocutore sa bene di che si tratta. Ciò varrebbe tanto per le vanterie del rivenditore, che per quelle di qualsiasi oratore che esagera, amplifica, esalta fuori misura owero tende a minimizzare e svalutare secondo i fini del discorso. Considerazioni analoghe valgono più o meno per la menzogna giocosa o quella che come conclusione postula l'affermazione della verità. Che quanto sopra possa applicarsi all'attività politica è da escludere del tutto; non si tratta né di scherzo a buon fine, né di vanteria di merce, né di oratoria amplificatrice. Si tratta di cose serie, di interesse pubblico, di rapporti fra autorità e cittadini o delle autorità fra di loro; non può mai essere lecita la menzogna che disvia, ottenebra, svaluta la verità e che infine trae in inganno.

4. Si suole essere un po' larghi con coloro i quali, sia nelle polemiche extraparlamentari sia in assemblee pubbliche e in riunioni riservate, cercano di indurre gli altri alle proprie opinioni, prospettando i problemi in modo incompleto, owero sotto aspetti marginali, sottotacendo elementi e documenti la cui conoscenza potrebbe far cambiare opinione. Anche se formalmente non si presenta il caso di menzogna, la tendenziosità della esposizione e la inesattezza della luce datavi possono costituire travisamenti della verità tali da renderla irriconoscibile. Se tutto ciò è fatto per abito mentale, per incapacità di sintesi, per errata valutazione


dei fattori, senza la intenzione di alterare la verità, può trovare subiettivamente delle attenuanti. In via normale non può essere moralmente scusato chi espone incompleta o travisata la realtà di un fatto o il contenuto di un documento, basando la sua tesi su elementi scelti ad hoc o non esattamente interpretati. Il caso, per essere caratterizzato, dovrà riguardare un relatore o chi abbia la responsabilità degli elementi in discussione o si trovi in condizione di conoscere la materia in modo da doverla presentare agli altri senza sorprenderne la buona fede. Si noti che quasi sempre, in sede politica e amministrativa, sono i pochi ad avere la dei dati, mentre i molti mancano normalmente di sufficiente preparazione, spesso non sono in grado di rilevare la tendenziosità dei relatori o dei disserenti i quali, ben preparati tendono a raggiungere fini anche buoni, ma non conformi a elementi in esame. Se poi dalla discussione fra i componenti di un corpo selezionato, si passsa alla esposizione oratoria avanti un'assemblamento non caratterizzato, la facilità di far deviare I'opinione pubblica, dando risalto a certi lati e altri mettendo fuori luce, non può dubitarsi che in tali casi si tratti di alterazione della verità. La comunicazione della verità incompleta, unilaterale, equivoca porta alla falsità, per la via della menzogna sia pure diluita in un mare di parole. La menzogna non consiste solamente nel dire quando è no, e nel dire no quando è sì. Tutta la propaganda demagogica è fatta di mezze verità che arrivano alla menzogna e di mezze menzogne che velano la verità. In tali casi la verità non è l'oggetto e il fine della comunicazione interindividuale; si tratta di fare del proselitismo ad ogni costo, di applicare la tendenziosità per fini politici da raggiungere, owero, nella migliore delle ipotesi, di un fine creduto buono per la comunità della quale si ha, da solo con altri, responsabilità direttiva o governativa, un fine che si teme di non poter raggiungere con la chiara esposizione della verità.

5. Qui ritorna il punctum saliens, cioè l'uso della menzogna per raggiungere un fine utile per la comunità owero per evitare ad essa un danno. Stando sulla linea della valutazione politica e prescindendo dall'imperativo etico, si domanda chi può esattamente prevedere che la menzogna possa come tale fare raggiungere il fine utile che si desidera? Owero, fare evitare un danno temuto? Anzitutto, è da escludere che perfino uno statista provetto possa, anche sul terreno politico, prevedere gli effetti reali della propria azione, la quale dipenderà più dalla verità realizzata, che dalla menzogna con la quale si vorrebbe nascondere. Nel secondo caso, basta un prudente riserbo ad evitare che si conosca quella verità che, in un dato momento, potrebbe determinare una reazione indebita e quindi costituire un pericolo per la comunità. Tali prospettive servono a togliere al problema il valore di un caso limite nel quale la persona responsabile possa sentirsi obbligata dagli awenimenti a servirsi della menzogna. A parte quel che prudenza e accortezza suggeriscono, bisogna notare che nella vita politica, il ricorso alla menzogna è sempre collegato con I'uso abituale della menzogna, perfino, della mistificazione e della prepotenza. I1 complesso negativo di una politica non basata sulla moralità porta all'uso dei mezzi immorali. Non si tratta di menzogna o menzognetta isolata, occasionale, per evitare noie e per ottenere dei vantaggi immediati; si tratta di complesso di modi illeciti e di attività non rispondenti ai fini del buon governo e agli interessi del paese. Bisogna partire dalla convinzione che la rnenwgna non giova mai e danneggia sempre a questa occorre aggiungere subito l'altra, che ilfine non giustifca i mezzi; conchiudendo che la migliorepolitica è quella che non kde h moralità. Dal punto di vista del moralista cattolico, mantenendo ferma la teoria, si potranno, nei casi concreti, trovare subiettivamente quelle attenuanti alla colpa commessa della qua-


le si chiede perdono a Dio con la promessa di non ricadervi. Ma le attenuanti subiettive, non toccano il fermo principio della illiceità della menzogna, e con maggior ragione della menzogna politica.

Studi Cattolici, giungo 1957

Democrazia e responsabilità I1 sistema democratico, quale che sia il suo ordinamento concreto, è basato sul principio delle responsabilità politiche. Se la catena delle responsabilità è interrotta in un punto o se il funzionamento ne è mancante, la democrazia si svuota; resta un'apparenza formale. Le responsabilità politiche sono circoscritte fra due poli: elettorato alla base e Parlamento al vertice. k vero che l'elettorato si esprime con la misura della quantità dei consensi della legge ele~totale;ma ciò vale anche per qualsiasi sistema di vosecondo il mecca~~ismo tazione, cld referendum popolnre alle elezioni anche le più ristrette e le più elevate, quelle di iin'accademia o di un consiglio superiore. La quantità di voti si presume come un giudizio di valore e qiiiridi di qualità. La passionalità può prendere l'animo di un accademico come quello di un electore politico. Chi non ha gusto pel sistema eiettorale oggi avrà poca scelta fra le dittatur: di certe rrpubbliche dell'America latina basate sulle fazioni delle caste militari o le dittature sopravvissute alla guerra. I re costituzionali del nord Europa hanno hnzione di rapprescncanzz e di garanzia del regime democratico rappresentativo; l'elettorato a suffragio iiniversale nxischile e femmini!e ne è alla base. Ecco perchi nei paesi civili il Parlamento è l'organo sovrano della deniocrazia; in esso si raccolgono e si esauriscono le maggiori responsabilità poiitiche e imministrative della vita della nazione. Da noi il Parlamento nomina il Presidente tiella Rcpiibblica, partecipa alle nomine della Corte costituzionale e di altri organi nazionali ed internazionali. Il Goverr,o è approvato dal Parlamento con un voto di fiducia; il Governo cessa di funzioriare per un voto di sfiducia. Dal Parlamento il Governo riceve gli indirizzi e l'approvazione .;lel!e eritrate ,- delle spzse e ai Parlamento chiede l'approvazione dei conti. I1 Parla~ientoper via di legge regola e rihrma gli orgaiii istituzionali e aniministrativi dello Stato, ricoriosce e norm:ilizza i diritti e i doveri dei cittadini e con speciale procedura paì) modificare la stessa Costituzione.

Di tanti poceri che impegnano le più gravi responsabilità politiche n chi risponde il Parlaniento! Solo al popolo per via elettorale, in un ziudizio di scelta, che può essere iin giudizio inesatto, passionale, basato perfino sopra una questione marginale e transitoria. Qui entra la responsabilità dei partiti, che hanrio il compito di organizzare il corpo elettorale e guidarlo nell'aspro terreno delle lotte politiche. I partiti dovrebbero anch'essi avcre una formazione, una organizzazione, un programma democratico; e quindi anche una specie di responsabilità non solo morale ma normalizzata.


Nei paesi di lunga tradizione, come l'Inghilterra, i due partiti di alternanza sono inseriti nel sistema parlamentare; i rispettivi leaderr, l'uno a capo del governo effettivo (quasi sempre governo di maggioranza), l'altro nel cosiddetto governo ombra del partito di minoranza. In America l'inserimento awiene nelle pre-elezioni con la votazione delle primarie, con le quali ciascun cittadino ha il diritto di dichiarare il partito che favorisce. L'alternativa al potere dei due grandi partiti ha fatto mantenere inalterate le regole tradizionali che sono rispettare da tutti, compreso il saluto pubblico del candidato che perde al candidato che vince. di imitazione nei parAlla base dei due grandi paesi anglosassoni (con riflessi lamenti del Canadà, dell'Australia e della Nuova Zelanda), vi è un forte istinto di conservazione istituzionale che manca nell'Europa continentale per via delle continue variazioni di regime; le quali, dalla rivoluzione francese in poi, hanno agitato le più grandi nazioni: Francia, Spagna, Germania, Italia e Austria-Ungheria. Se la Svizzera è da un secolo un'oasi si deve alla forte tradizione democratica, al sistema cantonale, alla neutralità. E mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti di America, pur ammettendo il suffragio femminile non si sono cambiate le leggi elettorali, in Europa si sono fatti tanti cambiamenti da averle svuotate del loro valore intrinseco subordinandole al cambiamento dei partiti e al variare delle situazioni. L'esperienza fascista per noi italiani creò tre fatti nuovi: l'identificazione della qualifica di capo del governo a tipo dittatoriale con quella di capo del partito unico; l'inserzione del gran consiglio fascista fra gli organi dello Stato e la camera delle corporazioni. Nella nostra democrazia si trovano residui fascisti, principale la intrusione nel Parlamento dei partiti che la fanno da padroni, riducendo i parlamentari delle due Camere a pedine del giuoco, a portavoce degli ordini, ad esecutori dei comandi dei capi, senza volontà propria né propria responsabilità. I1 partito dall'altro canto non può rispondere dei propri atti, perché non ha personalità giuridica. La stessa organizzazione dei partiti non crea responsabilità di carattere pubblico: il direttorio si richiama al consiglio nazionale; questo al congresso; il congresso ai delegati della base; la base è manipolata dall'apparato; l'apparato è formato da impiegati salariati e può essere smontato dal segretario; il segretario può essere paralizzato dal direttorio; il direttorio cambiato dal consiglio nazionale e così via con un ritmo continuo di lavoro a vuoto, per affermare contemporaneamente l'efficienza della corrente che detiene il potere e le prospettive delle future candidature.

Oggi non sembra possibile il ritorno al sistema degasperiano. Allora, pur essendo a capo del partito DC il segretario politico - Piccioni, Cappi, Taviani, Gonella - oltre che presidente dell'assemblea nazionale, D e Gasperi, fu il capo morale e allo stesso tempo coprì la carica di presidente del Consiglio dei ministri con tanta autorità e condiscendenza da poter tenere uniti nel Governo i partiti democratici del centro (non mi riferisco ai governi parlamentari dell'esarchia e del tripartito). Né è da pensare che un segretario di partito possa allo stesso tempo avere la carica di Presidente del Consiglio di un governo multipartitico o monocolore. C'è chi pensa alla direttiva presidenziale del Capo dello Stato. Si tratterebbe di una riforma fondamentale della Costituzione che dividerebbe il Paese, senza tener presenti le difficoltà per fissare i limiti di responsabilità che si dovrebbero introdurre per impedire la formazione di una dittatura, e quelle di creare il tipo di un regime che in Europa non è mai esistito e non si prevede che possa esistere. A parte quanto detto, il periodo di in-


stabilità nazionale e internazionale che attraversiamo non consiglia cambiamenti così radicali. Oggi è necessario attuare la Costituzione che abbiamo senza pensare a nuovi tipi di democrazia. Un Paese come il nostro, con sì poca disciplina, con tanti partiti e frazioni di partiti, con un social-comunismo sempre in agguato, non può correre awenture. Urge ridare a ciascun organo dello Stato le proprie funzioni senza invadere quelle degli altri; fare assumere tutta la responsabilità politica che ciascuna carica pubblica comporta; far rientrare i partiti nel proprio ruolo, evitando che siano invasi il campo dell'autorità del Parlamento e delle competenze del Governo. Crisi di governo, monocolore, tripartito, quadripartito, apertura a destra e a sinistra oggi sono fasi del decadimento del Parlamento e della faziosità e del frazionamento dei partiti. Perciò mi permetto di far notare al mio amico Scelba I'inopportunità del suo recente intervento, mentre il Senato discute sulle comunicazioni del Governo, al punto da affacciare l'ipotesi di invalidare il voto che per dare il Parlamento. In ogni caso, il posto per esporre le sue idee era la Camera dei deputati, durante la prossima discussione sul voto di fiducia. Sembra strano che uomini responsabili come Scelba, che è stato Presidente del Consiglio e che può essere richiamato a quel posto o ad altro di alta responsabilità politica, proprio lui non abbia ricordato che per una mossa partitica ed extraparlamentare egli fu costretto a lasciare il campo. I fatti sono più eloquenti delle teorie per chi ne studia il nesso e le conseguenze.

Il Giornale d'ltalia, 5 giugno 1957

Governo elettorale9 Se domani il governo Zoli si presenterà dimissionano la nuova crisi dovrà portare ad un governo elettorale; se non si presenterà dimissionario dovrà il suo governo trasformarsi in governo elettorale; non c'è altra soluzione data la strada imboccata dai partiti e da questi imposta al parlamento. I1 tentativo detto delle mezzealiè fallito; doveva fallire; mancava e manca di consistenza reale; voti missini non chiesti nég-raditi han portato alla dichiarazione, non certo parlamentare, che non sarebbero stati tenuti in conto nel computo dellafiducia; e, dall'altro lato,

"Lerrera dell'l I giugno i 957 all'on. sen. Adone Zoli: " "

Caro Zoli, T u non sei persona cui uno scacco possa far impressione, forse ri farà impressione l'ingiusta accusa o I'acerba cririca. per re e per Comunque sia, desidero dini che la rua esperienza di un mese al Viminale non sarà gli altri, pel partito e pel paese. Spero che avrai presi nel loro giusto senso il mio ordine del giorno, i miei anicoli e i miei telegrammi. Ma ora desidero dirti che ri sono vicino, affezionato come sempre, comprensivo come mi sforzo di essere con rurri e s ecialmenre con gli amici. Una corliale srrerra di mano tuo Luigi Smrzo. In: kL.S., b. 506, fasc. «Art. e 1. ~ u b b l del . Prof. L. S.H,maggio-giugno 1957.


le benevole astensioni dei socialisti italiani sarebbero valse solo a far costituire una maggioranzafittizia in base ai soli voti dei democratici cristiani e dei monarchici nazionali. Per buona fortuna della DC e dell'Italia, i socialisti non hanno voluto rompere, proprio oggi, il vincolo che li lega ai comunisti. Nenni non poteva cambiare politica per legarsi alla debole consistenza del monocolore; le prospettive elettorali non sono tali che possano indurlo al passo che da quasi un anno si dimostra sempre più irrealizzabile. Nulla è mutato nel mondo esterno fra la Russia e i paesi del patto atlantico; nulla può mutare nel mondo interno fra Togliatti e Nenni. Le cosiddette mezze ali non funzionano come non funzioneranno le ali intiere, né a sinistra né a destra. Neanche a destra: i contatti con i gruppi parlamentari vanno posti sulla base della lealtà: awersari irriducibili e collaboratori occasionali è una combinazione che non regge; solo una tregua chiara e a fini prestabiliti avrebbe potuto awicinare destre e democrazia cristiana. Ma nella discussione parlamentare non sono apparsi elementi di tregua, mentre sono venute fuori clamorosamente antitesi fondamentali; i voti delle destre erano diretti contro il quadripartito e non mai a favore della democrazia cristiana; non si fonda sopra un equivoco un governo che si presenta con un programma completo. E veniamo al quadripartito, la cui ricostituzione si è rivelata impossibile. La crisi è stata determinata dall'atteggiamento di La Malfa che guidò la maggioranza dei repubblicani all'attacco; seguì Saragat che denunziò formalmente la collaborazione senza i repubblicani; venne Segni che si dimise senza portare la questione in parlamento. Dalle discussioni al Senato e alla Camera sono emerse tanto l'antitesi fra i liberali di Malagodi e gli altri dell'ex quadripartito, quanto la ferma decisione dei socialdemocratici e dei repubblicani a rifiutarsi a qualsiasi formula tri-quadripartitica. Quel che è rotto non si sana. 11 quadripartito della seconda legislatura è finito per sempre. A questo punto dovrei spiegare un fenomeno assai strano: giornali quotidiani di opinione di Roma e di altre città del centro e del nord poco prima che si iniziasse la discussione al Senato, han lanciato una campagna allarmistica contro il pericolo di un fronte nazionale di destra (s'intende con la DC) e di un fronte popolare di sinistra messo là per comodo polemico. Lasciato lì il fronte nazionale, è stato denunziato I'integralismo della democrazia cristiana in contraddizione allo stato laico italiano. Dopo di che si è ripiegato sui dissensi interni della DC dando addosso con accanimento al governo Zoli. Tale tentativo di accerchiamento della DC sul piano giornalistico, per premere sulla pubblica opinione, mi ha ricordato la canea lanciata nel febbraio 1922 durante e dopo il veto a Giolitti, e le pressioni fatte ai parlamentari popolari perché avessero accettato il governo Facta. Bisogna leggere l'intervista di allora data da Gronchi alla Tribuna per rendersene conto. Ma oggi la D C ha altre responsabilità che non avevano i popolari del 1922.11 posto di partito-pida che la DC tiene dal dicembre 1945, non può essere contestato dopo dodici anni di responsabilità e di leale collaborazione. Essa deve disdegnare la mano segreta che ha mosso giornalisti rispettabili e giornali seri ad una campagna ingiusta e a fini non chiari, proprio quando in parlamento nessun partito ha proposto una formula diversa di governo che non sia il monocolore della DC. Oggi la soluzione è chiara: niente programmi governativi di lungo respiro; niente piani economici affrettati e quindi male studiati e senza possibilità di realizzarli prima delle elezioni. L'errore di molti è quello di avere fretta a fare leggi; e credere nell'utilità di nuove quotidiana I'uleggi, senza avere dato vita a quelle già emanate, provandone nell'e~~erienza tilità, la bontà e l'adesione alla realtà. I mesi passano: maggio è passato nel travaglio del Gabinetto Zoli; giugno passerà for-


se nel travaglio di un altro Gabinetto; avremo l'esercizio provvisorio. Le vacanze premono, a fine luglio ai monti e ai mari. A che cosa può servire un governo con un largo e ambizioso programma, se non ad aumentare i dissensi del parlamento e le varie attese che diverranno disillusioni per le categorie interessate?Abbiamo bisogno di un governo che amministri e amministri bene e sodo; che faccia il punto sui bilanci e prepari le elezioni. Ottobre o maggio? novembre o giugno? Se il parlamento e il paese si rassegnano a dieci mesi di governo di ordinaria amministrazione e di vigile intervento per casi eccezionali, promuovendo, se necessario, intese fra i diversi gruppi, si arriverà alla primavera del '58; altrimenti, occorre bruciare le tappe e convocare i comizi fra ottobre e novembre. Non cadrà il mondo; sapremo finalmente dove il paese vuole andare e ne avremo la prova da quel che, bene o male, sarà il responso elettorale. È sperabile che il nuovo governo pur essendo monocolore e di minoranza precostituita (è la frase di occasione) abbia il voto alla Camera e al Senato senza qualifiche di partiti, proprio perché governo elettorale, cioè governo il cui capo abbia in tasca (come si dice in gergo) il decreto di scioglimento delle Camere. Non ottenendo il voto favorevole, il decreto sarà operativo e i comizi verranno indetti nel più breve tempo possibile. Sarebbe questo un rimedio estremo. Escluso un governo d'estrema sinistra a tipo fronte popolare, sia perché le elezioni del '53 non ebbero affatto tale orientamento, neppure in via subordinata, sia per l'atteggiamento risoluto preso dai socialdemocratici al riguardo; escluso il ritorno al quadripartito per la serietà della vita politica dopo una rottura così clamorosa; esclusa una maggioranza con la destra monarchica legata al movimento sociale, quale altra soluzione resta che il Presidente della Repubblica possa tentare? Un Ministero extraparlamentare? difficile imporlo al parlamento alla vigilia delle elezioni. Non resta che un ministero monocolore del partito che ha la maggioranza relativa, nella speranza di un voto di fiducia che non dovrebbe essere negato, pur con la subordinata della procedura di scioglimento. È proprio della democrazia risolvere i contrasti fra parlamento e governo con l'appello al paese. Il Giornale d'ltalia, 1 1 giugno 1957

Tripartito e monocolore Nessuno vuole le elezioni anticipate come corollario di un governo elettorale, quale l'ho definito nel precedente articolo; e qui sarebbe inutile ricordare il travaglio del parlamento subalpino di un secolo addietro e le vicende dei vari decreti di scioglimento di quella Camera dei deputati. Ai parlamentari di oggi non piace neppure l'anticipazione di sei o di quattro mesi dalla data normale. Non si è forse parlato di adeguare la scadenza delle due Camere portando a sei anni il periodo montecitoriale, invece di accorciare a cinque anni quello di Palazzo Madama? L'incarico esplorativo dato al Presidente del Senato per ricondurre le pecorelle del quanon sono driparrito all'ovile di centro è ormai in corso. Non anticipo le conclusioni profeta; suppongo che fra la astensione dei repubblicani, le riserve dei liberali, le rivendicazioni dei socialdemocratici e le concessioni dei democristiani, vi si potrebbe arrivare di stretta misura. Tale misura non sarà superata anche se la presidenza sarà data a Fanfani; pare che


i partitini lo vogliano loro prigioniero per evitarne le sortite come quella sul voto della delegazione italiana deli'ONU presieduta da Piccioni, owero l'altra sulla gafedi Martino a Londra circa il provincialismo di certe critiche fattegli da Roma, owero, quel che più si teme, di un discorso tipo Arezzo, che non fu una carezza di solidarietà per un «ministero amico)). Andando Fanfani al Viminale, resterà egli a Piazza del Gesù segretario del partito? Ecco un problema che interessa tanto la DC quanto gli altri partiti e la pubblica opinione. Quest'ultima, convinta com'è deli'attuale insostituibilità della D C nel gioco politico italiano, per fronteggiare il socialcomunismo, forse non amerebbe un potere così ampio che copra governo e partito. Fino a qual punto possa l'autorità e il savoirfaire del Presidente Merzagora arrivare a mettere d'accordo i vari attori della scena politica non può dirsi; tanto più che non mancane manovre e simpatie per un monocolore D C con uno sportello o sportellino aperto a sinistra, si dice, per aerarlo dell'odore dell'orbace, senza pensare al tanfo di vodka che viene dall'altra parte. Strana awentura quella di Zoli; non c'è stato tentativo ministeriale più contrastato, più svalutato e più vituperato. Ora i partiti del centro ne accettano il programma; anche la sinistra DC ne accetta il programma per fare il passo, con le scarpe felpate, verso i nenniani, dai quali si auspica la decisione di astenersi nel voto di fiducia ad un monocolore (con o senza Zoli, con o senza il Pella dello Stato sociale) per iniziare in sordina la conversazione socialisti-cattolici; parlando parlando si può arrivare anche all'abbraccio. Non c'è da scherzare. Se il lettore vuole essere edotto'di questo retroscena cattolico-socialista, cerchi la solita agenzia degli ex-gonchiani, legga, nel n. 136 dell'anno V (14 giugno), l'articolo: Cattolici e socialisti, nel quale, dopo la frase che l'Avanti!«con facilismo dovuto probabilmente anche ad esigenze tattiche, attribuiva al PSI la funzione di solkcitatore delle forze democristiane più avanzate, per costringere la DC a mutar rotta, cioè a fare una scelta verso sinistra»; e dopo che la stessa agenzia nota di avere essa, in concomitanza dell'articolo dell'Avanti!, «assegnatoalla sinistra dc il compito di coordinare ali'interno della DC il vasto movimento di scontento in ordine a certi pericoli di involuzione a destra)) per «favorire il processo di autonomia del l'SI»; contesta all' Osservatore Romano l'identità di vedute tattiche e politiche fra i due scritti; perché lo scopo di Nenni sarebbe quello di separare la sinistra della DC dal corpo del partito; mentre lo scopo della sinistra democristiana sarebbe quello di orientare tutto il partito verso sinistra, e conclude: «Èstato lo stesso on. Nenni a riconoscere che nella presente situazione non vi sono le condizioni per un accordopatteggiatu (sono io che sottolineo) fra la DC e il PSI nemmeno a livello parlamentare)). Se mancano oggi le possibilità di un accordo pattegqiato, non manca l'idea di una astensione di voto. Gli intrighi sottobanco non &Gh,rono durante il difficile dibattito parlamentare del Gabinetto Zoli; al Senato si contò s l'assenza di qualche nenniano, che non ci fu, né era necessaria; alla Camera Nenni più vo te nel ((Transatlantico))prese contatto con un ministro in carica e viceversa; l'astensione non ebbe seguito a causa dei voti della destra. Ma la predetta agenzia scrive: «Un Governo bisogna pur farlo, e se, esclusi i voti di destra, possano confluire (sul programma di sinistra) indirettamente (interessante quell'indirettamente, cioè a mezzo di astensioni alla Camera e di assenze al Senato) altri consensi, i quali sganciati dalla obbedienza «frontista» considerino positiva per il paese la realizzazione dei punti di quel programma, eccetera, eccetera)). I1 periodo contorto tradisce un pensiero deciso e chiaro; apertura a sinistra a mezzo di uno sportellino appoggiato ad un programma sinistrorso, «senzapretendere di costituire ipo-

r'


teche o ccndizionamenti inaccettabili per la DC». Secondo la detta agenzia questo sarebbe un sottrarre voti al fiontismo. Non occorre altro per vedere che cosa ci aspetta, se si vuole ripristinare il monocolore Zoli con un'intesa da mercanti di campagna con le sinistre per una astensione che dia al monocolore DC una maggioranza fittizia col pericolo, non ipotetico soltanto, di un altro capitombolo. Dove andrebbero il prestigio delle istituzioni e quello delle personalità che il partito manderebbe allo sbaraglio, è cosa che si può immaginare a prima vista. Mi dicono che il protrarsi della crisi sia dovuto all'attesa che i partiti prendano le loro definitive decisioni; fra tali partiti vi è anche quello di Nenni, che t abile a dire e non dire, promettere senza impegni, e evadere dalle strette e continuare le conversazioni. Tempo e Togliatti permettendo, si arriverà così a quella confusione di lingue, che disorienterà i ceti medi, quei ceti che in inglese sono detti back bone, la spina dorsale della società moderna. Così facendo il vantaggio non sarà del centro e dei centristi d'occasione, ma della destra che andrebbe a ricomporsi e della sinistra socialcomunista che continua a rafforzarsi, non ostante i fatti d'Ungheria. Allo stato delle cose, è preferibile che il paese sia edotto di tutte le manovre di retroscena e sia chiamato a pronunziarsi sopra un programma di centro realista e realizzabile. Un programma di affari e di urgenti provvedimenti, ma che tenga in primo conto le libertà democratiche e i patti internazionali. La mia insistenza è che tanto un tripartito restaurato e con l'appoggio indiretto dei repubblicani (astensione) quanto un monocolore di affari (senza programmi ambiziosi che creano dissensi insanabili), hanno assoluto bisogno per vivere di essere ancorati alla certezza che nel caso di conflitto con il parlamento le elezioni potranno essere indette anche subito. I1 Capo dello Stato non può esimersi dal considerare la situazione parlamentare e governativa attuale anche in funzione elettorale. Il Giornale ditalia, 18 giugno 1957

Dissipare gli equivoci La vita pubblica non può essere basata sugli equivoci; nC la strada della politica di un paese può essere tagliata dai trabocchetti degli equivoci. Chiarezza ci vuole, chiarezza e semplicità. Strano: tutti credono alla doppiezza del metodo politico, mentre tutti desiderano che sia fatta luce sugli avvenimenti, che si chiariscano k idee dei gruppi, che si vada alfondo dei problemi. Tipico è il caso della crisi del quadripartito Segni, dalle sortite di La Malfa, i discorsi di Saragat, le filippiche di Malagodi, gl'interventi di Fanfani; a non parlare degli intrighi di Nenni e le prese di posizione di Togliatti. Venne il ministero Zoli con voti dati e non accettati, i conteggi fatti e non combaciati, le dimissioni offerte e dopo undici giorni rigettate, nonché le due dichiarazioni presidenziali, l'una dei 13 e l'altra del 22 giugno. Si ha 6nalmente diritto ad una chiarificazione che dovrebbe caratterizzare la ripresa politica del luglio 1957. Comincio dalle due dichiarazioni presidenziali: con quella del 13 giugno fu affermato il dovere del Presidente della Repubblica «di collaborare alla formazione del governo, per-


ché esso risponda alle esigenze del paese e al rispetto del parlamento»; con l'altra del 22 giugno, con la quale, nel rigettare le dimissioni, h dato l'invito al senatore <(Zeli e al governo da lui presieduto a presentarsi al parlamento per chiedere di poter iniziare senza ritardo insieme con l'esame dell'esercizio prowisorio e dei bilanci l'attuazione legislativa del programma da lui sottoposto alle Camere)). Tre elementi emergono dalla seconda dichiarazione: l'indicazione dei compiti del governo: esercizio prowisorio, bilanci e contemporaneità dei provvedimenti legislativi programmatici che in parte sono avanti le Camere (Euratom e Mercato comune, patti agrari, elezioni delle Regioni, Cassa del Mezzogiorno, legge su Roma) e in parte riguardano materie non ancora concretizzare in disegni di legge. La via statutaria per far conoscere al parlamento il pensiero del Capo dello Stato è data dall'art. 87 della Costituzione dove si prevedono i messaggi presidenziali alle Camere, messaggi controfirmati (art. 89) dal Presidente del Consiglio. La via di darne notizia a mezzo di un comunicato alla stampa non è prevista. Che il Presidente del Consiglio vada a dire alle Camere di avere avuto tale consegna non è ammissibile; scoprirebbe l'autorità non responsabile. Egli dovrebbe limitarsi a farne una proposta governativa sulla quale potrà essere chiesto il voto di fiducia. I1 silenzio sul comunicato sarebbe di per sé eloquente. È sperabile che nell'esame della legge sulla Presidenza del Consiglio dei Ministri si tengano presenti i vari problemi costituzionali sollevati non solo oggi, circa i rapporti del governo col parlamento, con il Capo dello Stato e con i partiti, per eliminare equivoci sorti o che possono sorgere nell'attuazione delle disposizioni costituzionali.

L'equivoco maggiore, questa volta è stato posto e non risolto dallo stesso governo, se preventivamente appoggiato a destra o a sinistra. Dagli ex gronchiani viene classificato governo di centro-sinistra o addirittura aperto a sinistra derivandone la qualifica dal programma. Non si capisce in che cosa il programma di Zoli differisca da quello di Segni. I punti messi in discussione dai liberali sono stati due: le regioni e i patti agrari. Per le regioni Zoli affermò che il disegno di legge Amadeo approvato dal Senato era già alla Camera in corso di esame; non era sua facoltà ritirarlo; awertiva inoltre che le regioni a tipo comune non potevano attuarsi senza una legge finanziaria. Ricordo che, a suo tempo, io stesso feci al Senato tale osservazione e sono passati quasi due anni. Sarà forse questo uno di quei problemi per i quali si richiede oggi una discussione <(senzaritardo insieme ai bilanci»? Malagodi è stato malaccorto a impuntarsi contro un disposto costituzionale che da nove anni non è stato attuato. Egli pensa di convogliare molti voti nelle prossime elezioni presentandosi come salvatore dell'unità della patria che nessun regionalista minaccia. Patti agrari: i sinistri ex gonchiani hanno affermato che il governo monocolore sarebbe dovuto arrivare d a giusta causa p q e t w questo è un bel programma nenniano e comunista né più.e né meno. Costoro non hanno paura dei voti della sinistra; lo hanno scritto apertis verbis il 5 giugno e con le sinistre vorrebbero superare la preclusione proprio sulla giusta causaperpetua. Un po' troppo per la stessa DC, per Pastore e per gli altri. Zoli si rimise al parlamento per quel che, allo stato degli atti, può essere ancora discusso, non per quello che è precluso. A parte che il testo che sarà approvato dalla Camera dovrà andare al Senato, il quale deve avere il suo tempo a esamiriarlo e discuterlo, secondo me, dal punto di vista della realtà economica, la legge sui patti agrari andrebbe riveduta in senso di maggiore libertà; dal punto di vista costituzionale dovrebbe rispondere ai dati produttivi delle zone e regioni agrico-


le, rimandando la legge alla competenza regionale per le regioni in atto, mentre per le Regioni future dovrebbe essere ridotta a una legge-quadro; infine, dal punto di vista politico, si dovrebbero attenuare i vincoli che rendono difficile il flusso e riflusso agricolo da una fattoria all'altra e da una zona all'altra; mentre con le dovute garanzie di buona uscita si dovrebbe favorire la libera e owia sistemazione tanto da parte dei proprietari quanto da parte dei coloni affittuari e mezzadri. So che a questo orecchio molti non sentono o per ignoranza dei problemi agrari, o per limitata conoscenza delle condizioni locali (i veneti sono i maggiori responsabili di una legge unica imposta per tutta la nazione) owero per paura della concorrenza social-comunista, concorrenza che la socialdemocrazia e I'ala sinistra della DC temono esageratamente, senza rendersi conto della più spinta demagogia degli awersari. Scrivo ciò per chiarezza d'idee e per non essere tacciato di avere cambiato opinione; allo stato delle cose, una disposizione più o meno discutibile come quella di Pastore (che io, s'intende, avrei bocciato subito, senza consentire a Saragat il piacere di far cadere il ministero Segni) vale quanto altre disposizioni discutibili e anche assurde del testo in discussione che Zoli ha avallato (son sicuro) senza averlo ben letto egli che, conoscendo bene Toscana e Romagna, saprà per prova quanto una simile legge danneggerà quell'agricoltura e quanto gioverà alla propaganda di sinistra, sia che la legge venga approvata tale e quale, sia che venga modificata; perché allo stato delle cose solo le sinistre ne potranno trarre vantaggi politici. Sarà forse questo lo scopo del ministero Zoli e del finestrino che egli aprirebbe a sinistra nella speranza che Nenni gli conceda le astensioni necessarie o anche i voti? Non è possibile che proprio lui si assuma in parlamento la responsabilità di squalificare così la DC alla vigilia delle elezioni. Sarà meglio dire fin da ora che il suo ministero è proprio un ministero pre-elettorale, che deve condurre in porto la barca dello Stato attraverso gli scogli dei partiti, per attuare solo quei prowedimenti amministrativi e politici che la brevità del tempo e la imminenza elettorale impongono. Purtroppo, neppure così possono dirsi risolti gli equivoci della situazione, perché manca la prima, la principale condizione; quella sulla quale invano, da quasi un anno, vo richiamando l'attenzione degli uomini responsabili: ildecreto di scioglimento delle Camerepreparato eprontoper il caso instante. Quando le Camere sono alla vigilia delle elezioni non reggono più alla disciplina parlamentare, al dovere di controllo della spesa pubblica, alla necessità dell'esame di leggi che ingombrano i tavoli degli uffici e le sale delle commissioni. Lo scioglimento anticipato s'impone come s'impone l'obbligo di provvedere ail'approvazione di leggi necessarie e urgenti. Come si farà a portare in parlamento problemi di grande impegno, senza lo stato d'animo adatto, quando tutti pensano al collegio, agli elettori, ai partiti, alle tendenze dei partiti, alla campagna elettorale? Senatore Zoli, munitevi del passaporto necessario, fatevi dare dal Presidente della Repubblica l'assicurazione che non rifiuterà la richiesta di uno scioglimento delle due Camere, se necessario, e non avrete bisogno delle mezze ali e neppure del finestrino a sinistra per far piacere a Nenni e ai giovanotti dc delle varie tendenze di sinistra. E se le Camere, più esattamente i partiti, non vogliono un ministero che apparentemente poggia ancora sopra un programma ambizioso e ineseguibile o per altro pretesto vi negherà la fiducia, nel rassegnare per la seconda volta le dimissioni, dite al Presidente che l'unica, la più dignitosa, l'inevitabile soluzione del nodo gordiano intessuto dai partiti del centro a vantaggio degli estremi di sinistra e forse anche (ho i miei dubbi) di quelli di destra, è lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate.

Il Giornale d'ltalia, 26 giugno 1757


I1 Governo Zoli e le sinistre I1 senatore Terracini ha previsto all'on. Zoli e al suo governo, che «gli eventi di questi giorni non mancheranno certamente di avere ripercussioni all'interno della democrazia cristiana e se ne avranno i primi echi nei prossimo Consiglio nazionale di quel partito, echi che aiuteranno l'azione dei comunisti diretta a chiarire alle masse della democrazia cristiana i nuovi termini della situazione politica. Questa dichiarazione significa attesa nei confronti del partito democristiano, ma al tempo stesso rinnovata sfiducia nei confronti del governo Zeli». H o trascritto le parole del resoconto sommario del Senato. Poco prima l'ex presidente della Costituente aveva detto: «In verità, fra le masse popolari che seguono la democrazia cristiana serpeggia un risentimento profondo per quello che può apparire un colpo improvviso ed invece è un atto preparato da lungo tempo: l'immissione del partito fascista e del partito monarchico nel piano della vita costituzionale del Paese». Da parte sua I'on. Nenni proponendo l'immediata ripresa della discussione sui patti agrari, cercherà di dividere i democristiani di Montrcitorio e di far pesare i voti socialisti mescolati con quelli della sinistra democristiana alla quale si è rivolto Terracini. Arcades ambo. E vero che la discussione sul Mercato comune e 1'Euratom è di un interesse internazionale immediato; ma è proprio su questo punto che socialisti e comunisti, con il pretesto dei patti agrari, sperano o in un rinvio a ottobre (chi vivrà vedrà) ovvero in una scivolata del governo Zoli (questa volta senza ripresa). Con. Leone ha convocato i capi gruppo per sentire il loro parere sull'ordine dei lavori. La questione dei patti agrari verrà discussa in tale sede; si conta sugli europeisti perché facciano valere la tesi della immediata ratifica della convenzione; forse i capi gruppo si intenderanno per una discussione rapida anche su tale disegno di legge. E dopo? I bilanci o no, le sinistre non vogliono lasciare tranquillo il governo, vogliono che si qualifichi con il voto sui patti agrari. Con. Almirante, sia pure in conversazione e a titolo personale, ha detto di non avere obiezioni di principio per la giusta causa anche sepermanentp, ma è proprio questa che farà da discriminante pro o contro il Governo, perché il limite ciclico della giusta causa, già approvata dalla Camera con un ordine del giorno, sarà oppugnato da coloro che sostengono che quel voto non è preclusivo. Questioni di merito e questioni di procedura, per un testo di 63 articoli, agiteranno la Camera nei mesi canicolari? E il Senato non avrà nulla da dire sui patti agrari, quando la Camera ha impegnato fin oggi più di tre anni a fare e rifare un testo del quale non è stato ancora approvato un solo articolo? Non importa: Terracini, per via dei voti di destra dati a Zoli, e Nenni, per via dei ((patti agrari», ambedue coritano sulla sinistra (o meglio sulle sinistre ben frazionare e distinte) della DC. I1 primo parlando al Senato, non aveva dubbi di sorta sulla collaborazione attesa e sperata di tale parte; e Nenni sa bene quale apporto ottenere dalla base legata all'on. Mattei, con il quale egli conserva ottimi rapporti. Netta concordanza con quanto ha detto Terracini al Senato e con la mossa di Nenni sui patti agrari alla Camera si trova in una nota dell'API(sinistra democristiana) del 26 giugno, là dove è scritto: «I1parlamentare tosco-romagnolo è stato rinviato alle Camere, non per svolgere opera di ordinaria amministrazione, bensì per chiedere di potere iniziare, senza ritardo, l'attuazione legislativa del programma da lui sottoposto alle Camere)).I1 che, in altre parole, vuol dire che il governo, pur essendo di minoranza, deve qua1if;rarsipolitica-


mente. Ora, è avvenuto ieri che, nelle sue dichiarazioni, il sen. Zoli è passato sopra all'esigenza, prospettata nel documento del Capo dello Stato, di un nuovo voto, che lo autorizzi ad attuare quel programma che, -come afferma esattamente un commentatore di un giornale mihnese- «non era stato chiaramente autorizzato, perché i voti determinanti dei missini e dei monarchici non erano stati espressi come approvazione programmatica)).E poco dopo si legge: «Il problema non è quello di andare avanti, bensì quello di comeandare avanti: e in questo come è implicata la questione della priorità di attuazione di quei prowedimenti di legge che, di per sé, sono i più qualificati a.. . qualificare politicamente il governo; e non c'è bisogno di precisarli ancora per intendersi». Dobbiamo meravigiiarci delle voci che corrono sulla urgenza di condurre in porto i patti agrari? Sarebbe questa unoperazione Nenni per far rivivere il ministero Zoli con una pennellata di rosso o per farlo cadere con un urtone prestabilito? L'on. Scoccimarro ci ha intanto annunziato le intenzioni comuniste conchiudendo il suo discorso del 28 giugno con le parole: «La Repubblica che è nata dal sacrificio degli italiani migliori, non crollerebbe certamente senza nuovo sangue)).I1 crollo che teme Scoccimarro è quello della pretesa «resurrezionedel fascismo nelle istituzioni dello Stato»; così ha definito Terracini il voto dato al governo Zoli. Anche per l'Ungheria si parlò dai comunisti di casa nostra di reazione fascista; ma la repressione è stata di carattere bolscevico contro tutta la popolazione ungherese, e contro i lavoratori in prima fila. A completare il quadro, è intervenuto I'on. Pastore mettendo in mora la DC con l'aut aut: ottenere per i deputati sindacalisti la libertà di voto, ovvero lasciare il Parlamento per ritirarsi sulla trincea sindacale. Il bel servizio che farebbe egli al Paese, lasciando la politica del lavoro a socialisti e comunisti, e impegnando i sindacalisti cattolici alla lotta fra impiegati o pensionati e Stato da una parte, fra lavoratori e datori di lavoro dall'altra parte; proprio quando si sta per attuare il Mercato Comune e 1'Euratom e quando i progressi tecnici trasformano le economie di tutto il mondo. Non disperiamo dell'awenire; cerchiamo la concordia nella stabilità istituzionale e politica, nella gradualità economica e nella fiducia di un progresso sociale che ci faccia vincere sia la disoccupazione sia la insufficiente occupazione. I1 principale problema da doversi affrontare con concordia di spirito dalla DC, dai sindacalisti democristiani e da tutti i buoni italiani è quello dell'occupazione dei giovani, sia awiandoli verso professioni utili, sia preparandoli e sostenendoli nei primi anni dopo lasciate le scuole. È questa la categoria meno assistita che oggi esista in Italia. L'ala sinistra della DC non fa bene ad accodarsi ai socialisti e ai comunisti, a ripetere gli slogan$, aumentando il disagio spirituale delle masse cattoliche. La schermaglia politica tra le frazioni della DC non può essere portata al punto di preferire gli awersari ai compagni di lotra; di orientarsi con i seguaci di Marx, di Lenin, di Stalin e di Kruscev al posto dei seguaci di Toniolo e di tutta la tradizione che fa capo alla Rerum Novarum di Leone X I I . Se per questa nostra gloriosa origine sociale cristiana, se per gli insegnamenti pontifici dal 1891 ad oggi siamo dai comunisti e dai socialisti chiamati con dispregio clericali e integralisti, poco male; la nostra strada è proprio la strada di Roma e non la strada di Mosca.

/I Giornale d'ltalia, 3 luglio 1 957


Dittatura e libertà In Italia abbiamo avuto una crisi ministeriale che è durata dal 6 maggio al 27 giugno; il Paese ha continuato a lavorare. Una piccola paralisi in Parlamento; ma senatori e deputati sono stati occupati lo stesso per i propri elettori, per le aspirazioni ministeriali degli amici e per gli affari professionali. Alla fine, fra contenti e scontenti, il fio del ritardo di poco più di un mese e mezzo sarebbe pagato dal Parlamento, costretto a tenere sedute sotto la canicola. Niente di male. Se fossimo oltre cortina, a quest'ora gli onorevoli Segni, Saragat, D e Caro e Martino col seguito di Braschi, Rossi, Vigorelli, Romita e Cortese, sarebbero stati definiti deviazionisti, nemici del popolo, animati da perfide intenzioni; avrebbero provato il fermo in attesa di essere imprigionati o deportati o passati ai tribunali del popolo; costretti, infine, a confessare le loro colpe per la politica dei patti agrari, del petrolio e per il Canale di Suez. Qualcuno avrebbe fatto la fine di Beria; non si sa mai.., oggi tu, domani io; e viceversa. I nostri uomini al contrario, sono in Italia in perfetta libertà e forse in attesa di attuare in ottobre quel quadripartito che non poté essere realizzato nel maggio scorso. Che dire? Le crisi ministeriali in Italia sarebbero un giochetto e in Russia una cosa seria? In tal caso, si affermerebbe che l'umanità non può creare la sua realtà vivente altrimenti che con la forza, l'inganno, il sangue. La lotta popolare dovrebbe sboccare nella rivolta; la lotta dei capi trasformarsi in congiura; l'avversario sarebbe un nemico da eliminare e non un uomo, un cittadino, un deputato con il quale discutere e dal quale poter dissentire. Abbiamo letto che il popolo russo ha appreso di botto, mediante propagandisti di ufficio, che gli uomini fino a ieri alla cima del potere per anni e decenni, sono stati dei traditori, che il nuovo salvatore o i nuovi gerarchi - che poi sono anch'essi del rango e domani potranno anch'essi finire agli arresti - hanno eliminato in tempo il pericolo grave che incombeva sul popolo russo, rimanendo a capo di una dittatura collegiale, nella quale vi è il vincitore Kruscev e dietro di lui, vero dominatore, Zukov. Ci crederà il popolo? Forse sì, forse no; certo, non potrà reagire anche se dubita del contrario. Dubita, ma non ha modo di conoscere quel che succede: in Russia esiste il partito unico, la stampa unica, il pensiero unico, la scuola, la morale, l'arte unica, quella di chi comanda, sia a capo Lenin, Stalin, Malenkov, Kruscev e così di seguito. A coloro fra i nostri, che si lamentano delle troppe dispute e le troppe discussioni fra i partiti, delle ambizioni dei capi, dei debordamenti ai limiti costituzionali dei vari organi del potere statale, debbo, in questa sede, rispondere che gli inconvenienti della libertà sono compensati ad usura dai vantaggi che essa reca, tanto in via assoluta, quanto in confronto di quel che succede nel mondo delle dittature, di tutte le dittature. Se io scrivo, parlo, protesto perché la nostra non è la democrazia ideale, lo devo alla parte positiva ed effettiva della libertà che esiste. Il vantaggio fondamentale dei regimi liberi è anzitutto nel rispetto alla personalità umana, ai suoi diritti fondamentali e inalienabili, alle esigenze etiche della convivenza in società organizzata e sostenuta assai più dal costume dell'autolimitazione che da una legge limitativa. Quando questa è necessaria per l'equilibrio dei diritti e dei doveri dei cittadini conviventi in un territorio (per esempio: i per la incolumità e sanità pubblica) l'intervento di autorità è temperato dall'educazione all'auto-limitazione che in democrazia è la contropartita della libertà. D a qui la necessità di avere un patto convenzionato, che noi chiamiamo Costituzio-


ne; la quale, consacrando le libertà politiche, fissa i limiti del potere pubblico e le garanzie del cittadino nell'esplicazione della propria attività. La bontà del sistema si prova a priori con la logica interiore della teoria; si prova a posteriori con la possibilità dell'adattamento del popolo attraverso l'educazione, la convinzione, l'auto-limitazione adesiva. Noi siamo troppo vicini alle lotte che ci hanno diviso nel periodo dell'occupazione straniera per la caduta del regime dittatoriale, che per un quarto di secolo ebbe larga influenza sul costume pubblico e privato. Abbiamo passato due momenti tragici: l'abbandono del sistema costituzionale per la dittatura; l'occupazione straniera con la susseguente fase rivoluzionaria del primo dopoguerra. Chi ricorda il periodo dal 1943 al 1947, sa bene che cosa significhi cooperare con i socialcomunisti in un governo di pieni poteri. Fu merito della DC e del suo capo, I'on. D e Gasperi, se nel maggio del '47 si poté costituire finalmente un governo senza l'estrema sinistra, e preparare un Parlamento dove i socialcomunisti fossero all'opposizione. Ci volle ancora un anno per liberare le masse operaie dalla pseudo-unità sindacale, la cui confederazione era dominata dai comunisti, come lo è tuttora per la debole posizione che vi hanno dentro i socialisti nenniani. È vano gridare contro la politicizzazione dei sindacati; in Europa è così; e per giunta, in Italia, tutti i sindacati sono sostenuti aere alieno. Lo dico in latino solo per i capi, i quali, non essendo veri operai ma parlamentari in atto o parlamentari in attesa, comprenderanno.. . il latino! Che cosa dire? Non è più effettivo il pericolo socialcomunista? Così si pensò nel 1948 dopo le elezioni del primo Parlamento; così si pensò dopo le elezioni del 1953, quando si cominciò a parlare di apertura a sinistra e di unificazione socialista. La storia registra in questo decennio i tentativi di rivolta nella Germania dell'est, varie e gravi agitazioni in Polonia, la rivolta dell'ungheria con la feroce e sanguinosa repressione che dura tuttora, mentre i profughi provano l'esilio e mentre il governo Kadar continua le esecuzioni capitali. A scuotere il sistema comunista è arrivata anche la denunzia di Kruscev dei misfatti di trenta anni di governo staliniano, i tradimenti dei capi comunisti, conosciuti fino a ieri come i più significativi esponenti del comunismo bolscevico. Ma i comunisti italiani e i loro alleati nenniani sono lì imperterriti; le tragedie sanguinose del governo russo non li toccano, lì tutto è buono, tutto democratico, tutto felice; mentre da noi in Italia tutto da riprovare fino al fatale awento del socialismo. Fatale? Nulla è fatale nel mondo; la volontà umana è dominatrice. Noi credenti nella Provvidenza divina, sappiamo che il dono della libertà individuale accompagnato dal dono della coscienza responsabile ci rende veramente uomini, padroni dei nostri atti e realizzatori, con l'aiuto di Dio, del nostro destino. Chi non conosce il prezzo della libertà, non ne gustera mai i benefici; cederà al potente, fuggirà di fronte all'awersario, si awilirà nel conformismo e nella soggezione. Ma noi, uomini liberi, dobbiamo saper difendere le nostre istituzioni così fortemente insidiate. La prova elettorale già incalza; I'attardarsi su questioni secondarie potrà riuscire dannoso all'awenire deila patria; è questo il momento di tonizzare la lotta ideologica. Bisogna superare la mentalità non solo di certi giornalisti, ma di certi uomini politici e dei loro seguaci di sinistra, i quali, sol che Nenni dicesse di volersi distaccare dai comunisti, gli andrebbero incontro e lo riceverebbero, non come fu ricevuto il figlio1 prodigo del Vangelo con il suo celebre Padre hopeccato; ma come un trionfatore, il leader di un nuovo socialismo democrarizzato, il futuro capo di un governo di alternativa pseudo-costituzionale. La nostra democrazia soffre della immaturità di una parte della classe dirigente, la quale manca di educazione psicologica e di esperienza politica e non arriva a valutare e a pre-


vedere i pericoli che corre la libertà, se non è difesa sempre e in ogni occasione, resistendo agli attacchi degli avversari, agli inganni dei finti amici, alle concessioni per fallaci promesse, ad ogni tentativo di apertura a sinistra. I1 Ministero Zoli è insidiato per via delle qualificazioni; la DC è insidiata dal sinistrismo di base; i partiti di centro sono indeboliti per via della ricerca di compagni che non trovano e del desiderio di costituire un fronte laico che non risponde al clima. Oggi in Italia il nemico numero uno è il socialcomunismo; la lotta è impegnata per la libertà, contro la dittatura e la oppressione. I1 resto oggi conta poco, quando in gioco vi è l'esistenza stessa della democrazia.

If Giornak ditalia, I l luglio 1957

Leggi elettorali e partitocrazia10 Prima del fascismo, erano in uso due liste elettorali, quella politica per le elezioni parlamentari, e quella amministrativa per le elezioni ai consigli comunali e provinciali. Avend o il fascismo abolito i consigli locali elettivi e avocaro al governo le nomine dei podestà per i comuni e dei rettori per le province, cadde l'elettorato amministrativo. Col suffragio universale maschile e femminile, agli effetti del ripristino dei consigli comunali e provinciali deciso nel 1945 dal governo di liberazione, non fu più necessaria la distinzione di due elettorati; bastò aggiornare la lista elettorale politica. Fu, però, omessa la disposizione che collegava il diritto di rappresentanza degli interessi locali (comuni e province) ai residenti; così si introdusse la facoltà di un elettorato passivo unico esteso a

'O

Lettera del 19 luelio 1957 al Guardasiailli Ministro di Grazia e Giustizia, on. Guido Gonella: " Caro Guardasi ifii f' , . > . 'Ti rinerazio de 1 invio del oarere del tuo ufficio. e mi oermeno farti osservare auanto sieeue: 1" L'a:icolo 5 1 della costiuzione ri uarda le c&zdiziokdi egzraglianza dei cittidini per lYaccessoalle cariche pubbliche (tutte le cariche). senza rikrimento ad altro che ai requisiri di legge. F a questi requisiri si dovranno menere per le e anche quelli atti a eliminare le ineleggibilità e le incompatibilità. 2' L'articolo 653ella costituzione riguarda esattamente sia le inel gibilid che le incompatibilità per la nomina di deputato o senatore, da precisarsi per via di legge. Logica vu3e che anche i o l i di incom atibilità vengano incorporati nello stesso Testo Unico sulle elezioni politiche. per rendere edotti i cittadini elitori e i candidati di quel che impone la legge. L'abuso introdotto di proclamare eletti anche coloro che la legge classifica come ineleggibili (casi Lauro e Magri) e poi lasciarli ad esercitare il mandato per mesi ed anni, è tuno a danno del prestigio del Parlamento e del rispetto della legge. Lo stesso è a dire di qualsiasi incompatibilità, se non sia purgata nei termini di le e 3' Nel mio articolo, che ti acchiudo. si chiariscono i motivi per i quali le incompatibilità fra il mangt; parlamentare e le cariche di sindaco, di presidente delle giunte provinciali e dei consi ieri regionali, (per i quali è necessaria la residenza) sono tuttora iscritte come ineleggibilità. Questa è la con sione (unica confusione voluta) fra i due termini che sono ben diversi tanto nella loro accezione letterale che in quella giuridica. Tale confusione non giustifica la omissione delle incompatibilità nel Testo Unico. 4" La le e 16 maggio 1956 n. 493, con autorizzare il Testo Unico, fece riferimento alle successive modificazioni defiesto del 1948. Non vi è alcuna ragione per non ritenere quale modificazione Iegislativa (tutto quel che si a iunge modifica) la le e del 15 febbraio 1953, e quindi da inrrodursi nel nuovo T. U., tanto più che l'art. 65Tella costituzione i là %e parla chiaro. Cordiali saluti Luigi Sturzo. In: AL.S., b. 507, fasc. «Art. e 1. del Prof. L. S., luglio-agosto 1957.

t


tutti i cittadini italiani. Non mi risulta se tale omissione fosse dovuta a criterio di opportunità momentanea (dando ai comitati di liberazione la facoltà di porre candidature locali là dove se ne constatasse la mancanza) ovvero per criteri generali di un certo infantile democratismo. Certo si è che quando il governo De Gasperi presentò al parlamento il nuovo disegno di legge per le elezioni amministrative, e vi fu prevista la disposizione limitativa per le candidature locali, si preferì il sistema del 1945, perché molto più comodo per i partiti, tutti i partiti nessuno escluso. Di tale incongruente larghezza più degli altri prende vantaggio il partito comunista il quale, per giunta, sa bene e a tempo spostare gruppi di elettori da un comune all'altro, con la facilità delle iscrizioni nelle liste e le dichiarazioni di maggiore interesse che non sia la semplice residenza, salvo a ritornare alla iscrizione per la residenza con dichiarazione di cessazione di interesse, così da regolare in anticipo l'esito elettorale. È vero che nella generalità dei casi il buon senso prevale sulle incongruenze legislative, e gli elettori preferiscono i candidati locali a quelli importati, ma non è un fatto eccezionale che il partito comandi e gli elettori ubbidiscano. Democrazia a rovescio! A completare il quadro è capitata una certa interpretazione dell'articolo 51 della Costituzione, dove sta scritto che ((icittadini dell'uno e dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive in condizione di eguaglianza secondo i requisiti stabiliti da legge». I1 senso è chiaro: le condizioni debbono essere eguali per tutti. Se il proposito del costituente fosse stato quello di dare ad ogni cittadino elettore il diritto di essere nominato consigliere in qualsiasi comune, provincia o regione, avrebbe ideato il più irrazionale sistema di vita pubblica locale politicizzando in radice l'amministrazione degli enti, rendendola quanto più possibile irresponsabile e alterando il naturale rapporto fra amministratore e amministrato a favore della più smaccata partitocrazia.

Ma se non può attribuirsi al costituente una colpa che non ha, si può anche rilevare quella che come legislatore si assunse alla vigilia delle elezioni della Camera e del Senato, col non ripristinare la figura legale dell'incompatibilità di carica (che la Costituzione richiede all'articolo 65) e col riunire tutti i casi sotto la figura della ineleggibilità. È vero che la ineleggibilità del sindaco a deputato rimonta al parlamento subalpino; si trattava allora di sindaci di nomina regia; poi vennero i sindaci elettivi, ma la ineleggibilità rimase col carattere di incompatibilità; successivamente fu limitata ai sindaci di capoluoghi di province, oggi ai sindaci di città superiori ai 20 mila abitanti. Questo fatto indica chiaramente che su altri elementidi ineleggibilità predomina chiara la supposta influenza della carica sull'elettorato. Tale influenza, se poteva essere valutabile nel sistema a collegio nominale'e con un elettorato ristretto come era prima del 1912, non può avere alcuna importanza in circoscrizioni elettorali di due o tre o cinque province unite insieme e con I'applicazione del sistema proporzionale e lo scrutinio d: l'ista. Simile a quella dei sindaci è la ineleggibilità dei presidenti delle giunte provinciali, i quali, per la loro posizione amministrativa, contano meno degli stessi sindaci dei capoluoghi. Anche in questo caso, come nel caso dei consiglieri o deputati regionali, si tratta solo di incompatibilità. E che sia veramente così si deduce da una chiara disposizione della legge elettorale con la quale è stabilito che l'accettazione della candidatura comporta in ogni caso la decadenza delle cariche di cui alle predette lettere: a), b) e C), i tre casi in esame. Se tali cittadini norì fossero eleggibili, non potrebbero perdere il posto per un a n o nullo; se


perdono il posto sono di sicuro eleggibili. La legge aggiunge l'obbligo dei sei mesi di distacco fra la cessazione della carica locale e I'accettazione di candidatura parlamentare, confermando così la figura di ineleggibilità per sospetto di clientela formatasi in loco. Il costituente non rilevò che in materia di clientela i deputati e i senatori uscenti sarebbero in posizione di maggiore vantaggio dei sindaci e dei consiglieri regionali.

I1 colmo è capitato al Testo Unico delle leggi recanti normeper la elezione della Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957 n. 261. Nel riandarlo ho avuto la sorpresa di non trovarvi inseriti gli articoli della legge 1 3 febbraio 1953 n. 6 0 «Incompatibilità parlamentari)) sotto il quale titolo cercavo, giustamente, quelle da me già esaminate. Con tale legge vennero dichiarate non compatibili col mandato parlamentare, le cariche di nomina o designazione governativa presso enti pubblici e privati (tranne i culturali e assistenziali): le cariche di sindaci, commissari, liquidatori, direttori generali degli enti che gestiscono fondi statali negli istituti di credito (tranne le cooperative) e nelle imprese che hanno rapporto con lo Stato. Ai ministri e sottosegretari veniva inibita I'accettazione di tali cariche prima di un anno dalla cessazione del mandato parlamentare. Di tutta questa materia nel Testo Unico non c'è parola non ostante che la legge del 16 maggio 1956 n. 495 faccia espresso riferimento sia al Testo Unico del 5 febbraio 1948 n. 26 sia alle «successive modifiche in quanto applicabili)). E chiaro che la legge del 13 febbraio 1953 è tuttavia vigente ed applicabile; e sarebbe ridicolo affermare (come mi è stato detto) che la disposizione dell'articolo 7 di tale legge, che fa riferimento speciale ai deputati e senatori in carica all'enrrara in vigore, possa avere fatto pensare alla applicabilirà della legge esclusivamente per i malcapitati del 1953 con la esclusione dei fortunati deputati e senatori eletti successivamente. La illogicità del preteso privikgio salta agli occhi. Il Consiglio di Stato, che come di regola e come risulta dal decreto stesso diede il parere sul Testo Unico, avrebbe dovuto occuparsi di così strana omissione, tanto più che all'articolo 65 della Costituzione è tassativamente prescritto che la legge elettorale deve contenere i casi di incompatibilità. Perciò ho presentato al Presidente del Consiglio dei Ministri regolare interrogazione e ne attendo la risposta scritta incuriosito del come sia capitato il fatto che una legge possa così facilmente scomparire, mentre non scompaiono neppure le circolari dei ministri di 20 o 30 anni addietro. Se nei fatti da me rilevati riguardanti la legge elettorale non ho trovato la mano diretta dei partiti, ho potuto, invece, trovarvi l'aria malsana che la partitocrazia diffonde fino alla eliminazione da un Testo Unico di leggi di quelle incompatibilità, che i partiti awersarono e che il Parlamento approvò.

Il Giornak d'Italia, 18 luglio 1957

IRI in Inghilterra ed in Italia Dopo venti anni di esperienza IRI in Italia i laburisti inglesi stanno scoprendo il mond o di Mussolini, con la differenza che Mussolini, da buon interventista, prima lasciò che si


fosse aggravata la crisi post-bellica e poi provvide, in via temporanea, all'istituto della ricostruzione industriale. Il temporaneo, come di uso, divenne definitivo e fu accolto tale e quale dalla nostra Repubblica. I laburisti, dopo avere ingolfato il paese nelle enormi spese per le nazionalizzazioni industriali, cercano ora di trovare nelle partecipazioni statali un nuovo mezzo per mettere la mano sulle altre imprese private. Naturalmente, i laburisti inglesi sono quasi tutti all'oscuro di quanto è avvenuto e avviene in Italia. Ma essi guardano la Germania e ne sono gelosi; osteggiano la politica libera di Adenauer il quale in pochi anni della Germania dimezzata e distrutta ha fatto una vera forza europea. E con l'attuazione del mercato comune e con lo sviluppo della tecnica nucleare, l'Europa di domani sarà molto diversa. Che cosa rimarrà dei prodotti mitici del marxismo, anche il più attenuato, non lo sanno neppure i socialisti; i quali, anche nel recente congresso di Vienna, hanno confermato il loro classismo economico e la loro fede statalista, come se mezzo secolo non fosse passato sulle loro teste. È sempre una strana posizione quella della mezza strada: ed è proprio dei socialisti europei (altri socialisti di marca non esistono in tutto il mondo), i quali non arrivano alla logica comunista, perché sono tutti legati (meno il PSI italiano) alla politica atlantica e alla linea di difesa morale della libertà. Ma dicendosi classisti ed unici rappresentanti delle classi di lavoro, essi perseguono una politica di declassamento dell'impresa privata, sostituendola quando è possibile, con l'impresa nazionalizzata o municipalizzata o socializzata, per arrivare a quel predominio di classe, che poi diviene unicità, appellata, verso la fine del secolo scorso, «dittatura del proletariato)). In tre quarti di secolo sono sorte e cadute le dittature militari e borghesi, e le pseudodittature sociali e razziali (fascismo-nazismo); si è visto e si è toccato con mano che il proletariato non ha mai preso in mano alcuna dittatura; neppure nei felicissimi paesi di oltre cortina nei cui governi e presidi imperano politicanti, funzionari e militari, sia in combutta sia in lotta fra di loro, così a Mosca come altrove. Conclusione: i socialisti rappresentanti del marxismo sono fuori corso; i socialisti piccolo-borghesi vanno per la maggiore, esprimendo tipi interessanti; fra i più noti uno Spaak europeista nel Belgio, un Mollet e Pineau in Francia sulla linea della politica dei conservatori inglesi: come un Attlee e un Bevin dieci anni prima erano sulla linea francese di D e Gaulle e di Bidault. Che cosa li dispaia dai borghesucci di oggi, detti liberali o radicali, con i quali sono stati o sono in collaborazione? Forse un più acuto senso dei bisogni delle classi lavoratrici e del sindacalismo operaio, quando non è tornaconto di partito, e un più accentuato interventismo statale nell'economia. È questa la malattia che le due grandi guerre hanno sviluppato buttando i paesi capitalisti nelle spire dell'inte~entismostatale. Non saranno certamente i conservatori inglesi o francesi, né i democristiani italiani o belgi a sapersene liberare. Più un paese è povero (e la Francia da dieci anni subisce le guerre coloniali e le malversazioni indigene), e più si ricorre all'interventismo statale come il toccasana di tutti i guai. Inerzia mentale? mancanza di immaginativa? timore del salto nel buio? interessi prestabiliti? necessità demagogiche? Tutti questi fattori uniti insieme creano l'incantesimo presente di uno statalismo gonfio, prosperoso e rovinoso. Il nuovo ministro delle Partecipazioni, senatore Bo, parlando nella sua Genova, non ha potuto non pagare il tributo verbale, che prima di lui altri ministri han pagato all'iniziativa privata; ma per giustificare I'irizzazionedi una buona parte dell'industria ligure egli ha fatto appello alla storia, ha ricordato l'insufficienza dell'industria privata a coprire tutti i settori dell'econornia ed ha difeso l'intervento statale perché messo sullo stesso piano concorrenziate dell'economia privata.


Lasciamo da parte la storia, augurando che i futuri storici non siano obbligati a registrare i danni di siffatta politica italiana di fronte ai progressi economici di paesi a indirizzo libero (per quel che oggi è possibile) come la Germania. Lasciamo anche da parte la mancanza di possibilità concorrenziale quando i prezzi sono fissati dal CIi? Ma si deve pur contestare la pretesa necessità degli interventi statali così larghi, massicci e continui, quale è praticata da noi. Sul piano cantieristico le antiche imprese italiane hanno una storia gloriosa anche in confronto ad altri paesi, da dovere escludere a priori qualsiasi opportunità di statizzazione. L'intervento statale in tale settore deve limitarsi, e si sarebbe dovuto limitare, da opportune agevolazioni di crediti e di concorsi, specie per le navi di linea a prevalente carattere politico. Lo Stato per suo compito pubblicistico deve sollecitare, facilitare e integrare, non mai sostituire I'iniziativa privata al punto di paralizzarne la funzione. Non potevano forse le imprese private fabbricare tubi come quelli della Dalmine? Quali i motivi di mettere del!e industrie elettriche in mano all'IRI, il quale ha preso nelle sue spire perfino la.SME? Sarebbe tuttora statale una certa fabbrica di cioccolatose la figura caricaturale che essa faceva fra le tante imprese irizzate non fosse stata oggetto di forti ironie giornalistiche. L'azione giornalistica ha fatto cessare di botto l'iniziativa dell'EN1 nel campo oleario; non so se ancora siano in giro le saponette ENI. Ma è proprio necessario all'economia italiana la irizzazionedi gran parte del settore meccanico, che accusa un deficit non inferiore a quindici miliardi annui? Quale concorrenza è possibile, signor Ministro, fra imprese che non corrono alcun rischio, come le statali, e le imprese private esposte a tutte le oscillazioni del mercato e alle asperità del credito bancario quale è oggi organizzato in Italia? L'impresa statale non può fallire per definizione; la privata sì. Altra differenza: avendo 1'IRI aziende attive e aziende passive, ha usato il sistema di prendere il denaro dalle une e passarlo alle altre. Non so se il sistema sia tuttora applicato: quel che continua è la facilità del ricorso al risparmio privato attraverso le banche di Stato e quelle di interesse nazionale (che sono controllate dall'IRI), in condizione di favore. Terzo: le aziende irizzate tengono il sistema di presentare i loro bilanci sempre in attivo, anche quando non lo sono, segnando utili ipotetici e passando a conti speciali e a riserve occulte fondi che di regola sono soggetti a imposta. Così si ottiene il vantaggio di non accusare i deficit, e l'altro di non pagare all'erario l'intiero importo delle imposte e tasse. Fanno così i privati? Se sì, la colpa è dei controlli statali; se no, si vanno a trovare in confronto alle imprese statali in condizioni di inferiorità. Quali poi saranno le condizioni di concorrenza fra industria privata e industrie irizzatequando sarà attuato il voto dei sindacalisti e dei sinistrorsi circa lo sganciamento, lo vedremo a suo tempo. Potrei continuare, ma faccio punto, sperando che il ministro Bo dal nuovo posto vedrà dentro nelle varie imprese I N , ENI, Poligrafico e compagnia bella, e si renderà conto deiio sperpero (dico sperpero) del denaro pubblico, fatto dalle imprese statali, parastatali, criptostatali, comprese quelle società più o meno semi-fittizie, nelle quali le grandi finanziarie mettono dentro denari e impiegati, a scopi di politica affaristica e di clientelismo anonimizzato. I laburisti inglesi, lasciando in vita le imprese private e non tutte, si propongono di controllarle mediante la partecipazione azionaria dello Stato. Essi vi arrivano dopo il fallimentare esperimento delle nazionalizzazioni; ma sono impenitenti; riconoscono il male e vi ricadono per ripicco verso i conservatori che osarono denazionalizzarne un certo numero. Ora che l'Inghilterra si trova sull'orlo dell'inflazione, -per gli - alti costi e i crescenti deficit, i laburisti vanno escogirando nuovi modi, per darle l'ultima spinta. Ciechi che conducono cie-


chi; le prossime elezioni dettano loro simile programma, sperando di vincere la partita contro i conservatori. Questo a me sembra il vero scopo di questi innovatori rimasti indietro di mezzo secolo, proprio quando il mercato comune, i progressi della tecnica produttivistica e l'elevazione della classe operaia al livello delle classi produttive, si presentano come l'avvenire, non utopistico ma realistico, sia sul campo tecnico ed economico che su quello politico del mondo occidentale. Il socialismo europeo è rimasto fisso al vecchio interventismo statale concepito come strumento di classe: un socialismo fuori tono nel mondo che si evolve. Contro i miopi di mezzo secolo fa, un uomo di 86 anni si rivolge al popolo perché si guardi dai giovani marxisteggianti, dai neo-statolatri e dagli economisti demagoghi del nostro paese; il mondo si evolve verso nuove forme di economia e nuove speranze di benessere, nelle quali si deve inserire la verità umana e cristiana della giustizia e dell'amore e l'appello dinamico della libertà, grande dono di Dio per il bene dell'individuo e della società.

Il Giornale d'lalia, 24 luglio 1957

Dialogo Fanfani-Nenni? Durante la canicola un dialogo Fanfani-Nenni, come se non fosse bastato un anno di barufe rhiozzote fra Nenni e Saragat. Dire Fanfani a Nenni: perché tieni ancora gli stivaloni e la giacca alla cosacca; vestiti da democratico occidentale e ti faremo una bella festa. Risponde Nenni a Fanfdni: con te una festa? Levati prima la parrucca del vecchio clericale e il cappello borghese alla ottocento, e poi vieni da me. La verità è che Fanfani e Nenni hanno poco da dirsi; il dialogo si smorza subito, perché le posizioni sono contraddittorie. Fanfani interclassista. Nenni classista; Fanfani al centro, Nenni alla estrema sinistra; Fanfani democratico occidentale, Nenni premio Stalin. È vero: per il Mercato comune Nenni si differenzierà da Togliatti; se Giolitti glielo chiede, Nenni lo accoglierà nel suo partito; Nenni ha detto delle buone parole per l'Ungheria oppressa; ha fatto qualche piccola riserva sulla politica di Kruscev. Ma vale più un Giolitti che lascia apertamente il partito che non cento Nenni che dopo i fatti di Ungheria non hanno avuto il coraggio (dico, il coraggio) di una netta e definitiva rottura col comunismo. Non me la prendo con Nenni, il quale prosegue una sua politica, ambigua, equivoca, seducente, sfuggente; facendo, per di più, la figura del serpente con certi cattolicuzzi che gli si avvicinano con la curiosità di Eva. Fanfani non è da prendersi come un cattolicuzzo novellino; Fanfani è scaltrito e vorrebbe favorire il piano di distaccare o meglio di poter vedere i socialisti del PSI distaccati dai comunisti, affinché questi ultimi, ridotti di forze, possano perdere di attrattiva per le masse popolari; una idea questa che egli presenta come una dimostrazione ((dellacapacità della DC di pensare in prima linea all7Italia». Non sarò io a negare alla DC tale capacità, senza bisogno della strana dimostrazione di augurare al paese, per compenso, un socialismo unificato e rafforzato. Non essendo dello stesso parere, vorrei sapere da lui quale posto assegna al socialismo unificato; forse quel-


lo di collaboratore della DC?- Saragar e Nenni l'hanno escluso apertamente -, owero quello di governo di alternativa? Per arrivarci occorre la coalizione laico-massonico-socialista e comunista del fronte popolare owero l'intesa di tutta l'ala laica con i comunisti di rincalzo, i quali, secondo me, la farebbero da presunti eredi di una seconda alternativa. I democristiani resterebbero fuori rango, in peggiori condizioni dei democristiani MRP della Francia. Fanfani non ha queste preoccupazioni; egli studia il problema da teorico, lo vede da professore universitario, da scienziato, il quale arriva alla scoperta della verità attraverso le ipotesi; e così, ipotizzando un PSI tutto di un pezzo pronto a sacrificarsi per il patto atlantico e un Nenni democratico più e meglio di Saragat, arriva a veder tutto roseo per I'awenire dell'ltalia. Io che, invece, penso terra terra, da uomo pratico, e ipotizzo su dati concreti e non su idee astratte, sulla realtà di ogni giorno e non su desideri e velleità, da tempo ho escluso che in Italia possa aversi un socialismo democratico come alternativa della DC. 11 caso dell'alternativa non si pone; e neppure si può porre, da politici antiveggenti, il caso della collaborazione. Dopo una lotta elettorale combattuta per il primato, sia pure relativo, fra democristiani e socialisti unificandi, una intesa fra D C e socialisti per un governo di centro, immobilista (come dice Nenni), clerico-integralista (come dicono Nenni e La Malfa) e così di seguito, è da escludere. Fanfani, richiesto se si potrà ritornare ai governi di coalizione, anche senza l'unificazione socialista, ha risposto che ciò dipende dall'esito delle elezioni. È evidente che tutto dipenderà dall'esiro delle elezioni; anche I'unificazione socialista. Quando Nenni e Saragar avranno fissato il programma elettorale, sapremo che cosa vogliono; quando gli elettori avranno dato il voto agli uni o agli altri dei due partiti, sapremo pure se vogliono o no l'unificazione, e su quali basi. Se Saragat racimolerà appena un milione di voti di fronte ai tre o quattro di Nenni, avrà segnato la sua abdicazione. Ma se Nenni, giocando di abilità contadina, crede di farla a Saragat e a Togliatti stando a cavallo dei due, finirà per liquidarsi. 1 punti che Fanfani ha omesso di precisare, e Nenni si guarda bene dal definire, sono i soliti: politica atlantica e unione sindacale della CGIL. Fino a che questi due punti non sono chiariti col distacco degli operai socialisti dai comunisti e il passaggio ad altra confederazione, nessuno potrà illudersi della conversione di Nenni, che resta, quale è, un peccatore ostinato. La frattura sindacale fra socialisti e comunisti, avendo conseguenza politica definitiva, è stata già messa in frigorifero e può restarvi a lungo fino a che, arrivando al potere, Nenni e Togliatti aboliranno CISL ed UIL. Dall'altro lato, la politica internazionale è lasciata da Nenni in disparte, perché egli stesso ignora fin dove potrà arrivare Kruscev o meglio fin dove arriverà Zukov. Ma il sistema atlantico, la NATO, la difesa europea, l'unione di una Germania libera non sono ancora penetrati nel cervello di Nenni: ed è questo che conta. Di tutto il chiacchierio della futura unificazione uno solo sarà l'effetto che se ne avrà, ed è il più deteriore: quello di creare in Italia ~n'as~ettativa; una aspettativa non di pericolo e di dubbio sull'awenire del paese, sulla sua politica interna ed estera, sulla sua economia e sulle sue più delicate istituzioni; ma un'aspettativa di cosa desiderabile, lusinghiera e benefica; il socialismo al potere con o senza DC. Non ha notato Fanfani l'atteggiamento della sinistra DC, una volta inconcepibile e oggi insistente, verso la sinistra socidista riguardo lo statalismo e il classismo al punto da essere ritenute «come verifica probante del processo di accelerazione della democratizzazione del PSI»?le piccole commedie di Nenni. Costoro vedono il bene dove è il male dell'Italia


e anche dell'Europa. È questo il caso di chi mira a lungo una donna brutta al punto che finisce per piacergli. Ricordo il celebre sogno di Dante del decimonono canto del Purgatorio, quando egli vide ((insogno unafemina balba, negli occhi guercia e sopra i pie' distorta e con le man monche e di colore scialbh; egli la mirava e poco a poco la femina gli apparì senza difetti e poi bella e cantava come la sirena, «che avvince i marinai)) e che cercò di sedurre Ulisse. iMa l'incanto fu rotto da Lucia, la grazia illuminante. Qui per i nuovi democristiani di sinistra purtroppo - - non c'è una Lucia dantesca. Fanfani o altro leader, che ha come tale la responsabilità di guidare le masse democristiane, deve rendersi conto che non può desiderarsi come bene de1l'Italia quel che porterebbe l'Italia alla rovina. Oggi non c'è nessuna delle premesse per una vera reale effettiva democratizzazione socialista: oggi lo stesso Saragat dice e ripete di essere il suo un socialismo classista, anticapitalista, statalista. Perciò la sinistra d.c. pensa fin da ora (leggere in certe agenzie le note di questi giorni) ad una coalizione post-elettorale di centro, senza i voti delle destre (via!), senza l'intesa con i liberali (via!), con una socialdemocrazia e un gruppo repubblicano rafforzati (anche con l'appoggio della DC) e con i voti di rincalzo del PSI, resosi autonomo, pur mantenendo i soliti legami con i comunisti; i quali ci starebbero come il terzo incomodo. L'infantilismo di questa concezione è pari alla illusione di coloro che tentano alla vigilia delle elezioni un dialogo con Nenni e che tentano una cosiddetta qualificazione del gabinetto Zoli (come se non fosse qualificato di per sé) col voto di Nenni sui patti agrari. Dopo di che avremo il programma elettorale dei ccnovanta della DG). L'assemblea costituente si contentò della commissione dei 75 e sembrò esagerata: la DC è arrivata a superarla con i suoi 90; per una specie di costituzione elettorale del 1958. È da sperare frattanto che non si ritorni più a un dialogo Fanfani-Nenni e neppure alla qualificazione nenniana del governo Zoli.

Il Giornale d b l i a , 30 luglio 1957

Punto e da capo Finalmente anche i deputati sono in vacanza. La fatica di Nenni (e non solo di lui) per arrivare a trattare la giusta causa permanente in piena canicola, e con i voti di sorpresa come quello sull'emendamento Miceli, è stata sprecata; il voto dei capi gruppo per un rinvio a settembre, la cui unanimità fu constatata e riaffermata dal Presidente Leone, ha tolto alla decisione ogni significato politico. Un mese di riflessione, di evasione, di riposo fa bene alla politica come alla vita familiare. Non ho potuto capire il perché della decisione del Presidente Zoli, a volere trattare in agosto la legge sui patti agrari. Puntiglio? no; un Presidente del Consiglio non opera mai per puntiglio; egli ha detto che desiderava finirla, prima delle elezioni, con un così pesante disegno di legge, che dal 1951 si trascina in Parlamento senza mai trovare una soluzione adeguata. Ma il mese di agosto non è stato mai propizio in Parlamento; per giunta, l'emendamento Miceli, che ha falsato il sistema della legge, ne ha reso impossibile l'approvazione immediata. Rinvio a dopo i bilanci, cioè a ottobre; non basteranno due mesi alla Ca-


mera per discutere 66 articoli e centinaia di emendamenti; e arriviamo a Natale. Altri due mesi al Senato, e sono pochi, arriveremo a marzo; e forse più in là. I1 decreto per le elezioni a fine maggio farà il punto a qualsiasi discussione. Capiterà alla legge sui patti agrari quel che capirò alla legge elettorale del 1953: imposizioni al Senato per fare presto; evitare emendamenti che farebbero ritornare il disegno di legge alla Camera; malumore nel Parlamento e peggio nel Paese, perché la legge (e questo è il punto del quale tutti dovrebbero rendersi conto) non soddisfa nessuno. Per una vigilia elettorale sarebbe proprio il colmo dell'imprevidenza portare nel Paese una questione come risolta, quando psicologicamente e parlamentarmente non potrà essere risolta.

Come si farà a levare il morto? Proprio di un morto si tratta, che non può stare in casa, né c'è modo di portarlo al cimitero senza che nessuno se ne accorga. Nacque malaticcio nel 1951 il povero disegno di legge sui patti agrari e non arrivò a maturare; la fine della prima legislatura lo lasciò lì, mezzo deformato. La seconda legislatura lo ha trascinato fino al termine con tante operazioni chirurgiche e aggiunte ortopediche, da non reggersi più in piedi. Intanto nella nostra vita economico-sociale sono accaduti vari fatti di notevole portata che hanno spostato gli elementi basilari del progetto. Anzitutto lo spopolamento della montagna agricola e l'abbandono di zone poco produttive da parte dei lavoratori della terra; la produzione granaria superiore al fabbisogno nazionale; lo sviluppo della piccola proprietà contadina; l'attuazione della riforma agraria per la legge «stralcio»; le grandi bonifiche del Mezzogiorno e delle isole; la prossima attuazione del Mercato comune dell'Europa occidentale, che orienta l'agricoltura dei Paesi interessati su livello internazionale, facendo affrettare il risveglio (più o meno iniziato) delle zone arretrate. In questo quadro a che cosa serviranno i patti agrari ideati dai nostri legislatori dieci e più anni fa in un clima semi-rivoluzionario? Si badi bene che la piccola e media proprietà in Italia è assai più diffusa di quel che non si creda. Vi sono famiglie artigiane, e più ancora del ceto medio, che integrano i pochi cespiti o salari e gli stipendi dalle quaranta alle sessantamila lire al mese con un poderetto ereditato dal padre o dal nonno, e tenuto come caro retaggio di famiglia. Costoro non avranno i favori di legge dati ai coltivatori diretti; avranno tutti i pesi fiscali che assorbono buona parte del reddito, e per giunta le questioni e i litigi con mezzadri, coloni, fittavoli. Ma sono gli stessi lavoratori della terra che soffrono oggi e soffriranno ancora di più domani dell'impossibilità di cambiare podere al momento opportuno, perche non ve ne saranno disponibili prima delle scadenze definitive che l'articolo 10 fissa per l'affitto a 18 anni, per la mezzadria a 15, per la colonia a 12, i cosiddetti cicli produttivi. Sul merito della legge non sarà mai possibile un'intesa, anche perché i costumi e gli interessi del nord, del centro e del sud non sono gli stessi; varie le colture e le rese, diverse le prospettive del progresso tecnico applicato alle singole zone; non assimilabili le tendenze del contadino di una regione con quelle di un'altra. Ecco perché il costituente all'articolo 44 prescrisse che i vincoli, gli obblighi e i limiti per la proprietà terriera vanno valutati per «regioni e zone agrarie». Si noti bene che qui non si parla di regioni amministrative ma di regioni agrarie; e si prevedono per ciascuna regione vari provvedimenti dove esistono zone agrarie non assimilabili. La Lombardia va dalla pianura padana e dalla collina della Brianza alle prealpi; non si possono imporre in tali zone eguali vincoli alla proprietà terriera. Perché i proponenti del-


le varie leggi sui patti agrari non hanno mai tenuto conto di questa disposizione, e trattano Torino e Trapani, Venezia e Taranto alla stessa stregua?

Ora siamo ad una svolta decisiva. Mancando il tempo legislativo per l'approvazione dell'attuale disegno di legge, né potendo impedire al Senato l'introduzione di propri emendamenti, non ostante le pressioni che ~otrebberoesercitarsi, specialmente dopo il regalo fatto con l'emendamento Miceli, occorre vedere come poter superare le difficoltà e i puntigli dei gruppi politici e gli impegni governativi presi con troppo ottimismo. Non è consigliabile una politica negativa, quella del rimando puro e semplice della queè di per sé il frutto di un passato stione alla nuova legislatura, sia ~ e r c h él'attuale -progetto che non torna; sia per gli elettori, che debbono sapere come e quando sarà messo fine al vigente blocco dei fitti e quale sarà la sorte della -proprietà terriera in Italia, specialmente della piccola e della media. Ognuno deve portare il suo contributo ed io ho la mia proposta per la soluzione del problema. I1 nuovo Governo formuli e sottoponga - al Parlamento dentro il 1958 un disegno di legge-quadro o normativo, che contenga le disposizioni sui nuovi patti agrari da introdursi nel codice civile e le altre riguardanti il passaggio dall'attuale blocco al nuovo regime, lasciando alle Regioni esistenti e ad organi provvisori per le regioni non ancora costituite le norme specifiche per le cosiddette ((regionie zone agrario del proprio territorio, ai sensi degli articoli 44 e 117 della Costituzione. Dall'altro lato, spetterà agli organi sindacali curare tutte le vertenze fra lavoratori e datori di lavoro che potranno sorgere sia in applicazione di tali leggi sia per i miglioramenti che saranno reclamati neli'ambito dello sviluppo economico-sociale del paese. Questo piano dovrebbe essere studiato prima delle elezioni, se possibile, d'accordo fra i partiti democratici. Forse i liberali che odiano la regione per partito preso non vorranno leggi-quadro ma una semplice legge statale. In tal caso subiranno gli effetti di un ricorso alla Corte costituzionale e faranno perdere dell'altro tempo al Paese e al Parlamento. È sperabile però che i sindacati dei lavoratori si facciano promotori di un'iniziativa che rivendichi il proprio diritto, cosa più volte già accennata dall'on. Pastore. Mi permetto di rivolgere un appello a tutti, perfino alle sinistre, per esaminare con obiettività .tale soluzione che mi sembra equa per le parti interessate, facilmente attuabile e degna di un paese libero. Non nego che potranno sorgere degli altri inconvenienti (non c'è soluzione pratica che ne sia esente); non per nulla saranno vigili governo, parlamento, partiti, per agire tempestivamente, ciascuno nel proprio campo, allo scopo di portare l'agricoltura alla maggiore produttività possibile, dare al lavoratore il più adeguato assetto economico e ridare alle campagne tranquillità e pace. Se ci sono proposte migliori non sarò io ad avversarle; ma il rispetto della Costituzione e l'intervento del sindacato sono necessari presupposti per uscire dall'attuale vicolo cieco, fare appello con franchezza e obiettività al corpo elettorale e affrontare subito la soluzione del complesso problema agrario, senza puntigli di partito e senza risentimenti per un passato che è già, bene o male, oltrepassato da un pezzo. Il Giornale d 'ltalia, 8 agosto 1957


Passeggiata di mezz'agosto" Niente aeroplani, automobili, treni ed altri mezzi pericolosi di locomozione; la passeggiata è fra i miei libri. Essendo obbligato dal lavoro quotidiano a leggere giornali e lettere di corrispondenza, la passeggiata festiva è per me confortante, e anche riposante per i miei occhi, se la luce del giorno è chiara. Avendo per le mani da tempo gli Scritti e Discorsi di Pasquale Jannaccone, h c voluto finirli; il seguente periodo interesserà non pochi lettori: <<L'azione e le dottrine sowersive traggono appunto profitto dai vuoti che esse lasciano e li fomentano per renderli irrimediabili. Invocano anch'esse una «giustizia sociale», con la quale però intendono il violento capovolgimento dell'ordine esistente, senza riguardo agii immeritati dolori che a molti arrecherebbe; e promettono anch'esse un ordine nuovo, il quale sovrapponendo un piccolo numero di forti e di privilegiati da una vasta massa di uguali nella debolezza e nella miseria, sarebbe così poco «giusto» e quindi così poco stabile di per sé, che il mantenerlo richiede la brutale compressione d'ogni libertà individuale)). Di recente mi è stato regalato: The Political Thought ofJ. H. Newman. I1 gran cardinale inglese è sempre suggestivo; il suo pessimismo agosriniano in materia politica è temperato dalla concezione inglese delle libertà costituzionali, pur riconoscendo che ogni popolo ha propria storia, tradizione, modo di vivere. Egli non può non annotare tutte le deficienze morali della politica dal punto di vista della coscienza fatta di tradizioni religiose, civili, domestiche; di antica sapienza e di vissute esperienze; di spirito di continuità e di conquista. Purtroppo, il mondo è impregnato di male; lo Stato, qualsiasi Stato, ne risente sì da avere permanente ed equilibrato bisogno di due appoggi: la libertà e il potere esecutivo; senza la prima non ci può essere civiltà; senza il secondo manca l'ordine e la stabilità. Purtroppo la libertà diviene anche licenza e il potere tirannia. Mi fermo; licenza e tirannia non sono idee riposanti. Fra i libri nuovi, messi lì da le4gere al momento buono, uno attira tutta la mia attenzione; poco a poco mi lascio assorbire dai documenti che non conoscevo e li confronto con il testo autentico dell'Enciclica di Leone XIII sulla questione operaia.

"

Lettera del 22 agosto 1957 a rnons. don Giuseppe De Luca: Carissimo don Giuseppe, T i marido ui acchiuso il mio articolo «Passeggiata di maz'agoston pubblicato dal Giornale d'Italia (il vocabolo ~ a r u b o knon è nel testo) e fin oggi da L'Italia (Milano). L'Avvenire d'Italia (Bologna), Giornale di Brescia, il Nuovo Cittadino (Genova). I corrispondenti della sala srampa credettero (non mi conoscono) ad un mio intervento sull'intervista di Lacco Ameno. Ne sono rimasti delusi; ed hanno scritto che l'articolo è staro diretto contro Fanfani; in questo senso V. Gorresio ha tirato due m a z e colonne sulla Stampa. E dire che io, quando tirai su l'articolo non avevo letto l'intervista di Lacco Ameno n6 il discorso di Sella Valsugana. L'avevo pensato così per «contrabbandare. in un articolo di fondo certe notizie che interessavano me e forse non avrebbero interessato il nostro giornalismo politico. T u l'avrai capito e mi avrai perdonato il poco che ho dar0 ai libro, al compilatore, al prefazionista e all'editore. Ma C'& tutro quel che potevo metterci, compreso un po' di cuore. Penso a te, prego per ce; son sicuro che Dio ti è vicino e questo è turto. aff. m o Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 507, fasc. «Art. e 1. del I'rof. L. S.r, luglio-agosto 1957.


Purtroppo, a metà lettura non ,mi riesce di sottrarmi alla politica, e annoto a pagina

229 la denuncia che fa Leone XIII di società operaie «rette da capi occulti con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico, i quali col monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi seco, a pagar caro il rifiuto». È di ieri la dichiarazione della Federazione italiana operai marinai di distaccarsi dalla confederazione socialcomunista, per riacquistare la propria autonomia e non piegare a piani politici estranei il sindacato. Leone X I I insistendo sulla libertà di associazione come diritto naturale inalienabile, esclude che tale diritto possa essere usato contro gli interessi della società dei quali lo Stato è garante e tutore; oggi, i sindacati operai non solo non hanno bisogno della difesa di Leone per il loro diritto, sancito dalla Costituzione, ma si adergono contro lo Stato come un potere antagonista. Alle amplificazioni non c'è limite: in piena assemblea delle ACLI, tenuta a Vallombrosa a fine luglio (il caldo dà alla testa), un oratore affermava: «Lo Stato siamo noi /rrvoratori nel momento in cui ci organizziamo)).Fra i noi c'è proprio l'oratore, non lavoratore organizzato, {intende, sì bene assistente universitario di diritto del lavoro. (Avvenire d'Italia, 30 luglio). Leone non parlò di sindacati - allora il vocabolo non era in voga -; fece richiamo alle già soppresse corporazioni di arte e mestiere la cui ricostituzione fu in Europa per lungo tempo vietata per legge; soggiungendo che le società operaie debbono essere adeguate ai tempi e ai bisogni presenti. L'accenno a società miste di datori di lavoro e di lavoratori, non è solo un ricordo del passato, e il Papa, pur lasciandone libera la scelta, auspica l'intesa fra capitale e lavoro nell'adempimento del reciproco dovere. Esorta pertanto i cattolici a promuovere associazioni di lavoratori ispirate ai principi cristiani (era un Papa che parlavi), senza escludere la partecipazione dei cattolici in società di peculiare interesse, purché non abbiano fini antitetici alla religione. L'accenno di Leone XIII alle corporazioni di arte e mestiere (e non era il primo), diede coraggio ai corporativisti cattolici che auspicarono un ristabilimento di tale istituto come mezzo idoneo a risolvere la questione operaia. Ma gli entusiasmi caddero di fronte alla realtà. Dopo un quarantennio, la parola corporazione servì a Mussolini per attirare al suo sistema non pochi cattolici, italiani e stranieri, senza avvertire che nelle corporazioni fasciste mancava la libertà sindacale delle due parti, mentre l'economia privata veniva messa nelle mani del partito unico e sotto il controllo dello Stato autarchico. Certamente, lo Stato di Leone XIII non è lo Stato di Mussolini, né quello dei socialisti, né quello dell'oratore delle ACLI. Non lo Stato liberale, socialista (e forse neppure quello democristiano) ma lo Stato ideale tipico, quello che rappresenta l'autorità, quello dell'epistola di San Pietro dove i governatori mandati dal re (capo dello Stato) fanno vendetta dei malfdttori ed onorano i buoni. I1 diritto di proprietà che Leone XIII difende apertamente e strenuamente non è diverso da quello esposto dai suoi successori; egli sottolinea chiaramente la funzione sociale della proprietà, insiste sul salario sufficiente ai bisogni familiari, ammettendo in materia un intervento moderatore dello Stato, tale da rispettare i diritti degli individui e delle famiglie, anteriori ai diritti dello Stato.

A questo punto mi vengono in mente gli strappi fatti nella nostra legislazione al diritto naturale; ma mi limito a riportare un passo di LeoneXII sul socialismo di Stato, al qua-


le si avviano i nostri statalisti e dirigisti di vario colore: «A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l'odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l'uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, non che risolvere la contesa non fa che danneggiare gli stessi operai; ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato, e scompiglia tutto l'ordine sociale.. . Ed oltre l'ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbero in tutti gli ordini della cittadinanza, che duro e odioso servaggio dei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle ricriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, tolto all'ingegno e all'industria individuale ogni stimolo, inaridirebbero: e la sognata uguaglianza non altro sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria)). Ne ho abbastanza con queste escursioni fuori programma: ho bisogno di aria riposata; meglio occuparmi della parte editoriale e filologica della superba pubblicazione. Ne è stato compilatore attento e minuzioso mons. Giovanni Antonazzi (al quale debbo otto anni addietro la pubblicazione della mia Sociologia del Soprannaturak); ne ha fatto la prefazione mons. Domenico Tardini (tanto nomini.. .); ne è stato editore in una veste sotto tutti gli aspetti eccellente e degna del soggetto, don Giuseppe De Luca, noto da anni in Italia e all'estero per valore scientifico, scelta di testi, completezza bibliografica, ampiezza e gusto culturale. Le redazioni preparatorie dell'Enciclica, una del padre Liberatore, gesuita, l'altra del card. Zigliara, domenicano, e le modifiche concordare nelle varianti successive e il testo latino di mons. Volpini, danno piena luce alle laboriose vicende del documento pontificio. Questo tradotto in italiano da resto latino, lasciò per strada parecchio delle prime stesure, guadagnandovi in precisione e sobrietà. La filologia mi ha cacciato via il malumore del presente, facendomi godere di un passato (avevo quasi vent'anni quando venne pubblicata l'Enciclica leoniana del 15 maggio 189 1) pieno di speranze; speranze che furono troncate dalle due guerre mondiali e sono riapparse, dopo la caotica ripresa in mezzo a foschie intellettuali e morali del dopoguerra, nella parola chiarificatrice di Pio XII.

Il Giornale ditalia, 2 1 agosto 1957

Il messaggio di Sturzo per il riarmo moraleI2 La società si riarma per fare fronte ad un pericolo; quale è oggi il pericolo sociale da fronteggiare, contro il quale si sente la necessità di un riarmo morale?

lZ

Il messaggio h pubblicato con le seguenti noce redazionali: New York, 21 - A Mackinac Island, nel Michigan, si tiene in questi giorni l'Assemblea delle Nazioni per il riarmo morale alla quale parrecipano ministri deputati senacori e ra presentanti qualificati di ben 49 nazioni. Nella seduca di ieri il presidente dell'assemblea, Frank N . D. Buc man, fra la più viva acterizione dei presenti ha lecco il messaggio inviacogli da don Luigi Srutzo. Il presidente Buchman invib a Srurzo il seguence telegramma: «Profondamentecommosso dal Vosrro mes-

R


Coloro che vogliono difendere l'umanità dai pericoli della rivoluzione, dei conflitti armati, delle guerre distruttrici cercano un punto di convergenza di tutte le forze, e questo proprio il significato del Riarmo morale. Quando nel 1928 ~ubblicaiin Gran Bretagna e negli Stati Uniti d'America il mio libro La Comunità Internazionale e il diritto d i guerra, facendo seguito ad una polemica da me sostenuta in Francia sulla possibilità dell'abolizione del diritto di guerra, mi si oppose che io sognando un avvenire pacifico toglievo alla società un diritto fondamentale. Ed io a replicare che come divennero operanti, nei paesi civili, l'abolizione della schiavitù, della servitù della gleba, della poligamia, della faida o giustizia di clan familiare; così dovrà divenire operante l'abolizione della guerra, come diritto fondamentale di ogni singolo Stato. Per arrivare a questo punto ci vuole del tempo, certamente; ma, ci vuole la convinzione che la abolizione del diritto di guerra sia possibile e sia, quindi, un dovere umano, civile, religioso. questo il primo passo del riarmo morale: la convinzione. Quando una cattiva azione può dirsi tollerata; mettiamo la frode nella vendita della merce o la vendita di arnesi non permessi (le chiavi false o i grimaldelli) e le autorità mancano di energia e il pubblico non reagisce, è allora che s'inizia un'agitazione da parte di coloro che se ne sentono offesi; con che mezzo? con quello che oggi si dice riarmo morale. Riportando il riarmo morale sul piano delle grandi rivendicazioni, come fu quella dell'abolizione della schiavitù e della servitù della gleba, si porta la società verso livelli morali più alti per ottenere rivendicazioni di grande portata civile. Oggi siamo convinti che contro il comunismo sowertitore, contro il pericolo di una guerra distruttrice, contro I'asservimento di popoli dove ancora esiste la schiavitù, o dove non sono abolite discriminazioni di razze, occorre la convinzione generale di un riarmo morale fortemente sentito per portare i popoli verso una soluzione pacifica e duratura. Se il primo passo è quello della convinzione occorre fare il secondo; trovare la base per renderla generale. Questa è data dal principio della libertà dell'uomo che è la condizione necessaria alla sua perfettibilità. La libertà è facoltà interiore dell'uomo prima che sociale; ma è anche sociale, senza la quale è impossibile qualsiasi sviluppo e progresso. La educazione e la conquista della libertà si fa con l'uso stesso della libertà. Un bambino non apprende a camminare senza camminare; né apprende a parlare senza parlare; nessuno saprà mai nuotare se non scende nell'acqua e vi si esercita; così è tutta la vita. Quando si afferma non essere un popolo maturo per la libertà, perché si esclude la possibilità dell'uso della libertà con l'educazione e con l'esercizio; sia pure una libertà conquistata gradualmente, una libertà riaffermata con vigile disciplina; ogni libertà, per essere [ale, deve poter essere compresa, conquistata e difesa come libertà. Ancora un altro passo, il terzo; se domandiamo la libertà per i popoli, lo facciamo perché siamo convinti della verità che tutti gli uomini sono uguali nei diritti e nei doveri reciproci, e tutti degni di affratellamento e tutti chiamati al reciproco amore e al reciproco aiuto. È questo il punto centrale per arrivare al vero Riarmo Morale: la solidarietà umana e l'amore reciproco.

saggio che è sraro ricwuro con entusiastici applausi dai cartolici di quarantanove Nazioni e da me stesso nella Assemblea generale per il riarmo morale, io ringrazio Voi sinceramenre per le Vosrre parole di incoraggiamenro e di consenso*. La delegazione italiana inviò a Snirzo il seguente telegramma: «Ministri deputati rappresenranri di quaranranove Nazioni hanno applaudir0 in piedi Suo messaggio condividono Sue idee. Onorevoli: Pacari, Colir[o, Belotti, D'Ambrosio)).


È riarmo perchd è la chiamata alla difesa e alla conquista; questa è fatta realmente sul piano morale. Morale, dal latino mos, vuol dire costume nel senso di comune regola delle buone relazioni unlane e che si tramandano di generazione in generazione e formano il modo di vivere in società. Questa vita in società importa limitazioni reciproche e aiuto reciproco, espressi nelle due celebri formule: «Non fare ad altri quel che non vorresti che sia fatto a te stesso));e «Fare agli altri quel che vorresti che a te altri faccia». In sostanza: nonfare il male efare il bene. La libertà del male non esiste; chi fa il male che la società proibisce, ne porta la pena; chi fa il male che la società non può punire, è condannato dal rimorso della propria coscienza, dal rimprovero della famiglia, dalla riprovazione della società. È la morale che ci impedisce di fare il male. Non basta non fare il rnale; bisogna fare del bene agli altri, quel bene che noi, se fossimo nelle condizioni di quelli che soffrono, vorremmo che fosse fatto a rioi stessi. Bene spirituale, bene educativo, bene culturale, bene civile, bene politico, bene materiale, di soccorso, di beneficenza, mutualità, credito, riabilitazione. Così arriviamo al vero riarmo morale; evitando il male e facendo il bene, fino alla più grande delle azioni umane e civili, quella di portare tutta la umanità all'amore universale e di abolire i pericoli di guerra, le tristi conseguenze delle dittature, I'asservimento di popoli o p ressi, l'avvilimento di classi reputate inferiori, indesiderabili, intoccabili. nostro dovere combattere in noi stessi le passioni che causano gli odi, le lotte, gli egoismi, le violenze, i delitti; e combattere soprattutto la superbia che è la radice di tutte le immoralità. Sia il Riarmo Morale Internazionale il trionfo dell'Amore, quell'Amore che Gesù annunziò come fuoco portato dal cielo, che deve accendere tutti i cuori degli uomini. Il Giornale d'ltdlia, 22 agosto 1957

Lo Stato e il lavoratore" Un amico mi fa notare che una frase staccata può essere fraintesa. E vero; riproduco il periodo virgolettato dallo stesso Avvenire ditalia dove si trova la frase messa anche a titolo della corrispondenza del 29 luglio da Vallombrosa: «Lo Stato siamo noi (lavoratori) nel momento in cui ci organizziamo. Dobbiamo assumere l'iniziativa, ossia sentirci Costituente in fase evolutiva. Più che mai dobbiamo sottolineare la ricerca delle nostre responsabilità, più che le altrui, per vedere di risolvere noi stessi le difficoltà del movimento operaio che direttamente e positivamente possiamo affrontare)).

l3

Lettera del 23 agosto 1957 all'hsisrenre Centrale delle ACLI, don Santo Quadri: Rev. m o don Quadri, La ringrazio della sua gentile lertera del 21 correnre, arrivatami stamane; ma debbo dirle sinceramente che la sua smentita epistolare non è soddisfacente. Il primo interessato è il prof. Benedetto De Cesaris, il ua le avrebbe dovuto rilevare subito le inesattezze del resoconrista de Lilvvenire dirnlia, dove si trova l'altra $M; che siegue quella citata da me, «dobbiamo assumere l'iniziativa cioè senrirci Costitwnte in fase evolutiva*. Le frasi sono fra virgolette. Si ha dirirro a dubirare dell'esattezza del resoconrista?Io penso che questi le avrà trarre da qualche riassunto dell'oratore owero le avrà avute dall'oratore stesso.


Lascio i commenti al lettore sul contenuto giuridico e politico del periodo; rilevo che il vocabolo lavoratore è usato ad indicare la classe lavoratrice manuale: operai e contadini, dei quali sono formate le ACLI. Sono o no lavoratori i pensionati e i piccoli e medi risparmiatori che vivono del lavoro fatto? e gli altri, insegnanti, professionisti, burocrati, imprenditori, giornalisti, scrittori che vivono del lavoro di ogni giorno? Credo di sì; e così anche gli amministratori di enti pubblici e privati. Chi può negare che frati e suore, preti, parroci, canonici vivono di lavoro, spesso mal rimunerato? Le autorità civili, politiche, religiose non stanno senza far nulla; e anche gli uomini politici, per quanto il loro mestiere sia quello di parlare più che di agire. Chi saranno in Italia gli esclusi dal lavoro? gli azionisti di società economiche? i titolari (anonimi questi) dei titoli di Stato? gli agricoltori, gli industriali, i commercianti? Ci saranno i figli di papà, dei papà ricchi, che passano i primi anni di gioventù con pochi studi e molti divertimenti e i fortunati del lotto, del totocalcio; non dico del ((lasciao raddoppia)),per il quale c'è chi lavora da anni. Meno pochissimi in Italia siamo tutti lavoratori. La frase dell'articolo primo della Costituzione: ((L'Italiaè una Repubblica democratica fondata sul lavoro» non indica altro che tutti debbono lavorare; nessun fannullone, nessun profittatore dovrebbe essere tollerato; la qual cosa impone una politica non solo adatta a far superare la disoccupazione e la sottoccupazione che sono a base di un'economia insufficiente, ma tale da levar la voglia a quelli che non reimpiegano i risparmi e li trafugano all'estero. Posto questo cardine, l'affare dei lavoratori organizzati quale costituente in& euolutiva è cosa che non quadra col tipo di popolazione esistente in Italia, e neppure col tipo di repubblica che è stata creata, né col tipo di sistema sindacale operaio previsto dalla Costituzione. Se i professori e i deputati che parlano a nome di operai cattolici, vogliono modificare la Costituzione, non hanno che da seguire la strada legale: formare un'opinione pubblica sul punto o sui punti da modificare; far portare le proposte in Parlamento e farle approvare nelle forme prescritte dall'art. 138 della stessa Costituzione, compreso quel Referendum, per l'esercizio del quale tuttora, dopo dieci anni, manca la legge.

I resoconti ufficiali sono spesso ritoccati per evirare motivi di critica; i giornali servono a darci i momenti realistici della discussione. Chi del resto legge i resoconti ufficiali delle associazioni anche le iù importanti? E come si fa a procurarsi gli organi di tanti enti? Perciò ci sono i quotidiani, che sono quelli C e formano I'opinione pubblica. Sta alle persone responsabili iniziare le rettifiche sui giornali, quali L Avvenireditalia, prima di esigere una rettifica da me che fo la polemica politica e non I'esegesi filologica. se lei desidera che io faccia cenno della sua lettera, farò anche cenPerciò sto tornando s~ll'ar~ornento; no alla mia risposta. Io amo le ACLI; trovo che sono un'associazione utilissima anzi indispensabile; ne temo le deviazioni politiche per il fatto che a capo vi sono deputati e non operai effettivi. I depurati pensano troppo alla loro rielezione e alla elezione dei loro amici di consorteria e di tendenza, come oggi si dice. Inoltre i professori scelti per le ACLI sono troppo teorici e troppo orientati ad un sininrismo e ad un socialismo di Stato incompatibili con la professione cristiana. Fare la concorrenza a socialisti e comunisti a nome dei principi cristiani è un errore, quando non è una colpa. So bene che gli assistenti ecclesiastici delle ACLI cercano fare del loro meglio; ma la politica della parrirocrazia e il sindacalismo neutro fanno da contrappeso. Scusi il mio franco parlare. La tego di accertare i miei opuscoletti che le fo renere; il mio pensiero e le mie preoccupazioni sono chiare in queEe pagine. Io reputo che questo mio ingrato e amareggiante dovere è il dovere di chi a 86 anni fa un testamento. Mi è gradita l'occasione per esternarle i miei sensi di profonda stima e cordiale deferenza. Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 507, fasc. .Art. e 1. del Prof. L. S.», luglio-agosto 1957.

R


Ogni pretesa da parte operaia, come da parte di qualsiasi altra categoria, di volere essere lo Stato al momento della loro organizzazione (a parte ogni amplificazione retorica) sarebbe rivoluzionaria. Che bel concerto in Italia se classi, categorie, partiti e gruppi si sentissero contemporaneamente quale «costituente in fase evolutiva));si porterebbe nel Paese il delirium tremens, non la stabilità che è necessaria anche per le riforme.

Ma che cosa è mai lo Stato, del quale si parla come d'una specie di divinità? «Stato» nel significato di organizzazione di una determinata popolazione, autonoma e indipendente, fu usato in Francia quando si vollero distinguere le finanze della Nazione da quelle della Casa regnante; le prime pubbliche e le seconde personali e private. Non fu cosa facile. I1 termine Stato servì anche ad altri due usi; quello di fissare le relazioni internazionali fra due o più entità territoriali, che non dovevano essere più riguardate come appannaggio di case regnanti ma due popolazioni organizzate politicamente. Fu usato anche per distinguere due potestà supreme operanti in materie diverse nello stesso territorio: Stato e Chiesa. Fuori di questi usi, che sono rimasti quasi inalterati nei paesi anglosassoni, la parola Stato non ebbe altro significato. Vennero filosofi e giuristi tedeschi e francesi e poi altri studiosi a volere idealizzare lo Stato, specialmente dopo la caduta della teoria dei re di diritto divino e dopo le lotte di giurisdizione con la Chiesa. Furono prospettate le teorie dello Stato, fonte, e unica fonte, di diritto; lo Stato realizzazione suprema della Idea; lo Stato etico; lo Stato panteista, la cui ultima formula fu data da Mussolini: «Niente fuori e sopra dello Stato; niente contro lo Stato; tutto nello Stato e per lo Stato)).Ma lo Stato, nella sua essenza, non è che la forma politica della società civile; Res Publica come la chiamavano i romani: Administration, come la chiamano gli anglosassoni; cioè potere e amministrazione pel bene comune.

Gli oratori politici di sinistra parlano di inserimento delpopolo nello Stato; il significato di queste parole criptiche dovrebbe essere la partecipazione delle masse al potere e all'amministrazione della Cosa Pubblica. Ebbene, come elettori vi partecipiamo tutti; operai e contadini numericamente più degli altri. Se vi son pochi operai e pochi contadini nei consigli degli enti locali (comuni, provincie e regioni) e anche meno nella Camera e nel Senato, potrebbe dirsi che sia colpa loro e dei sindacati e dei partiti dove essi sono iscritti; ma è veramente colpa? Quando nel 1899 formai la mia prima lista di candidati comunali a Caltagirone (città allora di 32 mila abitanti) vi posi un certo numero di nomi di contadini e di operai. Gli elettori ne scelsero uno solo su quattro eletti (un sarto); nel 1902 ne scelsero tre su nove (un sarto, un calzolaio e un contadino), i quali vi rimasero tutti i quindici anni della mia amministrazione; uno fu anche nella giunta municipale. Pochini. Ma quel che accadde nel 1899 in una cittadina di provincia al tempo del suffragio maschile e limitato, accade anche oggi nel Parlamento e in moltissimi enti locali pur col suffragio universale maschik efem-

minile. La politica come interessamento personale e collettivo è di tutti; ma la politica come legislazione, governo e amministrazione è un'arte che si fa, o si dovrebbe fare, da coloro che la conoscono e vi sono preparati. Ci vadano pure contadini ed operai, ma preparati; ci va-


dano professori ma preparati; proprio preparati a saper fare leggi, a conoscere i problemi della collettività, a poter valutare le proposte dei tecnici sul campo della politica. E un'arte che si acquista con l'esercizio, si affina con la tradizione, si impone con la capacità che non è di tutti, e con l'onestà della vita che dovrebbe essere di tutti; e anche con la superiorità di carattere che purtroppo è di pochi. Veri statisti sono rari; fortuna quando in un paese arriva al potere una mente direttiva e un cuore comprensivo. Ci sono i corpi tecnici e speciali, dove la voce dell'impresa e quella del lavoro debbono partecipare allo scopo di trovare i punti pratici di intesa pur fra interessi contrastanti. Noi abbiamo il Consiglio nazionale della Economia e del Lavoro come organo ausiliare agli organi legislativi e amministrativi; speriamo che funzioni presto e che funzioni bene. I sindacati, che agli effetti dei contratti collettivi, avrebbero potuto chiedere la registrazione statale, non si sono mossi; rappresentanze sindacali esistono in quasi tutti i consigli di amministrazione di enti pubblici e semipubblici, sia nominati d'autorità sia designati dalle associazioni stesse. Che costoro facciano gli interessi dell'ente o della classe o di se stessi è un altro paio di maniche; che siano tutti effettivi lavoratori, owero borghesi rifatti e gente arrivata è un altro paio di maniche. L'on. Penazzato nella lezione del 30 luglio a Vallombrosa disse che la questione centrale della democrazia 2 quella delllnserimento organico delle classi lavoratrici nello Stato. Ci dica l'onorevole presidente delle ACLI che significato avrà in questo punto la parola Stato. Significa parlamento? il lavoratore può arrivarci da sé; significa governo? se ne ha la capacità può arrivarci come ci arrivò il tranviere Bevin in Inghilterra per cinque anni ministro degli Affari Esteri, e prima di costui per qualche anno l'ex lavoratore Henderson. Che vi si preparino e ne siano capaci: ecco tutto. Lo stesso per tutti i posti di eleggibilità dal basso o di scelta dall'afto. Ricorda Penazzato che il primo presidente della Repubblica di Weimar fu un sellaio o qualche cosa di simile? Che cosa poi significa quell'inserimento organico?Si tratta di attuare la Costituzione o di farne un'altra? di dare tutto il potere ai lavoratori organizzati? di creare le corporazioni? Nell'attesa di aver chiarito dai professori il significato della parola Stato e quell'altro dell'inserimento, auguro alle ACLI, quale associazione cristiana dei lavoratori italiani, sempre più crescente simparia e fiducia da parte del popolo italiano.

Il Giornale d'ltalia, 28 agosto 1957

«Non est vestrum nosse tempora ...n L'ultima domanda degli apostoli rivolta a Gesù prima di lasciarli per tornare al Padre, fu di interesse nazionale, se fosse venuto il tempo per il ristabilimento del regno di Israele. La risposta è un insegnamento perenne per tutti: «Non appartiene a voi sapere i tempi ed i momenti; il Padre li ha serbati nella sua potestà; ma voi riceverete forza di Spirito Santo in voi e sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria fino agli estremi confini della terra». Gli apostoli erano testimoni de visu, coloro che avevano passato con Gesù il periodo della vita pubblica «dal battesimo di Giovanni fino alla Ascensione),. La testimonianza apostoli-


ca si trasmette a tutti i cristiani che hanno ricevuto la cresima (virtù e forza di Spirito Santo), per rendere testimonianza al Cristo. È perciò detto a tutti: «Non est vestrum nosse tempora ...D. Questo passo, che ha speciale riferimento alla vita collettiva, va collegato con l'altro che riguarda più da vicino la vita personale e familiare di ciascuno. Dopo avere messo in guardia dalla ricerca ansiosa e dall'attaccamento ai beni materiali, simboleggiati nella sete di guadagno: Mammona, Gesù chiude il discorso con la viva esortazione a non essere solleciti dei beni terreni, perché il Padre sa che abbiamo bisogno dei cibi e dei vestiti; e riassumendo la linea di condotta dei suoi seguaci, conchiude col celebre passo: «Quaerite primum regnum Dei et justitiam eius, et haec omnia adicientur vobis)). Cercare prima il regno di Dio e la sua giustizia; dare testimonianza al Cristo sono due precetti che collegano cristianamente la vita privata e la vita pubblica. L'assicurazione che i beni terreni ci saranno dati per giunta e che il Padre tiene nelle sue mani prowidenti i tempi e i momenti della storia umana, proietta la nostra vita terrena nel quadro spirituale del regno di Dio.

I1 punto di coincidenza di ogni azione diretta alla conquista del regno di Dio è l'osservanza dei comandamenti; la conseguente abitazione in noi «del Padre e del Figlio))e «la permanenza dello Spirito Santo in noi» è strettamente collegata con l'osservanza dei precetti. E se il primo precetto è quello dell'amore di Dio e l'altro, simile al primo, l'amore del prossimo, e in questi due si compendiano la Legge e i Profeti, il ((quaeriteprimum regnum Dei et justitiam eius))e I1«estismihi testes))non sono che precisazioni e chiarimenti dell'unico amore. In sostanza, la necessità di cercare con il lavoro i mezzi di sussistenza, e la partecipazione al bene del proprio popolo sono anch'essi doveri se coordinati al regno di Dio e sua giustizia e alla testimonianza del Cristo, in quanto rientrano nell'orbita dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo. Al contrario, ciò che offende il principio del doppio amore non è che disordine. I1 gesuita cappellano presso Filippo I1 di Spagna, che si lagnava col suo generale, S. Ignazio di Loyola, delle non poche né brevi cerimonie di corte alle quali egli era obbligato a partecipare, ebbe per risposta che se non ne sentiva compiacimento e attaccamento, poteva rimanere in quel posto senza pericolo, potendo anche, con la grazia di Dio, arrivare al più completo distacco. Quand'ero giovinetto provavo una certa sorpresa a leggere le storie di militari santi e a rilevare nel Vangelo e negli Atti apostolici non solo la bontà ma la pietà di certi centurioni e capi militari anche di origine pagana. Non vi è professione civile o militare, né condizione sociale, che di per sé impedisca la vita cristiana. Basta cercare per primo il regno di Dio, cioè osservare i comandamenti; anche il centurione che assiste al sacrificio di Gesù sulla croce, dà testimonianza al figlio di Dio. Del centurione Cornelio di Cesarea si legge negli Attiche egli era «pio e timorato di Dio come tutta la sua famiglia; egli faceva molte elemosine ai poveri e molte orazioni a Dio)). Fu costui avvisato da Dio a mandare a rilevare l'apostolo Pietro a Jaffa, dove era ospite di un certo Simone cuoiaio. La partecipazione all'azione apostolica, e quindi alla testimonianza del Cristo, non solo durante la vita pubblica del Maestro con i discepoli e le pie donne, Marra e Maria, Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea, accompagna tutta l'attività degli apostoli; troviamo segnati negli Arti apostolici e nelle Epistole una serie di nomi di veri precursori di azione catrolica, dagli schiavi, artigiani, militari, alle persone di famiglia patrizia e imperiale. L'azione detta oggi sociale, comincia a Gerusalemme, con l'assistenza alle vedove e al-


le famiglie povere dei primi cristiani, si sviluppa nelle forme di comunione di beni in Gerusalemme e in Alessandria; continua nella raccolta di fondi per i cristiani perseguitati dai giudei e nell'uso beneficente di fondi e di beni raccolti per il culto e dati ai poveri durante l'incrudelire delle persecuzioni. È tutta una primizie di esempi di amore del prossimo, che si innesta alla testimonianza della verità evangelica del Cristo, mediante anche il martirio non solo dei capi ma di innumera turba di fedeli.

Mutano i tempi e i costumi; non mutano i caratteri del regno di Dio né il dovere di amore verso Dio e verso il prossimo. Se oggi si parla di doveri civili (purtroppo assai più di diritti che di doveri), non è perché la vita civica sia stata inventata con le celebri rivoluzioni della fine del Settecento, ma perché la forma di regime popolare, non nuova nel mondo, è stata portata alla sua più larga e più organica formazione. In tutte le epoche la vita civile e politica si è svolta secondo i bisogni, gli istinti, le occasioni dei vari popoli, con partecipazione dei cittadini o dei soggetti, principalmente in due settori: il contributo fiscale e la difesa del territorio. I1 governo quasi sempre è stato in mano a case regnanti, a oligarchie di famiglie, a usurpatori militari. I governi popolari o misti di Atene e di Roma avevano il contrappeso degli schiavi e degli iloti. Nel Medio Evo le città libere esprimevano il governo civico e artigiano, mentre il contadino era servo della gleba e il signorotto dominava le campagne, e, cresciuto di potenza, si impadroniva delle città. In tutta la storia politica, sia o no emersa la figura del popolo elettore e della rappresentanza popolare nelle assemblee parlamentari, non è mai mancato il dovere cristiano di concorrere al bene collettivo, secondo le possibilità storiche e giuridiche di tempi e luoghi. Vennero criticati dagli enciclopedisti e dai razionalisti i religiosi che disertavano la società, specie in tempi assai turbolenti, per andare a vivere da soli o insieme ad altri, in monti inaccessibili e in lontani deserti. Non compresero e non comprendono tali critici che il contributo dato da monaci ed eremiti alla società, nel senso più largo e importante della parola, è stato tanto più apprezzabile, quanto il loro appartarsi poteva sembrare una specie di disdegnoso estraneamento. A parte coloro che han dato solo l'esempio di virtù religiose e di rigide austerità, il che, del resto, attirava molti altri alla loro sequela, ed estendeva nelle popolazioni il sentimento della caducità umana e della necessità di vita religiosa; la forza educativa del monacato non fu mai senza valore sociale. Si deve ai monaci la diffusione dell'enfiteusi e di notevoli progressi nella coltivazione delle terre abbandonate; la istituzione di scuole ed ospedali, e furono questi i più grandi benefici che in epoche ferree, potevano rendere alla società. I centri di cultura, la conservazione di manoscritti presso i vari ordini religiosi, crearono la grande epoca dei teologi e di filosofi medievali e la prima rinascita umanistica.

T1 dovere civico nelle moderne democrazie ha preso un aspetto più esteso e più intenso; ma dal punto di vista cristiano non può dirsi che sia sostanzialmente diverso da quello che deriva dalla nostra concezione etico-religiosa; è lo stesso in radice ed è attuato nelle forme più rispondenti alla struttura politica della società; solo la casuistica, cioè il campo della prassi morale è più esteso, più caratrerizzato, più specifico che non fosse stato in altri ternpi e in altri paesi.


I1 diritto attivo del voto per le elezioni alle cariche pubbliche è stato dichiarato universale ed esteso, quasi da per tutto, anche alle donne. È evidente che la responsabilità etica dell'esercizio di tale diritto è la stessa di quella che fosse nel medioevo nelle città libere dove esisteva sia per le corporazioni, sia per i seggi municipali o per i parlamenti, da parte di coloro che ne avevano diritto. Non mancare senza adeguato motivo all'esercizio di tale diritto che, verso la comunità si trasforma in dovere; scegliere persone adatte, tendere ad avere amministrazione onesta e curante del bene pubblico; evitare la faziosità, la corruzione; tutto allora come oggi. Che dire se un prete del nostro secolo si portasse come un simoniaco del secolo MI accettando una somma per votare (o per far votare) il nome di un candidato, specie se inidoneo, scorretto, disonesto, irreligioso? Non dico un prete, ma qualsiasi cittadino che manca al dovere di coscienza della buona scelta è colpevole; se fa ciò per compenso è doppiamente colpevole, anzi due sono colpevoli: chi dà e chi riceve; per giunta la rappresentanza civica o nazionale sarà in fondo una rappresentanza corrompitrice o corruttibile. Perché non fare una lega contro l'uso del denaro a scopo di corruzione elettorale? Ricordo che la mia prima condidatura a consigliere comunale nel 1899 sotto la bandiera della Democrazia Cristiana fu posta agli artigiani e operai elettori del mio comune contro il metodo usato dai due partiti in conflitto che da tempo si alternavano al comune. a11 non vi darò nessun compenso per il voto, né vi prometto alcun che di personale, tranne che una buona amministrazione quando avrò conquistata la maggioranza. Chi mi vuole, mi dia il voto; chi non mi vuole, vota per gli altri». Da allora quasi tutti gli artigiani e molti fra i contadini mi restarono fedeli sia per il quinquennio della lotta fatta dai banchi dell'opposizione, sia per il quindicennio dell'amministrazione di maggioranza. I1 19 19 lasciai Caltagirone per fondare il partito popolare: la stessa formula mi servì per la nuova fatica. Cito l'esperienza personale per provare con i fatti essere possibile vincere le battaglie sia contro la corruzione elettorale sia contro la corruzione amministrativa e politica. Che cosa vi è di più difficile nella vita pubblica che il non abusare del potere, cioè amministrare con giustizia? I1 concetto di giustizia, basilare nella vita privata e nella vita pubblica, è tutelato da leggi. Purtroppo, è assai difficile mantenersi entro i limiti della giustizia nel rispetto dei diritti altrui e nell'osservanza dei propri doveri. La vita politica attiva è in mano a pochi; la vita politica di controllo, di iniziativa, di opinione, di partecipazione morale è dei molti, oggi si può dire di tutti, se la totalità dei cittadini sentisse intimamente l'obbligo di una partecipazione effettiva e cosciente alla politica del proprio paese. È spiacevole rilevare che in tutti i paesi, anche dove il cristianesimo ha profonde radici e pratica generalizzata, lo spirito di parte, la passionalità dei partiti, l'influsso della lotta di classe d'ispirazione e di pratica marxista e, più ancora, le beghe personali, gli attriti locali di famiglie, di categorie, di campanile alterino la vita politica in tutti i suoi aspetti. Non è solo la lotta elettorale impregnata di passioni; ne è anche la vita pubblica con le gelosie personali, che arrivano a coinvolgere i molti nel vortice passionale, creando un dedalo di intrighi per conquistare un centro o per scalzare la base ad awersari e a concorrenti. C'è chi passa da una legislatura all'altra, da una scadenza all'altra, non pensando che alla lotta elettorale come l'affare principale, l'unico, dimenticando famiglia, professione, pratica religiosa, doveri della propria carica; ingolfandosi nella più difficile e tormentata esistenza che si possa immaginate. A questo stato si è arrivati anche per le larghe rimunerazioni e i vantaggi accordati al posto ambìto di deputato e di senatore; remunerazioni e vantaggi estesi anche alle cariche


amministrative locali perfino dei comuni, non che degli enti pubblici di ogni sorta. Si va creando una nuova classe di politicanti-amministratori o di amministratori-politicanti, che estendono l'abuso della corruzione nell'ambito della gestione del pubblico denaro.

Molti dicono di difendere la patria, la moralità, lo Stato, e perfino la Chiesa e la fede. Non è così che si cerca il regno di Dio e la sua giustizia; non è così che si rende testimonianza a l Cristo; ma con l'osservare i comandamenti e prima di tutto il comandamento della giustizia e dell'onestà che sono alla base dell'amore del prossimo. Quando nel Medio Evo le città e i comuni erano divisi in fazioni armate, fra i molti santi, sorse frate Francesco a predicare pace e amore prendendo come sorella la povertà. Oggi al posto di predicatori della povertà, abbiamo in abbondanza coloro che vogliono basare tutta la vita sul materialismo storico e sulla lotta di classe. Non nego che si debba portare tutta la cura possibile nella vira pubblica perché la giustizia ed equità siano affermate nel campo economico; è doveroso che gli uomini di governo regolino l'amministrazione in modo che il denaro pubblico vada a bene di tutti, specialmente per le zone depresse e per categorie che mancano di risorse e di mezzi. Purtroppo l'accentramento nello Stato e nelle altre pubbliche amministrazioni di gran parte di imprese bancarie, industriali, agricole e commerciali ha prodotto una larga classe di nuovi arricchiti o in via di arricchimento, sviluppando un nuovo affarismo politico con tutte le passioni che lo accompagnano. Ogni epoca ha il suo male, come il suo bene. Durante il Medio Evo avvenne un accentramento di ricchezze più che in mano laiche, in mano di enti ecclesiastici, i quali, dato il sistema feudale, erano entrati a partecipare all'ingranaggio politico del tempo, in posizioni eminenti nelle corti e nelle assemblee locali e centrali. Tale sistema creò non solo il desiderio ma la faciliti di ottenere benefici ecclesiastici e introdusse l'abuso di corrispettivi in favori e denaro. La simonia che si diffuse fu definita una forma di eresia pratica e fu combattuta da grandi santi, fra i più noti, San Giovanni Gualberto, San Pietro Damiano, San Gregorio Settimo. Il fenomeno sociologico era quello della unione nelle stesse mani del potere e della ricchezza, fenomeno questo che accompagna in tutte le sue fasi i partecipanti al potere pubblico, specie nelle varie forme di oligarchia, sia assoluta che rappresentativa. In tempi moderni molti ebbero fiducia nel sistema della divisione dei poteri e nell'intervento della massa popolare nella vita pubblica per attenuare il fenomeno sociologico della unione deila ricchezza col potere e rendere più rigida l'amministrazione pubblica e più distaccata la funzione di governo daila diretta gestione della stessa ricchezza privata, evitando i mali cagionati nei periodi del feudalesimo, delle signorie e delle monarchie assolute. L'adozione del sisrema democratico non si improwisa. Con il tempo e l'esperienza può ottenersi un normale ricambio della classe politica; con l'esperienza si arriva alla formazione morale e politica delle nuove generazioni. La realtà vissuta supera il quadro di qualsiasi preformazione teorica e intellettualistica. I1 male è quello di avere inserito nel tentativo di normalizzazione democratica, la concezione dello Stato economico a tendenza marxista e perfino il socialismo di Stato; la deviazione sul campo morale ha trovato larga base ne1 profittantismo collegato, dove più dove meno, alla concezione socialista ed alla lotta di classe. È in questo nuovo clima che si deé vita privata e pubve portare tutto l'amato spirituale del senso cristiano della vita, ~ e r c h la

.


blica (non vi sono differenze) vanno decadendo nel fango dei piaceri, nell'ingordigia del denaro, nell'abuso del potere. Con tanti mali cosa succederà? sarà evitato il comunismo? - sarà democratizzato il socialismo?- avremo la pace? - vinceremo la crisi economica?- supereremo il pericolo di guerra? - domineremo la crisi morale? - torneremo ad una vita onesta? - salveremo la patria? Sono queste domande continue ed ansiose sul nostro domani lontano e vicino. Ma il domani non è nostro; nostro è il presente e solo il presente, con i suoi doveri, fra i quali anche quello di prevenire per quanto possibile il domani, cioè eseguire quel che oggi è il nostro dovere e il nostro potere, che certo si protrae nel domani e può avere anche effetti duraturi. M a il domani, quale esso sarà per essere, non è nostro; è nelle mani del Padre. I1 domani o domani l'altro e gli anni e i decenni che seguono ci troveranno in piedi, attenti alla venuta del Cristo, solo se oggi avremo adempiuto al dovere presente dell'ora che urge; solo se ieri, nelle ore e negli anni già divenuti lontano ricordo, avremo cercato il regno di Dio e la sua giustizia, dando testimonianza al Cristo. Solo così saremo sicuri di aver fatto il bene per noi e per i nostri fratelli, pel nostro paese, per il popolo, la nazione, la società, il mondo. E tutto scomparirà ai nostri occhi quando si chiuderanno, restando solo con noi il Cristo nella finale testimonianza e nella partecipazione al regno di Dio.

Studi Cattolici, 2 settembre 1957

«I1 campicello» di Montecitorio Con l'inserimento nell'articolo 1" dell'emendamento Miceli è stata estesa l'efficacia della futura legge ai contratti di lavoro agricolo anche quando il lavoro sia retribuito mediante partecipazione al prodotto». Una delle due: o la Camera, dando corso a tale inserzione, modificherà la struttura della legge sui patti agrari, owero ne sospenderà la trattazione. Non è possibile, come qualcuno ha suggerito, approvare il testo del disegno come se l'emendamento Miceli non esistesse. Né la logica legislativa né la dignità del Parlamento consentirebbe simile sotterfugio. Unica procedura possibile è quella del rinvio alla Commissione per un riesame del testo in conseguenza dell'emendamento. Spetta alla Commissione, sentito il governo, proporre le modifiche necessarie owero presentare proposta di sospensione della discussione per nuova redazione. Non c'è dubbio che, oggi come oggi, la questione dei patti agrari interessa certi gruppi di Montecitorio assai più che gli agricoltori, i mezzadri e gli affittuari di tutte le province italiane; Montecitorio e non il Parlamento, perché è difficile che il progetto arrivi al Senato; se vi arriverà, sarà modificato di sicuro e ritornerà alla Camera a battenti chiusi. Tutto ciò è scontato; non c'è barba d'uomo che potrà modificare gli eventi quali previsti oramai da tutti, meno da coloro che hanno occhi per non vedere e orecchi per non sentire. A dir vero, a Montecitorio più che ai patti agrari si pensa alle elezioni; quesito fondamentale per i capi, se la discussione sui patti agrari giovi o non giovi al partito; per i singoli deputati, se giovi o non giovi alla propria rielezione. Conti fantastici è vero ma è umano che siano fatti per cercare, se possibile, di attenuare i rischi di una bocciatura. Un altro motivo di perplessità per molti deputati è quello di avere per dieci anni parla-


to di giusta causa, sia permanente sia ciclica moltiplicata o non moltiplicata per tre; nonché, di diritto di prelazione, di diritto a trasformare la mezzadria in f i t t o , e perfino di condominio ad rem o in re, come di affari dei quali i nostri coltivatori fossero presi fino ai capelli. Dire che l'interesse dei contadini ai patti agrari fissati per legge non sia lo stesso di quello del passato e che la situazione sia mutata, (come ha riconosciuto giorni fa lo stesso on. Segni) metterebbe in dubbio quella infallibilità rivendicata da Mussolini (il duce non sbaglia mai) che nel fatto piace tanto a chi comanda. Eppure sarebbe così semplice, umile, onesto, corretto, -ammirevole dire di avere sbagliato, owero dire che la situazione di oggi è cambiata; nessun avversario (che non si atteggi alla infallibilità dei dittatori, Stalin compreso) dovrebbe prendere un atteggiamento di superiorità perché anche lui potrà sbagliare come tutti gli uomini. E gli elettori? Mettiamo fuori causa i non interessati; professionisti, artigiani, operai, industriali; i quali o si stringeranno nelle spalle con un ci potevano pensare prima; owero approveranno la saggezza (finalmente) dei nostri legislatori; potranno anche fare apprezzamenti ostili; le persone libere ne hanno diritto. In quanto al voto, stiano sicuri i deputati che proprio per questo affare al più ne perderanno e ne guadagneranno; i conti torneranno lo stesso. Gli interessati, da parte loro, specie i piccoli proprietari che temono la valanga dei patti agrari, diranno: oggi va bene, domani chissà? I contadini, se organizzati nei sindacati, voteranno più o meno secondo la parola d'ordine dell'apparato; se non organizzati, voteranno secondo gli interessi immediati economici e politici della loro famiglia, dell'ambiente in cui vivono e della propaganda che subiranno. Coloro che protesteranno saranno gli infatuati dei patti e della giusta causa, coloro che attendevano una specie di mezzo passaggio di proprietà permanente senza pagare tasse; più che i contadini l'apparato sindacale. Credono i Saragat, i Pacciardi, i Fanfani di conquistare un solo voto a sinistra con I'approvazione della legge su patti agrari? Certo di no.

