Vol x nazionalismo e internazionalismo (1946)

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NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO (1946)


OPERA OMNIA DI

L U I G I

S T U R Z O

PRIMA SERIE

OPE.RE


LUIGI S T U R Z O

NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO

ZANICHELLI BOLOGNA


L'EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI E s E R c I T F ~ I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI

Poligrafici Luigi Parma S.p.A.

- Bologna - Novembre 1971


PIANO DELL' OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL'ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMA SERIE: OPERE

I I1 I11 IV V-VI

VI1 VI11

IX X XI XII

- L'Italia e il fascismo (1926). - La, comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). - La società: sua natura e leggi (1935). Politica e morale (1936). - Coscienza e politica. - Note e -

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8Ug-

gerimenti di politica pratica (1952). Chiesa e Stato (1939). La Vera vita Sociologia del soprafnaturale (1943). L'Italia e l'ordine internazionale (1944). Problemi spirituali del nostro tempo (1945). Nazionalismo e internazionalismo (1946). La Regione nella Nazione (1949). Del metodo sociologico (1950). Shidi e ~olemichedi sociologia (1933-1958).

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- DISCORSI - ARTICOLI Democrazia in Italia. - Unioni professionali -

SECONDA SERIE: SAGGI

- L'inizio della - Sintesi sociali (1900-1906). - Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-1915). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (1915-1918). - I1 partito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). Riforma - statale e indirizzi politici (1920-1922). - I1 partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). - I1 partito popolare italiano: Pensiero antifascista (19241925). - La libertà in Italia (1925). - Scritti critici e bibliografici (19231926). - Miscellanea londinese (1926-1940). - Miscellanea americana (1940-1945). - La mia battaglia da New York (1943-1946). - Politica di questi anni. - Consensi e critiche (1946-1959). TERZA SERIE: SCRITTI VARI I

11 I11 IV

V

- I1 ciclo della creazione (poema drammatico in quattro azioni). Versi. - Scritti di letteratura e di arte. - Scritti religiosi e morali. - Scritti giuridici. - Epistolario scelto. Bibliogafia. - Indici.



NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO

( 1946)



AVVERTENZA

Il volume Nazionalismo e internazionalismo, edito da Roy Publishers e uscito nel 1946 a New Y o r k , presumibilmente n o n era stato concepito come u n libro unitario e organico. I capitoli c h e l o compongono hanno cioè origini e date diverse d i composizione, e sono in realtà veri e propri saggi stuccati su vari argomenti, che vanno dall'analisi d i situazioni politiche presenti e passate, allo studio d i fenomeni storici e sociali alla luce dei principi ispiratori del pensiero sociologico d i Luigi Sturzo. Nella preparazione per l a stampa del dattiloscritto italiano, nel19Archivio dell'lstituto Luigi Sturzo n o n si è trovato il testo originale &i capitoli III e I V ; per tali capitoli pertanto si è proceduto alla traduzione dall'inglese. Due capitoli del libro, e precisamente il I («Nazione e nazionalismo ») e il V (N Lo stato, l e unioni e i partiti dei lavobratori D), erano già stati pubblicati, con alcune varianti, nel volume Race-Nation-Person. Social aspects o£ t h e Race Problem, raccolta d i saggi d i autori vari, edita a N e w Y o r k da Barnes and Noble nel 1944. Sta per tali capitoli, sia per gli altri d i cui esiste il testo originale italiano, la redazione preparata per il presente volume è stata confrontata con il testo dell'ediziow americana del vol u m e stesso. Come già detto, solo d i alcuni capitoli si conosce la data esatta della stesura, e cioè l'ottobre 1941 per il capitolo « Nazione e nazionalismo )I, e il gennaio 1941 per il capitolo « Le guerre moderne D. Il capitolo I X , « La crisi internazionale del dopoguerra B, è costituito in parte da articoli apparsi su T1 Quotidiano il 19, 20 e 21 luglio 1945 (poi raccolti nel n. 14 dei


Quaderni della Democrazia Cristiana con titolo ÂŤ Prima crisi del dopoguerra Âť), e per il resto da articoli pubblicati su I1 Mondo d i New Y o r k nel gennaio, aprile e maggio 1946. I n appendice sono stati raccolti alcuni saggi che trattano argomenti simili a quelli aflrontati nei vari capitoli, i n particolare la storia e le caratteristiche del movimento democratico criotiano. La collazione dei testi e l a traduzione dei capitoli mancanti dell'originale sono a cura della Drs. Maria Teresa G a n ~ t t iBellenzier.

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PREFAZIONE

La città di San Francisco ha celebrato l'anniversario della Carta delle Nazioni Unite, firmata i l 25 giugno 1945. Nell'indirizzo commemorativo, nella War Memoria! House, Trygve Lie, segretario generale deIl'ONU, ha ammonito che il mondo « non dev'essere pessimista ».I1 vasto uditorio non era pessimista, ma lo ha investito con una serie di domande sul continuo dissenso fra i Tre Grandi, sul potere di veto, l'uscita del dqlegato sovietico dal consiglio di sicurezza, la « carta » Baruch sull'energia atomica, e così via, mostrando una profonda preoccupazione per l'attuale situazione mondiale. Un simile stato d'animo è certamente più favorevole alla formazione di una coscienza internazionale di quanto non lo fosse i l vecchio isolazionismo americano o anche l'apatia verso i problemi mondiali, comunemente ignorati come se non toccassero in alcun modo gli interessi americani. Ma guardando alla presente delusione e inquietudine per l'andamento generale degli affari mondiali, possiamo individuare due particolari fattori che influenzano l'opinione pubblica. I1 primo è la mancanza di comprensione storica degli eventi politici; il secondo, la mancanza di pazienza nel modo di portare avanti gli affari mondiali. Entrambi contribuiscono ad avvelenare 'L'atmosfera post-bellica nonchè ad aggravare la confusione internazionale. Inglesi e americani si lamentano che i russi non l i capiscono, e che si oppongono ostinatamente ad ogni loro proposta di compromesso sulle questioni poste sul tavolo. Ma se inglesi e americani conoscessero meglio l a storia politica, ricorderebbero che la tattica d i Mosca non è nuova, che essa ha una base psicologica e u n significato realistico. Le lamentele sono fuori

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posto; e più di queste, le pubbliche controversie dei ministri degli esteri sono frecce avvelenate e non portano ad una politica di conciliazione. Soprattutto, è necessario applicare il metodo di una lunga pazienza ; se Bevin e Byrnes si sono resi conto che nei dieci anni dalla conferenza di Londra i Quattro Grandi non sono giunti ad alcun apprezzabile accordo sui trattati di pace con l'Italia e gli altri paesi, la loro tattica avrebbe dovuto essere più corretta e le loro mosse più controllate. Invece di dare al mondo l'impressioni di u n fallimento, essi avrebbero dovuto impressionarlo con il loro contegno calmo e la loro fede nelle trattative internazionali. La stessa cosa è vera per l'opinione pubblica. Gli storici devono svolgere una grandissima funzione nell'educazione politica del loro paese; essi devono insegnare alla gente che il processo di sviluppo della umanità nei suoi risultati è lento e difficile. Non possiamo negare che durante il primo anno della sua dura esistenza, I'ONU ha superato varie difficoltà e h a fatto bene sperare per i l futuro. Ma ciò non contribuisce quasi affatto alla formazione di una coscienza internazionale, per l a quale, se il popolo non dispera, sono più utili lotte e crisi che non guadagni materiali e occasionali. La maturazione viene col temp o ; le azioni umane, come i l frutto di un albero, necessitano di vento alterno, pioggia e sole. P e r di più, i popoli non solo « non devono essere pessimisti P, com ci ammoniva Trygve Lie, ma devono anche essere istruiti in storia internazionale e devono avere pazienza. I successi politici sono ardui e devono essere mantenuti con l'informazione, la vigilanza e l'azione. L'autore di questo libro non pretende di aver scoperto il segreto della pace; ma presentando i vari aspetti della politica nazionale e internazionale, l'influsso culturale, sociale e religioso che modifica le tendenze politiche, le crisi create dalle guerre di aggressione, e le paci malate, egli intende contribuire ad una migliore conoscenza del passato, e ad una corretta preparazione di un futuro migliore. Quelli d i noi che non hanno familiarità con il giudizio storico sugli eventi mondiali, non capiscono l'utilità di simili valu-

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tazioni storiche; non vediamo cioè nei problemi di oggi la sintesi di tutte le idee e i fatti che hanno portato al presente. Questo metodo di valutazione storica è opposto a quello positivista, che consiste nell'isolare il fatto. dal volere umano e dal suo processo storico, e nel ridurlo a una cifra statistica senza implicazioni di teorie e principi. Ma la critica del presente non potrebbe essere aderente alla realtà ed efficiente se non fosse basata su quel passato che ha condizionato il presente e gli ha dato l'impronta d i una continuità storica. Dopo tutto, non è la politica l'arte di prevedere, prevenire e provvedere? Come può ciò accadere se gli uomini di stato, i funzionari responsabili e l'opinione pubblica non valutano i fatti dal punto di vista della loro causalità, fondamento storico e significato interiore, discriminando gli elementi essenziali da quelli accidentali? Nè ciò è tutto. Vi sono imponderabili storici che, in molti casi, hanno tali gravi conseguenze, da rendere doveroso per gli uomirii di stato il non trascurarli. Uomini di genio e di esperienza, forniti di intuizione, possono afferrare il profondo valore degli imgonderabili meglio di altri; ma se l'uomo comune acquisisse l'abito mentale di osservare e valutare gli avvenimenti storici, i risultati migliorerebbero la vita della società. I1 lettore di questo libro lo trove~àpercorso da un pensiero dominante: l'infiuenza della morale sulla politica e il dovere di subordinare la politica alla morale. La scienza politica è autonoma e h a le sue leggi e i suoi criteri di valore; ma come arte umana, l'arte di governare gli esseri umani, la politica è soggetta alle leggi morali, poichè lo è l'uomo nella sua libera attività, e anche perchè i fini della politica - ordine, giustizia, libertà, leggi - sono essenzialmente vivificati dalla morale. Se nazionalismo e internazionalismo - che appartengono alla politica - sono concepiti e realizzati sotto l'influsso di concetti e leggi morali, essi aiuteranno l'umanità nel suo sviluppo; ma entrambi sarebbero pericolosi se concepiti e realizzati fuori della legge morale, o contro la concezione morale della vita. Nazionalismo e internazionalismo sono oggi i due poli attomo ai quali la ~ o l i t i c aha le sue evoluzioni e involuzioni.


Tutti gli altri interessi umani, istituzioni, orientamenti sociali, e anche l a vita culturale e religiosa, risentono l'influsso di POlitiche nazionaliste o internazionaliste. I n questa luce, l'autore ha introdotto alcuni capitoli che trattano pensieri sociali O religiosi, questioni giuridiche e organizzazioni dei lavoratori, discutendo i loro reciproci riflessi sulla politica dell'epoca attuale. La nazione come popolo unito) non morirà; L'internazione O mondo unito non durerà come è adesso ma, come una larva, ci evolverà verso una vita completa. Sar.à merito della generazione presente, uomini di stato e capi politici, scienziati e storici, ecclesiastici e lavoratori, realizzare quell'internazionalismo basato sulla morale, che rispetta e integra la tradizione storica e culturale delle singole nazioni, mettendole in grado di vivere insieme in pace e prosperità. Quando? La strada è difficile e lunga, ma l'umanità non deve disperare. lo luglio 1946

L'autore desidera esprimere la sua gratitudine per l'aiuto fornitogli al defunto mons. G. Barry O'Toole dell'università cattolica d'America, al prof. Mano Einaudi della Cornell University, alla drs. Angeline Lo Grasso del Bryn Mawr College, alla signora Frances Lanza e alla signorina Mary Bagnara.

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CAP. I NAZIONE E NAZIONALISMO

La parola « nazionalismo 1) è nata nel secolo scorso, non molto dopo la nascita di tre altri « ismi »: « liberalismo, socialismo e comunismo ».Tutte e. quattro tali parole vengono da rispettabili origini; i loro primi progenitori sono dei « gentiluomini n nell'uso linguistico e in quello filosofico e religioso, e si chiamano nazione, libertà, società e comunità. L'ismo fu aggiunto ai loro aggettivi, sostantivandoli ; come da liberale (che aveva altro significato) (l) venne liberalismo, e da sociale socialismo, da comune comunismo, così da nazione venne fuori nazionalism~. L'ismo venne così a indicare sia una teoria che s'incentra in uno di tali principi o qualità (secondo i punti di vista), sia un'attività organizzata che adottando una speciale interpretazione del principio vi costruisce sopra un sistema teorico-pratico; sia infine un sentimento collettivo, che favorisce in una qualsiasi maniera la tendenza che I'ismo significa. Onde fu un'esigenza linguistica e razionale che da tali sostantivi ( p u r nati da aggettivi) si formassero aggettivi ancora più aderenti al nuovo loro significato e come da socialismo si ebbe socialistico, da nazionalismo se ne derivò l'aggettivo « nazionalistico s. (1) La parola liberale prese il nuovo significato in Spagna, durante la rivolta e la guerra del 1822 in contrapposizione alla parola servile applicata ai reazionari.

1. Snmo - Nazionalismo e Intemzionalismo


I1 processo di cristallizzazione dei significati delle parole può essere più o meno lento e confuso, secondo che implicano o no principi da difendere e valori da tutelare, destando quindi l e reazioni contrarie da parte dei sostenitori dei principi opposti. Onde avvenne nel secolo XIX che le parole liberalismo, socialismo e comunismo, arrivarono a rappresentare un contenuto di idee meno impreciso e più caratterizzato, mano mano che le polemiche e gli studi scientifici da un lato, le esperienze e le attuazioni pratiche dall'altro, ne definivano e precisavano i contorni. E pur lasciando sussistere margini oscuri, punti controversi ed elementi contraddittori, si arrivò ad un comune modo di intendere quelle parole, che già avevano fonti autorevoli d'interpretazione e criteri concreti per ulteriore elaborazione. Per i cattolici, le condanne dei papi alle teorie del liberalismo, socialismo e comunismo, quale precisate nei documenti relativi, formarono una base importante per apprezzarne e intenderne il significato, per vederne i punti di divergenza e di convergenza nel processo di adattamento sia spazialmente nei diversi paesi sia processualmente da allora ad oggi. Ma quel che resta indiscusso per tali tre parole si è che l'ismo indicava, fin dal primo momento, un eccesso, una sopravvalutazione dell'originario sostantivo da cui derivava (libertà, società, comunità); e dava l'idea di un primum fondamentale (fosse questo un primum etico o sociologico o politico o economico) cioè un primato o superiorità su ogni altro principio o idea. Per questo, la riprovazione sia dei filosofi e sociologi, sia degli uomini politici, sia delle autorità ecclesiastiche, non doveva andare, nè va, alla libertà o alla società o alla comunità, ma all'esclusivismo o all'eccesso ad esse attribuito o comunque indicato da quell'ismo che le teorizza e le solleva al rango di principio assoluto o fondamentale. Nel caratterizzarli come tali non possiamo non attribuirvi una propria natura finalisttca, in quanto l'attuazione di tale principio è vista come un bene prevalente da ottenere; tanto più prevalente come fine, quanto più fondamentale come principio; sì che se arriva ad essere qualificato (come è avvenuto nel decorso storico) quale principio unico, diventa al tempo


stesso un fine assorbente, cui tutto il resto viene subordinato. Ma dal fatto stesso che uomini di teoria e di pratica abbiano marcato una graduazione tra fine più o meno prevalente o assorbente e principio più o meno assoluto e unico, pur accettando essi l'ismo apposto a tali parole, ne è venuta una larga gamma di teorie e di pratica, sì che non c'è un solo liberalismo ma ce ne sono mille, e non un solo socialismo, ma almeno cento, e non un solo comunismo, ma almeno dieci. La moltiplicità dei significati è in rapporto alla complessità del contenuto e dei problemi che vi sono connessi; onde i l liberalismo, come teoria filosofica politica ed economica ha avuto molte e così varie faccie e ne ha tuttora, mentre il socialismo e i l comunismo ne hanno assai meno per il loro carattere materialistico e pratico e per la loro povertà filosofica. Comunque sia, nessuno può mettere in dubbio che tra libertà e liberalismo, tra società e socialismo, tra comunità e comunismo non solo c'è la differenza fra un astratto e un preteso concreto ( i l che può anche essere l'inverso), ma fra un principio naturale e un suo eccesso o una sua deformazione sì da arrivare, nel fatto, anche ad una sua negazione, come sarebbe non difficile provare nel caso di comunità e comunismo.

Il significato d i nazionalismo Questo preambolo ci porta a meglio intendere l a portata della parola nazionalismo, in quanto per l'aggiunta dell'ismo al nazionale, ci fa avvertiti di u n tal quale eccesso o deformazione, che viene recata alla concezione da cui trae origine. La nazione vi è intesa i n una maniera eccessiva, sì da alterarne i caratteri naturali, in quanto ne fissa la base teorica i n un principio creduto fondamentale e ne cerca l'attuazione come una finalità prevalente; tende così a fare della nazione non solo u n primum politico, ma anche un primum sociologico, e perfìno un primum etico. Questo, in nucleo, l'errore o l'equivoco che si nasconde nel nazionalismo; i l quale anch'esso va posto al rango degli altri ismi, che nel secolo XIX han preso i l posto che naturalmente


spettava ai concetti da cui traevano origine. La nazione, per via del nazionalismo, ha avuto deformato il suo carattere di comunità d i u n popolo effettuata sulla base della propria tradizione, storia, linguaggio e cultura; perchè il nazionalismo è stato fatto passare per principale causa efficiente e finale della comunità stessa. Anche il nazionalismo ha una larga gamma di colori, dal più stravagante al meno irragionevole e dal filosofico al sentimentale. È perciò che riesce difficile classificarlo e darvi dei contorni che siano accettati da tutti. E quando noi vogliamo coglierne l'essenza (come sopra descritta) troveremo coloro che, in buona fede, crederanno che noi abbiamo calcato le tinte al di là della comune accettazione della parola. Noi abbiam fatto un'analisi filologica e sociologica insieme, quindi abbiamo il diritto d i fissarne il risultato; ma riconosciamo che, al di fuori della logica, vi sono dei nazionalismi strettamente politici e sentimentali di natura benigna. Chiamar nazionalismo il patriottismo è stato un errore oltrecchè linguistico anche politico; ma tant'è, per parecchi i due sostantivi si equivalgono o si equivalevano. Così come per molti, anche oggi, l'affermazione della libertà e lo stesso sistema costituzionale dove le libertà politiche sono regolate, è liberalismo. E quanti non han classificato come socialismo e comunismo le dottrine sociali cattoliche? Non è facile cogliere l'intrinseco nesso fra la parola e il significato, e si va per approssimazione verso i significati che prevalgono in un dato momento e in un dato ambiente. Ma, allora, si domanda, perchè i papi han condannato il liberalismo, il socialismo e il comunismo senza qualifiche, intendendo quel che tali parole significavano nel momento della condanna e senza preoccuparsi delle forme attenuate (ovvero in certi casi colpendo anche le forme credute attenuate), e invece per il nazionalismo Pio XI (l'unico dei papi passati che se n'è occupato di proposito e molte volte) volle distinguere il nazionalismo moderato D da quello u eccessivo D, colpendo solo quest'ultimo ? (l). (l)

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Nel discorso del 3 dicembre 1930 ai cardinali e prelati in concistoro,


Varie ne possono essere state le ragioni, ma quella che a me sembra la più convincente si è che i papi quando condannano u n errore di cui la parola è indice, non creano essi, nè la parola nè i l significato attribuitovi, ma ne precisano i l senso in riferimento all'errore che .contengono e che è generalmente appreso come tale in dati luoghi e tempi. Può darsi che la parola che sintetizza l'errore condannato contenesse fin dall'inizio altri significati, o che l i avesse acquistati nel decorso dei tempi (chi non sa che le parole mutano di senso?) e che pertanto tali significati non entrino nella sfera della condanna ( l ) . Per esempio : in Inghilterra i cattolici possono appartenere tanto al partito liberale che a quello laburista (che spesso si afferma come socialista). A proposito di quest'ultimo, dopo l a pubblicazione della Quadragesimo Anno, dove era scritta la famosa frase: «: Nessuno può essere allo stesso tempo u n cattolico sincero e un vero socialista » sorse là una larga discussione, alla quale pose fine il cardinal Bourne, affermando che in questo Pio XI parlò contro « un nazionalismo duro ed egoistico n. Nella lettera enciclica Caritate Christi compulsi del 3 maggio 1932 egli fa netta la distinzione fra il nazionalismo-amore di patria e il nazioualismo esagerato, là dove dice: « C h e se questo stesso egoismo, abusando del legittimo amor di patria e spingendo all'esagerazione quel sentimento di giusto nazionalismo, che il retto ordine della carità cristiana non solo non disapprova, ma regolando santifica e vivifica, si insinua nella relazione tra popolo e popolo, non vi è eccesso che non sembri giustificarlo, e quello che tra individui sarebbe da tutti giudicato riprovevole, viene considerato ormai come lecito e degno d'encomio se si compie in nome di tale esagerato nazionalismo n. Nell'allocuzione ai maestri dell'azione cattolica italiana del 6 settembre 1938 egli tornava ancora, dopo altri discorsi del genere, a denunziare il nazionalismo esagerato « c h e non affratella i popoli, ma li scaglia gli uni contro gli altri n (L'Osservatore Romano, n. 208, del 1938).

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(l) I1 segretario di stato Corde11 Hull, nel suo messaggio sulla guerra mondiale del 23 luglio 1942, usava, riferendosi al nazionalismo, la stessa accezione di Pio XI, come testimonia questo passo: uno dei maggiori ostacoli che nel passato ha impedito il progresso umano e ha posto le basi per i dittatori, è stato il nazionalismo esagerato. Tutti converranno che il nazionalismo e il suo spirito sono essenziali ad una sana e normale vita politica ed economica di un popolo, ma quando le politiche del nazioualismo - politico, economico, sociale e morale - sono spinte a tali estremi da escludere e scartare le necessarie politiche di cooperazione internazionale, esse diventano pericolose e mortali D.


paese uomini e donne sono liberi di appartenere al partito politico che incontra la loro maggiore simpatia e comprensione ». Naturalmente egli aggiunse di mettersi in guardia «contro i principii erronei e di non compromettere la loro coscienza, impegnandosi in tutte le intraprese di ogni partito politico ( I ) . È chiaro che il liberalismo o il socialismo di quei cattolici inglesi (se si mantengono veri cattolici) non può dirsi che sia lo stesso di quello condannato dai papi. E chi non ricorda che per parecchio tempo fu usato il termine di socialismo cattolico (anche dopo le condanne di Pio IX e di Leone XIII) per indicare la scuola sociale dei cattolici? Furono notevoli in Italia, tra 1'800 e il 1900, il libro di F. S. Nitti sul socialismo cattolico, e l'altro del conte Eduardo Soderini ( u n eminente cattolico) sul socialismo cristiano. Fatte queste riserve, è costante uso fra i cattolici che quando si parla di liberalismo, socialismo e comunismo s'intendono i sistemi condannati dai papi. Non così con la parola nazionalismo. Perchè, mentre per i primi i papi trovarono che alla loro base vi erano teorie erronee divenute comuni nella opinione pubblica, per il nazionalismo la stessa opinione pubblica era divisa, dando alla voce nazionalismo il significato di un marcato amore di patria per contrapporlo all'internazionalismo dei socialisti e dei comunisti (seconda e terza internazionale); i quali per un ideale o largamente umanitario o strettamente classista, svalutavano o negavano (almeno per metodo polemico) l'amore di patria. Diciamo (c per metodo polemico I), perchè tanto i socialisti tedeschi della seconda internazionale nel 1914, quanto i comunisti russi della terza internazionale nel 1941 hanno dimostrato con i fatti che si sanno battere anche per la loro patria geografica e politica. Ma tant'è: quando il papa venne a riprovare il nazionalismo, trovò che nell'opinione generale ne esistevano due, il primo dei quali non aveva alla sua base teorie anticristiane, almeno non le mostrava potendo bene nasconderle dietro l'amo-

(l) Vedi Luigi Sturzo, Politics and Morality, Burns, Oates and Washbourne, London, 1938.

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re di patria ( u n po' più colorito degli altri amori); così limitò la condanna a quello anticristiano che appellò egli stesso di eccessivo ». Nel far ciò, Pio XI era spinto da due considerazioni pratiche di una certa importanza. La prima quella di indurre le associazioni e i movimenti nazionalistici, spesso creati per sentimentalismo o anche per difesa della borghesia e delle classi medie contro gli eccessi dei partiti operai, a riconsiderare il loro nazionalismo e portarlo nei limiti di una equa valutazione degl'interessi del proprio paese. L'altra, quella di evitare che ogni giusta difesa della propria nazione o nazionalità o minoranza nazionale, fosse dagli avversari qualificata di anti-cattolica o anti-cristiana e come tale condannata dal papa. I1 che avrebbe avuto l'effetto d i convalidare l'accusa che i cattolici come. tali sono anti-nazionali; e l'altro di aumentare le pretese antipatriottiche degli internazionalisti nei momenti più acuti della lotta politica, come avveniva in Francia (l). Per quanto possa dirsi lo stesso delle tante varietà di liberalismo o socialismo ripullulate in un secolo di fermentazione di idee e di atteggiamenti politici in tutti i paesi, pure u n dato è facilmente constatabile: che le idee astratte di libertà, società e comunità hanno i n sè un contenuto etico la cui negazione o attenuazione implica u n errore; mentre la parola nazione non è un'astrazione logica, non ha u n significato che trascende i l puro fatto storico di un popolo così e così configurato, e infine non implica un errore quando se ne modifichi la fisionomia. Chi sa bene come la mentalità latina sia abituata a tali impostazioni schematiche e come la scolastica ne abbia strettamente fissato i l tipo, arriva a comprendere la gelosa cura che Roma mantiene nel fissare i l rapporto fra la parola e il suo significato essenziale e permanente. L'anglo-sassone è in genere più pragmatico; non concatena ma distacca; non sintetizza ma si tiene alle approssimazioni. Così può facilmente superare le implicazioni ideologiche e sistematiche di una parola ( o di u n fatto) prendendola per quel che vale al momento. ( l ) Vedere: Maurice Vaussard: Enquéte sur le nutionalisme, Editions Spes, Paris, 1924.


Da qui una serie di incomprensioni fra il mondo cattolico e quello non cattolico, che rende difficile l'apprezzamento di certi atti pontifici, e la non facile impostazione dei problemi connessivi, quando secondo l'opinione comune degli uomini sono valutati diversamente i fatti storici che han dato luogo ai vari interventi pontifici. L'ultimo dei quali, quello sul nazionalismo eccessivo (che poi prese anche il colore di nazionalismo statale totalitario e di nazionalismo di razza), merita d i essere approfondito al di là della polemica quotidiana e giornalistica, nelle sue implicazioni sociologiche e spirituali.

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Niente d'importante e di caratteristico affetta la società senza una ragione intrinseca e senza opportunità storica. Quel che di nuovo sembra s'inserisca nel processo umano, non sarà altro che lo svolgimento, naturale o violento, di motivi che non erano avvertiti e che, nella concatenazione delle libere iniziative con il condizionamento sociale, furono resi efficienti e vitali. E poichè, nella dialettica sociologica (non quella di Hegel o Marx, ma la dialettica umana e reale) l'affermazione d i oggi deriva da una negazione di ieri e produce a sua volta la negazione di domani, e sotto diversi punti di vista le negazioni e le affermazioni si convertono, così quando qualche cosa d i nuovo viene affermato, in un dato momento storico, occorre cercarne i caratteri per precisare la negazione che esso può contenere. Per fare simile analisi riguardo al nazionalismo, quale esso apparve nel secolo scorso, occorre vedere anzitutto quali erano al suo apparire le posizioni teoriche e pratiche dell'idea d i a nazione D. Tre furono le grandi affermazioni storiche tra il 1789, inizio della rivoluzione francese, e il 1848, data storica delle rivoluzioni nazionali e sociali. La prima, l'affermazione francese « la nation D, fu allora


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presa a designare il paese, lo stato e il popolo, come unità morale e politica di fronte al monarca considerato come i l capo dello stato sì, ma in quanto primo cittadino e primo funzionario. I tre significati dati alla « nation » erano equivalenti, i n quanto il popolo ( i l populus latino) era tutto il paese e questo era organizzato in stato secondo la volontà popolare. Donde l'uso di contrapporre « nation » a « roi >, in quanto s'intendeva negare il sistema antecedente di monarchia assoluta e affermare la volontà collettiva del popolo. nazione » così diveniva l'affermazione di una La parola personalità morale e politica conquistata dal popolo. Lo stato paternalista e patrimoniale era del passato. Nel vecchio regime il popolo era considerato un minorenne, il territorio un patrimonio della corona, le guerre interesse del re, la finanza dello stato e quella della monarchia erano confuse. Solo con Richelieu si cominciò a distinguere politicamente casa regnante e Francia ; ma non così che Luigi XIV non potesse dire: Lo stato som io. La nazione che si elevava contro tale monarchia, per la legge della dialettica storica, si presentava rivoluzionaria e democratica, e sulla base della sovranità popolare formava la nuova personalità del paese: nasce così l a Francia della liberté, égalité e t f raternité. La seconda affermazione tutta propria dell'idea di nazione, fu da parte della Germania, e Fichte ne fu il profeta con l e sue celebri « Lettere alla nazione tedesca ».La nazione fu presa per un'idea che si realizza, uno spirito che s'incarna; gl'individui non sono che fenomeni di una realtà che noi pensiamo collettiva in quanto viviamo in essa e per essa. La nazione come popolo e cultura è una realt: in divenire che si crea e si sviluppa per forze interiori. Questa concezione immanentistica della nazione ebbe in Germania la sua maturazione letteraria e filosofica nel periodo romantico e l a sua espressione politica nel federalismo di tante piccole entità tendenti a superarsi nell'unità, finchè prevalse l a concezione di Hegel della « nazione-stato n come realizzazione suprema e immanente dell'« Idea ».F u allora che lo stato pmssiano (che Hegel aveva presente quando ne pensava i caratteri divini) assorbì la Germania tradizionale, feudale e federalista.


Il Reich divenne l'unica espressione della nazione germanica nella sua interiore realtà, concepito quale « potere e forza 1). L'ulteriore evoluzione della nazione immanente è venuta attraverso l'idea d i razza, unendo insieme le ideologie filosofiche di Fichte e di Hegel, il potere e forza di Bismarck con le mitizzazioni materialistiche del sangue e del suolo. I1 terzo Reich nazista ne è la sua realizzazione (l). La terza affermazione .della nazione, che germogliò nel secolo XIX, fu quella dell'unità e indipendenza politica di ogni nazione, quale formata attraverso la tradizione, la storia, la lingua, la cultura e la religione, per quei paesi che fossero soggetti a uno stato straniero ovvero fossero divisi fra diversi stati spesso autonomi. Chi ne simbolizzò l'ideale fu Giuseppe Mazzini. Tale fu il fermento che pervase l'Italia divisa i n tanti regni e in parte soggetta all'Austria, che eccitò le guerre e le rivolte in Grecia e negli altri paesi balcanici soggetti alla Mezzaluna, che eccitò i movimenti di nazionalità e di indipendenza nei paesi dell'Impero asburgico, e che fece riprendere le rivolte irlandesi e polacche. Quel che nel secolo XIX diede la spinta alla formazione di una nuova coscienza nazionale fu anzitutto il movimento romantico delle letterature, leggende e saghe di ogni popolazione; la rivalutazione delle lingue particolari in confronto alle lingue di cultura generale o usate dalle classi alte e dalle corti, u n movimento popolare, che veniva orientato verso gl'ideali d i libertà diffusi prima dalla rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, e poscia dai movimenti sociali che agitavano le classi operaie, tenute allora in condizioni oppressive e miserabili. I n questa fase storica noi troviamo che l'idea di nazione prende un triplice aspetto: 1) nazione come volontà popolare organizzata nello stato (Francia); 2) nazione come anima di un popolo che si realizza per innata virtù (Germania); 3) nazione come personalità politica autonoma e libera (,Italia, Grecia, Irlanda, Polonia, Belgio, Boemia, Ungheria e più tardi paesi balcanici). (l) Vedi Nationalism: a Report by a Study Group of Members of Royal Znstitute of Znternational Affairs, Oxford University Press, 1939.

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La nazione nella storia Per afferrare l'intimo significato dei tre aspetti che l'idea di nazione prese in Europa tra l a fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, occorre approfondire quel che nazione è stata nella sua realtà. Nazione indica individualità di un popolo ; e questa non può formarsi senza una contiguità geografica stabile, una tradizione storica e culturale, un interesse economico. Quando a queste condizioni preliminari si aggiunge una presa di coscienza da parte del popolo, per una di quelle sintesi sociologiche, che solo l e grandi idee quali la religione, la libertà e l'indipendenza possono destare, allora si sviluppa la personalità collettiva che noi chiamiamo nazione. Per noi l'individualità di u n popolo indica solo la differenziazione di fatto di un gruppo etnico da u n altro, la personalità invece indica la coscienza attiva che dal gruppo differenziato si sviluppa, prendendo una propria impronta culturale e politica. Perchè una nazione si formi, si parte da una posizione di distinzione fra i gruppi etnici contigui e anche affini, e si va verso quella di opposizione a coloro che in qualsiasi modo attentano alla sua formazione e ne impediscono gli sviluppi e le conquiste. Anzi, l'esperienza storica e la ragione sociologica ci rendono edotti che, in via ordinaria, la personalità di gruppo etnico in genere e quello di nazione nella sua espressione politica, si formano sovente nell'opposizione e nella lotta, in difesa della propria religione e lingua, dei costumi tradizionali e dei diritti familiari. Un'istanza delle più interessanti, che non è stata posta in luce nè dagli storici nè dai sociologi, è per noi quella del concetto di nazione quale si sviluppò fra il XIV e il XV secolo, durante le lotte ecclesiastiche e lo scisma d'occidente che agitarono tutta la cattolicità. Allora si era andata formando la coscienza nazionale nei vari paesi europei con il passaggio delle lingue parlate i n lingue scritte, col consolidamento dei regni quale Francia, Castiglia, Aragona, Inghilterra, Svezia, Portogallo, Boemia, Baviera, Austria, Polonia e Ungheria, mentre la rinascenza italiana e i l fiorire delle università e d i molti centri


di cultura ecclesiastica e laica, davano alla classe intellettuale un'importanza eccezionale. Le nazioni non venivano concepite allora come stati politici (concezione tutta moderna); in quell'epoca non « l o stato n ma « il regno » era l'unità politico-feudale ( a parte l e repubbliche comunali). Le nazioni non rivendicavano diritti di indipendenza da una casa regnante estranea alla loro popolazione e lingua. I1 caso di santa Giovanna d'Arco i n Francia fu unico e non senza contrasti, e per la sua originalità e straordinarietà non ebbe seguito nè imitatori. Le nazioni allora facevano valere i loro diritti in confronto al papato romano, a quel potere internazionale o supernazionale, che aveva fortemente organizzata in tutta la cristianità la sua struttura esterna, specialmente durante il periodo avignonese. Due i motivi di opposizione ; quello economico dei tributi, tasse e gabelle e diritti da pagare alla curia romana e ai loro legati, e quello ecclesiastico delle nomine dei beneficiati e dei vescovi che i papi o riservavano o controllavano, sia dal punto di vista canonico che da quello economico. Ma sotto i motivi giuridici ed economici, si agitavano questioni più profonde. La principale era quella del concilio superiore al papa ( l ) che sembrava una democratizzazione della chiesa ed era una presa di posizione della periferia contro i l centro, degli organismi intellettuali (università) contro quelli disciplinari, del potere laico contro l'ecclesiastico, delle nazioni contro l a supernazione. Nei dibattiti conciliari e nelle affermazioni estraconciliari, emergeva la coscienza di nazione che non essendo un fatto politico e sfuggendo ad una definizione ecclesiastica, si appoggiava sui vari regni che ne formavano il complesso strutturale. Onde nei concili di Pisa, Costanza e Basilea (siamo ai primi decenni del quattrocento), troviamo le commissioni conciliari distinte per nazionalità e perfino i concordati di Costanza del 1418 furono formulati per nazioni o gruppi di nazioni e con i loro rappresentanti e non per stati tra i papi e i monarchi. L'aspetto sociologico della nazione che allora nasceva e si affermava può dirsi più o meno simile a quello della nazione (l)

Vedi Luigi Sturzo, Chiesa e stato, Bologna, 1958-59, voll. 2.


che rinasceva tra la fine del XVIII e il principio del XIX secolo i diversi erano solo quei termini di riferimento per i quali l'individualità nazionale prende coscienza della sua personalità. Le nazioni del secolo XV si andarono sviluppando a spese del papato medievale ( e con la riforma a danno della cattolicità euro. pea); le nazionalit(à del secolo XM a spese delle monarchie assolute e dei regimi paternalisti. Ma quali ne siano stati i contorni storici, l a personalità nazionale nella sua natura è sempre la stessa e si sviluppa con il suo ritmo interiore.

La personalità di una nazione A ben precisare questo fatto storico costante della formazione e sviluppo della personalità nazionale, bisogna arrivare al concetto primordiale di comunità. Perchè la nazione nella sua essenza non è l a semplice organizzazione politica della società ( stato) nè l'organizzazione religiosa (chiesa), nè una società volontaria fra i suoi membri, che può essere liberamente formata e disciolta. È invece il vincolo morale di un popolo, che prendendo coscienza di sè stesso, tende a distinguersi da ogni altro e a fissare l a sua esistenza nel modo più adatto secondo le fasi storiche del suo sviluppo. Così la nazione ora tende a divenire una democrazia unitaria (Francia) o una democrazia federale (America del Nord), ora una chiesa nazionale (Inghilterra del secolo XVI) o una federazione nazionale (Svizzera) o uno stato unitario nazionale (Italia del risorgimento), o uno stato liberale bilingue (Belgio). Ma una volta che u n paese o u n popolo è arrivato a prender coscienza della propria personalità nazionale e la afferma nel campo di lotte che la storia gli presenta, non si arresta là. Come tutte le personalità morali viventi, la nazione avrà il suo incremento e sviluppo, la sua involuzione o decrescenza: fasi di vita necessarie finchè arriva il momento che la stessa personalità nazionale o svanisce perchè i l soggetto fisico viene quasi a perire ( i l caso degli A m e n i o degli Assiri), ovvero si trasporta in altra personalità più vasta o diversa, rivalutandosi in u n più largo cerchio di unità etnica, culturale e politico. Così il Montenegro


o l a Croazia nella Jugoslavia, la Sicilia nell'Italia, la Provenza nella Francia, la Baviera nella Germania, il Vermont, il Texas o la California negli Stati Uniti. Fissiamo due fasi storiche: quella della formazione della personalità d i nazione e quella della sua affermazione ed incremento, e ci renderemo conto, girando uno sguardo in tutto il mondo, che ogni nazione tende a preservare la sua esistenza e personalità e il suo avvenire con tutte le forze e tutti i sacrifici. C'è qualche cosa che supera il fatto d i un'esistenza e 5 m e r a o di un sentimento transitorio e arriva al fondo della società umana e della sua formazione in comunità naturali. Poichè le prevalenti concezioni sociologiche, dalle positiviste alle hegeliane e alle neo-razziste, potrebbero fare fraintendere le nostre affermazioni, mettiamo il lettore sull'avviso che parlando di personalità della nazione escludiamo che qualsiasi corpo sociale abbia uno « spirito D proprio o un'« anima » o a un'entità o realtà » al di fuori dei singoli individui che la compongono. Per noi una personalità collettiva, quale essa sia, famiglia o nazione, stato o classe, comunità religiosa, o filantropica o anche l'insieme sociale dell'umanità, non è che la risultante simultanea della coesistenza degli uomini uniti insieme per u n fine naturale. La coscienza di tale collettività è l'interriflesso simultaneo della coscienza dei singoli che comprendono il fine per il quale sono riuniti e vi cooperano o che lo comprendono diversamente e ne dissentono; sì che nel risultato si formano quel massimo possibile di consensi e di reciproca influenza che crea l'azione. Non è il caso di sviluppare, nel presente studio, come si formi e in che si risolva la coscienza collettiva di un popolo o nazione (l). Ci basta notare che, perchè una tale coscienza emerga, occorre che vi preesistano quei valori che formano i l nesso connettivo di una comunità naturale, quali l e tradizioni, i costumi, il linguaggio, il territorio, i diritti sociali e gl'interessi economici. Gli uomini riuniti insieme convergono su questi valori essenziali d i vita, anche se la comunità non h a mai una propria figura politica indipendente. I1 complesso di questi va(l)

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Vedi Luigi Sturzo, La società sua natura

e

leggi, Bologna 1960.


lori, idealizzato come una realtà o da raggiungere o da difendere, forma la coscienza collettiva della nazione. Personalità morale, adunque, e di cultura (nel senso largo della parola come cc un certo stadio di avanzamento nella civilizzazione D), non mai entità a sè stante, al dissopra degl'individui, realtà che s'incarna (come dicono spesso abusivamente i francesi), al punto che si suole parlare di un'anima permanente della Francia o della Germania che,realizza sè stessa di generazione in generazione. Tale concezione pseudo-filosofica o pseudo-sociologica della società, si è insinuata nel linguaggio comune attraverso la filosofia idealista, da Fichte ed Hegel in poi, e attraverso l a sociologia positivista, specialmente quella di Durkheim, ed è stata applicata di recente al caso storico della nazione, elevando questa a costituente sociale primordiale e a ragione finalistica dell'uomo sociale. La nostra controversia sul piano filosofico è contro l'idealismo di Hegel e sul piano sociologico contro il sociologismo di Durkheim; ma riteniamo che i teorizzatori della « nazione )) facciamo un salto extralogico, anche se sono hegeliani o durkeimiani, nel trasportare sulla « nazione » il primum filosofico e il primum sociologico dei loro autori. È qui che si ricollegano vecchi e nuovi errori, mentre le pretese connessioni dell'un piano all'altro mancano assolutamente di base.

Limiti morali dei diritti nazionali Se la nazione, come personalità di un popolo e coscienza di tale personalità, è un fatto naturale e storico, dovrà avere le sue esigenze e i suoi limiti, e moralmente parlando, i suoi diritti e i suoi doveri, così come pensiamo che li abbia ogni comunità umana, sia la famiglia o lo stato. Vari sono i problemi che derivano dal fatto della nazione, secondo come l a coscienza di nazione nel popolo sorge e si forma e secondo come storicamente si proietta al di fuori. Si tratta di problemi relativi ad un dato fatto storico, connessi ma distinti con i problemi della società umana in quanto tale; che perciò


assumono un aspetto particolare e concreto, non mai generale ed astratto. Lasciando in disparte i fatti storici delle nazioni quali intese nell'antichità o nel medio evo e nel rinascimento, e attenendoci alla fase ultima dalla fine del secolo XVIII ad oggi, noi troviamo anzitutto che la nazione sorge da un conflitto fra diritti storici delle classi alte e idealità politiche di libertà e democrazia delle classi medie. Questo conflitto viene risolto o . con le rivolte o con le guerre. L'America del nord fu la prima; nessuno allora parlava di nazione americana, ma le varie colonie inglesi dellYAmericasi sentivano mature per la loro costituzione in stati indipendenti e governati dal popolo. La presa di coscienza di tale maturità, e le connesse affermazioni di indipendenza e di auto-governo che la modellavano a confederazione, avvennero per e nella lotta contro l'Inghilterra e quindi nella rivolta e nella guerra. Confederazione e poi governo federale erano le forme politiche per affermare l'indipendenza di quel che doveva divenire la « nazione americana 1). . Se ci si domanda in forza di quale principio la nazione americana rivendicò la sua personalità politica, le risposte possono essere varie secondo i principi che vi si applicano. Noi pensiamo che nel processo di civilizzazione la colonia, se è matura alla indipendenza, abbia diritto di domandarla e di ottenerla o anche di rivendicarla. Tale maturità è indicata non solo dallo stadio di cultura e di economia a cui un popolo è arrivato ma dalla .coscienza stessa di averlo raggiunto. L'indipendenza dei nuclei nazionali è un diritto precedente ai fatti storici, ( a causa dei quali esso o è stato perduto o non è mai stato raggiunto) e in date circostanze storiche tale diritto può giustamente affermarsi. Al tempo stesso è vero che l'indipendenza politica di una comunità, che noi oggi chiamiamo nazione, è anche condizionata dalla totalità dei fattori storici internazionali e che perciò è indiscutibilmente un relativo e non un assoluto, a patto naturalmente che la comunità in questione goda pienamente di tutti i diritti naturali propri degli individui, delle famiglie e della personalità stessa di un popolo. Seguì la Francia a poca distanza; ne abbiamo accennato trattando del significato dato alla parola nation. Qui facciamo

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notare che la democratizzazione della Francia, o meglio, lo scioglimento dei vincoli giuridici e di classe dell'ancien régime, era la condizione storica che fece germogliare l'idea di nation e che la parola république non fu presa a indicare un governo di popolo senza re, ma nel senso di u n governo misto d i popolo e re. E quando per una serie di avvenimenti rivoluzionarii si arrivò all'abolizione della monarchia, fu allora che si parlò di nazione sovrana. Non intendiamo portare un giudizio etico sulle varie fasi della rivoluzione francese (come neppure sulle varie fasi delle rivoluzioni americana e italiana), ma intendiamo chiarire il fatto, sociologicamente rilevabile, che l'idea di nazione è collegata con la più larga partecipazione alla vita comune della classe o di quella sezione sociale che ne prende coscienza e la solleva a movente della sua attività collettiva. La nazione del secolo XIV-XV era degli universitari, degli umanisti, degli ecclesiastici, dei nobili delle corti in confronto al papato ; la nazione del secolo XVIII-XIX era degli enciclopedisti, dei romantici, dei borghesi e mercantilisti, in Europa e in America, in confronto alle monarchie assolute o paternaliste. L'Irlanda, la Polonia (sotto certi aspetti anche il Belgio e l'Italia) e più ancora la Grecia ed i paesi soggetti alla Mezzaluna, a giustificazione delle loro rivolte e guerre aggiungevano il fatto di combattere contro non u n governo paternalista, come in Francia, ma contro la tirannia dello straniero. Anche per 1'Irlanda del secolo XVIII l'inglese era lo straniero e il tiranno. In loro confronto c'era da far valere il diritto della rivolta. È ben vero che tanto per le rivolte polacche che per quelle irlandesi l'autorità di Roma manifestò in certi casi la sua disapprovazione, che Pio IX riprovò le guerre del Piemonte contro l'Austria (l),

(l) Pio IX, naturalmente, condannò l e guerre del risorgimento italiano che si conclusero con l'occupazione di Roma. L'abate Antonio Rosmini, fondatore della congregazione dei Rosminiani, e padre Gioacchino Ventura, generale dei Teatini (chierici regolari), approvarono la guerra contro 1'Austria per l'indipendenza italiana, e lo stesso Ventura difese con forza i l diritto dei siciliani e rivoltarsi e a intraprendere la guerra contro i Borboni, re di Napoli, nel 1848.

2. S

m - Nazionalismo e Intemazionalismo


e che lo stesso Taparelli non riconosceva l a legittimità della rivolta e guerra dei greci contro il turco. La lettera enciclica di Pio X I Nos es muy del 28 marzo 1937 ha reso meno difficile la soluzione d i tali casi, avendo fissato i principi generali per quelle rivolte che hanno giusta causa, benchè'c le soluzioni pratiche dipendano dalle circostanze di fatti » come è detto nella stessa enciclica. Sotto queste « circostanze concrete » bisogna giudicare l e rivolte e le guerre nazionali del secolo XIX, comprese quelle della Svizzera dovute in gran parte all'intolleranza religiosa che divideva il paese e impediva i l formarsi di una vera « nazione svizzera D. Quel che ci interessa rilevare, a questo punto, si è che non bisogna confondere, come s i suole spesso, i diritti naturali che si riferiscono alla personalità umana con quelli che nascono storicamente con l a formazione di una nazione. Può certo una nazionalità rivendicare il diritto al libero culto, come avveniva agli orientali e balcanici sotto i turchi o ai polacchi di rito greco-ruteno sotto gli zar; e non pertanto non rivendicare, allo stesso momento, il diritto alla propria personalità politica. Ovvero dare forza alla rivendicazione politica unendola a quella dei diritti religiosi conculcati. Così nel caso irlandese, la rivendicazione della libertà religiosa riconosciuta con l'atto della emancipazione cattolica del 1827 era di diritto naturale e non dipendeva da un fatto nazionale, mentre la rivendicazione dell'autonomia politica ( i l libero stato del 1921) fu fatta sulla base dei diritti nazionali e storici. La differenza è enorme: noi chiamiamo i primi diritti assoluti e naturali e i secondi relativi e storici, per ben precisare che i secondi maturano con il processo storico e sono subordinati alle esigenze, ai diritti e alle possibilità di convivenza tra i vari popoli. Non possiamo qui precisare quando i diritti di una nazione divengono prevalenti su quelli delle famiglie che la compongono e su quelli dello stato o degli stati nei quali un popolo ha di fatto l a sua organizzazione politica. Del resto ben poco varrebbe una scala di ipotesi e di dosature casuistiche che poi non s'inquadrano ai fatti concreti. La nazione non esce fuori del quadro delle società o comu-


nità o gruppi di famiglie, che in tanto hanno diritto in quanto rappresentano il mezzo di vita comune per i singoli uomini; poichè la società è per l'individuo, non l'individuo per l a società ; i diritti e doveri sono dei singoli attraverso la società, non della società come soggetto morale al di fuori dei singoli. Se ciò è per la famiglia e per lo stato che sono le società naturali a scopi determinati e a contorni giuridici precisi; non può che ripetersi per una società a carattere storico e a contorni imprecisi quale è la nazione, perchè anche quando essa coincida con lo stato (come in Francia o in Italia) è sempre presa come un'entità moralmente e psicologicamente diversa. Alle esigenze e ai diritti di nazione è così posto i l principiolimite che essa è subordinata, come mezzo o fine, alla personalità umana, e quindi non può essere fatta valere contro i diritti naturali degli uomini, appartengano o no alla stessa nazione. Ma d'altro lato, per far fronte al pericolo individualista occorre richiamarsi all'altro principio che ogni comunità è u n vincolo interindividuale, fatto per evitare la dissoluzione sociale nell'egoismo dei singoli. I1 principio sociale (come quello cosmico) è la solidarietà dei componenti. È vero che la risultante sociale non può mai invalidare i diritti della personalità, ma è anche vero che gli individui nel salvaguardare la propria personalità l a debbono far coincidere, nella giustizia dei rapporti o nell'amore reciproco, con la coesistenza solidale dei propri simili. Ora fra le coesistenze che importano una solidarietà, la nazione ha il suo posto tra la famiglia e lo stato; partecipa con la famiglia al senso di affinit,à naturale e con lo stato ai fini di incremento civile e di ordine e di difesa. E tra il rispetto alla personalità umana da parte dei poteri sociali e l'osservanza della solidarietà fra i singoli, c'è tutta una gamma di diritti e doveri relativi che riguardano anche la nazione e le sue esigenze storiche. Non precisiamo più in là di questo punto, perchè è sempre pericoloso volere trovare, in avanti, la soluzione di un problema concreto, che quando s a ~ àposto ci apparirà con caratteri non previsti, domandando soluzioni di cui non si aveva avuto esperienza. Ma a ben fissare i termini della nostra indagine possiamo dire che i diritti e i doveri che scaturiscono dalla maturazione


di una nazione, presi in sè e senza confonderli con quelli naturali derivanti dalla personalità umana, non sono che diritti storici e relativi, come storica e relativa è la natura stessa di nazione.

Dopo quel che abbiamo scritto, molti ancora si domanderanno in che cosa il nazionalismo differisce dalla coscienza nazionale, o dal sentimento nazionale o infine dall'ideale nazionale. Ecco tre frasi molto usuali che bisogna ben definire. La coscienza nazionale » è quella che si forma con il ridestarsi dei caratteri di un popolo nelle sue fasi storiche e che ne rende effettiva la comunità. Finchè non c'è coscienza della personalità di un popolo, non c'è nazione nel senso sociologico della parola. Così ci possono essere periodi in cui la coscienza nazionale si attutisce e poi rinasce. La Finlandia ne è un esempio storico caratteristico. Elias Lonnrot nel secolo scorso fu il suo bardo che la ridestò dal lungo sonno. L'Austria del 1919 cominciò a sentirsi u n t n i t à diversa dalla vecchia Austria degli Asburgo e ben differenziata dalla ~Grossdeutschlanddel 1848 o dal I11 Reich di Hitler. « I1 sentimento nazionale D è simile all'esaltazione patriottica, e può manifestarsi nelle circostanze fauste e infauste della patria; può essere preso anche come un'educazione d i solidarietà Ga gli appartenenti alla comunità nazionale. (( L'ideale nazionale » è l'aspirazione a quel che manca perchè la nazione sia realizzata o sia completa. Così l'ideale nazionale dell'Italia della fine del secolo X M era di avere i suoi confini geografici fino a Trento e a Trieste; l'ideale dell'Eire di oggi è di avere le sei provincie del nord, come l'ideale nazionale dell'olanda, del Belgio, della Norvegia durante l'occupazione dei nazi era quello di riavere la propria indipendenza e libertà. Tutto ciò può dirsi nazionalismo per un'estensione giornalistica o volgare della parola, ma non è nazionalismo nel senso etimologico o storico, nè i n quello politico e in quello socio-

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logico. Così ci guarderemo dal confondere gli uni con gli altri; e se è vero che usus te plura docebit, bisogna però reagire contro quell'uso che porta confusione. Oggi che vediamo meglio i caratteri del nazionalismo vero, pur ammettendo le attenuazioni di fatto e quelle soggettive di coloro che si dicono o si dicevano nazionalisti, non possiamo accettarne quei principi che involgono false e perverse do.ttrine. I1 nazionalismo è una concezione teorica e un'attività pratica che tende a sopravvalutare la nazione e farne u n principio etico-politico dominante e. periino assoluto. Perchè la definizione non risulti inesatta non c'è che verificarla con i caratteri storici dei vari nazionalismi e con le teorie formulate a loro sostegno dai principali esponenti. I1 primo che incontriamo è il nazionalismo germanico di prima e dopo la formazione dell'impero bismarkiano. I1 Kulturkampf anticattolico di quell'epoca h a i suoi motivi nazionalistici. Non importa che le parole nazionalismo e nazionalizzare avessero allora altro significato e non fossero usati nel senso di oggi, ma vi erano i germi di quel che fu detto nazionalismo ( l ) . Bismarck voleva germanizzare la Pomerania e l a Slesia, e vincendo la popolazione polacca di quelle provincie, per un concetto strettamente di dominio nazionalista : l'omogeneità della popolazione. Si chiami germanesimo o si chiami nazionalismo germanico è lo stesso. La rappresentanza polacca al Reichstag e i l partito del centro reagirono contro le misure bismarcki'ane. Allora Bismarck comprese meglio che l'omogeneità germanica non poteva ottenersi che luteranizzando le zone cattoliche. Così la persecuzione chiamata lotta per la cultura, fu contro i polacchi e contro i cattolici. Bismarck fallì e dovette cedere; anche perchè in certe sfere del protestantesimo si era allarmati dei metodi di lui. Ma l'idea del Kulturkampf nazionale rimase e si sviluppò; Meinrich von Treitschke ne fu il principale teorizza-

(l) In Europa nazionalizzare e nazionalizzazione sono rimasti a significare il controllo o la proprietà nazionale o statale di un temtorio o di un'industna o di un servizio pubblico; mentre naziomlismo indica la teoria politica della nazione come principio prevalente della vita collettiva; nazionalista chi appartiene al partito nazionalista.


tore. La sua tesi era che polacchi ed ebrei, socialisti e cattolici dovevano eliminarsi dal Reich con tutti i mezzi, compresa la deportazione, l'esproprio, l'imprigionamento e la morte, per arrivare alla nazione omogenea. L'omogeneità non era fine a sè stessa, ma era concepita come il mezzo per rendere forte il potere, salda la nazione, atta al dominio di l à dalle proprie frontiere e alla espansione politica, oltre che economica, della popolazione. Le teorie ariane di Gobineau e di Houston Stuart Chamberlain andavano bene incontro al nazionalismo d i Treitschke, e benchè l'uno francese e. l'altro inglese, frullava vivamente nei cervelli tedeschi, che han bisogno di trovare il chiodo di una teoria dove potere appendere ogni loro anche più piccola iniziativa. La teoria della razza superiore, nordica, ariana, era fatta proprio per loro. Già Lutero aveva sostenuto che i germani erano superiori ai latini; ciò era divenuto una specie di dogma per i luterani; ma ci voleva i l colore scientifico del secolo XIX per darvi consistenza. Era il periodo del trionfo della scienza sulla filosofia e teologia; il periodo della sociologia positivistica elevata a scienza: i l razzismo nazionalista e « scientifico » nacque e si sviluppò in questo clima. I n Francia, dopo l'instaurazione della terza repubblica, apparve un nazionalismo di contraccolpo per la perdita dell'Alsazia e Lorena, e da questo prende i suoi caratteri naturali: antidemocratico, anti-socialista, anti-sernita. Mentre in Germania era anticattolico, il nazionalismo in Francia nasce filo-cattolico, sia perchè il clero era allora in maggioranza per l a monarchia e anti-repubblicano, sia perchè temeva l'anticlericalismo della borghesia e della massa operaia. Leone XIII, con la sua lettera del 1892, con la quale consigliava i cattolici francesi di aderire alla repubblica e di concorrere a formare buone leggi per il bene del paese, tolse le preoccupazioni del lealismo alla monarchia (che per certi cattolici erano sincere), e tolse anche il pretesto per fare dell'antirepubblicanesimo in unione a coloro che tentavano un colpo di stato. Ma sventuratamente, molti del clero e del laicato cattolico non vollero seguire i consigli del papa antiveggente; il caso Dreyfus (che sorse poco dopo) divise profondamente le Francia, e i cattolici e il clero (meno una piccola ma rispettabile minoranza) furono dal lato degli accusatori -


e con i più accessi nazionalisti e antisemiti. Purtroppo, nonostante che l'innocenza di Dreyfus fosse provata, l a divisione di quell'epoca durò fin alla grande guerra e anche, in certe zone, fino adesso. Non manca chi reputa di adempiere ad un dovere nazionale affermando, anche oggi, che Dreyfus era un traditore (l). Allora non ci fu in Francia un vero teorico del nazionalismo, che arrivasse alla fama poscia ottenuta da Charles Maurras, nè della portata dei Treitschke o dei Gobineau. Drumont fu solo un demagogo; il fatto che si univano insieme movimenti negativi di diverso carattere (anti-repubblicanesimo, anti-semitismo), rendeva difficile una teorizzazione. Quel che in Francia univa insieme tutta la borghesia industriale, l'aristocrazia terriera, il militarismo e il clero, era i l sentimento anti-sociale contro l e masse operaie e contadine e contro la piccola borghesia che andavano acquistando importanza, forza e potere, sia nel campo economico che in quello politico. I n fondo c'era un problema di classe: di fronte alle affermazioni socialiste della prima internazionale e anche poi della seconda internazionale per i l dominio del proletariato, per la abolizione della proprietà, per i l disarmo universale, l e classi più ricche e più in alto nella scala sociale temevano non solo le leghe socialiste, ma il suffragio universale. La parola nazionalismo nel significato « borghese » e « antisocialista » fu i l contrapposto della parola « internazionale », che allora faceva tremare a solo udirla, così come nel 1920 faceva tremare la parola bolscevismo o comintern. Si credette quindi che le leggi anti-socialiste fossero i l rimedio. Ci si provò Bismarck e trovò di fronte i cattolici del centro: invece in ~ r a n c i ai cattolici, non organizzati politicamente e legati alla destra, furono preda del nazionalismo della prima e della seconda maniera. I n quel tempo il nazionalismo italiano non era sorto. Non poteva dirsi « nazionalismo » quello che in Italia si chiamava

(l) Vedi per questo e per il nazionalismo posteriore: Yves Simon, The Road to Vichy, 1918-1938, trad. James A. Corbett e George J. McMorrow,

New York, Sheed and Ward, 1942.


« irredentismo », cioè la tendenza di volere unite alla madre patria Trento e Trieste allora sotto l'Austria. Tale irredentismo un po' all'acqua di rosa non impedì che l'Italia entrasse a far parte della triplice alleanza con la Germania e l'impero austroungarico per quasi trent'anni. Chi fece della politica « nazionalista » nel senso di espansione coloniale fu Francesco Crispi che eccitò le ire della Francia e promosse la prima guerra contro I'Abissinia. I1 vero razionalismo nacque dopo, ad imitazione di quello di Maurras, e il suo poeta fu D'Annunzio.

Nazionalismo inglese e americano Possiamo parlare di u n nazionalismo inglese? Joseph Chamberlain, Cecil Rhodes e Rudyard Kipling rappresentano il « nationalistic imperialism 1) britannico (l). Il primo parlava allora della superiorità dell'anglo-saxon race, che è infallibilmente destinata ad essere la razza predominante nella storia e civiltà del mondo ; e in nome di tale razza quei nazionalisti inglesi giustificavano il loro dominio sui celti (irlandesi specialmente) (2). A parte la eccentricità del gruppo di Joseph Chamberlain, e anche posto a parte il senso tradizionale di albagia inglese, per cui, prima delle due grandi guerre, al di là del canale (la Manica) non c'erano che dei coloniali (Parigi esclusa); in Inghilterra il vero nazionalismo teorico e pratico del secolo XIX non si sviluppò per due ragioni. Prima perchè gli inglesi sono pragmatisti e non si curano delle teorie ( i l mamismo non ha fatto presa sul laburismo inglese); e secondo perchè l'inglese aveva già un impero, e questo si estendeva in Africa e nel Pacifico quasi automaticamente, e senza colpo ferire, finchè non scoppiò la guerra boera, per la megalomania di Cecil Rhodes e la incomprensione dei fatti da parte del governo d i Londra. I1 popolo inglese stesso fu diviso pro e contro una tale guerra e (l)

Vedi Carlton Hayes, Essays on Nationalism, New York, Macmillan,

1928. (2)

Cfr. J. M. Robertson, Sazon and Celt, London, Macmillan, 1897.


manifestò la sua riprovazione per gli eccessi perpetrati in quella campagna. Ma effettivamente, fu più una guerra coloniale che nazionalista, e finì col creare un Dominion con eguali diritti per tutti i popoli confederati. Le stesse grandi manifestazioni dei giubilei del 1887 e 1897 a Londra ebbero più il carattere imperiale che nazionalista, anzi di un (( imperialismo sentimentale » come lo chiamò Ramsay Muir. In quel periodo, in cui tutti i paesi « civili 1) cercavano di dividersi la parte del mondo non occupata, l'Inghilterra, quasi senza guerre, ebbe la parte del leone e costituì il moderno impero britannico che poi si andò trasformando nel Commonwealth, nell'impero dell'India e nelle colonie. Ben presto il nazionalismo letterario scomparve dalla Gran Bretagna, mentre si facevano sentire più vivi i nazionalismi locali: l'irlandese, il gallese, e lo scozzese; il primo politico, il secondo folcloristico e il terzo... letterario, con a capo il romanziere Compton Mackenzie. Veniamo all'America: in che senso si può parlare di nazionalismo americano? Qui l'uso della parola nazionalismo non è stato nel significato che ha preso i n Europa, anzi non c'è stato un vero uso di tale parola che in applicazione postuma di movimenti che storicamente venivano indicati con altri nomi. E siccome uno dei problemi più gravi e prevalenti della politica interna degli Stati Uniti era l'equilibrio tra governo centrale forte e libertà amministrativa ( e sotto certi aspetti politica) dei singoli stati, così l'idea di nazionalismo americano era legato alla politica federalista, all'accrescimento del numero degli stati confederati e alla loro assimilazione linguistica e culturale. Il più grave problema allora affrontato fu quello della emancipazione degli schiavi, che portò alla guerra civile e fece temere la secessione degli stati del sud. L'uomo che salvò la nazione e la civiltà americana fu Lineoln. Ma da allora il problema delle razze di colore non può dirsi socialmente e moralmente risolto che solo in parte; dal punto di vista nazionale, il problema è complesso e dà al nazionalismo americano un certo aspetto di razzismo. L'altro problema interno, importante anch'esso, sorse dal 1848 in poi, fino alla prima grande guerra, con il flusso migra-


torio europeo e asiatico. Anche qui è venuta una discriminazione di razza, fra gli immigrati dell'Europa settentrionale e occidentale, e quelli dell'est e sud Europa (zona mediterranea). La difficoltà d i assimilazione, la persistenza fra gli emigrati della prima e anche seconda generazione di usi e costumi proprii e la formazione di gruppi etnici compatti nelle città e negli stati, l'inferiore classifica nel lavoro e nell'impiego, rese il problema migratorio acuto non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello nazionale. Ma a poco a poco le prosperità e le crisi hanno dato occasione a certi riassetti sociali, e gli avvenimenti politici dell'ultimo mezzo secolo han creato un'atmosfera nazionale più sentita anche nelle zone dell'emigrazione, la quale a poco a poco cessò di essere un flusso temporaneo di chi veniva in America per far denaro e ritornare al paese d i origine. Quel che dal punto di vista del nostro studio è da rilevare, ed è d'importanza capitale, si è che in Europa l'assimilazione nazionale veniva fatta, come nella Germania d i Bismarck con le leggi anti-polacche, anti-socialiste e anti-cattoliche, e con le repressioni nell'Alsazia e Lorena, o come in Irlanda con negarle 1'Home rule e reprimerne le agitazioni, o come nei Balcani dove il turco ancora nel secolo scorso ricorreva ai massacri e le popolazioni non avevano altra scelta che la rivolta e la guerra; mentre in America si applicava il sistema della libertà e della cultura, agevolando così l'autofor~nazione nazionale. E se i sentimenti fra la popolazione americana e le popolazioni immigrate erano non c oche volte aspri e acuti, ciò non degenerò mai nè a persecuzione (come quella degli anti-semiti in Russia, Polonia ed est Europa e anche nella Francia del caso Dreyfus), nè a impedire che i singoli potessero fare la loro strada e arrivare a posizioni alte nell'industria, nella politica e nella scienza e le lettere. Così il nazionalismo domestico dell'dmerica, con tutte le sue deficienze naturali, non uscì mai dal pragmatismo per diventare teoria sociologica o politica. Allo stesso tempo si sviluppava un nazionalismo americano nel campo delle relazioni internazionali. Questo poteva dirsi nazionalismo isolazionista o difensivo. La dottrina di Monroe ne è stata per lungo tempo il prototipo e il fondamento. Si può I discutere il suo carattere giuridico e il suo valore politico; ma


bisogna inquadrarla nel tempo quando ancora le grandi potenze europee potevano sognare di riprendere il dominio sulle vecchie colonie perdute o far dell'America il campo delle loro competizioni. È naturale che ogni arma difensiva è anche adatta all'offensiva, e che una nazione (non importa se confederale o unitaria) arrivata a un certo grado di espansione pacifica si senta spinta alle avventure guerresche. Certo che la riunione di 46 stati (dai 13 iniziali), l'apertura del canale del Panama e l'espansione nel Pacifico, diedero agli Stati Uniti un carattere diciamo (C imperiale » che i fondatori della confederazione non avrebbero immaginato. Così la dottrina della libertà dei mari e la creazione di una flotta potente. Cuba, Porto Rico, Nicaragua e le Filippine e la cosiddetta « dollar d i ~ l o m a c y» ne furono le conseguenze. Tutto ciò può dirsi nazionalismo nel senso di politica nazionale, o anche « imperialismo » se si vuole, e può essere apprezzato o criticato dal punto di vista d i tutte le politiche degli stati di tutte le epoche; ma non può dirsi nazionalismo nel senso di teoria nazionalistica quale, nello stesso periodo, si sviluppava in Europa.

Teorici francesi del nazionci.lismo Alla vigilia della prima grande guerra avevamo già il teorico del nazionalismo, che doveva darvi la più grande espansione: Charles Maurras. Fino allora avevamo avuto i teorici tedeschi, filosofici, romantici, politici e militaristi; i teorici della razza, quale Gobineau, che pur essendo francese fece presa in Germania. Le loro teorie erano rimaste s u per giù nel quadro teutonico; non avevano conquistato un pubblico mondiale. La stessa parola nazionalismo già usata qua e là e a sensi equivoci, non era divenuta esponente di una teoria nè di u n partito a contorni sicuri. Maurrass veniva dalla scuola positivistica, e come A. Comte ammirava il cattolicesimo quale organismo sociale gerarchico, con a capo un sovrano monarchico, con una sua aristocrazia


scelta dal capo, con una disciplina giuridica salda e una formazione associativa dogmatica. Tutti elementi che agli occhi di un positivista convinto e ateo (come egli stesso ebbe più volte a dichiarare), avevano un grande valore per l a struttura sociale e mondana e per l a coesione che recavano alla formazione politica di .una nazione. Guadagnare la chiesa al nazionalismo era i l colpo maestro; ma non solo per le simpatie del servizio politico che un partito poteva creare alla chiesa del suo paese, ma per l'adattamento delle teorie reciprocamente influenzate e delle risultanti pratiche nella costruzione di uno stato nazionalista. Intanto, nella lotta anticlericale del governo francese, che denunziò i l concordato, chiuse le chiese e sequestrò i beni ecclesiastici, cacciò suore e frati e preti dai conventi e presbiteri, I'Action Francaise quale allora più valida organizzazione a sostegno dei cattolici, e i camelots du roi nella resistenza di piazza agli ufficiali del governo, andarono più in là che non avesse desiderato lo stesso clero. Per giunta, come vescovi e preti videro questo partito audace imporsi con la violenza, cominciarono a pensare che davvero la monarchia poteva restaurarsi. E il loro repubblicanesimo di convenienza (se ce ne fu uno dopo l'enciclica di Leone XIII) presto svanì, portato via dagli eccessi degli anticlericali e dalle audacie dei nazionalisti. Così molti cattolici ingrossavano le file di Maurras, che per u n momento fu preso per i l difensore del cattolicesimo francese, nuova Giovanna d'Arco, che proprio in quel periodo veniva rievocata come la protettrice della nuova Francia cattolica. Maurras favorì la ripresa tomistica in Francia contro i filosofi Laberthonnière e Le Roy che dovevano essere posti all'indice, contro Blondel, che per molto tempo fu tenuto in sospetto. Egli sostenne la forma corporativa dell'organizzazione di classe contro il socialismo di Jaurés e il sindacalismo d i Sorel. Queste furono battaglie assai apprezzate dal clero francese. Così il nazionalismo, che l a chiesa fino allora o aveva combattuto o non aveva favorito nelle varie fasi della sua affermazione i n Europa, date Ie sue tendenze immorali e anticattoliche, si accaparrò per un certo tempo le simpatie di una parte del clero francese e anche di quelle che sogliono dirsi con parola equivoca u sfere vaticane ».Però non così che non si notasse presto


il veleno nascosto. Tanto più che i capi più conosciuti i n Francia e fuori erano narratori osceni come Maurras e Daudet, o, come Barrès e altri, pagani nei loro ideali e concezione di vita. La letteratura francese fu da allora quasi tutta accaparrata dalle tendenze nazionalistiche, e fu la letteratura che portò il nazionalismo francese, positivista e a tinte filo-cattoliche, negli altri paesi. Nacque un nazionalismo italiano, che ebbe con sè il poeta D'Annunzio ( t r a i più pagani e osceni scrittori del tempo). Fin il Belgio e la Svizzera ne furono tocchi; e i cattolici di destra e la loro stampa sostennero la guerra in Libia, che, insieme alle due guerre balcaniche, fu il principio delle grandi oscillazioni dell'equilibrio europeo. Mentre dappertutto in Europa sorgevano nuovi motivi di agitazione nazionalista, e la Francia riprendeva la campagna « letteraria » per l'Alsazia e la Lorena, i paesi dell'impero asburgico tendevano fortemente verso una migliore sistemazione delle nazionalità, specialmente i boemi e i polacchi; a Trento e Trieste divenivano più accesi i sentimenti italiani, mentre l'annessione della Bosnia ed Erzegovina da parte dell'Austria aveva irritato tanto gli slavi che gli italiani. Così le agitazioni nazionaliste e nazionali, mescolate insieme, diedero motivi e pretesti per l a guerra. Ogni nazionalismo crea il suo opposto; il conflitto d'interessi porta alla guerra; e questa, in tale clima, diviene quasi inevitabile.

Le guerre sono sempre accompagnate dallo scatenamento delle passioni portate spesso al parossismo, finchè la vittoria e le sconfitte, viste nella loro triste realtà, negano nei fatti quelle soddisfazioni agli egoismi umani, che si erano volute a prezzo di tanto sangue. E quando anche l e soddisfazioni e i guadagni sono stati acquisiti d a l l t n a parte, i contrappesi sono tali che ogni vittoria spesso diviene simile alle sconfitte. Così tutti i nazionalismi che ebbero con la grande guerra le


loro soddisfazioni furono essi stessi uno dei più importanti motivi di agitazioni, lotte e finalmente d i nuova e p i i tragica guerra. Non è qui il caso di misurare fino a qual punto i nazionalismi portarono la grave responsabilità dell'ora presente; a noi interessa analizzare i caratteri immorali e anti-cristiani come il logico e storico sbocco di quel che abbiamo visto maturare. Il più irresponsabile di tutti i nazionalismi dal 1918 in poi è stato quello francese. Esso fu quello che si oppose tenacemente ad una pacificazione con la Germania e ad un avvicinamento fra i due popoli; esso avversò ogni tentativo di rendere l a Società delle nazioni superiore ai singoli stati e forte nell'opinione pubblica europea; esso agitò la paura della insicurezza francese opponendosi alla riduzione degli armamenti e ad ogni concessione da potersi fare alla Germania. Quando prevalse la politica di Briand con il trattato di Locarno, l'ammissione della Germania a Ginevra, la cessazione dell'occupazione renana prima della scadenza, il nazionalismo francese gridò al tradimento. Ma soprattutto fu esso che avvelenò l'ambiente cattolico del dopo-!guerra, in Francia e anche negli altri paesi, perfino in Inghilterra, svalutando ogni idea generosa, ogni sentimento cristiano, ogni iniziativa di pacificazione; eccitando odi e rancori, e diffondendo teorie inumane e anti-cattoliche. Fu allora che dal Belgio partì un grido di allarme, dopo un'inchiesta fatta fra gli studenti cattolici, i quali in gran parte si dichiararono per l'dction Francaise. Un'altra inchiesta fu fatta dallo scrittore cattolico Maurice Vaussard, che poscia pubblicò un volume col titolo Enquete sur l e nationalisme ( l ) . I1 libro è interessante a leggere anche adesso, per vedere come l a parola nazionalismo, portando così diversi e perfino opposti significati, avesse fatto deviare parecchi alti personaggi dalla esatta valutazione del pro. blema quale era posto in Francia dagli avvenimenti; ma ciò non ostante, si sente in quasi tutte le pagine la preoccupazione di qualche cosa di grave che pesava allora sul cattolicesimo francese e belga e la necessità di una chiarificazione. Ci fu chi disse che « h nationalisme sera l a prochaine hérésie condamnée (2). (l)

Opera citata.

(2)

La revue catholique des faits et des idées, Bruxelles, ottobre 1938.


Altri collaboratori dell'Equgte, prendendo nazionalismo per coscienza nazionale o per il perfezionamento di tale coscienza, ne facevano la difesa, e dimostravano come quanto più vivo è il nazionalismo, tanto più effettivo sarà l'intemazionalismo. Però vi sono alcuni illuminati antiveggenti, come il vescovo Chaptal, ausiliare di Parigi, il quale scriveva: « Mais si la poli(( tique s'empare de cette notion de nationalité pour en faire « un principe absolu sans limite, sans controle, alors elle devient, « commes les autres principes politiques absolus, qui n'ont ni contrepoids, n i mesure, une entreprise d'oppression, de tyran« nie, de brigantages sous pretexte de donner à une nation la « place qui lui permettra dans le monde de developper toute sa « valeur et sa puissance, et d'aller jusqu'au bout de l'expansion cc vitale que elle revendique, la mora1 du national justifie toutes « les atrocités et legitime les pires tyrannies. I1 est à souhaiter que toutes les nations se dressent contre celles qui professent « pareils principes. Ce sont des. nationalités malfaisantes. Alors a le nationalisme est une hérésie, une monstruosité » ( l ) . Una delle risposte più chiare fu quella di mons. John A. Ryan, dell'università cattolica d'America: « Le nationalisme est évidemment opposé à l'enseignement et à l'ésprit du christianisme » e appresso: N Le nationalisme comporte differents degrés. Sous sa pire forme, il considere comme licites tous les actes et tous les moyens susceptibles d'accroire le pouvoir, le prestige ou la richesse nationale. I1 n'est pas necessaire d'insister sur l'immoralité absolue de cette theorie > (2). Molti rilievi potrebbero farsi sulle pagine dell'EnquGte edita da Vassaurd, che mostrano, fra l'altro, quanto ciechi fossero certi uomini insigni e sinceri cristiani nel 1923 e 1924 sulle condizioni della Francia e il suo avvenire. Emile Baumann scriveva: « Un vieux pays comme la France est, plus qu'un autre, divisé par l'intemationalisme; il sent en lui des germes de mort multiples; il a des voisins terribles; il sent d'autre part que sa mission n'est pas finie n ( 3 ) . (l) .Enquéte,

cit. pag. 25.

Ibidem, pag. 129. (3) Ibidem, pag. 129. (2)


Il concetto dal quale partivano molti cattolici nell'aderire all'Action F r a q a i s e e nel sostenere la parte nazionalista, era espresso da Gaétan Bernouille, il direttore di Lettres (che andò pubblicando nel suo periodico le risposte dell'inchiesta) nella sua conclusione: « Nous en avons non pas au nationalisme lui meme, mais à ses déviations, à son évolution actuelle. Ici encore s'avère le role éminent du catholicisme dans l i régéneration francaise. I1 n e s'agit pas de jeter l'anathème sur le nationalisme, mais de le soustraire au culte de la force et de l'intéret, à l'action néfaste du positivisme matérialiste, bref de le christianiser » ( l ) . A questa idea un po' superficiale faceva netto riscontro il giudizio del filosofo Maurice Blondel che vedeva nelle teorie nazionaliste « l'antithèse formelle du catholicisme », e un inhumanisme impitoyable », come fa ben rilevare il Vaussard nelle sue interessanti Conclusions (2). Proprio poco dopo che le sessanta risposte dell'inchiesta erano state l'arcivescovo di Bordeaux, cardinale Andrieu, scrisse una lettera di accuse contro l'Action Francaise che ricevette l'approvazione di Pio XI, mentre sollevò contro una parte notevole della Francia. Ma l'intervento definitivo della Santa Sede non tardò molto. Alla fine del 1926 fu pubblicato il decreto del S. Officio, preparato nel 1914, ma la cui pubblicazione venne ritardata tanto da Pio X che da Benedetto XV per ragioni di opportunità, con il quale si mettevano all'indice i libri di Charles Maurras e il giornale (C L'Action Francaise D. Pio XI aggiunse il divieto ai fedeli di associarsi all'Action Francaise; furono stabilite gravissime pene canoniche, compreso il rifiuto dei sacramenti, contro i trasgressori ( 3 ) .

(l) (2)

Ibiakm, pag. 137. Ibidem, pag. 378. Nel suo discorso del 15 luglio 1938, Pio XI disse:

Il contrasto fra il nazionalismo esagerato e la dottrina cattolica è evidente; lo spirito di questo nazionalismo è contrario allo spinto del Credo, è contrario alla fede: (Osserv. Romano, n. 175 del 30 luglio 1938). (3) Nel giugno 1939 i capi del19Action Fraqaise, dopo più di dodici a

anni di aperta rivoha, fecero atto di sottomissione a Roma scrivendo che « en reprenant tout ce qu'ils ont pu écrire d'érroné, rejettent completement tout principe et toute theorie qui soient contraires aux enseignements


Nazionalismo e totalitarismo Dal nazionalismo francese al totalitarismo italiano non c'è che un breve passo. I1 fondamento era stato posto e l'insegnamento diffuso; mancava l'uomo che l'avesse saputo realizzare sul terreno politico: questo uomo fu Mussolini. Dopo i fatti, si è asserito che i maestri di Mussolini erano stati Napoleone, Machiavelli e Cesare, nomi grandi e lontani che certo hanno eccitato la sua fantasia dopo ch'egli ebbe il potere in mano. Ma prima, da socialista e da giornalista, i suoi maestri erano stati Georges Sorel e Lenin, con i quali egli era stato in contatto e dei quali aveva preso l e idee della rivoluzione e della dittatura; e Charles Maurras (non dico D'Annunzio, di cui fu (C amico geloso) da cui attinse il suo concetto di nazionalismo. I1 fascismo (detto per breve tempo nazional-fascismo), dopo avere in quattro anni (1922-1926) spezzata ogni resistenza ed opposizione, proclamò lo stato totalitario (la parola totalitario è di Mussolini e non esisteva nel dizionario italiano) con la celebre frase: « Niente fuori o sopra l o stato, niente contro lo stato; tutto nello stato e per lo stato n(')! Questa idea della completa dedizione dell'uomo allo stato, che è alla radice della teoria fascista, ha per l'Italia il duplice significato della trascendenza della nazione (in Italia la nazione è nei limiti dello stato e quindi materialmente si equivalgono), e quella della risoluzione di ogni attività sociale nel potere

de 1'Eglise Catholique D. Pio XII nel luglio successivo approvò « ad montem n il decreto del Santo Officio di revoca del divieto di proibizione del giornale Z'Action Fraquise, ferma restando la proibizione di tutti i fogli dal 1926 al 10 luglio 1939 (oltre i libri di Maurras). La « mens » del papa che <r firmis manentibus quac saepe a S. Sede proposita sunt, turn circa distinctionem religiosarerum a negotiis mere politicis, tum circa rei politicae subjectionem legi morali, tum circa principia et officia ad Actionem Catholicam promovendam tuendanque tradita D, se ne faceva speciale raccomandazione ai vescovi francesi.