I1 vero problema agrario italiano consiste nel fatto che non si potrà mai assimilare la situazione di una regione con quella di un'altra; di una provincia con un'altra; di una zona agraria con un'altra. La cosiddetta equità della legge, quale sarà per essere, diviene ingiustizia in ogni sua pratica applicazione. Un prete veneto, caldo sostenitore della legge sui patti agrari, mi diceva giorni fa: noi vogliamo uscire da una situazione precaria; il blocco ha reso difficile la vita di molte famiglie contadine; si tratta di dare al contadino una tranquillità che oggi non ha. La mia risposta fu che la legge invocata non darà nessuna tranquillità, sia perché le agitazioni comuniste continueranno finché non abbiano posto tutte le campagne sotto il controllo del proprio apparato; sia perché i costi agricoli aumenteranno e i prezzi dei prodotti diminuiranno; sia perché della legge si avvantaggeranno i beatipossidentesdelle zone a larga produzione e ne soffriranno tutti gli altri. Per questo i comunisti trovano più facile presa nei campi. Essi attribuiscono al merito socialcomunista i lauti guadagni fatti da mezzadri e fittavoli nel primo dopoguerra; attribuiscono al governo della DC l'aumento delle tasse e lo scompenso fra costi e ricavi. Alla fine della conversazione gli ho detto: Non erede lei che sia meglio che la questione dei patti venga risolta fra le parti attraverso i sindacati? Così i contadini sarebbero assistiti dai sindacati propri, e si abituerebbero ad avere propria personalità senza dipendere dallo Stato, né ricorrere al pretore, né cercare avvocati ed essere esposti a tutte le noie della giusta causa. Egli sembrò convinto; ma dopo tanti anni di propaganda, come fare a cambiare?


Un amico delle Puglie mi dice che nelle zone che egli conosce non c'è mezzadria ma affitto; e gli affittuari, per la diminuzione della disponibilità di terra, dato il passaggio ai contadini delle zone di riforma agraria, temono che la concorrenza faccia rialzare i fitti al di là della convenienza economica. Tale evenienza potrebbe avvenire allo scadere del ciclo agrario, mentre all'attuazione della legge in corso di esame resterebbero sul posto gli attuali fittavoli, mezzadri o coloni. L'immobilizzo per me è peggiore delle oscillazioni di mercato anche dei fitti, perché si crea il disquilibrio fra le esigenze delle colture e la dinamica in più o in meno delle famiglie che crescono e quelle che diminuiscono di braccia; fra i contadini fissi nelle zone povere e i favoriti dal blocco delle zone produttive. Mi scrive un parroco della zona tosco-emiliana; qui i patti agrari non hanno significato; i contadini lasciano la montagna per andare in città, cercando, se possibile, altri impieghi. Lo stesso mi ha detto un deputato piemontese per le zone del cuneese e un ex organizzatore di lavoratori agricoli per certe zone del senese. L'afflusso del contadino verso la città è già in atto più o meno in tutto il paese. Fra dieci anni le campagne saranno impoverite di veri coltivatori e aumenteranno braccianti senza qualifica a domandare lavoro agli enti di riforma, ai consorzi di bonifica.

D a Napoli in giù i sindacati rossi non hanno grande ascendente nelle campagne a coltivazione ricca. Ma dove sono riusciti ad avere predominio, hanno insinuato i'odio di classe, il dispregio della cooperazione padronale, la resistenza alla nuova tecnica. Per giunta, le rappresentanze burocratiche del ministero e degli enti, l'apparato dei sindacati, gli agit-prop dei partiti hanno invaso le campagne; i nuovi padroni non sono migliori dei precedenti; mantengono col contadino distanza fredda, spirito di comando, pretesa superiorità, tanto più accentuata quanto maggiore è in loro l'ignoranza dei problemi dell'agricoltura, e più marcato lo spirito burocratico di carriera. Benché la materia sia inesauribile devo far punto; prego, pertanto, i colleghi parlamentari a rendersi conto che le leggi non rimediano a nulla né creano nulla, se non c'è nel paese un senso di adozione, di adesione e di realizzazione corrispondente allo spirito e alla lettera della legge da eseguire. Nel caso presente, non c'è e non ci può essere alcuna adozione per l'enorme diversità da provincia a provincia; da zona a zona; da coltivazione a coltivazione; da produttività a produttività. Solo sopra un largo binario legislativo si può adattare la realtà locale a principi di maggiore equità; solo lasciando ai privati l'iniziativa e promuovendo lo spirito di cooperazione fra proprietari che si interessano direttamente alla coltura agraria e contadini coloni e mezzadri, si potrà ridare la pace alle campagne. Io ho piG fiducia, per i casi controversi, nel libero intervento dei sindacati dell'una parte e dell'altra, che sull'autornatismo di una legge uguale per tutti e sul ricorso alla magistratura. I1 mondo cammina, onorevole Colombo; il Governo non può restare fermo al 194648; né al 1950-51; neppure agli accordi del tripartitc di Villa Madama che fu il meno peggio. L'attuale disegno di legge è inattuabile e intempestivo; può servire solamente pel «campicello)) di Montecitorio; non per il paese.

Il Giornale d'Italia, 5 settembre 1957


L'albero-Il bosco-La foresta14 Più di mezzo secolo è già passato dal giorno che Guido Baccelli, ministro alla pubblica istruzione, istituì la festa degli alberi. Ricordo esservi io intervenuto da sindaco con gli alunni delle scuole elementari, posi la mia pianta nella buca insieme ai bambini; forse qualche traccia ne rimane nello scosceso pendio occidentale del pubblico giardino di Caltagirone e sulla zona dell'antica stazione di disinfezione sul poggio del Vicario. Se ogni anno avessero attecchito solo un milione delle piantine piantate dai nostri scolari, avremmo più di cinquanta milioni di alberi a rallegrare i nostri paesi. Ma i cinquanta milioni non ci sono. L'incuria e l'istinto di distruzione ne hanno eliminati molti; gli eventi han fatto il resto. Leggo sopra un giornale di Messina del mese scorso, sotto il titolo: scempio delpatrimonio arboreo, le gesta di certi ragazzacci (forse tuttora alunni scolastici), i quali erano lì a provare la forza dei loro muscoli nel contorcere e tirare le gabbiette protettive delle piantine in un viale di quella gentile città. Un viaggiatore di ritorno da Palermo mi parlò or non è molto, della prodezza di certi monelli nel raccogliere cartacce e fogliame secco attorno agli alberi di un viale del centro della città e darvi impunemente fuoco per vederne le fiammate che investivano i rami di quelle belle piante verdeggianti. Si tratta certo degli stessi ragazzi che in scuola col coltellino guastano i banchi e i leggii; che scarabocchiano sui muri delle case e ne sporcano gli intonaci; quegli stessi che fanno bersaglio al loro tiro lampade elettriche e automobili in corsa senza curarsi del mondo che li circonda. Accuso la famiglia? la scuola? la disciplina civica? la organizzazione della polizia stradale? l'ambiente indifferente? Si tratta di un principio fondamentale della vira associata, l'educazione all'autodisciplina, a partire dalla famiglia fino alla più elevata manifestazione sociale. Oggi si dà libero e incontrollato sfogo a tutti i peggiori istinti perchd manca il senso della riprovazione collettiva. L'albero ne è una delle vittime. L'albero è amato solo a parole; nel fatto è bistrattato e sfruttato da tutti. L'albero deve essere pardato sempre come una promessa per il futuro. L'albero da frutta vi fa aspettare alcuni anni; l'albero da legno vi fa aspettare ancora di più; l'albero di protezione vi fa aspettare sempre perché serve e non si vede a che cosa serve se non quando non c'è più. Ma I'uom o non ha pazienza; l'albero fa aspertare troppo, mentre l'orto e il campo di grano fanno aspettare pochi mesi. Ma chi non sa che per avere l'orto e il campo, si deve pur avere l'albero che riveste le montagne, che sistema le acque, che rinsalda le zone franose, che corregge i margini dei fiumi? In un paese dove la montagna copre circa dodici milioni di ettari e altrettanto e più la collina (anch'essa in molti luoghi franosa), e dove solo circa cinque milioni di ettari sono pianeggianti, l'albero deve essere il più rispettato degli esseri viventi, perché è quello che fa vivere tutti gli altri, compreso l'uomo. La rinascita dello spirito forestale in questo dopoguerra P dovuta in parte ai gravi danni portati dalla guerra al nostro patrimonio forestale. Ma quale patrimonio? La Sicilia era stata nel mezzo secolo scorso spogliata di quel residuo che nel mezzo secolo antecedente i

l4

In: A.L.S., b. 507, fasc. «Art.e 1. del Prof. L. S.,, sa.-on. 1957.


nostri padri ci avevano, bontà loro, lasciato come residuo forestale di altre epoche migliori. Le distruzioni di un secolo non si riparano in pochi anni. Uno studioso americano della FAO, visitando circa sette anni fa le zone meridionali, ebbe a dire che alle tre sponde siciliane, jonica, tirrenica e mediterraneo-africana, in pochi anni era stato trasportato tanto materiale fertile quanto potrebbe coprire tutta la superficie della stessa isola. I terreni sono spolpati, perché le montagne sono nude. Che impressione farebbe una ampia piazza affollata tutta da uomini calvi e senza cappello? Ecco I'impressione di molte delle nostre montagne. Si beneficano colline e pianure e le pioggie torrenziali trasportano via metà del lavoro ad accrescere la fanghiglia delle zone costiere. È doveroso riconoscere che gli interventi di questi ultimi anni, anche nel campo della sistemazione montana, sia della Cassa per il Mezzogiorno sia della Regione, sono stati quali la Sicilia mai ebbe dai passati governi della nostra unificata Italia. Ma sarebbe inesatto dire che tutte le iniziative siano riuscite; che tutte le spese siano state proficue; che quanto si è speso sia stato adeguato. Ancora si preferisce spendere venti in pianura e uno in montagna; purtroppo, l'uno in montagna attecchisce a stento per mancanza di tempestività, di continuità e di custodia, mentre il venti in pianura è sempre in pericolo di andare in buona parte perduto. Se avessimo speso bene dieci in montagna e dieci in pianura, avremmo oggi il doppio di resa e migliori prospettive per l'avvenire. La sventura è che i lavori forestali non sono elettoralmente e politicamente apprezzabili; mentre gli altri incontrano più facile favore e accoglimento delle nostre popolazioni e dai nostri rappresentanti politici. Non voglio ridurre tutto alla misura della politica demagogica, ma quando vedo che il tentativo di risanamento e rimboschimento delle zone calancose di Sicilia, iniziato a Caltagirone cinque anni fa, non ha avuto grande seguito, (e non dico quali incomprensioni incontrò quel lavoro in alto e basso loco, dentro e fuori Caltagirone), debbo veramente credere che tali problemi non siano ancora penetrati nella coscienza della nostra popolazione. C i vuole una coscienzaforestak fatta di comprensione, di convinzione, di attrazione. La Cassa per il Mezzogiorno ha speso o impegnato fin oggi in Sicilia per la bonifica delle nostre montagne e la sistemazione delle nostre acque, più di dieci dei ventisette miliardi previsti per dieci anni; e se la Regione ne avrà spesi e progettati ancora di più (e lo sapremo dalla relazione dell'assessore regionale) quale ne è oggi lo stato di manutenzione dei lavori fatti? quali le prospettive di continuità? quali piani di adeguamento ai bisogni più urgenti della nostra montagna? Le guardie forestali girano in motociclette o biciclette; occorre che la sorveglianza dei boschi pubblici e privati sia fatta, come in passato, a cavallo e anche a piedi; sorveglianza continua e rigorosa, mettendo i contravventori alle leggi forestali sotto il più rigido controllo possibile. Auguro, perciò, che una mano di ferro guidi il nostro assessorato regionale forestale; che il nostro corpo forestale sia riorganizzato secondo criteri oggettivi e non sia il servo di due padroni ed abbia vero senso della propria missione (vera missione di risanamento del paese) e non quella normale di carriera in cerca di trasferimenti e di avanzamenti. C'è molto da fare per chi sa che la produttività agraria e zootecnica dipende dalla montagna; che le nostre industrie dipendono in parte dalla montagna; che le condizioni climatiche dell'isola potranno essere migliorate solo dalle montagne rivestite. Le montagne siano tutte chiomate, con alberi sempre verdi, quali i pini e i cipressi; con alberi dove possibile utili quali le quercie, i sugheri, gli eucalipti; - ne abbiamo già inizi promettenti che sono l'invidia di quelli che vengono a visitarli - che i nostri terreni argillosi siano risanati da frane e calanchi come si è fatto a Caltagirone. Grandi spese ma grandi speranze e grandi realtà di un avvenire rigoglioso per la nostra Sicilia.


Ogni siciliano deve essere fervido amante dell'albero, del bosco e della foresta; fanciulli e giovani siano educati ad amare e rispettare le piante, piccole e grandi, e condotti spesso ad ammirare boschi e foreste e sentirsi attratti dalla loro vitalità, bellezza e utilità.

Dattiloscritto, 6 settembre 1957 (Non appare pu bblicato)

Tre categorie di «nenniani» Non parlo dei nenniani del PSI non sapendo quali siano né quanti siano; parlo dei nenniani extra-moenia, o per occasione o per tattica o per simpatia i quali, pardandolo dal proprio punto di vista, se lo rappresentano come persona utile; o come paravento; ovvero come cataliuatore sociale. Dall'uscita della sinistra socialcomunista dal quarto ministero De Gasperi (maggio 1947) e dalla quasi contemporanea secessione di Saragat dal PSI, le azioni di Nenni vennero confuse con quelle dei comunisti; Nenni arrivò ad ottenere il premio Stalin, andandolo a ritirare a Mosca da quelle mani insanguinate. La mossa saragattiana dell'apertura a sinistra, come uno dei frutti amari del 7 giugno 1953, segnò la fine delle speranze di fare della socialdemocrazia il centro di attrazione socialista. Quattro anni e tre mesi non sono bastati a molti italiani per persuadersi del fallimento sia dell'apertura a sinistra sia della unificazione socialista; ora siamo alla vigilia del congresso dei socialdemocratici; e non abbiamo nessuna prospettiva che un matrimonio così discutibile si celebri prima né dopo delle elezioni del 1958. Al congresso di ottobre i saragattiani se la caveranno con un ordine del giorno di fedeltà alla democrazia e al socialismo e di attesa che Nenni dia le sue garanzie per un socialismo, classista quanto si voglia, ma non legato al comunismo, e d'una politica estera vaporosamente occidentale, sia pure colorita col neo-atlantismo. Nenni farà finta di non capire e ripeterà essere egli per L'unità operaia e per una politica di pace tra le nazioni, nella speranza che ((col tempo e con la paglia* maturerà l'unificazione socialista sia pure senza legami visibili col comunismo ma soprattutto senza anticomunismoprecostitllito e con una unità operaia da realizzarsi a suo tempo, cioè mai. Ad inventare formule il cervello di Nenni è sempre pronto. N é questa ultima si differenzia dalle precedenti; serve a tenere desti coloro che desiderano un Nenni capo del fronte laico e popolare che servirebbe tanto bene ai radicali, ai massoni di sinistra (ci sono quelli di destra), a certi industriali che vanno preparandosi all'eventualità di un governo socialistico, come si preparano a quello di centro-sinistra e come sarebbero pronti a prepararsi a un governo monarchico con un pizzico di repubblica di Salò. In sostanza, se Nenni dovrà arrivare alla ribalta governativa, sarà meglio non perdere la corsa da parte del laicismo anticlericale e dello statalismo economico, con la relativa inflazione che servirà a far pagare, con moneta svalutata, prestiti avuti con moneta discretamente stabilizzata. Con un fronte popolare laico-socialista, mettendo fuori combattimento la DC sia dal governo e sia da molti enti locali, saranno contenti i laicisti che temono la cosiddetta pressione clericale più del comunismo. Questa brava gente è da classificarsi come nenniani utilitari. Per essi il comunismo ci sarà, ma senza che possa avere un'influenza più dannosa di


quella di oggi, anche perché essi notano che i comunisti soffrono di disarticolazione alla destra, al centro e alla sinistra; Togliatti è in ribasso; che l'apparato non ha sufficienti mezzi; leggere per credere. Essi attendono che le riunioni per il disarmo presto riprenderanno a Londra o altrove perché utili per uso interno.

Passiamo agli altri: i tatticisti; ce ne sono al centro, a destra e a sinistra. Chi è quell'uomo politico che non si illuda di essere un tattico anche se non capisce che cosa significhi la parola. Per certuni se Nenni non ci fosse sarebbe da inventare. Nenni serve a calmare la febbre ricorrente nelle vene dei sinistri della DC per una possibile unificazione socialista e collaborazione centro-sinistra. I tatticisti, messe le solite condizioni: nessun legame con i comunisti e politica atlantica revisionata, trovano che l'intesa DC e Nenni sarebbe possibile. Possibile o probabile? Certo possibile anche se non probabile; in tal caso la colpa sarebbe di Nenni non della DC che aspetta a braccia aperte un Nenni raweduto, o meglio un Nenni di una nuova edizione riveduta e corretta. Nenni capisce il giuoco dei tatticisti e si volta ai cattolici di sinistra che egli identifica con la CISL, le ACLI, la Base e una punta di Iniziativa. Non per nulla l' Auanti!si è affrettato a pubblicare un tratto della risposta dell'on. Penazzato a don Sturzo, cosa che non ha fatto Il Popolo e neppure Il Quotidiano. Egli vuole il dialogo con i cattolici. Perché con i «cattolici»?Cioè con i discepoli di Cristo, fedeli alla Chiesa, religiosi praticanti? Perché Nenni non si rivolge ai democristiani o ai liberi sindacalisti? No: è la qualifica cattolica che gli fa gola, perché egli, marxista laicista anticlericale, vuole arrivare a persuadere coloro che per professione religiosa non accettano il marxismo, il laicismo e I'anticlericalismo, a passare sopra a tutte queste barriere per un'intesa nel campo ({sociale)),cioè «socialista». La solita Agenzia che parla sempre a nome della sinistra DC ha scritto ben quattro pagine per dimostrare che l'intesa con i socialisti non sarebbe sul piano «ideologico»(cioè dei principi) ma su quello politico-sociale (cioè pragmatistico e programmatico); non sulle idee ma sulle cose. Possibile che il solito anonimo di tale agenzia non capisca non esistere cose senza idee! Queste possono essere vere o errate; le cose da realizzare prendono l'impronta dalle idee vere o errate. I1 socialismo è un errore, è una fallacia; se il dialogo con i socialisti porta alla realizzazione del socialismo in Italia, è questa una cosa dannosissima, perché parte da idee erronep, se porta alla realizzazione di un programma social-cattolico o social-cristiano, cioè essenzialmente democratico cristiano (senza deviazioni socialistoidi) è un'altra cosa; una rosa impregnata di idee cristiane e degne di adesione. Ma che forse non ci sono anche idee e proposte sane e utili da parte socialista? Ci sono cattolici che l'affermano, senza comprendere che il finalismo interiore è quello che qualifica le azioni; e il finalismo, cioè l'essenza socialista inficia quel che in nome di tale ideologia viene fatto e realizzato; perché il socialismo è classismo; il mezzo per arrivarvi è la lotta di classe; questa è ispirata ali'odio di classe e porta alla dittatura del proletariato. I1 periodo transitorio conta quanto la nebbia intermittente. Non una sola luce cristiana per realizzare con i socialisti la elevazione delle classi operaie. Su che cosa, d o r a , i cattolici inizieranno un dialogo con Nenni?

La meraviglia di molti, fra i quali chi scrive, non viene dal fatto che Nenni inviti al dialogo; è che questi anenniani per simpatia» credano possibile il dialogo per una collabora-


zione che faccia salvi i valori religiosi e morali della propria personalità e delle associazioni religiose alle quali appartengono. Lascio in disparte I'on. Pastore, che a Blakpool, parlando con Gaitskell, ha auspicato per l'Italia un unico sindacato democratico, autonomo e indipendente dai partiti. Campa cavallo! I sindacalisti della CGIL sono in maggioranza i comunisti della CGIL; mai la lasceranno anche se il PSI se ne distaccasse; cosa del tutto improbabile. La stessa UIL non si distaccherà dai socialdemocratici né dai repubblicani. La CISL, che pretende di essere indipendente dalla D C , se tira ancora la corda darà luogo ad una ripresa di inopportune discussioni. Dal lato sindacale, Nenni non ha niente da promettere e niente da combinare; è legato mani e piedi ai comunisti, piaccia o non piaccia ai «dialoganti» e loro ispiratori. Metto anche le ACLI fuori combattimento; sono associazioni con l'assistenza ecclesiastica; è impossibile che facciano dei dialoghi non autorizzati e in materia politica che resta ai margini, come elemento formativo e non attivo, delle associazioni cristiane. Restano sulla pista alcune frazioni di sinistra della D C , compresavi una parte di «iniziativisti)).Che costoro facciano anche oggi una specie di dialogo con gli articoli criptici di certi giornalini di provincia, 2 possibile; che cerchino intese dietro le quinte nei consigli comunali e provinciali, dove il PSI tiene atteggiamento autonomo per le piccole combinazioni di commissioni o di Giunte, sarà un fatto più o meno tendenzioso; che in Parlamento si possano confondere i voti segreti ovvero ottenere astensioni ed assenze, sarebbe un giuoco non molto serio che degrada il mandato politico e amministrativo al piccolo mercanteggiare delle fiere di campagna. Ma un dialogo con i cattolici in quanto cattolici, vivaddio, è da escludersi. Arrivati a questo punto, mi sembrerebbe più utile per tutti, più serio come tattica e più valevole come orientamento, di pensare alle elezioni; ciascun partito prenda le sue posizioni nette ed autonome; faccia il suo programma breve, chiaro e individuabile; combatta la sua battaglia vigorosamente e senza compromessi. Dopo l'esito elettorale si esaminerà la nuova posizione e si agirà senza preconcetti per nessuno nell'esclusivo interesse del Paese. Cose vecchie, semplici, sentite da tutti; e forse per questo, oggi ostiche ai sognatori, ai dialoganti, e a tutte le categorie dei ccnenniani))extra moenia.

Il Giornale d'Italia, 13 settembre 1957

Il «debutto»del ministro Bo Il primo discorso del ministro Bo non è stato felice. Ritenuto egli uomo di sinistra si dubitava del suo orientamento; la prova di Piacenza ha superato ogni previsione. Egli afferma che io Stato, questa entità politica nominale, nell'ultimo mezzo secolo è divenuto «centro propulsore dell'economia nazionale, assumendo compiti attivi di controllo e di guida». Chi conosce la sroria, sa bene che le famiglie o le consorterie o le classi dominatrici in tutti i tempi hanno cercato di unire nelle proprie mani il potere e l'economia (un tempo si diceva ricchezza). Quando questa «ricchezza»era rappresentata principalmente dalla terra, in gran parte boschiva e poco coltivata, i terreni appartenevano al Sovrano o al Signore, il quale ii concedeva in feudo con privilegi e li riprendeva per mancata fedeltà o per cambiamento di regime. Se oggi i «fezrdatarD)sono di altra specie ciò dipende dalla evoluzione eco-


nomica; la tendenza umana è la stessa. Se il Ministro Bo si vuol dare la pena di vedere come nel tempo di Giuseppe il giusto, l'ebreo divenuto vicerè e primo amministratore dell'Egitto, da proprietà privata le terre divennero proprietà faraonica (il faraone di allora era lo Stato di oggi) legga il libro della Genesi. L'economia privata, personale o associata, terriera, industriale e commerciale, poté svilupparsi nel passato, remoto e recente, solo dove e quando i popoli ebbero un po' di libertà e dentro i limiti di tale libertà. Quando questi limiti furono allargati per la abolizione dei privilegi terrieri, delle concessioni sovrane, delle invecchiate corporazioni e delle incombenti manomorte, lo sviluppo economico prevalentemente privatistico prese il più largo respiro che mai abbia storicamente avuto, fino a spazzare, non è più di un secolo, gli ultimi residui della feudalità, della servitù della gleba e della manomorta.

Chi poteva pensare che noi della fine dell'ottocento avremmo visto con i nostri occhi altri tipi di servitù della gleba e di manomorte, di dirigismo e di corporativismo, non dico in Russia e nei Paesi satelliti, ma nella nostra bella Italia? Il Ministro Bo ha quasi 53 anni e quindi deve ricordare, anche se allora ragazzo, la prima guerra mondiale; egli ha vissuto la seconda guerra mondiale. L'inserimento fra le due guerre dell'esperienza e ideologia fascista, con lo statalismo di marca mussoliniana <(tuttonello Stato e per lo Stato», con I'autarchia e il corporativismo, l'infatuazione dell'autosufficienza e dell'espansione imperiale, egli li avrà vissuti non cerco se dentro o ai margini. Questi avvenimenti hanno portato l'Italia ad avere fra tutti i Paesi occidentali la più starizzata delle economie. Non dica il Ministro Bo che l'economia di tali Paesi è già passata sotto la direzione, il controllo e l'intervento diretto dello Stato. Per fortuna abbiamo vicino l'esempio della Svizzera, popolo libero e autonomo anche in questo settore, sol con quel minimo di ingerenza statale che non fu mai negata per le funzioni necessarie al potere pubblico; abbiamo una Germania occidentale risorta in nome di una libertà economica tanto più difficile quanto la Germania sconfitta e divisa ha dovuto ricominciare da zero. È vero, l'Inghilterra, non solo per la guerra ma anche per la politica laburista del 1945-50, sta provando le delizie del dirigismo statale, i cui danni non sono stati che in poca parte riparati dal Governo conservatore per le resistenze sindacaliste che ne impediscono il risanamento. La Francia accusa deficit enormiper le sue affrettate nazionalizzazioni,ma molto di più per i dieci anni di guerre coloniali. Belgio e Olanda e Stati Scandinavi avranno il loro interventismo post-bellico e i tentativi socialistoidi; ma quel mondo non è paragonabile al nostro. L'Europa occidentale è ben diversa da quella che il Bo suppone; la libertà economica non può non sopravvivere anche alla formazione di unioni europee sul piano economico, e purtroppo anche sul piano militare. E nulla dico degli Stati Uniti d'America e del Canadà, i cui esempi sarà bene che Governo e Parlamento italiani tengano presente.

Non mi sarei soffermato su simili affermazioni del Ministro Bo se non fosse stata affacciata dallo stesso la conseguente teoria della «graduale trasformazione delle forme di convivenza fra popoli e Stati». Questa frase criptica io la interpreto in senso socialista; sarò lieto se il Ministro Bo smentisca la mia interpretazione. I socialisti inglesi non insistono oggi sulla statizzazione delle imprese, tranne di quelle ritenute imprese chiavi; -proprio quan-


do l'America inserisce l'iniziativa privata nell'attività dell'energia nucleare -; insistono invece sul controllo statale a mezzo dipnrtecipazionio di interventi polirici o amministrativi; insomma vogliono l'economia privata assoggettata allo Stato. Ma chi è lo Stato? Chi rappresenta nella vita privata dei cittadini il mito dello Stato? In Italia sarebbero lo Stato tutti i Bo quali ministri; tutti i Mattei e i Fascetti, quali Presidenti delle più numerose e onerose imprese statali; nonché le centinaia di amministratori, commissari, sindaci, dirigenti burocratici; e le migliaia di parassiti (parassiti politici e non politici) che del nome Stato si avvantaggiano e si avvantaggeranno inserendosi nella nuova chsse dirigente. La differenza fra tale nuova classe e la precedente (a parte il periodo fascista) è semplice: la nuova non ha rischi né responsabilità; l'altra aveva i rischi e quindi anche le responsabilità. Non dica il Ministro Bo che gli enti economici sratali sono alla pari delle società private nella struttura e nella attività. A parte il fatto che gli enti sratali hanno la cura di presentare i loro bilanci sempre in attivo (se poi non lo sono, Pantalone passa come aumenti di patrimonio o aumento di capitale -i titoli non contano - fior di miliardi a colmare i deficit come si è fatto per il Poligrafico e altri simili enti); a parte anche i privilegi e i diritti di imposizione (enti risi, canapa e compagnia bella); gli enti statali sul terreno delle attività economiche, se non hanno avuto concessi monopolio di diritto, formano essi stessi i monopoli di fatto senza limiti né controlli. Per giunta lo Stato (cioè i componenti e i dirigenti del Comitato Interministeriale Prezzi) crea i falsi monopoli anche fra i privati, fissando i prezzi delle merci e impedendo la concorrenza per difendere (si dice) il consumatore. Per giunta, quando la concorrenza fra enti statali e privati non si può sopprimere, si ricorre da parte degli enti statali alla concorrenza sleale. Chi non vede è cieco; e chi vede fa finta di non vedere. I sinistri d.c. come i socialisti nostrani non solo giustificano ma accentuano la elefanriasi dello statalismo in nome della socialità, credendo che le classi meno abbienti si avvantaggerebbero con l'intervento statale nell'economia privata. La illusione socialistoide è forte; come è forte il complesso di inferiorità di coloro che, non essendo d'accordo, temono di opporsi per non essere ritenuti uomini di destra. Rilevai questo fatto nel mio discorso al Senato del 20 febbraio 1754, nel quale riaffermai la mia sessantenne battaglia per la libertà e per la socialità bene intesa; non quella che i socialistoidi confondono col socialismo di Stato, le cui realizzazioni ci han dato, nel mondo orientale, I'asservimento del popolo senza distinzioni di classe al comunismo; e nel mondo occidentale uno statalismo gonfio, sfrontato e parassita. Ecco quanto dicevo al Senato: «Due concezioni stanno di fronte: lo statalismo che arriva al socialismo di Stato; la libertà che tende aila cooperazione civica e sociale. Io sono per la seconda. La mia non è la libertà del manchesteriano "lasciar fare e lasciar passare", di quel liberalismo individualista che ai primi decenni del secolo scorso reagiva ai vecchio corporativismo statizzaro e fossilizzato, e perciò servì a dare nuovo slancio all'economia europea e americana. Ogni rempo il suo male e il suo bene. Le lezioni del passato debbono servire a rendere efficiente l'esperienza del presente. Ci fu chi disse che la libertà si difende ad ogni momento, perché è sempre insidiata come sempre è insidiata la virtù; ciò vale per tutti e per tutti i casi. Però bisogna intendere il senso profondo della libertà. La migliore definizione, proprio adatta pei democratici, ne data da Cicerone: "Libertà è partecipazione al potere". Nello Stato dittatoriale il potere è nel dittatore e la libertà si risolve nella sua persona e in quella dei suoi più stretti e sospettosi collaboratori. Nel paternalismo, il potere è nel monarca; un quasi benevolo dittatore che crede di


fare il bene di tutti, facendo spesso il bene di pochi e della classe partecipe al potere. Solo in democrazia si può arrivare alla partecipazione diretta e indiretta al potere, sia attraverso le istituzioni parlamentari e amministrative, sia nelle forme di decentramento organico, regionale o provinciale, sia nelle libere associazioni consortili sindacali e simili; in tutto I'enuclearsi dell'attività umana libera da vincoli politici precostituiti e sviluppantesi nell'orbita delle istituzioni. Ma il potere o presuppone o chiama il possesso: è legge storica; pertanto non sarà effettivo il potere da parte del proletariato finché questo resterà proletariato; occorre che i proletari partecipino anche al possesso. La legge di socialità ha avuto sempre questo sviluppo. Ma quando invece della sempre maggiore possibilità di proprietà privata - proprietà vuol dire iniziativa, responsabilità e rischio - si sostituisce un terzo (lo Stato), a creare monopoli statali, manomorte statali, sia direttamente, sia a mezzo di enti più o meno statizzati, e a mezzo di partecipazioni statali nelle imprese privare, si altera o si interrompe il processo della libertà, non solo sul terreno economico, ma anche su quello giuridico, politico, culturale e finalmente sul terreno isrituzionalen.

Fo punto: i Bo con le frazioni dc di sinistra forse non mi comprendono, perché essi, coscienti o incoscienti, con l'apertura a sinistra ci vogliono far passare una ben triste esperienza, quella del socialismo di Stato; ma allora la DC avrà ceduto il potere alle sinistre, con danno del Paese e dello stesso proletariato. Il matrimonio Nenni-Fanfani, auspicato dal senatore Frassati in un suo recente articolo, da farsi in pieno Parlamento, non sarà realizzato perché non è realizzabile; forse Bo non sa, ma Nenni lo sa.

/I Giornak d'ltalia, 17 settembre 1957

Costituente EuropeaI5

Onorevok Presidente, Non potendo, per ragioni di età e di salute, intervenire all'assemblea dell'unione paneuropea, ho pregato I'on. professore Giuseppe Caronia a rappresentarmi e portare il mio caldo saluto e l'augurio di proficuo lavoro per contribuire alla realizzazione di una nuova Europa, libera e democratica. Non nascondo le mie perplessità riguardo la esitenza in Francia e in Italia di forti partiti comunisti, e la delicata posizione della Germania libera riguardo la parte oltre cortina. Non posso dimenticare popoli come i cecoslovacchi, poiacchi, baltici e balcanici sotto dominazione straniera. Ma bisogna aF1ere fiducia in Dio e nella buona volontà degli uomini. Una costituente europea sarà di sicuro il punto di arrivo di una accurata preparazione

l5 Lettera al presidente della Union Paneuropéenne di Basilea, conte Richard de Condenhove-Kalergi. In: kL.S., b. 507, fasc. «Art. e 1. del Prof. L. S.,,, se[[.-orr. 1757.

124


di opinione pubblica e di studi di competenti, per ottenere effetti utili e durevoli per la pace e I'awenire dell'Europa. Omaggi a lei e a tutti i convenuti Luigi Sturzo Dattiloscritto, 22 settembre 1957 (Non appare pu bblicato)

Petrolio nostrano e forestiero Sono ambedue all'ordine del giorno, perché i giornali pubblicano articoli e notizie su petroli nostrani e forestieri quasi quotidianamente; spesso per conto terzi, di gente specializzata in propaganda; e da alcuni mesi il petrolio iraniano, o persiano che sia, ha interessato anche la stampa estera. L'opinione pubblica ne è rimasta perplessa. Diverse le domande: è questo un buon afEare dal lato economico? sarà sopportabile per l'Italia l'onere che viene assunto? avrà utili o dannosi effetti politici? è, insomma, un affare o un'awentura? Mettiamo da parte la questione degli interessi in contrasto fra l'iniziativa Mattei e quelli delle società estere operanti nel Medio Oriente; perché, dal punto di vista del libero mercato, ciascuna ditta può seguire il metodo che crede più conveniente, salvo, s'intende, che non si tratti di concorrenza sleale; la quale, a parte ogni altra considerazione, per un ente pubblico non sarebbe ammissibile per il buon nome dello Stato, del quale l'ente è diretta emanazione. Sul caso particolare del contratto per la costituzione della società SIRIP, una risposta al New York Emesè stata data dall'Agenzia «Italia»,riportata dal Popolo, dove si legge che il quotidiano di New York «è in errore quando asserisce che I'ENI ha modificato il sistema del fiftu-$h; in verità la divisione dei profitti awerrà esclusivamente sulla base del 50-50. L'unica novità consiste nel fatto che I'ENI non si è riserbato il 100 per cento del capitale della SIRIP - la compagnia che ha avuto le tre ultime concessioni - ma si è associato con la compagnia petrolifera statale persiana con una partecipazione paritetica». Non avallo la risposta dell'Agenzia; perché da tempo si è parlato del 75-25 per cento, né si potrebbero comprendere altrimenti le critiche della stampa estera. Ammesso il principio della concorrenza leale, sarà meglio affermare se c'è, negare se non c'è, il famosofi&fiftu.

Il primo problema che interessa noi italiani è quello del contribuente; ai dopo la prima avventura negativa dell'ENI, quella del mancato petrolio nella Valle padana - creduta sempre anche all'estero la meglio indiziata di tutte le altre zone italiane -, ne seguirebbe una seconda, quella di un impegno in Persia, che ad alcuni sembra di dubbio esito. L'Agenzia sopra citata aggiunge che I'ENI ha solo la metà delle azioni della SIRIP e quindi usufruisce la metà dei profitti dopo aver pagato allo Stato persian.0 il 50 per cento in «royalties». Per di più il socio italiano si è obbligato a fare le ricerche a sue spese, entro la cifra di 22 milioni di dollari in dodici anni, mentre il socio persiano rimborserebbe la parte di spese anticipate solamente dopo che siano state accertate le riserve di petrolio in quantità commerciabile. ia pa-


rola ((commerciabile»ha un determinato significato nel commercio petrolifero; quale è quello datovi nel contratto persiano? I1 mio interrogativo non è qui per gettare ombre ma per fare luce. Si è detto, infatti, che le tre concessioni ottenute sono in zone impervie, distanti dal Golfo Persico in linea d'aria più di ottocento chilometri; che non vi sono strade adatte al commercio e le difficoltà orografiche sono notevoli. Non è il caso di insistere su questi dettagli; ma il complesso delle indicazioni non dà l'idea di un affare tranquillo. I1 corrispondente del Popolo ha detto da Londra ( I 1 settembre) che il ((FinancialTimes), scrive: «A giudicare dalla passata esperienza, il signor Mattei dovrà spendere un mucchio di tempo e di denaro, forse più di quanto ne abbia previsto, prima di ricavare dei profitti dalla stia impresa». L'articolista de La Stampa (8 settembre), rilevando l'enorme differenza fra il costo del petrolio nel Medio Oriente di circa 35 centesimi di dollaro al barile, e di quello del Texas, con appena un equo utile sul prezzo normalizzato di un dollaro e 75 centesimi, conchiudeva con il seguente periodo: «E certo seducente svolgere in questa zona un'attività moderatrice ed utilizzare un intervento economico più liberale per contribuire ad una migliore armonia fra l'occidente e il mondo niussulmano. Ma occorre agire con prudente moderazione ed avere coscienza dei rischi. Perché l'azione italiana abbia successo, è necessario un calcolo esatto delle nostre forze, una lucida visione delle incognite da affrontare». Se per «nostre forze» l'articolista intende quelle del paese per i connessi problemi di politica internazionale, non dubiterà avere oggi qualsiasi nazione europea ben poche forze e l'Italia ancora meno delle altre. Se egli intende quelle finanziarie, non credo che possa ritenere il nostro paese preparato a sopportare rischi e spese che non siano subordinate alla necessità di fermare il disavanzo del bilancio italiano e della bilancia commerciale. 11fatto più notevole è che l'Italia della quale parla l'articolista, nel caso dell'EN1, è rappresentata da un uomo audace e spregiudicato; parlare a lui di moderazione, quando si sente affiancato dal governo rappresentato dal Ministro Bo, e confortato da un comunicato ufficiale durante il viaggio del Capo dello Stato, le parole moderazione e prudenza non credo abbiano grave efficacia su di lui.

Lo scopo principale dell'EN1 nelle ricerche agipiane all'estero: Somalia, Francia, Egitto, Persia, Marocco, non potrebbe essere altro che quello di importare in Italia grezzo a minore costo e con maggiore sicurezza. Se I'ENI avesse dato prova di avere affrontato in pieno il fine proprio per il quale fu istituito: quello delle ricerche nella Valle padana della quale ha l'esclusiva, oltre circa tremila ettari di concessioni nel resto dell'Italia, una misurata espansione all'estero potrebbe essere giustificata. Ma non è così. Dopo dodici anni di ripresa dell'AGIP-Mineraria (con o senza 1'ENI) ci troviamo in fatto di petrolio appena agli inizi. Con. Mattei afferma che l'ltaiia non avrà, per via delle ricerche all'estero, distratto dalle ricerche e coltivazioni di idrocarburi all'interno un tecnico, né una macchina, né finanziamenti. Ma, affinché le parole abbiano un significato, occorre che egli dimostri di avere impiegato e di impiegare in Italia tutte le somme attribuite dallo Stato all'ENI e tutti gli utili ricavati dalle operazioni dell'ENI e degli altri enti della «holding»,nonché tutto il denaro pompato ai risparmiatore italiano. Che cosa gli rimarrebbe per le varie imprese all'estero? e come potrebbe prowedere ai costosi anticipi in dollari? A proposito di dollari pare che dalla convenzione risulti che i dollari dovranno essere convertiti in rialr (moneta iraniana) e queste in lire e viceversa. Perché due passaggi? quali gli effetti? Può darsi che Mattei sia convinto che le impre-


se estere saranno tutte attive e il denaro impiegatovi ritornerà con il di più degli utili. Ma per una serie di anni occorre anticipare lire sottratte ai contribuenti o ai risparmiatori. Il resto si saprà quando si saprà, se si saprà. La verità è che il lavoro all'estero, nella situazione presente per mezzi tecnici e finanziari risulterà a detrimento di quello interno. L'unica valutazione possibile è se vi sia maggiore convenienza continuare le ricerche in Italia owero ridurle per d r o n t a r e le spese di imprese estere. Dal punto di vista della resa produttiva, il M 0 presenta larghe possibilità, insieme a larghe spese e a larghi rischi; ma dal punto di vista di una politica petrolifera seria e decisiva, ogni distrazione di fondi, di attrezzature e di tecnici dall'Italia, è un danno reale pel nostro paese. La valutazione di ciò spetta in primo luogo al comitato di vigilanza dell'ENI, in secondo luogo al governo e in terzo luogo al Parlamento. A quando una discussione a fondo? Ed è possibile una seria inchiesta sulle reali condizioni dell'ENI e società connesse e imprese all'estero?

Invero, la gestione ENI e delle società azionarie dipendenti presenta tanti lati oscuri, che meritano di essere messi in chiaro. L'opinione pubblica è tambureggiata da un continuo «rataplan»dei successi e dei benefici dell'EN1. Non solo pubblicità di prodotti, ma di notizie insistenti e ripetute di petrolio trovato a destra e a manca, d'iniziative grandiose, di congressi e conferenze, visite a Cortemaggiore e a Metanopoli e così di seguito sì da dare l'impressione che le imprese ENI abbiano un continuo e travolgente successo, una specie di miracolismo più matteiano che statalista. Se dovessimo apprezzare il sistema amministrativo dell'EN1 e società connesse dalla costruzione di monumenti e monumentini per la distribuzione di benzina (cosa sconosciuta dai Paesi più ricchi, Stati Uniti compresi) owero dall'abbondanza di pubblicità diretta e indiretta, con inserzione pagata di notizie e di articoli, o con l'impegno di non pubbl'icare notizie e articoli, il responso sarebbe negativo senza attenuanti. I1 denaro entra ed esce a fiotti nelle casse delle imprese ENI; il metano, che all'estrazione costa qualche paio di lire, è venduto alla pari del grezzo importato. Il pretesto di non mettere le industrie del sud in condizioni di inferiorità rispetto a quelle del nord è servito a pompare miliardi ai contribuenti; e c'era il modo di favorire le industrie del nord e del sud con la diminuzione dei costi di energia tanto più necessaria quanto più difficile è la concorrenza nel campo internazionale. Ma come affrontare certe spese, come l'impianto di Ravenna elogiato di recente dal ministro Bo, che presentano dei lati oscuri per l'economia del paese? Il costo iniziale previsto e autorizzato era di quaranta miliardi; poi si arrivò ai sessanta; ora se ne prevedono da cento a centodieci. E così di seguito. Proprio in questo periodo si accusa contrazione del denaro liquido disponibile; e, data la ricorrente carenza di dollari, s'invoca una politica americana più comprensiva. Se la lira è rimasta ferma mentre aumentano le difficoltà in Inghilterra e in Francia, ciò si deve principalmente al sistema rigido delle riserve deii'istituto di emissione, e non certo alla politica della spesa. Bisogna essere prudenti; le awenture finanziarie si pagano. Certo non sarà il contratto con la Persia a turbare la consistenza monetaria italiana; ma concorre a sottrarre capitali da impiegare in Italia, proprio quando cerchiamo investimenti esteri sul nostro territorio. Queste le preoccupazioni economiche. Nel campo della politica, mentre prendiamo atto delle dichiarazioni del ministro Pella che nessuna pressione di governi esteri (ed amici) vi è stata circa il contratro ENI-Agip-NIOC, non possiamo che ripetere le parole di pru-


denza de La Stampa de11'8 settembre, perché si tratta di iniziative in zone dove Mosca specula, per potere dominare quel Mediterraneo, nel quale per secoli si sono decise o pregiudicate le sorti dei popoli civili.

Il Giornale d'ltalia, 25 settembre 1957

Senatori e Senato Molti senatori, a quel che si dice, sono tuttora ~ e r ~ l e sse s idare corso alla discussione del disegno di legge costituzionale presentato dal governo Segni il 21 marzo 1957; sia pel caso di mancata approvazione il che, dicesi, porterebbe diritto ad un decreto di scioglimento; sia pel caso di approvazione per tutti gli inconvenienti di una affrettata campagna elettorale. Dico molti senatori, perché solo in questi giorni la Prima Commissione ha iniziato l'esame della proposta. Ma il ritardo non giova a nessuno; è sempre meglio affrontare in tempo i problemi che non si possono eludere. La posizione del Senato è strana; può anche sembrare sotto certi aspetti poco rispettosa per via di un'opinione pubblica che mette volgari interessi personali conrro lo scioglimento del Senato, ritenuto quasi acquisito, mentre l'unico giudice in merito è il Presidente della Repubblica. La controfirina del Presidente del Consiglio al decreto di scioglimeni di fiducia o di sfidiito è solo data (o eventualmente negata con le conseguenze tli l ~ ivoto cia in sede parlamentare) per avallarne la responsabilità politica. I motivi per cui un Presidente della Repubblica possa emettere il decreto non Earirici parte del dccreto, ma normalmente sono resi noti, sin pure coirls interpretazione ufficiosa e giornalistica, per I'orientarnerito del corpo elettorale. Sarebbe tuttavia azzard:ito impegnare la prima autorità dcllo Stato a emettere un decreto solainente perché il Senato non ha voluto modificare un preciso disposto costituzionale; secondo me sarebbe questo un precedente dittatoriale, quasi un abuso di poteri, tale da niertere in dubbio lo stato di diritto de! nostro sistema, con la conseguenza di umiliare quel corpo lcgisl~rivoche, con la Caiiiera, ha uguali diritti e iiguali poteri. La questione non può essere messa in questi termini; il Senato stesso dovrebbe sollecitamente prowedere n che divenga nota In sua posizio~e?ro o contro la proposta Segni, fatta propria dal governo Zoli, ed evitare così uno sciogllrnento anticipato, quale potC essere quello del marzo 1953, quando due gruppi parlamentari del Seriato si ribeilarono all'autorità del presidente e scesero a vie di fatto.

Ciò posto, vediamo il merito della questione: cinque o sei anni?scadenw simultanea o diversa+ le due Camere! Come dato di fatto, in qualsiasi sistema bicamerale elettivo è normale la conternporaneità. Ragioni politiche e sistematiche possono far pendere verso la soluzione adottata in Italia; ma questa è una eccezione. Anche dal punto di vista elettorale ;t meglio non moltiplicare le convocazioni dei comizi, come è awenuto da noi per dodici anni. Negli Stati Uniti d'America sono per lo stesso giorno e simultaneamente le elezioni quadriennali del Presidente (nomina fittiziamente di secondo grado), del Senato, della Came-


ra, del Governatore degli Stati, delle Assemblee degli Stati, dei Municipi e, se del caso, anche la ratifica di emendamenti costituzionali. Senato e Camera negli Stati Uniti sono-eletti metà ogni biennio; il che è assai facile col sistema uninominale, ma sarebbe difficile col sistema proporzionale; sopportabile dove vi sono due partiti di alternativa; non adattabile dove i piccoli partiti hanno un ruolo complementare, quando non si riducono a elemento di disturbo. La buona occasione di modificare la durata del Senato è stata data dall'iniziativa di un gruppo autorevole di senatori, per una legge detta integrativa, in realtà per un aumento di seggi senatoriali. Per quanto l'articolo 2 del disegno di legge Segni sia da modificare in toto, non essendo questo in armonia con lo spirito e la lettera della Costituzione, darebbe motivo, se approvato, ad immediate elezioni. Comunque sia, il problema posto avanti al Senato con due disegni di legge (quello governativo e quello del sottoscritto) non può essere risolto nei corridoi di Palazzo Madama, e neppure nelle anticamere del Quirinale o del Viminale; ma, pro o contro, solamente in sede legislativa nelle forme costituzionali prescritte dall'articolo 138.

Ed eccoci al problema centrale: aumento dei senatori. È necessario? certo no; P utile? sì e no secondo i punti di vista; ciascun senatore come ciascun cittadino può avere in merito le proprie opinioni. Negli Stati Uniti d'America i senatori non arrivano ancora al centinaio essendone il numero basato sugli Stati della Federazione. Per un Senato, più che il numero vale la scelta delle persone, note per probità, competenza, rappresentatività, autorità. Da noi, il Senato è un doppione della Camera, senza attribuzioni specifiche, senza specializzazione di funzioni. Per giunta, in determinati affari importantissimi (elezione del Presidente della Repubblica, nomina dei cinque giudici costituzionali e, secondo lo Statuto regionale, nomina di tre membri effettivi e uno supplente all'Alta Corte per la Sicilia) i senatori nelle sedute comuni del Parlamento rappresentano appena la metà dei voti dei deputati. Altro delicato motivo a favore dell'aumento dei senatori è dato dalla competenza legislativa delle commissioni, competenza che non esiste in nessun altro Parlamento. Un numero limitato di presenti e votanti può dar luogo a notevoli inconvenienti e perplessità, specie per l'uso (o abuso) di tenere tali riunioni senza interventi del pubblico e della stampa, addirittura in forma segreta. Quando tredici senatori possono emanare una legge, in rappresentanza deil'intero Senato, le intese fra senatori e governo, fra senatori di maggioranza e quelli di opposizione possono avvenire e avvengono, senza controllo, non sempre scegliendo la migliore delle soluzioni. Che il numero di componenti le commissioni in sede legislativa aumenti e le relative procedure si rendano più rigide e il pubblico vi possa accedere, è questo un problema da essere risolto senza dilazioni. Solo questo è stato il motivo che mi ha reso favorevole all'aumento del numero dei senatori.

Ma se sono favorevole all'aumento, sono fortemente contrario alla proposta governativa che crea privilegi e favori a ministri e sottosegretari presenti passati e futuri, e fissa ordini di scelta automatica, eliminando il voto elettorale, non tenendo conto della base regionale sulla quale, per Costituzione, viene eletto il Senato. Ne scrissi a suo tempo in un precedente articolo, e qui non mi ripeto. La soluzione al problema del Senato dovrà cercarsi in altro modo. Con il mio disegno di legge costituzionale del 6 maggio 1957 n. 1977,


ho cercato di conciliare i tre punti basilari: aumento-elettivirà-competenza; la mia soluzione, pur avendo incontrato meno ostilità di quella governativa, ha sollevato un'obiezione elettoralmente e psicologicamente degna di esame. Perché in un periodo così prossimo alle elezioni, la diminuzione assai sensibile della popolazione necessaria per la costituzione di un collegio obbligherebbe il Senato a rivedere tutte le circoscrizioni nel breve tempo che passa fra la pubblicazione della legge costituzionale sulla Gazzetta UBcialee i1 decreto che fissa la data delle elezioni politiche. Ma tale grave problema verrà risolto assai facilmente e con soddisfazione di tutti, se il Senato approverà il primo degli emendamenti presentati giorni fa, alla mia stessa proposta di legge del 23 ottobre 1953 n. 125, formulato nei seguenti termini: ((Aifini delle elezioni senatoriali, il territorio delle singole Regioni resta ripartito nei collegi uninominali stabiliti con i decreti del Presidente della Repubblica 6 febbraio 1948, n. 30 e 28 febbraio 1948, n. 84. L'assegnazione del numero dei senatori a ciascuna Regione si effettua con le moda. il chiarimento dato alla lità previste dall'art. 3 del T U . 30 marzo 1957, n. 3 6 1 ~ Eccone Prima Commissione del Senato: «Col punto I si tende a rendere stabili le circoscrizioni dei singoli collegi, evitando così la revisione ad ogni censimento, a danno della compagine elettorale fra i Comuni interessati. Anche le modifiche costituzionali del rapporto fra popolazione e numero di senatori possono, in via normale, essere coordinate con il tipo di collegio "storico". In ogni caso, sarà il Parlamento a stabilire, per legge, senza obbligo di periodicità e di generalità se e come modificare le circoscrizioni elettorali». In sostanza i senatori verrebbero eletti uno per collegio in base all'artuale numero di collegi approvati con i decreti presidenziali del 1948; agli altri seggi derivanti dai censimenti di popolazione o dall'abbassamento del numero di abitanti per ogni senatore, verrebbero eletti coloro che in base al conteggio regionale di tutti i voti non utilizzati e secondo i gruppi di collegamento avranno avuto il maggior numero di voti. Attualmente risultano eletti direttamente in ogni collegio solo coloro che ottengono il 65 per cento dei voti, quorum esagerato che ha giovato nel 1948 solo a sedici senatori e nel 1953 a sei. La mia proposta del 1953 porta il quorum al 50 per cento; altri potrà trovare un numero intermedio. Solo col sistema della maggioranza relativa, tipo inglese, si assicurerebbe ad ogni collegio il proprio senatore, restando al collegamento dei gruppi i senatori derivanti da aumenti di popolazione accertati da censimenti owero dalla diminuzione del rapporto fra collegio e abitanti. A questo fine ho creduto doveroso presentare giorni fa un emendamento alla legge costituzionale governativa, tendente all'abolizione dell'albo e delle complicate preferenze dell'art. 2, riducendo i collegi alla popolazione di 140 mila e aumentando il numero minimo regionale da 6 a 9. Così la Costituzione rimane integra nella sua struttura elettorale e nel suo spirito, e si ottiene quel giusto aumento di seggi (poco più di cento) su base elettorale e con rispetto di tutti i partiti. Le mie proposte sarebbero valide anche nel caso che il Parlamento, in sede costituzionale, non accettasse l'emendamento costituzionale che porta a cinque anni la durata delle due Camere. Perché, con l'approvazione del solo aumento dei seggi senatoriali, si creerebbe un motivo legittimo, oltre che politico, perché il Presidente della Repubblica emetta, se lo crede, il decreto di scioglimento del Senato per le prossime elezioni del 1958.

Il Giornak d'ltalia, 2 ottobre 1957


Il Partito socialista da S. Marino allJUngheria San Marino, un'altra disillusione per coloro che attendevano la conversione del PSI, con Nenni a capo, al socialismo democratico; ma i socialisti di San Marino non sono come i laburisti, che nel 1950, dopo le elezioni fatte con la libertà tradizionale inglese e perduta la partita, si ritirarono sulle trincee della minoranza parlamentare lasciando ai conservatori, come la cosa più naturale di questo mondo, il potere che avevano tenuto per cinque anni. A San Marino, i reggenti socialisti, solidali in tutto e per tutto con i comunisti, sicuri di essere sostituiti alla scadenza del settembre, hanno ideato ed eseguito una serie di illegalità e sopraffazioni, già note al pubblico italiano, in modo da dividere il popolo sanmarinese fra due reggenze: la socialcomunista già scaduta e la nuova eletta, quella della concentrazione democratica: la prima sostenuta da milizie volontarie tipo fascista e comunista; la seconda appoggiata sul suo buon diritto. Ebbene, i nostri socialisti del PSI, non solo nella stampa ma anche nel Parlamento si sono uniti ai comunisti nell'app~~giare e difendere i compagni di San Marino, senza tener presente che intanto è rispettabile e rispettata la Repubblica di San Marino in quanto si mantiene sul terreno della libertà e della legalità; l'Italia in tanto adempie con lealtà al suo dovere storico di rispetto dell'indipendenza di San Marino (così indissolubilmente legato all'Italia) in quanto trova il compenso nel rispetto della tradizione millenaria libera e democratica. Ai socialcomunisti non importano la pace, il diritto, la tradizione, la libertà; essi sono legati alla teoria e alla prassi dirtatoriale e ~o~raffattrice, sia a San Marino come in Italia, sull'esempio di quel che ha fatto e fa la Russia con l'Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia, la Germania, i paesi baltici e balcanici. Oggi è un anno che l'Ungheria provava la malafede, prima, e la repressione sanguinaria, dopo, dei bolscevici russi per avere invocato, più che la libertà, la tregua alla tirannide e la possibilità di una vita meno miserabile dell'attuale; i nostri socialisti misuravano le parole per salvare il minimo di dignità personale e non urtare i comunisti impegnati a fondo nella difesa della tirannia di Mosca. Ora, nel primo anniversario di tanti fatti atroci e documentati, il PSI manda a Mosca con una delegazione I'on. Vecchietti (quello che ha parlato alla Camera per i socialcomunisti di San Marino), per partecipare al quarantennio della rivoluzione bolscevica, in nome della unità lavoratrice del mondo; senza avere il minimo dubbio sul fatto, che salta agli occhi di tutti, che la dittatura del proletariato si converte in dittatura sul proletariato da parte di una classe politica imborghesita e divenuta tirannica. Non ci illudiamo che Nenni sia o possa divenire un democratico convinto; è e resta socialista massimalista e classista, con un pizzico di fascismo nel sangue e, per sua punizione, legato con un piede ai comunisti in modo da non potersene disincagliare neppure a parole. I1 giochetto di formule equidistanti, di slogans plurivalenti e di sgambetti senza gravi conseguenze, come l'accettazione di Giolitti nel gruppo PSI della Camera,non hanno alcun significato.

Fanfani ha detto all'assemblea dei coltivatori diretti che «tra le alleanze possibili evidentemente non vi può essere quella della DC con il comunismo né con socialismi ad esso comunque legati. E nemmeno saranno possibili alleanze con movimenti capaci soltanto di


rianimare il comunismo indebolendo la democrazia e la libertà)).Ben detto, nonostante quel «socialismi» al plurale, a meno che non si debba ritenere quale formula grammaticale per includervi un possibile futuro di altri socialismi.. . Oggi non vi è altro che quello di Nenni. Dico quello di Nenni perché, senza di lui, il PSI perderebbe di popolarità e di illusione e potrebbe anche frazionarsi nelle tre correnti. I1 frazionamento individualista è fenomeno tutto latino: Italia e Francia hanno dato molti socialismi pur nella compagine formale di un solo partito; lo stesso è accaduto ai cattolici francesi e italiani. È da attribuire all'individualismo di razza il fatto delle tendenze organizzate nel seno degli stessi partiti. Il capo della DC fa male a non preoccuparsene nelle sue troppo frequenti dichiarazioni. È probabile che con quel «socialismi»al plurale egli abbia pensato di lasciare la porta aperta alla politica auspicata dalle sinistre d.c. (anch'esse al plurale) per il caso che queste escano rafforzate dalla prova elettorale. A me sembra che Fanfani eviti di proposito una completa chiarificazione, quale è richiesta dai ministri Gonella e Andreotti, proprio per non mettere in allarme le sinistre, i cui capi pare che tengano per acquisita (o facilmente acquisibile) l'alleanza post-elettorale con Nenni, per via o nonostante la dichiarazione di guerra al centrismo da parte del PSI, ripetuta nel comunicato del 5 di questo mese. È vero che i portavoce delle dette sinistre usano un linguaggio criptico con le solite reticenze contenute in certo fraseggio da consorteria chiusa o da setta semiclandestina; pertanto non riesce chiaro ai profani fino a qual punto siano arrivati i loro contatti e i compromessi con il PSI attraverso certi ben noti personaggi: che ci vogliano arrivare è ben chiaro; e la mia polemica da più di un anno ne è un indice. Comunque sia, essi per il momento puntano sul programma da Fanfani affidato a un centinaio di brave persone, sperando di farvi passare il bagaglio del socialismo di Stato di mezzo secolo fa, quel che i laburisti cominciano a ripudiare con in più quel che essi vorrebbero realizzare con danno dell'economia del loro paese. Statalismo pieno, ecco l'ideale delle sinistre, senza tener presente che, sommando gli enti statali e parastatali lasciatici dal fascismo, quelli fatti dai comitati di liberazione e le aggiunte di due legislature, oggi l'Italia, con a capo I'IRI e I'ENI e il Ministero delle Partecipazioni, è la più statizzata di tutti gli Stati civili e occidentali. Basta notare che i primi a difendere questi complessi di statalismo sono i socialcomunisti per capire qualche cosa della portata politica di tante imprese di Stato. Ebbene, il comandante delle truppe elettorali d.c. non può soprawalutare i due o trecentornila tesserati di sinistra anche se sono aiutati da certe persone che dovrebbero astenersene, né metterli alla pari di tutto il resto degli elettori fedeli dal 1948 in poi. Coloro, che senza essere iscritti, votano Centro, non sono certamente amici di Nenni; altrimenti voterebbero Nenni e non Centro. Costoro sono la gran maggioranza degli elettori in confronto a tutti i tesserati, e se essi domandano che cessi l'equivoco dei socialismi al plurale, dei programmi fatti nel senso del celebre verso ibis et redibis non morieris in bello non hanno tutti i torti. Per costoro il presagio che sarà annunziato dal programma e realizzato dalla politica di piazza del Gesù, deve essere ben chiaro sin da ora; il non a mezza strada non regge, o si appoggia al morieris o si appoggia al redibis. L'elettore medio che vota per la politica di centro non vuole essere ingannato, né vuole concorrere a realizzare l'apertura a sinistra. Caro Fanfani, bisogna essere chiari sul programma politico, sulle alleanze, quelle possibili e quelle impossibili, tanto per la serietà del partito e per lo slancio della battaglia elettorale, quanto per I'awenire della nostra Italia; awenire senza socialismi al singolare né al plurale; senza sinistrismi politici né economici. Nenni ti accuserà di immobilismo; tu gli dimostrerai con i fatti che l'Italia va avanti con un programma di centro serio e realizzabi-


le; non col socialismo di Stato già - invecchiato, ma nella libera solidarietà sociale; non col classismo della lotta di classe, ma nella concordia dell'interclassismo; non con la dittatura del proletariato che si effettua solo come dittatura sulproletariato, ma nella democrazia d'ispirazione cristiana. È questa la bandiera della battaglia elettorale del 1958.

Il Giornak ditalia, 9 ottobre 1957

ENI & C. I perché delle mie critiche Non conosco Mattei e non ho nessun motivo personale contro di lui, né contro coloro che lo proteggono. Non ho interessi nelle imprese metanifere e petrolifere; meglio, non ho interessi in aziende di qualsiasi specie, piccole o grandi, private o pubbliche. Sono un uomo libero da qualsiasi interesse terreno, economico o politico; libero perché nulla temo, nulla spero, nulla desidero che sia dell'ordine di questo mondo. Parlo, scrivo, combatto perché sono un uomo libero e perché ho difeso e difenderò fino che avrò fiato la libertà. Questa posizione mi porta alla critica di quel che, secondo me, è un indebito predominio dello Stato sulla collettività; un dannoso vincolo legale o legalizzato al quale, per prepotenza o per ignoranza, è sottoposto il cittadino italiano. Ecco perché combatto tutti gli enti statali e parastatali che abbondano di privilegi, abusano del potere economico e delle protezioni politiche, invadono con sempre crescente ritmo l'ambito della iniziativa privata, preparando e attuando una specie di socialismo di Stato o statalismo sociale che dir si voglia. Se questa posizione di principio vale per tutti, il complesso ENI merita speciale attenzione per la sua importanza, per la continua espansione nel campo industriale, nonché per la spensieratezza nello spendere, per l'abuso dei mezzi di propaganda e di stampa, per gli stretti rapporti con partiti e uomini politici. Che questi miei attacchi siano «sistematicamente condotti)),come afferma l'articolista de La Voce Repubblicana, non è esatto nel senso di «per sistema))cioè «per preconcetto));perché sono basati su elementi probanti che qui accenno di nuovo, per non farne perdere la memoria agli italiani smemorati. Fra gli smemorati dovrei includere lo stesso articolista della &ce per avere scritto che «quando l'iniziativa privata non credeva al metano I'ENI dava al nostro Paese questa risorsa»;perché il metano fu trovato dall'iniziativa privata, prima che fossero creati I'AGIP e 1'Ente Metano; il quale ultimo, senza monopoli precostituiti, aveva dato risultati valutabili ben prima di essere soppresso e conglobato con I'ENI dalla legge Vanoni del I0 febbraio 1953. Purtroppo con ritardo I'autorevole articolista, che io suppongo sia quello stesso che sostenne a spada tratta la disgraziata legge Cortese, ha dovuto mettere parecchia acqua nel suo vino a favore dell'Ente Nazionale Idrocarburi, se accenna in sordina a speranze non realizzate come ente-guida e a diffidenze per gli investimenti all'estero. Lasciamo la speciosa idea di ente-guida. La questione della Valle Padana va messa sul binario del mio ben noto dilemma, già esposto al Senato: se pur provando e riprovando I'EN1 non vi ha trovato petrolio, lo scopo dell'esclzuiva è venuto meno; lasci che, in tutto o in parte, secondo criteri di pratica utilità, siano accordati permessi a ditte più coraggiose, pronte ad avventurarsi in ricerche costose, specie se sono ditte estere. Queste, nel caso di esito


negativo, avrebbero portato in Italia capitali da impiegare per acquisti e per salari; nel caso positivo, pagheranno allo Stato il diritto fissato dalla legge. Purtroppo, un uomo come Mattei ha dato all'ENI un carattere personalistico; Mattei è I'ENI come Luigi XIV era lo Stato; Luigi XIV poteva arrivare a fare una guerra per puntiglio personale; Mattei, per la sua alterigia, crede che questo che io scrivo e che è tanto ragionevole, ferisca il suo amor proprio e la sua reputazione. Tanto ciò è vero che nel caso che egli trovi un indizio di petrolio, come fu a Cortemaggiore, ne mena vanto come se avesse inventato il petrolio lui stesso. I suoi turiferari a proposito del petrolio del Sinai arrivano a scrivere che gli italiani trovano ilpetrolio dovegliamericanifallirono (((Giornaledel Mattino))),senza ricordare che I'AGIP lasciò in tronco le ricerche di Ragusa che dopo parecchi anni furono riprese dall'attuale società americana. Fatti questi che avvengono a tutti e per i quali non occorrono le trombe di Gedeone per far cadere le mura di Gerico.

Per giustificare il mancato petrolio nella Valle padana, I'on. Mattei ripete per l'ennesima volta che il metano l'ha trovato lui. Abbiamo accennato più sopra ai privati e all'Ente Metano, che senza i mezzi avuti da Mattei fece un lavoro utile. Il punto nero del metano monopolizzato dall'AGIP è quello del prezzo di vendita, così alto da superare tre o, secondo i posti, quattro volte il costo di produzione, realizzando miliardi su miliardi facilmente dissipabili in spese improduttive e peggio ancora in mezzi di ingerenza nella vita politica del paese. La scusa del governo per questo lasciar fare è stata quella di non mettere l'economia del Mezzogiorno in condizione di inferiorità verso quella del Nord e del Centro; scusa secondo me senza base, perché sarebbe bastato che le industrie del Sud avessero qualche altro beneficio, specie per l'acquisto di energia idroelettrica e termica, per arrivare ad equilibrarne i costi. A proposito di ciò, farà certo meraviglia l'affermazione di Mattei che I'ENI abbia quasi raddoppiato in tre anni il fondo di dotazione di 15 miliardi, mentre in base all'art. 7 della legge istitutiva il fondo è fissato a 30 miliardi valutando per 15 miliardi i diritti e i beni; partecipazioni azionarie dell'Agip, Anic, Rornsa, Snam; fondo di dotazione dell'Ente Metano; obbligazioni Anic; stabile in via Lombardia a Roma dell'ex CIP e la valutazione delle ricerche petrolifere (Tabella B). Non solo I'on. Mattei ha dimenticato ciò, ma anche il disposto dell'articolo 22 della legge istitutiva secondo cui, per i primi tre esercizi, la quota degli utili riservata allo Stato (65 per cento) è portata ad aumento del fondo di dotazione. Dal che si dovrebbe rilevare che l'aumento annuale del 65 per cento degli utili dell'ENI sarebbe stato inferiore a 5 miliardi all'anno. Basterebbe il prezzo del metano a portare gli utili del solo ramo commerciale (previsto all'articolo 2, secondo capoverso) a molto di più dei quasi 15 miliardi di cui sopra. Secondo me, le spese improduttive dell'ENI e società connesse sono state eccessive e sono sempre in aumento. Perenne testimonio di sperpero sono i monumenti (li chiamo così) per la presa di benzina e per servizi annessi, fatti secondo i desideri decorativi di sindaci o di sezioni di partiti. Il costo del monumento in costruzione vicino Roma pare che debba superare cento o duecento milioni. E non basta; spese eccessive sono quelle della réclame giornalistica. D a un conto fatto sulla pubblicità apparsa nel 1956, in base al millimetraggio delle principali ditte (Giulio Bonelli, Pubblicità Italiana) se ne possono approssimativamente dedurre i costi alle tariffe normali e senza calcolare gli sconti di quantità e le maggiorazioni per posizioni speciali. Ecco i dati: Millimetraggiio: AGIP-Agipgas 3.738.143; ESSO 287.447; SHELL 1.049.994; Mobil Oil It. 41.450. Spesa approssimativa:AGIP-Agip-


gas 1.068 milioni di lire; ESSO 109 milioni e 600 mila; SHELL 352 milioni e 700 mila; Mobil Oil 57 milioni e 200 mila. Non si dica che 1'Agipgas (in sostanza l'on. Mattei) voglia una pubblicità che costi più del doppio di quella delle altre tre ditte unite insieme, proprio per poter vendere la sua merce e poter superare la concorrenza; lo fa perché dispone di somme che non gli costano nulla, trattandosi di pubblico denaro. Non è tutto: dove mettiamo il notiziario ripetuto di continuo e in quasi tutti i giornali, sia per una trivella montata o per un buco fatto, o per dei piani petroliferi per un petrolio non ancora trovato, e per la notizia di un petrolio ritrovato e poi lasciato per strada? Non parliamo di quello ritrovato; di Gela oramai da tempo si scrive quasi tutte le settimane per farci sapere quello che c'è e quello che ci sarà, anche dal mare. Io vorrei che ci fosse più petrolio e meno pubblicità; non perché mi dispiaccia sentire che I'AGIP abbia trovato il petrolio; ma per la serietà di un ente che purtroppo rappresenta lo Stato, sia pure lo Stato industriale e commerciante. C'è di peggio: a pane la pubblicazione di un quotidiano, che Popinione pubblica attribuisce ail'onorevole Mattei, al punto che Il Globo di pochi giorni fa ne scriveva come di cosa già nota, pubblicazione ceno passiva, e non di poco; dobbiamo notare che certa stampa difficilmente fa critiche all'ENI & C., e normalmente accoglie non solo le notizie ma gli apprezzamenti e gli elogi. Ho l'impressione che si possano criticare tutte le autorità italiane e straniere, ma no Mattei o I'ENI. E che dire dei quotidiani di provincia e dei fogli di partito? E perché i fogli socialcomunisti sono i primi e più gelosi difensori dell'ENI e della sua politica?

Parliamo del petrolio persiano. Comincio col pigliare atto della rettifica data che la zona di sfruttamento della SIROP tocca il Golfo Persico, e passo al punto principale: Mattei o chi per lui ha presentato l'operazione iraniana come simile all'usualefifS-fifS; così è stata difesa da fogli amici, insistendo sulla similarità del contratto AGIP-NIOC con i contratti delle altre società petrolifere nel Medio Oriente. A smontare l'impalcatura basterebbe il fatto delle polemiche e delle temute proteste; una differenza ci deve essere; e se c'è quale il movente di nasconderla? Prima differenza è quella del rischio di perdere ventidue milioni di dollari se le ricerche riuscissero negative; seconda, il parziale rimborso di spese di ricerche in rapporto alle zone di produzione, non contandosi le zone improduttive la cui spesa di ricerca non sarebbe recuperabile; terza, i mancati utili in proporzione alla spesa e al rischio per quel 25 per cento che tocca alla società persiana, la quale non rischia niente e non lavora alle ricerche. Perché insistere sull'equivoco de1f;ifS-f;@ proprio per lo stile di Mattei, egli che sempre la imbrocca, sempre indovina, sempre vince. k il virus mussoliniano del duce che non sbaglia mai; al quale virus indulge il favore giornalistico per il padrone dell'EN1 e C., che anch'esso indovina sempre, anche quando sbaglia. Riguardo il problema politico dell'operazione, mi basta riferirmi a quanto scrissi nell'articolo precedente, riportando il passo de La Stampa. Riguardo la mancanza di capitali liquidi da impiegare in Italia, specie oggi, basta stare a contatto con il mondo finanziario. Per amore dell'Italia debbo augurare successo alla SIROP; ma per amore dell'Italia non si debbono mettere le premesse, come di fatto avviene, che un uomo abbia direttamente o indirettamente tanto potere economico e politico quanto ne ha Mattei, così da indurre la pubblica opinione a secondare tutto quello che egli fa e mettere gli organi di controllo, dai revisori ai ministeri, dal governo al parlamento, nella dura condizione di lasciarfaree di lasciarpassare tutto.


Ecco il motivo supremo del mio intervento: non solo la difesa della libertà economica, ma anche di quella strettamente connessavi, la libertàpolitica.

Il Giornale d'Italia, 16 ottobre 1957

Statalismo e libertà Non sono un binomio ccstatalismo e libertà», sono una antitesi; dove arriva lo statalismo cessa la libertà; dove arriva la libertà cade lo statalismo. Perciò prima va messo statalismo, poi libertà, perché lo statalismo fa la parte del riccio, entra nel buco con le spine abbassate e poi le va rialzando via via per farsi quanto più largo è possibile. C'è chi crede, o finge di credere, che la nostra campagna contro lo statalismo abbia di mira lo Stato, i suoi istituti e i suoi poteri; niente affatto; noi combattiamo gli eccessi ai quali, in nome dello Stato, arrivano i detentori del potere, sia legislativo sia direttivo sia esecutivo, limitando quella libertà che per la natura dello Stato democratico e nel quadro costituzionale è garantita e deve essere garantita al cittadino. Come noi non vogliamo che la libertà divenga licenza, così non vogliamo che lo Stato violi, ferisca, limiti sia il principio della libertà sia gli istituti che ne garantiscano l'esercizio; tale abuso noi chiamiamo statalismo. Stato è una parola astratta; parliamo degli uomini che tengono il potere: governo (presidente e ministri); parlamento (senatori e deputati); dicasteri (burocrazia dirigente); corpi giurisdizionali (giudiziari e amministrativi); enti pubblici (statali e parastatali). Questa complessa organizzazione dello Stato è quella che può creare lo statalismo anche se la Costituzione rispetta la libertà dei cittadini; e può difendere la libertà anche se nella Costituzione vi siano disposizioni lesive. Lasciamo lo Stato impersonale; parliamo dei nostri uomini in carne ed ossa con le loro virtù e le loro pecche, e cerchiamo di orientarci nel da fare per tutelare la libertà che in Italia purtroppo non si è trovata facilmente a suo agio. I1 nostro Risorgimento ebbe il merito di rivendicare la libertà insieme ali'indipendenza e all'unità nazionale; ma le seconde prevalsero sulla libertà. Basta ricordare che per quasi quarant'anni il diritto elettorale h basato sul censo; si dovette attendere fino al 1912 per ottenere il suffragio universale maschile. La libertà politica concessa a tutti, nella pratica fu negata ai cattolici, i quali per oltre mezzo secolo furono trattati da cittadini di secondo rango. Il Mezzogiorno ebbe un trattamento politico ed economico da colonia conquistata. La scuola fu monopolizzata dallo Stato con un progressivo accentramento e asservimento sconosciuti in altri paesi civili. Dico questo per ricordare ai liberali di oggi di non farsi vanto del loro liberalismo, confondendo uomini e cose. Ad ogni tempo i suoi mali e i suoi beni. La sopraffazione di partiti e la confusione dei poteri convivono stranamente anche con le più larghe teorie di libertà e di democrazia.

Dopo l'esperienza della dittatura che per reggersi ((passòsul corpo della libertà» (frase famosa che identificò il regime), l'Italia ritornò formalmente alle libertà costituzionali, ma viziate fin dall'inizio dalla partitocrazia dei Comitati di liberazione e dallo statalismo di si-


nistra. I danni delle occupazioni tedesca e alleata; la repubblica di Salò su base demagogica esasperata; la Resistenza fatta degenerare dai comunisti nelle vendette postarmistiziali; l'eredità degli enti e delle corporazioni e le ubbie autarchiche del fascismo, fecero da lettiera per la fecondazione della partitocrazia e dello statalismo. Non intendo dire con ciò che nulla si sia fatto di bene: tanto l'iniziativa individuale quanto i provvedimenti infrastrutturali dello Stato e gli aiuti americani, che durano ancor oggi, ci hanno dato una ripresa che va messa all'attivo di uomini e di eventi. Ma, con l'estendersi delle due malattie, la partitocrazia e lo statalismo in quasi tutti i cadpi dell'attività pubblica, sono state ferite quelle stesse libertà che la Costituzione ha riconosciuto e garantito. E poiché è ferrea legge umana che la libertà, come la virtù, come tutti i beni spirituali, si difenda ad ogni momento o decàde, il fatto della difesa dei pochi se può essere di un valore inestimabile, non è sufficiente per un popolo a conservarla e irrobustirla in una lotta fatta di insidie e resa più grave per le defezioni. Pensare che vi sono coloro che si dicono di avanguardia e pur credendo nella libertà ne calpestano i valori spirituali ad essa legati, o non curano l'immensa capacità della libertà di generare valori anche materiali nel campo della tecnica, dell'economia e del lavoro; essi son pronti a barattare tutto ciò con dei creduti vantaggi di categorie sociali o di ((poveragente)),come usano dire, sì da restarne alla fine a mani vuote senza libertà e senza i beni spirituali che ne derivano e neppure gli stessi beni materiali necessari alla vita.

L'errore dello statalismo si basa sopra una falsa concezione della vita associata, quella che, attraverso lo Stato, si possano ridurre tutti gli uomini ad unico livello sociale economico, come termine di una rivoluzione in atto. Il comunismo è uno di quei miraggi che non si possono realizzare e non si realizzeranno mai, neppure se attuato con la violenza e mantenuto con la forza. Il socialismo di Stato, che ne è una fase precedente, suppone la soppressione della classe padronale, il cui posto verrebbe preso dallo Stato. I tentativi infine di uno stadio di transizione quale quello di una socialdemocrazia o socialismo democratico, che lasci coesistere l'iniziativa privata con le socializzazioni di Stato (le più notevoli sono quelle inglese e italiana), non servono ad altro che a reare squilibri e discrasie, con danno non solo dell'economia nel senso più largo della parola, ma della efficienza politica dello Stato. I1 danno principale è nel campo della formazione psicologica di un popolo. I1 fascismo abolì la partecipazione popolare all'amministrazione e al potere della cosa pubblica rendendo il cittadino estraneo agli interessi comuni; gli statalisti economici di oggi paralizzano lo spirito di iniziativa, il desiderio dell'awentura economica, il senso del rischio, lo spirito di guadagno per fare del cittadino un fùnzionario di grandi e piccoli enti, con la sola ambizione della promozione, del trasferimento, della gratifica. Ma non è questa sola la grande colpa dello statalismo; ve n'è un'altra ancora più grave per l'educazione personale del cittadino operatore. Questi, ed a ragione, p a r d a lo Stato come un concorrente sleale, perché gli enti economici statali, parastatali e simili, hanno privilegi che egli non ha né può pretendere di avere. Ricordo quello dell'ENI di pagare le imposte a sei mesi dalla dara delle scadenze, o l'altro di ritenere gli utili che avrebbe dovuto versare allo Stato, utilizzando un capitale di reimpiego senza pagarne gli interessi. Lo stesso si propone di fare l'attuale governo con l'azienda dei monopoli dei tabacchi, autorizzandola a non versare allo Stato i 73 miliardi di utili di gestione. Quando questi enti perdono sono sowenuti dallo Stato; e quando, in regime di monopolio, tirano i miliardi di ta-


sca al consumatore, non li versano allo Stato, il quale deve quindi ricorrere a tutti i cittadini con gli inasprimenti fiscali, per fare fronte alle spese statali. Un altro malanno deriva agli operatori privati dal fatto che il novanta per cento delle banche sono statali o di diritto pubblico o statizzate (irizzate). Queste, per i motivi da me più volte denunziati, mantengono assai alto il costo del denaro e sono impegnate con lo Stato e gli enti statali in una maniera eccessiva. I1 privato operatore non trova denaro sufficiente alle proprie iniziative e denaro a tassi ragionevoli. Infine, la disparità e sperequazione di stipendi fra gli impiegati statali e quelli degli enti economici statizzati ha creato tale malcontento, che non sarà mai possibile contenerlo, estendendosi in tutte le sfere del pubblico impiego che oggi comprende larga parte di popolazione. Questo malcontento si estende a tutti i prowedimenti statali, specie previdenziali, per insufficienza, per disparità, per di~or~anizzazione, per impreparazione, per dilettantismo. Pochi istituti si salvano dalla crisi che incombe. Tutto ciò non è visto dai politici perché sono circondati da gruppi parassiti che speculano sui nostri malanni, sia a sinistra auspicando l'unificazione socialista o I'awento del comunismo; sia presso gli altri partiti che ciascuno a suo modo non reclama altro che intervento statale dalla mattina alla sera. .. . . Chi vuol rendersene conto legga tutti i disegni di legge di iniziativa parlamentare, li classifichi e troverà una continua richiesta di intervento statale per centinaia e migliaia di miliardi; e poi legga quelli del governo e li classifichi e troverà continui interventi statali e leggi fiscali. Dall'altra parte, leggi istituzionali, di riforma amministrativa e strutturale, si contano sulle dita. I1 vero compito dello Stato è messo fuori ruolo. Strano a dirsi, ma proprio per questo, lo Stato di diritto, lo Stato potere legittimo, lo Stato costituzionalità e libertà, va scomparendo: abbiamo al suo posto i piccoli e grandi ENI, i piccoli e grandi I N e il Ministero delle Partecipazioni che deve dare il colpo di grazia non solo all'economia ma allo Stato che si va scardin-ando.

Il Giornale dytafia, 23 ottobre 1957

Statalismo e monopoli privati I miei amici della sinistra dc, pur ammettendo e non tutti, che anche nel mio ultimo articolo Statalismo e Libertà, la linea sia esattamente quella della dottrina cristiano-sociale, affermano che io «circoscrivoi danni al progrediente fenomeno statalista e sottovaluto i danni del protezionismo che crea in non pochi settori una azione di monopolio». Inoltre il giornale d c di Firenze trova disturbante il fatto di coloro che difendendo l'iniziativa privata usino del mio atteggiamento per difendere i loro privilegi e per fare anch'essi una pubblicità discriminata. La mia critica contro lo statalismo dura da mezzo secolo, facendo lo statalismo capolino verso la fine dell'Ottocento; allora furono in pochi a vederci dentro il virus che avrebbe danneggiato economia e libertà; il più autorevole fra tutti il Pantaleoni; così la mia battaglia contro il protezionismo in genere e contro il dazio sul grano rimonta agli ultimi anni del secolo scorso. Fra i più illustri del tempo I'on. Colajanni, siciliano come me; e più


tardi il prof. Giretti, liberista di marca. Allora con la parola liberistisi designavano solo i libero-scambisti, i quali volevano una specie di mercato comune avanti lettera. A chi vorrà conoscere come e perché scelsi Londra e non altra città quando presi I'esilio, dirò che il viaggio era stato preordinato per partecipare ad un congresso europeo sul libero scambio (Free Trade); ma dopo aver dato la mia adesione e scritto ad amici, non potei partire per la difficile situazione che sboccò nel delitto Matteotti. Nell'ottobre successivo, deciso a lasciare la patria, pensai a Londra dove sapevo di trovare un ambiente amico fra libero-scambisti, fra soci della Fabian Society e della Saint Joan's Alliance e l'indimenticabile Angelo Crespi allora corrispondente del Popolo. Ai giovani di oggi tutto ciò sembrerà romanticheria; per me è coerenza non turbata da nessuna deviazione. Nell'appello ai Liberi e Forti per la fondazione del Partito Popolare, trentanove anni addietro, potevo scrivere convinto di trovare larghe e ferme adesioni il seguente periodo: «Ad uno Stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale, sostituire uno Stato veramente popolare che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i comuni - che rispetti la personalità individuak e incoraggi le iniziative private». I1 motivo precipuo della mia insistenza oggi contro lo statalismo è allo stesso tempo morale e politico; in un volume edito da «Pro Civitate Christiana~di Assisi, e poi tradotto in francese, dal titolo Eresie del secolo, è stato messo il mio scritto sullo statalismo; perché questo consolida il miro dello Stato-tutto a danno della personalità individuale, iicui valore spirituale viene attenuato e compresso; e anche perché, attenuando fino all'eliminazione l'iniziativa privata, mina la base della libertà fino alla soppressione. Lo statalismo è quello che prepara l'avvento del socialismo di Stato con la conseguente dittatura della classe o del proletariato; questa per esigenza naturale, diviene ben presto dittatura di funzionari e di militari come quella di Mosca.

Messa in chiaro la mia posizione, sarà bene notare che la protezione economica è atto

di Governo. Libero il cittadino di richiederla; libero il Governo di concederla se nell'interesse pubblico; di rifiutarla se nell'interesse privato. Chi può affermare che i Governi di centro dal 1948 ad oggi abbiano mantenuto ed aggravato il protezionismo per colpa dei grossi industriali proprio quando alle Finanze per lungo tempo vi fu quel Vanoni le cui tendenze a sinistra erano ben note a tutti? Oggi per fortuna siamo alla vigilia del Mercato Comune, il quale impegna tutti ad una seria revisione delle condizioni dei settori economici per adeguarli al futuro della piccola Europa. Ricordo le preoccupazioni che avevano in Italia i siderurgici dell'IRI e delle imprese private per la costituzione della CECA, proprio quando tutti puntavano sulla più rigida protezione; perciò i miei discorsi fatti nel periodo del partito popolare e i miei articoli appena dopo ritornato dall'America (settembre 1946) erano anche aspri contro la situazione siderurgica italiana che ritenevo dannosa per la nostra economia. I fatti smentirono tutti gli avversari della CECA, perché i prezzi sòno discesi e la produzione italiana è aumentata. Una delle protezioni più discusse è quella data alle industrie automobilistiche si da potere attuare il doppio prezzo, più alto all'interno e più basso all'estero. È questo un sistema adottato in altri Stati. Dicano i miei critici se si sentono il coraggio di proporre oggi il li-


bero commercio degli automezzi. Né credano irizzando o enizzando I'industria au.tomobilistica di poter fare a meno del dazio di protezione e del doppio prezzo di oggi. I1 libero scambio non è un sistema semplice, n6 da poter essere applicato unilateralmente, sì bene contrattualmente con lo Stato o gli Stati che intendano adottarlo nel loro rispettivo interesse. Così è pure il sistema doganale. Il Mercato Comune con tutte le clausole fissate e le ipotesi previste è un sistema complesso; si spera ottenerne nuova vitalità all'economia della vecchia Europa; declamare contro il protezionismo doganale oggi è alquanto fuori luogo. I casi particolari vanno individuati. Io comincerei ad esaminare I'ultraprotezione accordata, per richiesta di parte italiana, alle industrie produttrici di iodio e bromo (le Terme di Salsomaggiore, monopolio statale), del 108 per cento per lo iodio e del 50 per cento per il bromo. Gli amici di sinistra potranno informarsi essi stessi chi ne fu il proponente, quali i motivi e quali i risultati. La conquista del mercato estero è un problema che interessa sia i produttori e sia le maestranze. La Snia Viscosa oggi si trova in un difficile periodo per via del costo dello zolfo anch'esso a doppio prezzo: uno all'interno assai caro, l'altro per l'estero sotto costo. Purtroppo, la Snia Viscosa trova all'estero come concorrenti quei produttori di fibre artificiali che hanno acquistato zolfi italiani a prezzo differenziato, mentre l'industria italiana li ha pagati quasi il doppio. Credono i giovani di sinistra che la Snia non debba essere agevolata in questo punto concorrenziale sol perché si tratta di grande impresa? Che ne diranno gli operai della Snia se domani la produzione delle fibre artificiali dovrà essere contratta per la perdita dei mercati esteri? I1 Governo ha provveduto a prestiti di favore e a prowedimenti assicurativi per la nostra esportazione; credono essi che facendo così abbia il Governo agevolato solo i cosiddetti baroni delle industrie e non il lavoro operaio? Io sarò contento il giorno in cui i dc delle sinistre invece di fare delle affermazioni generiche, esaminino fatti e dati e i deputati di loro fiducia siano pronti a fare interrogazioni, a presentare disegni di legge (bene studiati, {intende) e che non siano soltanto quelli dei ruoli impiegatizi e delle nomine senza concorso.

Passiamo ai monopoli privati; ne ho scritto qualche tempo addietro facendo notare che i monopoli di diritto sono tutti statali; in regime di libertà non esistono altri monopoli. I privati possono utilizzare monopoli di fatto, owero ottenerli per accordi fra di loro allo scopo di evitare o attenuare la concorrenza. Un quasi monopolio di fatto sarebbe quello della bauxite in mano alla Montecatini, dopo che 1'Istria (meno Trieste) passò alla Jugoslavia; gli amici della sinistra dc non ne daranno certo la colpa al conte Faina. Potrebbe chiamarsi monopolio quello delle piriti; ma chi biasimerà una grande impresa se cerca di assicurarsi le materie prime necessarie alla propria dimensione produttiva? sarebbe da biasimarsi se ne fa accaparramento per impedire che altre imprese sorgano nel paese. Del resto, se un monopolio di fatto lede interessi pubblici lo Stato avrà il diritto di intervenire nel modo più equo e più congruo. Sono i fertilizzanti un monopolio? A parte le piccole fabbriche locali, esistono gli impianti della Federconsorzii, della Terni, della Bombrini Parodi e altri ancora; il CIP interviene a fissare i prezzi insuperabili. Dicono che il CIP sbaglia o è debole; se così, di chi la responsabilità se non del Governo? Ma la verità è un'altra, la produzione dei fertilizzanti va divenendo superiore alla domanda; il mercato estero non presenta oggi grandi prospettive per i nostri prodotti. La discesa dei prezzi forse verrà col Mercato Comune; sarebbe dan-


noso se venisse per merce invenduta accumulata nei magazzini. Sono i cementi monopolizzati? Se sì, i cementifici IRI-Cassa Mezzogiorno, Parodi-Delfino, Fiat dovrebbero essere della combutta, e ci dovrebbe essere anche il Governo col suo CIP Sono le macchine agricole un monopolio? In tal caso non solo la Fiat ma anche i Consorzi Agrari e il Ministero della Agricoltura che ne ha la sorveglianza, sarebbero della combutta. Perché la Camera, invece di annoiarsi ai lunghi discorsi e interminabili interpellanze e mozioni, non ha fin oggi curato l'esame dei disegni di legge Malagodi da un lato e La Malfa ddl'altro circa i pretesi o reali monopoli economici? Negli Stati Uniti d'America esiste una legge antimonopolista; votarne una anche qui darebbe la soddisfazione di potere con diritto parlare, in concreto s'intende, contro le pratiche abusive monopolistiche. Amici della sinistra dc, la verità è che voi mi accusate di difendere i monopolisti privati sol perché difendo l'iniziativa privata; mi accusate di non curare il benessere dei lavoratori sol perché io lo concepisco legato ad un'economia sana e perché reputo i monopoli e le imprese di Stato essere basati sopra un'economia falsa e bacata; mi accusate di non comprendere le istanzepresenti ed essere fermo al passato, sol perché lotto contro la politica di classe e contro il socialismo di Stato. Ditelo chiaro se è così; sarà meglio per me e per tutti.

Il Giornale ditalia, 31 ottobre 1957

ENI, Voce Repubblicana e GloboI6 Benché «LaVoce Repubblicana» non abbia fatto alcun cenno della mia richiesta di rettifica, voglio ritenere come equivalente (e ciò allo scopo di eliminare un fatto personale) la premessa di rispetto alla mia azione politica contenuta nel corsivo che commenta la.mia lettera pubblicata nel numero del 30 ottobre. Fra i meriti reali e quelli apparenti dell'ENI, sui quali mi richiama La Voce, e i lati negativi che io più volte ne ho rilevato, penso che la bilancia cada da questa parte; per la Voce la bilancia è quasi tutta dalla prima parte. Ecco un dissenso che ci porta alla valutazione opposta. Ma per me, come per gli antichi filosofi, vale il detto: Bonum ex intega causa. L'errore iniziale, voluto da Mattei e posto in atto da Vanoni, è stato quello di avere assegnato all'ENI I'esclusiva di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi in tutta l'Alta Italia;

l6

Lettera del 27 ottobre 1957 al direttore de ('La Voce Repubblicana»: Onorevole Direttore, Nell'anicolo «Polemica sull'ENIs & stato scritto che ai1 sen. Stuno in tempo si è ricordato del Parlamento e dei suoi dirittin e che «bene fa e finalmente a rivolgersi al governo solo responsabile di quello che nell'ENI awienen; la prego penanto di darmi atto di avere io più volte, o troppe volte come qualcuno avrà detto, nei miei interventi alla Commissione di Finanza e Tesoro, richiamato l'attenzione del governo su quanto I'ENI aveva fatto o avrebbe dovuto fare. Anche nei miei interventi in Aula ho rinnovato apenamente le mie critiche sia allo staralismo in genere sia all'ENI; specialmente nel discorso del 19 dicembre 1956. Ma fin dal novembre 1952, poco dopo essere stato nominato senatore, non mancai di presentare emendamenti sostanziali al disegno di legge istitutivo delllENI; purtroppo non potei svolgerli in Aula per via di una noiosa influenza. Avrei desiderato una cena ricerca prima di lanciare accuse ad un parlamentare che, pur a 86 anni e con malferma salute, non manca di adempiere come pub al suo mandato. Del resto, & nel metodo democratico l'uso della stama per illuminare l'opinione pubblica e denunziare quel che ciascuno reputa, nella sua coscienza, dannoso per Stato e per il Paese.

L


di avervi conglobato l'Ente Metano (nel cambio non vi è stato guadagno); di avere messo, a titolo patrimoniale, nelle mani dell'ENI le partecipazioni del demanio statale nelle società AGIP, ROMSA, SNAM e le obbligazioni ANIC. Si dice che chi troppo abbraccia, nulla stringe. Da circa dieci anni Mattei cerca petrolio; le speranze da Cortemaggiore in poi sono sempre fallite. In Sicilia egli spera; a Gela di sicuro avrà petrolio, per ora ha quello bituminoso forse non utilizzabile come petrolio. Anch'io spero che si trovi petrolio in quel di Caltagirone, non importa chi ne sarà lo scopritore. Purtroppo, a dodici anni di distanza dalla ripresa dell'AGIP, l'Italia non ha altro petrolio apprezzabile che quello di Ragusa. Non c'è da esserne contenti. L'ENI sì, al punto da estendere la propria attività in Somalia, Egitto, Persia e altri ipotetici posti, tenendo fermo allo stesso tempo l'esclusiva della Valle padana e i quasi tre milioni di ettari nel resto del territorio nazionale. La Voce Repubblicana ne sarà entusiasta; io no.

L'ENI statutariamente è controllato in base al codice civile, con l'aggiunta di un rappresentante della Corte dei conti, in esecuzione, dice la legge, dell'articolo 100 della Costituzione. Se il detto articolo è eseguito come nell'EN1, il meno che possa dirsi è che manca di significato. Di più, l'articolo 10 della legge dava facoltà ad un comitato di ministri di dettare le direttivegenerali che l'ente deveseguire;di fatto le direttive sono state esclusivamente quelle del presidente dell'Ente. Oggi si crede che la detta commissione non esista più e che sia stata soppiantata da quella prevista all'articolo 4 della legge istitutiva del Ministero delle partecipazioni per il semplice coordinamento interministeriale. Comunque sia, la prima riunione è avvenuta il 31 ottobre. Ecco come ne dà la notizia un giornale del mattino: ((11 presidente dell'EN1, on. Mattei, ha informato il Presidente del Consiglio e i ministri Pella, Bo e Gava sul programma che l'ente da lui presieduto si propone di svolgere in Italia e all'estero nei prossimi mesi. I1 programma è stato approvato da tutti gli intervenuti)). Avrei motivo di dubitare dell'esattezza, non sembrandomi possibile che sopra una relazione orale, senza documenti scritti, senza avere sentito gli organi tecnici dei ministeri competenti, senza una discussione atta a vagliare la portata politica delle proposte, a tamburo battente tutto risulti approvato. Può darsi che la notizia sia stata messa in giro per attenuare l'effetto delle interrogazioni e delle critiche di Montecitorio. A proposito delle quali, un quoti-

Mi duole che, nel caso presente, l'articolista, criticando il mio arteggiamento, non abbia pubblicato il testo delle mie interrofazioni,.una delle quali riguarda quella liberrà di opinione e di stampa, che deve rimanere intarra se si vuole su serio difendere il sistema rappresentarivo in libera democrazia. Fo notare, inoltre, che la mia linea di condorta politica, in 58 anni di giornalismo, è stata sempre uguale, sempre con il mio nome e cognome, pagando di persona senza r i h ~ i a r m ??o i nessuna etichetta. Perciò i miei articoli possono essere riprodotti in tutto o in parte liberamente a qualsiasi giornale con la convinzione che la mia libertà di opinione non è limitata dal colore del giornaie. Debbo a y u n g e y chefin dal mio ritorno in patria non mi è occorso di rilevare che il più noto dei tanti giornali che pub Iicano i miei anicoli abbia mostrato «tendenze monopolistiche». Non comprendo perchk l'articolista affermi che la posizione di critico dell'ENI cominci ad essereper ambedue imbarazzante. Per me non lo è affatto; h o iniziato io la polemica con i miei attacchi, sperando che l'opinione pubblica si fosse svegliara dal rorpore in cui si trovava. Se 0%;i si' comincia . ' , a sentir rumore, ciò è er me una soddisfazione; non lo dico per senso di orgoglio, ma con la m inconia di chi vede che perfino l9o#aa aila liberrà di stampa, senza la mia interrogazione, sarebbe passata, forse, sotto silenzio. Ringraziamenti e disrinci saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 507, fasc. .Art. e I. del Prof. L. S.., sett.-ott. 1957.


diano di Firenze, amico di Mattei, ci ha fatto sapere che Pon. Bucciarelli Ducci ha sconfessato I'on. Dante per il suo attacco all'ENI; si tratta in verità di cosa meno tragica. All'uscita dall'aula il vice presidente del Gruppo d.c. ha fatto notare all'on. Dante di avere parlato per 40 minuti invece dei 20 consentitigli. L'Unità e rAvanti!da parte loro sono partiti in quarta contro il Ministro Gava per gli accenni circa I'esclusiva delPEN1 nella Valle padana. Il risveglio dell'opinione pubblica va legato al fatto della convenzione persiana e della réchme eccezionale che I'ha accompagnata, mentre in Italia le ricerche di petrolio sono al punto di prima, e le spese aumentano in tale maniera che I'ENI deve ricorrere al credito obbligazionario, non bastandogli il ben largo autofinanziamento.

Voci insistenti e non di avversari ci danno l'idea che il complesso ENI tenga una amministrazione spendereccia, con largo clientelismo e parassitismo; stipendi superiori a quelli che dà la g a n d e industria privata. Il fatto che più di quaranta società per azioni a carattere privatistico fanno capo all'ENI non è tranquillizzante; sia perché tali enti sfuggono a qualsiasi controllo pubblico, persino quelli elencati nella legge istitutiva come dotazioni dell'ENI; sia perché sono troppo facili le combinazioni e gli accorgimenti contabili per evadere i controlli interni e quelli del fisco. Non dico che sia questo il metodo ordinario delI'ENI o solo dell'ENI; può essere anche di altri enti pubblici e privati; dico che bisogna pregare il Signore di non indurci in tentazione. Circa la facilità di spendere, e di spendere troppo, ho dato un esempio palmare presentando le cifre del millimetraggio della sola pubblicità commerciale AGIP dell'anno 1956. L'ori. Mattei ha risposto che anche l'ente pubblico «può fare uso della offerta aggressiva del prodotto per la conquista delleprefprenze del consumatore».Infatti, mentre il millimetraggio della pubblicità dell'ENI nel 1956 arrivò alla cifra di 3 milioni 738 mila 143 lire contro un totale delle tre altre ditte messe insieme di 1.378.437, nello stesso anno la vendita dell'EN1 di benzina e supercarburanti, di petrolio, di gasolio, di olio e di lubrificanti raggiunse nel totale appena una media del 14, 5 per cento, contro il totale delle altre ditte de11785,95 per cento. Con. Mattei per la sua offerta aglgfessivaha capovolto i termini della legge economica del minimo mezzo col massimo risultato; egli adotta il massimo mezzo col minimo risultato, nonostante che la vendita dal 1952 ad oggi sia stata quadruplicata come egli afferma e nonostante che abbia utilizzato un millimetraggio di circa 16 volte maggiore di quello corrispondente al volume delle vendite. La stessa legge capovolta è stata confermata dalle spese fatte dall'AGIP, senza risparmio di numero e di costo, per le stazioni di presa da me definite monumenti. Se il ministro competente facesse un'indagine seria (compresi i costi delle aree acquistate) arriverebbe a constatare cifre altissime che costituiscono un immobilizzo di capitali per attuare la cosiddetta offerta aggressiva. Dalle lettere ricevute rilevo che a Voghera in cinquecento metri di distanza vi sono tre stazioni, una delle quali con albergo, ristorante et similia. Quasi lo stesso a Perugia; a Potenza vi è un monumento in una piazza del centro. E che dire del villaggio AGIP-Cadore per i dipendenti della società? Attualmente sono state fabbricate (mi scrive un altro signore) cinquanta ville con larghezza di mezzi sia per la costruzione che per l'arredamento; altre quattrocento sarebbero in corso per il personale ENI-AGIP I parlamentari amici, ce ne sono in tutti i campi, sono pregati di fare la salita dei 1.500 metri per ammirare ville e panorama. Un «temone»(come si dice lassù) mi ha scritto (come gli altri, col suo nome e cognome, e indirizzo) che egli da oggi in poi chiamerà monumenti le costru-


zioni AGIP disseminate nel paese; prima di oggi le chiamava cattedrali. Cattedrali, aggiungo io, senza immagini sacre né Crocifissi, come risulta dalla circolare del 5 luglio 1957; ometto il nome del funzionario che l'ha firmata.

È malinconico rilevare tanto scempio, e non è il maggiore ma è il più evidente, quando oggi non si hanno sufficienti risparmi per i necessari investimenti; e molte iniziative utili e promettenti rimangono paralizzate. Ogni sperpero dovrebbe essere evitato e punito. Gli stessi enti pubblici, IRT ed ENI in capo, cercano capitali a mezzo di obbligazioni, che il comitato del credito autorizza troppo facilmente. CENI cerca lire e dollari per il costoso impianto di Ravenna e per le iniziative estere e perfino per il normale andamento delle proprie aziende. Ebbene, non posso finire senza ricordare che la presente polemica con la &ce Repubblicana ha un punto di partenza, quello della sospensione della pubblicità del Globo, reo di aver detto male.. . di Garibaldi. La Voce Repubblicana nel corsivo alla mia lettera e nell'articolo di La Malfa non si rende conto degli alti motivi morali e politici che ispirano la mia battaglia di mezzo secolo contro lo statalismo, del quale I'ENI è la più recente e pericolosa espressione. Tornerò sul tema; qui mi mantengo sul piano dei fatti; il più grave dei quali, politicamente, è stata la mancanza di solidarietà giornalistica in difesa della libertà di stampa. Sia sui giornali di partito che sui quotidiani dalle testate storiche il silenzio è stato completo. I1 colpevole di tutto ciò sarei io che ho alzato e non da oggi la voce anche contro le sowenzioni giornalistiche sotto aspetto di pubblicità (visibile, semivisibile ed invisibile) per la conquista aggressiva delmercato (dice Mattei) e dell'opinione pubblica (dico io).,Il ministro Bo ne dovrebbe dar conto al Parlamento, se.. .

Il Giornale dytalia, 6 novembre 1957

Spirito di umanità e di comprensione Non è la distanza che distacca: è lo spirito di distacco che distanzia gli uomini fra di loro. Due persone vicine o conviventi possono sentirsi lontane quanto i due poli e come tali non trovare modo di avvicinarsi; mentre due persone che vivono lontano l'una dall'altra possono tenere relazione intellettuale, politica, commerciale, di vicinanza piena, di umanità. La parola «umanità»nel significato di gentilezza, cortesia, condiscendenza, benevolenza è raramente usata: ma ha un valore pregnante, perché esclude la parte inferiore e passionale dell'uomo e ne include la parte più nobile ed elevata. C'è l'aggettivo cristiano che, a parte il significato proprio di elevazione religiosa che tocca il divino, comprende tutte le qualità di vicinanza del prossimo in un amore che ci congiunge a Dio: ma tale aggettivo nel linguaggio delle relazioni pubbliche (pubbliche nel senso di vita associata in tutte le sue appartenenze) può essere equivocato, e non riuscire adatto a caratterizzarle. È chiaro, però che ogni contatto umano dal quale siano esclusi l'egoismo, l'ira, i'orgoglio, il risentimento, in fondo è e può dirsi cristiano, secondo l'insegna-


mento di S. Paolo dove precisa che frutto dello spirito è l'amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mitezza, e così di seguito. Perciò usiamo il termine di umanità, precisando che il compito delle associazioni internazionali e nazionali delle Relazioni Pubbliche è proprio quello di fare che gli uomini nei contatti di affari, pubblici o privati, si avvicinino con reciproco rispetto, fiducia, comprensione, amabilità, coitesia, interessamento. Anche quando l'esito o la risposta sarà negativa (e tante volte deve essere negativa) e se ne dovrà rendere evidente e nei modi più comprensivi possibili il buon motivo legale o morale o di convenienza. Con il sistema parlamentare i contrasti politici e la lotta dei partiti sono portati sul piano civile delle elezioni, del referendum e su quello parlamentare; forme queste di diritto e di fatto di alto livello civile accettate e volute per legge e secondo le regole del sistema e la decisione di maggioranza. È incomprensibile in paesi civili il fatto che tali elevate forme di vita pubblica possano essere turbate da faziosità verbali, da tumulti nelle aule parlamentari, da lotte incivili, da intolleranze reciproche. Si tratta purtroppo di residuo dello spirito fazioso di altri tempi, di mancanza di educazione, sì da fare sfogo agli istinti animaleschi e volgari della parte bassa della nostra natura. Le Relazioni Pubbliche, come associazione assertiva, educativa, divulgativa del senso superiore di convivenza umana, di rispetto reciproco, di comprensione e di elevatezza spirituale, contribuiranno molto al miglioramento del costume, alla solidità delle istituzioni e alla pacificazione degli spiriti turbati da pregiudizi e da passionalità.

Il Pubblico, 12 novembre 1957

Classe dirigente e statalismo Parlo della classe «politica» che un tempo fu detta «classe dirigente»; ma di fatto non è classe nel vero senso della parola; non è dirigente nella maggior parte dei casi; e, per giunta, sarebbe una pretesa chiamarla politica. Ciò non ostante, la classe dirigente interessa la pubblica opinione, perché si presenta ora come tutrice dello Stato; ora come fattrice di benessere; ora come distributrice di favori; come perequatrice dei beni e dei mali sociali; innovatrice; riformatrice, rivoluzionaria; tema perenne delle critiche di farmacia e delle declamazioni dei comizi. Qualche cosa di vero deve esservi se questa è divenuta oggi così ingombrante e petulante, d a riempire intere pagine di giornali, da occupare tanta parte delle preoccupazioni cittadine. Intendiamoci sui termini; perché classe? Perché il vocabolario non ci dà altro termine che quello storico usato nel periodo quando vi erano le classifiche civiche, giuridiche e politiche. Vale sempre il precetto di Orazio: usus teplura docebit, l'uso ci ha insegnato a chiamare classe quella che non è affatto una classe. Anticamente l'idea di classe fu legata ad uno schema organico, ad una funzione determinata da norme legali e rispondenti ad un regime vincolistico; ora usiamo la parola classe in un significato astratto, atipico, come categoria che riteniamo esistere per adattamento mentale. Breve: per noi è indifferente che classe politica indichi il partito o l'apparato del partito; i parlamentari o gli adulatori e i parassiti dei parlamentari; i ministeri, gli enti sia in astratto che in concreto o la relativa bu-


rocrazia. A tale complesso diamo la cqualifica di classe dirigente perché ha in mano il potere o sembra che l'abbia; dispone dell'avere altrui o sembra che ne disponga.

Cominciamo dal Governo che sta in mezzo fra il Parlamento e la burocrazia dei ministeri. I1 Parlamento deve o dovrebbe dare i suoi indirizzi politici al Governo; approva leggi, bilanci preventivi e rendiconti consuntivi; presenta interrogazioni, discute interpellanze, mozioni eccetera. La burocrazia deve o dovrebbe eseguire le leggi, osservare e fare 0sservare i regolamenti, attuare le istruzioni del Ministro o del Consiglio dei Ministri. Tutto andrebbe bene se proprio fosse il Parlamento e non i partiti a decidere indirizzi e leggi da approvare; se non fosse l'alta burocrazia a precisare programmi, indirizzi, regolamenti, circolari; se non fosse la stessa burocrazia ad attuare o a non attuare quel che viene passato come volontà governativa e indirizzo parlamentare. In sostanza noi ci troviamo in un organismo in cui i dirigenti normali sono per il novanta per cento diretti da corpi estranei (i partiti) o da dipendenti (I'alta e media burocrazia). Partito e burocrazia sono termini astratti; indicano un potere anonimo e politicamente irresponsabile. Ci saranno presidenti e ministri di grande capacità di sintesi, di ferrea volontà e di savoirfaire, tali da farsi rispettare e dai partiti e dalla burocrazia; e se si vuole, da imprimere un proprio stampo alla politica. Non bisogna illudersi, sia perché i ministri vanno e vengono; partiti e burocrazia restano; sia perché l'impronta può essere data dai veramente grandi ministri e non da tutti; solo su settori circoscritti con realizzazioni particolari sia pure importanti: Cavour per l'unificazione nazionale; Sella nel campo finanziario; Giolitti per la conquista libica e il suffragio universale (voluto più per convenienza che per convinzione); Orlando per la resistenza dopo Caporetto; De Gasperi per la conciliazione con gli alleati e la concezione europeista. Nel resto, più o meno, come tutti.

Parliamo dei partiti: chi crederà mai essere le sezioni locali a condurre i comitati provinciali? E questi a condurre i congressi? E i congressi a fissare norme per i consigli nazionali? E così di seguito fino ad arrivare alla direzione centrale, al comitato direttivo e al segretario del partito. E i1 partito che comanda o comanda l'apparato burocratico? Owero comandano if;nanziatori oggi che i partiti hanno spese un tempo insospettate? Per una specie di assicurazione sulla vita, chi più chi meno, i finanziamenti vanno a tutti i partiti, alle frazioni dei partiti e ai gruppettini dei partiti; si tratta di reciproci vantaggi di settore per gli uni e per gli altri. La verità è che i partiti non tutelano né possono tutelare i'economia nazionale per il fatto che i partiti, tutti i partiti, non hanno e non possono avere capacità di sintesi, né vedute a lunga scadenza; vivono del particolare, del caso per caso, alla giornata, dovendo ogni giorno tamponare le situazioni interne ed esterne che ne corrodono la compagine. Per di più, un popolo come l'italiano non ha istinti gregari, è individualista; pensa a sé, e, in larga parte, si disinteressa della politica salvo a mormorare; il medio italiano o si adatta al meno peggio owero diviene fazioso. Donde lo sminuzzamento dei partiti; i contrasti fra i vari raggruppamenti; le lotte per il primato; le aspirazioni dei più intraprendenti ad avere posti; il dissidio fra giovani e anziani, fra capi e sottocapi. La stessa D C , la quale dovrebbe essere un partito unificato da grandi ideali e da un'autodisciplina volontaria fatta di convinzione, soffre anch'essa del frazionamento di gruppi, con


a lato organizzazioni classiste infette di sinistrismo di base. I dissidi locali tra le fazioni di& ficilmente possono essere composti dati gli arrivismi personalistici e i troppo facili metodi del centro di inviare commissari, senza alcun rispetto al metodo di libertà democratica.

Infine, sono stati moltiplicati gli enti economici statali ed equiparati, con un potere tanto più efficiente quanto più essi dispongono di larghi mezzi. I presidenti e amministratori di tali enti fin oggi sono stati nell'ombra; operando nel proprio settore, chi bene e chi male, non desiderosi di esporsi troppo. I1 fenomeno Mattei è nuovo. I Beneduce, i Menichella sono stati all'IRI saldi amministratori, invadenti anche, statalizzatori certo. Mattei ha metodi modernissimi che lo portano in primo piano nell'ammirazione degli amici e dei favoriti e nella critica degli avversari. Deputati, senatori, ministri, non pretendono come tali di essere statisti, ma sono statalisti per abitudine; hanno seguito la politica di Mussolini per paura della libertà; hanno aumentato il fiscalismo per una necessità creata da loro stessi perché l'economia nazionale è oggi nelle mani dello Stato per quasi il 50 per cento. Noi siamo oggi dentro una rete formata, consapevolmente o no, da tutti gli stipendiati statali, siano o no parlamentari, da tutti gli sti~endiatidegli enti, siano apertamente od occultamente uomini politici, da tutti i burocrati, siano o no legati nei sindacati di categoria. La libertà, l'unica che rispetta la personalità umana, l'iniziativa privata, il valore morale del rischio, la vitalità della società, la vera eguaglianza umana, la libertà va perdendo di giorno in giorno le sue posizioni chiave. Leggendo il libro del montenegrino Gilas, che sconta in carcere la sua conversione alla libertà, si arriva alla conclusione che la nuova classe s'identifica con il partito unico e con la dittatura socialcomunista. In Italia esiste la libertà di fondare dieci o venti partiti; di fare le elezioni senza coazione e senza interventi di polizia; di stampare centinaia di quotidiani e periodici di ogni specie anche con le più sguaiate vignette. Ma il potere non è più animato daila libertà; la base del potere, il diritto, non è più rispettato; la forza del potere, l'economia, non è in mano libera; lo Stato si va sfaldando, perdendo terreno con l'avanzare della sua contraffazione, lo staralismo, dominato da una classe dirigente invisibile perché anonima, incoerente e irresponsabile. Lo statalismo può essere prodotto dalla dittatura ovvero può essere una premessa alla dittatura. Noi, che abbiamo ereditato il virus dello statalismo nazional-fascista, stiamo allegramente avviandoci allo statalismo di sinistra che non potrà essere che socialcomunista. La nuova formula verrà con il fronte popolare a base laica, vecchio indirizzo rinverdito e patrocinato oggi da Mosca. Tutti ne abbiamo la colpa. È ora di rivendicare la libertà vera, efficiente, totale, come centro focale della prossima battaglia elettorale, per liberarci dal pericolo statalista e dalla dittatura laico-social-comunista.

Il Giornale d'ltalia, 20 novembre 1957

Libertà economica (Risposta ai tre) Ugo La Malfa mi diresse sulla &ce Repubblicanal'articolo «Lotta contro il privilegio»; dovevo rispondere ma seppi che era andato in clinica e gli spedii un telegramma di auguri che


egli cortesemente accettò. Dopo La Malfa è intervenuto sull'fipresso Eugenio Scalfari; due giorni dopo sul Mondo Ernesto Rossi; i tre mi criticano per l'atteggiamento decisamente a favore dell'iniziativa privata, chiaramente contro gli enti di Stato, particolarmente contro I'ENI. Se avessero discusso la mia teoria che trapela da ogni mio scritto e anima la mia critica, ne sarei stato lieto; no, essi mi attribuiscono quel che io non ho mai detto né scritto; mi presentano come uno che ha smentito se stesso; che ha buttato via il suo passato e si è mes"so oggi a fare il difensore dell'industria privata, basata sul privilegio, sfruttatrice del consumatore e del lavoratore. Non è certo questa l'iniziativa privata che io difendo; altrimenti non avrei potuto richiamarmi ai miei precedenti sul libero scambio, alla mia lotta contro le barriere doganali, al mio largo consenso (sostenuto da teorie e studi nei miei libri e scritti vecchi e nuovi) a favore della Comunità internazionale della CECA e del Mercato Comune; tutto ciò senza interruzioni, senza pentimenti né abiure, nella mia continua lotta contro ogni vincolismo e parassitismo; e come potrei oggi, «per la contraddizione che no1 consente)),essere mai il difensore dei monopoli e dei privilegi privati? Ma neppure, vivaddio, il difensore dei monopoli pubblici, come lo sono decisamente i miei contraddittori. Che io abbia messo dippiù i'accento sulla politica statalista di questo dopoguerra e sui monopoli statali di diritto e di fatto (i peggiori: di diritto quello delllEN1 nella Valle padana, di fatto quello delle banche statali o irizzate) trova la giustificazione nel fatto che nessuno reagisce contro lo statalismo, non il Parlamento, non il Governo, non i partiti, compreso il partito liberale: i casi di Villabruna e di Cortese al Ministero dell'Industria non potranno essere dimenticati. Essendo io un libero cittadino, libero anche da vincoli di partito, da interessi politici ed economici, da legami di parentela con i personaggi più impegnati nella politica e nell'economia, da rapporti anche personali, posso darmi il lusso (che non è un lusso molto ambito) di pigliarmi le noie del polemista ad ogni costo. Perché, mi si domanda, non fai la critica ai baronidello zucchero o dell'elettricità o dei cementi ed altri della stessa risma? Si dimentica facilmente il passato remoto e prossimo, I'autarchia e la guerra. Quale il torto di liberi cittadini che operano dentro le leggi vigenti e i regolamenti statutari? Colpa può essere di coloro che non riformano leggi dannose o regolamenti mal congegnati. Partiti, Parlamento, 'Governo (metto per primi i partiti che oggi fanno la parte del leone) ne parlano, ma non operano o non operano bene. Si è parlato di legge atta ad impedire i cartelli di prezzi e i monopoli di produzione; perché non è stato discusso tale disegno di legge? Da parte mia ho scritto più volte contro il CIP, contro le casse conguaglio, contro le tariffe doganali proibitive e dannose. Io sono più avanti dei miei contraddittori perché chi vuole la libertà commerciale e chi sostiene il libero scambio non può volere vincoli come il CIP, né disposizioni che vietano la concorrenza come quelle sui medicinali. Più di tre anni fa presentai al Senato la mia proposta per l'abolizione del monopoliodell'importazione del grano dall'estero. La commissione ne ritardò per due anni l'esame e poi diede parere contrario. Naturalmente in aula ebbi una solenne bocciatura; appena il mio voto e altri cinque o sei. Nessuno dei miei contraddittori di oggi (che io sappia) disse allora una parola in proposito; ignorarono l'affare. Quando il Governo volle intervenire a rifare le tariffe elettriche con l'aggiunta della cassa conguaglio, che è finita nel fallimento, chi parlò e scrisse contro fu il sottoscritto; dei miei contraddittori non ricordo un rigo. E chi propose di rompere il vincolo tariffario attraverso condutture elettriche di Stato e la concorrenza da parte della Finelettrica ancorata all'IN,se non il sottoscritto? La Finelettrica accettò le tariffe e non ebbe altro pensiero che quello di far passare d ' I N la SME attraverso le partecipazioni azionarie. Una politica assurda questa, degna di megalomani incoscienti e ispirata al più stupido statalismo.


Scalfari è molto intelligente per non comprendere che l'esistenza di grandi imprese che arrivano a coprire il 70 e 1'80 per cento della produzione non significa creare dei monopoli; potendo ciò essere indice di una economia nascente nella quale gli audaci occupano il campo; o di un'economia inceppata per l'assorbimento di gran parte dei risparmi in mano agli enti pubblici; o della necessità della difesa dalla concorrenza estera di complessi industriali che non si improvvisano; ovvero di monopoli di fatto consentiti per indirizzo di Stato. I1 monopolio degli zuccheri, per esempio, è legato a ben nota politica nel Polesine, e non da ora, per fare sviluppare una industria a costi più elevati di quella estera. Bene o male? I1 Mezzogiorno e la Sicilia si svegliano in questo campo; sarà questo un elemento di controprova di un indirizzo statale che certo merita di essere riveduto. Problema questo, e molti altri che non si risolvono certo creando enti statali con o meno annessi monopoli come quello dell'ENI. Quando La Malfa sarà ritornato al suo posto di lavoro ripiglierò con lui il dialogo Interrotto. Qui accenno solo alla mia frase, che egli riporta meravigliato, cioè: «dec1amare contro il protezionismo doganale oggi è alquanto fuori luogo», non avvertendo che questa frase è là in rapporto alla precedente proposizione sul trattato per il Mercato Comune e sulla complessità delle clausole annessevi. Quale paese oggi potrebbe toccare le proprie tariffe doganali senza averne prima concordate le variazioni con gli Stati della piccola Europa?

I1 problema fondamentale non sta nelle frasi staccate, né nella valutazione del caso per caso. Ho letto la sdegnata confuta della «Olivetti» contro chi l'accusava di monopolio delle macchine da scrivere; si tratta più o meno dello stesso caso di molte grandi imprese industriali a notevole produzione, con la differenza che i prodotti della «Olivetti» non sono soggetti al CIP che regola i prezzi in base ai costi, mentre vi sono soggetti elettricità, zuccheri, cementi, fertilizzanti e medicinali. Se io difendo la ({Olivetti))sarò un galantuomo; se difendo per esempio, la Montecatini o la Italcementi, la Carlo Erba o la Squibb sarò un alleato dei baroni. La verità è che non sono alleato né agli uni né agli altri; sono contro il CIP, istituto incostituzionale che non serve allo Stato né al consumatore e che in certi casi giova molto a quelli che i miei avversari chiamano baroni. I1 consumatore va difeso a mezzo della concorrenza; ma questa è inesistente o poco consistente per via delle barriere doganali (che speriamo cadranno presto per formare la piccola Europa), del CIP e degli enti economici di Stato. Ed ecco la prima necessità per una lotta razionale: smontare per quanto è possibile la macchina dell'economia di Stato. Se il Mercato Comune non creerà un nuovo e più pesante dirigismo e arriverà a mettere gli enti statali sul piano concorrenziale, i vantaggi saranno notevoli per una economia libera. Ciò posto, io domando dove vogliono arrivare i miei contraddittori alla vigilia del Mercato Comune con la loro lotta ai grandi complessi economici privati italiani; alla nazionalizzazione?al controllo dello Stato per via delle partecipazioni come si è fatto con la SME? alla convivenza delle due economie, la privata e la statale, supponendo possibile la concorrenza leale fra chi non rischia e chi rischia; chi spende e impegna il denaro di tutti e chi spende e impegna il denaro proprio? Tanto l'on. La Malfa quanto i ministri attuali, Zoli, Pella, Campilli, Gava, Cassiani, Andreotti nei loro recenti discorsi e scritti hanno parlato della indispensabilità dell'iniziativa privata e della utile convivenza con le società statali e statizzate. La Malfa così conchiude il suo articolo: «Nella civiltà occidentale odierna, i'iniziativa privata rimane ancora il fondamento deli'attività economica.. . ma l'iniziativa pubblica ne è il quasi naturale completamento». Scal-


fari mi sembra che faccia un passo più avanti awicinandosi al pensiero e alle dichiarazioni del ministro Bo. Rossi vorrebbe messi i baroni al bando; ma visto che i baroni esistono e usano metodi deplorevoli, ammette che gli enti statali possano e debbano fare lo stesso, anzi dippiù: a galeotto, galeotto e mezzo. Perciò egli approva Mattei e difende I'ENI. Se questa sia una politica adatta a preparare il Mercato Comune, lo domando ai miei distinti contraddittori. Purtroppo i partiti, il Parlamento e il Governo sono talmente presi dalla voglia di statizzare, che han creduto loro dovere passare subito all'IFU i telefoni già in mano all'iniziativa privata, aggravando l'erario degli oneri di riscatto. Mattei è saltato subito addosso all'energia nucleare, come se ne avesse una specie di primogenitura, e impegnando capitali che non ha e «non chiede ai privati», perché (come ha fatto scrivere sui giornali da quel bene attrezzato ma poco intelligente ufficio stampa) ail suo prestito obbligazionario è solo sottoscritto dalle banche», come se le banche avessero il pozzo di S. Patrizio a disposizione e non dovessero impegnare il risparmio privato. Leggere per credere! I1 punto nero della situazione è costituito dal Ministero delle Partecipazioni; con l'aperta tendenza sinistrorsa si può arrivare, attraverso l'acquisto azionario, a penetrare nelle aziende private. Le imprese deficitarie finirebbero sulla breccia dello Stato, come awenne per il FIM: Reggiane, Ducati, Breda; le imprese forti e serie nomineranno rappresentanti statali nei propri consigli di amministrazione e nei collegi sindacali. Tali rappresentanti faranno a tempo e a luogo il mestiere della gatta morta ovvero quello del riccio. Tale ingerenza statale, concepita nel più problematico modo, porterebbe a due conseguenze psicologiche pericolose: provocando in primo luogo una graduale paralisi dell'iniziativa privata, perché gli operatori non sapranno né potranno mai sapere fino a quale punto lo Stato andrà su questa falsa strada; in secondo luogo spingendo verso una sempre maggiore ingerenza statale. Se oggi le banche in mano allo Stato possono rifiutare finanziamenti sgraditi all'IRI e all'ENI (faccio un'ipotesi, non un'accusa) cosa succederebbe domani per prendere in mano imprese private senza ricorrere a leggi di nazionalizzazione e senza pagare indennizzi e riscatti? Addio equilibrio di forze, concorrenza economica leale, possibilità di convivenza fra economia privata ed economia pubblica: tutto politicizzato e diretto verso il socialismo di Stato. Chi mi comprende sa bene dove mira la mia lotta; chi non mi comprende o mi fraintende deve essere un dirigista o uno statalista convinto avendo già perduto fede nella libertà, nei valori della persona umana, nella possibilità del progresso economico mediante I'iniziativa privata. E allora che differenza vi sarà fra costoro e i socialcomunisti?

Il Giornak d'Italia, 27 novembre 1957

Cinquant'anni addietroi7 Conobbi il giovane Tupini nei miei continui viaggi a Roma, quando ero pro-sindaco di Caltagirone e consigliere della Associazione Nazionale dei Comuni italiani; e frequentavo allora amici e colleghi, Santucci, Tolli, Pericoli, Pierantoni dell'azione cattolica romana; Murri, Stirati, Mattei Gentili della prima democrazia cristiana. l7 Scrimo in omaggio a Umbeno Tupini. In: A.L.S., b. 507, fasc. h. e 1. del Prof. L. S.», nov.-dic. 1957.

150


Erano gli anni di speranze e di ansie nel campo cattolico; disciolta l'Opera dei comitati e dei congressi e data la spinta alla Unione popolare presieduta da Toniolo, erano rimasti in piedi oltre la Unione Elettorale Cattolica alla quale facevo parte, la Gioventù Cattolica dove si formavano le nuove reclute fra le quali venivano notati Cingolani e Tupini. Furono questi due che mi organizzarono una conferenza al Circolo di S. Pietro, sulla mia esperienza amministrativa nel comune di Caltagirone e nell'Associazione dei Comuni, nella quale cattolici e liberali in quel periodo tentavano di guadagnare la maggioranza, tenuta fin allora da radicali e socialisti. Tupini mi fece l'impressione di un giovane di larga promessa nel campo organizzativo dell'azione cattolica, convinto, entusiasta e allo stesso tempo cauto e prudente. Egli si tenne lontano dagli estremismi che tentano i giovani con tanto maggior vigore quanto meno hanno esperienza della vita. Tupini, che si avviava all'esercizio della professione legale, temperava i suoi ardori con l'attività pratica anche nel campo organizzativo e attraeva con la gentile semplicità che gli chiariva il viso. Nel gennaio del 1919 sentì egli l'appello «ai liberi e forti))e fu tra i fondatori del Partito Popolare Italiano; in seguito fu portato nelle Marche come deputato. I1 resto è noto: la sua carriera politica gli ha dato occasione di affermare le sue doti e di fargli provare il sapore amaro (necessario sapore per chi ne sa trarre i reali vantaggi) della vita pubblica. Ora messo al bivio fra senatore della Repubblica e Sindaco di Roma, sarà costretto a scegliere; quale ne sia la scelta, egli saprà compiere il suo dovere obiettivamente, subendone, se occorre, critiche e amarezze. E che cosa è la vita, anche pubblica e soprattutto pubblica, se non critiche e amarezze? Ma vi sono i momenti di consensi. Mezzo secolo non è passato invano. Dattiloscritto, 28 novembre 1957

Battaglie utili e inutilila Egregio Direttore, Nulla ho da osservare a <(MarcoPapirio)) circa il rilievo climatico della seduta senatoriale del 22 novembre; mi piace rettificare l'ora, del mio discorso, che non fu di mattina, ma esattamente alle ore diciassette. All'impaginatore che oppose per titolo: ((L'inutilebattaglia di don Sturzo a Palazzo Madama» devo aggiungere che le vere battaglie non sono mai inutili, anche quando i'esito pratico non sia favorevole. Ciò dimostra lo stesso Messaggero con la sua validità critica alla piccolissima riforma approvata dal Senaro, usando gli stessi argomenti che han dovuto fare una certa impressione a coloro nel paese che hanno tuttora fede nell'Istituto parlamentare e ritengono necessaria la funzione di un Senaro in regime bicamerale. La ricerca di motivi di divagazione, anche nei corridoi e nelle aule parlamentari, non deve servire a far passare come fatti normali quelli di un sistema partitocrarico che si va inserendo nelle nostre istituzioni; il mio rifiuto a riconoscere autorità ai pre-accordi di Grup-

''

Lenera ai direttore de «Il Messaggero*, scritta in risposta all'arricolo pubblicato dallo stesso giornale con il titolo «L'inutile battaglia di don Sturzo a Paiazzo Madama».


po, tali da dare alla discussione e alla votazione parlamentare la figura di semplice recitazione di commedia per intrattenere il pubblico non deve passare sotto silenzio, neanche in un articolo, o specie in un articolo di Marco Papirio. Distinti saluti Luigi Sturzo

Il Giornak d'Italia, 1 O dicembre 1957

Senato: problema aperto Nessuno potrà pensare che il Senato sia in Italia un problema chiuso; dalla Costituente ad oggi è stato sempre un problema aperto; né i centosettanta senatori aggiunti per la prima legislatura; né i progetti di aumento di seggi della seconda legislatura, finiti nella riformetta costituzionale in corso di approvazione, potranno valere a darvi una soiuzione conveniente: siamo ben lontani dalla meta. La maretta destata a Montecitorio dai due articoli approvati il 22 novembre a Palazzo Madama non è indice di sobria valutazione, né di chiaro orientamento; sì bene di quella confusione che portano le tendenze devianti e i secondi fini di gruppi e di partiti. Sono rimasto semplicemente meravigliato del fatto che quasi nessuno in Senato abbia awertito che il secondo articolo, approvato alla unanimità, impone un termine alla legislatura senatoriale. Il testo è chiaro: «La presente legge entrerà in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella "Gazzetta Ufficiale". Invero, dovendosi dare esecuzione alla legge non potrebbero adottarsi elezioni suppletive, perché la stessa popolazione verrebbe chiamata alle urne, sia con il futuro quorum di 175.000 per senatore come con quello attuale di 200.000. Se il legislatore avesse voluto rispettare il sessennio in corso secondo il desiderio dei capigruppo di sinistra, avrebbe dovuto rimandare I'applicazione della legge alla fine del sessennio: la formula dell'articolo 2 sarebbe, in tal caso, stata diversa. Bene inteso che la formula adottata, né altra formula qualsiasi, possono avere riferimento limitativo ai poteri di scioglimento contemporaneo delle due Camere da parte del Capo dello Stato; però l'articolo 2, se sarà approvato nelle successive votazioni, renderà legittimo tale atto indipendentemente da qualsiasi altro serio motivo che potrebbe determinarlo. Così uno dei problemi che rende per la seconda volta possibile l'accoppiamento delle elezioni delle due C m e r e è già superato. Ogni ulteriore discussione non verte né può cadere sulla contemporaneità o meno delle elezioni, ma sulla tempestività o meno dell'iter parlamentare del disegno di legge costituzionale. Se la Camera dei deputati ritarda le sue decisioni o introduce modifiche nel testo, il problema non si porrà più sull'applicazione immediata della riforma; ma sui motivi che indurranno il Capo dello Stato a decidere la rinnovazione del Senato con il numero attuale di senatori aumentato solamente dei posti di risulta in base all'ultimo censimento (nove senatori). Tutti gli altri problemi del Senato, sollevati da me nel discorso del 22 novembre, e quelli sottaciuti con il proposito di un approfondito esame a suo tempo, saranno di certo ma-


teria di discussione per la terza legislatura. Nessuno dovrà chiudere gli occhi credendo ((passata la festa gabbato lo santo)).

Passiamo al secondo capitolo: quello elettorale. Mentre la Camera si è dato il testo unico elettorale del 30 marzo 1957 n. 361, il Senato non ha aggiornato il suo testo del 26 febbraio 1948, n. 26, né ha dato corso alla revisione dei collegi, prescritta entro il primo anno dopo la pubblicazione dell'esito del censimento della popolazione. Se, in base alla legge costituzionale in corso, si aggiunge l'aumento di altri circa 8 0 senatori per il fatto dell'abbassamento del quorum di popolazione per ogni senatore, ci troviamo nella necessità di un provvedimento legislativo d'urgenza. Chi scrive presentò un disegno di legge elettorale fin dal 23 ottobre 1953 (n. 125); non ebbero fretta i colleghi della 1" Commissione permanente a trattarlo, non ostante che la prudenza parlamentare insegni di prowedere a leggi elettorali al principio e mai alla fine della legislatura. Chi non ricorda la propaganda sulla infelice legge elettorale del marzo 1953? I1 Senato ne ebbe particolari conseguenze, fra le quali la quasi quinquennale preparazione d'una «legge integrativa)): desinit inpiscem... I1 disegno di legge Sturzo n. 125, pur essendo a base delle modifiche da discutere, va subendo la stessa minimazione che ha avuto il disegno di legge Sturzo sulla riforma costituzionale del Senato (n. 1977). Se ne spulciano due o tre articoli fra i quali quello sulle circoscrizioni collegiali che rimangono le attuali 237; mentre i posti di aumento derivati dal censimento ultimo e dalla diminuzione di quorum (legge costituzionale in corso), verrebbero attribuiti proporzionalmente ai candidati per regione che non avranno ottenuto l'elezione diretta pel collegio, o, in caso di deficienza, in base a liste regionali aggiunte. Invero, la mia proposta di lista aggiunta dell'ottobre scorso era collegata con l'altra mia proposta di legge costituzionale per un albo suppletivo di candidabili, da scegliersi dai singoli elettori regionali senza riferimento ad alcun contrassegno. Il voto aggiunto giustificava la lista aggiunta. I lettori ricorderanno che la mia voleva correggere la proposta Gonella, la quale non ammetteva libera scelta fra i nomi dell'albo, sì bene un automatismo elettivo secondo il numero attribuito a ciascun candidabile; il che, secondo me, sarebbe stato semplicemente incostituzionale. Pertanto, la proposta elettorale governativa della lista aggiunta, su scelta del gruppo dei candidati collegati e senza l'esistenza di un Albo centrale per legge, non regge perché manca di base costituzionale; non capisco affatto il motivo per il quale il Governo l'abbia ripresa così malconcia dal mio testo del 2 ottobre scorso. Più strano è il contegno del Governo circa i miei emendamenti ai testo 6 febbraio 1948, n. 26. È stato ignorato il principale; quello del quorum per la elezione di ciascun senatore nel collegio relativo, che dal fantasioso 65 per cento io riduco al logico e serio 50 p.c. adottato in tutte le elezioni maggioritarie. Per giunta, il fatto di ben 9 0 nuovi seggi per i quali non si voterà nominalmente, è motivo sufficiente per riproporre la mia soluzione; tanto più che l'esito di proporzionalità non servirebbe ad altro che a spostare qualche eletto da un collegio all'altro. Basta pensare che nelle elezioni del 1948 h r o n o eletti col 65 per cento appena quindici senatori e appena sei in quelle del 1953, sul totale di 237, per rendersi conto che certe leggi malfatte debbono essere correrne ai primo momento che se ne scorge l'assurdità. C'è di più. I1 Governo ha anche ignorato un'altra modifica da me proposta; quella di


portare il rapporto dei voti di ciascun candidato ai voti validi espressi nel collegio, e non mai al numero di elettori, fra i quali vanno compresi morti e assenti e astenuti. Che simili errori possano scappare in una legge elettorale fatta in ambiente preelettorale surriscaldato, non si nega; ma che debbano mantenersi dopo nove anni e dieci mesi di esperienza mi sembra un po' troppo. Potrei continuare su tali rilievi, se non temessi di annoiare il lettore, che non ha un interesse speciale allo spulciamento di disegni di legge ~arlamentari.Domando il permesso di fare un ultimo rilievo, per la premura mostrata dal governo, pur dopo la mia interrogazione circa il ~ r o b l e m adelle incompatibilità parlamentari, a proporre l'eliminazione della mia proposta diretta a caratterizzare di incompatibilità i casi di candidati sindaci, presidenti di Giunte provinciali e consiglieri regionali. Con. Tambroni mi perdoni se gli ricordo che i con il titolo di incompatibilità amministrativa la legge del 5 lui nostri ~ a d rclassificarono glio 1882, con la quale si fissava l'incompatibilità per i sindaci e i deputati provinciali che (celetti al Parlamento cessano dalle loro hnzioni se non dichiarano di rinunziare al mandato legislativo negli otto giorni che seguono la convenzione della loro elezione.. .)).La discussione sul caso Tupini, sindaco di Roma, ha dimostrato a quale sottile causidicità e formale ingiustizia porti una classifica legislativa illegale e inesatta. La stessa questione venne sollevata alla Camera, il 5 di questo mese, circa il parere della Giunta dalle elezioni sulla compatibilità delle funzioni di deputato con quelle di sindaco di comune capoluogo di provincia e di di amministrazione provinciale (Doc. X int.). Giustamente I'on. Colitto fece rilevare che la materia di incompatibilità fra parlamentari e rappresentanze amministrative locali non è stata oggetto di prowedimento legislativo. E che dire, caro Tambroni, della «perla»che si trova nell'art. 7 del Testo Unico 30 marzo 1957, n. 361, nel quale è fissato per i sindaci e gli altri della fila a) b) C) degli enti locali non solo la ineleggibilità a deputati ma, per dippiù, la decadenza dal posto che occupano al momento che accettano la candidatura? In sostanza vengono puniti due volte quei sindaci, quei presidenti provinciali e quei consiglieri e deputati regionali, anche se I'elettore, nel caso delle elezioni a senatore, regali al nialcapitato il famoso 65 per cento di voti. Che cosa si potrà fare di più per un temuto concorrente elettorale? Mi dispiace che l'asiatica mi abbia costretto a rimanere a casa; per quanto il sistema delle pre-intese di gruppo sembra che vada applicato anche al testo di una legge elettorale, avrei forse potuto sperare, andando in Senato, il consenso di una diecina o meno di voti favorevoli. Quando si è condannati perfino ail'ostracismo del nome di proponente di un disegno di legge, o di una serie di emendamenti, perché obbligato a passare sotto le forche caudine dei capigruppo, fa sempre piacere trovare tre o sei o nove persone libere che votano per il merito delle proposte e non certo per il relativo sostenitore.

Il Giornale d'ltalia, 1 1 dicembre 1957

La battaglia della libertà Se la libertà si conquista ogni giorno, la battaglia comincia con l'uomo e non finisce che con l'uomo. Chi crede di avere conquistato la libertà una volta per sempre, non ha mai capito cosa sia la libertà e cosa importi la battaglia per la libertà.


Eppure, a seguire l'attività dei partiti italiani di questo decennio sembra che la cura maggiore non sia proprio la difesa della libertà conquistata, né la conquista della libertà non ottenuta; ma quella di moltiplicare vincoli e legami; contrastare e limitare le autonomie locali giA riconosciute; impacciare industrie e commerci, vincolare scuole e cultura, creare uno Stato interventista, dirigista, despota spesso, in tutti i campi delle attività umane, non importa quale di tali attività siano la natura, la finaliti e la eticità intrinseca e superiore. La stranezza di simile fatto è arrivata al colmo trovandosi dei cattolici i quali, pur partendo dal rispetto e dalla valorizzazione della personalità umana - punto basilare della dottrina cristiana e democratica, - arrivano al più smaccato statalismo, non solo in materia economica, ma perfino sociale. Possibile che non si rendano conto che una volta ammessane l'ingerenza diretta a limitare la libertà, lo Stato arriva a superare i traguardi e diviene di per sé totalitario perfino nei campi della cultura, dell'arte, dei teatri, delle gestioni cinematografiche e così di seguito. Perduto il senso del limite fra personalità umana e socialità organica, cade anche quello di competenza tra iniziativa libera e intervento pubblico; tra sfera di attività di enti autonomi e di dicasteri statali; tra tutto ciò che ripete la sua azione e la sua vitalità dall'iniziativa libera e quel che, in qualsiasi modo, va regolato, limitato o esercitato dal potere pubblico. Fin dagli ultimi anni del secolo scorso chi scrive era convinto che l'Italia post-risorgimentale avesse già perduto quella libertà per la quaie i nostri padri avevano combattuto, e non avesse ancora conquistato quella libertà per la quale i cattolici non avevano potuto o saputo combattere. Fu allora che la parola democrazia cristiana prese il duplice significato di libertà etico-politiche e di libertà economico-sociali. La visione di allora, limitata ad un complesso politico assai disparato quale quello di un Nord prospero e di un Mezzogiorno misero e maltrattato, ha subito le grandi trasformazioni di due guerre e di una sperata rinascita libera e democratica. Purtroppo, lo statalismo economico, politico e culturale, ha fermato lo slancio della rinascita e compromesso la conquista della libertà. Mi si critica che io da tempo accentuerei la campagna per la libertà nel campo economico con accenni (certo importanti) al campo politico-istituzionale; ma trascurerei quelle, pur necessarie, nel campo culturale, religioso, amministrativo, e i connessi problemi di ordine etico e sociale. Debbo dire, a mia giustificazione, che I'accentuazione dei temi della mia polemica dipende in gran parte dallo svolgersi della vita pubblica, la quale, piegando da tempo verso sinistra, ha posto le questioni economico-sociali come campo d'incontro e come esperienza di conquiste. C'è di più: i miei critici e oppositori delle sinistre d.c. potranno credere e far credere che lo statalismo economico non intacchi le libertà costituzionali né la libertà personale dell'uomo (anzi, secondo alcuni, dà i mezzi a un più largo sviluppo della personalità dei lavoratori); ma la verità è stata ed è sempre la stessa, perché la verità è eterna: le libertà formali della vita associata sono collegate insieme e basate tutte sul valore della personalità umana, che è libertà sostanziale. Non regge un sistema di libertà intaccate in un settore e rispettate in un altro; lo stataiismo incomincia da un settore a invadere gli altri; la psicologia pubblica orientata verso lo statalismo passa facilmente da un settore ad un altro. La storia di tutti i tempi, per chi la conosce e la rivive, ne è la prova costante. Lo statalismo è prevalso sempre sopra la libertà; la libertà è stata sempre affogata dallo statalismo. Cerchiamo un esempio di fresca data, che serve a mettere in evidenza le mie preoccupazioni. Nella circolare Bo sullo sganciamento delle aziende IRI e altre consimili si afferma che saranno reputate aziende a prevalente interesse statale, e quindi da sganciarsi, ¶uelle nelle quali lo Stato, pur avendone una partecipazione di minoranza, può, per via di intese, conquistare la maggioranza dell'assemblea e costituire gli organi amministrativi, direttivi e di controllo.


Si premette che lo Stato ha in mano, sia direttamente sia indirettamente, i maggiori istituti bancari; ai quali gli azionisti delle industrie private sogliono f i d a r e i propri titoli e dare la delega di rappresentanza. Lo Stato, attraverso I'IRI, può divenire amministratore di quelle aziende private delle quali ha o si procura delle azioni. La prospettiva per gli statalisti e per le sinistre politiche diviene seducente. Anche il funzionarismo, che invade quale piovra gli enti statali, il ben noto complesso dei controllori controllati, avrà un campo aperto mai più oggi sognato. Si dirà: non generalizziamo; lo Stato (questa persona anonima e irresponsabile che è penetrata nei cervelli degli italiani come una misteriosa deità viva e parlante) non ha intenzione di divenire il proprietario delle aziende private. I1 caso SME, quello delle Meridionali Napoletane e altri pochi non faranno cambiare la faccia dell'economia italiana. Così si disse quando l'IN da istituto liquidatore divenne istituzione stabile; così si disse quand o fu creato I'ENI; così si disse quando i consorzi agrari passarono come cooperative di diritto semi-pubblico e monopolistico sotto la tutela del Ministero dell'Agricoltura; così si disse quando si creò il FIM; così sempre. Oggi lo Stato ha in mano direttamente o indirettamente il 50 per cento dell'economia del Paese. La sete di conquista politica è insaziabile; il metodo Bo servirà oggi, domani sarà un altro: lo statalismo è una piovra che soffoca. Il discorso del presidente Fascetti, di ritorno dal Cairo, tenuto a Genova per rassicurare i privati azionisti dell'IRI, non conta nulla. Chi è Fascetti?un presidente che può essere mandato via. Non parliamo dei ministri: vanno e vengono secondo le ondate politiche. Rimane la burocrazia; rimane anche il Ministero delle Partecipazioni, fatto apposta per incuorare tutti gli statalisti e i dirigisti di sinistra. La battaglia per la libertà segna un passo indietro verso il socialismo di Stato. Che sia questa l'eredità che il ministero Zoli vuol lasciare agli elettori sembra cosa assurda. Ma in Italia anche l'assurdo prende parvenza di realtà, in una continua discordanza di vedute e di direttive, sempre più disancorate dalla forza viva che è la libertà. Purtroppo, al popolo italiano fu prima insinuato il disprezzo della libertà, ritenuta incompatibile con la ripresa dei valori nazionali; caduto il fascismo fu al nazionalismo sostituita la socialità come alternativa della libertà; riprese così figura un socialismo marxista e classista come soluzione delle crisi portate dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. In pratica, si è insinuata la paura della libertà, come un salto nel buio. Si è cercato rifugio dai pericoli della libertà nel più facile statalismo che mai si ebbe nel passato. Ora, alla vigilia delle elezioni, una certa frazione d.c. si mette ad esaltare l'intervento statale in nome delI'ENI e dell'IRI, come forme di solidarismo sociale. È il colmo! È suonata l'ora della riscossa, riprendendo la battaglia per la libertà. La li$ertà che è valore dello spirito; la libertà che educa all'autodisciplina; la libertà che fa assumere le responsabilità individuali e sociali; la libertà che fa correre i rischi; la libertà che forma il cittadino, fortifica il cristiano e valorizza il lottatore per i più grandi sacrifici al bene comune.

Il Giornak ditalia, 18 dicembre 1957

Paura della libertà I consensi alla mia campagna per la libertà, anche dall'estero e da persone altamente qualificate nel mondo delle scienze politiche ed economiche, mi compensano degli attac-


chi maldestri di certi oppositori per preconcetto, per partito preso o, sia pure, per mancanza di conoscenza dei miei scritti di ieri e di oggi. Ma vi è un gruppo di dissenzienti che merita riguardo: sono quei giovani cattolici cresciuti sotto il fascismo teorizzatore dell'intervento statale come il toccasana delle piaghe sociali; idealizzatore della dittatura in nome dello Stato divenuto allora e per molti un idolo. Essi non accettavano le teorie dello Stato etico di Giovanni Gentile, né seguivano Hegel per il quale lo Stato sarebbe la più perfetta realizzazione della Idea; erano e sono tuttora cattolici, ma, respirando aria statalista, ne assorbirono le nefaste esalazioni. La reazione antifascista del dopo guerra li portò a scegliere altre vie: molti fascisti divennero socialisti e comunisti; i cattolici in gran parte preferirono la tessera d.c. ma lo statalismo fascista era passato loro nel sangue e mancarono ad essi antibiotici efficaci per ammazzarne i germi. Si aggiunsero due fatti: le necessità del dopoguerra che imposero dl'amministrazione pubblica, d'intesa con l'America, un'azione d'intervento legittima e doverosa per la più-rapida ripresa in tutti i settori pubblici e privati; e, insieme, la posizione di prevalenza lasciata prendere ai comunisti nel campo della organizzazione operaia e, sotto certi aspetti, anche nei comitati di liberazione e nel governo. Si ebbe paura di un conflitto; si ebbe paura della libertà. Nessuno può o deve ignorare questi fatti. La reazione all'invadente socialcomunismo fu iniziata nel 1947, quando cessò la coalizione governativa con le sinistre socialcomuniste e venne meno l'intesa sindacale. Con le elezioni del 1948 il Paese scelse la DC come effettivo partito di centro e partito di governo. Da allora ad oggi, per quasi dieci anni, si è cercato di modificare l'orientamento del 1948, proprio perché, a causa di incertezze ed oscillazioni programmatiche e di difficoltà pratiche non maturò l'attesa riorganizzazione nazionale basata sulla libertà; non fu realizzata quella politica che avrebbe dato al paese la forza di fronteggiare la sinistra socialcomunista, riducendola in confini più limitati di attività e di influenza; non fu consolidato il Centro nella sua funzione equilibratrice e produttivistica, portando i contrasti sindacali sul terreno delle relazioni umane e del rispetto cristiano ed evitando anche da questa parte l'incitamento all'odio di classe. De Gasperi aveva l'autorità per simile politica; ma da un lato non ebbe collaboratori abili, non ebbe tecnici provati; dall'altro lato mancò la fiducia tanto degli imprenditori che dei sindacalisti, gli uni e gli altri dominati da una diffidenza congenita, alimentata dalla mentalità marxista che si andava sviluppando persino in mezzo alle stesse ACLI, sorte e sostenute nel nobile fine della formazione cristiana delle masse del lavoro. Lo stesso intervento statale, diretto a garantire i prestiti americani alle grandi industrie, non servì a rendere pib chiari i limiti fra ingerenza della pubblica amministrazione e mercato libero. I1 comitato prezzi, organo di emergenza, divenne il padrone del mercato, il mezzo per le infiltrazioni parassite nell'economia e l'ostacolo ad un ritorno alla concorrenza libera e produttivistica. In questo ambiente, la mia difesa della libertà è sembrata fuori tono, senza senso della realtà, come la voce di un sorpassato. La qualifica mi venne dai giovani che al tempo del congresso del partito popolare di Torino (1923) non avevano dieci anni, e nulla conoscevano del mio passato, e non apprezzavano i miei ventidue anni di esilio per la libertà. Avevano anch'essi una certa ragione, perché la mia libertà non era quella della liberazione, libertà compromessa dall'alleanza e collusione con i socialcomunisti nei comitati di liberazione e nei sindacati; la mia libertà non era quella della Costituzione, limitata da una serie di fili spinati introdotti dalla collaborazione con i socialcomunisti: la mia libertà una li-


bertà a pieno respiro, nella quale ha cittadinanza anche la libertà economica che condiziona e agevola l'esistenza e lo sviluppo delle libertà politiche e morali. Cadono allora tutte le illusioni «corporativiste» dei cattolici filofascisti di un tempo? Cadono; il corporativismo non ha avuto nessuna realizzazione dal giorno in cui i monarchi del secolo XVIII disciolsero i corpi di arti e mestieri; e non potrà più averne. Il tentativo mussoliniano finì nello Stato-partito-corporazione, nel quale mancava proprio la libertà. Cadono allora le illusioni dello Stato socialista o classista del lavoro? Cadono; anche qui, l'esperienza moscovita, le imitazioni dei satelliti, le contraffazioni di Belgrado e di Pechino, ci dicono che al capitalismo libero è subentrato il capitalismo di Stato, mille volte peggiore di quello privato; che la pretesa dittatura del proletariato non è altro che la dittatura militare con l'apparato del funzionarismo profittatore; il proletariato in quei paesi è più infelice e miserevole che non fosse stato sotto il più egoista capitalismo privato di manchesteriana memoria, quando aveva se non altro la possibilità della ribellione, quella che è mancata agli ungheresi e agli altri satelliti.

Ogni tentativo per presentare come attuazione socialista di classe, il cosiddetto socialismo scandinavo, è una improprietà. In quei Paesi non esiste il socialismo classista; là si tende ad un progressivo benessere borghese ugualitario che solo il basso livello di natalità, l'adattamento gregario delle popolazioni nordiche, la libertà dei traffici e le condizioni ambientali possono rendere effettivo, utile e fino ad un certo punto tollerabile. I paesi occidentali, più o meno individualistie dinamici, con tante differenze di clima, di produttivirà, di sviluppo economico, di costumi, di esigenze, di storia, di cultura, le cui condizioni politiche sono piene di contrasti, non subiranno mai, tranne che con la forza, la soppressione delle libertà fondamentali, delle quali l'economia ne è il condizionamento necessario. È vero che l'intervento statale oggi è, dappertutto, maggiore di quel che non fosse mezzo secolo addietro in regime monetario basato sull'oro; ma è anche vero che i paesi che hanno una struttura più solida, un'industria più sana e una tradizione politica più consapevole, reagiscono meglio che non si faccia in Italia all'ingerenza statale nel campo privatistico e sviluppano con maggiore impegno le energie produttivistiche. Purtroppo da noi esiste, volere o no, un'impresa industriale ibrida, la statizzata e la privata, la prima con privilegi monopolistici, con larghe garanzie statali, con facilità di mezzi, e senza il senso del rischio; la seconda con una antica tradizione di favori statali, dalle protezioni ai prezzi di Stato, alle garanzie statali per mutui esteri, ai doppi prezzi. Non mancando perfino operatori industriali che cercando favori particolari perdono di vista il valore della libertà economica e i reali interessi della produttività nazionale. Così come le associazioni agrarie, invocando di continuo interventi statali ed esenzioni fiscali, vanno perdendo il coraggio dell'iniziativa e del rischio, anche quando lo Stato è largo di concorsi nelle spese con crediti a lunga scadenza. In questo quadro realistico, si viene da tempo a parlare dai cattolici di personaiismo e di solidzrism~i due termini servono assai bene all'orientamento morale di ogni forma di economia libera; ma non sono tali da poter creare un'economia propria che elimini la struttura dei sistemi in atto nei paesi occidentali, senza cadere nello statalismo classista (cioè capitalismo di Stato tipo moscovita e paesi collegati). In paesi dove esiste la coesistenza di uno


statalismo invadente con un'economia di mercato messa sulla difesa (Italia-Francia-Inghilterra) il solidarismo è irrealizzabile; in quelli dove il mercato libero convive con una politica statale di cooperazione e di occasionale e più o meno concordato intervento (Stati Uniti e Germania) il solidarismo è possibile e concorre a formare un'economia più equa e più sana. I1 mio grido di libertà è basato su tre principi: 1) la libertà è unica e indivisibile; si perde la libertà politica e culturaie se si perde la libertà economica, e viceversa; 2) la libertà è espressione di verità e di ordine; il correttivo contro gli eccessi della libertà è, anzitutto, I'autodisciplina e l'autolimitazione; a parte quella regolamentazione legislativa necessaria per la coesistenza e il rispetto dei diritti e dei doveri reciproci; 3) lo Stato ha per funzione principale e propria quella della garanzia e vigilanza dei diritti collettivi e privati, il mantenimento dell'ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e vigilanza del sistema monetario e creditizio; la finanza pubblica e la buona amministrazione dei servizi pubblici nazionali; in via secondaria e sussidiaria lo Stato interviene, in forma integrativa, in quei settori di interesse sociale e generale nei quali l'iniziativa privata sia deficiente, fino a che sia in grado di riprendere il proprio ruolo. I casi di emergenza impongono allo Stato altri compiti; ma questi sono temporanei e si esercitano nel rispetto dei diritti politici del cittadino, la cui libertà deve essere tutelata, la cui personalità deve essere rispettata. Fra coloro che amano la libertà per convinzione e coloro che amano la libertà a parole vi è una divergenza sostanziale: i primi sono convinti che la libertà rimedia ai mali che può produrre, perché al tempo stesso eccita energie nuove, spinge alla formazione di libere associazioni, sviluppa contrasti politici e sociali dai quali derivano i necessari assestamenti; gli altri, invece, hanno paura della libertà e cercano s e m p i il modo di imbrigliarla con una continua e crescente legislazione e con un'azione politica vincolatrice, che finiscono per soffocarla. L'italiano deve ancora vincere la pazrra delkz libertà; finché non la vince, non può dirsi uomo libero, non può dirsi degno di essere libero. Il conformismo, la partitocrazia, l'adattamento alle sopraffazioni dei monopolisti di Stato, la captazione della stampa con larghi mezzi pubblicitari sono fenomeni di paura della libertà e portano verso lo statalismo socialista. Se questo si realizza, il capitalismo di Stato soppianterà quello privato; il classismo del lavoro soppianterà i liberi sindacati. Che la Provvidenza ci assista; e la DC riprenda la posizione di ccCentro» senza ripensamenti di sinistra e, soprattutto, senza paura della libertà.

Il Giornale d'ltalia, 29 dicembre 1957

Moralizzare la vita p ~ b b l i c a ' ~ Una parola «moralizzare la vita pubblica))! Dove e quando essa è stata mantenuta sul-

" L'articolo fu pubblicato anche sul numero del 14 gennaio 1958 del quindicinnale «Democrazia Cristiana* di Cosenza, accompagnato dalla seguente letrera del 6 gennaio 1958 a don Luigi Nicoletti: Caro Don Nicoletti.


la linea della moralità? Non ieri; non oggi; non da noi; non dai nostri vicini; non dai paesi lontani. Eppure, è questa l'aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità. Che cosa è mai la concezione dello Stato di diritto se non quella di uno Stato nel quale la legge prende il posto dell'arbitrio; l'osservanza della legge sopprime l'abuso; la malversazione e la sopraffazione non restano impuniti? Bene, facciamo come si fa nelle case; in primavera e in autunno pulizia generale; si rivedono tutti gli angoli; si spolverano tutti i mobili; si buttano via stracci e carte inutili: pulizia, ci vuole. È vero, ci sporchiamo le mani; ma c'è l'acqua e il sapone a ripulirle più volte. Presentiamo un programma per la terza legislatura repubblicana; lasciamo che i partiti si vestano di meriti veri o presunti per quel che hanno fatto di bene al Paese, alle varie categorie di cittadini, ai singoli collegi e circoscrizioni; lasciamo che si presentino puliti e lucenti, nascondendo le falle, gli errori, le disfatte, per poter ottenere nuova e più larga fiducia. Noi vogliamo che lo Stato, come ente tipicamente responsabile della pubblica amministrazione, pur facendo valere le proprie benemerenze, riveda le proprie colpe e si emendi: in primo luogo giustizia, fundamentum regni, onestà, correttezza della pubblica amministrazione, equità politica verso i cittadini. Ai tempi del filosofo Gentile si parlava dello Stato etico (etico, cioè morale); si attribuiva I'eticità allo Stato quali ne fossero gli atti emessi dagli organi statali; si trattava di una specie di immunizzazione contro il male o meglio di una permanente trasformazione del male operato in bene insito. La teoria non reggeva e non regge: lo Stato non immunizza il male né lo tramuta in bene; fa subire ai cittadini gli effetti cattivi delle azioni disoneste dei propri amministratori, governanti e funzionari, mentre produce benefici effetti con la saggia politica e la onesta amministrazione. Ci vuole un lavaggio generale, per supplire alla pulizia che è mancata nei dieci anni delle due legislature repubblicane, dopo quella specie di assoluzione del passato che il corpo elettorale diede largamente il 18 aprile 1948 per i primi cinque anni gravi di difficoltà, specialmente per una classe politica impreparata dopo ventun anni di dittatura.

I1 Ministro del Tesoro sta dando corso alla legge sulla eliminazione degli enti superflui; una operazione non solo strettamente amministrativa, ma anche morale e moralizzatrice. Si tratta di un provvedimento a passo ridotto; certi enti non solo superflui ma addirittura dannosi, e non sono pochi, non saranno mai toccati per i favori reciproci che danno e ricevono dai partiti, dai profittatori e dalla stampa. Il Governo ha le mani legate. Chi oserà sciogliere un ente, anche semifallimentare, se i partiri lo sostengono e ne approfittano?e non dico solo i partiti di Governo; anche quelli della opposizione, che sono doppiamente pericolosi, e quegli altri che, usando il metodo del ricatto parlamentare, se ne avvantaggiano ancora di più. È nota la vecchia vicenda dell'UESISA. Ti ringrazio del corsivo di auguri pel mio 86". che leggo nel settimanale D C di Cosenza del 10 dicembre scorso, oggi dopo il mio tributo al1 astatzca. I vecchi opolari non mancano di ricordarmi in questo periodo di vivace polemica contro lo statalismo, che ci d e m o r ~ z z aci , affoga e ci spin e verso il socialismo di Snto. Non lascerb, finchi4 avrb fiato, ammonire amici ed avversari s u b falsa strada presa. credendo di aiutare le classi lavoratrici e invece spingendo verso sinistra. Auguri per il nuovo anno e affettuosi saluti Luigi Scurzo. In: A.L.S., b. 546, fasc. <<Art.e 1. pubbl. del Prof. L. S.», gennaio 1958.

8;


Di recente, la Nuova Stampa di Torino ha fatto giustizia della ENDIMEA, per la quale io ebbi ingiurie e minacce; il materiale farmaceutico di tale ente andato a male è stato notevole; per la liquidazione ordinata nel 1950 sono occorsi da cinque a sei anni. La GRA è stata per ben quattro anni protetta al Senato unguis et rostribus. Così di seguito; anche le gestioni passate al Tesoro per una sollecita liquidazione sono state là a giacere per anni. Fino a poco tempo fa era ancora in piedi un certo ente per la riforma e bonifica in Albania; l'ho perduto di vista. Non parliamo degli enti di Libia; un gruppo di impiegati è ancora là che attende con trepidazione i governativi; pur improntati a comprensiva umanità, questi debbono portare alla eliminazione di quel che non regge in piedi. Non sono le persone che si perseguitano; coloro che han semiro la pubblica amministrazione dovranno avere non solo quanto loro spetta, ma quella possibile sistemazione o quelle agevolazioni, che serviranno loro a guardare l'avvenire con una certa fiducia. Ma profittatori, no; far nulla per anni e decenni e prendersi lo stipendio, no; sono sistemi deplorevoli, che demoralizzano l'intiera classe impiegatizia.

Più grave è l'andazzo di molti &ci centrali e periferici, statali e locali, per il disbrigo degli affari privati. Se nella mente dei cittadini è penetrata l'idea che per avere disbrigato un affare occorre la bwtarelkz, o la percentuale per il premuroso intermediario, si deve concludere che le storielle circolanti di bocca in bocca non siano tutte inventate. Sono troppo dettagliate per essere solo millanterie, insinuazioni, sospetti, indizi, apparenze. Che ci stanno a fare nei corridoi e nelle antisale dei ministeri e per le scale stesse, certe persone che oramai gli uscieri conoscono?Perché non tenere sgombri gli ambulacri? Anche nelle antisale delle banche si vedono certi figuri ben noti ai funzionari. Parecchi sono là a rappresentare società più o meno fittizie. Non parliamo di quella rete di società private che si sviluppano attorno agli enti pubblici. I.Xare dell'INA di parecchi anni fa, sollevò un velo; e un altro velo sollevò quello dell'Alto Commissariato dell'Igiene e Sanità. Sarebbe bene vederne la consistenza e la funzionalità e individuare i responsabili. H o sott'occhio gli appunti di un affare di distribuzione di metano nell'Alta Italia rivelatore di certi sistemi alquanto equivoci. Si tratta di una catena di società, per studi, progettazione, costruzione e gestione di impianti di gas metano. All'estrazione il metano vale, sì e no, un paio di lire al metro cubo; la SNAM lo cede a lire 16; la società suddetta lo cede ai privati a lire 5 1 per i primi 15 mc., a lire 30 per i seguenti; agli artigiani a lire 26; così di seguito. Per quanto sto segnalando non vorrei dare l'impressione che tutta l'amministrazione statale sia corrotta; farei torto al personale tradizionalmente corretto e zelante; ma il sistema dei controllati-controllori, da me denunziato dieci anni fa, vige ed è generalizzato perfino con leggi recenti; le responsabilità dei capi sono attenuate o elise dalle decisioni di commissione o dai pareri dei comitati consultivi ministeriali e interministeriali; le promozioni a salti mortali sono non dico frequenti, ma meno rare del passato e demoralizzano coloro che contano sulla regolarità della carriera e sulla disciplina del personale. Per giunta, la differenza di stipendio fra il personale dei dicasteri statali e lo stipendio (aumentato da indennità, partecipazione agli utili e simili) degli enti statali e parastatali (specialmente nelle posizioni gerarchiche di responsabilità e nelle funzioni tecniche), è tale da ripercuotersi sul morale di tutta la classe impiegatizia e sulla stessa pubblica opinione. Ciò spinge i più audaci e più fortunati a darsi alla politica; chi può, otterrà anche un seggio di deputato o di senatore (fino a ieri cumulando indennità e stipendi, ora non più per i deputati, i quali possono scegliere l'emolurnento più alto). Quanto sia incongruo che il per-


sonale impiegatizio possa sedere in Parlamento, risulta chiaro a chiunque abbia un po' di buon senso. Ma la interpretazione data ad un certo articolo della Costituzione e la mancanza di una legge che contempli tutte le incompatibilità, rendono difficile un provvedimento limitativo, come era per il Parlamento pre-fascista, nel quale solo dieci professori universitari potevano essere eletti deputati. Oggi, perfino magistrati, presidenti e consiglieri di Stato si levano la toga e scendono in piazza a sollecitare i voti degli elettori. L'anello di congiunzione della partitocrazia con la burocrazia politicante e con il funzionarismo degli enti statali e parastatali, che amministra miliardi senza rischio e senza corrispondente responsabilità, è un incentivo allo sperpero, al favoritismo, alla inosservanza delle leggi, e rende difficile qualsiasi retta amministrazione governativa e arriva a paralizzare, in certi settori, anche il Parlamento. Pensare che in dieci anni dall'approvazione della Costituzione, non è stato possibile discutere qualsiasi disegno di legge sullo sciopero, legge che la Costituzione prescrive tassativamente, è il colmo, ma è così. Manca inoltre una legge che definisca i caratteri democratici dei partiti che la Costituzione ammette e dei quali riconosce i gruppi in Parlamento; sfido a poter dimostrare la democraticità dei partiti quando, per vivere e funzionare, hanno bisogno, e che bisogno, del denaro donato o procurato. Ne ho parlato altra volta, affermando la necessità di dare una regola per il finanziamento dei partiti, se non altro come in Germania, dove è prescritta la pubblicità delle entrare e delle spese. Da noi si sente parlare da tempo di finanziamenti diretti e indiretti, da parte delle imprese private e da parte dell'ENI e dell'IRI, a partiti, a gruppi e a correnti; ma chi se ne interessa sul serio? e chi leva la parola per provvedimenti necessari ed urgenti? Pulizia! pulizia morale, politica e amministrativa; solo così potranno i partiti ripresentarsi agli elettori in modo degno per ottenerne i voti; non mai facendo valere i favori fatti a categorie e gruppi; non mai con promesse personali di posti e di promozioni; ma solo in nome degli interessi della comunità nazionale, del popolo italiano, della Patria infine; perché la moralizzazione della vita pubblica è il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra. E non abbiate vergogna, candidati di tutti i partiti, di parlare di Patria, ~ e r c h la é Patria, come ideale collettivo, indica giustizia, moralità, equità, onore, rispetto della personalità.

Il Giornale ditalia, 2 gennaio 1958

Realtà e libertà Piero Malvestiti, rispondendo al mio articolo «Paura della Libertà» mi ha accusato di avere io «Paura della Realtà)); egli non conosce o non ricorda che la mia sociologia è tutta basata sulla realtà (la società in concreto) e tutta pervasa di spirito di libertà (la libertà integrale); l'una e l'altra non formano un'antitesi, si bene un permanente binomio di forze. Se poi egli avesse letto il mio discorso al Senato del 24 febbraio 1954, dal quale ripresi un tratto notevole nel mio articolo del 1 7 settembre scorso, «I1debutto del Ministro Bo», mi avrebbe risparmiato l'accusa di non rendermi conto delle condizioni dello Stato moderno, io che ho giraco il mondo occidentale per lungo e per largo. Se, infine, avesse letto con attenzione l'articolo incriminato, (specialmente dal terw capoverso in poi), egli avrebbe visto come e perché io ho tenuto distinto il periodo della ripresa del dopoguerra '44'47) dal decennio successivo ('48-'57). I collaboratori di De Gasperi del primo periodo: Ei-


naudi, Merzagora, Del Vecchio (e perché no, Corbino?), non furono i collaboratori dal 1948 in poi. Corbellini un tecnico di valore, ma un amministratore mancato; Pella tollerò lo statalismo e non difese come si sperava la sua linea, anche lasciando il posto; Vanoni, uomo di eccezionali qualità, fu però purtroppo un ministro dirigista e statalista, contro il quale io presi decisa posizione; il pragmatismo di Malvestiti lo portava a favorire lo statalismo creduto realistico forse in base alla sua concezione della realtà. È perciò che Malvestiti non affronta in pieno il problema della dinamica realtà-libertà, sulla quale è basata tutta la vita umana individuale e associata. La realtà della costa amalfitana e zone affini era una delle più aspre, impervie, incoltivabili della zona tirrenica; l'iniziativa privata, con un lavoro paziente ed estenuante, ne ha fatto un giardino di odorosi fiori e di piante fruttifere; una realtà impensabile e pur vera. Così è di tutte le attività umane; se non ci fosse la libertà, che desta le speranze e rinvigorisce le forze, nulla si realizzerebbe. I nostri padri del Risorgimento sperarono nell'indipendenza e nell'unità della patria, anche quando tutto il mondo ci era ostile e quando la stessa maggioranza degli italiani era, più o meno, indifferente e inerte. Che è mai questa realtà che Malvestiti mette come freno alla libertà? La realtà presente è solo un condizionamento alle energie attive dell'uomo; ma il condizionamento è, allo stesso tempo, limite e sprone all'agire; l'azione modifica il condizionamento rendendo possibile lo sviluppo di ogni pratica iniziativa spinta dai bisogni morali e materiali della vita umana: vaatio &t intellectum dicevano gli antichi.

Piero Malvestiti, a conferma della sua tesi, presenta il caso-limite del sistema bancario italiano, affermando essere impossibile né utile che la banca venga tolta allo Stato per ridarla ai privati. Escludo anzitutto che l'attuale sistema bancario sia il buono; che riesca vantaggioso per il paese senza presentare gravissimi inconvenienti; escludo che non debba essere, non dico completamente riformato, almeno disincagliato dall'ipoteca statalista: tassi alti, proibitivi, che il Mercato Comune obbligherà a rivedere; cartello ingiustificato e ingiustificabile; accaparramento del denaro liquido da parte degli enti statali e della grande industria e conseguente vita grama e stentata delle piccole e medie aziende industriali agrarie e commerciali. CENI ha acceso presso banche debiti notevoli; in un solo istituto esiste il peso di venti miliardi; ciò nonostante, il Comitato del Credito ha consentito all'ENI la facoltà non solo di piazzare obbligazioni presso le banche, ma ultimamente anche presso istituti di previdenza, i quali per statuto non dovrebbero fare investimenti in affari industriali. Se nel 1957 non avessimo avuto denaro liquido estero, per via del turismo, delle rimesse degli emigrati e degli investimenti privati, non avremmo potuto soddisfare la sete di credito normale di molti settori economici. Malvestiti sa che il Tesoro per conto suo tiene bloccati più di mille miliardi della Cassa DD.Pl? e più di cinquecento miliardi per gli ammassi; mentre gli enti statali con a capo l'IN e I'ENI sitibondi di denaro, sottraggono i risparmi all'iniziativa privata. Perché le tre banche di interesse nazionale, nonché Santo Spirito e il Credito Fondiario Sardo, debbono far capo all'fRI? Non otrebbero riconquistare la loro personalità autonoma come ce l'ha la Banca del Lavoro? ammissibile che le tre banche di interesse nazionale vadano ad occupare le stesse piazze, a farsi la concorrenza aprendo dappertutto sportelli, anche se non ne coprono le spese, impedendo così il rifiorire di banche e casse locali a tipo popolare artigiano e rurale, che sono i vasi capillari del piccolo credito? Come è inceppata nel campo creditizio l'iniziativa privata in Italia non lo è in nessuna parte del mondo. Che male ci sarebbe, se le tre banche di interesse nazionale mettesse-

B


ro i loro titoli in borsa? Fra i vantaggi che ne verrebbero ci sarebbe quello di vedere attenuata quell'ingerenza statale che, nulla rischiando, è fatta oggi di compiacenze amministrative e di intrighi politici. Se questo è il caso limite, dovremo convenire che l'intervento statale nel resto dell'economia sorpassi ogni limite; proprio così; si arriva a dare l'etichetta statale a imprese dolciarie (era dell'IRI la fabbrica dei cioccolatini che fu venduta in seguito ai miei rilievi giornalistici); ma è tuttora irizzata una certa fabbrica di oggetti di vetro, che potrebbe passare ai privati, senza nessuna perdita di prestigio da parte dello Stato italiano; si cade nel ridicolo addirittura quando si sa che appartiene ad una delle società ENI la fabbrica di certe saponette; e quando si pensa al tentativo di produrre non so che prodotti derivati da olio di oliva, stroncato in sul nascere dalle proteste del pubblico. Malvestiti, che pur è stato per molti anni prima Sottosegretario alle Finanze e al Tesoro, poi Ministro ai Trasporti e all'Industria e Commercio, pur avendo un'esperienza personale dello Stato italiano di questo dopoguerra, arriva a scrivere: «Lo Stato deve avere il coraggio di dire fin dove vuole arrivare, e deve fermarsi; deve dirlo con un ragionevole impegno di tempo e in modo solenne, indubitabile. Deve avere il coraggio di ammettere che probabilmente è già arrivato troppo in là, e quello di abbandonare risolutamente alla iniziativa privata le gestioni che per loro natura e per un dato di esperienza, non sa condurre con criteri economici. Deve avere il coraggio di proporre una decisione ragionata e di resistere ad ogni pressione demagogica, costi quello che costi)). Caro Malvestiti, mi sai dire chi è lo Stato? Non certo il Presidente della Repubblica, il quale per definizione non risponde dei suoi atti né al Parlamento né all'elettorato. Non il Governo, il quale oggi c'è, domani va via. Lo stesso Parlamento, che dovrebbe assumere gli impegni per il quinquennio della legislatura, non è in grado di darci qualsiasi garanzia; la esperienza mostra che in Parlamento, ora con l'appoggio dei sindacalisti o degli aclisti della DC, ora con quello delle destre, prevalgono i socialcomunisti, o per lo meno ne condizionano I'attività. La DC, che ha da anni la responsabilità governativa, può fare i programmi che vuole, ma, senza maggioranza assoluta, è alla mercé dei piccoli partiti ovvero deve giocare a destra o sinistra. D i fatto subisce ora la pressione dei sindacati, ora quella degli enti statali, ora quella del funzionarismo invadente. Parlare dello Statocome di una persona vivente e cosciente è uno dei più falsi nominalismi registrati daila storia filosofica e da quella politica. Unica speranza, per noi che crediamo nella libertà e non abbiamo paura della libertà, ci viene dal Mercato Comune, anche perché il sistema doganale della piccola Europa verso gli altri paesi non potrà essere rigido, né troppo elevato. Non sarà facile, in regime di Mercato Comune, evitare la bardatura europeista per mettere in riga gli Stati associati; ma lo statalismo gretto, costoso, spendereccio, sciupone e malversatore non ci sarà di sicuro nella piccola Europa e quindi anche in Italia, con la presenza di gente seria e misurata quale l'olandese e la lussemburghese e, sotto certi aspetti, anche la tedesca. Dall'altro lato, i miei amici si debbono persuadere che la corsa sfrenata della demo. crazia italiana verso lo statalismo, oltre che depauperare e demoralizzare il paese, porta volere o no al socialismo di Stato. Malvestiti mi contesta la frase che la libertà è indivisibile e crede di trovarmi in contraddizione perché io ammetto l'intervento dello Stato in certi settori come il fiscale e il monetario, senza avvertire che si tratta di settori propri dello Stato, di qualsiasi Stato antico e moderno; come è funzione dello Stato curare i lavori pubblici di carattere nazionale, mantenere l'ordine pubblico, organizzare la difesa nazionale e simili. Tutte queste funzioni, non solo non ledono la libertà individuale, ma se bene esercitate la garantiscono nel quadro degli scopi intrinseci del vivere civile.


Là dove lo Stato deborda è quando si sostituisce, in parte o in tutto, al privato cittadino nel commercio, nell'industria, nell'agricoltura, nella scuola, nella cultura, nel teatro, nel cinema e così di seguito; mentre lo Stato, in tali settori, può, se occorre, intervenire a favorirne lo sviluppo. Nessuno contesta allo Stato l'intervento che in genere viene fatto con il buon uso dei mezzi fiscali, di agevolazioni creditizie e di premi di incoraggiamento. Si ammette anche, dove manca l'azione privata, una funzione statale integratrice. Tutto ciò è lapalissiano; purtroppo gli statalisti vogliono tutto, continuando ad attuare la massima mussoliniana: tutto nello Stato eper lo Stato; perfino i monopoli inconcludenti, quali quello delle banane e del sale, vecchie concezioni delle Regìe del tempo delle monarchie assolute; lo stesso dovrebbe valere per il monopolio dei tabacchi; perché, con il libero commercio di tali generi come è in America e in Inghilterra, si potrebbe ottenere a mezzo di regolare tassazione assai più che non si ottenga in Italia con la costosissima bardatura vessatoria dell'attuale monopolio.

Scrivere e dire queste cose, sembra a molti trattarsi di eresie verso la divinità dello Stato moderno, non ricordando che io scrivevo queste cose nel periodo dello statalismo prefascista, contro il quale, trentanove anni addietro, proprio nel gennaio 1919, sorse il partito popolare italiano lanciando l'appello «Ailiberi eforti)). I liberi eforti di oggi, ne esistono ancora, dovrebbero destarsi e confidare nella dinamica di libertà-realtà, mettendosi coraggiosamente contro il conformismo statalista che opprime e soffoca ogni sana iniziativa e, volenti o nolenti, ci porta alla realizzazione del 50-

cialismo di Stato. Il Giornale d'ltalia, 8 gennaio 1958

Specie e sottospecie di statalismi20 «Statalismo» non è stata fra noi parola usuale; oggi è sulla bocca di tutti, come lo era in Francia étatisme ai tempi di Napoleone e poi di Combes; che cosa è successo? Niente altro che la traduzione pratica del motto mussoliniano: tutto nello Stato eper lo Stato. I1 vecchio statalismo paternalista, insito nelle monarchie assolute, fu da Luigi XIV precisato nella celebre frase: lo Stato sono io. Egli allora resisteva a coloro che volevano stabilire una distinzione legale e politica tra interessi generali e interessi della monarchia. Ma non è di tale statalismo che oggi si parla; allora totalitaria era la monarchia; la incipiente concezione statale rappresentava la resistenza deila società nazionale al potere assoluto; oggi totalitario effettivamente è lo Stato, mentre la collettività, sostanzialmente individuale, resiste in difesa della libertà e della personalità. 20

Nella seguente tertera del 25 gennaio 1958 al prof. Egisto Gisella, Sturzo precisa il termine statalismo e l'uso che ne fa: Chiarissimo Professore, Le sono graro dell'invio della sua relazione al Rotary Club di Milano su «Iniziativaprivata e nazionalizzazione» che ho lerro e apprezzato.


Lo statalismo moderno ha per capostipite Napoleone Bonaparte, figlio della rivoluzione; egli dovette difendere la sua posizione di dittatore politico e militare sia sul fronte della pubblica opinione sia su quello della economia; tolse perciò ogni libertà alla cultura, alla scuola, alla Chiesa, al Parlamento, ai ceti organizzati, all'iniziativa privata. La conseguente reazione antirivoluzionaria delle vecchie monarchie europee fu forte contro i principi di libertà ma debole nella riorganizzazione statale; forte nella struttura poliziesca ma debole nella struttura economica. Riprese in questo clima la rivendicazione borghese e nazionale delle libertà politiche ed economiche, basate sullo stato di diritto e sull'economia di mercato. Per la condizione deplorevole e irrequieta delle masse operaie, si sviluppò la concezione anticapitalista che Marx cercò di teorizzare sulla base del passaggio delle fonti di ricchezza (dette impropriamente capitale) in mano alla collettività (comunismo) ovvero in mano alla società organizzata (socialismo di Stato), prevedendo come termine della lotta la soppressione rivoluzionaria delle classi nobili e borghesi e la dittatura del proletariato. Rousseau credette alla democrazia popolare che governa se stessa, ma fu la borghesia che prese il potere (Stato di diritto) insieme all'economia (capitalismo privato); Marx credette alla dittatura del proletariato come unica classe vittoriosa che avrebbe riunito nelle sue mani potere politico ed economia starizzata. L'uno e l'altro crearono dei miti; ma lo statalismo dei marxisti di tutte le varie scuole e denominazioni è tutto là: nella riunione completa, o meglio fusione, dell'economia con la politica. Le concessioni alle famiglie o alle organizzazioni particolari di lavoratori fatte dal Cremlino nella quarantennale esperienza comunista non sono che mezzi temporanei di regime, per limitare il malcontento delle masse. Quale essa sia l'apparenza formale del regime, lo statalismo mette potere e ricchezza in mano al funzionarismo politico ed economico, facendone la classe predominante tanto sulla borghesia quanto sul proletariato, e l'una e l'altro perdono la libertà.

Noi italiani abbiamo avuto, da un lato, l'esperienza francese dal 1789 in poi; dall'altro quella russa dal 1917 in poi; in mezzo il tedeschismo teorico di Hegel e di Marx. Effetti: il socialismo romantico, che predicava la confisca dei mezzi di produzione (socialismo di Stato); il fascismo il quale, sotto le apparenze di un corporativismo che doveva conciliare capitale e lavoro, riaffermò la preminenza della politica e I'asservimento dell'economia, lasciandoci l'eredità degli enti statali e della teoria dello statalismo. Mussolini, dopo avere teorizzato lo Stato imperiale e l'economia autarchica, stanco e fiaccato dagli eventi di guerra, tornò al vecchio marxismo con la socializzazione di Salò. Questa, forse per l'onore della bandiera, è ricordata dall'ala sinistra del MSI; mentre gli statalisti comunisti ripetono il verbo di Mosca: per loro il teorico è Marx ma corretto da Lenin; Lenin rivisto da Stalin; Stalin confutato dagli epigoni, ma il tutto mantenuto in sostanza nel suo apparato militaSecondo me, si tratta di problema capitale per la difesa della libenà e delle libertà in Italia. lo uso i termini astatalismo* (il sistema) e «statizzazione»(il fatto), trattandosi nella maggior parte dei casi di enti autonomi sorto controllo statale e di im rese a carattere privatisrico. Le parole nazionalismo e nazionalizzzzzione non potrebbero avere lo stesso signiRcato. Nella opposizione all'indirizzo statalista acruale e in difesa della libenà economica dei citradini, è doveroso essere uniti e sarà me lio usare la medesima terminologia. Desidero conoscere a sua opinione su quesro punto. Mi è gradita l'occasione per inviarle i più deferenti saluti Luigi Srurzo. In: kL.S., b. 546, fasc. «Art. e 1. pubbl. del Prof. L. S.», gennaio 1958.

f:


rista e dittatoriale. Lo statalismo dei socialcomunisti è nient'altro che dirtatura tipo-Mosca. Se l'Italia cadrà nelle loro mani (quod Deus avertat) passeremo al rango di satelliti tipo Ungheria, con l'etichetta della dittatura del proletariato. D'altro tipo è lo statalismo socialdemocratico, ma di tre colori a sinistra il filo-moscovita; a metà strada il saragattiano classista che tollera la coesistenza, transitoria s'intende, della iniziativa privata; a destra (binomio Rossi-Simonini) uno statalismo efficiente sia pure alla pari con le imprese private. I1 loro foglio, La Giustizia, difende I'ENI che ha un giornale politico perché lo hanno e possono averlo le imprese private. Segue, in linea intermedia, la DC con una sinistra addirittura statalista e antiliberista; si tratta di residui del passato fermentati con iniezioni di Karl Marx attraverso studi oggettivi di un siffatto maestro. Ci son cadute anche certe forze sociali della CISL, le quali, sostenendo un sindacalismo totalitario, arrivano a fagocitare programmaticamente lo Stato di diritto per arrivare ad uno statalismo sindacale che assomiglia alla dirtatura di classe; non lo affermano ma ne mettono le premesse, forse per incoscienza o per presunzione.

La stessa DC ufficiale, che da anni detiene il potere statale da sola o con altri, non ha purificato il sangue infetto di un certo imprecisabile statalismo forse per incapacità critica ovvero per il facile accesso agli enti statali. Se le sinistre arrivassero al Governo, gli attuali responsabili della vita pubblica, DC e non DC, si accorgerebbero troppo tardi di avere essi stessi aperta la porta al nemico. L'ipotesi deve far tremare certi miei amici, forse statalisti per rassegnazione. Oggi i liberali fanno la campagna anti-statalista; non rinfaccio i peccati contro la libertà dei loro antenati (nel campo della religione, della cultura, dell'amministrazione e delle attività sociali); né me la prendo con i neo-laicisti fuori stagione, quando non esiste più il potere temporale dei papi; ma non posso perdonare ai liberali i loro peccati recenti nello stesso campo economico, dei quali ultimi la legge Cortese sugli idrocarburi, quella sugli investimenti esteri, l'art. 17 e parecchi altri articoli della legge Tremelloni, la legge sul Ministero delle Partecipazioni, gli stessi accordi Scelba sui patti agrari. Sarebbe desiderabile da parte liberale una confessione generale delle proprie colpe contro la libertà e un pentimento pubblico per poter credere al loro ritorno non solo alle libertà economiche ma a tutto il complesso costituzionale delle libertà etiche e politiche. A coloro, poi, d.c., liberali o monarchici, i quali a nome del Mezzogiorno invocano un maggiore intervento dell'IRl e dell'ENI nelle provincie del Sud, io rispondo che è meglio resistere alla pressione politica e allo sperpero di denaro di codesti enti, che avere da essi il regalo di qualche nuovo impianto e la superficiale ricerca di idrocarburi, fin oggi inconclusiva, come offa alle antiche e recenti richieste. Basta l'iniziativa privata, favorita dallo Stato con le leggi già in atto e i finanziamenti americani, sia perché più proficue economicamente sia perché più efficienti e più controllabili amministrativamente e meno impegnative politicamente.

I miei amici delle ACLI sono un po' punti del mio accenno all'influenza marxista in mezzo alle loro fila. Saranno pochi ma ci sono. I1 numero dell'hione Socialedel 22-29 dicembre porta un arricolo di Mario Venturi, il quale in sostanza deplora il ministro Gava che sta preparando un disegno di legge per una migliore utilizzazione nelle ricerche di petrolio della Vd-


le Padana, intaccando così, essi dicono, I'esclusiva data all'ENI. Venturi non solo deplora il fatto che tocca un monopolio statalista creduto intangibile; ma facendo I'ipotesi che una società privata possa avere la fortuna di trovare il petrolio, si straccia le vesti per lo smacco che ne avrebbe I'AGIP e per il fatto che ciò farebbe ((risorgerela polemica fra liberisti e sostenitori dell'intervento statale sull'economia)~.I1 gesto di Mattei consenziente al progetto Gava (si vede che per Venturi il Mattei governa e il Gava esegue), sarebbe stato controprodncente per I'ENI, e ferirebbe tutto Ilndirizzo della politica petrolifera approvata dal Parlamento». Un così convinto statalista dove pescarlo? Per lui non ha importanza trovare il petrolio; importante è mantenere il monopolio delI'ENl e combattere l'iniziativa privata. Che cosa c'è dietro questa facciata? Forse il passaggio del capitale privato nelle mani dello Stato, premessa necessaria all'attuazione del socialismo di Stato e della dittatura del proletariato? Spero che le ACLI mi smentiscano coi fatti, rivedendo le teorie di certi aclisti che stanno, secondo me, fuori posto in siffatta associazione. Come l'abisso chiama l'abisso, così lo statalismo chiama lo statalismo. Si arriverà alla confisca delle società private, secondo il metodo Bo (vedi SME) e si proseguirà ancora più avanti, se non si è capaci di opporsi con tutte le forze alle varie specie e sottospecie di statalismi che si vanno introducendo in Italia, senza una vera, reale, efficiente opposizione. Perciò io non cesso di scrivere e di parlare fino a che avrò fiato: perché vedo chiaramente il danno politico, morde, religioso dello stataiismo portato, poco a poco, alla sua sostanziale realtà socialcomunista.

Il Giornale dytalia, 1 5 gennaio 1958

Senso dello Stato e stataiizzazione dell'economia Parlo, scrivo, combatto, perché sono un uomo libero e perché ho difeso e difenderò fino a che avrò fiato la libertà. Questa posizione mi porta alla critica di quello che, secondo me, è un indebito predominio dello Stato sulla collettività; un dannoso vincolo legale o legalizzato al quale per prepotenza o per ignoranza è sottoposto il cittadino italiano. Ecco perché combatto tutti gli enti statali e parastatali che abbondano di privilegi, abusano del potere economico e delle protezioni politiche, invadono con sempre crescente ritmo l'ambito della iniziativa privata, preparando ed attuando una specie di socialismo di Stato, o statalismo sociale che dir si voglia.

Litaliano, 18 gennaio 1958

In cerca di <(statalisti» Dunque, secondo il titolo posto dal Popolo al discorso di Kumor, questi «ha respinto l'accusa alla DC per lo statalismon, sia perché l'iniziativa privata è in fase di espansione, sia


perché l'intervento statale, come nel caso del Mezzogiorno, è necessario «per offrire condizioni possibili ad una positiva presenza degli operatori economici». Dovrò dire al professore Rumor che egli ha peccato per ignorantia eknchi, come dicevano gli antichi filosofi, equivocando sul significato di statalismo e confondendolo con l'intervento dello Stato nel campo di propria spettanza? Costruire strade e acquedotti; dare ai privati agevolazioni creditizie per lo sviluppo industriale e agricolo; garantire prestiti esteri; fare rimboschire le zone montane dalla forestale e sviluppare le bonifiche a mezzo di consorzi locali, è compito statale, non staralismo. La degenerazione dell'intervento statale per sistema in campi non propri o con provvedimenti lesivi dei diritti dei cittadini, questo è statalismo; per il quale gli organi dello Stato varcano i limiti del potere proprio violando i limiti del diritto dei cittadini, e ciò non per un semplice atto di arbitrio o per errore o per ignoranza, ma per sistema e a fini politici, anche se mascherati da fini sociali. L'esempio più fresco e più discusso di simile debordamento l'ha dato il ministro Bo con il disposto della sua circolare sullo sganciamento delle industrie IRI dalla Confindustria. Egli ha ordinato l'inclusione di quelle società private, nelle quali lo Stato ha una partecipazione di minoranza, ritenendo con ciò che fosse atto legale e morale combinare o intrigare con altri azionisti, per arrivare a controllare e amministrare le aziende private nelle quali lo Stato (Demanio o enti statali) è azionista privato al pari degli altri. La ferita ai diritti degli azionisti e alle consistenze privatistiche delle predette società è tale, da rendere dubbia la sicurezza del diritto, bastando la volontà di un ministro, la docilità di un presidente delllIRI, il conformismo di alcuni rappresentanti delle azioni dei privati per alterare la natura delle imprese, e farle passare nel rango delle statizzate. Mi dicono che non bisogna generalizzare; ma la sola tesi che ciò sia legittimo e possibile basta a rendere vano un diritto. I1 pubblico sa quale sia stato il modo spicciativo per far sganciare la SME; non sa quel che è successo alla SIP; quel consiglio di amministrazione si è riunito senza regolare convocazione né indicazione dell'oggetto della convocazione; qualcuno era assente altri si era opposto; ma il presidente ex-senatore Tournon concluse di non volere contraddire alle direttive del Governo. E così è prevalso il conformismo governativo, come ai bei tempi. Forse quel presidente avrà mandato subito un bel telegramma a Bo. Questo è statalismo. Né può dirsi che lo sganciamento obbligatorio per legge anche di società private sia conforme alla costituzione; la quale, si badi, non crea ma riconosce il diritto di libertà di associazione. E se la Corte costituzionale deciderà, sopra eventuale ricorso a favore della legittimità della legge di sganciamento (a parte il caso della circolare Bo), il diritto alla libertà di associazione sussiste e deve in qualsiasi modo esser rivendicato.

E passiamo oltre: lo Sraro, non da oggi o da ieri, ma da prima del fascismo ha invaso il campo della economia privata, istituendo enti statali e parastatali, industriali, commerciali e agrari, creando zone privilegiate e sottraendo alla economia privata crediti, mercati e mezzi di sviluppo. Questo sowertimento di poteri e di funzioni non solo viola diritti insiti alla personalità umana, ma produce un disquilibrio economico sia nella produzione sia nella distribuzione dei beni, per la irrazionalità delle iniziative, la elevatezza dei costi, i deficit di gestione. Porto un esempio: la relazione del ministro del Tesoro riguardo la liquidazione dell'istituto cinematografico porta un deficit di sette miliardi e rotti che dovrebbero essere co-


perti con danaro pubblico. Se tale impresa fosse stata in mano a privati, come tutte le altre, i proprietari e i gestori responsabili, avuta conoscenza delle sarebbero corsi ai ripari migliorando la produzione, riducendone le spese, ridimensionando l'impresa, owero liquidando l'azienda. Nel caso peggiore, il fallimento avrebbe messo in luce le responsabilità e chiuso l'affare. Lo Stato non fallisce, non può fallire; per rimediarvi, i responsabili politici e burocratici mettono avanti l'interesse dell'operaio, l'utilità dell'iniziativa, il servizio pubblico dell'ente, anche quando si tratta di film niente educativi, artisticamente criricabili, moralmente inadatti alla funzione di una pubblica azienda. Breve: sarà il contribuente a pagare i sette è più miliardi presunti, che potranno per via aumentare, proprio il contribuente che non ha avuto interesse nei cinema statali; non ne ha avuto alcun beneficio, neppure quello di una riduzione nei costi dei biglietti cinematografici, per godere le produzioni statali. Si tratta di un contributo abusivamente imposto; più esattamente, una distrazione delle somme pagate dal contribuente, e ciò per fini non qualificabili come statali, e dovuti, per giunta, a mala amministrazione, incompetenza tecnica, faciloneria et simifia. Ai sette miliardi di cui sopra aggiungiamo i molti altri miliardi per iniziative del genere: leggo che appartiene allo Stato, attraverso I'IRI, la società discografica Cetra-Fonit, forse per fare concorrenza alle private sul piano dei fesival. H o ricordato in altro articolo le fabbriche di cioccolate, di saponette, di oggetti di vetro; pare che sia in corso, o sia già in funzione, un'altra per arnesi domestici di alluminio; insomma, perfino la piccola e media industria viene intaccata nei suoi modesti e usuali reparti. Non parliamo del solito ENI, la cui fama passa i monti e i mari. Pensare che fin oggi non è stata messa a posto la Finmare, che ha avuto ed-ha deficit notevoli, per una politica di lascia-andare che ha perpetuato fino a ieri o fino ad oggi le condizioni di vantaggi senza precedenti fissate in altri tempi e sotto altri regimi. Che dire della politica degli ammassi? e di quella degli acquisti per conto dello Stato? Le leggine sanatorie di deficit per diecine e centinaia di miliardi passano al Parlamento e sono approvate col consenso di tutti i partiti. I parlamentari di sinistra stanno muti o fanno qualche debole riserva, perché sono statalisti, o perché forse vi hanno i loro vantaggi anch'essi. Statalismo passato e statalismo presente si incontrano sul piano della mala amministrazione, fatta di diminuzione di entrate (vedere metano) e di eccesso di spesa (quasi tutte le imprese statali); si faccia il conto di quanto dallo Stato, cioè dalla pubblica amministrazione, parlamento e governo compresi, viene sottratto sia al contribuente sia al complesso della economia del paese; e poi si parli sul serio di funzione dello Stato moderno, anzi modernissimo. vero, è modernissimo, perché fin oggi non si è visto un solo amministratore di enti pubblici e semi-pubblici portato non dico avanti il magistrato penale, ma avanti la Corte dei conti, per rispondere di spese non giustificate né giustificabili. Perché gli amministratori dell'ente cinematografico non rispondono dei sette miliardi e più di deficit? Forse per l'immunità che si suole accordare agli impiegati statali (i soliti controllati-controllori di imperitura memoria) che nello Stato modernissimo divengono di botto competenti amministratori di imprese di ogni genere, per sapienza infusa, e ne amministrano allo stesso tempo tre, cinque, dieci per virtù di bilocazione; e pur non essendo abituati a maneggiare più delle centomila lire o meno al mese di stipendio e straordinario, hanno saputo ben disporre di milioni e di miliardi? Lo statalismo, cioè l'indebita ingerenza deilo Stato nei diritti dei cittadini e la gestione diretta in materia industriale, a p r i a e commerciale, porta (pur facendo delle poche eccezioni) a quella amministrazione caotica, burocratizzata, fallimentare che noi conosciamo. Se a questo si aggiungono le cosiddette partecipazioni statali nelle imprese private, le quali, con la teoria di Bo, possono da un momento all'altro passare nelle mani dello Stato, per-


dendo la possibilità del rischio fallimentare e quindi la giusta misura aziendale, noi abbiamo in partenza compromesso la nostra economia nazionale. Aggiungiamo il CIP che fissa i prezzi per evitare la concorrenza; aggiungiamo la mancanza di legislazione antirnonopolistica per evitare i cartelli privati e anche pubblici (vedi le banche); aggiungiamo le protezioni doganali e i doppi prezzi con i quali si altera il mercato, non importa se a favore o a danno delle imprese statali e di quelle private, ma certo aggravando l'economia nazionale, e si vedrà che siamo oggi in pieno statalismo; quello di cui parlo io, non quello che intendono o fraintendono (senza motivo da parte mia) i Rumore gli altri miei contraddittori.

Potrei continuare, facendo rilevare l'esistenza di qualche migliaio di enti pubblici e semi-pubblici e di monopoli statali, specie quello bancario che può divenire in mano ad altri Bo di ogni partito uno strumento decisivo del socialismo di Stato (perché La Malfa crede che il socialismo di Stato sia materia del passato e non una realtà del presente?); come si può allora affermare che in Italia non esista statalismo? Le ACLI precisano che Marco Venturi nel suo articolo del 21-22 dicembre sull'EN1 riportava opinioni altrui e non rappresentava l'opinione né la teoria delle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani circa la funzione dello Stato, funzione solo integrativa e sussidiaria, come insegna la scuola sociale-cristiana. Ne prendo atto, pregando i dirigenti delle ACLI a non farsi trascinare su posizioni polemiche, né a giudicare tutti i produttori italiani come borghesi egoisti, compresivi i soci dell'UCID, che si è affermata in Italia e in quasi tutti i paesi occidentali; né che abbiano sempre e solamente ragione gli operai, specie se guidati da Pastore; né che lo Stato imprenditore sia una garanzia di socialità e di solidarietà per i lavoratori. Perciò prego le ACLI di rivedere il tono (proprio quello che fa la musica) dei loro ((schemidi lezioni per i corsi formativi)).Per quanto si riferisce alle mie parole al congresso popolare di Venezia del 1921, riportate nel comunicato ACLI, basta dire che non fanno al caso; allora la campagna antistatalista del partito popolare non aveva rapporti con la questione operaia; l'accusa di socialismo era data ai popolari per le questioni dei salari e dei patti agrari (non quelli del 1958 ma quelli del 1920). Concludendo: Rumor da una parte nega lo statalismo della D C ; le ACLI dall'altra sono per la teoria cristiano-sociale, cioè l'intervento integrativo dello Stato; La Giustizia delI'on. Preti vuole che io insista sulla moralizzazione della vita pubblica ma faccia cadere la campagna contro lo statalismo, non comprendendone il nesso di causa ed effetto; La Malfa dice che io ho male impostato il problema dello statalismo perché egli non vede i legami indissolubili fra libertà civiche e politiche e libertà economica; perfino Il Giorno di Milano, avendo visto le nazionalizzazioni (fallimentari, aggiungo io) della elettricità in Francia e in Inghilterra, afferma che in Italia non c'è statalismo, perché l'elettricità irizzata ha una bassa percentuale; esso non ha tenuto conto della SME né della SIP già irizzate, ed ha dimenticato il mastodontico ENI con le 44 aziende dipendenti, il resto dell'lRl e così via. I dodici anni di mio continuo martellare contro lo statalismo in Italia, non sono serviti a desrare una seria polemica sullo statalismo; ma la mossa di Malagodi di prendere la bandiera dell'antistatalismo a base della propaganda elettorale, ha fatto affrettare gli altri partiti (eccetto le sinistre) a rinnegare lo statalismo italiano e perfino l'esistenza degli statalisti. I1 successo non è mio ma del clima elettorale; a me resta solo prendere in mano la lanterna di Diogene e mettermi in cerca degli statalisti, di quelli convinti, dei cripto-statalisti, degli sta-


talisti per condiscendenza, degli statalisti per conformismo e cosi di seguito, per farli venire alla luce e poterli, occorrendo, smascherare. Ma chi mi fornirà la lanterna di Diogene?

Il Giornale d'Italia, 2 1 gennaio 1958

Agricoltura e Mercato Comune La discussione prosegue nei convegni e sulla stampa: necessità di ridimensionare le colture, di proporzionare la produzione al consumo, di diminuire i costi, di migliorare i prodotti, di curare il mercato (al singolare) e i mercati (al plurale), di ottenere capitali sufficienti e crediti a basso costo, diminuire la pressione fiscale, formare coltivatori specializzati, sviluppare la meccanizzazione e cosi di seguito. Sarebbe meglio, secondo me, adottare un metodo di indagine che porti a proposte concrete e verso scopi prestabiliti. L'agricoltura ha problemi politici e fiscali che assumono carattere nazionale; ma ha molti problemi locali, di tecnica e di produzione, distinti per regione e zone sia in latitudine che in altitudine. La via da seguire mi sembra quella di far precedere piani locali per zone agricole, poi formare un piano nazionale con riferimento alle colture più importanti; infine, fare al governo quelle proposte di carattere fiscale, creditizio e per altri interventi strettamente necessari e tali da non violare la libertà economica degli operatori e dei lavoratori.

Ciò premesso, mi permetto dare alla discussione il mio modesto contributo, con alcune note che mi sembrano di un certo interesse. Produzione cerealicoh. Né la quantità né il prezzo di imperi0 reggeranno in regime di mercato comune; occorre un ridimensionamento abbastanza drastico, eliminando la coltivazione dei cereali nelle zone a basso rendimento. Potrà essere utile la proposta di Francesco Saja, o altra consimile e solo per un periodo limitato, trasformando l'ammasso del grano in integrazione di prezzo sulla produzione per superficie limitata e ad elevato rendimento. Così si eliminerebbero automaticamente le colture povere in gran parte passive, avviando l'agricoltore verso colture più convenienti per produttività e per reddito. Allevamento wotecnico. Nelle zone dove l'allevamento degli animali in stalle e la pastorizia montana sono stati abbandonati o ridotti di importanza e di qualità, occorre riprenderli sulla base della più moderna tecnica. La spinta accentuata verso I'inurbamento dei coltivatori di zone montane è preoccupante; ma se la montagna non rende, come si può pretendere che le famiglie contadine restino sul posto? L'individualismo dei piccoli produttori non giova a loro né agli altri. H o fiducia nella coltura della vite anche in regime di mercato comune; è questione di concorrenza; ma senza concorrenza non si progredisce. Frutteti. L'Italia ha un tesoro: il frutto da pasto, sia pure insidiato da nemici che si possono vincere con competenza scientifica, mezzi tecnici e cura di coltivatori; ma questi ultimi sono spesso incompetenti, impazienti per le lunghe attese, si contentano deli'approssimativo, tranne dove hanno già sperimentato vantaggi economici di prodotti ben venduti. Molto abbiamo fatto ma molto abbiamo da apprendere. Nella mia Sicilia si porrebbero


avere frutta fresche di ogni qualità; mancano non solo i frutticoltori specializzati, manca la volontà di affrontare le spese e le cure che tali colture importano. Segnalo l'iniziativa del barone Pace il quale ha introdotto in Sicilia la produzione di mele «deliziose» e le ottiene anche più gustose di quelle di altre regioni e di altri paesi; ma egli ha dovuto cercare dei buoni coltivatori in altre regioni. I Pace non mancano ma sono piuttosto rari; la colpa è anche della facilità a produrre grano garantito dal prezzo di Stato; la spinta a mutare indirizzo verrà dalle condizioni imposte dal Mercato comune. Lo stesso è a dire per la coltivazione delle barbabietole da zucchero; in Sicilia si possono ottenere in certi luoghi due produzioni annue della migliore qualità; il vantaggio è duplice, per lo zucchero e per la fertilizzazione delle campagne. Rimboschirnenti e silvicoltura. Salveremo la montagna e la pianura, la produzione cerealicola e ortofrutticola, l'economia domestica e la industrializzazione dei prodotti agricoli, solamente con una sana silvicoltura e con la più larga ripresa dei rimboschimenti, specialmente nel Mezzogiorno e nelle Isole. È così evidente quanto affeimo, che non vale la pena di insistervi. Basta dire che tutti i lavori di bonifica e tutte le dighe per invasi di acque (anche quelle monumentali che in Italia - more solito - non mancano) sono compromessi per la insufficiente sistemazione montana e la poca e malcondotta sorveglianza. Ete e vino. Se decade il Chianti, quale altro vino reggerà in Italia? eppure la vite è nostra e continuerà a darci produzione di prima qualità, uva salutare, vini squisiti, vari, esportabili. Occorre, al solito, eliminare le coltivazioni povere, i metodi antiquati di coltura e di fatturazione, introdurre sistemi adatti al mercato interno ed estero. Anzitutto, aumentare il consumo dell'uva e renderlo popolare: l'uva ci dà salute ed energia. Mantenere e migliorare la produzione dei vini, tipizzando e mantenendo un prodotto costante di qualità e quantità.

Che cosa gli agricoltori si propongono di fare superando le difficoltà, le incomprensioni, gli scoraggiamenti prima che si ricorra al governo a domandare gli interventi opportuni? 1) occorre ridestare la fiducia fra agricoltore e lavoratore; ci vuole una politica di pacificazione, perché è interesse delle due parti portare la terra a quella produttività che potrà aumentare agli uni e agli altri il reddito e i compensi che per la lotta e la discordia vanno diminuendo e per gli uni e per gli altri; 2) è urgente che i lavoratori siano pratici del mestiere e qualificati e occorrendo specializzati; solo così potranno aumentare i salari in rapporto all'aumento della produzione; i lavoratori da cantieri governativi senza qualificazione sono gente che poco sa fare e poco ha voglia di fare; 3) il lavoro di trasformazione agraria sarà notevole per il vero lavoratore; l'altro, il fannullone, il buono a tutto, deve essere awiato a scuole di qualificazione (invece dei cantieri), surreggendoli con una sowenzione giornaliera. A corsi finiti e con certificati veridici egli troverà lavoro di sicuro. Invece dello slogan: pieno impiego della mano d0pera si deve adottare quello svizzero: pieno impiego h l l e risorse; 4 ) non dovrebbero più sussistere le limitazioni attuali, che sono del resto incostituziondi per la ricerca di lavoro; ciascuno che ingaggia lavoratori deve potere scegliere i più abili; la concorrenza per l'abilità e per la specializzazione aumenta le paghe e seleziona i lavoratori, determinando una sana gara, non politica ma tecnica, per trovare impiego. I di-


soccupati inabili al lavoro debbono passare dal piano lavorativo non qualificato a quello dell'assistenza pubblica se necessaria. Gli agricoltori mi diranno che il programma è ambizioso, ma difficile: difficile sì, impossibile no, se gli agricoltori mostrano prontezza nel saper fare i loro piani ed affrontarne i rischi. L'agricoltore che vuole stare in città, lasciare che alla campagna badino i propri dipendenti, perderà la corsa. Io credo che sia più difficile cambiare la testa agli agricoltori che ottenere in vista del Mercato comune un cambiamento di rotta da parte del governo.

Il settore fiscale è pesante, ne convengo; è caotico, non c'è che dire, ma non si può cambiare dall'oggi al domani: ci vuole competenza, studio e tempo. Chiedere, come si è fatto fin oggi, ora questo ora quel beneficio, ora questa ora quella esecuzione per casi particolari, owero domandare genericamente sgravi e sgravi, non serve ad altro che ad aumentare i difetti del sistema senza correggerne uno solo. Come prima tappa verso una revisione sistematica, sarà bene procedere al consolidamento del gettito fiscale del 1957, con la decisione, per via di legge, che all'aumento del gettito delle imposte sull'agricoltura, corrisponderà la diminuzione delle aliquote. Intanto procedere allo studio di gaduali riforme organiche per I'adeguazione dell'agricoltura alle esigenze del Mercato comune. Solo per la piccola proprietà (contadina e non contadina) cercherei un'alleviamento fiscale immediato, tale da non farla morire di risi. Secondo me, la inchiesta legislativa sullo sminuzzamento della proprietà è un diversivo inutile lungo e costoso; mentre per puntualizzare il problema italiano basterebbero le relazioni di due o tre tecnici competenti, riassumendo quel che si è fatto altrove e proponendo i più adatti prowedimenti, sia per qualche integrazione al disposto del codice civile atto a mantenere inalterata l'unità colturale nelle vendite, nelle successioni e donazioni; sia per alcune disposizioni atte a favorire i consorzi dei piccoli proprietari per i servizi comuni, la costruzione di laghetti collinari ed altri scopi diretti a mantenerne la consistenza e migliorarne la produttività. E fo punto: in questo momento è urgente ridare all'agricoltore fiducia, al lavoratore sicurezza, alla pubblica amministrazione la comprensione psicologica necessaria, perché I'iniziativa privata sia incoraggiata verso il più intensivo miglioramento della nostra agricoltura e ]'adeguamento produttivo nella concorrenza che va a determinare il Mercato comune. Programma utopistico? serve anche questo per agevolare la via delle riforme se si tengono fermi i piedi sulla realtà presente.

Giornale di Sicilia, 25 gennaio 1958

Solidarismo, che cos'è?

A chi voleva seguirlo, Gesù diceva di vendere quel che aveva e darlo ai poveri; non mi pare che il solidarismo dei tempi presenti parta da tale insegnamento; anzi, nella società solidarista poveri non ce ne dovrebbero essere.


Saranno i solidaristi «poveri di spirito))?parlo di coloro che, pur avendo dei beni terreni, pochi o molti, saprebbero mantenersene distaccati come è scritto nel Vangelo, in modo da creare una solidarietà economica senza ricerca di vantaggi egoistici? Sembra impossibile, sia perché la società è formata da cristiani e da laici, da credenti e da atei; e anche perché non tutti i cristiani sonopovpri di spirito nel senso che spiega S. Paolo dove dice: «Coloro che usano di questo mondo come coloro che non ne usano, perché passa la figura del mondo attuale)). Vedo che sono fuori strada; il solidarismo non è questo. Forse gioverà prendere quale punto di partenza l'esempio della prima comunità cristiana di Gerusalemme, nella quale molti vendevano i loro beni e ne portavano il ricavato agli apostoli per distribuirlo ai fedeli. Ma due fatti turbarono la tranquillità di questa spontanea comunione di beni (non certo a tipo comunista); il caso dei coniugi Anania e Safira; costoro vendettero il campo; Anania portò a Pietro una parte del prezzo, facendo comprendere si trattasse dell'intiero ricavato; Pietro lo rimproverò perché mentiva non agli uomini ma a Dio, aggiungendo che egli non era obbligato a far ciò e poteva benissimo restare in possesso dei suoi beni, o del ricavato della vendita; nessuno lo aveva obbligato; a queste parole Anania morì di subito; e così poco dopo anche Saffira la quale, ignorando la ;orte del marito, ripeté a Pietro che proprio quello era il ricavato. Come si vede: niente obbligatorietà, ma spontaneità nell'offerta senza secondi fini; ma libertà, liberalità, sincerità; insegnamento sublime questo con la fulminea sanzione che vi diede Pietro. Più significativa fu l'occasione della nomina dei sette diaconi ai quali fu affidata I'amministrazione delle offerte, in seguito al risentimento dei «Greci» (oriundi delle zone mediterranee di origine ebraica) verso i quali si faceva una certa discriminazione a vantaggio degli ebrei di Gerusalemme e dintorni. Pietro disse che gli apostoli non potevano occuparsi di amministrazione dovendo diffondere il Vangelo di Cristo; era meglio che un'altra categoria di persone di fiducia (boni testimonz), i diaconi fossero preposti alle mense e così avvenne. Mi sono fermato sui primi insegnamenti ed esempi cristiani: distacco spirituale dai beni terreni e uso di questi a vantaggio dei&telli, per far notare come non si può dare vera solidarietà (se si vuole usare questo termine in senso traslato) che non parta da una filiazione, che non formi una famiglia, che non vivifichi un sincero amore del prossimo. Tutto questo non è solidarismo.

Che cosa è, allora, ilsolidarismo? Il termine non è ancora registrato dai nostri vocabolari, ma corre come tutte le parole che servono sia a precisare che a confondere le idee. La solidarietà è un vincolo di carattere giuridico-economico, quello di rispondere insieme ad altri dell'obbligo del pagamento o dell'esecuzione dell'opera o dei danni possibili e così via. È anche passata ad uso traslato, quale vincolo morale di associati a fare o a non fare, a fare il bene o a fare il male; i framassoni hanno vincoli di solidarietà; le sette segrete lo stesso; anche i ladri e i briganti; i camorristi e i mafiosi. Si tratta in tutti i casi di vincoli volontariamente assunti e coattivamente imposti o per sentenza di giudice o come sanzione di società private ex lege. Si dà anche una solidarietà nazionale nella difesa contro il nemico; non si dà una solidarietà statale, non nel senso della forma di regime, perché ad un regime se ne oppone un altro; non come direttiva di governo, ad uno ne succede un altro; né come complesso di interessi, i quali sono visti e valutati secondo le ideologie economiche o politiche e le preferenze di categoria o di partito. Nei campo internazionale si può arrivare, attraverso i trat-


tati, a fissare una determinata solidarietà interstatale. Nei casi surriferiti, si potrà parlare di solidarietà, non c'è affatto solidarismo. Gira, gira arriviamo a quel che i modernissimi vogliono farci capire: il solidarismo sarebbe per loro un sistema di solidarietà organica e permanente nel campo dei rapporti economici fra le varie categorie o classi o settori dell'attività umana, nell'ambito di uno Stato o di più Stati collegati a questo scopo. Non si tratta di public relations o di human relations, importate a noi dall'America, le quali si vanno sviluppando nel campo della amministrazione o dei rapporti di lavoro; ottima iniziativa che presuppone un minimo di comprensione psicologica, un certo senso di solidarietà, e se piace anche un apprezzamento cristiano dei rapporti fra persone ragionevoli. No; il solidarismo sarebbe una speciale caratteristica della organizzazione economica fra categorie di ~roduttorie di lavoratori. La cosa può sedurre chi ignora che cosa sia la organizzazione della società e come si sviluppi per proprio interiore dinamismo, al quale concorrono fattori spirituali e materiali, liberi e determinanti, nel corso di secoli, così da doversi ritenere poveri e vani sforzi anche i successi temporanei di dittatori e di riformatori.

La rivolta dei nativi dell'Algeria, a parte il risveglio e il fermento del dopoguerra, non sarebbe awenuta se la popolazione di origine francese colà residente non avesse, per posizione culturale, economica e di razza, formato quasi una classe di dominio; la resistenza, anche con le armi e quindi il conflitto, deriva da mancanza di comunanza e di fusione demografica, diversità di educazione e di cultura; contrasti di interessi e di razza, gelosie e incomprensioni; è la crisi normale dei contatti di civiltà diverse; lo chiameremo colonialismo. La storia è lunga e i millenni ci parlano di simili conflitti. Lo stesso, più o meno, awiene in paesi di emigrazione anche civili; i nostri emigrati negli Stati Uniti per arrivare al livello delle popolazioni americane di origine inglese e irlandese, han dovuto penare per oltre mezzo secolo; han dovuto dimostrare, in due guerre mondiali, di essere anch'essi buoni e validi americani; han dovuto modificare mentalità e costumi, adottare lingua e cultura. Ciò non ostante anche oggi è difficile per essi accedere a certe università di medicina perché, dato il sistema del n u m m clauswvengono preferiti gli altri; lo stesso per posti di responsabilità. Quando Fiorello La Guardia di origine pugliese fu eletto sindaco di New York, sembrò un fatto di eccezionale importanza Pensare che fino a poco tempo addietro nelle chiese dirette da rettori irlandesi i fedeli di origine italiana erano tenuti in secondo rango. Breve, la solidarietà di convivenza si conquista con lenta e difficile ambientazione. Quando i nativi temono che i nuovi venuti possano divenire, non dico maggioranza, ma una minoranza efficiente, reagiscono e minacciano rappresaglie e secessioni, come è oggi il caso dell'Alto Adige e come fu il caso della Valle d'Aosta nell'immediato dopoguerra, per la lotta fatta dal fascismo alla lingua francese e per la immigrazione di operai di parlata italiana. Questi non sono soltanto fatti di carattere psicologico, nazionalistico, campanilistico, politico; sono anche motivi economici; si teme che attraverso la invadenza numerica degli emigranti, appoggiati o no dal potere politico, si sviluppi una preuaienza economica. Questi fatti, griderebbe un solidarista convinto, non sono pertinenti: la solidarietà si sviluppa sul terreno dell'eguaglianza di classe, di categoria e di diritti. Contro quest'affermazione h o pronto un primo esempio: la condotta dei sindacati (unione) inglesi verso gli operai italiani, chiesti dallo stesso governo inglese per le miniere nazionalizzate. Gli operai


inglesi si opposero; boicottarono i nuovi venuti; obbligarono il loro governo a ritirarli dalle zone minerarie (con disdoro dell'autorità politica), a farli ritornare in Italia o ritenerli in altri impieghi occasionali. Niente solidarietae nessun indizio di solidarismo; completa rottura sindacale, oltre che umana e cristiana. Si dirà che i minatori italiani andavano in casa d'altri; restiamo in casa nostra. Che cosa avviene nella Liguria e nel Piemonte e perfino in Lombardia? Si è sviluppato un forte risentimento contro le popolazioni meridionali: i terronistanno invadendo le terre del nord, le fabbriche del nord, gli impieghi del Nord; solo nella provincia di Genova vi saranno centomila calabresi (li chiamano calabresi perché i più noti). Costoro han formato a Genova delle cooperative per potere così evadere i vincoli della legge che proibisce la ricerca del lavoro fuori residenza (legge tuttora in vigore benché contraria al disposto costituzionale). I1 socio di una cooperativa ha diritto di risiedere dove la cooperativa è fondata, ecco il ripiego dei terroni. È anche in atto la campagna di stampa «antiSud», l'opposizione alla Cassa per il Mezzogiorno, alla legislazione regionale delle Isole, Sicilia e Sardegna, e così di seguito. Solidarietà? Inizio di solidarismo in campo economico-sociale? Niente di questa merce; lotta economica e perfino discriminazione fra italiani e italiani. È enorme!

Lo Stato modernissimo secondo i nuovi profeti del solidarismo dovrebbe portarci alla forma più evoluta dell'economia sociale, che non sarà socialismo e non sarà comunismo. Che cosa sarà mai? Come si sopprimeranno i conflitti? con l'autorità della legge? con I'intervento politico? con la formazione del partito unico? con le corporazioni per legge? Quali elementi psicologici ed etici fornisce il solidarismo? è cristiano? è laicista? è sovietico? quale la struttura politica? la libera o la dittatoriale? Di qui non si scappa. Ebbene, il solidarismo è una formula equivoca che conta su sentimenti cristiani di gente che non è cristiana; su formule libere di gente che vuole costringere il paese ad unico regime su principi economici che per essere attuati debbono eliminare ogni libertà. I1 solidarismo contiene tutti i microbi dello statalismo e tutti gli equivoci del socialismo.

Il Giornale d'ltalia, 28 gennaio 1958

Democratici e statalisti Leggendo l'articolo di La Malfa: Un problema malposto, dovrei ripetere anche per lui come per altri (Rumor compreso) che egli confonde statalismo con intervento statale. La mia definizione inserita nell'articolo da lui incriminato è chiara: «La degenerazione, per sistema, dell'intervento statale in campi non propri o con lesivi dei diritti dei cittadini)). Perché egli ripete che io sono un ortocentista arretrato? Forse perché non mi limito allo statalismo economico ma parlo di statalismo politico, culturale, artistico e così via. Se vuole un esempio tipico di quanto io affermo, guardi la ((Biennale di Venezia));là è regola I'osrracismo ai musicisti, ai pittori e scultori che non sono della consorteria sinisrrorsa (dodecafonici e astrattisti compresi), il colore politico prevale suHa biacca e il minio con il


-7

.

.

,'

I miei riferimenti al passato storico non sono roba che non ci riguarda; il mondo è sempre lo stesso: i cambiamenti del condizionamento storico non provano che lo spirito uma; no sia cambiato, e neppure che siano cambiati i metodi. I privilegi dati dai monarchi per scavare miniere valgono quanto le concessioni e i permessi del Ministero dell'Industria per 'costiuire impianti di raffineria di greggio. I monarchi potevano premiare i sudditi fedeli; i ministri dell'industria favoriscono potenti elettori o parlamentari interessati, anche quan' do le raffinerie sono eccessive e non riescono ad avere sufficiente greggio da raffinare. Li aiuterà il contrabbando adriatico e tirrenico; quest'ultimo ha già pronta un'altra unità a Gaeta, e con l'aiuto di uomini politici siciliani ne avrà un'altra a Milazzo. Come è organizzata la sorveglianza della finanza in tale settore? Non ne ho mai sentito parlare. La perdita di vari anni nella formulazione e nell'approvazione della legge sugli idrocarburi e nella riforma del monopolio dell'ENI nella Valle Padana è dovuta all'intestamento degli statalisti che offuscò la mente di Cortese; i repubblicani e un gruppo dc 'furono nettamente con le sinistre e vollero dare all'ENI il più largo atto di fiducia anche fuori della <(riserva»;- abbiamo notizia dei chilometri di pozzi scavati e anche del, la convinzione dei dirigenti dell'ENI che nell'Alta Italia non ci sia petrolio. In tal caso, non varrebbe la pena di mantenere il monopolio a1l'ENI solamente per il metano con .. .danno del1'-industria privata, specie da quando Mattei si è dato alla politica estera. L'ul.' timo bilancio della produzione metanifera segna (AGIP-SNAM) 4.137.047.28 1 ton-. . . nellate, oltre 134.828 di idrocarburi liquefacibili; in termine di calorie i suddetti pro. d*ti equivalgono a poco più di quattro milioni di tonnellate di petrolio; sui quali lo '.' . . 'Stato ha avuto attribuite L. 6300 milioni in cifra tonda, cioè 3900 milioni a titolo di utile netto e 2400 milioni a titolo di onere tributario. Mentre l'impresa «Gulf Italia)) : ,; . .per la produzione di petrolio di Ragusa nel 1957 (poco più di un milione di tonnella., .te) ha denunziato alla Regione Siciliana il contributo di 4 miliardi in cifra tonda, cioè ': .L. 2560 milioni per imposte; 37 milioni per canoni superficiari, 1350 milioni per cessione di petrolio greggio in natura a titolo di royalties (a parte I'IGE e le tasse di fabLicazione). Non è tutto: la «Gulf Italia)) ha dichiarato l'utile della società in 4 miliardi sui quali ' paga le tasse all'erarjo. A tale titolo l'azionista dell'AGIP-SNAM, cioè lo Stato, non registra nessvna,ent.rata; a occhio e croce I'AGIP-SNAM avrebbe dovuto versare allo Stato non . ''i i 6300'milioni dati nel 1356, ma 16 miliardi per royalties, tasse e diritti e 16 miliardi invece all'&ibn'ista, lo Stato, per utili dell'azienda. In proporzione, lo stesso si sarebbe dovuto fare per gli anni precedenti, salvo nei primi tre esercizi, a passare tali somme ad aumento patrimoniale, come previsto nella legge. Diranno i democratici statalisti una sola parola su quanto ho scritto sui conti delI'ENI? e la grande stampa? e la stampa dei partiti? Chi non associa la libertà economica alla libertà politica, come interdipendente e vivente della stessa anima, non si renderà conto dell'omertà politica e giornalistica su tutte le malefatte degli amministratori degli enti statali; non si renderà conto dell'indebolimento dello Stato come governo politico, di fronte allo strapotere di tipi come Mattei, e non è il solo, e di partiti e giornali finanzia'

2

'

:consenso-dci rappresentanti statali, i quali, a parte la dubbia competenza, sono preoccupati ~difendersi.dall'offensiva dei social-comunisti, dei laicisti di sinistra e perfino di certi democristiani intraprendenti.

"

....

*:

.

<

.

..

.


ti e sostenuti, o addirittura promossi con i denari del pubblico erario, come sembra sia Il Giorno di Milano, le cui operazioni riguardo le aree fabbricabili dovrebbero dar luogo ad una inchiesta. I miei oppositori democratici, repubblicani compresi, mi dicono essere per l'intervento statale, non per le malefatte della politica e dell'amministrazione. Chi vuole le premesse, deve ammettere le conseguenze: la mala amministrazione non è, come credono i miei critici, colpa del monocolore o del quadripartito; è triste eredità di tutti i governi italiani e stranieri che vogliono fare un mestiere che loro non compete, soppiantando industriali, agricoltori e commercianti; perché la politica fa entrare in funzione i controlhti-controllori; inflaziona i consigli di amministrazione degli enti; mette burocrati e politicanti incompetenti a posti di comando. Quante volte gente che non ha saputo far niente in vita sua, di botto diviene competente perfino in musica ed è lì a fare da sovrintendente di teatri di prim'ordine (sì, mescolo industria ed arte, perché per certi tipi l'arte è fonte di ticchezza come l'industria).

Passiamo avanti: per certi miei oppositori (e mi spiace vedere fra costoro l'onorevole La Malfa) l'esperienza della Germania Ovest è una esperienza che va messa non solo a paro di quella italiana ma può considerarsi più marcata, più estesa, più dirigista. Naturalmente costoro poco conoscono della Germania e non vogliono rendersi conto che un ENI vale cento interventi tedeschi e un IRI ne vale ancora di più. Come non fu statalista l'azione di Einaudi nel '47 quando egli fermò l'inflazione crescente; così non è statalista quella di Erhard oggi in Germania. Il new deal di Roosevelt per essi è basato sui principi dello statalismo; non per me, pur avendo Roosevelt aggravato la mano, cosa necessaria dopo la politica di Hoover durante la crisi del 1929. Se il new deal lasciò tracce (così da noi al polo opposto anche I'autarchia) certo non fu tale da determinare interventi sistematici né diretti a statizzare industrie e a creare enti tipo ENI ed IRI. Si suole ripetere che l'IN sorse per le malefatte dei finanzieri e industriali italiani, e non si pensa che le industrie di guerra furono fatte per necessità patria e per imposizione giustificata del potere pubblico; che le banche avevano, anche per questo, preso oneri industriali al di fuori della loro funzione creditizia. Gli effetti del dopoguerra, fascismo compreso, furono tali da incidere sull'andamento della economia; la crisi del 1929 combinata con la lira a quota 90 paralizzò ogni attività; I'autarchia, la preparazione per la guerra etiopica e le sanzioni mezze finte e mezze vere della Società delle Nazioni resero ancora più critica la situazione. Colpe dei privati, colpe del potere pubblico, colpe di eventi economici e politici; lascio a storici ed economisti la ricerca del più e del meno, ma mi oppongo al semplicismo delle sinistre, che tutto il male è da una parte, ed è tutto di quei pochi (troppo pochi secondo me) grandi complessi industriali di allora, diversi da quelli che oggi sostengono gran parte della nostra produzione. Ciò non ostante, I'IRI fu concepito come rimedio straordinario e temporaneo per evitare un crack nazionale. Solo in seguito, piacque ai dirigisti consotidarlo; rimase così quale peso insopportabile sulla nostra economia. Anche la siderurgia, quella privata e quella irizzata, fu un peso perché per vivere doveva allora contare sopra una barriera doganale gravosissima; mentre oggi, senza protezione, ha fatto uno sbalzo di prim'ordine nell'area europea per merito della CECA, nonché per la previggenza di Oscar Sinigaglia che curava la


Finsider come cosa propria, e per l'aiuto veramente largo dei prestiti americani: lo statalismo non c'è entrato.

Dicendo ciò, i miei contraddittori ripetono con insistenza l'accusa di essere io difensore delle grosse aziende private. Abituato ad essere accusato e diffamato sul piano politico e «storico» (veto a Giolitti, operazione Sturzo; i più noti e i più ripetuti) non mi interesso affatto delle nuove accuse, anche se qualcuno mostra di crederci e qualche altro mi regala delle vignette come ai tempi del fascismo. Non per questo cesserò la mia campagna, anzitutto perché la politicizzazione degli enti statali e statalizzati porta ad una diffusione di corruttela che invade gli uffici pubblici, non risparmia i partiti e la stampa e arriva alle soglie della rappresentanza nazionale. Mi si dirà che anche i privati usano il mezzo della corruzione per garantire i loro interessi. La differenza è notevole; la legge, il governo, l'opinione pubblica possono e debbono intervenire per colpire i privati che danno e che ricevono se toccano il codice penale, biasimarli se lo scansano. Ma nel caso dello Stato e degli enti statali, han mai visto i miei contraddittori un amministratore di ente o un funzionario pubblico portato davanti al magistrato? ovvero denunziato alla Corte dei conti? Perfino alla Camera non si dà corso alla richiesta di autorizzazione a procedere contro deputati, lasciando che i funzionari colpiti da denunzia attendano ancora il processo per potersi discolpare e non avere la carriera bloccata. I miei amici sanno che è forte quel che io scrivo; ma chi potendo non mette il ferro sulla piaga, tradisce la propria coscienza; ed io non posso tacere.

Malagodi sa tutto questo, e sa che egli e il suo partito han peccato di statalismo come han peccato socialdemocratici, repubblicani e democristiani. Se oggi, dei tre, solamente Malagodi parla contro lo statalismo, l'ho già detto, egli lo fa a scopo elettorale, senza accenni alle passate colpe dei ministri Villabruna e Cortese e della stessa delegazione liberale (come egli l'ha chiamata) al quadripartito. Bisogna essere leali; occorre rettificare, distinguendo il passato dall'awenire; non nella forma astiosa da lui usata per combattere l'alleato di ieri (la DC) che potrà anche essere l'alleato di domani; ma nella forma delle lotte civili basate sulla verità. La mia campagna non è elettorale, né è nata da elettoralismo; è la stessa campagna che iniziai col Partito Popolare (leggere i miei discorsi), e fatta con le stesse finalità di allora. Oggi i problemi sono più vasti, le soluzioni più impegnative per la DC che ha responsabilità diretta di governo. Pertanto il mio discorso non cessa, perché spero sempre che siano rettificate le direttive nel campo dell'intervento statale, cessando le arditezze dei Bo; che siano impedite le collusioni anche di ministri con le sinistre bolscevizzate in politica interna ed estera (Del Bo lo sa); che siano moralizzate le amministrazioni degli enti economici (Mattei mi comprende); che si abbia fiducia nella libertà, anche se noi italiani siamo insofferenti di disciplina e non cerchiamo di adottare la più elementare autodisciplina.

Il Giornak d k l i a , 1 febbraio 1758


Clima elettoralistico2' Non clima ekttorale, ancora le elezioni non sono state indette; ma clima elettoralistico, perché voluto, sofisticato, irre~~irabile, inadatto alla fase finale del Parlamento che sta per chiudersi. Dico: Parlamento, perché oramai, passi o no la legge costituzionale che riduce a cinque anni il periodo senatoriale, lo scioglimento del Senato è scontato: il Senato sarà sciolto; il decreto verrà. È fatale; difficilmente il Presidente della Repubblica potrà rifiutare di firmare i! decreto. Sia che la legge costituzionale passi sia che non passi, i motivi per l'anticipo delle elezioni di un mese dalla data del 27 giugno (scadenza legale) si giustificano: nel primo caso si tratterebbe di formalità, specie per la Camera dei deputati, perché il quinquennio di nomina scadrà esattamente il 27 giugno, e ciò per la convenienza di tenere i comizi non più tardi della prima domenica di giugno; nel secondo caso, non passando la legge costituzionale, sarà buona ragione superare quella specie di conflitto che esisterebbe fra Camera e Senato, fra Governo e Senato, fra opinione pubblica e Senato per il rifiuto dei senatori ad anticipare di un anno le elezioni; cosa che a tutti sembra ingiustificata e personalmente utilitaria, il che non giova al prestigio del corpo né alla dignità dei padri coscritti.

2'

In riferimento alle elezioni pubblichiamo alcune lettere di Stuno a noti democristiani: Lettera del 6 gennaio 1958 al Segretario Regionale della Democrazia Cristiana, dott. Nino Gullotti di Palermo: Egregio Segretario, Le sono grato degli auguri natalizi e nuovo anno che le ricambio insieme ai suoi colleghi della Giunta Reeionale DC. " Spero che la preparazione elettorale siciliana sia condotta non solo con criteri tecnici aggiornati e valevoli, specie per quanto ri uarda i se i e le operazioni elettorali; ma sia diretta a tre nobili e inderogabili scopi: I ) eliminare in tempo i jiisensi l o 3 i fra i soci della DC. dissensi che tengono lontani gli elettori e possono d enerare in fazioni irreconciliabili; 2) impedire l'accaparramento dei voti di preferenza con mezzi deplorev% quali b lotta persondinica al collega di lista quasi fosse un avversario, l'intesa h.i candidati di lista e perfino con awersari per eliminare il concorrente, la corruzione dell'elettore; 3) infine, una linea compatta di lotta al socialcomunismo uguale in tutte le provincie e in tutti comuni, senza debolezze né compromessi, tenend o presente che il socialcomunismo per 1'Iralia il pericolo numero uno. Che il Signore vi protegga. Cordiali saluti Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 546, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L. S.»,gennaio 1958. Lettera del 3 febbraio 1958 all'on. prof. Giuseppe Caronia: Carissimo e chiarissimo Professore, Ti prego di porrare la mia adesione al Centro di Cultura Politica e Sociale, in occasione della conferenza del vice presidente, aw. Erminio Pennacchini, sul tema: L 'impegno civico &i c~noIici. O y l i ù che mai è necessaria alla vita civile la presenza di coloro che, professando apertamente e umilmente la e e e la pratica della nostra Reli ione, sentono il dovere di riaffermarla coram hominibzu, come dice S. Paolo. con la pib pura rettitudine morafe e la più fervib carità del prossimo, caratteristiche del vero cristiano. Auguri di successo per il bene della nostra Italia. Rineraziamenti e cordiali saluti ~ u i ; Stuno. In: A.L.S., b. 546, fasc. uAn. e I. pubbl. del Prof. L. S.*, febbraio 1958. Lettera dell'8 febbraio 1958 al geom. Antonio Matrella di Foggia: Egregio Signore,


Per ogni buon fine, sarà doveroso evitare che i gruppi anticipino per la seconda volta la decisione che spetta al Senato, riducendo l'assemblea a un piccolo teatro di pupi siciliani; con la differenza, che di fronte al pubblico i pupi siciliani, siano Rinaldo o Brandimarte,

La ringrazio della lettera del 27 gennaio scorso e del ricordo della sua parrecipazione al partito popolare italiano. Sono di awiso che coloro che seguono la mia impostazione etica e politica, dovrebbero continuare la loro artività nelle elezioni della D C e curare di far valere i sani principi e di lorrare contro le tendenze deformarrici della morale cristiana e delle idealità democrariche. Le fo inviare alcune mie pubblicazioni. Distinti saluti Luigi Srurzo. In: A.L.S., b. 546, fasc. .Art. e 1. pubb. del Prof. L. S.)),febbraio 1958. Letrera del 17 febbraio ai dr. Guido Lisorri di Modena: Egregio Dotrore, Grazie della lerrera che mi conforta in mezzo a rante amarezze. La mia batraglia per la liberrà è diretta, non a fare che i soci lascino la D C (oggi non sarebbe possibile un secondo partito di carrolici), ma perché si formi nell'interno del partito una correnre meno conformista e più risolura ad evirare gli slirtamenti a sinistra e a superare l'infatuazione staralisra, in parte eredirara e in parte accentuara dalla burocrazia e dal poliricanrismo che ne approfirta. La mia bartaglia non mira ad organizzazioni politiche; io cerco adesione morale sia per moralizzare la vira pubblica, sia per conrenere l'invadenza statale, sia per evirare e per allontanare il pericolo socialcomunista. Gli amici di Napoli hanno creato un Circolo Srzrdi Luigi Sturzo (via Stella n. 137); quelli di Torino un Centro Studi Luigi Srurzo (via G. Prari n. 3); spero che nonostante le difficoltà e le opposizioni, l'esempio si generalizzi. Cordiali saluri Luigi Srurzo. In: A.L.S., b. 546, fasc. .Art. e I. pubb. del Prof. L. S.,), febbraio 1958. t

Lettera del 17 marzo 1958 al V. Presidente del Consiglio, on. prof. Giuseppe Pella: Caro onorevole V. Presidenre, Grazie dell'invio del sunto del discorso renuro a Milano il quale mi dà l'occasione per un arricolo. Spero scriverlo appena espletari gl'impegni in corso. È augurabile che le rue affermazioni trovino rispondenza adeguata nel programma eletrorale della Democrazia Crisriana. Cordiali saluri Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 546, fasc. .Art. e 1. pubb. del Prof. L. S.», marzo 1958. Pubblichiamo anche una lettera del 27 gennaio 1958 del segretario polirico della D C , on. Amintore Fanfani: Caro e Reverendo Don Luigi, Mancherei al più elementare dovere ove non la metressi al corrente di un fenomeno riscontrato nelle mie visite, ormai a diecine di provincie del Nord, del Cenrro, del Sud. I nostri sforzi di propaganda e di organizzazione elettorale ven ono sistematicamente annullari, specie nelle cirrà, dai Suoi articoli. Immagino ciò c i e Ella può scrivermi a chiarimento. Ma qualsiasi chiarimenro può valere per me, non per i Suoi lettori che dai Suoi articoli traggono una sola conclusione: non si può più votare per la DC, lo scrive anche Srurzo. Veda l'unita lertera pubblica con la quale Anronio Matrella, ex popolare, si dimette dalla D C di Foggia. Lei che conosce la situazione italiana non può immaginare che un indebolimento della D C faccia diminuire i pericoli per la libertà. Lei che conosce quali fermi propositi siano nei responsabili del Partito di non presentare programmi sraralistici, non può conrribuire a far credere che awerrà il contrario. Lascio ora alla Sua coscienza ed al Suo senso di responsabilità decidere la condotta più idonea in questa vigilia di gravi decisioni. Non mi sarei permesso di accennare al Suo dirirto-dovere di esercitare una libera critica, ove non ne avessi consrarato effetti certamente contrari alla Sua intenzione, e negativi rispetto alle Sue attese. Con devori saluti Amintore Fanfani. In: A.L.S., b. 777, fasc. 28,c. 2.


Guerin detto il Meschino o Angelica, hanno comunque una personalità, il tirafili non si vede; nel Senato, invece, i capi gruppo presieduti da Molè, si vedono e gli altri stanno i ta-" cere dando un consenso che forse non sentono.

I

' ~

*** '

'

Elettoralistica è stata la commedia svolta dentro e fuori il Campidoglio. La dimissione del senatore Tupini da sindaco è stata un affare personale, una scelta extra capitolina; l i n o mina dell'aw. Cioccetti a sindaco, un affare di ordinaria amministrazione che non sposi+-. ; va non dico un assessore o un consigliere, ma neppure un usciere dal suo postò:Il.preièsto'~ , - . . . dei voti di destra, - pretesto che non impedì a Zoli di ripresentarsi alla fine di giugno come Governo in atto e per dippiù con la riconferma del Capo dello Stato, - avr,ebbe dovu- .. ., to obbligare Cioccetti a lasciare un posto non politico e precipitare una crisi che akrebbe,". ; :* . . . portato un commissario prefettizio in Campidoglio. . ,., -Siamo sul piano d~ll'assurdonon solo amministrativo ma politico; con l'ag&unii'del solito Saragat tormentato dalle sue due anime il quale, incerto sul vado e non vado, vengo e non vengo, voglio e non voglio, finisce con lo smentire se stesso; così ha .fatto $01 discoi- . , ' . . . so sulla politica estera, egli che è stato tanto fedele atlantico con il plauso di tutti gli italia-. .. , ni (gli altri sono bolscevici, non italiani). Naturalmente, i giovanotti dellesinistre d:c. sono con Nenni e applaudono Saragat perché finalmente Cioccetti, uomo di destra (perché?), cattolico integrale o integralista (non si sa come chiamarlo), venga sbalzato di sella. , È sciocco scrivere, con la Voce Repubblicana, che nel caso capitolino, i comunisti.s.a-. rebbero già isolati dal gesto dei protestatari, perché mai Nenni l'ha rotta con i'com&isti;. - . e nel caso presente, questi ultimi sarebbero stati felici di dare i voti gratuitamente ad una . : . .- .. . . .. Giunta sinistrorsa (PSI compreso) ripetendo a proprio vantaggio il gesto delle destre. . . .. : «Roma non è Roccacannuccia», scrive la solita Agenzia delle sinistre d.c. (A plurale);.- . infatti, l'infeudazione di Roma alle sinistre sarebbe un'operazione di gran lunga,maggioie . . e più dannosa, per questa vigilia elettorale, che non la presa di Roccacannuccia. passiahio - . . . oltre; Cioccetti fa bene a non preoccuparsi della defezione o semidefezione, obtorto cillo, dell'assessore Farina, compensato fin oggi dalla coerenza dell'assessore L'Eltore; . .' ' , ., ,. La vigilia elettorale è tuttora infastidita dalla ressa delle categorie delle geisoHe che ':, " . gliono prendere il momento buono per ottenere in questo scorcio di legislat~ragdi,i+vdnb- 5 fin oggi sperati vantaggi. Le commissioni in sede deliberante sfornano leggi iii;lèggi ;o$'tih '' . . r ritmo accelerato. Non è buon segno; ogni partito farà valere, presso l'elett'ore, il suo appoito .' indispensabile per ottenere dal governo riluttantt o dalla maggioranza dubitosa, o d a l l e ~ ~. ~ ..f r ~ ~ .i zioni necessarie a formare la volontà legislativa (in certi casi uno solo, quel solo può di- '. - ,'; re: se non fosse stato per me la legge non sarebbe passata). È tutto? no; Li-* di mezid,l+se;''. ' .. rietà legislativa del Parlamento, la buona amministrazione delle somme che i tbriiiibleeti' ; -' : . . versano all'erario; la poca educazione del cittadino, che invece di essere l'elettoie che $iu-. . dica la condotta dei propri rappresentanti, diviene il cliente che valuta l'abilità del pròpiio . avvocato presso il Parlamento e i Ministeri. La questione delle case d e l l ' 1 ~ ~merita 1 ~ Een . . ., . . . altro esame che la fretta preelettorale. . . . .:.:. 4:

.;,

'

'

7

6.

\

'

,

%

~GL.~ L .

, ,

-

&'

: '' '

... ,

.r

***

,,,

. s ,.: 'i,'

..

'

:

. La Costituzione stabilisce che il Capo dello Stato non può sciogliere una o ambo le Camere nei sei mesi che antecedono la scadenza della propria nomina; sarebbe bene che,

'

., -

*

4

,


senza incomodare la Costituzione, le Camere d'accordo introducessero nel proprio regolamento la disposizione che nei sei mesi che antecedono la scadenza normale della legislatura non si possano discutere disegni di legge (tranne che con speciale procedura) il cui finanziamento ricade in tutto o in parte sulla legislatura successiva. Piccolo ma significativo freno al motus infine velocior della fabbrica delle leggi onerose. Non c'è stato periodo così incerto e fluttuante, elettoralmente parlando, di quello attuale; mentre nel 1753 il partito DC aveva quasi per sicuro la conquista della maggioranza assoluta per via di una legge elettorale col premio (nel 1748 aveva ottenuto la maggioranza senza premio); oggi si ha la certezza matematica che il partito di Governo, la DC, non potrà ottenere altro che la maggioranza relativa. La legge elettorale della Camera, che la DC ha approvato in periodo quadripartitico, è stata fatta in modo da escludere, allo stato presente, che alcun partito possa da solo ottenere la maggioranza. Un accordo preventivo sarebbe stato naturale per assicurare al governo di centro la maggioranza assoluta, per il fatto che fin oggi non esiste la possibilità di una soluzione di alternativa come in Inghilterra e in America. Esclusa l'intesa elettorale fra partiti affini, ritorneranno, ad elezioni fatte, gli stessi problemi che hanno affaticato i cinque anni della seconda legislatura: quadripartito? tri-bipartito? monocolore? veto a destra? unificazione socialista? Fra gli sgambetti di Nenni, le subitanee svolte di Saragat e l'aspra critica di Malagodi (a parte la secessione dei repubblicani a braccetto con i radico-laburisti dei conti Villabruna e Carandini), oggi non si vede come possa la DC superare il proprio isolamento. Rimandare la soluzione a dopo le elezioni è lo stesso che affidarsi ai numeri del lotto o alle schede del totocalcio. Ma è così; il nostro elettorato è sentimentale, sensibilissimo, critico, sfiduciato. I comunisti hanno il peso dell'ungheria e non è possibile toglierselo d'addosso; Nenni ha deluso per non aver avuto il coraggio di romperla con Mosca; Lauro-Covelli non possono convivere in unico partito, in Sicilia si direbbe che l'uno e l'altro sono muli di una stalla; i missini non hanno avvenire perchd guardano ad un passato che, in un mondo diviso fra Mosca e Washington, non può più rivivere. Gli altri: le frazioni di centro se guadagneranno ciascuno da tre a cinque deputati, da due a quattro senatori, sarà un caso fortunato; resteranno sempre nella condizione di poter ricattare il governo, non mai di poter prendere il timone in mano. La DC avrà di nuovo la responsabilità di governo; deve assumerla a vantaggio di tutto il paese: governo di libertà e non di monopolio; governo statale e non statalista. È questo che ogni buon cittadino domanda alla futura maggioranza governativa. La nazione italiana è stata, senza saperlo, condotta dalla Provvidenza per vie nuove verso impensate soluzioni di problemi creduti insolubili. La cacciata dello straniero fu da noi iniziata, ma per ottenerla ci volle la cooperazione straniera. L'unificazione fu da noi voluta, ma dovette maturare nello estraneamento dei cattolici dalla vita pubblica, della quale ebbero la responsabilità gli avversari della Chiesa. La Conciliazione arrivò in clima di dittatura fascista, escludendo che fosse strappata ai laici con lo strascico di lotte e di dissensi insanabili. La Chiesa, durante la guerra, poté dimostrare essere allo stesso tempo al di sopra dei conflitti mondiali e dare all'Italia la sua materna assistenza. La prima guerra completò l'unità territoriale dell'Italia, ma i vantaggi della vittoria furono presto scontaci; la seconda guerra fu perduta ma la rinascita italiana è stata effettiva; pur in mezzo al pericolo di un comunismo indigeno mai così esteso come nella presente congiuntura. Ora siamo ad una svolta: la DC al potere è stata una garanzia di pace, ma oggi è insidiata ed isolata; ha non poche responsabilità e ha commesso parecchi errori (chi non sbaglia in questo mon-


do?); ma la DC ha la linfa vitale di un partito giovane, ed è ancorata a principi saldi e validi, i principi dell'etica cristiana; l'esperienza del passato le gioverà a maturare i destini dell'Italia, se rimetterà l'amministrazione sul binario della rigidità; se assicurerà ai cittadini la certezza del diritto; se correggerà lo statalismo e darà nuovo slancio alla produttività e alla sicurezza sociale.

Noi cristiani abbiamo fiducia nella Prowidenza, non negli uomini; anche se gli uomini di governo mancheranno al compito loro assegnato, la fiducia nella Prowidenza ci sostiene, perché seguiamo l'invito di Davide di avere fiducia in Dio più che negli uomini. Dio nella sua bontà preserverà l'Italia dal pericolo bolscevico, dall'insidia laicista, dall'affondamento nell'immoralità invadente: «questa speranza è riposta nelfondo del nostro cuoren.

Il Giornale dytalia, 7 febbraio 1958

L'adesione del sen. Sturzo2' Ill.mo Presidente, Non essendomi possibile intervenire all'assemblea annuale di codesta Confederazione, la prego di accettare i miei più fervidi auguri per il risultato dei lavori, improntati alla più realistica ed efficiente politica commerciale da sviluppare all'interno e all'estero, specialmente ora che con l'attuazione del Mercato comune della piccola Europa si inizia un esperimento di importanza eccezionale. La mia ben nota campagna contro gli eccessi dell'intewentismo statale, mi inducono a pensare che sarebbe fuori di luogo domandare al Governo altri interventi che non siano quelli di rivedere (con accortezza e con sicura mano) le vecchie e sorpassate restrizioni adeguandole allo sviluppo sempre crescente dei prodotti da piazzare sui mercati a prezzi di onesta concorrenza. So che tocco un punto difficile; l'intesa fra produttore e commerciante deve essere completa per ottenere la maggiore e migliore produzione possibile e la più rapida e sicura circolazione della merce. Libertà, onestà, operosità, fiducia, ecco i valori morali alla base della rinascita economica del nostro paese. La prego di accettare i più deferenti omaggi e all'assemblea gli auguri più fervidi. Distinti saluti. Luigi Sturzo

Il Giornale del Commerrio, 8-1 5 febbraio 1958

22

Lettera inviata al presidente della Confederazione Generale Italiana del Commercio, Sergio Casaltoli, in occasione dell'assemblea confederale.


Classe politica e stacalismo Alla classe politica appartengono, naturalmente, deputati e senatori. Costoro dovrebbero formare il culmine delle varie categorie componenti i settori dell'attività pubblica. Nel fatto, non sempre senatori e deputati, non ostante siano stati eletti dal popolo, rappresentano la più eletta compagnia del mondo politico di un paese. Classe politica è una definizione inesatta, sia perché non è classe nel senso tradizionale, - suole essere la meno solidale di tutte le categorie operanti nel campo della pubblica amministrazione -; ma anche perché l'aggettivo «politica»copre una merce eterogenea. Se ne parla come si parla di c h e dirigenteche non dirige un gran che; di classe intellettuakovvero del mondo della cultura, nelle quali indicazioni si trovano sempre le imprecisioni di un linguaggio astrattista, che tende alla facile classificazione delle idee correnti. Ciò non ostante, noi possiamo individuare sia coloro che fanno della politica per istinto, per vocazione, per spirito direi altruistico, per ambizione giustificabile, per tradizione familiare; sia gli altri che guardano la politica come un affare domestico, una sistemazione professionale, mezzo di onesti guadagni per l'oggi e per I'awenire. I primi saranno fedeli agli ideali, alla bandiera, al partito; gli altri, buoni ad adattarsi a tutte le evenienze, con quel girellismo in corpo che Giuseppe Giusti immortalò nei suoi versi. Si parla di preparazione, di qualificazione, specializzazione per tutte le branche dell'istruzione tecnica, del lavoro manuale, delle burocrazie, delle professioni; nessuno parla di una specie di ((apprendistato))di coloro che sono chiamati al posto di consiglieri comunali e provinciali, di membri delle assemblee regionali, di deputati e senatori; quanti avrebbero bisogno di una pur sommaria preparazione. Purtroppo, la classe politica si definisce da sé per la designazione partitica, la candidatura e finalmente la scelta di preferenza, nel giorno fatidico dei comizi popolari. Si presume che nelle operazioni preliminari e finali prevalga il buon senso, perché la scelta sia veramente tale da presentare tutte le garanzie possibili; i fatti non sempre corrispondono alla presunzione; ((l'essere))non è conforme al «dover essere».

Fra le cause del fenomeno di decadenza del sistema parlamentare (non solo in Italia, ma anche altrove) si mette per prima la partitocrazia; ne ho già scritto più volte. I partiti ci sono stati sempre; dove mancano i partiti, si formano le fazioni; fra i due mali, il primo è preferibile al secondo, perché le fazioni scendono a vie di fatto fin dai tempi delle spade e degli archibugi. I1 male presente non è il partito ma la partitocrazia, la quale non solo tend e a soverchiare Parlamento e Governo, sì bene a monopolizzare la volontà elettorale. Anche i sindacati operano nella sfera dei partiti, e usano gli stessi metodi con l'apparato e i mezzi dei quali dispongono. Donde vengono i miliardi che maneggiano sindacati e partiti? Ne ho parlato più volte: un mio articolo ((Partiti 1955))fece chiasso; ed è strano (fra parentesi) che un mio contraddittore di un settimanale pseudo politico, nulla conoscendo di me e dei miei scritti, mi domandi se io sia favorevole ad un'inchiesta sui fondi dei partiti (e perché no dei sindacati, dei giornali politici, delle agenzie di notizie, di tutta l'attività politica italiana che vive da parassita?). È divertente la richiesta fatta a Nenni da Luigi Antonini di New York, perché restituisca a Saragat i fondi inviati nel 1947, fondi destinati ad un socialismo democratico e trattenuti dal PSI con una qualifica che non gli spetta.


Più volte io stesso ho sollecitato per l'Italia leggi sui finanziamenti dei partiti; ultimamente ho proposto l'adozione della legge che esiste nella Germania (ovest) sulla pubblicità dei fondi dei partiti. Ma chi ha il coraggio di di votarla? Lo stesso si può dire per i sindacati. Il secretume e la mancanza di responsabilità legale dei partiti e dei sindacati contribuiscono a fare eleggere alle cariche pubbliche e presentate quali candidati perfino gli stessi dipendenti e attivisti centrali e locali. I Parlamenti divengono per ciò stesso organi senza anima, senza volontà, senza prestigio, tranne quello che deriva dalla tradizione e dai pochi indipendenti, che di legislatura in legislatura vanno diminuendo e sono tenuti in disparte. Così si spiegano certi strani fenomeni. La facile attribuzione e l'aumento delle indennità parlamentari, sulle quali non si pagano tasse (l'esempio è stato imitato da regioni, provincie e comuni); l'assegnazione della pensione, i finanziamenti per gli appartamenti e le palazzine (la Regione siciliana è stata più generosa della Camera dei deputati, che è tutto dire). È chiaro; si cerca la stabifizzazionp, la casa propria nella capitale è l'indice più significativo; non dispiacciono i posti ben pagati e collaterali all'esercizio politico nei tanti enti statali e parastatali (regionali e pararegionali) nonché nella stessa struttura del partito; così per un lato la sistemazione classist sta>^ può dirsi effettuata col beneplacito di partiti e di sindacati.

Ecco perché i prescelti dei partiti sono in gran parte funzionari e insegnanti, impiegati amministrativi e tecnici statali e parastatali e peggio persone legate con certi tipi di Enti, nonché membri dell'apparato dei partiti e dei sindacati, segretari centrali e provinciali; in sostanza, persone che dovrebbero per il loro ufficio essere controllati passano di botto alla categoria di controllori e di legislatori. Si forma così una catena di interessi che difficilmente possono combaciare con gli interessi del Paese. Esistono dietro la facciata politica e al di fuori dei capipartito altre forze che tirano i fili dell'attività statale? I finanziatori? I nuclei segreti interni ed esteri? Un tempo si parlava della massoneria che influiva nella vita pubblica italiana senza apparire, ad eccezione delle celebrazioni laiche e anticlericali; oggi se ne parla poco o niente. Se è vero che la massoneria ha le sue diramazioni nella burocrazia statale, nelle scuole, nell'esercito, nella marina, nella magistratura, per garantire l'ascesa ai propri adepti e tenere in mano i posti-chiave, sarebbe già grave cosa; più grave ancora il fatto di un'associazione segreta in regime democratico. Ma è così? La ricerca delle forze occulte che determinano orientamenti politici e vincolano le attività dei gestori della cosa pubblica è una fatica senza soddisfazione. Purtroppo, la classe politica, caratterizzata come nel passato, è oggi in crisi; la nuova classe politica come personalità e come indirizzo non dirige, per il fatto che nulla potrà fare se non entra negli ingranaggi dei partiti, i quali possono esistere e coesistere solo in quanto formano anch'essi una forza pre-dittatoriale di compromesso, per arrivare, a mezzo d i elezioni controllate, a formare, pur senza apparire, una«conditratura». Come preparare i giovani e le nuove generazioni alla fiducia nella libertà se oggi non si è capaci di rivendicare la libertà e di riaffermare la personalità umana soffocata dalla partirocrazia? Ecco il problema della classe politica del futuro. Eppure, è questo il momento di riprendere lena; la campagna contro lo statalismo, che falsa i connotati dello Stato di diritto, già va ridestando la coscienza pubblica. Né si dica che sono gli interessati a protestare; tuni i cittadini liberi sono interessati alla campagna antista-


talista, perché tutti hanno qualche cosa da dire contro la pubblica amministrazione. Invero, più si estendono le competenze statali e l'ambito delle proprie attribuzioni e maggiormente se ne sentono le deficienze, le deviazioni, gli abusi, le manomissioni. È il tallone d'Achille dello Stato-Tutto; dello Stato-Prowidenza; dello Stato sociale. Questa insoddisfazione può portare ad accentuare lo sratalismo con la perdita della libertà (vedi Russia e satelliti); owero a rivendicare la libertà limitando gli interventi statali (vedi Germania, vedi Stati Uniti). L'Italia è in tale posizione che la scelta viene imposta dagli eventi; impossibile fermarci allo statu quo; da un lato il Mercato Comune, il Patto Atlantico, i progressi civili e tecnici, il risveglio morale; dall'altro lo spettro della dittatura moscovita, le sratizzazioni e le mezze confische, l'oppressione del finzionarismo vestito da classe politica. Le elezioni del 1958 non possono essere combattute altrimenti che contro lo sratalismo e per la libertà.

Il Giornak d'Italia, 1 3 febbraio 1958

Gli Stati Baltici Quarant'anni fa, nell'ultima fase della prima guerra mondiale, la Lituania proclamava la sua indipendenza su base democratica; e non solo la Lituania; gli altri due Stati baltici, Estonia e Lettonia, risorgevano a vita nazionale e civile indipendente. Ricordo come ieri quei giorni nei quali si intravedevano i primi indizi di speranza per la fine del conflitto, fine da noi sperata come risolutiva dei problemi internazionali, pacificarrice degli animi, apportatrice di libertà e assicuratrice di ordine. Mentre la Russia bolscevica destava preoccupazioni e attirava anche favorevole attenzione per la caduta del regime degli zar, (allora i bolscevici erano discussi, ma non erano ben conosciuti), i paesi baltici, Lituania compresa, davano, più che speranza, affidamento di governi parlamentari e democratici senza infiltrazioni comuniste. Ciò nonostante la Russia firmò i trattati di riconoscimento dell'indipendenza di quei tre Paesi. L'articolo primo del trattato di Mosca con la Lituania del 12 luglio 1920, dice testualmente che «In conformità con la dichiarazione dei diritti della Repubblica federata dei soviet socialisti russi e della libera autodeterminazione di ogni popolo, incluso il pieno diritto di secessione dello Stato del quale faccia parte, la Russia riconosce senza alcuna riserva la sovranità e indipendenza dello Stato della Lituania con tutte le conseguenze giuridiche che risultano da tale riconoscimento e volontariamente e per sempre rinunzia ai diritti sovrani posseduti sopra il popolo e il territorio lituano. I1 fatto che la Lituania fu nel passato sotto la sovranità russa non mette il popolo lituano e il loro territorio sotto alcuna obbligazione verso la Russia)). I1 28 settembre 1926 fu stipulato il patto di non aggressione fra la Russia e la Lituania; si legge nell'articolo 7: (L'adempimento di questo trattato non lede in alcun modo i diritti sovrani delle parti contraenti, particolarmente la loro organizzazione, i sistemi economici e sociali, le misure militari e generalmente il principio di non intervento negli affari interni». A seconda grande guerra scoppiata, il commissario (ministro) degli affari esteri, allora il Molotov, dichiarò nel suo discorso al Consiglio Supremo dell'URSS che ci1 patto con gli Stati baltici non implica affatto l'intrusione della Russia negli affari interni degli Stati baltici, Estonia, Lettonia e Lituania, come certi interessi esteri potrebbero far credere. I parti


sono ispirati al mutuo rispetto dei sistemi di Governo e di quelli economico-sociali di ciascuna delle parti contraenti. Noi siamo per il completo adempimento delle convenzioni firmate su base di mutuo rispetto e dichiariamo come pazzesca insinuazione quella di voler sovietizzare gli Stati baltici, adoperata dai comuni nemici e da ogni specie di agenti provocatori anti-sovietici)). Dopo i patti e le dichiarazioni, a pochi mesi di distanza, gli Stati baltici, Lituania compresa, furono occupati dalla Russia; il Primo Ministro Makyr h arrestato e deportato; lo stesso awenne dei capi lituani. Le elezioni indette sotto occupazione e con ogni metodo di intimidazione non possono essere reputate azioni libere; basta pensare che i voti pro-Russia arrivarono al 99 per cento; le autorità di occupazione si affrettarono a distruggere tutti gli atti elettorali per non lasciare traccia della soverchieria e falsificazione di simile plebiscito. Bisogna dire, per la verità, che Curante quel terribile anno di guerra fra il 1739 e il 1940 i tre Stati baltici si awicinarono ad Hitler per timore di qualche colpo di mano tedesco; in quel tempo Germania e Russia mantenevano il pactum sceleris che condusse all'occupazione della Polonia e alla stessa guerra occidentale. Certo sarebbe stato meglio per gli Stati baltici la neutralizzazione riconosciuta dai due lati, owero la neutralità armata, come ebbi a scrivere in un mio articolo del 4 giugno 1742. Le fasi successive all'occupazione ebbero carattere unilaterale, tali da non potere creare alcun diritto di guerra e sovAnità né potere infirmare i diritti della indipendenza dei paesi baltici. Tali diritti avrebbero dovuto, in campo internazionale, essere riconosciuti con regolare protocollo dai vincitori della guerra e susseguiti dalla restaurazione. Purtroppo fin oggi, per la frattura awenuta fra la Russia e gli alleati occidentali, non sono stati più affrontati i problemi dell'assetto politico giuridico dei territori occupati in occasione della guerra e lasciati quindi nel più completo abbandono. I lituani dispersi per il mondo hanno formato varie comunità e mantengono contatti con i Governi democratici. Quei diplomatici che al momento della occupazione sovietica e durante le varie fasi della guerra, rappresentavano la Lituania, non hanno mai legalmente cessato dalla loro funzione presso i Governi e presso la Santa Sede. Sono essi a parlare di un popolo che non ha perduto la propria personalità nazionale e i diritti acquisiti per autodecisione e riconosciuti in passato da tutte le potenze e facenti parte della Società delle Nazioni. Rapporti sullo Stato dei Paesi baltici sono stati presentati alle commissioni parlamentari degli Stati Uniti e allegati agli atti. Lo stesso Foster Dulles, nella qualità di Foreign Secretary (Ministro degli Esteri) degli Stati Uniti, ha più volte fatto cenno al diritto degli Stati baltici alla indipendenza. Intanto lo stato di occupazione perdura illegalmente; nessuna normalizzazione & internazionalmente possibile di un atto di occupazione unilaterale, a qualsiasi titolo sia stata protratta fino ad oggi. Quel che si dice della Lituania, si dice delEstonia e della Lettonia, sia dal punto di vista del diritto internazionale, sia della resistenza morale, sia della impossibilità materiale a fare rispettare i propri diritti da quella Russia dispotica che ad una rivolta, comunque organizzata, potrebbe rispondere con inaudite rappresaglie peggiori di quelle sperimentate di recente dal popolo ungherese. Resta I'ONU; ma il momento dell'azione diplomatica in tale consesso sembra lontano, come lontana è stata fin oggi qualsiasi soluzione dei molteplici problemi posti dalla Russia per effetto dell'occupazione di guerra, a preteso titolo di garanzia della sua stessa esistenza e sicurezza. È per questo che fin oggi si sono incancrenite le questioni dell'unificazione del popolo germanico, l'affare della Polonia e dei relativi confini, compresa l'occupazione della Prussia Orientale e la deportazione di quelle popolazioni; la manomissione della Ceco-


slovacchia, dell'ungheria, Romania, Bulgaria e le relative questioni confinarie; è questa anche la situazione dei paesi baltici. Lo stato di guerra fredda Fu iniziato dalla Russia verso le potenze alleate dopo avere occupato i Paesi confinari occidentali, per crearsi non solo una sfera di influenza, ma un'effettiva sovranità, della quale furono in varia misura c~rres~onsabili gli stessi Roosevelt e Churchill, non si sa se per tiniore del peggio o per incomprensione di questo come di altri problemi troppo lontani dal loro ambiente e dalla loro mentalità. Può darsi che speravano che la Russia, invitata a sottoscrivere la Carta Atlantica, avrebbe, dopo la vittoria, rivisto la propria politica di ampliamenti territoriali ed avrebbe basata la sua sicurezza da nuove remute aggressioni tedesche sull'amicizia dei paesi di confine. Ma pensando così, avrebbero dato prova di valutare il governo russo come una democrazia occidentale e non come una dittatura, per giunta a tipo marxista e per di più moscovira. I fatti sono là ad attestare la linea e i metodi della politica bolscevica e delle debolezze fiduciose dell'Occidente; e più il tempo passa e più sembra che vengano ad attenuarsi le speranze di una soluzione. I1 futuro è nelle mani di Dio; noi ignoriamo le vie della Provvidenza; noi speriamo nella pace e nell'ordiiie. Non deve essere possibile che in un sistema di pace internazionale sia negato a popoli civili, con storia gloriosa, propria lingua, cultura e tradizione, il ritorno alla propria indipendenza; che restino cancellati dalla carta politica internazionale, estranei alla comunione dei popoli, tenuti come schiavi in un paese straniero, soggetti ad altro regime, insidiati nella fede dei padri, distaccati dalla tradizione culturale, senza più speranza di libertà individuale e nazionale; tutto ciò non è, non deve essere possibile.