(l) Mussolini, scrivendo la voce ((fascismo D per l'Enciclopedia Italiana nel 1932, espresse ancora più chiaramente questo concetto di stato totalitario, dicendo: « P e r il fascista tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato n (vol. XIV, 848 a).

3. Snrr<u, - Nazionalismo e Znternazionalismo

'


politico. Così che non solo il primato politico è dichiarato come base allo stato, ma questo assorbe in sè ogni ragione di vivere sociale, perchè ogni diritto deriva dallo stato agli uomini e non viceversa dagli uomini allo stato. Per realizzare lo stato totalitario occorre anzitutto una centralizzazione amministrativa completa, passando la somma di tutti i poteri nel governo e facendo del governo stesso l'esecutore cieco della volontà di un capo investito (non importa COme) di tutti i poteri morali giuridici e politici col carattere di dittatore (l). Perchè questa macchina si muova, è necessario sopprimere tutte le libertà civili e politiche, tutti i diritti fondamentali della persona umana e della famiglia, delle comunità e delle città, delle università e delle chiese. Lo strumento principale di tale potere è la forza; non basta la forza pubblica della polizia, c'è bisogno della polizia segreta (che ha preso i nomi famosi della Gepeu in Russia, Ovra in Italia, e Gestapo in Germania); c'è bisogno anche della forza privata: le squadre armate delle camice nere in Italia e delle camice brune in Germania. La sola forza non basta; l'educazione è sempre necessaria: così scuole, sport giovanile, cinema, radio, stampa, tutto è monopolizzato da uno stato totalitario, creando anche scuole speciali per formare i perfetti cittadini di tale stato. Ancora un passo: attenuare e periìno eliminare l'influsso della famiglia; donde le istituzioni statali (fasciste o naziste) infantili: in Italia sotto il fascismo, a sei anni si era Figli clella Lupa e a otto anni Balilla e poi Giovani italiani (ragazzi e ragazze) e così via fino alla morte. I n Germania la gioventù nazista fu organizzata per le varie età, perfino fanciullini di sei, e anche quattro anni; e dai dieci ai quattordici nella J u n g v ~ l k ; dai quattordici ai diciotto nella Hitler Jugend, fino a che, dopo u n periodo di rigoroso addestramento ai lavori fisici per ambo i sessi, si era ammessi al partito nazista o alle sue organizzazioni per adulti.

(l) Dittatura, nel senso originario romano indica un potere conferito nei casi gravi e per un tempo determinato, del cui uso doveva darsi conto al senato e al popolo. Oggi dittatore indica ii potere di un capo assoluto, irresponsabile e con poteri illimitati su tutto e su tutti.

I


I n Russia vi è la così detta organizzazione volontaria dei Pionieri, che prende da otto a sedici anni; i bambini d'ambo i sessi sono iscritti nei gruppi ottobristi. Dall'età di diciassette anni i giovani e le giovani possono essere iscritti alla gioventù comunista (ComsomoG). Uno stato così organizzato deve avere uno scopo: l'Italia fascista sognò l'impero romano, la Germania nazista si basò sull'idea della razza dominatrice; la Russia bolscevica sulla rivoluzione comunista nel mondo. Ma per imporsi, lo stato deve contare sopra un'organizzazione militare sempre più larga e sempre più moderna. Mussolini disse: Quel ch'è la maternità alla donna, è la guerra all'uomo D. Così unì due scopi, uno che distrugge l'altro: uno naturale e l'altro innaturale. La conclusione ne fu la completa militarizzazione del paese. Resta la chiesa: fino a che questa può servire per l'avvento e il mantenimento delle dittature, se ne cercano gli aiuti e se ne domandono i concordati. Ma se la chiesa diviene ostacolo allo spirito dello stato totalitario, allora è perseguitata e se possibile abolita. I bolscevici vollero formare una propria chiesa, poi la eliminarono perseguitando il clero e chiudendo chiese ; dichiararono la libertà di culto ma imposero tali restrizioni che questa divenne un'irrisione. Poscia, specialmente durante la guerra, prima cercarono di far cadere la propaganda atea, poi si assicurarono la collaborazione del clero a s s o che ancora esjste. Hitler cominciò col promettere il rispetto dello stato per i protestanti e per i cattolici, poi cercò di fare una chiesa hitleriana dei protestanti e stipulò il concordato con Roma. Presto mancò alle promesse fatte ai cattolici e ai protestanti, iniziando una persecuzione assai abile e mirando alla scristianizzazione completa della Germania. Mussolini regolò col Vaticano l a questione romana e accettò i l concordato che volle Pio XI. Egli cercò piuttosto di evitare contrasti aperti con la chiesa, favorendola fin dove non pregiudicava lo sviluppo del fascismo. I contrasti principali furono per l'educazione della gioventù e le loro società cattoliche. F u allora che Pio X I pubblicò l'enciclica Non abbiamo bisogno (') (l)

Comunemente nota come « Sull'Azione cattolica n, 29 giugno 1931.

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dove pose in rilievo il pericolo del monopolio educativo della gioventù da parte dello stato, e il pericolo generale dello stato concepito come fine dell'uomo. Pio XI aveva dichiarato già nell'allocuzione del dicembre 1926 che « lo stato non è un fine dell'uomo, ma è l'uomo il fine dello stato ».Nella detta enciclica vi è una dichiarazione che è il nucleo della questione tra il Vaticano e tutti gli stati totalitari: « [Siamo] lieti e fieri di combattere la buona battaglia per la libertà delle coscienze » (l). E lo stesso Pio XI aggiungeva: « si tratta inoltre del diritto non meno inviolabile della chiesa di adempiere l'imperativo divino mandato, d i cui la investiva il divino Fondatore, di portare alle anime, a tutte le anime, tutti i tesori di verità e di bene, dottrinali e pratici, ch'Egli stesso aveva recato al mondo » (2). Molti sono i documenti e i discorsi d i Pio XI contro lo stato detto totalitario ; egli, volendo che si desse nei seminari e nelle università cattoliche una esatta nozione degli errori correnti circa la razza, il nazionalismo e il totalitarismo, fece redigere la nota lista di otto proposizioni erronee l'ultima delle quali dice: « Singuli homines non sunt nisi per statum et propter statum; quidquid juris a d eos pertinet ex status concessione unica derivatur ( 3 ) . Questo Leviathan che è lo stato nella concezione totalitaria, anche se fa alla chiesa delle concessioni e ne accetta i concordati, non può mai consentire che Ia formazione spirituale del popolo sfugga alla sua influenza; che qualsiasi forza autonoma si levi contro d i lui e che la chiesa possa inculcare idee e principi e teorie che ne contraddicano la natura e ne diminuiscano il potere. È impossibile che la chiesa sia libera sotto uno stato totalitario, il quale in quanto tale non ammette nessuna libertà. (l) I1 papa diceva u delie coscienzen, e non u di coscienza n, perchè « libertà di coscienza n è un'espressione equivoca troppo spesso distorta a significare l'assoluta indipendenza della coscienza, u cosa assurda in anima da Dio creata e redenta n (ibidem).

(=)Lettera delia S. Congregazione dei seminari e università, 13 aprile 1938.


Perchè la ragione fondamentale è che la base sulla quale il totalitarismo di stato viene eretto assume una portata assoluta ( l ) . Sia questa base la nazione o l'impero, sia la razza o la classe, è una divinizzazione che non sopporta limiti di altro dio, anzitutto perchè non sopporta limiti morali e per conseguenza nè limiti giuridici, nè limiti religiosi. Lo stato, cosi concepito, diviene la fonte d i ogni diritto e d i ogni realtà sociale. Ci troviamo d i fronte ad una lenta ma logica realizzazione concreta di teorie formulate per quasi due secoli; partendo dalla volontà del popolo senza limiti morali che la propria stessa volontà (Rousseau), si passò all'idea di stato come suprema manifestazione dello Spirito (Hegel), si arrivò al positivismo che fece della società umana un assoluto (Comte) dandovi un'entità al di fuori degli individui (Durkheim) riducendo tutto a lotta per la vita materiale (Marx). Ma occorrevano immagini più vivaci e sentimenti più profondi che colpissero le masse e n e destassero il fanatismo: la nazione, la razza, l'impero, la classe. Bastò che la guerra mondiale del 1914-18 scardinasse l'ordine particolare e mediocre che esisteva, perchè ne venisse così tropicale efflorescenza di uno dei più terribili mali sociali che abbia colpito l'umanità. Pio X I pose ciò in termini chiari: Se la razza o il popolo, se lo stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell'ordine naturale un posto essenziale e degno d i rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala d i valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l'ordine, da Dio creato e imposto, ed è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme )I ('). (l) Nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (20 ottobre 1939), Pio XII parla contro quell'autorità civile che «tende a sostituirsi all'Onnipotente, elevando lo stato o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell'ordine morale e giuridico, e interdicendo, perciò, ogni appello ai principi della ragione naturale e della coscienza cristiana n. (2) Lettera enciclica u Mit brennender Sorge n (La chiesa in Germania), 14 marzo 1937.


I1 mondo è caduto nel peccato dell'idolatria quando ha elevato lo stato, la nazione, la razza, la classe, i l dittatore, a principio di moralità d i diritto e'di esistenza della comunità umana. È allora che tutte le passioni si 'scatenano senza limiti d i sorta, perchè il cielo è chiuso agl'idolatri e l'uomo non è più un fratello, il prossimo, ma una cosa cristallizzata nella falsa divinità ; .e tutti coloro che non possono assimilarsi ad essa (sia l a nazione, o la razza, o la classe), non sono altro che materia da soggiogare, da eliminare, da far perire.

Nazionalismo, antisemitismo e barbarie Fino alla seconda met.à del secolo XIX l'anti-semitismo serviva al russo o al turco per ragion di stato ».Di tanto in tanto i « pogrooms » contro gli ebrei erano eccitati dalle polizie per calmare la plebaglia che aveva i suoi giorni per rubare a mansalva e vendicarsi. Ma col nazionalismo del secolo XIX sorse l'antisemitismo teorico (come abbiamo già visto), una lotta sorda o aperta contro una popolazione eterogenea per rifare I'omogeneità di una nazione; poscia, per la purezza della razza, ovvero per ostacolare l'influsso degli internazionalismi del capitale e del lavoro, che erano attribuiti all'influenza ebraica. Dopo l'avvento di Hitler I'anti-semitismo prese i l doppio aspetto della messa fuori legge degli ebrei e del loro sterminio sistematico. Le disposizioni anti-semite del Reich furono estese in Austria, in Cecoslovacchia e in Italia prima della guerra, e durante la guerra in tutti i paesi occupati dalle armi germaniche. Anche oggi il sentimento e i pregiudizi anti-semiti sono abbastanza diffusi anche nei paesi democratici d'Europa e d'America. Chi ha fatto fronte all'anti-semitismo, che circola anche presso gli ambienti cattolici, è stato i l papato, e Pio X I assunse una posizione che non potrà dimenticarsi. Già nel decreto del Santo Ufficio che scioglieva una certa associazione di Roma detta u Amici d'Israele » (per ragioni disciplinari e liturgiche non consone alla tradizione cattolica), per sua volond fu inserita una chiara dichiarazione contro I'anti-semitismo là dove è scritto:


« qua caritate permota

Apostolica Sedes eundem populum (Israel) contra iniustas vexationes protexit, et quemadmodum omnes invidias ac simultates inter p 7pulos reprobat, ita ve1 maxime damnat odium adversus populum olim a Deo electum, odium nempe illud, quod vulgo antisemitismi nomine nunc significari solet (l). I vari discorsi di Pio XI contro l'introduzione delle leggi antisemitiche in Italia sono di un'importanza notevole e qual. cuna delle dichiarazioni fatte è veramente degna di passare alla storia, come quando, nel settembre 1938, ricevendo un gruppo di pellegrini del Belgio, fattosi portare i l messale lesse con le lagrime agli occhi il passo del canone, dopo la consacrazione, dove si prega Dio d i accettare l'offerta della Messa come accettò « il sacrificio &l nostro patriarca Abramo » e soggiunse: Abramo è chiamato nostro patriarca. L'anti-semitismo non è compatibile con la sublime realtà di questo testo. È un movimento al quale noi cattolici non possiamo partecipare. No, non è possibile essere cristiani e anti-semiti. Noi siamo spiritualmente semiti )) (').

(l) #

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Decreto del S. Ufficio del 25 marzo 1928.

Tratto dall'articolo « The Church and Anti-Semitism » in The Catholic Record of London, Ontario, Canada, 7 gennaio 1939. Tale notizia fu anche pubblicata nel Belgio e da La vie intellectuelle di Parigi, il 10 febbraio 1939. Sull'Ossmatore Romano del 30 luglio 1938, nel resoconto del ricevimento fatto il 28 luglio, dolendosi del movimento antisemitico e razziale d'Italia, Pio XI disse: « Ci si può chiedere come mai disgraziatamente l'Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare l a Germania. Qui il Santo Padre apriva sorridendo una parentesi, rilevando come qualcuno - e ciò si era per altri casi verificato già - avrebbe potuto accusare Lui di pregiudizio perchè si sa, il papa è figlio di milanesi, gli uomini delle cinque giornate che hanno cacciato i tedeschi. No, non è per questo, ma è perchè i latini non dicevano razza nè qualche oosa d i simile. I nostri vecchi italiani hanno altre parole più belle, piii simpatiche: gens italica, italica stirps, Japeti gens. Al Santo Padre queste parole sembravano più civili, meno barbariche D. Come umano Pio XI e come attuale anche, nel ricordare le cinque giornate di Milano del 1848 quando i tedeschi erano già in Italia d i nuovo. Rimandiamo il lettore ad un recente meritevole e ben documentato lavoro, National Patnotisrn in Papal Teaching, di John J. Wright, Boston, The Stratford Co.. 1942. (2)


Contemporaneamente a l più acuto anti-semitismo si è sviluppato in Germania un eugenismo di stato assolutamente immorale, perchè tende sia a regolare le nascite come se gli uomini fossero cavalli o buoi, da un punto di vista esclusivamente animale e prescindendo dalla regolare formazione delle famiglie; sia alla eliminazione dei soggetti tarati a mezzo della sterilizzazione. L'uno e l'altro a scopo di purezza della razza e di omogeneità e fortificazione nazionale. Non c'era bisogno di dichiarazione ecclesiastica sulla immoralità di tali pratiche. Ma poichè in Germania si disputava da cattolici sul diritto o meno dello stato di ordinare in dati casi la sterilizzazione dei suoi « sudditi D, così il S. Ufficio intervenne dichiarando non essere lecito non solo di ordinare la sterilizzazione contro la volontà del paziente, ma neppure di cooperarvi come assistenti medici negli ospedali pubblici o nelle case di cure e di prestarsi in qualsiasi modo a favorire e generalizzare una tale pratica ( l ) .

(l) I1 decreto del S. Ufficio del 21 febbraio 1940 stabilisce che « la diretta sterilizzazione di uomo o donna, sia perpetua che temporanea, è proibita dalla legge di natura n. La sterilizzazione eugenica fu condannata dallo stesso Santo Ufficio con decreto del 18 marzo 1931 in connessione con l'enciclica Casti Connubii del 31 dicembre 1931. I1 New York Times del 24 dicembre 1939 pubblicava un dispaccio deli'dssociated Press, secondo il quale Heinrich Himmler, capo di tutta l'organizzazione poliziesca tedesca e leader della guardia scelta, aveva sottolineato la necessità di un sempre maggior numero di bambini. Himmler avrebbe detto ciò con riferimento ai piani del regime nazista: u Speciali padrini saranno da me nominati per tutti i bambini di sangue puro nati entro o fuori del matrimonio, i cui padri muoiano in guerra.. . Al di là dei limiti delle leggi e dei costumi borghesi, che in genere probabilmente sono necessari, può essere un compito esaltante per le donne e le fanciulle tedesche di sangue puro diventare, anche fuori del matrimonio, - non per leggerezza ma coscienti del profondo significato morale - madri di bambini generati da soldati in partenza per il fronte senza sapere se torneranno o morranno per la patria. I padrini avranno cura delle madri e dei bambini durante la guerra, e se i padri muoiono, anche dopo n. Inoltre Hess, poi leader parlamentare del partito nazional socialista, veniva citato nello stesso dispaccio per aver annunciato l e seguenti norme da applicarsi in futuro ad ogni caso di figli illegittimi di u spose di guerra n : 1) Nell'atto di registrazione della nascita del bambino di uspose di guerra n non coniugate, il nome del padre sarà rimpiazzato dalla designa-


Se questo ci sembra enorme, che dire della uccisione ordinata dalle autorità statali di coloro che « per difetti fisici e psichici non sono più utili alla nazione anzi vi sono di aggravio n ? Questa, a leggerla sui giornali, sembrò una. notizia di guerra per diffamare il Reich germanico. Ma poscia abbiamo letto sull'Osservatore Romano del dicembre 1940 la risposta del Santo Ufticio al quesito rivolto da qualche vescovo di un paese non nominato, dove è detto: « Num licitum sit ex man« dato auctoritatis publicae, directe occidere eos qui, quamvis « nullum crimen morte dignum commiserint, tamen ob de« fectus psychicos ve1 physicos nationi prodesse jam non va« lent, eamque potius gravare, eiusque vigore ac robori obstare « censentur ». Naturalmente il Santo Ufficio rispose che tale pratica era contraria sia al diritto naturale che al diritto divino positivo ». Dopo questi fatti, oggi non siamo più capaci di protestare contro i l sistema, del resto antico ma che il nazionalismo ha molto accentuato, di sopprimere le scuole dei gruppi allogeni, di costringerli ad usare la lingua del paese dominatore avanti i tribunali e nelle chiese, e di vietare persino l'insegnamento domestico e far cancellare non solo i nomi delle strade scritti nella propria lingua ma anche quelli delle lapidi funerarie. Quel che ci h a riportato in piena barbaria, con un terribile crescendo, è stata la deportazione in massa delle minoranze, allo scopo di formare l'omogenità nazionale. Dopo l a guerra greco-turca del 1920 h r o n o deportati dall'Asia Minore circa un milione di greci, i quali forse vivevano di padre in figlio sui medesimi posti molto tempo prima dell'invasione turca, per più di un millennio. E chi non ricorda l'eccidio dei greci di Smirne in quella disgraziata guerra? Non comprenzione « padre di guerra n, e quando il nome del padre viene registrato, questa designazione sarà applicata al nome. 2) Una sposa di guerra non coniugata conserverà il suo nome da ragazza ma con il titolo di a signora n. 3) Se necessario lo stato fornirà un aiuto finanziario, ma i nonni dei ([bambini di guerra n saranno tenuti a prendersi cura di essi n. Tali sviluppi sono perfettamente in armonia con gli anti-cristiani ed immorali principi del nazionalismo, denunciati da Pio XI.


diamo il perchè della tolleranza delle potenze occidentali verso questa prima deportazione in grande. È vero che l'antica Turchia aveva abituato al peggio, ma Ataturk veniva con l'aureola del moderno riformatore. Solo pochi notarono l'enormità di un tale fatto, perchè il nazionalismo velava i misfatti compiuti in suo nome. Prima dell'attuale guerra fece grande impressione l'accordo di Mussolini con Hitler per il Sud Tirolo ( o Alto Adige), che offriva ai tirolesi l'alternativa di andare in Germania o rimanere in Italia. Ma le deportazioni della presente guerra sono state e sono di una crescente intensità. I polacchi obbligati a centinaia di migliaia a lasciare le terre ai tedeschi; le popolazioni germaniche dei paesi baltici, più d i 80 mila trasportati (dopo l'accordo di Hitler con Stalin) nella Pomerania e nella Polonia. Le antiche popolazioni d i origine tedesca del Volga trasportate in Siberia o altrove. Quanto è accaduto durante la guerra - massacri da migliaia a milioni di gente disarmata perchè presunta razza nemica('), deportazione da migliaia a milioni di gente dalle loro terre e case, perchè appartenente ad un paese nemico - e ciò è accaduto dopo la guerra con il consenso degli Alleati - è d i una tale repellente barbarie che ci appare incredibile possa esser stato concepito ed attuato da esseri umani. Per noi, cristiani e gente civile, è inconcepibile che tali crimini siano stati perpetrati collettivamente, a sangue freddo, persino con un piano scientifico e un'esecuzione sistematica. Pratiche come queste, fatte « perchè utili alla nazione » unite a quelle della sterilizzazione obbligatoria e della uccisione dei sudditi propri C( perchè non utili alla nazione », compendiano tutta l'inumanità e l'immoralità di un nazionalismo

(l) Il mondo fu inomdito venendo a conoscere, durante la guerra, la decisione dei nazisti u di affrettare e intensificare lo sterminio - con il massacro e e l'affamamento - degli ebrei rimasti nell'Europa occupata n (British Section of World Jewish Congress, vedi tutta la stampa del 14 febbraio 1943). Ma adesso la realtà dei passati e dei presenti crimini è più orrenda di quello che si sospettasse.


che ha fatto della nazione una terribile divinità e dello stato totalitario il suo onnipotente ministro.

Non vogliamo che il lettore creda che solo il nazionalismo e il suo conseguente totalitarismo sia l'unica causa dell'apostasia moderna dal cristianesimo. I1 naturalismo, nel senso di negazione d i ogni principio soprannaturale, il positivismo sociologico, la filosofia razionalistica hanno invaso tutta la società per più di un secolo. Ma mentre tutti questi errori e le loro derivazioni sono stati combattuti in nome della sana filosofia e della religione cristiana, il nazionalismo è stato trascurato, o peggio è stato favorito perfino nelle missioni, come lamentava fortemente Pio XI (l). E se esso è stato combattuto, lo è stato solo sul piano politico, il che ha portato presso molti cattolici più confusione che chiarificazione. Non sarebbe molto dire che gli avvertimenti ripetuti di Pio XI erano la profezia di chi stava per scendere nella tomba. Pio XII ne assunse l'eredità quando nella sua enciclica parlò dell'errore del totalitarismo come un divorzio della « autorità civile da qualsiasi dipendenza dall'Ente supremo, causa prima e signore assoluto sia dell'uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria » (=). I cattolici dovrebbero chiaramente affermare e riaffermare (1) Pio XI nel discorso agli alunni del pontificio collegio urbano de Propaganda Fide fatto il 21 agosto 1938, disse loro fra l'altro: u C'è luogo per un giusto, moderato: temperato nazionalismo, associato a tutte le virtù. Ma guardatevi dall'cc esagerato nazionalismo n come da una vera maledizione. Ci pare che purtroppo tutti gli eventi ci diano ragione quando diciamo una maledizione, ~ e r c h èè una maledizione di divisioni, di contrasti con pericolo di guerre. Per l e missioni poi è una vera maledizione di sterilità, perchè non è per quelle vie che la fertilità della grazia si riversa nelle anime e fa fiorire l'apostolato D (L'Osservatore Romano, n. 194 del 1938). ( 2 ) Enciclica Summi Pontificatris, 20 ottobre 1939.


l'universalità umana e cristiana, che affratella tutti in Dio, contro i nazionalismi, che elevandosi a divinità, distaccano, dividono odiosamente il genere umano, aspirando ciascuno a dominare gli altri per una missione che essi si attribuiscono da sè sostituendosi a Dio. Pio XI, nel discorso rivolto il 28 luglio 1938 agli alunni del pontificio collegio urbano di Propaganda Fide ricordava che « cattolico vuol dire universale, non razzistico, non nazionalistico nel senso separatistico di questi due attributi ».E soggiungeva che « l'azione cattolica deve ispirarsi a questi prinessa cipi, perchè l'azione cattolica vuol dire la vita cattolica si identifica infatti con la vita cattolica, giacchè che cosa sarebbe infatti l a vita senza l'azione? La vita cattolica vuol dire un'attività fatta di carità, di virtù, di legge di Dio che riempie tale vita l a quale è perciò vita di Dio. Non c'è altro modo di pensare cattolicamente e questo non è pensare razzistico, nazionalistico, separatistico, nel senso che è espresso abbastanza chiaramente nell'ultima di queste parole. Separatismo no: non vogliamo separare nulla nella famiglia umana: poichè intendiamo - è chiaro - il razzismo e il nazionalismo esagerato, come se ne parla comunemente di barriere elevate tra uomini e uomini, gente e gente, popoli e popoli » (l). Pio XI aveva talmente compreso, come per un'intuizione, il male che incombeva sull'umanità, che negli ultimi due anni della sua esistenza, dalle celebri tre encicliche del marzo 1937 alla vigilia della sua morte (quando scrisse il documento diretto ai vescovi d'Italia, che rimase segreto), il suo pensiero costante fu di indirizzare i cattolici a ripudiare quel ch'egli chiamava « razzismo e nazionalismo come se ne parla comune,mente »; cioè quello sui quali f u edificato il totalitarismo di stato. Egli ripetè spesso ad ogni occasione che « i l contrasto f r a il nazionalismo esagerato e l a dottrina cattolica è evidente D e che « lo spirito di questo nazionalismo è contrario allo spirito del Credo; e contrario alla fede n. Pio XI dichiarava nella udienza del 15 luglio 1938 presente il card. Pacelli (ora papa Pio XII) alle religiose del Cenacolo, « egli non aveva mai pen-

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...

(l)

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L'Osservatore Romano, n. 175 del 30 luglio 1938.

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sato intorno a queste cose con tale precisione, con tale assolutismo, si direbbe, quasi con tanta intransigenza di formule; e giacchè Iddio gli dà la grazia di tale chiarezza, Egli vuole farne partecipi i suoi figli, avendone tutti bisogno particolare in questo tempo in cui tali idee fanno tanto rumore e tanto danno. Proprio in quel giorno stesso gli avevano riportato qualche cosa di ben grave; si tratta ormai di una forma di vera apostasia » ( l ) . Queste parole cominciano con una franca ammissione che egli non aveva mai pensato intorno a queste cose con tale precisione, e proseguono come un testamento: « giacchè Iddio gli d à la grazia d i tale chiarezza Egli vuole jarne partecipi i suoi figli ».I n queste due frasi c'è qualche cosa di commovente, come una grande anima che si apre avanti al mondo, nel vederne l'imminente catastrofe. Queste parole non furono rilevate che da pochi e passarono attraverso la stampa quotidiana di ogni paese come uno'dei tanti discorsi papali a suore a religiosi, a pellegrini che vanno in folla al Vaticano. Molto tardi, la gran parte dei cattolici ( e anche dei non cattolici) si sono svegliati dal sonno dell'avvelenamento nazionalistico; appena con lo scoppio della seconda grande guerra e forse solo dopo che la guerra aveva preso le proporzioni di una lotta mondiale. Fra le tante cause di ciò, bisogna assegnare anche l'equivoco che h a portato nelle menti il nome di nazionalismo come amore vivace e fattivo della propria nazione, mentre invece aveva in sè uno spirito egoistico inoculato da una teoria inumana, che ha diviso i popoli e inorgoglito i tiranni. Ma le parole hanno la loro vita ed evoluzione. Quando la parola nazionalismo fu coniata voleva significare la teoria eco. nomica della « nazionalizzazione di certe industrie d'interesse collettivo ».Poi fu usata ad esprimere l'amore della nazione e la difesa dei suoi diritti contro « l'internazionale operaia e « l'intemazionalismo di classe n. Quindi fu applicata alla difesa delle « nazionalità » e delle cc minoranze» oppresse (che si sarebbe dovuto chiamare, come suggerivano diversi, nazionalitarismo ('). Infine fu portata ad indicare una data teoria SO(l)

L'Osservatore Romano, n .

la del

17 luglio 1938.

(2) Vedi M. Vaussard, Equéte sur le nationalisme, cit.


ciologico-politica e l a nazione fu pensata come un'entità suprema, legge a sè stessa, senza limitazione di vincoli umani e divini; lo stato nazionale fu dichiarato stato totalitario. Per noi, oggi, dopo la presente esperienza, nazionalismo non dovrebbe più avere altro significato che questo ultimo, perchè non si può mettere sotto lo stesso comune denominatore ciò che è buono (l'amore della nazione) con ciò che è intrinsecamente cattivo ( l a deificazione della nazione). Prima dell'attuale guerra, per distinguere nazionalismo e nazionalismo, il cattivo veniva classificato come nazionalismo radicale (Vermersch, S. I.) o come esagerato contrapposto a quello moderato (Pio XI). Ma nell'ultimo suo anno di vita la stesso Pio X I faceva notare che oggi « come se ne parla comunemente » per nazionalismo s'intende quello esagerato, anzi proprio quello che separa i popoli dai popoli e che è opposto al principio universale (cattolico) della religione di Cristo, per il quale, pur ammettendo tutte l e differenze di razza, di nazione, di condizione, di cultura, tutti gli uomini sono fratelli; sulle divisioni deve prevalere la solidarietà, sulle differenze la fraternità, sugli odi l'amore.


Nel 1910 ero da cinque anni sindaco di Caltagirone, e consigliere provinciale di Catania e consigliere nazionale dell'associazioni dei comuni d'Italia, nonché uno dei leaders del movimento « municipalità » contro l'accentramento statale, sicchè non mancavo mai nei congressi dei comuni. Fu i n uno di tali congressi a Catania, che fra una sessione e l'altra fui richiesto da vari giornalisti come potessi conciliare la mia qualità di sindaco e prete con l a tesi cattolica che Roma doveva tornare al papa. Risposi semplicemente che quella non era la mia tesi e che non dubitavo che Roma fosse la capitale del regno; auguravo, pertanto, una pacifica soluzione della questione romana. 1 giornalisti sono fatti per i giornali: ecco spuntare sopra un giornale di Messina (non ricordo più il titolo) un'enorme testata: « I n t e ~ s t acon don Sturzo - Non più Roma a l papa o altro simile. I1 giornale clericale di Firenze L'unità cattolica prende la notizia e attacca a fondo « don Sturzo ».I1 cardinale segretario di stato, allora Merry del Val, scrive una lettera al vescovo di Caltagirone perchè apra subito un'inchiesta sul come sono andati i fatti. Invitato dal vescovo a scrivere u n rapporto, dichiarai che non avevo inteso dare un'intervista; si trattava di scambio di idee mentre si pigliavano sorbetti e doIci nelle antisale del congresso. I n ogni caso, io avevo espresso l a


mia idea, che non potevo modificare, trattandosi d i convinzione di fatto. La cosa non ebbe altro seguito; ma la mia sorpresa e ammirazione fu grande allorchè, pochi mesi dopo, ebbi un'udienza privata da Pio X; questi, al mio entrare e inginocchiarmi, aperse le braccia e m'invitò così: (C Venite, signor sindaco, venite »; - e dopo che mi accostai - soggiunse: (C nessuno ancora vi h a scomunicato? » - ((Nessuno », - risposi io; cc e chi lo potrebbe se non vostra Santità? - « Io non vi scomunico, caro Sturzo D, - disse il papa; - e poi sorridendo aggiunse a voce bassa: guardatevi da quegli altri che vi sospettano ». Di questo episodio ne ho parlato più volte e con vari amici; ma è la prima volta che ne scrivo, e lo fo per due motivi: primo, per far vedere qual'era l'animo di Pio X circa la questione romana e quale ambiente aveva attorno, che forse fu quello che gl'impedì di realizzare il suo sogno di conciliazione. Ma di più, m'interessa notare come certe questioni, finchè non vengono a maturità, non si possono trattare apertamente senza essere tenuti in sospetto. E pertanto occorre che ci siano tali pionieri, per poter sgombrare il terreno e rendere agevoli le soluzioni. Oggi per un cattolico è facile dire che non si poteva più ridare Roma al papa, dopo la caduta del potere temporale. Dire ciò prima del 1929 (data del trattato del Laterano) era già tollerato da molti, benchè ci fossero coloro che protestavano. Ma dirlo nel 1910, o nel 1900, o nel 1880, allora sì che si poteva essere scomunicati D. L'abate Tosti d i Montecassino ebbe a subuire la sconfessione del suo amico Leone XIII e il vescovo Bonomelli di Cremona ebbe il suo scritto sulla conciliazione posto all'Indice dei libri proibiti (l). Un altro ricordo personale mostra come difficile fosse stato negli ambienti ecclesiastici di Roma dichiararsi contro il potere temporale dei papi. Uno dei miei professori all'università Gregoriana negli anni 1894-97 fu il padre Billot, poi cardinale fino che si dimise sotto Pio X I ( a quanto si disse) per l'affare del(l) Vedi D. A. Binchy. Church a d State in Fuscist Italy, New York, Oxford University Press, 1942, pp. 51-54.


1'Action Fraquise. Egli sosteneva la tesi ( e non era il solo) che i l potere temporale era così connesso al principio dogmatico dell'indipendenza del papa nel suo ministero universale, da potersi qualificare fatto dogmatico e come tale da difendere anche con i mezzi terreni. Per quanto sia per un alunno difficile dissentire dal maestro, e in certi casi sarebbe presunzione, pure la tesi del fatto dogmatico suonava aspra a noi giovani della generazione successiva alla caduta del potere temporale. Specialmente a quelli, come me, che si dilettavano di storia e potevano bene affermare che in molti casi il papa, con tutto il potere temporale e certe volte a causa del potere temporale, non era stato nè libero nè indipendente, sia per le pressioni esterne che per le agitazioni interne. Non dico che tutte le osservazioni di noi giovani fossero valide, nè che la discussione fosse scevra, di qua e di là, da pregiudizi; dico che diveniva difficile anche discutere il problema da u n punto di vista teorico, per i sospetti che si creavano a danno di coloro che non fossero stati « temporalisti al cento per cento (l). L'atto di Pio XI, nel risolvere la questione romana, rinunziando ad ogni pretesa temporale su Roma e sulle altre provincie del vecchio stato papale ( p e r quanto si £asse trattato di una rinuncia post factum, giuridica e non politica) liberò gli animi di 'milioni di cattolici, sia in Italia che all'estero, dall'incertezza creata in loro dal fatto di non poter difendere gli antichi diritti temporali del papa, e di voler allo stesso tempo che il papa fosse libero e indipendente. Donde sgorgò un generale sentimento di gratitudine verso Pio X I che fu celebrato come uno dei più grandi papi moderni. L'adulazione verso Mussolini fu maggiore ancora, perchè questi rappresentava il governo italiano, che non solo aveva preso Roma con le armi, ma per lungo tempo aveva rigettato l'idea della conciliazione, per paura degli anticlericali e dei massoni, sebbene tale idea fosse dibattuta sulla stampa e nei libri. Finalmente era a m v a t o « l'uomo della Provvidenza D che accettava

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(l) Contardo Ferrini, poi beatificato, in vita fu sospettato quale a cattolico tiepido n o anche « liberale n, perchè non era temporalista n.

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4 . STURZO Nazionalismo e Internazionalismo


oltre che il trattato anche il concordato, per i quali, secondo quanto disse Pio XI, « veniva ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio D. P e r fortuna quest'opinione non durò a lungo nella mente di Pio XI, il quale, parecchio tempo prima di morire vide bene quale fosse il male che portava il fascismo nel campo religioso, morale e internazionale. Molte furono le dichiarazioni di quel papa, aperte o sottintese, contro le teorie e le pratiche del fascismo. La sua opposizione alle leggi razziali e i suoi continui appelli contro il nazionalismo esagerato portavano l'impronta di un'angoscia che non lasciò mai il suo animo. Sappiamo che Pio X I aveva preparato per il decimo anniversario del trattato del Laterano uno degli atti più coraggiosi del suo pontificato, un discorso ai vescovi d'Italia convenuti a Roma, che ( a quanto si disse) era sull'attuale situazione della chiesa. Me egli mori i l 10 febbraio 1939 e il nuovo papa (già suo segretario di stato) volendo seguire col governo fascista una l i n e a , d i pacificazione, proprio nel momento della guerra, chiuse quel testo nel tesoro dei segreti di stato. Gli ultimi decenni del potere temporale Daniel Binchy ( l ) è uno dei pochissimi cattolici stranieri che ha cercato di comprendere il risorgimento italiano, superando gran parte dei pregiudizi e delle inesattezze che corrono da un secolo in quasi tutti i libri, l e enciclopedie e le riviste scritte da cattolici. A un certo punto egli dice: (( I t is even more important to remember that the quarrel between the Church and the Risorgimento was conditioned by history, not by theoreiical incompatibility. There was nothing inherently anti-Catholic in Italian nationalism ; on the contrary, the movement (l) Il libro del professor Daniel A. Binchy, Church and State in Fascist Ztaly (che finisce con la stessa data della morte di Pio XI), può guardarsi come i l più serio e coscienzioso lavoro che si sia scritto su questo tema non solo da cattolici (essendo Binchy un cattolico) ma anche da non cattolici di tutti i paesi. In esso troviamo larghezza di vedute, precisione di fatti, abbondanza di dettagli, informazione di ambienti, libertà negli apprezzamenti e indipendenza di giudizio.


originally drew most of its strength from Catholic sources n (P. 17). Egli non ha paura di chiamare le cose col loro nome e di dire, a proposito della politica di Pio IX verso l'Italia che questi c( was a child in politica1 matters, impulsive and changeable, and his genuine affection for Italy might well have caused him to reverse his non possumus and come to a generous, perhaps even imprudent, arrangement with the House of Savoy » (pp. 21-22). Questa affermazione di Binchy può essere storicamente contestabile; egli stesso nel seguito la chiarisce mettendo in evidenza i l problema religioso quale si presentava allora, sì da dare l'impressione d i un attacco a fondo contro i l papato, l a chiesa, i dogmi. Pio I X non faceva più distinzione fra questione nazionale e questione religiosa. E poichè il processo storico evade sempre dalle definizioni assolute e supera gli urti fra idee e fatti, così si arrivò in Italia ad un paradosso che Binchy nota umoristicamente ( e che. fu rilevato più discretamente dal senatore Scialoja nel 1929) che « the Roman question was created by a government of catholics and settled by a government largely composed of agnostics » (p. 24). I1 potere temporale dei papi nel secolo XIX non poteva essere guardato allo stesso modo dei secoli precedenti: uno stato a regime assoluto, come tutti gli altri di Europa, in mano ad ecclesiastici che governavano paternamente, e che lo dilendevano dagli appetiti delle potenze estere ora con la neutralità, ora con le leghe e ora con l'autorità papale, quando questa non faceva ombra a Parigi, a Madrid e a Vienna. I1 tipo di stato che sorse dopo l e guerre napoleoniche e dal congresso di Vienna fu un altro; subordinato ad una politica europea di reazione contro le idee diffuse dalle rivoluzioni di America e di Francia. contro le aspirazioni delle nazionalità oppresse verso regimi indipendenti e liberi, contro l e stesse forme costituzionali già adottate con limitazioni in Francia, in Baviera nel 1815, i n Spagna e in Sicilia nel 1812. I papi del tempo, da Pio VI1 a Gregorio XVI, non solo accettarono la politica austriaca, ma avversarono le forme stesse costituzionali, ovunque esse ebbero inizio, anche nell'dmerica Latina,

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mettendo cattolici e vescovi in difficili posizioni nei confronti delle loro popolazioni. Altro non poteva capitare allo stato pontificio, se non di essere allo stesso tempo focolaio di rivoluzioni contro l'autoritarismo del governo papale e quindi campo sperimentale della repressione politica e poliziesca di quel tempo. Finchè 1'Italia rimase tutta sotto i sovrani assoluti, devoti a Vienna e nella sfera della politica austriaca, lo stato papale non faceva molta differenza, tranne per i l disturbo dovuto al fatto che ci fossero ecclesiastici al governo in u n momento così difficile e aspro, e vi esercitassero u n potere che oggi sarebbe qualificato per tirannico. Ma quando si ebbero i primi moti rivoluzionari e le prime concessioni dei principi nel dare la costituzione, tutto quel sistema politico crollò in pezzi. Venne il 1848, indi le guerre del risorgimento; l'Europa cambiò più volte aspetto politico e militare: tutti gli stati ebbero successivamente le loro costituzioni. Nell'Europa di quel periodo rimanevano solo tre poteri assoluti: il papa a Roma, lo zar a Pietroburgo e il sultano a Costantinopoli; proprio in quegli stati in cui il potere politico era legato al potere ecclesiastico. Napoleone I11 non poteva contarsi con loro, nonostante il potere dittatoriale ch'egli esercitava, perchè nominato per un suffragio universale (reale o no) e di carattere storicamente e politicamente transitorio. Napoleone I non aveva potuto stabilire una dinastia nuova in nome della rivoluzione francese, e neppure Napoleone I11 in nome del colpo di stato. La situazione del papa era molto più difficile di quella dell o zar e del sultano, perchè il suo stato era piccolo, il suo potere era religioso e non militare. Circondato da tutti i lati dallo stato italiano. libero e liberale, doveva contare sopra l'esercito di una grande potenza, l a Francia, e l'appoggio di una polizia rigida. Quando questi due appoggi troppo umani e troppo odiati vennero meno, ( l e truppe francesi furono ritirate per l a guerra del 1870, e la polizia non era in grado di prevenire l e infiltrazioni rivoluzionarie, che facilmente passavano i confini del piccolo stato), il papa era già prigioniero, prima ancora della breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870. La quale, se h un'offesa al duplice diritto del papa, religioso e politico, fu anche il segno


di una maturazione storica che era impossibile arrestare. I1 potere temporale come stato papale, aveva avuto per più di mille anni un compito storico di una portata straordinaria: e ora, come ogni forma della realtà che passa, anch'essa veniva a trasformarsi in altra più adatta ai tempi. Che Roma papale come entità a sè sufficiente, come sistema amministrativo ecclesiastico e come stato politico assolutista non potesse più sopravvivere, se ne accorsero ben presto cattolici e preti di alto valore come il cardinale Consalvi, e più tardi l'abate Antonio Rosmini e il teatino Gioacchino Ventura. Tutti e tre erano per l e più larghe riforme, perchè essi credevano ancora che il papa dovesse conservare l'appannaggio di uno stato, ma uno stato non più assoluto. I1 Ventura, amico di Pio M, aveva avvertito più volte che cc se la chiesa non marcerà con i popoli, non per questo i popoli si fermeranno dal marciare, ma marceranno senza la chiesa, fuori della chiesa, contro l a chiesa; ecco tutto. E chi potrebbe allora calcolare i mali dei popoli e della chiesa? )I (l). Non si trattava, come essi credevano, di semplici riforme amministrative e sociali, nè di una costituzione che, infine, lasciava ogni potere al papa; si trattava di una trasformazione politica, per la quale i l popolo decideva delle sue sorti. Pio IX provò gli entusiasmi popolari di tutto il mondo per l a sua frase Dio benedica l'Italia 11, per l'amnistia dei reati politici, e per la costituzione data a i romani. Ma tutto svanì presto, quando egli si accorse che si andava verso la separazione dello stato dalla chiesa, verso la laicizzazione del potere politico e verso la libertà d i coscienza e di reli,'alone. Dall'altro lato, i nemici del papato non cessarono di predicare non solo disordini politici ma lotte essenzialmente religiose. La massoneria, con u n vigore che prima non aveva, accentuò la lotta contro (C il temporalismo I) e contro cc la chiesa )I. Giustamente nota Binchy che a the extent of their influence has been greatly exaggerated by clericals 9 ( p . 40). Avvenne allora in Italia questo fatto che, tenendosi i clericali allora separati -

Cfr. Discorso funebre per i morti di Vienna testa dell'autore, Milano, Turati, 1860, vol. lo (l)

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Introduzione e pro-


politicamente dalla maggioranza della popolazione, credettero vedere in tutto la mano della massoneria che spesso era povera cosa ( e nei piccoli paesi solo il segreto rendeva importante certi messeri). Dall'altro lato, i liberali di quel tempo, lontani dal contatto con i cattolici e il clero, vedevano sempre l'ombra del gesuita, ch'era per loro u il massone » della chiesa. Questi sospetti resero molto difficili parecchi anni del ~ontificatodi Pio IX e anche di Leone XIII. Guardando, a più di mezzo secolo di distanza, quel che allora avvenne, cioè il cambiamento di tono dalla condanna implacabile di Pio I X al calmo ragionare di Leone XIII, si può rilevare quale largo respiro portò quest'ultimo nel mondo cattolico, col discutere i problemi moderni, presentandoli nella forma meno urtante anche nella disapprovazione e nel rifiuto di accettarne le soluzioni correnti, ed esortando allo studio e all'azione. I n pratica Leone accettò tutte le esperienze politiche del tempo, incitò il clero e i cattolici francesi ad accettare la repubblica, cercò d'interpretare nel senso meno molesto le libertà politiche che tutto il mondo civile aveva già con tante lotte acquistato. Due frasi acquistarono grande significato dette dalla sua bocca: « Dio fece sanabili le nazioni n, e « Se la democrazia sarà cristiana, porterà gran bene al mondo D. Solo verso l'Italia la politica di Leone non fu nè larga nè sapiente. Egli era il solo che avrebbe potuto vincere le resistenze della curia romana per una rinunzia su Roma ; 'ebbe per u n momento tale idea, ma non osò. I tempi non erano maturi. Coloro che avevano predicato ai quattro venti che Pio M sarebbe stato l'ultimo papa, non erano disarmati contro il papato e speravano che Leone fosse proprio l'ultimo. Era quello il tempo del positivismo d i cui il mondo intellettuale era gonfio; scienza e progresso erano le parole magiche con le quali si colpiva l'oscurantismo della chiesa. L'Italia non era la sola a subire il.fascino della rivolta contro la tradizione cristiana. Ma in ItaIia tale rivolta ( i l cui cantore era Carducci, grande poeta per tanti aspetti) si duplicava con u n soffio di ghibellinismo ch'era divenuto ideale nazionale : l'Italia finalmente liberata dal papato e padrona d i sè.


Occorreva l'esperienza del tempo per attenuare dalle due parti i sentimenti di un contrasto irriducibile. Occorreva una politica senza ombre da parte del papato verso l'Italia, sì da non aver più dubbi circa possibili intrighi con le potenze avverse allYItalia.Sotto Leone non ci furono intrighi, ma imprudenze pare che ce ne siano state. Sì che quando venne Pio X, il papa che diceva semplicemente: C( se mi dessero Roma dovrei rifiutarla, non saprei cosa farne D, gli spiriti ostili al papato dovettero anch'essi disarmare. Oggi, a conciliazione avvenuta, guardando un secolo di storia della chiesa romana, possiamo dire che Pio IX fu il Bonifazio VI11 dell'epoca moderna. Le similitudini storiche spesso fan deviare; ma ci sono in fondo alla storia delle linee ricorrenti, che rivelano il fondo perenne umano e provvidenziale nelle loro reciproche interferenze. Bonifazio chiudeva l'epoca del papato internazionale e la sua bolla Unam Sanctam aveva allo stesso tempo il fraseggio e la motivazione storica di quel che andava a morire con lui, e l a conclusione dogmatica di quel che restava perenne. Dopo di lui abbiamo Avignone, l e lotte delle nazionalità nascenti, la riforma che fa capolino con Wycliff e Huss: era un mondo nuovo. Così Pio IX chiudeva i l periodo della chiesa alleata alle monarchie, quello della contro-riforma (dal trattato di Westfalia alla rivoluzione francese), quello della Santa alleanza e restaurazione. Le sue proteste per gli errori e i sistemi nuovi non ridavano vita a quello ch'era morto. Tutto quel passato politico fu seppellito con l a breccia di Porta Pia. Ma dal punto di vista religioso e perenne Pio I X diede una anima viva al mondo moderno, proclamando egli stesso il dogma dell'Immacolata concezione, e definendo per mezzo di un nuovo concilio quello sull'infallibilità pontificia. I1 concilio che ancora non è chiuso, è un atto vitale dell'unità della chiesa. I quattro papi che seguirono ( a parte il presente) hanno rifatto il mondo cattolico spiritualmente, ma anch'essi sono falliti nella politica. C'era il problema della questione romana che fu per tutti una catena al piede. Più agile che gli altri Benedetto XV fece sì che per lui tale questione non fosse un impaccio. Pure ebbe tra i piedi l'articolo 5 del patto di Londra, l'af-


fare Gerlach, l'occupazione di palazzo Venezia. Finchè egli finalmente prese l'iniziativa di ricevere i capi di stati cattolici che venissero a Roma e di abolire il non expedit, che toglieva allo stato italiano il concorso delle forze cattoliche organizzate. Così si arriva a Pio X I che finalmente ebbe la sorte di togliere via dalla chiesa ogni residuo di potere temporale, o meglio di ridurlo ad un simbolo giuridico e religioso « stato della città del Vaticano D. Sventuratamente, egli accettò la soluzione offertagli dal fascismo. Tale soluzione implicò di nuovo l a chiesa in una situazione politica delicata e sotto vari aspetti indesiderabile e pericolosa. Oggi che il fascismo è caduto, si vede meglio quale aspro periodo abbiano passato Pio XI e Pio XII.

Per valutare la situazione di oggi, occorre comprendere i vari elementi della soluzione della questione romana d a t a dal trattato del Laterano, dal concordato e altri atti annessi (l). La prima questione che sorge alla mente, e che è stata fatta più volte, si è perchè mai Pio X I s'indusse a trattare con Mussolini, che sapeva bene chi fosse, come avesse preso il potere c come lo mantenesse, con la violenza, f delitti, l a menzogna e la tirannia. Egli stesso aveva pubblicamente protestato contro la distruzione dei circoli cattolici di Monza (1924) e lo scioglimento di tutte le società sportive, comprese le cattoliche (1927). Del resto si sapeva che i l filocattolicesimo che mostravano certi fascisti era per illudere il clero e averne appoggio. L'eliminazione delle unioni operaie cattoliche, che confederavano più d i un milione di operai e contadini, era stata appresa con gran

(l) A questo fine il libro del Binchy è veramente prezioso. In esso gli studiosi di u diplomatica n (nel senso antico della parola) non troveranno nè gli atti originali, nè le varie firme degli attori e dei testimoni, nè le mappe e altri utili documenti; ma gli storici e gli studiosi dei fatti sociali e religiosi, saranno aiutati a comprendere la portata vera e le varie implicazioni dell'unico problema risolto 1'11 febbraio 1929.


rincrescimento da Pio XI, il quale da cardinale arcivescovo di Milano aveva appreso ad apprezzarne l'attività sociale e morale. Ma la risposta la diede Pio X I stesso sia in quella frase che il concordato aveva ridato « l'Italia a Dio » - cosa ch'egli credeva fermamente, e sia nell'altra frase, pure di Pio XI, che durante la vivace controversia seguita alla firma del trattato, disse « ch'era disposto a intendersi col demonio pur di salvare un'anima D ; frase che f u ritenuta atta a correggere l'altra assai imprudente d i « uomo della prowvidenza 1). Dall'altro lato Pio XI, che veniva da famiglia e ambiente di conservatori ( i conservatori lombardi potevano ben dirsi reazionari) e temeva assai il comunismo (del quale ebbe esperienza in Polonia durante il suo ufficio là di nunzio apostolico), fece credito al fascismo di essere un movimento di ordine e conservazione, pur con metodi realmente disapprovabili. Binchy discute questo punto, e vale la pena citarlo a lungo: È vero, quegli scrittori che lo hanno accusato di esagerare la minaccia del comunismo e dell'estensione del bolscevismo ad altri paesi, sono apparsi singolarmente sciocchi alla luce dei recenti avvenimenti. Non era che il papa esagerasse i pericoli del comunismo; ma piuttosto egli si sbagliava sui difensori della tradizionale civiltà cristiana contro la nuova barbarie. Egli credeva che la democrazia fosse troppo debole e incoerente per servire da diga contro la marea comunista, e una strana ironia lo fece volgere verso la nuova forma di governo autoritario come se questa offrisse l'unica speranza di una valida resistenza. Egli - naturalmente - non era cieco di fronte ai pericoli religiosi inerenti nel fascismo e nei suoi equivalenti in ogni dove, ma in un primo momento non riuscì a rendersi conto che tali pericoli quasi tutti derivavano dalla sostanziale somiglianza di questi sistemi con il comunismo, e che tutte le forme di autoritarismo - fascista, moscovita o hitlenano - hanno molte più cose in comune fra loro di quanto ognuna di esse ne abbia con la tradizionale politica cristiana. Nè, al momento della sua elezione, egli valutò realmente le forze che &a la democrazia nell'ora della crisi, potenza e inflessibilità molto più grandi di quelle che il più rigido sistema autoritario possa imporle; CO'


me moltissimi ecclesiastici del continente, egli identificò la democrazia con quella particolare marca di liberalismo secolarista che essa aveva assunto nel isuo paese. Inoltre, il suo ideale d i azione cattolica, nella quale i fedeli di ogni paese dovevano essere organizzati C fuori e al di sopra del partito politico N, gli fece guardare con sfavore i partiti parlamentari cattolici esistenti, che, quasi tutti, avevano forti inclinazioni democratiche. Prova ne sia l'indifferenza, per non dire la soddisfazione, con la quale egli vide lo scioglimento del partito popolare in Italia. Forse egli nutriva anche l'illusione - tuttora comune e in una . certa misura scusabile negli ecclesiastici - che la forma autoritaria di governo indispensabile alla chiesa, sarebbe anche la più benefica per lo stato. Se è così, egli doveva imparare dall'amara esperienza che lo stato totalitario, con la sua pretesa di controllare l'intera vita spirituale dei suoi sudditi, è di gran lunga più pericoloso per la religione, che non la più K indifferente. o secolaiizzata democrazia » (pp. 85-86). Binchy non si domanda perchè i l clero cattolico, specialmente il latino, ma anche l'altro, ritiene che il regime autoritario sia più vantaggioso alla chiesa e alla religione del regime costituzionale e democratico; nè per quale ragione fu creduto regime autoritario il fascismo che si definiva da sè rivoluzionario e totalitario. Alla prima domanda possiamo rispondere facilmente che gli eventi storici avevano legato l a chiesa alle antiche monarchie, ai sistemi di reciproco appoggio; il che fu « naturale D, diciamo noi, durante i eri odi della riforma e controriforma, quando i re riformati facevano da papi in casa loro, e i re cattolici erano più o meno riguardati come C( delegati apostolici )) (l) che certe volte resistevano anche a Roma. L'esperienza della separazione coincideva con la rivoluzione americana, paese allora per più di nove decimi protestante. L'esperienza della rivoluzione francese finì con un governo secolarizzato che talvolta tentava di controllare il clero. Il piccolo ( 1 ) Ad esempio, il re di Spagna agì come delegato apostolico nel tribunate dell'inquisizione, e la u rnonarchia ecclesiastica I; della Sicilia, soppressa da Pio IX, ebbe potere di delegato apostolico per alcuni secoli.


Belgio era separato, ma il partito cattolico combatteva esso l a battaglia religiosa, così come il centro in Germania e come gli irlandesi a Londra. Ma a Roma allora piaceva più aver a che fare con i governi o attraverso l a diplomazia e i concordati, che lasciare i cattolici liberi di combattere la loro battaglia politica. Per la stessa ragione fino all'ultima guerra si contava sui ruderi delle vecchie monarchie, Vienna e Madrid, nonostante tutte l e delusioni politiche, religiose, sociali e morali del passato; per l a stessa ragione il clero francese fu monarchico anche dopo l'appello di Leone XIII; e l'dction Francaise fu protetta e aiutata dal clero francese fino alla condanna (1926) e anche dopo. I1 fatto che i l fascismo sia stato ritenuto u n sistema autoritario, nel senso tradizionale della parola, e non rivoluzionario, è . da attribuirsi alla propaganda mussoliniana e del suo metodo doppio. Tutti si immaginarono un Mussolini o un fascismo di propria convinzione: se i fatti poi erano diversi, o era Mussolini che ingannava i l fascismo o era il fascismo che prendeva l a mano a Mussolini; tutti costoro speravano che, strada facendo, Mussolini e il fascismo divenissero la realtà ch'essi immaginavano. Certi cattolici crearono i l mito del fascismo cattolico; e di rimbalzo i fascisti l'altro del cattolicesino fascista. Ognuno seguiva l a sua via. L'errore era psicologico, in parte passionale e voluto, i n parte dovuto ad ignoranza storica e politica, e all'ubriacatura del successo che prendeva tutti per il suo verso. Veniva dimenticato un fatto sociologico di primaria importanza. Che il fascismo, per essere un ritorno all'autoritarismo, doveva crearne l e condizioni adatte : principi storici, tradizione giuridica, convinzione religiosa, divisione d i classi con una organizzazione chiusa. Era impossibile che un uomo anche geniale, con una masnada di compagni senza convinzioni nè moralità, che formavano i l nucleo del partito politico, potesse ricostituire un ordine e una struttura sociale, nella quale la chiesa potesse valorizzare i suoi principi morali e inculcarli al popolo. Le incompatibilità tra l a chiesa e i l fascismo (vedi capitolo XII di Binchy) erano tali che nessuna dichiarazione circa l a


religione di stato » (cap. XIII) poteva colmare. I1 contrasto era insito, fondamentale, senza rimedio: l'accettazione di un fascismo cattolicizzato (come fecero parecchi in Italia) era un inganno per la chiesa stessa e per il popolo. Doveva venire il giorno della chiarificazione: la caduta del fascismo l'ha affrettato questo giorno; ma già la guerra stessa, voluta e predicata dai fascisti come il mezzo unico per il rinnovamento del mondo sotto il dominio dell'Asse, aveva fatto cadere la benda dagli occhi a molti cattolici d'Italia e degli altri paesi in tutto il mondo. caftolici i n uno stato totalitario I1 punto centrale della questione era (ed è anche oggi, perchè scomparso il fascismo originale non sono scomparsi i derivati), se e in quanto i cattolici potessero collaborare i n uno stato totalitario, dove non c'è, per definbione, libera volontà individuale ma subordinazione d i tutti e di tutto ad una volontà cieca e sovrana. Questa questione fu trattata da chi scrive in « Politics and Morality 1) ( l ) e sopra la Nouvelle Revue Théologique di Louvain (a). La tesi sostenuta in tali scritti si è che i n regime libero ogni collaborazione è moralmente possibile, perchè ogni dissenso è politicamente permesso ; mentre i n regime totalitario, al contrario, non essendo permesso il dissenso politico, resta moralmente impossibile la collaborazione. Ma allora perchè, si domandano gli awersari della chiesa, i cattolici sono stati da più di un secolo ad oggi più per la reazione che per la libertà? Dal punto di vista storico si risponde loro che vi è stata fra i cattolici una minoranza democratica e di sentimenti liberi (non dico liberali per non creare equivoci) che da un secolo h a lottato e lotta ancora dal lato della democrazia e della libertà: la storia ci ricorda i nomi di O'Connell, Lacordaire, Montalembert, padre Ventura, Rosmini, Windthorst, Toniolo e mille altri. I partiti dei cattolici o democratici cristiani o popolari hanno una storia che dovrà ve-

(l) Cap. V . The Ethics of Political Collaboration, Burns Oates and Washboume, Londra, 1638. (2) Ottobre 1938.


nire a galla. Ma d'altro lato c'è stata storicamente la paura: paura del liberalismo prima, del socialismo poi, del bolscevismo infine. Molti cattolici appartengono alle classi borghesi; il clero stesso (qualunque sia l'estrazione d i ogni singolo prete), più o meno solidarizza con le classi conservatrici: tutto ciò ha niente che vedere con la chiesa come tale, ma influisce sugli atteggiamenti umani d i tutti i centri religiosi, cattolici o protestanti. E se dall'altro lato si mette in conto che'tutti i partiti &tremi amano chiamarsi rivoluzionari e mettono. spesso come punto di partenza il rifiuto del cristianesimo (Marx o Lenin), si vedrà come questo fatto h a la sua importanza anche oggi negli atteggiamenti storici del papato. So che alcuni pensano che ci sia per i cattolici un'impossibilità (( dogmatica » ( !) a essere democratici: essi citano spesso la celebre distinzione fatta dalla Civiltà cattolica quando uscì il Sillabo (1864) fra tesi ed ipotesi, sostenendo che la tesi cattolica è la reazione e l'autoritarismo (espressa dal Sillabo e da altri documenti papali) e l'ipotesi è la libertà e la democrazia, da accettarsi solo come realtà tollerabile, come fanno i cattolici americani. Onde essi arrivano alla conseguenza (opposta a quella di chi scrive queste pagine) che il fascismo (ogni fascismo) va protetto dalla chiesa e la democrazia avversata. Prendo questa occasione per cercare di distruggere il mito che si è creato attorno a questa distinzione di tesi ed ipotesi. La tesi sono i principi etici e religiosi della società dei quali il cristianesimo è assertore e difensore. Le ipotesi sono le varie realizzazioni storiche della società, dove in un modo o in un altro tali principi sono attuati e concretizzati i n istituzioni, costumi e leggi di valore diverso. Sicchè la realtà vivente è sempre un'ipotesi, cioè una data realizzazione (purtroppo incompleta e limitata come siamo noi uomini nella nostra vita individuale) di quei principi che sono eterni, poichè basati sulla legge di natura e sulla rivelazione. La società politica può essere autoritaria, patriarcale, feudale, aristocratica, democratica o mista. Ognuna di queste realizzazioni non è la tesi, è l'ipotesi. I n ognuna ci saranno deficienze, dal punto di vista etico e religioso, per cui occorreran-


no sempre delle riforme, e per cui sempre si lotterà. La chiesa ha mille volte proclamato ch'essa è indifferente a qualunque forma politica, purchè la morale e la religione siano rispettate. Ma essa ora accentua un punto ora un altro dei principi etici e religiosi, a seconda che nella società essi difettino. Così il Sillabo difese la supremazia religiosa ( e non politica) della chiesa quando questa ( i n nome del liberalismo) veniva privata di molti diritti tradizionali. E se il clero nel difendere la chiesa spesso difendeva anche quei regimi con i quali essa era legata, ciò dipendeva da due cause: il sistema storico che difficilmente si cambia se non attraverso lotte nelle quali è coinvolta l'organizzazione ecclesiastica ( e non la chiesa); e secondariamente dalla mancata esperienza di un regime di libertà dove l a chiesa potesse avere tali vantaggi (umani s'intende) da compensare quelli troppo costosi dell'appoggio dato alle monarchie o alle aristocrazie sulle quali era costruita la società del secolo XVIII e quella affrettatamente ricostruita della restaurazione nel secol o XIX. Se oggi i cattolici accentuano (come £a Maritain e l a corrente personalista francese) i diritti della persona umana in una società che essi chiamano « pluralistica », e trovano larga base a f a r ciò nei documenti pontifici, ciò avviene perchè la società presente è individualista e quindi l'accento va posto di più sull a persona. Nei secoli dopo l a riforma la società era piuttosto comunitaria ( a unità chiuse); allora l'accento si metteva sui diritti delle singole comunità rappresentate dal capo: cuius regio illius e~ religio ( l ) . Nè nel primo caso nè nel secondo tutte l e tesi etiche e religiose del sistema sociale si erano attuate ; ci dobbiamo contentare della legge di relazione fra i valori immortali che rappresentano la tesi, e le limitazioni del condizionamento umano individuale e sociale, che sono nel fatto l e ipotesi. Oggi diciamo che la democrazia è il regime che più si a w i cina alla perfezione sociale. Ieri molti cattolici, appoggiandosi su san Tommaso (secondo me senza ben comprenderlo), vedevano la perfezione sociale nella monarchia. P u r non ammettendo il progresso umano per determinazione, bisogna pur dire che (l)

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Vedi: Luigi Sturzo, Chiesa e

stato, cit.


l'umanità nelle sue esperienze fa dei progressi, e tra monarchia (s'intende assoluta) e democrazia non c'è paragone. Ma, ogni cosa a suo tempo, le- ipotesi ( o realizzazioni) umane sono infinite. Una monarchia alla Carlo Magno (che non è di mio gusto) è preferibile ad una democrazia come quella tra il 1792-1795 in Francia.

L'errore storico degli uomini politici, scrittori ed ecclesiastici, in Italia e altrove, fu nel credere che, dopo l'esperienza democratica liberale del risorgimento, l'Italia potesse ritornare ad un sistema autoritario, già superato, per mezzo dell'imposizione di un partito armato, il fascismo; e che, una volta avito il potere, le classi e gli organismi sociali si sarebbero rassettati sotto il doppio principio monarchico-dittatoriale. Pio .XI pensò al concordato come un mezzo per influire moralmente nella struttura politica del fascismo. Lo stesso fece con Hitler: ma si accorse bene che con ambedue non si poteva nè concordare, nè collaborare. Con la caduta del fascismo, finalmente, sono cessate in Italia qiiell'aria, anche inespressa, di minaccia, quella richiesta di aiuti compromettenti, quella cooperazione fatta senza convinzione, con risentimenti interiori continui, molte volte rivelati in termini generici o criptici, in discorsi e in encicliche fatte per dire la verità ma evitare i conflitti. Che anni insopportabili quelli dal 1929 al 1943! Nella sua conclusione, Future Outlook, Binchy mette in testa al capitolo XXV le parole di Pio XI tratte dal discorso ai predicatori della Quaresima fatto nel giorno stesso della conciliazione (11 febbraio 1929: (( altro dubbio: che sarà domani? Questa domanda ci lascia anche più tranquilli, perchè possiamo semplicemente rispondere: non sappiamo. L'avvenire è nelle mani di Dio, quindi in buone mani D. Pio X I mostrava nel dire ciò la tranquilla coscienza nell'aver autorizzato la firma del trattato del Laterano, come un atto di dovere, e quindi la sua fiducia nella provvidenza. Dal punto di vista spirituale, non c'è e non ci deve essere uomo più tranquillo e calmo del buon cristiano che con pura


coscienza aspetta gli eventi, anche nel caso che sia egli stesso per suo errore involontario a preparare effetti contrari a quelli che p e r zelo desiderebbe e che erano nella sua intenzione. Nel caso presente, l'umana previsione ci porta a vedere migliore avvenire per l a chiesa in Italia che non nel passato, tutto il passato dal risorgimento ad oggi. Anzitutto, non ci sono più motivi di lotta contro la chiesa sul piano economico, come un secolo fa quando l a manomorta ecclesiastica occupava quasi u n terzo della proprietà nazionale. Non vi sono neppure insuperabili motivi di lotta nel campo politico nazionale, come ai tempi del potere temporale, ostacolo sia all'unificazione del regno d'Italia, sia alla formazione di un regime costituzionale in base alle libertà politiche. La caduta della monarchia, come risultato del referendum popolare del 2 giugno 1946, ha rimosso un motivo di sospetto che l a Santa Sede, dopo la conciliazione, appoggiasse l a casa Savoia contro l a tendenza repubblicana del popolo. Un simile sospetto era del tutto ingiustificato, ma i partiti monarchici lo aumentarono con la loro propaganda, divulgandolo come vero. Lo strano e irriverente risentimento, e in alcuni casi ingiuria, della folla monarchica contro l e chiese, le suore e i preti, dopo i risultati del referendum, è stato una nuova prova che la Santa Sede non aveva interferito in questa questione politica, lasciando il clero e il laicato liberi di fare Ia loro scelta personale. L'esperienza del fascismo è servita a far comprendere, anche ai cattolici più retrivi, che nel secolo XX non si può tornare ad u n sistema autoritario che non sia la sovrapposizione con l a forza di una classe o di un partito armato su tutto il resto della popolazione. E se questo partito domanda l'aiuto della chiesa, coinvolge la chiesa nelle violenze e negli abusi del potere politico. L'episodio della guerra fascista contro l'Abissinia, resta nella storia civile e religiosa d'Italia come un'onta, che manifesta i sentimenti eccessivamente nazionalistici del clero italiano. Sempre la chiesa di Roma è stata qualificata per l'intemazionalismo della sua propria attività. Nell'evo antico, evo medio ed evo moderno, il d e r o e il pensiero romano non erano stati mai particolaristi, ma universali. L'inclinazione di Roma e del-


la sua tradizione è sempre stata sul terreno universale. Questo non solo perchè il vescovo di Roma è il successore di San Pietro e il pastore d i tutti i fedeli ma anche, dal punto di vista umano, perchè l'educazione tradizionale, giuridica, politica e sociale, porta a superare ogni particolarismo locale. Sotto questo punto di vista il potere temporale, finchè fu utile, servì a preservare il clero dal provincialismo e a confermarlo in uno spirito veramente universalista. Avvenuta la presa di Roma nel 1870, durante cinquantanove anni di dissidio, il clero della curia e anche l'altro rimase fuori degli interessi nazionali, legato al papa nella sua perenne protesta, e difensore di quei diritti che lo stato non voleva riconoscere. Ma dopo il trattato del Laterano si ebbe una furia di nazionalismo, identificato col fascismo e tutti e due uniti alall'idea cattolica. Mai l'Italia passò una febbre nazionalista come quella di questi venti anni, febbre che prese molti del clero (tranne i preti democratici e quelli a contatto con le classi povere come i parroci di campagna). Pertinax, il noto scrittore francese, sollevò il problema delle relazioni fra la chiesa e il nazionalismo italiano, appena fatta la conciliazione, e propose come rimedio di diminuire il numero dei cardinali italiani e aumentare quello dei cardinali stranieri, per rafforzare lo spirito internazionale del centro romano. Simile soluzione è stata adottata da Pio XII nelle sue prime nomine di trentadue cardinali (febbraio 1946). Ma occorre anche che la struttura del centro ecclesiastico sia adeguata alla sua importanza, che la tradizione sia vivificante e perenne, che il dibattito politico dei vari stati varchi il Portone di bronzo già internazionalizzato, che l'ambiente sia saturo del proprio carattere. Ciò è stato ed è virtù speciale del clero romano e di quell'altro mondo laico che si è specializzato nei servizi vaticani. Non si creda che sia di poca importanza l'ambiente di una capitale, di un centro, di una tradizione legata ad una realtà materiale quale una città. Parigi è quella che è perchè ha una tradizione di politica, di cultura e d i arte che non hanno nè New York, nè Londra, nè Berlino. Roma è stata papale, dopo che Costantino l'abbandonò, fino a1 1929. Anche nel periodo

5. STURU) - Nazionalismo e Intemazionalisrno


dei governi liberali si pensò a fare una Roma politica o una Roma mondana o una Roma edilizialmente moderna. Fiasco completo: il monumento a Vittorio ~ i a n u e l e11, che doveva segnare l'inizio di una grandezza storica nazionale, sembrò ed è anche oggi un intruso dentro le mure di Roma. Mussolini tagliò, ricucì, rifece: fori e statue, edifici civili e militari. I1 fascismo doveva essere la sintesi storica di due imperi sul mondo: il romano e il cattolico. Un fallimento: Roma ritornò papale quando piovvero le bombe alIeate su San Lorenzo o quando, la notte del 25 luglio, il popolo acclamò il papa per la caduta di Mussolini, il papa che non vi aveva avuto e non poteva avervi avuto parte. I I nuovi governi popolari dovranno dal canto loro rinunziare a voler trasformare Roma in una città laica e politica (dopo due tentativi falliti) e cercare impronte edilizie di nuova grandezza da gareggiare con l'antica. Roma capitale d'Italia, sia pure; ma Roma è più che mai la sede del cattolicesimo. La repubblica italiana è adesso una realtà; e benchè il partito monarchico continui ad eccitare qua e là le fol1e;essa è un risultato che non può essere capovolto. La chiesa in Italia è ora più libera di prima; il trattato del Laterano sarà rispettato e il concordato con alcune modifiche continuerà a regolare le relazioni fra chiesa e stato. È possibile che sorgeranno nuove questioni che obbligheranno la gerarchia a prendere posizione, come quelle delle scuole private e del divorzio; ma queste o altre questioni sono dello stesso carattere della questione deI controllo delle nascite o delle eguali possibilità per le scuole in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Ma poichè l'Italia è il paese cui appartiene l'onore e l'onere di avere sul suo territorio Roma quale sede d i Pietro, non può perciò annullare gli effetti storici di tale -prowidenziale destino. Tutto potrà avvenire: ma la prowidenza conduce il papato attraverso le prove più dure, ad una sempre maggiore importanza ed elevatezza; sì che gli appoggi terreni sui quali contava nel passato si rendano sempre meno necessari e meno utili, e I'autorità morale e spirituale del papa emerga più luminosa su tutto il mondo.


CAP. 111 È FINITO IL FASCISMO CON MUSSOLINI?

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I1 fascismo di Mussolini - quello delle camicie nere, delle bandiere con il teschio, del cosidetto saluto romano, delle parate, delle spedizioni punitive con moschetti, manganelli e olio di ricino, dell'impero in Africa Orientale e del regno d'Albania - può ben dirsi morto, anzi sepolto. Ma il fascismo di prima di Mussolini, i l fascismo di tutti i tempi e d i tutti i paesi questa marca di fascismo non muore mai. Esso si adatta, invece, a tutti i climi e a tutte le temperature; si veste, a seconda della moda, si maschera e si nasconde. Questa marca di fascismo non è morta, perchè è imperitura. I1 destino dei nomi, come quello degli uomini, è strano. Fascismo era un nome insignificante: esso fu preso dai fasci littori della antica Roma, per indicare il potere o l a forza di unione. Mussolini e un gruppo di veterani della prima guerra mondiale, lo scelsero per differenziarsi ( o anche per opporsi, per motivi. d i gelosia) dall'arditismo, il nome assunto dai seguaci di D'Annunzio che avevano eccitato l a fantasia popolare con la spedizione di Fiume (1920). Arditismo derivò da arditi ( i baldi, i temerari, gli audaci), nome dato nell'esercito italiano a quelle squadre e gruppi incaricati di attacchi temerari e di difficili imprese. ( I n altri paesi, gruppi analoghi erano chiamati squadre della morte o del suicidio, e con altri nomi coloriti o degradanti). Mussolini inventò il nome di fascio (fastello) : da questo derivarono fascista e infine fascismo. È. così


facile inventare, un nuovo nome; la difficoltà sta nel dargli un significato. Questa difficoltà era ancora maggiore, dato che I'autore, -in realtà, significava così poco egli stesso. Mussolini veniva dall'ala sinistra del socialismo; aveva, come ideale, l a rivoluzione sociale, o piuttosto, la Rivoluzione (con l a R maiuscola), come mezzo e come fine. Nessuna meraviglia quindi che Mussolini, persino da dittatore, non potesse fare a meno di sostenere la rivoluzione che era stata fatta e quella che doveva venire. Durante tutta l a sua gioventù egli non aveva sentito altro che parlare d i rivoluzione ed esaltarla come palingenesi del mondo. Lo preoccupava il fatto che il socialismo italiano fosse dominato dall'ala riformista con a capo Turati e Bissolati, che nel suo ambito prevalessero i fondatori e gli amministratori di cooperative, di banche popolari e di unioni del lavoro, che questi capi pensassero a tutto fuorchè alla rivoluzione. Durante l a guerra in Libia egli tentò di sollevare il popolo contro il governo; vi riuscì soltanto in qualche dimostrazione sporadica, svellendo le rotaie del treno e radunando folle di donne e fanciulli davanti ai treni che trasportavano truppe. I1 tentativo fallì. Un'altra rivolta fu tentata più tardi ad Ancona, nel 1913; essa fu chiamata « l a settimana rossa »; anche questa fallì. ( I capi socialisti del tempo non volevano partecipare a l governo p e r non collaborare con la borghesia capitalista e non diedero alcun impulso alla rivoluzione, se non a parole, perchè I'occaaione non era ritenuta matura). Mussolini doveva così aspettare la sua ora, e, approfittando dell'occasione offerta dalla guerra mondiale, per l a quale l'opinione pubblica italiana era favorevole all'intervento a fianco degli alleati, abbandonò d'un tratto i socialisti ed il loro giornale L'Avanti! ( d i cui egli era redattore capo), e fondò un nuovo giornale a Milano, con il sussidio del governo francese. Durante l a guerra il suo nome divenne popolare, perchè sapeva scrivere con facile polemica contro i suoi compagni di prima, a causa della loro neutralità, mentre egli, a sua volta, proclamava quell'esagerato e inconsistente nazionalismo allora in voga. A guerra finita, l e masse lavoratrici e buona parte della classe media e degli ex-combattenti aderirono al partito social-

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comunista (socialisti e comunisti erano fusi insieme, a quella epoca) ed al partito democratico cristiano (chiamato allora partito popolare). Mussolini si trovò con un pugno di compagni, ma senza seguaci. La rivoluzione, da lui sognata, gli sfuggiva. Egli allora pensò ad u n programma estremistico, che fosse repubblicano, anticlericale, anticapitalista e nazionalista; era questo il programma del 1919 del primo fascio creato a Milano. I lavoratori non lo seguirono; quelli orientati a sinistra non credettero nel suo programma. Nel frattempo, per la lotta antisocialista, Mussolini ricevette denaro dagli industriali e dai proprietari terrieri della valle Padana, ebbe aiuti dai capi militari e favori dai banchieri e da qualche uomo politico. Ciò che decise Mussolini a lasciare la sinistra e passare alla destra, sempre, tuttavia, come rivoluzionario, fu i l fatto che (rivelazione per lui) nelle elezioni generali politiche del novembre 1919 non fu in grado di ottenere - con il sistema di rappresentanza proporzionale così favorevole ai piccoli partiti - un solo seggio in parlamento, nè per se stesso nè per altri del suo partito, mentre i socialisti (assieme ai comunisti) ottennero 158 seggi e i popolari (democratici cristiani) 99 seggi. La rivoluzione fascista non esercitava alcuna attrazione a quel tempo. Mussolini avrebbe trovato un auditorio ogni volta che avesse esagerato il pericolo bolscevico, ogni volta che avesse spedito le sue squadre armate a incendiare le cooperative ed assalire i municipi dei comuni amministrati dai socialisti. E poichè l'odio che gli industriali e gli agrari nutrivano contro le società operaie era anche diretto contro i democratici cristiani, l e spedizioni punitive fatte dai fascisti erano estese agli uomini ed alle istituzioni del partito popolare. I n questa impresa Mussolini trovò aiuti, da parte dei capitalisti e dei (C liberali D, che egli non si sarebbe mai sognato di ottenere se avesse continuato ad essere un rivoluzionario di sinistra. Egli cambiò i l suo repubblicanesimo in un'intesa con l a monarchia, il suo anticlericalismo in amicizia verso il clero, l a sua rivoluzione sociale in sostegno dei capitalisti. I1 suo successo era assicurato. Non è questo il momento di ripetere la sua storia: esistono migliaia di libri, pro e contro, e molti altri ne saranno scritti


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ancora. Ne accenno soltanto per arrivare al fatto principale che intendo mettere in evidenza: la mancanza in lui d i convinzioni e principi fermi. Così, la minaccia rivoluzionaria gli servì soltanto come mezzo per ottenere il potere; non gli importò affatto se con l'aiuto delle masse lavoratrici o contro le stesse masse. Una volta ottenuto il potere, la minaccia rivoluzionaria servì per sostenerlo contro le masse lavoratrici o contro le classi borghesi; e, se necessario, anche contro la chiesa o contro la massoneria. E con questo sistema Mussolini operò durante tutta l a sua vita, nel campo nazionale come in quello internazionale, creando intorno a sè aspettative illimitate e immensa diffidenza, fino a quapdo, in ultimo, il gioco non potè più servirlo. ' ~ l l o r chè egli si legò al destino d i Hitler, improwisamente perdette il suo carattere personale, la sua consistenza politica, persino la sua figura fisica; ritornò ad essere quello che veramente egli era: la maschera che cade, l'attore che torna dietro le quinte, l'ombra che sparisce. Totalitarismo La differenza fra Mussolini da un lato, e Franco, Pétain, Dollfuss e Salazar dall'altro, sta precisamente in questo, che, cioè, Mussolini non considerò mai il fascismo un ideale ed u n principio. Egli se ne servì soltanto come una tecnica per il potere, mentre gli altri, pur adattando la tecnica fascista alla situazione particolare dei loro paesi, credevano o ancora credono in ideali non-fascisti (direi ideali di autoritarismo e conservatorismo) che sono stati o sono la base della loro azione. Malgrado ciò, anch'essi devono essere biasimati, i n proporzione alle loro azioni, per aver usato, sia per impadronirsi del potere che nell'esercitarlo, i metodi fascisti, i quali superano di gran lunga i metodi autoritari ed arbitrari dei principi del diciassettesimo e diciottesimo secolo. Franco e gli altri rappresentano una fase intermedia fra l'autoritarismo antiliberale delIa Santa Alleanza ed il fascismo d i Mussolini. L'elemento che li caratterizza è quello del cattolicesimo politico o clericale dell'inizio del secolo scorso, il quale s i oppose ad ogni sistema costituzionale, a qualsiasi forma d i


libertà politica. La libertà era, allora, mal compresa dai clericali; ma avrebbe potuto essere riallacciata alla tradizione cristiana della sovranità popolare ed al regime democratico. Quei cattolici erano gli ultimi eredi di un simile clericalismo; essi videro, nel fascismo, un sistema di reazione « popolare D, ed un mezzo (seppure violento) di restaurazione politica che rendeva possibile quello stato corporativo, attraverso il quale, secondo loro, l'autorità dello stato avrebbe potuto conciliarsi con il benessere delle classi lavoratrici. Essi accettarono il fascismo come un metodo capace di superare la demagogia dei socialisti ed il- sovversivismo dei comunisti. Inoltre, nella loro antistorica concezione religiosa, essi vedevano nuovamente i n atto la collaborazione dello stato con la chiesa cattolica, attraverso concordati, o anche senza, ma con il mutuo aiuto di fa. vori e servizi. Quanto lontano tutto ciò fosse dal vero fascismo (dal quale il nazismo molto aveva preso), come dal concetto democratico della civilizzazione occidentale, lo si è visto durante la guerra e verrà poi visto ancora meglio dopo la guerra, da quei paesi che avranno la fortuna di non cadere nella (( sfera di influenza d i Mosca. Gli altri passeranno da un totalitarismo all'altro e Dio solo sa quando saranno in grado di respirare l'aria della libertà, o, almeno, di aver garantiti i diritti elementari della personalità umana. Mussolini (il quale aveva intuizioni genialoidi) inventò lo aggettivo « totalitario » e lo applicò al proprio sistema con la celebre affermazione: « Nulla al di fuori dello stato, al disopra dello stato, contro lo stato: ogni cosa dallo stato, per lo stato e nello stato D. Da qui derivò il sostantivo totalitarismo (gli inglesi e gli americani dicono totalitarianism), e da allora le due parole entrarono in tutte le lingue, senza nemmeno il permesso dei linguisti o dei compilatori di dizionari. I1 totalitarismo è la comune qualifica che può essere applicata al fascismo di Mussolini, al nazismo di Hitler, al comunismo di Stalin, al falangismo di Franco e così via. S'intende che, tra i campi di concentramento di Dachau o di Buchenwald, e quelli dei deportati della Siberia da un lato, e il confino n nelle isole di Ponza, di Ustica, d i Lipari e d i Pantelleria, qual-


che differenza c'era; che tra le purghe di Hitler e di Stalin e il tribunale mussoliniano per la 'difesa dello stato c'era pure qualche differenza; che tra la soppressione degli ebrei in Germania e le leggi contro gli ebrei in Francia e in Italia, qualche differenza c'era. I1 temperamento latino e le relative tradizioni c'entrano, certo, ma quando la parte bestiale dell'uomo è presa dalla paura o dall'odio, in fondo è sempre la stessa. Lo si è visto durante la guerra in quelle parti d'Italia che erano sotto il giogo nazista e fascista. Se il vero fascismo di marca mussoliniana è caduto, il totalitarismo sopravvive al suo sfortunato autore « letterario )I, poichè, in fondo, esso esisteva prima di lui. Napoleone Bonaparte ne dette un primo esempio al mondo moderno; gli antichi erano chiamati tiranni, ma il popolo di allora e la chiesa sapevano come far fronte ai tiranni o evitare i loro artigli; oggigiorno, tanto i popoli che la chiesa sono stati, e sono ancora, meno in grado di resistere al totalitarismo. Esiste ancora un'altra differenza fra il totalitarismo e l'antica tirannia; quest'ultima era personale, o della famiglia, o della casta, e non pretendeva fare appello al popolo per avere il suo consenso o sollecitare i suoi sentimenti o le sue aspirazioni sociali; è il totalitarismo moderno che chiama il popolo nella sua orbita, lo irreggimenta per i propri fini e lo costringe a servire attraverso un unico partito. Oggi solo due di tali partiti sopravvivono: quello COmunista e quello falangista. Quest'ultimo sta per cadere. perchè Franco finalmente dubita del sistema, mentre la chiesa spagnola, dopo essere stata tiepida e tollerante, si è ora messa contro il falangismo come sistema. Sta invece allargandosi il totalitarismo comunista, e sta diventando un terribile erede del fascismo di Pilsudski, Horthy, Schuschnigg, Antonescu e dei vari dittatori serbi e bulgari. Non parleremo di ciò che sarà della Germania occupata dai russi; li, u n nuovo totalitarismo sarà u giustificato » da ragioni militari e, persino (perchè no?) u educative 2, per estrarre il veleno del totalitarismo nazista dai tedeschi. Speriamo non sia così: la speranza non muore mai.