/I Giornale d'ltalia, 20 febbraio 1958

Lo statalismo e il CNEL I1 Consiglio nazionale di economia e lavoro, insediato con sobria solennità, ha avuto per buon auspicio discorsi seri e pratici dei due presidenti, Zoli e Ruini. È da sperare che i componenti si renderanno conco della delicatezza del nuovo istituto costituzionale e si orienteranno nei loro lavori verso il possibile da realizzare più che verso l'impossibile da idealizzare e mitizzare. Ciò detto, come augurio e come atto di fiducia preventiva, passo all'esame di alcuni fra i principali problemi proposti dai due presidenti per renderci conto della necessità di ponderare i primi passi e le prime premesse. L'ordinamento giuridico dei sindacati è stato proposto come rema di principale importanza; sulla urgenza di una legislazione in merito tutti sembrano d'accordo; il dissenso è previsto tanto sulla sostanza che sul metodo. Sono passati invano i dieci anni del Parlamento, il quale avrebbe dovuto attuare per via di leggi gli articoli 39 e 40 della Costituzione. Nella prima legislatura fu fatto dal Governo un primo tentativo in merito, ma I'arteggiamento dei sindacati fu così ostile a qualsiasi regolamentazione che né De Gasperi né i suoi collaboratori credettero opportuno dare corso al disegno di legge. La Costituzione ha posto due limiti all'azione dei sindacati: a) la registrazione da concedersi a quelli che hanno uno statuto democratico, allo scopo di riconoscerne la personalità giuridica e «stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle ca-


tegorie alle quali il contratto si riferisca))(parole testuali); b) la regolamentazione legislativa del diritto di sciopero. Purtroppo, anche le leggi costituzionali e le ordinarie hanno un valore relativo; tanto è vero che i sindacati promuovono liberamente scioperi di ogni specie senza che esista una legge in proposito e firmano contratti obbligatori per le categorie interessate senza avere avuta riconosciuta la personalità +idica. I due problemi sono ora presso il CNEL; vedremo quale sarà l'orientamento dei sindacalisti, dei partiti di appartenenza, della burocrazia statale, della rappresentanza padronale e degli esperti, i quali tutti fanno parte del Consiglio nazionale. Sarà bene che la opinione pubblica segua questo problema che è uno dei più importanti per la nostra economia e per la tranquillità del paese e dello stesso lavoro. A questo punto, vorrei ricordare la dichiarazione fatta dall'on. Umberto Merlin all'Assemblea Costituente nel sostenere l'art. 40 da lui formulato: <(I1diritto di sciopero si esercira nell'ambito delle leggi che lo regolano)). Egli aggiunse: «Ammesso come pacifico il riconoscimento del diritto di sciopero, non è pensabile non fare una discriminazione allo scopo di escludere dal godimento di questo diritto i pubblici funzionari, perché se si dovesse ammettere lo sciopero degli agenti di polizia, dei carcerieri, dei magistrati, degli agenti delle imposte, non si darebbero allo Stato la dovuta forza e il dovuto prestigio)). Tutti i settori dell'assemblea dopo varie osservazioni aderirono alla formula Merlin; lo stesso Di Vittorio a nome del gruppo comunista dichiarò «non volersi chiudere in una intransigenza assoluta e cieca; ricerchiamo l'accordo con altri che rappresentano non soltanto larghi strati del popolo ma le grandi correnti sindacali che sono unite nella CGIL (leggi, correnti democristiane) .. . Perciò votiamo con le precisazioni da me date, l'emendamento sostitutivo dell'on. Umberto Merlin)). Il vento portò via le parole; non solo quelle di Di Vittorio, ma anche quelle di Cingolani a nome della DC. Oggi siamo più indietro; perchd scioperi di pubblici funzionari, di insegnanti e professori sono già avvenuti con ben poca resistenza da parte del Governo; gli stessi magistrati furono lì lì per indire uno sciopero in piena regola. Passiamo ad altro.. . I problemi della previdenza sono stati accennati da Zoli e ripresi da Ruini, il quale ha affermato che la previdenza costa allo Stato duemila miliardi all'anno, e fosse almeno un buon servizio, ma già si sa che gli scontenti sono assai più dei soddisfatti. È vero che per indole l'uomo è sempre più scontento di quel che riceve gratuitamente o semi-gratuitamente, che non di quel che si procura pagando; lascio agli psicologi di indicarne i motivi etici e psichici; le interpretazioni sono diverse, tuttavia la realtà è proprio questa. Ma il mormorio degli assistiti non si ferma ai moventi psicologici; va oltre e trova molti disservizi, immaginari o veri; purtroppo i veri sono più degli immaginari. Chi non sa quale speculazione viene organizzata attorno agli enti di assistenza e previdenza da certi farmacisti, medici, dentisti, infermieri, fornitori, intermediari e così di seguito? e chi non sa quante volte gli assistiti han dovuto integrare la spesa pubblica per artificio di prestatori d'opera, di dirigenti di ambulatori e di professionisti pagati per il servizio prestato caso per caso? D'altra parte, è nota la mania di ogni amministrazione a fabbricare il proprio ospedale, il proprio ufficio, il proprio posto di ristoro, il proprio pronto soccorso, immobilizzando ingenti capitali e aumentando il passivo dell'ente, senza badare a spese superflue. «I vostri ingegneri per sale d'aspetto ferroviarie fanno delle basiliche))mi diceva un inglese; così è per il resto; in Sicilia si dice che noi abbiamo la malattia dellapietra. E parlare del numero degli impiegati e della relativa spesa? E questo un capitolo da preferire dopo l'ultimo sciopero e la capitolazione statale che n'è seguita. È così: la previdenza e assistenza organizzata è costosa per lo Staro ed è defìciente per l'assicurato. In omaggio


alla verità vorrei fare una riserva circa certi servizi; quelli delle pensioni e degli assegni familiari della Previdenza Sociale vanno secondo le leggi vigenti; ma le leggi non sono le meglio elaborate, anzi sono claudicanti; l'assistenza agli infortunati dell'INAIL è condotta con sani criteri, salvo, non ostante la buona volontà dei dirigenti, quelle deficienze derivanti dalla inorganicità dei consigli amministrativi nominati per rappresentanze di questo o di quel ministero o ente e degli stessi interessati; e anche quel certo burocraticismo che ogni complesso impiegatizio numeroso si crea da sé; ma più che altro per le ingerenze dei partiti e dei sindacati, i quali tutti da parte loro tengono a far deviare gli istituti stessi dal carattere amministrativo e dal fine di interesse generale. E mi fermo qui. In terzo luogo saranno esaminati i problemi connessi all'articolo 41 della Costituzione. È stato il presidente Zoli a farne una proposta tassativa, dibattuto come egli è fra lo statalismo di certi colleghi e la polemica antistatalista che ho l'onore di provocare e di combattere da lunghi anni, specie oggi di fronte agli eccessi ideologici e agli atti di ingerenza e interferenza degli enti di Stato, e di recente anche per via dell'attività improvvisata del Ministero delle partecipazioni. L'articolo costituzionale dice: ((L'iniziativaeconomica privata è libera. ((Nonpuò svolgersi in contrasto con I'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. ((La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Grave compito è questo del potere legislativo - Parlamento, Governo e Amministrazione - e quindi dei corpi consultivi dell'uno e dell'altro, fra i quali precipuo e specifico il Consiglio nazionale di economia e lavoro. Non è facile precisare i limiti fra l'utile e il dannoso, il giusto e l'ingiusto; la difficoltà si accresce se si deve stabilire la linea di demarcazione fra potere statale e statalismo. Gli articoli seguenti della Costituzione dal 42 al 47 precisano e chiariscono i vari aspetti economico-sociali della funzione della proprietà e la ragione delle limitazioni statutarie. Ma anche per questo aumentano le difficoltà per una legislazione coerente e ferma ai principi. Sta come problema fondamentale la tutela della dignità umana, dalla quale consegue la partecipazione del lavoro sia alla proprietà, sia alla gestione aziendale. Secondo problema connesso col primo è quello dell'utilità sia per ogni categoria di cittadini sia per la collettività nazionale. Se manca l'utilità, cessano gli effetti sociali che si vogliono raggiungere e viene la degradazione tanto della funzione della proprietà quanto di quella dell'iniziativa; in conclusione si compromette la stessa personalità umana dei cittadini. La delicatezza dell'equilibrio di tali fattori, deve tenere a freno l'ardore riformista degli idealisti e deve spingere a superare i vecchi pregiudizi dei beatipossidentes perché né gli uni né gli altri, con lo strahre gli uni e con la resistenza gli altri, inceppino i giusti progressi sociali insieme con i vantaggi della produttività. La mia cosciente e lungimirante opposizione allo statalismo viene anzitutto dalla precisazione di quel che lo statalismo è per sua natura: «La degenerazione sistematica deli'intervento statale in campi non propri o con prowedimenti lesivi dei diritti dei cittadini)).Questa definizione, da me ripetuta più volte, si inquadra nella stessa formulazione dei succitati articoli della Costituzione, purché siano bene intesi, bene interpretati e bene applicati. Bisogna tener presente che le leggi sono formule giuridico-politiche della realtà, la quale è assai più complessa e profonda, perche è realtà umana, libera in sé e condizionata da complessi ambientali, storici e costumari. Per questo le leggi sono eseguite, applicate e atruate in modo «pratico» cioè umano; anche le leggi formali e le stesse leggi penali non sono mai as-


solute, cioè sciolte dal riferimento alle condizioni umane del caso in esame. I1 progresso rende più valide le leggi veramente umane, rende obsolete e sorpassate le leggi non aderenti alla realtà. Non parlo delle leggi a getto continuo, quelle che lo stesso legislatore cambia e modifica ad ogni svolta di stagione. Dante ne sapeva qualche cosa quando apostrofava Firenze. Purtroppo tutto quanto ho scritto può reggere in un clima ordinato e in una società organicamente strutturata; ma oggi il partito ha preso I'awantaggio, si è insinuato nel Parlamento, ha alterato i connotati del Governo, tiene un potere senza responsabilità. È facile, pertanto, che lo statalismo, la mala pianta che aduggia la vita del paese, si sviluppi ancora di più, non ostante tutte le precauzioni organiche e legali. In tale caso sarà inutile, superfluo, o diverrà organo di partitocrazia e mediatore di statalismi peggiori di quelli di oggi, anche lo stesso Consiglio nazionale di economia e lavoro. Noi siamo ottimisti e perciò continuiamo la nostra battaglia contro lo statalismo, del quale sono efficienti ausiliari o cause concomitanti, sia nella intesa che nel contrasto, il predominio dei partiti e il predominio dei sindacati.

e

Il Giornale d'Italia, 26 febbraio 1958

Limiti all'intervento statale Se n'è parlato da industriali e da ministri, se ne parla come di cosa possibile se non probabile. Chi metterà questi limiti? Lo Stato è sovrano. È vero che «fatta la legge, trovato l'inganno»; ma l'inganno è dei furbi, degli scaltri, dei favoriti; il cittadino, invece, di buona o di mala voglia, subisce la legge. Naturalmente, si è così abituati a parlare dello Stato come entità che abbia intelletto e volontà allo stesso modo che si può parlare di un re e di un presidente di repubblica, che anche nel caso presente si arriva a credere che lo Stato possa autolimitarsi, non certo per semperiodo di tempo necessario a dare àffidamento ai cittadini che, fissato un pre, ma per limite al proprio potere e strapotere, (limite che sarebbe stato fissato dai gentiluomini che agiscono in nome o per conto dello Stato), non possa essere dai medesimi, e da altri che ne prendono il posto, sorpassato. Tempo perso; o cambia governo o mutano orientamenti politici o prevalgono indirizzi di partiti statalisti, ed eccoci da capo; nuove leggi, nuovi vincoli, nuovi interventi, nuove circolari; quei bonaccioni che avevano creduto allo Stato come un galantuomo di parola si accorgono, a loro spese, che lo Stato non può mantenere la parola, perché non ha parola; lo Stato è un'entità importantissima nella nostra mente e nel nostro linguaggio; ma lo Stato non può mantenere quel che non ha: laparola. I1 governo sì; il governo ha la parola a mezzo del suo presidente e dei suoi ministri; ma il Governo è alla mercé dei partiti: del suo; dei partiti che gli danno il voto ricattandolo; di quelli che gli danno il voto gratuito ma con intenzionalità; dei deputati o senatori che nel segreto delle urne fanno il mestiere di franchi tiratori; degli altri che si squagliano riducendo il governo alla mercé degli oppositori di sinistra, statalisti questi ultimi al cento per cento. Tanto più preoccupante è la situazione quanto più si moltiplicano gli enti statali, presso i quali ministri e deputati, capi di partito e capi di sindacato e quanti hanno a diritto o a torto voce in capitolo possono piazzare amici, parenti, seguaci, spesso incompetenti, po-


co qualificati, giovani senza'mestiere; gente che per meriti politici arriva di botto a posti importanti e ben remunerati. Sono costoro i sostenitori ad oltranza dell'intervento statale e della moltiplicazione dei posti: come è bella la vita. E che dire della filiazione degli enti da parte delle finanzierie e delle iper-finanzierie, tipo ENI e I N ? Che dire della moltiplicazione di società azionarie semi-fittizie che affiancano enti e sotto enti? Una statistica di tale fungaia sarebbe interessante. Ma chi può oggi distinguere il loglio dal grano? Breve, abbiamo creato l'ambiente per un continuo intervento statale e parairatale, al punto da avere dappertutto statalisti interessati che confondono la testa agli statalisti innocenti; «innocenti»nel senso della corrispondente parola siciliana 'huccintuzzi':

Si dice: abbiamo la costituzione che limita governo e parlamento. Ecco: ho i miei dubbi circa i limiti costituzionali in materia di statalismo. Già è sintomatico il fatto che dopo dieci anni siano tuttora valide ed eseguite certe leggi stataliste che contraddicono a tassative disposizioni della costituzione; basta citare la legge che limita la circolazione dei cittadini in cerca di lavoro e quella sui controlli di merito degli atti dei comuni e delle provincie. A parte ciò, è da notare che i limiti dell'attività dello Stato in materia economica fissati dagli articoli 39-47 sono abbastanza elastici da potervi fare entrare molte delle leggi stataliste vigenti. Per giunta, se una legge o una disposizione amministrativa che ferisce la libertà economica è creduta vantaggiosa, si sorpassa facilmente il limite della legittimità; ciò è accaduto perfino alla Corte costituzionale nell'esame dei ricorsi riguardanti certi pretesi diritti dell'ente risi. Respirando aria infetta di statalismo, sia in materia economica e sociale che in materia amministrativa, politica, culturale, ne è stata attutita la sensibilità sia del parlamentare che del cittadino. Così può spiegarsi come si sia potuto arrivare senza seria opposizione alla istituzione del ministero delle partecipazioni, politicizzando un delicato settore dell'amministrazione del demanio (quello mobiliare), al punto da potersene servire come un mezzo per trasformare in proprietà pubblica quella che appartiene al privato azionista. I casi della SME e della SIP potranno impunemente essere ripetuti senza alcuna legge, a volontà del ministro e con la connivenza di incauti amministratori; questo è proprio il caso della incostituzionalita legittimata.

Proprio dopo i fatti della SME e della SIP, si sono riuniti i rappresentanti delle camere di commercio del Mezzogiorno ed hanno fatto voti che i grandi complessi statali diano corso al disposto legislativo dell'impiego del 40 per cento annuo di investimenti in quelle provincie. Che un ex ministro dell'industria quale il liberale Cortese (liberale per modo di dire) abbia potuto, per amore del Mezzogiorno, proporre un assurdo economico fissando la suddetta percentuale di investimenti obbligatori imposti all'IN e all'ENI, si spiega per la facile demagogia che oggi ha invaso rutti; che la Camera e il Senato abbiano potuto votare simile proposta, non fa meraviglia; gli economisti sono pochi in parlamento; quel che non si spiega è il fatto che i presidenti delle camere di commercio (per quanto tuttora di nomina mirsisteriale) abbiano invocato l'applicazione del provvedimento Cortese. Quale industria può a priori stabilire la sede geografica dei propri impianti; può fissare investimenti in misura prestabilita, come se le esigenze per materie prime, viabilità, vicinanza di sbocchi commerciali, costi e simili fossero roba di poco conto? Dall'altro lato, se enti statali, che


non corrono rischi, accettano di fare impianti costosi e poco redditizi, quale giovamento ne avrà il Mezzogiorno? Ma più grave è l'abdicazione dell'iniziativa privata a quella statale, facendo il Mezzogiorno servo della burocrazia e della politica degli enti statali. Come siciliano e come meridionale, mi ribello a simile idea. So bene che al mezzogiorno non bastano le iniziative locali; so bene che per sviluppare l'industrializzazione occorrono capitali italiani ed esteri, persone esperimentate e disposte a sfruttare le risorse del Mezzogiorno; ma so bene anche che i meridionali quando escono di casa loro fanno miracoli, e quando intristiscono nei loro paesi perdono fiducia in se stessi e negli altri. Come è triste vedere i figli dei ricchi signori meridionali darsi ai divertimenri ovvero perdere il tempo nei ritrovi di provincia, giocando a carte o mormorando del prossimo. Debbo aggiungere che la Sicilia ha ripreso volto da quando furono approvate le tre leggi regionali sull'abolizione della nominatività dei titoli, sulla marina mercantile e sulla ricerca degli idrocarburi, mostrando per tali rami fiducia nell'iniziativa privara; e questa ha risposto con pari fiducia verso la regione, per quanto certe deviazioni stataliste, sostenute dai socialcomunisti e da qualche dc di sinistra, non siano state le più felici. Son sicuro che la Sardegna, che ha anch'essa abolito la nominatività dei titoli ed ha preso iniziative in materia di idrocarburi, saprà superare il complesso di inferiorirà proprio dei Mezzogiorno, per quanto la Sardegna non sia Mezzogiorno che per ragioni statistiche e amministrative. E che cosa non fa Bari con la Fiera? La Campania ha fatto progressi da sé e per certi pionieri che non debbono essere dimenticati. Se Napoli e zone viciniori hanno avuto un certo numero di imprese IRI, non tutte a costi economici, debbono anche ricordare le manomissioni tipo SME avvenute col consenso di uomini della propria regione. Duolmi vedere che I'Isveimer svolga la sua azione quasi esclusivamenre per piccole e medie industrie, le quali purtroppo sono ancorate alla cerchia locale e si dibattono per le spese di esercizio nella ricerca di onerosi finanziamenti.

H o parlato del Mezzogiorno per far notare che se si uniscono insieme partiti politici a tipo demagogico, quei sindacalisti che sostengono le richieste operaie senza interessarsi della potenzialità delle imprese, nonché le camere di commercio che invocano la manna degli Enti statali, il clima statalisra sarà surriscaldato e porterà al disseccamento fin dalle radici della iniziativa privata. In tali condizioni quali limiti possono imporsi all'intervento dello Stato? Che i socialcomunisti siano statalisti per avere la strada fatta da democristiani e liberali, è logico; essi vogliono soppiantare le classi padronali, gli odiati borghesi, ed avere in mano il proletariato, che è quello che più facilmente può ridursi in servitù, vera servitù morale, civile, politica ed economica, quale esiste già nei paesi di oltre cortina. Che un Saragat sia preso dalla smania di sembrare più socialista di Nenni al punto da proporre la nazionalizzazione dei gandi complessi industriali, nessuna meraviglia. Egli è logico e sentimentale allo stesso tempo; come classista, deve abolire la categoria dei grandi intraprenditori; come socialista deve attuare il socialismo di Stato; come capo di un partito deve aumentare il suo elettorato. Campa cavallo! Non basta: alle destre, non so perché, appartengono ex fascisti di Salò che non dimenticano la socializzazione delle fabbriche. I monarchici saranno per la libertà economica, ma non mi pare che la sappiano difendere nei casi concreti. Eppure, la rivendicazione


delle libertà contro l'indebita ingerenza statale è nell'aria; va maturando. La sola paura dello statalismo e quella del socialismo di Stato non basta a formare un ambiente; ci vuole il coraggio: della rinunzia ai vantaggi personali e locali che si possono ottenere per l'estendersi dell'attività statale; il coraggio di affermare la libertà; il coraggio di combattere gli statalisti per difendere la libertà. Il Giornale d'Italia, 5 marzo 1958

Sul caso di Prato23 Quando fu introdotto in Italia e reso obbligatorio il rito civile agli effetti legali del matrimonio, la reazione della Chiesa fu vivace per due motivi: il teologico, essendo per i cattolici illecito ogni legame matrimoniale senza il sacramento; il politico, presentando lo Stato come antagonista della Chiesa nel campo delicato della famiglia cristiana. Ciò nonostante, si trovò modo di temperare le prime reazioni con il ripiego di far precedere la celebrazione sacramentale al rito civile; ma ad affermare la superiorità dello Stato soprawenne la legge della precedenza obbligatoria del rito civile al matrimonio religioso (legge di evidente ispirazione anticlericale). La questione riproposta ancora in termini antagonistici, fu in seguito temperata dalla prassi della quasi contemporaneità, tranne casi eccezionali da risolversi dai parroci o dalle curie vescovili, senza tener conto delle disposizioni di legge. La regolamentazione data dal Concordato soddisfece le esigenze di libertà e certezza legale per gli interessi della famiglia cristiana, e di garanzia per la Chiesa della sua potestà circa la validità e il rito del sacramento del matrimonio. Richiamo tali precedenti per ricordare che il problema del matrimonio civile, se celebrato da cattolici senza il sacramento, è stato sempre riconosciuto come vero e proprio concubinato, non solo dalle autorità religiose ma dai fedeli di tutto il mondo. La conclusione del conflitto con il provvedimento del Concordato dell'unico e successivo atto, alla presenza del parroco o chi per lui, è stata la più difficile ma la più probatoria clausola che dà al Concordato fra la S. Sede e l'Italia l'aspetto importante di una cooperazione fra Chiesa e Stato nel favorire la cellula sociale primigenia e fondamentale di ogni vivere civile quale è la famiglia. Ciò premesso, viene naturale la domanda come abbia potuto il tribunale di Firenze ritenere atto diffamatorio quello del Vescovo di Prato, il quale ha applicato ad una determinata coppia di battezzati e quindi suoi fedeli, quel che la tradizione universale della Chie-

23

L'articolo era preceduto dal seguente corsivo: I1 «caso di Prato. ha posto due problemi: i'uno, contingenre, di natura giuridica e I'altro più vasto inerente ai rapporti tra Chiesa e Stato. Fin dal discorso di Verona 39 anni fa -don Luigi Sturzo affermava che non si può e non si deve considerare la religione «come elemento di differenziazione politica»; la olemica di questi giorni tende invece a confondere e a identificare religione e politica a evidente scopo di specu!aione elettorale. Il dibartiro, nonostante le interessate asprezze, finirà col dimostrarsi utile se r i u s c i r à r un verso a rassicurare la coscienza religiosa e per l'altro a riconfermare, senza sos erti di lecite o illecite in rammettenze, i diritti inalienabili dello Stato italiano. Il s e n Srurro, er la sua con<ezione umana e per la posizione storica che occupa nella vita polirica italiana. porta con l ' a r t i c o ~che pubblichiamo il suo specifico i valido contributo alla chiarificazione dei problema che tanto appassiona questi giorni l'opinione pubblica italiana.

-


sa e il testo preciso del diritto canonico chiamano concubinato, cioè l'unione maritale senza il sacramento. La coppia era libera, dal punto di vista civile, di lasciare la Chiesa e di rinnegare la fede; atto doloroso che lacera il cuore del credente e più ancora del pastore; ma facendo ciò non ha diritto a ritenere diffarnazione quel che ne consegue. I1 prete che lascia la Chiesa non ha ragione di ritenere diffamatorio l'attributo di apostata; se l'autorità ecclesiastica ha motivo di scomunicarlo, egli non potrà mai reputarsene offeso da potere per tanto ricorrere al magistrato civile per ottenere riparazione. Questo il principale motivo della penosa impressione dei cattolici per il giudicato di Firenze, perché il riconoscimento giuridico del reato di diffamazione non intacca un atto personale di mons. Fiordelli, ma l'atto di un Vescovo neli'esercizio del suo ministero. Non si contesta, nel caso, la competenza del tribunale in base al diritto di immunità ecclesiastica circa il foro giudicante. La Chiesa, pur non avendo mai rinunziato ad un diritto che ha radici nella tradizione apostolica, consente o tollera, anche in Paesi concordarari, che per reati contro le leggi dello Stato, siano gli ecclesiastici portati davanti al magistrato. Nel caso del Vescovo di Prato, si tratta non di reato di diffamazione civilmente perseguibile, ma di un atto del ministero pastorale civilmente insindacabile. Per tale ragione, anche l'affermazione che il magistrato avrebbe dovuto difendere I'istituto del matrimonio civile contro l'affermazione vescovile che lo assimila al concubinaggio non regge; non avendo lo Stato alcuna ingerenza sulla valutazione giuridico-morale della dottrina cristiana, né potere civile per pretendere, vi sia o no il Concordato con lo Stato, che la Chiesa modifichi gli insegnamenti derivanti dalla rivelazione. Su questo punto se tutti i cattolici sono obbligati a resistere usque adsanguinem, che cosa si deve dire dei parroci e dei vescovi, specie quando essi adempiono atti imposti dal loro dovere pastorale? Tutto quel che è stato detto e scritto contro dimostra l'ignoranza del diritto canonico, del Concordato fra l'Italia e la Santa Sede, della storia bimillenaria della Chiesa. Bisogna compatire e non esagerando i problemi connessi con la sentenza di Firenze; perché nessuno pensa sul serio ad un conflitto teologico sulla natura e gli effetti del sacramento del matrimonio. E allora? il meglio è che il problema giuridico resti nella sua piccola fenomenologia della pretesa diffamazione, escludendo da parte del Vescovo qualsiasi volontà diffamatoria e facendo cadere una controversia che non potrebbe portare nulla di bene all'ltalia. E qui cade opportuna la considerazione di una realtà sociologico-storica, che i nostri anticlericali o ignorano o vogliono ignorare. La risposta di Cristo di dare a Cesare quel ch'è di Cesare e a Dio quel ch'è di Dio, contiene una distinzione e un'autonomia reciproca che non si è mai risolta in una unificazione né sociologica né politica. Quali siano stati per duemila anni gli avvenimenti di ciascun popolo, quali le fasi dell'incivilimento, non solo non si è cancellata la distinzione, ma, attraverso dualismi e conflitti, si è affermata con più o meno evidenza una specie di diarchia morale, e sotto certi aspetti o per certe epoche anche politica, fra l'organismo religioso e quello civile (Chiesa e Stato); quando non si è arrivati allo equilibrio diarchico si è sempre sviluppata la lotta dualistica. E di lotta si può parlare in rutti i secoli e in tutti i paesi, sia perché il potere statale (che assomma in sé il politico, il militare e l'economico) è materialmente il più forte; sia perché, nelle fasi storiche così intricate e spesso convulse in epoche antiche, l'influsso della Chiesa nel vivere civile veniva trasformato in partecipazione ai potere statale; sia perché le monarchie dispotiche assunsero in molti paesi la funzione di capi della Chiesa nazionale distaccandola da Roma. Infine i regimi liberi, quali ne siano state o ne siano oggi le forme costituzionali e democratiche, mantennero non pochi degli antichi diritti di giurisdizione sulla


Chiesa, mentre incameravano i beni ecclesiastici e scioglievano le congregazioni religiose, alternando tregue e paci, firmando e denunziando concordati. La Chiesa non ha mai ceduto, né ha tollerato che fosse sottratto alla sua autorità, non solo la predicazione e la difesa della fede cristiana; non solo quel che riguarda la giurisdizione e l'esercizio dell'autorità apostolica del papato e dell'epis~o~ato; e quindi ha resistito ad ogni forma di proselitismo religioso (o pseudo-politico), ma ha sempre dato istruzioni perché non fosse compromessa l'integrità della fede nei contatti con eretici e scismatici in associazioni miste, sia pure a carattere culturale, civile e politico, che possano comunque portare all'indifferentismo religioso; donde le precauzioni prese dalla Chiesa riguardo società come il Rotary, il Riarmo Morale e simili. E mentre con i Governi democraricamente liberi e senza precedenti concordati la Chiesa accerta accordi amichevoli, con i Governi dispotici preferisce i concordati, ed ai Governi persecutori oppone la necessaria resistenza. Cardinali e Vescovi dell'oltre cortina europea e in Cina affrontano le più dure persecuzioni, continuando l'esempio di sacrificio dato dai martiri di tutti i tempi e di tutti i luoghi. I comunisti combattono la Chiesa perché sono materialisti e non arrivano a rendersi conto che l'uomo possa credere ad una realtà soprannaturale. Essi concepiscono lo Stato come totalitario, unicità assoluta, incontrastabile, potere monolitico. E la dittatura sulle coscienze, sulla cultura, sull'arte, sulle forme religiose spontanee e tradizionali, come è soppressione di ogni libertà politica ed economica. Che i laici anticlericali si awicinino ai comunisti nel combattere la Chiesa, accentuando una campagna che in Italia è fuori di luogo, prendendo pretesto della politica elettorale e della posizione della DC quale partito di maggioranza relativa, per paura che possa ortenere la maggioranza assoluta, dimostra quale credito essi diano alle forme libere e democratiche moderne. Ma guardando la storia nella sua realtà, e mantenendo intatte le fonti del vivere civile nel mondo, la libertà politica da una parte e la vitalità religiosa dall'altra rendono possibile e desiderata la fiduciosa convivenza di Chiesa e Stato, evitando interferenze del civile nelI'ecclesiastico e rendendo possibile l'ordine nella libertà e la libertà nell'ordine. La nostra battaglia per la libertà e contro lo statalismo non è ristretta alle libertà economiche, ha per fondamento la libertà dello spirito, si riferisce alla libertà della scuola, la libertà della cultura, delle arti, alla libertà come vita della personalità umana. Anche se lo Stato ha tutti i poteri legislativi propri, la Chiesa influisce sempre moralmente nello spirito e nella formazione della società terrena. Da parte sua la società terrena ritrova riverberi e atreggiamenti morali nelle leggi della vita spirituale che è libertà: (cubi Spiritus, ibi libertan. 1 conflitti oggettivi fra Stato e Chiesa per noi sono risolti sia in accordi possibili, sia nel modo semplice usato dagli apostoli Pietro e Giovanni nel primo conflitto che la Chiesa nascente ebbe con la sinagoga di Gerusalemme: ((Giudicateda voi stessi se avanti a Dio sia giusto ascoltare voi anziché Dio; noi da parte nostra non possiamo tacere quel che abbiamo visto e udito)).

Il Giornale dytalia, 9 marzo 1958

Appello al Paese e terza legislatura Non è chiaro che l'antico sistema del parlamento italiano di segnare i periodi di rinnovamento della Camera elettiva quali «Legislature» sia stato adottato dalla nostra Costi-


tuzione, specialmente per il fatto che la durata della Camera è di un anno più breve di quella del senato. Ma, a parte il tentativo dell'abbinamento per legge andato a vuoto, il fatto dello scioglimento per decreto presidenziale alla fine del primo e del secondo quinquennio, e più ancora, l'orientamento, per quanto contrastato, della opinione pubblica sono indici che nella terza legislatura si arriverà all'abbinamento per legge e alla conseguente regolamentazione delle legislature. Sotto questo punto di vista, il decreto del Presidente della Repubblica può dirsi effettivamente un appello al paese circa i contrastanti voti della Camera e del Senato sull'abbinamento della elezione delle due Camere, a parte i criteri di riforma, piccola o grande che sia, la quale di sicuro andrà maturando per sboccare nel grande dibattito di domani. Non si ha ancora da molti chiara percezione della necessità di riformare il Senato, per potere equilibrare la rappresentanza nazionale e temperare per quanto possibile, la sempre crescente partitocrazia. Ma se si pardano a fondo i problemi della classe politica e della struttura democratica del paese, si vedrà che la funzione del Senato non potrà essere quella di un doppione della Camera e di un doppione dei gruppi politici; i quali ultimi pur avend o sede in due palazzi distinti rappresentano determinati partiti con sede centrale a Roma, con propria struttura e con identiche direttive date e imposte a deputati e senatori militanti sotto il medesimo contrassegno. Un altro inconveniente è dato dalla materia delle leggi e dal metodo di legiferare, sia perché il Parlamento ha invaso la competenza amministrativa al punto da non potersi istituire o sopprimere un posto di impiego sia pure di bidello né procedere all'acquisto di uno stabile di costo limitato senza incomodare il Parlamento; all'.inverso gli enti statali possono sperperare miliardi su l'ordine di un presidente o di una giunta esecutiva, per poi, a cose fatte, inviare bilanci riassuntivi e relazioni con gafici e rilegature di lusso sia al Parlamento e sia ai parlamentari che non li discutono e forse non li leggono.

A correggere simili storture basterebbe regolare meglio la legge sulla contabilità dello Stato sia ammettendo procedure agili per quanto è annualmente previsto come spesa di bilancio e procedure rigide per quanto non è previsto; sia rendendo i controlli dell'amministraziane statale e degli enti relativi meno burocratici e più effettivi. A meglio individuare compiti e responsabilità, dovrebbe essere attribuita alla Camera dei deputati funzione pre: valentemente politica; al Senato funzione prevalentemente amministrativa; e mentre la prima accentuerà l'iniziativa politica e legislativa, il secondo dovrà specializzarsi nel controllo di tutti i rami della pubblica amministrazione. Non mi pare di dire un'eresia esprimendo l'opinione che la Costituzione debba essere modificata anche circa i voti di fiducia al governo, voti da riservarsi alla Camera, mentre il Senato dovrebbe dare il suo voto solamente nel caso dell'insediamento di un nuovo governo. Del resto, tale limitazione, per eventi e per senso di responsabilità, nelle due legislature è stata senza alcun inconveniente 0sservata dal Senato. Queste idee potranno non inquadrarsi negli schemi dei costituzionalisti, né incontrare il favore dei partiti o del pubblico; sono messe qui per indicare uno dei tanti motivi che rendono difficile sia la formazione di una vissuta coscienza democratica, sia lo sviluppo del senso del limite dei vari organi del potere e del valore delle responsabilità specifiche delle persone investite di cariche pubbliche; mentre attuando le mie proposte si agevolerebbe la


formazione di una tradizione parlamentare e governativa meno oscillante alle spinte dei partiti e agli interessi delle categorie. Pertanto, ali'ano del Presidente della Repubblica che scioglierebbe anche il Senato, non è da attribuire alcun significato favorevole o contrario alla tesi del eri odo quinquennale come se avesse egli voluto forzare la Costituzione che fissa il periodo del sessennio; e neppure un apprezzamento favorevole all'atteggiamento preso daiia DC nei riguardi della piccola riforma, pur facendo rilevare che il contrasto fra DC e gli altri partiti ha mostrato l'equilibrio delle forze con uno scarto assai limitato, per l'una e per l'altra parte, secondo che i voti vengano valutati dal punto di vista giuridico-costituzionale owero da quello politico e di partito.

A parte la motivazione che sarà inserita nel decreto di scioglimento, io penso che il decreto in se stesso esprima rispetto verso l'elettorato circa un problema di struttura a carattere costituzionale. Questo potrà (e secondo me dovrà) formare uno dei più comprensibili e interessanti temi dei dibattiti elettorali per una accentuazione (per quanto generica) verso la riproposizione della riforma del Senato con vedute più larghe e con più studiata preparazione. E regola della tradizione parlamentare inglese (che fa testo anche per altri paesi) quella di portare avanti I'elettorato i nuovi problemi sorti nel corso della legislatura per sentire il polso del paese prima che la Camera dei Comuni ne faccia oggetto di deliberazione. Se il caso lo esige, si interrompe il quinquennio e si convocano subito i comizi. Nessuno si meraviglia o si risente in tale caso dell'interruzione della legislatura per l'appello al paese, convinti tutti che la «Casa dei Comuni))(s'intende col voto ove occorra della «Casa dei Signori))) non potrebbe legittimamente impegnare il paese, senza che I'elettorato abbia espresso in anticipo il proprio avviso attraverso la vittoria o la sconfitta del partito proponente. Non vi è un rapporto giuridico fra il voto elettorale e la determinazione legislativa, ma vi è certamente un rapporto politico che deriva dallo spirito della democrazia. L'elettorato non si deve occupare solo della strada, della scuola o della erezione di un nuovo capoluogo di provincia; esso ha il dovere di cittadino che nei modi più adatti e nelle forme costituzionali si pronunzi sulla struttura dello Stato, sulle garanzie di libertà e legalità, sugli interessi nazionali e sui rapporti internazionali. Aperta la campagna elettorale, il paese discuterà i programmi dei partiti, esaminerà i bisogni della nazione; si interesserà anche di quelli locali; penserà (lo spero) a non aggravare lo Stato di spese; evitando i fallaci e illogici demagoghi, proprio quelli che vogliono diminuite le tasse e aumentati gli interventi statali. È questo il momento che il paese si pronunzi sull'indirizzo generale del governo, opponendosi (lo spero) ad uno statalismo che tende ad avvolgere nelle sue spire ogni iniziativa privata; che tende a contare i passi dei poveri cittadini, portandoli ad un'insopportabile schiavitù di legami, permessi, concessioni, tutele tali da soffocare la stessa vita individuale. Se deve esservi un organo che dia garanzia contro il sopraffare dei governi e della burocrazia, degli enti statali e parastatali, questo non potrà essere che il Senato; un Senato sottratto per quanto possibile all'influenza dei partiti, alle oscillazioni della politica e al maleficio della demagogia. Speriamo che con tali auspici possa avere tranquillo inizio la terza legislatura. Il Giornale d'Italia, 18 marzo 1958


Certificato di buona condottaz4 Nel fatto, i certificati sono due; uno amplissimo rilasciato dal presidente Zoli, l'altro dal ministro Bo. I1 primo riassume così la sua risposta agli interpellanti della Camera dei deputati: «Si può pertanto conchiudere che l'Ente di Stato (ENI) ha compiuto con soddisfazione ogni sforzo per attuare i compiti ad esso assegnati dalla sua legge istitutiva nel quadro delle esigenze dell'economia nazionale». Il secondo afferma che «il Governo si sforza costantemente di chiarire al paese quale sia la realtà di fatti ed episodi, talvolta deformati da passione polemica, contribuendo in tal modo a dissipare le incertezze e ristabilire la verità)). Non mi ero mai accorto degli sforzi costanti dei Governi passati e dell'attuale di chiarire al Paese la realtà dei fatti dell'ENI e delle sue quarantaquattro società controllate, mentre da parte mia da sei anni mi occupo, sia in Senato che sulla stampa, dei problemi che solleva l'attività del Mattei nel campo degli idrocarburi. Solo per via delle quattro interrogazioni presentate da novembre ad oggi ho avuto una risposta dal ministro Gava e tre dal ministro Bo per incarico del presidente Zoli al quale erano dirette. La risposta di Gava riguarda l'esclusiva all'ENI nella Valle Padana; il Ministro promise di presentare un disegno di legge in proposito. I1 disegno di legge fu presentato, ma è decaduto con lo scioglimento delle due Camere. Il ministro Bo da parte sua si è fermato sulla linea di difesa del Mattei. Nella prima risposta dichiarò senz'altro che «la notizia pubblicata dal Globo che la sospensione della pubblicità dell'AGIP su tale giornale sia stata dall'AGIP motivata quale conseguenza dell'articolo apparso il 10 ottobre 1957, è destituita difindamento». Con la seconda risposta egli escluse qualsiasi partecipazione azionaria alla ((Societàeditrice lombarda)) da parte dell'EN1 e società dipendenti e anche del Mattei in proprio. La terza interrogazione, nella quale riassumevo i rilievi da me fatti in vari articoli, ha avuto la risposta più lunga ma non certo esauriente, della quale è mio dovere occuparmi, perché non si creda che io sia spinto dapas-

Lettera del 26 maggio 1958 al Presideiire del Consiglio dei Ministri, on. sen. Adone Zoli: Caro Zoli, Te ne scrivo a votazione finita e prima di farne cenno in qualche articolo, credendo che sia bene che il pubblico venga edotro di certi metodi assai discutibili, se nel fatto verranno adottati. Mi riferisco ai tre decreti del Ministro Bo sugli enti di gestione. H o avuto notizia del parere del Consiglio di Stato orientato sulla necessità di una le e integrativa, non essendo sufficiente il breve accenno della legge istitutiva del disgraziato ministero. Spero C e la Corre dei conti faccia i suoi rilievi alla prossima riunione delle Sezioni riunite. Comunque sia, anche se la Corre dei conti arrivi a registrare i decreti, non sari difficile dimostrare che i decreti sono stati farci non per creare tali enri, i cui statuti non possono essere validi senza una nuova legge, né er creare delle amministrazioni finanziarie quando non potranno essere validi gli statuti proposti e quando nel!altro manca un regolare piano finanziario di tali enri; ma solo per dare posti ai dirigenti inpectore. Si sa che fra i dirigenti sono stati indicati nomi già conosciuti di ben nota provenienza, da pane di chi non dovrebbe occuparsi di nomine di spettanza ministeriale. Se tu non immagini chi sia questa persona, re lo dirò a voce e ti dirò i nomi di due dirigenti e aggiungerò che fino a venerdì scorso il nome del teno dirigente non mi risultava che fosse stato proposto. Per un ministero di transizione elettorale e alla vigilia di presentare le dimissioni di rito, la questione si presenta di gusto assai discutibile. <<ArnicusPlaro sed magis amica veritasn. Sempre tuo aff. m o . Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564. fasc. uAn. e I. pubbl. del Prof. L. S.,,, maggio 1958.

T,


sionipolemiche, come Bo genericamente afferma; io sono mosso esclusivamente dalla convinzione che I'ENI e il suo complesso non corrispondono ai veri interessi del paese, e che l'ingerenza del Mattei nella vita politica italiana, non come libero cittadino ma come una potenza capitalistica alla quale è arrivato con i denari e il prestigio dello Stato, è oggi senz'altro dannosa; lo sarà di più domani.

Parliamo del Giorno: il ministro Bo nella sua prima risposta scrisse questi due periodetti: ((11quotidiano Il Giorno di Milano appartiene alla "Società editrice lombarda". Questa società non fa parte del gruppo delle aziende controllate dall'Ente Nazionale Idrocarburi o comunque con tale ente collegate; sono altresì in grado di escludere che l'Ente Nazionale Idrocarburi o le società da esso dipendenti posseggano partecipazioni azionarie nella "Società editrice lombarda", né risulta che ne possegga I'ing. Enrico Mattei in proprio)). Mi sembra che tale risposta, confermata dall'ultima avuta, non mostri affatto lo $orzo costante del Governo per chiarire al paese la situazione dell'ENI e di Mattei personalmente, stante la persistente convinzione di molti che il Il Giorno appartenga a Mattei. 11 fatto sembra attendibile per la collaborazione di persone legate a Mattei, per l'indirizzo che Mattei rappresenta compreso non solo il sinistrismo di base, e anche i rapporti con le sinistre socialcomuniste (non era forse Mattei presente all'Ambasciata russa in Roma nel ricevimento per il 40" della rivoluzione di ottobre!), per la tendenza neutralista col distacco dell'Italia dal Patto atlantico e all'atteggiamento favorevole agli Stati arabi filo-comunisti. So che scrivo parole gravi; Mattei mi smentisca; ne sarò lieto; ma mi smentisca con i fatti non con le sole parole, e dica che egli non approva la linea politica del Il Giorno con il quale egli non ha nulla a che vedere. Al minisrro Bo debbo fare osservare che il suo disinteresse sulla questione della speculazione delle aree edificabili di Metanopoli aggiunge ombre e non luci alla questione. Bisogna accertare se l'accusa abbia o no base seria, cominciando col dirci se veramente ci siano state speculazioni edilizie in quel posto di riserve matteiane. Si sa che i signori dott. Felice Canoni, aw. Luigi Pietro Baggioli e ragionier Carlo Arosio hanno sottoscritto per cinquecento milioni in contanti di azioni della SEL, mentre per la gestione del Giorno il deficit di esercizio si dice essere superiore al miliardo. Si dice, ma non è certo. Ora senza bisogno di incomodare il ministro delle Finanze, si può vedere dalle dichiarazioni di reddito personale fatte nel marzo 1957 da codesti signori, quale sia la loro consistenza patrimoniale; si vedrà così se essi possano sopportare un tale onere in proprio. Altrimenti dietro alle loro firme vi sarà qualche potente società, pubblica o privata, o qualche mecenate o qualche finanziatore estero. Non penserà il ministro Bo che Il Giorno sia attivo. È noto che i quotidiani italiani (salvo pochissimi) sono tutti con bilanci da integrare quasi mensilmente; ed è noto anche chi ci sia dietro pronto a sopportare il peso del deficit di ogni quotidiano; solo Il Giorno mantiene il segreto; ciò è un cattivo segno; tanto più cattivo perché c'è di mezzo una politica di sinistra, per la quale indirizzai la mia interrogazione a Zoli e non al ministro delle Partecipazioni che non sarebbe in questo caso il Ministro competente. C'è di più; alla mia precisa accusa che i giornali e i parlamentari socialcomunisti hanno appoggiato costantemente e tuttora appoggiano I'ENI e il Mattei in maniera particolare, non mi risponde Zoli ma il ministro Bo, il quale se ne esce con una dichiarazione fatta a denti stretti e senza nominare i socialcomunisti, come se quella parola gli scottasse sotto la penna. Ecco il testo esatto: ((Néil Governo ha la possibilità di sindacare appoggi non sol-


lecitati e offerti per awentura da una parte politica a determinate iniziative ed a determinate persone, in vista di fini particolari. Si aggiunga che appoggi del genere si sono potuti notare in altri casi nei confronti di personalità militanti nelle più varie formazioni di partito, senza che a tali circostanze sia stato dato un particolare peso, ai fini di un giudizio politico),. Accenna egli - forse alla nomina del Presidente della Repubblica? Ci sono ora le dichiarazioni dei comunisti che dopo lo scioglimento del Senato vanno dicendo che non voteranno più il nome dell'attuale titolare.

Non mi sembrano, a dir poco, ortodossi i criteri amministrativi del ministro Bo applicati al caso ENI nella risposta datami sotto il numero 1). H o avuto occasione di contestare in sede parlamentare e sulla stampa il sistema di controllo degli enti statali con la partecipazione diretta di un magistrato della Corte dei conti, il quale purtroppo non può avere funzione autonoma in tali complessi. Del resto, ritenendo esatte le osservazioni del proE Saraceno circa la necessità di tenere individualmente distinte le gestioni di ogni singolo ente o società collegata a centri finanziari, come quello dell'IRI o dell'ENI, debbo dire che bilanci come quelli dell'ENI dicono niente circa il valore economico e il metodo amministrativo delle gestioni di ogni singola società. Basta il rilievo che i finanziamenti dell'ENI alle società collegate variano di tasso di interesse con lo scarto dallo O, 30 per cento al 7 e più per cento mostrando che il vestito è cucito al filo bianco. Per gli eccessi di spesa e l'immobilizzo di capitali, Bo si appella al Futuro valore dei centri di vendita non redditizi e ai futuri vantaggi che verranno «per il prestigio dell'organizzazione agli occhi della clientela attraverso la dignità e la organizzazione degli impianti)) (parole testuali). Non credo siano della stessa opinione un Menichella o un Medici o un Carli preoccupati dei troppi prestiti bancari e obbligazionari dell'EN1. Non sono d'accordo con Bo anche sulla difesa dell'alto prezzo, o meglio degli alti prezzi della cessione del metano e del metodo usato dall'AGIP nella distribuzione. I1 costo dei trasporti del metano che non supera la barriera appenninica, non è poi tale da giustificare la differenza fra costo di produzione e prezzo di vendita oggi in uso. La difesa degli utenti di altre fonti di energia è un pretesto; lo Stato, se vuole, può imporre una tassa che colmi le differenze, portando per giunta utile all'erario; invece lo Stato ha esentato I'ENI di parecchi oneri tributari. La conclusione è purtroppo la stessa; il prezzo è troppo alto, e i vantaggi vanno parte all'AGIP e parte agli intermediari e.concessionari di ogni specie, spesso sotto etichetta di società per azioni che nascondono (e non sempre bene) nomi noti nel parassitismo economico, politico e partitico che affligge il Paese.

Potrei continuare ancora a contestare tutte le affermazioni contenute nella risposta Bo; per non abusare dello spazio del Giornale, mi limito a chiudere l'articolo con il confronto fra AGIP-SNAM e Gulf-Italia da me fatto e da Bo contestato; mettendo in dubbio I'esattezza dei dati della Gulf-Italia. Ma Bo poteva rivolgersi alla Regione siciliana per conoscere se le royaltiese le tasse dovute per il prodotto in cifra tonda di un miliardo di tonnellate di petrolio ricavato nel 1957, fossero, come la Gulf ha dichiarato di quattro miliardi. Circa poi i quattro miliardidi utili dell'azienda nel 1957, che la Gulf ha dichiarato in pubbli-


co ed ha stampato in un fascicolo, non c'è da aspettare l'esito degli accertamenti fiscali, perché, nella peggiore ipotesi, resteranno quattro miliardi e non diminuiranno di una lira. Se è vero che AGIP e SNAM hanno ricavato nel '56 quattro volte in calorie il valore della produzione del petrolio di Ragusa del '57, avrebbero dovuto versare allo Stato sedici miliardi cumulativamente per partecipazione e per oneri tributari, e sedici miliardi come utile aziendale: totale trentadue miliardi, contro i sei miliardi e 300 milioni che Mattei ha segnato nel bilancio. Il ministro Vanoni volle ad ogni costo la creazione dell'ENI dicendo che l'utile aziendale degli idrocarburi italiani dovesse andare allo Stato e non ai privati operatori. O s'ingannava Vanoni o s'inganna Bo; non c'è via di mezzo. Bo giustifica il mancato utile aziendale e l'enorme differenza fra i conti Gulf e i conti AGIP-SNAM con le grandi spese di ricerca che I'AGIP Mineraria ha e la Gulf non ha. Errore. La Gulf ha fatto ben altre ricerche in Sicilia oltre a quelle di Ragusa, le quali ricerche, come quelle dell'AGIP, sono andate a vuoto; ciò nonostante ha chiesto ed ottenuto altri permessi dalla Regione. La GulfItalia fa le spese che un'impresa privata crede indispensabili. Mattei, oltre quelle indispensabili, fa anche spese di lusso (che Bo -giustifica); tiene una enorme schiera di collaboratori e impiegati (che Bo ritiene necessaria); fa una propagandavessatoria e una costosa pubblicità in tutti i giornali italiani ed anche in giornali esteri (che Bo approva); finanzia giornali e partiti (che Bo smentisce e che io riaffermerò, a Dio piacendo, in Senato). Ecco perché i conti dell'ENI non tornano, mentre tornano, e molto bene, i certificati di buona condotta. Il Giornale dytalia, 25 marzo 1958

Parlamento ed Elettorato Non si dà Parlamento senza elettorato, ma non si dà vero elettorato senza vero Parlamento. Quando il Parlamento aveva per principale fine limitare i poteri del monarca specialmente nel campo fiscale, l'elettorato era limitato alle categorie privilegiate. Mano a mano, per l'estendersi dei compiti del parlamento, per lo sviluppo delle attività economiche e cittadine, per le rivoluzioni del diciottesimo secolo, si arrivò ad estendere il voto a tutte le categorie. Dopo la prima grande guerra si introdusse anche il suffragio femminile, il quale ora è generalizzato dappertutto, tranne che nella Svizzera. Dall'altro lato, il parlamento, sorto a limitare le spese statali fin da quando queste erano confuse con quelle della Corona, oggi, invertendo i compiti, è il Parlamento, nella maggior parte dei casi, a dover essere tenuto a freno nelle spese e quindi nella imposizione tributaria, mentre il governo e gli uffici di controllo monetario sono o sarebbero obbligati a fare diga alle spese. Nei paesi dove ancora funziona un senato a sana tradizione parlamentare (Stati Uniti d'America), è questo corpo che fa argine, fin dove è possibile, all'eccesso delle spese e dell'intervento statale. L'elettorato nella sua maggioranza, specialmente nei paesi poveri e in quelli senza vera tradizione democratica, concepisce lo Stato in funzione paternalista e in fùnzione totalitaria: ente supremo che deve provvedere a tutti i bisogni nazionali e locali, a tutte le clas-


si, a tutti gli individui, salvo a lamentarsi del carico tributario intollerabile e del continuo aumento del costo della vita.

Instabilitri delk strutture elettorali Le forme rappresentative esigono periodicità di elezioni e tradizionali strutture elettorali; perciò è buona regola mantenere, per quanto possibile, identiche circoscrizioni e stabili leggi elettorali, in modo che le variazioni demografiche e le altalene dei gruppi politici economici e sociali abbiano contropartita nella tradizione locale e nella educazione dell'elettorato idealmente e organicamente lo stesso nel corso storico delle lotte vittoriose e delle sconfitte. In Italia e anche altrove è accaduto il contrario, sia per i frequenti cambiamenti delle leggi elettorali e l'allargamento delle circoscrizioni, sia per l'inserimento dei partiti nazionalmente organizzati con ideologie e statuti propri; tali partiti, alterando le tradizioni locali, hanno portato dappertutto una disciplina che attenua la libera scelta personale, introducendo un proselitismo fanatizzato dal cosiddetto apparato; di conseguenza, la personalità umana ne rimane affogata a vantaggio del gregarismo controllato. La nuova struttura del corpo elettorale influisce su quella del Parlamento; anche nelle aule legislative re vale l'aggruppamento dei partiti che deprime la ~ersonalitàdegli eletti, fino al punto di sottoporre ad una disciplina punitiva coloro che mancano all'osservanza degli ordini dei capi gruppi e perfino delle decisioni e istruzioni delle direzioni dei partiti. Da tale disciplina l'uso eccettua, se del caso, la materia degli interessi particolari del collegio o della categoria o del sindacato cui appartiene il parlamentare; il dissenso dal gruppo o dal partito può essere tollerato. A parte ciò, la deviazione partitocratica esiste oggi più pronunziata che non sia stata nel passato, al punto da destare preoccupazioni per l'awenire del sistema democratico.

Funzione dei partiti politici Si conviene da tutti non darsi sistema parlamentare senza elettorato, né darsi elettorato senza partiti. Ma i partiti, da organizzazione integrante dell'attività democratica, oltrepassando oggi i limiti di una funzione secondaria coordinatrice e di spinta, sono arrivati in molti casi alla usurpazione dei poteri pubblici. Da tale stato di cose deriva la necessità di una legittimazione e di una regolamentazione che non furono previste dalla Costituzione, quando fu ritenuta sufficiente la frase dell'art. 49 ((perconcorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale)).La funzione pubblica attribuita ai partiti nello sviluppo dinamico della realtà politica impone, dal punto di vista legale, che la legge ne precisi il carattere, non corrispondendo alla realtà considerarli come associazioni private di fatto. In altri paesi democratici sono stabilite regole e leggi che garantiscono la forma democratica dei partiti; ne disciplinano la spesa elettorale; limitano le elargizioni e le sovvenzioni ai partiti da parte dei privati o di società economiche; prescrivono la pubblicità delle entrate e delle spese. I1 punto centrale del problema è quello della responsabilità legale dei capi del partito per l'osservanza delle leggi generali e particolari riferibili alle funzioni e agli obblighi inerenti all'attività pubblica, non potendo essere ammesso, come è oggi in Italia, l'esercizio aperto di una ingerenza nell'attivirà dello Stato senza un minimo di responsabilità. Solamente il Presidente della repubblica non risponde dei suoi atti (tranne che per alto tradimento O


per attentato alla Costituzione), perché nell'esercizio della sua Funzione egli, di fronte al Parlamento, è coperto dalla responsabilità del governo.

Ekttorato e partiti politici Nell'atruale organizzazione dei partiti politici è difficile trovare il modo di garantire la scelta libera e idonea dei rappresentanti del popolo al Parlamento nazionale e potere costituire maggioranze parlamentari funzionanti e governi atri a rispondere, per quanto possibile, alle esigenze nazionali e agli impegni internazionali. Nei paesi dove due soli partiti, o i due partiti maggiori, offrono all'elettorato facile scelta fra l'uno e l'altro, sia che i partiti abbiano una certa omogeneità di caratteristiche e di passato storico (Stati Uniti d'America), sia che pur differenziati da finalità e da metodi, abbiano in comune il rispetto degli istituti fondamentali dello Stato, monarchia e rappresenrarività, coesistenza di classi e di partiti (Inghilterra), la stabilirà della legge elettorale è di regola e serve a mantenere la tradizione su binari fermi e sicuri. Nei paesi, invece, nei quali molti sono i partiti e altri ne puliulano facilitati dal sistema elenorale, si rende difficile ottenere dal voto popolare maggioranze di governo e minoranze con prospettiva di conquistare la maggioranza nel gioco alterno dei partiti. Si è costretti ad alleanze temporanee, a governi di minoranza che si reggono su voti occasionali o procurati, ripetendo le contorsioni del trasformismo di altri tempi. Si fa colpa del frazionamento dei partiti al sistema della rappresentanza proporzionale, specialmente da quando il congegno di tale legge è reso irrazionale dagli interessi dei piccoli partiti con metodi ricattatori. Se la -proporzionale ha accentuato così -gravi difetti della democrazia, non può dirsi che la malattia non fosse già in atto nei paesi latini per colpa dell'individualismo della classe politica e per lo spirito localistico e provinciale degli stessi partiti anche quando le elezioni erano fatte in Francia e in Italia col sistema del collegio uninoniinale a maggioranza assoluta e l'elezione di ballottaggio fra i due candidati preferiti nella prima votazione chiusasi senza risultato. In genere, la instabilità dei governi e i facili spostamenti di maggioranze sono accaduti più per intrighi di corridoio e per volontà di capipartito, anziché per il responso dell'elettorato, il quale molte volte si è dimostrato più attaccato alle maggioranze esistenti e ai governi uscenti che non fossero i partiti stessi. Gli elementi di disturbo presso il corpo elettorale sono stati vari nel passato; quando non esistevano gli apparati di partito, era il governo stesso, attraverso il ministero dell'interno e le prefetture, a intervenire nelle elezioni, specialmente nel Mezzogiorno e nelle Isole e dovunque trovasse minore resistenza e più facile attenzione alle pressioni e alle intimidazioni. Si trattava allora di un elettorato poco numeroso, facilmente controllabile, specialmente nei piccoli centri. Non mancavano favori e minacce e perfino assoldare formazioni di bande intimidatrici come i <(mazzieri»e la cosiddetta ((squadradel Baltico)). Famosi in materia Depretis e Giolitti. Dal punto di vista dell'ordine pubblico e del rispetto della libertà da parte del governo, le elezioni del presente periodo sono state di una notevole tranquillità; mentre le elezioni del 192 I (Giolirti) e quelle del 1924 (fascismo) furono gravemente turbate dall'ingerenza governativa, da minacce e soprusi. Purtroppo, dal giorno in cui i partiti hanno potuto affermare il loro soprawento e rendere efficiente il loro apparato con larghi mezzi, che nel periodo pre-fascista non si sarebbero sognati, l'elettorato è stato inquadrato in modo da attenuare la libera scelta dei candidati e il libero voto. Resterebbe ancora la libertà di scelta dei candidati messi nella lista


dei partiti per mezzo del voto di preferenza; ma tale libertà è turbata da vari fattori che è superfluo enumerare, fra i quali, purtroppo, anche la corruzione. Non risulta che ci siano stati processi per reati elettorali; e dove la libertà non è protetta da leggi e da magistrati, la illegalità si sviluppa come la gramigna. Non ne fo colpa ai partiti di oggi, perché ai tempi deUe mie prime armi (1899) la campagna fatta in Sicilia da me e dai miei compagni democristiani presso l'artigianato e la massa contadina fu proprio contro la corruzione elettorale e per la libertà individuale del voto; campagna che riuscì a meraviglia. Oggi la lotta fra candidati della stessa lista, che può dare la vittoria a chi ha più mezzi o a chi tiene le fila della organizzazione, è un sottoprodotto della stessa legge elettorale, non solo basata sulla proporzionale, ma congegnata senza rispetto della logica e della tecnica. Per le elezioni della Camera dei deputati si hanno circoscrizioni larghe e a volte larghissime e la attribuzione all'elettore di un numero eccessivo di preferenze; per il Senato la elezione diretta del collegio è bloccata dalla fissazione di un quorum irrazionale (il 6 5 per cento); peggio ancora, la proporzionalità per regione è alterata dal criterio della maggioranza relativa di ogni aggruppamento fra i voti ottenuti dal singolo candidato e il numero degli elettori del collegio, sì che la classifica degli eletti nella regione risulta irrazionale e lascia molti collegi senza proprio rappresentante (nel 1953, 46 collegi su 237). Bastano questi rilievi per mostrare come la volontà dell'elettorato sull'indirizzo politico del governo e sulla funzione legislativa del Parlamento resti sommersa dall'influsso dei partiti; i quali, è vero, si sforzano di interpretare le aspirazioni della popolazione, ma il loro angolo visuale è sempre ristretto, perché preme su tutti gli altri motivi, quello della vittoria elettorale, non importa se di un partito numeroso o di un piccolo partito, perché anche il piccolo, nel frazionamento dei gruppi parlamentari, può giocare un ruolo importante e far pesare i pochi voti dei quali dispone.

La formazione della chsse politica È doveroso notare che la consultazione elettorale, quale ne siano le condizioni di fatto, ha in sé un valore morale e politico immanente. Si fa punto e da capo; si cerca di scrutare nei risultati l'intimo significato; si interpreta I'orientazione; si ricerca un quid inedito, anche se non si trova, per segnare condizioni, per indicare speranze, sia pure attraverso le delusioni dei perdenti e la soddisfazione dei vincitori. Tutto quel che nella vita collettiva esprime uno sforzo per il meglio, produce, come l'agitarsi delle acque e le folate del vento, un elemento vitale, sia pure inawertito, un elemento che la politica cercherà di interpretare. L'elettore ritorna alla sua vita, commenta o dimentica, non importa; ma la società ha avuto una scossa dalla mobilitazione generale, partecipando in qualche modo al miglioramento della società e alla comprensione degli interessi comuni. È questo l'elemento psico-sociologico delle elezioni politiche, alle quali partecipano i due terzi della popolazione, e per le quali il Parlamento, come il gigante Anteo, nel toccare la terra, riprenderà forze per il suo funzionamento, momentaneamente interrotto allo scopo di un aggiornamento della rappresentanza nazionale. È vero: I'agiornamento può o no riuscire, secondo chi vince e chi perde. Si tratta di un problema di particolare importanza nell'attuazione e nello sviluppo del regime democratico, quello della formazione della chs-

se dirigente o classe politica. Le due rivoluzioni, o se si vuole i due cambiamenti di regime, nel 1922 e nel 1946 han portato a posti di rappresentanza nazionale una gioventù balda, confidente in se stessa, in chiara antitesi col passato; anche se del passato sia rimasto dentro il fermento di elementi


di contrasto e di disintegrazione. Così si spiega come nei primi tempi dei due regimi, uomini di altra formazione (che con parola francese e in senso non sempre favorevole sono chiamati «notabili»), accettando la novità del regime abbiano contribuito a giustificarlo e a consolidarlo. Fra costoro metto De Stefani, Beneduce e altri nel regime fascista; Einaudi, De Gasperi e altri nella repubblica italiana. Mano a mano i notabili sono scomparsi o vanno scomparendo, lasciando alla gioventù che matura i posti nei consessi parlamentari e nei governi; mentre altra balda gioventù è sopravvenuta con le elezioni del 1948; nuovi elementi con quelle del 1953; a giugno prossimo avremo nuove reclute. L'esperienza dei parlamentari oggi difficilmente è stata fatta nelle amministrazioni locali e meno alcuni casi neppure nelle professioni libere; parte è stata improwisata nelle sezioni dei partiti, nella vessante propaganda di tendenze e nelle organizzazioni di classe. La deformazione psicologica e la impreparazione mentale non è rara. Tutto ciò rende difficile l'assimilazione degli eletti fra di loro e la confidente fusione con le vecchie correnti che alimentano la classe politica. Per giunta, la dipendenza assoluta dal partito rende conformisti e remissivi owero determina le reazioni di tendenza. L'uno e l'altro stato d'animo sono elementi negativi alla formazione di una classe politica omogenea che arrivi all'altezza delle tradizioni culturali, morali e politiche sia del Risorgimento sia del periodo successivo. Con ciò non si intende menomare lo sforzo di adeguamento, nei limiti del possibile, in quasi quindici anni dal luglio 1943 in poi, specialmente per la ricostruzione politica ed economica del paese.

Selezione dei candidati Se la gioventù si emenda con gli anni e la inesperienza diviene esperienza, la ignoranza non pub con gli anni divenire sapere senza adeguati studi, né l'abilità può divenire veramente arte senza sufficiente addestramento. Perché l'uomo politico spesso si improvvisa?Se nel periodo del Risorgimento si ebbero uomini di eccezionale tempra, levatura e capacità, nonostante che l'Italia non avesse avuto parlamenti e allenamento elettorale, fu per il fatto che parteciparono alla vita politica uomini di cultura, esperimentati negli affari amministrativi e nelle pmfessioni libere, economicamente indipendenti; non pochi degli eletti erano stati provati dai rivolgimenti politici di mezzo secolo, dalle persecuzioni, dall'esilio o le carceri; essi, nelle lunghe vigilie, si erano dati allo studio della storia politica ed economica dei paesi a sistema costituzionale. Ciò nonostante, insieme a tale élite, non mancò, anche allora, la gente improwisata, né la demagogia, né la degenerazione di gruppi e partiti; basta leggere il Giusti, che non era un codino e sentiva vive le aspirazioni della libertà e della indipendenza nazionale. Oggi, per giunta, costituzione e leggi elettorali sono state compilate in modo da rendere difficile la selezione dei candidati per merito ed esperienza; è ammessa la candidatura di personale impiegatizio di qualsiasi categoria e funzione, pur dipendendo dallo Stato o dagli enti statali e, purtroppo, la percentuale di impiegati fra deputati e senatori è abbastanza alta; il sistema del controllato-controllore è entrato nel Parlamento e nel governo come nei consigli di amministrazione degli enti statali. I1 peggio che può avvenire in un parlamento è la prevalenza degli interessi di categoria che attenua la visione dei problemi generali da risolvere in tempo utile per la vita del paese. Questo difetto è accentuato dall'eccessivo influsso nel Parlamento del sindacato impiegatizio e da quello operaio; si va, pertanto, verso una legislazione particolarizzata e decisamente di categoria, che è di per sé doppiamente dannosa per I'erario e pel paese. Questo problema è tanto meno avvertito oggi, quanto più restano estranei al Parla-


mento la classe colta, l'università, la dirigenza delle imprese e della proprietà, gli alti gradi della magistratura, dell'esercito e dell'amministrazione, mentre abbondano coloro che partecipano alla macchina dei partiti, dei sindacati, degli enti statali e parastatali. Indice di tale distacco di struttura è stata la opposizione spiegata dai partiti in Senato perfino contro la proposta di portare a quindici i senatori di nomina del Presidente della repubblica fra persone di chiara fama; e anche dal fatto che la corsa agli aumenti di stipendi e pensioni da parte dello Stato, con minimi contributi da parte degli interessati, ha eccitato tutte le categorie, anche quelle che mai avrebbero sognato simile trattamento. L'errore di questo indirizzo si paga a prezzo di libertà; la libera rappresentanza politica nelle due Camere ne soffrirà tanto quanto ne soffre la educazione libera dell'elettorato. Il male sta nella radice; ed è un male maturato prima ancora che le libertà formali venissero rivendicare dalla nascente repubblica; perché invece di favorire la libera iscrizione alle società di assicurazione e alle mutue private, sia pure con concorsi statali in favore delle classi povere, si sono creati enti mastodontici non solo per gli impiegati statali, ma per tutti, compresi i liberi professionisti di ogni sorta, i quali van perdendo la propria personalità e il senso della libertà, per un piccolo e stentato vantaggio il quale genera il conseguente morbido conformismo politico, non importa se sia conformismo di destra, di centro o di sinistra; chi non è arrivato oggi, arriverà domani. Se qualche mio lettore si piglierà la pena di sfogliare quei quaderni che Camera e Senato stampano più volte al mese, dove sono elencati i disegni di legge portati in aula o inviati alle commissioni, si accorgerà che il maggior numero di essi, specie se di iniziativa parlamentare di qualsiasi settore, riguarda sistemazioni particolari di gente che tutto aspetta dallo Stato. È questo l'aspetto deteriore dello statalismo che infetta il paese.

Funzionalità del Parlamento Nella elaborazione della Costituzione, si cercò di limitare la funzione governativa e di ampliare quella parlamentare, pur evitando di cadere nel parlamentarismo; perciò, Furono fissati da una parte limiti e garanzie per i voti di fiducia, e dall'altra fu vietato al governo l'uso del potere legislativo con i decreti legge di un tempo. Ma si lasciò facile adito, sotto l'insegna di una vigilata responsabilità governativa, all'intervento parlamentare nella stessa amministrazione e nella funzione del potere diretto ed esecutivo. Le interferenze parlamentari nell'amministrazione derivano anzitutto dalla mancata classifica delle leggi; dalla confusione fra leggi per impegno di fondi e leggi di merito; la introduzione nei testi di legge di molte norme a carattere regolamentare; in compenso, la burocrazia ha abituato i ministri ad evadere le leggi con gestioni fuori bilancio, con imposizioni extra-legali fatte con circolari, con facilirazioni atte ad evadere i controlli creando enti di gestione anche senza carattere giuridico, come è stata l'ARAR, per citare una delle più note. Grave errore, secondo me, fu la costituzione di dodici o più commissioni permanenti in rapporto alla divisione dei dicasteri governativi. Permanenti dovrebbero essere solo la giunta del regolamento, quella delle elezioni, ripristinando quella del bilancio con sottocommissioni per la revisione dei resoconti dello Stato e degli enti sottoposti alla vigilanza parlamentare. L'esame dei disegni di legge dovrebbe essere affidato a commissioni rinnovabili periodicamente, mediante sorteggio, così da mettere tutti i componenti delle due camere a conoscenza delle materie in discussione ed evitare la formazione di gruppi più o meno fissi, che possono dar luogo a seri inconvenienti. Sono stato contrario, e l'esperienza mi ha confermato nella mia opposizione, alla fun-


zione deliberante data alle commissioni parlamentari dall'articolo 72 della costituzione. Non si ha garanzia di pubblicità; con troppa facilità vi si affrontano problemi seri e onerosi per I'erario statale; certe volte si delibera a tamburo battente sotto la pressione o del governo o dei partiti o delle categorie o degli stessi interessati. I1 fatto stesso di tenere contemporaneamente al lavoro legislativo dieci e più commissioni sollecita l'iniziativa parlamentare a presentare proposte di legge per favorire gruppi e categorie o per lo più impensate proposte che non mancano di tinte demagogiche; con [ali spinte, le proposte arrivano spesso al traguardo con quelle aggiunte o deformazioni che servono a giustificare il voto quasi unanime quale ne sia il gruppo politico cui appartengono. Dall'altra parte, bastano i pochi a fare ostruzione a disegni di legge che disturbano determinati interessi, politici, economici o di carriera. Non sono mancate le occasioni per fare che le commissioni di Montecitorio e di Palazzo Madama approvassero con la maggiore fretta possibile disegni di legge, per i quali la pubblica discussione avrebbe forse fatto rilevare la incongruenza e avrebbe potuto sollevare questioni assai delicate. Ricordo che la modifica al codice circa la detenzione preventiva (modifica che io approvai e approvo) fu fatta fare con una rapidità sorprendente; si seppe che avrebbe giovato agli arrestati per il processo contro I'INGIC, i quali furono subito scarcerati. Ciò fu un bene; la fretta dalla mattina alla sera non fu un bene; il processo dura da quattro anni. Si potrebbero citare altre leggi significative per le quali in meno di una settimana furono superate tutte le fasi dell'iterparlamentare. Le assemblee senza pubblico e senza stampa non sono democratiche; un Parlamento che per la maggior parte delle leggi approvate nel decennio ha funzionato nel segreto delle commissioni non può dirsi essere stata l'espressione dell'elettorato e della volontà nazionale. Altro male, credo insanabile per noi italiani, è quello della durata dei discorsi; un tempo nessun deputato si sarebbe permesso un discorso di due ore; oggi se ne fanno di più lunghi; peggio, si leggono, violando un disposto regolamentare che come altri disposti è divenuto caduco. Intanto si sciupano i giorni e le sere con la presenza (altra prassi non strettamente legale) di un numero troppo limitato di parlamentari che di tutto si occupano tranne che di seguire i discorsi con attenzione. Che dire dei lunghi interventi parlamentari per semplici interrogazioni? In Inghilterra si risolvono con un sì o con un no; <cyes,sir; no, sin sono le risposte dei ministri alle brevi interrogazioni dei deputati. Perdendo il tempo con discorsi, l'ingorgo del lavoro legislativo è tanto più notevole, quanto più numerose sono le proposte di legge. Pensare che più o meno con la medesima popolazione e con affari più numerosi per un paese come l'Inghilterra, quel parlamento approvò solo un cenrinaio di leggi nel 1948-49; e quello italiano nella stessa durata ne approvò circa mille e cento. Là gli affari particolari, detti in Inghilterra private laws, non si discutono; le proposte si posano sul tavolo e tranne eventuale richiesta per chiarimenti, si intendono approvate dopo tre giorni. Da noi non mancano occasioni per fare un casus belli sia in aula che nelle commissioni. Ma se il numero delle leggi è in continuo incremento, non è per merito dell'assemblea; sono le dodici o tredici commissioni permanentarie, oltre le commissioni speciali, che servono il pubblico come mulini in pieno esercizio. L'assemblea parlamentare giova a dare sfogo ai tribuni, la cui voce, con gli altoparlanti, diviene stridula e fa perdere il piacere dell'oratoria. Lascio indietro altre osservazioni, accenno solo alla regolamentazione dello scrutinio segreto, unico nel mondo dei parlamenti passati e presenti, meno in qualche periodo monarchico-dittatoriale in Francia. Nostra vergogna o nostro privilegio?A me sembra avvilente il ricorso obbligatorio al voto segreto per approvare le leggi (regolamento della Camera), owero la preferenza della richiesta del voto segreto sugli altri sistemi di voto (regolamenti


della Camera e del Senato). Per eccezione, più volte contestata, è ammesso il voto palese nei casi di fiducia al governo. Il voto segreto, che non sia per le nomine personali, è segno di mancanza di fiducia nelle istituzioni; è una ipocrisia; dà luogo ad inconvenienti di ogni sorta; rompe il rapporto tra eletti ed elettori. Il voto segreto è antidemocratico; sarebbe solo un riparo alle vendette dei dittatori e alle pressioni dei profittatori. È questo l'ambiente italiano? No, cento volte no; ma il voto segreto, difeso perfino da Benedetto Croce con il quale ebbi una polemica al riguardo, è tuttora vigente in Italia, solo in Italia perfino generalizzato nelle assemblee e nei consigli delle regioni. Il lettore mi dirà: possibile che tutto vada male per la nostra democrazia parlamentare? Possibile che non vi sia nulla da segnalare a lode delle nostre istituzioni? Non è questo il senso del mio studio: intanto c'è di bene che si può scrivere il presente articolo, pubblicarlo sopra una rivista libera e niente affatto antiministeriale e farlo circolare senza che nessuno se ne adonti: espressione questa di libertà di un alto valore educativo. C'è di più: le elezioni in questo periodo sono state fatte sempre nel più apprezzabile ordine e in clima di libertà; i partiti awersi possono lottare senza disturbi e spesso con reciproco rispetto. Infine, la esistenza del parlamento è di per sé garanzia della educazione politica e del progresso democratico del paese. La netta opposizione della opinione pubblica ad un sinistrismo che porta al comunismo, nonostante le inefficienze e gli scarti dei partiti, è il sano prodotto di undici anni di lotte civili, in modo da costituire una barriera politica che non cederà alle spinte e agli urti dei marosi. L'italiano ha bisogno di essere confortato che questa sia la via giusta; a noi è mancato il tempo necessario per formare la tradizione politica ed ancorarla nelle istituzioni. Ma I'ancoramento non può essere fatto in altro modo che sopra un elettorato cosciente e un parlamentofinzionante, per assicurare alla nazione libertà e ordine democratico. Le critiche quando non sono demolitrici ma costruttive, concorrono a corroborare le convinzioni ed a rendere sincero e apprezzato il costume politico. Amministrazione Civile, n. 10-1 1, marzo-aprile 1958

Statalismo e confusione di idee Deve essere così; altrimenti I'on. La Malfa nel suo articolo Un esame di coscienza non mi avrebbe accoppiato con I'on. Malagodi. Non dico ciò per mancanza di riguardo verso il segretario politico del partito liberale, ma per il fatto che la mia battaglia contro lo statalismo, o meglio per la libertà, è basata su premesse teoriche e finalità pratiche molto diverse da quelle del Malagodi. Pensare che questi si è rivelato un vero awersario delle regioni mentre io sostengo da oltre mezzo secolo l'autonomia degli enti locali e l'esistenza delle regioni; Malagodi non ha mostrato di essere un vero liberale nel campo scolastico, io sì da prima che venissero al mondo i La Malfa e i Malagodi. H a forse detto Malagodi una parola contro lo statalismo nella Biennale di Venezia? e contro lo statalismo musicale? e quello cinematografico? Io sì. E se dal mio ritorno in Italia ho accentuato la campagna contro la politica economica fatta in nome dello Stato, motivo prevalente ne è stata la continua violazione dei diritti dell'individuo nel campo della libera attività economica.


Fra coloro che siamo convinti che la libertà è unica e indivisibik, e quegli altri che accettano la libertà per settori (e Malagodi e La Malfa sono di questi ultimi benché in campi diversi) vi è una differenza sostanziale. Se la libertà è violata nel campo economico, è lesa anche, secondo me, in quello culturale, in quello politico e sociale e viceversa. Non c'è esempio nella storia di una libertà che stia in piedi da sola. La Malfa, che per confutarmi fa il giro ideale dei paesi occidentali e non si accorge dei tentativi di ripresa libera perfino fra gli operai inglesi e svedesi, non mi comprenderà; Malagodi, che si ferma al settore economico, non mi comprenderà. Anche un giovane gesuita, che ha scritto in difesa dello statalismo nel fascicolo 3' degli Aggiornamenti socialidel centro studi sociali di Milano (piazza S. Fedele, 4) non mi comprende, perché egli non arriva a vedere come sia impossibile considerare il cosiddetto sociaka sé stante; nello stesso errore cadrebbe chi volesse trattare l'economicocome a sé stante. Nell'uno e nell'altro caso si manca di sintesi; nel campo teoretico la sintesi è data daila filosofia (che né La Malfa né Malagodi conoscono); mentre nel campo concreto è fornita dalla sociologia-storica (della quale non sembra che il gesuita Reina abbia avuto sentore). Passiamo ad altro.

Un quotidiano del mattino di Roma occupandosi dello statalismo riporta, senza nominarmi, la mia definizione. Eccola: «la degenerazione sistematica dell'intervento statale in campi non propri o per prowedimenti lesivi dei diritti dei cittadini)). L'articolista aggiunge: ((Noicrediamo, invece, che non si possa parlare di degenerazione dell'intervento statale quando lo Stato fa dello statalismo~.L'equivoco è chiaro; l'articolista ha dato alla frase ((interventostatale))un significato ristrettivo, mentre ogni legge, ogni decreto è sempre intervento statale; ma io chiamo statalismo, nella sua accezione comune, l'eccesso dell'intervento (detto anche interventismo). Alla qualifica di degenerazione (cioè: alterazione organica di un tessuto) ho aggiunto sistematica, perché, come una foglia non fa primavera, così un atto di intervento illegittimo o lesivo dei diritti dei cittadini non è un sistema e quindi non sarebbe vero statalismo. Continua l'articolista del quotidiano mattutino: ((Nessunadegenerazione è quindi possibile nell'intervento economico dello Stato. Anzi se si considerano i fini di tale intervento si vedrà che esso mira a rendere possibile ai lavoratori e agli imprenditori il più ordinato svolgimento della loro attività neutralizzando o attenuando i fattori ostili a tale attività)).Se l'articolista avesse scritto che quando lo Stato cerca di neutralizzare o attenuare i fattori ostili nell'attività congiunta di imprenditori e lavoratori, non fa statalismo perché non esce dal suo campo particolare, avrebbe espresso esattainente la mia idea. E deve essere proprio questa l'idea dello scrittore, tradito dalla fretta di smentirmi perché egli continua: «Lostatalismosi ha quando lo Statofa Ilmprenditore, quando lo Stato assume compiti che non sono suoi, quando lo Stato si mette a fare h concorrenza agli operatori economici. L'intervento aiuta gli operatori, piana loro h via; statalismoprima li opprime epoi li sopprime». Ed ecco che proprio egli accetta la mia definizione dello statalismo, ma la limita al settore economico; io la estendo a tutti i campi; e questo dimostra l'errore di coloro che credono che la libertà possa segmentarsi per settori.

Domanderà il lettore: quali sono i campi non propri dello Stato? e chipuòf;ssarlz? Ecco: siccome lo Stato è per i cittadini e non i cittadini per lo Stato, i limiti fondamentali sono dati dalla personalità umana individuale, la quale è al fondamento di ogni etica politica.


L'interpretazione tradizionale di tali limiti è basata sul diritto naturale. È vero che il diritto naturale va interpretato e applicato attraverso il diritto positivo tradizionale o scritto; ma né le tradizioni, né le costituzioni, né le leggi ordinarie rispettano sempre i diritti naturali; perciò, ogni legge è soggetta a revisione. Nella discussione si chiarirono i limiti, le fonti, i valori da filosofi, giuristi, sociologi, uomini politici e di chiesa secondo i vari punti di vista della scienza e della prassi, trovando così le soluzioni ai problemi della vita associata. Punto fondamentale è la liberrà individuale; punto conseguente, la libertà come principio integrale indivisibile; terzo punto, I'esperienza storica delle concrete applicazioni. Tutto ciò è sfuggito all'articolista di «Aggiornamenti sociali» il quale, credendo di trovare un vero carattere sociale nell'intervento statale, giustifica perfino l'impresa pubblica e arriva a difendere I'ENI dagli attacchi di Don Sturzo. Se dirò loro che il sociale senza l'economico non può esistere, si scandalizzeranno forse della mia teoria? o diranno, come ha scritto il Reina, che le mie accuse di statalismo rivelano «la persistenza di schemi per molta parte superati dai moderni sviluppi della realtà economica e sociale?))(pag. 152). C'è chi la pensa come Reina; Pastore l'ha ripetuto giorni fa senza nominarmi e confondendomi con molti altri che non hanno dietro di sé la serie di temi sociologici, economici e storici che io credo di potere rappresentare, né I'esperienza politica, qui e altrove, che sostanzia i miei atteggiamenti polemici. Se le mie idee siano oltrepassate lascio giudicare ai competenti, fra i quali non mi pare che possa mettere il Reina né l'on. Pastore. Solo chiedo, e non mi par troppo, che io sia giudicato dalle mie teorie, dai miei scritti e dalla mia attività, e non da quel che mi attribuiscono i miei avversari e contraddittori, né dallo stralcio di frasi tolte dai miei articoli senza riferimento alle teorie dalle quali traggono vitalità anche attuale.

Bisogna intendere bene quale sia la natura dell'interventismo statale nei suoi vari aspetti. Comincio dai monopoli pubblici. Lo Stato tiene i servizi postali e telegrafici per garanzia del cittadino e per sicurezza generale. Se i servizi sono manchevoli e costosi, sarà questa una colpa che si può e si deve emendare. Ma lo Stato ha anche il monopolio dei tabacchi a semplice scopo fiscale, il quale scopo oggi potrebbe essere ottenuto sostituendo il monopolio con semplici imposizioni sulle vendite, come è negli Stati Uniti d'America; si avrebbero meno spese e maggiori entrate. I1 nostro Ministero delle finanze fa peggio: ha costituito un'azienda industrializzata; ma purtroppo il reddito aziendale che dovrebbe entrare nelle casse dello Stato, è destinato al reimpiego per ulteriori impianti e miglioramenti, prospettando al futuro maggiori gettiti; se sarà cosi per sistema, ci troveremo in un circolo vizioso che nessun azionista privato potreb'be accettare. Vantaggi sociali?Zero. Vantaggi morali?La pubblicità statale a favore del vizio del fumo. Vantaggi igienici? Lo diranno i medici, gli igienisti, gli scienziati. In sostanza: molto fumo e poco o niente arrosto. Ma la parola industrializzazione dei monopoli del tabacco fa effetto. Sul monopolio ENI in Valle Padana, rimando il lettore ai miei scritti da sei anni ad oggi; a tutti i miei scritti senza eccezione, anche a quelli del tempo in cui i Malagodi affiancavano l'azione deleteria dei ministri Villabruna e Cortese. I monopoli delle stazioni di cura sono dimenticati, ma esistono e costano. I miei contraddittori mi dimostrino l'utilità economica e sociale di tali monopoli, nonché la buona amministrazione in mano a funzionari statali, quelli del posto e quelli di Roma. Passiamo ad altra categoria di enti statali (o anche regionali, provinciali e municipali) per gestione di pubblici servizi (elettricità, trasporti e simili), favoriti da tutti noi verso la fine del secolo scorso, aiio scopo di avere servizi migliori e meno costosi di quelli che allo-


ra erano dati in appalto a ditte private. Il miglioramento dei servizi da allora ad oggi è dipeso in gran parte dai progressi della tecnica, e i privati, in Italia, sono stati all'avanguardia in questo ramo, mentre municipi e provincie, e lo Stato stesso, non avevano, tranne casi eccezionali, mezzi sufficienti per le necessarie trasformazioni. Ma le spese dei servizi pubblici tenuti dallo Stato e dagli enti autarchici, per la pletora del personale e per la incapacità degli amministratori, sono state tali da creare deficit permanenti e progredienci. Le ferrovie statali italiane tengono il primato in questo campo. La Malfa potrà girare il mondo e non troverà un'amministrazione pari a quella delle ferrovie italiane. Lo Stato, sotto il titolo di enti di diritto pubblico, attraverso le finanziarie quali IRI ed ENI (e altre in corso di costituzione), tiene la gestione e controlla molte imprese a tipo priv a t i s t i ~avendone ~, le azioni in mano o completamente, o in maggioranza, o anche in minoranza di controllo. Tali imprese hanno un duplice vantaggio di fronte all'iniziativa privata; quello di ottenere contributi dallo Stato e l'altro di non correte il rischio del fallimento; e così ben forniti in diritto e in fatto fanno allo stesso tempo la concorrenza al privato in condizioni di superiorità e perfino con metodi di sopraffazione. Fra questi tipi di enti metto in prima fila I'INGIC, sulla cui gestione degli anni scorsi si attende il giudizio del magistrato. Dovrei mettere l'ente risi, l'ente canapa, l'ente carta i cui fasti e nefasti sono stati oggetto di discussioni interminabili; dovrei mettere il Poligrafico, al quale lo Stato ha concesso più volte, a titolo di aumento di patrimonio, larghi concorsi per saldare i ripetuti deficit, mentre le piccole tipografie protestano che il Poligrafico con costi maggiori sottragga loro le modeste commesse degli uffici pubblici per moduli ed altre stampe d'uso. Rimando il lettore ai miei articoli anche sulle banche di Stato, siano di diritto pubblico o di interesse nazionale, l'etichetta ha poca importanza; con la speranza che il lettore si renda conto di molti inconvenienti e di non pochi pericoli per I'avvenire della nostra economia. Fra gli inconvenienti metto gli esosi costi dei prestiti e I'obbligo del cartello bancario e fra i pericoli la statizzazione di tutta l'economia italiana. La lista degli enti è assai lunga, e potrei continuare a descrivere le più impensate tipizzazioni, specie nel campo della previdenza; non mi manca la volontà ma lo spazio. Per conchiudere, prego i compilatori di ((Aggiornamentisociali))di farmi sapere quale possa essere il motivo sociale che obblighi lo Stato a tenere in piedi questi e mille altri enti; e quale il motivo morale che obblighi il contribuente a saldare spese e deficit di questi e di mille altri enti. Poi, se occorre, riparleremo di statalismo e di libertà.

Il Giornale d'Italia, 2 aprile 1958

Con queste confortanti parole Gesù assicura gli apostoli della sua presenza, del suo aiuto, delle speranze che desta nel loro cuore. Siano gli apostoli ai remi nella tempeste del lago, siano nel rifugio dopo la crocifissione, alla vista di Gesù han paura come di un fantasma: ma la nota voce del Maestro li rassicura: non temete. E quando Pietro dice di chiamarlo

25

214

Articolo scritto per la ricorrenza pasquale.


a sé facendolo camminare sulle acque del lago e Gesù risponde: vieni, al primo passo egli sente mancare il sostegno e grida; Gesù lo prende per mano e lo rimprovera amorevolmente: uomo dipocafede, perché hai dubitato?A chi non ha ferma fede manca il sostegno, lo prende il timore di cadere, e verrebbe meno se non arrivasse la mano pietosa di Gesù. La gioventù, al primo affacciarsi alla vita, sente mancare la speranza; il buio dell'awenire, la difficoltà di orientarsi, la voglia di arrivare di botto senza affrontare travagli e pericoli, le delusioni se vuol resistere alle tentazioni seduttrici, la rotta verso l'errore, la sete di guadagni, la corruzione: una strada che non spunta. La voce interiore del Maestro divino che chiama e ammonisce, non è più sentita; la speranza non sorregge chi ha preso I'insegna del carpe diem, o chi si è chiuso nella triste malinconia degli sfiduciati. Quel che si dice della vita individuale e degli stati d'animo dei tormentati del presente, si dice della vita collettiva in tutti i settori delle attività e delle speranze umane: politica, cultura, economia, lavoro. Anche coloro che per ufficio, per apostolato laico, per tradizione ed educazione si interessano ai problemi religiosi spesso temono dell'awenire come gli apostoli temevano la tempesta nel lago. E dire, che Gesù nell'inviare il suo messaggio a giudei e a gentili, aveva awisato gli apostoli che li mandava come agnelli in mezzo ai lupi prevedendo fatiche, persecuzioni e supplizi e confortando con la sicurezza della sua presenza ((finoalla consumazione del secoli». Alla visione cristiana della lotta fra il bene e il male, fra Cristo e Belial, e al conforto della perenne assistenza di Gesù Cristo, fa contrasto quella di coloro che, distaccando la materia dallo spirito, l'umano dal divino, pensano che si possa nel mondo stabilire una giustizia e una pace per effetto di nuove teorie, di rivoluzioni benefiche della vita associata, come fatto naturale, al quale potranno concorrere tutte le tendenze progressive. Tale visione della realtà umana manca di base scientifica e storica; applicato un sistema di vita associata se ne vedono i difetti e si cerca di emendarli; creandone un secondo è lo stesso bene e male che riappaiono; i tentativi di ordine e di pace perpetua si sono dimostrati vani e utopistici; è la sorte della torre di Babele. L'uomo è sempre lo stesso; al momento critico si sprigiona l'invidia di Caino e la terra è bagnata dal sangue di Abele; si sviluppa la perversità di Giuda e Gesù è tradito con un bacio. La megalomania di imperatori e dittatori, come quella di Guglielmo I1 o di Hitler, fa scatenare guerre mondiali. E appena superate le guerre guerreggiate, il mondo viene afflitto da guerre locali e da rivolte coloniali; mentre la guerra fredda fra Oriente e Occidente corrode le forze di rinascita così larghe e promettenti. Anche in questo, come in mille altri casi, vale la esortazione di Gesù: ((Non temete o piccolo gregge, perché piacque al Padre celeste dare a voi il regno)), il regno delle speranze non fallaci e delle realtà non apparenti. È norma di vita spirituale quella di affidare il nostro passato alla misericordia di Dio, il nostro avvenire alla divina Provvidenza, occupandoci solo del presente. Che cos'è il presente? È l'attimo che passa e che è nostro e del quale e nel quale possiamo fare tutto il bene o tutto il male che noi vogliamo. Questo presente è in noi stessi; è il nostro essere: pensiero, volontà, azione. Questo momento presente, che dura per noi tutta la vita e per i'umanità i secoli e i millenni, è registrato da un organo simbolico e vivente, il cuore. ~ D o v ' èil vostro tesoro lì sarà il vostro cuore». I1 resto è fuori della nostra cerchia di azione, il resto non esiste. 11 cuore è dentro di noi, esso vive del nostro presente col palpito che ama, teme, spera, gioisce, dolora. Perché sciupare questo tesoro nella vita materiale che è solo un mezzo e non cercarlo nella vita dello spirito che è di per sé una gioia, un godimento, una perennità felice, anche in mezzo ai dolori e alle afflizioni del nostro pellegrinaggio verso il cielo? Saremo così forse degli egoisti, pensando a noi stessi e non pensando agli altri? Non


disse il Maestro che al giudizio finale darà il premio a chi avrà fatto il bene ai fratelli, ai più bisognosi e derelitti; a chi aveva fame o sete, al carcerato, all'ammalato, al nudo come se fosse fatto a Lui stesso? Questa comunione fra gli uomini è sintesi di tutte le virtù, in quanto ogni difetto, ogni vizio, ogni colpa offende il prossimo; ogni buona azione lo aiuta e lo sorregge. La società si trasforma solo con le virtù: giustizia e temperanza, prudenza e fortezza, dal piano umano speculativo e inefficiente passano a quello divino; solo per la fede, la speranza e la carità può domarsi l'orgoglio del sapiente e l'egoismo del possidente. Se è naturale pensare alla società in termini di timore: -che sarà di noi, famiglia o classe? Di noi, città o nazione? Di noi, Occidente od Oriente? Di noi società o Chiesa? - è più utile e doveroso dire: che debbo fare io oggi per la famiglia, per la classe, per la città, per il Paese, per la cultura, per la scuola, per la Chiesa? Quale è il mio dovere? Che cosa mi dice il cuore? Che cosa mi insegna Gesù? L'oggi è vita, è lavoro, è combattimento, è sacrificio: coraggio, piccolo gregge, a voi è dato il regno; perché ogni buona azione, ogni atto di dovere, ogni buona parola è il tesoro con il quale si compra il regno dei cieli. Un soffio di anticlericalismo passa sul nostro Paese; i comunisti sono bene agguerriti; i socialisti tengono le masse legate ai materialismo marxista; gli altri sono divisi da diffidenze, egoismi, faziosità; quale la rotta dell'ltalia? Uomini di poca fede, perché dubitate? Cercate di darvi da fare per superare la tempesta; cercate di vincere lottando e non di perdere lamentandovi; fate ciascuno il vostro dovere e non continuate a questionare fra voi per chi deve primeggiare sugli altri, chi riuscire a superare il traguardo elettorale dimenticando di combattere l'avversario, cercando mezzi sleali e compagnie infide. Solo chi confida nel Signore potrà superare il proprio orgoglio; solo chi sacrifica se stesso per gli altri vince anche perdendo; solo trionfa chi alla menzogna preferisce la verità; alI'egoismo, l'amore; alla servitù della materia, la libertà dello spirito. LYtalia, 6 aprile l 758

Infezione ~ t a t a l i s t a ~ ~ Lo Stato è il potere legittimo; lo statalismo è strapotere; l'infezione statalista sviluppa, non solo nell'ambito dell'organizzazione statale e parastatale, ma anche nelle organizzazioni che informano la vita democratica di un paese libero, la tendenza a soverchiare i propri associati e a invadere il campo di altri organismi, compresi gli stessi organi del potere statale. La partitocrazia è il fenomeno più appariscente della malattia dello statalismo; invade lo Stato perché il partito non rispetta i propri limiti; ma gli organi dello Stato sopportano la partitocrazia e ne divengono succubi perché lo Stato, passando i propri limiti, viola la libertà individuale. Qui gladioferit, gladio perit. L'individuo, che in democrazia acquista i diritti della personalità e della Libertà, propria e associata, è la vittima allo stesso tempo e dello stesso statalismo e della partitocrazia. 2 V r u r z o torna su questo arricolo nella seguenre lertera del 10 luglio 1958 all'on. Giulio Pastore: Caro Pastore, Ti sono grato della visita farrami e delle spiegazioni daremi. H o preso atto con piacere della tua assicurazione di non aver mai indirizzar0 emigranti iscrirti alla CISL


Lo Stato che dovrebbe garantire la libertà individuale, la viola; il partito che dovrebbe «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale~(art. 49 della Costituzione), sopraffa lo Stato. Nel primo e nel secondo caso, il metodo democratico viene soppresso dal metodo dello strapotere. Non è solo il partito infetto di statalismo, ne è anche il sindacato. I numerosi sindacati raggruppati in confederazioni, sono anch'essi delle associazioni di fatto, perché fin oggi non sono stati regolati da legge, come prescrive la Costituzione (articoli 39 e 40). Ciò nonostante i sindacati hanno acquistato tale potere da essere temuti dagli stessi governi. Non sarebbe cosa nuova se fossero regolati da leggi; la novità è che mentre nessuna legge li regola, il loro potere, un potere pertanto irresponsabile, si è accresciuto al punto di divenire strapotere e nei rapporti con gli organi del governo e nei rapporti con la vita individuale degli stessi associati. Anche per i sindacati vale quello che diciamo da un pezzo per i partiti: che l'infezione statalista, cioè di un potere illegittimo e invadente, si rivolge contro lo Stato e contro la comunità; se partito e sindacato restassero nel limite dei loro compiti e delle leggi (che non esistono) sarebbero utili al Paese; eccedendo nel potere e mancando di responsabilità legale, invadono campi non propri e l'infezione statalista si generalizza.

I1 fatto degli operai della Fiat è significativo sia dal lato organizzativo (che non è affatto democratico), sia dal lato delle finalità etiche. Han fatto anche grande impressione nell'atteggiamento duro e intestato deli'on. Pastore le accuse alle imprese che, secondo lui, abusano della loro posizione favorendo e accordandosi con i propri operai; cosa che lederebbe i diritti del sindacato. Appare evidente che per Pastore il sindacato sarebbe il fine dell'operaio e non un mezzo per fare valere i propri diritti e interessi legittimi, eventualmente manomessi o pretermessi dagli imprenditori. Pastore definisce atto di paternalismo i prowedimenti spontanei o concordati fra impresa ed operai, perché non verrebbero passati attraverso i sindacati nazionali, come vittorie della classe operaia ottenute per eliminare la ingiustizia o la gretteria dei «padroni».La concezione marxista della lotta della classe operaia, la confisca della classe padronak, pur non confessate esplicitamente, fan capolino nelle affermazioni di Pastore, di Donat Cattin, di Penazzato; i quali si fanno scudo perfino delle ACLI per far passare tale atteggiamento come perfettamente cristiano. Penso che la polemica e l'urto fra i dirigenti della CISL e i cosiddetti ~aziendalisti)) della Fiat e nel fraseggio e nella difesa delle posizioni sindacaliste li avrà trascinati oltre il giusto segno. È assai grave che una associazione di fatto possa pretendere di tenere legati gli a sindacati esteri di colore, essendo competenza delle ACLI l'assistenza agli emigranti. Ne farò un cenno al)a prima occasione. Circa il ruo appunto su quanto io scrissi nell'articolo Infezione Statalista del 10 aprile, ti prego di tener presente il periodo «Pastore, o chi per lui, incassa, amministra, dispone, impiega, intestando edifici o titoli a ersone di sua fiducia; il sindacato, essendo associazione di fatro, non può in suo nome possedere neppure una iaracca di legno; lo nesso è per gli aiiri sindacati tuai finanziati da estranei alla classe operaia italiana,,. Come vedi, con tale fraseggio, non intesi affatto di intaccare il tuo onore personale; ma di denunziare un sistema! Non mi pare perciò che debba ritornare a chiarire su questo punto il mio pensiero, tanto più che fatti penosi di aitra associazione (fatti che tu avrai avuto modo di conoscere) mi porterebbero ad appreuamenri che toccano la faciloneria con la quale si amministra il denaro gratuito; cosa psicologicamente spiegabile, perché non è frutto di lavoro, né di industriosità e di sacrifici. Cordiali saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 512, f a . uF. S.n, 75.


operai di ciascuna fabbrica ad unica disciplina classista che non rispetti le finalità eriche e i limiti di un potere associativo libero e democratico: se è così, fanno bene Rapelli, Arrighi e gli altri a denunziare un simile prepotere e a cercare altre vie per darsi una personalità sindacale a carattere democratico. Pastore, dal canto suo, non coriosce la legge storico-sociologica del superamento dei limiti classisti da parte di coloro che hanno sorpassato il livello comune che li aveva uniti nella conquista. La cosiddetta solidarietà di classe non esiste come fenomeno spontaneo, né come fenomeno di disciplina associativa. Esiste solo come valore morale; ma certi sindacalisti contano poco sui valori morali, e contano di più sul loro potere. Donde viene un tale potere? In parte dai soci uniti insieme per la difesa e la conquista di classe legittima ed effettiva; dico in parte perché i soci contribuiscono mensilmente forse appena quanto costano due pacchetti di sigarette ordinarie; sono i cugini d'America quelli che versano nelle mani di Pastore i dollari trasmutati in lirette italiane. Pastore, o chi per lui, incassa, amministra, dispone, impiega, intestando edifici o titoli a persone di sua fiducia: il sindacato, essendo associazione di fatto, non può in suo nome possedere neppure una baracca di legno; lo stesso è per gli altri sindacati tutti finanziati da estranei alla classe operaia italiana. Non si sa a chi diano conto delle entrate e delle uscite reali; non ai finanziatori e neppure alle assemblee confederali. Alle spese centrali e periferiche della confederazione si provvede dall'alto; tale sistema sviluppa lo spirito di comando che dal centro arriva alla periferia insieme agli assegni o alle somme in contanti; né quelli della periferia usano metodi diversi col personale dell'apparato e con i soci. Questa è democrazia? Questa è libertà? no: questo ricorda un passato verso il quale i sindacalisti reagiscono guardando a sinistra; è la gobba che non si vede.

Quanto awiene per tutti i sindacati, awiene per i partiti politici, nessuno escluso. Malagodi me lo deve ammettere, egli che, pur non avendo inventato il tipo degli apparati dei partiti, se n'è giovato nel dare respiro al partito liberale già boccheggiante; e se egli si presenta baldo e fidente alle elezioni del 1958 è anche per questo. Malagodi, pur non avendo inventato (come scrisse in polemica con me) la definizione data al gruppo di ministri liberali e socialdemocratici nei gabinetti Scelba e Segni, quali dpkgdzioni (dei parriti s'intende) ne ammise sempre il carattere e la funzione; il che è servito a mettere in chiaro al cittadino italiano quale fosse stata e quale sarà in Italia la sovrapposizione del partito al governo. Nessuna meraviglia, quindi, se la gente vada ai partiti per avere favoriprdeter et contra kgem'se due o più partiti si mettano d'accordo per sostenere ad ogni costo le cosiddette rivendicazioni di categoria. Non siamo più in uno stato di diritto, come si credeva al tempo in cui si preparava l'attuale costituzione. Oggi se un amico deve essere portato sulle ali dei venti al Consiglio di Stato o alla Corte dei conti (i più delicati organi dello Stato), i direttivi dei partiti im-pongono il tale o il tal'altro che sa nulla di diritto, di controllo statale, di tradizione di corpo, di teorie amministrative. Io so quel che dico; si arriva a mettere a capo di certe amministrazioni delicate o il segretario o il capo del gabinetto del ministro tale o tal'altro, facendo fare ai prescelti difficili salti nella carriera ovvero inserendoli nei ruoli per meriti sconosciuti. Non è il caso di generalizzare; Malagodi mi comprende. I1 virus della partitocrazia ha infettato Camera e Senato, Governo e palazzi annessi, commissariati e gabinetti. Noi ci troviamo al punto che in politica estera l'ingerenza di elementi irresponsabili nella politica estera è tale da bastare un'agenzia largamente foragiara (con i denari del contribuente) a di-


vulgare notizie inesatte e tendenziose per rendere dei cattivi servigi a coloro che siedono a Palazzo Chigi; questo basta a far vedere a che punto possa arrivare lo strapotere dei partiti. Ma tanto potere donde deriva ai partiti? al solito, dal denaro; alla vigilia delle elezioni si leggono sui giornali notizie sbalorditive circa la spesa che i partiti debbono affrontare. Si tratta nel complesso di molti miliardi. È vero che in bocca agli italiani il miliardo non rappresenta un valore del tutto eccezionale, dato il sistema adottato di mantenere in eterno la liretta centesimale regalataci irrazionalmente dalla svalutazione bellica. È però assai spiacevole che non si sia mai regolato con legge il finanziamento dei partiti, come in altri paesi. Chi ha danaro hapotoe si diceva una volta; ora si dovrà dire: chi ha miliardi, ha sh-apotere. I parti ti hanno usurpato i poteri dello Stato: lo statalismo non è potere legittimo per il bene comune; è potere illegittimo per il partito, per la fazione, per la categoria, per il gruppo. A completare il quadro del frazionamento dei poteri e dell'eccesso del potere vengono in fila con i partiti e i sindacati anche gli enti statali, nei quali si trovano insieme raggruppati ad amministrare miliardi uomini di parte, rappresentanti della burocrazia e del sindacalismo. E se gli enti dispongono di fondi extra bilancio (il caso ENI è fuori concorso nonostante i certificati di buona condotta), I'arrembaggio dei partiti, dei sindacati, dei gruppi audaci e degli uomini favoriti si estende di giorno in giorno in tutta la penisola e purtroppo anche nelle isole grandi e piccole. È così; l'infezione statalista si è estesa nei partiti, nei sindacati e negli enti, e di rimbalzo il decadimento morale che ne consegue si estende nel paese. I1 potere legittimo si confonde con quello illegittimo; i limiti morali e legali cedono; la libertà non è più garantita; l'arbitrio ne prende il posto.

Il Giornale d'ltdlia, 9 aprile 1958

Nenni Mattei e C. Si rivedono, anzi si son visti Nenni e Mattei; lungo colloquio di due ore nei pressi di piazza Barberini poco prima di Pasqua. Non si trattò di auguri pasquali, né di conversazione di vecchi amici. Due ore per gravi affari politici; Nenni capeggia un partito, una corrente, sente che l'ora sua arriva; Mattei fa della politica con giornali e con milioni o miliardi; l'incontro era necessario. Il Giorno di Milano - il quale secondo le testimonianze di Bo non appartiene a Mattei ma fa gratuitamente la difesa e l'esaltazione di Mattei, ne interpreta i pensieri e le aspirazioni - ci ha prospettato in un primo tempo un Nenni alternativa di Fanfani; in un secondo tempo un Nenni collaboratore di Fanfani (o viceversa) secondo l'esito elettorale; esito che, nella mia opinione, Nenni e Mattei preparano insieme - a piazza Barberini o altrove non importa sulla base (e anche con la <(Base»)del do ut des. Che Mattei abbia dato nel passato non pochi aiuti tangibili a Nenni, sia per l'Avanti! che per il partito, è voce che corre insistente. Si parlò anche dell'intermediazione di una mano invisibile; ma se era invisibile, come si poteva vedere e se ne poteva parlare? Stiamo fer' mi alle cose visibili; nel caso presente alle informazioni del Il Gzorno. Due ipotesi: la prima, «alternativa alla DC», non regge, perché Nenni dovrebbe essere I'esponente anche dei comunisti, altrimenti come farebbe a raccogliere la maggioranza?PSI + PRT + Villabruna + Olivetti + Saragat non formano maggioranza; solo con il PCI potrebbero ac-


costarsi ai margini di maggioranza se l'elettore si lasciasse trascinare a sinistra e, con l'aiuto delle sinistre cattoliche, potrebbero dare la scalata. Per tale ipotesi occorrerebbe anzitutto I'euforia di un'intesa ad alto livello fra Mosca e Washington con il pieno accordo dei governi europei; per oggi, campa cavallo. Ecco perché Il Giorno di Milano ci fa sapere che fra due anni Camera e Senato saranno sciolti di nuovo. Tale previsione si trova anche nella Agenzia Parlamentare Italiana che re tende essere portavoce delle sinistre cattoliche (al ~lurale)e non dimentica le sue origini. L'awertimento dato ai partiti ed ai candidati perché si preparino ad una nuova battaglia elettorale fra ventiquattro mesi, serve a creare nel loro interno un certo panico credendo così di poterli mettere in linea con la politica Nenni, Mattei e compagni. Ecco perché, per via di logica eliminatoria, si arriva alla seconda ipotesi prospettata dal Giorno di Milano, quella di una collaborazione Fanfani-Nenni, per arrivare ad una collaborazione Nenni-Fanfani. Mi spiego. Se la DC non conquista la maggioranza assoluta (cosa scartata in partenza), e se non riesce a formare una niaggioranza con Saragat, anche se si assicura i voti gratuiti di Covelli, deve scegliere o il monocolore (e allora Fanfani non andrà al Viminale) ovvero piegare ancora di più a sinistra e combinare così un certo intrallam con Nenni. Questi si troverà, allora, nella consueta ambiguità: Togliatti sì; comunisti no; Kruscev sì, Ungheria no; disarmo sì, Atlantico no; sinistra DC sì, Fanfani no. Anche Saragat avrà le sue perplessità, le quali durano fin dall'estate del 1953 e continueranno fino all'estate del 1960 (i due anni del Giorno) o anche più, se la profezia milanese dovesse risultare sbagliata. In poche parole: la DC non potendo far rinascere il quadripartito con Saragat-De Caro-Pacciardi, né il tripartito dopo che La Malfa ha preso il posto di Pacciardi dovrà scegliere fra il monocolore alla Zoli o l'intesa con Nenni perché a destra sunt leones, come si scriveva nelle vecchie carte geografiche. Se il calcolo non spunta, se il monocolore non regge, se Nenni fa il miffolo, se parte della DC si ribella, si tenterà come rimedio la purga elettorale a due anni di distanza. A questo punto morto è stata portata la Repubblica italiana dalla partitocrazia imperante; punto morto gravido di conseguenze interne ed internazionali, delle quali i sostenitori della visita di Nasser a Roma (dopo il pellegrinaggio a Mosca) è l'indice semiserio o tragicomico della politica concorrente a quella governativa, inaugurata da Nenni col viaggio in Cina e proseguita da Mattei con gli &ari positivi o negativi in Egitto, Persia, Marocco, Libia, Sahara e Jugoslavia. C'è chi crede che oggi si possano fare due politiche: una interna e un'altra estera, senza vera connessione e senza coordinamento. Falso; la vera politica è unitaria; interno ed estero vanno coordinati in unico scopo: il benessere del paese nel quadro delle alleanze e nel ruolo adatto alle condizioni politiche ed economiche di ciascun alleato. Altrimenti, le sfasature rovinano e l'una e l'altra politica, per raccogliere solo i cocci. Vecchia teoria questa, che proprio oggi va ripetuta, perché l'Italia soffre per causa della «incoerenza))di vari centri direttivi o pseudo-direttivi, responsabili e non responsabili, non coordinati e perfino dissidenti. I1 più sensibile, ci siano o no dietro persone autorevoli a sostenerlo, è il caso Mattei, il quale posto alla direzione di un ente a larga sfera economica, con miliardi in mano poco controllati (pare che nel 1957 I'AGIP e la SNAM abbiano unicamente realizzato più di cinquanta miliardi pel metano venduto), e con notevole risuonanza giornalistica all'interno e all'estero, anche lui fa della politica interna ed estera, politica a sinistra e politica sinistra, senza che il governo intervenga (se si eccettua una tenue allusione fatta dall'on. Pella), senza che l'opinione pubblica ne sia sufficientemente informata, senza che in Parlamento si siano espresse delle preoccupazioni o fatti dei rilievi in proposito. Classe dirigente sorda? Classe politica conformista e senza spina dorsale? Mondo particolare corrotto dai milioni e dai miliardi messi in giro owero dalla speranza di avere un


posto, una consulenza, una rivendita di prodotti o una stazione di presa di benzina? Ai posteri l'ardua sentenza. I partiti, in questa vigilia elettorale, stanno elaborando i programmi della loro attività per la terza legislatura. Ma bisogna anzitutto rivolgere loro la domanda di come formare il governo; sarà questo di maggioranza o di minoranza? Se il primo: con quale maggioranza? Fanfani ha già espresso la sua idea anche prima della riunione del consiglio nazionale: maggioranza D C con partiti omogenei. Il Giornodi Milano aggiunge: solo le sinistre fino a Nenni sono partiti omogenei. I1 vocabolario italiano così spiega il significato di omogeneo: «che ha la stessa natura)) e appresso: «uniforme, identico)); e parlando di colori: «che armonizzano fra di loro));fermiamoci qui e lasciamo indietro l'omogeneità matematica per uguale grandezza, o quella algebrica di prodotti aventi uguale numero di fattori. Applichiamo ai partiti la omogeneità dei colori sulla base di un'armonizzazione; escludiamo perciò che Nenni armonizzi con Fanfani, che il socialismo di Nenni armonizzi con il social-cristianesimo di Fanfani; che il classismo di Nenni armonizzi con l'interclassimo di Fanfani; in una parola che il colore rosso o rossastro del PSI armonizzi con il colore bianco della DC. È vero che la DC è travagliata da correnti, così che i colori sarebbero cangianti secondo il vento; ma il punto saldo che la distingue da tutti i partiti italiani è quel «cristiana» messa a qualificare la democrazia; e quel Libertas dell'insegna che caratterizza la politica dell'interclassismo sociale e cattolico. La D C non può barattare questo patrimonio, che è quello della maggioranza dei cattolici italiani, a qualsiasi partito appartengano; della quale maggioranza, dalla guerra in poi, la D C è stata esponente qualificata e largamente apprezzata. La D C non può tradire il popolo cattolico; la D C non può tradire l'Italia. Solo un falso classismo operaio e la visione di una non lontana apalingenesi sociale))su linea mantista, può indurre giovani illusi a pardare al socialismo come ((soledell'awenire)). Si tratta di vera caricatura di un sole immaginario già tramontato fin dal giorno che il socialismo marxista generò la dittatura del proletariato di Mosca, dittatura di dominio e di sangue. Noi dobbiamo alzare la bandiera della libertà, della vera libertà dello spirito; non spezzettata per settori, né disintegrata per semplici interessi economici o di categoria, ma libertà integrale e unitaria per tutto il popolo e a nome del popolo, libertà veramente democratica e cristiana.

Il Giornak ditalia, 1 1 aprile I958

Richiamo al costume. Una lettera di Luigi Sturzo2' Carissimo Caronia, Nell'inviarti il mio ultimo opuscolo «Battagfiepmh fibmth mi piace ricordare le quante volte tu mi sei stato vicino, non solo come medico che cura la mia salute con l'affetto di

L'articolo era preceduto dal se ente corsivo: Il senatore Sruao ha inviato &onorevole Giuseppe Caronia Ia lettera che pubblichiamo. Si tratta di un documento significativo, di un giudizio Franco, severo e accorato sulla situazione politica, un documento che - mentre costituisce un riconoscimento per la figura dell'on. Caronia - pone in rilievo aspetti e sistemi sui quali gli elettori sono chiamati a meditare. 2i


amico, ma come compagno di lotte del Partito Popolare e come uno dei più fervidi promotori e sostenitore dell'Autonomia Siciliana, che insieme fu liberazione e libertà. Ricordo la mia commozione quando, tuttora lontano dalla Patria, ricevetti a New York il primo schema dello Statuto siciliano da te inviatomi; e come ne rimasi allo stesso tempo entusiasta e pensoso. Avevo già espresso il mio pensiero in un discorso alla radio: autonomia sì; separatismo no. Tale affermazione era diretta non solo ai quaranta di Pakrmo (titolo del mio articolo), ma anche ai governi di Londra e di ~ a s h i n ~ t - o n . Non credevo, a dodici anni di distanza dall'approvazione dello Statuto vigente, dovere constatare che il risentimento di certi nostri connazionali, l'ingerenza partitica e la troppa imitazione della Regione dei metodi amministrativi e parlamentaristici della Capitale, dovessero attenuare gli Istituti e lo spirito autonomista e il senso di responsabilità che deriva dalla libertà veramente vissuta. Spero che si tratti di fenomeno passeggero contro il quale si deve reagire. Nell'opuscolo che ti mando non parlo della cara Sicilia né della Regione; ma le battaglie per la libertà che, pur all'estremo margine della mia vita terrena vado combattendo, interessano anche la Sicilia e tutta la Nazione, la quale ha bisogno della rivalutazione della moralità della vita pubblica, in difesa della libertà integrale in tutti i settori dell'attività associata, dall'approfondimento del senso di limite neli'esercizio del potere. Solo così si potranno combattere lo rtatalismo, la partitocrazia e la immoralità, che ne è allo stesso tempo causa ed effetto. così io le ho qualificate in un mio reNessuna Regione immune da tali <<infezioni»; cente articolo; infezioni che non mancano di serpeggiare nella nostra amata Sicilia. Perciò ne ho scritto ne scrivo sui giornali; perciò te ne scrivo, come ne ho scritto ho parlato di presenza ad altri amici siciliani, giovani ed anziani. I giovani un tempo erano i più entusiasti delle battaglie per un grande ideale; ora non pochi giovani (mi si dice) al posto degli ideali, cercano profitti tangibili. Tra quelli che conosco, a parte gli sfiduciati, ne trovo molti che hanno sete di ideali, che cercano finalità degne da raggiungere, e anche sacrifici da offrire a Dio per il bene dei fratelli. Sì, ci sono gli sfiduciati; ci sono stati sempre giovani invecchiati anzitempo, abituati a una critica amara, soddisfatti dal chiacchierio che fa perdere i giorni e fa tralasciare le buone occasioni che passano. Ricordo a costoro che i tempi della nostra giovinezza non erano diversi da quelli di oggi: bene e male allora, bene e male oggi; gente entusiasta e gente sfiduciata allora; gente sfiduciata e gente entusiasta oggi. Una cosa è un po' diversa: oggi quei giovani che fan chiasso hanno raggiunto una loro personale sistemazione anche politico-economica; allora ciò non accadeva tranne per pochissimi casi e per giovani eccezionali. I1 fenomeno presente appartiene alla casistica dello statalismo, dellapartitocrazia e sindacatocrazia; deriva dal dilagamento dell'immoralità nel campo della pubblica amministrazione. La lotta alle cause deve creare lo spirito di ripresa da parte della gioventù sana e idealista che non manca. Caro amico, ti scrivo ciò in un momento delicato per il nostro Paese; le prossime elezioni avranno una portata importante per I'awenire della Repubblica italiana, minata dal comunismo sovietico e dal socialismo classista e statalista. Gli amici della DC ripensino tutto questo; e invece di combattersi vicendevolmente per ottenere un maggior numero di preferenze, combattano a viso aperto il socialcomunisrno che ha invaso le nostre belle contrade, anche in Sicilia, dove han conquiscato municipi in Comuni che un tempo erano le roccheforti del popolarismo.


I1 tuo posto di battaglia, caro amico, è tutt'ora in Parlamento, non solo in difesa dell'Autonomia siciliana ingiustamente insidiata, ma anche per il contributo dell'esperienza professionale e politica, che è necessaria nei consessi che si rinnovano, quest'anno radicalmente, data la eliminazione di molti deputati e senatori uscenti da parte dell'apparato dei partiti. Prego Dio che la nostra Sicilia affermi con vigore i principi di libertà, di democrazia e di moralità cristiana, vera e praticata; sì da far riprendere al Paese il suo cammino verso un avvenire spiritualmente e materialmente sempre migliore. Una cordiale stretta di mano. Luigi Sturzo Gazzetta del Sud, 12 aprile 1958

Partiti, candidati e programmi Andiamo leggendo con molto interesse e con non repressa curiosità i programmi elettorali. Tutti vogliono l'optimum secondo i propri punti di vista; non si accontentano del meglio e non si rendono conto che dappertutto e sempre vi sono le cose buone mescolate con le cattive: sunt bonn mixta malis. È da premettere che non è il programma che qualifica il partito; al contrario, è il partito che qualifica il programma. Se il comunista afferma la necessità della riforma finanziaria e la stessa affermazione fa il liberale, il pubblico non dice che i due sono d'accordo, perché ciascun partito con le stesse parole ricerca cose diverse. Il popolo ne intuisce il significato anche se non arriva a rendersene conto; perciò fa poca attenzione alle affermazioni più o meno generiche e alle larghe elencazioni programmatiche; apprezza i partiti attraverso la loro esistenza storica e più ancora attraverso gli uomini che li rappresentano. Non si nega l'utilità dei programmi elettorali; questi sono o dovrebbero essere ben diversi dai programmi dei partiti, preferendo gli elettori la puntualizzazione delle più urgenti e concrete proposte da portarsi a termine nel quinquennio legislativo. Sarà quindi utile omettere il bagaglio di riforme inattuabili nel tempo limitato di cinque anni e quando mancano margini sufficienti nell'oberato bilancio statale; è superfluo elencare tutte le manchevolezze della amministrazione statale e tutti i bisogni della popolazione. In cinque anni si fanno molte leggi ma pochi cambiamenti e poche realizzazioni veramente proficue e durature. Fra i buoni propositi presentati dalla D C al Teatro Adriano, noto l'attuazione degli istituti costituzionali, compresavi la leggesindacale.Ottimo impegno di partito, contrastato fino ad oggi da tutti i sindacati operai. Questa sola legge terrà impegnata la terza legislatura come è stata impegnata la seconda con la infelice legge sui patti agrari. Circa quest'ultima, la D C nella sua formulazione programmatica è stata molto cauta: ((incrementodel reddito da conseguire con la regolamentazione dei patti agrari, ecc.». Speriamo che l'impegno sia mantenuto con serietà, competenza e tecnicità economica, proprio per ottenere Enrremento del reddito e, aggiungiamo noi, anche lapacesocialeche ne è la premessa indispensabile e la finalità desiderabile. Non posso esimermi, io che da più di dieci anni combatto contro lo statalismo, di sottolineare quel che ne1 programma DC è stato scritto circa l'iniziativa privata e l'intervento


statale. Ecco il testo esatto: «a) coordinata azione digoverno per garantire libertà di iniziativa economica, in un ambiente giuridico ed economico reso sicuro dalla certezza del diritto, dalla stabilità monetaria, dalla efficienza dei servizi generali, dal riconoscimento dei diritti del lavoro, dalla diffusa istruzione professionale, dalla solerte ricerca scientifica; b) per ordinare lhttività delle imprese a totak o prevalente partecipazione statale secondo criteri di economicità, subordinando ad autorizzazione di legge iniziative diverse da quelle già in atto; C)per armonizzare l'iniziativa privata con 1Utilità sociale e con la sicurezza e la libertà dei lavoratori, disciplinando i monopoli e le catene finanziarie, ed integrando le insufficienze connaturali e le manchevolezze contingenti alla stessa iniziativa privata». L'enunciato è stato redatto con chiarezza e cautela allo stesso tempo; mi riserbo di esaminarlo largamente in apposito articolo. Qui debbo dare atto alla DC di aver cercato, in materia così scottante, di rassicurare l'opinione pubblica per I'awenire. Certo, non basta subordinare ad autorizzazione di legge le iniziative diverse da quelle già in atto; ma la fretta dell'EN1 ad aggiungere nuove iniziative non previste da leggi, come si è notato in questi giorni, dimostra che ciò può servire di remora. Per la parte attuale delle partecipazioni è detta una frase che dovrebbe significare un programma effettivo e drastico ((ordinamento secondo criteri di economicità~,cosa che I'ENI non cura e I'IRI non tiene in conto, se attualmente si tende a diminuire oltre il fondo di dotazione (come a me sembra e non solo a me) con indebitamenti oltre i limiti di una sana amministrazione. A proposito, mi è sembrato, a dire poco, improprio il comunicato dato alla stampa circa la copertura delle obbligazioni IRI ottenuta in quattro gorni, come se ciò dimostrasse una ben larga fiducia popolare, quando si sa che !a copertura è stata fatta dalle banche, quattro delle quali dipendono dal complesso IRI e le altre sono enti pubblici a carattere statale o parastatale, e quand o si sa che lo Stato è dietro all'IRI. A questo siamo arrivati dopo il malesempio della pubblicità ENI, seguita ora dalle varie imprese statali e statizzate; pubblicità tendenziosa e perciò stesso squalificata e deplorevole. Ma la battaglia contro lo statalismo non finisce oggi, né finisce qui. Spero di poterla lasciare quale testamento a tutti gli italiani, checché ne dicano o ne pensino amici, ex amici ed avversari. I1 punto centrale dell'attività della terza legislatura, a parte il completamento degli istituti e delle leggi volute dalla Costituzione, dovrà essere I'adeguamento della nostra economia al Mercato comune della piccola Europa. Nel programma DC sta scritto: ((profcuo inserimento della economia nazionale nelMercato Comune Europeo, mediante orientamenti, assistenza tecnica, politica creditizia ed investimenti pubblici, armonizzazione delle legislazioni dei sei Paesi in materia economica». I1 fraseggio è troppo generico; quegli ((investimenti pubblici)) danno un suono equivoco; il problema merita una preparazione che fin oggi non è approfondita né coordinata, nonostante certe buone iniziative del ministero dell'industria e di quello del commercio estero. Mi si dice che anche il ministero dell'agricoltura se ne occupa; non ho informazioni sufficienti per apprezzare l'indirizzo preso. Proprio su questo tema si reinserisce il problema della maggiore libertà all'iniziativa privata e della più adeguata attrezzatura statale per l'integrazione, non dirigista né statalista, ma veramente cooperante, con speciale impegno nel campo dell'istruzione professionale, deUa preparazione culturale e dell'adeguamento della nostra legislazione finanziaria con quella dei paesi collegati. Credo che i temi da me toccati quale programma elettorale per la terza legislatura (e del resto accennati da tutti i partiti) dovrebbero bastare a rendere importante la presente consultazione elettorale. Non nego che vi siano altri problemi da risolvere e che formano il tormento della vita politica quotidiana, specie nel campo della finanza statale e degli en-


ti locali, nonché per lo svecchiamento della bardatura di regolamenti e di enti con facoltà impositive che tuttora sono in vigore. Ma lasciamo tutto questo e altri bagagli alle iniziative opportune e dei governi e dei parlamentari. Abbracciare tutto in una volta non si può; ma sottolineare all'elettorato gli impegni specifici e particolari è necessario per assumerne impegno di portarli a compimento. Gli eletti debbono poter dire che essi mantengono la parola e gli elettori debbono avere il diritto di esigerne il mantenimento. Si tratta di una specie di «patto elettorale»; l'elettore sceglie i nomi e non potendo dare mandato imperativo, deve poter avere fiducia che quel che è stato promesso sarà mantenuto; mentre l'eletto deve mettere il principale impegno a mantenere quel che ha promesso in nome del partito cui appartiene. Partiti ed uomini che lo rappresentano debbono comprendere la loro posizione politica. Se si tratta di partito di governo, non solo il candidato può ma deve impegnarsi come tale verso l'elettorato che è disposto a dare i voti necessari proprio per fare un governo di quel partito, owero per formare un governo di coalizione: è il caso della DC, il cui programma dovrà rendere possibile l'intesa con i futuri alleati. Con. Fanfani lo ha preannunziato: governo di coalizione democratica omogenea. Non insiste sulla questione dell'omogeneità che in Italia non esiste; troppe teorie (vere e fasulle) impegnano i partiti, con l'aggiunta di un fraseggio non sempre chiaro e con richiami ad una tematica politica astrattista, per certe correnti anche criptica, buona all'intendimento di setta che vi sta celato sotto. Comunque sia, le alleanze si fanno con coloro che sostanzialmente sono d'accordo sul metodo di governo e sulle principali questioni di interesse immediato. Le posizioni prese dai socialisti nenniani verso il partito comunista escludono in partenza sia l'unificazione del partito socialista con quello dei socialdemocratici, sia la collaborazione o l'intesa del partito socialista col partito democratico cristiano. I continui richiami perché Nenni smetta l'ambiguità, perché lasci di fare I'Amleto, perché chiarisca la sua condotta eccetera, sono allo stato delle cose o finti inviti owero sottintesi per una politica inconfessabile. Tutto ciò deve finire: Nenni deve stare fuori, non dentro la coalizione democratica. Ciò deve risultare dalla stessa propaganda elettorale; deve essere chiaro agli elettori; non può essere sottaciuto o pretermesso. Le sinistre cattoliche (come le chiama la solita Agenzia) sono pregate di essere anch'esse chiare su questo punto, anzi chiarissime; l'elettorato non può essere giocato sopra un fatto ormai scontato da cinque anni. Le premesse programmatiche, governative ed elettorali, il metodo e le finalità danno il la per la scelta dei candidati alla Camera fatta con il sistema delle preferenze. Ma vi sono tre condizioni preliminari che l'elettore deve tener presenti per le preferenze: onestà (primo requisito), capacità e competenza (secondo requisito), carattere (terzo requisito). I1 Paese non vuole disonesti (è chiaro), né incapaci e incompetenti (i quali o non capiscono o non hanno preparazione sufficiente) e neppure banderuole o gente amletica che sospira e vota contro coscienza; costoro non danno affidamento di serietà né sono disposti a mantenere la parola data né ad affrontare la lotta. Con uomini onesti, capaci e di carattere, il partito di gsverno può essere sicuro di vincere; l'elettore può avere affidamento che i programmi concreti e pratici saranno realizzati nell'interesse del Paese, l'unico e vero interesse sul quale si fonda una democrazia vera, sana, efficiente.

Il Giomak d'Italia, 16 aprile 1958

225


Che ne pensa Don Sturzo? Questa domanda mi è stata rivolta a proposito della Toscana-Azoto e dell'invocato intervento statale, sia o no attraverso l'immancabile ENI. Ecco la mia risposta: primo intervento di uno Stato di diritto deve essere quello di fare accertare le eventuali responsabilità penali e amministrative. L'iniziativa dovrebbe partire (se non è già in atto) dal liquidatore della società in fallimento, che un giornale di Firenze qualifica comef;crudoknto. Se frodatori vi sono e non sono stati finora denunziati all'autorità giudiziaria, dovere esige che vi si proweda. A questo punto vorrei sapere se sia esatto quel che io ricordo; la Toscana-Azoto per avere il prestito IMI-ERP fu invitata a dimostrare l'esistenza di un capitale liquido pari o quasi al prestito che chiedeva. Un giornale di Firenze afferma avere la società ottenuto due miun miliardo e mezzo. La cautela richiesta dall'IMI-ERP liardi; il mio ricordo è pressappoco -di equivalente contante azionario Toscana-Azoto risultò dal certificato di una banca statale. Ma si trattava del deposito di somme ottenute a prestito dalla stessa banca statale alla quale doveva essere restituito; e lo fu in seguito. Un particolare: non tutti i membri della commissione IMI-ERP erano favorevoli all'operazione, ma in seguito a sollecitazioni politiche e sociali di persona che io non nomino le obiezioni caddero. È questa la frode alla quale accenna il giornale di Firenze o ve n'è un'altra? Una o due le frodi, in uno Stato di diritto quale il nostro, si dovrebbero fare gli accertamenti di merito e procedere nelle forme di legge nel caso di responsabilità amministrative e penali: ecco il primo dovere. Ma lo Stato è anche creditore e in quanto tale ha anche il dovere di recuperare le somme del prestito accordato, sia che tali somme debbano andare al Tesoro sia all'lMI, sia alla Cassa per il Mezzogiorno, secondo le varie convenzioni esistenti. Tanto il liquidatore, quanto l'amministrazione dell'IMI e il Ministero del Tesoro, e nel caso di credito della Cassa per il Mezzogiorno, anche gli amministratori della Cassa sono interessati al recupero dell'eventuale credito residuo. Non ho tempo e agio - ad informarmi a che punto siano le cose; perciò ne scrivo come ipotesi, affinché gli interessati si facciano vivi se eventualmente non abbiano fino ad oggi provveduto a far garantire i loro crediti. Resta un obbligo morale verso gli operai disoccupati; oggi si usa dire sociale come se qualsiasi rapporto in una convivenza umana, quale la società civile, non abbia il carattere di sociale. E evidente che vi si dovrà prowedere in base alle leggi vigenti sulla disoccupazione con i mezzi, per quanto discutibili, dei cantieri di lavoro; e più che mai con una reale politica produttivistica a vantaggio delle zone di disoccupazione. Bisogna tener presente che il caso di Figliere è simile a molti altri casi nei quali una fabbrica chiuda i battenti, non solo per fallimento, ma perché le capita un incendio, una frana, un'inondazione. I prowedimenti vanno adeguati ai bisogni fino a che si trovi uno sbocco atto a ridare lavoro. Cito un esempio che fa al caso: I'ABC di Ragusa (appartenente all'IRI) fu per vari anni in crisi; gli operai disoccupati vennero per un certo tempo sussidiati dalla Regione; ma la situazione era insostenibile. Finalmente I'IRI si indusse a vendere le sue azioni accettando l'offerta della Bombrini Parodi. Questa società (non statale) rinnovando gli impianti ha ripreso gli operai, aumentandone il numero, cosa che l'IN non era in grado di fare, e dand o loro sicurezza per l'avvenire. Oggi un altro problema travaglia la Sicilia: le piccole miniere di zolfo che producono


ad alti costi si vanno chiudendo o si debbono chiudere. Stato e Regione sono d'accordo nel trovare agli operai altro lavoro più sicuro. Trovare altro lavoro è difficile, non impossibile. Questa è sana politica, non quella di coloro (per lo più abitanti in regioni non meridionali) i quali pretendono di aiutare gli operai facendo assumere allo Stato (attraverso 1'1RI, I'ENI, il FIM et similia) impianti vecchi e nuovi, impianti che divenuti statali non potranno mai fallire, né per mala amministrazione né per crisi, e neppure per eventi disgraziati; acquistano una specie di immortalità: l'immortalità statalista. Questo punto è importante per far notare al Ministro Bo come sia in errore chi crede quanto egli (secondo l'ANSA) ha affermato a Genova in un discorso fatto all'UCID, che la condotta delle aziende a partecipazione statale <<nonè e non sarà mai tale da potere giustificare la stolta accusa di privilegi o discriminazioni a loro favore)).Basterebbe solo il privilegio di non poter fallire, per eccitare gli enti statali a fare una concorrenza sleale verso le imprese similari private, così da imporre un monopolio di fatto non badando a spese di pubblicità e accaparrandosi il maggior numero dei giornali possibile o creando propri giornali. Se il ministro Bo si dà qualche sera la pena di ascoltare alla radio la «Ventiquattresima Ora» apprenderà quale propaganda viene fatta dall'ente statale (RAI) all'ente statale (AGII') dando doni agli intervenuti, e saprà quanta e quale merce (e non solo benzina) questo ente statale mette in vendita nei monumenti stradali costruiti a colpi di milioni e regalando agli ascoltatori della ((Ventiquattresima Ora» oggetti di valore senza limiti. Quale azienda privata si può dare un simile lusso? Potrei elencare altri privilegi per gli enti statali nessuno escluso; ne do un esempio evidentissimo. I1 Ministro del Tesoro ha posto in liquidazione l'ente statale cinematografico, il quale si chiude con il deficit presunto di sette miliardi; può darsi che si tratti di cifra maggiore. Se fosse stata un'impresa privata, gli azionisti, ai primi deficit di bilancio, avrebbero provveduto con un aumento di capitale owero con la liquidazione volontaria, mentre i creditori avrebbero potuto chiedere la liquidazione giudiziaria. L'ente statale (si voglia o non si voglia) è privilegiato; tira avanti. Quando lo Stato (chi è lo Stato?), cioè un ministro zelante non ne può più, chiude la borsa e ordina la liquidazione, si risentono gli statalisti; protestano i sindacati operai; intricano i profittatori; si preoccupano i creditori. Calma, calma, diranno gli statalisti; che lo Stato si accolli il deficit; rifaccia un altro ente simile al primo; la vita è bella, e la politica.. . bellissima. Nessun amministratore o sindaco dell'ente cinematografico risponderà delle perdite; non si muoverà la Corte dei conti per assodarne le responsabilità amministrative, perché oramai si arriva a sostenere che la Corte dei conti non c'entra; e chi dei tanti funzionari statali si azzarda a denunziare le malefatte? Ebbene, coloro che per il caso della Toscana-Azoto domandano: «cosa ne pensa Don Sturzo?)),sappiano che Don Sturzo è dell'opinione che la legge deve essere q-ualeper tutti; che i responsabili delle malefatte di aziende private o pubbliche debbono rispondere personalmente delle loro colpe e dei loro errori; che k impresepubbliche a tipo privatistiro eproduttivistiro dovrebbero essere affdate a l capitale privato mano a mano che il mercato lo possa permettere. L'esempio della Germania dovrebbe essere seguito in Italia. P.S. -Un amico mi viene a dire e un altro mi telefona che il comunicato ANSA sul discorso di Bo a Genova non corrisponde a quello che egli ha detto; ho loro risposto che attendo di leggere il testo del discorso per dargliene atto; intanto sarà bene che il Ministro Bo smentisca il servizio della suddetta Agenzia.

Il Giornak ditalia, 20 aprile 1 958


Libertà integrale e indivisibile2*

La Malfa mi accusa di non avere deplorato i ministri liberali dell'Industria Villabruna e Cortese; mi è facile rispondergli di averne io parlato al Senato e scritto varie volte nei miei articoli anche recentissimi e non in senso favorevole. Si può fare con La Malfa un dialogo o anche una polemica, senza che egli abbia accertato prima i fatti in modo da poterli valutare esattamente? Per giunta egli riprende da altri il facile accostamento (anzi accomunamento) della mia polemica antistatalista, che rimonta a più di mezzo secolo fa, mai interrotta, anche vivendo all'estero, con quella puramente economica dell'on. Malagodi di questo periodo pre-elettorale, e perfino con quella del presidente della Confindustria che rappresenta interessi di settore e non ha responsabilità parlamentare. Infine, se io lo richiamo alla problematica della libertà integrale e indivisibile rifacendomi anche alla libertà scolastica, La Malfa si dichiara d'accordo con Malagodi per la scuola di Stato; se parlo della libertà artistica e culturale quasi mi accusa di ingenuità. Eppure l'on. La Malfa dovrà convenire che la base di ogni libertà è nella libertà culturale, scolastica compresa. Se lo Stato vuole fare il dirigista in tali settori, awilisce la cultura, mortifica lo spirito, crea le premesse di ogni più degradante statalismo e la base di ogni dittatura aperta o larvata. Non si è accorto egli che la Russia non ammette cultura extra statale? E che cosa han fatto rutti i dittatori, Napoleone compreso (a ricordare il più grande dei moderni), se non assicurarsi in mano la scuola e la accademia, l'università e la Chiesa, anche la Chiesa, elemento integrante della stessa società civile, lo vogliano o non lo vogliano La Malfa e i laicisti? Costoro non troveranno mai che un Paese dove non è penetrato il soffio della civiltà cristiana sia, o possa essere, libero e democratico. E se La Malfa e altri mi citano Atene e Roma dell'epoca pre-cristiana, risponderò loro che Atene e Roma avevano liberi fino a un certo punto solo i privilegiati (e lo seppe Socrate); la massa di schiavi e di ilori e di popolazioni senza diritto di cittadinanza costituivano la stragrande maggioranza; allora i filosofi potevano discutere se quei meschini e reietti avessero un'anima umana. Scuola libera, cultura libera come in America, come anche in Inghilterra, nel Belgio, Olanda, nella Svizzera. Allo Stato il compito propulsivo, integrativo, di garanzia per I'osservanza delle leggi sanitarie e degli obblighi della prima istruzione. Non lo Stato monopolizzatore dei titoli di studio; non lo Stato che impone programmi e limiti scolastici; non lo Stato che accentra tutte le scuole sotto unica disciplina; non lo Stato che mette pastoie al libero insegnamento, lo contrasta e lo degrada. Le offese alla libertà della scuola in Italia durano da un secolo; con il correre degli anni sono aumentate le competenze della buro-

Ad una lettera di adesione e di plauso al suo operato così Sturzo rispose il 9 maggio 1958 al prof. don Vincenzo Nicoletti di Cosenza: ie sono doppiamente grato, sia della lettera affettuosa e incoraggiante in uno dei più difficili momenti della vita nazionale; e della occasione che mi dà per esprimerle tutta la mia affettuosa gratitudine e il mio caro ricordo delle sue visite e delle sue attenzioni. Abituato alle lodi e agli attacchi, - oggi in cene vignette contro di me il disegnatore ha superato i fascisti di un tempo - prego Dio per la mia e nostra valle verso la nostra patria celeste. Una cordiale strema di mano Luigi Sturzo. In: kL.S., b. 564, fax. d n . e 1. pubbl. del Prof. L. S.", maggio 1958.


crazia statale e sono state annullate perfino le competenze civica e municipale in materia di scuole elementari. Oggi tutti parlano della decadenza delle Università italiane nonostante i grandi nomi di chiarissimi professori. L'abbandono di ogni disciplina; la compiacenza dei dirigenti aile assenze di alunni e di professori, molti dei quali non risiedono in loco o non hanno veri e continui contatti con gli scolari in singolo e con la scolaresca al completo; il numero eccessivo degli iscritti senza aule e attrezzature scientifiche sufficienti sono gli effetti più palesi dello statalismo accentratore e inefficiente. Il continuo cambiamento di sede dei maestri elementari e degli insegnanti medi toglie alla scuola autorità ed efficacia; l'impiegatismo e il carrierismo sopraffanno la concezione della missione educativa dell'insegnante. Non nego che vi siano insegnanti dedicati alla formazione intellettuale e morale dei loro alunni; ma le preoccupazioni di carriere statizzate rendono irrequieto, distratto, dissipato chi deve sempre correre dal provveditore o dal direttore generale per perorare la propria causa, creduta offesa da una strana visione impersonale e minuta della regolamentazione, nonché degli enormi ritardi dovuti alla soffocante centralizzazione burocratica. I tentativi fatti per il decentramento e una certa agilità di iniziative nel campo dello insegnamento professionale debbono avere il collaudo della prova; ma si tratta di iniziative marginali. La struttura, con poche modifiche, è sempre quella del periodo fascista. In questi giorni si riuniscono in Campidoglio rappresentanti della scuola libera a prospettare il loro punto di vista sui vessati problemi scolastici italiani. Non si tratta solo di stipendi e di carriera; si tratta di poter respirare aria libera in un libero paese; si tratta di realizzare quel minimo di libertà che la Costituzione concede in questo campo, e che è inferiore alla libertà di paesi a lunga esperienza democratica. Fino a che avremo scuole e programmi di Stato, si moltiplicheranno i motivi e la prassi della concezione statalista; la reazione di gruppi e di categorie sarà senza mèta in un ordinamento pieno di vincoli, di gerarchie, di consultazioni, di lentezze, di pastoie che soffocano nella formalità ogni idealità e ogni speranza. Dalla concezione statalista della scuola si è passati alla cultura artistica di Stato: i SOvrintendenti dei teatri nominati dal governo; una direzione !generale alla presidenza del Consiglio per i teatri e le cinematogafie come ai tempi del Minculpop; la RAI monopolio di Stato orienta musicisti e artisti; la Biennale di Venezia anch'essa tra commissari e delegati statali regola le preferenze del gusto nella musica, nella pittura, nella scultura. Si è arrivati ad una specie di discriminazione statale fra le correnti di arte; oggi i figli della luce sono gli astrattisti o i dodecafonici; gli altri sono i figli delle tenebre. Possibile che I'infezione statalista debba arrivare a questo punto? Ebbene: scuola, monopolio di Stato; cinematografia e televisione, monopolio di Stato; esposizioni, monopolio di Stato; lo spirito della cultura italiana è impregnato di statalismo e si orienta verso il marxismo e la dittatura marxista; l'intrigo politico subentra alla libera scelta; la coterie (anche dottrinaria), la consorteria (anche subentrano nel campo della cultura alla libera espressione spirituale del pensiero e deil'arte. Che cosa fece il fascismo se non assoggettare la cultura creandosi perfino un'accademia propria? E ora siamo daccapo: statalismo liberale nel periodo post-risorgimentale; statalismo fascista; statalismo demo-repubblicano, è sempre la stessa solfa: la libertà è offesa e la democrazia compromessa. Oggi tutti i pensatori (anche coloro che non ~ensano),laici o no, sono per lo statalismo in economia; sono per lo statalismo in tutta la vita civile; sono per lo statalismo per dare impiego e pensioni a tutti gli italiani, compresi i lattanti; naturalmente lo sono anche


per la scuola, per l'arte e lo sarebbero per la Chiesa come ai tempi della riforma che i laici di oggi presentano in carattere liberale. Qual meraviglia se il Malagodi e gli altri perderanno in partenza la loro lotta contro lo statalismo, perché desiderano la libertà per settori? E quale servizio essi non fanno ai sinistri di tutte le specie, quando avranno assoggettato la cultura allo Stato? Se domani si formerà un fronte popolare che va da Carandini a Togliatti, chi potrà rivendicare la libertà politica e in nome di che cosa? Gli statalisti della cultura faranno come i dirigenti della Biennale; preferiranno la pittura e la musica sinistrorsa; così gl'insegnanti delle scuole elementari e secondarie dovendosi preoccupare della carriera; così tutti coloro che vogliono passare dai ruoli transitori (tanto della carriera che della vita) alle cattedre e ai posti fissi di ruolo ordinario e straordinario, in nome non del merito, né della libertà, ma per meriti politici da far valere presso i tribunali del fronte popolare. La via è stata aperta dai precedenti regimi; mai governi della Repubblica, sia per debolezza organica, sia per incosciente adattamento, sia per la prevalenza sull'economia del cosiddetto sociale (che non è tale che per presupposto sinistreggiante), hanno trascurato i doveri verso la libertà ingolfandosi nelle strutture stataliste che fanno crepe da ogni parte; segno questo di un disfacimento morale e civile che fa paura.