1 RESIDUI

FASCISTI ED IL

CC

MONISMO STATA!LE »

D'altro canto, vediamo ora quali possono essere i residui fascisti nei paesi occidentali che si presume siano democrazie, ora o nel futuro. Cominciamo naturalmente dall'Italia. Non si può negare che esistono, in questo paese, segni di sopravvivenza fascista. Non parlo della monarchia, la quale, sebbene infetta da fascismo per così lunghi anni, come istituzione non può essere chiamata fascista. Ma gli uomini di casa Savoia, l'entourage di alti ufficiali, di cortigiani, di difensori e sostenitori della monarchia ( a parte l'élite liberale intorno a Croce) hanno tutti, più o meno, una mentalità fascista. Non diciamo ciò per gridare al lupo, al lupo D; fascisti se ne trovano in tutti i partiti: quelli che furono fascisti per guadagnarsi il pane, altri per spirito nazionalistico, e anche alcuni che realmente credevano nel fascismo. I1 novanta per cento di essi erano delusi o attratti dall'atmosfera che lo circondava (poichè molti erano all'estero, fuori d'Italia), ma non avevano reati dei quali rispondere davanti ai giudici. È la loro mentalità, il loro spirito, la loro educazione che deve essere cambiata, e lo sarà sicuramente. È invero in via di mutamento, e gli eventi insegnano più delle parole. Questo post-fascismo può avere qualche influenza, ma, in sè, non fa paura. C'è un altro fascismo che è da temere. Se l'Italia sarà ulteriormente umiliata politicamente e sottoposta a mutilazioni territoriali, nonchè alla perdita delle colonie, volente o nolente, si svilupperà largamente un nazionalismo fondato sul risentimento. Le idee fasciste e la segreta propaganda fascista (che certo non mancheranno), accenderanno un fuoco difficile da spegnere, anche se, per certi periodi di tempo, coverà sotto la cenere. Un altro post-fascismo è quello della violenza della piazza contro gli opposti partiti, praticata oggigiorno da taluni gruppi comunisti contro i democristiani, da taluni gruppi locali nel sud d'Italia contro i socialisti ed i comunisti, e dai separatisti i n Sicilia contro i loro avversari. I demagoghi non mancano di


minacciare, sui giornali di sinistra, persino una guerra civile, se non si concede quanto essi propongono. Si potrebbe dire che questo spirito di violenza è un prodotto della guerra e che è lo stesso in ogni paese europeo; ma, per un paese come l'Italia, il quale, a parte le guerre ( e che guerre!), ha avuto più di vent'anni d i fascismo al potere, e, prima di questo, tre a m i di fascismo d i piazza, 10 spirito d i violenza assume u n carattere che potrei chiamare endemico e che dà molto da pensare. La miseria, la fame, l'inflazione, il mercato nero, i termini segreti dell'armistizio, hanno influenzato e stanno influenzando in modo funesto il formarsi d i uno stato d'animo che io (vorrei sbagliarmi!) chiamerei pre-fascista o pre-totalitario, anche se, come credo, non arriverà così lontano quanto l'esperienza comunista - a meno che Londra e Washington (per via della loro mancanza di comprensione e dei loro sbagli) non spingano l'Italia in quella direzione. Ciò che diciamo dell'Italia può essere detto, con qualche variante per ogni singolo caso, d i tutti i paesi latini, persino d i quelli neutrali della penisola iberica, i quali, anch'essi, hanno un fascismo indigeno e che, malgrado la loro mentalità, non mancano di risentire gli effetti economici, psicologici e politici della guerra. Ciò che è sorprendente è il fatto di trovare larghe tracce di fascismo in Inghilterra come in America. Non si meravigli il lettore. Allorchè Winston Churchill, il 15 dicembre 1944, potè tranquillamente annunciare alla camera dei comuni che circa dieci milioni di persone sarebbero state separate dalle popolazioni locali e trasferite, anche espulse, entro o fuori della Polonia, e che questo sarebbe stato fatto umanamente con i mezzi moderni a nostra disposizione, si rimane increduli, incerti se una simile affermazione sia stata dawero fatta in un paese di tradizione liberale, o se i suoi autori siano Mussolini o Kemal Pascià. Mussolini riuscì a trasferire soltanto circa ottantamila tirolesi, e Kemal Pascià solo circa un milione di greci e armeni nellYAnatolia. Ma la maggior meraviglia è stata causata non solo dalla mancanza di reazione spirituale da parte del popolo inglese


a questa violazione dei diritti della persona umana, ma anche dal consenso di molti uomini politici, uomini d i stato, scienziati, giornalisti, uomini d i chiesa e laici. Persino Benes ed il suo governo avevano proposto di epurare la Cecoslovacchia dai sudeti tedeschi ( d a imbarcare verso la Germania); il governo ungherese aveva proposto la stessa misura per i tedeschi ed altre minoranze dell'ungheria, spingendoli al di fuori dei confini. Questa (( ridistribuzione di popolazioni » contro l a volontà del singolo, contro i suoi diritti personali, i suoi interessi e legami familiari, con il pretesto di una razza omogenea, di interessi nazionali, della sicurezza dello stato, è il colmo dell'ingiustizia ed è in linea con i criteri fascisti dei diritti dello stato sopra quelli dell'individuo. È vero che analoghi trasferimenti di popolazioni non mancarono all'epoca della riforma e controriforma; ma a quei tempi le popolazioni potevano optare se stare e sottoirlettersi alle limitazioni civili e religiose, oppure emigrare dove avrebbero trovato un benevolo principe o una zona libera, come in America. Ma, per noi, quelle guerre, quelle deportazioni erano barbare, e contro di esse reagirono i secoli seguenti. Che dalla camera dei comuni dovesse venire una simile proposta, senza suscitare un coro di disapprovazione, fu qualcosa che dette da pensare. Che il totalitarismo fascista fosse arrivato a l punto di insozzare il paese di Gladstone! Ma c'è ancora di peggio: l a proposta di fare schiavi i lavoratori tedeschi per la ricostruzione dei paesi occupati. Una cosa 6 esigere i l pagamento di un'indennità da parte del popolo tedesco, obbligando il nuovo stato tedesco a distribuire i pesi come meglio può; un'altra cosa è obbligare determinati individui che hanno l a fortuna o la disgrazia di essere muratori, carpentieri, fabbri, ingegneri, a subire perciò anni d i servitù in un paese straniero. Non importa quanto possa essere organizzato: un simile servizio )) è pur sempre una forma di schiavitù di guerra, respinta per sempre (così pensavamo). Che ciò fosse stato richiesto da Mosca non sarebbe sorprendente, considerata la mentalità dittatoriale e l e tradizioni zariste e leniste; ma da gente di Parigi, Londra, Bruxelles ! Chiunque legga le proposte di taluni scienziati americani,

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solitamente di mentalità positivista, e talvolta anche le proposte dell'uomo della strada, vi trova suggerimenti che suscitano stupore. Alcuni propongono la sterilizzazione di tutti i giapponesi, altri, convinti dell'impossibilità di « educare » i tedeschi, ne propongono la distruzione. Se io stesso non avessi letto, con i miei occhi, queste proposte, alcune pazze, altre criminali, non riuscirei a credere che esse siano state fatte. I1 peggio è che esse sono state accolte dalla stampa e che incoscienti giornalisti ed editori, ansiosi di diffusione, non pensarono a cestinarle, invece di diffondere simili idee. Le quali penetrano nel profondo della coscienza, trovano ascolto in qualche settore dell'opinione pubblica, abituano la mentalità comune a ritenere naturali tali cose, o, piuttosto, inerenti allo spirito del tempo. E non vi sono voci di protesta, eccetto le solite poche, e deboli, che finiscono per non contare. L'errore fondamentale del fascismo fu il disprezzo della personalità umana. Questo disprezzo è alla base di ogni concetto anticristiano dell'uomo e divennecaratteristica del fascismo, che voleva deificare lo stato e identificarsi in esso nel famoso epifonema sopra ricordato, d i Mussolini: « Nulla al di di fuori, al disopra o contro lo stato; ogni cosa dallo stato, per la stato, nello stato ».Vale la pena ricordare che Pio XI alzò la voce contro una simile teoria, e ciò più volte, dalla sua allocuzione di Natale del 1926, fino alla fine della sua esistenza. I1 fascismo derivò questo atteggiamento dai positivisti del diciannovesimo secolo. Essi, tuttavia, controbilanciavano il loro concetto dello stato con quel vago umanitarismo che, in ultimo, fece loro tener conto degli interessi e dei diritti dell'uomo (intendo « diritti D, sebbene nessun positivista possa ammettere che i diritti esistono, dato che i diritti hanno un contenuto spirituale). Ma allorchè l'umanitarismo del secolo scorso decadde, perché inconsistente, insieme con il positivismo, la persona umana non ebbe altra difesa se non quella del gioco delle forze in conflitto; la lotta di classe d i Karl Mam servì il socialismo e spaventò la borghesia; la borghesia causò il crollo della libertà, per la quale aveva combattuto per due secoli. Non c'era, tut-


tavia, altra soluzione nel campo politico-economico, salvo il (C monismo statale » sia in nome della nazione (fascismo) o della razza (nazismo) oppure dall'altra parte, in nome della classe (comunismo). Questa unificazione di ferro si sbriciolò, per il fascismo ed il nazismo, soltanto sul campo d i battaglia; non è crollata per il comunismo, il quale, per effetto dell'attuale guerra, avanza fra le masse europee. Ma il comunismo stesso, dal punto di vista economico e politico, non è altro che l'altra faccia del capitalismo, di cui sembra essere antagonista. La società moderna è basata sul sietema capitalistico e non ne può fare a meno. Sia che il capitale sia nelle mani di qualche capitalista o nelle mani della burocrazia dello stato comunista, ciò ha un'incidenza insignificante, se entrambi sono responsabili degli spaventosi fenomeni del nostro tempo: la guerra totalitaria e la nuova schiavitù del lavoro industrializzato. Sarebbe peggio, però, certamente, se il capitalismo e il comunismo facessero alleanza, nel campo internazionale, al fine di creare un potere unito, a scopi comuni, anche se in distinti campi d'influenza: il loro totalitarismo coprirebbe allora ogni attività umana. In tale eventualità, la nostra società moderna sopporterebbe le ultime conseguenze di questo « monismo » politico e sociale che, nel secolo scorso, ha corrotto la filosofia, la scienza, la politica, l'opinione pubblica e l'economia, indebolendo una per una tutte le istituzioni che la nostra civilizzazione giudeocristiana aveva costruito a difesa della personalità umana. Le stesse democrazie anglo-americane e scandinave, le quali, più delle altre democrazie europee, hanno conservato le idee e i sentimenti cristiani, attraverso i periodi della riforma e della controriforma ed i successivi rinnovamenti, non sono più i n grado di trovare quelle. convinzioni morali Ie quali, se veramente sentite, possono estirpare dalle menti e dai cuori delle genti il veleno del positivismo. Anche esse, naturalmente, dovranno affrontare espbrienze d i totalitarismo. Non fa alcuna differenza se lo chiamiamo fascismo o comunismo; sebbene siano agli estremi opposti, hanno gli stessi impulsi, gli stessi concetti fondamentali, e cioè: lo spirito della violenza e l'uso della forza, quale mezzo per acquisire o man-


tenere il potere, la subordinazione dei diritti legali e dei valori morali della persona umana agli interessi dello stato, la perdita, sia essa graduale o violenta, della libertĂ !


DEMOCRAZIA CRISTIANA

Alla fine delle guerre napoleoniche l'Europa stava portando a maturazione due grandi movimenti che avrebbero investito l'intero secolo diciannovesimo : uno per i regimi costituzionali, fra le classi borghesi; l'altro per le .garanzie economiche, fra le classi lavoratrici. I1 primo di questi movimenti dette origine al liberalismo; l'altro, al socialismo. Quando parliamo di « liberalismo W dobbiamo ricordare che in Europa non esisteva un unico « liberalismo D, bensì varie forme teoretiche e pratiche, distinte per nazionalità (francese, inglese, italiana, spagnola e persino tedesca, austriaca, ungherese) e carattere (filosofico, religioso, politico, economico). Neanche il socialismo ebbe mai una definizione precisa: le sue varie fasi vengono indicate con il nome dei loro capi (come Saint Simon, Fourier, Owen, Engels, Henry George ed il più famoso di tutti, Karl Marx) o con le loro diverse caratteristiche (anarchica, sindacalista, comunista, democratica cristiana), secondo il modello economico e politico prevalente. Più delle classi lavoratrici, fu in realtà la borghesia che, durante la prima metà del secolo diciannovesimo, prese sempre più posizione nel campo economico e politico in nome della libertà, inaugurando sistemi individualistici che facilitarono la sua ascesa. D'altro canto, le masse lavoratrici si stavano agitando e tentando di riorganizzarsi al fine di opporsi allo sfruttamento della nascente industria capitalistica. È necessario ricordare


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questo processo dinamico delle due principali classi dellYEuropa continentale, al fine di comprendere il ruolo svolto dalle autorità della chiesa cattolica e dagli stessi cattolici, da allora ad oggi. Quando si parla della chiesa cattolica è necessario evitare l'errore di attribuire ai vescovi ed ai papi qualsiasi iniziativa fatta dai fedeli o dal clero locale o da papi e vescovi isolati dai fedeli stessi. Nell'argomento che stiamo per esaminare, troveremo iniziative individuali, non autorizzate (talvolta i n contrasto al170rigine) che si sono poi inserite nell'attività generale dei cattolici e in seguito hanno ottenuto una sanzione; oppure altre iniziative che all'inizio sembravano avere il favore delle autorità ecclesiastiche e poi, gradualmente, finivano per essere appena tollerate, o contrastate, o addirittura condannate. La chiesa, come ogni corpo morale, vivente, assimila o rigetta teorie e prassi della società temporale, considerandole soltanto dal punto di vista della dottrina cristiana e della moralità. Gli sviluppi storici che ne derivano possono dunque non essere desiderati dalle autorità ecclesiastiche e pervadere la società in manier6 asssolutamknte autonoma. I papi dell'inizio del diciannovesimo secolo, e d anche molti vescovi, erano contrari ai movimenti cosiddetti liberali. Nel periodo della restaurazione e 'della Santa Alleanza prevaleva il punto di vista del ritorno ad u n passato pre-rivoluzionario. C'era il timore della libertà e, pur ammettendo i parlamenti (come in Francia e nella Baviera), si cercava di restringere le loro funzioni e limitare la loro importanza. P u r ricordando gli eccessi della rivoluzione francese ed i movimenti delle masse in rivolta, alcuni ecclesiastici credevano che, restaurando i priviIegi dei nobili, del clero e delle monarchie, sarebbe stato possibile tenere in scacco i gruppi ed i partiti liberali. Gli effetti di una tale politica, diretta da Vienna per l'intera Europa e approvata da tutte le altre potenze, ivi compresa I'Inghilterra, fino au'avvento d i Canning, erano contrari alla tendenza degli interessi e dell'ordine europei. Vi h r o n o trent'anni di cospirazioni, rivolte, repressioni, guerre civili. Nel 1830 la Francia cambiò re e regime, e il Belgio ottenne la propria indipendenza. Nel 1848 la Sicilia fu Ea prima a convocare il parlamento di propria iniziativa e a proclamare, il 12 gen-


naio, la rivolta e la guerra contro il re di Napoli. Pio M, il quale aveva sollevato l'entusiasmo del mondo intero per la sua nomina a papa nel 1846 e per l'amnistia politica che l'aveva seguita, promulgò la costituzione. La Francia spodestò il suo re e proclamò la seconda repubblica. Vi furono insurrezioni a Monaco, Praga, Berlino, Vienna, Budapest. Persino la borghesia era spaventata e si affrettò a tornare all'assolutismo, eccetto che nel Belgio e in Piemonte. I n questo periodo molti cattolici erano stati per le libertà costituzionali, malgrado il fatto che spesso le autorità ecclesiastiche locali fossero ostili: invero, sarebbe impossibile capire i movimenti in Irlanda, Belgio, Francia, Italia, Renania e Boemia, senza tener conto dell'atteggiamento favorevole e della iniziativa presa da eminenti cattolici, dal clero e dai laici. Uno dei più noti capi cattolici di quel tempo fu Daniel O' Connel in Irlanda; a lui si deve il primo risveglio politico della sua isola. La sua attività non era sempre gradita a Roma, ma egli era ammirato come il campione del cattolicesimo e della libertà. La rivolta del Belgio, la sua separazione dall'olanda, e la forma costituzionale adottata, erano dovute alle masse ed ai loro capi, i quali sapevano come unire insieme lo spirito nazionale e cattolico del paese ad un profondo sentimento di libertà. Un altro campione sorse in Germania: il sacerdote della Westfalia von Ketteler. Egli era deputato alla dieta di Francoforte nel 1848, e vi sostenne il principio della libertà. Dopo, come vescovo di Magonza, abbracciò il concetto cristiano della proprietà, prima indicazione delle leggi sociali che sviluppò più tardi a Offenbach. In Francia, il nuovo movimento verso la libertà fu guidato dall'abbé De Lamennais, con il quale i giovani Lacordaire e Montalembert si erano associati. Nel 1832, Gregorio XVI condannò alcuni principi sostenuti dal giornale che essi pubblicavano, l'dvenir (sebbene il papa non lo menzionasse con il suo nome). Lamennais si ribellò e finì fuori della chiesa; Montalembert e Lacordaire si sottomisero e continuarono la loro attività politico-sociale, tanto che poi troviamo quest'ultimo come deputato al parlamento di Parigi, nel 1848, e il primo alla

6 . STURZO - Nazionalismo e Internazionalistno


camera dei pari, dove sosteneva i principi politici e sociali che sarebbero poi stati quelli della democrazia cristiana. Nel Gattempo sorse in Francia un giovane di prima classe, il quale con la sua iniziativa e cultura doveva diventare un personaggio internazionale: Frédéric Ozanam. Egli fu il primo a dare un vero significato alla democrazia ed affermarla nel difficile periodo fra il 1847 e il 1853, non soltanto dalla sua cattedra di professore alla Sorbona, ma anche attraverso il suo giornale e la sua attività organizzativa. I n Italia a quel tempo, fra i maggiori proponenti della libertà e della democrazia in mezzo ai cattolici vi fu il siciliano teatino Gioacchino Ventura, che dopo il 1849 fu mandato in esilio. I suoi celebri discorsi a Roma, su Daniel O' Connell (1847) e sui morti di Vienna (1848), la sua difesa della rivolta siciliana (1848) e la sua insistenza perchè Pio IX mantenesse la costituzione, gli guadagnarono l'odio dei reazionari. Un altro grande uomo, più famoso di Ventura, ed anche amico di Pio IX, fu il filosofo che fondò una congregazione religiosa, l'abbate Antonio Rosmini Serbati, favorevole alle libertà costituzionali e alla liberazione dell9Italia dall'Austria. Anche egli fu perseguitato dai reazionari. I cattolici, prima del 1848, capeggiarono un importante movimento intellettuale, storico e letterario che poi divenne in seguito politico. F u battezzato neo-guelfismo, perchè alle idee d i libertà e di indipendenza nazionale si univa un accordo con il papato in una federazione di stati italiani. I1 teologo Vincenzo Gioberti ne fu l'esponente, con il suo « 11,primato degli italiani ». e Cesare Balbo con il suo « Le speranze d'Italia D. Entrambi furono più tardi ministri del governo subalpino. Con il fallimento delle insurrezioni rivoluzionarie del 1848, non solo in Italia ma anche in tutta l'Europa, e dopo che Pio IX andò in esilio a Gaeta e cambiò la propria politica, il neo-guelfismo decadde come ideale politico. I cattolici liberali (fra i quali il più grande era Alessandro lfanzoni, poeta e pensatore di fama mondiale) si unirono all'altra corrente liberale senza, tuttavia, rinunciare alla loro fede religiosa. Mentre la borghesia stava costruendo in Europa lo stato costituzionale - chiamato liberale dalla corrente prevalente,.


ma i n effetti un miscuglio d i liberalismo, conservatorismo e radicalismo - l e classi operaie e quelle dei contadini erano tenute a l di fuori della politica, non avendo diritto di voto, riservato a quel tempo al censo e ai gruppi che pagavano tasse. I lavoratori industriali non avevano alcuna garanzia di sicurezza economica, mentre i contadini erano in misere condizioni, oppressi dall'usura e, in taluni paesi, ancora legati alle catene del loro tradizionale assoggettamento alla terra. Si svilupparono così in quel periodo in Europa due movivimenti: uno per la riforma economica e l'altro per diritti politici delle classi lavoratrici. Quest'ultimo chiedeva i l voto politico; il primo incitava alla rivolta. L'anno 1848 non segnò soltanto la rivoluzione politica della borghesia, bensì anche la rivolta socio-economica delle masse. I1 manifesto comunista porta questa data; Marx emerge come il nuovo profeta. Un'altra voce sorse assieme a quella di Marx; una voce certo più debole e sentita da pochi, in quel momento, ma che alla lunga ebbe vasti effetti - la voce del francese Frédéric Ozanam, per la democrazia cristiana. Ozanam era pronto a parlare. Nel suo corso di diritto commerciale, tenuto a Lione nel 1839-40, egli aveva già dimostrato di possedere una chiara visione dei problemi sociali di quel tempo e della necessità di urgenti misure adeguate. Nei suoi viaggi attraverso l'Italia entrò in contatto con Gioacchino Ventura. Ozanam comprese la ne. cessità, per i cattolici, d i dedicarsi a riforme sociali e politiche. La sua celebre frase fu « forza, contro i barbari ».I barbari moderni erano le classi operaie in rivolta, l e quali stavano irrompendo nel mondo politico. I cattolici, così affermava, dovevano appoggiare le loro giuste rivendicazioni ('). Ozanam scrisse nel 1848: «Abbandoniamo le nostre avversioni e risentimenti e volgiamoci verso quella democrazia, quella gente che non ci conosce. Avviciniamoci a loro, non solo con le nostre prediche, ma con l e nostre buone azioni. Aiutia-

(l) Ozanam scrisse il suo libro preferito, sulla Civiltà cristiana nel quinto secolo, nel 1843.


mole, non soltanto con elemosine che fanno che l'uomo sia in obbligo verso l'uomo, bensì attraverso i nostri sforzi per ottenere loro istituzioni che le renderanno libere e in grado di svilupparsi 1). E nel settembre dello stesso anno (anno di lotte, speranze, delusioni), mentre stava dirigendo, a Parigi, l'Ère Nouvelle, scrisse al fratello: « Ho creduto e ancora credo nella possibilità della democrazia cristiana; addirittura non credo a null'altro nel campo politico N. . Ozanam era i l profeta dell'attività sociale dei cattolici. Per mezzo suo i l termine « democrazia cristiana » penetrò nella coscienza dei suoi seguaci -'poco importa se molti o pochi, poichè esso ispirò un'azione sociale e politica di vasta portata. Sebbene Ozanam sia noto a molti soltanto come un grande critico storico, un filosofo e come fondatore delle Società di San Vincenzo de' Paoli (diffuse per tutto il mondo), coloro i quali ebbero fiducia nella democrazia cristiana lo hanno posto al più alto grado dei suoi precursori.

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Seguirono in Europa ventitrè anni critici. Venne ristabilito l'assolutismo monarchico e la nuova dittatura napoleonica parve voler impedire per sempre il progresso della borghesia verso i l liberalismo e quello del proletariato verso il socialismo. Poi, nel mezzo della crisi, i due movimenti si affermarono'e progredirono. Durante questi anni avvennero tre grandi cambiamenti: i l compimento dell'unità italiana con l a caduta del potere temporale (1870); l a formazione dell'impero tedesco, dopo la disfatta della Francia e l a caduta di Napoleone I11 (1871); e il sorgere della terza repubblica francese. Inoltre, nell'ambito degli imperi austriaci e ottomani si accentuarono i movimenti nazionali. Uno dei principali risultati politici di questi cambiamenti in Europa, fu l'estensione e E'aflermzzione del sistemo parlamentare, includendo persino Vienna e Berlino. Pietroburgo e


Costantinopoli erano rimasti quasi gli unici governi assoluti. Le classi medie facevano progressi ovunque. Inoltre, la Comune di Parigi, associando sentimenti di nazionalismo con la rivoluzione sociale, e l'eroismo del popolo con la barbarie della rivolta e del regresso, insegnò all'Europa che il quarto potere ( l e classi lavoratrici) stava risalendo verso la conquista dello stato. La prima internazionale, la propaganda anarchica di Bakunin e quella marxista tennero in agitazione l'Europa. Nel frattempo i partiti dei lavoratori, i quali presero più tardi il nome di partiti socialisti, si stavano organizzando nei vari stati. L'atteggiamento di Pio IX verso tali movimenti era fortemente negativo; molte volte egli condannò il liberalismo, il socialismo, il comunismo e l'anarchismo. Le condanne colpirono principalmente le premesse dottrinali di questi movimenti, ma vi compresero anche le loro varie implicazioni giuridiche, politiche e sociali. I1 più noto documento papale dell'epoca è il cosiddetto Sillabo, una raccolta di ottanta proposizioni tratte dai discorsi, documenti e lettere di Pio IX ed elencate ( d a ciò un sillàbo) ad uso del clero e dei fedeli. Non è questo il luogo per esaminare il valore ecclesiastico del documento. Esso fu considerato dai suoi avversari come la vera essenza della reazione cattolica contro la libertà ed il progresso. Forse gli eventi di quasi un secolo possono essere una controprova di ciò che potevano essere l'indifferenza, il razionalismo ateo, il naturalismo politico e sociale, ed altre teorie condannate dal Sillabo. P u r ammettendo che Pio IX non fosse più favorevole alle libertà politiche, dopo la sua esperienza del 1848, nondimeno il Sillabo non contiene neppure una parola contro la democrazia instaurata a quel tempo negli Stati Uniti e in Svizzera. Per poter capire Pio IX, dobbiamo ricordarci che egli si opponeva a quei governi ed a quei partiti politici che volevano l'abolizione dei diritti storici della chiesa - sentendo da parte sua il dovere di difenderli e custodirli. Ma egli lottava con vigore ancora maggiore contro quel liberalismo che, in nome dei diritti naturali dell'uomo, negava e sdegnava ogni concezione soprannaturale della vita. I1 comunismo, il socialismo e l'anarchia, dovevano inoltre essere condannati per il fatto che mira-


vano alla soppressione della proprietà privata (la quale per il cattolicesimo è una delle salvaguardie dei diritti della persona umana e della famiglia cristiana), e perchè seminavano l'odio di classe e incitavano alla rivolta. Mentre l'atteggiamento ufficiale del papato era negativo, i cattolici ( i l clero e i laici) seguivano due differenti sentieri. Politicamente, vi erano quelli come Ozanam in Francia, padre Ventura, Manzoni e il barone d'0ndes in Italia, Windthorst ed i fratelli Reichsperger in Germania, Verhaegen e Helleputte in Belgio e molti altri, che sostenevano la partecipazione del popolo nella vita politica. Altri, come Louis Veuillot in Francia e don Margotti in Italia ( i l più noto giornalista dell'epoca) combattevano il liberalismo, sostenendo i governi assoluti e paternalistici, convinti di poter far rivivere la cristianità unendo il trono con l'altare (come era allora il motto). La corrente moderata o conservatrice, rappresentata da quei cattolici già arrivati a posti d i governo, favoriva una monarchia limitata in cui sostanzialmente il governo era in mano alla Q borghesia capitalistica e del resto delle classi militari nuova o dei proprietari e delle libere professioni. I n tali ambienti, l a parola democrazia suscitava scandalo. Allorchè Montalembert, al convegno internazionale cattolico di Malines, nel 1863, pronunciò questa parola fra gli applausi del pubblico, fu, dai consematori, ritenuto almeno un eretico. K La nuova società, la democrazia, tanto per chiamarla con il suo nome, esiste, e in metà dell'Europa è già sovrana; nell'altra metà, lo sarà domani.. Mi guardo intorno e non vedo che democrazia, dovunque Nel nuovo ordine i cattolici dovranno * combattere, ma non avranno nulla da temere I), così disse Montalembert (Oggi, dopo l a costituzione delle Nazioni Unite, queste parole potrebbero essere ripetute esattamente). A quel tempo, la parola democrazia, pronunciata quindici anni prima da Ozanam e Ventura, era già vecchia in America, ma non in Europa. Qui i padroni del momento erano Bismarck e Napoleone I11 ; l'Inghilterra era in pieno dell'era vittoriana ; in Italia dominava il diritto storico (liberali conservatori); in Austria, i liberali anticlericali erano in mano dei capitalisti delle razze dominanti tedesca e magiara.

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Eppure Montalembert aveva visto giusto. I1 cardinale Manning, un quarto di secolo più tardi confermava l a sua valutazione con le parole: <( L'avvenire appartiene alla democrazia. Ciò è quel che dev'essere salvato, quel che dev'essere cristianizzato, quel che dev'essere conciliato N. Fra Ie due affermazioni, di Montalembert e di Manning, doveva passare poco meno di un quarto di secolo; ma i l sentiero era già stato aperto dalle leggi del pensiero e della storia, cosicchè, seguendo ancora questa linea, arriviamo, in pochi anni, alla celebre frase di Leone XIII: Se l a democrazia sarà cristiana, sarà un gran bene per il mondo intero D.

Nel corso di vent'anni, dal 1871 al 1891, i regimi costituzionali parlamentari coprivano l'intera Europa, ad eccezione dell a Russia e dell'impero ottomano. L'espansione industriale, l a creazione di grandi imperi, e gli stabili armamenti delle grandi potenze, erano frutto dell'alleanza fra l a borghesia capitalistica e il moderno militarismo. Tutto ciò avveniva a spese delle classi più basse, media e lavoratrice, le quali pur guadagnando influenza in campo politico con l'estensione del suffragio, sempre più sentivano la loro instabilità economica, l'insufficienza dei loro salari, e l a durezza dei loro pesanti orari di lavoro. I n quel periodo i cattolici partecipavano alla vita pubblica nei vari parlamenti, alcuni a destra (come in Francia e Belgio), alcuni al centro (come in Germania), alcuni a sinistra (come i federalisti in Austria). Ma, dal punto d i vista sociale, essi si stavano staccando gradualmente dai gruppi borghesi e liberali che rappresentavano la tradizione manchesteriana del lasciar fare e lasciar passare. Fra i cattolici si svilupparono due scuole. La scuola corporativa, sostenuta dal barone Karl von Vogelsang, il quale era molto influente sui gruppi austriaci e francesi interessati al campo sociale. Tale scuola sosteneva un ritorno al medio evo, con l a

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ricostituzione delle gilde (chiamate anche corporazioni, con significato diverso da quello del termine corrente inglese), e con l'organizzazione dello stato sulla base di autonomie locali e professionali ( o commerciali), dando alla proprietà privata una funzione sociale-politica. I1 barone von Vogelsang era, in effetti, un fiero oppositore dell'economia capitalistica, persino per l'interesse sul denaro, permesso dall'uso e tollerato dalla teologia morale cattolica, e per l'individualismo politico che produce l'individualismo economico ( o viceversa). La scuola corporativa francese, traendo la propria ispirazione da quella austriaca e sostenendo politicamente una restaurazione monarchica, era nota come l'associazione cattolica. I suoi capi principali erano La Tour du Pin ed il conte De Mun, i quali proposero corporazioni obbligatorie di commercio per tutti i fattori di produzione rappresentanti capitale, direzione tecnica e lavoro. Su questa base essi tracciarono un sistema rappresentativo politico che doveva poi culminare nel C( grande consiglio delle corporazioni D, una specie di senato consultivo d i una monarchia sociale. L'altra scuola ( i cattolici del centro tedesco) aderiva più strettamente alle reali condizioni dell'epoca e sognava meno un ritorno al passato. Era diretta dal sacerdote deputato presso il Reich, Franz Hitze. Egli ed i suoi compagni sostenevano, contro la scuola di Manchester, la necessità dell'intervento dello stato in materia sociale, quale la limitazione delle ore di lavoro, il riposo domenicale, le leggi di assicurazione contro gli infortuni e la vecchiaia, e l'educazione degli operai, ciò che avrebbe portato ad una qualificazione del lavoro. I1 principale compito di questa scuola, che si ramificava in tutta l'Europa, sia spontaneamente, sia attraverso imitazioni, era quello di conciliare i diritti della libertà del lavoro e dell'impresa con un moderato intervento regolatore dello stato, senza costringere una larga parte della nascente economia moderna a cadere nelle mani dello stato ( e perciò, della burocrazia). Bismarck, il quale prima aveva' respinto la proposta del centro formulata da Franz Hitze, propose la sicurezza sociale per i lavoratori, nelle mani però della burocrazia statale. Ma il centro che aveva battuto Bismarck nella lotta anti-cattolica chiamata Kulturkampf, lo battè una se-


conda volta nella legislazione sociale, sostenendo il principio delle libere associazioni di operai ed escludendo qualsiasi monopolio da parte dello stato. Anche nell'Austria-Ungheria i cattolici avevano a loro credito l'introduzione, anche se timida, delle prime leggi sociali a favore dei lavoratori. I n Francia, Italia, Belgio, Svizzera e Olanda (anche in Spagna, in minor grado), i cattolici promuovevano associazioni, studi e periodici di carattere sociale e traducevano i loro principi con esperimenti di cooperative, mutue e organizzazioni sindacali. Un grande influsso, persino al di fuori del mondo cattolico, fu esercitato in economia da Frédéric le Play. Egli era soprattutto uno scienziato piuttosto staccato, non un organizzatore politico. Ma altri - Gaspar De Courtins in Svizzera, il prof. Toniolo, il prof. Burri, mons. Talamo in Italia; Léon Harmel, Camille Léron-Vrau, Claude Jannet in Francia; Helleputte, mons. Doutréloux, Charles Périn in Belgio, e molti altri - esercitarono un influsso sull'orientamento dei cattolici verso lo studio dei problemi sociali e verso una corrispondente azione legislativa e organizzativa. I n questo periodo emersero tre cardinali, la cui fama internazionale ancora dura. I1 primo, Edward Manning di Londra (amico di Henry George), famoso per i l suo intervento nello sciopero degli scaricatori di porto, formulò l e sue idee sociali in un discorso a Leeds (1874) sotto il titolo ((Dignità e diritti del lavoro D. Fu, per vent'anni, il capo morale dei democratici cristiani. I1 secondo fu i l card. Mermillod, l e cui conferenze a Parigi, qualche tempo prima della sua nomina a vescovo di Ginevra, destarono allarme. Egli fu accusato di socialismo, ma come aveva resistito agli anticlericali radicali svizzeri, così resistette ai clericali conservatori francesi. 11 terzo'era un americano, il cardinal Gibbons, il quale difese i Cavalieri del lavoro contro i tentativi di farli condannare da Roma (tentativo iniziato da taluni vescovi conservatori canadesi). Nell'episcopato non mancavano altri eminenti personaggi del tempo, ma la parola definitiva e unificante doveva ancora venire.


DEMOCRATICI E CONSERVATORI RERUMNOVARUM (1891-1914)

DOPO LA

11 15 maggio 1891, Leone XIII pubblicò l'enciclica sulle condizioni delle classi lavoratrici, che dalle parole iniziali prende il nome di Rerum Novarum. Si tratta della prima ampia e solenne manifestazione del papato sul problema del lavoro moderno, ed è fondamentale, in quanto stabilisce i punti principali della dottrina cattolica su tale argomento. Come abbiamo visto, per tutto il diciannovesimo secolo non erano mai mancati nel cattolicesimo teorici e organizzatori pratici, che si erano dedicati ai problemi sociali e avevano destato l'interesse dei cattolici per essi. Ma si sperava che la maggiore autorità della chiesa si pronunciasse a favore dei lavoratori non solo in forma generica, ma con norme dottrinali e pratiche riguardanti le questioni chg avevano agitato l'opinione pubblica del mondo e avevano tenuto divisi i cattolici stessi. Questa parola venne nella Rerum Novarum. L'accoglienza fatta all'enciclica fu eccezionale, persino da parte dei liberali protestanti e da -taluni settori del socialismo riformista. Con l'ammissione dell'intervento dello stato nelle questioni sociali, Leone dette il colpo di grazia agli economisti e ai capi politici della scuola di Manchester. Con la vivace difesa del diritto dei lavoratori ad organizzarsi, diritto che lo stato non crea ma riconosce, egli pose le basi di una riforma orgapica della società. E affermando la necessità di un salario familiare, toccò il punto debole dell'economia moderna e propose il rimedio ( l ) . Due accuse sono state rivolte contro Leone XIII, dovute ad incomprensione e forse anche a pregiudizio. La prima fu che con il suo sistema corporativo egli voleva far rivivere il chiuso sistema del medioevo. La verità è che Leone XIII non accettò -

(l) Pio XI, quarant'anni più tardi, nella sua lettera enciclica sulla questione sociale ! Q d r a g e s i m o Anno), fece importanti aggiunte agli insegnamenti di Leone XIII.


mai la tesi del corporativismo come un'economia chiusa e un sistema politico. Egli era un realista e non poteva creare una riforma sociale da ciò che non esisteva, bensì dall'esistente, proponendo perciò le riforme necessarie, una delle quali era l'organizzazione di classe. Propose corporazioni miste fra lavoratori e datori di lavoro, ma accettò anche i sindacati di classe, a condizione che venisse raggiunto un accordo fra tutti i fattori della produzione. Gli sforzi fatti da allora su questa linea, sono stati immensi, e se vi è stata lotta fra capitale e lavoro, nella maggioranza dei casi ( p u r deplorando gli eccessi), il torto non è stato dalla parte del lavoro. L'altra accusa, fatta dai socialisti, fu che Leone XIII, difendendo la proprietà privata, tolse £orza alla azione sociale a favore dei lavoratori. Per accertare questa critica bisognerebbe poter provare che la proprietà privata è un'istituzione contraria agli interessi del lavoratore. Leone XIII invece, d'accordo con la tradizione cristiana, sosteneva che la proprietà dovrebbe essere estesa a tutte le classi sociali, quale mezzo per preservare la persona1it.à umana e la consistenza delle famiglie. D'altro canto, egli gettò luce sulla funzione sociale della proprietà e sull'obbligo (C di chi ha di dividere i suoi beni con gli altri, non solo per generosità, ma anche per dovere di solidarietà sociale. Questi e altri temi della grande enciclica fornirono l'occasione per una significativa letteratura sociale. Leone XIII indirizzò il mondo cattolico verso lo studio e la ricerca di rimedi ai problemi dei lavoratori. Egli formò una vera mentalità (C sociale in studenti e gruppi di studiosi, come pure nelle classi lavoratrici le quali sentirono, per la prima volta, parlare di cristianità sociale D, di papa « sociale D, e d i una scuola cattolica (C sociale ». L'espressione che per prima ebbe successo e fu presto adottata nel corso dei primi anni dopo l'enciclica, fu quella di democrazia cristiana. F u assunta anche nel Belgio (dove l'eco di Ozanam, Montalembert e della convenzione d i Malines non si era spenta); passò poi presto in Francia e in Italia, dove il suo apostolo fu Giuseppe Toniolo. Professore di economia politica all'università di Pisa, egli aveva militato nelle file dell'azione


cattolica, era stimato in tutta Europa e considerato u n c?po del movimento sociale. I1 suo corso sulla democrazia cristiana, tenuto a Roma e in altre città italiane, e pubblicato più tardi e tradotto in varie lingue, segnò un'epoca. La democrazia cristiana portò nuova vitalità alle società italiane di aiuto ai lavoratori, alle cooperative di lavoratori e consumatori, alle banche popolari e alle banche di credito rurale. Sulla sua scia vi furono vari tentativi di formare leghe di lavoratori e circoli d i gioventù cattolica, composti tanto da operai che da studenti. Essa orientò anche verso problemi sociali la azione, piuttosto generica e paternalistica, svolta a favore dei braccianti dalle varie associazioni cattoliche tradizionali. Ispirò lo studio, e, verso la fine del diciannovesimo secolo, arrivò ad un proprio programma sociale e politico, il quale divampò come una fiammata in Italia, in Francia e nel Belgio, così Come in altri paesi. Tale programma richiedeva il suffragio universale, il voto alle donne, un sistema proporzionale elettorale, leggi sul lavoro, tassa progressiva, riforme agrarie, libertà d i istruzione, il riconoscimento legale delle società operaie, un senato elettivo (laddove non esisteva), e così via. La democrazia cristiana incontrò immediatamente dei nemici. Era avversata da tre gruppi: il primo era il gruppo liberale della Manchester School, che vide nell'intenzione dei democratici cattolici d i appoggiare l'intervento dello statc in materie economiche, un limite all'efficacia della loro stessa denuncia dei socialisti come rivoluzionari e dell'invocare una politica repressiva. L'affermazione che i democratici cristiani erano più pericolosi dei socialisti, non era eccezionale. I socialisti stessi costituivano un altro avversario, sostenendo che l'unità degli operai era compromessa dalla formazione delle unioni democratiche cristiane. Nè mancarono di accusare tali società d i essere legate ai proprietari e di tradire gli interessi della classe. I1 terzo gruppo era composto di conservatori cattolici, epecialmente proprietari terrieri e industriali, i quali temevano che la democrazia cristiana potesse andare troppo in 1.à nel proteggere gli interessi dei lavoratori e potesse aspirare a porre le basi per una democrazia politica, che essi odiavano. Le accuse dei liberali e dei conservatori cattolici arrivarono


fino in Vaticano. Leone XIII, il quale aveva posto tanta fiducia nei giovani e nei lavoratori, vide sorgere accuse contro di essi da tutte le parti. Nel frattempo avvennero in Italia le rivolte del 1898. I1 governo, nelle mani dei conservatori e dei reazionari, si spaventò, e proclamò lo stato di assedio. I tribunali militari condannarono i capi socialisti e repubblicani a lunghi anni di prigionia. Fra questi c'era il giornalista e sacerdote don Davide Albertario di Milano, il quale aveva abbracciato la causa dei democratici cattolici e aveva difeso lo sciopero degli operai cattolici i n talune fabbriche lombarde. Fu condannato a vent'anni di carcere (1898). Tutte le associazioni erano sbandate, ivi comprese quelle dell'azione cattolica, la quale protestò vivacemente a mezzo di Leone XIII. Ma nei due anni seguenti fu restaurata la libertà politica e fu accordata l'amnistia a coloro i quali erano stati condannati dai tribunali militari. Naturalmente, quale risultato della reazione, il paese inclinò verso sinistra, dando la vittoria alla coalizione socialista-repubblicana-radicale-democratica. Nel luglio 1900, il re Umberto fu assassinato da un anarchico. La Francia fu agitata dal caso Dreyfus e dalle leggi contro le congregazioni religiose, e l'Austria dalle crescenti richieste delle nazioni oppresse. Assalti terroristici, agitazioni di masse e scioperi (allora considerati rivoluzionari), si ripetevano piuttosto spesso nell'industria, e minacciavano di estendersi alla agricoltura. Nel gennaio 1901 uscì l'enciclica di Leone XIII, chiamata dalle parole iniziali Graves de communi. Leone XIII, pur consentendo che le associazioni cattoliche portassero il titolo di democrazia cristiana, ammonì che esse non dovessero avere alcun significato politico. Nel campo sociale, i cattolici dovevano attenersi alla linea dell'enciclica Rerum Novarum, senza eccedere, sia nella sostanza che nel modo di procedere. Egli insistette sugli aspetti caritatevoli dell'azione sociale e volle che le associazioni della democrazia cristiana dipendessero dai rispettivi vescovi. Si disse che l'intervento del papa fosse stato richiesto dai conservatori cattolici e non cattolici, i quali temevano una rivoluzione sociale e desideravano impedire la partecipazione ad essa dei democratici cristiani. Ma i punti salienti di Leone XIII


resistono persino oggi ad ogni critica, specialmente ciò che era allora alla base del problema, vale a dire che i cattolici, pur essendo liberi di sostenere una forma politica piuttosto che una altra, devono evitare di coinvolgere la chiesa nelle loro preferenze, anche se sono per una democrazia di ispirazione cristiana. Per questa ragione, se essi danno il nome di democrazia cristiana a d associazioni cattoliche, devono limitare il suo significato a quello di aiuto sociale delle classi operaie e mantenersi alle dipendenze dei vescovi. Questa necessità prevaleva allora in Italia, poichè il non expedit (risultato della questione romana, ancora insoluta, fra il Vaticano e 10 stato italiano) era ancora i n vigore, e ai cattolici, con tale norma, era proibito intervenire nelle elezioni politiche e formare un proprio partito. I democratici cristiani d'Italia (fra i quali c'era l'autore di questo libro) aspiravano, in effetti, a diventare un partito politico. Ciò che al tempo di Leone XIII era immaturo, maturò diciotto anni più tardi. Da allora molti malintesi furono chiariti e l'attività pratica £u utile per acquisire l'esperienza politica non ancora posseduta. È indubbio che l'azione cattolica del diciannovesimo secolo aveva assunto un carattere semi-politico nella lotta contro il liberalismo. Ma quando il socialismo si affermò nella vita politica e parlamentare, i cattolici e i liberali di tendenza conservatrice si unirono per opporsi alla cosidetta « rivoluzione sociale ». Perciò i democratici cristiani fecero una politica conservatrice, incapace d i affrontare le richieste dei lavoratori; la loro inesperienza li condusse a sostenere la loro politica in nome della chiesa. Pio X, successore di Leone XIII, vide i democratici cristiani d'Italia dominare nel convegno di Bologna dell'agosto 1903, e decise d i disporre lo scioglimento dell'opera dei congressi e delle leghe democratiche cristiane, e far sorgere una organizzazione completamente nuova, chiamata Unione popolare, del tipo del Volksverein tedesco. Vi mise a capo il prof. Giuseppe Toniolo, umo che conciliava nella sua persona la fiducia dei conservatori e dei democratici. La crisi non fu evitata. L'autore di questo libro si dedicò completamente ad un'attività municipale e proviziciale, e diventò, nel 1905, sindaco di Caltagirone, consigliere provinciale


di Catania, consigliere e, più tardi, vice-presidente dell'Associazione nazionale dei comuni, nonchè membro di varie commissioni governative. I1 capo dell'ala sinistra dei democratici cristiani, il sacerdote Romolo Murri, si ribellò nel 1909. Lasciò l a chiesa e abbandonò il movimento, la cui direzione f u assunta allora da Giuseppe Donati (apprendiamo ora che don M u m si è riconciliato con l a chiesa). Marc Sangnier, direttore del Sillon di Parigi, fu condannato e si sottomise (1910). L'abate Naudet ricevette l'ingiunzione di non occuparsi più di questioni sociali (1911). L'abate Lemire si limitò al suo collegio di Finistère, dove divenne sindaco e deputato al parlamento. Così in tutti i paesi l e idee sociali e gli organismi continuavano a svilupparsi in un tacito spontaneo movimento - malgrado l a grave crisi (che i n certi momenti era stata, abusivamente, inserita nella controversia modernista), e malgrado i l fatto che molti avevano abbandonato i l nome di democrazia cristiana.

Gli anni della prima guerra mondiale e quelli immediatamente seguenti furono anni di eccezionali sviluppi e crisi per i movimenti democratici. I n tutta Europa i democratici cristiani e i socialisti parteciparono ai governi di guerra dei loro paesi mentre, prima della guerra, o ne erano stati tenuti lontani oppure essi stessi si erano rifiutati d i partecipare. MacDonald i n Inghilterra, Albert Thomas in Francia, Wandervelde in Belgio e Bissolati in Italia erano i più noti socialisti al potere, mentre i democratici cristiani comprendevano nomi ben noti come quelli del prof. Poullet in Belgio e dell'avvocato Filippo Meda in Italia. Persino il centro tedesco ebbe il suo primo cancelliere nella persona del barone Hertling, il quale, sebbene appartenesse all'ala conservatrice, era della scuola d i Leone XIII in campo sociale. La guerra, vinta dagli Alleati, portò ad un più vasto concetto della democrazia politica e sociale. I n Inghilterra, Ame-

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rica, Germania, Austria e nei vari dominions inglesi, le donne ottennero il diritto di voto. Le costituzioni degli stati creati dopo la guerra, e della stessa Germania, erano apertissime in senso democratico. In molti paesi europei l'introduzione del sistema d i rappresentanza proporzionale era favorevole alle minoranze politiche, religiose e storiche. I disagi economici del dopo guerra e le crisi finanziarie dettero impulso non solo alla formazione delle società operaie, ma anche alla propaganda rivoluzionaria in seno ad esse, a parte l'influenza della rivoluzione bolscevica i n Russia. I n questo clima, il primo fra i cattolici ad alzare la bandiera della democrazia cristiana nel campo social-politico, fu il partito popolare italiano ( l ) . Altri partiti « popolare » o « cristiano-sociale o a cristiano democratico », sorsero i n Europa nello stesso anno, mentre il partito del centro in Germania assieme ai gruppi socialisti e democratici di sinistra diventavano uno dei principali fattori della repubblica di Weimar, e il partito cristiano sociale dell'Austria fondava, d'accordo con i socialisti, la repubblica austriaca. Per capire il rapido, incontestato successo del partito popolare italiano, dobbiamo ricordare che il movimento cattolico sociale, chiamato o no democrazia cristiana, si era sviluppato ininterrottamente nel corso degli anni di crisi e di guerra. Perciò, all'inizio del 1919, appena due mesi dopo l'armistizio, esistevano in Italia, nelle mani dei cattolici sociali, più di quattromila cooperative, qualche migliaia di enti assistenziali dei lavoratori, circa trecento banche popolari, molte società professionali (le quali si erano confederate nel settembre 1918), raggiungendo in breve una partecipazione di almeno ottocentomila membri ( e nel 1920 un milione duecentomila). Inoltre, molti studenti delle scuole secondarie e delle università erano stati educati per lungo tempo in associazioni cattoliche per la gioventù. Essi avevano dato, durante la guerra, un magnifico esempio di coraggio militare e di virtù cristiane. Entrarono spontaneamente a far parte del partito popolare, diventandone l a leva intellettuale e morale, proprio come le masse operaie (l)

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Fondato il 18 gennaio 1919.


delle unioni cattoliche, delle leghe e cooperative rurali, erano l e reclute più convinte e più disciplinate. E infine, la cooperazione delle classi medie e intellettuali, dottori, avvocati, professori, ingegneri e tecnici, si rivelò d i importanza e respiro mai visti in u n giovane partito di chiara natura sociale. È strano che giornalisti e scrittori americani designassero il partito popolare come un partito rurale appartenente soprattutto all'Italia meridionale. I1 fatto è che il più forte contingente del partito veniva dall'Italia del nord e dalle grandi città, dove i cattolici erano meglio organizzati e avevano scuole migliori, più programmi sociali e circoli d i studio. A parte il rapido successo del partito popolare italiano, tanto fra le varie classi sociali che nel parlamento stesso ( i n dieci mesi guadagnò un quinto dei seggi della camera dei deputati), il fatto interessante da notare è i l suo spirito e il suo programma profondamente democratico. Fra i partiti di tutti i paesi esso battè il record di un'organizzazione interna veramente democratica. Dai nuclei locali (sezioni municipali) a i comitati provinciali, fino a l congresso nazionale, il partito era formato sulla base della volontà dei membri, con il rinnovo annuale delle elezioni di maggioranza e di rappresentanti di minoranza. Così, l'interesse d i ogni membro poteva essere rappresentato nelle procedure del partito. Persino il consiglio nazionale, eletto dal congresso attraverso una maggioranza e con rappresentanti di minoranza, mantenne l'organizzazione democratica. Sotto di esso, l a direzione del partito era nelle mani di sette membri, fra i quali il segretario politico, capo responsabile. Oltre di esso vi erano i corpi rappresentativi, cioè popolari eletti ai consigli municipali e provinciali e alla camera dei deputati. Questi erano autonomi nell'azione di governo, ma dovevano rendere conto, rispettivamente alla sezione del partito e al comitato provinciale o al consiglio nazionale, dell'osservanza del programma e della disciplina del partito. Con l e società operaie e l a loro confederazione, il partito manteneva relazioni di buon vicinato e un comune programma; ma soltanto i lavoratori membri del partito potevano prendere parte alle deliberazioni delle relative sezioni. Si trattava di una democrazia interna, che non soltanto serviva a creare fra i membri l a com-

7 . STURZO - Nazionalismo e Internazionalismo


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prensione della vera democrazia, ma faceva anche in modo che emergessero nella vita pubblica valori individuali, quale il senso d i responsabilità personale in una dinamica collettiva. È stato detto e scritto, persino in America, da critici ignari delle reali vicende del partito popolare, che esso era la longa manus deI Vaticano. Ciò è diventato uno di quegli incontrollabili slogans che, a forza di ripetizioni, diventano verità assiomatiche. A trarre in errore qualche osservatore superficiale, dev'essere stato il fatto che l'autore di questo libro, prima di fondare il partito, alla fine del 1918 andò dal segretario di stato cardinal Gasparri, a richiedere dal papa l'abolizione del non expedit allora in vigore. Per indurre le masse cattoliche ad unirsi in un partito politico, tale proibizione, che risaliva al momento in cui Roma fu presa ai papi, doveva essere abolita. L'aver visto accogliere questa richiesta dieci anni prima dei Patti lateranensi (che misero fine ufficialmente alla questione romana) era un vantaggio per il nascente partito popolare ed un gesto unilaterale di simpatia fatto dal papa Benedetto XV verso l'Italia (l). Qualche lettore si chiederà perchè i democratici cristiani italiani volessero formare un nuovo partito per conto loro,-invece di unirsi con i partiti esistenti. L'Europa non possiede il sistema bipartitico dell'America. La classe operaia non h a molta fiducia nei partiti borghesi, perciò preferisce i propri partiti, siano essi laburista, come i n Inghilterra, o socialista, come sul continente. Poichè i socialisti europei erano, in fondo, marxisti, vale a dire per l'abolizione della proprietà privata e per il metodo della lotta di classe, basata sul principio del « materialismo storico D, i cattolici non potevano accettare tali principi che erano antitetici ai loro. La democrazia cristiana è, politicamente ed economicamente, un partito di centro, fra il liberalismo e il radicalismo borghese da un lato, ed il socialismo e comunismo dei lavoratori dall'altro. I presupposti della democrazia cristiana sono gli insegnamenti papali in materia sociale; con (l) I1 non expedit fu tolto nel novembre 1919, dieci mesi dopo la formazione del partito;. ma il cardinal Gasparri l'aveva promesso a voce all'antore di questo libro.


riferimento non ad una singola classe ( i lavoratori), bensì a tutte le classi della società. Le battaglie politiche intraprese dal partito popolare, nei suoi sette anni di vita, possono essere ricordate con onore. La principale fu la riforma agraria, sia per il miglioramento dei patti agrari fra proprietari e fittavoli, sia per i braccianti salariati. I1 partito voleva la colonizzazione del latifondo dell'Italia centrale e meridionale e della Sicilia, laddove le strade mancavano e dove la condizione dei contadini è molto primitiva: donde le periodiche agitazioni delle masse di contadini italiani, al grido di la terra ai contadini D. I1 contadino del sud e della Sicilia vuole un podere per sè, il suo « pezzo di terra » come proprietà per sè e per-i figli. Per questo molti andarono in America « a far fortuna », ad accumulare denaro per acquistare poi - a qualunque prezzo - un podere con una casetta, una vigna, un aranceto o un orto, e coltivarlo per il proprio piacere e quello della moglie e dei figli. Un ideale modesto, ma sano e giusto. La proposta dei popolari venne approvata dalla camera dei deputati nel luglio 1922, ma, con l'arrivo dei fascisti, dal senato, dove era stata portata per l'approvazione definitiva, f u respinta per ordine del duce. Un'altra campagna politica dei popolari fu quella per il riconoscimento legale delle società operaie, la loro rappresentanza diretta e proporzionale nel consiglio superiore del lavoro, e l'introduzione del sistema della partecipazione d e i lavoratori, il che significava che una parte del reddito annuale delle fabbriche doveva essere convertita in azioni per gli operai, dando loro, in tal modo, il diritto di parola nelle assemblee degli azionisti. Tali proposte furono presentate alla camera dei deputati, ma furono avversate dai socialisti e dai liberali; dai primi perchè videro compromessa la loro posizione monopolistica nella rappresentanza del lavoro; dai secondi, perchè avevano paura che la libertà dell'impresa potesse essere ostacolata. I socialisti e i liberali contrastarono anche lo sforzo del partito popolare per concedere il voto alle donne; entrambi temevano il rafforzamento del partito avverso, che vedevano aumentare ogni giorno in numero e forza. Così pure, essi combattevano le misure dei popolari per la libertà scolastica (in


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Italia le scuole erano, e sono, monopolio di stato) presentate su insistenza dei popolari e degli illustri ministri della pubblica istruzione che si susseguirono in quel periodo; il liberale Croce ; il radicale Corbino; il popolare Anile. La storia degli anni fra il 1919-1922 è piena di lotte fra popolari, liberali e socialisti, in un periodo in cui il pericolo fascista si avvicinava al potere e nessuno se lo immaginava così imminente. Quando si comprese il pericolo, i liberali, invece di formare un solido fronte con i popolari e i socialisti, tentarono d i accordarsi con i fascisti nelle elezioni municipali del 1920 e del 1921, come pure nelle elezioni politiche del 1921 e nelle fasi successive della lotta. Chi scrive tentò più volte di formare un fronte comune fra social-democratici, socialisti e popolari, e arrivare alla formazione di u n governo in cui partecipassero i socialisti. Ma, dopo varie discussioni, i capi socialisti preferirono rimanere fuori e alla fine appoggiarono la sciopero generale del luglio-agosto 1922. La borghesia italiana se ne allarmò e decise per il fascismo : la marcia su Roma ebbe luogo nell'ottobre 1922. I1 re si rifiutò d i firmare il decreto di stato d'assedio e di servirsi delle armi per reprimere l'insurrezione fascista. I1 colpo di mano riuscì; Mussolini diventò il capo del governo e dittatore. Nel primo dopoguerra si erano già formati altri partiti, in Europa, sul tipo del partito popolare italiano. I1 meglio organizzato era il partito popolare ceco, con a capo monsignor Sramek, già ministro a Praga per molti anni, in collaborazione con Masaryk. e Benes. I n Polonia, il gruppo democratico cristiano aveva qualche affinità con il gruppo dei contadini, il cui capo era il presidente Vitos. Durante la dittatura di Pilsudski e il governo dei colonnelli, i democratici cristiani furono all'opposizione e ridotti al silenzio per qualche tempo; ma poi tornarono, ed ora a Londra collaborano con il governo polacco in esilio e partecipano alla resistenza clandestina in Polonia. Anche in Lituania vi era u n gruppo d i democratici eristiani che, come movimento cattolico sociale, sopravvisse alla dittatura. I n Austria vi furono due fasi: la prima h quella d i un'intesa con i socialisti per instaurare una repubblica; la


seconda, quella della lotta contro i socialisti che avevano creato, al municipio di Vienna, un centro antagonistico del governo d i cui mons. Seipel era cancelliere. Questi si comportò bene in un primo periodo, ed avrebbe portato l'Austria ad una eccellente posizione economica e politica, se fosse stata possib/le una collaborazione con i socialisti. I quali tuttavia erano divisi in due tendenze : quella rigidamente marxista, aspirante alla rivoluzione di classe, e quella pragmatica, che avrebbe trovato la via di un accomodamento. Prevalse la prima, aiutata dal fatto che Seipel, nel corso del secondo periodo della sua vita pubblica, si indirizzò verso la reazione e cominciò ad aver fiducia nella repressione e nei metodi di forza. I1 suo scolaro Dollfuss andò oltre; egli si legò a Starhemberg, il quale aveva già organizzato una milizia armata ( d i tipo fascista). Allorchè divenne cancelliere, arrivò ad un accordo con Mussolini; introdusse un sistema autoritario quando gli venne fornita l'occasione dal tentativo di rivolta dei socialisti: la repressione del febbraio 1934 fu una pagina veramente triste negli annali dell'Austria. Molti dei cristiano-sociali erano allarmati per la piega presa dalla loro poIitica; altri, come il dr. Funder, direttore del Reichpost, e il dr. Schmidt, nuovo sindaco di Vienna, la approvavano. Essi, conservatori in politica e sociali in economia (della scuola di Leone XIII) pagarono la loro illusione morendo come martiri nel campo di concentramento di Dachau. Questo triste episodio fra i cristiano-sociali dell'Austria influenzò i cristiano-sociali dellYUngheria,i quali non acconsentirono ai metodi dittatoriali introdotti in Ungheria; il parlamento non fu mai soppresso ed il cardinal Seredi potè spesse volte difendere i diritti dei lavoratori e dei contadini, come pure quelli degli ebrei colpiti dalle leggi razziali. Ma i cristianosociali ungheresi risentivano, come tutti gli ungheresi, della di. minuzione del territorio nazionale a seguito del trattato d i Trianon (1919); cosicchè la loro politica divenne nazionalista invece che internazionalista, conservatrice piuttosto che progressista. La Svizzera è stata sempre un paese equilibrato, e i cattolici, già all'epoca di Leone XIII, sono stati in grado di proseguire il loro cammino senza eccessi e crisi, sia nel campo politico


che sociale. Nel canton Ticino (italiano) essi si sono chiamati democratici cristiani; il loro giornale ha, come titolo, il motto di Savonarola Popolo e libertà; nei cantoni nei quali si parla tedesco, hanno preso il nome di partito conservatore, volendo significare la conservazione della libertà e dell'indipendenza svizzera cantonale. I cattolici hanno contribuito a mantenere l a democrazia svizzera, che è unica in Europa e che ha sperimentato, in quest'ultimo periodo, i l terribile pericolo di avere paesi totalitari ai suoi confini nord e sud. I n Spagna, prima della dittatura di Primo de Rivera, i l ministro Ossorio y Gallardo fondò, con alcuni amici, il partito popolare sociale. I n campo sindacale vi erano i programmi dei sindacati cristiani delle Asturie e quelli dei gruppi, molto meglio organizzati, dei baschi. Con l'avvento della repubblica, il gruppo catalano dei democratici cristiani si affermò con ardore giovanile. I baschi (per la maggioranza cattolici) tentarono di creare il proprio stato con vaste idee socali. Nel frattempo il cattolico Gil Robles fondò il proprio partito sul programma delle encicliche del papa, ma, sfortunatamente, come ministro della guerra diventò uno strumento del militarismo spagnolo e acconsentì ad una violenta repressione della rivolta nelle Asturie. Quando Franco salì al potere, Gil Robles andò in esilio in Portogallo (l). La Francia, fra l e due guerre, attraversò una crisi terribile. Non è mai stato osservato che i l punto deoble della struttura politica francese era lo squilibrio fra il concetto ,democratico della sinistra e il concetto reazionario, anticostituzionale, della destra. Mancava un centro realmente forte, per dare alle due ali, - nel parlamento e nel paese - una stabilità che i due sistemi non sarebbero mai stati in grado di raggiungere da soli. I democratici popolari fondarono il proprio partito nel 1924. A questo si unì i1 gruppo cristiano-sociale di Alsazia e Lorena, venuto dalla tradizione tedesca del centro fin da prima della guerra, allochè quelle due provincie appartenevano alla Germania. Ma i gruppi insieme non amvavano a un totale di qua(l) Sull'atteggiamento della chiesa cattolica romana durante la guerra civile spagnola, vedi di Luigi Sturzo, Chiesa e stato, Bologna, 1958-59,vol. 2.


ranta seggi alla camera, nè erano sempre d'accordo, dati gli interessi divergenti delle province riannesse. La maggioranza cattolica francese era più allineata con la destra, e molti membri del clero francese favorivano l'dction Francaise piuttosto che i democratici popolari. C'era ancora un'altra ala, più a sinistra, quella della democrazia cristiana di Marc Sangnier. Vi erano pure i democratici di Esprit ( u n gruppo intellettuale); i gruppi dell'dube (un'organizzazione politica che fece una campagna molto vivace, antifascista e anti Action Fraqaise); in sostanza, molte ottime iniziative, molta cultura intellettuale e poca coesione politica. I1 Belgio e il Lussemburgo ebbero per moltissimi anni maggioranze e governi cattolici; sono stati di carattere conservatore, ma le ali dei lavoratori e le società operaie cristiane funzionarono come gruppi d i pressione, fino a quando non furono in grado di avere i propri rappresentanti al senato e alla camera, fra i quali, in Belgio, i più conosciuti erano il senatore domenicano Peere Rutten, il deputato e presidente dei ministri, prof. Poullet, il ministro Heyman, capo dei sindacati operai belgi; mons. Origo nel Lussemburgo e il primo ministro Du Ponge. I n Olanda, i l partito si chiamò cattolico per differenziarsi dal partito protestante storico e da quello socialista; anch'esso aveva due ali: una consematrice e una democratico-cristiana. Per almeno mezzo secolo è stato impossibile formare un governo in Olanda senza la partecipazione dei cattolici. I movimenti sindacalisti e cooperativi fra i cattolici sociali sono stati molto sviluppati. Essi hanno evitato la parola democrazia cristiana, sia per mancanza di immaginazione, sia per non turbare l'ala destra e rompere l'unità politica del partito. Le loro idee sociali erano fondate sulle encicliche papali. In Olanda, a Utrecht, vi era la sede della confederazione internazionale dei lavoratori cristiani, la quale, dal 1919 al 1940, ebbe un Aolo importante a Ginevra nel191nternational Labor Office. I1 suo segretario generale, Serrarens (il quale da lavoratore divenne senatore) ne era il principale organizzatore. Essa aveva tre milioni di membri, ma, dopo l'awento di Mussolini, perse i suoi membri -italìani (1.082.694), e, dopo l'awento di


Hitler, anche i suoi membri tedeschi (1.142.956). La confederazione fu disciolta nel 1940 dai nazisti, i quali sequestrarono tutto ciò che trovarono in sede; nulla si sa di ciò che successe ai suoi capi. L'Irlanda non può essere posta fra i paesi nei quali la democrazia cristiana ebbe un seguito. Dopo la formazione dello stato libero, i due partiti, capeggiati da Cosgrave e De Valera, composti in gran parte da cattolici, hanno dato all'Irlanda il carattere di uno stato nazionale cattolico. I problemi prevalenti sono stati nazionali; gli operai sono stati lasciati al gruppo laburista, con un carattere esclusivamente professionale. Questo gruppo si è affiliato alla seconda Internazionale di Amsterdam (socialista) e non ai cristiano-sociali d i Utrecht. In Jugoslavia vi era il partito popolare dei contadini della Slovenia, diretto dal sacerdote cattolico Icorosech, il quale ebbe una posizione politica interessante, non solo nella formazione dello stato serbo-croato-sloveno, o durante il eri odo della dittatura del re Alessandro (che tale.partito avversò, tanto che il sacerdote Korosech fu mandato in esilio), ma anche all'epoca della riconciliazione, allorchè Korosech venne nominato ministro dell'interno. Dal punto di vista sociale quel partito era molto evoluto; politicamente, tuttavia, il suo capo era incerto fra la democrazia e la dittatura. I cattolici croati e sloveni parteciparono largamente alla resistenza contro i nazisti e contro il governo croato d i Pavelic. Ho lasciato la Germania per ultima, sia perchè è la più importante da1 punto di vista cristiano-sociale, sia per via delle conseguenze dell'ultima guerra. I giudizi forniti sulla repubblica di Weimar sono vari. Per quanto mi riguarda, in base alla mia esperienza personale, escludo il giudizio secondo cui i socialisti e i cattolici del centro hanno creato-la repubblica quale schermo per i capi militari che stavano preparando la rivincita del popolo tedesco contro il trattato d i Versailles. Ammetto che, in campo cattolico, vi fosse l'ala destra che non amava nè il nome di repubblica, nè quello d i democrazia. I n molti tedeschi ( ~ r o t e s t a n t ie cattolici) vi era anche il risentimento della disfatta subita e un forte desiderio di modificare ii diktat di Versailles, imposto alla Germania


senza il suo consenso e senza spirito di pacificazione. Ma i cancellieri cattolici come Wirth e Marx (il primo, democratico, il secondo conservatore), più tardi il cancelliere cattolico Briining, e i capi socialisti del Reich e dello stato prussiano, non avevano alcuna idea o desiderio che la Germania si avventurasse ancora in una seconda gueraa mondiale. La prima crisi avvenne nel 1923, con la disastrosa occupazione della Ruhr da parte francese e la susseguente svalutazione del marco. La seconda crisi, fu la depressione economica e la disoccupazione, con almeno cinque milioni di disoccupati, avvenuta nel 1929-1931. Queste crisi crearono un'atmosfera propizia al nazismo. L'esempio offerto da Mussolini (lodato in tutto il mondo dai nazionalisti, capitalisti, conservatori e da tutta la stampa) servì per spingere le stesse classi della destra a favore di Hitler e dei suoi uomini. Alcuni vescovi tedeschi lo compresero e applicarono, in Germania, le misure canoniche adottate da Pio XI contro 17Action Francaise. Altri vescovi si accontentarono di dare ai cattolici prudenti avvertimenti, mentre altri ecclesiastici, senza senso politico, si buttarono nel nazismo (proprio come alcuni fecero in Italia col fascismo), al fine di salvare il mondo dal comunismo. Gli unici che resistettero all'ondata di piena del nazismo furono i socialisti e l'ala democratica cristiana con i sindacati operai cristiani, formati da cattolici e protestanti, con più di quattro milioni d i membri. I1 cancelliere cattolico Briining lottò contro la crisi economica che aveva colpito la Germania; con l'Inghilterra e la Francia, che promettevano ma non davano alcun aiuto (neppure quello di risolvere problemi urgenti, quale quello dei debiti, che più tardi, nel 1932, furono cancellati, e contro la marea montante del nazismo. Allorchè Bruning propose una riforma agraria che colpiva i nobili tedeschi, amici del presidente Hindenburg, fu obbligato a dare le dimissioni. Von Papen continuò a cospirare per il trionfo di Hitler, fino a quando Hitler non fu nominato cancelliere; più tardi, alla morte di Hindenburg, Hitler attribuì a se stesso i due posti, prendendo il nome di Fuhrer, proprio come Mussolini si era autonominato duce. I1 totalitarismo era già stato introdotto in Germania con l'incendio


del Reichstag, preparato dai nazisti e la cui colpa venne attribuita ai comunisti. I1 partito del centro, contro l'opinipne di Briining e di altri capi, si sciolse. Si disse che il Vaticano aveva suggerito questo atto finale, certo contrario alla gloriosa tradizione militante del centro e alla memoria delle sue battaglie e vittorie contro Bismarck, il cancelliere di ferro. Non so se tale voce fosse vera o no. 11 Vaticano fu forse influenzato da mons. Kaas, allora capo del centro, il quale, quando era stato .minacciato personalmente da Hitler, si era rifugiato a Roma; ed anche da Von Papen, il quale apparteneva all'ala destra del centro, ma lo tradì per aiutare il nazismo, come dimostrato dagli eventi fino ad oggi. La resistenza dei cattolici e quella dei socialisti all'avvento di Hitler fu debole, poichè l'opinione pubblica mondiale lo favoriva, ritenendolo l'uomo del destino. I soli che parlavano e scrivevano contro Hitler erano i socialisti, i democratici cristiani, e qualche liberale europeo. Ma le loro voci erano nascoste, i loro giornali non erano letti, i loro libri non riscuotevano favore, i loro ultimi rappresentanti, a Londra e a Parigi, erano trattati come gente nociva, pronti a lamentarsi e predire catastrofi, dato che si trattava di rifugiati politici, d i uomini delusi, insomma di uomini distrutti ( l ) . Verso la fine del 1925 era stato fondato a Parigi il segretariato internazionale dei partiti democratici di ispirazione cristiana, al quale avevano preso parte quasi tutti i gruppi e i partiti parlamentari da me ricordati i n queste pagine. Tale associazione tenne varie assemblee a Parigi, Bruxelles, Bois-le-Duc, Lussemburgo, Colonia, alle quali parteciparono rappresentanti di tutti i paesi. Non mancarono mai di fare le più chiare dichiarazioni contro il pericolo che minacciava la libertà, la democrazia e la pace dell'Europa. L'esempio dellrtalia fascista era davanti agli occhi di tutti, (l) Il lettore può trovare, nei libri di Luigi Sturzo (Italia e fascismo, La comunità internazionale e i2 diritto di guerra, Politica e morale, Chiesa r stato, e Les guerres modenes) il suo punto di vista sulla posizione della chiesa cattolica romana e dei cattolici nelle questioni politiche della prima e seconda guerra mondiale, ivi compresi i problemi molto discussi della guerra abissina e della guerra civile spagnola.


ma il segretario continuava a mantenere l a rappxzsentanza ilaliana, malgrado che i l partito popolare fosse stato sciolto nel novembre 1926, con decreto reale. Chi scrive ed un altro rifugiato politico, F. L. Ferrari ( i l quale morì a Parigi nel 1933), rappresentava l a democrazia cristiana in Italia. Tutti prevedevano lo stesso destino dell'Italia per i nostri amici del centro tedesco e per quelli dell'Austria, poco tempo dopo. Le nostre assemblee rassomigliavano a l grido di Cassandra in tutta 1'Europa. Poco a poco il segretariato divenne sempre meno consistente. La partecipazione dei tedeschi era vietata da Hitler. Gli austriaci, i cecoslovacchi e gli jugoslavi perdettero tutti l a loro libertà. Talvolta era presente qualche rappresentanza polacca, persino durante il governo dei colonnelli, ma la loro presenza non era menzionata dalla stampa, come non lo era quella dei lituani. I delegati del Lussemburgo ondeggiavano. I1 nucleo che fino alla fine rimase fedele al compito di tenere alta la fiaccola della libertà e della democrazia, fu il gruppo franco-belga-olandese, assieme ad un rifugiato occasionale, quale l'autore di queste righe. Arriviamo così al 1939. La riunione dell'assemblea, convocata per il luglio 1939 dal segretariato di Parigi, fu sospesa. Con la guerra, i l segretariato cessò l a sua funzione. La fiaccola fu risollevata ancora una volta a Londra, nel 1940, allorché fu fondata l'unione internazionale democratica! cristiana.

I1 People and Freedom Group fu fondato a Londra nel 1936, da alcuni giovani, d'accordo con l a signora V. Crawford, discepola del cardinal Manning, e con l'autore di questo libro, per far risuonare in Gran Bretagna l a voce della democrazia cristiana e insegnare ai giovani a partecipare alla vita pubblica, nazionale ed internazionale, con una visuale morale e cristiana. I gruppi People a n d Freedom non sono partiti politici, ma nuclei di azione politica (l). (l) Ecco i cinque punti deI programma del People and Freedom Group di Londra: 1) primato della morale nelle relazioni politiche, economiche e


Popolo e libertà è il motto di SavonaroPa; popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l'intera cittadinanza, perchè tutti devono godere della 1ibert.à e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai per l'intero popolo. I motti scelti dal gruppo erano: Magna est veritas et praevalebit, contro la propaganda menzognera dei fascisti; e Fiat justitia, contro il metodo dell'appeasement delle democrazie. Se ricordiamo che il primo gruppo fu fondato nel 1936, proprio quando la guerra civile spagnola aveva creato un'atmosfera di menzogne e ingiustizia da ambo le parti, il significato dei motti sarà meglio compreso. I1 gruppo è formato da cattolici, ma c'è una sezione di amici del gruppo alla quale partecipano democratici cristiani di tutte le denominazioni. I1 gruppo era contro la guerra spagnola e per la conciliazione delle due -parti, al fine di evitare la creazione di una dittatura d i tipo fascista in Spagna. Promosse perciò un comitato formato da rappresentanti di vari partiti politici inglesi « per la pace civile e religiosa in Spagna D. F u tenuto u n convegno a Parigi, presieduto da Wickham Steed, Jacques Maritain e Madariaga. La proposta di conciliazione venne presentata a lord Halifax e G. Bonnet, i ministri degli esteri inglese e francese. Tutto sarebbe andato bene, ma Chamberlain si rifiutò di fare da intermediario presso Mussolini e preferì firmare il patto d e l Mediterraneo con l'Italia, lasciando Mussolini libero in Spagna. Ben nota è anche l'opposizione, da parte d i People a d Freedom, al riconoscimento d e jure della conquista abissina da sociali; 2) moralità che doveva essere fondata sulla tradizione cristiana e sul rispetto della persona umana e dei suoi diritti; 3) necessità della libertà civile e politica, con giusto equilibrio fra libertà e autorità, come pure fra individuo e società, in qualsiasi tipo di stato moderno; 4) unione permanente o cooperazione fra gli stati, su una base. di moralità con formazione progressiva di una legge internazionale; 5) convinzione che la guerra non dovrebbe più essere riconosciuta come mezzo legittimo per comporre le vertenze internazionali, e che dev'essere rimpiazzata con un sistema di arbitrato volontario o forzato, o Gttraverso l e decisioni di una corte internazionale di giustizia, a seconda del caso.


parte dell'Italia. Una dichiarazione venne presentata a lord Halifax, con il quale ci fu uno scambio di interessanti lettere che documentano la sfortunata storia della faccenda. L'interesse del People and Freedom Group di Londra per i fanciulli baschi portati in Inghilterra, e, più tardi, per i rifugiati di guerra d i vari paesi, ha dimostrato l'utilità di tale movimento. I1 gruppo tenne la sua prima assemblea a Londra, a favore della Francia occupata, il 27 giugno 1940. Esso appoggiò De Gaulle sin dal principio, allorché a Londra si era ancora dubbiosi su chi egli rappresentasse. Interessante e significativo è l'uso che il giornale People and Freedom, pubblicato a Londra, sta facendo delle principali figure della democrazia cristiana e del suo sviluppo storico nei vari paesi. Finalmente, nell'agosto 1940, amici del People and Freedom Group decisero d i formare un'Unione internazionale democratica cristiana per prendere il posto del segretario di Parigi. La unione doveva essere più largamente rappresentativa, comprendendo non solo i partiti, ma anche i gruppi politici e i movimenti sociali. L'oggetto dell'unione, come definito con l'articolo 2 della costituzione, era: « Creare legami permanenti di solidarietà fra i movimenti democratici cristiani nelle varie nazioni, attraverso l'associazione sul piano politico, al fine di unire le loro attività nella lotta contro le forze del materialismo e dell'oppressione totalitaria, e per il trionfo della democrazia organica e parlamentare nel governo degli stati e come mezzo per assicurare la pace e la solidarietà fra tutti gli uomini D. Essa tenne la prima assemblea a Londra, nel gennaio 1941, con l'appoggio dei gruppi democratici cristiani di Inghilterra, Francia, Italia, Polonia, Cecoslovacchia, Olanda, Belgio, Catalogna, e delle province basche. Furono, in seguito, tenute molte altre riunioni generali. L'unione era a favore d i una effettiva Lega delle nazioni, con funzioni politiche e giuridiche, con mezzi propri per impedire davvero nuovi ricorsi alle armi. People and Freedom di Londra promosse una inchiesta, basata sul motto « u n a Lega delle nazioni ora », che ricevette un autorevole appoggio. La difesa della Carta atlantica contro qualsiasi manipolazione di Rea1 Politik, è stata sostenuta dalla stampa e in tempestive discussioni.