Il Giornale d'ltalid, 23 aprile 1 9 58

L'orientamento elettorale Dopo un mese di numerosissimi e lunghi discorsi elettorali, di programmi vistosi, dichiarazioni ed interviste a tutto spiano, il disgraziato elettore non si è potuto orientare. Nenni col sì e no, entra ed esce, partito che divide e sindacato che unisce, vuole allo stesso tempo mostrarsi indipendente e tenersi legato, in modo da conquistare i voti degli indipendentisti a danno di Saragat e i voti dei carristi con il compiacimento di Togliatti. L'uomo del doppio gioco non si smentisce mai. Purtroppo il mito Nenni è coltivato dalla sinistra d.c., proprio dai giovani, i quali per la loro età, dovrebbero sentirsi distaccati da un vecchio mito oramai caduto in discredito presso tutti i socialismi europei. Il delegato nazionale dei giovani d.c. Celso Destefanis, facendo un'analisi sottile e tendenziosa dell'azione e del programma del PSI arriva alla conclusione che «l'ipotesi di una collaborazione futura con il PSI è tutt'altro che negativa per la democrazia cristiana))e aggiunge: aTristano Codignola affermava su Politica che I'accord o non giovava ai socialisti, il che non è vero perché esso è anzi necessario per i socialisti; ma non è certo un delitto ammettere che un incontro possa essere giovevole per ambedue le parti)). Questa prosa cauta ed esplicita, ipotetica ed assertiva, non sembra quella di un giovane esuberante ed idealista; tanto è vero che l'articolo finisce con questa battuta: (<Poiché tuttavia la politica è fatta anche in condizioni difficili è bene tener presente che, in una diversa situazione parlamentare, il ruolo del PSDI, quale indispensabile complemento e copertura ad una collaborazione con i socialisti, risulta estremamente importante)). I1 Destefanis con questo involucro di parole e di immagini indica alla DC la via come servirsi di Saragat (quale copertura) per arrivare a Nenni. I sinistri d.c. non ne fanno parola nei loro lunghi articoli, ma il punto sine qua non è


tenuto presente: Nenni mantiene intatta con i comunisti l'unità sindacale ancorata alla colleganza; è impossibile, Novella o non NoCGIL dove PSI e PCI si trovano in vella, pretendere che Santi se ne distacchi costituendo un doppione dell'UIL, perché andrebbe incontro ad un fallimento. Dunque silenzio; chiudere gli occhi; non parlarne; ipotizzare una collaborazione con Nenni sul terreno parlamentare come se il distacco del PSI dal PCI fosse effettivo; non ostante il gioco di parole di Nenni e la nebbiosa prosa di tutti i giovani Destefanis. È in questo clima sinistrorso che deve farsi la unione dei cattolici contro il pericolo social-comunista-laico-frontista, mentre si sviluppa la polemica degli ex alleati del quadripartito? I repubblicani fanno la campagna anticattolica più che anticlericale; i socialdemocratici accusano e sono accusati degli errori del passato e pensano a divenire partito di alternativa di governo; i liberali sono montati sul cavallo di Orlando come se l'unico loro obiettivo fosse lo sfaldamento della Democrazia Cristiana. Ho letto in questi giorni la prosa di chi ha voluto attribuire a Giolitti il merito di avere portato i cattolici nella vita pubblica sotto l'insegna del patto Gentiloni. Questa interpretazione è poco più che antistorica manca di base psicologica, base necessaria alla stessa interpretazione storica dei fatti. I1 meno che Giolitti sognava era quello di divenire un conciliatorista, egli il teorico delle parallele fra Stato e Chiesa; ma il calcolatore Giolitti dopo avere introdotto il suffragio universale maschile, non volendo restare prigioniero delle sinistre, cercò cautamente l'appoggio dei cattolici ai candidati clerico-moderati e a quei liberali che fossero rispettosi della Chiesa; l'accordo Gentiloni fu eseguito collegio per collegio dagli elementi locali, con quella benevola attenzione del Ministero dell'lnterno che gli abili prefetti sapevano rendere efficiente. Tanto ciò è vero che di cattolici militanti (li chiamavano così) furono eletti sì e no poco più di una dozzina, dei quali un certo numero di seconda legislatura; mentre clerico-moderati e liberali eletti con i voti dei cattolici e la dispensa del non expedit arrivarono ad un centinaio o poco più, quasi tutti del Centro e dell'alta Italia. I1 Mezzogiorno diede quattro o cinque cattolici, fra i quali il Rodinò e il Pecoraro, e una diecina sì e no di gentilonizzati; ma nel Mezzogiorno più che il patto Gentiloni valevano i metodi giolittiani, per i quali né i prefetti né le amministrazioni comunali se la passavano liscia; altri tempi, altri costumi. H o citato questo episodio dell'antisocialismo dell'epoca, perché io in quel tempo, pur di rompere la coalizione clerico-moderata che intristiva le speranze di un vero partito di cattolici che non fosse un partito cattolico, fui opposto all'accordo genriloniano pur mantenendomi estraneo, e altri con me, alla lotta elettorale. Questo precedente non ha niente di simile con quello delle sinistre d.c. di oggi sia perché appartandomi non disturbavo nessuno; sia perché allora non esisteva una Russia che guida, polarizza, finanzia i partiti comunisti dell'occidente e fa, a mezzo di essi, una politica internazionale e interna a danno delle libertà democratiche e della pace internazionale; sia perché allora non esisteva un vero pericolo socialista pronto a prendere il potere; l'unica preoccupazione era la caduta di Giolitti, caduta che poi avvenne con mia piena soddisfazione. H o scritto quanto sopra per evitare che si porri tale precedente ad esempio per convalidare la politica della sinistra d.c. Oggi non è così; il pericolo socialcomunista incombe; il laicismo anticlericale monta ed è perfino disposto ad allearsi a tutte le sinisrre pur di eliminare la DC dal potere; le libertà democratiche sono in pericolo; lo strapotere di imprese economiche tipo ENI ed IRI e simili aumenta. In tali condizioni lo stesso ipotizzare un'intesa DC-PSI, cioè Fanfani-Nenni, proprio durante la campagna elettorale, conduce non solo a perpetuare l'equivoco ma anche a fomentare contrasti fra gli stessi democristiani.


Notai nel mio articolo Statalismo e confusione di idee l'atteggiamento di un redattore di Aggiornamenti sociali di Milano: ora debbo rilevare quello di un altro redattore del Meridiano I 2 d i Torino dove si possono leggere non solo periodi di un ingenuo statalismo, ma anche frasi come queste: «Nulla è più pericoloso per la borghesia ricca e ricchissima di cui Mondo e Espresso sono esponenti, di un accordo DC-PSI; nulla del pari è più odioso ai comunisti che risulterebbero isolati. D'altra parte la "base" PSI è di solito di tradizione anticlericale. Creare delle ragioni per un nuovo divampare dell'odio anticattolico da un lato, del risentimento contro i nemici della Chiesa dall'altro, è ciò che tatticamente conviene insieme ai radicali ed ai comunisti giacché può impedire ogni evoluzione del PSI verso un accordo con i cattolici)).Le sottolineature sono mie, ma l'idea di un vantaggioso connubio PSIcattolici è del giornalista. Lo rilevo sia per la diffusione del Meridiano 12presso la gioventù sia per l'ingenua credenza che un partito come quello di Nenni possa riuscire vantaggioso ai cattolici. È il colmo. La frase fanfaniana: che la D C esclude la collaborazione con gli amici dei nostri nernici, classificando nemici solo i comunisti e amici dei nemici i nenniani, potrebbe essere interpretata come equivoca; però è buon segno che da parecchi giorni il Popolo scriva contro il pericolo socialcomunista. Non può aver credito un Nenni che si proclama autonomo dai comunisti ma vi collabora, resta sempre legato alla CGIL, egli di professione classista e statalista al cento per cento, neutralista in politica estera, e ora anti-mercato-comune per via degli «agrari che cercano di utilizzare il MEC a loro vantaggio* (vedere l'Avanti!per ridere). L'evoluzione di Nenni, auspicata dagli ingenui di Torino che cosa è mai se non equivoco? è lo stesso equivoco della sinistra d.c. che tende ad escludere dalla coalizione di governo i liberali e accetta il PSDI come copertura per arrivare a Nenni. La verità è che quando Malagodi insiste nella lotta alla D C tende a guadagnare voti dc dal ceto medio; quando Saragat insiste sulla posizione dell'unificazione socialista (senza averne la possibilità) tende a mantenere i voti della sinistra del suo partito e forse a guadagnare qualche voto fra gli elettori incerti; non più di questo. Ma quando Nenni afferma la sua linea politica di alternativa (cioè con l'esclusione della DC dal potere) vi deve includere necessariamente i comunisti e gli utili idioti. Meminisse iuvabit.

Il Giornale d'Italia, 29 aprile 1958

Libertà c ~ n d i z i o n a t a ~ ~ Contesto a La Malfa la sua ((storia));il Belgio nel 1830, a grandissima maggioranza cattolico, divenne libero perché si staccò dall'olanda in maggioranza protestante e non libe-

"

Sul tema della libertà scolastica pubblichiamo le seguenti lettere: Lettera del 3 m io 1958 all'on. Ferdinando D'Ambrosio: Caro ~'A%osio, Ti invio i miei due anicoli suUa libertà scolastica perche tu sei uno dei pochi che in Parlamento l'hai affermata quale elemento indispensabile del vivere civile e come una delle più sentite esigenze della concezione cristiana della società moderna.


ra. I1 moto nazionale fu guidato da cattolici confessionali e da cattolici liberali, molti di qiiesti ultimi anch'essi cattolici praticanti, come allora ce n'erano anche nell'ltalia del Risorgi-

Proprio in Italia la libertà scolastica è la più trascurata non solo negli ordinamenti della scuola pubblica, ma nella stessa attività politica del Parlamento, nell'opera di difesa e rivendicazione dei diritti della famiglia. Vorrei dirti quel che diceva S. Paolo a Timoteo: .insisti a tempo opportuno ed anche non opportuno, confuta, sgrida, esorta con grande pazienza e desiderio di insegnare,);perché tu conosci bene i problemi della scuola e ne sei esperto per vocazione spirituale e per impegno professionale; e tu, quale ra presentante del popolo al Parlamento, devi continuare a rendere testimonianza alla libenà della scuola e ne% scuola. Non nego il dovere dello Stato ad intervenire in questo campo con tutti i m a i adatti alla elevazione del opolo nei vari gradi del sapere; affermo anzi che il campo della istruzione ed educazione infantile e giovanile e ro sviluppo della cultura debba essere messo al primo orto. Nego solo che possa la istruzione essere monope l i m t a dallo Stato; nego che lo Stato possa divenire pe8agogo ed educatore e sostituirsi ai genitori, ai maestri ed ai sacerdoti; i rimi per diritto naturale, i secondi per missione civica, i sacerdoti per apostolato cristiano. Ma percRé la libertà scolastica sia veramente generatrice di progresso e sviluppi la rnerosa ara fra le stesse scuole private e pubbliche e tutte libere. occorre che I'autodiwiplina tonizzi l'opera efucativa ~eglegl.insegnanti e la fìduciosa adesione defli ,alunni.~L'autodisciplinai quella che fa difetto a noi italiani, istintivi, esuberanti, fantasiosi, intolleranti, in ividualisti come siamo; ma per queste qualità, positive e negative allo stesso tempo, I'autodisciplina una volta compresa e apprezzata, costituisce il mezzo più adatto per rendere utili e vantaggiose le nostre stesse qualità negative. Caro D'Ambrosio, tu sai bene uel che ti scrivo e non occorrono per te incoraggiamenti; la mia parola vuole essere un segno di cordiale soli~ariethper l'opera da te svolta sia nella scuola sia nel campo organiwtivo e politico della tua Napoli, alla quale, nel mio affetto e nei miei tanti ricordi imperituri di oltre mezzo secolo, mando il più fervido saluto. A te, ai tuoi amici e colleghi di idealità e di lotte, un incoraggiamento e un augurio Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L.S.», maggio 1958. Lettera del 9 maggio 1958 all'on. Igino Giordani: Caro Giordani, T i sono grato della lettera del 3 correnre per il mio articolo sulla libertà scolastica, una delle tante libertà dimenticate e calpestate. Ignoranza? si; diseducazione? sì; disinteresse dei problemi dello spirito? purtroppo sì. T u che sei stato e sei tuttora con la penna in mano, potresti fra i tanti volumi tuoi aggiungerne uno sul problema scolastico in Italia? uno di quei ibri che si leggono, e non di quelli che si dimenticano? Cordialissimi saluti Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 564, fasc. (<Art.e 1. pubbl. del Prof. L.S.», maggio 1958. Lettera del 14 novembre 1958 al ministro della Pubblica Istruzione, on. Aldo Moro: Caro Onorevole Ministro, Vedo che è all'ordine del giorno del Senato l'interpellanza di Montagnani e altri circa il numero chiuso introdotto al Politecnico di Milano e all'Istituto Orientale di Napoli. Dal punro di vista didattico il prowedimento è necessario, urgente e approvabile senza eccezioni e per tutte le università, con l'obbligo agli alunni della frequenza costante tranne casi eccezionali e non prolungati di forza maggiore (malattia). Dal punro di vista giuridico, mi sembra non applicabile al caso I'anicolo 34 della costituzione il quale non pub essere interpretato altrimenti che come adeguazione del numero delle scuole alle esi enze e ai numero dei diwenti. secondo l'età, la capacità, la opportunità di avviamento. Che se tutti gli stujenti universitari volessero prendere la laurea di legge e fare gli awocati, escludo che lo Stato sia obbligato a mettere una facoltà di legge per ogni città su eriore a 10 mila abitanti. Cib ti scrivo, chie8endo scusa del mio ultroneo intervento epistolare non potendo purtroppo trovarmi presente al Senato nella seduta del 18 corrente. Spero che nella tua autorevole posizione di Ministro non abbi a biasimare i capi istituto che hanno introdotto il numero chiuso; tu sai bene che nelle università estere il numero chiuso è di regola; pensa che in mezzo secolo i medici laureati negli Stati Uniti non sono aumentati (a quel che ricordo) più del 10 per cento, con vantaggio (secondo me) della salute generale di quel paese. Cordialmente Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 563, fasc. ~Arr.e I. pubbl. del Prof. L. S.», novembre 1958.


mento, a cominciare da Ruggiero Settimo e il canonico Ugdulena della mia (o nostra) Sicilia, come erano Cesare Balbo e molti altri in Piemonte. La storia del nostro Risorgimento va riveduta; non abbiamo bisogno di trovarci eredi dei protestanti per avere le libertà. La questione scolastica nel Belgio (come in Francia) rimonta a Napoleone il quale instaurò la scuola di Stato monopolizzata. Se nel Belgio, già risolta una prima volta, la questione scolastica ritorna oggi di nuovo, è per lo spirito settario del governo socialista-liberale,spirito settario che ha avvelenato per più di un secolo la politica scolastica francese e italiana. La Malfa non può comprendere tale problema e neppure Malagodi, il quale ammette una scuola libera ma senza diritti e senza mezzi. Io non amo i sussidi per la scuola libera e vi rinunzierei se si introducesse in Italia quel che esiste in America, sia la possibilità di dare diplomi e certificati senza il controllo e il beneplacito dello Stato per la loro validità; sia l'abbuono fino al 15 per cento di tutte le tasse (che là sono conglobate nell'incom tax) a coloro che danno l'equivalente a opere di carità compresa la scuola di qualsiasi tipo. Per giunta, negli Stati Uniti si concedono borse di studio, si danno incarichi di ricerche da parte degli Stati o del governo federale alle varie scuole quali che siano senza alcuna discriminazione politica. Malagodi, riferendo ai liberali il merito di essersi opposti in nome della Costituzione (comma 3 dell'art. 33) al disegno di legge del ministro Rossi sulle scuole private, mi fa ricordare il mio articolo dedicato a E. Corbino dal titolo: Una cattiva azione». Malagodi leggendolo vi troverà molte cose interessanti forse da lui ignorate; lo cerchi nella collezione Zanichelli - Opera Omnia - «Politica di questi anni» (1 946- 1948) pagine 23 1-236. La questione della costituzionalità, onorevole Malagodi, è fuori posto per un partito che per dieci anni ha impedito l'attuazione delle regioni ordinarie che la Costituzione ha sancito, dando il termine di un anno. Questioni marginali queste? Niente affatto; questioni che incidono nella vera concezione della libertà quale va sostenuta e difesa. Purtroppo, sia in nome della socialità o in nome della cultura, sia in nome della sicurezza dello Stato o in nome della partitocrazia, la libertà in Italia va perdendo figura e valore, restandone quasi solamente l'apparenza formale. La nostra può dirsi libertà condizionata, in quanto la condizione serve a limitare, mortificare, eludere, e in non pochi casi, come quello della scuola, annullare la libertà. La Malfa non deve avere molta fiducia nella libertà della scuola. Se si desse la pena di valutare storicamente il grande contributo dato dall'ltalia alla cultura scientifica e giuridica, letteraria e artistica di ogni tempo fino all'unificazione nazionale, non potrebbe attribuire il merito al monopolio della scuola di Stato che allora non esisteva. Se anche in Italia le masse erano allora analfabete - e solo le scuole religiose davano un po' di istruzione popolare - bisogna convenire che l'analfabetismo degli ultimi cento anni in rapporto alle esigenze della vita moderna può dirsi maggiore per colpa dello statalismo scolastico. In regime libero lo Stato deve integrare non assorbire né umiliare né rendere ineffettiva l'iniziativa privata. Le due colpe dell'Italia unificata sono state quella dell'accentramento statale, definitivo e completo sotto il fascismo, e quella del monopolio dei titoli. Motivo: lo Stato si difende; da chi? dai suoi cittadini che non credono allo Stato? L'errore di molti, in periodo di lotte nazionali, fu quello di volere uno Stato che soppiantasse la Chiesa, basandolo, quale un progresso del secolo dei lumi, sulla concezione a-religiosa della vita. La Chiesa fu combattuta e perfino oltraggiata, creando un clima artificioso, quello di una rivoluzione anticattolica e massonica che per un cerco tempo, nel nome sacro della patria e della Italia-una, si impose e dominò. Allora v'era di mezzo la questione del potere temporale, questione che i cattolici conciliaroristi del tempo e i liberali moderati avrebbero volu-


to risolvere; ma non certo la sinistra zanardelliana, non i massoni di Adriano Lemmi, né i repubblicani di Barzilai, né i socialisti di Bissolati. La scuola continuò ad essere monopolizzata: la legge Casati fu modificata in peggio. Ricordo la riunione del 1912 a Pisa dove mi incontrai per la prima volta con G. Gentile e ci trovammo uniti a sostenere, come primo spiraglio di libertà, l'esame di Stato, nel tentativo di equiparare la scuola statale con la scuola libera. Ricordo questo primo inizio del '12 per fare rilevare a Malagodi che l'accordo Giolitti-Croce del 1920-21 (Croce mantenne I'impegno, Giolitti no) non fu un punto di arrivo e di stasi, come egli lo concepisce; ma solo un punto di partenza. Dopo venne il fascismo, la pseudo-riforma Gentile, il passaggio della scuola elementare allo Stato, tutte scuole a finalità fasciste; Concordato e scuole cattoliche servivano a temperare, in qualche modo, il completo monopolio politico della scuola. L'Istituto Alfieri, la Bocconi e l'università Cattolica nel 1933 per conferire titoli accademici dovettero passare sotto le forche caudine dello Stato. Oggi si è arrivati al punto che le due facoltà istituite dalla Regione Siciliana, l'Agraria presso l'università di Catania e la Commerciale presso quella di Messina, per potere ottenere il riconoscimento dei diplomi fuori della cerchia regionale, han dovuto essere, pur a carico della Regione, riconosciute quali facoltà di Stato. Si cade nel ridicolo con lo statalismo scolastico che ossessiona burocrati e politici. Su questo terreno non possiamo intenderci né con i La Malfa né con i Malagodi; il primo teme «il pericolo dell'educazione dogmaticafi della scuola confessionale; Malagodi teme il pericolo della scuola in mano ai comunisti. La verità è che l'uno e l'altro, a parte l'esagerazione di pericoli inesistenti o controllabili, hanno paura della libertà; e non si rendono conto che vale più la libertà con le dure esperienze che impone, dovendosi la libertà riconquistare ogni giorno, anziché la menomazione della libertà alla mercè dell'amministrazione statale. Malagodi che teme i comunisti nella scuola privata, ignora quanti comunisti e filocomunisti insegnano nelle scuole pubbliche indisturbatamente. La Malfa che parla di scuola di Stato come «condizione per sottrarre i giovani al pericolo di una educazione dogmatica)), fa solo dell'anticlericalismo e del nominalismo anarcoide, sostenendo l'educazione di Stato, come se lo Stato fosse persona reale che abb'ia coscienza e responsabilità individuata. Lo Stato è amministrazione e non ha filosofia; lo Stato crea scuole non per imporre un tipo di educazione né per eliminare la scuola privata, ma per sopperire alle deficienze economiche della scuola privata. È bene tener presente che tutte le scuole debbono essere libere, anche quelle fondate e curate dallo Stato: uguali nei diritti e negli obblighi tutte le scuole così da entrare in gara per valore educarivo, per qualità didattiche e scientifiche. In America le facoltà di medicina di Baltimora, della Georgetown University di Washington e di quella di St. Louis sono fra le più famose e ricercate; due di queste sono in mano a Gesuiti; chi mai si è accorto in tali università del dogmatismo che ci viene a raccontare il signor La Malfa? Quel La Malfa che, pur avendo avuto l'esperienza personale della educazione e della scuola fascista, oggi si fa difensore dei diritti dello Stato contro la libertà del cittadino; quel La iMalfa che non tiene conto che I'educazione spetta ai genitori per obbligo e diritto naturale; ai maestri per alta funzione morale e civile; ai sacerdoti per missione divina verso i credenti di una fede. Lo Stato non può pretendere di fare l'educatore; tanto più che oggi Stato e partiti scambiano poteri e posizioni. La partitocrazia ha già infestato gli organismi statali e gli istituti democratici e non manca di penetrare nelle scuole con danno sicuro della educazione. Solo la libertà rispettata e difesa potrà salvare l'Italia e la democrazia. La Malfa mi richiama alla sua idea di mettere da parte il problema scolastico e torna-


re a quello economico parlando di Erhard e della Germania. Sì, ne parleremo, ne stia sicuro; ma prima bisogna intendersi sulla libertà integrale, rigettando in ogni suo aspetto la libertà condizionata. Fino a che La Malfa mette lo Stato contro la libertà nei settori che egli crede monopolizzabili, compresa la scuola, ogni discussione sarà vana e sterile. Saranno altri che troveranno il minimo comune denominatore per intendersi. Ma questi altri non saranno i democratici, laici e non laici; saranno gli statalisti+classisti+marxisti+comunisti;ma il loro minimo comune denominatore sarà la dittatura.

Il Giornale ditalia, 3 maggio 1958

La scelta e le scelte30 La scelta è quella del partito (o contrassegno); le scelte sono quelle dei candidati cui accordare la preferenza. Peccato che non sia stata accettata dalla Camera la proposta di adottare, con le modifiche del caso, il sistema elettorale del Senato; si sarebbero così evitate «le scelte,, e, peggio, la lotta intestina tra i candidati della medesima lista. È penoso assistere allo spettacolo di intrighi, corruzione, diffamazione reciproca fra i candidati di tutte le liste e di tutte le circoscrizioni dalle Alpi al Lilibeo. Non c'è di peggio per la diseducazione del corpo elettorale e per la deformazione politica del cittadino che una periodica e quasi annuale iniezione di passioni e interessi così volgari e degradanti. Spero che dopo quattro elezioni politiche (compresa quella per la costituente), dopo tre elezioni comunali e provinciali, a parte le regionali, il futuro Parlamento si indurrà a dare al Paese leggi elettorali rispondenti ad una più libera e meno incoerente partecipazione dell'elettorato alla vita democratica e più adatte a formare maggioranze efficienti, tali però da rendere possibile l'alternativa democratica al governo del Paese. È da notare che i militanti di un partito, o anche solamente iscritti, hanno per ciò stesso fatto la loro scelta. Vi saranno le anime tormentate, gente di natura incerta; non mancheranno gli offesi per torti che credono di avere ricevuto dai dirigenti; così il personalismo non manca, anzi sovrabbonda. Comunque, si può ritenere più che esatta, abbondante la cifra di otto milioni di elettori iscritti ai partiti. Ne resteranno più di venti milioni di votanti che dovranno fare la loro scelta. Simpatie di destra; simpatie di sinistra; simpatie a singoli partiti, a correnti, frazioni, gruppi; e più che altro simpatie personali guideranno gli elettori. Il problema in realtà è più semplice di quanto non si pensi: il difficile è mettere in rapporto la scelta con la possibilità di formare un governo. Se i partiti più forti - DC al centro e PCI +PSI a sinistra - non potranno ottenere, come è scontato, la maggioranza assoluta, gli altri aggruppamenti sono pregati di dirci con quale partito vorranno essi marciare; con la democrazia cristiana o col PCI +PSI? Dal dilemma non si scappa.

N

Lerrera del 6 maggio 1958 all'on. ~ r o fCarmelo . Carisria: Carissimo ~ a r i s t E , È superfluo per me augurarti il ritorno al Senato, ai cui lavori legislativi hai per dieci anni coliaborato con comDetenza. rettitudine e assiduirh; l'occasione di auesra lettera mi è data d d a canea antidericale che si è levara 'contro l'appello dei Vescovi ai fedeli sulle prosiime elezioni, come se fosse stato leso il diritto degli eleno-


Risponde Saragat: io voglio l'unificazione socialista; ciò vale a scopo elettorale; ma cinque anni di discussioni non-sono passati invano; lo stesso Saragat riconosce in cuor suo che l'intesa con Nenni sarà più difficile dopo le elezioni che nonsia stata nel passato quinquennio. In sostanza, Saragat deve ancora fare la sua scelta; così Malagodi; così i radicorepubblicani a meno che questi ultimi non vogliano adottare la politica del tanto peggio tanto meflio - passando a sinistra, ovvero preferiscano il monocolore DC per far corrodere il partito di maggioranza relativa fino a quando non riterranno possibile una concentrazione laica. Si tratta però di velleità di partiti piccoli che credono di poter pesare più di quanto valgono. Non pochi vanno soffiando nel subcosciente anticlericale della borghesia italiana, pensando che aiutati dall'anticlericalismo delle sinistre,- Dossano suscitare i vecchi odi e i vecchi rancori. Il caso del Vescovo di Prato e altri fatti locali sono stati messi in tragica luce, come se stesse in pericolo la indipendenza dello Stato. Figurarsi che cosa soffianooggi con il comunicato dei Vescovi circa il dovere del cattolico di votare e di votare in modo da salvaguardare gli interessi religiosi del Paese. Ricordo la lettera di Leone XIII ai cattolici francesi. consigliante loro l'adesione alla repubblica. Le ire dei monarchici e il risentimento di parte dello stesso clero furono notea da un prete francese, con il quavili. Due anni dopo, nel 1894, trovandomi io a ~ o m ébbi A

V

ri a votare secondo coscienza o fosse stata menomata la indipendenza dello Stato o fosse stata violata la lettera e lo spirito del Concordato. Il vecchio fondo antiecclesiatico dei giurisdizionalisti dell'ancien regime unito all'anticlericalismo dell'ottocento riappirc anche oggi adimostrare che la nostra democrazia ha ben lunga strada da fare per affermarsi veramente i era dai pregiudizi del passato. In gran parte è questione di cultura, non esclusa la paura di un pericolo inesistente elevato a mito. Tu, caro amico, che con i tuoi scritti documentati, originali e caustici hai tolto dal piedistallo un Pietro Giannone, le cui opere per due secoli han fatto testo per la «cultura,, anticlericale, giurisdizionalista, antipapale prevalente e nelle scienze giuridiche e in quelle storiche, hai un titolo di più per affrontare in Senato i nuovi e sempre vecchi teorizzatori della ('libera Chiesa nello Stato Sovranon. Costoro non vogliono una Chiesa veramente libera, ma vogliono lo Stato Sovrano solo quando questo è rappresentato dai partiti che vantano la primogenitura risorgimentale; creando così una differenza di cittadinanza con i partiti di espressione cristiana (il popolare prima del fascismo, il democristiano dopo il fascismo) quasi a titolo di demerito. Purtro po, la concezione dello Stato nella mente dei più 6 deformata da una personificazione mitologica quasi dei cante. Oggi poiché allo Stato si attribuiscono tutte le competenze, si dànno in mano tutti i poteri, nonché la maggior parte delle risorse economiche del paese e si attribuiscono perfino valori s irituali nel campo della educazione e della socialità. risulta conseguente la intolleranza per l'insegnamento di& Chiesa e la sua potestà direttiva nel campo dell'etica. Si arriva, perfino. a non tollerare la critica antistatalista nel campo politico, né quella filosofica nel campo del dirirto naturale, che lo Stato d w e non solo non violare ma rispettare, in quanto promana dalla personalità umana, che sta alla base di ogni vivere civile e di ogni potestà politica. Non voglio offendere la tua modestia né eccedere nella richiesta. Ma tu potrai meglio che altri affermare e sostenere in Senato questa verità nelle discussioni che faranno seguito all'attuale offensiva anticlericale dei laicisti da una parte e dei socialcomunisti dall'altra, offensiva che mira a mettere in imbarazzo il futuro governo e mortificare i cattolici, costretti a bartersi anche su questo terreno insidioso se non vogliono indebolire le posizioni acquistate. Pochi sapranno che tu desideravi ritornare a vita privata, ma io debbo ringraziarti di avere accettato la candidatura ritenendo utile l'opera tua in Senato per la valorizzazione dei nostri ideali di libertà cristiana. Spero che l'elettorato di codesto collegio, che manderà aila Camera I'on. Scelba per riprendere il suo posto di combattimento contro il socialcomunismo e I'on. Di Bernardo er il suo contributo ai problemi di politica estera. ti confermi il mandato di Senatore per riaffermare dalla trituna legislativa con l'autorità della lunga vita di insegnamento universitario le teorie e le esperienze basilari di una vera democrazia. Cordialmente Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 564, fasc. nArt. e 1. pubbl. del Prof. L.S.*, maggio 1958.

R


le discutevo il caso, una risposta impensata: «Sappiate -mi disse sottovoce - che Leone XIII è massone; egli ha secondato i voti dei massoni di Francia. Bisogna stare attenti)). Ma quando Leone XIII nel 1895 approvò la dichiarazione della sacra Penitenzieria che «il non expedit contiene un obbligo* (mentre molti reputavano quale consiglio o suggerimento l'astensione dal voto politico) i conciliatoristi che speravano in Leone XIII (fra Pacifico, cioè P. Tosti, era ancora vivo) ne rimasero delusi e accusarono i cardinali reazionari e la stessa Francia repubblicana ritenuta I'ispiratrice del prowedimento. H o accennato a due interventi di Leone XIII (e non furono i soli) e mi piace ricordare (ne ho parlato in un altro articolo) il patto Gentiloni voluto da Giolitti, consentito da Pio X con la dispensa del non expedit caso per caso, cioè indicando il candidato da votare. Se io fui contrario a quel patto, è ben noto che lo Fui in funzione an~i~iolittiana e meridionalista, mentre stimavo che la sospensione del non expedit fosse già un precedente. Io stesso sollecitai più volte il ritiro del non expeditspecialmente nel dicembre 1918; la decisione si ebbe solo nel successivo novembre 19 19. Per consolare i radico-repubblicani, citerò un altro fatto, awenuto dopo l'ultima guerra nella libera America del nord, esattamente nelle elezioni locali dello Stato di Massachusetts, dove i vescovi cattolici impegnarono i fedeli a votare per i candidati che si fossero dichiarati contrari all'abolizione della legge che vietava la e la diffusione delle pratiche anticoncettive. La battaglia, col voto di parte dell'elettorato protestante, fu vinta; nessuno, che io sappia, gridò allo scandalo e si stracciò le vesti come pare che facciano certi laicisti di nostra conoscenza. E chi non ricorda L'inutile strage di Benedetto XV? Potrei continuare; a che pro? Nessun cattolico mette in dubbio il diritto della Chiesa a dare istruzioni in materia di morale e di religione. Se c'è oggi per noi un pericolo, non solo politico ma anche religioso, è quello del socialcomunismo. Nenni potrà polemizzare quanto vuole col PCI, ma al momento buono Nenni è e sarà col PCI, specialmente se, attraverso il PCI, potrà ritornare al potere. L'attrazione di partecipare al Governo (e non provvisoriamente ma dejnitivamente) gli farà cadere le riserve e le attenuazioni del ti vedo e non ti vedo dell'attuale polemica. I radico-repubblicani faranno in tal caso delle riserve? Può darsi; sarebbe difficile partecipare ad un governo socialcomunista; sarebbe più comoda I'attesa, votando le leggi di statizzazione, anche quelle di limitazione alla libertà religiosa e alla libertà scolastica. Forse da principio la stampa di opposizione sarebbe tollerata, anche perché i giornali conformisti sarebbero così numerosi, da cercare con il lanternino qualche giornale di opposizione laica, per non lasciarne ai cartolici il monopolio. Ma se ci capitasse qualche cosa come quella accaduta al cardinale primate d'Ungheria, si vedrebbe chiaro il pericolo per l'Italia di una dittatura da satellite. Sono ipotesi lontane, le quali, data la politica di certi partitini, vanno avvicinandosi, e come. Torniamo alle elezioni del 25 maggio. Quindici giorni di discorsi, di polemiche, di previsioni, di pressioni, di offerte, di promesse, sono ancora troppo. La gara tra i candidati conterà poco se l'alternativa DC-PCI sarà l'unico problema da risolvere, visto che nessun partito, nessun giornale di opposizione anri-democristiana è stato abile ad identificare una futura maggioranza senza DC. A questo passo ci ha portato una disgraziata legge elettorale, cinque anni di discussione sull'unificazione socialista come il toccasana della situazione e il disfacimento del tripartito alla vigilia delle elezioni. Dall'altro lato, l'imprudente creazione del ministero delle partecipazioni, gli atteggiamenti statalisti da me denunciati, mentre hann o reso un catrivo servizio alla DC sono serviti a fare aprire gli occhi agli operatori economici e agli operai più evoluti sul pericolo di un socialismo classista e statalista, il qua-


le è anche esso dittatoriale e comunisteggiante, non ostante le ripetute affermazioni di libertà e di democrazia. La scelta e le scelte definitive e valide dipenderanno in gran parte da quella minoranza di elettori, forse due o tre milioni, che all'ultima ora si affretteranno a votare. Voglia Dio che essi sappiano valutare il pericolo che si corre e sappiano preferire i nomi di coloro che, come deputati e senatori, sono i meglio orientati e meglio preparati alla lotta contro le sinistre e rispettivi fiancheggiatori idioti, e siano in grado di tonizzare e rendere efficiente la

terza legislatura parlamentare.

IL Giornale d'Italia, 7 maggio 1958

I1 piano di Via Aperta3' «Via Aperta))per un futuro di rinnovazione, sì; ((Piano))non lo chiamerei, non solo per

il precedente del cosiddetto ((PianoVanoni)), poi ridotto a ((Schema))e applicato agli ordinari e normali aumenti statistici annuali (che in quanto tali rappresentano solo un aspetto numerico, e quindi astratto, della realtà concreta), ma anche perché dovrebbe attuarsi in un mondo psicologicamente impreparato e politicamente ostile e diffidente. Né «Piano»né «Schema»;parliamo di proposta Dalle Molle per il trasferimento all'iniziativa privata delle partecipazioni industriali dello Stato. Ottima idea come termine della lotta antistatalista da me iniziata nel 1898, riaffermata col partito popolare nel 1919 e ora finalmente accolta da un largo settore della pubblica opinione. Esempi di tali trasferimenti non mancano, sia in Inghilterra, pur essendo il partito di maggioranza assai cauto nel provvedervi, e giustamente, data l'alternativa dei partiti al governo e le probabilità di un'ondata elettorale a favore dei laburisti. Questi ultimi, da parte loro, convinti dell'errore delle nazionalizzazioni, oggi propendono verso le partecipazioni statali nelle industrie private per poterle (essi dicono) controllare. La Germania tende alla privatizzazione a mezzo dell'azionariato popolare; iniziative simili anche in Austria. Non parlo qui della tendenza americana delle imprese private verso I'azionariato diffuso ed anche verso I'azionariato operaio; si tratta di iniziative che meritano speciale attenzione. Fra i paesi che hanno una larga partecipazione statale nelle imprese private o che hanno imprese statali a tipo privatistico costose, anzi costosissime, perfino fallimentari, metto l'Italia.

Stato e debito pubblico Dalle molle calcola, a occhio e croce, a 5.500 miliardi il valore commerciale delle partecipazioni industriali dello Stato; non vediamo nei bilanci statali un gran che di utili di così enorme capitale; sappiamo solo I'indebitamento, a parte il bancario, quello obRiponiamo di seguito tre lettere di Sturzo che hanno in qualche modo a che fare con lo spirito dell'anicolo e con il problema della privatizzazione delle aziende a partecipazione statale. Lettera del 10 maggio 1958 al prof. cav. Virrorio Valletta di Torino:


bligazionario per lo più garantito dallo Stato. I1 nostro bilancio statale non registra in regolari prospetti profitti e perdite del capitale dato agli enti; ma solo le sovvenzioni e garanzie. Dalle Molle, rilevando che il debito pubblico ascende a 4.800 miliardi, conchiude che se si cedessero ai privati le partecipazioni statali ricavandone 5.500 miliardi si potrebbero coprire i suddetti 4.800 miliardi rimanendo 700 miliardi di attivo; lo Stato si libererebbe così del debito pubblico, con incalcolabili vantaggi, reali e psicologici, e per lo Stato e per l'economia italiana. Egli anche ipotizza la possibilità che gli enti diano un gettito superiore ai 5.500 miliardi. Mi si permetta che io faccia la parte che il difensore della fede, detto volgarmente cardina1 diavolo, fa nei processi di santificazione, presentando tutte le obiezioni che un uomo

Chiarissimo Professore, La ringrazio della lettera del 30 a rile scorso con la quale mi ha inviato la interessante e convincente relazione all'assemblea degli azionisti del& FIAT. Fra i nostri grandi complessi industriali la FIAT, nell'assicurare lavoro a così numerose maestranze, mostra una vitalità e una organizzazione fra le più vigorose e floride, all'interno e d'estero. Auguro che lo spirito di radicata cooperazione fra capitale e lavoro e di libertà di fronte a tutti gli statalismi che turbano la nostra economia, venga riaffermato nella piccola Europa del Mercato comune, superando le difficoltà di ambientazione e vincendo i costi di concorrenza. A lei i più vivi e meritati compiacimenti. Distinti saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L.S.., maggio 1958. Lettera del 10 maegio1958 aii'on. sen. Adone Zoli: Caro Zoli, Ti ringrazio dell'invio della Relazione Generale sulla situazione economica del Paese e, a parte il problema dello statalismo, mi compiaccio con te e con il tuo Gabinetto e quello di Segni per le realizzazioni onenute nel 1957 a vantaggio dell'economia nazionale. Una cordiale stretta di mano Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L.S.0, maggio 1958. "C,

Lettera del 12 maggio 1958 al sen. Silvio Gava: Caro Gava, ur conoscendoti da tempo e ricordando la tua giovanile attività nel Panito Popolare Italiano, mi sorprese tua nomina a Ministro del Tesoro. Ben presto mi convinsi che le tue attitudini e la tua esperienza giustificavano tale scelta; per giunta, la tua fermezza nelle più ortodosse direttive finanziarie ed economiche fu tale da fani preferire le dimissioni; esempio questo assai raro di probità amministrativa. Chiamato poscia all'Industria e Commercio, dopo la pausa ministeriale di oltre un anno, ho ritrovato in te le stesse qualità di comprensione e fermezza, di laboriosità e rettitudine che avevi già dimostrato al Tesoro. Non hai mai preteso che io fossi sempre d'accordo con te, come io non potevo pretendere che un ministro seguisse le mie teorie e il mio modo di vedere i problemi dell'economia e della finanza statale; hanc veniam damuspetimusqzie vicissim diceva Orazio. Ma nel limite del possibile non sono mancate le convergenze e auguro che non manchino se ritornerai al governo. Nel momento della lotta elettorale che ti ha portar0 di fronte il capo di un partito che ha centro a Napoli, posso augurarti, caro Gava, il ritorno al Senato, ove dal banco del ministro o da quello del parlamentare, potrai continuare a dare al paese non solo il contriburo di es erienza molto prezioso per assemblee olitiche, dove troppo soffiano i venti della panitocrazia. ma anche de la fermezza alla mania spendereccia e afa faciloneria demagogica, diffusa anche in Senato concepito dai costituenti come doppione della Camera. Spero che la terza legislatura attui una seria riforma del Senato della Repubblica, alla quale riforma sono sicuro che tu porterai efficace contributo di equilibrio e di ponderazione. Accetta, pertanto, i più vivi auguri per il tuo rirorno al posro di combattimento. Cordialmente Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. d r t . e1. pubbl. del Prof. L.S... maggio 1958.

f


colto e malevolo potrebbe fare, per dimostrare che non si tratta di un santo con virtù eroiche, ma, per quanto esimio, di un uomo come tutti gli altri, pieno di difetti e criticabile da vari punti di vista.

Illusione degli statalisti Mi sforzerò dunque, di opporre alla proposta Dalle Molle le obiezioni che mi vengoche preferirebbeno in mente, pur lasciando fuori conto l'opposizione di q~e~l'interessati ro non cambiar padrone perché lo Stato, per quanto pignolo e molesto, è sempre un padrone assai comodo; e lasciando anche da parte l'opposizione politica dei partiti statalisti o semistatalisti nonché di quei sindacalisti che credono che lo Stato come tale possa essere propenso a passare le gestioni delle proprie aziende in mano ai sindacati, ignorando quel che fanno i dittatori rossi o neri per tenere essi in mano le leve del potere e tacitare le aspirazioni e le lagnanze degli operai che essi blandiscono ma tengono sotto il giogo. Poiché nessuna possibilità è oggi o vi sarebbe domani di avere disponibile nel mercato italiano la liquidità monetaria di più di cinque miliardi e neppure di ottenere una larga partecipazione estera a simile operazione (e ciò anche per legittime precauzioni politiche), il proponente risolve il problema con l'offerta ai possessori di titoli di debito pubblico dei titoli azionari delle partecipazioni statali; titoli che dovrebbero essere garantiti dallo Stato per almeno cinque anni. Qui interviene il acardinal diavolo» a domandare se tale operazione debba essere (come sembra) facoltativa da parte dei possessori dei titoli statali owero obbligatoria. Se facoltativa, pur non facendo obiezione di principio, si pensa che l'operazione potrebbe anche non riuscire. D'altra parte è da escludere il cambio coattivo; dove non c'è libertà non c'è giustizia; né potrebbe un'operazione di liberalizzazione giustificarsi violando proprio la libertà che si cerca di ottenere. La riuscita dell'operazione facoltativa dipenderà dalla formazione di una opinione pubblica edotta, cosciente, decisa: ci arriveremo? Non dico di no; anzi spero di sì, ma non mi nascondo le difficoltà.

Distrugere i monopoli Non è tutto; a qualsiasi operazione del genere dovrebbe precedere una attenta selezione delle imprese statizzate, selezione fatta secondo determinati criteri politici ed economici. La categoria dei monopoli statali va trattata a parte; vi sono ragioni perché certi monopoli siano mantenuti come quello delle poste e dei telegrafi e anche quello delle ferrovie nonostante i deficit che, secondo me, possono e debbono eliminarsi. Al contrario, non vi sono motivi perché si abbiano a conservare il monopolio dei tabacchi e quelli sul sale e sulle banane; anzi vi sono ragioni per la loro abolizione, imponendo congrua tassazione anche gravosa, per i tabacchi; applicando alle vendite del sale e delle banane solo le tasse commerciali in vigore. Se la RAI e la Televisione debbano essere ancora monopolizzate, è un problema da discutere pro e contro, non si può risolvere su due piedi; non si vede come sia possibile in un paese che manca di autodisciplina quale l'Italia, adottare in tali settori il sistema americano; mettiamole da parte sia pure con riserva di riesame.


Settore armatoride: io sarei per il ritorno al sistema dei concorsi statali mediante gare per le linee di interesse pubblico che presentano spese superiori al reddito, e abolirei tutte le gestioni dirette di Società armatoriali di Stato, le attive (se ce ne sono) e le passive. Anche questo settore non può essere confuso con quello strettamente industriale e dovrebbe essere trattato a parte. Imprese deficitarie non per eventuali congiunture ma per ordinarie condizioni amministrative e strutturali; queste o dovrebbero essere poste in liquidazione o dovrebbero essere trasformate; nell'uno e nell'altro caso, non entrerebbero a far parte del complesso rappresentato dalle azioni statali da cedersi esigendo condizioni speciali di cessione o di liquidazione. Le valutazioni azionarie non possono essere uguali per tutte le imprese; le azioni Dalmine e SME o SIP sarebbero ben quotate; le azioni AGIP-Persia sarebbero buone per gente che azzarda; e così del resto.

Una stupida gestione Dovrebbero quindi riattivarsi le borse dopo avere risolta la stupida questione dell'art. 17; pur affidando a banche e ad altre agenzie bene attrezzate la vendita delle azioni e ammettendo per il pagamento la negoziabilità dei titoli del debito pubblico e dei buoni novennali. È evidente che il mercato azionario non potrebbe sopportare un largo e contemporaneo ingorgo; bisogna andare piano, classificando per settori economici, imprese, titoli azionari, operazioni di vendita con programma di lunga lena e con politica seria ed avveduta. Ci vorrebbe un Erhard al posto di un Bo. Le mie obiezioni, in sostanza, non riguardano le sane finalità della proposta Dalle Molle, ma la realizzazione pratica, in un mondo psicologicamente impreparato, politicamente ostile, economicamente male attrezzato. Ciò nonostante, bisogna battere il chiodo: anzitutto, porta chiusa per nuove awenture; liquidazione di enti parassiti e di imprese fallimentari; tentativi opportuni di cessioni azionarie per impianti che possono essere meglio gestiti e più sviluppati dall'iniziativa privata. Non si abbandoni la tesi del passaggio dl'iniziativa privata delle imprese e delle partecipazioni statali, se queste non sono dirette a servizi pubblici insostituibili; ma allo stesso tempo non si perda di vista la campagna concreta contro ogni singola legge e contro ogni singola iniziativa che tenda a fare aumentare l'ingerenza dello Stato in tutti i campi dell'attività privata sia individuale che associata. La lotta è all'inizio; la lotta è dura; deve essere sostenuta e intensificata per anni ed anni.

Il Giornak d 'ltalia, 13 maggio 1958

Quindici maggio32 11 mio non è affetto senile verso il 15 maggio del 1891, data questa della promulgazione della Enciclica Leoniana sulle condizioni degli operai (Rerum Novarum), né verso il 15 magQuesto articolo pubblicato da «L'Eco di Bergamou e da alrre testate, fu scrirro per la rivisra ~Poliricae Culrura» di Palermo, con la seguente aggiunra di cararrere regionale:

32

242


gio scelto per antitesi o per differenziazione della festa socialista del l" maggio. Quest'ultima venne iniziata nel 1890 (sessantotto anni fa); la nostra pochi anni dopo; se mal non ricordo, nel 1894; certamente io partecipai alla festa del 15 maggio del 1896 a Roma, nel 1897 a Caltagirone e nel 1903 a Luino. Questi i miei più antichi ricordi; ai quali si aggiunge il ricordo di un decennio più tardi del giovanile inno: O biancofior~,si era scelto dai democratici cristiani di quel tempo - il garofano bianco come simbolo delle nostre tendenze, mentre i socialisti tenevano al garofano rosso. Piccolezze?no; significati spirituali di una realtà in cammino. Con la festa di S. Giuseppe artigiano, il 1" maggio è divenuto oggi la festa operaia di tutti, alla quale i cristiani partecipano con i propri simboli civili, sociali e religiosi, senza essere riguardati come gente di seconda categoria. A patto che per essere della stessa categoria dei uprimogeniti)) non si cerchi di cancellare le distinzioni dovute alle nostre convinzioni e alla nostra prassi, cantando, per esempio, ilsol dellhvvenir!Per noi non c'è che un sole: Christus heri, hodie et in saecuk noi non abbiamo credenza nella futura felicità su questa terra. Basterebbero gli sputnik e i missili a mandarla per aria; e anche la guerra fredda; e anche le disgrazie automobilistiche e aviatorie; e i corti circuiti, e tutti i cancheri della nostra misera esistenza terrena. Sia pure 1" maggio per noi la festa di S. Giuseppe artigiano e per gli awersari il sole dell'awenire; l'insegna del lavoro manuale unisce pure per un giorno tutti gli operai nell'aspirazione del benessere, ben notando la differenza fra il benessere dell'oriente e quello dell'occidente; sia pure il 1" maggio una affermazione solidale della rivendicazione dei diritti del lavoro, pur rilevando che gli uni la concepiscono in termini di lotta di classe; i cristiani in termini di coesistenza di classi nella legittimità dei diritti e dei doveri reciproci. Tutto ciò concesso, resta un piccolo angolo per il 15 maggio nel cuore di coloro che, come me, hanno partecipato alle fasi, ai fasti, ai travagli, ai pericoli dei vecchi 15 maggio del periodo prefascista; di coloro che, anche dopo, lo hanno ricordato ogni anno scrivendo, parlando, pregando nel silenzio angosciato di qualche cameretta di quinto piano, circondati dalla incomprensione di molti e dalla sfiducia dei pih in una invocata e desiderata ripresa. La ripresa venne; non per pacifica evoluzione, ma dopo la tragica esperienza di una seconda guerra mondiale e trascinando con sé i rottami del passato; la ripresa fu turbata da una inesatta valutazione della corrente marxista e della negatività morale dei comunisti affiliati a Mosca. L'unità sindacale italiana, fin dal primo momento fu un'esperienza fallita; mentre la coalizione dei sei partiti dimostrò la impossibilità di una convivenza politica così eterogenea. Ma la ripresa nonostante tutto c'è; la parola autorevole di incoraggiamento non manca. Se debbo dire il mio pensiero senza nascondere nulla, nel 15 maggio di oggi il sole non brilla; molte sono ancora le nebbie di un cripto marxismo e di un equivoco sinistrismo che velano la luce chiara che emana non solo dalla Rerum Novanrme dai successivi Documenti pontifici, ma anche dalla storia del nostro passato. Noi speriamo nel Signore dal quale viene l'essere e l'operare; noi speriamo sempre e perciò siamo sempre ottimisti, sempre pronti al sacrificio. L'Eco di Bergamo, l 5 maggio 1958

Noi siciliani abbiamo un alrro 15 maggio da ricordare, il 15 maggio 1946, data dell'approvazione dello statuto siciliano. Ricordiamolo per potere con più vigore manrenere le osizioni conquistate; emendare gli errori immancabili nell'arniazione della nuova nruniira amminisrrativa Llla Regione; preparare allylsolaiin avvenire sempre migliore nelle atrività morali, culturali, sociali ed economiche di questo rrava liaro periodo. Non dimentichiamo che la democrazia cristiana di oggi si allaccia a quella della fine fel secolo scorso e del primo inizio del presente, quando i nostri democratici cristiani di allora si chiamavano Mangano, Torregrossa, Arezzo, Pecoraro (a ricordare i più nori che ci han lasciaro) e molri alrri che mi porranno leggere e ai quali va il mio affetruoso e commosso saluto.


Dal laicismo al c o ~ n u n i s m o ~ ~ Dal modo come certi gruppi laicisti (non dico partiti) conducono la battaglia anticlericale (prima e dopo la lezione data loro da Zoli) si deve arguire che essi hanno fatto la loro scelta politica; essi sono pel fronte popolare, comunisti compresi o comunisti non esclusi (la formula non conta). La indipendenza dello Stato è per loro uno slogan; l'invadenza clericale, uno spauracchio; l'indignazione giornalistica e oratoria, un mezzo di battaglia elettorale. A elezioni fatte e a conteggio compiuto, essi sperano poter fare un passo avanti verso il fronte popolare; se questa elezione non li contenta, sperano in altra a breve scadenza. H o detto: cccomunisti non esclusi», perché oggi come oggi senza i comunisti (lo voglia o non lo voglia La Malfa) un fronte popolare non si fa, neppure se I'on. Saragat arrivasse ad afferrare Nenni per la giacca, il che non è probabile. Le controversie dei cittadini non offendono ma rafforzano lo Stato democratico. Nella Gran Bretagna certo fu rafforzato quando il primate anglicano si oppose al matrimonio del re con una divorziata e, d'accordo con il governo di Baldwin, provocò la rinunzia al trono. Gli Stati forti lasciano che ogni autorità legittima eserciti le proprie funzioni senza paura, senza allarmi, senza isterismi. Mi dispiace per La Malfa che non lo sappia; siamo in Inghilterra nel 193 I , quando il cardinal Bourne, dopo l'Enciclica Quadrage~irno Arzn dichiarò che l'appartenenza dei cattolici inglesi al partito laburista non risultava vietata a condizione che la loro azione fosse fatta in conformità alla propria fede. Quello era il periodo quando un MacDonald, capo dei laburisti e per due volte primo ministro, non faceva il laicista ma andava nella sua chiesa (credo la presbiteriana) a fare i sermoni domenicali, e quando il laburista Henderson, ministro degli esteri, non mancava di andare a cantare i vespri nella sua chiesa, non ricordo se anglicana o di altro tipo, ma certo in una chiesa. Se io cito fatti di altri Paesi democratici, i provinciali nostrani non si danno per intesi non solo perché sono ignoranti di cose religiose e non frequentano chiese di alcun tipo, ma perché vogliono fare dello Stato l'unica entità suprema della comunità terrena, una specie di divinità-mito cui tributare idealmente tutti gli onori e attribuire realmente tutti i poteri. Per questo i laicisti sono statalisti nel senso integrale della parola; se essi si dicono amanti della libertà, non meritano fede; si tratta di libertà in senso unico: libertà laicista e statalista che è tutto dire. E pretendono per giunta, di essere presi per gente colta, pur non essendosi mai accorti che, dove è penetrato il cristianesimo, si è manifestato per quasi due-

Lettera del 21 maggio 1958 a P. Agostino Gemelli: Caro P. Gemelli, Ti sono assai raro della lettera inviatami a conforto delle mie fatiche iri questo disturbato periodo politico della nostra l t d a , nel quale i nemici della Chiesa e della Patria han sollei~atole creste non solo per motivi di parte, ma anche per la inabilità dei dirigenti politici a passare cinque anni nel gingillarsi con la rinificaz i o n ~socialista guardata questa come un avvenimento desiderabile o inevitabile, senza comprendere che siffatto diversivo è servito ad accentuare la sfiducia nella DC e a far intravedere possibile un fronte popolare laicosocial-comunista. Preghiamo lo Spiriro Sanro che ci illumini e ci renda forti alle renrazioni anche politiche, specialmente noi del ceto sacerdotale, quando confidinmo negli uomini invece di confidare in Dio. E non sarebbe la prima volta. Cordialissimi saluti Luigi Stuao. In: A.L.S., b. 564, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L.S.,,, maggio 1958.


mila anni in maniera più palese che negli altri agglomerati umani precristiani o non cristiani, il valore dualistico della società. La tendenza unificatrice nel patriarca, nel monarca, nello Stato, nel fatto non risulta storicamente raggiunta; vi è sempre un margine di libera iniziativa per le forze conservatrici e per quelle riformatrici, le quali, in qualsiasi modo organizzate, eccitano e regolano il dinamismo del divenire umano; sia polarizzando i nuclei secondari verso i centri di lotta, sia cercando paci e compromessi di coesistenza in forma unitaria e in sostanza diarchica. Questo processo è stato accelerato dai cristianesimo che si affermò contro lo Stato deificato nella persona dell'imperatore o del monarca, e contro l'assorbimento dello spirituale nel temporale. I1 dualismo Stato-Chiesa è servito a sviluppare le più intime energie umane di civilizzazione e di progresso. La coesistenza pacifica o contrastata dei due poteri, il civile e il religioso, influisce non solo negli orientamenti della società, ma nella stessa coscienza dei fedeli nel dare o negare la prevalenza del valore etico che promana dal fatto religioso. I fedeli che negavano l'incenso alle divinità pagane, esponendosi alle penalità di legge e perfino alla morte, davano e danno tuttora testimonianza di un valore supremo insostituibile. Nell'epoca moderna, da quando si è andato formando lo Stato entità distinta dalla casa regnante, invano si è cercata una formula che limitasse l'attività e l'espansione della Chiesa nel campo etico, educativo e, per riflesso, politico. Il cuius regio illizts et reliFo dell'epoca protestante e assolutista: libera Chiesa in libero Stato di Montalembert e di Cavour; libera Cbiesa nello Stato sovrano della sinistra storica, le parallele giolittiane, sono stati tentativi di adattamento, o motivi di contrasti e di lotte; ma «la parola di Dio non è ammanettata» dice S. Paolo. Forse i signori laicisti si scandalizzeranno che i vescovi italiani facciano appello a Dio, alla coscienza del dovere, alla libertà che spetta alla Chiesa. Ma se esistesse una legge come quella che i laicisti credono di trovare nella «Gazzetta Ufficiale)),diretta ad ostacolare il ministero episcopale, sia o no stata approvata dai due terzi o dai tre quarti del Parlamento, per i vescovi non avrebbe valore. Questa è la teoria da duemila anni ad oggi; non la cambiarono Napoleone e Guglielmo di Hohenzollern (si ricordi il Kulturkavipftedesco), né Combes o Stalin e non la cambieranno i Pannunzio e i Reale. I quali ultimi dovrebbero ricordare (perché ne furono testimoni) che solo Pio XI levò la voce contro il razzismo di Hitler importato in Italia, quando i laicisti, che oggi battono i piedi e gesticolano, allora tacevano. E dovrebbero ricordare che nella persecuzione fascista agli ebrei non solo preti e vescovi protessero i perseguitati, ma Pio XI in pubblica udienza, richiamandosi alle parole del canone della Messa che egli lesse, ricordò a tutti che il sacrificio offerto a Dio da Abramo e da Melchisedech rappresentava simbolicamente il sacrificio di Gesù Cristo, nel quale si incentra il legame del cristianesimo con I'ebraismo. E quando i tedeschi occuparono l'Italia, vescovi e Papa furono i padri di tutti, anche dei laicisti di oggi, dando a molti capi politici ricovero e assistenza, violando, s'intende, le leggi allora in vigore per rispettare la legge di Cristo. E ora si vuole incriminare un atto dei vescovi, il quale oltre ad essere atto del proprio ministero (i cui precedenti del '48 e del '53 non destarono lo scalpore che oggi si fa) tende alla difesa dell'Italia minacciata dal socialcomunismo. L'Italia non ha fatto quel che fece tempo addietro la Svizzera, quel che ha fatto di recente la Germania, mettere, cioè, i comunisti ai di fuori della legalità come pericolosi allo Stato democratico; né sarò io a domandare un simile quando basterebbe un po' più di organizzazione e maggiore coerenza fra i partiti democratici per tenere testa agli avversari di sinistra.


Purtroppo, le prospettive elettorali non sono tali da dare all'Italia sicurezza e tranquillità. La DC avrà di sicuro il maggior numero di voti ma non la maggioranza assoluta. Se si manterranno le proporzioni del '53, con la nuova legge elettorale che favorisce i piccoli e medi a danno dei grandi partiti, la DC arriverà a 245 seggi contro i 262 avuti in precedenza. Per arrivare al limite di maggioranza occorreranno alla DC altri 55 voti. Dico il limite; nel fatto ne occorreranno almeno 65 per una certa stabilità governativa. Il vecchio quadriparrito forse non potrà essere risuscitato, perché i repubblicani si sono uniti ai radicali; Saragat dichiara di voler restare fuori del Governo; Malagodi e Fanfani hanno polemizzato un po' troppo. Ipotizzando per tali partiti i vantaggi della legge elettorale, si avrebbero sulla base dei voti del '53, PSDI 24 + PLI 21 + repubblicani 6; non si arriva con costoro ai 55 voti necessari per una maggioranza di stretta misura. Pare che i sinistri DC puntino sui voti di Nenni, il quale secondo i calcoli farti dovrebbe saltare da 75 a 90. Costoro non si rendono conto che Nenni non intende appoggiare la DC né gratuitamente né per patti impliciti o espliciti; Nenni vuole arrivare al governo di alternativa (alternativa per lui ogqi e non per la DC domanz) cioè fronte popolare di origine classista. Chi dice il contrario s'inganna o mente. Noi non possiamo correre né il pericolo di una falsa alleanza che sarebbe capitolazione, né il pericolo di una dittatura di sinistra nella quale un Nenni autonomo farebbe la fine di Masaryk; troppa gloria per uno che non ha saputo far altro che arzigogolare con tutti. I1 peggio non sarà per Nenni ma per coloro che porteranno il Paese sull'orlo della rovina per far piacere alle sinistre di tutti i partiti.

Il Giornale d Balia, 16 maggio 1 958

Costume politico e autonomia nel pensiero di Don S t ~ r z o ~ ~ Onorevole Direttore, Le sono grato della lettera del 26 aprile scorso e delle buone notizie che mi dà. La sua decisione di uscire dalla posizione di indipendente e aderire alla DC, affermandone il programma democratico e cristiano al di fiori delle lotte di correnti, è la migliore scelta che lei poteva fare. Pur non allontanandosi dalla contingenza di ogni giorno, ciò significa mirare principalmente all'interesse del paese al cui servizio un partito quale il democratico cristiano deve essere dedicato, superando le pretese di categoria e le interferenze di un personalismo egoistico. Abbiamo bisogno di uomini diritti, nell'idealirà realisti, nella pratica morali, sdegnosi dei compromessi, superiori ai vantaggi di famiglia e di clientela, studiosi dei problemi della vita pubblica senza la pretesa di sapere tutto e di potere tutto. È necessario formare una classe politica degna del motto ((Libertas)).Per un partito come la DC, che ha un compito delicato e difficile nella vita italiana, sarebbe questo il più ambito premio dopo credici anni di eleadership)) nel governo della cosa pubblica. A lei, già depuraco all'assemblea regionale siciliana e strenuo difensore della nostra au-

34

246

È una lettera del 7 niaggio 1958 ai direrrore Oscar Andb.


tonomia, anche il compito di sostenere con la stampa e la parola, il sentimento di composta fierezza per quel che la Sicilia può fare da sé con senso di responsabilità e di misura; di quel che la Sicilia ha diritto di esigere dalla solidarietà nazionale per elevarsi al livello delle regioni più progredite della nostra Italia. Auguri e distinti saluti Luigi Sturzo

La Voce dellisola, 16 maggio 1958

Dovere I1 voto è un dovete civico, moralmente obbligatorio, anche se la legge non contenga sanzioni penali, limitandosi alla iscrizione nell'albo municipale e nei certificati di buona condotta; si tratta di dovere di solidarietà e di rispetto costituzionale. Chi non vota (a parte l'impedimento legittimo) sarà un egoista che preferisce il proprio comodo al piccolo disagio che il voto potrebbe recargli; ovvero un superbo che non si degna di unirsi alla folla; un insocievole che non dà peso agli impegni collettivi; un indifferente che reputa che il mondo andrà per la sua strada anche senza il suo voto; un protestatario che non vota per ripicco contro qualcuno o qualche cosa. Motivi volgari questi, indegni del cigadino normale, il quale deve dare esempio di solidarietà civica e di interessamento collettivo. Ammesso che l'astensionista senza motivazione politica sia un'eccezione e che la grandissima maggioranza vada alle urne, occorre vedere con quale animo il singolo partecipi alla

In relazione al contenuto dell'articolo pubblichiamo le seguenti lettere: Lettera del 21 maggio 1958 all'on. aw. Giambattista Migliori: Caro Migliori, Alla vigilia del voto, ti mando i più fervidi auguri per la tua elezione alla Camera dei deputati dopo cinque anni di assenza. S ~ e r oche gli elettori della circoscrizione Milano-Pavia non facciano a se stessi il torto di non avere inviato u; rappresentante della nazione che porri all'assemblea e nelle commissioni una voce serena, equilibrata, equanime, oggettiva, come la tua. La tua esperienza negli affari ~ubblicie nella vita dei partiti politici degni del nome non può essere lasciata inutilizzata. Ammetto che la gioventù (quella preparata e apprezzabile per serietà e disinteresse) debba avere la sua voce anche in parlamento. Non ammetto che sia trascurata la voce della maturità esperimentata nei rrava li e nelle vicende tristi e liete della nostra patria, in un periodo fortunoso per la nazione e in un centro di vit&d p u b blica e privata quale Milano. I tuoi amici ti attendono a Roma, fra i quali ho il piacere e l'onore di essere fra i primi. Cordialmente Luigi S t u ~ o . In: A.L.S., b. 564, fasc. s h . e 1. pubbl. del Prof. L.S.», maggio 1958. Telegramma del 21 maggio 1958 all'on. Silvio Gava: Accetta rinnovati auguri per la tua rielezione nella fiducia che cotesto Coiiegio rigettando demago iche mirabolanti promesse apprezzi serietà propositi di progresso morale et materiale nostro Paese basato su li errà democratiche et rinovellate energie per favorevole voto corpo elettorale. Cordialmente Luigi SCURO In: A.L.S., b. 564, fasc. «Arr. e I. pubbl. del Prof. L.S.., maggio 1958.

t


votazione; se per interessi ~ersonalio per convinzione ~olitica,pur ammettendo che molti siano spinti dall'ondata dei partiti, dalle insistenze dei candidati, dalla passionalità della lotta. Comunque sia, vi è in tutti la naturale speranza del meglio, anche quando si intravede il peggio. Un motto siciliano di antica data, che per lo più si applica non alle Camere ma alle cameriere, suona così: ((cu'cangia 2 vecchiapk nova, peju trova» - chi cambia la vecchia per la nuova trova peggio -. Ma un altro motto dice: +alla come tu voi, sempri è cucuzza», vale a dire che la zucca (cucuzza) in qualsiasi modo cucinata non cambia di sapore. Nell'un caso e nell'altro vi sono due consigli da dare o ricevere: quello di conservare il sistema o il governo o il partito - la teoria delle scarpe vecchie alle quali si è abituati, mentre per le scarpe nuoveoccorre che ci si abitui e non sempre con vantaggio; l'altra teoria, quella dei cambiamenti sostanziali, ritenendo i cambiamenti accidentali inefficaci. Inprimis et ante omnia bisogna dire loro che ogni estremismo, di sinistra o di destra, porta alla avventura. I1 pericolo oggi sta a sinistra; duplice pericolo, sia per il numero di seguaci e simpatizzanti del socialcomunismo, sia ancora di più per i legami di ambedue i partiti con Mosca; tali pericoli sono ben noti; basta un cenno per chi li vede o li sente; per i sordi, non bastano le cannonate. L'estrema destra ha un numero limitato di adepti e non ha legami con l'estero, ma guarda al passato e non mostra di rinnovarsi partecipando con convinzione d e istituzioni democratiche; i legami più o meno reali con i due partiti monarchici sono basati sull'equivoco di una pretesa destra economica alla quale il MSI non avrebbe titolo se ancora crede alla repubblica di Salò. Nenni è da classificare l'estremista che pencola ai due lati, strizzando l'occhio a tutti quelli che gli fanno la corte; borbottando con coloro che non lo prendono sul serio, compresi i suoi stessi correligionari. Il richiamo di Saragat ad un socialismo unificato, con Nenni dentro, è oggi di pura convenienza, essendo convinzione diffusa che Nenni non possa né voglia romperla con i comunisti. L'attuale polemica fra PSI e PCI è tattica elettorale mirando ad ottenere per ciascuno dei due partiti i maggiori voti possibili. Dall'altro lato i «basisri» e gli «altisti»DC mostrano fiducia a un Nenni defituro, sperando di prendere essi in mano la direttiva del partito e potere al momento buono marciare verso il Viminale insieme con un Nenni distaccato dai comunisti. Se il distacco avvenisse con il passaggio di Nenni ad una DC sinistrorsa e sinistrata, i due associati dovrebbero fermarsi avanti le barricate comuniste per finire col fraternizzare in nome dell'unità proletaria. Breve; l'orientamento di quegli elettori tuttora indecisi, non si volge a Nenni, né ai basisti DC: ma ai partiti di centro dall'ala di Saragat a quella di Malagodi, e, per necessità politica, va ad incentrarsi nella DC pur non escludendo le due ali di fianco, i repubblicani (mal accoppiati con i radicali) e i monarchici (con riserva sui metodi laurini). I piccoli partiti che han gridato sulle piazze: «non votate DC», non pensano certamente ad un governo senza DC, perché se la DC non ci fosse dovrebbero inventarla; anche Malagodi, anche Lauro e perfino La Malfa, pur stando questi all'opposizione in modo da potere rimproverare a tutti di non avere fin oggi eliminato la disoccupazione. I1 ritornello: ((non votate DC))in bocca a costoro è semplice tattica elettorale con l'intento di arrivare a mettere prigioniero il governo, sia dal di dentro collaborando, sia dal di fuori regolando la dosatura dei voti favorevoli e contrari. Alla realtà politica del Paese posto in difficili condizioni generali, si verrebbe a dare meno importanza che non si dia al giuoco parlamentare, in modo da rendere qualsiasi governo debole e impotente. I1 problema italiano, pari sotto questo punto al problema della Francia e in parte a quello di rutti i Paesi che hanno adottato la proporzionale più o meno pu-


ra, consiste nel trovare il modo di rendere i governi responsabili e forti, con un efficiente controllo parlamentare sulla gestione delle entrate e delle spese, sull'indirizzo di politica interna ed estera, sulla osservanza delle norme costituzionali e la difesa della libertà. Purtroppo, né governo né Parlamento sono in condizione di adempiere alle proprie funzioni istituzionali. Partiti e sindacati hanno il soprawento, imponendo una politica di clientele e di categorie a danno della generalità. Per giunta gli enti statali maneggiano il denaro pubblico come se fossero società private, ma senza i rischi che queste corrono nella concorrenza di mercato, e divenendo centri di clientele, di incontrollati interessi e di intrallazzo fra controllati e controllori. Le elezioni debbono servire a qualche cosa; si dovrebbe poter dire: hic incipit vita nova; il Parlamento indirizzi e controlli; il Gabinetto governi assumendo le proprie responsabilità; i partiti sostengano le istituzioni e non intrighino; i sindacati agiscano fiori non dentro il Parlamento; il Paese partecipi alla vira politica, difendendone soprattutto la libertà e la moralità. Riforma senza rivoluzione, progresso senza avventure, risanamento senza crisi partano oggi dal corpo elettorale, il quale deve scegliere i migliori, i candidati dalle mani nette, quelli che non hanno la fedina penale macchiata, quelli che non hanno un passato discutibile, quelli che non si sono impr?wisamente arricchiti durante il mandato parlamentare acquistando ville e aree edificabili; perché proprio questi signori sarebbero sempre dei profittatori, gente che per salvare la posizione politica e i loro privati interessi sarebbero sempre timidi, sospettosi, remissivi tanto di fronte all'awersario quanto verso il compagno che sa e il contraddittore che potrebbe rivelarne le piccole debolezze o le grandi magagne. Costoro non sono fatti per la lotta; costoro sarebbero i primi ad adattarsi al peggio, cambiando casacca se occorre. La lotta che ci aspetta non sarà fatta da costoro. La lotta sarà fatta da uomini puri e coraggiosi per la difesa della nostra patria sia sul terreno elettorale che su quello parlamentare. Voglia Dio che ci sia risparmiato il peggio in un mondo turbato e turbolento che in Europa e altrove non ha trovato fino ad oggi la via della pace. Viva l'Italia!

Il Giornale d'ltafia, 2 1 maggio 1958

Responsabilità DC Appena avute le prime notizie dell'esito elettorale, la solita Agenzia delle sinistre DC è venuta fuori a ricantare le possibilità di una intesa con Nenni. Ora è La Stampa che sini-

streggia e perfino Enrico Mattei che nel Resto del Carlino rimpiange ((l'incauta dichiarazione (di Nenni) sulla indispensabilità della presenza dei comunisti in una maggioranza socialista~.È strano che si dimentichi così presto il certificato di benemerenza dato a Nenni da Mosca, dove l'insinuante romagnolo è preferito al disciplinato Togliatti; e che non sia stata apprezzata nel suo giusto valore la dichiarazione di Nenni fatta proprio nel periodo della polemica con L'Unità, ribadendo i suoi legami con il comunismo, nonché le sue vecchie e nuove affermazioni estrose e incoerenti sulla politica internazionale. Con. Saragat, anche ad elezioni compiute, ha riaffermato la sua linea tattica verso un'improbabile riunificazione socialista; si tratta di ideale lontano che non può essere realizzato né oggi né domani. Egli non vuole levarlo dal cuore dei suoi seguaci, che pur rire-


nendosi socialisti in quanto appartengono alla internazionale, della quale fanno parte i laburisti di Inghilterra e i socialisti del Nord-Europa, in sostanza o non sono stati mai socialisti o si dicono tali anche quando hanno lasciato il rango di proletari perchd appartenenti economicamente e spiritualmente ai ceti medi e a quelli intellettuali. Comunque sia, il verme del classismo è nel fondo dei socialisti veri e dei socialisti nominali. I democratici cristiani, anche se di sinistra, se sono ancora dc non possono essere che interchssisti. È vero che Pastore o Penazzato parlano spesso di «patronato»da eliminarsi o ridursi di livello o mortificarsi; non si sa esattamente quello che vogliono quando, forse per demagogia sindacale, indulgono in questo fraseggio; ma pur ammettendo sia l'esistenza sia la possibilità di conflitti di interesse fra datori di lavoro ed operai, non si può, senza offendere l'etica cristiana, ammettere l'odio o il disprezzo di classe, il declassamento e il livellamento egualitario e il misconoscimento dei reciproci diritti e doveri. La Democrazia Cristiana, in quanto democrazia, è governo di popolo e perciò formata da individui e da gruppi politicamente uguali; ma in quanto società libera è allo stesso tempo individualmente e organicamente diversificata, interclassista. Coloro che vogliono o tendono all'intesa con i socialisti, a parte ogni considerazione politica, non comprendono che nel campo sociale non possa esservi confusione di idee, né accettazione di tesi marxiste, né possibilità di violazione di libertà democratiche, né accettazione di lotta di classe. Purtroppo in Italia siamo a questo punto che il classismo socialista e lo statalismo di sinistra caratterizzano una lotta di classe corroditrice delle fibre della struttura sociale, avviando il paese verso avventure per noi e per l'Europa assai gravi. Bisogna uscire dall'equivoco; il mezzo datoci opportunamente in questi giorni è stato quello della unificazione elettorale dei cattolici. Dico ((elettorale»,perché i cattolici della D C e fuori della D C non possono dirsi spiritualmente unificati; essi subiscono vari fattori di corrosione interna derivanti da aggruppamenti personali e da ideologie di correnti che vanno formando dei solchi divisori. Se tali aggruppamenti e ideologie fossero contenuti in limiti programmatici ben definiti e accettati da tutti, potrebbero riuscire utili alla dinamica politica; mancando però un minimo comune denominatore, uguale e saldo per tutti, riescono gli uni e le altre tanto più dannosi quanto meno visibili ne sono le forze di spinta. 11 richiamo all'unità impone il senso di responsabilità interna nei capi e nelle varie forme di articolazione organica di un partito. La DC oggi deve dare all'Italia lo spettacolo non di una disciplina imposta dall'alto, ma di un'autodisciplina sentita e realizzata nell'unità. Il Paese dopo avere dato i maggiori voti alla DC - e i motivi esterni che lo hanno determinato sono stati ben visibili per non tenerne conto -esige che tale partito, avendo nelle mani la maggiore responsabilità del potere politico, risponda ai bisogni immediati e sensibili deli'elettorato: buona amministrazione; certezza del diritto; nessuna avventura interna ed internazionale; elevazione economica; mezzi per fronteggiare qualsiasi non improbabile recessione e di realizzare il Mercato Comune. L'Agenzia Italia, che rispecchia un certo mondo assai irrequieto, interpreta il voto elettorale come contrario all'immobilismo in politica estera, la quale, secondo tale informatore, rispecchia interessi capitalistici. Se ben si comprende il fraseggio d'uso, si tratta del solito verbalismo contorto che fa la critica all'atlantismo ed europeismo e cerca qualche apparente soddisfazione nella visita di Nasser o nei petroli dell'Iran o altre visite mediterranee. Purtroppo coloro che stanno dietro a tale Agenzia mal si adattano ad una politica estera quale è stata riaffermata, anche ieri, da Palazzo Chigi. Si almanacca sui giornali sul modo come un governo DC possa trovare i voti che man-


cano, per una solida e costante maggioranza. È questo un problema che l'elettorato ha rimesso al Parlamento, come risposta di quel che il Parlamento suole fare da quattordici anni, cambiando leggi elettorali per ogni elezione. Se si fosse lasciata in vigore la legge del 1948, quella che per il mancato scatto della legge del 1953 fu applicata alla elezione della Camera dei deputati, il risultato del 25 maggio sarebbe stato poco dissimile da quello del 18 aprile. La DC avrebbe otrenuto 300 deputati in cifra tonda, che varrebbero i 123 senatori, quanto a dire la stretta maggioranza legale. Naturalmente, anche in questi casi, per il governo stabile occorrerebbero degli alleati, ovvero, nell'impossibilità di una collaborazione aperta e leale, affidarsi al senso di responsabilità parlamentare al di fuori di ogni compromissione con i partiti antidemocratici, PSI compreso. Oggi la D C ha un programma elettorale collaudato dal voto popolare; questo elemento non lo vedo rilevato dalla stampa forse perché si tratta di un programma troppo carico, in alcuni punti generico e solo in parte chiaro e realizzabile. Comunque, il programma c'è e deve essere ridotto in termini di leggi e di amministrazione. Assuma la DC le proprie responsabilità e sulla base del proprio programma domandi i consensi. Se è possibile avere la collaborazione dei partiti di centro la cerchi senza arrière-penséee concordi i punti che meritano speciale rilievo. Le sinistre non sono in causa, lo vogliano o no certi giornalisti poco accorti: esse hanno combattuto come opposizione al governo democratico cristiano; le destre, a parte elementi di convergenza, presentano delle pregiudiziali democraticamente non accettabili. Coloro che hanno inasprito la polemica elettorale su temi anticlericali e di un laicismo ad oltranza, dopo l'esito negativo del voto dovrebbero rivedere le loro posizioni, ritornand o nei limiti e nello spirito della Costituzione e del Concordato. Ma se le condizioni psicologiche e organizzative dei piccoli partiti non permettono una revisione di posizioni a così poca distanza dalla lotta elettorale, il rimedio di un monocolore di attesa non è da escludersi. Gioverà per rimettere in moto la macchina governativa, dare possibilità alle Camere di articolarsi, alle nuove reclute di conoscersi e orientarsi, al Paese di ripensare in termini di assestamento gli eventi interni ed esteri di ieri e di oggi. Sarà una pausa che farà riflettere nonché una sosta al continuo agitare dell'opinione pubblica su falsi problemi di un riformismo improvvisato. Un periodo di pausa riflessiva di tanto in tanto fa bene a tutti, anche ai nervi dei parlamentari, ai quali vada l'augurio di essere e di mantenersi politicamente e moralmente degni del mandato ricevuto.

Il Giornale d'Italia, 30 maggio 1958

2 Giugno 19583G Scusando assenza invio auguri per consolidamento Repubblica libera et democratica auspicando attuazione istituto costituzionale et relative leggi finoggi ritardate rispettando limiti singolo organo potere statale migliorando rapporti Stato-cittadini basati su giustizia

Telegramma inviaro al Presidente Giovanni Gronchi il l o giugno 1958 in occasione del 12" anniversario deUa Repubblica Italiana.

36

25 I


et equanimità esigendo rigida moralità pubblici uffici et burocrazia evitando sperpero denaro pubblico attraverso poco controllate amministrazioni enti pubblici. Auguri tua persona simbolo dell'unità et tutela superiori interessi nazionali. Omaggi Luigi Sturzo

Il Giornale d'Italia, 4 giugno 1958

Metodo e prezzo delle alleanze L'antica diplomazia aveva metodi assai cauti per preparare e conchiudere le alleanze, ben sapendo che queste sono quasi sempre costose e difficilmente bene assortite. Non comprendo perché Fanfani, che passa per calcolatore, abbia bruciato le tappe e invitato socialdemocratici e radico-repubblicani a collaborare. Non si tratta del tentativo di ricostituire la maggioranza dei Gabinetti Scelba e Segni; perché in tal caso avrebbe dovuto invitare anche i liberali. Né si tratta di designazione del voto elettorale; in tale caso egli avrebbe dovuco escludere i radico-repubblicani che ne sono usciti disfatti. Se egli vorrà costituire un governo detto ((omogeneo))non ha possibilità di scelta; la bartaglia elertorale, oltre ad escludere gli estremi di destra e di sinisrra, ha messo in nudo le differenze fondamentali fra D C e partiti minori di classifica demorepubblicana, detti anche di centro: un centro multicolore. Pensa egli forse, l'on. Fanfani, che il voto elettorale indichi per la DC una sterzata a sinistra? L'interpretazione sarebbe arbitraria, perché egli ha vinto sotto l'insegna dell'unione dei cattolici in lotta con I'estremismo «socialcomunista»e contro un acceso laicismo anticlericale nel quale si sono distinti i radico-socialisti e vi hanno contribuito i liberali, e alla lontana anche i socialdemocratici. I vari giornali cattolici, D C e non DC, ne hanno sottolineato il carattere arrogante e deformante. Negli ultimi giorni della campagna il tentativo di unificazione dei catrolici nella DC sembrò scosso dalla non repressa propaganda preferenziale per gli uni o per gli altri delle varie correnti; propaganda che dall'inrerno del partito passò nei quotidiani di larga tiratura. A tamponare la frana si ebbe un noto intervento che escludeva qualsiasi discriminazione di corrente. E chiaro tutto ciò, on. Fanfani? Dunque, unità dei cattolici non mai prevalenza delle sinistre sulle altre correnti; unione per giunta su punti negativi: socialcomunismo e lzicismo antickricale, non mai sul terreno delle alleanze e sul futuro programma governativo. Nel mio precedente articolo avevo detto che si doveva procedere alle intese con i tre partiti del centro senza arrière-pensée. Se la coesistenza dei liberali con i socialdemocratici in un governo DC sarà difficile, non deve essere la D C ad escluderli a priori e trattarli da nemici inconciliabili, come se fossero stati i soli nemici della DC e non gli altri, specie i radico-repubblicani e relativi giornali di appoggio: Espresso e Mondo; usare due pesi e due misure non è equo. Né l'unificazione dei catrolici sotto l'insegna D C (e non tutti i cattolici, unificati e non unificati, sono di sinistra), né i motivi della campagna elettorale danno diritto a Fanfani, o daranno diritto al consiglio nazionale DC di fare un passo verso sinisrra, chiudendo la porta alle giuste, opportune, eque domande dei ceri che rappresentano gli interessi e i motivi, anche etici, della conservazione sociale, fra i quali si trovano un gran numero di piccoli e grandi produttori dell'agricolrura, dell'industria e del commercio. Piegare a sinisrra senza


pesi compensatori, vuol dire accettare un riformismo socialistoide, accentuare la starizzazione econon~ica(a parte quella scolastica), sia pure a mezzo di leggi (è tanto facile improvvisare leggi quando i partiti si impongono); continuare nello sperpero del denaro a mezzo di enti pubblici; rendere più acuto il disagio delle classi produttrici e per giunta attenuare la possibilità di investimenti esteri nel nostro Paese. Non è una previsione azzardata la mia; leggendo i programmi elettorali dei socialdemocratici e dei radico-socialisti, vi si vede l'impronta di un riformismo azzardato, improvvido, tale da potere fin da ora fare avanzare la più completa diffidenza verso un governo così combinato, senza contrappesi e freni che lo possano rimettere in carreggiata. Intanto, primo effetto, nessuna possibilità di risolvere il vessato problema dei patti agrari, adeguandone il sistema alle esigenze del iMercato comune e alla nostra realtà economica. Oggi che i contadini abbandonano la campagna, rimettere sul tappeto la questione della giusta causa permanente ha solo l'effetto di dare esca alla propaganda socialcomunista; nient'al.. . . tro. Per giunta, Pastore ha già in testa una serie di iniziative tanto più antieconomiche quanto più vicine ad un socialismo radicalizzato. Egli ci tiene a mostrarsi favorevole al socialismo; gli operai della CISL che varcano le frontiere sono indirizzati ai sindacati socialisti dei Paesi di emigrazione. Che ne dice l'on. Penazzato che sembra legato a fil doppio con Pastore? Tutto ciò sarà politica di sinistra, ma non può dirsi politica unitaria dei cattolici della DC. Mi è stato fatto osservare che Scelba, Andreotti e lo stesso Pella non escludono la linea fanfaniana per il nuovo governo. Non sono interprete del loro pensiero; però i giornali hanno scritto che costoro vogliono una politica di centro. Vedremo se Saragat e La Malfa la pensano come Scelba, Andreotti e Pella; ho i miei dubbi. Non parliamo delle nazionalizzazioni nella speranza che Saragat, dopo una visita in Inghilterra, muti parere. Ma purtroppo La Malfa domanderà la estensione della riforma agraria a tutte le zone non ancora scorporate; sarà una rivoluzione morale ed economica tutta in perdita, sia per lo Stato e i proprietari, sia per gli stessi lavoratori, proprio oggi che è accentuato anche in Italia il passaggio demografico dall'agricoltura all'industria o alle attività del ceto medio. La iMalfa punta molto sulla eliminazione della disoccupazione, questione tanto più premente quanto la macchina estende il campo d'impiego sottraendolo alla manodopera. Scuole professionali: d'accordo; specializzazione qualitativa della manodopera esistente: d'accordo; abolizione delle limitazioni di libera circolazione operaia all'interno e all'estero: d'accordo; anniento della produttività: d'accordo; imponibile di manodopera: controproducente e da abolire. Bisogna inoltre provvedere ad adeguate leggi antimonopoliste e all'abolizione dell'artificioso intervento dello Stato sui prezzi col famoso CII? Ma allo stesso tempo bisogna affrontare il problema dei monopoli statali con la direttiva di mantenere, migliorandone la struttura, quelli veramente indispensabili nel campo dei pubblici servizi; eliminare con opportuni provvedimenti quelli dannosi all'economia nazionale e alla libertà individuale. Perché non si discute da noi sulla privatizzazione di enti economici statali come han fatto o stanno facendo in Germania e in Austria? I sinistri della DC che tendono a monopolizzare la vittoria elettorale, sostengono anche la tesi di sostituire le imprese padronali con le imprese di Stato presenti e furure, credendo con ciò di avvantaggiare le classi lavoratrici. Errore fondamentale questo, perché, rovinando l'economia di mercato, deprimendo le energie individuali, inquadrando l'impresa nelle mani dello Stato, sarà compromessa fin dalla radice l'economia del Paese e il danno dei lavoratori sarà senza rimedio; per giunta si svilupperà ancora di più la oppressione politica per la concentrazione della ricchezza e del potere nello Stato. La dittatura ne sarà la conseguenza; non sarà mai dittatura della DC con o senza i partiti di centro; sarà estre-


mista, estremista di sinistra, marxista e bolscevica, con l'aiuto di tutti i radicaleggianti e di tutti i sociaiistoidi, in fondo utili idioti, conformisti o teste calde che siano. I miei contraddittori, per giustificare le loro vedute, tirano in ballo la Cassa per il Mezzogiorno, come se io fossi così stolido da confondere tale Cassa (una specie di Ministero concentrato e sottratto per quanto possibile ai controlli preventivi e alla formalità della pubblica amministrazione per opere in gran parte di carattere statale o integrativo-statale) con enti quali I'ENI e I'IRI, e loro diramazioni e dipendenze, tutti a carattere economico e privatisrico. Di questi secondi vecchi e nuovi, fatti e infieri, oggi si discute, dei quali le sinistre sono ardenti fautrici. La DC si ricordi che il suo programma elettorale voleva essere un programma di centro. Sulle frasi generiche e gli enunciati ambivalenti occorre che i rappresentanti autorizzati si mettano d'accordo nel darvi chiara interpretazione e, trattandosi di un programma quinquennale è bene che ne fissino il piano di priorità. Ma più che le affermazioni di partito, il Paese attende di conoscere il prograinrna concreto del governo che si presenterà al Parlamento per ottenerne la fiducia. Se la DC vuole slittare a sinistra, pagando ai suoi primi e ipotetici alleati, socialdemocratici e radicorepubblicani, un prezzo altissimo, sappia che fra pochi mesi, proprio contro di lei vedrà spuntare la faccia sorniona di Nenni con dietro in penombra le corna del diavolo bolscevico.

IL Giornak dytalia, 7 giugno 1958

L'equivoco: centro-sinistra Non credo che Fanfani sia un filologo per domandargli che cosa significa esattamente quel centro-sinistra appioppato al Governo che egli intende regalare all'ltalia. Nel Parlamento subal~inoSinistra era chiamata I'opposizione radicaleggiante (in materia ecclesiastica e in orientamenti politici); radicalegiante fino a un certo punto, se ne accorsero dopo il 1876 con gli esperimenti di governo che sboccarono nel trasformismo depretisiano. L'Estrema sinistra fu formata in seguito dai gruppi parlamentari socialista e repubblicano e, dal 1921 in poi, da quello comunista. Dopo la caduta del fascismo la sinistra venne formata dai partiti comunista e socialista; il partito socialista democratico è sorto dal distacco di Saragat dai socialisti nenniani, per dissensi circa l'adesione sindacale e politica al comunismo. Possiamo mettere a sinistra come tendenziaii anche il partito repubblicano e il recente partito radicale; ma nel fatto questi due ultinii sarebbero partiti interclassisti, a stare alle tradizioni risorgimentali cui fanno appello. La vera sinistra oggi è quella che deriva dal marxismo classista per la così detta ((difesadella classe lavoratrice», per la soppressione della economia «borghese»e I'awento della «d'ittatura del proletariato)). Se questo è il termine ultimo al quale tende la sinistra, come palingenesi terrena del trionfo del lavoro, le tappe di sviluppo possono essere concepite riformisticamente owero per via rivoluzionaria; sia ammettendo la coesistenza dei partiti interclassisti (tollerando gruppi borghesi e proprietà privata con l'intenzione di ridurne l'influenza arrraverso le statizzazioni); owero per via di eliminazione drastica dittatoriale tipo Mosca e satelliti. I democratici cristiani che si chiamano di sinistra, che si orientano a sinistra e deside-


rano la collaborazione delle sinistre, fanno anzitutto una scelta di valore, sia per il campo economico che per quello etico, politico e giuridico; scelta di valore piena di conseguenze. Fin oggi la collaborazione della DC (partito di maggioranza relativa, 1947-1948 e 1953-1958 e partito di maggioranza assoluta, 1948-1953) è stata con i gruppi democratici quali partiti di centro (liberali, socialdemocratici e repubblicani) sia pure con libera entrata e libera uscita, sempre su impegni concordati. È vero che De Gasperi usò l'infelice frase ((esserela DC un partito di centro che marcia verso sinistra));infelice e contraddittoria, perché se la marcia verso sinistra è compiuta, la DC cesserebbe di essere partito di centro. Ma quale uomo politico e pratico, egli intendeva orientare la DC sopra i problemi detti sociali fra i quali hrono da lui fortemente cercati di risolvere quelli del Mezzogiorno, costituendo la relativa Cassa e gli enti di riforma agraria. Ma nessuno deve attribuire ad un uomo il dono dell'infallibilità o quello dell'esattezza nell'improvvisare un discorso e nel trovare uno slogan; quello della «marcia»fu uno slogan sbagliato. La DC orientandosi a sinistra corre il rischio di avallare la politica dei sinistri (fino a Nenni) come la vera, la effettiva, la sostanziale politica sociale, (parola anche questa oramai senza senso). Non fa altro che accettare l'interventismo statale in campo economico, unico mezzo con il quale i partiti di sinistra intendono risolvere i problemi di classe. Tale avallo produce un primo effetto: la dottrina cristiana sociale, basata sulla collaborazione delle classi e lo spirito di fraternità tutto cristiano è messa al secondo posto, se non è dimenticata; mentre la teoria del centro che va verso sinistra indica che il politico cristiano cerca aiuto in Carlo Marx. Altro effetto la scomparsa del sindacato operaio cristiano sostituito dal sindacato neutro, detto libero fino a un certo punto perché il socialismo va penetrando nella coscienza degli operai cristiani essendo il sindacato divenuto fine a se stesso, al punto da rifiutare le intese padronali dirette se queste sono ritenute lesive del principio sindacalista (vedi dichiarazione di Pastore sul caso FIAT alla quale han dato la loro adesione le ACLI). Si arriva a1 punto che in Italia si tenta di impedire la formazione di sindacati cristiani, e al punto di fare iscrivere gli operai cristiani che vanno all'estero nei sindacati socialisti per lo più a-religiosi quando non sono antireligiosi. Questa scelta etica importa anche la scelta politica. I liberali con i quali la D C ha collaborato, vengono esclusi dall'invito di partecipare al Governo, proprio quelli che nel passato sono stati di remora agli eccessi dei sinistri DC e PSDI. Tolto il freno, specie sul terreno economico, sul quale è possibile attuare provvedimenti demagogici, ecco che Saragat spunta con i suoi dodici punti, fra i quali in primo luogo la nazionalizzazione dellefonti di energia. Basta questo a politicizzare l'economia del Paese, a scalzare la libera iniziativa, a vincolare l'avvenire ad un sempre più opprimente statalismo. È questa la marcia verso sinistra del nuovo Fanfani? Che cosa significano al punto 4 saragattiano ((tuttek riforme afavore della c h e contadina)?Più danneggiata di come è si può forse ridurre l'agricoltura in Italia? I1 signor Viglianesi vuole anche lagiusta causaperpetua deipatti spari. Siamo daccapo a fare il più ambito servizio non ai contadini ma ai comunisti. Non si può trovare rimedio al malanno della demagogia, caratteristica di tutte le sinistre, specie quando fanno i programmi di opposizione e quelli di collaborazione-ricatto (la chiamo con il suo nome e cognome perché il Paese comprenda). Tanto è vero che, senza dilungarmi sui dodici punti di Saragar, basta quello che egli scrive al 11" posto: cpolitica estera che nella rinnovata adesione alla solidarietà con tutti i Paesi democratici metta in valore la vocazione italiana nella lotta per la pace e la mediazione degli interessi legittimi di tutti i popoli),. Speriamo che dopo questo tipo di esame scritto, Fanfani non osi ammettere tale candidato all'esame orale per il posto di Palazzo Chigi.


E vero che il PSDI è stato chiamato per desiderio di Fanfani e nel mettere le sue condizioni si sente in diritto di aggravare la mano. Sarebbe stato preferibile che Fanfani prima di decidersi,a mettere il suo consiglio nazionale di fronte al fatto compiuto, avesse tastato opportunamente il terreno per vedere le possibilità del futuro. Ma preso dalla euforia della vittoria e contento che l'ora sua sia arrivata (l'ora si intende della presidenza del Consiglio) ha fatto ai due partitini l'offerta pubblica, quasi vincolandosi ad accettare di passare persino sotto le loro forche caudine. La bella vittoria sinistrorsa. Non meno gravose saranno le condizioni degli aggruppamenti che compongono i due gruppi parlamentari democristiani. Pastore ha i suoi; i suoi ha Bonomi, i suoi Penazzato; siamo in pieno sviluppo di categorie; c'è anche la Base e vi sono i Gronrhiani; anche Andreotti avrà i suoi. Miracolo che Pella, Scelba e Gonella abbiano solo amici decentemente spostabili; Fanfani naturalmente conta sugli Iniziativisti, aumentati di parecchie unità. I1 governo Fanfani sarà riformista orientato a sinistra. C'è da domandare se egli arrivi fino alla giusta causa permanente dei patti agrari; fino alle nazionalizzazioni delle fonti di energia; fino al riconoscimento dei diritti dei sindacati operai, senza che questi siano in regola con la Costituzione; fino a dare in mano ai sindacati operai l'indirizzo produttivo delle industrie private; fino alla partecipazione statale nelle imprese private. Che ne pensa egli di Mattei e C.? ha letto quello che ne pensa Viglianesi? questo desidera «l'incremento delle imprese a partecipazione statale nei due enti ENI e IN)). In America «liberale» vuole dire lefist, cioè di sinistra; in Italia vuol dire uomo di destra; in America socialisti non sono neppure i sindacati operai; là nessuno si definisce di sinistra; qui perfino il Centro dei democristiani si qualifica verso sinistra. In America il sistema politico economico e sindacale è basato sulla libertà; qui Pastore dichiara che in materia sindacale egli non può adottare i metodi americani. Infatti, adotta i metodi della SFIO francese, socialista, classista, e per giunta a-religiosa (neutrale?) e sotto vari aspetti, antireligiosa. Nel 1954 Fanfani si presentò a capo del Governo monocolore contando sulle destre, e cadde; oggi, forse mirando più lontano, si è rivolto al PSDI e al PRI per passare al traguardo, inaugurando l'anno I del Centro-sinistra. P.S. - Con. Penazzato sull'Azione socialede11'8 corrente respinge i miei rilievi circa I'atteggiamento antipadronale che io ho attribuito a lui con Pastore, e all'implicito pericolo di passare dal piano della difesa di classe a quello dell'odio e del disprezzo di classe. Ne prendo atto, pregandolo di curare di mantenere ben lontane le ACLI dal sinistrismo insinuatosi nella D C .

II Giornale d'ltafia, 13 giugno 1958

La ((combinazione)) Si dice, o si diceva, a Londra, che in politica gli inglesi amano i compromessi, gli italiani le combinazioni. Quando si ripeteva tale frase, io protestavo; ma certi esempi del passato della politica italiana erano contro di me. Ora sono io ad affermare che nella politica di oggi si cercano le combinazioni più che i compromessi. Quella di Fanfani-Saragat per il futuro Governo è proprio una ((combinazione)).


Intendiamoci sul significato della parola. Combinazione ha in questo caso un sapore tutto suo; indica una serie di accordi palesi e segreti, taciti e aperti per ottenerne risultati diversi secondo l'esito dei vari elementi in contatto; mentre compromesso indica un accordo aperto nel quale le due parti hanno dato e ceduto qualche cosa o qualche punto per arrivare ad intendersi e ad operare insieme. DC più PSDI non fanno maggioranza, essi contano sul PRI. Questo gruppettino fa capire che alla fine darà il lascia passare (voto di fiducia), salvo a votare contro sui singoli disegni di legge o nel caso di contestata fiducia. Niente paura, potranno soccorrere voti di rincalzo: quelli che non si nominano (monarchici nazionali); quelli che l'ala sinistra d.c. ardentemente desidera (nenniani, detti autonomisti). Questi ultimi possono seguire tre vie: l'occasionale assenza di un certo numero di deputati colpiti da dolori di testa o chiamati fuori per affari professionali, casi che accadrebbero non importa se involontariamente o a ragion veduta. Se si tratta di votazione segreta, non è difficile fare scivolare qualche pallina bianca in mezzo alle nere; se di votazione palese, sarà cura degli zelanti mettere in vista i motivi atti a soddisfare i desideri dei nenniani con qualche emendamento che il Governo potrà, secondo i casi, accettare o respingere. È stato questo un metodo atto a dimostrare alle masse che i miglioramenti sociali sono stati votati dal Parlamento per la pressione dei socialcomunisti; mentre la DC potrà dire di avere essa fatte le leggi sociali che sono in vigore. La combinazione è perfetta; proprio quella ritenuta di marca italiana. Crede Fanfani di potere così percorrere il quinquennio della 3" legislatura, dando al paese un governo stabile? Per fare ciò egli deve cominciare fin da ora ad ingoiare dei rospi e a farli ingoiare al popolo italiano. Infatti; primo rospo quello del programma da combinare con il collega di presidenza, col titolo di vice ma con la funzione di partner. Se è vero che Saragat andrà agli esteri, sarà bene che l'indovinello messo al numero 11 del programma socialdemocratico sia chiarito in termini ~ o m ~ r e n s i b i lForse i . nessuno dei due ha desiderio di uscire dalle solite equidistanze; ma non è tollerabile che la politica estera rimanga anch'essa indecifrabile come le combinazioni stellari degli antichi astrologhi. Non ci piace negli affari esteri l'intervento di Mattei; non sono ammissibili divergenze fra palazzo Chigi e piazza del Gesù, Viminale o Quirinale, come nel passato. Martino ha pagato la sua dura fermezza; Pella paga la sua gentile coerenza; non vorremmo fosse il Paese a pagare la politica estera del nuovo governo. Passiamo al problema che nel comunicato di piazza del Gesù è stato definito <ctecnicon, quello della statizzazione delle fonti di energia. È vero che corre la voce di certe assicurazioni date in proposito dall'on. Andreotti; ma quale ruolo egli avrebbe nel futuro Ministero per poter dare delle garanzie? È da credere che la notizia sia stata messa in giro per attenuare le preoccupazioni di coloro che, non credendo alla natura tecnica della proposta, temono la politica di riforme socialistoidi, con l'avallo della DC. È bene tenere presente che già lo Stato attraverso I'ENI ha il monopolio della produzione del metano dell'Alta Italia e delle condotte metanifere di tutto il continente; attraverso l'IN lo Stato ha il 44 per cento della produzione elettrica; con la Carbosarda ha quel poco di carbone che in Italia si produce purtroppo a costi eccessivi; potrebbe già mettere un po' di ordine in casa propria, prima di espropriare i privati e prima di prendere nelle sue grinfie l'energia nucleare. È da rettificare l'orientamento: lo Stato controlli pure le fonti di energia con mezzi tecnici adatti, e cerchi di tenere bassi i costi senza far pesare oltre misura la mano del fisco; ma lasci la libertà necessaria alla iniziativa privata e assicuri la possibilità di concorrenza di mercato con leggi antimonopolio. È questo il suo compito in un paese libero e moderno. Taie indirizzo è politico ed economico ed esige accorgimenti tecnici; ma la


statizzazione oggi è scontata in tutto il mondo perché aumenta i costi, politicizza le imprese e depaupera il Paese. A non parlare, s'intende, di fenomeni di eccezione come I'ENI in mano a Martei, il quale, protetto da partiti e da uomini politici, può fare del pubblico denaro quell'uso che neppure le imprese private fanno dei loro propri padagni dovendone dare conto agli azionisti. Ciò può fare poco impressione nel settore dei parassiti dello Stato, ma fa impressione ai libero cittadino. I1 quale assiste impressionato al dilagare della corruzione dovuta alla facilità del cumulo di posti di prebende esagerate, di regalie per fare chiudere un occhio o due, di raccolta vendemmiale durante i mesi della campagna elettorale, nella quale tutti i partiti e molti candidati hanno potuto fare delle spese impensabili e delle elargizioni da gran signori. Non domandate da dove siano venute le centinaia di migliaia di lire e le diecine e diecine di milioni, non lo diranno e non si ha possibilità di saperlo. Pensare che un partitino che non ha guadagnato neppure un posto in Parlamento avrà speso presso a poco un miliardo. Questo punto è stato messo nel programma governativo della moralizzazione della vita pubblica ed è certo uno dei più importanti; tanto più quanto più insistenti sono state le voci di interessamento di enti pubblici verso le sinistre dei vari partiti al Governo e all'opposizione. Alla DC spetta una responsabilità diversa da quella che spetta alla socialdemocrazia tanto nel problema della moralità, quanto e più in quello della socialità. I due problemi non possono essere disgiunti. Dove non c'è moralità non c'è socialità e viceversa. C'è una forma di socialità che è per se stessa anrietica e anristorica: cioè quella avveniristica, destata dal senso di un futuro di giustizia terrena e di prosperità per mezzo di riforme economiche e d i interventi statali. Tali speranze creano negli ambienti giovanili e nelle masse incolte un senso di sproporzione, una psicosi che inganna e delude, attribuendo allo Stato una specie di funzione divina, contro l'insegnamento del Salmista: «non confidate nei principi, nei figliuoli degli uomini nei quali non è salvezza)).Questo rilevavo nel mio discorso del 1902 a Napoli, poi ripetuto nel 1903 a Milano, circa la democrazia cristiana di allora che si presentava come antagonista del marxismo, eccitando negli animi fiducia per un avvento risolutivo delle ingiustizie sociali. Oggi la sinistra d.c. si fa portatrice dell'awenirismo affidato alla collaborazione con il socialismo, dando a quest'ultimo un contenuto di trasformazione sociale che non ha e non può avere perché partito materialista, classista, senza fede religiosa (l'esempio russo è probante). Nessuno al mondo può farsi mai profeta del benessere materiale, rendendo vana la parola di Cristo che ci troveremo sempre travagliati all'interno e all'esterno; e solo chi «persevera sino alla fine costui sarà salvo)).Non è negata la speranza di superare le angosce presenti e di avere, come dice la liturgia, una vita tranquilla; ma non ci illudiamo, l'esperienza storica è dura; ricchezze, sapienza, benessere terreno hanno il loro contrappeso. L'errore di un awenirismo DC più socialismo non ferisce il socialismo demagogico e ateo; ferisce invece la DC spiritualista e credente. Ecco perché fui ostile all'anno I mussoliniano; così sarò ostile ad un anno I Fanfani-saragartiano. Per quanto riguarda il PSI, dopo gli anni trascorsi da Pralognan, è il caso di lasciarlo alle oscillazioni nenniane del ti vedo e non ti vedo e finirla con le aspirazioni di una possibile intesa. I1 PSI non lascerà mai la CGIL; esso, anche oggi, all'indomani della esecuzione dei capi della rivolta ungherese, troverà modo di dire e di non dire. Non scrivano i giornali cattolici che «l'alleanza fra DC e PSDI irrita molti socialcomunisti»; tale alleanza è nel loro giuoco, perché eccita le aspettative nell'anirno delle masse e della borghesia di sinistra e in certi ambienti cattolici più o meno politicamente qualificati. Tale aspettativa è pura aberrazione dovuta ail'insoddisfazione dei socialdemocratici come partito piccolo e quindi


senza avvenire, e delle sinistre d.c. come frazioni irrequiete che tendono a prendere la direttiva del loro partito. In complesso: un Ministero Fanfani-Saragat, allo stato delle cose, parlamentarmente è zoppo, programmaticamente discutibile, psicologicamente pericoloso, a meno che.. .

Il Giornale d'ltdlia, 19 giugno 1958

107. Conformisti e anarchici37 Un italiano, profugo a Parigi quando il regime era in auge, classificava i compatrioti in conformisti e anarchici; anarchici perché conformisti; conformisti perché anarchici. Gli feci osservare che, a parte gli ottimisti per temperamento, egli dimenticava gli indifferenti

In riferimento ai problemi trattati dall'anicolo pubblichiamo la corrispondenza intercorsa nel mese di giugno fra Sturzo ed il presidente dell'hsemblea Regionale Siciliana, on. Giuseppe Alessi. Lettera di Sruno del 19 giugno 1958: Caro Alessi, Non la prima volta che mi fai cenno di una mia, verso di te, come dire? disaffezione? disistima? mancanza di considerazione? non so io stesso quel che ti dispiace di me. lo sono abitiiato a dire agli amici quel che sento; a non nascondere loro i miei rilievi (se ne ho in mente qualcuno); s'intende, a tempo e a luogo. Non sono abituato a nascondere il mio pensiero con nessuno. E ciò lo faccio in perfetta amicizia, e con tutti, nella speranza che gli altri usino con me lo stesso metro. Per dirne una; la tua lertera mi conferma quel che io penso di te da un ceno tempo, che tu dài troppo rilievo alle punture di spillo, agli attacchi giornalistici, alle critiche personali, ai rilievi che verso di te possono essere o sono addirittura ingiuste, inesatte, malevoli anche, tendenziose perfino. Ti consiglio fraternamente di non darvi im orranza, di non cercare di saperlo, di non rispondere a li attacchi, di non occupamene. Ti libererai così da una soRerenza morale che io assomiglio $11 sofferenza fisica cRe recano Ie pulci con Ie loro continuare punture. Questo ti scrivo perché ti voglio bene, ti apprezzo; tu fai e potrai fare ancora di più molto bene, e per questo ti chiedo il permesso di farti un'altra osservazione amichevole; tu sei un così seducente parlatore che tu stesso ti ascolti con eguale godimento di quello che provano gli altri; non ti ascolti certo per vanità; la realtà s'impone. Ma uesta realtà ti fa perdere molto tempo che potresti dedicare a fare dell'altro bene. Per q u a ~ M ealtro mio rilievo, portato alle tue orecchie. come da me fatto. sarai cortese di domandarmi spiegazione che io darò con semplicità e verità; e se vedrò di avere mancato so bene il mio dovere di chiederti scusa. Ma non sospettare di me né dubitare. Non merito simile trattamento. Quando vieni a Roma, anche se devi fare il cacciatore di uccelli, ricordati di telefonare se non altro per salutarci. Cordialmente Luigi Stiirzo. In: A.L.S., b. 501, fasc. «Ari. e 1. pubbl. del Prof. L.S.», giugno 1958. Lettera di Sruno del 21 giugno 1958: Caro Alessi, Rispondo subito per rimettere la notizia nel suo quadro naturale. Fin dall'anno scorso ho insistito con I'on. La Loggia per sollecitare le pratiche preliminari delle elezioni provinciali; ma in dicembre ritornando al tema egli mi disse non essere possibile farlo prima delle elezioni politiche. Di recente, ho insistito er farle nel prossimo ottobre, ne ebbi per risposta che ancora la commissione parlamentare non aveva dato i parere (o approvazione che sia) sulla proposta delle circoscrizioni elettorali. Né più, né meno. Trattandosi di affare di assemblea, mi ero prefisso di non avendoti visto avevo deciso di scriverrene. Venuto Milazzo gli dissi di insitere con te per sollecitare la decisione. Ricordo bene che tu, per altro affare (quello del disegno di legge sulla coltivazione del cotone) mi hai detto che il regolamento di cotesta assemblea non ri dà poteri di intervento; ma ricordo altresì di averti ris osto di porrare liffare in assemblea per fissare un termine perentorio, do o il uale applicare le misure diwiprinari e procedurali del caso; ovvero prendere l'iniziativa della modifica d e ~ r e g ~ a m e n t o .

P


e i disillusi. Non li dimentico, rispose; sono sottoprodotti del conformismo e dell'anarchismo. Gli ottimisti non contano. Egli non immaginava essendo anche io un profugo, che mi classificassi fra gli ottimisti per fede più che per temperamento. Comunque siano le cose, il conformisrno italiano è un fatto che si ripete in fase di libertà e in fase di dittatura. Giolitti e Salandra giocarono sul conformismo del Parlamento Né da parte di La Loggia alcun apprezzamento malevolo o insinuazione nei tuoi riguardi; né da parte mia, mancanza di comprensione. Mi sembra che sia più vantaggioso all'interesse superiore della Regione e d a tranquillirà del tuo spirito, prendere tutto per il suo verso, senza voler fare il processo alle intenzioni, meno di tutte a quelle del tuo sincero e aff.mo amico Luigi Sturzo. P. S. Grazie del relegramma di auguri. In: A.L.S., b. 564, fasc. «Art. e 1. pubbl. del Prof. L.S.», giugno 1958. Lettera di Alessi del 28 giugno 1958: Caro don Luigi, permetta che anch'io non le nasconda il mio pensiero e, in perfetta amicizia, le dica quel che sento. E vero che io dò rilievo agli attacchi giornalistici, alle cririche personali: lei mi consiglia di non leggere i giornali; non dovrei leggere nemmeno i suoi arricoli, che mi comprendono tra gli «anarchici.! Quest'ultimo suo articolo (che considero offensivo per molti siciliani e lesivo della verità) conferma ancora una volta che lei non controlla le informazioni che le pervengono. Esso fa il paio con un altro articolo che dalla stessa tribuna scrisse per I'EZI, non disapprovando la nomina a Presidenti di ben due medici, che però rovinarono l'Ente, ma tuonando contro altri candidati che (vedi caso) erano da me sostenuti. Mi ermetta di ricordare che nel febbraio '48, quando ebbi la prima crisi di Governo, lei non scrisse; nel '49, quando ebbi la seconda crisi, lei non scrisse; nel novembre del '56, quando ebbi la terza crisi, ennaio Bei non scrisse. Lei continua a non credermi. ma debbo ripetere che autori di quest'ulrima crisi, a suon di milioni, in chèques, furono quegli ambienti per i quali lei si batte con tanro ardore. La cosa strana è questa: che io sono il nemico di codesti ambienti, perché penso ed agisco come ensaua ed agiva lei alla mia età e come a me pare giusto si debba continuare a pensare ed agire nella lotta per a democrazia, per il costume contro ogni apparato politico, sindacale ed economico (i monopoli, sia pubbliciche riuatz). La lotta contro i monopoli ~ubblicisi trova nella stessa linea; que la contro i monopoli privati, in linee diverse. La battaglia atrorno d a Finanziaria siciliana si è intitolata nel nome di La Cavera, solo perché il Presidente della Regione si impegnò sul nome di La Cavera; se non era d'accordo, avrebbe dovuto dirlo chiaro e subito. Ora, se lei crede che la ritrattazione sul nome di La Cavera costituisca un omaggio al suo giudizio critico, si sbaglia enormemente, anzi ci fa la figura di una persona corbellata. Per farla convinta, le dirò che un giorno prima di emanare il provvedimento, il Presidente della Regione mandò a chiamare l'in La Cavera e lo invesrì (ufficiosamente, ma smaccatamente) dell'incarico, accennando alle enormi difficoltà c f e aveva su erato, tra cui la sua e quella di Fanfani (intanto Fanfani si affrettò a smentirlo pubblicamente). Un giorno L p o ritrattò, contraddicendo il Gruppo DC, il Gruppo del MSI ed il Gruppo Liberale. I1 capovolgimento fu dovuro esclusivamente ad una riunione svoltasi a Roma tra i signori Pesenti, Faina, De Micheli, Bazan, Michelini (ci06 i nuovi reali governanti di Sicilia) i quali imposero I'accanronamenro della candidatura La Cavera, minacciandogli, in caso contrario, la rotrura (guerra di giornali, di finaziamenti, di voti) e procurandogli la sconcertante, autolesionista adesione del MSI, pagaro in contanti con 100 milioni dalla Italcementi e d d a Montecatini. Fatta la controproposta Gaetani, non la accettarono e proposero Capuano (SGES, Tifeo, etc.). Così la SGES, che vomitava fuoco per la politica regionale pro S E , ora ha avuto lo zuccherino. Do o di che, il Presidente sollevb le cause giuridiche di incompatibilirà, le quali erano infondate, anzi sono ridico[ pur avendole lei ritenute notizie. Quando vorrà, le invierò un memorandum che potrà sottoporre ai giurisri che crede. Ad ogni modo, la fonte* iuridica della pretesa incom atibilità, non è il Codice Civile, ma lo statuto della Società. fatto dal Presidente e l l a Regione e dallo stesso riErmato a distanza di qualche giorno dalla costituzione del Consiglio. Ricorda le accuse fattemi a suo tempo circa il disegno di legge sulla industrializzazione? ricorda che si disse che io lo avevo compilato sui su erimenti deUa Sicindustria! Esso, invece, venne redatto a mepersonalmente, proprio nel Collegio dei Teatini, dove mi chiusi per 48 ore con 1'0n. Bonfiglio e il Prof. Villari, tenendo sottomano i resoconti parlamentari relativi ai vecchi progetti, le istanze dei congressi economici, le richieste della Sicindustria, della CISL, della CGIL, etc. Ebbene, ora si è scoperto che gli emendamenti resentati dall'odierno Presidenre della Regione, sono stati regohnnente disczusied approvati a Roma con i sulrodati personaggi in Via Salluniana n. 26 (Ufficio Itdce-

6;

f

P '

P


e della stampa; Mussolini su quello del partito unico e del «libro e moschetto)).Oggi vi è un conformismo partitocratico, multiplo e utilitario. I1 conformismo italiano non nasce da spirito gregario tipo tedesco o scandinavo; neppure da insito rispetto all'autorità, alla legge, alla tradizione, essendo noi purtroppo abituati a non dare eccessivo peso a queste rispettabili e antiche insegne, perché la legge, quando si può fare impunemente, non si osserva in basso né in alto; l'autorità è vista solo nella veste dell'esattore e del poliziotto; le tradizioni di carattere politico non si formano facilmente in un Paese di recente e non omogenea organizzazione unitaria, mentre non è mai stato domato l'istinto di rifiutare il passato, per contare ad ogni svolta politica, implicitamente o esplicitamente, dall'annoprimo. L'individualismo personale o di classe, gruppo, nucleo, comune, regione, o di qualsiasi altra divisione geografica, dialettale, costumaria, culinaria, perfino climatica ci porta a sottovalutare quel che è patrimonio comune, compresa la lingua italiana così maltrattata; comprese le istituzioni politiche così discusse; compreso, perfino, lo sforzo di miglioramento verso il benessere così notevole e nel passato e nel presente. In sostanza si nega la storia, la nostra storia, falsandola per retorica presuntuosa o per spirito fazioso. Ma vivere insieme dobbiamo: ed ecco la tendenza al peggiore conformismo, quello che non ha per base la solidarietà spirituale e storica, la razionalità della legge, la venerabilità

menti) esartamente il 26 febbraio 1957, alle ore 18. Tale riunione ebbe un seguiro al Grand Horel nell'apparramenro di De Micheli, alla presenza di Faina, Pesenti, La Loggia e dello stesso La Cavera! (che allora passava per.. . persona per bene). Non mi aveva sempre inse nato che questo si chiama malcostume, perché nasconde le vere responsabilità? I Signori Perenti ~i C. si bcciano eie ere deputati regionali; noi ascoiteremo con risperro le loro tesi; ma non è lecito che costoro dispongano delf?~ssembleaRegionale e del Governo solo con la pressione del loro denaro! Essi fanno quel che Lei contesta ail'ENI ed a Donomi; allora mettiamoli tnttinllo stesso muro. Non mi dica che altro è il denaro privar0 ed altro il pubblico, perché anche il primo è denaro pubblico. Già la Monrecatini ha chiesto un contributo per I'Agraras (40 operai, 2 e 112 miliardi IRFIS) a fondo perduto di ben 300 milioni. E La Loggia fielo ho p e r y s s o Infine, le deb o dichiarare il mio dolore nel constarare che la gloriosa lorra da lei iniziata 6 0 anni fa, conrro la massoneria, la mafia e la prepotenza, conducendo i cartolici al riscatto del piibblico costume per una vira pubblica cristiana e democratica, da noi perseguira con devozione di discepoli ed amore di figliuoli, è interrotta, bruscamente inrerrotra e, con nostro estremo sconforro, a causa del suo avallo. G. Alessi. In: A.L.S., b. 455, fasc. rFasc. Sciolti,,, 1958. Lettera di Srurzo del 3 0 giugno 1958: Caro Alessi, La chiusa della sua lertera del 28 non 8 iuscificata nei miei riguardi. Il mio arricolo ((L? Combinazione» è chiaro. Nessuno in Italia ha osato scrivere que che lì si rrova: #Ciò può fare poca impressione nel settore dei parassiti dello Stato ma fa impressione al libero cittadino. Il quale assiste impressionato ai dilagare deUa corruzione dovuta alla facilirà di cumuli di posti, di prebende esagerate, di regalie per far chiudere un occhio o due, di raccoltavendemmiale durante i mesi della campagna elerrorale, nella quale tutti i partiti e motti candidari hanno o turo fare delle spese impensabili e delle elargizioni da gran signori. Non domandare da dove siano venute L cine e diecine di milioni; non lo diranno e non si ha possibilirà di saperlo. (Giornale d'Italia 19-20 giugno). Non credere che la malattia è solo siciliana; le notizie dell'alra Italia, delle Calabrie, delle Puglie, della C m pania e del Lazio (notizie da me accertate) sono di ben larghe dimensioni. Ne parlerò in Senato e sto preparando un dise no di legge in proposito. Voce nef deserto? sia pure. Non cerco il successo; sarb uno sconfitro oggi come lo fui nel 1922-24; ma avrò fatto il mio dovere. Non cerco altro; non penso ad altro. Che il Signore ci illumini, ci guidi e ci sosrenga. Cordiali saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. .Art. e 1. pubbl. del Prof. L.S.», giugno 1958.

f

&L


della tradizione, la rispettabilità dell'autorità; ma deriva da un adattamento senza convinzione, per evitare noie (chi me lofafare?); deriva dalla ricerca dell'utile adulando il potente; dal timore di perdere i vantaggi e i posti che possono ottenersi attraverso i partiti più forti e le amicizie parlamentari più ambite. Quando il vantaggio non è continuativo o non si è avuto per promesse mancate (uso promesse elettorali); quando il potente adulato è caduto per dare posto all'awersario; quando le amicizie parlamentari fruttano poco (i desideri dei parassiti non hanno confini); allora al conformismo subentra lo spirito di ribellione; il ribelle che protesta non per un ideale sentito, per un migliore sistema politico o economico; ma per il risentimento anarcoide di chi non vede più in là del vantaggio materiale, al quale crede di avere diritto con preferenza sugli altri.

Il conformismo e I'anarchismo italiano dipendono da condizioni di fatto che l'unità nazionale e il sistema costituzionale e libero non solo non hanno eliminate, ma può dirsi abbiano peggiorate; principale la mala amministrazione, sia al centro che alla periferia: Stato, comune, provincia, e ora anche regione. I1 cittadino nei paesi anglosassoni è creduto meritevole di fiducia fino a prova in contrario, ma il giorno in cui si è dimostrato di non meritare fiducia, per lui è finita, non la riconquisterà più. D a noi, invece, si parte dall'opposta ala: la pubblica amministrazione diffida del cittadino, diffida sempre, tranne di coloro che sono amici o amici degli amici. I1 principio anarchico della mafia siciliana si trova insito nel costume generale del Paese. Si forma così, istintivamente, un doppio processo; quello del conformismo dell'amico e dell'amico degli amici, e quello dell'anarchismo del cittadino sospettato e maltrattato. Estendendo questo fatto alla psicologia del pubblico funzionario, si vede subito il duplice apprezzamento, quello dell'amico, che va dalla bustarella alle raccomandazioni del parlamentare o del partito - apprezzamento conformista -; l'altro del cittadino comune, il quale dopo lunghe trafile, stancanti anticamere, interrogatori come se fosse un pregiudicato o un ammonito; dopo infruttuose salire e discese di scale; è rimandato con la risposta che si prowederà a tempo opportuno owero non si prowederà perché vi osta il regolamento. Quel cittadino, se non accetta il ruolo di disilluso, diviene un anarcoide. Deputati e senatori sono stati concepiti, nella fantasia popolare, come agenti elettorali, persone che debbono fare dei favori per la loro influenza nella capitale, allora del regno e ora della repubblica. I1 rappresentante della nazione non solo è distratto dalle sue mansioni e dallo studio degli affari parlamentari, ma è giudicato dagli elettori attraverso il numero e la qualità dei favori fatti, favori non sempre regolamentari, non sempre puliti, né certo d'interesse generale. Così si crea un tipo di conformismo che attraverso il deputato va al partito. Il quale, avendo per base la formazione dei conformisti soci, o iscritti come si dice, non è composto da una massa omogenea di persone che accettano una bandiera e un programma; ci sono partiti che non hanno alcun contenuto etico-politico owero, avendolo nel programma scritto, non lo hanno nei farti, perché ridotti ad essere da un lato agenzia di collocamento e di favori privati, dall'altro bandiera che raccoglie sotto la sua insegna e attraverso le tendenze oves et boves et universa pecora: ((unamano lava l'altra e ambedue lavano il viso».


Infine il conformismo delle masse crea la dittatura dei capi e viceversa; e quando la corda diviene tesa, il gregario protesta e tira calci; il dirigente trascura o perseguita o manda via. Di fronte al favore si è conformisti; di fronte alla prepotenza si è anarchici. L'anarchico per motivi ideali, se non crede opportuno di reagire, si chiude nel silenzio del disilluso o passa al campo degli indifferenti; ma I'anarcoide per ragioni materiali è un inquieto che si agita fino a che trova modo di ridiventare.. . conformista. La malattia (una o due?) infetta anche gli organi della società e ne altera le funzioni. In regime dittatoriale (aperto o criptico), tutto dal basso rimbalza al dittatore, al capo politico o militare. Giolirti fu il tipo del dittatore criptico, salvando la faccia della libertà formale o formalistica; Mussolini il tipo del dittatore aperto che in sé riunì le funzioni-di capo del governo e di capo del partito unico. Comunque sia, il fatto è questo da un pezzo; i limiti tra governo e partito non sono stati e non sono osservati, tanto nel periodo fascista e ancora di più (per la moltiplicazione dei partiti e delle tendenze) nel periodo repubblicano. Gli zelanti della presente democra~ zia, alla mia affermazione non $dino come le oche del Campidoglio; li sfido tutti a dimostrarmi il contrario, quando possono fare quel che vogliono, anche in politica estera, tutti i piccoli e grandi Mattei di questo felice Paese. Non parliamo della politica economica; i tre ultimi decreti (Gazzetta Ufiiale del 13 giugno) promossi dal Ministro delle partecipazioni circa gli enti di gestione indicano a quali eccessi di arbitrio si può arrivare, nonostante i ragionati pareri prima del Consiglio di Stato e poi, di rincalzo e con più evidenza, della Corte dei Conti. Si dice che i tre enti, privi di contenuto e di funzionalità perché manca fin oggi il mezzo legale per il passaggio delle partecipazioni a detti enti e costituirne il patrimonio, sono stati creati col relativo statuto solo per dare posti lautamente rimunerati agli amici degli amici di cui sopra. v

v

Passando da Roma a Palermo, nei giorni scorsi si è assistito ad una levata di scudi dell'ala sinistra, con altri di rincalzo dell'hsemblea regionale, contro il decreto presidenziale di nomina della amministrazione della Finanziaria; l'abuso degli oppositori non è quello di criticare un atto amministrativo di competenza del Presidente quanto quello di sostituirsi all'organo responsabile, intimando lo scioglimento del Consiglio già nominato per favorire una nota persona, apertamente indicata e per giunta notoriamente ineleggibile. Ogni abuso di potere ferisce la morale pubblica; l'Assemblea regionale abusa di un potere che non le spetta. Passando dall'Assemblea regionale al Parlamento nazionale, fra i tanti fatti ne rilevo uno per molti lati complesso, quando per una lettera privata del Capo dello Stato diretta al Presidente della Camera, fu rimandata l'Assemblea nazionale già convocata per la nomina di due giudici dell'Alta Corte siciliana, accettando il suggerimento contenuto nella stessa lercera di procedere «subito» alla coordinazione dell'Alta Corte siciliana con la Corte Cosrituzionale. Dal marzo 1957 il subitodel Capo dello Stato fu trascurato per tutto l'anno, con sottile, predisposto e continuo sabotaggio delle proposte, fino al decreto di scioglimento delle Camere, sì che le proposte caddero automaticamente. Potrei fare un lungo elenco della mancanza di rispetto a l limite del proprio potere di ciascun organo costituzionale, sia eccedendo con atti di arbitrio, sia chiudendo un occhio alla palese violazione della legge. Un caso varrà per tutti: quando ebbi a denunziare al Senato l'aperta violazione del disposto dell'an. 122 della Costituzione da parte della legge elettorale che si votò nel febbraio scorso, nessuno vi fece caso; la mia osservazione cadde nel


vuoto; commissione e governo che dovevano accettarla tacquero e messa la mia proposta ai voti, nessuno alzò la mano meno quel senatore che per la mia assenza aveva fatto suo I'emendamento. Mancanza di sensibilità legislativa?Fretta? Partito preso? E quante volte il nostro Parlamento, usando del diritto interpretativo delle leggi, ha dato a particolari articoli arbitrarie interpretazioni con effetto retroattivo, offendendo perfino diritti ed interessi legittimi di cittadini? Non voglio generalizzare, ma il costume di un Paese che ha la struttura di Stato di diritto, in regime libero e democratico, non può ancora essere inficiato da un sistema incivile, qual è quello del conformismo senza convinzione e quello dell'anarchismo di reazione; metodi e concezioni materialistici l'uno e l'altro, atti a rompere la solidarietà civile ed a discardinare l'organismo nazionale. Bisogna prowedervi con l'educazione fin dalle prime scuole (nella speranza che maestri e maestre non siano conformisti né anarchici) e con la convinzione di una libertà basata sulla verità e resa efficace dal soffio della coscienza di personalità etica e civile; che per noi credenti è anche principalmente coscienza di personalità cristiana.