L'Italia è stato il primo paese in cui la democrazia cristiana sia stata costituita su due basi - politica e lavoro sociale sia nelle zone liberate che in quelle ancora occupate dai tedeschi. Con l a caduta del fascismo, nel luglio 1943, emersero cinque partiti di carattere antifascista: il socialista, il democratico cristiano, i l comunista, il liberale e il partito d'azione. I n molte città si formarono i comitati di liberazione, composti di rappresentanti dei cinque partiti (in alcune provincie sei partiti, con quello di carattere locale), allo scopo di tener testa al nemico, di evitare in ogni modo il risorgere del fascismo e preparare l'assemblea costituente che doveva decidere il futuro regime dellYItalia. I1 partito democratico cristiano fu formato su iniziativa (presa nel maggio 1942) dei vecchi membri del partito popolare. Non ci fu un ritorno al nome precedente, poichè i membri desideravano riprendere l'antica tradizione della democrazia cristiana, per caratterizzare meglio la personalità del partito d i fronte al pubblico, e unirsi nuovamente insieme con tutti gli analoghi movimenti in Europa e altrove. La democrazia cristiana ebbe una capacità di appello sui giovani, più di quanto non facesse i1 nome di popolarismo, poichè essi si svegliavano dal letargo fascista e si stavano orientando verso nuove lotte politiche. I1 popolarismo, come nome, non faceva presa sulle masse, malgrado il successo del partito popolare, perchè la gente preferiva l'antico motto. I n tutti i paesi occupati i democratici cristiani parteciparono ai movimenti di resistenza; spesso essi ne furono i capi principali. I n Francia essi furono i primi ad avversare la politica di Vichy, per resistere sulla base di una teoria morale di conformità politica, e per impedire che i cattolici venissero legati alla sorte del governo Pétain da talune affrettate dichiarazioni ecclesiastiche. Tuttavia ciò non è solo merito dei democratici cristiani, poichè persino un certo numero di cattolici di destra e d i vescovi compresero il pericolo, per l a Francia e per la chiesa, di un governo Vichy assoggettato alla volontà di Berlino e agli intrighi degli uomini più screditati di Francia, quali Laval, Maurras, Déat e Doriot. Più forte e più costante fu la resistenza dei cattolici in Bel-


gio, Olanda, Lussemburgo, Boemia e Polonia. Persino in Germania e in Austria ( a parte l'atteggiamento assunto dai vescovi dal punto d i vista religioso e morale), l'unica resistenza passiva fu dovuta ai socialisti e ai gruppi democratici cristiani. Nell'America Latina, in varie epoche, sono state notate delle tendenze verso l a democrazia cristiana. Nel campo sociale non mancano unioni di lavoratori, o leghe, e cooperative promosse da cattolici. Una delle unioni più note, a Buenos Aires, è promossa e diretta dal vescovo De Andrea. Anche sul terreno politico vi sono l'unione civica dell'uruguay, i l partito popolare dell'argentina, il partito democratico cristiano del Brasile ed il partito popolare cristiano del Cile, tutti ispirati ai principi della democrazia cristiana. L'America del nord non ha avuto alcun movimento di democrazia cristiana come in Europa. Però la gerarchia e l a stampa cattolica hanno favorito le unioni dei lavoratori, specialmente dopo la prima guerra mondiale, ed hanno largamente diffuso le teorie sociali delle encicliche papali (in particolare la Quadragesimo Anno di Pio XI) e i l pensiero della scuola cattolica. La tradizione del cardinal Gibbons non è mai cessata. Uno dei migliori pionieri dell'azione sociale fu mons. John A. Ryan. Durante l a guerra mons. Francis J. Haas (prima di essere nominato vescovo) fu scelto dal presidente Roosevelt come presidente del Fair Employement Practices Committee. La National Catholic Rural Life Conferente è un'istituzione di grande importanza e il suo segretario esecutivo, mons. Luigi Ligutti, viene da una famiglia del Friuli, strettamente legata al movimento democratico cristiano. Le cooperative Antigonish sono ben note nel Canada ed anche in America. La vita politica americana differisce molto da quella europea. Il sottoscritto h a tentato di introdurre gruppi di People and Fredom ( l ) , ma deve riconoscere che la strumentazione delle idee sociali in campo politico è molto difficile, anche se la democrazia cristiana interessa alcuni settori intellettuali e politici. (l) Gli italo-americani di New York e New Jersey hanno fondato una a~sociazionedemocratica cristiana chiamata People and Liberty.


Le prime elezioni generali che ebbero luogo nell'Europa continentale dopo la guerra, hanno rivelato l a maturità della democrazia cristiana in ogni paese. I n pochi mesi i partiti di questa ideologia (sia pure chiamata con nomi diversi in ogni paese) hanno raggiunto una posizione di guida politica, emergendo sui partiti di destra e di sinistra. Prima della guerra i partiti cattolici, con le loro ali democratiche cristiane, condussero spesso i governi ad una coalizione, in Olanda, Belgio e Lussemburgo, ma un partito democratico cristiano ( o cristiano sociale) non fu mai così autonomo e forte in quei paesi come lo è adesso. I n Italia, i l partito popolare era forte abbastanza (prima del fascismo) per guadagnare un quinto dei seggi alla camera bassa; ma i l partito democratico cristiano (erede del partito popolare) h a ora due quinti dei seggi nell'assemblea costituente, ed i l suo capo, Alcide De Gasperi, è i l capo del govemo. I n Francia i democratici cristiani prima della guerra erano compresi in tre piccoli gruppi: i « democratici popolari », con sedici deputati alla camera dei deputati; i popolari » dell'Alsazia e Lorena, con quattordici deputati, e la « giovane repubblica », con quattro deputati. I1 movimento popolare repubblicano h a ora centosessantadue deputati nell'assemblea costituente e, quale partito guida, il suo capo Bidault è il presidente del govemo e dello stato. Anche nei paesi occupati, Austria, Ungheria e Germania, i partiti democratici cristiani ( o partito del popolo) sono i partiti principali in molte elezioni; un piccolo passo indietro è stato osservato soltanto in Cecoslovacchia, e ciò era dovuto all'avanzata del partito comunista. I n Polonia il partito del popolo è animato dagli stessi ideali e dalle stesse aspirazioni della democrazia cristiana d'occidente, anche se il nome d i democrazia cristiana vi fu introdotto da un altro gruppo, il quale, probabilmente, sta ancora lottando per l a propria autonomia. La nuova posizione di responsabilità politica e statale dei partiti democratici cristiani in Europa, durante il prossimo anno d i ricostruzione dimostrerà l a forza, l'utilità e l e possibilità di un movimento creato dal popolo e per il popolo, e di un movimento popolare nella struttura e nei fini realmente democratico e fondamentalmente cristiano.


LO STATO, LE UNIONI E I PARTITI DEI LAVORATORI

LO STATO E I DIRITTI DELLE UNIONI OPERAIE

Nel trattare dei rapporti fra lo stato e i gruppi professionali noi partiamo da un principio fermo, circa il diritto naturale degli uomini a formare società particolari, che Leone XIII applicò autorevolmente alle unioni operaie nella sua celebre enciclica Rerum Novarum. Egli scrisse: « Perchè il diritto d i unirsi i n società l'uomo l'ha da natura: e i diritti naturali lo stato deve tutelarli, non distruggerli D. La dimostrazione che ne diede suonava strana agli orecchi dei contemporanei, - n è mancano oggi sociologi e filosofi che la contraddicono - ma resta salda nella sua logica evidenza. « Vietando tali associazioni esso [lo stato] contraddirebbe a sè stesso, perchè l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell'uomo D. È così: la stessa sorgente naturale hanno tanto lo stato quanto i gruppi professionali (come ogni altra società a fini onesti e utili): la natura stessa dell'uomo che è socievole e che esige, per realizzarsi, l'aiuto reciproco degli individui uniti insieme. È strano che dopo 'quasi mezzo secolo ancora un papa, Pio XII, debba ripetere un tale insegnamento così evidente e spesso così misconosciuto e violato. Egli scrisse nella Lettera alla chiesa degli Stati ,Uniti (il lonovembre 1939): « poichè l'uomo è naturalmente sociale (congregabilis), non è senza ingiustizia che lavoratori non meno che impiegati vedano negata o ristretta la loro libertà di associazione D.

8 . STURZO - Naziomlismo e Internazionalismo


Noi oggi diciamo che tale diritto deriva dalla personalità umana, ed è questa che si realizza in società. La personalità umana messa a base di ogni diritto ci porta alla sua vera radice che è la ragione umana, la quale si sviluppa i n intendere, volere e operare, ed esige per se stessa l'attività complessa e organica della vita sociale. La tesi di Leone XIII, che è, quella della migliore tradizione cristiana, fu affermata con forza contro le due teorie prevalenti mezzo secolo fa: a) che lo stato fosse la sorgente d i tutti i diritti e b) che lo stato non doveva permettere le associazioni d i lavoro perchè contrarie alla libertà economica e all'iniziativa dei singoli cittadini. I due errori non erano nuovi; essi derivavano dalla falsa concezione che lo stato s'identificasse con la società umana nel suo complesso di volontà e d'interessi. Sembra strano, ma andando a l fondo, tanto l'individualismo democratico liberale quanto il panteismo totalitario (bolscevico, nazista o fascista) hanno questo padre comune, l'identificazione dello stato con la . società umana. 11 pensiero cattolico ne è stato immune in tutto il lungo periodo di quasi due secoli, non ostante che l'infezione dello « statalismo » abbia toccato certe zone d i studiosi e di politici: l'atmosfera storica influisce molto non ostante i venti chiarificatori che, prima d i tanto in tanto e ora più spesso, partono dal Vaticano. La teoria del diritto naturale ha preservato parte dei pensatori (anche non cattolici) dal cadere nell'individualismo o nel panteismo di stato. Ma la sperimentazione politica h a seguito le correnti prevalenti del pensiero (che non sono state quelle del cristianesimo) e il processo storico ne è stato enormemente influenzato. P e r fortuna, la pratica della vita sociale non è costretta dentro il cerchio logico delle idee; le oscillazioni fra i due estremi danno spesso una risultante storica assai diversa dalle premesse teoriche. Ond'è avvenuto che, pur concepito 10 stato teoricamente identico alla società, nel fatto non lo è stato mai, perchè le forze d i opposizione allo stato, che si sono sprigionate durante


questo periodo, si sono estese al di là dei limiti dello stato stesso, sia in estensione che in profondità. A parte le forze morali e religiose, che hanno avuto una funzione antagonista, non allo stato come potere civile, ma al contenuto etico dello stato moderno, le forze che più han lottato contro lo stato detto «borghese » sono state quelle economicosociali delle masse operaie. Queste, siano esse state agitate dal socialismo o dal comunismo, ovvero portate all'anarchismo disintegratore d i ogni società o al sindacalismo anti-statale, o infine siano esse state guidate da capi democratici cristiani a reclamare i loro giusti diritti, han tutte fissato una posizione di lotta allo stato. Ciò significa che una dualità si è creata i n seno alla società umana e che lo stato non poteva più essere preso e anche di oggi) per (come pretendevano certi teorici di ieri la totalità sociale. Questo fatto, nella sua realtà còncreta, ci dà la via per intendere meglio dove stava l'equivoco della concezione di stato che ha tormentato la società moderna. Lo stato rappresenta il momento politico della società, ma non è la società; ha in mano i l potere pubblico, ma non è tutto il potere sociale; tratta interessi economici, ma non tutta l'e conomia; formula leggi, ma non le crea; ha affidata la difesa del paese, ma non è solo a difenderlo. Lo stato va riguardato come l'organismo politico-giuridico della società, non mai come la società stessa. Se tale organismo fosse perfetto, nessuno dei fattori sociali potrebbe evadere gli effetti della organicità e funzionalità dello stato. Ma poichè nessuna cosa al mondo è perfetta e tutto è perfettibile, così lo stato non è mai efficiente al completo, e come ogni altra attività sociale si sviluppa storicamente secondo i l dinamismo delle varie forze operanti nella società. Fra queste, fondamentale è per gli individui e per i gruppi sociali l'accaparramento della ricchezza e del potere; o l'uno genera l'altro o l'uno influisce sull'altro, o l'uno limita l'altro, secondo i casi. Ma è fuori discussione che tanto la ricerca del potere che della ricchezza agitano la società intera e influiscono sulle direttive di governo di qualsiasi paese, non importa quale sia la struttura di ogni singolo stato.

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Ricchezza e potere sono spesso (per non dire sempre) riuniti nella stessa classe o nelle classi affini che i sociologi chiamano con vari nomi: classi di governo o classi i oli ti che o élites dirigenti. Sicchè le classi medie e le lavoratrici sono, per quanto è possibile, o escluse dal potere (regimi non democratici) ovvero nominalmente incluse ma di fatto allontanate (regimi d i democrazia individualista e capitalista). Allo stesso tempo esse sono state ostacolate, e ad ogni passo, sia dall'azione dello stato, sia dalla competizione economica, nel loro sforzo di giungere ad una giusta partecipazione alle ricchezze i n proporzione alla loro potenzialità ed efficienza. Lo stato, pertanto, che dovrebbe essere la suprema espressione politica d i tutte l e classi, è tenuto spesso da famiglie potenti, da classi aristocratiche, da imprese capitalistiche, da borghesie procaccianti, divenendo perfino un loro monopolio. Quelle teorie che aiutano a mantenere il privilegio, saranno per loro l e benvenute. Ai tempi in cui Luigi XIV poteva dire: lo stato sono io, si celebrava dai regalisti il diritto divino dei re. Napoleone e i napoleonidi ora si appoggiavano a i diritti dell'uomo e ora ai diritti della vittoria; la borghesia francese della restaurazione fece proprio i l principio di libertà per negare agli operai il diritto d i organizzarsi, mentre essa stessa si organizzava capitalisticamente, premendo sui governi per .tariffe protettive, prem i e. privilegi ( l ) . Pertanto, finchè, in un qualsiasi regime, l e classi operaie non (1) Pio X I nella Quadragesimo Anno ha una pagina e5cacissima sull'accumulo del capitale in poche mani in regime di libera concorrenza, creando un potere incontrollato: vale la pena riportare alcuni tratti: u E in primo u luogo quello che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi ha solo u concentrazione della ricchezza, ma l'accumularsi altresì di una potenza a enorme, d i cui una dispotica padronanza dell'economia in mano di pochi, c e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori a del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. u Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo a in pugno il danaro, agiscono da padroni, dominano il credito e padroc neggiano i prestiti; onde sono in qualche modo i distributori del sangue a stesso, di cui vive l'organismo economico e hanno in mano per così dire, a l'anima dell'economia; sicchè nessuno, contro :a loro volontà, potrebbeu nemmeno respirare.


hanno nessuna voce, diretta o indiretta, non avranno altra scelta che o l'oppressione economica o l'agitazione rivoluzionaria. Da ques'to dilemma non si esce, storicamente, che per via dell'organizzazione politica a scopo economico o dell'organizzazione economica con carattere politico. È stato questo il fatto più saliente nel secolo passato, ed aveva toccato uno stato acuto quando Leone XIII intervenne con la sua enciclica. L'organizzazione economica d i u n paese non è un fatto isolabile. Essa ha piena rispondenza col sistema politico. I due fattori sociali - l'economico e il politico - si corrispondono e si dominano a vicenda. È un errore, che costa molto, quello di credere che si possa trattare l'uno prescindendo dall'altro. I n questo errore sono caduti certi teorici della scuola cristianosociale, i cosiddetti organizzatori a puri » dei gruppi professionali, come cosa creata ((fuori del tempo e dello spazio », per lasciare da parte la politica. Nell'epoca comunalistica del medioevo le gilde d'arte e mestiere non solo avevano propria personalità d i corpo (corporazione), ma partecipavano con loro rappresentanti al governo dei comuni liberi o dei comuni-stato o delle municipalità soggette al signore feudale. Quando le monarchie dell'ancien régime ridussero le gilde a corpi chiusi privilegiati senza più interferenza politica, l e sterilizzarono ed anchilosarono. Infatti, l'economia pubblica e privata si sviluppò senza d i esse e quindi contro di esse. I1 mern Una tale concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota spe« cifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrea nata libertà di concorrenza che lascia soprawivere solo i più forti, cioè, n spesso, i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza. <t A sua volta poi la concentrazione stessa di ricchezze e di potenza genera tre specie di lotta per il predominio: dapprima si combatte per la C prevalenza economica, di poi si contrasta accanitamente per il predominio C sul potere politico, per valersi delle sue forze, della sua influenza nelle cc competizioni economiche; infine si lotta fra gli stessi stati, e perchè le n nazioni adoperano l e loro forze e la potenza politica a promuovere i C vantaggi economici dei proprii cittadini, e perchè applicano il potere e C l e forze economiche a troncare l e questioni politiche sorte fra le nazioni n. Su questo problema, vedi Luigi Sturzo, Politics and morality, Bums, Oates and Washboume, Londra, 1938, cap. I: n Possession and Power a. C


cantilismo, fase necessaria della trasformazione economica moderna, prese il posto del sistema corporativo. I1 perchè è chiaro: mentre la vita politica, seguendo il suo impulso, si allargava, la superando le barriere di classe, e dava posto al terzo stato borghesia del capitale, del traffico e della media proprietà l'economia non poteva più essere intralciata da dogane e pedaggi ad ogni città o castello, da privilegi di gilde e delle loro famiglie escludendo la iolla operaia che voleva lavoro, da diritti feudali delle aristocrazie terriere, dalle enormi manomorte regie, demaniali ed ecclesiastiche. L'economia doveva anch'essa allargarsi, e quel che vi si opponeva doveva cedere: era la legge del processo storico. F u accusata la gilda di quel ch'essa non era stata nel suo grande passato, un corpo senza vita e un intralcio alla vita; ma l'accusa era vera per ciò a cui essa era stata ridotta. Le monarchie del secolo XVIII, invece di rifare la gilda di arte e mestiere secondo i bisogni dell'economia e lo svolgersi della vita politica, la privarono del loro appoggio: essa cadde come un corpo già morto. Ma cadde poco appresso lo stato paternalista ed assoluto dell'ancien régime nell'Europa continentale, anch'essa come corpo già morto, perchè alla spinta verso 17evoluzione economica non aveva corrisposto con i provvedimenti necessari per liberare la proprietà dei vincoli feudali, del dominio del maggiorasco e della manomorta. Così il distacco dell'economia dalla politica ( e viceversa) produsse una delle più grandi crisi della storia, crisi che si protrasse, sotto altri aspetti, nel secolo XIX, per il disconoscimento della legge di solidarietà fra economia e politica, sia dentro uno stato, sia nei rapporti interstatali. Di questa seconda crisi è chiamato responsabile il liberalismo economico; ma questo deve dirsi effetto e non causa. La causa vera è da trovarsi nello squilibrio fra la trasformazione economica e la concezione politica. Mentre i mercati internazionali e intercontinentali erano allargati, i contatti resi più facili e più frequenti, la produeiane aumentata, l'offerta più abbondante, la circolazione più intensa, la struttura politica veniva monopolizzata da una classe, l a borghesia. A1 regime aristocratico-feudale-terriero succedeva quello borghese-mercantile-industriale. Il primo si reggeva sui pri-

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vilegi, e faceva partecipare al sistema privilegiato i vari nuclei sociali concepiti gerarchicamente. I1 secondo voleva la libertà ( m a la libertà per sè) per poter produrre, commerciare, guadagnare. Così nacque il liberalismo politico dal liberalismo economico, i quali, insieme variamente dosati, formarono il complesso sociale del secolo scorso. Non così, però, che tutto il passato fosse estinto: in paesi come l'Inghilterra, la Germania, la Scandinavia, l'Austria-Ungheria, la Svizzera (la Russia qui è fuori conto) rimase parecchio dell'antico regime; mentre quasi nulla rimase in Francia, in Italia, nel Belgio e nell'olanda. Nella Spagna, ridotta povera per la perdita delle colonie e per l e guerre civili, rimasero del passato i sentimenti e risentimenti sociali, che furono (e sono tuttora) assai forti. Quando statisti, sociologi, economisti o uomini di chiesa, nel secolo passato, si lagnavano delle malefatte del liberalismo che sacrificava a l principio di libertà il benessere delle classi lavoratrici, le quali allora erano terribilmente sfruttate, vedevano bene l'effetto, ma non tutti ne vedevano le cause (che poi Leone XIII analizzò sì chiaramente. dal lato morale); fra l e quali il distacco dell'economia dalla politica era la prima. La classe borghese, come classe politica dominante, si serviva delle teode liberali per applicarle a proprio vantaggio, creando non lo <r stato liberale » (che non è mai esistito), ma propriamente lo « stato borghese D. La libertà era per essa una strada a senso unico, cioè quando la libertà riusciva a proprio vantaggio ; quando invece era da applicarsi a favore delle altre classi, ( i n certi paesi anche della chiesa) allora la libertà era negata con la celebre frase : Lo stato deve difendersi ! Non è da meravigliarsi che si sia diffusa così rapidamente la mitizzazione d i Karl Marx della u borghesia e del proletariato » come due forze in lotta, e la teoria del « materialismo storico n come spiegazione del dinamismo sociale. Quel che era una fase transitoria, causata dalla trasformazione industriale, divenne per Karl Marx e. i marxisti lo schema fondamentale della società. I1 mezzo per superare l e divisioni di classe fu per lui la lotta di classe, verso un regime comunistico dove non ci fossero più classi. Lo stato borghese-capitalistico e lo stato proletario-comunista


divennero per molti i due estremi antagonisti, che si disputavano l a vittoria nel campo sociale. Lo statuto legale' delle unioni operaie Queste due concezioni non erano la realtà, ma l'esagerazione teorica e polemica di una realtà che andava maturando verso una crisi risolutiva. A tale maturazione non era rimasto estraneo l'elemento cattolico. Lo nota Pio X I nella Quadragesimo Anno dove scrive:

« I n verità l'enciclica Rerum Novarum, mentre vacillavano « le massime del liberalismo che da lungo tempo intralciavano « l'opera efficace dei governanti, mosse i popoli stessi a promuo« vere con più sincerità e più impegno la politica sociale, e « indusse i migliori tra i cattolici a prestar i n questo il loro « utile concorso a i poteri dello stato: sicchè spesso si dimo« strar-ono nelle camere legislative sostenitori illustri di questa « nuova politica: anzi le stesse leggi sociali moderne furono non « di rado proposte ai voti dei rappresentanti della nazione e la « loro esecuzione fu richiesta e caldeggiata da ministri della « chiesa, imbevuti degli insegnamenti leoniani D. L'introduzione delle leggi dette « sociali » a favore del lavoro, con le quali gli stati europei e americani, abbandonando l'economia « liberalista » accettavano parzialmente la tesi intervenzionista, non fu dovuta, come si potrebbe credere,. a motivi economici; fu invece un fatto politico di una grande importanza. La formazione dei partiti operai i n Europa a fianco delle trade unions, dei sindacati e leghe operaie ( p u r sotto diverse bandiere, la socialista, la sindacalista, la comunista e da ultimo la democratica cristiana) fu u n fatto importante; gli operai cominciavano a far parte della vita politica in regime costituzionale e a premere, non più come rivoluzionari e anarchici, ma sul terreno politico e legale dello stato. Gli stessi partiti u borghesi rividero la loro situazione e l e loro teorie; i conservatori stessi, O per interesse elettorale o per snobismo, si posero a favorire la classe operaia: non mancarono uomini disinteressati, umanitari e cristiani, che ebbero orrore delle condizioni operaie d i quel tempo e cercarono d i rimediarvi. Ciò non ostante, i gruppi pro-


fessionali operai, quali ne fosse il nome e il colore, erano malvisti e solo tollerati. Si volevano le leggi sociali, ma concesse dallo stato (la borghesia), non rivendicate dalle associazioni proletarie. Restavano perciò in vigore le leggi ingiuste, contro le quali aveva levata la voce Leone XIII. Le unioni operaie venivano considerate come. società « d i fati0 » e non « di diritto », soggette alle leggi di polizia e senza diritti civili ed economici. Man mano ebbero uno status legale, con il quale venivano regolati certi diritti e doveri degli associati e dei dirigenti. L'elaborazione d i questo status è stata lunga, incerta, non uguale in tutti gli stati, finchè con la fine della prima guerra mondiale e l'istituzione dell'ufficio internazionale del lavoro si arrivò ad un riconoscimento di carattere internazionale. Altro passo notevole fu quello di dare validità giuridica ai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle unioni. Non è nostro compito fare la storia, paese per paese, di questo processo storico d i quasi tre quarti d i secolo. Qui ci basta notare che l'appoggio della chiesa e il concorso dei cattolici ha avuto un'importanza notevole nel togliere al movimento operaio il carattere antisociale e anarchico d i un tempo, a temperare il rivoluzionarismo marxista, a incanalare parte delle masse operaie nel tradunionismo cristiano, a dissipare i pregiudizi di classe e le convinzioni che la lotta d i classe fosse una vera necessità sociale. Così le teorie del liberalismo economico e dell'invidualismo politico, che servirono alla borghesia per sfruttare a proprio vantaggio il meccanismo della grande industria, vennero ferite a morte col proclamare l'intervento dello stato in materia sociale; allo stesso tempo venne ferito a morte « lo stato borghese D: le masse operaie fecero la loro prima comparsa nei parlamenti e nelle diete pubbliche, inviando rappresentanti e deputati in proprio nome.

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PROBLEMI DELLE UNIONI

Nel periodo tra la fine del secolo scorso e l'attuale (che noi possiamo approssimativamente fissare tra la Rencm Novarum


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e l a Quadragesimo Anno) tre problemi erano agitati e discussi circa i rapporti fra stato e gruppi professionali. Uno a) giuridico-politico: quale la natura, il carattere, l'estensione di tali gruppi; un secondo b) economico: come conciliare l'iniziativa libera con l'intervento dei gruppi e dello stato nell'economia; u n terzo C ) tecnico: come organizzare tali gruppi per ciascuna nazione e nei rapporti internazionali. I pionieri cattolici e lo stesso Leone XIII ebbero gran pena a farsi intendere sia dalle classi borghesi che dalle operaie; venivano accusati d i volere ripristinare il passato con gilde e corporazioni di arte e mestiere, senza tener conto dell'evoluzione dell'industria e della formazione delle grandi masse proletarie. Le masse organizzate politicamente in partiti forti a tendenza socialista (certi anche sulla base del credo marxista) formavano una forza internazionale, e non volevano perdere la loro autonomia, accedendo a gilde locali e a corporazioni miste. Essi avevano in mano l'arma degli scioperi generali e delle dimostrazioni di massa (ricordiamo che cosa era allora in Europa il lo maggio: la borghesia ne tremava); e il loro era un ideale rivoluzionario. Due scuole si erano sviluppate allora in seno all'organizzazione operaia: quella socialista che usava del sistema elettorale e parlamentare dei regimi costituzionali per arrivare a l potere e attuare il cosiddetto socialismo di stato; quella cristiano-sociale, che esigeva la riforma statale, con unioni o gruppi professionali legalmente riconosciuti come organi autonomi di classe con funzione intermediaria fra l'economia pubblica e la privata. I socialisti furono per lungo tempo contrari a l riconoscimento legale delle unioni, perchè non volevano ch'esse fossero sottoposte ad una disciplina giuridica che ne fissasse la responsabilità morale ed economica, e fossero cosÏ sottratte all'influenza rivoluzionaria dei partiti politici. Dall'altra parte, i cristiano-sociali (o democratici cristiani) ne volevano il riconoscimento e lo stato giuridico, per una evoluzione graduale e pacifica dell'economia liberale verso quella che essi chiamavano a economia organica D. I fatti sono sempre piÚ forti delle teorie. I socialisti e i laburisti d'Europa che mano mano andavano organizzando unioni,


cooperative operaie, società di mutualità, impegnandovi denaro e lavoro, creando nuovi mezzi di benessere come case operaie, casse di credito, botteghe di vendita, intendendosi a questo scopo con banche, con municipi e con lo stato stesso, per finanziamenti e altri favori legali e fiscali, cominciarono anch'essi ad avere i l sentimento di responsabilità dell'impresa, il senso del guadacapitalista, lo spirito di conservàzione piccolo-borghese e gno perfino il formalismo burocratico. Bastava andare a vedere quel che i socialisti avevano fatto in Germania, in Austria, in Olanda, nel Belgio, nei paesi scandinavi, nell'Italia e altrove, per rendersi conto di quali e quanti interessi economici delle classi operaie si erano accumulati in loro mano. Molti socialisti continuavano a fare i rivoluzionari nei comizi e sui giornali, ma si guardavano bene dal farlo presso gli organi della pubblica amministrazione, dove cercavano di penetrare in tutti i modi, traendone molti vantaggi ed esigendo per loro un diritto privilegiato e quasi unico di rappresentare la classe operaia e i suoi interessi. Come più aumentavano gli interessi pratici delle organizzazioni operaie ( e i cristiano-sociali avevano anch'essi in Europa una fitta rete di società, cooperative, mutue e leghe), così diminuiva il metodo rivoluzionario e veniva ad attenuarsi l a fede nella lotta d i classe. E mentre pur era forte l'ala sinistra dei comunisti o dei sindacalisti, il grosso delle forze operaie andava divenendo come s i dice « possibilista o riformista D. La rivoluzione era nel credo » ma non nella « pratica D. Finalmente, col dopoguerra, fu istituito l'ufficio internazionale del lavoro (I.L.O.), presso la Società delle nazioni, con carattere autonomo. Fra i tanti vantaggi ch'esso recò alla causa operaia e all'ordine sociale, c'è da mettere in primo luogo il fatto della legalizzazione della rappresentanza operaia di ogni paese, insieme a quella dei datori di lavoro, e la loro messa in contatto con l'intervento d i un terzo rappresentante, quello dello stato. Avremmo da criticare i l modo come fu fissata la rappresentanza operaia, ma qui a noi interessa i l principio etico e giuridico della rappresentanza operaia, in unica assemblea insieme a quella dei padroni. I n questi ventidue anni di esistenza dell'I.L.O. più volte i rappresentanti degli stati si sono u n i 6 a

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quelli dei padroni, mettendo in minoranza gli operai. Bisogna convenire che in certi casi il loro atteggiamento era prudente; altre volte però dava l'impressione di una difesa di classe, alla quale accedevano gli stati per solidarietà con il capitalismo e per diffidenza verso il laburismo.' Ma a parte il fatto che nessun organismo sociale evade o supera sempre gli interessi personali, (la perfezione non è di questo mondo), in via generale 1'I.L.O. h a avuto una funzione informativa, educativa, tecnica e sociale di prim'ordine. Sia per rimbalzo d i quel che doveva organizzarsi a Ginevra, sia per iniziative precedenti o per ulteriori svolgimenti, certo si è che in ogni stato le unioni operaie ebbero un riconoscimento per legge con più o meno diritti, secondo i paesi. Nello stesso tempo gli industriali e gli agrari riordinarono le loro associazioni e legalizzarono le loro rappresentanze. Fra il periodo in cui gli operai non avevano il diritto di associarsi insieme e quello fissato con l'I.L.O., il passo può dirsi gigantesco, benchè, come vedremo, non era e non è ancora completo. Unificazione dei movimenti operai

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I1 problema presentatosi in molti paesi prima e dopo la creazione dell'I.L.0. (e non ancora risolto) è quello detto del15unità operaia. Nei paesi liberi non tutti gli operai sono iscritti alle unioni, le unioni sono volontarie e possono esservi varie unioni o per colore politico o per indirizzo tecnico o per raggruppamento d i professioni affini. Ginevra risolvette il problema ammettendo come primo delegato operaio quello che rappresentasse il maggior numero d i iscritti, e costui aveva diritto al voto; e gli altri come esperti tecnici senza voto. Nel fatto, i delegati socialisti avevano la quasi totalità dei voti, mentre i sindacati cristiani o indipendenti avevano solo una lieve minoranza (Olanda, Irlanda, qualche volta Cecoslovacchia e Polonia). I n molti paesi, nelle commissioni O nei consigli statali dove erano ammesse rappresentanze operaie, si usava lo stesso criterio: così in Francia, in Italia (prima del fascismo) e altrove in Europa, e ne avevano vantaggio quasi sempre le unioni socialiste.


Questo fatto destò il risentimento degli operai af33iati alle unioni democratiche cristiane, le quali dopo la guerra promossero la loro confederazione internazionale che ha avuto sede ad Utrecht e che nei migliori tempi ebbe l'adesione di ben tre milioni d i lavoratori cristiani. Ne avrebbe potuto avere di più se la Germania, che aveva un'organizzazione d i ben oltre t r e milioni d i lavoratori cristiani, avesse aderito con tutte le varie branche, mentre nel fatto a Utrecht e a Ginevra erano rappresentati solo 1.142.956 tedeschi. E così altri paesi (la Jugoslavia per esempio che aveva nel 1928 ben 200 mila contadini organizzati e la Francia nel 1938 ben 450 mila) (l). I1 fascismo al potere in Italia, avendo organizzato i sindacati propri e soppresso tutti gli altri, sostenne, a Ginevra, la legittimità della propria rappresentanza operaia benchè non più libera ma fissata dallo stato. I rappresentanti operai votarono contro, ma i rappresentanti padronali e statali furono a favore della tesi fascista. Questo fatto fece portare l'attenzione sui limiti dell'intervento statale nella formazione dei gruppi profes(l) Per conoscenza di molti che ignorano l'importanza della confederazione di Utrecht (recentemente disciolta dai nazi che occupano l'Olanda) diamo qui i dati del 1922, che fu l'anno i n cui il fascismo iniziò il movimento totalitario, che ebbe tra l'altro l'effetto di eliminare dall' Italia tutte le unioni libere, comprese le cattoliche.

Paesi

Numero di aderenti

- Austria - Belgio - Cecoslovacchia - Francia - Germania - Italia - Jugoslavia - Lussemburgo - Olanda - Spagna - Svizzera Ungheria

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L'organizzazione del lavoro d'Irlanda non aderì mai alla confederazione cristiana; i laburisti d'Inghilterra (fra cui i cattolici) erano invece aderenti alla internazionale socialista di Amsterdam.


sionali e la loro capacità rappresentativa nel campo politico. I1 totalitarismo statale doveva portare nel campo del lavoro quella stessa rivoluzione di principi e di pratica che portava negli altri campi della politica, dell'economia e della morale. Non poteva lasciare agli operai nè libertà nè iniziativa, quando l'aveva negata a tutti gli .altri organismi della vita sociale. Su questo punto torneremo in seguito: qui ci occorre dire che i l problema dell'unità operaia non veniva, certo, risolto con una legge che obbligava tutti a pagare i l contributo alle unioni privilegiate dallo stato. I socialisti dell'Europa continentale avevano sempre e dappertutto preteso a l monopolio di fatto; i fascisti italiani fissavano per legge u n monopolio di diritto. Nei paesi anglosassoni la situazione è diversa. In Inghilterra le Trade unions sono di fatto l'unica organizzazione operaia, che ha in sè la morale rappresentanza di tutti gli interessi operai, e che è aderente a l Labour Party, come a proprio partito. 11 gruppettino dei quattro dell'hdependent Labour Party e quell'un comunista della camera dei comuni non hanno reale seguito nelle masse (almeno fino a prima della guerra). Ma in Inghilterra il tradunionismo non è stato marxista; è stato sempre tollerante e rispettoso in materia religiosa, sicchè anche gli operai cattolici vi hanno parte ed occupano posti direttivi ( l ) . Cosa insognabile in Germania e in Italia prima della dittatura, come pure in Francia e in altri paesi europei, dove le unioni socialiste erano non solo marxiste, ma antireligiose in morale e anticlericali in politica. Negli Stati Uniti d'America la prima importante associazione operaia fu quella dei Knights of Labor, fondata nel 1869 a Filadelfia con carattere di associazione segreta e misticizzante, che diede luogo a note controversie e fu salvata dalla condanna d i Roma (domandata dalla gerarchia del Canada) per l'opportuno intervento del card. Gibbons presso Leone XIII. Ma i (l) Gli operai cattolici d'Inghilterra hanno una propria associazione di carattere culturale: The Catholic Social Guild, e il proprio foglio: The Catholic Worker. Questo giornale non è l'organo delia suddetta Guild, ma' derivava da The (Amencan) Catholic Worker, fondato a New York nel maggio 1933. The Catholic Sociai Guild publlicava un bollettino mensile, cioè The Christian Democrat.