Il Giornale d'ltalia, 24 giugno 1958

Fasti e nefasti dello statalismo Lascio agli statalisti di scrivere o parlare sui fasti dello statalismo, e alle pubblicazioni dei vari minisreri dare i dati statistici diretti a dimostrare i continui vantaggi che ne derivano al popolo italiano. La statistica è una scienza interessantissima e utilissima, ma ci dà la quantità non la qualità; ci dà l'astratto non il concreto; ci dà il numero non I'interpretazione. Io preferisco i nefasti al concreto, uno ad uno, giorno per giorno; in dodici anni di questo lavoro ho raccolto una collezione voluminosa. I Nefsti sono il concreto: il fatto nella sua realtà; la qualità che li individua. Queste cose interessano coloro che ne provano gli effetti amari. Non ho altro scopo che di vederli eliminati, sia negli effetti immediati con un'azione rinnovatrice dello Stato (quello Stato di eccellente fattura che abbiamo visto ritratto nella pittura astrattista e modernissima del programma dei 20 punti); sia eliminando le cause, cioè sopprimendo gli enti inutili, superflui e dannosi, o meglio la causa principale, cioè l'indirizzo statalista che l'Italia attua da un pezzo, sotto la dittatura e sotto la democrazia, senza sapere dove voglia arrivare. I1 direttore di uno dei tanti istituti superiori annessi alle università statali mi ha fatto osservare che mentre il suo ha una dotazione annua che tocca il mezzo milione, I'ENI ha istituito a San Donato Milanese la scuola superiore degli idrocarburi. Se la Finmeccanica, la Larderello, la Cogne ed altri simili, con i denari dello Stato, promuoveranno istituti presso le proprie imprese (a parte gli industriali privati), gli istituti universitari statali potranno chiudere bottega per fallimento. Gli ho risposto che I'ENI è aurorizzato a far ciò dalla legge istitutiva; ignoro il tipo di spesa fatta se per l'organizzazione scientifica o per magnificenza edilizia, ma non biasimo l'iniziativa. Vorrei che la libertà scolastica fosse tale da favorire tutte le iniziative culturali stacali e privare, senza monopoli e privilegi. Per quanto riguarda le condizioni di disagio di molti istituti e di non poche università,


non fa meraviglia a nessuno che conosce la nostra amministrazione anche in questo settore. Lo Stato è un accentratore burocrate e formalista; è un monopolizzatore pretenzioso e incosciente; non sa rispettare la libertà, ne ha paura; non sa commisurare il numero degli istituti e delle scuole ai mezzi disponibili; non ha generosità per la scuola, mentre sperpera i denari con i deficit degli enti cinematografici, meccanici e metaniferi per centinaia di miliardi. Domando spesso: ma chi è lo Stato! La burocrazia fa quello che può, impigliata nei regolamenti e nelle circolari: di recente veniva esumata una circolare del periodo fascista per impedire non so quale atto di libera scelta di una facoltà universitaria; altra volta ho narrato la storia di un trasloco, il cui ricorso fu tenuto per un anno al ministero per poi riconoscere che si trattava di competenza del proweditore a revocare un proprio atto arbitrario perché fatto senza l'osservanza delle norme del caso. Passiamo ad altro: non si è compreso da molti (e uno di questi molti è colui che scrive) il motivo del passaggio all'IRI delle compagnie telefoniche del centro-sud e non l'ente telefonico che tuttora è gestito dal iMinistero delle Poste; le due prime in mano a privati con bilancio in attivo, il terzo in mano allo Stato con defiitcostanti. Oggi dopo che il Tesoro ha pagato il forte riscatto degli impianti con un buon numero di miliardi, molti dei quali ad azionisti esteri, si ha notizia che la gestione dei telefoni irizzati va sui trampoli. Nel fascicolo 3 di «Via Aperta» si afferma che gli amministratori statali degli enti irizzati per fare denaro sono stati autorizzati con regolare decreto ad applicare una multa agli utenti che ritardano i pagamenti anche di un giorno con una percentuale che va dal 50 al 720 per cento, secondo i giorni di ritardo. Per un giorno di ritardo l'utente paga il 727, 64 per cento; otto giorni di ritardo il 91, 08 per cento al giorno. Pensare che il pagamento è fissato il 19 di ogni mese; gli impiegati, che riscuotono lo stipendio al 27 del mese, si troveranno parecchie volte a corto di denaro e pagheranno anch'essi le forti multe. Che cosa c'è dietro? Un piccolo disappunto: gli enti telefonici irizzati vogliono un aumento di tariffe; le spese sono aumentate e anche il personale è aumentato; si dice di 600 unità in sei mesi, cento al mese. Purtroppo gli enti statali (non ostante il nuovo programma governativo di un rifacimento dello Stato a 6 imis) non amministrano mai bene perché non ci sono per gli amministratori rischi né responsabilità. Se ci fossero, i responsabili del def;cit di più di sette miliardi dell'ente cinematografico in liqi..dazione sarebbero stati già denunziati al Magistrato e al Procuratore Generale della Corte dei conti; è vano sperare che il magistrato, di fronte agli enti statali, possa prendere l'iniziativa dell'accertamento di ufficio. Si sperava che I'attuale liquidatore, oggi promosso a presidente dell'ente autonomo di gestione per il cinema (ne parlerò più giù) si desse la pena di accertare le responsabilità personali degli amministratori e dei revisori dei conti; ma nulla si sa in proposito: segreto di ufficio od omertà? Parliamo dei nuovi enti autonomi di gestione, dei quali la Gazzetta UA;cialedel I 3 giugno ci ha dato lo statuto e quella del 23 giugno i nomi degli amministratori. Gli enti sono tre (fin oggi); pare che debbano arrivare a 8; (col tempo arriveremo a 80). Le nomine fatte sono state solo per due enti. Per le aziende termali: presidente l'aw. Umberto Ortolani; membri professor Cassano, dottor De Zerbi, dott. Picone, prof. Savoretti; per l'ente del cinema: presidente il rag. Torello Ciucci, amministratore il dottor Ammannati, l'aw. Castracane, il prof. aw. Ferri, il dott. A.C. Rocchi. Su tali provvedimenti ho presentato la seguente interrogazione, diretra al Presidente del Consiglio «per conoscere i motivi che hanno indotto il Governo a dare corso al decreto di istituzione di tre enti autonomi di gestione, per le aziende minerarie, per il cinema e per le aziende termali, mentre il Consiglio di Stato con parere motivato ebbe a riconoscere la necessità


di una legge particolare di autorizzazione, che fissi le norme per il passaggio delle partecipazioni statali a tali enti, legge che allo stato delle cose manca, perché I'accenno fattone nel testo della legge che istituisce il Ministero delle partecipazioni non contiene alcuna norma in proposito; e non ostante che la Corte dei conti, con altro parere motivato, abbia rilevato che I'ente delle aziende termali non avrebbe alcun diritto a gestire quelle terme che hanno patrimonio proprio (sia statale che privato) e propria amministrazione. La stessa Corte dei conti, a quanto se ne sa, ha fatto notare che i tre enti, non potendo ottenere il trasferimento delle partecipazioni, non potrebbero avere alcuna funzionalità pratica, e neppure i mezzi per far fronte alle spese di primo impianto e di amministrazione. In tale situazione non si comprende la fretta delle nomine fatte con il decreto del 14 giugno dei relativi presidenti e consiglieri di amministrazione (Gazzetta UAir;aaledel23 giugno) e forse anche del collegio dei revisori (che fin oggi non risulta); non reputandosi possibile, fra l'altro, l'assegnazione di stipendi, prebende o indennità sia alle persone indicate nei decreti stessi, sia al impiegatizio che verrebbe assunto. Pertanto il sottoscritto, mentre chiede l'assicurazione che nessuna spesa venga autorizzata per l'andamento degli enti suddetti, i quali, senza la legge speciale, sono vuoti di contenuto, esprime il desiderio che i pareri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti al riguardo siano depositati nella segreteria del Senato, per l'esame del caso da parte dei senatori ed eventuale intervento in aula nei termini regolamentari». Il testo della interrogazione è così chiaro che mi dispenso dal fare qualsiasi commento; solo per la cronaca aggiungo essermi stato assicurato che I'aw. Ortolani, fondatore e gestore dell'agenzia Italia, ne abbia ceduto all'on. Mattei la gestione e anche la proprietà, in quanto questi ne era stato cofondatore o qualche cosa di simile. I1 rag. Ciucci di Livorno, anche lui fortemente protetto come lo stesso Ortolani e già liquidatore dell'ente cinematografico, va ad assumere la gestione di un ramo statale importantissimo e costosissimo, quello delle sale cinematografiche di Stato (di istituzione fascista) che potrebbero e dovrebbero essere cedute all'industria privata, essendo venuta meno la funzione di propaganda del regime e del partito unico di un tempo. A meno che non si voglia ritenere che certe esibizioni nudiste, o quasi, e certe trame di mala vita facciano parte del compito educativo dello Stato, non ostante la marca della DC (maggiorata o minorata che sia dai PSDI) e i recenti propositi di moralizzazione della vita pubblica.

11Giormk d k l i a , 1 luglio 1958

Perplessità a destra trombette a sinistra38 Non intendo precorrere le dichiarazioni governative in Parlamento, anzi do atto alla direzione della DC che afferma che il programma del Governo «costituisce sicura garanzia per lo sviluppo democratico della Nazione nella libertà, nella sicurezza, nella pace, secon-

3R

Lettera de11'8 luglio 1958 all'on. prof. Arnintore Fanfani: Caro Fanfani, Rispondo subito alla tua di oggi affermando di non avere avuto e non avere alcuna volontà diffamatoria nei ruoi riguardi, ma h o cercato di chiarire a me e ai lenorj il senso dei ruoi discorsi e del tuo aneggiamenro politico.


do le attese degli italiani». I1 fraseggio è così da Nazione, con la N maiuscola, a italiani (fra i quali credo di esserci anch'io), che non deve dar luogo a dubbi. Però.. . il fatto reale è che a destra esistono perplessità non ostante l'atteggiamento quasi sereno e discretamente fiducioso deila grande stampa che è quella che conta. Dico perplessità, non tenendo conto della marcata opposizione a destra e di certi segni di attesa non molto chiari: per chi vuol comprendermi o è in grado di comprendermi l'accenno dovrebbe bastare. Che cosa c'è che attenua la frase direzionale della DC?Quel che io definisco: trombette; non sono forti, non sono gioiose; vanno per vicoletti ciechi a svegliare i compagni di oggi e a tentare quelli sperati per il domani. Un quotidiano etrusco dei sinistri dc, che ha larghi mezzi per fogli illustrati, giorni fa metteva per titolo sopra un paragrafo riguardante il nuovo governo: ((politica delle cose)). La frase nenniana è nota; Nenni ha detto che voterà per le cose e sulle cose; le astrattezze teoriche, le discussioni di tendenza, le pieghe insidiose dei fraseggi a metà.. . non sono per lui. Cose ci vogliono; giusta causa perpetua, statimzione dellefonti d i energia e simili; cose belle e fatte. Rispondono in etrusco i giovani di sinistra; ma non vedi che i 20 punti sono tutte cose concrete? Vedrai i disegni di legge, caro Nenni, e ci troveremo insieme. Si sa, in etrusco si scrive diversamente; la mia è una traduzione interpretativa di ciò che si tenta di decifrare. Anche i nostri giovani di sinistra gareggiano con gli etruschi di Veio nel cripticismo letterale. Per averne un esempio testuale riporto alcuni passi del deliberato delle ACLI di Milano che sono in concorrenza con la Base di Milano; testo che riprendo dal Popolo del 25 giugno (edizione di Milano, in esclusiva). iMi dispiace che il testo sia troppo lungo per essere inserito in un articolo, ma alcuni passi sono significativi: ((Nelquadro dianzi descritto è necessario che le forze politiche di ispirazione cristiana, con l'appoggio di quanti agiscono o sono recuperabili allarea democratica, drontino decisamente e risolvano i gravi problemi derivanti dai perduranti squilibri economici e sociali del nostro Paese. A tale fine sono impegnati i deputati aclisti e tutto il movimento che deve essere più che mai teso a formare un sano costume democratico e deve, in avvenire, far sentire tutto ilsuopeso sullepubblicheautorità perché sia impedita ogni forma di involuzione e di immobilismo e sia promossa, senza ulteriori indugi, una coraggiosa politica di sviluppo economico, sociale e democratico)). Quindi la consulta provinciale delle ACLI impegna tutto il movimento su questi punti: a) b) CC)inserire, in sempre maggiori dimensioni, gli aclisti negli strumentidella esperienza politico-sociale dei cattolici e, in considerazione dell'attuale momento, segnatamente nelpartito di ispirazione cristiana, per assicurarne un deciso orientamento sociale contro ogni tentativo di involuzione e di pressione esterna; e nel sindacato democratico, per aumentarne il potere contrattuale al fine di assicurare una meno ingiusta distribuzione del redditm. A parte la frase equivoca della ((distribuzionedel reddito)) tipo statalista, i lettori sono

Sono pronto a rettificare quel che tu stimi diffamatorio nei miei scritti se avrai la bontà di indicarmelo, dimostrando che io male interpreto quel che ti si atrribuisce e non da me solo. Auguro che l'opera rua sia tale da concorrere alla unificazione spirituale di un partito sbattuto dai venti delle correnti e da profondi dissidi di metodo e di merito. Tu stesso sarai convinto che io non possa assistere a tanto scempio negli ulrimi anni o mesi della mia vita (le cose di Sicilia sono troppo vive e le posizioni della Base e dei sinistri d.c. troppo chiare); solo un tuo inequivoco inrervento potrebbe forse fermare il tragico corso di un secondo esperimento Milazzo. Cordiali saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 512, fasc. rF. S.», 75.


pregati di dirci chi possano essi essere i recuperabili allarea democratica ai quali le ACLI domandano appoggio anche prima di essere recuperati. Non certo Malagodi, né Lauro, né Covelli e neppure Michelini; non restano che Nenni e La Malfa. Occorre anche chiarire che cosa si intenda per inserimento delle ACLI per potere gli aclisti far sentire tutto il loropeso sulle pubbliche autorità perché sia impedita ogni forma di involuzione (confronta La Malfa) e di immobilismo (parola usatissima da Nenni). Sarà questa un'affermazione contro uomini della DC quali Scelba, Pella, Gava, Aldisio, Taviani? Alle parole del seguente: «contro ogni tentarivo di involuzione e di pressione esterna» sembra che sia un riferimento alle destre, per definizione <(nonrecuperabili». Nell'area del nuovo governo secondo le ACLI, potrebbero essere recuperabili solo i nenniani. Sta a vedere se, tra la «politica delle cose» e il(crecupero»,non saranno i sinistri dc ad essere recuperati da Nenni e messi sotto la frusta marxista. LIAvvenire dytalia pubblica una rievocazione storica del congresso della lega democristiana del periodo murriano. I1 titolo dice: «L'apertura a sinistra proclamata nel 1906 a Milano, al primo congresso della Lega». Questo titolo non dispensa nessuno dal leggere una rievocazione obiettiva del convegno della Lega murriano tenuto a Milano più di mezzo secolo addietro, quando non esisteva in Italia un pericolo comunista, né vi era in Europa una Russia bolscevica; quando i cattolici non avevano la maggiore responsabilità della vita e della libertà e del governo della nazione. Fra il 1906 e il 1958 non esiste un prima e un poi, trattandosi di due situazioni assai diverse; e poi, si trattava veramente di apertura a sinistra? Leggasi la prosa sdegnosa e sprezzante di Turati verso i murriani per capire le aperture e i recuperabili del 1906. Passando al 1958 è da segnalare l'Agenzia Parlamentare Italiana del 2 luglio, dove si cerca di classificare il Governo Fanfani come quello dell'apertura sociale. Per l'articolista, o per chi lo ispira, per tredici anni di governo d.c. in Italia non è capitato di vedere alcuna apertura sociale; tutta la serie di leggi e prowedimenti adottati, anche quelli da me criticati dal punto di vista amministrativo, tecnico e politico, per tale agenzia non contiene un briciolo di socialenel significato che si dà usualmente a questa innocua parola. Dire che solo oggi si ha un governo di apertura sociale è negare il passato, fissando quel famoso «anno I» che è tanto dispiaciuto a certi amici vederlo sotto la mia penna, come se avessi io voluto accusare Fanfani di fascismo; perché, se oggi si va a sinistra, nel 1922 si cominciò ad andare a destra. La cosa difficile da far capire agli avveniristidi destra e di sinistra è la massima di Salomone: «Non c'è nulla di nuovo sotto il Sole». Ecco quanto scrive l'API: «Negli ambienti democristiani di sinistra si rileva, con cornpiacimento, che, a sottolineare il carattere di apertura sociale del nuovo Governo Fanfani, sono stati chiamati a ricoprire incarichi governativi di preminente rilievo uomini la cui azione politica si è sempre ispirata a una concezione sanamente progressista (parola che piace ai comunisti) della politica italiana, nel quadro di una inequivoca fedeltà alla dottrina e alle esperienze del cristianesimo sociale. Così le riconferme a Guardasigilli dell'on. Gonella e a Ministro dei Trasporti del sen. Angelini stanno a comprovare come il nuovo Governo intende camminare, suljlone ideologiro del Messaggio Presidenziale, incontro alla prospetti va di avanzamento democratico e sociale da quel documento additata. (Ènoto, infatti, quanto Iuno e l h l t ~ parlamentare o siano vicini al 'modo d i sentire"del1'on. Gronchz). Così la presenza nel governo del sen. Bo - trasferito dalle Partecipazioni Statali alla Industria - serve a testimoniare che il Ministero Fanfani intende proseguire quelllndirizw dipolitica economica che il parlamentare genovese, tanto duramente attaccato dalla pubblicistira liberak (anche da chi scrive), ha in modo precipuo personijcato, ottenendo il consenso del corpo elettora-


le. Così la nomina di un autentico "discepolodi Vdnoni) come è l'on. Ferrari Aggradi, a ministro di un dicastero-fulcro dell'economia italiana, quale l'Agricoltura e Foreste, va interpretata come indicativa di un'ulteriore volontà di avanmmento socialee di ammodernamento tecnico nel settore agricolo. La conferma dell'on. DelBo a Ministro senza portafoglio per i rapporti con il Parlamento premia liiorno che ha combattuto, in condizioni dzficilisssime, per le più moderne ed aperte idee sociali nel Governo Zoli e nella "battaglia elettorale di Milano"; come la nomina del senatore Giardina a Ministro senza portafoglio per la riforma burocratica riconosce i meriti di colui che combatté, a viso aperto, accanto all'on. Gronchi, la battaglia congressuale di Napoli per l'estensione del sistema proporzionale alla elezione delle cariche interne di partito, a garanzia di una maggiore democraticità e di un più libero sviluppo delle energie democratiche nel partito ad ispirazione cristiana. Infine, l'assunzione dell'on. Giulio Pastore alla massima responsabilità della "iniziativa" per il Mezzogiorno e per le altre aree depresse del nostro Paese indica che si vuole afi~ntarejnalmente~uesto gravissimo problema, cui è legato l'avvenire della democrazia italiana, con i criteri di un '<laborismoproduttivistico"(vedi quello inglese!) capace di rompere ogni sovrastruttura ed ogni infrastruttura clientelare nel solo ed unico interesse dell'economia nazionale e con il solo obiettivo di una più giusta perequazione di beni, di servizi e di riconoscimentifia regione e regione d'ltalia)).(Le sottolineature sono mie). La stessa Agenzia del 3 luglio ci dà l'elenco dei sottosegretari favoriti: Folchi, Sullo, Valsecchi, Gatto, Storchi e Zaccagnini. Potrei continuare nel mio spicilegio sinistrorso; mi fermo per attendere le dichiarazioni di Fanfani e conoscere sino a qual punto meriti fede la dichiarazione della direzione della D C che il nuovo governo dà alla Nazione garanzia di libertà, di sicurezza e di pace per tutti gl'italiani. Il Giornale d'Italia, 7 luglio 1958

Saragat e il Mezzogiorno

È stato riferito dalla stampa che ((aproposito degli interventi a favore dell'iniziativa privata svolti dai senatori Sturzo e Ferretti)) 1'on.le Saragat così si sia espresso: «Vengono a dirci che noi uccidiamo la iniziativa privata del ~Mezzogiorno,ma vorrei proprio che qualcuno specificasse dove si trova esattamente questa iniziativa. Da secoli nel Mezzogiorno non esiste alcuna seria iniziativa industriale e non può non sorprendere che siano proprio i meridionali a muoverci una tale accusa. Col suo intervento nel settore industriale lo Stato vuol portare nel Sud il benessere e supplire alle insufficienze dell'iniziativa privata». Le virgolette sono del testo giornalistico. Chiamato direttamente in causa quale meridionale (precisamente della Sicilia), non posso lasciare cadere il richiamo, o i'accusa, o la sfida che sia, contenuta nelle parole del leader socialdemocratico e convinto statalista. Per non cadere in equivoci debbo ricordare a Saragat che per me lo statalismo è ((ladegenerazione sistematica dell'intervento statale in campi non propri o per provvedimenti lesivi dei diritti dei cittadini» (vedi articolo Statafirmo e confisione di ideedel 2 aprile scorso). Parlando delj'inte~entostatale e dello statalismo economico, un serio articolista affermava, in un giornale del mattino, che ((10 statalismo si ha quando lo Stato assume compiti che


non sono suoi, quando lo Stato si mette a fare la concorrenza agli operatori economici. L'intervento aiuta gli operatori, spiana così la via; lo statalismo prima li opprime, poi li sopprime». A tale limitazione dello statalismo al solo campo economico, ho sempre opposto da parte mia la teoria della libertà integrale, per cui l'intervento indebito dello Stato in qualsiasi campo lede la libertà: nella polemica ho più volte accennato allo statalismo scolastico, a quello artistico, a quello del settore musicale e così di seguito. Ora a me sembra che l'on. Saragat (e non lui solo) parlando della questione meridionale, non fa differenza fra gli interventi statali legittimi e quelli illegittimi. Fra i primi sono le facilirazioni creditizie, specie oggi che lo Stato ha di fatto il monopolio delle banche; a parte gli interventi americani sia a fondo perduto che con prestiti di favore. I1 tipo nuovo di intervento legittimo e pubblicistico è quello della Cassa per il Mezzogiorno. Nessuno di tali interventi ha carattere privato; nessuno li definisce quale atto di statalismo. Invece fra gli illegittimi metto le iniziative di imprese industriali, tipo IRI ed ENI, nonché i nuovi enti di gestione, i quali nella generalità sono controproducenti e dannosi all'economia e alla politica del Paese. È chiaro?

A parte ciò, I'on. Saragat solleva una questione che i meridionalisti, quelli che conoscono il problema meridionale, classificano come erronea, antistorica, falsa. Egli dice: «Da secoli nel Mezzogiorno non esiste alcuna seria iniziativa industriale». La verità storica è un'altra: di tutte le contrade italiane, proprio il Mezzogiorno continentale e la Sicilia prima dell'unificazione nazionale erano fra le più prospere ed avevano industrie locali adatte ai tempi. Pochi sapranno delle sete meridionali; ma tutti sanno dei grandi impianti del Marsala, che fin da allora facevano concorrenza ai vini pregiati della Spagna. Le iniziative di Florio, non solo pel marsala e le ceramiche, ma per la flotta mercantile ebbero sviluppo eccezionale; quest'ultima si associò con la Rubattino di Genova e poi fu assorbita perdendo nome e carattere siciliani. Lo stesso sta accadendo al Marsala Florio rilevato dalla Cinzano di Torino; è naturale che nell'America del Nord da allora in poi aumenta la vendita del Verrnouth e diminuisce quella del Marsala; anche l'impianto, danneggiato dalla guerra, non ha avuto uno Stato sostenitore come l'hanno avuto, e non sufficientemente, le Cotoniere meridionali. Continuando i vecchi ricordi, noto la ricerca e lo sfruttamento dello zolfo siciliano, i cantieri navali, le connare ed altre iniziative pescherecce, le conserve alimentari, le essenze di agrumi e di fiori. Tali iniziative di qua e di là del Faro dell'epoca pre e post-unitaria, non furono merito di governi; e quel che sparì fu demerito di tutti perché l'unificazione italiana, mentre ci diede la libertà politica, ci tolse per lungo tempo le possibilità economiche, sia perché il tesoro del regno di Napoli e Sicilia servì a colmare i deficit del nascente regno italiano (e ciò era naturale); sia perché gli uomini di stato e tecnici nel curare una politica di intervento statale (protezioni doganali, concorsi, lavori pubblici) a favore dello sviluppo economico del Nord, non solo dimenticarono il Sud, ma con una continua ostilità, strana, gelosa, pervicace, dal 1861 ai 1943, crearono due Italie: la prospera e la depressa. Solo il governo D e Gasperi si decise a lanciare la Cassa per il Mezzogiorno, primo atto complesso e serio di solidarietà nazionale. A proposito della quale Cassa, è bene ricordare la lotta da me e da altri sostenuta e formalmente perduta, per introdurre fra gli scopi della Cassa anche il compito di facilitare I'industrializzazione, disposizione omessa nel testo legislativo per paura degli industriali del triangolo Torino-Genova-Milano. Non invento, on. Saragar; sono cose passate per le mie


mani e in parte denunziate nei miei articoli, che sono là a testimonianza di quanto sopra. I1 segreto incontro di industriali italiani con il rappresentante della Birs a iMilano circa i timori del Nord contro l'industria del Sud, vecchio residuo inconscio di più di mezzo secolo, può dirsi superato; i negati nel 1950, furono adottati nel 1952 per quanto dimezzati e controllati. I1 primo awio alle industrializzazioni fu dato nel dicembre 1947 con i decreti legge del Ministro Togni sul credito industriale affidato al Banco di Napoli e a quello di Sicilia e poi fu fermato a mezza strada per il formarsi di grandi imprese proprio nel Mezzogiorno.

Oggi, tutte le sane iniziative italiane ed estere sorte nel Mezzogiorno hanno l'impronta privata: però mentre le gandi, o medio-grandi, prosperano e si sviluppano superando le difficoltà, molte delle piccole, eccitate dai finanziamenti a lungo termine per ingrandirsi, mancano di finanziamenti di esercizio a costi bassi, e vanno male; colpa di tassi bancari insopportabili. Le imprese statali hanno poca fortuna nel Sud; per questo la Banca Internazionale di Washingon si è sempre rifiutata di finanziare iniziative statali, e dà i suoi capitali in prestito esclzisivarnentea industrie private italiane. Benedetta la gente sperimentata e senza preoccupazione politica o politicastra che dir si voglia. Cito alcuni dati della Sicilia che I'on. Saragat può controllare a suo agio. L'IFU aveva a Ragusa I'ABC che andava male al punto che la Regione per un paio d'anni e più dovette intervenire per impedire o alla disoccupazione operaia, spendendo più di un miliardo. Finalmente I'IRI si decise a vendere le sue azioni; per fortuna la ditta Bombrini-Parodi rilevò la carcassa e ne ha fatto (con l'aiuto della Birs) un'industria prospera che continua a svilupparsi. E nota la storia del petrolio di Ragusa, che I'AGIP né prima né dopo la guerra curò di ricercare con mezzi adatti. La Regione nel 1950 fece la sua legge di ricerche, avversata s'intende dal ministero dell'lndustria e portata avanti l'Alta Corte, la quale ne riconobbe la costituzionalità. Oggi Ragusa produce quasi il 90 per cento del petrolio italiano. Non parlo degli impianti di Gela e di Vittoria per motivi che conosce I'on. Andreotti. L'impianto della raffineria di Augusta fu favorito dalla legge Togni; purtroppo dopo una serie di vertenze e contrasti fra Stato e Regione che fecero perdere più di un anno, questa in quasi cinque anni di funzionamento ha reso allo Stato in valuta estera fior di miliardi. Gli impianti cementizi della Fiat, dell'Italcementi e di imprese locali hanno messo la Sicilia al riparo di costi maggiorati per cause del trasporto per distanze non indifferenti. L'impianto di Augusta degli azotati della SINCAT e quelli di fertilizzanti speciali dell'Akragas sono di notevole importanza. Ora la Birs ha finanziato anche tre impianti di prodotti potassici. La Siciliana zuccheri nei pressi di Catenanuova (Catania) promette una vita prospera perché le barbabietole da zucchero in Sicilia dànno due prodotti annuali e una quotazione alta. Veda Saragat le iniziative della Rinascente, della Rossari e Varzi, del Cotonificio Siciliano e troverà un fervore di lavoro pur in mezzo a non poche difficoltà. Egli mi dirà: ma non vede Don Sturzo che gli impianti che egli elenca sono o delle solite grandi imprese: Montecatini, Fiat, Edison, Borletti, ovvero di altre imprese con personale e capitali delllAlta Italia: iMoratti, Vismara, Rossari e Varzi, Guallino? Piano, onorevole Saragat; ricordi anzitutto che I'intensificazione industriale del Nord Italia fu fatta con l'intervento di capitali stranieri e di uomini e imprese che venivano dalla Germania e da altri paesi. I vecchi nomi italiani, quali i Rossi, i Borsellino, i Sella, gli Ambrosetti (e di recente i Motta del panettone) vengono su da medie e piccole industrie divenute grandi col


tempo, come quelle dei siciliani Florio, Ducrot, Tagliavia, Sanderson, l'henella, a non parlare dei pastifici Pecoraino, Puleo e Leonardi e dell'industria di conserve alimentari. I nuovi nomi che si affermano non sono pochi: cito Rodriguez, la Nesdler, I'Atalana, le stoviglie di Milazzo e molti altri. E non è forse un siciliano rinviatoci dall'America, il cav. Franco Palma, il quale con la SQUIBB si è imposto per qualità, quantità, organizzazione? Ed ora egli insieme al Guallino, utilizzando lo zolfo trovato, senza fare chiasso e senza grandi inserzioni giornalistiche, porta avanti un nuovo grande impianto nel Mezzogiorno. E non è siciliano il ponte elettrico sullo stretto, fatto dalla SGES, che ha ottenuto il premio del più interessante impianto elettrico di questi anni? Lo stesso è a Napoli e a Bari. Non è l'ottimo, non è il completo, c'è molto ora da fare, ora che gli industriali del Nord si sono persuasi che quella del Sud non sarà industria concorrente e farà del Sud un mercato non solo per il Nord ma anche per la piccola Europa. Se con tali iniziative, che vivono della propria attività, senza domandare né pretendere dallo Stato più di quel che le leggi danno alle iniziative meridionali, facciamo il confronto di costi e di resa degli impianti pubblici nel Mezzogiorno, dobbiamo rispondere che i secondi sono più costosi e meno redditizi, meno numerosi e più onerosi, e per giunta tengono un personale esuberante e non sempre di qualità. Perché le mie affermazioni siano verificabili, prego l'on. Saragat di esaminare e fare esaminare i bilanci di due enti tipo: I'ESE e la Carbosarda, e fare il conto dei miliardi a fondo perduto immessi in questi enti dallo Stato e dalle rispettive regioni. Non sono io a biasimare i finanziamenti statali; io biasimo lo spirito che si diffonde; invece della spinta a fare, la spinta a non fare per la perversa volontà di attendere che cada la pera matura dall'albero statale. Se lo Stato italiano intende riguadagnare sul serio i novant'anni di abbandono del Mezzogiorno (dal 1860 al 1950), sarà meglio che aiuti l'industrializzazione del Mezzogiorno come fa la Birs di Washington con minore spesa e con maggiore vantaggio. Non ho parlato dei complessi della Campania perché, a mio modo di vedere, I'industria privata ha avuto nel passato un soprawento in qualità e quantità, che solo la manomissione della SME, passata da poco sotto I'IRI, ha alterato. Le condizioni delle altre regioni del Mezzogiorno non sono le stesse; ma dove l'iniziativa privata ha trovato economicità e prospettive di guadagno come nella coltivazione dei vini e dei tabacchi in Puglia, degli agrumi, delle essenze e dei primaticci in Sicilia e in Calabria, ha trasformato perfino le pietre (vedere Amalfi e la costa salernitana). I1 discorso potrebbe essere molto lungo; una sola cosa debbo notare; che per le leggi per l'industrializzazione del Mezzogiorno, e nella stessa organizzazione dell'ISVEIMER, delI'IRFIS e del CIS si è insistito dai partiti di governo e dagli oppositori socialcomunisti (questi più insistentemente dei primi) per favorire impianti di piccola e media industria al punto che i suddetti istituti se vogliono finanziare impianti di grandi industrie, debbono avere il beneplacito del comitato del credito. Dunque, iniziative private meridionali controllate, anzi controllatissime. Possibile che né esperti governativi né tecnici privati abbiano mai compreso essere impossibile l'industrializzazione di un'area qualsiasi specie depressa, senza che la grande industria faccia da centro, da prospettiva, da attrazione? Che cosa può fare il Mezzogiorno nel campo della piccola e media industria oltre quello che ha fatto per cento anni? Oleifici? sono troppi; pastifici? anche; enopoli? piccoli no; grandi e medi sì, quando i produttori si persuadano di fare pochi tipi, assicurando stabilità e quantità adatta al mercato. Centrali del freddo? sì; ma grandi e bene attrezzate. I siciliani si sono affidati ad un certo Ente; e dopo avere fatto tutte le genuflessioni ossib bili alla nuova divinità (oggi gli enti pub-


blici hanno onori divini perché spargono favori a destra e a manca) le centrali ortofrurticole (proprio nel centro produttivo più qualificato e sviluppato) sono ancora di là da venire. Debbo aggiungere che dove in Sicilia e nel Mezzogiorno esistono grandi e medie industrie, l'operaio specializzato è quasi tutto meridionale, anche i capi operai sono meridionali e, per capacità e buon volere, rendono meglio dei loro colleghi di altre regioni più progredite. È questa la base dell'industrializzazione, che si fa coi fatti, col passo della natura, con la conquista dei mercati; guai a quelle industrie (e fra le statali ve ne sono parecchie di tale tipo) che collezionano il fatturato per alte cifre, e lo tengono a lungo in magazzino nell'attesa della vendita. che il Mezzogiorno non è la terra barbara che egli Spero che I'on. Saragat si suppone, né la terra ingrata che non produce, né la terra che aspetta che tutto sia fatto (il Signore ce ne liberi) dallo Stato socialista; e neppure, penso io, dallo Stato DC, dato lo statalismo che vi soffiano dentro i sinistri e gli attivisti.

Il Giornale d'ltalia, 1 5 luglio 1958

La Piccola Europa3' Sarà solo economica o sarà anche politica la piccola Europa che poco a poco si sta fabbricando, dai rottami della guerra venendo su agitata, discussa, promettente? I problemi del Medio Oriente le saranno di ostacolo o di spinta? Queste e altre domande si vanno facendo, mentre già la nuova organizzazione va prendendo corpo e si muove come chi ancora è

"

Lettera del 2 agosto 1958 al dr. Mario Del Giudice: Egregio signo;, La ringrazio dell'atrenzione che dà ai miei articoli e vorrei risponderle a lungo, se il tempo e gli impegni me lo permerressero. Non mi illudo in materia di politica (interna od estera) perché conosco per lunga esperienza quanto ne siano difficili le realizzazioni anclie limitare e modeste. Ma io sono un uomo di convinzioni; le idee maturano e daranno frutti, non importa se domani o fra venti o cento anni; per noi ha alrra differenza che quella di guardare le realizzazioni, quali esse siano. o come passato o come avvenire. Mi spiego: quando al 1924 lasciai 1'Iralia non mi immaginavo che vi sarei ritornato, né che il fascismo sarebbe caduto fra venri anni; questo allora era un futuro ipotetico; oggi 6 un passato già scontato. Quando i nostri padri cominciarono a muoversi per una Italia libera e una, non pensavano di vederla realizzata in meno di rrenr'anni. Parlando della Piccola Earroprr, sta di fatto che esiste una convenzione in corso di realizzazione; chi ci crede si muove; chi non ci crede non fa nulla per renderla effettiva. La mia posizione è quella di credere mantenendo fede ai parti e lavorando per realizzarli. Ecco: l'Italia unita fu allora un bene per molti e un male per altri; ma in questo mondo asunt bona mixta malisw. I fascisti credettero di fare del bene ail'Itaiia; secondo me facendo un peccato capitale quello di togliere la libertà. Questa si ebbe dopo la caduta del fascismo; ma vi era già denrro il uiriisdel socialcomunismo; uinis, che oggi continua la sua malefica inrossicazione. lo reagisco; ma vorrei con me molti alrri e non li trovo. Circa poi la impreparazione e incomprensione americana, io ne ho fatra la critica con coraggio durante la guerra e quando ero negli Stati Uniti, dove pur essendo italiano e tale professandomi, usai della liberrà concessami parlando e scrivendo, come lei potrà vedere dal mio libro ediro da Gananti, La mia battngla da New York. Accetti i miei più deferenri saluti. Luigi Srurzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. #Art. e 1. pubbl. del Prof. L.S.», agosto 1958.


legato al proprio paese e non sa l'aria che deve prendere e il contegno che deve tenere verso gli associati e verso gli estranei. Certo, sarebbe da criticare chi partecipi ad una società di interessi comuni con I 'arrière-pensée di servire il proprio interesse cioè subordinare gli interessi collettivi agli interessi dei singoli componenti. Ma fino a quando la nuova società non prenderà figura e si imporrà alla pubblica opinione; fino a quando non sentirà che gl'interessi comuni sono gli stessi dei singoli associati; non sarà possibile formare il clima atto, non dico a far dimenticare la piccola patria, ma a considerarne le istanze in quelle della più grande patria. Prendo ad esempio la più nota e discussa questione che può sembrare questione di puntiglio o di particolarismo campanilistico: la scelta della capitale europea. Tale scelta è oggettivamente importante e deve essere fatta nel quadro societario e secondo gli scopi della nuova istituzione. Se ricordiamo i vantaggi che certe soluzioni del tutto nuove apportarono a Stati importanti e in sviluppo, dobbiamo fare i nomi di Madrid, Pietroburgo, Berlino; e più di tutto esaminiamo dal suo sorgere Washington, capitale degli Stati Uniti d'America; in tali casi non possiamo non vedervi la lungimirante visione dei promotori. Oggi scegliere per capitale dell'Europa una delle capitali dei sei Stati, sia pure Parigi, - la città più internazionale e allo stesso tempo più nazionale di tutte le altre- sarebbe un errore. Non si tratta di comodità di trasporti, di ambientazione culturale o di adattabilità edilizia; si tratta di creare un ambiente proprio, una figura storica a sé, che rappresenti non la Francia o la Germania o l'Italia o il Benelux, ma l'Europa e sia una realtà oggi della piccola, domani della grande Europa. Per questo motivo, la decisione presa di non fissare una sede provvisoria è stata opportuna; purtroppo, i fatti non sono in coerenza coi deliberati. La concentrazione provvisoria degli uffici a Bruxelles e il rimando di ogni ulteriore decisione, finiscono con essere una scelta indiretta di una sede che col tempo diverrà definitiva. Il miglior partito è quello di fissare fin da ora il principio che l'Europa debba creare la sua capitale ex novo, sia nelle vicinanze di Stresa, sia sulla Costa Azzurra, sia su qualche lago tra Savoia e Svizzera, o verso Costanza o in altro posto più adatto (non c'è fretta), e intanto distribuire gli uffici in tre o quattro sedi che siano nella sfera di un largo epicentro. Si può accedere all'idea di utilizzare contemporaneamente le tre città scelte (o relative vicinanze) Bruxelles, Strasburgo, Milano. Del resto, anche con una capitale propria e relativa zona internazionalizzata - è questa una necessità se la piccola Europa da economica dovrà divenire anche politica, per vivere con propria personalità e non restare una delle tante ccinternationaiagency in casa altrui -; non solo non sarà impedito, ma sarà utile che vengano, presso i sei Stati, installaci dei centri tecnici, degli impianti particolari, degli uffici di informazione e simili; per formare quella rete che servirà allo sviluppo organico della nuova delicata creaturina che viene al mondo. Tutto ciò scrivo oggi, e non ho voluto scrivere prima della decisione della terna dei nomi da scegliere come capitale, perché non volevo sembrare un nazionalista o un campanilista di fronte ad un problema assai più importante che non fosse la scelta di una città italiana. Si è detto che Bruxelles o Strasburgo sono al centro dell'Europa, perché vi si può accedere in poche ore da tutte le capitali salvo Roma. A me non fa molta impressione la pretesa facilità di trasporti, perché fra dieci anni il problema delle distanze europee sembrerà tanto insignificante da non comprendersi come possa essere oggi guardato come il prevalente. Invece, ha un certo peso il fatto del Mediterraneo come un epicentro europeo e centro internazionale di decisiva importanza. Guardando la storia si noterà che questo mare è stato sempre decisivo nelle vicende umane, anche quando, dopo la scoperta dell'Arnerica, sembrò


che per secoli avesse perduto il suo antico ruolo. Chi avrebbe detto nel 1939 che la guerra scatenata da Hider sarebbe stata risolta nel Mediterraneo? Ebbene, guerre e paci, sviluppo di civiltà e creazione di ricchezze, si concentrano qui, e noi sud-europei ne siamo i testimoni, attivi o passivi, partecipi e anche vittime, secondo le grandi e piccole vicende storiche. Awicinare il Mediterraneo vuol dire capirlo, amarlo, conquistarlo non al potere, ma alla civiltà; com'è possibile che l'Europa possa essere concepita tutta al Nord, quando il suo condizionamento per molti dei contatti internazionali e per lo sviluppo di popolazioni numerose, e quando parte delle forze di equilibrio internazionale vengono e verranno ancora di più dal Sud euro-afro-asiatico? E non dico altro: il mondo arabo è lontano ed è vicinissimo all'Europa; la nuova Europa che non potrà sviluppare la propria personalità senza tener conto del mondo spiritualmente e storicamente diverso che è nel sud che bagna le sponde del Mediterraneo, dove ancora oggi, e con notevole effetto, si sentono gli echi di Atene e di Roma, di Siracusa e di Cartagine, di Tessalonica, Alessandria, Cesarea, Bisanzio, Gerusalemme. Gli ignoranti possono sorridere a queste evocazioni; ma le persone sensate sanno che l'Europavenne dall'Ellesponto e non potrà mai fare a meno delle porre di entrata: Bosforo, Suez, Gibilterra; la piccola Europa, oggi o domani non importa, chiamerà la gande Europa, e questa batterà alle tre porte non come a proprie serrature di clausura, ma come a veicoli di civiltà. Se questa prospettiva geopolitica ha un valore è perché sotto vi è un'unità politica in fieri già matura nel tempo, nonostante le difficoltà della Francia in Algeria; nonostante I'indebolimento inglese nel Mediterraneo, nonostante l'economia malmessa di una Italia e di una Francia vittime ambedue dello statalismo e della partitocrazia. Quello che io scrivo sul Mediterraneo non ha a che fare con la politica di Nasser né con il tentativo di penetrazione russa nel Mediterraneo; non ha rapporto col mare nostrum di mussoliniana memoria; non vuole rivendicare le colonie italiane perdute; non si collega alle difficoltà dell'hghilterra per Cipro e della Francia per l'Algeria. Indica una politica economica e culturale dell'Europa nel Mediterraneo e una pacificazione araba. Sono, queste, idee defuturo; la politica di oggi non può fare a meno di essere lungimirante. Tornando alle questioni dell'oggi, il Mercato Comune, in una visione economica coraggiosa, deve correggere gli errori dello statalismo e rendere più efficienti gli scambi della piccola Europa nelle aree del dollaro, della sterlina e del franco svizzero, in modo da aumentare quegli investimenti che saranno reciprocamente utili. A proposito: che cosa fa l'Italia per potere a suo tempo utilizzare i vantaggi della banca europea che va a costituirsi? H o qualche notizia di oleodotti e di ferrovie francesi e tedesche; non ho ancora notizie di quel che prepara l'Italia. Spero che le proposte italiane siano già in cantiere per il ccpatrimonio progetri~.Fra questi io metterei quello del ponte sullo stretto di Messina, la cui utilità non deve essere sottovalutata se a questo cortisponderanno i doppi binari e le autostrade da Siracusa a Napoli. Li accenno solo perché mi son venuti in mente a proposito dei progetti stranieri, non perché la relativa realizzazione debba essere subordinata alla costituzione della banca d'Europa, - -potendo essere affrontata anche subito se Roma e Palermo si metteranno d'accordo. Leggo che ci sarà un convegno a Roma di giovani europeisti di varie nazioni. La notizia mi fa piacere perché simili convegni, con tutti i difetti e le manchevolezze giovanili, servono a destare interesse, a scambiare idee e a creare un clima di intese e di speranze. Se dobbiamo arrivare al Parlamento europeo, la strada è quella di formare gli elettori e di preparare i candidati. Purché elettori e candidati siano purificati dal virus socialcomunista, dal virus statalista e da quello della corruzione. Ma queste sono premesse da doversi


trattare in separata sede. È da sperare che i giovani comincino a ribellarsi alla partitocrazia degli anziani, e non fare come non pochi che ne accettano i metodi per la facile conquista del posto. L'Italia non è la sola; anche altri paesi della piccola Europa sono affetti dalla stessa malattia. Eppure, si deve vivere e lottare; non si vive senza lotta.

Il Giornale d'ltalia, 24 luglio 1758

Ceti piccoli e s t a t a l i ~ m o ~ ~ Con. Pella, nel suo-interventosulle comunicazioni del Governo, awertiva di essere di assoluta necessità «tutelare la libertà economica dei milioni di medi e piccoli operatori appartenenti al ceto medio su cui incombe il pericolo di soverchiante statalismo~.Certo, i piccoli soffrono più dei grandi, perché la difesa dei loro interessi è più difficile, come è più difficile da parte loro la resistenza collettiva, specialmente in un PaeSe individualista come il nostro. È più facile il mormorio; è più facile indire una riunione per protestare contro, owero per invocare aiuti dal Governo; spesso l'uno e l'altro atteggiamento si trovano nella stessa riunione. Ma la resistenza organizzata e costante sul terreno legale e politico è cosa per molti impensabile. In un periodo di grandi promesse, anche se parzialmente realizzate e spesso nel modo meno utile possibile i piccoli operatori sono sfiduciati per la molteplicità dei partiti che offrono assistenza e difesa; per la inconclusività di tentativi senza sbocco per ottenere qualche alleggerimento fiscale. I metanieri del Polesine, menomati dal gigante Golia che è l'EN1 e soggetti a disposizioni di legge vessatorie, han finito per perdere la partita senza trovare solidarietà e difesa nel Paese. Dopo lungo patire è venuta la legge del sen. Umberto Merlin a limitarne il danno, senza però salvaguardarne la libertà e l'avvenire.

Fra le lettere che ricevo in occasione della mia campagna politica, un buon numero sono inviate da gente che tiene qualche campicello e piccolo podere; costoro, non essendo 40 Sul tema dello statalismo pubblichiamo la lettera del 27 luglio 1758 al presidente dell'lNA, cornm. Roberto Bracco: 111. Presidente, La ringrazio dell'invio della Relazione documentata del bilancio 1757 di cotesro Istituto Nazionale delle Assicurazioni e dei progressi registrati sotto la sua oculata presidenza. Per quanto io sia per principio contrario ad enti statali di gestione diretta posti in posizione di monopolio (anche se per particolari settori) seguo con la dovuta attenzione, per quanto mi possibile, lo sviluppo delle aziende statali. Percib ho finalmente potuto constatare che pur con Ipntopede, la Magistratura ha dato corso alle denunzie di passate, come dire, manchevolaze e mancanze riscontrate nell'INA prima della sua nomina. Se le autorità dello Stato e degli enti statali chiudono un occhio o anche due sull'andamento delle proprie gestioni, la immoralità trabocca dal centro alla periferia, dallo Stato agli enti locali, dal parlamento ai partiti e ai sindacati. In tale caso la mia protesta in parlamento deve ritenersi opportuna e giustificata. Spero avere in lei un alleato dato che vedo in lei un rigido amministratore. Distinti saluti Luigi Sturzo. In: k L . S . , b. 564, fasc. .Art. e I. pubbl. del Prof. L.S.., luglio 1758.


coltivatori diretti, non possono pretendere ai vantaggi concessi a tale categoria; dall'altro lato, essi subiscono tutte le leggi vessatorie che la demagogia da anni va riversando sulla nostra agricoltura. La piccola proprietà non-contadina oggi vive tisica e minaccia di scomparire. E dire che nell'Italia centrale e assai più nel Mezzogiorno e nelle Isole è stata tale proprietà la integratrice delle modeste aziende familiari, spesso elemento di unione e di gioia per tutte le famiglie artigiane e impiegatizie, mezzo di elevazione dei loro figlioli nella scala sociale; essa ha avuto per secoli una funzione sociale benefica. Oggi nella maggior parte dei casi è divenuta un peso. Parliamo dei lavoratori; la disoccupazione per non pochi è divenuta una professione che non si vuole lasciare; le commissioni comunali, per non urtare partiti e sindacati, non osano rettificare gli elenchi, continuando così a far godere i vantaggi della iscrizione a coloro che non li meritano. Sembra strano ma è così. Per giunta, vige ancora, per quanto contrastato, il divieto di ricerca di lavoro fuori del proprio territorio. È difficile impedire la migrazione clandestina; il rimpatrio obbligatorio è odioso; la norma costituzionale che garantisce la libertà di spostamento individuale è vigente; ma la mancanza di legge regolatrice mette il lavoratore che si muove o il datore che lo assume nella difficile condizione di violatori di una legge che non ha più valore (lo ha anche detto il magistrato); I'inurbamento non si può impedire e favorisce molto i socialcomunisti; ma s'impedisce lo scambio e l'utilizzo di manodopera disoccupata, il che è un danno per il lavoratore e per l'economia del Paese. Altro vincolo che deprime le condizioni del lavoratore abile, onesto, laborioso, di fronte al lavoratore inabile o senza voglia di lavorare, è il disposto che in dati casi sottrae la libera scelta sia al lavoratore sia al datore di lavoro. Il livellamento delle qualità lavorative e l'attenuazione dei rapporti umani reciproci fra lavoratore e datore di lavoro sono danni morali, oltre che economici, che l'interventismo statale acuisce e pur con la buona intenzione di garantire il lavoro, deprime la personalità del lavoratore, ne attenua l'attività, ne estingue lo spirito di emulazione. Quando lo Stato si sostituisce al privato e crea un rapporto diretto fra Stato imprenditore, assicuratore, venditore e il cittadino lavoratore, assicurato o consumatore, invece di stabilire un nuovo rapporto umano determina un distacco psicologico, per il fatto che i nuovi rapporti sono regolamentati, burocratizzati, disumanizzati: l'una parte non conosce più l'altra. Quando si istituivano mutue libere, lo Stato, attraverso autorità locali, ne aveva solo l'alta vigilanza; il rapporto umano restava esclusivamente tra associati e amministratori: rapporto di fiducia, basato sull'osservanza reciproca di diritti e doveri. Abolite le mutue libere ovvero escluse dai vantaggi statali, e creato l'ente di Stato unico privilegiato e obbligatorio per tutti, sono venuti a mancare i rapporti personali e lo spirito di collaborazione. I1 distacco è netto fra il diritto del cittadino e il dovere dello Stato, anche perché il funzionarismo statale non riconosce allo Stato che solo diritti e ai cittadini solo doveri e non viceversa. E poiché l'anonimato dello Stato è antiumano e il contatto con la burocrazia è senza vincoli, i cittadini non si sentono dei clienti che ricevono servizi ma solo dei dipendenti. Quel che unisce insieme il citradino assistito e il burocrate impiegato è l'insoddisfazione; i due sono all'unisono nel criticare, biasimare, maledire lo Stato; l'uno per il rapporro assistenziale quale esso sia, per lui sempre insoddisfacente; l'altro per il rapporto d'impiego creduto inferiore al lavoro, all'anzianità, al grado, allo sviluppo di carriera; ambedue, impiegato e cliente, sono disposti a farla allo Stata; il burocrate diminuendo il lavoro o cercando di profittare di quel che potrà guadagnarvi exlra; l'altro esigendo servizi e materiale non dovuti o non previsti; l'intesa fra i due non è costante, non è normale, ma è possibile. Qualche notizia 2 trapelata nella cro-


naca giornalistica a proposito di medicinali; non bisogna generalizzare, ma è un fatto che nessun funzionario è chiamato a dar conto avanti la Corte dei Conti né a rispondere penalmente avanti i Tribunali. L'affare dell'INGIC e dell'lNA sono eccezioni, e non se ne vede la fine. La crisi e anche i deficit come quelli dell'lNAM vengono dal fatto che questi sono starizzati; sono costituiti in monopolio, hanno tutto in mano tranne la libertà, solo per la quale sarebbe possibile la gara fra i diversi enti in modo che il cittadino possa scegliere il migliore, il più adatto, il più rispondente ai propri bisogni, il più vicino di luogo, il meglio conosciuto. In questo, come in altri campi, lo statalismo produce effetti assolutamente antisociali: da un lato maggiori costi e minore efficienza; dall'altro, scontento, disaffezione sempre effettiva e controproducente, anche se in dati casi è proprio ingiustificata.

Uno dei punti di vista quasi comune ai politici italiani è quello di affidare allo Stato o ad enti statali servizi, oneri e privilegi della socialità, credendo così di favorire il popolo e di combattere il socialcomunismo. L'errore di visuale non viene dalla buona volontà di rimediare alle sperequazioni sociali, ma dal sistema di stabilire rapporti sociali diretti fra Stato e cittadini; lo Stato farà sempre degli scontenti, oggi o domani; e di rimbalzo i socialcomunisti ne prendono un pretesto per la loro lotta contro il preteso Stato borghese. Porto un esempio oramai acquisito alla opinione pubblica; quello della riforma agraria (legge Sila e Stralcio); si è caduti in due errori di fondo togliendo di mezzo il proprietario e sostituendolo con lo Stato e creando enti di riforma affidati ad una burocrazia numerosa, non sempre preparata e spesso mal guidata e spendereccia. Il costo è stato il dopii& o il triplo di quel che poteva essere; gli sbagli, e per la fretta e per la politicizzazione degli enti, sono stati notevoli; gli effetti economici mediocri e discutibili secondo i punti di vista; quelli politici quasi sempre negativi, dando ai socialcomunisti il mezzo permanente per approfittare del minimo sbaglio e delle continue lamentele sia degli esclusi e sia degli assegnatari. Se anticamente si diceva: piove, governo ladro!per indicare il continuo non sempre giustificato risentimento antigovernativo di una popolazione socialmente indisciplinata e politicamente non educata; oggi, levando di mezzo tutte le forze intermedie, togliendo autonomia agli organi intermedi esistenti, riducendo l'iniziativa locale, impedendo la libera attività degli stessi cittadini e facendo capo allo Stato o all'ente statale (che è lo stesso), il cittadino non ha più centri di difesa che non siano il partito e il sindacato. Purtroppo partiti e sindacati oggi o si identificano con lo Stato o sono I'anti-Stato; partiti e sindacati sono divenuti organi che usurpano i poteri pubblici, owero li combattono apertamente aggravando, nell'uno e nell'altro caso, il malcontento delle popolazioni. Per questa via non solo non si attenua la pressione socialcomunista, ma si aggrava indefinitivamente. Non si fa una profezia se si awerte che il continuo decadimento dello Stato può, in un momento fatale, portare il Paese sotto le grinfie avversarie. Ecco il motivo e la caratterizzazione della mia lotta allo statalismo; perché questo discardina l'articolazione intermedia della società; porta all'accentramento negli enti statali e relativa burocrazia; attenua la resistenza individuale; collega partiti politici e sindacati allo Stato e all'anti-Stato (che sono lo stesso); perché un giorno crollerà lo Stato accentratore di oggi pur con una libertà mezzo incatenata, e salirà al potere I'anci-Stato anch'esso accentrato e con il cadavere della libertà sotto i piedi.

I/ Giornak d'/talia, 29 luglio 1958


L'intervento statale in economia: problema politico, non giuridico Supponiamo, per ipotesi di studio, l'awento di un partito socialista di alternativa, quale preconizzato dall'on. Nenni, con una ckur mujority che la DC non ha saputo o non ha potuto più formarsi dai 1953 in poi. Supponiamo anche che tale partito, legato a partiti laici di sinistra, non avrà legami con i comunisti. Per arrivare a statizzare l'economia potrà seguire tre vie: primo, lasciare intatta la presente costituzione prowedendovi con leggi ordinarie; secondo, portare qualche ritocco alla Costituzione per superare le difficoltà che potrà avanzare la Corte costituzionale; terzo, ottenere dalla stessa Corte nelle sue interpretazioni una certa larghezza politica non del tutto inusitata (vedi sentenza sull'ente risi). In tutti i tre casi, senza uscire fuori della legalità formale, saranno messe manette quanto più strette possibili alla iniziativa privata. Quel che succederebbe in regime socialista-laico, può succedere, mutatis mutundis, in regime DC-socialdemocratico. Nessuno ignora che l'economia italiana sia da un pezzo in corso di statizzazione; l'indirizzo preso dalla DC di mantenere istituti ed enti del passato regime, creati sia per espansionismo politico che per cause di guerra, è stato costante, mentre sarebbe stato dovere di tutti tentare, come in Germania, la via della liberalizzazione. Il peggio è awenuto nell'ultimo decennio per secondare le tendenze stataliste di Vanoni e della sinistra d.c., per ingenuità politica, per faciloneria e improwisazione, credendo così di poter combattere il pericolo comunista e di andare incontro alle esigenze del popolo. La via pertanto è aperta; le esperienze sono in corso; i socialisti potrebbero, una volta preso in mano il potere, accelerare i tempi e dare l'impressione di una nuova rivoluzione, proprio quella che oggi sta avvenendo alla chetichella. Difficilmente i socialisti potrebbero sopprimere I'economia domestica, le attività dei coltivatori diretti, degli artigiani e dei piccoli ceti, anche perché simile socializzazione in tali settori importerebbe spese ingenti, capacità organizzativa e volontà dittatoriale non comune. Dopo i primi dissesti, le piccole imprese vivacchieranno attorno alle grandi imprese statizzate; molti pur soffrendone, si adatteranno per via del profittantismo politico di partiti, sindacati e relativi apparati. Che tutto ciò possa essere fatto in Italia (nella ipotesi) contro o senza i comunisti non è pensabile. Una lotta di socialisti contro comunisti, obbligherebbe i primi ad intendersi con la DC e con i ceti industriali, perdendo le posizioni rivoluzionarie di colore su cui essi poggiano storicamente e psicologicamente. Facile conseguenza: l'ipotetico esperimento di alternativa socialista (ove si realizzasse) porterebbe fatalmente alla presa del potere dei comunisti uniti ai socialisti. L'unica loro base d'incontro è la confederazione generale italiana del lavoro (CGIL).

Questa premessa, mi porta ai tema dei limiti del potere statale in materia economica nell'attuale regime misto, sia dal punto di vista delle due economie (la statale e la privata), sia dal punto di vista politico, della associazione parlamentare e governativa della democrazia cristiana con la socialdemocrazia e altri gruppettini sinistreggianti. L'esperienza ci porta ad affermare che la Costituzione con le varie disposizioni di formulazione quasi generica, non ha impedito fin oggi né l'esproprio dei terreni per la riforma agraria con indennizzi inadeguati sia per valore di mercati sia nel titolo attribuito all'espropriato, sia nelle garanzie pratiche nel procedimento usato dagli enti di riforma.


La Costituzione non ha impedito la imposizione e riscossione da parte di enti, così detri di diritto pubblico, di imposte e tasse; né la limitazione di prezzi, la estensione del sistema di concessioni, i permessi, le autorizzazioni statali dei quali si abbonda in Italia in ogni settore. Si sono evase le leggi di bilancio usando gestioni fuori bilancio; si sono spesi miliardi senza autorizzazione di legge, attribuendo facoltà larghissime ad enti finanziari (holdings), i quali poi generano a centinaia società per azioni, più o meno fittizie, per poter impunemente sottrarre ad ogni controllo pubblico milioni e miliardi. La fungaia di un migliaio di enti e pseudo-enti serve a mascherare I'interventisino nel campo privato, senza attribuire diretta responsabilità al governo e relativi ministri. Così si è instaurato in Italia il più grave degli arbitri, attenuando e sopprimendo responsabilità amministrative civili e penali, per i continui deficit che si notano nella selva di gestioni e di enti; affidati in parte al personale impiegatizio, per il resto a coloro che per intrighi politici e per clientele di gruppi giova mantenere in quei posti. L'intervento della Corte dei conti è reso inefficiente; le relazioni al Parlamento non si leggono, non si discutono; nessun controllo serio si è avuto dall'inizio della Repubblica ad oggi. E se qualche funzionario di piccolo calibro è capitato sotto la censura del procuratore generale della Corte dei conti, i responsabili per milioni e miliardi non sono stati denunziati alla Corte dei conti né al Magistrato penale.

Com'è possibile che il privato possa far valere il suo diritto alla libertà in confronto allo Stato? Esclusivan~entesul terreno del diritto privato nel caso di lesione prevista dal codice civile. Le vertenze che si possono portare avanti il magistrato non riguardano i privilegi di diritto e di fatto, dei quali godono gli enti pubblici sia per legge, sia per disposizioni amministrative. Per giunta, certe condizioni strutturali originarie pongono di per sé gli enti statali in condizione di privilegio. La prima è quella della impossibilità a fallire potendo lo Stato intervenire, con leggi o con provvedimenti amministrativi, ad integrare i fondi di garanzia attribuiti a cali enti, nel caso che detti fondi siano venuti meno per eventi contrari o per cattiva amministrazione; questo secondo è il caso più usuale, perché l'ente pubblico è amministrato da persone che non vi hanno interesse proprio, a parte la incompetenza, incapacità o politicità delle persone usualmente prescelte. Lo stesso regime fiscale non è applicabile nello stesso modo ad enti pubblici e a società private, proprio per il carattere diverso degli uni e delle altre. La facilità di ottenere prestiti o di avere la garanzia statale per emissione di obbligazioni è un altro vantaggio dell'enre pubblico, il quale non va soggetto a tutte le spese di indagini per ipoteche e simili alle quali i privati sono sottoposti; le stesse banche (in maggioranza statali o statizzate o di diritto pubblico e quindi sotto l'ingerenza diretta dello Stato) sono inclini owero obbligate a favorire gli enti pubblici più che i privati. Ancora un altro vantaggio: certi enti pubblici fanno una concorrenza eliminatoria alle ditte privare; cito il Poligrafico che ha in mano le stampe degli uffici statali e perfino degli enti locali, in modo che le piccole ditte sono ridotte al lumicino. Ma non è concorrenza di qualirà o di quantità o di prezzi; è la presa di posizione dell'ente statale in quanto tale; costi anche di più o faccia un lavoro meno buono, non importa. Quando il sistema si estende al campo del monopolio di diritto (ENI -Val Padana e metanodotti), onlero a posizioni extra-concorrenziali, Finmare, Finmeccanica, Finelettrica e così di seguito, viene svi-


luppato un regime economico eccezionale per il quale possono mantenersi contemporaneamente i vantaggi del monopolio statale e quelli del regime di mercato, senza per quest'ultimo correre i pericoli e le responsabilità inerenti.

k ovvio che a mantenere la coesistenza di enti pubblici privilegiati e società private irnportanti con maestranze numerose non si presenta altro modo per un governo che non vuole correre I'alea della statizzazione generale, che fare anche i secondi partecipi di privilegi e di favori statali. Ed ecco il sistema doganale portato fino alla eliminazione della concorrenza estera; ecco il controllo delle licenze di commercio estero, attorno alle quali l'arte degli intermediari si è esercitata nei modi più arditi, fino a che si è arrivati ad un inizio di liberalizzazione che ha dato un certo respiro alla nostra economia controllata. Ma quando i monopoli privati sono garantiti dallo Stato non c'è speranza; tipico quello degli zuccherieri; ne sa qualcosa la Sicilia, il cui nuovo impianto (la Siciliana Zuccheri) non ha voluto fin oggi partecipare alla coalizione dei zuccherieri, dei quali non conosco ancora l'ultima convenzione che dovrebbe, secondo me, essere resa pubblica. E chi potrebbe smontare la protezione automobilistica e quella delle fibre artificiali che costituiscono due industrie italiane di largo sviluppo internazionale? Le altre imprese, sottoposte al CIP (vedi decisione della Corte Costituzionale) mantengono i vantaggi del monopolio, eliminando col prezzo massimo fissato d'autorità ogni velleità di concorrenza, anche locale. L'unico prezzo di interesse fondamentale lasciato all'arbitrio dell'ente interessato è quello del metano; Dio sa quali le conseguenze di un monopolista estroso come Mattei. Alla vigilia del Mercato Comune non è solo l'Italia che dovrà rivedere la propria struttura economica, ma anche la Francia. I paesi del Benelux hanno già fatto l'esperienza di un reciproco adattamento fra di loro; la Germania si presenta chiaramente strutturata e ben promettente. L'Italia subisce due condizionamenti che la rendono ritardataria: la rnancanza di idee chiare nel campo politico per via di un sinistrisrno anti-economico e dannoso per le stesse classi operaie; e il più spinto individualismo nel campo dell'economia privata, che porta il singolo a tollerare tutta la ingerenza caotica e oppressiva dello Stato, pur di godere dei propri vantaggi, dei favori o privilegi o tolleranze governative, che riesce a procurarsi.

Queste sono le vere realistiche condizioni di fatto, a carattere politico, in un preteso Stato di diritto quale è per definizione la Repubblica italiana. È possibile sotto il presente regime DC+PSDI, ritornare sui passi fatti e rimettere i rapporti fra economia pubblica ed economia privata sotto la disciplina del diritto, con le sanzioni che il sistema comporta? A mio parere: a) la condizione privilegiata originaria esclusiva dell'ente statale economico non consente possibilità di equiparazione con le imprese private con propria struttura e soggette alle regole del diritto privato; b) la credenza, direi la fede cieca, della classe politica attuale nell'intervento statale per rimediare alle deficienze e crisi economiche, unita ad una impreparazione ed ignoranza delle leggi e dei sistemi economici ed una faciloneria demagogica nell'improwisare rimedi inconsistenti, porta ad usare ed abusare del potere dello Stato, creando imprese statali ed enti finanziari che, una volta in essere, formano il Leviathan incontenibile e incontentabile. I1 fatto supera i limiti di legge? Le teorie socialcomuniste e la demagogia di tutti i par-


titi sopraffanno la voce dei giuristi e dei ben pensanti. Non si arresta lo Stato panteista nel suo divenire. Ecco perché in Italia vedo oggi assai poco Diritto dell'Economia e pochissima Economia diritta.

Il Diritto delIEconornia, anno IV, n. 8, agosto-settembre 1958

Eticità delle leggi economiche Il lettore si meraviglierà del titolo di questo scritto, perché è opinione comune che le leggi economiche non hanno carattere etico, non dipendono dalla morale, né da questa sono corrette o limitate; si crede che il campo dell'utile sia autonomo. L'interferenza legislativa che limita o corregge l'utile individuale o di categoria, sarebbe fuori del settore dell'utilità e sotto certi aspetti, in contrasto. La mia tesi parte da una premessa più generale: tutta l'attività umana in quanto razionale è pervasa di eticità; è in sé e per sé morale perché la moralità non è altro che la razionalità dell'azione; solo la pseudorazionalità e la irrazionalità che si inseriscono negli atri umani portano quelle deviazioni che fanno perdere il fine e la caratteristica etica dell'azione umana. È vero che i moralisti chiaramente distinguono gli atti umani in buoni, indifferenti e mali; nella realtà non vi sono veri atti indifferenti: il divertimento per rifare l'organismo e potere ritornare al lavoro in condizioni fisiche e psichiche soddisfacenti è un atto buono; il divertimento che eccede i limiti di sanità psicofisica, è un atto difettoso; così di seguito. È lecito, quindi, parlare della eticità della ricreazione, dello sport, del riposo; e perché no delI'economia? Infatti il vocabolo «economia» indica il buon uso dei mezzi di sussistenza di un nucleo associato: la parola originaria significa regola della casa. Se dalla famiglia si passa allo stato, si dirà economia politica, da (<polis»;o civile, da «civitas»;ovvero sociale, da «societas~;termini questi che indicano quel che oggi vale la parola stato. Non si dà economia individuale; l'individuo fuori della società non esiste; l'ordine sociale impone le regole di amministrazione a vantaggio di determinate società. Se I'economia indicasse l'utile individuale, astratto dalla coesistenza di altri individui, si dovrebbe ammettere come economico qualsiasi mezzo di arricchimento individuale quale la frode, il furto, il peculato, il raggiro, I'appropriazione indebita et similia. Questi mezzi non sono proibiti solo per una legge positiva; è la legge morale del rispetto della individualità e proprietà altrui che li condanna; e li condanna anche la legge economica; perché la insicurezza del diritto e l'abuso della forza non represso, rendono sempre più difficile I'attività economica di qualsiasi comunità. Se una zona agricola per sé fertile, irrigabile, bonificabile, è infestata da briganti, resta inutilizzata agli effetti economici; le famiglie coltivarrici si parderebbero dall'andare a perdervi lavoro, libertà e forse anche la vita. L'utilità, sotto il punto di vista associato, postula sicurezza e ordine; sicurezza e ordine che si basano sopra elementi etici fondamentali; il rispetto della libertà, della vita e della proprietà altrui. Non solo postula, ma nel carattere stesso di utilità è contenuta I'esigenza etica della sicurezza e dell'ordine; altrimenti cessa di essere utilità del nucleo associativo. Tanto ciò èvero che non si attribuisce né si può attribuire alcun diritto, positivo o naturale, alla associazione a delinquere, la quale può raggiungere il massimo di utilità (rubando,


ammazzando, deportando, ricattando) ma non ha nessun elemento etico-giuridico di società; l'associazione a delinquere ha per fine un utile individuale illegittimo perché con danno degli altri; non è, pertanto, qualificabile come società umana, cioè razionale, e quindi I'utile degli associati a delinquere non è qualificabile come bene comune. L'economia è intrinsecamente razionale e si estende da nucleo a nucleo; da famiglia a famiglia; da classe a classe; da categoria a categoria; da paese a paese; da nazione a nazione, superando sempre la barriera del vantaggio individualizzato nella famiglia sulle altre famiglie; nella classe sulle altre classi; nella nazione sulle altre nazioni, per raggiungere i livelli più alti che confluiscono a dare unicuique suum. In questa visione risulta chiara la eticità dell'unicuiquesuum, di quello che spetta a ciascuno, quel minimum dell'utilità economica che possa stabilirsi in ogni compartimento economico. Dico cccompartimento)),perché più si va ampliando la zona economica da nazione a gruppo di nazioni fino alla totalità della terra abitata, più difficile ne riesce l'adeguazione, e quindi meno visibili saranno tanto gli elementi differenziatori che i mezzi per raggiungere livelli di comparazione quali minimi comuni realizzabili. C'è però una riprova di carattere economico che richiama l'attenzione alle valutazioni etiche di tali rapporti internazionali; quella del dannoproprioquando si viola la legge economica nella sua portata etica generale. La legge economica dell'aiuto reciproco, anche nel campo della produzione e dei commerci, ha una portata etica interiore che non falla. Per dare un esempio evidente, basta ricordare in quali disastrose condizioni si trovò l'Europa occidentale dopo l'ultima guerra pur con diversa intensità tra stati vinti e stati vincitori. Se gli Stati Uniti d'America, che ne avevano la possibilità economica, avessero rifiutato i loro aiuti all'Europa, chiudendosi nella tradizionale politica dell'isolamento, avrebbero fatto il danno delllEuropa, ma anche il proprio danno.

A questo punto, mi sento obiettare di avere senz'altro confuso l'etica con l'economia; il bene morale con il bene utile. Analizzo, non confondo. È vero: né I'economicità né I'eticità dei rapporti umani è stata mai raggiunta al completo, né credo possa mai essere raggiunta, perché la perfezione non è di questa terra; in ogni attività umana di qualsiasi natura, anche la più delicata quale la religione, interferiscono elementi pseudo-razionali e addirittura irrazionali a turbarne il corso ordinato e lo slancio perfetto. Perché in ogni individuo e quindi nella stessa società contrastano sempre gli elementi di stabilizzazione con quelli di riforma; gli elementi di materialità con quelli di spiritualità; gli elementi di rivolta con quelli di ordine. In economie chiuse, i rapporti con il di fuori sono rari, e quasi esclusivamente per scambi di merci. Se nel commercio con popoli diversi e sconosciuti si usa o la foiza o l'inganno, la porta viene richiusa; i vantaggi, possibili o reali, vengono a cessare. Se il popolo che ha l'iniziativa ricorre alla forza (incursioni, guerre, inganni di pace e sopraffazioni) potrà avere vantaggi momentanei; ma avrà ingenerato odi che possono durare per generazioni e per secoli. Le pretese utilità scompaiono e la ferita morale si rimarginerà quando non ce ne sarà più memoria; il che non è cosa facile perché i popoli ricordano, specie se limitrofi. Gl'irlandesi sono di questa specie; la Gran Breragna ha pagato assai caro, anche nel settore economico, la tradizionale inimicizia con l'Irlanda del sud. Dico anche nel campo economico, non ostante che questo sia stato riorganizzato con minore difficoltà nella ripresa dei rapporti. È difficile valutare i vantaggi ipotetici, mentre è più facile valutare le carenze etiche


che spesso coincidono con quelle economiche. I paesi han creduto poter proteggere la loro ricchezza con barriere doganali; così anche i paesi meno ricchi contando, per quanto possibile, sulla autosufficienza. Non riuscendo per questa strada sono ricorsi a trattati bilaterali o multilaterali. La morale non vieta gli accorgimenti protettivi che servono a dare ordine e stabilità alla economia di uno stato; ma vieta misure che violano i diritti e i patti stabiliti. M a chi può negare, con la storia in mano, che dal punto di vista strettamente economico i danni non siano più che i vantaggi? Perciò sarà bene studiare negli stessi fatti economici se i pretesi vantaggi della guerra di tariffe, dell'isolamento, dell'autarchia, siano raggiungibili o non contengano in sé la contropartita dell'impoverimento del paese, della crisi latente, mentre la frequenza degli scambi eccita l'iniziativa, aumenta gli investimenti, sviluppa quel benessere invano cercato con mezzi creduti utili solo in apparenza e spesso per puntiglio o per rappresaglia. Bisogna convenire che nei rapporti fra gli Stati, l'economia prende spesso l'aspetto politico, soverchiando i calcoli economici, che restano subordinati a scopi non economici, quali il prestigio, l'onore della casa regnante o della bandiera nazionale, futuri ingrandimenti territoriali, rivendicazioni di diritti e così di seguito. È vero che gli elementi politici e sentimentali contengono spesso elementi economici, siano essi sbocchi commerciali, posizioni chiave per i traffici internazionali, zone produttive; ma non è facile vedere, fra il politico e I'economico, se la bilancia del dare e dell'avere cada al passivo o all'attivo. Dall'altro lato, è pur vero che in tale groviglio di interessi economici e di pretese politiche, i valori etici hanno anch'essi il loro peso perché (come ho già esposto) indicano il carattere di razionalità dell'attività umana. Chi viola tale razionalità, sia per ignoranza, per malvagità o per viltà, ne paga e ne fa pagare il fio, non solo personalmente come soggetto morale, ma anche nel complesso sociale che a lungo andare ne risente le tristi conseguenze, per una specie di fondamentale solidarietà di tutti i consociati nel male come nel bene. Tale solidarietà resta per molti un punto oscuro non solo storico ma anche etico. È proprio la razionalità umana che nel regolare l'attività, si esprime con leggi; tali leggi secondo i fini da ottenere noi precisiamo in religiose, civili, politiche, amministrative, economiche, tecniche. Anche l'economia ha le sue leggi. Gli economisti sogliono appellare leggi economiche quelle astratte dalla realtà di determinati sistemi applicabili sempre e in tutti i casi. Tali leggi riguardano solo rapporti di quantità; come tali non entrano nella realtà concreta altrimenti che come condizionamento all'attività umana; sono perciò soggette alla valutazione razionale solo attraverso la utilizzazione economica o antieconomica che se ne possa derivare. Però, ed è questo il mio punto di vista, se la utilizzazione sarà antieconomica, per questo stesso non sarà razionale e quindi mancherà dell'eticità interiore che secondo la mia tesi vi è inerente. Mail condizionamento economico non è solo di quantità e non si esprime solo in formule matematiche o statistiche di quantità. La società umana è condizionata da molti fattori; la stessa attività individuale è condizionata dal proprio corpo e dallo sviluppo psichico di ciascuno. La società come tale è condizionata nella sua struttura e nel suo evolversi (dimensione spaziale e temporale), ed è anche condizionata dali'ambiente, dalla tradizione, dalla organizzazione; sta all'uomo associato poterne correggere i lati negativi e ad attuare quelli positivi in modo da crearsi un condizionamento sempre più adatto al suo incivilimento, sempre più adeguato alla vi5 razionale del suo conoscere e sapere, ai bisogni in sviluppo del suo essere in società. Strumento necessario a tale sviluppo evolutivo o innovativo è la economia, la quale basandosi sulle quantità disponibili realizza le qualità utilizzabili; e in questa strutturazione,


dalle forme primitive alle più evolutive, stabilizza i suoi sistemi con leggi non arbitrarie, ma regolatrici ed aderenti alla realtà ed alle sue possibilità di attuazione. E per quanto il sistema possa essere difettoso, e tale è sempre nel concreto, tende di per sé a divenire sempre più razionale, cioè adeguarsi alla eticità interiore, sotto pena di fallire sia nel particolare, sia nel complessivo. Non si può negare che la spinta a qualsiasi miglioramento anche semplicemente tecnico e materiale viene da motivi etico-razionali; ma condizionati dai fattori materiali della economicità. Non si nega che l'egoismo e l'interesse individuale abbiano una parte interessante nelle spinte progressive, ma anche i fattori pseudo-razionali influiscono sullo sviluppo delle più elevate ragioni del vivere in società.

Una piccola comunità montana confinante con vaste zone boschive occupate con mezzi e leggi costumarie e ridotte a demanio comune di usi civici diretti a soddisfare certe elementari esigenze di vita: - caccia, legna, frutta spontanee, zone di coltura estensiva per famiglie o per turno - avrà un'economia elementare regolata da norme accette a tutti. E se legna o cacciagione abbondano sì da poter essere vendute in zone contigue, quegli abitanti inizieranno dei contatti, osservando spontaneamente quelle norme economiche che aiuteranno simile iniziativa. La ristrettezza o ampiezza di territorio degli agglomerati potrà dar luogo a lotte primitive; la paura reciproca può ingenerare inimicizie o precauzioni di difesa per eventuali incursioni; la formazione di gendarmerie (anche se elementare) può essere basata sopra distinzioni di classi o caste; i prigionieri ridotti a servitù formeranno una categoria di servi-lavoratori che, a costi minimi e con sacrifici ignorati o non apprezzati, contribuiscono al benessere degli abitanti originari. È storia incancellabile perché realtà umana e anche disumana. In simili ambienti i rapporti economici elementari sono visti nel quadro della vita personale e familiare, nelle oscillazioni di benessere e di affamamento; nelle difficoltà di vendite e di scambi; nella carenza di mezzi; o negli effetti deleteri di certe pratiche non rispondenti alla realtà di ogni giorno. I1 punto interessante è quello del mio e del tuo,e quindi del limite giuridico ed etico dei rapporti che vi sono implicati; il giudice e il sacerdote faranno anche da regolatori dell'economia, I'uno colpendo la frode, l'altro proibendo l'usura; l'uno ristabilendo o dichiarando l'ordine giuridico; l'altro inculcando l'osservanza delle leggi di giustizia e di carità nei rapporti umani. Quel che occorre precisare è che mai il diritto arriva ad essere perfettamente equo; mai la morale arriva ad evitare le sottili insidie dell'egoismo; mai le leggi economiche realizzeranno nella prova quella razionalità che esse contengono, perché la società in concreto, ogni società, è relativa a determinate strutture dernografiche e politiche e a determinati fattori, tradizionali e storici, e a determinati stati psicologici dei nuclei umani. In ogni società organizzata, al movente razionale che fa vivere insieme, si mescolano motivi pseudo-razionali o irrazionali, che accentuano le diffidenze, acuiscono le divergenze, rendono difficile la coesistenza dei nuclei, turbano le relazioni, eccitano i dissidi e rendono meno efficaci i vincoli morali, le sanzioni giuridiche e le norme stesse dell'economia. Ma il reciproco condizionamento della razionalità e delle varie tendenze irrazionali dell'uomo servono a sviluppare il dinamismo del vivere in comune e la ricerca e lo studio di leggi generali anche nel campo economico, applicabili a tutte le strutture della società, sia che arrivino a confondersi con le leggi morali (ipattisi devono osservare),sia che prendano


figura di leggi matematiche e statistiche, riferendosi alla quantità, come nel caso di razionamenti per insufficienza di generi necessari alla vita (cibi, indumenti e simili).

Tali rilievi a tipo sociologico sono da tenere presenti anche nell'esame dell'economia intrinseca sia nei paesi liberi che in quelli dittatoriali. Nei paesi liberi prevale l'economia di mercato, nei paesi dittatoriali quella sratizzata; ma l'una e l'altra essendo caratterizzate dal ritmo intensivo, tecnico e produttivistico, si basano sul fattore capitale, come mezzo indispensabile e perciò anche se il fattore lavoro arrivi ad ottenere condizioni mai avute nel passato e mai ottenibili nelle economie intensive. È da premettere che nel concreto sociologico, mai una struttura è talmente isolabile da non mutuare elementi dalle altre anche opposte strutture e viceversa. Così oggi non troviamo un paese a tipo dittatoriale che non abbia uno spiraglio di libertà economica; e molto di più un paese ad economia di mercato che non abbia il peso di una concorrente o privilegiata economia di stato. Gli italiani, da tempo, ne sanno qualche cosa; non può recare loro meraviglia la convergenza delle due economie. Usando le parole «capitale e capitalismon nel senso puramente economico, non in quello politico e anche polemico dobbiamo notare che l'economia capitalista coincide con due dati importanti: la formazione di stati costituzionalmente liberi e l'introduzione della recnica industriale; ma, pur avendo libertà politica nel decorso dei due ultimi secoli, pur avend o quasi rutti gli stati subito mutamenti politici e notevoli crisi economiche, il progresso tecnico ha avuto una sempre crescente spinta dagli stessi avvenimenti, con il corrispondente accrescimento e adattamento del sistema capitalistico e dei mezzi creditizi, la stabilizzazione di monete rappresentative messe in circolazione, anche negli scambi internazionali con appropriato valore di mercato. Mentre quei paesi che non entrano nell'ambito degli scambi monetari stenteranno a sviluppare le proprie imprese e proveranno le difficoltà della pretesa autosufficienza e delle esperienze dell'autarchia; anche quegli altri i quali tendono a garantire le proprie iniziative con l'elevatezza dei dazi doganali a protezione delle produzioni povere e di speciale interesse politico, subiranno gli effetti della mancata libertà di scambi e le difficoltà inerenti allo sviluppo economico. I1 capitalismo non è sistema-fisso; evolve i suoi elementi costitutivi secondo lo sviluppo dei mezzi tecnici e delle strutture politiche; come si prova nei due secoli di economia incentrata, dal poco al molto, sul capitale. Ciò premesso, non è difficile arrivare a due conclusioni: primo che anche nelle leggi dell'economia capitalistica (come in tutti gli altri sistemi) si deve trovare l'elemento razionale, perché tale elemento non può mancare in nessuna struttura umana di carattere associativo; in tale economia, d'altra parte, non mancheranno (come non mancano in ogni sistema concreto) le infiltrazioni pseudorazionali e irrazionali, le quali, non a tempo corrette, tendono ad attenuare od elidere gli effetti della razionalità sul sistema. Questa non è conclusione aprioristica, ma si deduce sociologicamente dalle esperienze storiche, fra le quali è da mettere I'enorme progresso collettivo degli ultimi due secoli nel campo del benessere comune, ciò non ostante lo sbalzo demografico avuto, anzi proprio coincidendo con una densità di popolazione mai registrata nella storia dell'umanità; e, quel che meraviglia non pochi economisti da Malthus in poi, coincidendo l'aumento demografico con l'aumento di ricchezza sia proporzionale che assoluto e anche con la generalizzazione di benessere alle classi lavoratrici pure evolute, ai ceti medi di ristretto livello economico e ciò in molti campi di attività quali


l'alimentare, la tessile, la costruttiva, compresevi abitazioni e comunicazioni, nonché gli eccezionali miglioramenti nel settore ioienico e assistenziale e così di seguito. 3 Si tratta di effetti di un'economia a sviluppo intensivo; ma chi può negare che tali effetti contengano un cumulo di beni morali (istruzione, cultura, sicurezza generale) che non sono separabili, tranne che per metodo astrattista e analitico, il quale per sé esige la successiva risoluzione di sintesi concrete nella realtà storica?

Passando al campo dell'economia di ciascuno stato, considerato nel suo particolare interesse, notiamo anzitutto che la differenza sul campo dei valori economici è quasi del tutto psicologica, essendo noi per abitudine mentale e affettiva indirizzati a valutare i problemi del proprio paese, come se la loro soluzione potesse essere data prescindendo dalle condizioni internazionali, mettendoci sopra un piano di autosufficienza, o se vuolsi, di orgoglioso isolamento. L'economia di ciascun paese per una sempre più larga percentuale è condizionata dall'economia internazionale; solo in senso astratto si può individuare come a sé stante. Perciò la mira di un governo deve essere duplice: quella di mantenere aperti gli sbocchi con l'estero mediante alleanze, amicizie, convenzioni, intese, da regolarsi in modo sempre più aderente alle condizioni monetarie, finanziarie e produttivistiche reciproche; e di assicurare, attraverso la sana amministrazione, l'ordine politico, giudiziario e l'equilibrio fiscale, le più promettenti condizioni per la produttività del paese e per la migliore intesa etico-economica fra le categorie produttrici. Qui si inseriscono il problema dei limiti dell'intervento statale nella libera espansione economica e quello di mantenere intatta la capacità organica atta a correggere le sperequazioni economiche. I1 dibattito fra statalisti e antistatalisti, fra dirigisti e antidirigisti parte da un punto importante: se la libertà economica abbia in sé la virtù di rimediare agli effetti svantaggiosi che può produrre sia per la violazione delle stesse leggi economiche, sia per la non esatta o per incompleta osservanza di tali leggi. Mettiamo fuori discussione tutti i mali che derivano, e non solo nel campo economico, dalle violazioni della morale codificata, alla quale lo Stato provvede a mezzo degli organi di giustizia civile penale e amministrativa. Può il mondo eliminare tutti gli effetti economici del furto? Si ricorre (se possibile) all'assicurazione contro il furto come si ricorre alla assicurazione contro l'incendio, la grandine e così di seguito. Mettiamo fuori combattimento i fallimenti e le perdite che vengono da ignoranza, incuria, spese eccessive, iniziative azzardate: il rischio è inerente ad ogni azione umana; il rischio è correttivo dell'attività economica; eccita all'invenzione; aiuta le opere ardue; fa superare le dificoltà. Il rischio è un bene che si paga. Sarebbe contro natura ingenerare la convinzione che si possa avere tutto quello che si desidera senza correre alcun rischio, per via di un intervento statale in tutte le evenienze, pur ammettendo che gli operatori debbono cercare di attenuare i rischi con tutte le forme di assicurazione e autoassicurazione che la tecnica e l'esperienza suggeriscono. Mettiamo come dato sicuro (per quanto non awenga quasi mai ma potrebbe avvenire) che il sistema fiscale dello Stato e degli enti aurarchici locali sia il più equilibrato, il più giusto possibile, lasciando intatto il minimo necessario alla vita, non sottraendo quel che serve alla produzione e allo sviluppo delle libere attività, limitando le spese statali al necessario e curando che gli impieghi del denaro pubblico siano fatti con parsimonia e correttezza. Ciò posto, lo Stato oggi non può essere esonerato da due interventi necessari allo svi-


luppo di ogni paese moderno e civilizzato: quello di attenuare la situazione endemica o per fasi congiunturali della disoccupazione operaia con provvedimenti atti a fronteggiarla, e quello di curare che i cittadini abbiano la possibilità di sviluppare le proprie energie e la propria attività. I mezzi adatti variano da paese a paese. In un paese libero i valori della libertà e della personalità umana restano limiti invalicabili al potere statale, fino a che non sia in pericolo l'esistenza stessa della società organizzata. D o un esempio per farmi intendere: se una nave andata alla ventura e in arresa di soccorso ha pochi viveri disponibili, il comandante ordina il razionamento più rigoroso, nella speranza dell'atteso soccorso. Nessuno potrebbe sottrarsi al rigido intervento di autorità. Così si giustifica il razionamento in periodo di guerra e di carestie. Fuori del caso di simile emergenza, il potere pubblico nel regolare il suo intervento deve cercare di rispettare le leggi economiche, pena l'aggravamento delle situazioni difficili e le asperità di conseguenti sperequazioni. Torna a mostrarsi l'evidenza della tesi non solo del valore intimo della legge economica nel campo suo proprio, ma dell'intrinseco valore etico della legge stessa. Un esempio può essere dato dal proposito di certe correnti politiche del nostro paese a favore della cosiddetta giusta causapermanenteper la disdetta deipattiagrari. L'effetto economico dannoso è evidente; nel voler dare sicurezza al lavoratore che ha un podere si bloccano i contratti; si rende difficile, costosa, litigiosa e inefficiente la disdetta; si impedisce il normale assestamento delle famiglie coloniche e la ricerca dei lavoratori più diligenti; si dà il premio agli incapaci e agli infingardi. Ma questi effetti contengono in sé un decadimenco etico del rapporto del lavoratore col conduttore, una specie di distacco diffidente di rapporti umani, una disaffezione reciproca fra uomini e perfino verso la stessa terra che dovrebbe dare i suoi effetti, impedendo così la cooperazione utile e tranquilla fra i due contraenti. Che la legge debba garantire il più debole contro le soverchierie del più forte è evidente; che la legge sposti i termini per rendere i rapporti di associazione economica anormali è un atto inimorale oltre che antieconomico. La tendenza dei governi ad avere monopoli economici statali o di enti di diritto pubblico, a prender sotto la propria etichetta imprese produttive incamerando partecipazioni azionarie di imprese private, ha alterato la funzione pubblicistica dello Stato, che si è sostituito all'artività privata in condizione di privilegio e con tendenze sopraffartrici. L'alterazione delle leggi economiche del libero mercato non è solo da addebitarsi allo Stato ma anche alle imprese private, quando queste costituiscono dei trustso creano monopoli. La colpa dei governi, in tali casi, deriverà da tolleranza e da mancanza di correttivi, arti a rimertere nella sua vera e sana linea la libertà economica. Nell'un caso e nell'altro: dei monopoli pubblici o dei monopoli privati, gli effetti antieconomici contengono anche effetti di notevole imponenza nel campo morale, come è facile vedere esaminando i casi concreti. Pertanto la nostra formula etico-economica dell'intervento statale, ripetuta in discorsi parlamentari e in polemiche giornalistiche è la seguente: 1) la libertà è unica e indivisibile; si perde la libertà politica e culturale se si perde la libertà economica, e viceversa; 2) la libertà è espressione di varietà e di ordine; il correttivo contro gli eccessi della libertà è, anzitutto, I'autodisciplina e I'autolimitazione; a parte quella regolamentazione legislativa necessaria per la coesistenza e il rispetto dei diritti e dei doveri reciproci; 3) lo Stato ha per funzione principale e propria quella della garanzia e vigilanza dei diritti collettivi e privati, il mantenimento dell'ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e vigilanza del sistema monetario e creditizio; la finanza pubblica e la buona amministrazione dei servizi pubblici nazionali; in via secondaria e sussidiaria lo Stato interviene, in for-


ma integrativa, in quei settori di interesse collettivo particolare o generale nei quali l'iniziativa privata sia deficiente, fino a che sia in grado di riprendere il proprio ruolo. I casi di emergenza impongono allo Stato altri compiti; ma questi sono temporanei e si esercitano nel rispetto dei diritti politici del cittadino, la cui libertà deve essere tutelata, la cui personalità deve essere rispettata.

Passando dal campo statale a quello strettamente privato, occorre premettere che è difficile che l'operatore, qualsiasi ne sia il settore, osservi le leggi e le regole economiche. I più non le conoscono; quelli che ne sanno qualcosa non credono che valga la pena occuparsene; lo spirito egoista prevale sulle leggi morali che riguardano gli affari, leggi che spesso esprimono, in termini etici o religiosi, anche il fondo economico che esse contengono. L'osservanza dei patti è legge morale, ma chi può negare che sia anche una legge economica? È vero, si stipulano patti non equi e quindi immorali; ma chi non sa che la mancanza di equità è contraria all'interesse della parte che crede di averne profitto? Se è il proprietario che si awantaggia, il lavoratore è indotto a fare il suo mestiere di malavoglia maledicendo il conduttore; il quale spesso non si rende conto che se il rendimento di tale operaio è inferiore a quello che egli pretende, ciò può dipendere dallo stato psico-fisico dell'operaio. Questi, pur cercando di fare il suo dovere, manca di sufficiente nutrimento, owero non può curare le malattie di famiglia owero è preoccupato dei debiti; non è certo nelle migliori condizioni per lavori diuturni e gravosi. La teoria cristiana del salariofamiliare equivale a quella di salario giusto. È legittima quindi la organizzazione operaia specie in sindacati e leghe per ottenere quel che in regime individualistico venga negato. Si suole attribuire al regime economico libero da vincoli, regime che fu iniziato nel carnpo industriale fin dalla prima metà dell'ottocento, lo sfruttamento della manodopera come effetto combinato dell'egoismo degli imprenditori e della mancanza di regolamento di ore e di salario. Dal punto di vista storico, la situazione operaia era già grave nel secolo precedente, quando ancora esistevano le corporazioni di arte e mestieri, le quali, dato il regime privilegiato e chiuso, non solo non rispondevano più alle esigenze dello sviluppo demografico economico e tecnico, ma rendevano sempre più difficile il collocamento della manodopera cittadina, mentre la grande maggioranza delle forze del lavoro restavano nella campagna, essendo tuttora in uso la servitù della gleba. Le guerre della rivoluzione e quelle napoleoniche assorbirono un numero notevole di forze di lavoro; le quali, a guerre finite, costituirono un vero esercito di disoccupati e di exIege, che l'incipiente industria non poteva assorbire, mentre i governi di allora, rifatti da antiche classi nobili in ripresa e dalle nuove classi emerse dalla rivoluzione, non erano in grado di comprendere i nuovi problemi che la trasformazione politico-economica aveva posti. La dura esperienza di quel periodo, teorizzata nella più larga indisciplinata e irresponsabile libertà da un lato e nella rivoluzione proletaria dall'altro ci diede il laisser-faire e laisser-passer dell'economia borghese e l'appello comunista del 1848. Né l'uno, né l'altro si basarono su vere leggi economiche, perché inficiate di quel pseudo-razionale che dalla esperienza e dall'esame più approfondito dei fatti economici è stato dimostrato ad esuberanza. La teoria marxista nasce proprio da tale clima e ferisce la economia capitalista nella sua affermazione autonoma e prevalente, proprio per la violazione del contenuto morale della legge economica della collaborazione dei fattori di produzione. La storia economica è con-


nessa strettamente con quella politica e con quella etico-religiosa ed è impossibile isolarla come a sé stante. Altro esempio di quel che stiamo esaminando ce lo dà il fenomeno del costo del denaro. La Chiesa ha sempre combattuto l'usura fino a sostenere, con l'appoggio della Bibbia, la immoralità del prestito del denaro ad interesse. Poi fu ammesso un lieve interesse, che col tempo si fece arrivare al cinque per cento. Con l'istituzione delle banche popolari si consentì o tollerò fino al 6 o anche, in casi eccezionali, al 7 per cento. Attualmente in Italia banche di Stato e di diritto pubblico arrivano a tassi elevati fino all'l 1 al 13 al 15 per cento. Tale sistema di interesse bancario-statale vige in Italia non ostante i ripetuti richiami fatti da chi scrive e i rilievi di economisti e di uomini di buon senso; ma governi e partiti sono stati sordi. Ebbene, qui gladiofprit, gladio perit è questa la legge del taglione. L'economia agricola e commerciale italiana è paralizzata dagli alti costi; si dà la colpa alle tasse, agli oneri previdenziali, ai salari, all'imponibile di manodopera, e non a torto; ma il costo del denaro è alla base dei mali della nostra economia. E se i gandi industriali si possono dare il lusso di finanziare partiti e giornali e fare anche della politica costosa, tutto ciò è a danno della sana produttività, dell'equità remunerativa, è frutto di usura; la quale dal credito passa ai costi di produzione, da questi ai prezzi di vendita, dal complesso economico al concorso politico protettivo (tariffe, doppi prezzi, monopoli tollerati); la catena continua. Quand'ero giovanotto mi insegnavano che tre sono i fattori che turbavano l'equilibrio economico del nostro paese: il prezzo alto del pane (noi abbiamo i prezzi del grano più alti di tutto il mondo); il prezzo alto dell'acciaio (per fortuna è venuta la CECA ad attenuare e non del tutto i nostri costi che le barriere doganali tenevano ad alto livello); il prezzo elevato del denaro, e l'Italia ne ha il primato. Noi paghiamo questi dislivelli con i sacrifici dei disoccupati veri, dei sottoccupati, dei male remunerati e dei miserabili delle nostre zone depresse; mentre premiamo (è la contropartita) i profittatori politici ed economici, i vincitori di giochi e di gare, i dirigenti di enti pubblici, coloro che formano la nuova o la futura classe di dominio con le più larghe remunerazioni possibili. Leggi economiche queste, calpestate perché calpestata la insita moralità di tali leggi? o viceversa, leggi morali calpestate perché offesa la intima economicità di tali leggi? Nel fond o di ogni crisi economica vi è imprevidenza e politicismo dei capi e dei governi, demagogia e ignoranza della classe politica; malcostume e monopoli criptici cioè decadenza morale nel campo degli affari. È vero che in ogni stadio della vita umana, certe leggi economiche operano automaticamente sulla base del condizionamento più o meno transitorio (oggi si dice congiuntura). Ma ogni automaticità si riferisce esclusivamente a problemi di ... quantità - sia di beni di consumo; sia di uomini ridotti ad elementi numerici, eserciti da un lato e lavoratori dall'altro sotto disciplina coattiva; - ciò non impedisce la valutazione etica basata sulla insita libertà individuale, né la possibilità di correggere e guidare i fattori produttivi a scopi determinati, nella gamma che va dall'autarchia alla liberalizzazione e viceversa. Il valore etico di ogni atto, anche nell'uso di strumenti economici di dirigibilità, resta intatto e arriva più lontano che il semplice fattore positivo di un'economia concepita astrattamente come al di fuori di ogni realtà sociologica. La conclusione può sembrare audace o fuori dalla realtà per coloro che guardano la economia come autonomia, scienza astratta inflessibile, formula matematica inalterabile, cosa esatta solamente nei rapporti di quantità guardati nella più schematica astrazione, il cui valore è stato ed è notevole per potere bene comprendere la parte determinante che ha il condizionamento quanritativo nella vita associata. Ma non può indicare il modo come po-


tere alterare tale rapporto in più o in meno, né i processi qualitativi delle quantità di beni, né le attuazioni istituzionali che inventiva e pratica mettono in essere, dando moto a sistemi economici concreti e sviluppi di continuo adattamento. È evidente che chi agisce e reagisce nel campo economico è lo stesso uomo razionale e volitivo che agisce e reagisce nel campo morale e nel campo politico, in quello religioso e in quello civico, nella cultura e nelle arti. Tutta la vita è condizionata dall'economia, e questa è condizionata dalla quantità e la qualità è condizionata dall'attività produttiva dell'uomo, cerchio ferreo e pur animato e vivificato dalla libertà interiore dell'individuo e associativa o inter-individuale che è la fonte della responsabilità e quindi della moralità delle azioni umane, del bene e del male che si trova in questo mondo, anche nell'economia guardata nella sua interiore eticità come prodotto degli uomini quali esseri liberi e responsabili. Sociologia, Anno 111, luglio-settembre 1958, n. 3

Riserva di caccia e conti che non tornano4' In una conferenza stampa a Washington l'on. Fanfani, per rigettare l'accusa dell'lnternational Business Review di non favorire gli investimenti esteri, volle ricordare una sua lettera dell'agosto 1947, con la quale egli da ministro del Lavoro, fra i mezzi adatti alla difesa della lira e al progresso dell'economia italiana, proponeva di sollecitare investimenti di capitale estero. Incalzò un giornalista, a proposito di tali investimenti, esservi in Italia Cctroppe cacce riservate))e I'on. Fanfani, comprendendo l'allusione alla Valle Padana data in esclusiva all'ENI, ebbe ad affermare testualmente: «Ebbi già occasione durante la campagna elettorale di dire questo e non ho motivi per non ripeterlo: personalmente, ed anche a nome del Governo, sono convinto che per quanto riguarda il monopolio in Valle Padana si debba presentare al più presto quel disegno di legge che aveva proposto il ministro Gava nel precedente governo: disegno di legge diretto ad attenuare questo monopolio. Perché i monopoli anche quelli pubblici quando si addormentano provocano dei guai. Non voglio dire con questo che Mattei abbia dormito oppure dorma)). Prendo atto del buon proposito del presidente Fanfani di portare avanti sollecitamente il disegno di legge Gava, che il Ministero Zoli non arrivò a presentare al Parlamento, non ostante l'impegno assunto. Ma l'affermazione del presidente che «i monopoli statali solo quando si addormentano provocano dei guai))è smentita dal17ENIstesso che anche là do-

4'

A proposito della polemica con il quotidiano *Il Giorno,), pubblichiamo la lettera del 20 agosto 1958 alI'on. prof. Giuseppe Pella: Caro Pella, Ti sono grato del telegramma affeettuoso inviatomi con riferimento all'articolo del Giorno nei miei riguardi. Sono uesti gl'incerti del mestiere ci ero abituato nel passato; mi ci abituo nel presente. ~ e n r o l amia campagna giornalistica come un dovere, e. se le forze non mancano e Dio mi assiste, continuerb come pel passato, nella speranza di qualche vantaggio per l'Italia la democrazia e la libertà. Una cordiale stretta di mano aff. mo Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 491, fasc. «Fascicolisciolcir, 1958, n. 8v.


ve veglia ne provoca ancora di più. Secondo me, monopoli pubblici e monopoli privati, in quanto monopoli, dormano o veglino, sono sempre dannosi. Potranno forse essere inevitabili, come è per noi quello delle ferrovie; ciò non vuol dire che il monopolio ferroviario non sia oneroso, male amministrato, incancrenito; che nessun ministro, per quanta buona volontà e accorgimenti abbia, potrà raddrizzarlo e metterlo sul binario della corretta ed utile amministrazione. Ci sono dei virus irrimediabili: mancanza di rischio, evasione di responsabilità, pletora amministrativa, politicizzazione dell'organismo pubblico, funzionarismo; e chi più ne ha più ne metta. Tornando alla conversazione giornalistica di Washington, I'on. Fanfani fece bene a ricordare la sua lettera del 19 agosto 1947 dimenticata da tutti; ma egli si guardò dal citare le leggi vigenti in Italia fatte per agevolare i desiderati investimenti con quel fondo di diffidenza provinciale e di formalismo burocratico tutto italiano, per poter dire: sì, noi vogliamo i capitali esteri, ma sappiamo essere guardinghi per non esagerare. Infatti, anche gli esteri sono stati guardinghi e non hanno esagerato, specialmente dopo che la famosa legge Cortese sugli idrocarburi ha reso ancora più diffidenti le ditte estere a venire a urtarsi con la volontà di Mattei di estendere la propria attività a tutta l'Italia continentale e ottenere, come difatti ha ottenuto, una buona parte di ricerche in Sicilia, oltre s'intende ai contratti in Persia, in Egitto e nel Marocco; quest'ultimo stipulato con la più larga approvazione del presente governo. I1 quale, mentre afferma di riconoscere l'utilità e la quasi necessità di investimenti esteri in Italia, non mette un limite allo espansionismo di chi non dorme per esportare capitali dall'Italia all'estero, chissà per quale ben lungo periodo e per quali ingenti somme.

E qui una domanda che nessun giornalista di Washington gli fece: quale dei governi democratici ed europei ed americani investe capitali all'estero a nome proprio e a mezzo di enti statali, assumendo responsabilità economiche in casa d'altri e dando alla iniziativa un carattere politico inevitabile? Noi no; noi che non abbiamo ancora sistemato bene le nostre finanze, che abbiamo non solo un deficit di bilancio superiore a quello che appare, checché ne dicano i tecnici del tesoro o della Banca d'Italia, e a non contare il dissesto dei comuni e delle provincie che si ripercuote sulla vita generale del Paese; noi ci diamo il lusso di creare in nomeproprio aziende all'estero, senza sapere quanto ci costano e quanto ci costeranno, senza che il Parlamento ne sappia niente, senza regolari controlli, senza piani che si conoscano e responsabilità amministrativa e politica. Ammetto che lo Stato debba favorire quella iniziativa privata che a proprio rischio va all'estero, non per esportare capitale tolto all'industria nazionale, ma per esportare macchine, tecnici e manodopera per imprese da eseguire per conto di ditte private o di amministrazioni dello Stato richiedente. Questa è sana politica, politica di rendimento e di espansione. Mattei, con le sue awenture, poteva ben essere a capo di iniziative private; sarebbe stato più cauto ovvero avrebbe finito presto la carriera; ma come esponente di un ente statale sta divenendo il padrone d'Italia, per la debolezza dei governi che lo hanno sostenuto e tollerato allo stesso tempo. Non gli mancano protettori medi ed alti; scomparso Vanoni c'è stato Bo; ora vedremo se la coppia Lami Starnuti-Sullo farà lo stesso. I buoni propositi di Gava, ripresi da Fanfani, non eliminano il bubbone di un ente statale che vuole fare e crede di saper fare tutto. Ora è là in Sicilia per ottenere un permesso di ricerca di sali potassici, proprio nello stesso posto dove una ditta locale ha lavorato per anni


neli'individuare tali miniere ed ha già ottenuto un prestito dalla BIRS a mezzo della Cassa del Mezzogiorno e attraverso l'1RFk per un impianto industriale. La correttezza di un ente statale degno del nome non è quella di pestare i piedi ai privati che hanno lavorato e speso; e tutto ciò dopo che il presidente Fanfani ha affermato, e nel -programma elettorale e nelle dichiarazioni al Parlamento, che gli enti statali non avranno nuovi compiti tranne che per legge. Infatti, nella legge sugli idrocarburi I'ENI (e le sue dipendenze) non ha mai avuto il compito della ricerca e dello sfruttamento dei sali potassici. A proposito di questo punto, corre voce che per precisare i compiti dei due dipartimenti statali, IRI ed ENI, si passerebbero all'IRI tutti gli impianti chimici e meccanici, e all'ENI il ramo delle fonti di energia; così Ravenna (che pare non sia il più fortunato degli impianti ENI) andrà all'ospedale IRI.

A proposito di fonti di energia, più volte ho richiamato l'attenzione del governo con discorsi al Senato e con interrogazioni sulle gestioni ENI. In questi giorni il prof. Alberto De Stefani ha messo a raffronto finanziario quel che rendono allo Stato I'AGIP Mineraria-SNAM e la Gulf-Italia. In sostanza, secondo il metro della Gulf-Italia, Mattei avrebbe dovuto denunziare un utile di circa diciannove miliardi, al luogo dei quattro miliardi e 130 milioni messi in bilancio. La differenza di quasi quindici miliardi di minore entrata accusata dall'ente statale è una prova di più della teoria matteiana del ((massimocosto e del minimo profitto». È vero che il ministro Bo, rispondendo per incarico di Zoli ad una mia interrogazione, ebbe ad affermare che Manei denunzia un utile inferiore a quello della Gulf perché reimpiega l'utile in altre ricerche; ma Bo non ricordò che Mattei ha l'obbligo di legge di versare al Tesoro il 65 per cento degli utili (dopo il primo triennio di esenzione) e che sugli utili la ditta deve pagare le tasse al fisco; e che il finanziamento per ulteriori impianti va fatto con prowedimenti propri e con carattere amministrativo e finanziario diverso da quello di stornare gli utili e nasconderli sotto altre voci del bilancio. I1 ministro Bo aggiunse allora un'accusa alla Gulf, che essa cioè non fa altre ricerche e perciò è generosa nel denunziare gli utili; l'una e l'altra cosa sono non solo inesatte, ma mostrano l'incompetenza o ignoranza del personale che scrive le risposte ai ministri.

Passiamo oltre: è opinione diffusa che Mattei usa delle entrate di gestione a scopo politico. Perciò non solamente a me ma a molti fece penosa impressione la mancata risposta di Fanfani alla richiesta di iMalagodi riguardo il deficit mensile del quotidiano Il Giorno, essendo noto che la società proprietaria non ha i mezzi né ha modo di procurarseli presso banche e neppure con l'emissione di azioni nominative, mentre si sa che l'opinione pubblica designa Mattei come il creatore, il sostenitore, il finanziacore de I! G'zorno. Mattei sta muto; il ministro Bo, rispondendo alla mia interrogazione al posto di Zoli, se ne lavò le mani come Ponzio Pilato; I'on. Fanfani, alla richiesta di Malagodi, non ha risposto: qui tacet consentire videtur, ma in Parlamento non è così; chi tace può essere toccato e non vuole mostrarlo. Ècerto questo: che il pubblico italiano sa che dietro I! Corriere deih Seravi è Crespi; dietro la Stampa Agnelli; dietro Il Messaggero i Perrone; dietro Il Mattino una società del Banco di Napoli; dietro questo Giomakd'halia un gruppo editoriale espresso dall'industria privata italiana; e così per i giornali di partito, quelli sindacali, quelli scientifici o amministrativi; so-


lo Il Giorno mantiene il segreto; Mattei non risponde, Bo non risponde, Fanfani non risponde; nessuno ha il coraggio di dirci per conto di chi i padroni e i patroni del Giorno fanno politica filosovietica, politica di sinistra; politica diversa e perfino contraria di quella del governo. E intanto I'on. Mattei può andare in Persia apertamente appoggiato dallo Stato; può trattare con l'Egitto e il Marocco a nome dello Stato; può sentirsi chiudere la porta in faccia nella Libia con la motivazione, pubblicata il 29 giugno scorso sulla Cyrenaica Weekly Newsdi Bengasi, dove a proposito di nuovi tentativi Mattei si legge <(cheil governo libico rifiutò di accordare tale concessione all'ENI I'anno scorso per ragioni riguardanti la sicurezza del Paese». Con. Fanfani, di ritorno da Washington, Londra e Bonn, non può permettere che continui a circolare in Italia il dubbio che ci sia il capo di un ente statale che faccia e sostenga la politica filo-sovietica del Giorno e la propaghi ali'estero e usi di mezzi statali a simile scopo.

Il Giornale dytalia, 6 agosto 1958

I1 problema ferroviario e le critiche del sen. Sturzo4' L'uno e l'altro: la mia critica riguarda la struttura della organizzazione ferroviaria e I'amministrazion~,non dico che tutti i difetti di struttura siano da attribuirsi all'amministrazione; non dico neppure che tutti i difetti dell'amministrazione siano da attribuirsi alla struttura; ma fra i due piani vi è quel rapporto che rende evidenti le deficienze e dell'una e dell'altra. Ecco perché ho scritto: ((Cisono dei virus irrimediabili: mancanza di rischio (ildefiritpuò arrivare alle stelle, nessuno risponde di nulla); - evasione di responsabilità, pletora ammini4'

Questo articolo è la risposta di Sturzo pubblicata insieme alla lettera inviata dal direttore generale delle FS, Severo Rissone, al direttore de «Il Giornale d'Italia,), e che qui riportiamo per completezza: Signor Direttore, per la seconda volra il Sen. Srurzo, nel criticare la politica di intervento nell'economia privata e lo staralismo, rinunciando a servirsi dei tanti e più validi esempi che il mondo economico italiano gli avrebbe offerro, ha fermato la sua atrenzione sulle ferrovie, che da più di 50 anni sono statizzate e che, del resto, anche prima non si può dire avessero una gestione veramenre privatistica. Non intervengo adesso per dar fondo al complesso problema delle ferrovie e, tanto meno, per affermare ui che le cose di quesro settore siano di completa soddisfazione mia e di quanti oggi operano alla direzione jell'hienda. M i p u e , pelò, ne.cessario chiedere al Senatore Srurzo se i suoi rilievi riguardino la *strutrura,>dell'organizzazione erroviaria ed i problemi di fondo che le ferrovie incontrano in Italia e dappenutto, oppure se egli muova le sue critiche dal convincimento che le difficoltà atruali delle ferrovie derivino da difetti di eamministrazionen. Vado seguendo il pensiero del Sen. Srurzo nei suoi frequenti scritti, e sono persuaso che le sue critiche vanno più ai problemi del primo ripo che non del secondo; tuttavia osservo che il lettore sarà invece portato a ritenere che, secondo I'Arricolisra, rutri i mali derivino daila presenza di un monopolio male amministrato, incancrenitow e bisognevole di essere rimesso sul binario della «corretta e utile amministrazioner. Nella misura in cui per corretta amministrazione intendesse lo Sturzo una amministrazione in grado di prendere solleciramente le misure derrate da una scelta esclusivamente economica, potrei essere d'accordo con lui. Se invece a quesro termine egli avesse inteso dare un diverso e più correnre significaro, dovrei, come Direttore delle Ferrovie, respingerlo e rammentargli che per unanime riconoscimento l'Azienda ferroviaria è rut[ora citata ad esempio di correttezza. Non mi resterebbe allora che invitarlo a documenrarsi e a vedere più da vicino come stiano veramente le cose. Fra l'altro constaterebbe che la produttività del personale F. S. è tra le più alte delle ferrovie europee; che col provvedimento concernente la reversibilità degli oneri extra aziendaii, si potrà veder chiaro nella finanza ferroviaria; che la ricerca di sane economie e di affinamento della gesrioneè quotidiana. Infine, che i dirigenti hanno alto il senso di responsabilità e pagano i loro errori.


strativa (consigli d i amministrazione a tipo consultivo col ministropresidente che delibera e rappresentanze di ministeri e u f i i senza omogeneitd; organizzazione confusionaria; gradi ed ufici che si moltiplicano esi intersecano, e così di seguito); - politicizzazione dell'organismo pubblico (questa è evidente non solo per istinto a causa dei ministri presidenti ma per il clima della partitocrazia e delparlamentarismo dzfiso nelpaese);- funzionarismo (non è solo delleferrovie, ma in queste ilftrnzionarismo dellàmministrazione prevale sul tecnicismo dell'impresa). Potrei continuare. I1 direttore scrive che la parola ((scorrettaamministrazione))può significare mancanza di onestà, cosa che egli deve respingere. E fa bene a respingere tale significato corrente (ma non esclusivo) per la parte che lo riguarda. Per il passato, sarà bene attendere l'esito dell'esame dei rendiconti da parte del parlamento che di tutt'altro occupato ha dimenticato fin dal primo giorno il suo principale compito, quello del controllo della pubblica amministrazione. Circa la concorrenza strada-rotaia, debbo ricordare tutti gli sforzi fatti dall'amministrazione ferroviaria a limitare all'iniziativa privata il diritto di trasporto-merci e a creare un sistema di auto-trasporti di Staro; il tentativo GRA da me denunziato a suo tempo; l'esperimento EAM con tutti gli inconvenienti e gli impacci al libero trasporto non sono i soli. Se le ferrovie, perché di Staro, credono di essere in diritto di limitare la trazione libera, non farebbero che fermare il tempo a quando le ferrovie fecero decadere (naturalmente) i trasporti a trazione animale; allora erano le ferrovie che vincevano, oggi sono gli auto e i velivoli; non dobbiamo fermare gli orologi mentre i fiumi continuano a scorrere. Dobbiamo pensare che molte linee ferroviarie saranno col tempo soppiantate da servizi di autoveicoli e di trasporti aerei; niente di male; è dovere di rutti essere guardinghi, e non moltiplicare servizi statali, stabilizzati e privilegiati per divenire un ingombro al progresso tecnico che avanza. Per questo, è bene non aver paura della polemica, la quale serve a mettere in chiaro quelComparibilmenre con il poco spazio che posso sottrarre al Suo giornale, vorrei esprimerle qualche mia considerazione sul problema ferroviario. Impropriamente il Senarore Stuno si riferisce ancora ad un monopolio, quando nel setrore dei rrasporti ì: ormai pii1 frequenre la condizione della concorrenza, spesso accanita e, per certi settori, addirirtura rovinosa e daro che, come contrapposto al monopolio, non si mai potiito pensare ad un'alrernativa di libero esercizio di più ferrovie in competizione fra loro. Indubbiamenre, da qualche rempo il mondo dei trasporti va subendo una profonda trasformazione, che metre a dura prova la solidirà degli organismi che vi operano, la efficacia delle leggi che ne disciplinano la materia e, persino, lo sresso potere di revisione degli uomini, anche i più illuminari. Ed & ceno che in quesre conizioni le possibilirà di adatramento e di manovra da parte dell2\lienda ferroviaria, sarebbero state ben altre, se avessero potuto awalersi della struttura di un'azienda ad indirizzo veramente privato, in grado di adortare sempre le decisioni di fondo e realizzare le trasformazioni che la nuova situazione avrebbe man mano suggerito. Problemi di mercato, di ridimensionamento, di modifica di impianti, problemi connessi ad attendibili revisioni di traffico, gravi problemi politico-sindacali, esistono indubbiamente oggi e ciascuno di essi avrebuna soluzione tecnica che la dirigenza ferroviaria, formata nell'auoluo maggioranza di veri Dirigenti, assai più che di "funzionarin va. volta per volta, da tempo addirando. Quindi, se il Sen. Stuno intende riferisi a questi problemi ed alle difficoltà derivanti dalla strurtura delle F. S. - strurrura che inevitabilmente facilita I'accoglimenro di soluzioni molro spesso extraeconomiche- potrei essere d'accordo, mentre in chiaro dissenso sarei nella contrastante ipotesi che la sua critica si riferisca a pecche di amministrazione. Del raro, dal convincimenro che quesra situazione di fondo sia da modificare, deriva il proposito delI'On. Angelini di presenrare al Parlamenro proposre per adeguate modifiche di strurrura, premessa indispensabile per un migliore inserimento dell'hienda ferroviaria nell'economia dei trasponi e in quella più generale del l'aese. RingraziandoLa per l'ospitalità, mi creda Suo Severo Rissone.

&


lo che le relazioni ministeriali non fanno, specie quando usano le magiche parole di socialità e sociak, per varare prowedimenti discutibili e demagogici. Le ferrovie non ne sono esenti.

il Giornale d'Italia, 13 agosto 1958

Parlamentarismo e partitocrazia a Palermo Alla «Casa dei Comuni))è regola tradizionale che il voto di sfiducia al governo in occasione della discussione del bilancio, venga proposto con la diminuzione di una sterlina dalla cifra di previsione. Se la proposta ottiene la maggioranza (a votazione palese, s'intende; non esiste fuori del ((bel paese che Appennin parte.. .»il voto segreto per approvare bilanci e leggi), allora il governo è battuto e si dimette, ma il bilancio resta approvato con una sterlina di meno, la sterlina simbolica. Se i 90 di Palermo avessero avuto conoscenza della delicata e significativa tradizione inglese, avrebbero per la terza volta evitato di bocciare il bilancio di previsione, fermando così la macchina amministrativa della Regione per poi ripararvi con l'approvazione di un bilancio brevemente diversificato owero con un prolungamento dell'esercizio prowisorio o con la parentesi amministrativa come pare che sia il caso del luglio-agosto 1958. L'errore dell'opposizione capeggiata dai socialcomunisti, ma secondata da non socialisti nP comunisti, quelli che vi si sono associati nel segrero delle urne, nasce dal voler dare al voto segreto di bocciatura del bilancio il carattere giuridico di voto di sfiducia al governo. Questo è ben caratterizzato dalla Costituzione all'art. 94, nel quale è anche stabilito che ((ilvoto contrario di una o di entrambe le Camere su una proposta del governo non importa obbligo di dimissioni)). È vero che il bilancio è l'indice dell'indirizzo governativo ma è anche vero che un bilancio vi deve essere e che un bilancio approvato articolo per articolo non può essere moralmente bocciato nella somma totale delle entrate e delle uscite; tranne che per ripicco, per protesta, per partitocrazia, per la mancanza di coraggio di votare apertamente che sogliono avere gli scontenti che preferiscono il metodo dei franchi tiratori. Le due precedenti dimissioni non fanno testo; la Costituzione prevale. A Palermo, dove si è da secoli abituati alla mentalità causidica, si sta ora esaminando il quesito se si possa dar corso alla proposta socialcomunista di iscrivere all'ordine del giorno della prossima seduta dell'Assemblea la nomina del nuovo governo, dopo che il presidente La Loggia ha dichiarato, a termini della Costituzione, che la Giunta non intende dimettersi. Sarebbe il colmo, al quale il presidente Alessi, non ostante il pro e il contro dei giuristi e il desiderio di mostrarsi imparziale, non potrebbe prestarsi in alcun modo. Purtroppo l'attuale situazione della Regione siciliana è turbata ed agitata per una serie di errori che, al momento dato, si scontano. Primo errore dei miei carissimi amici fu quello di voler dare all'Assemblea siciliana il carattere e i difetti del Parlamento italiano, Parlamento sorto sotto la doppia insegna dell'aggruppamenro partirico e dello spirito parlarnentaristico. È vero che lo statuto regionale è orientato nel senso di fare dell'Assemblea un Parlamento; ma è anche vero che le principali mansioni della Regione sono più amministrative che protestative e mirano a dare alla Regione un'auto-amministrazione più che un vero auto-governo. Chi obbligava i deputati regionali a darsi un regolamento sulla falsariga di quello della Camera dei deputati? Perché mai il sistema delle Commissioni permanenti per l'esame dei


disegni di legge, con funzionamento autonomo e una specie di diritto di bloccaggio, che non esiste nello stesso Parlamento? E perché mai la introduzione del voto segreto per la approvazione delle leggi, segreto che non mai esistito nelle pubbliche amministrazioni locali? È vero che i miei amici, con a capo I'on. Alessi, si opposero al sistema del voto segreto e perdettero la battaglia, ma è anche vero che mai più hanno tentato di abolirlo perché fa comodo ai parlamentari della DC quando vogliono fare la fronda; gli stessi presidenti dell'Assemblea che per la I1 e la I11 legislatura sono stati della DC e sono di diritto presidenti della Giunta del Regolamento, mai hanno fino ad oggi tentata l'abolizione. I1 voto segreto per le deliberazioni non riguardanti persona, non è ammesso in nessun Parlamento del mondo; tale sopravvivenza è una vergogna italiana. I1 voto segreto continua ad essere protetto da tutti i profittatori politici dell'imboscata e da tutti i vigliacchi che non hanno il coraggio delle proprie idee, con la giustificazione che il partito (cioè l'apparato della partitocrazia) se ne vendicherebbe. Se così fosse, non ci starei un sol giorno in un simile partito. Parlamentarismo e partitocrazia, giunti a Palermo, ne hanno preso il colore acceso ed i sottili accorgimenti. Così sono stati ripetuti e qua e là aggravati i difetti del nostro Parlamento: gruppi parlamentari di partiti, pletora di proposte di leggi per categoria e per persona; interventi demagogici per formarsi clientele politiche; sistemi elettorali proporzionalistici tali da favorire i piccoli partiti che, in quanto piccoli, rendono instabili i governi senza maggioranza propria sia partecipandovi con compensi e vantaggi contrattati sia passando all'opposizione o usando a tempo e luogo il sistema del ricatto. Dufcis infindo: la parificazione delle indennità parlamentari di Palermo con quelle di Roma e maggiorazione di certi privilegi dati ai deputati e senatori a Roma e importati a Palermo per fabbricarsi casa propria con mutui che non portano interessi o che non obbligano a regolari versamenti rateali. Era naturale che a Palermo, come a Roma, la DC quale partito Leader fosse obbligata a scegliere i compagni di viaggio e a combattere la sinistra socialcomunista. Ma fino a che il problema delle alleanze restava limitato alla Regione, senza ripercussioni al di là dello stretto, le intese con frazioni di centrodestra o di centrosinistra, restavano sulla base delle possibilità personali, senza legare i partiti come tali ad attribuirvi significato estraneo agli interessi prevalenti della Regione. Non fu più così quando, dal 1953 in poi, tanto la DC quanto gli altri partiti nazionali accentuarono la politicizzazione di tutta l'attività politica amministrativa economica italiana, non escluse Provincie e Comuni, così a Roma come a Raccacannuccia. Palermo non poteva essere isolata. L'Assemblea regionale divenne anch'essa un corpo politico e un agglomerato partitico alle dipendenze del centro. Da allora la partitocrazia, che già era stata tenuta a bada con una politica personale è vero, ma l'una e l'altra temperate da una intesa che aveva dato frutti notevoli alla Regione - legge per l'abolizione della nominatività dei titoli, leggi per l'incremento della marina mercantile e per le ricerche degli idrocarburi, iniziative di impianti importanti nel campo industriale, attuazione di buona parte dello statuto nonostante le continue difficoltà frapposte dalla burocrazia centrale - regna sovrana. Gli interessi e le attività regionali vennero trasportati a Roma; così per la DC; così per gli altri partiti; Malagodi arrivò a richiedere al presidente Restivo la rimozione di un assessore regionale liberale; non avendone ottenuto le imposte dimissioni. Come a Roma, così a Palermo, i partiti mandano al governo «le proprie delegazioni));come a Roma, così a Palermo, c'è una tendenza della sinistra D C verso la sinistra socialista; come a Roma così a Palermo, si traffica con la destra per voti visibili e invisibili; come a Roma, così a Palermo, si conta sul voto segreto (vedere bene come è andato il voto dei 291 che hanno approvato


i bilanci finanziari nell'assenza di Fanfani), col quale una diecina di non bene individuabili deputati hanno bocciato il bilancio per un voto: un sol voto, quello che occorreva. 11 significato che si è voluto dare tale voto nel campo delfa DC ha motivi antichi e nuovi. Ma il vero motivo è del tutto parritico; le elezioni regionali sono imminenti (aprile 1959). I deputati uscenti hanno delle legittime preoccupazioni; gli aspiranti deputati delle altre. Giolitti voleva farle lui le elezioni e vi riuscì sempre; ma l'ultima, quella del maggio 1921, non gli fu propizia; la tecnica giolittiana non era adatta per elezioni con la proporzionale temperata. Oggi siamo retti a proporzionale squinternata, introdotta in Italia per tenere su una partitocrazia ciellenista e strutturata, contro la quale i dissidenti possono ben poco. Si pensa che un La Loggia, di intesa con l'apparato del partito che risiede a Roma, del quale apparato fanno parte i siciliani Magrì, Gioia, Gullotti (oggi per giunta deputati nazionali) usando mezzi larghissimi ottenuti da Roma o da altre fonti, metterebbe i non conformisti in condizione di inferiorità, anche se ammessi nelle liste a titolo consolatorio. La reazione anti-fanfaniana dei Pella, Scoca, Andreotti, Gonella, Aldisio e molti altri portò, nel 1955, alla elezione di Gronchi a Presidente della Repubblica nella convinzione che Fanfani sarebbe stato travolto; ma travolti furono gli stessi promotori di destra che scelsero l'intesa con le sinistre. Oggi in Sicilia si fa un'altra mossa anti-Fanfani, anti-La Loggia, anti-Magrì e compagni, per liberare la Sicilia dal dominio di Roma partitocratica. In queste condizioni giocare col mezzuccio del voto segreto e della non approvazione del bilancio e un presunto appoggio delle sinistre si rischia di ripetere il 1955 a Roma. È da augurare che i siciliani che hanno voluta e attuata l'autonomia comprendano e facciano comprendere che solo ai coraggiosi, puri, disinteressati, combattenti a viso aperto per la libertà e la moralità è serbato I'awenire, se sapranno combattere di fronte il parlamentarismo e la partitocrazia. Bisogna saper pagare di persona per essere creduti; bisogna saper difendere il diritto con mezzi onesti e democratici per ottenere rispetto; bisogna cercare la concordia degli spiriti con coloro che han dato prova nel passato e nel presente di essere con le mani nette, e volere esclusivamente il bene della Sicilia nella libertà, nel diritto, nella rettitudine amministrativa e politica, per avere i consensi necessari. Ai vecchi amici di Palermo oggi in dissenso fra di loro, diffidando l'uno dell'altro, I'augurio di una intesa per la difesa della autonomia e per l'avvenite della Sicilia.

a

Il Giornale d'ltalia, 13 agosto 1958

I1 rischio che educa Come vi è la sicurezza che edifica e quella che distrugge, vi è il rischio che educa e quello che corrompe. Parlo del rischio che educa, non dell'azzardo; di quello che condiziona l'attività umana, non di quello che la ferma. È vero, non tutti sanno affrontare il rischio, non tutti ne ricavano bene; ma è così di ogni condizionamento di vita; coloro che hanno volontà di affrontarlo e di perseverare, ne ritraggono bene; chi lo evita o si arresta a mezza strada deve subirlo e dichiararsi vinto. Nessuno può evitare il rischio perché è ignoto l'avvenire; anche il benestante, se vuole far fruttare le sue ricchezze, deve affrontare il rischio che ciò comporta; se crede che de-


positando i risparmi in banca o acquistando buoni del tesoro avrà da stare tranquillo senza correre rischi, s'inganna; un bel giorno, passati solo alcuni anni o sopravvenuta una crisi (a non parlare di guerre) si accorgerà che un terzo o metà dei suoi risparmi si sono assottigliati o stanno per volatilizzarsi. E non è forse un rischio sposare, non solo perché non è facile trovare una buona moglie, ma anche perché non si sa se una malattia non la fiacchi; se avrà o non avrà figli; se sarà o non sarà fedele. Come si può credere che quaggiù possa mai ottenersi uno stato di sicurezza? La socialsec~rit~ è uno dei più nobili scopi dello Stato moderno, nel senso di non far mancare l'assistenza a coloro che non hanno i mezzi per procurarsela offrendo loro un'organizzazione capillare adatta allo scopo. Nulla da dire sul fine: molto sui mezzi e sulla organizzazione. Le cose umane non sono perfette; quelle statali sono per definizione imperfette; non potrebbe essere altrimenti. A parte la critica che si può fare e si fa allo statalismo (la sicurezza sociale si può ottenere senza fare dello statalismo), quel che occorre mettere in rilievo è che con tale organizzazione né lo Stato né i partiti possono presumere di eliminare il rischio; ne verrebbe un danno alla società nel tentativo di paralizzare il flusso dell'attività umana, togliendo la spinta all'emulazione, all'intercambio individuale e per nuclei organizzati, attenuando la possibilità dell'iniziativa nel campo assistenziale stesso. Vexatio dat intellecturn; l'uomo per comprendere, e quindi operare, ha bisogno di una costrizione, sia spirituale che materiale; il rischio contribuisce alla costrizione, all'allenamento delle forze, alla speculazione intellettiva, alla preparazione dei piani, al superamento degli ostacoli; favorisce lo spirito di conquista.

Oggi si pensa in altro modo; si tende ad una concezione panteistetica della vita; lo Stato paternalista; lo Stato che si occupa di tutti, provvede a tutti, agisce per tutti, creando una macchina mastodontica, dove le volontà di tutti sono passate al setaccio, sono barattate per farne un impasto unico con la marca di Stato. Queste idee di psicologia politica mi sono venute sotto la penna leggendo, in versioni diverse, le varie cronache sui licenziamenti, non si sa se solo ipotizzati o in via di realizzazione, in un certo numero di aziende IRI. Certo, non mi piacciono i licenziamenti; se fossi operaio licenziato protesterei come e più degli altri; ma sono convinto che se all'operaio perché statale si toglie il senso del rischio, anche quello di potere essere licenziato, si fa un male; si toglie un incentivo che educa e dà coscienza della cooperazione dell'operaio agl'interessi dell'impresa, lo spinge a lavorare meglio, a rendere di più di come non avrà fatto, a farsi apprezzare. Dall'altro lato, gli amministratori, sapendo di avere la responsabilità dell'azienda al punto da dover licenziare un certo numero di operai se ciò è necessario, cureranno di evitare un tale pericolo con il maggiore impegno possibile e provvederanno nei casi urgenti a quel che è indispensabile, e si interesseranno a che gli operai licenziati abbiano subito quella assistenza, che in ogni Stato moderno non può non essere bene attrezzata per la disoccupazione, in modo da provvedere ai bisogni fondamentali delle relative famiglie. Se si diffonde la convinzione che per interventi politici, protezione di partiti, interventi sindacali, la manodopera statale è di fatto inamovibile, l'operaio renderà meno, l'impresa andrà male ed avrà diritto a rivolgersi allo Stato per concorsi extra-economici, ovvero per colmare i deficit con la facilità dei prestiti di Stato ottenuti da Banche di Stato e così di seguito, fino a dare alla comunità il peso di imprese incancrenite. Tre gravi conseguenze: lo


scardinamento delle imprese statali; l'inefficienza della manodopera; l'infezione generale del morbo che crea la psicologia di una falsa sicurezza sociale, che non è sociale n4 umana, ma demagogica e rovinosa.

L'episodio al quale mi riferisco ha altri lati degni di rilievo e di critica. L'ordine dato dal Presidente del Consiglio al presidente dell'IRI di sospendere i licenziamenti poteva essere evitato, anche perché il presidente dell'IRI non è un'oca; in ogni caso poteva essere circondato da prudente e accorto silenzio, proprio fra i due senza testimoni, evitando una risonanza dannosa per gli altri e politicamente controproducente. Per giunta la chiamata in causa, pubblicamente, del Ministro delle Partecipazioni, ha avuto il rilievo di un intervento di autorità che ingenera l'idea (tanto facile in un mondo di conformisti) che il Presidente possa far tutto, sostituirsi a tutti, cambiare leggi e regolamenti. La cosa merita rilievo anche perché quel che il Presidente ha richiesto al Ministro delle Partecipazioni esula dai compiti istituzionali del nuovo Ministero, il quale deve curare le partecipazioni statali con criteri di economicità. Per giunta, occorre rilevare che in diverse imprese la partecipazione statale può essere inferiore o di poco superiore alla metà delle azioni; i diritti degli azionisti privati debbono essere tutelati e gli amministratori hanno l'obbligo di rispondere agli azionisti dei criteri di gestione, nel caso che vengano accusati (anche avanti il magistrato) di mancanza di cura nell'evitare i deficit, owero darne evidenza agli effetti legali per eventuale aumento di capitali o per scioglimento anticipato delle società. Non creda Fanfani di essermi io fermato su questo piccolo episodio, forse già scontato, o per lo meno awiato sopra una soluzione di compromesso in attesa di migliori studi, per esagerarne la portata a scopo politico; egli sa bene che ciò esula dal mio pensiero e dal mio metodo; io desidero solo fermare un punto al quale egli, da economista, non può non aderire, e come Capo del Governo deve darne risalto, quello del senso del rischio che educa, che nobilita la attività umana, che spinge a renderla efficace e vantaggiosa per sé e per gli altri. I1 blocco dei licenziamenti voluto dai socialcomunisti, al quale aderiscono coloro che hanno in odio il riflettere, paralizza non solo l'economia ma il necessario interscambio di capacità lavorative e di gruppi familiari, nel loro comporsi e decomporsi, suddividersi e accrescere maturando nuove e migliori reclute di lavoro con l'arrivo di giovani preparati nelle scuole professionali. Le imprese hanno anche esse il loro flusso e riflusso; si debbono adeguare ai mercati; ora si ingrandiscono assorbendo nuova manodopera; ora si arrestano ridimensionando le unità produttive; ora si fermano per trasformarsi in imprese più adatte a nuovi climi economici. Che si farà per il Mercato comune? Vorremmo forse presentarci con i patti agrari bloccati da una ventina d'anni e con le imprese statali bloccate col peso di manodopere eccessive e con le altre imprese arrestate da scioperi sindacali? Bell'affare per l'Italia, quando le merci degli altri Paesi entreranno senza barriere a farci concorrenza, e le nostre imprese non avranno potuto mettere a sesto le loro officine per non diminuire la manodopera resa superflua da una tecnica più progredita. Allora, mi si dirà: «Lei con la sua politica vuole aumentare la disoccupazione». A chi mi farà simile domanda, dirò subito che è un analfabeta di economia, owero che è un tirapiedi comunista di quelli che stanno comodamente in Italia invece di andarsene subito a godere il paradiso della Russia e dei Paesi satelliti. Oggi chi crede pih ai blocchi di mano-


dopera se non i comunisti? È loro affare. L'aumento della produttività, la maggiore capacità di acquisto, la migliore preparazione tecnica della manodopera, la capacità competitiva degli imprenditori e dei lavoratori; questa è la via della salvezza. Dal 1946 ad oggi, in ranto abbiamo potuto affrontare parzialmente la disoccupazione in quanto parzialmente abbiamo tenuto la via maestra qui indicata; al contrario, in tanto è stato inefficiente ogni altro sistema in quanto si è fermato su metodi demagogici, compresivi i blocchi, tutti i blocchi che superano la contingenza del momento. Col dire ciò, non escludo, anzi ammetto, la difesa del lavoratore, fatta dal sindacato a tutela di tutti i diritti; ma tengo distinta l'attività del sindacato che è di categoria, dal compito dell'uomo politico diretto com'è al bene della collettività nazionale, l'una e l'altro basati (secondo i fini specifici) sulla giustizia e sull'equità. È questa la vera socialità non quella falsa e demagogica che vorrebbe perfino soppresso il rischio che educa e che accompagna la vita di ciascuno di noi. Il Giornale d 'ltalia, 20 agosto 1 958

<(Sociale»parola magica Un tempo ((sociale))in senso corrente indicava i rapporti della cosiddetta ((buonasocietà)), la borghese che si nobilitava o la nobile che si imborghesiva; quella che teneva ricevimenti, abbondava in conversari, frequentava circoli, perdeva tempo perché non sapeva come impiegarlo. In Inghilterra il j v e o'clock tea era ((social)),come era <(social»tenere circolo dopo cena (o pranzo che fosse). È un passato rimasto sì e no in certe cittadine di provincia fino all'arrivo della televisione. Da un certo tempo «sociale»pare debba significare tutto quel che mira a livellare la società eliminando le classi e aumentando il benessere. Dico: pare che debba s@z$care, perché l'uso è così generalizzato, così insistente, così applicato a dritto e a rovescio, che bisogna fare un lungo esame per coglierne il senso ogni qualvolta si incontra questa parola per strada. Uno degli usi che io abolirei subito e senza appello tanto è mistificante, è quello di parlare di cristianesimo sociale. La Chiesa è la società dei fedeli di Cristo, società soprannaturale, unica: il cristianesimo è la religione di Cristo sempre la stessa nella sua essenza, sempre intenta al bene delle anime e quindi anche alla vita associata dei fedeli (e potenzialmente di tutti gli uomini) sempre e dappertutto. Diremmo che il cristianesimo non fu sociale per più di dieci secoli perché non abolì o non capeggiò l'abolizione della schiavitù? Ricordo che dopo una mia conferenza al Queeni College di Carnbridge, il celebre medievalista prof. Coulton mi fece questa obiezione. Gli risposi che il Cristo nel precetto dell'amore del prossimo, simile ai precetto dell'amore di Dio padre di tutti gli uomini, fissò il motivo fondamentale e mistico della fraternità umana, senza differenza di caste, di razze, di classi e di ranghi. Il cristianesimo è un fatto sociale spirituale che si proietta sul mondo in permanenza, quali possano essere gli errori e le deviazioni umane. Passiamo allo Stato sociak. Stato è parola moderna; la parola storica più significativa, che Ra coperto quasi tutto il mondo conosciuto è stata Respublira; da dove viene (per quanto ridimensionata) h repubblica dell'epoca moderna. Citare S. Tommaso circa lo scopo del-


la società politica organizzata (polis, res publica, principato, signoria, regno, impero, stato, repubblica, federazione e così via) è citare tutta la storia cristiana. Per questo S. Paolo e S. Pietro esortavano i fedeli a pregare per i re, i comandanti, i capi della società terrena, «perché possiamo vivere una vira tranquilla», (che è il sommo del bene comune). Il modo come ottenere questo bene comune sia da parte dei governanti che da parte dei governati è rutta la storia umana; storia di eroismi e di egoismi, di lagrime e di sangue, di guerre e di paci. Ma chi crederà mai che sulla terra cesserà il conflitto di forze organizzate e organizzabili? In cento anni di Stato sociale (i comunisti lanciarono il loro appello nel 1848) le guerre locali, nazionali e mondiali hanno occupato più di un quarto di secolo; e se vi aggiungiamo quelle coloniali e le asiatiche, potremo tessere una catena che va dalla guerra fra i cantoni svizzeri e la guerra di Crimea, fino alla attuale guerriglia in Algeria. La democrazia della rivoluzione francese credeva che le guerre erano fatte sempre per esclusiva volontà dei monarchi, e dichiarò di non fare guerre tranne che per tutelare la propria integrità. Così giustificò la dichiarazione di guerra all'Austria decisa dall'Assemblea Nazionale il 20 aprile 1792, «come difesa del popolo libero contro l'ingiusta oppressione di un re». Napoleone e l'impero ne furono la conseguenza. Se per quel sociale messo a qualificare lo Stato s'inrende il welfare state inglese, cioè lo Stato che si occupa del benessere di tutto il popolo (nel senso lato della parola), dobbiamo dire che, bene o male, tutti gli Stati han curato il benessere generale secondo lo spirito dei tempi e i mezzi disponibili. Le assicurazioni sociali hanno quasi un secolo di storia, l'istruzione obbligatoria, anche; la costruzione di case popolari non è recente; le leggi sulle ore di lavoro, il lavoro notturno e lavoro festivo hanno una lunga storia. Leggere quel che scrivevano più di un secolo fa i nostri cattolici, dal celebre mons. Ketteler in Germania, Ozanam in Francia, I? Ventura in Italia, e così di seguito. I1 cosiddetto Stato sociale di oggi non è che una copia più o meno dello Stato parernalista di un tempo. Questo fenomeno non è nuovo; è antico, antichissimo; è servito ai monarchi assoluti, alle repubbliche tiranniche, ai demagoghi di tutti i tempi; è servito ai laburisti (ne ho letto un inno di Artlee in questi giorni, manca solo I'afflato pindarico) come è servito a Lenin per instaurare il socialismo dei sovietici in Russia e in seguito quello dei Paesifelici del Baltico e della fascia di protezione che da Berlino arriva a Sofia: storia di lagrime e di sangue, che i «sociali» di sinistra d.c. farebbero bene a studiare. È inutile; i nostri di oggi vogliono ad ogni costo darsi l'aria di avere scoperto lo Stato sociale, perché hanno letto il libro di lord Beveridge, gli articoli dell'Esprit, qualche opuscolo di Maritain, e Dio volesse che non si fossero imbevuti delle idee di un socialismo che va corrodendo le ossa di certa gioventù cattolica che scopre quelle novità che ignorava sotto il fascismo o credeva di trovarle nel corporativismo del partito unico. Lo Stato «sociale» esisteva prima che fosse scoperto, perché il bene comune è funzione dello Stato. Tale bene va inteso secondo le esigenze, la cultura e gli orientamenti di ogni epoca, e per noi nello spirito cristiano, da Gesù Cristo ad oggi, sempre. Non è di oggi la denominazione, alla quale certi economisti indulgono, di economia sociale invece di economia politica, credendo essere questa basata sulle libertà di mercato, mentre la sociale sarebbe basata sull'interventisn~ostatale. Da economia «sociale»a economia «socialista))sembra che ci sia solo un gradino, tanto in teoria che nel fatto. Però se è socialista non è più economia, e se è economia non può essere socialista. Questo dilemma non è chiaro nella testa di molti per via di quella ((economia sociale» che la fa da intermediaria o da mezzana che sia. Vediamo di che si tratta. Il nome di ~oliticaal trattato di economia fu dato perché la


materia dei rapporti economici fra i cittadini è basata sopra strutture e garanzie di carattere pubblicistico. Non vi potrebbe essere comunità politica o società politica (Stato) senza una moneta, una finanza, un sistema creditizio, un commercio estero che non fossero regolati da leggi giuridico-pratiche basate su rapporti economici, nonché da leggi nazionali in connessione a trattati o leggi internazionali. Più politica di così non potrebbe esserne la sostanza e quindi la definizione. La parola è greca (Polis) che vale Respublira alla latina. In conclusione, l'economia è semplicemente economia; quella domestica riguarda i conti della serva o della padrona; quella di uno Stato riguarda bilanci statali e relative entrate e uscite proposte dai Governi, approvate dal parlamento, pagate dai contribuenti e riscosse dai.. . fornitori; quella fra gli Stati riguarda cambi e scambi, prestiti e commerci, monete stabili e monete oscillanri. Fra tante economie pubbliche e private, vi sono quelle solide e quelle fallimentari. L'economia nazionale o internazionale, secondo l'estensione e i punti di riferimento, è sempre economia politica quando è diretta al bene della comunità. Ma lo Stato (o la Federazione di Stati) non è infallibile, non è impeccabile, non è divino: è fatto da uomini e perciò pieno di egoismi e di generosità; attraversa fasi costruttive e distruttive; si trasforma, si evolve. Ciò non ostante, il popolo si difende, il popolo si riprende, il popolo lavora, il popolo progredisce; al temporale succede il sole; la terra s'inverdisce; la Prowidenza ci assiste facendoci pagare i nostri errori e aiurando la nostra volontà di correggerci. Economia sociale! Leggo che la Germania sta costruendo il più importante oleodotto d'Europa. Paragono questa spesa con i monumenti e monumentini dell'Agip-Gas disseminati in Italia; la paragono con certe inutili ferrovie ricostruite dopo la guerra; con le cccattedrali» ferroviarie, che la tradizione italiana del mal della pietra ha regalato alle grandi città: Torino ne è superba, ma capisce che è troppo grande; Milano è alla terza cattedrale; penso anche ai fastosi palazzi delle nostre banche di Stato o di interesse nazionale e ancora a certi centri di assistenza dell'INAM veramente lussuosi, tutti fatti con uno sperpero che oltraggia. Dov'è il welfarestate! In Germania o in Italia? Bisogna andare in Inghilterra per vedere le modeste sedi di banche o le modestissime stazioni ferroviarie e le antiquate prese di benzina, non nell'ltalia della lira a 625 il dollaro. E ricordiamo gli ammassi del grano che hanno assorbito migliaia di miliardi, le spese superflue, i traffici ai margini e molto di quanto è stato fatto in nome dello Stato sociale (enti di riforma agraria compresi); viene da compiangere la gente che non se ne accorge, o che accorgendosene alza le spalle e volta la testa o dice: non c'è rimedio. Infatti dopo gli ammassi, i miliardi dell'lNAM, i deficit della cinematografia, vengono pretenziose le iniziative ENI, che pompano il denaro pubblico con il benestare del Governatore della Banca d'Italia; così noi possiamo registrare uno Stato non solo ((nonsociale» ma ccantisocialm, che disgrega, dissipa, disfa tutto quello che pensa di promuovere a vantaggio del popolo (come unità dei cittadini che pagano) e del popolo lavoratore (come la classe che giustifica lo sperpero). If miglioramento che si vuole indicare con l'abusata ed equivoca parola sorialesi attua non col dissipare le finanze statali e con l'impiegarle in opere improduttive, non col fare degli operai i dipendenti e i pensionati dello Stato, ma con l'aumento del benessere comune, della produttività, dell'iniziativa e della vitalità personale e privata di ogni cittadino. I provvedimenti cosiddetti sociali di uno Stato paternalista tornano a danno della comunità nazionale, anche perché nessuno sarà mai soddisfatto, nessuno contento; perché nessuno apprezza quel che egli non produce e quel che altri gli regala, sia pure lo Stato; ma solo quel che è frutto del proprio lavoro, del proprio sudore e della propria iniziativa. Se ciò non è compreso dai socialisti, è giustificabile con le loro teorie «antisociali»; ma


che non lo comprendano certi cattolici, preti compresi, è assurdo per chi sa che la base cristiana è vittoria sull'egoismo per il trionfo della giustizia e della fratellanza umana.

Il Giornale d'ltalia, 26 agosto 1958

Moralizzare la vita pubblica Oggi, quanti moralizzatori improvvisati; e quanti, dopo tanto dormire, si risvegliano moralizzatori convinti; finalmente possiamo cominciare a respirare. Dal mio ultimo discorso al Senato traggo il seguente tratto che fa al caso: «La questione diviene ancora più seria, se si esamina quel che awiene per le elezioni politiche. Gli apparati dei partiti ne sono gli arbitri; la raccolta di denaro per la campagna elettorale è fuori misura; i voti di preferenza costano ai candidati fiordi quattrini, difficilmente reperibili nelle proprie economie domestiche; la vita politica è terribilmente inficiata da una larga ingerenza di imprese pubbliche e private e dal tramestio di coloro che fanno il mercimonio dei voti, assicurando il favore di numerosi elettori, come se fossero pecore da mercato.. . La lotta per le preferenze crea contrasti insanabili fra colleghi di lista; si tratta di lotte fratricide, che eccitano la corruzione più sfrenata, per conquistare solo l'ultimo posto fra gli eletti; i primi posti sa Dio quanto costano. Ebbene: due sono le soluzioni di questo groviglio; regolamentare i partiti e inserirli nella Costituzione, ovvero eliminare la formazione dei gruppi parlamentari e ripristinare sia le commissioni di nomina assembleare sia la costituzione degli uffici per via di sorteggio. Ma in ambo i casi, è sempre necessario ed urgente che una legge regoli le finanze dei partiti; ne proibisca i finanziamenti da parte di enti pubblici e di imprese private; ne renda pubblici i bilanci; fissi il massimo che ciascun candidato possa ricevere ed erogare per le spese elettorali, pena la decadenza dal mandato. Se non si arriva ad affrontare con coraggio la situazione, non solo le elezioni politiche, ma anche le municipali, le provinciali e le regionali saranno inficiate di corruzione. Non ci illudiamo; la libertà finirà con l'essere incatenata dalla corruzione dell'attività politica. Il Paese oggi non può restare sotto tale incubo; sarà vana qualsiasi ottima legge o qualsiasi opportuno provvedimento diretto a procurare benessere sociale, se il Paese - inficiato al centro e alla periferia dai partiti, siano oggi al potere o contino di esserlo domani, e da quegli altri che attendono che l'apertura a sinistra si faccia più larga - non trova nel Parlamento l'organo atto a ridare fiducia nella moralità della vita pubblica)). Sulla moralità della vita pubblica scrissi un articolo appena arrivato da New York (L'ltalia, Milano 3 novembre 1946) dove, notando il dilagare della immoralità privata, aggiungevo: «Non si corregge tale immoralità solo con le prediche e gli articoli dei giornali. Bisogna che la prima ad essere corretta sia la vita pubblica: ministri, deputati, sindaci, consiglieri, cooperatori, organizzatori sindacali diano esempio di amministrazione rigida e di osservanza fedele ai principi della moralità. Mi rideranno dietro gli scettici di professione, coloro che non credono che l'uomo sappia - - e possa resistere alle tentazioni. I1 mio articolo non è diretto a loro. È principalmente diretti ai democratici cristiani)). Naturalmente, l'esempio deve partire da chi ha la maggiore responsabilità. Perciò parlando a tutti, ho sempre inteso mettere in prima linea i miei amici e me stesso, come coloro che oltre per il titolo di cristiani anche per la posizione direttiva debbono sentirsi principal-


mente obbligati all'osservanza delle leggi morali. Questa mia insistenza è stata costante per tutti i dodici anni di questa mia ultima attività giornalistica e politica. Mi duole il dirlo, anche nel modesto contributo dato con la commissione che presiedo, presentando circa due anni fa il disegno di legge sulle gestionifiori bihncio, ho avuto, insieme ai colleghi, gli elogi in Parlamento da due capi di governo, Segni e Zoli, ma il disegno di legge è stato storpiato dalla burocrazia ed è lì a attendere non si sa se I'insabbiamento o la definitiva deformazione. In uno dei miei articoli più recenti (gennaio 1958) prima che nel programma elettorale della DC e in quello dell'attuale governo fosse inclusa l'affermazione tanto promettente della «moralizzazione della vita pubblica)),così io scrivevo: ((Checosa è mai la concezione dello Stato di diritto se non quella di uno Stato nel quale la legge prende il posto dell'arbitrio; l'osservanza della legge sopprime l'abuso; la malversazione e la sopraffazione non restano impunite? Bene, facciamo come si fa nelle case; in primavera e in autunno pulizia generale; si rivedono tutti gli angoli; si spolverano tutti i mobili; si buttano via stracci e carte inutili: pulizia, ci vuole. È vero, ci sporchiamo le mani; ma c'è l'acqua e il sapone a ripulirle più volte. Presentiamo un programma per la terza legislatura repubblicana; lasciamo che i partiti si vestano di meriti veri o presunti per quel che hanno fatto di bene al paese, alle varie categorie di cittadini, ai singoli collegi o circoscrizioni; lasciamo che si presentino puliti e lucenti, nascondendo le falle, gli errori, le disfatte, per poter ottenere nuova e più larga fiducia. Noi vogliamo che lo Stato, come ente tipicamente responsabile della pubblica amministrazione, pur facendo valere le proprie benemerenze, riveda le proprie colpe e si emendi: in primo luogo giustizia, fundamentum regni, onestà, correttezza della pubblica amministrazione, equità politica verso i cittadini.. . Ci vuole un lavaggio generale, per supplire alla pulizia che è mancata nei dieci anni delle due legislature repubblicane, dopo quella specie di assoluzione del passato che il corpo elettorale diede largamente il 18 aprile 1948 per i primi cinque anni gravi di difficoltà specialmente per una classe politica impreparata dopo ventun'anni di dittatura)).

E forse il primo atto della rnoralizzazione l'iniziativa Preti di portare l'affare Giuffrè sul terreno scivoloso dello scandalo politico, e farne una specie di processo Montesi per uso delle sinistre anticlericali? Quale differenza di comportamento della stampa per il caso dell'INGIC, dove erano compromessi insieme a funzionari statali, amministrazioni municipali socialcomuniste e anche, in minor numero, amministrazioni democristiane. Con una leggina urgentissima si scarcerarono i colpevoli; il processo continuò in sordina; quattro anni sono passati e di corruzione per appalti di gestioni di dazi di consumo, con premi a sindaci e ad assessori e simili pereadilli, non si parla più. Forse qualche straccio ci andrà di mezzo alla fine del processo; e chi s'è visto s'è visto. E della distrazione dei fondi (si chiama così?) dell'alto commissariato alla sanità chi si occupa? I zelanti moralizzatori dove sono? Con. Preti non si è mai ricordato di questo fatterello? I social-comunisti, che oggi strillano, forse pensano a un loro collega che vi fu implicato e non è più garantito dall'immunità per cui hanno interesse ad evitare che sia data l'autorizzazione a procedere contro I'on. Cotellessa (il quale ha interesse a dimostrare la sua innocenza) per impedire che la Giustizia faccia la sua strada. Altro che inchiesta parlamentare per Giuffrè; si dovrebbe fare perfino ai della Camera, passati e presenti, i quali hanno trascurato di far votare un'insignificante autorizzazione a procedere quale quella da me più volte rilevata.


Per Giuffrè si tende, giustamente, a conoscere quale tolleranza, condiscendenza, connivenza, abbia avuto alla strana impresa la tributaria, la vigilanza del credito, la polizia e se ci sono stati dei protettori. D'accordo; per quanto riguarda preti e vescovi ci sono 1'Espresso o la Voce ad occuparsene con la maggiore obiettività, serenità, rispetto, proprio da gentiluomini ail'antica. La proposta di inchiesta parlamentare non mi dispiace, purché sia estesa alle mie denunzie fatte con tre mie interrogazioni circa Il Giorno di Milano, circa i versamenti per oneri fiscali dell'AGIP Mineraria-SNAM degli anni 1956 e 1957; nonché con la mia denunzia ai Senato, nel discorso sopraccennato, dell'incetta fatta da tutti i partiti per spese elettorali e i concorsi dati dall'EN1 alla stampa di partito, compresi i giornali dei partiti ai governo. Non mi si può dire che il caso Giuffré mi abbia svegliato; i miei articoli sono in parte raccolti in volumi che portano data, indicazione di tipografia, e sono recapitabili anche dall'autorità giudiziaria; e riguardano gli enti di riforma, i consorzi agrari, gli ammassi, enti particolari individuati. Non ho mancato di scrivere e di parlare, in mezzo all'indifferenza del mondo politico; il quale si commuove solo alle montature della stampa di sinistra, secondata dai giornali di informazione per quello stile di reportage scandalistico che piace al pubblico, rompendo la monotona vita quotidiana e presentandoci il ministro Preti che inaugura le indagini circondato dagli elettori del suo collegio; il comm. Giuffrè che, seguito da una folla incuriosita o interessata, gira le strade di Bologna gridando a squarciagola: sono qui;pagherò tutti;farò onore allafima; fatti questi di modesto interesse, un po' carnevaleschi, che non hanno rapporto di quantità, qualità, risonanza con il crack del Panama e con il fallimento di Strawiski, che misero in subbuglio al loro tempo Parigi e mezza Francia.

Il Giornale d'ltalia, 29 agosto 1958

Due pesi e due misure (7 miliardi sì - 7 miliardi no) Dunque, pare che il deficit di Giuffrè sia di sette miliardi; questi i conti del pubblico; i suoi? Non li sappiamo ancora. Mettiamo pure che egli resti in deficit con i suoi creditori per sette miliardi. I creditori saranno stati dei credenzoni, ma fino a un certo punto; chi promette il pagamento di altissimi interessi (si dice il 100 per cento) non merita fiducia; se gliel'hanno accordata, peggio per loro. Vi sono dei preti di mezzo, e questo fa appetito agli anticlericali, mentre eccita il compatimento della gente per bene. Sarà così: quante volte preti e frati sono caduti nel noto trucco della valigia dei documenti e del prestito urgente? Buon cuore, buona fede; non mancano uomini semplici e neppure chi li raggira. Bene; se l'inchiesta parlamentare si deve fare non sarà certo per sottrarre i presunti indiziati al magistrato penale e alle commissioni tributarie; ma solamente per accertare le responsabilità politiche connesse all'affare, responsabilità di ministri e di impiegati, compresa quella della divulgazione di memoriali di gabinetto. Gli altri sette miliardi dei quali io ho parlato più volte (io, non la grande stampa a pieni fogli per otto o quindici giorni) sono quelli del deficit dell'ente cinematografico oggi in liquidazione, per creare (si dice) un altro con denaro fresco (s'intende, dello Stato). Chi pagherà i sette miliardi di deficit? Gira gira sarà Pantalone, il solito Pantalone italiano, abituato oramai da anni a pagare in silenzio somme favolose per i deficit di molte gestioni statali.


I sette dell'ente ~inemato~rafìco in liquidazione non sono esattamente sette; crescono con i mesi; bisogna attendere i conti del liquidatore per saperne di più. Ma mettiamo che si tratti di sette miliardi; non mi pare che questa sia una cifra disprezzabile e, vedi caso, corrisponde alla stessa cifra del presunto deficit del Giuffrè. Ma per i sette miliardi della cinematografia nessun Malagodi di questo mondo si è dato la pena di proporre una inchiesta parlamentare, la quale non potrebbe mai sottrarre i responsabili del deficit al magistrato competente, ma solo per accertare, come nel caso Giuffrè, eventuali e probabili responsabilità politiche. Infatti, gli amministratori di nomina ministeriale erano scelti fra i più qualificati funzionari dello Stato: direttori generali, capi divisione, capi gabinetto, ispettori di ragioneria. Possibile che tutti costoro non abbiano mai avuto la più vaga idea del deficit nel quale si dibatteva l'ente! No, non è possibile. Lo sapevano e ne avranno parlato col ragioniere generale o col ministro o con qualche altro personaggio importante; ma hanno continuato a funzionare da amministratori e membri della commissione di controllo, a percepire le relative indennità di carica ed avere i biglietti per le sale cinematografiche, nonché, occorrendo, automobili ed altre facilitazioni per il servizio prestato; fino a che un bel giorno il Ministro del Tesoro manda un liquidatore a regolare la faccenda. Ci sono o no indizi di responsabilità politiche e mancanza di vigilanza rninisteriale in questo caso (come in altri simili)? E allora perché non si pensa ad un prowedimento che tronchi il sistema della collusione degli amministratori e direttori degli enti statali con la burocrazia che deve vigilare e controllare? Questo problema fu da me sollevato in un discorso al Senato sulle comunicazioni del Governo (presidenza dell'on. Pella) nell'agosto 1953; il successore di Pella, I'on. Scelba, nominò nel marzo successivo una commissione (della quale fece parte per parecchio tempo I'on. Malagodi) allo scopo di affrontare anche il problema dei controlkzti-controllori, come si disse allora con una frase tipica, che fece effetto. Restò la frase nell'uso corrente; ma restarono anche indisturbati i controllati-controllori; anzi, a vedere le nomine che si son fatte e che si van facendo, pare che la burocrazia abbia preso la rivincita, e non capita più una nomina negli enti statali che non sia scelta fra gli impiegati statali; proprio quelli che hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, come dice la Scrittura. Così avviene nell'amministrazione delle ferrovie, dove stanno bene insieme consiglieri di Stato, ragionieri generali, impiegati del tesoro, e può capitare questo fatto strano che le entrate per vendita di biglietti che un tempo si versavano settimanalmente al Tesoro (che ne ha tanta sete) oggi si depositano in banca in conto vincolato, prendendo gl'interessi che non risultano in bilancio e quindi sono amministrati in gestione a parte. La cifra degli interessi per depositi vincolati non è indifferente; si crede che superi di parecchio il miliardo. Del resto, uno o sette, in Italia vale lo stesso quando vi è di mezzo Pantalone. La commissione da me presieduta da due anni attende che il disegno di legge proposto sulle gestioni fuori bilancio venga presentato al Parlamento. È troppo drastico per certi sistemi accomodanti come questo da me citato, e non è il primo e non sarà l'ultimo. Mentre ero per scrivere il presente articolo mi arriva una lettera su carta intestata dove si legge che è esperienza degli operatori dell'Alta Italia che non si combina nulla nei ministeri senza la bustarella, e finisce col sollecito di uso oramai nella non poca corrispondenza che mi arriva: ki solo potrebbe. .. Che cosa posso io? Riparlare per la centesima volta della bustarella? Si nega che esiste, come si negano le mie accuse all'on. iMattei, concretate in varie interrogazioni con risposta scritta. Le risposte avute sono state redatte nello stile di Ponzio Pilato, lavandosene le ma-


ni. Se invece di Mattei si fosse trattato di un Giuffrè qualunque avremmo avuto i memoriali redatti dai gabinetti ministeriali e le proposte di inchiesta parlamentare. Se questi miei concreti appunti, firmati col nome e cognome di un senatore, non interessano il governo, i partiti, i parlamentari, i giornalisti (quasi tutti), ciò vuol dire che la rnoralizzazione della quale si parla è una lustra, una parola vuota di senso, owero un mezzo per colpire solo gli awersari politici e indebolire i partiti in lotta. Ma la mia campagna, finché ho fiato, non cesserà, anche per testimoniare ad amici ed awersari la sete di verità e di giustizia del popolo italiano.

/I Giornale d'Italia, 5 settembre 1958

Conferme, rettifiche, i n s i s t e n ~ e ~ ~ Esistono le bustarelle? Ecco un problema sul quale un giornale del mattino mette fuori combattimento la burocrazia, lasciando nelle peste gli intermediari, gli uomini di governo, i partiti. Nel mio articolo non ho fatto il nome della burocrazia; ho detto solo che si nega l'esistenza della bustarella. Non capisco perché la mia condanna della bustarella sia stata riferita solo alla burocrazia e non a chi dà (il cittadino che corrompe) o chi induce (I'intermediario) o chi vi partecipa (l'eventuale partito o l'uomo politico o il chicchessia che non manca). Si dovrà convenire che una voce così insistente che io sento ripetere da quando, dodici anni fa, son ritornato da New York, non potrà essere campata in aria e non avere un certo fondamento. Ricordo che nel 1903 il senatore Rossano, ministro e amico di Gioliai, si suicidò per l'accusa di avere ricevuto lire cinquemila da un elettore. Quella notte al mio passaggio da Napoli, io ero stato ospite della sorella, la signora Guerra; non ho potuto dimenticare tale tragedia. Non incito nessuno al suicidio; ma desidero che anche la burocrazia si corregga e viva. Se l'articolista in parola cercherà di avere esatte informazioni da qualcuno degli ex com-

43

Lettera del 13 settembre 1958 al ministro dei Trasporti, on. Armando Angelini: " Caro Angelini, Leggo oggi la tua del-7 corrente pervenutami 1'8 ma insieme a un mucchio di altre lettere che per altri affari solo stamane ho potuto esaminare. Così avrai visto che anche nel mio ultimo articolo della sera del 10 corrente ho dovuto risp'ondere all'ultima lettera del direttore generale. E non scrissi che il disposto di legge circa il versamento alla tesoreria è tassativo e operante e che ogni diversa destinazione è un reato, per non aggravare la polemica. T u vedi che io non ho informatori inesatti. Solo l'affare della gestione fuori bilancio può sembrare inesatta, ed ho voluto per delicatezza velarla con la presa di atto ((perrispetto alla persona e al posto», perché un versamento diverso da quello fissato dalla legge pone di fatto la somma fiori del bilancio. Ora io non ammetto che un ministero di proprio arbitrio violi la legge; che cosa ci starà a fare il magistrato? e a che cosa servirà il parlamento? T u mi parlerai di convenienza; ma la convenienza contro la legge non si ammene; si cambierà la legge, se ciò è opportuno. Nel caso presente io reputo che togliere gl'incassi al Tesoro vuol dire sostituirli con carta emessa dalla Banca d'Italia; il che sarebbe un fatto di eccezionale gravità e, se perseguito da tutte le amministrazioni, porterebbe ad una notevole svalutazione monetaria e al conseguente aumento dei costi. Sempre a tua disposizione. Cordiali saluti Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 563, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. Luigi Sturzo», sett.-otr. 1958.


ponenti la Commissione di vigilanza sulle cooperative sowenzionate dallo Stato, potrà sapere quel che si dice a quattr'occhi e si ripete sottovoce sia dai cooperatori riguardo il ministero e relativi funzionari, sia dai funzionari riguardo i cooperatori e relativi appaltatori e ingegneri. Mi fermo qui, lasciando il resto nella penna. Esiste un diffuso malessere fra il cittadino mal servito e la amniinistrazione che si sente ingiustamente accusata. Occorre fare come in Danimarca; istituire I'iifficio informazioni e reclami, che eviti all'impiegato contatti, perditempo e tentazioni e ai cittadini che non vogliono o non possono offrire bustarelle, offra la soddisfazione di trovare facce serene e accoglienti che si interessano ai loro casi.

Debbo una risposta al direttore !generale delle Ferrovie che ha inviato una lettera di rettifica al mio rilievo sul versamento dei ricavi per vendita di biglietti fatto alle banche. Egli non nega il fatto, che del resto è noto e dagli uffici competenti è stato più volte contestato all'amministrazione delle ferrovie; egli nega che tali fondi e relativi interessi bancari siano gestiti fuori bilancio; nel dargliene atto, per rispetto alla persona e al posto, debbo aggiungere che egli non risponde al mio addebito che il versamento in banca è fatto a titolo di deposito vincolato, cosa che contrasta alla sua dichiarazione che le banche fanno servizio di pagamento; a meno che le banche in parola abbiano, per l'occasione, messo il cartello da parte, sia palesemente sia peggio in forma criptica. La gravità del fatto consiste principalmente nell'avere sottratto al tesoro un cespite normale, obbligandolo eventualmente a rivolgersi alla Banca d'Italia per fondi suppletivi. Se è vero che l'amministrazione delle ferrovie ha riscosso dalle banche circa due miliardi di interessi al 4 per cento, i versamenti dovrebbero ammontare a cinquanta miliardi. Se questo è regolare, lo dicano gli esperti del Tesoro e delle banche; per me è semplicemente irregolare e arbitrario. A proposito di rettifiche ne ho una da tempo, mi è mancata solo l'occasione. Scrissi che la CISL indirizzava i suoi emigranti ai sindacati esteri collegati nella Internazionale socialista; I'on. Pastore in occasione di una visita mi assicurò che la CISL non si occupa dei soci che emigrano, perché tale servizio è disimpegnato dalleACL1. Diedi già atto di ciò con una lettera; oggi pubblico la rettifica per lealtà e amore della verità. Chiudo la parentesi. E allora? Quel che cerco è la verità; e quel che mi interessa è la moralità; e quel che desidero è trovare adesioni, consensi, aiuti in questa campagna per la moralizzazione. Altri mi ha preceduto, afferma la Voce Repubblicana; tanto meglio, così non sono solo; trovare altri per una strada così difficile fa sempre piacere; sapere che altri se ne interessano conforta chi combatte una battaglia così aspra; vorrei essere l'ultima pietruzza dell'edificio di una repubblica sana, onesta, degna di consensi popolari e di ammirazione generale. Perché si porta come esempio di organizzazione e dignità civica la Svizzera? Ci saranno anche là furbi e profittatori, ladri e disonesti; ma la pubblica amministrazione è esemplare; i piccoli e i grandi Cantoni sono civicamente degni di ammirazione; la serietà politica non ammette eccezioni. E il piccolo Israele che esempio non ha dato in dieci anni di vita? È stata creata una solidarietà morale e politica, una economia progredita, una amministrazione rigida e moderna che fa piacere. La buona amministrazione della Germania è ben nota; tutti la lodano anche in Italia; imitarla è difficile. Vorrei dire tutto il bene possibile della mia Italia; mia e nostra, da me amata col sacrificio di me stesso. Avrò sbagliato, sbaglierò anche oggi, nessuno di noi è infallibile; ma non ho altra ambizione, altro desiderio che vedere il Paese superare questo stadio di marasma morale, questo decadimento della vita pubblica, questa incomprensione reciproca che do-


po quindici anni ci fa sentire che manca l'adesione sincera, totale allo Stato venuto su dalla tormenta delle guerre, nella veste di repubblica libera e democratica; purtroppo poco libera e meno democratica. Ma si dice che io combatto contro i mulini a vento, novello Don Chisciotte senza seguito altro che di un povero scudiero, quel Sancio Panza tutto fedeltà e buon senso. Ebbene, è quello che mi basta per le mie campagne moralizzatrici. È il buon senso del popolo che legge con crescente interesse i miei articoli; che anch'esso desidera come me verità e giustizia; che anch'esso vorrebbe moralizzata la vita pubblica. Giuffrè è all'ordine del giorno e interessa la curiosità del lettore dei giornali più che le notizie di Formosa o del Medio Oriente, e delle stesse accoglienze brasiliane al Presidente della Repubblica. Sconta oggi il Giuffrè la sua megalomania? Forse la pagherà con la vita; ma Giuffrè è indice di parecchie crisi morali ed economiche del dopoguerra fra le quali il desiderio sfrenato di rapido e notevole guadagno. I totocalci, gli enalotri, i lascia o raddoppia non sono fatti per educare. Né sono fatte per educare le rapide fortune nel campo politico di giovani della ventina portati di botto a capi uffici di partiti e a rappresentanti popolari o impiegati di tutti gli AGIP di questa bella Italia con due e tre o quattrocentomila lire al mese (automobile compresa per molti usi). L'indice di questa sete di denaro è la diffusione incontrata dalla usura, dalla piccola usura che strozza l'artigiano e il contadino alla grande usura delle banche di Stato, di diritto pubblico e di interesse nazionale. È una vergogna statale unica nel mondo questa che io denunzio da più di un decennio. I motivi del silenzio fatto attorno a questo problema? Prego i miei critici ad andarvi a fondo e probabilmente si renderanno conto dei seri motivi della mia campagna. Per senso di discrezione non voglio dire di più. Ma il popolo si educa con i fatti; interessi alti offerti da Giuffrè? È usura bella e buona, anche se va a beneficio di istituti assistenziali e di chiese. Mi diceva un amico che in una cittadina di Sicilia (mi faceva il nome) i contadini non desideravano che si aprissero sportelli bancari nei loro quartieri, preferendo andare dagli usurai dove non si richiedono loro carte scritte, certificati ipotecari, lunghe attese e dubbie risposte; gli affari si fanno subito, il denaro è caro ma pronto e il segreto è mantenuto rigorosamente. Così è stato di Giuffrè, con la differenza che nel paese siciliano il banchiere privato dà capitale e prende interessi; nel caso di Giuffrè, questi ha preso capitali e ha dato interessi. I1 guadagno atteso potrà svanire; ma i creditori si sono avvantaggiati degli illeciti altissimi interessi che ora conteggeranno in conto capitale. Se ci sono preti di mezzo, ne renderanno conto agli uomini e a Dio.

il clima che permette simili fenomeni; il clima che deve rendere tutto facile, senza rischio, senza noie, senza attese, senza quella vita grama di un tempo quando si raccoglievano le oblazioni dei fedeli soldino per soldino, tenendo i salvadanai da aprirsi nelle feste da un anno all'altro; bussando alle porte dei ricchi per averne rifiuti o poche lire di elemosina. A formare tale clima ha contribuito la svalutazione della moneta per cause di guerra, alla quale non fece seguito, come in Germania, l'emissione di una moneta più aderente alla realtà dei valori, che liberasse l'orecchio del suono (a parole) dei milioni e dei miliardi, con il danno psicologico ed economico di aumentare la spesa improduttiva e di darci il lusso di una fastosa esteriorizzazione di ricchezza che non esiste. I1 forestiero che viene in Italia trova nelle città l'apparenza di un benessere che contrasta alla realtà effettiva del retroterra. Tutto ciò è inutile che si dica e si scriva? È un combattere contro i mulini a vento? Sia


pure; ma tutte le volte che si parlerà di moralizzare la vita pubblica, - e se ne parlerà finché vi saranno non solo i Giuffrè di Ferrara e i Ghelardi di Savona e i Flogna di Pinerolo, ma gli enti statali in crisi e quelli in auge e la bustarella e gli affari dei partiti e le campagne elettorati a colpi di miliardi - la mia voce sarà viva alle orecchie degli italiani, anche quando le mie ossa riposeranno nel camposanto. Son sicuro che non mancheranno coloro che continueranno, con migliore fortuna di me, a destare e ridestare nel cuore degli italiani il bisogno di verità e di giustizia.

Il Giornale d'Italia, 10 settembre 1958

Classe politica nuova Che una nuova classe politica esiste in Italia non c'è dubbio; difficile sembra precisarne i caratteri e i contorni. L'orientamento che direi post-fascista sviluppatosi nei partiti di liberazione, insieme alla ripresa del vecchio orientamento anti e pre-fascista, ebbe l'apporto di non pochi elementi fascisti passati ai nuovi partiti, così da formare il sottostrato psicologico della classe politica sia al governo che all'opposizione. Ma un elemento determinante si è innestato al primo: il funzionarismo statale e parastatale, partitico e sindacale; non mi riferisco al tipo antico del burocrate, parlo del nuovo, affarista, spregiudicato, buono ad accumulare incarichi e uffici, a guadagnarsi la medaglietta e disposto a lasciarla per posti più importanti; questo oggi predomina nel mondo politico, amministrativo e imprenditoriale dello Stato. Si tratta di una delle più notevoli fasi della tacita e insensibile rivoluzione awenura in Italia, i cui riflessi vanno già oltre ogni previsto nel sowertire senza darne l'impressione gli istituti costituzionali e la struttura politica ed economica del Paese. Questo processo ha potuto svilupparsi sul piano già esistente dello statalismo fascista dopo che la guerra aveva eliminato i fervori nazionalisti e imperialisti pagati a caro prezzo. La rapida ripresa post-bellica con gli aiuti americani e con il fervido slancio del popolo rimessosi al non facile lavoro di ricostruzione fu (e non poteva essere diversamente) incentrata nello Stato. Purtroppo, il nuovo Stato fu concepito come il riparatore di tutti i mali, il provveditore di tutti i bisogni, il realizzarore di tutte le imprese, il sowentore di tutte le iniziative, il produttore di tutti i beni, in modo che lo statalismo fascista è stato superato dallo statalismo post-fascista. I1 nuovo Stato si è creato una finanza sempre in aumento, e la facilità di disporne con leggi e senza leggi in modo tale da stringere nella sua morsa il contribuente e paralizzarne le attività. Ma con quale finalità? Mussolini pensò all'impero per la grandezza della patria; la politica post-fascista è stata, invece, dominata dal sinistrismo socialcomunista associato in un primo tempo alla riforma statale, costituzionale e repubblicana. È vero che in un secondo tempo, per la nuova politica atlantica di difesa dall'invadenza di Mosca, il socialcomunismo fu estromesso dal governo e fu escluso dagli organi internazionali; però nella vita interna del Paese rimase elemento di spalla della maggioranza, partecipante ai compromessi e alle intese; come avvenne con l'elezione presidenziale e con la legge della riforma agraria, dei patti agrari, dei blocchi dei fitti, ovvero subendone i veti alla regolamentazione dello sciopero e alla regolamentazione dei sindacati quali prescritti dalla Costituzione, e perfino cedendo nella parte sostanziale dell'orientamento economico, di cui è insigne prova la


costituzione del ministero delle partecipazioni e relative conseguenze nel campo economico e sindacale. È così: ad un ideale nazionalista imperialista esasperato è stata sostituita una dannosa demagogia, sia pure con la pia credenza di poterci dare l'eliminazione della disoccupazione, l'elevazione operaia e l'equilibrio produttivo. Lo sfondo socialcomunista della tacita rivoluzione che si va operando in Italia sotto I'insegna dello statalismo, non sarebbe emerso così pericoloso se la classe politica che si è andata formando non fosse quella descritta. I1 facile e subitaneo arricchimento è un fenomeno che awiene in tutti i rivolgimenti politici, nei quali i più arditi e i meno provvisti delle classi medie, giovani senza immediato avvenire, professionisti senza larghe clientele, rampolli della media borghesia affaristica e spregiudicata, si fanno avanti utilizzando amicizie, capegiando gruppi politici e sindacali, agitando movimenti locali e secondando i capi più influenti e i favoriti dalla fortuna. Se capita una propizia occasione, come fu quella della vendita dei beni ecclesiastici incamerati nel periodo risorgimentale, è subito afferrata e utilizzata in modo da sistemare la posizione economica della famiglia e da rafforzare il partito o il regime al quale si è legato. I1 partito radicale francese, anticlericale e repubblicano, fu formato da coloro che beneficiarono della vendita dei beni ecclesiastici, che il clero cedette alla Nazione durante la prima fase della rivoluzione. Costoro rimasero clericali per timore, non ostante il disposto del concordato napoleonico, con il quale la Chiesa <impegnò a non far valere alcun diritto di rivendicazione e volle tranquillizzare in coscienza gli acquirenti (cosa fatta in Italia nel passato con atti individuali e con il concordato di Pio N);i radicali francesi e loro discendenti sono stati sempre e saranno sempre anticlericali per istintiva tradizione, come lo furono i liberali italiani, specialmente i meridionali. Oggi la terra si dà ai contadini attraverso una riforma che li lega allo Stato in maniera da sentirsi ancora dipendenti da un padrone; con la differenza che il proprietario era un individuo con cui si poteva parlare e discutere e fare sciopero; con lo Stato non si può parlare né discutere perché è muto sordo e cieco; i funzionari partecipano spesso alle stesse qualità dello Stato. Del resto la media borghesia affaristica, quella che forma la classe politica nuova, non ha bisogno né desiderio di pezzettini di terra e di cooperative statizzate e di trattori malvenduti. Tutti gli arrivati hanno modo di farsi villini costosi, appartamenti di lusso, sia attraverso cooperative finanziate dallo Stato o dai Parlamento (inclusivi i consigli e le assemblee regionali), o anche facendone a meno, bastando loro alti stipendi, assegni di amministrazione, partecipazione ad utili di aziende, cumulo di incarichi, consulenza in enti statali. Per l'arricchimento della nuova classe politica ci sono occasioni che sfuggono all'osse~azione;basta un dettaglio per far comprendere il resto, dettaglio osservato da pochi, quello della pioggia di doni di valore che arrivano ai deputati e agli amministratori di enti statali nelle feste più significative quali sposalizi, venticinquesimi e simili, specie a coloro che vengono dai ranghi dei piccoli ceti, coloro che si trovano negli apparati dei partiti e dei sindacati, e anche gli altri s'intende. Del resto non mancano occasioni all'intervento anche di ditte costruttrici e di negozi ben forniti; vedere per credere. Certamente, vi sono persone e famiglie più ricche di quelle che io qui vado disegnando, senza riferirmi ai pochi che amministrano e spendono i denari dello Stato come se ne fossero i padroni. Ebbene, i signori, i proprietari, gli industriali hanno redditi notevoli, ma non hanno in mano il potere politico; questo è degli altri e possono mettere i cosiddetti capitalisti in riga, non solo dal punto di vista fiscale e da quello dell'onesta concorrenza, ma anche da quello della lotta politica ed economica, sì da ridurli a cercare negli avversari, presunti o reali, protezione e compromessi, non sempre gratuiti.


Credono i lettori che il domani sia della agente nova» bollata da Dante? E non potrà essere dell'attuale classe politica, per una ragione essenziale: quella del verme dello statalismo che corrode; quello statalismo che rovina lo Stato, disfa le Nazioni; lo statalismo sul quale si basa l'attuale funzionarismo politico e amministrativo, partitico e sindacalista. Dico che c'è il verme; è perciò che non è possibile che questa classe politica sia forte; lo statalismo disfa perché lo statalismo dà troppe soddisfazioni di posti, di retribuzioni, di vantaggi, di arricchimento. La classe politica è disfatta in partenza perché non sa reagire agli awersari né sa rinunziare ai vantaggi; non sa correggere le posizioni critiche della vita dello Stato (si vedrà dall'atteggiamento che sarà preso verso il mio disegno di legge sui partiti e le elezioni); perché non sa combattere le ideologie nemiche. E come combattere se gli statalisti non hanno proprie ideologie? come affrontare la propaganda sowersiva se credono meglio tenersi sul terreno materialista della gara con i sowersivi a chi promette di più? Le battaglie sono vinte da chi tiene l'iniziativa; l'attuale classe politica non tiene l'iniziativa perché è conformista; non sa combattere, perché manca di ideali. Ecco perché si può affermare con sicurezza essere questa una classe politica transitoria. La reazione verrà; può venire dalle stesse file dei partiti attuali anche i più piccoli; da coloro che non soffrono della malattia del conformismo astemio. Ma può anche venire dagli awersari di sinistra, i quali trovano la strada fatta dallo statalismo che li favorisce, e nello statalismo trovano quali naturali alleati, i laicisti di sinistra, radicali e repubblicani che hanno preso aria da padroni. La lotta potrà essere decisiva; al bivio saranno i sinistri della DC i quali potranno cadere vittima del loro stesso sinistrismo.

Il Giornale d'ltalia, 22 settembre 1958

Lo Stato può far tutto Anticamente si diceva che il Parlamento poteva fare tutto meno che cambiare il sesso; ora per questo affare vi sono i chirurghi, ma non è detto che qualche deputato o senatore non venga a proporre un ente statale o uno speciale servizio assistenziale per coloro che cambiano o vogliono cambiare sesso. In questo primo inizio di legislatura il ricorso a progetti e disegni di legge per creare nuovi enti o ampliare i poteri di quelli esistenti va divenendo preoccupante. Un tempo, quando non si poteva o non si voleva prendere una decisione si creava una commissione; ora, quando non si sa come risolvere i problemi e trovare posti per gli aspiranti alla vita pubblica e alle prebende di Stato, si creano enti, anche senza funzione (vedi i recenti decreti del ministro delle partecipazioni), dando così l'impressione di avere fatto qualche cosa di serio. Gli enti sono sempre affidati alle cure di un'amministrazione di burocrati e di politicanti, i quali sanno bene quel che debbono fare per spendere il molto ottenendo il poco e arrivare infine ad un bel deficit neHa speranza che una leggina piccolina piccolina, con quattro righi di relazione che non dice nulla, proweda a quella che per eufemismo si suole definire integrazione patrimoniale. Tutto si ortiene con opportuna discrezione e massima speditezza proprio in qualche scorcio di seduta di commissione quando i commissari sono lì a raccogliere le carte e metterle nella busta di cuoio. Se si tratta di cifre grosse si va in aula; pochi parlano, il testo è letto in fretta, i parlamentari sono disattenti e intanto volano i mi-


liardi, come quelli della nuova leggina, piccolina piccolina, sugli ammassi: qualche cosa come un centinaio di miliardi o poco meno. Ecco perché il nostro Moloch (lo Stato) deve tenere in attività di crescente funzione due organi importantissimi, il fisco e il servizio cassa di carta moneta, per far fronte a tante spese che potrebbero con una sana amministrazione essere eliminate.

Oggi un certo pubblico è inquieto perché il governo Fanfani ha mantenuto oltre i termini fissati la soprattassa sulla benzina. Fanfani è stato coperto dalla proposta di proroga dello stesso Zoli, il quale come capo del governo ne aveva promesso l'abolizione. È vero che il governo è continuativo nei suoi effetti giuridici e politici; ma cantava il Tasso «che nel mondo volubile e leggero - saggezza è spesso cambiare pensiero)). Zoli l'ha cambiato; Fanfani ne ha approfittato per fare strade. A dir vero, è roba di ben altri tempi quella di legare le entrate a spese determinate; la sana finanza pubblica non può stabilire mai una destinazione a priori e condizionare l'una con l'altra, come farebbe una buona massaia. Fanfani questo lo sa; ma dovendo giustificare la maggiore entrata ne fissa lo scopo, senza per questo voler addossare la spesa delle strade solo agli utenti di benzina invece che a tutti i cittadini come è regola. Certo sarebbe stato meglio reperire i fondi per le strade evitando sperperi e amministrando con correttezza e rigore. Tempo perso dire ciò agli enti statali. Purtroppo a caratterizzare l'attuale sistema di mala amministrazione, basta un episodio del quale mi sono altra volta occupato: la Toscana Azoto. Sono passati parecchi mesi dal mio articolo; il liquidatore ha offerto quell'impianto alla Montecatini, alla Edison, alI'ENI, all'IRI; nessuno l'ha voluto perché del tutto improduttivo. Uno solo è pronto a rilevarlo a condizione di trasportarlo altrove e impiantare una nuova industria. Ebbene, il macchinario è lì, destinato ad arrugginirsi, a deperire, ad essere danneggiato; è lì non ostante che il Tesoro vanti sopra quel materiale arrugginito due miliardi di credito; non ostante che più di cento operai potrebbero essere occupati nella nuova fabbrica; ma quel questore o quel prefetto temono le dimostrazioni di piazza e impediscono il trasporto del macchinario in attesa di istruzioni. Si noti che gli operai della già chiusa fabbrica sono stati indennizzati; un certo numero ha trovato lavoro; gli altri lo troveranno; c'è bisogno di operai specializzati; i generici, se disoccupati, hanno diritto ai sussidio di legge. Non dovrebbe importare a nessuno un tale impianto che non può essere utilizzato; ma dovrebbero importare altri impianti che potranno essere fatti. Se si ammettesse il trasferimento della manodopera senza impacci anticostituzionali che ancora sussistono, l'assestamento operaio, temporaneo o permanente, avverrebbe con più facilità e con minori scosse. Ma di fronte a simile concezione dinamica vivificata da quel certo rischio che educa e da sentimenti di solidarietà fra lavoranti e disoccupati, si aderge il muro dello Stato chepuòfar tutto e deve intervenire a rendere vivo e vitale un impianto decrepito e fallimentare. E vero, lo Stato può fare tutto, anche buttar denari daila finestra; ma è proprio questo il destino che condanna lo statalismo. D a quanto tempo si parla di chiudere in Sicilia le piccole miniere di zolfo passive, inutili e dannose all'economia? I1 Banco di Sicilia si è oberato fino al collo per anticipi che difficilmente ricupererà; la Regione spende milioni su milioni a fondo perduto; l'Ente Zolfi è in deficit; il Tesoro ha speso miliardi; tutti quesci enti da Roma a Palermo si sballottano il problema da lunghi anni, senza arrivare ad una conclusione, perché manca il coraggio delle decisioni in apparenza impopolari. un pozzo senza fondo per i miliardi che vanno via;


possibile che non si trovi una soluzione oltre a quella di buttare danari a vuoto per gestione senza criteri industriali? Non parlo del deficit delle ferrovie, la cui amministrazione non è in g a d o di darci un bilancio economico che il cittadino possa leggere con soddisfazione; né dell'IIU, che ha partecipazioni azionarie in impianti senza avvenire; parlo dell'ENI perché è mio speciale compito, visto che non se ne occupa il ministero delle partecipazioni, dove Mattei è pardato negli occhi per sapere se le varie proposte siano di suo gradimento; né il ministero dell'industria che non si accorge degli effetti deleteri dell'azione megalomane di quel signore nella nostra economia industriale. H o ricevuto da non so dove un gruppo di fotografie di Metanopoli: - il Motel Metanopoli e la casa albergo notturno: l'orologio segna le 21 meno cinque; illuminazione moderna; dieci automobili nel piazzale; c'è anche la luna; dall'altra parte della cartolina è scritto a macchina Tenacia;- il palazzo degli uffici delle società del gruppo ENI con una ventina e più di piani che domina la città; nel dietro della cartolina sta scritto Intrebito (Intrepido); - il panorama del quartiere residenziale ENI; la scrittura dietro porta Grità; - lo stesso panorama da un altro lato; dietro la scritta Invitto; - il Motel Metanopoli e la casa albergo; di dietro è segnato Giusto; - infine la Chiesa di S. Barbara con un bel campanile: Vitalitd.

Iniziativa notevole questa, la quale ha avuto il seguito nel villaggio del Cadore per la villeggiatura degli impiegati dell'EN1. Tutto ciò richiama a mente i monumenti e monumentini per la presa di benzina disseminati in tutta Italia. Quanti miliardi? Chi lo sa? Provi il governo a contare quanti miliardi I'ENI ha sottratto alle ricerche petrolifere nell'Alta Italia; zona riservata per volere dei nostri statalisti di ieri e di oggi e con il pieno consenso dei partiti di sinistra e anche di quei liberali che nel 1952-53 non erano arrivati all'uso della ragione e non comprendevano che cosa fosse lo statalismo, parola straniera da me importata in Italia traducendo l'étatisme francese, ma nel 1952-53 non ancora generalizzata nella polemica politica elettorale. Perché continuare?Abbiamo il caso dell'anonima Giuffrè mezzo clericale e mezzo rossa; ora abbiamo l'anonima tutta rossa, la falsa banca dei comunisti; lo Stato si rivela per questi concorrenti sleali ed occulti dell'alto costo del denaro delle banche statali; di questi sfruttatori della credulità popolare; credulità fino a un certo punto per quelli che hanno incassato il quaranta, cinquanta, sessanta e più per cento di interessi assicurandosi un alto premio sull'affare. Sì; venga l'inchiesta parlamentare per rilevare il lato politico e amministrativo delle operazioni Giuffrè, banca rossa compresa e compresovi quel certo memoriale digabinetto che Fanfani vuole tenere nel frigorifero; purché non si arrivi a voler sottrarre i cittadini al giudice proprio, come fa di sovente il Parlamento italiano, che nega o rimanda sine die l'autorizzazione a procedere contro i propri membri, alcuni dei quali debbono rispondere da anni alle accuse fatte contro di loro per uso indebito di denaro pubblico. Che ne dice il presidente Leone? È vero, tutto può fare lo Stato; ma lo Stato e anche i partiti e i responsabili dell'uno e degli altri ne pagheranno lo scotto. Purtroppo chi ci andrà di mezzo sarà proprio il Paese.

Il Giornak d'ltalia, 30 settembre 1958 31 5


La politica del consumo Negli uomini attempati della città e nella gente di paese, la quale è in ritardo coi tempi, sopravvive l'antica ripugnanza per le cambiali usate dal loro ordinario circuito delle industrie e dei commerci. I1 sopraggiunto costume del credito ai consumatori ha attenuato e fatto anche superare quella ripugnanza già considerata manifestazione di prudenza e di saggezza. Molte famiglie conservano tuttavia i'abitudine di mettere da parte qualche soldarello la setcimana per le spese straordinarie che la situazione domestica lasci prevedere o per qualche compera lungamente desiderata e attraente. Strappi sempre più larghi si fanno adesso alla regola della copertura preventiva delle spese anche straordinarie, così da far pensare che quella regola vada diventando eccezione e anticaglia propria dei tempi nei quali le entrate della borghesia e del popolo erano piccole e raramente continuative e certe. L'accrescimento e la certezza del reddito permettono di confidare nel futuro per coprire il prezzo della cosa acquistata che il compratore non possa pagare a contanti. Nella morale del passato valeva il precetto di non fare il passo più lungo della gamba; un precetto che adesso non vale più nel significato di prima quando quel passo possa farsi con prospettive sicure. Entro questi limiti di sicurezza, le compere a rate non contrawengono alla legge della prudenza. È un ((problemadi limiti», osserva Giuseppe Pella in un intervento radiorelevisivo del 2 dicembre 1955; ed è pure un problema di certezza di poter fare onore all'impegno assunto senza sacrificare con acquisti non ponderati la naturale gerarchia dei bisogni. L'inclinazione al risparmio e l'inclinazione al consumo hanno i loro propugnatori, ispirati gli uni e gli altri a due diverse ed opposte dottrine, unilaterali entrambe quando la tesi venga spinta oltre il dettame della ragione e della esperienza. Un divieto delle vendite a rate dei beni di consumo durevoli precipiterebbe l'economia del mondo libero in una crisi terrificante come una calamità; ma d'altro lato acquisti a pagamento differito, sproporzionati alle entrate famigliari, condurrebbero a così vaste insolvenze da far crollare in modo irreparabile industrie e commerci. Nel Regno Unito le condizioni delle vendite a rare, le quali hanno raggiunto un complesso debitori0 equivalente a circa 800 miliardi di lire nostre, sono stabilite dalla legge che fissa la percentuale di un deposito in contanti da versarsi dal compratore al venditore al momento dell'acquisto e in 24 mesi la durata massima del rateizzo. Il 15 settembre venne abolito il controllo sui depositi in contanti per alcuni articoli di grande importanza: automezzi commerciali, motocicli, bicicli, macchinari per l'industria e l'agricoltura, mobilio, tappeti, cucine; e ridotta per altri la percentuale del deposito (apparecchi elettrici, apparecchi da trasporto aerei e marittimi). Soltanto per le automobili e per gli arredamenti degli uffici e dei negozi venne conservato l'obbligo del deposito nella misura di prima: un terzo del valore. Queste liberazioni e attenuazioni, che si sono estese anche alla impostazione dall'area del dollaro segnano uno sviluppo ulteriore di quella politica economica flessibile che il Governo inglese va attuando da tempo, tra il pericolo della disoccupazione e il pericolo della inflazione. Più o meno, in tutti i Paesi del mondo libero, i governanti della politica economica procedono fra gli stessi timori e le stesse difficoltà; la preoccupazione della saldezza monetaria vincola il ritmo dell'arrività produttrice.


Le vendite a rate non sono in Italia sottoposte a condizioni limitamici nei riguardi dei versamenti iniziali in contanti e del periodo dei pagamenti differiti. Eppure il Ministero delI'lndustria e del Commercio si è più volte dedicato alla documentazione di questo tipo di vendite a credito con inchieste sulle vendite a rate dei beni di consumo in Italia e all'estero (1955); e, ancora per l'Italia, per la vendita a rate dei beni strumentali (1958). Un Convegno imponente, promosso dal Ministero dell'lndustria e del Commercio, ebbe luogo a Milano ai primi di dicembre del 1955, con interventi numerosi e autorevoli, raccolti e pubblicati in volume. Tali profonde ed estese indagini non diedero luogo a disciplina legislativa forse perché non sembrò, come disse il Ministro dell'lndustria del tempo, che (ci1 fenomeno delle vendite a rate reclamasse l'apprestarnento di congegni diretti a frenarlo o a comprimerlo)). E uno dei pochi settori dell'econoniia italiana lasciati in pace o sfuggiti alla frenesia disciplinatrice dei Governi del dopoguerra benché insolvenze e protesti siano così numerosi negli acquisti a debito dei beni durevoli da poter dare un fondamento alla immaginazione legislativa di funzionari e di Ministri. L'oasi è rimasta, benché infestata da sorprese e trabocchetti. Non c'è da dolersi di tale carenza legislativa perché la libertà trattiene I'awentatezza dei compratori come frena la malriposta fiducia dei venditori. La liberazione, decretata dal Governo del Regno Unito il 1" settembre, delle vendite rateali, o I'allentamento dei vincoli, sono stati preceduti da graduali ribassi del saggio ufficiale dello sconto - l'ultimo fu dell'agosto -. Questi fatti rivelano nel governo della politica economica e finanziaria britannica una notevole e tempestiva sensibilità e coerenza, non dimostrata in precedenti circostanze. Rimane ferma però la politica di cautela del Cancelliere dello Scacchiere, benché egli abbia inserito in essa possibilità di espansione conciliabili con la forza attuale della sterlina e col favorevole andamento della bilanci2 dei conti con l'estero. Quella vigilante cautela l'ha però indotto ad escludere dai benefici del suo provvedimento le automobili, e cioè i tre quinti dell'ammontare delle vendite a rate, e a mantenere la pesantissima rassa sul loro acquisto. Il dibattito è ora tra l'opportunità di favorire gli investimenti o i consumi; una questione che risorge oramai da molri anni, nella quale la gente è dell'una o dell'altra idea secondo gli interessi dai quali è mossa e anche secondo la dottrina economica cui aderisce. Come ci si protegge dal pericolo di una recessione? Favorendo gli investimenti o favorendo i consumi?Al quesito, nella sua usuale impostazione, non si può dare breve ed esauriente risposta, come ardiscono dare di solito gli invasati dell'una o dell'altra dottrina. La miglior politica è quella di non scoraggiare né consumi né investimenti. Possono scoraggiarsi spostando la convenienza economica dell'impiego del denaro dall'uno all'altro settore, con interventi arbitrari dello Stato e con una politica tributaria recessiva. A questo tipo di politica, sfavorevole agli investimenti privati del risparmio si devono il perdurare della disoccupazione e la lentezza del miglioramento economico. Sufficienti profitti sono la condizione della sopravvivenza e dello sviluppo delle imprese e di nuove iniziative, il suo verificarsi dipende, fra l'altro e moltissimo, da una politica tributaria di ispirazione economica e non fiscale. Una politica economica e finanziaria flessibile, dello stile di quella adottata nel Regno Unito, potrebbe rimediare le conseguenze di errori passati e presenti che hanno condotto ai paradosso di penalizzare la prosperità. Gnzzetta di Regio, 30 settembre 1958

3 17


Da Pio IX a Pio XII Non basta lo storico a valutare la differenza fra gli stati d'animo del pubblico nazionale e internazionale alla morte di Pio IX e confrontarli con quelli mostrati alla morte di Pio MI. Gli ottant'anni di distanza (1878-1958) non colmano un distacco così marcato. I profeti laici della seconda metà del secolo scorso avevano annunziato che Pio IX sarebbe stato l'ultimo Papa, essendo la Chiesa cattolica entrata nella sua fase finale, anzi nel periodo di disfacimento. E vero che nell'antecedente ottantennio, alla morte in esilio di Pio VI, i cardinali si erano dovuti riunire a Venezia dove nel 1801 elessero Pio WI; ma la storia si dimentica facilmente dei falsi profeti che credono di vedere il futuro. Pio IX, segno di contraddizione per l'affetto filiale e l'odio politico del quale fu circondato, lasciò la Chiesa come distaccata dalla realtà mondana, in una lotta ch'era sembrata impari e perduta in partenza. I1 Concilio Vaticano fu convocato senza domandare consensi né inviare inviti a sovrani e governi, chiudendo così un periodo di mal sofferta cooperazione fra Chiesa e Stato. La definizione della infallibilità pontificia sembrò una sfida alla scienza, della quale i laicisti di quel tempo erano tronfi. Pio IX passò e i risentimenti politici non rispettarono la sua salma che fu portata a S. LorenzofUori le mura tre anni dopo, di notte, a lumi spenti, subendo l'oltraggio di chi tentò di buttarla nel Tevere. Alberto Mario deplorò che «la salma del Grande Sciocco» non fosse stata gettata nel Tevere; e il D e Pretis ad una interrogazione alla Camera su tali fatti rispose trattarsi di ((provocazioneclericale». Opportunamente si tenne a Roma il conclave; la dichiarazione del governo italiano di voler mantenere l'ordine pubblico e lasciare ai cardinali completa libertà tranquillò le coscienze cattoliche e i governi di tutti gli Stati interessati, mentre le dicerie che nel caso di un conclave tenuto all'estero mai il Papa sarebbe rientrato in Italia, per quanto polemiche e inopportune, calmarono certi spiriti bollenti. L'elezione di Leone XIII ebbe favorevoli accoglienze pur in ambiente politicamente ostile; venticinque anni di pontificato portarono la S. Sede a riguadagnare prestigio nel mondo politico e a riallacciare i rapporti con quasi tutte le potenze anche religiosamente dissidenti. In Italia, nonostante che le speranze di conciliazione rinverdite troppo presto fossero svanite, con l'accentuarsi dei contrasti prevalse la politica equilibrista del fanatismo anticlericale sul rispetto per le credenze religiose. Nel 1903 Leone XIII (questo vecchio diplomatico e umanista divenuto il Papa degli operai e I'assertore del tomismo) ebbe morendo onori da tutto il mondo. I1 governo italiano non partecipò ai Funerali; fu dato l'annunzio della morte nella parte non ufficiale della Gazzetta con una nota redatta dal Zanardelli. Pio X, nominato in seguito al veto austriaco contro il cardinal Rampolla, riaperse I'animo degli italiani alla soluzione della questione romana; si sapeva bene che la politica di rivendicazione del potere temporale non era la sua. I1 permesso del caso per caso per la nomina dei cattolici a deputati fu il primo spiraglio; mentre la protesta papale per la visita del presidente francese Loubet all'Italia, ignorando il Vaticano, e la caccia ai pellegrini francesi rinfocolarono i mai sopiti odi anticlericali, per i quali la lotta di Pio X al modernismo teologico e biblico fu fatta passare per lotta alla scienza. Pio X fu per tutti il Pontefice santo, il Pontefice distaccar0 da mondane ambizioni; la sua morte coincise con l'inizio della prima guerra mondiale; il compianto popolare fu generale; la posizione del papato era nel mondo moderno consolidata, benché la situazione


nel conflitto mondiale presa dall'Italia di preparazione nella neutralità rendesse assai delicata la posizione della S. Sede. Con ansia si attese la nomina del nuovo papa; Benedetto XV non venne meno alla linea di austera dignità e di popolare bontà, pur senza quell'afflato di simpatia comprensiva e di bonarietà parrocchiana del suo predecessore. La fine diplomazia lo rese adatto a far passare la S. Sede attraverso le lotte, le asperità e le angosce della guerra, mantenendo la sua missione di carità e di pace al di sopra del conflitto, e cercando, con spirito di antiveggenza, di fermarlo in tempo per non degenerare nella lotta di annichilimento dell'awersario, causa di nuovi mali. I1 suo appello dell'agosto 1917 rimane anche oggi documento imperituro di un saggio. Con il governo italiano non mancarono attriti per l'infelice art. 15 del Patto di Londra voluto dal Sonnino per grettezza politica più che per anticlericalismo settario; la protesta del Papa per l'occupazione di Palazzo Venezia fu più formale che sostanziale; maturava intanto nella mente di Benedetto e del suo fido collaboratore, il cardinal Gasparri, una possibile ed equa soluzione della questione romana. I passi con V. E. Orlando e con F. S. Nitti non arrivarono a conclusione ma aprirono le speranze e avviarono gli studi, perché già la S. Sede non desiderava altro che garanzie effettive per la dignità e la libertà del Sommo Pontificato. In tale periodo la corrente anticlericale del liberalismo cominciava a risentire gli effetti di una subita collaborazione con i popolari; fu presa occasione dalle manifestazioni pubbliche della gioventù cattolica del settembre 1921, dopo un ricevimento in Vaticano, per far caricare il corteo dalla polizia (funzionava da presidente del consiglio D e Nava per I'assenza di Bonomi). Così il gesto di Rodinò ministro Guardasigilli di presentare le condoglianze ai cardinali per la morte di Benedetto XV fu aspramente criticato dalla stampa. Si era alla vigilia della crisi dei giolittiani che avvenne una diecina di giorni dopo. Ricordo questi dettagli per paragonarli con l'atteggiamento degli anticlericali di oggi contro il Vescovo di Prato e per i parroci emiliani del caso Giuffrè e simili, nei quali I'accentuazione anticlericale ha gli stessi sintomi di una febbre mediterranea. Pio XI ebbe la possibilità di conchiudere ed attuare i patti lateranensi col governo fascista. I termini di quest'«atto», che chiudono più di mille anni di storia, sono il frutto di paziente maturazione, nonostante che il contraente laico avesse in mente vantaggi politici pel prestigio del regime, specialmente presso i cattolici esteri, vantaggi che furono scontati ben presto sia per il primo clamoroso contrasto per l'azione cattolica, sia in quello assai più forte e di eco internazionale per le leggi razziali, la persecuzione agli ebrei e I'atteggiamento verso una guerra che si temeva vicina. Alla salma di Pio XI fùrono rese solenni onoranze e ufficialità; ma l'aria era turbata e si attendeva di conoscere un certo documento che fu detto abbia egli scritto e del quale non si ebbe più notizia. Pio MI fu eletto in un conclave brevissimo; era quasi un designato; la convergenza dei cardinali fu immediata; si sperava che egli riuscisse a tenere lontana l'Italia dai conflitto. La sua lettera e la visita al Re testimoniano questo sforzo, che non ebbe esito perché il Duce ebbe completa fiducia in una vittoria di Hitler rapida e sicura, alla quale egli non voleva rimanere estraneo. Come poter comprendere altrimenti la sua entrata in guerra senza su&cienre preparazione militare, senza rifornimenti adeguati, senza accordi sicuri? Da alfora la figura di Pio XII emergeva, come andava declinando quella del regime. Dal 1943 al 1945 la figura di un Pontefice del secolo XX diviene a Roma e anche in Italia attraverso i molti Vescovi eroici e paterni, come quella dei Pontefici delle prime occupazioni barbariche; il titolo di defensor civitatis caratterizzò il Papa della seconda guerra mondiale.


Non è questo solo Pio XII; diciannove anni di pontificato senza un giorno di tregua lasciano una traccia non solo nella storia della Chiesa ma in quella della civiltà moderna. Così si spiega il coro di omaggi di tutti gli Stati e di tutti i popoli anche dei cristiani dissidenti e degli stessi ebrei, mussulmani e buddisti alla memoria di Pio XII; e si spiega anche il fatto che a tali omaggi mancano i carcerieri dei cardinali Mindszenty e Stepinac. E mentre l'atteggiamento della Chiesa non è cambiato verso il naturalismo e il razionalismo dei liberali del secolo scorso, oggi la lotta è impegnata con il comunismo marxista e ateo che awelena le anime e instaura le dittature ancor più pericolose che non rispettano né Dio né la personalità e la dignità umana.

Il Giornnle ditalin, 14 ottobre 1958

Ricordi d'altri tempi Giuseppe Micheli era notissimo nel parmense e nell'Emilia tutta, Romagna e zone limitrofe come l'animatore della GiovineMontagna. Cattolico di fede e di azione, franco, gioviale, aitante, simpatico, aarasse molti al suo seguito; ben presto fu uno dei capi della democrazia cristiana che ebbe centro a Roma con la Cultura Sociale di Murri e a Torino col Domani d'Italia di Valente, pur senza aver mai lasciato l'opera dei congressi, dove portava la voce delle nuove speranze temperata da un equilibrio montanaro fatto di buon senso e di comprensione. Così non meravigliò nessuno se all'agitato congresso cattolico di Bologna del novembre del 1903 Peppino Micheli fosse designato presidente; fu proprio un successo. Micheli ebbe un'altra attività che gli conferì notorietà e autorità direttiva: 1'Associazione dei Comuni Italiani fondata dallo zio senatore Giovanni Mariotri sindaco di Parma. Micheli ne fu segretario, diresse e compilò il Bollettino, in seguito, insieme a chi scrive e a Meda, a Mauri e a Rodinò, fu nominato membro del consiglio direttivo. In tale veste, la sua figura - emerse nel tragico - evento del terremoto di Messina (il cui cinquantenario cade il 28 del prossimo dicembre), quando egli a nome dell'Associazione dei comuni si recò fra i primi nella città scomparsa e in mezzo alle macerie mette una bandiera tricolore, una tenda da campo e l'insegna: Municipio di Messina; e lì impianta una tipografia, pubblica fogli di informazione e si mette a organizzare i servizi e funzioni proprie di un comune che dava il segno, insieme con la prima improwisata chiesetta, che la vita ritornava sul canipo della morte. Con Micheli l'intesa e la collaborazione erano facili e difficili allo stesso tempo; egli non amava le cose complicate e riduceva tutto a formule semplici e pratiche. Questo conferiva a lui una immediatezza di atteggiamenti che non era superficialità ma chiarezza di idee e forza intuitiva; allo stesso tempo diveniva un ostacolo all'affinamento delle stesse idee, specie in una discussione portata sul piano delle teorie. In parlamento Micheli fu abile manovratore; i1 suo merito come relatore si ascrive avere portato in porto la legge elettorale proporzionale del 1919 la quale aveva una propria logica e, poggiando sulla realtà del momento non era una rappezzatura accomodata ai contrastanti interessi di partito come l'attuale che serve a rafforzare la partitocrazia e indebolire parlamento e governo. La riforma agraria di Micheli aveva una base economica solida, da non potersi confrontare con quella regalataci sotto la spinta delle ignoranti o tendenziose sinistre dei no-


stri giorni. Ai Lavori Pubblici portò praticità, serietà, proibità. Questo fu il Micheli della giovane azione cattolica, della prima democrazia cristiana, dell'associazione dei comuni, del partito popolare. Dopo, il Micheli del periodo fascista, nella sua Parma, professionista rispettato, distaccato e ostile al regime, coerente con se stesso e il suo passato e con fiducia nell'awenire; nella guerra e dopoguerra è presente e non manca il prezioso contributo della sua molteplice attività. La perdita del figlio in Russia era la spina pungente di ogni giorno. Da dieci anni egli è ricordato come l'uomo che mai negò di far bene a chiunque l'avesse chiesto e a quanti poteva arrivare il suo cuore e la sua infaticabilità, animata da una fede e da ideali che ne furono in vita la fiaccola e la guida.

Gazzetta di Parma, 17 ottobre 1958

Nenni: né ((speranza))né ((mito))

Ci son di quelli che attendono l'unificazione socialista a qualunque costo; altri la condizionano fino a un certo punto; non manca chi si contenta delle apparenze. Parlandone con questo e con quello, ho voluto scandagliare i motivi di tali atteggiamenti presso certe ali dello schieramento politico e sindacale dei cattolici di azione, detti anche ((militanti)). Alcuni si esprimono così; dato che la DC non può rivolgersi alle destre e dato l'atteggiamento anticlericale dei liberali di Malagodi, non c'è via di scelta: si deve arrivare a La Malfa e a Nenni per avere un Governo stabile e duraturo. Se domando chi dei tre sia più anticlericale: Malagodi, La Malfa o Nenni, mi rispondono Malagodi. In tale risposta si trovano residui dell'antiliberalismo risorgimentale; ma la dosatura dell'anticlericalismo dei tre non ha importanza: appartengono tutti al vecchio mondo laicista, che ai cattolici non perdona la loro stessa esistenza. Ma i cattolici possono stare sicuri che il giorno che gli anticlericali, auspice il laicismo che va riprendendo piede, potranno formare un fronte maggioritario, la DC sarà spazzata via a vantaggio dei comunisti, gli unici che fin oggi, fuori della D C, abbiano una solida base nell'elettorato italiano. Replicano i miei interlocutori cattolici che tale ipotesi è scontata; l'intesa della DC con Nenni può awenire solo se Nenni si distacca dai comunisti. Essi, rispondendo così, mostrano di non saper prevedere essere Nenni capace di un distacco apparente o di un nuovo pellegrinaggio al Cremlino. Ciò rionostante, ho voluto cercare di comprendere in che cosa consiste il distacco desiderato, anche perché tutti si rendono conto che nel campo sindacale il distacco non potrà awenire; gli operai socialisti per conto loro non lasceranno la CGIL, e la CGIL per definizione non lascerà l'internazionale comunista. Problema capitale questo: Nenni concepisce la CGIL come il vero organo dell'unità operaia italiana; a tale unità è accentrata la stessa finalità del partito socialista. Sarebbe possibile domandare a Nenni di ferire a morte il sindacato operaio, tirando via un mezzo milione di aderenti, per formare la quinta o la sesta Confederazione di lavoratori italiani? Se è così, resta pure chiaro che non si potrà domandare che Nenni tagli il filo ombelicale che lo unisce al partito comunista. Non è tutto: i comunisti hanno in mano le cooperative rosse (sociai-comuniste) saldamente organizzate e fortemente finanziate al punto che le cooperative aiutano il partito e non viceversa. Come farà Nenni a pigliar via le sue cooperative, quelle credute puramente


socialiste, e a formare altra confederazione? Non ne tirerà via neppure una; gl'iscritti non comprenderanno il perché dell'operazione e non vorranno perdere gli attuali vantaggi ed esporsi ad una lotta fratricida tra socialisti e comunisti. Quale carta rimane a Nenni? L'autonomia del partito; un partito senza basi solide, senza finanza propria, alla mercé degli aiuti surrertizi che egli pesca con finte intermediazioni dalla borghesia industriale, da amici e finanziatori della DC, da protettori nostrani e da corrispondenti esteri. L'Avanti!scriverà che non è vero; ma l'Avanti!non sarà mai in grado di dire pubblicamente da chi e come il PSI riceve il denaro per il suo finanziamento. Dopo di che, nessuna persona sensata affermerà che Nenni possa distaccarsi sul serio dai comunisti, e neppure con la bandiera dell'autonomia di partito mettersi a fare la lotta al comunismo.

Tornando a quei miei amici cattolici che aspettano il distacco di Nenni dai comunisti come gli ebrei aspettavano il Messia, vorrei da loro sapere se siano disposti ad entrare in colloquio con Nenni, appena questi arriverà ad ottenere dal congresso la dichiarazione di autonomia del PSI, pur restando a collaborare con i comunisti nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro e nella unione delle cooperative e negli affari misti che non si vedono. Da qualche accenno e da qualche mezza risposta, mi pare di trovare gente che, pur di avere in Parlamento i voti aperti dei nenniani (quelli indiretti e segreti al momento buono oggi non mancano come non sono mancati ieri) con la mezza intesa di una futura più larga collaborazione. Si dice in latino: do ut des; non vi può essere un do senza un deq che cosa darà la DC anche solo per ottenere i voti aperti dei nenniani? Nel campo della politica estera Fanfani (da solo o con gli altri, con o senza ispiratori) non potrà andare più in là di dove è andato nei riguardi della NATO, del Patto Atlantico, dell'ONU e del Medio Oriente. Se De Gaulle non farà ostacoli, l'Europa del Mercato Comune si costruirà lentamente ma sicuramente. E badino i signori nenniani, che nella piccola Europa i socialisti sono in ribasso; i comunisti prosperano solo in Italia; e non è escluso che in Francia saranno, per legge o decreto che sia, messi fuori combattimento. Politica interna? sul binario dello sratalismo oggi l'Italia sta scivolando come e più del passato. I piani quadriennali dell'IIU e dell'EN1 risultanti dal bilancio delle partecipazioni sono previsti per circa millecinquecento miliardi, nulla ancora sappiamo dei tre fortunati enti di gestione (fortunati perché hanno i loro Consigli di amministrazione senza la legge di passaggio dei relativi fondi da gestire) che il ministro Bo si affrettò a mettere in vita prima delle elezioni, e neppure di quegli altri enti di gestione che il ministro Lami Starnuti ha in cantiere pronti ad essere varati. Non mancano prowedimenti detti sociali (come se gli altri fossero prowedimenti asocialio non-socialio anti-socialz); il Governo Fanfani ne sta sfornando in continuazione alla velocità da direttissimo: fra non guari tutti gl'iraliani (meno pochi) o saranno pensionati ovvero godranno privilegi, esenzioni, facilitazioni, promozioni, occupazioni e così di seguito; tutti a cura e per conto dello Stato. Nenni non si sa cosa potrà domandare per evitare di attribqire al Governo Fanfani la qualifica di immobilismo. Tutto ciò non basta? No, non basta: si attende una palingenesi (rinnovamento rotale) quella auspicata dalle sinistre dc dalle ACLI e simili; cioè le classi lavoratrici (gli altri non lavorano) dovranno finalmente riunire nelle loro mani potere e reddito per avere così la dire-


zione del Paese. Nell'attesa di tale rinnovamento totale sarà bene mettersi d'accordo sopra un punto: che in Parlamento e nel Governo i Togliatti, i Nenni, i Basso, i Longo, i Santi, i Pastore, i Penazzato, gli Storti, Storchi, Scalia e così di seguito non appartengono alle classi (o alle categorie) dei lavoratori, quelli che hanno le mani incallite e la faccia abbronzata; costoro oggi parlano in nome dei lavoratori soltanto come awocati difensori. Con costoro, niente palingenesi; niente potere e reddito; quello che hanno è già troppo per una democrazia immobilista, la quale non ha saputo fin ora preparare la palingenesi di cui sopra. La starizzazione delle imprese e il loro passaggio ai lavoratori sarà il primo passo verso il «rinnovamento».Ma siccome le imprese statizzate diverranno, per il 90 per cento, passive, così, ad impedire che il lavoratore ne porti il danno, si attribuirà l'attivo al lavoratore e il passivo allo Stato; non pochi saggi di tale soluzione sono già alla prova per merito della DC. Andando avanti i palingenesisti di oggi si accorgeranno di aver cambiato padrone; una schiera di funzionari statali metterà a posto i lavoratori del solo attivo; la ditratura sarà una necessità di struttura; attivo e passivo saranno nelle mani dello Stato onnipresente e comunista. Chi ne vuole sapere di più vada in Russia, in Cina e nei Paesi satelliti. Ci vadano i cattolici di sinistra per comprendere quel che essi inconsciamente stanno preparando all'ltalia. La differenza fra loro e Nenni sta proprio in questo, che essi, come cattolici, hanno nella loro coscienza e nella loro fede un awenire per sé e per gli altri. Nenni non ha awenire; un miscredente non può avere awenire; egli è per il carpe diem; se avrà la soddisfazione di fare una finta unificazione socialista, mortificando i suoi awersari, egli sarà soddisfatto; se arriverà a formare un Governo di alternativa, buttando giù i d.c., sarà più soddisfatto; se arriverà al fronte popolare con i comunisti sarà soddisfattissimo. Giuochi questi di una realtà perniciosa per l'Italia, ai quali la sinistra d.c. si presta, facendo di Nenni una speranza che sarà fallimentare e un mito che svanirà al primo raggio della verirà.

(l Giornale d'Italia, 18 ottobre 1958

Lettera aperta all'on. Ferrari Aggradi44 Mi compiaccio per la sua replica alla discussione in Senato del bilancio della Agricoltura, salvo per alcuni punti che mi permetto di sottoporle; mentre sono rimasto deluso (ov44

Lettera del 13 agosto 1958 al ministro dell'Agricoltura e Foreste, on. prof. Mario Ferrari Aggradi: Caro Ministro, Le o che è allo studio di cotesto ministero la concessione di prowedimenri per favorire la distillazione delle m e f Non contesto l'iniziativa; ma quale consumatore di mele da 25 anni costantemente in ogni pasto per tutto l'anno, debbo rendere testimonianza al derto inflese nn apple a day the death away (tranne che capiti un incidente stradale che ogni giorno aumentano nella elicissima Italia). Bene: favorire il più largo consumo popolare di mele all'interno con minore spesa (o mancata entrata) di quanto costerebbero i prowedimenti di distillazione non sarebbe assai meglio? L'alcol non ha le virtù nutrienri e ricostituenti della mela da pasto, anzi.. . E un'idea. Se vale. non la butti via. Distinti saluri Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 564, fasc. &n. e I. pubbl. del Prof. L.S.., agosto 1958.


vero in attesa di future dichiarazioni) circa la parte forestale che è sostanziale e integrante di ogni branca dell'agricoltura. Comincio con il grano duro che interessa principalmente la mia Sicilia, affermando anzitutto che i produttori non domandano un aumento di prezzo ma I'adeguazione del valore intrinseco e di mercato internazionale del grano duro in rapporto a quello del grano tenero; facendo inoltre rilevare che l'invito a intensificare la produzione può avere due aspetti: quello di non seminare grano duro in terreni inadatti e l'altro di tentare mezzi tecnici e di sementi selezionate e di adeguati fertilizzanti per una produzione più intensa; si deve però tener presente che i tentativi fatti fin oggi con l'aiuto della relativa stazione statale di Catania non hanno dato che aumenti assai modesti non paragonabili certo con quelli del grano tenero. Vi sono specialisti che dicono che difficilmente si potrà arrivare a quote produttive più elevate. Sarà bene che il Ministero se ne occupi trattandosi di prodotto pregiato e di interesse alimentare rilevante. Mano d'opera. L'accenno all'imponibile di manodopera in agricoltura anche solo come mezzo di emergenza non è ammissibile economicamente né costituzionalmente; il disoccupato deve essere a carico di tutta la comunità nazionale, non di singoli cittadini, oberati per giunta di tasse e imposte, impossibilitati a sopportare oneri eccezionali e antieconomici. Inoltre, lei ammette giustamente la libera ricerca di lavoro e il libero trasferimento dei lavoratori; sarebbe stata desiderabile una parola non dico sulla incostituzionalità delle norme vigenti, ma sul proposito di abolirle. Che si aspetta? È vero: la questione è di competenza del ministro di Grazia e Giustizia; la intesa con i Ministri del Lavoro, dell'Industria e Commercio e dell'Agricoltura è solo per i provvedimenti da emanare in dipendenza dell'abolizione con l'intento di evitare prevedibili inconvenienti. Non ho mai compreso il motivo di avere tardato dieci anni dalla promulgazione della Costituzione per un provvedimento di tale portata. Comunque, il suo accenno in proposito è stato utile, anche se legislativamente non impegnativo; è chiaro nelle sue dichiarazioni l'orientamento produttivistico, perché alla disoccupazione normale non si rimedia altrimenti che aumentando I'impiego di capitali e portando avanti le iniziative più pratiche e redditizie. Su questo tema la sua polemica con i comunisti è sempre utile, ma sarà più utile se fatta con quei non comunisti affetti da daltonismo. Riforma agraria. Sarebbe stata una pretenzione la mia quella di attendere da un Ministro appena in carica critiche sull'andamento della riforma agraria, tanto più che è già nota la stretta di freni da lei data alla finanza spendereccia degli enti di riforma; ma essendo ormai opinione comune non dico il fallimento ma la sproporzione fra mezzi e risultati della riforma, sarebbe stato meglio ammettere una certa revisione del passato per un orientamento più realistico e più efficiente per l'avvenire. Se il resoconto stenografico porterà più lumi su questo punto tanto meglio. Lei ha accennato al Problema delMezwgiornocome di capitale importanza specialmente dai punto di vista agricolo, ed ha fatto bene; però la lacuna da me notata del settore forestale è per il Mezzogiorno e le isole fondamentale sotto tre aspetti: quello della sistemazione montana idraulico-forestale, che oggi è fra le più deplorevoli per non dire la più deplorevole che possa trovarsi nei Paesi del Mercato Comune. È vero che la Cassa per il Mezzogiorno ha preso delle iniziative al riguardo, ma con mezzi e per estensione, secondo me, in maniera insufficiente, con l'aggiunta della quasi incomprensione della delegazione del Consiglio dei LL.PP., sia dal punto di vista dei criteri tecnici non sempre aggiornati, sia da quello della esecuzione tempestiva e sincrona dei lavori, per lo più spezzettati in molti lotti, forse per facilitare l'accesso alle aste.


L'altro aspetto è quello dell'economia montana, specie la zootecnica, male attrezzata, male assistita e in declino in quasi tutti i centri meridionali. I1 terzo aspetto è quello boschivo propriamente detto, che nel Mezzogiorno, salvo poche eccezioni, sia quello amministrato dalla Forestale (che vi spadroneggia) sia quello privato, non è curato bene da tutti i punti di vista: della custodia, dell'incremento, del rendimento e dell'industrializzazione. La prego di credere, onorevole e caro Ministro, che non mi spinge una critica diffidente, ma una critica che cerca di avere fiducia in uno Stato moderno, proprio quello che, senza tentare di strafare faccia sul serio della buona amministrazione. E vengo al problema di estrema attualità: il mercato agricolo. Il decreto sul burro si dice sia stato promosso dopo che i buoi sono scappati. Si fa l'accusa di aver fatto crescere i prezzi del burro all'inverosimile per far comprare la margarina che non era stata ricercata come speravano i margarinai privati e pubblici. Sarà o non sarà così; la liberalizzazione doganale (lei lo ha detto) se tempestiva è il migliore dei correttivi per i rialzi ingiustificati; non la liberalizzazione con i permessi dei quali si fa perfino una compra-vendita in centri come Milano; ma proprio quella automatica, accessibile a tutti, senza privilegi. L'altro prowedimento, quello dei mercati all'ingrosso, è degno di approvazione con una sola riserva, quella dell'ingerenza eccessiva del Ministero del commercio, con diritti di autorizzazione, con impalcature burocratiche, corpi consultivi e altri impacci inutili, che col tempo diverranno mezzi controproducenti, senza alcuna evidente utilità, che quella della burocratizzazione impertinente e della politicizzazione di posti. È possibile che il Parlamento, nel ratificare il decreto, lo sfrondi dell'impalcatura statalista? Spero di sì; ma con la diffidenza verso una classe politica che non sa difendere la libertà anche quando alla libertà si rende un servigio, come è stato il fatto del decreto-legge dei 17 ottobre 1958 n. 937. Continui, onorevole Ministro, la sua battaglia per una amministrazione rigida, tecnicamente attrezzata, senza burocratismi inutili e senza politicizzazione dannosa, recando così il migliore servigio possibile alla agricoltura ed al Paese.

11 Giornale d'ltalia, 24 ottobre 1958

Messaggio paterno Sul labbro di un Pastore, anzi del supremo Pastore della Chiesa, il primo messaggio non può essere che quello di un padre che ama, che desidera il maggiore bene possibile, che abbraccia tutti e li stringe nell'amplesso dell'amore che unisce gli uomini a Dio e Dio agli uomini. Pace, Giustizia, Libertà, reciproca comprensione dei diritti e dei doveri, benessere, tutto quanto si può desiderare nel mondo in una rinnovazione spirituale, tutto quanto la parola cristiana significa e vivifica, non può mancare, non è mancato nel breve saluto che Giovanni XXIII ha rivolto a tutto il mondo. Parlando ai Cardinali egli ha voluto quasi giustificarsi di aver preso il nome di Giovanni, nome non più scelto nella lunga serie dei papi dal secolo quattordicesimo ad oggi. I1 motivo domestico e parrocchiale del suo paese110 ci commuove, il ricordo di Giovanni Marco, il S. Marco evangelista del patriarcato veneziano, è per lui un affetto pastorale comprensibile; ma il richiamo ai due Giovanni del Vangelo, il Battista precursore e martire, pre-


dicatore della penitenza e dell'integrità della famiglia, e l'Evangelista, il prediletto che ebbe affidata la Vergine Madre da Gesù sulla Croce, ci richiamano ai primordi cristiani; ai due assertori dell'amore divino legato all'amore del prossimo. Giovanni evangelista scrive: «Chi non ama il fracello che vede, come può amare Dio che non vede?)).E che cosa è la penitenza predicata dal Battista se non un atto di amore, il riconoscimento delle nostre colpe, verso Dio e verso gli uomini, che per la penitenza si riparano per preparare la via alSignore! E che cosa è l'amore se non sacrificio di se stesso per gli altri e per Dio? Sublime concezione cristiana, che mentre ci distacca dalle passioni e dagli egoismi terreni, c'invita ad una concezione della vita che eleva, nobilita, sostiene nelle traversie e nelle miserie di questo mondo e ci apre, anche nel piano dell'attività umana, orizzonti e speranze di benessere e di pace. Pur alzando il pensiero alle cose celesti, pur abbracciando i cristiani dissidenti e invocando come Cristo il perdono per i persecutori della Chiesa, il Pastore e padre di tutti tiene anche presenti i bisogni terreni, la pace fra i popoli, la tregua delle armi, l'equità nei rapporti umani e il benessere per tutti, specialmente per i non abbienti. Le parole di Giovanni XXIII, per la loro linearità, semplicità, comprensività, arrivano alle coscienze di tutti in una universalità che abbraccia i'uomo nella sua completezza, e che non può richiamare alcro che una profonda religiosità e un sentimento cristiano che eleva e trasporta dalle piccolezze quotidiane alle sublimi aspirazioni dell'anima vivificata dalla fede. So bene che non pochi lettori non hanno il dono della fede, che è dono divino; altri lo hanno, ma lo sentono scosso dalle miserie che possono toccare tutti non escluso il campo ecclesiastico, per la pasta terrena della quale siamo tutti formati. Ma ci sorregge la speranza di un rinnovamento che non può essere realizzato senza l'apporto della Chiesa, quale fiaccola perpetua di verità che illumina e di amore che feconda. Oggi come ieri, come sempre da duemila anni, sentiamo l'impeto di una realtà intima, non solo perché si rinnova a Roma il miracolo di una successione ininterrotta di quel Pietro sulla cui pietra è edificata la Chiesa di Cristo; non solo perché un'angelica figura torna in Vaticano a rivolgere la sua parola al mondo; ma anche perché lo slancio di ogni parte del mondo verso Roma rinnova il miracolo della prima Pentecoste cristiana in Gerusalemme, quando tutti ascoltavano Pietro e gli altri apostoli i quali erano compresi nelle varie lingue dei popoli lì convenuti ascoltando le grandezze di Dio. Che sono mai queste grandezze se non lAmore! Nessuno cerchi di tirare le parole del Papa al suo settore e trovarvi l'appoggio alla propria veduta particolare; la parola del Papa è universale ed è la parola di Cristo Amore: ((Hoportato ilfuoco in terra e che cosa voglio se non che sia acceso?),.

Il Giornale d'ltalia, 3 1 ottobre 1958

Lo Stato e il cinema Triste eredità quella dei cinematografi e della cinematografia per uno Stato libero, democratico, moderno, repubblicano, il quale in quindici anni non ha saputo liquidare un siffarto complesso di affari e di affaristi, nient'altro che un peso morto. Da circa un anno si era cominciato a smantellare la costruzione fallimentare ENIC, ma ci è capitato addos-


so il Ministero delle Partecipazioni a creare l'ente di gestione delle imprese cinematografiche in stato fallimentare; il relativo consiglio, nominato in fretta e furia poco prima delle elezioni politiche, si troverà a dover curare un bel complesso ospedaliero. Mentre la liquidazione dell'ENIC segna il passo, Paese e Paese Sera hanno dato la notizia che lo Stato avrebbe creato un nuovo ente cinematografico potenziato dall'ENIC. Prese informazioni risulta che il liquidatore dell'ENIC, per non sapere che fare, ha cercato di evitare la chiusura delle sale cinematografiche, sia quelle che lo Stato possiede in proprio sia le altre delle quali lo Stato è gestore, ed ha esumato per l'occasione un certo ente detto ECI (Esercizi Cinematografici Italiani). Si aggiunge, e sarebbe il colmo, che egli è lì per rilevare un certo numero di sale cinematografiche private, con soddisfazione dei proprietari e dei gestori i quali vedono di giorno in giorno i loro affari in pericolo. Non ci dovrei credere, a meno che non ci sia la mano di un certo Ariosto che non è esattamente Messer Ludovico dell'orlando Furioso. Che fare allora delle sale cinematografiche statali? Certamente venderle; che fare delle gestioni statali di sale private? Certamente cederle. Si obietta che oggi la cinematografia passa un periodo difficile per colpa della televisione. Vero; ma domani sarà peggio; in ogni caso, nessuno potrà dire se la cinematografia tornerà ad essere la preferita e se la televisione passerà di moda; è più che probabile che la televisione, nonostante che sia statale, sviluppi ancora di più essendo per ora in fase ascendente. Comunque sia, in Italia non può esservi una legge per il cittadino è un'altra per lo Stato; questo, se fa il ~ inemato~rafaro e se come tale va in malora, deve seguire le norme del codice circa le liquidazioni. Nessun ministro può dire al liquidatore dell'ente di fermarsi a metà e di mandare al diavolo i creditori, essendo il liquidatore l'unico responsabile avanti il giudice. Purtroppo non è la prima volta che i ministri e perfino i funzionari statali, gli amministratori e i funzionari parastatali si credono al disopra della legge, come un monarca dell'antico regime che per i giuristi di allora era ((solutusa lege)).In uno Stato di diritto, Stato costituzionale, libero, democratico e repubblicano non è così e non può essere così senza pervertire le istituzioni e violare le leggi. I soliti sinistri reagiscono in nome degli impiegati, degli operai e operatori degli enti pubblici. Nessuno pensa a lasciare sul lastrico il personale; ma non si può pretendere che l'economia italiana, pubblica e privata, divenga un ospedale di imprese fallimentari, che debbono continuare a far debiti per mantenere il personale. Una se ne chiude e dieci se ne aprono: è questo il vero dinamismo economico di un Paese sano. Lo Stato, cioè la comunità dei cittadini, è quello che deve prowedere durante i periodi di crisi ai disoccupati; non mai la singola azienda irizmta, enizzata o statizurta che sia. Tornando agli enti cinematografici statali è bene che si sappia avere lo Stato, per il solo ENIC, rimesso fin oggi la bellezza di circa dieci miliardi, con i quali poteva finanziare, anche a tasso di favore, industrie utili e redditizie, che non fossero sale cinematografiche in un paese che ne ha ben diciottomild. Il voler fermare, come sembra, la presente liquidazione significa accollarsi il resto dei deficit, passare le sale cinematografiche all'ente di gestione creato dal ministro Bo, avventurarsi a sostenere una cinematografia barcollante e in concorrenza con la televisione per finire con un altro crack del tutto inevitabile. Meglio oggi perdere dieci che domani venti. Questo dal punto di vista economico; e nessuno pensa alla bella figura che fa lo «Stato educatore))tenendo sale di proprietà e perfino di gestione (il colmo questo dell'incosciente statalismo italiano) a mostrare le più assurde pellicole e le più sguaiate nudità e le più eccitanti scene, specialmente quelle che determinano stati di frustrazione e di disperazione ed


eccitano i perversi istinti dell'odio e della vendetta; a parte quelle altre pellicole che il materialismo storico e l'incoscienza politica sostengono a spese del contribuente. Chi lo crederebbe? Il teatro Sistina può dirsi statale in quanto lo Stato vi ha la sua partecipazione; concorrendo così all'elevazione della coscienza nazionale con i balletti e le riviste di ben nota eccentricità senza mai pensare a fare piazza pulita di tutto questo marciume. Anche la CINES è in liquidazione con un deficit di tre miliardi e più; e tale liquidazione, se non erro, è fermata a metà non si sa da chi: Ariosto? Lami Starnuti? Non mancano interessati a ronzare nei corridoi dei ministeri, da non sapersi più chi sia il responsabile che obblighi lo Stato a rimetterci il resto, lasciando CINES e personale ((fracolor che son sospesi*. E dove mettiamo Cinecittà? Leggo che tale ente paga un milione e mezzo al giorno di interessi per debiti presso le banche. Calcolo la cifra dei debiti, a occhio e croce, da otto a nove miliardi, i quali vengono accresciuti ogni anno di più di un miliardo di ulteriori perdite. I1 personale è al sicuro. Lavora o non lavora, Cinecittà facendo altri debiti paga sempre lo stipendio a tutti, perché lo Stato è ricco, Pantalone può darsi tutti i lussi anche quelli di tenere teatri di posa in stato fallimentare. Del resto, le banche sono felici di prestare allo Stato invece che al privato; se fanno qualche ribasso negli interessi (e non sempre) sono sicure di riavere il capitale. È di questi giorni che il Parlamento in quattro e quattr'otto ha approvato il saldo-deficit degli ammassi di un solo anno nella bella somma di ottantacinque miliardi e più; una bazzecola. Cinecittà può essere smantellata senza che l'Italia vada alla malora; l'area edificabile per un bel quartiere di case servirebbe a pagare i debiti e indennizzare il personale. Operatori ed operai fin da ora pensare a specializzarsi (scuole e corsi ci vogliono) per altri mestieri perché la cinematografia, come la coltivazione del grano, deve ridimensionarsi. Ecco tutto. La vita non è facile; ma è questo il mezzo per sviluppare l'intelligenza inventiva, le virtù fattive e quelle di adattamento, che rendono dinamica la società. Il presidente Fanfani parlando il 31 ottobre con i giornalisti dopo il consiglio dei ministri e accennando alla sollecita liquidazione dell'ARAR (già incominciata da un pezzo e forse inciampata in qualche ostacolo) ha detto: ((10credo che sulla via di queste liquidazioni si continuerà regolarmente nell'interesse dell'economia e dell'amministrazione nazionale)), ( Vedi («Il Popolo)) del I novembre). Prendo queste parole per quel che suonano e le applico a tutto il complesso cinematografico, quello del quale ho parlato e l'altro che ho omesso, con la speranza di poterne registrare gli effetti salutari. O

Il Giornale d'Italia, 5 novembre 1958

Dal mio ritorno a Roma in poi, in dodici anni, non ho mai preso parte alla organizzazione della democrazia cristiana, né mai sono intervenuto nelle questioni e nei contrasti interni di partito; ho sempre parlato e scritto in nome proprio, assumendo le mie responsabilità nella vita politica del paese con discorsi e con articoli e opuscoli che esprimono il

45

Dichiarazione inviata al direttore de «I1 Giornale d'Italia» a proposito delle inesarre notizie e delle insinuazioni di stampa.

328


mio pensiero personale. Non ho mai negato di far conoscere i miei punti di vista a coloro che sono venuti a chiederlo, di qualsiasi partito o corrente essi fossero senza per questo assumere impegni con cicchessia. Sugli affari in Sicilia ho scritto un articolo: Parkzmentarismo e Partitoerazia a Palermo; a questo io mi richiamo. Non è mio sistema rettificare quanto si scrive su di me; non ne ho tempo né voglia.

II Giornale ditalia, 8 novembre 1958 133. I1 voto segreto Fra giorni le Giunte del Senato e della Camera, nel rivedere i punti controversi dei due regolamenti, cercheranno di renderli uniformi anche nell'applicazione del voto segreto. Si sa che per l'approvazione finale delle leggi il voto segreto alla Camera è obbligatorio, al Senato è prevalente solo su richiesta di venti presenti in aula. siracconta che alla reggia di ~ a ~ o l i , s o t it oBorboni, esisteva una porta di servizio alla quale era assegnato un piantone del corpo delle guardie. La porta, per ordine sovrano, fu murata, ma il piantone rimase lì; ogni giorno nel foglio di servizio delle guardie del corpo vi era quello assegnato alla porta murata. Così è del voto segreto per le leggi; fu introdotto anche in Italia dalla Francia, il cui Parlamento l'abolì nel 1885 per la Camera e nel 1887 per il Senato. Noi l'abbiamo ereditato dal Parlamento subalpino, e lo abbiamo mantenuto come privilegio tutto italiano, mentre non esiste in nessun altro parlamento di paese civile. La mia proposta di abolizione, inviata al Senato nel luglio scorso, minaccia di essere bocciata dalla stessa Giunta, senza l'onore di una discussione in aula. Vedremo se sarà così. Nell'antico regime, il voto segreto come l'immunità parlamentare (altro residuo oggi senza significato) serviva a garantire il rqppresentante popolare dalle ire dei monarchi, i quali avevano mille modi per vendicarsi di un disgraziato che avesse votato contro i desideri sovrani; oggi i parlamentari affermariu che il voto segreto per loro è garanzia contro I'apparato del proprio partito. Ed ecco la bella trovata: quella che la stampa ha classificato dei ((franchitiratori)). I1 deputato o senatore che dissente, si riserva la palla nera nel segreto dell'urna, a quale scopo? La costituzione dice chiaro che il governo non è tenuto a dimettersi per un voto contrario anche ad una proposta governativa. Se la proposta è buona, sarebbe a danno del paese bocciarla; se la proposta non è buona perché non dirlo in commissione e in aula affinché venga emendata o ritirata? Nell'un caso e nell'altro, il parlamentare verrebbe meno al suo dovere e ne dovrebbe rispondere avanti la sua coscienza e avanti il paese. I franchi tiratori hanno preso di mira i bilanci; i siciliani più spregiudicati degli altri hanno per tre anni di seguito respinto il bilancio nel segreto dell'urna, dopo averlo approvato apertamente articolo per articolo. I franchi tiratori d.c., più i socialcomunisti nel 1956 fecero così cadere la Giunta Alessi e la DC di Roma non gridò allo scandalo; gli successe La Loggia. Ma quigladiofPritgladioperit: nel 1957 La Loggia fu battuto col voto segreto sul bilancio dagli alessiani (penso io) più i socialcomunisti; nessuna sanzione, solo la riconferma di La Loggia per l'anno successivo. Alla fine dell'anno, al solito, dopo I'approvazione del bilancio articolo per articolo fatta apertamente, i franchi tiratori d.c. insieme ai


socialcomunisti votarono contro il bilancio che non fu approvato. Questa volta La Loggia tenne duro in base alla costituzione nazionale che stabilisce che il voto contrario su proposta del governo non comporta obbligo di dimissioni. Il seguito è noto, dopo due mesi di ostruzionismo delle sinistre, La Loggia ottenne l'approvazione del bilancio anche col voto segreto, solo dopo essersi impegnato per iscritto (carta canta e villan dorme) a dare subito dopo le sue irrevocabili dimissioni. Ci voleva poco per gli oppositori di La Loggia proporre in giugno un voto di sfiducia e risolvere il contrasto; ma no; il voto di sfiducia è palese, e i franchi tiratori, anche se conosciuti e individuati in antecedenza o post-factum, vogliono sempre i'alibi del voto segreto. Lo stesso, giorni fa, è awenuto a Roma (come era awenuto anche nel passato); certi franchi tiratori hanno messo palla nera nella votazione finale del bilancio degli esteri (e anche di altri bilanci) e il governo avrebbe subito un forte scacco se non fosse stato per la sinistra nenniana, in parte squagliata e in parte segretamente favorevole. Su questo punto Roma e Palermo sono d'accordo, si non caste, caute. Dove non sono più d'accordo è nella ribellione aperta di Milazzo e di altri tre o quattro che siano. Ma questo è un altro paio di maniche. In sostanza: il voto segreto nel parlamento e in tutte le assemblee piccole e grandi, politicizzate per il bene dell'umanità, oggi ha la gradita funzione di difendere gli iscritti ad un partito dal proprio apparato, in modo da evitare l'obbligo della disciplina o di non incorrere nella vendetta dello stesso apparato, che potrebbe o espellerli subito o ad ora fissa, ovvero attenderli al varco delle elezioni. Ometto gli esempi. Ma soprattutto il voto segreto serve alle intese e all'intralkzzzo fra i vari partiti. Ricordo che Zoli rifiutò sdegnosamente i voti di fiducia di un certo settore, e presentò le dimissioni. A distanza di un mese, per invito del presidente della Repubblica, ne riconobbe la validità - nonfetet. In seguito, ebbe voti segreti a destra e a manca per mantenere il monocolore in piedi fino alle elezioni. Anche Fanfani sdegna i voti di fiducia di un certo lato e attende i favori di un altro certo lato; intanto, in questa alternativa, deve per forza, nel segreto dell'urna, giocare di abilità tanto a destra che a manca; quest'ultima è la preferita. Come si vede, il voto segreto è uno dei tarli della democrazia della nostra Repubblica, che rende il parlamento insincero, campo di interessi di partiti e non più presidio di libertà, mancando esso stesso dello spirito di libertà, di quella libertà che sola dà forza alla voce del deputato e del senatore, ne tempra la coscienza e ne nobilita la funzione anche agli occhi del popolo. Vufgus vuft decipidicevano gli antichi; il volgo, non il popolo; e oggi che il popolo partecipa alla vita politica del paese, pensare al voto segreto come miserabile mezzuccio di animelle senza coraggio o di fùrboni che non vogliono essere scoperti è roba che fa venire i brividi. Un parlamentare mi diceva giorni fa che prima di sopprimere il voto segreto occorrerebbe educare il paese a questo spirito di libertà. Cosa rispondere a chi dicesse che per scendere nell'acqua bisogna avere già imparato a nuotare? Sarebbe preso per ignorante o per matto. La libertà per gli attuali parlamentari è come quella del fanciullino che per camminare deve provare a stare sulle gambe anche a costo di rotolare per terra; ma nessuno dei franchi tiratori, e compagni coraggiosi, vuol rotolare per terra; si sta bene seduti. Si dice che la chiave del voto segreto sta nella partitocrazia. E forse non vi è partitocrazia nell'Inghilterra? Nella Francia, quella della 3" e della 4" Repubblica? E negli Stati Uniti? altro che; la partitocrazia esiste; quel che non esiste in quei Paesi è la mancanza di senso di libertà e di dignità da parte dei parlamentari che perciò non invocano il voto segreto. Vorrei sapere cosa faranno i parlamentari italiani, abituati al voto segreto a salvaguardia del posto che occupano, quando parteciperanno ai parlamenti europei e saranno obbligati al


voto palese; saranno forse dei conformisti? Oh no; è impossibile dare lo spettacolo di pecoroni, essere reggimentati, perdere la propria personalità, dimenticare che rappresentano non il partito né la nazione ma la Società degli Stati. Mi rifiuto, per il buon nome italiano, di riconoscere valida tale ipotesi; mi rifiuto di reputar dei vili o congiurati coloro che saranno eletti col voto degli italiani al Parlamento europeo. La conclusione è una sola, l'abolizione; e sarò dolente se uomini insigni che fanno parte della Giunta del Regolamento del Senato, ai quali guarda il paese come a rappresentanti di un passato di dirittura e di dignità, scenderanno al compromesso di lasciare a disposizione di venti parlamentari la richiesta prevalente e decisiva del voto segreto per l'approvazione di leggi, di ordini del giorno e di mozioni. Verrà il momento in cui i partiti rivedranno il loro statuto e faranno come si fa negli Stati Uniti d'America, dove i nomi dei senatori che votano pro o contro le leggi e le mozioni vengono pubblicati sui grandi giornali, indicando il partito al quale appartengono; e nessuno si meraviglia che democratici votino Sì per un governo presieduto da un repubblicano e i repubblicani votino No, e viceversa nel caso di un Presidente democratico. Né si dica che negli Stati Uniti il voto non fa cadere il governo; non è proprio così anche in Italia per i voti a leggi e mozioni, proprio per disposizione costituzionale che il governo non è obbligato a dimettersi, mentre per i voti di sfiducia o fiducia che sia è obbligatorio il voto palese? E allora?

Il Giornale d'ltalia, 15 novembre 1958

Gli auguri di Fanfani46 Sarà bene riprodurre in cima a questo articolo gli auguri di Fanfani nel testo dato dal

Popolo del 19 di questo mese. Eccoli: ((Siconsiderino i miei auguri per quelli che sono, cioè l'espressione di un desiderio sincero - per quanto riguarda il PRI - del passaggio da una posizione d'attesa a quella di collaborazione capace di allargare la base del Governo; per quanto riguarda il PLI, del passaggio da una fase di opposizione, che non solo a noi appare talvolta preconcetta, ad una fase

4"

Diamo qui di se uiro due lettere inviate in quel periodo al presidente del Consiglio on. Amintore Fanfani: Lettera del 29 novemtre 1958: Caro Fanfani, Ti sono assai grato del gentile telegramma di au uri per il mio compleanno e ti sarò ancora più grato se in iin'ora meno densa della tua giornata così piena di avoro e di preoccupazioni, mi darai il piacere di una visira. Avrei tanre cose da dirti, che forse non ti saranno sgradire, né inurili. È vero che io sono abituato a scrivere di polirica correnre, e non risparmio le mie critiche (nel senso oriinario della parola) ai dirigenti della politica e fra cosroro anche soprattutto a chi ne P il principale responsat i l e Ma ru, che comprendi pih di qumro non mostri, (e giusramenre) sai bene lo spirito che mi anima, la finalità alla quale miro e le divergenze che ci dividono. Accenno al tuo vieni mero ai repubblicani e ai socialisri italiani (tali solo geografcarnente secondo la mia definizione). Però debbo dirti che al tuo posro di Capo di un governo che si è presentato come solido - non modificabile - il mosrrare di invocare aiuti non omogenei (per usare il cuo aggettivo) non mi è sembrata una mossa abile e opportuna. La risposta negariva dei repubblicani (i quali hanno il gusto dell'anriclericalismo) e quella sempre equivoca e inaccettabile di Nenni, non rafforzano, indeboliscono.

P


di opposizione che sia sempre - nell'interesse della democrazia e dello Stato - razionale e costruttiva; per quanto riguarda il PSI, del passaggio da una fase che non noi ma tutto l'elettorato italiano, come dimostrano le recenti flessioni a beneficio del PCI e del PSDI, proclama di equivoco collegamento con il comunismo, ad una fase di evidente, sicura autonomia, auspicabile - senza riserve - da tutti quei democratici cristiani che non chiedono tutto il potere sempre alla sola DC, ma pensano ai vantaggi per la democrazia, la libertà, la sicurezza d'Italia, a vedere accrescersi il numero delle forze sinceramente, palesemente, sicuramente democratiche e pertanto libere definitivamente dalla soggezione estremista e dalle tentazioni del frontismo filo-comunista)). Lascio fuori discussione gli auguri al partito repubblicano (nonostante i ritorni di fiamma ad un antiquato anticattolicismo o anticlericalismo che sia); lascio anche gli auguri al partito liberale circa la misura dell'opposizione, visto che Fanfani non ha intenzione di ripetere le esperienze di De Gasperi, di Scelba e di Segni; mi occupo invece degli auguri al partito socialista italiano (italiano geograficamente, non nazionalmente, tanto per intenderci). Dunque, la formula di Fanfani è chiara, direi lapalissiana: il PSI deve passare dalla presentefase, « a d unafasedi evidente, sicura autonomia)).In italiano fase indica il succedersi di variazioni, siano quelle lunari e stellari, siano quelle stagionali, siano queUe produttive, siano (nel caso nostro) quelle delle malattie, politiche o no che siano; è naturale che parlando di Nenni, il segretario politico della DC, che lo conosce da quando era suo collega in un ministero De Gasperi, possa parlare di fasi. Dunque, egli prevede la fase autonoma evidente e sicura. E difficile che sia sicura. Se Fanfani parlasse da amico ad amico, come si fa al letto di un ammalato, ogni augurio, anche il più inverosimile, sarebbe permesso e in certi casi van-

A arte i dissensi, ti prego di accettare i miei più cordiali auguri e saluti. mo Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 563, fasc. «Art. e 1. pubbl. del Prof. L.S.», novembre 1958.

d

Lettera del 30 dicembre 1958: Caro Fanfani, Ti ringrazio del telegramma di auguri natalizi, auguri che ti ricambio pel Nuovo Anno centuplicati. Ho anche applicato per te la S. Messa. Permettimi che aggiunga qualche rigo per accennarti quel che avevo desiderio di dirti a voce, se il tempo non fosse stato con te avaro in questo periodo così denso di affari importanti per la politica del nostro paese. Nessuno potrà criticare quel che il governo sta facendo per la piccola Europa e neppure i vari prowedimenti finanziari in rapporto a quel che succede a Parigi, a Londra e a Bonn. Devo sottoponi una mia preoccupazione, quella dell'ingorgo di depositi liquidi in banca, ai quali non corrispondono larghi investimenti privati; gli unici che io invoco, escludendo nuovi investimenti pubblici, essendo già troppi e poco o niente redditizi quelli già esistenti o in corso. (Tra parentesi: ricordati di metter un freno a Mattei. che non corra la cavallina). Essendo il mio modesto avviso, occorre ridare fiducia all'economia privata, e tu sai bene quali sono i m a zi adatti a questo scopo. Del resto, non ri mancano consiglieri compecenri e fidati. Secondo tema: la Sicilia. H o parlato a lungo con I'on. Piccioni con preghiera di venire da te; le elezioni regionali sono a maggio e bisogna trovare in cempo la via giusta. Infine, mi permetto di non nasconderti la penosa impressione avuta al tuo atteggiamento nel caso Preti, con menomazione della libertà di giudizio di un or ano parlamentare quale la commissione di inchiesta. lo cred o clic un diverso contegno non avrebbe ponaro A a crisi di governo; ma se per il rilievo della commissione liguardo Preti i socialdemocratici avessero provocato la crisi, un monocolore sarebbe stato anche per te giustificato ed avrebbe rialzato nell'opinione pubblica la posizione politica della DC. Scusami la franchezza: i veri amici sono proprio quelli franchi. Una cordiale stretta di mano Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 563, fasc. HA~c. e l. pubbl. del Prof. L.S.», dicembre 1958.


taggioso a rialzare lo spirito abbattuto di chi soffre. Ma in politica, l'augurio ha un significato per chi lo fa e un altro significato per la persona o il gruppo a cui è diretto. Fanfani scopre anche questo lato, per dimostrare che la D C non vuole avere per sé tutto il potere. E nello stile dell'uomo; quando Fanfani può scaricare su altri le responsabilità, mantenendo la sua linea e la sua posizione, è proprio felice. Perché, l'ipotesi di Fanfani non è l'alternativa al potere, quella che auspica Nenni succedendo a Fanfani nel governo, ma la collaborazione anche con un PSI evidentemente e sicuramente autonomo. Una mezzadria tipo lodo-De Gasperi, 53 e 47 per cento; naturalmente il 53 alla DC; diminuiranno i posti di ministri ma, pensa Fanfani, si rafforzeranno ((laDemocrazia e lo Stato)). Questafase (la successiva non si conosce) Fanfani ci dice che è auspicabile - senza riserve - da tutti quei democratici cristiani che non chiedono tutto ifpotere sempre alla DC; cioè da coloro che non vogliono il monocolore, Andreotti compreso. Quel sempre è un gioiello, perché Fanfani tentò il monocolore quando erano già in corso le chiacchiere dell'unificazione socialista, chiacchiere che anche oggi sono più arretrate che nel gennaio 1754. E son passati quattro anni e dieci mesi di auguri.. . Campa cavallo.

Fanfani ha usato aggettivi, non ha messo condizioni, a meno che tali aggettivi siano afibiper le future fasi; infatti egli ha parlato dei DC (fanfaniani) che ((pensanoai vantaggi (della nuova fase nenniana) per la democrazia, la libertà, la sicurezza d'Italia, a vedere accrescere il numero delle forze (PSI compreso) sinceramente, palesemente, sicuramente democratiche e pertanto libere definitivamente dalla soggezione estremista e dalle tentazioni del frontismo filo-comunista)). Noi preghiamo Dio di non c'indurre in tentazione, ma Nenni non ha questa consolazione e questa fiducia in Dio; egli sa bene che per lui il primo problema è quello dell'organizzazione operaia. Dove lascia i suoi operai socialisti? Forse nella CGIL? Ed ecco legato a fil doppio con i comunisti: addio ai sicuramente, i sinceramente e i palesemente)) fanfaniani, tutto crolla. E dove lascerà Nenni le cooperative che ancora hanno un presidente PSI? Nella federazione socialcomunista? Caro Fanfani, illudi te stesso o illudi gli altri. Restano le amministrazioni pubbliche: i saggi del passato e del presente non sono altro che combinazioni malcombinate o col consenso della DC (caso Sardegna, caso comune di La Spezia, caso provincia di Napoli, cito nomi grossi e centri visibili) ovvero con la chiusura di un occhio o due; di centri minori, famoso quello del Comune di Caltanissetta, fatto però con gli occhi aperti. I1 caso della Giunta Regionale Siciliana sarebbe un'eccezione che ha altri motivi, dei quali mi occuperò a parte, come del resto me ne occupai nell'agosto scorso. Per il caso del Comune di Roma, Fanfani ricorderà l'espulsione di L'Eltore socialdemocratico, e l'atteggiamento ostile alla Giunta Cioccetti non solo da parte della Voce Repubblicana (pour cause), ma della sinistra DC e dell'agenzia parlamentate ex gonchiana, oggi tutta Fanfani. Bene, quel Nenni sognato, o meglio, auspicato da Fanfani non esiste, anche se dal Congresso PSI egli ne uscirà con l'aureola dell'autonomista; autonomista di che cosa? Senza organizzazione operaia nelle sue mani, senza convergenza di enti e cooperative a lui aderenti, senza la sua ala sinistra e centro-sinistra; ma soprattutto senza quello spirito di opposizione e di battaglia al comunismo che Fanfani fra i tanti auguri auspica come il più necessario. Non mi pare che tale spirito aleggi nelle sezioni e direzioni della DC e negli stessi giornali, tranne come linea discontinua e inegciente sia sul terreno ideale che in quello delle realizzazio-


ni. L'eventuale apostrofarsi e digrignare di denti nelle aule parlamentari è piuttosto rituale e poco sincero, quando nel segreto si accettano i voti o si contrattano le astensioni. Basterebbe l'atto di accusa di Elkan per la situazione dell'Emilia a comprendere che la lotta non è condotta come si deve e basterebbero i due mesi di ostruzionismo socialcomunista all'Assemblea siciliana combattuto in aula e fuori con quella mancanza di unione di partito, di generosità di ideali sentiti, di palese dirittura politica che ha portato alla crisi attuale, della quale mi occuperò in altro articolo. Aspettare proprio Nenni per combattere efficacemente il comunismo, caro segretario politico, può sembrare a chi ci pensa su, addirittura unafase lunare.

Il Giornale d'ltdlia, 20 novembre 1958

In Sicilia e altrove Nel mio articolo del 14 agosto: Parlamentarismo epartitorrazia a Palermo così scrivevo: «La reazione anrifanfaniana dei Pella, Scoca, Andreotti, Gonella, Aldisio e molti altri portò, nel 1955, alla elezione di Gronchi a Presidente della Repubblica nella convinzione che Fanfani sarebbe stato travolto; ma travolti furono gli stessi promotori di destra che scelsero l'intesa con le sinistre. Oggi in Sicilia si fa un'altra mossa anti-Fanfani, anti-La Loggia, anti-Magrì e compagni, per liberare la Sicilia dal dominio di Roma parritocratica. In queste condizioni giuocare col mezzuccio del voto segreto e della non approvazione del bilancio e un presunto appoggio delle sinistre si rischia di ripetere il 1955 di Roma)). Nell'aprile 1955, era noto che i capi del gruppo antifanfaniano (oggi si chiamano notabili, come se Fanfani o Bo o Zoli non fossero dei notabili) col favore delle sinistre socialcomuniste puntavano su Gronchi quale presidente della Repubblica. La riunione DC a Palazzo Barberini mostrò a quale punto fosse arrivata la insofferenza di una disciplina di partito discriminaroria e caporalesca. Fanfani si accorse di avere perduto la partita e cedette (bon gré mal& aderendo alla candidatura. Identico il fatto di Palermo: dal direttivo del gruppo fu proposto alla presidenza della Regione il dott. Lo Giudice; candidatura questa a maggioranza respinta dall'assemblea del gruppo. Invano I'on. Alessi suggerì ai dirigenti di Roma di ripiegare su Milazzo. L'onorevole Rumor fu irremovibile: Lo Giudice e nessun altro. Esito: 17 deputati d . ~ e. 10 alleati votarono Lo Giudice; 15 o 13 d.c. (non si sa bene), 28 della sinistra socialcomunista e il resto di destra elessero con 54 voti Milazzo. I1 resto è noto: Fanfani che cedette per Gronchi, resistette per Milazzo: prevalse la vecchia politica del ((fortecon i deboli e debole con i forti». Ma nel caso Milazzo (il quale fra parentesi si era riservato l'accettazione o meno della carica) ci sono vari fatti da mettere in evidenza: per primo l'ordine del diretrivo del gruppo -parlamentare (si disse trasmesso dall'on. Gullotti dopo una telefonata con Roma) che Milazzo dovesse dichiarare la non accettazione dentro le 12.30 di quel giorno, pena l'espulsione. Milazzo appella e viene a Roma; dopo una seduta di quattro ore finita alle 19, viene ingiunta a Milazzo la non accettazione prima delle ore 20, altrimenti l'espulsione ver-


rebbe confermata con un comunicato alla stampa. Milazzo non accetta l'intima e chiede che il suo caso venga sottoposto ai probiviri.

Alcune considerazioni da farsi. Prima: il presidente della Regione Siciliana ha funzioni pubbliche; lo statuto (legge costituzionale) afferma che egli ((rappresenta la Regione)) e ((rappresentaaltresi il Governo dello Stato e col rango di ministro partecipa a l Consiglio dei ministri (articolo 25))). Nessuno (a mia conoscenza) si è posto il quesito se la coazione morale e politica usata pubblicamente verso l'eletto debba essere riguardata per nulla aderente all'articolo 54 della Costituzione che dice: ((1cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore)). Nel caso presente, verso un cittadino cui si intima da persone private (siano pure capi di partito) le dimissioni a d horam o la non accettazione a d horam, si esercita un atto di soverchieria partitica, violando i diritti personali e quelli dell'assemblea. Si porrebbe anche rilevare che l'art. 294 del codice penale colpisce la minaccia che ((impedisce in tutto o in parte l'esercizio di un diritto politico)), nel caso presente ((ildiritto di accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza))assicurato dall'articolo 5 1 della costituzione. La disciplina di partito va esercitata in forma democratica: responsabili di un7Assemblea, di un Consiglio, di una Camera sono i gruppi cui appartengono gli eletti; ogni altro organo estraneo non può ingerirsi nella pubblica attività dei rappresentanti del popolo. I partiti organizzino pure le elezioni (con quelle cautele che io ho proposto col disegno di legge n. 124); ma spetta solo agli eletti interpretare la volontà elettorale e attuare le direttive politiche e amministrative accettate al momento dell'elezione. Purtroppo, questa norma democratica è costantemente violata dall'apparato dei partiti; donde tutti gli equivoci e tutte le manchevolezze degli eletti e relativi gruppi sia nelle Camere sia nei consigli dei più piccoli comuni. La politicizzazione delle amministrazioni locali è la peste che le aduggia, giustificandone gli sperperi, distraendone le energie, non facendo osservare le leggi, mettendo a soqquadro tutta la vita locale, ridotta oramai ad una lotta fratricida nel seno degli stessi partiti.

Approverò, per tutto questo, il Milazzo? A voce e per lettere a lui dirette, non ho approvato il Milazzo da luglio ad ottobre, pur ammettendo legittimo il dissenso, come opinione personale da esprimersi nei modi che il galateo parlamentare suggerisce a chi fa parte di un governo. Per il resto, ho atteso che la vertenza disciplinare fosse svolta fra gli organi del partito, augurando reciprocamente comprensione e rispetto. Nessuno mi ha costituito giudice tra le parti; esprimo il mio parere con libertà. H o deplorato e deploro la paralisi dal marzo ad oggi dell'Assemblea siciliana e conseguentemente della Giunta regionale; prima per la batraglia elettorale politica; poscia per gli strascichi elettorali; infine per l'assalto alla diligenza con i voti segreti sul bilancio e il conseguente ostruzionismo della sinistra socialdemocratica. Mentre la Sicilia soffriva della paralisi regionale, né a Palermo né a Roma i dirigenti dei partiti al governo regionale curavano altro che i contrasti e le congiure dei gruppi e sottogruppi. Otto mesi di paralisi si scontano; ecco perché la Giunta Milazzo ha riscosso il fa-


vore della classe media siciliana, senza mostrare meraviglia, risentimento o preoccupazione per l'ibrida intesa con le sinistre, mentre in Sardegna si nota l'apatia politica con la quale la classe media ha accolto l'intesa della DC con i socialisti sardisti in connivenza con i comunisti che han salvato la faccia con l'astensione. Ma vi è una assai marcata differenza fra le due isole; perché in Sicilia 1'Episcopato ha manifestato le sue preoccupazioni religiose e la DC i suoi risentimenti politici, mentre in Sardegna trionfa il conformismo alle incoerenti direttive di piazza del Gesù. I1 Consiglio nazionale della DC con la mozione conclusiva (n. 4) ha auspicato - attraverso il rinsaldamento dell'unità della DC - «quella chiarificazione della situazione siciliana che caratterizzi le varie forze politiche e salvaguardi le ragioni permanenti dello sviluppo democratico della Regione autonoma nella unità nazionale». A parte che le belle parole messe in fila non indicano altro che un preteso rinsaldamento dell'unità della DC siciliana (tuttora divisa in gruppi e gruppetti all'Assemblea regionale e Fuori), è bene afferrnare chiaramente che nel caso Milazzo il problema dell'autonomia è stato sottolineato nei confronti dei partiti e non dello Stato e che nessuno sogna di mettere in forse l'unità nazionale. Solo gli orecchianti, gli ignoranti, coloro che vedono lucciole per lanterne, i giornalisti improwisati e i soliti antiregionalisti impenitenti possono preoccuparsi di un preteso inesistente e inattuabile separatismo, sol perché i Milazzo, come i Pella gli Andreotti i Gonella del 1955, criticano l'apparato del loro partito. Ma le vere cause della crisi La Loggia sono state ben altre e furono da me individuate nel citato articolo del 14 agosto. Anzitutto, la preoccupazione degli uscenti e degli aspiranti per le prossime elezioni regionali (maggio 1959), preoccupazione accentuata dal fatto che le elezioni politiche furono dirette con tale faziosità, sia nella scelta dei candidati sia nella distribuzione dei favori, da far temere che solo i preferiti, i figli della gallina bianca, avranno il passaporto e i denari necessari per I'agognato seggio parlamentare. In secondo luogo, l'ingerenza del presidente della Sicindustria, ing. La Cavera, il quale risentito che La Loggia non lo pose a capo della Finanziaria se n'è vendicato eccitandogli contro i propri amici personali e politici di sinistra, di centro e di destra. La Loggia in base alla costituzione non cedette ai franchi tiratori e obbligò l'Assemblea a ridiscutere il bilancio sotto il tiro dei socialcomunisti, i quali nei mesi caldi di agosto e settembre sferrarono un implacabile ostruzionismo che finì con I'approvazione del bilancio e le dimissioni di La Loggia. Cosa che La Cavera affermò essere stata una sua rivincita, al punto da pretendere quel posto che gli darebbe la padronanza dell'economia e della politica siciliana. Mattei fa scuola. Come si sa, nei casi estremi io assumo le mie responsabilità. Già in antecedenza a questi fatti, rispondendo ad una lettera dello stesso La Cavera, ebbi a fargli conoscere i motivi per i quali io ero e sono tuttora contrario alla sua presenza quale presidente o direttore di istituti di credito a portata regionale, specialmente se di carattere industriale. Chi penserebbe a mettere il De Micheli della Confindustria a capo di un istituto finanziario per le industrie italiane?

La stranezza del caso La Cavera è questa: che mentre nessun Togliatti e nessun Nenni si farebbero sostenitori di D e Micheli alla Banca d'Italia o al Consorzio per le Opere Pubbliche, i socialcomunisti di Sicilia sono per La Cavera, come sono per Mattei (e fra i due esistono intese e legami) perché La Cavera, il quale adesso è in urto con la Confindustria (dalla quale ebbe aiuti) va montando l'opinione siciliana contro gli industriali che hanno


laggiù, con l'aiuto della Banca Internazionale e attraverso la Cassa del Mezzogiorno, realizzato impianti di prim'ordine e di reale vantaggio per l'economia isolana. Fo punto: è necessario che prima delle elezioni regionali l'unità della DC si realizzi davvero, ma sul piano di libertà, evitando finanziamenti a gruppi e candidati preferiti, sia da parte di industriali privati, sia da parte di Mattei e C. (anche sottobanco), sia a mezzo di autorità, fatto questo awenuto in passate elezioni (e non solamente in Sicilia) con sistemi deplorevoli e deplorabili. Chi, come me, combatté Giolitti per I'asservimento e I'awilimenro al quale h allora ridotto il Mezzogiorno, specialmente per la politica elettorale, non può oggi tacere e non gridare ai quattro venti la verità. E ora che piazza del Gesù si decida ad accettare le direttive e i criteri del mio disegno di legge sul finanziamento dei partiti, prima che il fango ci affoghi.

Il Giornak ditalia, 25 novembre 1958

I1 numero dei senarori Ritorna al Senato il disegno di legge che aumenta il numero dei senatori e ne riduce il periodo di nomina a cinque anni. Anche questa volta ritorna, con qualche ritocco, la proposta dell'Albo dei candidabili nella lista di un collegio unico nazionale per un numero non superiore a un quarto di senatori. I1 collegio unico nella nostra legislazione elettorale fu introdotto quando ancora non vigeva la costituzione del 1948; l'averlo mantenuto anche dopo con legge elettorale non giustifica la insita contraddittorierà con il disposto fondamentale della costituzione, contenuto negli articoli 56 e 58 che la Camera dei deputati e il Senato sono eletti a sufiagio universale e diretto. I1 collegio unico non comporta la votazione diretta dell'eletrore, né la sua libera scelta, trattandosi di una risultante indiretta e rigida. Inoltre, per il Senato, la lista nazionale contraddice al disposto organico della base regionale fissata all'articolo 57 della costituzione. È vero che nella relazione premessa al citato disegno di legge, viene dichiarato restare fermo il principio della circoscrizione regionale per la elezione di un senatore ogni 200 mila abitanti, riguardando la proposta una nuova categoria di senatori di diritto, quasi fosse una specie di sostituzione dei 107 senatori di diritto creati in base alla I11 disposizione transitoria della costituzione solo per la prima composizione del Senato. In sostanza, il disegno di legge governativo tende a creare una categoria di senatori a numero limitato, quali esperti della vita pubblica nazionale, indipendentemente e dal merito personale e dalla scelta elettorale. Questo sembra a me un assurdo costituzionale e mi spiace doverlo notare in un disegno di legge che porta la firma del Guardasigilli. Si ha I'impressione che venga istituita una polizza di assicurazione al posto di senatore a favore dei parlamentari più anziani, una specie di giubilazione di quelli fra i tanti che sono stanchi delle lotte elettorali ovvero dubitano della probabilità di rielezione e preferiscono la scelta attraverso l'inserzione nel collegio elettorale nazionale a lista rigida automatica. Invero, l'albo dei parlamentari fissa i posti dei candidabili per ordine di anzianità; a parità di anzianità prevalgono coloro che hanno coperto uffici minisreriali o parlamentari con una esatta precisazione di graduazione; i più anziani di elezione e di carica saranno i sicuri


fortunati, doppiamente fortunati i n vita (cioè nel periodo della nomina elettorale) etpost mortem (cioè nel periodo del senatore di diritto) distribuiti proporzionalmente al risultato dei senatori elettivi in base alle percentuali ottenute dai gruppi con contrassegno collegato. Tutto ciò non solo è contrario alla base regionale del Senato, ma alla stessa elettività del Senato se poi si vuol fare un riferimento alla 111 disposizione transitoria della costituzione bisogna riconoscere che non corrisponde affatto alla finalità tenuta presente dai costituenti, quella di dare un premio adpersonam per i servigi resi prima e durante il regime fascista. Qui i servigi resi non sarebbero valutabili, mancando un organo di scelta per meriti assoluti e comparativi, come si dice per il personale impiegatizio, sia da parte dei formulatori dell'albo, sia da parte degli elettori e neppure da coloro che ne presenteranno la candidatura già fissata in antecedenza, cioè i partiti. Insomma, questi nuovi sessanta e più senatori rappresenterebbero se stessi e non la nazione; li sceglierebbe un albo muto, non un essere vivente, - I'elerrorato o il presidente della Repubblica o lo stesso Senato per cooprazione - nessuno: la sorte cieca. L'inconveniente della mancata scelta non potrebbe non ripercuotersi nella stessa composizione delle due Camere. Da un lato le nuove reclute di candidati premeranno sulle direzioni locali e centrali dei partiti per avere posto nelle liste per la Camera dei deputati; gli anziani fra i deputati uscenti saranno, anche loro malgrado, risospinti al Senato. La scelta fra Camera e Senato favorirà spesso i meno dotati e meno rappresentativi, mentre la Camera abbonderà di giovani senza sufficiente preparazione ed esperienza della vita pubblica; così i due corpi non miglioreranno e il passaggio, o travaso che sia, non favorirà la formazione della tradizione di corpo sia della Camera che del Senato. Capisco che queste preoccupazioni di psicologia politica potranno sembrare fuori luogo nell'esame di un disegno di legge a carattere partitico; ma non posso non darvi rilievo per completare i motivi della mia critica. Per la stessa ragione debbo aggiungere che I'equivoco su cui si fonda l'attuale disegno di legge del ministero Fanfani è lo stesso di quello che inficiò il disegno presentato durante il ministero Segni; cioè una pretesa integrazione delsenato. Segni pose tale precisazione nel titolo del disegno di legge; Fanfani, pur omettendola nel titolo, vi dà risalto nella relazione. Tale finalità dal punto dei fatti è inesatta e per giunta contraddice alla lettera della costituzione: il Senato non sorse monco; la disposizione transitoria non lo integrò; nella seconda e nell'attuale legislatura il Senato non è stato e non è incompleto, non lo potrebbe essere. Pertanto l'immissione di circa 60 albisti a titolo fisso non è e non può essere una integrazione. Quello che si vuole, e può essere legittimo di fronte a una Camera di quasi 600 deputati, è che il Senato ne abbia almeno 300. A questo scopo basta ridurre il quorum della popolazione per ogni senatore a 160 mila invece di 200; si avrebbe così un aumento adeguato in rapporto al quorum dei deputati che è di 80 mila. Qualora si preferiscano dei candidati qualificati, si fissino categorie di scelta, non mai albi a graduatoria obbligata. Per completare i miei rilievi al disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, debbo far notare che l'articolo quarto divide in due serie i dieci posti di scelta attribuiti al presidente della Repubblica; però nella prima, sotto l'aggettivo sociale, possono essere inclusi i sindacalisti che figurano anche nella seconda serie; così nella categoria dei letterari potrebbero trovare posto i veri giornalisti qualificabili come tali, secondo una costante e nobile tradizione italiana. A parte ciò sarà bene precisare se la parola sindacalisti sia esclusiva per i sindacati operai e non comprenda anche quelli degli agricoltori e iridustriali grandi, medi e piccoli, nonché i dirigenti di imprese, gl'impiegati e ogni altra categoria, dovendo tutti essere considerati lavoratori in una Repubblica basata sul lavoro.


Aggiungo, per finire, che il numero di dieci senatori in rapporto a due serie di categorie che sommano a dieci (e parecchie comprendono categorie diverse), è dettato da preoccupazioni partitiche che contraddicono allo spirito del disegno di legge; perché si teme che i senatori a vita, che si suppongono al di fuori dei partiti (il che non è perfettamente esatto) se fossero quindici o venti potrebbero in certi casi determinare delle maggioranze non perfettamente aderenti all'equilibrio dei gruppi senatoriali. « Quam parva sapientio con quel che segue.

Il Giornale d'Italia, 3 dicembre 1958

Maggioranza e Governo 11 voto di sabato sera può essere definito come quello della promozione di un alunno poco promettente che un tempo veniva annotata col ((pietatecollegii)),cioè senza convinzione, pur con una certa speranza che l'alunno, a forza di volontà, potesse rendersi idoneo alla classe superiore. Dico questo senza volere svalutare lo sforzo di Fanfani, e anche quello di Saragat, quest'ultimo obbligato com'è alla solidarietà governativa che per lui è una specie di ipoteca messa sulla DC, a svalutare la quale ci perderebbe lo stesso PSDI. In sostanza, la verz$ca della maggioranza è servita a dimostrare che non esiste una vera maggioranza; e che, nelle condizioni attuali del Parlamento, non esiste la possibilità di una nuova maggioranza. I1 paese è obbligato ad avere un governo minoritario che deve fare i conti con gli umori di una diecina o ventina di persone, le quali potrebbero prendersi il gusto di rovesciarlo owero fargli fare la vita grama per il mancato mantenimento delle non sempre utili né sempre realizzabili promesse elettorali. I1 problema centrale dell'episodio parlamentate sta all'interno della DC. Con. Fanfani, mentre cerca l'appoggio dei repubblicani che gli han fatto l'elemosina delle astensioni e delle assenze, non ha curato molto l'unità del partito, usando fino ad oggi il sistema discriminatorio tra fanfaniani veri, quelli di occasione e quelli per disciplina, e i pochi ma notevoli dissidenti, usando maggiore considerazione al numero delle correnti e controcorrenti che alla qualità dei dissensi e dei consensi. Dico «fino ad oggi))perché non so bene se certe dichiarazioni fatte alla Camera valgono per una rettifica in tema di partito. Intendo riferirmi ai due passi del discorso del Capo del governo, quello che riguarda Nenni e l'unificazione socialista, e l'altro sulla politica estera; punti questi per i quali vi è stata anche in seno alla DC una certa diffidenza verso Fanfani, pensando che egli volesse prolungare la vita dell'attuale Gabinetto nell'attesa del congresso del partito socialista per vedervi prevalere la tesi autonomista. Per fortuna, Nenni ha prevenuto Fanfani dichiarando in sostanza quel che ha detto sempre: non volere la collaborazione con la DC e Socio, ma l'alternativa al potere. Fanfani dall'altro lato ha negato qualsiasi fase di attesa per il congresso socialista, ed ha parlato di una politica digoverno tale da eccitare una levitazione d i base (base socialista, s'intende) verso un orientamento sociale convergente sull'attuale programma di governo. Questa levitazione è stata trovata e verificata da Fanfani per l'esito delle ultime elezioni amministrative. Potrei rispondergli con la nota frase del chi si contenta, g o d ~ma non è così; Fan fani mastica amaro; La Mal fa ha preso il soprawento su Pacciardi, per cui i repubblicani non kvitano; né levitano i nennia-


ni, o socialisti italiani (povera Italia) anche se autonomisti; questi restano con il filo ombelicale attaccati ai comunisti. È solo il ceto medio quello che nelle elezioni amminisrrative accede alla DC, e ciò per tre motivi: interessi locali che si regolano meglio se prevale il partito o la coalizione governativa; spezzettamento dei partiti ridotti ai soliti quattro gatti, i quali localmente attirano poco; azione cattolica locale meglio organizzata dei sedicenti apparati sezionali della D C . I mancati voti alle sinistre non sono andati alla DC; si tratta di travaso fra socialisti e comunisti, con le aggiunte relative degli ex comunisti e degli ex socialisti. Una cosa sola dovranno fare localmente Fanfani e Tambroni: non cedere a pretese ingiuste e sopraffattrici dei partiti di sinistra (come di ogni altro partito, DC compresa); I'albagia socialcomunista verrebbe subito mortificata e il prestigio di quei partiti verrebbe ridotto. I socialcomunisti di Savona sono da valutare almeno alla stessa stregua dei laurini di Napoli. In politica estera Fanfani è sembrato più esplicito e senza levitazioni: Atkzntismo, NATO, lealtà verso gli alleati, interessi nazionali da tutelare anche in Alto Adige (l'assenza degli altoatesini che significato ha?). La giustificazione del terremoto di palazzo Chigi non ci è sembrata soddisfacente; gli antichi dicevano: sit modus in rebus, ed è celebre il verso di Dante: «che il modo ancor m'offende)). Mi si dice che Fanfani usi modi bruschi anche con i ministri. Sarà per indole, sarà per ricordi pre-repubblicani: in democrazia è anche d'uso il galateo, ad eccezione, s'intende, dei comunisti, per i quali in Parlamento e forse altrove il galateo non esiste.

Dunque, la prima conclusione politica che Fanfani dovrebbe trarre dallo scampato pericolo è quella di rivedere la politica interna della DC. Egli ha fatto comprendere che fra qualche tempo, forse al congresso di Firenze, sarà risolto il problema della coesistenza nella stessa persona delle funzioni di Presidente del Consiglio dei Ministri e di Segretario Politico del partito di maggioranza relativa. Nei Paesi a vecchia democrazia, dove non esiste il voto segreto e non vi sono franchi tiratori, dove la personalità del deputato o del senatore è rispettata e non vi sono ordini di scuderia, né espulsioni con l'orologio alla mano, né apparati arroganti, né impiegati assurti all'onore della medaglietta, né personale statale che giudica in parlamento dei propri ministri; insomma nelle democrazie degne del nome, la compenetrazione delle due cariche è di uso, al punto che in Inghilterra l'essere capo del partito basta per le due cariche di Primo ministro del Gabinetto effettivo (maggioranza) e di capo del Gabinetto ombra (minoranza, o la più numerosa minoranza). Negli Stati Uniti d'America il presidente della Federazione è anche capo del partito. Ma si tratta di posto di rappresentanza, di indirizzo, di larga responsabilità; non posto di capo-ufficio che si intriga perfino della esistenza di un centro studi che dà noia ad una magra sezione locale o della nomina di un gestore della centrale del latte, e altre piccolezze del genere, nelle quali si confondono facilmente la posizione di altissime cariche politiche con gli intrighi di bassa corte. Intrighi ce ne saranno anche in Inghilterra - il partito laburista intriga in Italia e il partito conservatore intriga in Germania -; sono queste le pecche di un paese che storicamente ha sempre cercato servitori all'estero. Per altri fini l'America sostiene certi sindacalisti detti liberi e allo stesso tempo grossi affari sempre utili. Sono questi peccati grossi, e perciò nessuno ne parla; quelli di piazza del Gesù (e delle altre segreterie di partito) sarebbero in confronto dei pecadillos, che tuttavia dimostrano, nella loro piccolezza, un contenuto di intrighi, falsità, corruzione da preoccupare per il nostro awenire.


Togliatti ha sbagliato quando ha tirato le conseguenze paragonando i fatti di Sicilia con quelli di Roma. Ambedue hanno unica origine nella partitocrazia; ambedue affondano nel voto segreto (privilegio unico e non invidiabile del parlamento italiano); ma mentre i franchi tiratori della DC siciliana miravano a far cadere La Loggia per conto dei diversi gruppettini aspiranti ai posti di presidente e di assessori regionali, a Roma i franchi tiratori volevano solo usare del voto segreto per far fare a Fanfani e C. un riesame di coscienza, non solo per l'uso dei decreti legge non necessari, ma anche per un cambiamento di rotta. È ben noto che la Costituzione non obbliga il governo a dimettersi per la mancata approvazione di una legge; questo è anche il sistema inglese, a meno che esplicitamente non vi si metta la questione di fiducia. Fanfani volendo un voto di fiducia dopo lo scacco legislativo, ha fatto, in confronto dei franchi tiratori, una questione di prestigio; un giornale di Firenze ha messo a lettere cubitali il seguente titolo: Ilgoverno vuole sapere se la Camera intende o no lasciargli attuare il suoprogramma. Parole balorde: la Camera, come il Senato, approva i disegni di legge in piena libertà; non è legata alle proposte del governo altrimenti che per una cooperazione politica sempre libera e sempre, anche col voto contrario, fruttuosa. La conclusione che ne tira il paese è una: tanto lapartitocrazia quanto il parlamentarismo sono i nemici veri della democraziaparlamentaresulla quale è fondata la nostra Repubblica. Occorre, quindi, una revisione chiara e fattiva, non della Costituzione, che con tutti i suoi difetti regge alla prova, ma della posizione e della funzione dei partiti che all'interno sono corrosi dalle discordie e al di fuori cercano di sopraffare Governo e Parlamento. È chiaro: il voto del 6 dicembre non può restare fine a se stesso.

Il Giornale d'Italia, 9 dicembre 1958

Riforme necessarie Conchiudevo l'articolo precedente (Maggioranzae Governo) affermando che «il voto del 6 dicembre non può restare fine a se stesso». H o escluso qualsiasi riforma costituzionale, ma sono necessarie quelle riforme che leggi ordinarie, prassi politica, e anche morale, realizzano con una certa probabilità di riuscita. Occorre avere per guida l'occhio clinico del medico che cerca le cause del male e si guarda dal ((mettereil cerotto sopra una gamba di legno)). 11 problema capitale è quello di avere governi stabili con maggioranze consolidate: a questo fine, se non è applicabile a noi l'esempio di una Gran Bretagna che conta sette secoli di vita parlamentare, ce lo potrebbe dare la Germania, la quale come Stato a sistema parlamentare è giovane quanto l'Italia, avendo iniziato come noi la sua unificazione nel 1848 e come noi la compì nel 1870; come noi, ma su ben altro livello, provò le avventure monarchiche e imperiali, la dittatura paranoica, i disastri di guerra; oggi la Germania è emersa a nuova vita in chiara democrazia democristiana con la possibilità non certo auspicabile dell'alternativa socialdemocratica e in aperta e audace opposizione al comunismo interno ed esterno. Adenauer non ha maggioranze larghe e imbattibili; egli combatte, vince o perde localmente con la serenità del lottatore; non cede né a lusinghe né a minacce; ha fatto credito alla libertà, evita la demagogia; così ha rifatto una Germania la quale in certi settori politici ed economici perfino gareggia con l'Inghilterra e con la Francia. Non dico che tutto vada bene o vada liscio in Germania e neppure nella democrazia


cristiana tedesca; dico che il problema di una maggioranza è stato risolto con una legge elettorale complicata, è vero, ma seria e mantenendosi su una linea politica ferma; senza discutere per cinque anni sull'apertura a sinistra, l'unificazione socialista e simili passatempi dei democristiani iniziativisti o sinistri di casa nostra. Durante l'elaborazione e discussione della legge elettorale del 1953 basata sul premio di maggioranza, ebbi a scrivere più volte awertendo dell'errore che si faceva, sostenendo, è vero, il ritorno al collegio uninominale (che in Inghilterra e negli Stati Uniti funziona benissimo), ma proponendo quale subordinato un sistema di elezione per collegi uninominali con calcoli misti a base proporzionale; suppergiù quale è oggi il sistema dell'elezione del Senato senza certe disposizioni che ne falsano il carattere. Non solo non fui allora ascoltato, ma dopo il fallimento della cosiddetta «legge truffa» si ripiegò, per colpa o merito del quadripartito, sopra una proporzionale detta pura, che favorisce i piccoli partiti e per giunta favorisce la pullulazione di sempre nuovi partiti, frazionando quelli esistenti. I1 caso Olivetri, il tentativo del maresciallo Messe e il cosiddetto partito radicale ce ne danno l'indice per l'oggi e per I'awenire. Sono queste le cause prossime che rendono quasi impossibile la formazione di maggioranze stabili e di coalizioni di partiti «omogenei». E dire che l'omogeneità va scomparendo all'interno dei partiti; fra Pella e Donar Catrin (il quale ultimo vorrebbe una politica ccsocialista»sia pure come tendenza generica) non vi è nessun punto di contatto, non ostante che ambedue siano del Piemonte ed eletti nella stessa lista ed ambedue portino la qualifica politica di democratici-cristiani. Ma concesso che il minimo comune denominatore di cristiano unisca tutti gli appartenenti alla DC (come avviene per i tesserati degli altri partiti, liberali e socialisti compresi), sarà la lotta elettorale, saranno i voti di preferenza che ne disintegreranno l'amalgama, rompendo ogni vincolo di comunione politica, di disciplina di partito e perfino di amicizia personale. I1 gentiluomo, nel senso antico della parola, è una rara eccezione di fronte alla lotta fratricida: mors tua vita mea. Per tali deleteri effetti il sistema del voto preferenziale dovrebbe essere abolito essendo proprio questo alla radice della perpetua oscillazione dei partiti, della formazione delle correnti e del sinistrismo di ogni partito; eccitando lo spirito demagogico; facendo ricorrere alla corruzione elettorale la più insistente e sfacciata e quindi alla ricerca di milioni da buttare in bocca al cerbero dell'invidia, del corrivo, della sopraffazione, dell'insidia, nell'eccirazione dei più bassi istinti perfino in persone sotto altri aspetti rispettabilissime. Se a questo male si aggiunge quello delle larghe circoscrizioni elettorali, per cui il candidato è obbligato a girare quattro o cinque provincie, a farsi conoscere e parlare e promettere mari e monti in due o trecento centri abitati, correndo giorno e notte in automobile e spargendo con le sue mani grazie e con la sua bocca promesse, si arriva all'awilimento da un lato e all'eccitazione passionale dall'altro che deformano in non pochi il senso politico dello Stato, al punto che per cinque anni di legislatura solo i giorni della battaglia elettorale formano il parametro e la regola fissa di ogni aspirazione e azione. Non intendo esagerare; ci sono molti parlamentari equilibrati e degni del nome; ci sono centri elettorali che conservano tradizioni di serietà; ma tutti, eletti e bocciati, debbono per forza divenire conformisti, altrimenti perderebbero il traguardo elettorale oggi o domani. Da qui il deplorato fenomeno dei franchi tiratori e la difesa del voto segreto come salvaguardia di libertà. Un giornale del mattino fa risalire al 1953 la comparsa del franco tiratore in parlamento. È uno sbaglio; la Costituente fu il campo più fertile dell'uso e abuso del voto segreto per I'approvazione di proposte e articoli costituzionali (il colmo dell'impudenza) e generò la categoria dei franchi tiratori. Io attaccai in pieno il voto segreto, sostenendo che il nuovo parlamento dovesse abolirlo per l'approvazione di leggi e per voti che non fossero di

,


carattere personale. La DC ne prese l'iniziativa; fu battuta alla Camera e vinse al Senato solo a metà; infatti fra i due regolamenti esistono fin oggi disposizioni diverse l'una dall'altra. Fu allora che Benedetto Croce volle intervenire a difesa del voto segreto a nome della libertà personale del parlamentare; gli risposi con un articolo polemico del 9 giugno 1948. I1 voto segreto è un triste residuo francese, rimasto nel nostro regolamento camerale come privilegio esclusivamente italiano dopo l'abolizione fattane in tutti i parlamenti del mondo. Alla fine del 1958 siamo allo stesso punto, con lo stesso nobile privilegio, come se un deputato o un senatore italiano debba cercare il segreto per difendersi in regime parlamentare da un presunto nemico che possa offenderne l'indipendenza. Questo nemico c'è oggi ed è l'apparato del partito, che esige ubbidienza: perinde ac ladaver. Se i gesuiti sono ubbidienti per un voto fatto a Dio, i parlamentari lo sarebbero anche per il voto dato al diavolo; perché votando contro coscienza (sia o no per ordine di scuderia) fanno semplicemente torto alla propria personalità e libertà. I cristiani (siano o no democratici) sanno bene che tale torto è per essi un peccato, una macchia: politicamente è un atto contrario al dovere di servire il Paese; contrario all'impegno costituzionale di non ricevere alcuna limitazione al proprio mandato. Fino a che non si modifica la legge elettorale per arrivare a formare una maggioranza omogenea, sia di uno solo sia di più partiti coalizzati, il parlamento repubblicano andrà sempre perdendo quota sia nella pubblica estimazione dei cittadini sia nell'opinione estera, perché impotente ad esprimere da sé un governo che non abbia i giorni contati o che per reggersi non debba cedere ai ricatti dei collaboratori presenti o dei finti collaboratori futuri, nonché degli avversari apparenti che contrattano i voti con i favori, segreti i voti e segreti i favori. Le proposte riforme della legge elettorale della Camera, compresa la riduzione delle circoscrizioni troppo larghe, nonché l'abolizione del voto segreto per l'approvazione delle leggi, da sé basterebbero; ma oggi che il male della partitocrazia va incancrenendosi da sole non bastano. Occorrono altre riforme delle quali parlerò successivamente, nella speranza che oggi e non domani, il governo Fanfani o altro che sia, le voglia portare avanti con coraggio. Dico oggi e non domani, perché le modifiche quali quelle del sistema elettorale si fanno a principio di legislatura e non verso la fine, quando le posizioni consolidate dei parlamentari rendono difficile l'accettazione di mutamenti; l'ansia della lotta dà alle Camere morenti il nervosismo della imminente fine. Sarò ascoltato? Purtroppo nella mente dei dirigenti della politica attuale io assumo la figura dell'awersario che sferza e non del critico che coopera e neanche del medico che diagnosticando la malattia ne prescrive la cura.

IL Giornale dytalia, 12 dicembre 1958

Libertà moralità legalità dei partiti47 Finché il paese non arriva ad avere parametri adatti per configurare la finalità, il carattere, i limiti morali e legali all'attività libera del partito, non sarà possibile affrontare sul 47

Lettera del 17 dicembre 1958 all'Assistente Ecclesiasrico Centrale delle ACLI, mons. Santo Quadri: Rw. rno Monsignore,


serio il problema della partitocrazia. È questo oggi il problema centrale della nostra vira politica; siamo arrivati al punto estremo; o la chiarificazione nel quadro delle istituzioni vigenti o la decadenza del governo e del parlamento. Abbiamo bisogno di sapere con urgenza se c'è un governo ovvero un direttori0 responsabile; se è il parlamento a legiferare ovvero i direttivi dei partiti a imporre la loro volontà al parlamento. Dippiù: vogliamo sapere se il denaro pubblico può essere distratto per finanziare partiti, gruppi affiancatori e giornali di partito; se esiste l'impunità per gli amministratori di enti statali in quanto esponenti di partiro o di gruppo, e non più come gestori del pubblico denaro del quale non possa farsi man bassa. Infine, è necessario renderci conto se sia ammissibile per un governo durare nell'equivoco di una finta maggioranza in attesa del voto di un partito awersario come quello di Nenni, il quale gioca all'autonomia fingendo una separazione dai comunisti che non gli è affatto possibile. Ebbene, il mio modesto disegno di legge n. 124 ((Disposizioniriguardanti ipartitipolitici e i candidati alle elezionipolitiche e amministrativm è stato accolto dagli organi ufficiali dei partiti col silenzio e con I'accerchiamento ostile, decisi come sono a insabbiarlo. Chi ne ha parlato favorevolmente più volte è stato il prof. Maranini, preside della facoltà di scienze politiche all'università di Firenze, costituzionalista e polemista ben noto. Egli sulla Nazione e su Tempo Presente, pur rilevando che il disegno di legge non affronta il problema dei partiti nella sua imponenza e integrità, riconosce la serietà dell'iniziativa per una regolamentazione che non può tardare. I1 prof. I.M. Sacco (Lytaliano) e I'on. D'Arnbrosio (Politica Popolare) sono consenzienti al mio punto di vista; il primo aveva già esaminato il problema su Papne Liberp, Mammuccari su Via Roma, ampliando le tesi pro e contro l'azione dei parciti, conchiude trattarsi di un problema sociologico e non giuridico, dimenticando che le leggi hanno duplice funzione, quella di sanzionare i farri sociali e quella di determinare o catalizzare la maturazione di stati d'animo ancora non concretizzati. Se la vera sociologia è quella che studia la società in concreto, non può essere isolabile da essa uno dei fattori di maggiore efficienza quale è la giuridicità che in molti casi integra e garantisce la moralità delle attività umane. Alfredo Pieroni, sulla Gazzetta del Popolodi Torino esamina il mio disegno di legge che ritiene degno di studio; fra le varie obiezioni ch'egli formula mette avanti i pretesi vantaggi che la mia iniziativa offrirebbe al partito socialcomunista, specialn~entecon la disposizione che ai partiti è stata data facoltà di possedere beni in nome proprio e trarre dagli investimenti i mezzi necessari, cosa, egli dice, che gli altri partiti non hanno mai curato. Ma le leggi non si fanno su misura; pensino gli altri partiti a non sperperare il denaro e a utilizzarlo in impieghi redditizi; è affare loro. Per quanto riguarda i comunisti, è molro meglio che si sappiano col nome e cognome quante e quali siano le aziende che essi posseggono e gestiscono, spesso a mezzo di utili idioti e di parassiti camuffati per nascondere la Facendo seguito alla sua teleforiata di ieri sera, mi premuro assicurarla che sarb disposto a rertificare la mia affermazione che le Acli arringono finanziamenti dallo Stato (non ho derro IRi né ENI per quanro questi due enri siano srarali e di diritto pubblico), se lei nii farà avere una chiara affermazione da dove le Acli rraggono i finanziamenri; meglio, se sia sraro pubblicato qualche rendiconto annuale in merito che lei porrebbe inviarmi. A mia giusrificazione le confermo quanro le accennai a telefono che al rempo della presidenza dell'on. Srorchi ebbi chiare norizie di finanziamenri farti alle Acli dal Ministro del Lavoro. La frase alla quale mi riferisco con indicazioni patricolareggiare rimonta al tempo di uno dei ministeri De Gasperi. Deferenti saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 486, fasc. *Fascicoli Sciolrin, 1958.


realtà dei loro traffici. A proposito, come è andata a finire la denunzia fatta in piena Camera dal ministro Andreotti circa le imprese bancarie dei comunisti emiliani? E le affersocialcomunisra in Emilia, da lui definita mazioni del deputato Elkan ~ull'or~anizzazione una specie di Stato nello Stato? Forse vi è solo Giuffrè in Italia? Non arriveremo mai a sapere per quali vie I'on. Mattei riesca a finanziare giornali e partiti e correnti di partiti e gruppi (di sinistra, s'intende), quelli che rendono dei notevoli servigi a tutti i Nenni del PSI e per rimbalzo o sottomano a Mosca e agli amici di Mosca? Ai nostri partiti e ai gruppi che li affiancano (sindacati compresi) i milioni vengono da tre fonti: gli industriali del Centro e del Nord, gli enti pubblici, i gruppi sindacali e altre agenzie americane. Sfido chiunque a sapermi dire quali delle tre categorie di donatori siano disinteressati, miranti al bene esclusivo dell'Italia. È da notare che gli industriali (in singolo o per associazioni) han dato spesso a tutti i partiti e gruppi anche quelli &]iati a Mosca e premiati da Stalin, come Nenni; quelli che hanno approvato per bocca di Togliarti o di Pajetta la repressione russa in Ungheria e in Polonia; si tramerà forse di polizza di assicurazione sulla vita. Nel manuale Il delegato-formazione delle ACLI ( 1 957) a pagina 445 si legge: Noi siamo anticomunisti mn nessuno potrà dirci venduti all2merica. Le ACLI, dunque, non hanno avuto e non hanno fondi americani, come la CISL con la quale sono legati a fil doppio. Dovendo fare la scelta del finanziatore delle ACLI, si oscilla fra enti statali e industriali. Siccome a pagina seguente il ((delegato-formazione))dichiara che le ACLI non sono ((capitalisti)), ne consegue che esse attingono alle sorgenti statali e parastatali. Infatti è provata da tempo la fede dei dirigenti, scrittori e istruttori delle ACLI nello statalismo; Mussolini con il suo ((tuttodallo Stato)) fece scuola. Poiché io non sono statalista, né capitalista, né americano, ma italiano di origine siciliana, sostengo che i partiti e le organizzazioni parapartitiche come le ACLI (non quelle del 1946 ma quelle del '57 e come certi adirti del ((Rinnovamento))1958), così ho proposto nel mio disegno di legge che i partiti e i candidati (aclisti compresi)) non possano accettare offerte dall'estero, né dagli industriali e agricoltori e commercianti e nemmeno dail'ENI, dall'IRI e altri enti statali, parastatali, regionali, provinciali, comunali, di diritto pubblico e assimilati. Si dice: i comunisti ricevono somme dalla Russia; se è così, e se i comunisti violano le leggi attuali o violeranno la legge Sturzo (se passerà) sono da deferire al potere giudiziario. Se essi faranno le cose tanto abilmente da non essere scoperti, sarà da vedere se ciò awiene per mancata sorveglianza, o per la chiusura di un occhio o di tutti e due, o per colpa della società che non saprà difendersi, come si difendono la Svizzera e la Germania. Se è vero che ((fatrala legge, trovato l'inganno)), la regola vale per tutti i partiti e non solamente per i comunisti; ma ciò ammesso, il mio disegno di legge, se non altro, avrà il merito di affermare una responsabilità legale e penale che fin oggi non esiste. Qualche senatore ha detto che tale legge se approvata sarà inapplicabile, perché fra noi nessuno la osserverà. L'organo della DC ha pubblicato un articolo mostrando come la legge esistente in materia negli Stati Uniti d'America non è osservata; l'articolista non si è reso conto che un paese che può darsi il lusso di pubblicare un bel volume di notizie elencando con nome e cognome tutte le spese elettorali, i finanziatori e i finanziati, compresi marito, moglie, figli e bambini e servi e servette (vedere l'importante articolo del Commonweal del 31 ottobre: Money and Politics), è già immunizzato in partenza dagli effetti dell'imrnoralità così apertamente colpita. Chi vuole denunziare i fatti ali'autorità giudiziaria, nel caso di violazione di legge, ne ha gl'indici con i dati e i nomi. A me basterebbe che si sapesse quanto han dato ~Matteie C., quanto I'IRI e quanto il sen. Guglietmone, quanto i grandi industriali, da Pirelli e da Bastogi in giù, quanto le ban-


che di Stato. Io penso che come dopo l'abolizione del voto segreto nessuno più avrà il gusto di fare il franco tiratore e paleserà (se lo crede) la propria opposizione al Governo, con immenso vantaggio della sincerità e lealtà politica; così dopo la legge che prescrive il deposito dei resoconti di entrata e spesa dei partiti e dei candidati, le aberrazioni attuali diminuiranno e si essiccheranno certe fonti dei miliardi mal dati e male spesi. Non vengano i DC a citare contro di me l'opinione dei giuristi cattolici riuniti a convegno nei giorni scorsi. Costoro, pur accennandolo, non esaminarono il mio disegno di legge (come io speravo), né si pronunziarono sui problemi da me posti. La loro posizione de jure condito (e non dejure condendo) è stata la più comoda; se le mie informazioni sono esatte, anche la più conformista. Attendo con una certa curiosità di leggere su Justitia le relazioni che non furono distribuite neppure in sunto, nonché il resoconto del convegno, non potendo dar completo credito alle voci a me pervenute sugli avvertimenti dati dagli esponenti della DC che presiedevano le adunanze. Ora la parola è al Senato.

Il Giornale dytalia, 16 dicembre 1958

Così Wilhelm Roepke definisce lo stato della nostra circolazione economica nella lettera de11'8 di questo mese che il Giornale d'ltalia ha riportato da Via Aperta, lettera che dovrebbe fare molto pensare i dirigenti della nostra politica e anche i privati operatori. 11 paragone fra la Germania e l'ltalia è owio e viene sulle labbra di tutti; Roepke prende per indice la disoccupazione post-bellica; la Germania, nonostante circa quattro milioni di ri-

4X Diamo il testo della lettera dell'economisra e sociologo Wilhelm Roepke indirizzata al direttore di d via Aperta*, Angelo Dalle Molle: Caro Signore, che avete H o letto con molto interesse e profitto l'articolo su ((Lostatalismo fonte della disoc~u~aziones scritto nella vostra eccellente rivista *Via Aperta,,. Esso mi ha suggerito alcune riflessioni che mi permetto di comunicarvi qui appresso. Per meglio comprendere la persistente disoccupazione in Italia, un confronto con la Germania è, infatti utile. Per alcuni anni la Germania ha sofferto come l'Italia del flagello della disoccupazione, malgrado l'enorme espansione dell'economia nazionale. Per spie are questo curioso parallelismo, si sarebbe potuto credere che, nei due Paesi, vi era una pressione fuori del 'ordinario sul mercato del lavoro causata, in Germania, dai profughi e, in Italia, dall'aumento naturale della popolazione. Ma da molto tempo il parallelismo non esiste più. Mentre in Germania l'fiuenza dei profughi continua ininterrotta, la disoccupazione è praticamente scomparsa. Invece in Italia non cessa di preoccupare e ciò in condizioni ben lontane dalla depressione e dalla deflazione. Allora bisogna ricercarne la causa là dove esiste la grande differenza tra i due Paesi. Non v'ha dubbio alcuno che è soprattutto l'enorme espansione dello sratalismo che distin ue I'ltalia dalla Germania. È facile comprendere che quesro settore (dello statalismo). con le sue tendenze monopolio e di dirigismo, blocca gran parte della produzione nazionale, frena il dinamismo dell'iniziativa e della concorrenza necessarie per creare posti di lavoro e, assorbendo una gran parte del risparmio nazionale in maniera parassiraria, vieta all'iniziativa privata di svilupparsi. Questo settore (lo statalismo) agisce come un infarto colossale della circolazione economica del Paese. Vo liare gradire, caro signore, l'espressione dei miei devoti sentimenti. wifhehn Roepke.

f'

8:


fugiati dall'Est, è riuscita ad eliminarla; l'Italia, nonostante l'emigrazione permanente e temporanea e la contrazione delle nascite (fenomeno nuovo per noi), non è riuscita ad eliminarla. Superato il primo periodo del dopo guerra, la disoccupazione, con temporanee inflessioni, è rimasta più o meno allo stesso livello, nonostante l'emigrazione di circa due milioni di persone in dieci anni, coprendo così quasi I'intiero numero delle nuove leve di lavoro, e nonostante un aumento del reddito netto globale da 5.620 miliardi a 13.470 miliardi ( 1 947-1 957), cifre queste calcolate ai prezzi correnti. Il punto nero, individuato da Roepke, sta proprio nella circolazione dell'economia; vi sono vasi ostruiti e quindi zone o paralizzate o di poca capacità di assorbimento. Questo fenomeno, che potrebbe venire, in radice, dalla coesistenza di zone progredite e larghe, anzi larghissime, e zone depresse, deriva ancora di più da un cieco statalismo che tende a bloccare l'iniziativa privata ed è ostacolo a nuove attività produttive. Prendiamo i dati di impiego di mano d'opera in rapporto ai mezzi finanziari; questi vanno per il 49 per cento (e qualche frazione) alle aziende a partecipazione o a totalità statale, mentre il 50 e frazione per cento alle aziende private; cifra tonda: 49-51. Al contrario, l'occupazione operaia delle aziende a partecipazione statale è, in cifra tonda, di 300 mila unità, mentre la occupazione operaia privata arriva a sette milioni di unità. D a queste cifre assai semplici ed evidenti si vede chiaro come gli enti statali, in rapporto al 49 per cento di mezzi finanziari ottenuti, avrebbero dovuto assorbire un maggior numero di lavoratori che non siano i 300 mila dell'oggi, mentre purtroppo sottraggono all'industria privata mezzi finanziari che sarebbero sufficienti, in regime libero, ad assorbire la persistente disoccupazione e a migliorare le condizioni delle zone sottoccupate. La controprova di quanto affermano è data proprio dal piano Vanoni, il quale contando, senza dirlo espressamente, sull'iniziativa privata, prevedeva un investimento medio di cinque milioni di lire per ogni nuovo posto di lavoro, mentre in base al recente piano quadriennale dell'IRI è previsto l'investimento necessario di quaranta milioni di lire per ogni nuovo posto di lavoro; enorme, ma è così. E qui occorre mettere a confronto questi con altri dati assai più preoccupanti. Le imprese statali non trovano il proprio finanziamento nell'aumento della produzione e nella disponibilità dei profitti da reimpiegare; li ottengono col favore statale a mezzo di prestiti obbligazionari o direttamente dalle banche (quasi tutte di carattere statale o di diritto pubblico) e in così larga misura da arrivare a11'80 per cento della spesa, mentre l'altro 20 per cento viene loro dagli autofinanziamenti e dai concorsi statali gravanti sul bilancio; questi ultimi gratuitamente perché messi a carico del contribuente. Non tengo conto del costo del denaro per finanziamento degli enti statali certo meno alto di quello che si usa con le piccole e medie industrie che rappresentano la maggioranza degli operatori privati e per numero e per produzione. A questo inconveniente bisogna aggiungere la graduale svalutazione monetaria, tutta a danno del privato che è indotto a prestare somme ingenti ad enti statali da una pubblicità fastosa e ingannevole, dalla garanzia dello Stato, accordata troppo facilmente e dall'azione delle banche - statali anch'esse o di diritto pubblico - le quali acquistano titoli di prestito e poi li appioppano ai propri depositanti e clienti. I1 debito statale e parastatale è divenuto onerosissimo per il cittadino che affida allo Stato e agli enti statali i propri risparmi, e poi, a distanza di tempo li vede ridotti !gradualmente per via dell'inflazione che piglia senz'altro la figura di confisca insensibile e fatale. Questo fatto dovrebbe incitare il cittadino a non acquistare certificati obbligazionari, né a depositare i propri risparmi per lungo tempo nelle banche o casse, ma cercare di impiegarli nell'industria, nell'agricoltura e nei commerci. È vero che il privato è scoraggiato e le piccole e


le medie imprese vivacchiano; le grandi imprese per conto loro cercano aiuti politici e favori statali per superare le crisi e non essere costrette a licenziare personale, mentre i sindacati chiedono aumenti di salari, applicazione di scale mobili, diminuzione di ore di lavoro e così di seguito. A proposito, l'esempio della classe operaia svizzera, che rifiuta la diminuzione di quattro ore di lavoro la settimana con parità di paga e riconosce più utile e più economico mantenere le 48 ore normali senza chiedere aumenti, non ha nessuna ripercussione in Italia, perché qui la vita è allegra; tutti spendono, anche per tabacchi e per cinematografi; la campagna va perdendo braccia per I'inurbamento della classe lavoratrice; molti sperano nel lotto e nell'enalotto; molti accettano i cantieri di lavoro perché in tali cantieri si lavora poco o nulla; la società va perdendo il senso di orientamento verso i metodi atti a superare la crisi che incombe. È vero; le monete vanno perdendo quota. Nel decennio 1947-57 il dollaro ha perduto il 20 per cento; il marco tedesco il 25; la lira italiana il 39; la sterlina il 43 e il franco francese il 50 per cento. L'impressione che tutte le monete sono stabili, compresa la nostra, viene da1 fatto che tutte le monete sono mobili e che i cambi sono fissi, così per un dollaro noi diamo tuttora le solite lire 624, pur avendo il dollaro perduto quasi il doppio e la lira il quadruplo. Se consideriamo poi la precedente svalutazione della nostra liretta, quella arbitraria e ingiustificata del periodo bellico, prima a 100, poi a 300, infine a 625, la nostra svalutazione è stata addirittura enorme, con danno delle famiglie viventi di piccola rendita, di pensioni minime, di reddito ridotto. Dall'altro lato, i blocchi di fitti urbani e rurali, il crescente gravame fiscale, l'aumento impensato e irreparabile del personale irnpiegatizio statale, parastatale e locale, e relative sperequazioni irragionevoli, hanno danneggiato le classi medie a reddito limitato, sì da creare nuovo insanabile dislivello fra piccole classi medie e le classi fra loro antagoniste degli operatori e degli operai. Questo fatto spinge alla spesa più che al risparmio; crea un risparmio che non viene impiegato e che, depositato in banca, mentre frutta un interesse perde valore per la svalutazione monetaria e per la palla di neve dei prezzi e dei salari che aumenta senza limite. Lenin scriveva: «Se volete scardinare un sistema economico sottoponetelo a un lungo periodo di inflazione», e altrove: ((Unalunga - inflazione vale più di una rivoluzione>,.Se ne sono accorti i nostri finanzieri? Gli uomini politici? La nostra classe dirigente? Gli amministratori dei mille enti statali, IRI, ENI, INA compresi? E i direttori dei ministeri dell'agricoltura, dell'industria, delle partecipazioni, del commercio? E i capi della Cisl, delle Acli e dei partiti politici? Fanno eccezione i socialcomunisti perché questi ultimi hanno buona memoria e ricordano le massime di Lenin e le applicano o meglio le fanno applicare dagli utili idioti della classe dirigente italiana, partiti e sindacati compresi. E allora che bisogno c'è di aspettare Nenni con le braccia aperte come sembrano fare giornalisti orecchianti e parlamentari seccati deifianchi tiratorz? Lo infarto colossale esiste e produce i suoi deleteri effetti nel corpo della nostra Italia; i socialcomunisti ne saranno contenti.

..

.

/I GiornakdYtalia, 20 dicembre 1958

L'autonomia dei partiti e il gatto di Clasio Da un certo tempo Analisi eProspettiue- rivista bimestrale di studi democratici - richiama l'attenzione perché invece delle iniziali (come era solita) mette il nome e cognome degli arti-


colisti. Cosl sono stato invogliato, anche dal corsivo «Editoriale»messo in cima alla prima pagina, a leggere lo scritto di Fabrizio Schneider nel fascicolo 5" (settembre-ottobre 1958). Questi avanza la proposta di un esame ccscientifico»non solo ad alto livello ma anche sul piano sezionale della DC e durante la preparazione del settimo congresso nazionale (Firenze, aprile 1959) sul carattere e i limiti dell'autonomia del proprio partito dalla Chiesa, dal governo e dai sindacati. Egli cita i precedenti del periodo degasperiano e fa notare la delicatezza ma anche la necessità di una (come dire?) chiarifcazione (è la parola corrente). Trovo anzitutto da rilevare una grave omissione, quella di non parlare affatto dell'autonornia finanziaria di un partito, elemento fondamentale per ogni reale autonomia. È vero che la DC pur avendo miliardi dagli industriali, ha seguito una politica accentuatamente statalista; ma non è detto che non abbia ceduto qua e là secondo le opportunità particolari, al divide et impera. E vero anche che la DC, avendo avuto somme da enti statali, merita l'accusa di non avere mai voluto scandagliare il metodo amministrativo di molti di tali enti; il che giustifica la mia campagna, specialmente contro Mattei, ingegnere honoris causa: Bononia docet. Questa mancata autonomia finanziaria della DC (e di tutti i partiti italiani) porta i suoi effetti proprio all'interno di ogni partito fomentandone il frazionamento. L'istinto antigregario e individualista dei latini è reso acuto dalla possibilità di trovare pronto un portafoglio con milioni dentro per i vantaggi che sono sperati dai finanziatori sia in campo politico che in quello economico. Subito viene fuori un giornale o un giornalino; una rivista o una rivistina; agenzie di stampa molte di sinistra e parecchie di destra. Ce n'è per tutti i gusti e per tutte le frazioni. Sarà possibile con tale premessa poter mantenere un partito autonomo dalla Chiesa, dal Governo e dai sindacati? Non basta. L'affare del tesseramento è altro scoglio per l'autonomia di un partito. Durante l'ultimo congresso della socialdemocrazia tenuto a Milano, quell'ala sinistra mostrò di possedere un'organizzazione mai vista in antecedenza, con automobili a disposizione, fogli volanti, persone non del partito che si affaccendavano per le candidature di questo o di quello; nell'interno pareva di sentire odore di gasolio e di metano. Quel che si disse del congresso di Milano, si disse di un altro congresso (PSI) a Venezia, e fu detto la prima volta a Napoli (DC) nel '54, dove odore di metano e di grano si alternavano sensibilmente; addio autonomia del partito e relative frazioni, correnti e gruppi. Che meraviglia? Non è forse il tesseramento dei partiti, di tutti i partiti, una specie di borsa valori? I favoriti acquistano le tessere pagandole anticipatamente; poi ne distribuiscono un certo numero agli amici di corrente; gli altri stanno a guardare, ad eccezione dei pih noti anche se ostili all'apparato per una certa precauzione; ma la maggioranza è bella e preformata dagli incettatori, vi sia o no l'intervento petrolifero e metaniero o di altra sostanza vischiosa. L'autonomia del partito? Non si vede dove resti. A me sembra che in Italia non esistano partiti per i quali la Costituzione vuole che concorrano «con metodo democratico a determinare la politica nazionale)), nonostante il parere favorevole dei giuristi cattolici. E allora? Autonomia dalla Chiesa per il partito che conta sui voti dell'azione cattolica?Autonomia dal governo, per i partiti che si ingeriscono nell'amministrazione dello Stato? Autonomia dai sindacati, per i partiti che ne accettano la partecipazione e i voti? Sono problemi insolubili anzitutto perché non si sono studiati i caratteri dell'autonomia degli altri: quella dell'azione cattolica, quella del governo statale e anche quella dei movimenti sindacali di categoria. Non è e non può essere in causa l'autonomia della Chiesa in confronto al partito o allo Stato perché la Chiesa è autonoma per sé ed è la Chiesa di tutti, anche di coloro che non


sono della D C . La dipendenza dei cattolici di tutto il mondo dalla Chiesa è uguale per tutti, anche quella dei cattolici italiani; nessun partito può pretendere di essere espressione della Chiesa; tutti i cattolici (non i partiti come tali) ne sono i naturali difensori, secondo i posti che ciascuno occupa nella vita sociale, economica e politica di ogni - Stato. 11 Governo, qualsiasi governo, è e deve essere al di sopra dei partiti, anche se la sua esistenza sia condizionata dai partiti non direttamente ma a mezzo dell'elettorato che costituirà le Camere. La partitocrazia ha snaturato questo rapporto, ha svalutato il Parlamento, ha cercato di soverchiare il Governo. La partitocrazia è il terribile baco che corrode qualsiasi democrazia parlamentare. Di questo passo, noi radicalizzeremo la vita pubblica o a destra o a sinistra; fino all'estrema sinistra. Quel giorno non sarà la DC come tale a pagarne lo scotto; quel giorno saranno calpestati i valori religiosi, morali e nazionali più cari al nostro paese e legati alla nostra stessa esistenza. I sindacati operai sono in Italia politicamente autonomi? No; rappresentano tutto il paese? No. Tali associazioni sono espressione di categorie, rappresentano interessi particolari, legittimi fino al punto dove la legittimità arriva e dove arriva il senso del limite e il senso della responsabilità di ogni particolare raggruppamento. I sindacati oggi condizionano i partiti di massa; e quei partiti che non si aggrappano a organizzazioni sindacali sono frazioni di borghesia e di ceti medi, i quali in tanto esistono in quanto le elezioni sono fatte a base proporzionale pura. I sindacati, espressione particolarista di attività economiche, condizionano i partiti, espressione generica di indirizzo e di metodo politico. Ecco perché i partiti non hanno avuto il coraggio di regolare gli scioperi, secondo il precetto della Costituzione; non hanno la forza di impedire aumenti inconsulti di salari e di scale mobili, e fanno una politica demagogica, perché legati ad un condizionamento operaio attraverso il quale sperano di mantenersi al governo ( D C e PSDI) o di conquistarlo fra poco (PSI e PCI). È vero che i deputati sindacalisti (aclisti compresi) quando compongono le frazioni di partiti come Forze nuove o Base o Rinnovamento o Iniziativa, dichiarano di non rappresentare la categoria o il sindacato o I'associazione, ma il partito o il paese addirittura; mentre quando fanno gli scioperi o affermano di volere l'unità sindacale (apertura a sinistra) o i cambiamenti di struttura (la statizzazione dell'economia), allora sono sindacalisti o aclisti. Così fece il gatto di Clasio. Aveva acchiappato il canarino della padrona e fu acremente punito del malfatto: fece allora voto di non mangiare più uccelli; purtroppo, gli capitò poco dopo un pipistrello; lo guardò, l'osservò e decise di mangiarselo ((comeuccello non già, ma come topo)). E il poeta osserva: Così con dottoral temperamento soddisfé l flppetito e ilgiuramento. I parlamentari di oggi non giurano più, ma la Costituzione dice che ciascuno di essi rappresenta la nazione. Difatti in Parlamento essi dicono di rappresentare la nazione ma difendono la categoria; nei comizi sindacali difendono la categoria ma sono eletti quali deputati e senatori della nazione: ((comeuccello non già, ma come topo», sempre così. Quella che manca a partiti e a sindacati, a Governo e a Parlamento è proprio l'autonomia, anche perché il partito socialcomunista condiziona la politica e l'economia italiana.

Post scriptum - I dirigenti delle Acli mi hanno invitato a prendere atto che la loro associazione non è finanziata dallo Stato né da enti statali; hanno chiarito, in un articolo di don Busetti su L'Ero di Bergamo, che i concorsi del Ministero del Lavoro per l'assistenza e la qualificazione dei lavoratori non possono essere ritenuti finanziamento. Questi nega anche che le Acli possano assimilarsi, per i fini statutari che hanno, ad un partito (per il resto sono i soci o altri non identificati a concorrere alle spese delle Acli); che queste non sono


partito né sindacato, quindi non debbono entrare nella categoria di quegli enti per i quali io (Don Sturzo) chiedo i resoconti pubblici delle entrate e delle spese. Nel prendere atto debbo aggiungere che la mia citazione aveva una intenzionalità che superava il semplice problema del finanziamento dello Stato (che di fatto esiste anche se limitato a quello del Ministero del Lavoro); e ciò per l'affermazione da me citata ((nessunopotrà dirci che siamo venduti allltlmerica), la quale suppone la corrispondente affermazione che ci siano italiani ai quali potrà dirsi di essere venduti all'America; e anche la terza che ci sia un'America che compri italiani a suo vantaggio; cose tutte da lasciare ai socialcomunisti. Citai anche la seconda risposta: «nessunopotrà dirci capitalisti»;perché fa supporre che per le Acli I'uso della parola capitalisti sia identico a quello dei marxisti; mentre in economia ogni risparmio che si reimpiega è un capitale. Vedere il mio articolo U n colossale infarto dove ho dimostrato che il capitale reimpiegato è quello che frutta a vantaggio del paese (e quindi degli operai), mentre i prestiti obbligazionari dei quali normalmente si giovano gli enti statali non sono capitale ma solo risparmio privato senza destinazione, che usato sistematicamente determina - come da noi - l'inflazione monetaria. Ma di questo e altro parlerò in seguito.

Il Giornale ditalia, 24 dicembre 1958

Messaggio di Sturzo al Sindaco di iMessina4' Nel cinquantesimo del 28 dicembre 1908 mi trovo con lo spirito presente fra voi, nella riaffermazione della vitalità e prosperità di Messina, rasa al suolo e risorta; la Messina delle glorie antiche e delle moderne, laboriosa, gentile, prospera, pur nelle difficoltà; alla Messina cui tutta la Nazione volge il pensiero e l'affetto insieme alla consorella Reggio e ai villaggi che fiancheggiano lo Stretto, inghiottiti in pochi secondi dal tragico terremoto. È bene che Messina si raccolga insieme, nella preghiera all'onnipotente e nella affermazione della propria vitalità civica, regionale, nazionale, facendo un bilancio di quel che si è fatto e di quel che rimane a fare. La nuova Messina rinata sulla stessa terra che la inghiottì, affacciata sullo stesso mare che si commosse, sotto lo stesso cielo che la abbella, deve, come tutte le cose che rinascono e vivono, superare ancora molte difficoltà che il tempo frappone alla completa sua vitalità; deve vincere le remore e curare le cancrene; essere quella che il progresso generale dei Paesi civili impone: città marinara nel centro del Mediterraneo, fra comunicazioni obbligate per mare e per terra, di zone fertili e promettenti e di traffici in notevole sviluppo, verso sbocchi commerciali di sempre crescenti esigenze. Messina è anche più di questo; città di tradizioni culturali e artistiche, di vitalità religiosa e politica, ha motivo di volere dalla Regione e dalla Nazione quel rinnovato apporto di solidarietà che è riconosciuto indispensabile al suo awenire. A questo awenire io mi associo come italiano nella solidarietà nazionale e come siciliano per la rinascita della nostra Isola; e anche come messinese, per l'onore fattomi di essere annoverato fra i cittadini «adpersonam,,.

49

I1 sindaco di Messina era I'on. Michelangelo Trimarchi.


Con questi sentimenti invoco gli aiuti dal Cielo e la protezione della santissima Vergine della Lettera, protettrice di Messina.

Il Giornale di Sicilia, 28 dicembre 1958

Speranze e auguri Fra Natale e Capodanno gli auguri corrono il mondo con ritmo accelerato, con doni e ricordi, con telegrammi e telefonate: pare che non si abbia altro pensiero che quello della fiatellanza, del ricordo di persone care, di omaggi a personaggi influenti, rinverdimento di vecchie relazioni che sembravano estinte, ripresa di un passato che per qualche giorno ritorna presente. Potrebbe dirsi il trionfo della speranza in un mondo che pare l'abbia perduta; un soffio di rinnovamento che ci fa dimenticare i mali presenti per un migliore awenire; proprio perché l'inizio dell'inverno richiama al pensiero la prossima primavera; la viola mammola del febbraio che annunzia i giacinti del marzo; il mandorlo fiorito che prepara il dono del suo frutto come il pesco del suo. Tutto è vivificato dalla speranza: anche quella dello studente che spera superare l'esame a febbraio; del venditore che spera nella maggiore richiesta del cliente; dell'agricoltore che attende la maturazione dai campi e dai giardini; dell'industriale per la vendita dei prodorti; dell'operaio per l'aumento del salario. Così tutti, nessuno escluso; speranze umane, mondane e speranze spirituali e cristiane si intrecciano nel nostro cuore, ora agitandolo, ora disseccandolo in una vicenda continua. Perché awengono i suicidi? Perché in un determinato momento della vita è mancata la speranza a sorreggere colui che si sente affranto dalle avversità; perché si ingrandiscono le perdite del momento al punto di non reputare che la vita abbia un valore. Così, il deluso in amore; lo studente bocciato agli esami; la figliola cui fu negato il permesso del ballo. Come spiegare siffatta tristizia contro se stessi (la cronaca ne sottolinea le frequenze) se non come una disintegrazione della personalità umana, il cui complesso cede al piccolo fallimento ingigantito al punto di cercare nella morte violenta una soluzione?Vi concorreranno le crisi di nervi, l'educazione fisica e psichica malcurata, gli eccitamenti sensuali, la visione incon~pleta della vita; per tanto resta ancora un margine umano non facilmente superabile, tranne che per una passione, quella che avrà portato verso il suicidio per eccitabiliti, autosuggestione, mimetismo così da far venire meno il senso del dovere verso se stessi e verso gli altri nel piccolo o grande sacrificio accettato con rassegnazione o con fortezza.

Alla base di tutto ciò sta il processo di disintegrazione dell'io: la personalità umana esaltata dal razionalismo venne concepita senza alcun legame con un assoluto soprannaturale, il Dio dei cristiani, la Prowidenza, il destino futuro di un'anima immortale. E ancora: l'esaltazione della sola ragione umana venne presto meno per i soffi gelidi del naturalismo e dell'agnosticismo. L'uno e l'altro portarono la cultura moderna verso un relativismo immanentista sempre più accentuato, a rimediare il quale non valsero le filosofie dell'idea che si realizza nell'atto, né quelle dell'esistenza, anzi dell'esistenza bruta, unica realtà apprezzabile. La disintegrazione umana oggi prevale nell'orientamento culturale e artistico, il quale


in termini estetici rivela nel campo figurativo e musicale, quella mancanza di sintesi, la quale anche nell'arte non può non essere razionale e orientata verso la concezione dell'assoluto. Donde può venire la speranza se non dalla sua intrinseca ragionevolezza?E dove può fermarsi la speranza se non in un assoluto come termine di ogni realtà?Ecco: l'attimo passa; questo è sempre misto di godimento e di delusione; il godimento con il cessare genera la delusione; il superamento della delusione diviene un godimento; l'uno e l'altro nella successione dei momenti si perdono, mentre viva rimane la speranza. Senza questa, né i grandi artisti né i sommi poeti avrebbero potuto far nulla; nulla i grandi inventori, i realizzatori di riforme, i benefattori dell'umanità; nuila nel mondo di quanto grande, insigne, degno di ricordo; non esisterebbe né il passato né l'avvenire: l'uomo perderebbe il senso della propria personalità e realrà nell'attimo presente distaccato dal suo passato e non più ancorato al suo avvenire. Se a qualsiasi deviazione tuttora la speranza soprawive è proprio perché la maggioranza degli uomini, pur con molti difetti, è sana e sa che la speranza non manca di realizzarsi; che le delusioni, se sopportate in pace, generano idee nuove, iniziative audaci, impegni sempre maggiori. Oggi il ramo della tecnica ha preso il soprawento; ma è da awertire che i bisogni di una civiltà industriale sono molto maggiori di quelli di una civiltà prevalentemente umanistica. Ciò non esclude, anzi presuppone e include, l'esistenza di una cultura umanistica sintetizzante, che contribuisca ad evitare deviazioni fomentate da ideali antiumani nell'abbandono e quasi disprezzo dei valori etici; quella cultura che neutralizzi gli effetti della disintegrazione. Ma se ciò avvenisse, verrebbe a determinarsi una vera confusione di idee; inadeguatezza di linguaggio; incertezza di finalità consociate; deviazioni delle volontà umane conviventi insieme; lotta senza superamenti; dal suicidio individuale per disintegrazione psichica, si arriverebbe al suicidio della convivenza per disintegrazione sociale.

Nel campo politico, la speranza ha speciale funzione, quella di mantenere le forze antagoniste in perpetua efficienza. Se queste venissero a mancare, anche in un solo settore, gli effetti di disgregazione sarebbero immediati ed irrimediabili. Nei paesi dove prevale l'autorità accentrata in una persona, è questa che sintetizza le forze atte a mantenere l'unificazione politica; nella democrazia sono gli istituti pubblici che hanno il compito dell'unificazione responsabile. Nell'un caso e nell'altro, sia per i capi sia per il corpo sociale, la speranza del meglio è necessaria; se questa viene meno, è la crisi, superabile o no proprio sulla base della speranza. Perché, nel campo della politica, la realtà è sempre discutibile, è sempre insoddisfacente; dà luogo a risentimenti, mormotazioni, discussioni, conflitti. Donde la necessità di riprendere lena, di avere una specie di rifacimento con le elezioni, e una necessaria ripetizione di promesse ad ogni anno finanziario o solare che sia. Ecco perché anche oggi, al primo giorno del 1959, sentiamo il bisogno dello scambio di auguri, per ridestare le nostre speranze terrene anche nella zona pericolosa della politica. Ogni partito, ogni aggruppamento augura quel che risponde al proprio programma e al proprio modo di valutare e risolvere i problemi politici dello Stato, escludendo quel che crede che ne sia l'opposto da riprovare. Ma nella gamma del Sì e del No si insinuano ripieghi e raccordi che ne attenuano le asprezze e ne rivelano le concordanze. Comunque sia, la vita è fatta di contrasti; le speranze e gli auguri combaciano solo quando dal fattuale realistico ci si eleva agli ideali dei valori permanenti e universali. In politica più che in altri settori della vita concreta vi sono auguri che sembrano senza speranze. Se guardiamo all'oggi, e se chi scrive comincia da se stesso, nota subito che egli


augurerà che il disegno di legge sul finanziamento dei partiti passi al Senato, ma non ne ha speranza, per lo meno immediata; augurerà che il Senato abolisca il voto segreto, ma la speranza non lo aiuta; augurerà che venga abolito il voto preferenziale nelle elezioni di qualsiasi grado e specie, con quasi nessuna speranza; augurerà che si faccia un'inchiesta sui metodi amministrativi degli enti pubblici, ma non ne vede la possibilità; così di seguito. E allora, mi si domanderà, perché ti affatichi attorno a questi problemi? Ecco: perché io ho avuto sempre fiducia (e quindi speranza) nell'awenire; un avvenire prossimo o remoto, che si realizzi me vivente o quando le mie ossa riposeranno in un cimitero non importa; perché ho sentito e sento la vira politica come un dovere - e il dovere dice speranza -. Oggi, a 87 anni compiuti, io, che credo nella Prowidenza divina, sono certo che la mia voce, anche se spenta, rimarrà per qualche tempo ancora ammonitrice per la moralità e la libertà nella vita politica e perciò contro lo sratalismo, contro la demagogia, contro il marxismo. Così faranno coloro che nella vira pubblica hanno qualche cosa da dire e da realizzare; e coloro che sanno agire secondo la propria coscienza e responsabilità, con costanza e perseveranza, affinché l'Italia non si chiuda nel cerchio fallace di un socialcomunismo che manca di fiducia nella libertà e di speranza negli ideali umani e spirituali, e non accerta, perché intrinsecamente opposto, il metodo democratico. Spero che i cattolici riprendano coraggio, senza bisogno di mutuare dai socialisti idee sociali ed etiche delle quali questi ultimi ignorano il valore; senza bisogno di cercare a sinistra alleati infidi né a destra collaboratori malevoli; ma curando di essere se stessi affrontando le difficoltà che la vita stessa impone e soprattutto correggendo certi errori del passato che ne hanno alterato la linea. Saranno questi auguri senza speranza? La risposta al 1959. P.S. - A proposito di speranze e di auguri, ho accettato le une e gli altri inviatimi da colleghi e da amici; da ammiratori e da dissenzienti; da compagni di lotta e da benevoli avversari; da correligionari e da concittadini; da giornalisti e da giornali. Rispondo ringraziando tutti quelli che si sono ricordati di me e ricambiandoli degli auguri che io estendo a coloro che mi sono stati vicini nel mio lungo cammino su questa terra, con la preghiera di accettare anche la dichiarazione che le mie critiche e avversioni non toccano le persone, anche se individuate per risalto giornalistico e per dare evidenza ai fatti; per tutti aggiungendo la speranza di bene, di ogni bene, del vero Bene nella fratellanza natalizia cristiana e nella terrena realtà deila Patria, al cui bene tutti dobbiamo contribuire.

Il Giornale d'Italia, 3 1 dicembre 1958

Dare e ricevere Mi ha fatto piacere, anzi mi ha commosso il pensiero della Congregazione dei Servi dell'Ererna Sapienza di inviare ai parlamentari una nuova edizione del Vangelo, con la missiva del superiore I? Enrico Genovesi 0.P: ((LaC.S.d.E.S. dona a tutti i legislatori il Codice Supremo della vita: il Vangelo, tutti consapevoli che la legge è efficiente se e in quanto suscita l'assenso fiducioso e nobile del suo spirito. Solo il Vangelo di Gesù Cristo riveland o la Legge divina valorizza la legge umana ed eleva l'uomo nella sfera degli Eroi».


Qui, la parola Eroi va presa nel senso cristiano a cominciare dai martiri per la fede, che per l'osservanza deila legge di Dio e la testimonianza avanti gli uomini, diedero danno e daranno la vita o subiscono allo stesso fine le più gravi persecuzioni, come i fedeli della Chiesa del silenzio. Metto fra gli eroi coloro che servono e difendono la patria esponendo la propria vita per senso di dovere e per spirito di dedizione. Inviando il Vangelo ai legislatori, si è partiti di sicuro dalla convinzione che in Parlamento la principale cura sia quella di approvare leggi giuste, che non offendano i diritti della persona umana, della vita religiosa e della convivenza civile. Invero, se le leggi non fossero giuste, non obbligherebbero, non sarebbero leggi. Se per giunta prescrivessero atti positivi che offendono la legge di natura o la legge della rivelazione, i cittadini convinti di ciò dovrebbero opporre la resistenza passiva o attiva secondo i casi. Tutto ciò è presupposto per l'ordine sociale in genere e per raggiungere il fine di ingenerare quella fermezza di convinzione che porta all'eroismo cristiano e civico. Purtroppo la realtà legislativa non ci rassicura intieramente, quale ne sia il regime, democratico o dittatoriale; quello di uno Stato basato sulle libertà politiche owero sul principio della monarchia assoluta. «Le leggi son ma chi pon mano ad elle?».Vero ai tempi di Dante, vero oggi, vero in ogni tempo. Da un lato le troppe leggi, spesso onerose, incoerenti, tendenziose, poco eque, contraddittorie anche, non sono proprio fatte per creare l'assenso, non dico quellojducioso e nobile che auspica il p. Genovesi, ma neppure quello rassegnato e tollerante, mentre è nella educazione (o diseducazione) italiana di cercare difarla allo Stato, al governo, all'autorità, quale ne sia il titolo rappresentativo del potere legittimo. Per giunta, ogni disposizione amministrativa che comporta spesa si chiama legge (e non in Italia solamente ma più che altrove in Italia). Quale assenso si può dare se il legislatore delibera di colmare il deficit di miliardi, per la produzione o diffusione di certi films i quali, sotto la qualifica di artistici, fanno un male enorme alla nostra gioventù, e anche ai grandi, specie per le scene di vendetta, truffa, seduzione e aggressione? Anche su questo punto può arrivare utile il pensiero delicato dell'iniziativa dei Servi dell'Eterna Sapienza; ricordare a quelli che sono tuttora cristiani fra i legislatori (anche naturaliter cristiani sia pure con una coscienza non del tutto assopita) i doveri del legislatore verso i cittadini di fare leggi sane e degne dell'assensoJ2ducioso e nobile. H o letto che vi sarà un convegno per la formazione cristiana dell'uomo politico. Non ne presi nota; ora non ricordo il luogo, il tempo, il nome dei promotori. Meglio così; sarò più libero nelle mie annotazioni. H o paura che qualsiasi preparazione specifica della gioventù alla vita politica crei o consolidi una nuova carriera; la quale, abbracciando il parlamento centrale e i consigli regionali provinciali e comunali nonché l'apparato dei partiti e dei sindacati, apre la via a creare una classe faccendiera, pretenziosa, altera, che leghi tutto l'avvenire dei «politici»a posti pubblici e relative laute prebende e future pensioni. Addio libertà e democrazia: si formerà una vera casta, che accaparrerà per sé l'elettorato con leggi non ispirate al Vangelo e neppure alla democrazia e non meriteranno alcun assenso. L'educazione politica in democrazia deve essere dei cittadino, di tutti, nella formazione scolastica, nella educazione familiare e religiosa, per creare una partecipazione spirituale alla vita pubblica, senza guardarla come una sistemazione personale e professionistica (il termine inusitato contiene il significato che desidero marcare). Ci vuole la specializzazione, anche di coloro che le ventate elettorali han portato a po-


sti di responsabilità senza avere fatto, come un tempo, alcun apprentissage nelle amministrazioni locali, comuni e provincie, amministrazioni di opere di beneficenza e simili. Se è necessaria la formazione specializzata (oltre che cristiana) di coloro che saranno i prescelti, è anche necessario educare il paese a scegliere deputati e senatori, consiglieri comunali e provinciali e deputati regionali che, oltre ad essere buoni cristiani nella famiglia e nella società, siano adatti al posto al quale verranno chiamati. I preti e i parroci che mi leggono mi comprendono. Ricordo un episodio del lontano 1909; allora, pur vigendo il non expedit, vi era da poco l'uso della dispensa del caso per caso alle candidature per la Camera dei deputati. Un prete era in urto col deputato uscente; non era un'aquila quest'ultimo, ma un uomo serio e coscienzioso e anche buon padre di famiglia. I1 prete si pose a proteggere un candidato (o auto-candidato - eravamo al tempo del collegio uninominale) che aveva due pecche: era legato alla malavita locale, è vero come professionista, ma specializzato un po' troppo, ed aveva per giunta un legame irregolare. Awertii il collega, il quale, preso dalla passione politica, mi rispose che egli voleva mandare al parlamento una persona abile a <(interessarsidel collegio», non mai che non avesse grande influenza e sapersi fare valere. Questa idea del deputato (e ora anche del senatore e degli altri negli enti locali) che fa favori, che protegge, che raccomanda è così radicata nella coscienza italiana, che solo i preti, volendo, potrebbero concorrere a formare un clima adatto alla moralizzazione pubblica. A far ciò occorre mantenersi estranei al dare e ricevere elettorale che si protrae purtroppo da una elezione all'altra senza cessare, anzi con un crescendo anormale, mano a mano che lo Stato (vero Leviathan) va ampliando i suoi poteri, le sue attribuzioni, le sue entrate, i suoi benefici, la sua ingerenza nella vita italiana centrale e locale. Se, però, il clero entrasse nel cerchio fatale del traffico politico, ripeterebbe i mali di altri tempi, quando i benefici ecclesiastici erano nelle mani del patrono laico e parte del clero partecipava allo spirito simoniaco del tempo, mentre i grandi santi e i grandi vescovi e papi resistettero eroicamente pagando di persona per il bene della vita religiosa e della vita pubblica della cristianità. In Sicilia si dice che I'Anticristo sedurrà il popolo con i panini caldi; se conditi di olio e aglio tanto meglio. È anche questa la tattica comunista per arrivare al potere; ma non per dopo. Meminissejuvabit.

Il problema degli statali Domani, vigilia dell'Epifania, sarà anche la giornata degli statali. Avremmo voluto di gran cuore parlare per essi di una vera e propria Befana, ma non ce la sentiamo. I1 governo ha fatto conoscere quali sono i suoi divisamenti sull'annosa questione e per quanto essi comportino globalmente una spesa massiccia per il Tesoro sono in sostanza poco più che un paliativo. E allora? Senza assumere la fatalistica aria del rinunciatario di professione, di colui che finge di ostacolo della quadratura del circolo, bisogna arrendersi soltanto davanti ali'in~u~erabile convenire che il problema degli adeguamenti degli statali in Italia è diventato, ormai, en-


demico e arduo. Si tratta di un esercito di persone attive delle quali si è sempre parlato come se si trattasse di un corpo avulso, pur se rispettato o temuto, dalla realtà quotidiana della vita nazionale. Se ci fate caso vi renderete conto che degli statali in agitazione ce ne accorgiamo solo al momento del dialogo in fase conclusiva col presidente del Consiglio e, in definitiva, con quel Pantalone di turno che è il ministro del Tesoro. Ma con quali mezzi paga, questo Pantalone? Si potrebbe dire che il denaro entra nelle casse pubbliche un poco come le noci nelle bisacce di Fra' Galdino e che in fondo tanto l'esattore delle imposte quanto il frate cercatore sono veramente come il mare che raccoglie le onde sulla riva e poi subito le disperde con millenaria saggezza istintiva verso centinaia di direzioni che di quell'acqua benefica han più diretta necessità. Ma le riminiscenze letterarie servono poco a consolare il bilancio della massaia alle prese col tradizionale eppur infallibile «conto della serva)). Esso, sulle prime, apparirà alleviato dal miglioramento, più morale che materiale, apportato dal governo. E poi, perché ineluttabilmente in tutte le vicende umane, e peggio se specificatamente economiche, c'è sempre un poi, tutto riprenderà secondo il ritmo e le parole del noto motivo che si dice stia facendo impazzire gli americani, perché made in italy, di «Come prima, più di prima)). La verità è che in questa materia tutti hanno purtroppo ragione e non vi è una ragione che possa fare aggio in modo determinante sulle altre. Gli statali non riescono a quadrare da tempo il proprio bilancio e chiedono al governo di prowedere; il governo ci pensa su e prowede nel limite delle sue forze; la inesorabile legge economica, nel frattempo, si preoccupa di misurare gli effetti sulle tasche e del contribuente e del consumatore; non c'è via di scampo. La soluzione è forzatamente interlocutoria. Ad un domani più o meno prossimo, magari tra sei mesi od un anno, la continuazione della puntata precedente. I miracoli qui non sono molto diffusi e la Befana dello statale, in genere, compresa quella di quest'anno, non è mai straordinariamente allegra. Eppure, se gli statali in Italia credono di stare peggio rispetto ai loro colleghi di altre nazioni, si tranquillizzino. Si tratterà di una magra consolazione, forse, ma rende interessi composti di preziosa indole psicologica: in relazione alle rispettive economie, i dipendenti pubblici in Italia sono meglio pagati dei loro colleghi francesi, tedeschi e persino britannici, per non parlare degli statunitensi presso i quali, come si sa, i white collars non sono tenuti in grande considerazione e comunque ritengono il più possibile transitoria la loro permanenza dietro una pubblica scrivania. Ora noi non sappiamo cosa awerrà dopo che il Consiglio dei ministri avrà fatte proprie le conclusioni cui sono pervenuti il presidente del Consiglio e il ministro del Tesoro. Ma non si può negare che in questa particolare fase dell'inrramontabile e in fondo più vivo ed umano dialogo di tutti i tempi, ognuno abbia assunto il proprio ruolo con un tono di meno convenzionale pacatezza a vantaggio di un più moderno senso di reaiismo. Forse la via del coraggio in questi argomenti è quella che dovrebbe rendere i maggiori servigi al benessere sociale sanamente e quindi concretamente inteso. Ma si sa che il coraggio (e lo diceva Don Abbondio che dopotutto se ne intendeva) uno se non l'ha, non se lo può dare. La via del coraggio, insomma, non avrebbe indicato una soluzione del genere. Avrebbe, tanto per parlarci chiaro, o concesso o negato.


E in genere si conviene che concedere o negare in politica finanziaria corrisponde rispettivamente a inflazionare o mantener rigido il valore della moneta. Così si è avuto un compromesso. Che non è lieve per nessuno. Ma che è anche abbastanza impegnativo per far capire a tutti che in economia, come in fisica, nulla si crea e nulla si distrugge. -E le mille o le duemila lire in più in tasca allo statale, se contemporaneamente si lascia che i prezzi aumentino in proporzione, sono mille o duemila lire molto illusorie e assai diverse da quelle che nella nota canzone di tempi passati rappresentavano il vertice di una buona posizione. Dove non è opportuno scorgere allusione alcuna, diretta o indiretta, benevola o maligna, al cosidetto «franco pesante» che sra mettendo in cantiere dall'altra parte delle Alpi, quell'accorto ed enigmatico (cstatalen che risponde al nome, gallico ai cento per cento, del generale D e Gaulle. Il Tirreno, 4 gennaio 1959

Civiltà integrale Che ben venga l'educazione civica; se nel passato questa è mancata o quasi e h da molti trasformata in educazione di parte e di partiti e ridotta a diseducazione dello spirito, il torto fatto alle giovani generazioni è stato gravissimo. Per giunta la vera concezione del cittadino è stata spesso deformata da una disintegrazione sociale che ci ha portato ad uno sterile e polemico laicismo. Anche le colpe storiche si pagano. I1 ciuis romanus sum di San Paolo, rivendicazione di diritto e di dignità, nulla negand o del suo giudeismo di origine né della sua fede cristiana, dovrebbe essere per ognuno di noi il ciuis italianus sum, e domani anche il ciuis europeus sum, senza togliere nulla alla nostra concezione civile, politica e religiosa, al nostro essere individuale nella sua completezza e nella sua realtà. L'ordine civico non è in contrasto con il valore della personalità umana né con I'ordine religioso; lo Stato non è in contrasto con il cittadino né con la Chiesa; anzi, non può esistere ordine civico senza il complesso culturale che implica anche la formazione individuale e quella religiosa; non esiste un vero Stato, cioè l'ordinamento legale del potere pubblico, senza il rispetto all'individuo e senza una concezione morde e religiosa che lo sostenga. Concepire una comunità civile senza la personalità del cittadino e il suo contenuto religioso è, oltre tutto, un assurdo storico; concepire uno Stato che combatte, avvilisce, elimina la religione come tale, è un oltraggio alla libertà individuale e un disordine morale che toglie la qualifica civile e annulla la sostanza di una vera civiltà. E mentre la storia spiega perfino la lotta di un determinato Stato contro determinata religione, sia per la confusione e il contrasto di poteri e di interessi attuali, sia per il timore di perdere la propria indipendenza nell'urto di fazioni politiche e religiose in contrasto, sia per odio di classi e di razze, non è logicamente e storicamente ammissibile, sia nel mondo civile sia nel mondo primitivo, l'abolizione di qualsiasi espressione religiosa, di qualsia-


si comunità di culto, altrimenti come una involuzione civile, come una sopraffazione violenta e barbarica.

Perché, allora, l'educazione moderna è presentata come distaccata, quasi fosse depurata o decantata da ogni accento religioso, da ogni idea che ci richiami aila divinità? Non solo il mondo civile è concepito in senso laicista, ma si cerca di farvi entrare subdolamente o surrertiziamente, un concetto di autonomia tale da arrivare quasi a divinizzare lo Stato, come un tempo si tentava di divinizzare la Nazione; o la democrazia come un tempo si divinizzava la libertà; o il popolo come un tempo si divinizzò la Ragione, la Dea Ragione. Laico nei tempi antichi indicava l'ignorante, e chierico il dotto; da qui la parola francese «clerc» ancora in uso; famoso il libro La trahison des clercs per dire degli scrittori o letterati. Ogni laico in Italia è divenuto qualifica di onore dei partiti che politicamente (e anche culturalmente) vogliono ignorare la religione o subordinarla allo Stato, forse per differenziarsi dalla DC che ha messo quel crixtiana appresso la democrazia per indicare l'implicazione religiosa e morale nella vita politica. Dirsi laico oggi per alcuni è come dirsi istruito; proprio l'opposto di quel che il vocabolo significava. E passi per la cultura, se ne hanno una; ma, non per questo possono vantarsi di essere detentori di civiltli, la quale non è separabile dalla religiosità, né può fare all'umanità il regalo di mettere lo Stato e la democrazia e il popolo al posto di Dio; perché diceva S. Paolo, voce della umanità del passato, del presente e del futuro: Non estpotestas nisi a Deo: l'ordinamento civile, come il familiare (necessario l'uno e l'altro) derivano dalla natura sociale dell'uomo, della quale è Dio l'autore e il creatore. La Costituzione americana non dimentica tale origine, e la tradizione americana fa fissare al capo della Federazione il «Giorno di ringraziamento),, da rivolgersi a Dio per i benefici ricevuti durante l'anno; né i parlamentari dimenticano di iniziare le loro sessioni con l'invocazione di Dio. Noi, invece, siamo laicizzati al punto che Parlamento e Governo ritengono la religione quale affare privato e personale, da escludere dalle manifestazioni civili, meno quando si va a funerali ufficiali se celebrati in chiesa.

Vorrò vedere che cosa si scriverà sulla educazione civica nei libri adottati come testo di scuola. Unità nazionale: sta bene, per quanto della nazione si parlerà poco o nulla per non sembrare dei nazionalisti. Si parlerà anche dell'Italia ente geografico; si elogiera I'italiano, lingua di Dante e di Manzoni e si parlerà dell'Italia unita politica; tutto in stretta misura per non urtare i bolscevici nostrani. Molta democrazia che confinerà con la demagogia: molto «sociale» che va a finire nel socialismo; anche molta Europa fino a estenderla oltre cortina; soprattutto moltissimo Stato: tutto nello Stato, per lo Stato, dello Stato: Stato repubblicano, democratico, del lavoro, sociale, economico, assistenziale, previdenziale e provvidenziale. Se si domanderà dove si trova questa divinità, non sapranno indicare altro che il popolo idealizzato e il potere divinizzato. Governo? Parlamento? Presidente? Elettorato? iMagistratura? Tuuai organi criticabili, tutti insoddisfacenti, da rifare. L'Italia è il popolo; siamo popolo tutti i cittadini owero le folle dei dimostranti guidati dai comunisti o le masse organizzate dai sindacalisti? Questi ultimi si dividono in CGIL, CI-


SL, UIL, CISNAL e così via; troppi e in contrasto per fare una unità ideale; meglio, secondo la formula costituzionale, «la Repubblica basata sul lavoro)).Quale lavoro?quello degli uomini di cultura?delle varie categorie professionali? degli insegnanti? dei ceti medi? degli operai delle officine e dei campi? E metteremo fuori della Repubblica gli industriali, gli agricoltori, i commercianti? Tutti i cittadini sono da qualificare lavoratori in atto o i n j e r i (i bambini e i ragazzi) o in riposo (pensionati e ammalati), nessuno da escludersi dalla Repubblica neppure coloro che subendo una giusta condanna, espieranno le colpe e si potranno riabilitare. Civiltà e Reiigiosità fanno sintesi nella persona umana. E se l'educazione laica - come ho scritto in Orizzonti, il prezioso periodico - la tradizione politica, le passioni di parte, le teorie naturaliste e materialiste hanno attenuato o negato siffatta sintesi, occorre dimostrarla nella pratica vissuta del cristiano e nella affermazione dell'uomo di convinzione e di cultura: non darsi concezione civica i n t e p k che non sia vivzjìcata e solidz$cata da una concezione religiosa, che per noi non è altro che quella del Vangelo di Cristo.

L1Avvenire d'ltalia, 6 gennaio 1959

Cambiamento di rotta Non mi rivolgo solamente al governo e alla pubblica amministrazione, ma anche ai gruppi responsabili della produzione, ai sindacati e categorie di operatori e lavoratori, e più degli altri a coloro che con mezzi giornalistici e pubblicitari concorrono a formare e defor.mare la pubblica opinione, perché ci si convinca tutti che bisogna cambiare rotta, oggi e non domani, all'inizio del Mercato comune e non dopo le prese di posizione di altri Paesi meno impacciati del nostro; proprio ora che l'allineamento delle monete ha dato un salutare scossone alle varie economie dentro e fuori la piccola Europa, contribuendo a rendere il mercato più aderente alla realtà. Di fronte alle affermazioni ufficiali, ripetute da molti, sulla solidità della nostra lira, e la fortunata posizione della copertura in valuta e oro del 74, 80 per cento, occorre mettere in evidenza anche il lato negativo della nostra economia, non tanto per le cosiddette oscillazioni congiunturali, che è facile collegare con la recessione americana, quanto per quel che, commentando la lettera di Roepke, ho indicato nel mio articolo «Un colossale infarto)). Non è facile riprendere quota quando si è stati colpiti da un infirto, e, a parte I'immagine sanitaria, non sarà facile al nostro Paese non dico eliminare ma almeno attenuare le cause di questa semi-paralisi che ci ha colpiti, per via di uno statalismo che nella lotta dei partiti è, purtroppo, divenuto un'insegna. Questo è proprio di tutte le sinistre, quelle rivoluzionarie come i comunisti (ed è logico), quelle tuttora fossilizzate in un marxismo da tempo superato (Giolitti aveva parlato di Marx in soffitta) -ciò sembrerebbe strano per certi socialisti intelligenti e non ignoranti che lo professano - e quello delle sinistre DC, base o non base, che ne sono incantate come di una novità realizzabile. Che dire, poi, di quegli altri che oggi parlano ad orecchio dell'antistatalismo non ricordando lo statalismo del partito unico e del metodo dittatoriale? La libertà si conquista e si riconquista ogni giorno e in tutti i campi, quello economico compreso. È da sciocchi ripetere che la libertà di mercato favorisce i produttori, anzi i grandi produttori, e deprime le categorie medie e piccole; è da ignoranti ripetere che le clas-


si lavoratrici possono prosperare solo se garantite dallo Stato direttamente o a mezzo degli enti statali di produzione e di commercio. La prova avuta è stata tale da obbligare tutti a fare macchina indietro; noi siamo alla coda, incerti della strada, come l'asino di Buridano. Se per il complesso di inferiorità di fronte ai socialcomunisti e di fronte ai sindacati operai, i nostri uomini di governo non solo non hanno tentato di smobilitare quel che poteva facilmente essere fatto nel dopoguerra, ma hanno decisamente favorito l'interventismo statale, assorbendo quanto più largamente è possibile le risorse dei risparmi privati, male han fatto i conti nel passato e peggio li faranno nel nuovo clima che si va sviluppando dal Mercato comune e dalle liberalizzazioni monetarie. Il primo e il più pericoloso degli effetti da eliminare è di carattere psicologico: lo stato di perplessità per nuove iniziative tanto dell'operatore industriale che dell'operatore agrario, di fronte ad una sempre crescente statizzazione, per giunta improvvisata e incoerente, la quale, volere o no, turba i rapporti di interessi legittimi e di vantaggiose prospettive formando monopoli intollerabili, i quali ostruiscono le strade dello sviluppo economico libero e spontaneo. I lettori comprendono che io mi riferisco all'IRI, all'ENI e a tutti gli enti economici statali che ne dipendono, ora aggruppati nel disgraziato ministero delle partecipazioni. Si tratta, come dissi nel citato articolo, di un complesso economico che assorbe quasi la metà dei mezzi finanziari con l'impiego di appena 300 mila unità lavorative, di fronte all'altra metà dei mezzi finanziari utilizzati dalle imprese private con l'impiego di sette milioni di unità lavorative. Noi abbiamo tuttora una percentuale di disoccupazione che i Paesi del Mercato comune non hanno. Col Mercato comune la libera circolazione di manodopera nei vari stati sarà ammessa, quando da noi tale libertà non è rispettata, anzi è ostacolata da una vecchia legge con danno dell'assestamento naturale delle forze di lavoro; ci troviamo pertanto in condizione di inferiorità per un carico che la nostra economia è obbligata a sopportare. Ma c'è di peggio: l'aumento dei depositi bancari, che nel 1958 ha superato di 267 miliardi quelli dell'anno'precedente, è derivato in gran parte non da risparmi da impiegarsi in maggiore produzione, ma dalla vendita di scorte e dal non reimpiego del ricavato in nuove attività produttive. Infatti dai dati pubblicati risulta che l'anno scorso 301 miliardi e 600 milioni di lire sono serviti per acquisti di titoli di Stato, 7 3 miliardi e 500 milioni per obbligazioni e azioni; 296 miliardi e 300 milioni per attività commerciali e produttive; mentre nel 1757 gli impieghi per attività produttive arrivarono a 424 miliardi e 300 milioni di lire. Non è mia volontà affliggere il lettore con cifre, tanto più che non sempre le stesse cifre riescono evidenti, se non si chiariscono con esatte classifiche. Invero dovrebbe precisarsi quanti dei miliardi impiegati in attività produttive e commerciali sono andati agli enti statali e quanti ai privati. Ha fatto lo stato, come al solito, la parte del leone? A stare ai dati del mio articolo succitato (quello dell'infarto, tanto per intenderci) lo Stato e gli enti statali sono i favoriti dalle banche assorbendo risparmi ed economie private in varie maniere: l'IN ha un totale di obbligazioni in circolazione per 374 miliardi e 197 milioni, a parte la maggiore esposizione debitoria verso le banche; il Tesoro per bisogni ordinari di cassa è arrivato a 1.500 miliardi di buoni, e mille miliardi e più prelevati da tempo dalla Cassa DD. e PP. e non restituiti, e così di seguito. Si dice: l'operatore aveva da utilizzare i risparmi del 1958 depositati in banca per quasi mille miliardi. Sì, è vero; ma da un lato i timori della recessione americana (da noi mal compresa e mal commentata, salvo rare eccezioni) e dall'altro la tempesta politica del ministero


delle partecipazioni, delle elezioni del maggio 1958,del governo centro-sinistra, dei piani quadriennali, quinquennali, decennali, delle agitazioni sindacali e infine la prospettiva di un ripiegamento della DC verso Nenni, I'autonomista del domani, sono farti che influiscono, e come, sulla mentalità dell'investitore di capitali e dell'imprenditore per nuove iniziative. Quale sarà I'awenire dell'italiano? Non si sa se arriveremo a divenire tutti impiegati di uno Stato in condizione fallimentare, owero tutti liberi produttori e lavoratori sul terreno cornperitivo a passo con le altre Nazioni civili, siano o no collegate insieme nella piccola Europa. A questo fine tutti gli operatori, agricoltori, industriali e commercianti debbono anch'essi cambiare mentalità e rotta. Cooperare a smantellare le sovrastrutture e le bardature dello Stato, ma anche a smantellare le proprie sovrastrutture e bardature; sentire il vantaggio della libertà economica non solo nei momenti di prosperità ma anche quando tira un certo vento freddo che fa venire il torcicollo; se occorre si proweda~iodi buone fasce per il collo, da togliere subito appena spunta il sole. In sostanza, lo Stato non deve cercare di far ingoiare all'IR1 il cantiere di Taranto, se tale cantiere di Taranto non regge, specie con denaro preso a prestito; né deve buttare milioni su milioni per certi films franco-italiani o iralo-francesi che non fanno onore né a noi né ai francesi. Dico questo per fare comprendere con esempi palmari che non si può più seguire la politica che ha fatto ingoiare tanti miliardi ad enti come I'ENI con una politica megalomane e iugulatoria, all'IRI con le imprese passive da doversi al più presto liquidare; e a niolti altri enti che tutti conoscono. Neppure certe imprese private debbono rimanere come sono, proprio quelle che si reggono su monopoli di fatto a danno dei consumatori e con la connivenza governativa o burocratica che sia; perché quando lo statalismo e lo sfruttamento privato si incontrano lo scotto è pagato assai caro dal consumatore. Il CIP ne sa qualche cosa. Oggi chi crede che sia opportuno che resti in piedi il CIP quando i prezzi del Mercato comune regoleranno i ritmi produttivi e le correnti di esportazione? via questa bardatura statale che ci ha reso molti cattivi servizi non compensati di quei pochi buoni, che le necessità del primo dopoguerra esigevano. C'è qualche altra cosa da fare, quella che è stata iniziata in Germania: la liquidazione di enti parassiti, che si reggono con i sussidi statali quando tali enti non sono richiesti da utilicà pubblica. Potrei farne un lungo elenco, i ministeri ne sanno qualche cosa, ma sanno anche quel che il pubblico intravede ma non precisa; tali enti sono utili per gli impiegati non importa se di carriera o messi là per favori politici -con poco o niente da fare. 11 buon inizio della liquidazione degli enti inutili deve essere ripreso al più presto. Ed eccoci al punto focale della situazione italiana: di fronte a migliaia di impiegatucci con stipendi di stretta misura, esistono negli istituti ed enti statali alti e medi impiegati pagati bene, anzi benissimo; favoriti da sistemi introdotti da burocrazie potenti o da apparati di partito conniventi. Per citare un caso: basta nell'IR1 che un alto impiegato sia trasferito da un settore ad un altro per avere liquidati per buona uscita milioni a diecine ed otcenere per sopraggiunta alti stipendi per il nuovo assetto. Qualcuno avrà accumulato in pochi anni pressoché cento milioni. Ma non è solo I'IRI a far ciò; non è solo I'ENI a sperperare milioni a centinaia e miliardi a diecine. Ora si cercano con il lumicino i settanta o cento miliardi annui per il personale statale e si rivolge l'occhio al contribuente, mentre basterebbe mettere in vendita un certo numero di azioni di enti privati tenuti dallo Stato, o liquidare aziende senza scopo statale (perché Mattei si deve occupare di margarina, di olio di oliva, di utensili di casa, di contatori e simili?) per reperire le somme per il primo e il secondo anno; e intanto riordinare le nostre


finanze a scopo produttivo e ottenere due effetti: un aumento di produzione che porta aumenti nel gettito fiscale, e finalmente un equilibrio contributivo fra le varie voci di produzione e di consumo, e fra i piccoli e i grandi redditieri. Ciò porta una politica antiveggente, di lunga lena, di coraggio contro le demagogie delle sinistre rivoluzionarie e degli incoscienti sinistrorsi che hanno una mentalità essiccata e formalistica e invocano da tempo riforme di struttura forse per farci gustare quelle dell'Ungheria e della Germania Est. Sono proprio quelli che non hanno capito o non vogliono capire che il mercato comune è basato sulla libera concorrenza non solo interna ma esterna, non solo fra i sei della piccola Europa, ma con tutti i Paesi liberi, quelli che non hanno il gusto che le riforme di struttura ci portino alla apertura a sinistra o viceversa.

If Giornale d'ltalia, 7 gennaio 1959

Partiti e partitocrazia (Ricordando il 18 gennaio 1919)

I partiti sono in fermento; la partitocrazia è in atto. L'attesa del congresso del PST a Napoli è scontata; Saragat è arrivato a scrivere che I'autonomismo nenniano è merito suo (cioè dell'ala saragattiana del PSDI): chi si contenta gode. La DC ha generato una nuova corrente: ((Rinnovamento)),la quale dovrebbe servire (a quel che si dice) di copertura per una intesa, immediata o mediata che sia, con Nenni; mentre certi estremisti della Base, colpiti dalla evidenza che Nenni non può spezzare i suoi rapporti con la CGIL e con le cooperative socialcomuniste, sentono cadere le speranze per tanti anni nutrite ed auspicano che sia la sinistra cattolica ad awicinarsi al socialismo con le riforme di struttura. Coloro che tra le file della DC negano la possibilità e la realtà di un tale «auspicio» sono chiamati uomini di destra anzi addirittura reazionari; e reazionari chiama Saragat coloro che negano la validità e l'utilità del governo di centro-sinistra con i Preti, i Vigorelli e i Lami Starnuti messi a dirigere dicasteri-chiave, per attuare le riforme dette «sociali». In questo ambiente di disorientamento ideale e disintegrazione politica, si inseriscono le polemiche antigovernative per i viaggi all'estero e per i franchi tiratori all'interno; e quelle filogovernative che mirano a svalutare Scelba e Pella (come reazionari s'intende) nonché ad estromettere dal Gabinetto Andreotti, poco gradito alla socialdemocrazia e alla sinistra dc. Ultima, ma non meno importante, è sopravvenuta l'agitazione degli impiegati con minaccia di sciopero, sul quale trovano terreno comune tutte le forze sindacali dai comunisti ai missini. Quando in America si parlò di sciopero di impiegati, bastò il quos ego di Roosevelt (Franklin, non l'altro) per fare rientrare tutti nei ranghi e non parlarne più. Egli disse: ((Chiunque essendo occupato presso il governo degli Stati Uniti, o un suo ente, scende in sciopero, sarà immediatamente licenziato e perderà la sua qualità di impiegato civile, se l'avesse, e non potrà per un periodo di tre anni essere riassunto dallo stesso governo o suo ente». Si sente Fanfani in grado di ripetere le parole di un democratico della forza di Roosevelt? Purtroppo, né i Governi passati (De Gasperi, Pella, Scelba, Segni, Zoli) né il presente sono stati e sono in condizione di proporre una qualsiasi legge sullo sciopero, nonostante il preciso disposto della Costituzione. Per giunta, nessun magistrato ha mai avuto occasione di dichiarare illecito lo sciopero per mancanza di una legge normativa. Quand o si dice che siamo in piena partitocrazia non si esagera: la realtà parla da sé.


Nel suo discorso di Arezzo Fanfani ha difeso i partiti facendo rilevare che la campagna contro la partitocrazia maschera una campagna contro i partiti aggiungendo che tale campagna portò nel passato all'awento del partito unico. Tale avviso, certamente non lo ha dato né poteva darlo a chi, da parte liberale, ebbe l'accusa di avere creato un partito che voleva sovrapporsi al governo e al parlamento. L'accusa era polemica e ingiusta; ma per i liberali ne fu controprova il cosiddetto veto a Giolitti. Questi, dopo avere disciolto la Camera dei deputati appena con quattordici mesi di funzionamento allo scopo di ridurre I'apporto del partito popolare, e dopo avere lasciato volontariamente il governo senza alcun voto di sfiducia, ma solo per le critiche htte ai suoi metodi elettorali specie nel Mezzogiorno per i quali egli era stato sempre famoso, voleva a mezzo di una crisi extra-parlamentare riprendere il potere con la veste di salvatore della situazione. Che un partito possa rifiutare di collaborare al governo che ha bisogno di formare una maggioranza di stretta misura, lo sa Fanfani, il quale ha invano chiesto la partecipazione al governo di centro-sinistra al gruppettino repubblicano. Giolitti rifiutò di fare un Governo di maggioranza non di stretta misura (liberali senza Salandra) perché voleva ad ogni costo umiliare i popolari ed averli a mercé. Come non chiamo partitocrazia I'atto di La Malfa e C. del 1958 verso Fanfani, così nessuno potrà chiamare partitocrazia l'atto di Sturzo e C. del 1922 verso Giolitti. La partitocrazia della quale io parlo è ben altra cosa; è la partecipazione e sovrapposizione dei partiti negli affari dello Stato, nella amministrazione della cosa pubblica, nella legislazione parlamentare, come corpo che decide senza responsabilità, lasciando al governo e al parlamento niente altro che laesecuzione delle formalità legali e qualche volta anche la scelta del momento opportuno e lamentando quella modifica che, per lo scarto fra presenti e assenti, diviene automatica nelle votazioni parlamentari. Fanfani si è lagnato, e con lui molta stampa, del fatto che il parlamento non ha accettato i decreti legge che egli, nella sua volontà di fare e di far subito (presto e bene raro avviene) aveva varato sicuro del successo. E certo un disappunto, ma bisogna rispettare la volontà del parlamento e mai imporre al parlamento una volontà governativa prestabilita in materia sia di leggi che di procedure, a meno che non si reputi la proposta talmente importante da legarvi il voto di fiducia. 11 problema dei fianchi tiratori, per i quali si è fatto gran chiasso, non si pone nei parlamenti dei paesi civili, perché non vi è la possibilità di chiedere ed ottenere la votazione per palle bianche e nere nell'approvazione delle leggi e delle mozioni. Da noi invece la viltà dei deboli e la debolezza dei forti è consacrata da un regolamento non degno di qualsiasi vero Parlamento, e se ne debbono subire rutti gli effetti. Pretendere di mantenere la regola del voto segreto come prevalente se richiesta da una sparuta pattuglia di parlamentari e pretendere di ottenere voti come se si trattasse di questione di fiducia, è un controsenso partitocratico che può essere solo sostenuto da gente che non ha il senso della logica dei regolamenti e della realtà degli istituti. Negli Stati Uniti d'America i cittadini hanno il piacere di poter leggere ogni giorno sul New York fimese su altri giornali, chi dei senatori repubblicani ha votato contro le proposte del governo Eisenhower e chi dei democratici ha votato a favore come scambiando i termini aweine ai tempi delle presidenze democratiche di Roosevelt e di Truman; la libertà dei senatori è assoluta e palese senza che l'approvazione o il rigetto di una proposta faccia cadere il mondo. Da noi non si arriva al centro delle questioni per paura dei partiti: così, il voto segreto è rimasto nei regolamenti come una macchia sul vestito del Parlamento italiano.


La questione vera da noi è quella della stabilità del governo; perciò ha fatto bene Fanfani a dire che egli, senza un voto di sfiducia, non lascia il Viminale; a patto però che non imbavagli deputati e senatori di maggioranza e lasci tutti liberi di votare come credono in materia di leggi per le quali non è posta la fiducia di governo; e quindi non si urti né se la prenda calda se disegni governativi vengono bocciati, come fa un presidente degli Stati Uniti. Solo così Fanfani può restare per cinque anni, non imponendo la sua volontà di fare e di strafare, ma accettando quella del Parlamento che approva o rigetta. Solo allora il rispetto dei parlamentari verso il governo aumenterà a misura che aumenterà il rispetto del governo verso i parlamentari. È vero: con tale metodo la partitocrazia verrà mortificata e il partito riprenderà il posto che gli compete, senza volere imporsi sul Parlamento, né sul governo, né sull'amrninistrazione centrale o periferica. Fanfani mediti quello che qui scrivo, ora che verrà sollecitato dalle sinistre del suo partito e degli altri partiti a saltare il fosso creando in Italia un'aria irrespirabile, proprio ora che il Mercato comune ci impone una politica economica seria e proficua. Non ascolti il suo Saragat sui meriti sociali del governo di centro-sinistra, con i casi Preti-Paratore-Giuffrè, e l'atteggiamento demagogico di Vigorelli sulla decisione della Corte Costituzionale per l'imponibile di manodopera. Gli scioperi che la sinistra socialcomunista minaccia nelle campagne, nelle officine e negli uffici ministeriali, si affrontino con l'autorità di chi sa che è nel giusto difendendo la lira e il bilancio dello Stato; tale difesa si risolve in quella del cittadino e della nazione; in quella del diritto e dell'economia; nella difesa del benessere anche per i disoccupati e per coloro che giustamente cercano di adeguare i propri salari al costo della vita. I rimedi non mancano; basta non farsi prendere la mano dalla paura o dalle paure. Non c'è peggio della partitocrazia per correre la cavallina della demagogia e portare il Paese alla rovina. Non per questo chi scrive insieme ai propri compagni del partito popolare lanciò il 18 gennaio 1919 l'appello «ai liberi efortb.

Il Giornale d'Italia, 14 gennaio 1959

Don Sturzo a Caltagirone5' Illustre Direttore, se il mio nome messo insieme a quello di Milazzo e Scelba nella nota editoriale alla corrispondenza da Caltagirone pubblicata oggi è lì con il significato politico, la prego di

Lettera del 13 gennaio 1959 al direttore de 011 Tempo., on. Renato Angiolillo, pubblicata con la seguente nota redazionde: Nessun «si nificato politico, aveva la cirazione da noi fatta del nome di don Sturzo, insieme a quelli dell'on. Scelba e delf'on. Milazm, a proposito di Caitagirone. Solo ci L sembrato naturale, rnttandori di una città che diventa capoluogo di provincia, menzionare il nome dei suoi figli più illustri e più noti. 50


prendere nota che dal mio ritorno dall'estero (settembre 1946) non ho preso e non prendo parte ad affari di politica locale ed elettorale o di partito per nessuna provincia e città, compresa la mia Caltagirone. H o ritenuto e ritengo ciò mio dovere sia per non essermi iscritto ad alcun partito, sia per essere libero nella mia attività pubblicistica e giornalistica, nell'esclusivo interesse dello Stato e della Nazione. Per quanto riguarda la mia città natale, debbo aggiungere che, pur interessandomi a problemi culturali, assistenziali, economici o per lavori pubblici (come faccio, se richiesto, per ogni altra simile iniziativa di qualsiasi comune o provincia), ho mantenuto rigidamente la linea di condotta suaccennata, sia perché vi manco dal febbraio 1920 (data delle mie dimissioni da prosindaco), sia per rispetto e affetto verso cari amici, Scelba per il primo, che al mio ritorno trovai Ministro alle Poste, poscia all'lnterno e più tardi Presidente del Consiglio e uno dei più qualificati leader della Democrazia Cristiana. Questo mio atteggiamento è ben noto in Sicilia e altrove; ma ai giornalisti piace vedere nelle iniziative di Scelba la mia mano e nelle mie quella di Scelba. Nulla di più inesatto, nonostante la stima e l'affetto reciproco che ci ha unito e ci unisce, anche nelle differenze di vedute, se ce ne sono. I timori, direi paure, del corsivista de II Tempo circa la soppressione dei prefetti in Sicilia non hanno base nello Statuto e neppure nella legge amministrativa regionale; per via dei quali la competenza di vigilanza dei prefetti sugli enti locali è passata già alle Commissioni di Controllo, insediare in ogni sede di provincia e da insediare nei capoluoghi dei futuri liberi consorzi dei Comuni. Prefetti e prefetture sono rimasti anche in Sicilia per i servizi statali e per quei servizi che la Regione può loro affidare in base a leggi e disposizioni vigenti. Debbo aggiungere per la storia che la soppressione dei prefetti fu agitata molto tempo prima del fascismo, specie per via della politica giolittiana nel Mezzogiorno. Di tale proposta io fui sostenitore senza tregua nell'Associazione dei Comuni Italiani dal 1902 al 1924; ed ebbi il conforto dell'opinione di non pochi liberali di allora, fra i quali lo stesso prof. Luigi Einaudi, che ripigliò il tema dopo la caduta del fascismo. Cose d'altri tempi; ora tutta l'organizzazione statale è divenuta tabù, salvo a violare impunemente i principi di uno Stato di diritto quale il nostro e attribuire carattere statale ad imprese fra le più sballate e ad enti economici sconquassati, ai quali è data perfino facoltà di esigere tributi, sperperando allo stesso tempo denaro pubblico come se fosse denaro di nessuno. Questioni di statalismo, vecchio e nuovo, queste le quali non hanno rapporto con l'iniziativa del Comune di Caltagirone. Mi è gradita l'occasione per inviarle, onorevole direttore, i miei più deferenti saluti. Luigi Scurzo

Il Tempo, 15 gennaio 1959

I1 senatore Sturzo rievoca la fondazione del Partito Popolare5'

Il resto L pubblicato preceduto dal serenre corsivo: In occasione della manifestazione cele rativa del quarantesimo anniversario di fondazione del PPI - or-


Caro Bernabei, Permettimi di esprimere i sentimenti che si affollano nel mio cuore per la ricorrenza del quarantesimo anniversario della fondazione del Partito Popohre; ricorrenza che la DC ha voluto ricordare con particolare cerimonia, riconfermando così una data significativa nella storia dei cattolici e della nazione. I miei collaboratori di quel giorno, ancora presenti e attivi nella vita politica del paese, sono come me grati a coloro che, nel ricordo del passato, rivivono idee, direttive, emozioni, propositi, che allora ebbero una sanzione storica nelle lotte elettorali, parlamentari, sindacali; il cui epilogo, lo scioglimento del partito non volontario ma per decreto di autorità, a coloro che rimasero in patria appartati e agli altri che conobbero terre straniere, diede il diritto della continuità ideale, nell'attesa fiduciosa di un ritorno alla libertà. Questo momento arrivò nelle condizioni più tragiche e dolorose per la Patria nostra; avremmo preferito di scomparire, come persone non come idee, dalla faccia della terra, anzicché vedere il crollo del nostro paese. ganizzata dalla Democrazia Cristiana e alla quale parteciperà l'onorevole Fanfani - il sen. Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare, ha indirizzato al nostro Direttore la seguente lettera. Sul tema dell'anniversario del PPI pubblichiamo le seguenti lettere: Lettera del 23 dicembre 1958 al Segretario Politico del Comitato Romano della DC, dott. Ennio Palmitessa: Caro Palmitessa, Sarò lieto per quel che si farà per il 40" del Partito Popolare Italiano. Nelle mie attuali condizioni, mi astengo dal parteciparvi e uindi dall'assumere qualsiasi impegno in merito. Credo che tu saprai l e I'on D7Ambrosioha già preso la stessa iniziativa, ne ha parlato con I'on Rumor e sta facendo eseguire (o farà eseguire) la lapide da porsi all'esterno dell'Albergo Santa Chiara. Sarà bene, io penso, unificare le iniziative o darvi un significato unitario. Sarebbe al di fuori di qualsiasi mio intendimento, dare a tale ricordo significato di corrente o di frazione della DC. Ringraziamenti e cordiali saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 486, fasc. «fascicoli sciolti., 1958. Lettera del 5 gennaio 1959 al dott. Antonio Luzi Fedeli di Ancona: ~~re~io"~ottore, La sua iniziativa della rinascita del Partito oo~olaresecondo me sarebbe fuori temoo e destinata ad insuccesso, anche perché spezzando in due i cattolici, l i metterebbe gli uni contro gli altri, a vantaggio degli avversari laicisti e socialisti. Pertanto il meglio è che si affermino i principi del partito popolare dentro e non fuori, o peggio contro l'organizzazione della DC. A parte queste considerazioni, debbo a iungere per quel che mi può riguardare, che alla mia età (87 anni ià compiuti) e nelle mie condizioni di a g e e di forze (non esco più di casa) non dato altro che scrivere; lo fo volentieri e con la più netta franchezza quale io credo debba essere qiiella di un cristiano e di un democratico. Dall'lstituto Luigi S t u r ~ ole saranno inviare varie mie pubblicazioni. Auguri pel nuovo anno e distinti saluti a lei e al suo confirmatario Arnaldo Pagani. Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 607, fasc. «Art. e I. pubbl. del Prof. L. S.*,gennaio 1959. L

.

Lettera del 23 gennaio 1959 al sen. Umberto Merlin che aveva tenuto un discorso commemorativo al teatro Eliseo: Caro iMerlin, Ringraziamenti? sia ringraziato Dio che ci diede la grazia di compiere il voto dei cattolici italiani di potere partecipare alla vita nazionale con proprio nome, organizzazione, insegna e programma; e di averci anche dato la grazia di celebrare il 40" della fondazione del partito popolare. Le amarezze del passato e del presente sono mezzo di purificazione per quel che abbiamo fatto di male o per quel che ci siamo attribuiti. Non nobis, Domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam. Una cordiale stretta di mano tuo Luigi Stuno. In: A.L.S., b. 607, fasc. «Art. e 1. pubbl. del Prof. L.S.r, gennaio 1959.


Ma sia pure con nome diverso e in condizioni differenti il nucleo centrale del popolarismo fu ricostituito nell'insegna «Libertas»,per concorrere alla rinascita nazionale come sicuro apporto del pensiero cattolico e democratico, nella libertà e nel progresso. Il popolo, la città, la famiglia che non hanno tradizioni non arrivano ad acquistare facilmente propria personalità. La tradizione affonda nel passato e dà un sentire comune fatto di convinzioni e sentimenti, di lotte e vittorie, di dolori e di gioie; tempra e richiama a metodi sperimentati e a costumi affinati col tempo. Lo stesso è dei partiti: liberali e repubblicani si richiamano al Risorgimento, punto di partenza e dell'unità nazionale e delle libertà costi tuzionali e degli albori democratici. Noi cattolici non ci leghiamo ai neo-gue@ per il contenuto storico del momento, ma per la loro partecipazione al movimento risorgimentale, anche se questo prese posizioni che in parte sembrarono ostili alla Chiesa e in parte lo furono effettivamente. Mai, da allora in poi, i cattolici dissociarono i problemi religiosi da quelli nazionali per una specie di laicismo avanti lettera o di un naturalismo sul quale si appoggiò il liberalismo razionalista. Per le coscienze cattoliche e italiane fu una dura prova la lotta antivaticana e antireligiosa sotto la insegna della massoneria, che tentò di prendere il dominio politico. Ma mentre la parte militante dei cattolici italiani, seguendo il non expedit si appartò dalla vita politica attiva, rimase effettivo il doppio contributo della difesa religiosa e della preparazione civica. Dal convegno di casa Campello nel 1879, ai tentativi conciliatoristi falliti, si arriva nel 1904 alla timida iniziativa dell'unione Romana poco prima dello scioglimento dell'opera dei Congressi, e alla riunione di Milano promossa da Filippo Meda e altri poco dopo tale scioglimento; fino a che si arriva al discorso di Caltagirone del dicembre 1905, che fu il punto di orientamento e di partenza del Popolarismo. Questo non nacque bello e formato come Minerva dalla Testa di Giove; fu la lenta e laboriosa preparazione teorica e pratica di un decennio con parziale distacco dalle candidature poste con il permesso dell'autorità ecclesiastica caso per caso e culminato nel Patto Gentiloni, verso il quale la parte democratica dei cattolici si irrigidì nella disciplina del non expedit,per acquistare una propria personalità politica libera. Tale tradizione popolare è la più interessante e più proficua per la continuità storica delle forze cattoliche nella politica italiana; tenendo bene presente di non pretendere di interpretare o rappresentare la gerarchia ecclesiastica né l'azione cattolica, pur sicuri di potere attuare senza equivoci il pensiero etico-politico-sociale di ispirazione cristiana. Né il partito popolare di ieri pretese alla impeccabilirà; né la Democrazia Cristiana di oggi si presenta con la spavalderia della infallibilità. Ma nell'attuare i punti programmatici che rispondono alla tradizione italiana e cattolica, nelle condizioni storiche del presente e con le prospettive concrete dell'awenire, è dovere dei capi e degli associati mantenere intatta la propria personalità storica, e non ripiegare la bandiera che li disegna e li caratterizza. Così il passato si rinnova nel presente; il legame di continuità è vivificato dallo spirito che aleggia nella convinzione e nella fiducia che l'apporto di ieri e quello di oggi possono ben essere riuniti nelle prospettive di un migliore avvenire. Gli amici della DC, che leggono le mie critiche senza sottintesi, si domanderanno se nulla sia cambiato del mio pensiero di allora, e se posso sinceramente augurare alla DC la continuità della presente politica. Uno dei punti principali che differenzia il passato dal presente è quello dello statalismo. 1 popolari affermarono lo Stato nazionale ma combatterono lo Stato accentratore. La DC trovò rafforzato lo Stato accentratore e lo statalismo culturale economico e, dentro certi limiti, anche religioso. Posizioni diverse; ma lo spirito statalista oggi permane e si diffon-


de sotto aspetto sociale, al quale sono sensibilissimi molti democristiani, che forse non ne valutano le conseguenze. L'altro punto, che seduce, è l'apertura a sinistra, non tanto come difesa da un certo destrismo che guarda ad esperienze latine passate e presenti; quanto come elemento completivo della stessa DC per la statizzazione economica atta a contrastare certi monopoli privati. Su tutto questo statalismo quale ne siano le finalità dei promotori, incombe lo spettro dei comunisti (io penso dei social-comunisti) i quali sono in Italia più numerosi e meglio organizzati che negli altri paesi civili di qua e di là dell'Atlantico. La savia e previdente politica di De Gasperi per il Patto Atlantico e per l'Unione Europea, è stata fin oggi quella che ha dato la maggiore garanzia alla nostra Italia; De Gasperi è così anche oggi l'anello fra il passato e il presente, il popolarismo di ieri e la democrazia cristiana di oggi. La sua figura nella piazza di Trento non significa solo il compimento della unità nazionale nel 1918, ma la conservazione della stessa unità della Patria nella sua indipendenza e libertà del maggio 1947 e dell'aprile 1948. Ai popolari vecchi e nuovi oggi nel 40" della comune bandiera «Libertas»,bandiera di combattenti e di crociati, una commossa stretta di mano. Luigi Sturzo Il Popolo, 1 7 gennaio 1959

Ricordi e s ~ g g e r i m e n t i ~ ~ La mia esperienza di oratore sacro cominciò da chierico, nel 1887, nella cappella del Seminario di Noto (panegirico per S. Giuseppe); prese termine a iMilano nel 1905 (mese di maggio nella parrocchia di S. Tommaso). Dovetti lasciare in tronco gli ultimi cinque giorni perché chiamato d'urgenza a Calcagirone (mia città natale), per la nomina a Sindaco (col titolo di prosindaco per via della incompatibilità di legge) dopo una clamorosa vittoria elettorale dei democratici cristiani di allora. Esperie~zaincipiente, fatta senza pretese, anche per corsi di esercizi spirituali per uomini. Ben poco e ben lontano per poter parlare in una rivista oratoria di padri domenicani che hanno per la predicazione il dono e la grazia di speciale vocazione. Mi aiuterò con i ricordi di ascoltatore di prediche, in Italia e ali'estero, non tanto per desiderio di conoscere e apprezzare dotti oratori molto acclamati, quanto per motivi spirituali e per bisogno di sentire il conforto di autorevole richiamo alla verità eterna. Mia prima impressione: effetto sicuro da parte di coloro che parlano con senso di convinzione e di intimità, evitando la declamazione e la voce troppo alta (non dico stentorea) anche in chiese assai grandi e affollate. Oggi la voce è aiutata dagli alto parlanti anche in ambienti medi, con sicura perdita (secondo me) di efficacia meditativa e penetrante e con aumento del difetto declamatorio. Ma, ogni epoca ha le sue preferenze. Io non vorrei essere il hudator temporis arti sepuero di Orazio. Seconda impressione: non sempre l'oratore sacro tiene conto della qualità dell'uditorio;

j2

In: A.L.S., b. 607, fasc. .An. e I. pubbl. del Prof. L.S.., gennaio 1959.


ciò awiene a chi recita a memoria; ma anche a chi seguendo una traccia si fa trasportare dalla frase ricercata e da motivi improwisati, alienandosi dal pubblico che lo ascolta. Escludo il caso di un molto celebrato predicatore di Parigi, il quale usava fare spesso prediche sui doveri di classe; ma (dicevano i maligni) egli, alla Maddalena, ad un pubblico aristocratico e ricco esponeva i doveri degli operai; e al Rosario, chiesa delle banlieu esponeva quello dei padroni. Applausi (come dire? a scena aperta) in ambo le chiese. Sarà stata questa una disavventura non cercata o un mezzo di richiamo per prediche più utili; non ne saprei di più. Quello che mi sembra più grave è la posizione di scelta fra classi operaie e classi padronali fatta dal pulpito, come una discriminazione religiosa, mentre non è che una distinzione classista. Dio solo conosce i suoi; il pastore cerca le pecorelle anche quelle perdute. E non insisto su questo punto, per non precisare luoghi e nomi di chi, a mio parere, siegue oggi una strada che fa deviare. Parlare ai presenti, ecco il dovere del sacro creatore; parlare destandone l'attenzione e quindi facendosi comprendere. Gli antichi predicatori usavano il dialetto locale, specialmente nelle chiese della periferia o nei piccoli centri. Poi venne la schiera dei giovani oratori (fra i quali chi scrive) che propugnò l'uso della lingua in tutte le chiese. Non so se oggi farei lo stesso; allora si ebbe spesso la necessità (specialmente negli esercizi spirituali) di ripetere e di tradurre in dialetto quel che si era detto in lingua, per interessare il pubblico più numeroso. Ricordo di un vecchio contadino, benestante e che aveva fatto le tre scuole elementari, il quale, venendo dalla predica quaresimale della mia città (allora di trentaduemila abitanti) mi diceva che il predicatore aveva destato in tutti grande entusiasmo (era un napoletano, giovane intelligente, efficace e parlava assai velocemente). Gli domandai il soggetto della predica e mi rispose di non averla capita. Oggi forse non sarà così; come non fu così con un altro oratore meridionale ai tempi della mia prima giovinezza. Era l'anno che la Pasqua cadeva per S. Marco e i giornali avevano scritto sul celebre ritmo del quando Marcus Pasqua dabit.. . mundus totus ufuhbit. I1 predicatore quaresimale tenne parecchie prediche sul tema della fine del mondo e degli imminenti castighi divini, anche per via della recente occupazione di Roma e della persecuzione religiosa che ne seguì. Ricordo la paura che provocavano quelle prediche nel popolino; io stesso, allora quindicenne, ne sencivo insieme l'attrazione e la ripugnanza. Naturalmente, passata la Pasqua, la paura cessò, ma la critica al frate non cessò, nonostante che per un certo tempo un gruppo di fedeli continuò a parlarne casa per casa. Era pure di quel tempo un altro predicatore, più anziano, forse uno studioso di storia. Egli, nelle sue prediche, se la prendeva spesso con i giansenisti come se li avesse presenti. Confutando i loro errori, ne raccontava le ribellioni come se fossero ancora alle porte della mia città a terrificare i devoti e allontanarli dall'Eucaristia e perfino dalla Confessione. Non mancavano allora in Sicilia delle tradizioni gianseniste, come lontanissimo ricordo di lotte più giurisdizionali che teologiche. E dovere essere tempestivi e rispondere ai bisogni veramente sentiti dalla generalità e non mai prendere argomenti sorpassati e temi non più sentiti. Una delle tradizioni locali è quella del panegirico al Santo protettore della città, della borgata o della parrocchia. Tale panegirico è un awenimento importante; è un numero della festa; si vuole un oratore di grido; va ad ascoltarlo anche chi non ha molta cura di andare in chiesa; gli esperti giudicano se l'oratore di oggi abbia sorpassato i precedenti; quali i meriti speciali; come porge, come recita; se il lavoro è degno di stampa.. . così di seguito. Non escludo tutto ciò, se veramente dà occasione a fare qualche atto di contrizione o a recitare qualche preghiera con fede e compunzione. Ma ogni cosa anche buona ha la sua piega; senza urtare sentimenti e tradizioni popolari, sarà bene che i fedeli sappiano discernere quel che veramente importa da quel che è solo un abbellimento esteriore.


I1 lettore forse attenderà da me un parere su temi di politica e di azione sociale portati sui pulpiti e sulle cattedre delle chiese. Ecco: preferisco che tali temi vengano trattati in sale (anche in sale parrocchiali) anziché nelle chiese. Ma se per mancanza di altri locali occorre esporli in chiesa, sarà meglio insistere sulla linea di insegnamento di teologia morale e non su polemiche di politica attuale. In ogni caso, parlerei dei doveri dei fedeli (e proprio di quelli presenti) non degli assenti e neppure dello Stato come ente il quale non può esservi presente, anche perché lo Stato è un'astrazione giuridico-politica rappresentata da pubblici istituti e da persone investite di autorità, che non saranno di sicuro presenti. Per completare il mio pensiero debbo aggiungere che i predicatori dovendo conoscere bene quel che insegnano, se sono obbligati a parlare di azione politica e sociale (che in gran parte è impregnata di economia) abbiano cura di prepararsi bene e non parlino ad orecchio e con poche cognizioni mal ricucite. È il minimo che si può domandare, quel minimo che in non pochi casi manca del tutto. Riassumendo il mio pensiero si può arrivare alla conclusione, che è ben nota a tutti ed è regola ferma per tutti: la predica che vale è quella evangelica, detta con semplicità senza sciatterie; con convinzione senza affettazioni; con interiorità senza opacità; predicare Cristo e questo Crocifisso, figlio del Padre; il quale «nascose queste cose ai dotti e ai sapienti e le rivelò ai piccoli: Sì, o Padre, perché così ti è piaciuto che sia), (Matteo XI.26). Dattiloscritto, 17 gennaio 1959 (Non appare pubblicato)

Stato e ~ t a t a l i s m o ~ ~ Amici e avversari fra i tanti che mi comprendono, non mancano coloro che non si rendono conto della mia distinzione fra Stato e statalismo; il primo, ordine necessario al vivere civile; il secondo, distruttore di ogni ordine istituzionale e di ogni morale amministrativa. Siamo talmente abituati ad usare i derivati in ismo che non si arriva a comprendere la differenza fra l'ismoche indica un sistema e l'ismo che indica una degenerazione. Sociale è un aggettivo accettevole in quanto indica il carattere di società; socialismo vorrebbe essere un sostantivo sistematico per accentuare il sociale, ma mettendo questo in contrasto con l'individuale diviene causa di degenerazione perché l'uomo è sostanzialmente individuo e conseguentemente società; la organicità individuale-sociale non può ammettere I'accentuazione individualista a danno della società; né l'accentuazione socialista a danno dell'individualità. Lo stesso si dica di libertà e liberalismo; di comunità e comunismo; di organicità e organicismo, e di tutto ciò che indica una realtà concreta che dovendo essere mantenuta neli'ordine e nell'armonia viene attraverso un sistema unilaterale ed eccessivo a determinare la degenerazione. Pertanto, statalismo è disordine, disarmonia, sopraffazione, violazione della persona-

53 A proposito di statalismo pubblichiamo la lettera del 27 gennaio 1959 al sindaco di Taranto, Signor Angelo Monfredi: Ill.mo Signor Sindaco, In risposta al suo gentile telegramma mi permetto anzitutto farle osservare che la sopravvenuta crisi ministeriale ha fatto sospendere i lavori parlamentari, anche quelli delle commissioni in sede deliberante.


lità umana, rottura dell'organismo statale; statalismo non è lo Stato ma è contro lo Stato. Se non ci intendiamo sul significato e l'uso dei vocaboli, saremo condannati alla disgregazione sociale, della quale fu simbolo la torre di Babele, per via della confusione delle lingue.

Un esempio dello sratalismo ci capita sotrocchi. Aumento degli stipendi degli impiegati e corrispondente aumento delle tasse. Oggi, che può dirsi tassata anche i'aria che si respira, non ha importanza q u i e ne sia l'aumento fiscale; tutte le tasse si ripercuotono sui prezzi. Siano piccoli o grandi aumenti, dai francobolli ai telefoni; dalle linee tranviarie alle ferrovie; dai materiali di fabbricazione alla manodopera; dal costo del denaro ai prodotti di mercato, si vedrà la inutilità finale di tutti gli aumenti di tasse e stipendi che si elideranno, dando luogo, fra qualche tempo, a novelle richieste di aumenti salariali, nuovi scioperi, nuovi arti di forza della massa e nuovo cedimento del potere pubblico, e con diminuzione del potere di acquisto della nostra moneta. Una notizia mi ha fatto pensare a lungo. La Germania ha ammesso il suo marco al cambio, senza alcuna restrizione, con il dollaro, in qualsiasi Paese del mondo, potendo non preoccuparsi delle ripercussioni interne ed esterne. Così la piena e libera convertibilità oggi è solo di quattro monete: dollaro degli Stati Uniti, dollaro canadese, franco svizzero e marco tedesco. 11 dollaro americano e quello canadese vincitori della guerra; il franco svizzero moneta di un Paese neutrale; ultimo, il marco della sconfitta Germania, divisa in due tronconi, vecchia moneta perduta, industrie distrutte, occupazione militare fino a ieri; pertanto, in soli dieci anni quel Paese ha potuto tanto rilevarsi da portare la propria moneta alla pari (e con qualche vantaggio) sulla moneta statunitense. Dico con qualche vantaggio perché il dollaro in dieci anni è diminuito di valore, sì che oggi il marco, portato su tutte le piazze commerciali e cambiabile alla pari, fa naturalmente da remora ad ulteriore cedimento del dollaro, per il fatto che qualsiasi oscillazione dei cambi si risentirebbe dalle altre monete le quali fin oggi han cambiato il dollaro per cifra convenuta senza tener conto del potere di acquisto relativo alle due monete. È naturale che il Tesoro degli Stati Uniti sostenga la moneta nell'attuale linea, come già se ne ha notizia; saranno le altre monete che nei mercati accuseranno le loro oscillazioni. L'Italia, se continua la finanza spendereccia di oggi, ne sentirà ben presto gli efferri.

Per chi non lo sa, convertibilità della lira vuol dire che le lire guadagnare dagli esportatori esteri verso l'Italia porranno essere spese su ogni altro mercato del mondo; gli stessi Per parte mia debbo aggiungere che per le difficili condizioni di salute dal luglio scorso non sono andato al Senato e ignoro se porrb andarvi nei prossimo febbraio. Comunque sia, dato il mio orienramenro anristaralista (come potrà vedere dal mio ultimo arricolo che le compiego), vorrei avere chiarito in anrecedenza i morivi perché cotesri Cantieri non possano continuare a lavorare come impresa privata e debbano passare all'lR1, cioè ad un'azienda di Sraro che è costretta a manrenere i cantieri adriatici e quelli di Genova in continuato deficit di gestione. Mi è gradito, illustre Sindaco, di presentarle i miei più deferenti omaggi, beneaugurando alla Cirtà di Taranto. Distinti saluti Luigi Sturzo. In: A.L.S., b. 602, fasc. uArt. e 1. pubbl. del Prof. L. S.a, gennaio 1959.


stranieri le spenderanno in Italia solo se vi troveranno corivenienza per qualità e prezzi delle nostre merci. Conseguenza: liquidazione del particolarismo politico economico e finanziario (quello che vogliono le sinistre affette da statalismo demagogico e da pseudo solidarietà discriminatrice) per ritornare alla libera concorrenza internazionale, nella quale si avvantaggia il Paese dei meno costi e dei maggiori prodotti. I socialisti del congresso di Napoli non hanno dato alcuna attenzione al fenomeno sopra descritto, occupati com'erano a preparare il movimento di alternativa per arrivare (campa cavallo) al governo dell'Italia; governo che anche i borghesetti della nostra Repubblica ammettono non solo come possibile, ma perfino desiderabile, tanto per uscire dall'angoscia che dura da cinque anni: un$cazione sì; unzjkazione no; apertura n sinistra sì; rcperturn a sinistra no; non si prende il caffè tranquillamente con tanti Sì e No per il capo, quelli che (a parte la cronaca nera) interessano la grande stampa. La moneta? Vada pure al diavolo. La crisi delle borse? Affari da borghesi. La produzione dimin~iscee aumenta la manodopera? Tanto peggio, tanto meglio. La scelta che si impone a tutti i Paesi civili è oggi fra economia di mercato con tutti gli inconvenienti che comporta ed economia sratizzata con i suoi deleteri effetti. Andate a Berlino per vedere la differenza fra le due economie: Berlino Ovest: mercato libero e prosperità; Berlino Est: socialismo, comunismo e miseria; si potrebbe dire ((comunitàe socialità della miseria)). Si va dicendo che l'Italia è prospera pur avendo diviso la propria economia in base al giudizio di Salomone: metà statalista e metà mercato libero. Infatti, se si fosse eseguito il giudizio di Salomone il bambino sarebbe stato squartato in due, ma la vera madre vi si oppose. Ecco perché l'Italia è il solo Paese europeo che ha ancora un milione e mezzo di disoccupati; ha alterato l'equilibrio degli stipendi impiegatizi fra alti, altissimi e di stretta misura; ha una eccessiva liquidità bancaria e una produttività mediocre e in certi settori sottocosto; proprio il Paese nel quale lo Srato e gli enti statali sperperano denaro senza alcun controllo serio ed efficiente in non pochi casi con la condiscendenza e la corresponsabilità dei poteri pubblici. A rapitejtitpiscisperciò non mancano ditte semi-private o autonome come le banche e Ic casse di risparmio le quali spendono troppo in edifici, arredamenti, stampe di lusso, pubblicazioni poco utili, doni natalizi e così di seguito e sperperando il denaro pubblico come res nullius, il contribuente è parificato ad un condannato all'ergastolo; il cittadino che reclama è ritenuto un seccatore importuno, quasi un nemico cui chiudere la porta in faccia. Non esagero: tutti sono preoccupati di ottenere dallo Stato un posto, una pensione, una riversibilità, un vantaggio, una partecipazione, un riconoscimento: lo Stato è il Dio del momento, Dio pretenzioso e crudele, e allo stesso tempo elargitore di favori che si trasformano in ingiustizie; inventore di leggi che divengono, appena sfornate, sperequazioni, dissipando economie lungamente attese e faticosamente accumulate. Sfido chiunque a dire che non sia così.

Per controprova di quanto andiamo dicendo, do poche cifre (non voglio srancare il lettore) per avere un'idea di quel che rappresenta 1'IRI al quale si rivolgono oggi le attese per l'industrializzazione meridionale. Alla fine del 1957 il patrimonio lordo dell'IRI ammontava a quattrocentortantatré miliardi lordi, i quali ridotti al netto davano solo centoundici miliardi, cioè nove miliardi in meno del fondo di dotazione assegnato gratuitamente da Pantalone. Se lo Stato, invece di esse-


re così generoso con I'IRI lo avesse autorizzato a realizzare la stessa somma vendendo delle partecipazioni in socierà private, e se, dall'altro laco, lo Stato avesse (mantenendo i suoi impegni) restituito alla Cassa DD. e PI? centoventi miliardi sui mille e più miliardi del suo debito a quell'ente, avrebbe compiuto due buone operazioni e non avrebbe reso infruttuoso un capitale, esponendolo, per giunta, a perdite che, secondo me, superano i nove miliardi del conto 1957. A parte questi piccoli rilievi di sana economia (sia pure a tipo conto della serva), debbo aggiungere, per edificazione del pubblico, che I'IRI ed enti associati hanno accumulato la bellezza di ottocentonovantasei miliardi e 200 milioni di debiti, dei quali per operazioni a breve scadenza - salvo le tolleranze di banche dipendenti - la saggia costruzione dei nostri aweduti finanzieri - ben duecentotrenta miliardi, cioè il 25, 7 per cento del totale. Tale esposizione debitoria accusa una struttura claudicante. Infatti, mentre le socierà IR1 a partecipazione privata, che hanno azioni quotate in borsa, mantengono un utile netto che va dal 4, 3 per cento (Generale Elettrica Siciliana) al 15, 3 per cento (Dalmine), eccettuata solamente la Società delle Strade ferrare secondarie meridionali che è in perdita con 1'1 1, 8 per cento, quasi tutte le socierà i r i m t e che non quotano in borsa le loro azioni accusano un passivo annuo che va dal 20, 1 per cento (Ansaldo) al 5 9 , 2 per cento (Cantieri Adriatici Riuniti) al 100 per cento (Stabilimento meccanico metallurgico genovese - San Giorgio). Né si creda che gli stabilimenti deficirari siano pochi: io ne ho contati ventiquattro quasi tutti di notevole rilievo. Dio solo sa quanto costino, perché quelli che mancano sono i bilanci economici di ciascun ente nonché i piani di risanamento. Allegri, è in corso il rilievo del cantiere di Taranto da parte dell'IRI e un impianto IN siderurgico nel Mezzogiorno. Il presidente della Commissione di studio di quest'ultimo, il pro6 Mirabella, calcola la spesa tra cenrocinquanta e duecento milioni di dollari; tengo la seconda operai, con cifra pari a più di 125 miliardi; prevedo che si occuperanno da tre a un costo per unità lavoratrice da 60 a 8 0 milioni; e pur ammesso che ogni unità lavorativa costi quanto fu annunziato nel piano I N , quaranta milioni, quale differenza con i cinque rnilioni del fu Vanoni? I progressi dello statalismo sono come quelli del gambero; non c'è da averne meraviglia, ma i progressi dei carichi tributari per il cittadino italiano, che sta per essere statizzato anche lui, non hanno limiti di fronte a tutti gli /H, gli E M e simili piovre.

Il Giornale d Balia, 2 3 gennaio 1959

153. Fumo e cancro. I1 sen. Sturzo insoddisfatto della risposta del ministro Monaldis4 Onorevole Ministro e chiarissimo Professore, Le sono grato della risposta inviata per incarico del Presidente del Consiglio alla mia interrogazione sulla pubblicità usata per la vendita delle sigarette, assicurandomi (è la seconda volta in un anno) di maggiori indagini e più approfonditi studi da parte di organi competenti, quali il Consiglio delle Ricerche e I'lstituto di patologia generale dell'Università di Napoli. Comprendo che il Consiglio delle Ricerche metta le mani avanti dichiarando che ((non sono prevedibili risultati a breve scadenza», però mi sembra opportuno (come si fa per rut-

54

Letrera inviata ai Ministro dell'lgiene e Sanità, sen. prof. Vincenzo Monaldi.


te le malattie a larga diffusione e per le insistenti esortazioni di specialisti di chiara fama, non ultimo il prof. Pio Bastai) adottare quei provvedimenti che non recando male a nessuno, possono recare bene a molti. Perciò non posso dirmi soddisfatto della ripetuta proposta del Ministro delle Finanze, lavandosene le mani come Pilato, sotto lo specioso motivo di «non avere la possibilità di impedire, in yia amministrativa, la pubblicità effettuata direttamenre dalle case produttrici per le sigarette estere». A parte la questione di procedura, sulla quale avrei molto da dire (e non mi sembra che sia questo il momento, data la crisi ministeriale) se I'awocatura dello Stato (che non mi risulta essere stata interpellata) ritiene necessaria una leggina proibitiva di tale pubblicità, che venga proposta da codesto ministero di concerto con quello delle Finanze come provvedimento precauzionale, pur non impedendo la vendita che il servizio dei monopoli di Stato avrà contratto con le case estere ( e anche nostrane!). Nel rivolgermi al Ministro dell'Igiene e Sanità faccio appello al Medico insigne che in questo momento (sia pure un momento di crisi ministeriale) riunisce nella sua persona le due responsabilità. MI è gradita l'occasione per inviarle i miei più deferenti saluti. Luigi Sturzo

Il Giornale d'Italia, 27 gennaio 1959 La letrera fu pubblicata preceduta dalla seguente nota redazionale: All'interrogazione del senatore Lui i Sturzo resenrata al Senato, perchi il Consiglio delle ricerche promuovesse una inchiesta sugli efferri d e ~R m o di r'agacco, specialmente delle sigarette in rapporto ai conrinuo aumenro degli ammalati di cancro ai polmoni e inranro venisse dato ordine alla Direzione generale dei monopoli di Stato di sospendere la relativa pubblicità, la Presidenza del Consiglio ebbe a dare una prima volta una risposta non soddisfacenre sia per il farto di avere assimilato gli efferti dell'inquinamento atmosferico con quello del rabacco da sigarerre dei quali, secondo disposizione presidenziale, si occupavano gli studiosi di patologia umana e sperimentale; sia per l'assicurazione che la pubblicirà veniva fatta per sigarette estere al di fuori di ogni ingerenza dell'amministrazione dei monopoli. Suffragata da nuove considerazioni il sen. S t u a o presentb una nuova interrogazione, alla quale il Ministro della Sanità, sen. Monaldi ha così risposro: mentre per le malattie dell'appararo cardio-vascolarel'influenza del fumo appare sicuramente dimostrata, non si è, invece, poturo ancora srabilire, con assoluta certezza, nonostante li studi dedicati al problema, specie negli Stari Uniti ed in Inghilrerra. un rapporto di causalirà tra il fumo ekinsorgenza del cancro nel polmone,. Risponde, rurravia, al vero che le numerose osservazioni fatte in turti i Paesi hanno dererminato negli oncologi l'opinione che una delle cause della maggior incidenza dei tumori dell'appararo polmonare sia l'aumentato consumo del tabacco. È noto, del resto, che, tra i prodotti sviluppari dalla combusrione del tabacco, vi è un potenre cancerogeno, il 3-4 benzopirene. Circa gli studi condotti in Italia sull'argomento, si comunica che il Comitaro per la biologia e medicina del Consiglio Nazionale delle ricerche ha stabilir0 di esaminare il problema dell'incidenza del fumo di tabacco sul cancro polmonare prendendo in considerazione la possibilità di condurre nel paese una indagine srarisrica su vasta scala, dandone incarico a studiosi specializzati. Il Consiglio nazionale delle ricerche ha rappresentato, inoltre, che, presso 1'Istituro di Patologia Generale dell'Universirà di Napoli vengono svolti studi sull'influenza del h m o dei tabacchi italiani nella produzione sperimentale del cancro polmonare. È stata cosrruira un'apposita macchina per fumare e sono in atto allevamenti di ceppi selaionari di topi sensibili e resistenti al cancro del polmone. Poiché le indagini sono assai complesse - come è dimosrrato dal fatto che anche in laboratori stranieri parricolarmente attrezzati non si è finora giunti a conclusioni decisive - non sono prevedibili risultati a breve scadenza; il Consiglio Nazionale delle ricerche si riserva, comunque, di comunicare appena possibile l'esito delle indagini. Quanro, infine, alla pubblicirà dei prodotti del fiimo, il ministero delle Finanze, nel confermare che ià da anni il Monopolio di S n r o non svolge alcuna propaganda al riguardo, fa resente di non avere la positilirà di impedire. in via amministrariva, la pubblicirà effettuata direttamenre e l l e Case produrtcici per le sigarerre esrere.


Educazione civica e sentimento religiosos5 I1 1958 si era aperto, diciamolo francamente, sotto il peso della preoccupazione per il vantaggio notevole che la Russia Sovietica aveva sorprendentemente dimostrato nei confronti dell'occidente nel campo dei missili. L'anno si era iniziato all'insegna dello «sputnik».In questa atmosfera di generale preoccupazione il 1958 presentò via via altre pericolose prove: la crisi nel Medio Oriente nell'estate scorsa e, successivamente, la crisi di Formosa. L'anno si è chiuso invece all'insegna del grande «Atlas»di oltre 3 tonnellate che gli Stati Uniti hanno messo in orbita e del messaggio di auguri e di invito alla pace del Presidente Eisenhower che esso trasmette. I comunisti, che dal lancio degli «sputnik» avevano colto occasione non solo per esaltare la superiorità dei regime comunista su quello occidentale, ma di pervenire ad assurde considerazioni s~ll'onni~otenza dell'uomo, sono oggi serviti. L'Occidente ha dimostrato di saper recuperare in breve il tempo perduto di saper fare di più e di meglio. Ha dimostrato, soprattutto, che l'uomo nelle sue meravigliose conquiste aperte a vasti e impensati orizzonti verso il futuro, non ha bisogno di rinunciare alla sua fede in Dio e nell'uomo, non sente la necessità di mettere da un canto quella profonda umiltà che ci rende consapevoli dei nostri limiti e ci apre l'animo alle parole cristiane di pace e di comprensione fra i popoli. È in questa profonda umiltà, la quale non impedisce all'uorno le audacie più spinte, che trovano eco, le parole del Papa Giovanni XXIII, il quale nel suo primo radiomessaggio natalizio ha voluto con rinnovata forza richiamare gli uomini ad essere fratelli, a trovare nella suprema ed universale paternità di Dio la misura dei loro sforzi per dare al mondo la pace. Certo il 1959 preannuncia fin d'ora nuove prove: Mosca ha riportato la guerra fredda nel cuore dell'Europa, riaprendo il problema di Berlino. L'offensiva ha trovato i popoli liberi dell'occidente uniti e fermi nella determinazione di resistere ad ogni sopruso, ma anche favorevoli ad uno sforzo per assicurare la pace. L'augurio che oggi noi tutti formuliamo è che la ragione prevalga, che i Governanti di tutti i Paesi si facciano interpreti del profondo desiderio di pace dell'umanità intera. Ma in particolare che la fermezza dell'Occidente valga a difendere e garantire una pace non contraria ai diritti inalienabili dell'uomo; ma pace, cioè, degna di uomini liberi e non di automi. Intanto il 1959 si è aperto all'insegna del nuovo razzo russo che ha sfiorato la luna senza raggiungerla per un piccolo sbaglio di calcolo! I1 prof. Blagonravov ha affermato ormai prossimo il giorno in cui gli uomini potranno camminare lungo i bordi di un cratere lunare, scoprire il segreto dei canali marziani e vedere Venere sotto lo strato di nubi perenni che la nascondono alla vista! Sic. Parlando degli americani, mentre ne riconosce il valore, ritiene che essi hanno affrontato dalla parte sbagliata il problema del volo interplanetario. Chi ci capisce è bravo. Purtroppo anche il loro «Lunikn non ha raggiunto la luna e pare che sia diventato un nuovo pianeta del sole. Come si voleva dimostrare anche loro! ... non hanno azzeccato! Lo Scudo, 27 gennaio 1959

55

Questo micolo proseguiva riprendendo il tesro di <Civiltàinregralen, qui pubblicar0 a pag. 358.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.