Knights of Labor andarono declinando, mentre sorse nel 1881 a Pittsburg 1'American Federation of Labor. Però si sviluppavano più le unioni professionali che quelle della grande industria, dove l'impresa era gelosa dei suoi « assoluti » diritti, e dove la frequente pubblicazione di liste nere », insieme con gli abusi dei blacklegs, erano all'ordine del giorno. Bisogna arrivare ai primi del presente secolo e poi durante la grande guerra, per trovare il movimento unionista nella grande industria già imponente per numero e per simpatie, con il quale l'amministrazione fu obbligata a intendersi per intensificare l a produzione di guerra. I n seguito venne la divisione: il Congress of Industria1 Organization assurse anch'esso a grande importanza e divenne antagonista del1'A.F. of L. Le intese interunioniste sono difficili, quando oltre e fuori degli interessi professionali, vi sono interessi personali. Tanto più che l'opposizione dell'industria era sempre viva e tendeva a smorzare i l movimento unionista, che andava guadagnando favore presso il governo federale, e dopo la Quadragesimo Anno aveva guadagnato g r a n parte dell'opinione cattolica. I vescovi americani fin dal 1919 riaffermarono il diritto operaio d i organizzarsi, insistendo che « c'è da augurarsi che tale diritto non venga più rimesso in discussione da alcun considerevole numero di lavoratori 1). Ciò fu ripetuto da loro anche nel 1933, e l'anno appresso il segretario della conferenza indirizzò una lettera al presidente del Committee on Education and Labor, al senato degli Stati Uniti, a sostegno del National Labor Relations Bill, dicendo fra le altre cose: « Da un punto di vista pratico, l a libera scelta di rappresentanti da parte dei lavoratori dev'essere salvaguardata al fine di assicurare eguaglianza di potere contrattuale nella bilancia dei contratti. Ogni interferenza con questa scelta è una sleale pratica di lavoro, ingiusta sia verso i l lavoratore che verso il resto della comunità ». La maggiore opposizione alle unioni è sempre venuta dai datori di lavoro, sia con la discriminazione che con lo spionaggio o i l ,« yellow dog contract » e peggio col mantenere l e cosidette « company towns », che mettevano l'operaio alla mercè delle imprese proprietarie delle case, botteghe, sale pubbliche e ogni


mezzo di abitazione. Tale opposizione è stata esercitata sull'opinione pubblica anche da una certa parte della grande stampa. Perciò, durante la guerra, non ostante i prolungati sforzi d i organizzare i lavoratori, le unioni raccolgono appena il 20% della classe operaia americana. Lo status delle unioni fu fissato nel 1935 con il Wagner Act, che assicurava alle unioni il diritto di organizzazione e d i contrattazione del lavoro, vietando ogni azione in contrario. È questa una legge d i difesa del diritto operaio di organizzazione più che un vero stato giuridico. Dall'altro lato, in America, non avendo la classe operaia un potente Labor Party come i n Inghilterra, e come erano nell'Europa continentale prima della guerra ( o prima dei regimi dittatoriali) i partiti operai socialisti o democratici-cristiani, -la lotta per la tutela del lavoro più che nei parlamenti si fa nelle officine, donde i numerosi scioperi, che han turbato l'economia americana, per I'acquisizione di diritti elementari nel campo associativo. L'attuale situazione operaia è solo una parziale acquisizione di quel che dovrà essere in rapporto alla concezione organica dello stato ( l ) . (l) Gli operai cattolici americani partecipano alle unioni neutrali. Essi hanno come propria associazione The ACTU (Association of Christian Trade Unionists) fondata nel 1938 allo scopo di incrementare nel movimento americano del lavoro un tradunionismo basato su principi cristiani, sia portando ai lavoratori cattolici in particolare e a tutti i lavoratori in generale una conoscenza di questi principi, e sia formando capi e un'organizzazione per tradurre in pratica tali principi n. L'attuale sviluppo dell'ACTU il cui ramo newyorkese pubblica un giornale intitolato The Labor L e d e r , è molto promettente e l'interessamento della N.C.W.C. ( ~ a t i o n a lCatholic Welfare Conference) alle questioni sociali è attivo e ben apprezzato in tutti i campi per il suo equilibrio e la sua praticità. I1 fatto, però, che molti operai sono assenteisti e non cercano la unione, spinge i capi delle federazioni ad accentuare il loro monopolio di fatto ed a volerlo imporre nelle fabbriche. Dall'altro lato il closed shop è in molti casi l'unica difesa operaia dall'ostilità padronale. La questione del closed shop è una gravissima diflìcoltà, dal punto di vista sia morale che sociale e politico. Non è questa la sede per trattarne. 11 rev. Jerome L. Toner, O.S.B., M A . , ha scritto uno studio sull'argomento, intitolato u The closed shop in the American Labor Movement », pubblicato da The American Comcil on Public AfTzirs, Wzshington, nel 1942, e i n precedenza (nel 1941) da The Catholic University of American


Aspetti tecnici T1 problema tecnico non poteva essere risolto a priori, data la comp1essit.à dell'industria moderna, la sua estensione nazionale, le ripercussioni e interferenze internazionali e il contenuto politico delle stesse organizzazioni operaie. La migliore via era la sperimentazione. Ma fino a che le unioni non hanno avuto uno stato legale, esse si agitavano ai margini della legge e ai margini della vita politica, subendo disfatte o infliggendo alla societ,à agitazioni e perdite anche considerevoli; finchè avuto uno stato di fatto, e in attesa di uno stato di diritto, se ne discusse il carattere e la funzione. Primo punto : l a rappresentanza della classe. Finchè l'unione è libera e non raccoglie la maggioranza operaia, può riconoscersi per legge quale legittima rappresentante? Le unioni hanno vinto qua e l à tanto la resistenza dell'impresa quanto quella dello stato (parlamenti e tribunali), ottenendo, in via d i fatto o in dati casi, la rappresentanza totale. Ma anche oggi le contestazioni non mancano. Secondo punto: i contratti collettivi. Se le unioni rappresentano la classe, possono non solo trattare ma stipulare validamente i contratti d i lavoro con l e imprese e averli riconosciuti per validi, per tutti gli operai, anche avanti l e corti. Terzo punto: ingaggio &l lavoro. Se le unioni rappresentano gli interessi professionali, stipulano i contratti di lavoro, debbono avere l a loro voce nel fissare le regole dell'ingaggio della mano d'opera, della classifica operaia e dei casi di licenziamento. I n queste tre capitali rivendicazioni operaie abbiamo che

Press, Wasliington. È molto interessante e ben fatto, anche se personalmente dissento dall'autore in taluni casi. Ciò che è di fondamentale importanza è combinare il diritto di libera associazione col diritto al lavoro. La situazione attuale mostra la necessità di una migliore legislazione che dia alle unioni lo stato giuridico, il limite dei loro diritti e l'efficacia delle loro responsabilità. La legge antisciopero Smith-Connally, approvata il 25 giugno 1943, è una misura da tempo di guerra che non va incontro alle necessità dell'unionismo americano; in verità alcune sue disposizioni mostrano un sentimento contrano ai lavoratori.

9 . S r m m - Nazionalismo e Internazionalismo


da una parte l'individuo operaio libero (che non era veramente libero) è sparito; ed è subentrata l'organizzazione. A temperare gli effetti monopolistici del sistema organizzativo la scuola sociale cattolica sostiene non l'unione unica ma le libere unioni. Dall'altra parte, occorre affermare il diritto dell'impresa nella scelta degli operai e nella disciplina del lavoro e nell'applicazione dei contratti. Donde la necessità delle commissioni miste d i fabbrica, per una reale collaborazione per la tutela dei propri diritti e per l'osservanza .dei reciproci doveri. A poco a poco si è venuto a riconoscere il cointeresse nella produzione tanto dell'impresa quanto del lavoro. Donde ne sono venute due pratiche conseguenze : a) la rappresentanza collettiva e permanente dei due fattori in organismi superiori per zone e per stati che tuteli gli interessi comuni di una data branca d i produzione; b) la cointeressenza del lavoro nel capitale, realizzato in una partecipazione agli utili. La forma che i democratici cristiani hanno sostenuto è stata quella detta dell'azionariato operaio (l). Se l'economia potesse essere tenuta distaccata dalla politica, noi ci fermeremmo qui, ma la politica e l'economia vanno di concerto. Se impresa e lavoro potessero fare da sè, i1 primo effetto sarebbe quello d i creare un monopolio insopportabile sia nei riguardi della produzione, facendo circolo chiuso di una data economia e impedendo la concorrenza; sia nei riguardi del consumo, imponendo prezzi di monopolio. Questo può avvenire anche in regime liberale, con il monopolio di fatto del capitale, con i trust e i cartelli orizzontali e verticali. La società reagisce e, piii o meno, tutte le crisi politiche hanno un substrato economico. Onde lo stato deve intervenire per la tutela della giusta libertà economica e'per la tutela del consumatore. I1 modo di intervento, in ogni paese, è correlativo al suo sistema politico e giuridico; quel che interessa è affermare il diritto della comunità a cui deve coordinarsi quello particolare delle classi, evitando d i qua e di là ogni sconfinamento egoistico. (1) La canhderazione italiana dei lavoratori (democratica-cristiana) nel 1920 presentò a l governo Giolitti un progetto di legge sull'az,ionariato operaio. progetto stesso fu allegato agli atti parlamentari.

n


Posti questi principi, tanto Pio XI che Pio XII han cercato di dare una specie di schema ideale per servire di base alla soluzione tecnica del problema dell' organizzazione del lavoro. Riportiamo qui il testo d i un passaggio dell'allocuzione di Pio XII fatta il logiugno 1941 in commemorazione del 50" anniversario della Rerum Novarum, passaggio che fa proprio a proposito: a Non già che egli (Leone XIII) intendesse stabilire nora me sul lato puramente pratico, diremmo quasi tecnico, della a costituzione sociale; perchè ben lo sapeva e gli era evidente - e il Nostro Predecessore d i S.m. Pio XI lo ha dichiarato <r or è un decennio nella sua enciclica commemorativa Quadra« gesimo Anno che la chiesa non si attribuisce tale missione. a Nell'ambito generale del lavoro, allo sviluppo sano e responC sabile di tutte le energie fisiche e spirituali degli individui ed a alle loro libere organizzazioni si apre un vastissimo campo di a azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con una a sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle a corporazioni locali e professionali, e infine per forza dello C( stato stesso, la cui superiore e moderatrice autorità sociale a ha l'importante &ci0 d i prevenire i perturbamenti di equi(( librio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli a egoismi concorrenti, individuali e collettivi D. Com'è interessante sentir ripetere nel 1941, in pieno totalitarismo sociale e statale, la teoria di Leone XIII delle libere organizzazioni operaie, dal suo successore e attuale papa Pio XII! I tempi di Leone XIII erano l'epoca del liberalismo di stato e allora il diritto delle libere organizzazioni operaie, si rivendicava contro la teoria che l e vietava in nome della libertà economica; oggi si rivendica contro i l totalitarismo d i stato, che crea esso stesso le unioni o u s i n d a c a t i ~operai e vi dà diritto di monopolio. I papi estendono la libertà di organizzazione anche alle imprese, che oggi esse pure negli stati totalitari mancano di libertà. Tale affermazione assume quindi un'importanza fondamentale e direttiva, che supera le contingenze dei tempi (siano quelli di Leone, che quelli dei due ultimi Pii), perchè tocca i sacri diritti della personalità umana. A coordinare tali libere associazioni fra d i loro e nell'interesse generale della produzione e del consumo, occorre un or-

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gano superiore. Questo è stato chiamato dai papi, i n linguaggio i n uso presso i paesi latini, C corporazioni professionali n. Nei paesi d i lingua inglese corporazione sarebbe a corporate body D; e nel pensiero papale i rappresentanti del lavoro e dell'impresa integrati dai rappresentanti dell'autorità pubblica (locale o statale) formano anch'essi « a corporate body », che può ben dirsi, anche in lingua inglese, « professional corporation D. ( I n Inghilterra ci sono i Whitley Gouncils che ne hanno una certa somiglianza). Questi corpi o consigli decidono le questioni di carattere professionale ed economico, sia fra lavoro e impresa, sia fra produzione e consumo. I rappresentanti dell'autorità pubblica in tali corporazioni, secondo Pio X I I (che ripete quel che ne scrisse Pio XI) debbono avere parte con la loro u azione integrativa e ordinativa D, non dal di fuori ma nelle (C corporazioni locali e professionali D, cioè tanto nei gruppi per città o provincie, quanto per tutta la professione organizzata nazionalmente. Così finalmente arriviamo allo stato come tale, il carattere del cui intervento Pio XII descrive i n chiare linee: la cui superiore e moderatrice autorità sociale ha l'importante ufficio di prevenire i perturbamenti d i equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi Non è questa la difesa del principio dell'intemento statale quale nel New Deal americano? I1 New Deal può essere sbagliato o incompleto o particolaristico, ma il diritto d'intervento dello stato in tali casi come quelli dal 1933 in poi in America, non può essere disconosciuto.

Le unioni negli stai5 totalitari Dal costante insegnamento papale di mezzo secolo, così fissato, vengono colpiti: a) il liberalismo individualista, che negava agli operai il diritto d i associazione; b) il sistema disorganico della lotta d i classe fra capitale e lavoro proclamata dal socialismo marxista; C) il totalitarismo che h a creato il monopolio « sindacale n delle unioni e il corporativismo burocratico d i stato. Il primo oggi è superato dai fatti; - i pochi teorici non


contano; coloro che rimpiangono il passato lo fanno a tutela dell'iniziativa privata e della giusta competizione, che debbono essere salvaguardate, proprio in nome del sistema organico-sociale qual è quello proposto dalla scuola sociale cattolica. I1 secondo esiste ancora allo stato endemico e dà luogo a convulsioni sociali, benchè oramai si sente che la lotta d i classe è stata per u n periodo d i passaggio onde superare l'individualismo e tendere verso un'organizzazione adeguata delle forze di produzione. I1 terzo è il p eri odo di questi giorni: esso è ora legato alle sorti della guerra e dello stato totalitario, come concezione d i tutto il complesso etico e strutturale della società. Ma poichè le idee fermentano al d i l à dei fatti storici, e poichè nessuna guerra ammazza gli ideali, così sarà bene guardare i fatti quali si sono svolti nel periodo avanti la guerra i n paesi totalitari. I1 sistema russo è fuori analisi. Là « il capitalista D, « l'impresa », il C padrone » è lo stato. Cessata ogni iniziativa privata e ogni competizione, venne meno l a stessa lotta di classe. Le unioni operaie non hanno altro compito che di tutelare le condizioni di fatto (non i diritti) degli operai, per via di adattamenti, d i reclami, di proteste anche, se queste non portassero alle dure repressioni. Le relazioni che abbiamo sulle condizioni operaie in Russia vanno da un ottimismo roseo ad un nero pessimismo. Un giudizio di fatto ci sembra impossibile: dal punto di vista teorico, il problema va portato sul sistema statale basato sul totalitarismo e la privazione di reale libertà. In Italia, il governo fascista nel 1927 accordò ai suoi cc sindacati » (unioni) il monopolio, escludendo ogni altro sindacato dalla legale rappresentanza del lavoro, e dal diritto d i contrattazione con l'impresa e l'ingaggio della mano d'opera. Allora esistevano in Italia due grandi confederazioni di lavoro: la socialista e la democratica-cristiana, oltre una terza, quasi localizzata, la sindacalista (l). Tali confederazioni vennero a cedere nonostante che la legge le lasciasse come associazioni private; e quando l'azione cattolica nel 1927 promosse un istituto sociale (l) La socialista aveva un milione e mezzo di membri, e la democraticacristiana un milione e duecentomila; la riformista ne aveva trecentomila.


classificando i propri membri per professione, il governo fascista protestò, temendo che fosse per far rivivere sotto titolo di studio la confederazione bianca (era chiamata così l a democratica cristiana). L'azione cattolica finì per cedere. Pio XI nella Quadragesimo Anno fa un leggero cenno della situazione, l à dove dice che « L o stato (in Italia) riconosce giua ridicamente il sindacato e non senza carattere monopolistico, a in quanto che esso solo, così riconosciuto, può rappresentare (< rispettivamente gli operai ed i ~ a d r o n i ,esso solo concludere u contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è facol« tativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sina dacale può dirsi libera; giacchè la quota sindacale e certe a speciali tasse sono obbligatorie per tutti gli appartenenti ad u una data categoria, siano essi operai o padroni, come per « tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal sinda« cato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il sindacato giuridico non esclude l'esistenza di associa« zioni professionali di fatto >>. Questo testo è di fatto una critica al monopolio sindacale fascista: l'ultimo comma è » è messo per nulla tacere della difesa che ne facevano il governo fascista presentandola come una concessione ai cattolici, concessione per sè inconclusiva, ma che nel fatto non poteva reggere. Proprio in quello stesso periodo, quando veniva fuori la Quadragesimo Anno, a Roma f u promossa l a grande riunione dei rappresentanti delle unioni operaie di molti paesi europei il 15 maggio 1931, al monumento dell'operaio cattolico a l Laterano, in omaggio a Leone XIII, ma ciò irritò talmente i fascisti, che intensificarono la lotta per l a scomparsa d i ogni traccia di unionismo cattolico. Lo stesso Pio XI, non si sentiva di tacere ancora altre critiche che si facevano all'ordinamento fascista del lavoro. E poche righe dopo il passo citato, egli scriveva: « Per nulla negligere a in argomento d i tanta importanza, ed in armonia con i princc cipi generali qui sopra richiamati, e con quello che subito a aggiungeremo, dobbiamo pur dire che vediamo non mancare a chi teme che lo stato si sostituisca alle libere attività invece a di limitarsi alla necessaria e sufEìciente assistenza ed aiuto, a che il nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia ca-

vero

l


« rattere eccessivamente burocratico e politico, e che, non ostante « gli accennati vantaggi generali, possa servire a particolari in« tenti politici piuttosto che all'avviamento ed inizio di u n mi« gliore assetto sociale ». Non poteva scriversi, in u n alto documento quale una enciclica ~ a p a l e una , critica più serena e obiettiva e con parole così misurate, come quelle di Pio XI. I suoi rimarchi sul sistema corporativo italiano sono stati incompresi dal gran pubblico, fino ad oggi: ma ora, a guerra scoppiata, si è veduto bene come l'economia diretta e il sistema dei piani, l'autarchia, erano i l substrato del corporativismo statale, squadernato ai quattro venti come il sistema sociale dell'avvenire, e approvato da ingenui cattolici come il ritorno alle tradizioni medievali applicate all'economia moderna. I n Italia, in poche parole, il sindacato operaio (unione) è monopolio del partito fascista, il cui capo è lo stesso capo del governo; la corporazione (rappresentanza burocratica dei sindacati operai e delle imprese per categorie di produzione e dello stato) e il consiglio nazionale delle corporazioni sono monopolio del partito e del governo. Le funzioni tecniche d i ogni corporazione o consiglio sono sottoposte sia alle direttive politiche del partito che alle decisioni politiche del governo. Sicchè uno solo è quel che ha la completa e unica responsabilità dell'economia del paese, il capo del partito e del governo, che è la stessa persona. Si è tanto parlato di stato corporativo, a proposito dell'rtalia, senza approfondirne i l significato. Bisogna premettere che i cattolici sociali del continente europeo, nell'opposizione a l sistema parlamentare individualista, nel secolo scorso avevano più volte sostenuto la tesi che un ramo del parlamento fosse rappresentativo d i corpi sociali, quali i comuni, le provincie, le università e le corporazioni ( l ) . Ma, è evidente la presupposizione che tali corpi avessero propri consigli autonomi liberamente eletti, e che fossero anch'essi liberi nel nominare i loro rappresentanti

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( 1 ) I1 partito popoIare italiano nel suo programma del 1919 sosteneva la riforma del senato elettivo (in Italia è di nomina regia) in rappresentanza dei corpi locali e professionali, delle università e delle associazioni culturali.


a l parlamento. I n Italia non è così: nè 1è corporazioni hanno consigli d i libera scelta, nè sono liberi d i nominare i propri rappresentanti a l parlamento; nè il parlamento ha alcuna vitalità propria nè autonomia legislativa. Cade così tutta la costruzione formale del cosidetto 8ustato corporativo », per darci la realtà vera che è lo stato totalitario (l). I n Germania il nazismo anch'esso h a soppresso le unioni operaie che erano in mano ai socialisti, ai cattolici e protestanti (queste seconde unioni dette « cristiane D), e ai democratici, e confiscò i beni tanto delle unioni operaie che delle associazioni dei datori di lavoro (maggio 1933); abolì il sistema dei contratti aollettivi e dei consigli di lavoro, in sostanza ogni forma di rap. presentanza sociale ed economica. Con la legge di regolamentazione del lavoro del gennaio 1934 fu posta nelle mani dello stato ogni relazione fra operai ed impresa; i rappresentanti dello stato decidono le vertenze, essi debbono sentire i tecnici delle due parti, ma sotto il principio della leadership essi stabiliscono i contratti collettivi che sostituiscono i contratti già aboliti. Dall'altra parte tanto la regolazione del collocamento della mano d'opera che quella dei salari è funzione dello stato, che ha il diritto persino di dislocare la massa operaia e di imporre il lavoro obbligatorio. Si tratta, i n sostanza, della militarizzazione del lavoro mascherata sotto l'etichetta di fronte del lavoro a fini politici che presto si rivelarono fini per l'economia di guerra ( 2 ) . Altri paesi prima e durante la guerra hanno imitato i due si(') L'opinione di certi scrittori di basare tutta la rappresentanza politica dei parlamentari sui corpi economici è inaccettabile, poichè l'economia non può ritenersi l'unico fattore della vita sociale nè l'unico esponente della politica in uno stato. (2) In Germania esistevano un movimento cristiano sindacale e anche associazioni cattoliche e protestanti di lavoratori, che collaboravano strettamente con la Volksverein fur das Katholische Deutschland, fondata da Windhorst, unione di Angestellte (impiegati negli uffici di affari) e la Deutsche Nationale Handlungsgehilfenverband con i sindacati cristiani e talune associazioni di lavoratori ferroviari uniti insieme nel cosidetto Deutsche Arbeiterkongress. Dopo la guerra 1'Arbeiterkongress venne sostituito da una organizzazione nazionale permanente: la Deutscher Gewerkschaftsbund, che in certi settori degli affari privati aveva aimeno un monopolio, ponendo i socialisti


sterni, l'italiano e il tedesco, attenuando certe rigidezze e credendo anche di applicare gli insegnamenti papali; ma dato l'errore fondamentale d i negare la libertà di associazione degli operai, creando gruppi unici e sotto il controllo dello stato, veniva meno il primo gradino per una costruzione ispirata agli insegnamenti della scuola cattolico-sociale. La guerra ha intaccato tutta l'economia mondiale e tutta la vita sociale. Non poteva essere altrimenti, dato che è guerra totale, dalla quale non sono indenni neppure i paesi neutrali o non belligeranti. I rapporti fra stato e gruppi professionali durante una simile guerra vengono modificati in intensità ed estensione. La differenza che passa fra gli stati democratici e i totalitari si è che nei primi gli operai conservano le loro libere associazioni e, le loro garanzie, si sottopongono volontariamente alla disciplina di guerra, cooperano politicamente allo sforzo comune, e accettano quelle restrizioni che la necessità loro impone. Nei secondi, può ben darsi che i l sentimento nazionale si sviluppi presso l a classe operaia, la quale accetta anch'essa l a dura disciplina di guerra. Ma la mancanza di libertà, le restrizioni sociali, lo sfruttamento di energie, la nessuna garanzia giuridica e morale deve pesare sulle classi operaie, che sentono i1 loro stato di schiavitù, dalla quale non emergeranno per la vittoria del loro stesso paese. Si è notato che i n Russia l a massa degli operai, artigiani e contadini si batte con coraggio e con slancio, cosa che non sucfuori di molte importanti posizioni che avevano prima occupato. I1 numero di membri superava i tre milioni. Una parte era costituita dal movimento cooperativo che riscuoteva molto successo specialmente presso i contadini ( e lavoratori) della Renania, Baviera e Westfalia. Durante la rivoluzione del novembre 1918 fu fondata una organizzazione centrale volontaria per mantenere una costante e stretta collaborazione fra i due movimenti sindacali ( e le principali organizzazioni dell'industria e dell'agricoltura tedesca): la Zentral Arbeitsgemeinschaft che ebbe molto successo. Tale associazione nominava i membri del parlamento consultivo corporativo previsto dalla costituzione di Weimar. Ciò che indebolì lo sforzo dei cattolici sociali in Germania (prima del 1933) fu anzitutto l'incomprensione fra unioni cattoliche e protestanti nel far fronte alla diffusione del marxismo e comunismo, e secondariamente l'infiltrazione nazista negli ambienti conservatori.


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cedeva (almeno nella stessa misura) sotto gli zar. P e r quanto riesca difficile conoscere la psicologia di popoli lontani dalla nostra civiltà, occorre notare anzitutto che la Russia è stata attaccata e il suo territorio invaso: operai e contadini difendono la loro patria. Dippiù, non può disconoscersi che le classi lavoratrici sotto gli zar erano prive di qualsiasi partecipazione alla vita civile e politica (l) e non avevano nè scuole sufficienti nè allenamento industriale, nè spirito di partito, quale i sovieti hanno avuto cura di sviluppare. Ciò detto per l'esattezza della diagnosi, non possiamo accettare la parificazione delle unioni russe con quelle dei paesi democratici. La cosa fu più volte discussa nei congressi internazionali operai, dove, non si sa per quale falso apprezzamento, il laburismo inglese sostenne per più anni l'ammissione delle unioni russe, mentre giustamente i rappresentanti operai tedeschi e francesi con quelli di altri paesi, si opposero per il motivo che quelle unioni non erano libere. . I n genere, tutti i sistemi totalitari (Russia compresa) soffrono della mancanza di respirazione che è data dall'aria della libertà; onde debbono supplirvi con una più stretta organizzazione burocratica e poliziesca. La guerra accelera il ritmo delle attività umane con una costrizione generale; nei paesi totalitari tale costrizione elimina non più la libertà, che non esisteva, ma proprio quell'adattamento al sistema di servitù; adattamento che da sè stesso diviene, come per gli schiavi, una specie di pseudo-libertà che l'umanità ha provato per millenni. È per questo che la situazione dei gruppi operai verso lo stato democratico, durante una simile guerra, è completamente differente da quella dei gruppi operai verso lo stato totalitario, non solo per l e condizioni d i fatto create dalla guerra, ma anche nella preparazione del nuovo ordine per dopo la guerra (2).

(l) L'antica organizzazione locale di contadini e artigiani in Russia era ridotta alle sfere economica e domestica e non aveva alcun rilievo poIitico. (2) Nelle industrie siderurgiche, i comitati Zabor-management, dove sono stati costituiti, hanno dato prova di fornire uno u straordinario contributo » allo sforzo bellico, secondo il giudizio di Gordon Lefebvre, vicepresidente e direttore generale deila Cooper-Bessemer Corporation, il quale


I primi possono parlare di diritti, far sentire la loro voce, discutere i loro interessi, anche se debbono riconoscere le d a colti della crisi che sovrasta tutta l'economia; i secondi non possono far altro, se vogliono uscire dalla situazione semile, che pensare a come poter usufruire della crisi per una rivoluzione che li porti allo stato libero, Ritorna così a d affacciarsi alla nostra mente i l motivo, che è alla base di tutto il problema operaio nel mondo moderno, ( e che più volte è stato toccato in questo studio), cioè come arrivare a togliere alla classe operaia la posizione di antagonista dello stato e rifarla cooperatrice dello stato. Questo deve essere il punto d i orientamento nello studio dei problemi del dopo guerra. Ma se la massa operaia è tenuta senza alcuna libertà d i organizzazione professionale e di espressione politica, come nei paesi totalitari, - non ostante gli pseudo-sistemi politici rappresentativi - non sarà possibile darle la parità effettiva con le altre classi nella coopeÌazione sociale. A questa meta potranno arrivare solo gli operai dei paesi democratici, se l'intesa volontaria ed effettiva durante la guerra si protrarrà, svilupperà e consoliderà durante i l periodo di pace.

PARTITI DEI LAVORATORI E CLASSI MEDIE FRA LE DUE GUERRE

La'formazione di partiti o gruppi di lavoratori, all'interno e a fianco delle organizzazioni politiche delle classi borghesi, ebbe inizio negli ultimi trent'anni del secolo XIX. Gli effetti dell'industrializzazione, la propaganda socialista e il suffragio universale suscitarono nelle masse l e prime manifestazioni di una coscienza politica. I problemi sollevati dai lavoratori erano per l a maggior parte economici, a parte qualche accenno di politica interna i n osserva che tali comitati « hanno l'effetto di educare i dirigenti - e io spero anche i lavoratori - al punto di vista degli altri colleghi n (v. The Commonweal, 5 marzo 1943, pp. 484-485).

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difesa delle libertà - delle loro libertà naturalmente - dall'usurpazione dei governi conservatori o autoritari, nonchè di politica estera sia con tinta pacifista sia con sapore di « internazionale D. Più tardi arrivarono sulla scena i cosiddetti cristiano-sociali o democratici cristiani, che si differenziavano dai cattolici conservatori di tipo borghese, si ponevano come un partito di centro, e sottolineavano l'importanza della famiglia come unità economica; invece della lotta di classe su modello marxista essi erano'per la collaborazione fra le classi con particolari misure per lo sviluppo delle condizioni dei lavoratori. Prima della prima guerra mondiale, tuttavia, nè i lavoratori o i loro partiti - anche gli estremisti rivoluzionari - nè i gruppi democristiani, avevano alcuna reale funzione nella politica interna o estera di ogni nazione. La legislazione sociale veniva spesso concessa o promossa dai partiti liberali o dai cattolici conservatori, e persino dagli stessi capitalisti. Le classi lavoratrici ( a parte qualche dimostrazione terroristica) si esprimevano direttamente solo attraverso gli scioperi, le parate del lo maggio, le polemiche sui giornali e la sistematica opposizione in vari corpi parlamentari. Durante l'ultimo secolo il lavoratore iscritto al sindacato veniva considerato da molti come un nemico dello stato, una minaccia sociale, un animale selvatico da domare. Ma la rivoluzione sociale, così temuta in quel periodo, non scoppiò mai, poichè le organizzazioni delle classi lavoratrici erano ancora nella loro infanzia, mentre i proprietari terrieri e gli industriali continuavano a dominare la politica e l'economia mondiale, e perchè i partiti dei lavoratori rappresentavano solo una parte delle classi lavoratrici, anche nei grandi centri industriali. I1 sistema lavorativo era poi in molti casi tradizionale, esattamente simile ai sistemi del passato, e nessun partito di lavoratori poteva giungere ad una reale trasformazione sociale senza venire alle prese, durante l'azione politica, con l'intera struttura economica della nazione. Dopo la prima guerra mondiale, era naturale che le classi di essa responsabili ne venissero danneggiate. La più colpita fu la classe media dipendente da una piccola entrata o pensione,


inclusi gli intellettuali e i professionisti, a parte poche eccezioni dovute a merito o privilegio eccezionali. La proletarizzazione di gran parte delle classi medie e l'emigrazione di molti loro membri in paesi dove la vita era più facile, fu u n grosso colpo per la stabilità delle nazioni dell'Europa continentale. Un effetto dell'instabilità del periodo post-bellico fu l'aumentato accentramento politico e l'estensione della burocrazia, nel tentativo da parte dello stato di creare un equilibrio fra le classi capitaliste e quelle proletarie. Una nuova rivalutazione politica dei partiti dei lavoratori (socialisti e democristiani) e la loro diretta partecipazione al governo, era u n risultato naturale. Se i partiti borghesi (nazionalisti, liberali, socialisti radicali e cattolici conservatori) non avessero temuto i partiti dei lavoratori prendendo una posizione difensiva nei loro confronti, le crisi chiamate nazionalismo, fascismo, nazismo, non avrebbero mai avuto inizio. La crisi non si manifestò solo in Italia e Germania; essa penetrò almeno in tutta l'Europa continentale: in Francia ha provocato prolungati conflitti politici esacerbati dall'Action Franqaise, la Croix de Fer e altri gruppi reazionari; in Inghilterra essa coinvolse insieme conservatori e laburisti nella paura del bolscevismo e in una politica di acquiescienza verso il fascismo e il nazismo. al fine di mantenere la n pace » internazionale. Lo stesso avvenne negli Stati Uniti, i quali seguirono la politica britannica e francese nei confronti dell'Europa, pur perseguendo i loro fini capitalistici nel Sud America. Perciò accadde che i partiti borghesi che controllavano la maggior parte del mondo (eccetto dove vi era uno stato socialista moderato, come nei paesi scandinavi, in Australia e in Nuova Zelanda) misero le basi per una seconda guerra mondiale mentre tentavano di difendersi contro la rivoluzione sociale allora predicata dai demagoghi di massa. I partiti dei lavoratori, d'altro canto, erano incapaci di influenzare la politica internazionale dei loro paesi; essi limitavano la loro attività ad ottenere vantaggi economici per i lavoratori e così facendo preparando la strada al passaggio di molti dei loro aderenti nei ranghi della reazione nazi-fascista o semi-fascista. I n tutto questo gioco di interessi e di partiti vediamo un co-


stante declino dell'importanza dei gruppi che per secoli erano stati la spina dorsale della società e il fattore di equilibrio tra i due estremi, e cioè le classi medie (inclusi i professionisti, i funzionari statali, i piccoli proprietari terrieri e i possessori di beni immobili) tutti fatti sloggiare dalla ingordigia capitalistica e dall'instabilità del proletariato. La parte migliore delle classi medie aveva tradizionalmente opinioni politiche piuttosto imparziali ( p e r quanto possibile) e aveva sostenuto l a lotta generale per la libertà. Tale classe perse vigore; essa oscillò tra destra e sinistra, tra nazionalismo e rivoluzione sociale. Molti déi suoi membri rimasero fedeli allo stato, qualunque forma lo stato prendesse, semplicemente perchè erano o in impieghi governativi o in qualche modo dipendenti dal pubblico impiego. Questo fu il corso di una delle più importanti trasformazioni sociali e politiche del periodo fra il 1914 e il 1939. Mutamenti sociali dopo l a seconda guerra mondiale La seconda guerra mondiale ha causato e causerà ancora profondi mutamenti nella struttura economica e sociale dell'Europa, e tali cambiamenti si risentiranno in tutto il mondo. Alcuni gruppi delle classi medie rimasero, o risorsero nell'Europa occidentale fra il 1919 e il 1939, non scomparvero totalmente e rivissero lentamente dovunque vi erano piccoli proprietari urbani o rurali. Oggi tuttavia nelle città la classe media ha ricevuto u n colpo violento, quasi mortale. È sopravvissuta con più successo nei paesi, in virtù del suo attaccamento alla terra, i cui prodotti, in questo periodo di scarsità, sono di immenso, valore. Ma questa classe oggi non è nè compatta nè forte; non rappresenta infatti gli interessi d i tutta l a popolazione, anzi è in temporaneo ma acuto conflitto con tali interessi, e così può soltanto pensare alla sua soprawivenza e cercare di arginare la rapida estensione dei poteri dello stato. I piccoli proprietari terrieri sono istintivamente venuti ad occupare la posizione politica tenuta mezzo secolo fa dai gruppi anarchico-sindacalisti fra i lavoratori, contro ogni contro110 governativo. Banchieri e industriali, d'altro canto, hanno ancora la carta


decisiva da giocare nella ricostruzione dell'economia europea, quella di una collaborazione economica e politica con le classi lavoratrici per una alleanza - effettiva o apparente secondo il caso - fra l'impresa privata e la socializzazione, in modo da superare il divario delle future trasformazioni attraverso vari gruppi socialmente autonomi. Questa alleanza non è un piano nè un programma, ma semplicemente un confusa visione di un ipotetico futuro. Due forze sono al lavoro contro di essa: il capitalismo reazionario da un lato, e il mito comunista dall'altro. Entrambi lavorano su scala nazionale e internazionale e non è solo un luogo comune giornalistico dire che il primo è incentrato negli Stati Uniti e il secondo in Russia. È un fatto evidente che molti lavoratori guardano a Mosca come i maomettani alla Mecca, e che senza gli Stati Uniti il capitalismo reazionario avrebbe solo un carattere locale, semi-feudale, confinato alle più arretrate porzioni d i paesi non direttamente toccati dalla guerra, come la Spagna, il Portogallo e i paesi del13America latina. I1 capitalismo reazionario negli Stati Uniti lotterà per difendersi contro l'estensione del potere governativo nella forma di un altro New Deal, e contro il crescente potere delle unioni sindacali; al tempo stesso tenterà di attirare nella sua orbita il capitalismo internazionale e d i fissare un piano di attacco al momento dell'inevitabile crisi. Dico « capitalismo reazionario D distinto dal « capitalismo moderato D, il quale inclina ad un'intesa con la Russia, e ad un equilibrio caratterizzato da mutua influenza fra il controllo governativo e l'iniziativa privata. Questo capitalismo moderato ha prevalso nelle conferenze tenute a Bretton Woods, San Francisco, Potsdam, ed è ancora prevalente. Esso mira alla cooperazione con il governo laburista inglese per la ricostruzione della Gran Bretagna senza danno per l'economia americana; esso crede nell'opportunità di fare concessioni finanziarie e politiche alla Russia in Europa, Asia e Africa, poichè conta su una permanente e franca intesa fra capitale e lavoro. È chiaro che il capitalismo moderato non intende perdere il suo potere nè in casa nè all'estero, ma benchè desideri conservare l'iniziativa nelle sue mani, accetta le regole che limitano molto il suo potere, se è per spartire la faccia della terra con altri.


È difficile dire quale delle due forme d i capitalismo prevarrà nel futuro, poichè il successo per entrambe dipende dagli errori dei rivali. Di questi rivali, il primo è il mito comunista. Lo chiamo un mito, perchè nè l'attuale situazione economica nè quella politica in Russia portano necessariamente tutta 1'Europa all'esperimento comunista. Ma il mito, come lo chiamano i sociologi, è un'idea forza che prende forma e agita gli animi e le teste d i un popolo. Questo popolo è adesso fatto dai disoccupati, da coloro che sono usciti dalle classi medie, i senza tetto nei paesi distrutti, i senza patria, tutti quelli in qualche modo resi impotenti dalla guerra. Un simile mito è abbastanza forte per avere un'influenza nei paesi privi di risorse. La Russia h a già costituito una sfera di influenza comprendente i paesi baltici, la maggior parte della Germania, l'Austria, l'Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia, i Balcani, e ha fatto importanti avanzate in Grecia, Italia e Francia. L'attrazione della Russia e il suo dominio politico stanno svolgendo u n ruolo decisivo i n Europa. Senza entrare nelle sottigliezze del gioco politico svolto dai Tre Grandi o dai Cinque Grandi, o dai cinquanta e più membri dell'ONU - un gioco il cui carattere può cambiare da un giorno all'altro, e la cui unica prospettiva sicura consiste in un'altra guerra o in una difficile pace - possiamo già prevedere che le alternative di « libertà e dittatura » o u democrazia e totalitarismo » dipenderanno nella politica internazionale dalla sfera di influenza », e nella economia internazionale dalle u zone economiche » e in ogni nazione dai « partiti di massa Questi tre fattori si combineranno o saranno in conflitto durante il periodo di instabilità che durerà per anni dopo la guerra.

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I partiti laburisti europei a l potere I partiti con una piattaforma sociale - i comunisti, i socialisti e i democristiani - dal loro primo apparire in Italia nel i943, in Francia nel 1914 e più tardi nel resto dell'Europa, incluse Austria, Polonia e Germania, ci hanno già dato un'indicazione della parte che sarà svolta dalle classi lavoratrici nella politica del dopoguerra. È vero che questi stessi partiti ( o altri simili) presero parte 'alla vita politica nel periodo tra la prima


e la seconda guerra mondiale, ma erano sempre a i margini di quanto si andava facendo, sia come minoranza parlamentare sia come opposizione al di fuori del parlamento, o in altri casi come partners più giovani con ruolo secondario in una coalizione governativa. I1 primo gabinetto laburista in Inghilterra, nel 1924, rappresentava una minoranza e l a sua vita rimase appesa alla bilancia per pochi mesi, finchè l'opposizione lo spazzò via nell'ottobre dello stesso anno con la falsa lettera di Zinoviev. I1 governo socialista nella Prussia nel 1930-32 non ebbe alcuna reale funzione politica (nei confronti della costituzione di Weimar) e fu i n realtà una pura burocrazia socialista. I1 cosidetto fronte popolare in Francia nel 1936 non andò lontano nel realizzare le idee socialiste di Léon Blum e infine cadde in pezzi a causa della scissione fra radicali e socialisti. I governi socialcomunisti che tennero il potere in rapida successione in Spagna durante la guerra civile spagnola, erano gabinetti di guerra e solo la necessità della guerra li tenevano insieme malgrado le loro radicali differenze di fazione. I n altre parole i partiti rappresentativi della classe lavoratrice esistettero solo ai margini della politica borghese e diedero prova di grande immaturità quando giunsero al potere in mezzo ad una società ancora fondamentalmente capitalista o semifeudale. Dopo la seconda guerra mondiale vediamo che la leadership sia nell'economia sia nella politica nazionale e internazionale è passata nelle mani dei partiti dei lavoratori o di quelli ad essi collegati (come i democristiani), mentre i partiti conservatori e liberali sono stati spossessati (come in Inghilterra) o hanno mantenuto un ruolo puramente secondario (come i n Italia e in Francia). Nei paesi dell'Europa centrale, dove prevale l'influenza di Mosca, nessun governo veramente libero è possibile, e la coalizione dei partiti comunisti, socialisti, democratici e democristiani (non importa gli esatti nomi locali) ha una vita estremamente precaria. La vittoria laburista in Inghilterra nel luglio 1945 è una pietra miliare nella storia non solo dell'hghilterra ma dell'Europa. I1 partito laburista britannico non ha mai avuto strette affinità con il carattere mamista, rivoluzionario e anticlericale

10. STURZO - Nazionalismo e Zntemazionalismo


del socialismo continentale anteguerra. Adesso che il comunismo continentale ha tratto nuova forza dall'appoggio d i Mosca, il socialismo continentale deve decidere fra il seguire la direzione del laburismo britannico o quella di una rivoluzione comunista. Vediamo perciò che ci sono tre tipi di partiti delle classi lavoratrici in relazione al variare delle condizioni economiche e politiche nel mondo post-bellico. C'è una porzione di comunismo estremista con accenti di dittatura del proletariato, che mira ad assorbire politicamente le masse prima dell'attuazione del comunismo economico; la porzione modellata sul laburismo britannico, che accetta i metodi democratici e la libertà politica come garanzia delle riforme proposte che devono essere portate avanti da una nuova classe dirigente ( l a classe lavoratrice), lasciando alcuni spazi marginali all'iniziativa capitalista; e, finalmente, la porzione democratico-cristiana, basata su molte delle medesime premesse del laburismo ma con l'accento sulla funzione sociale della famiglia e dei piccoli proprietari terrieri, e sull'aspetto etico di una politica sociale interna. È prematuro dire quale sarà l'impronta lasciata da ognuno di questi gruppi sulla vita economica e politica dei diversi paesi. Nè possiamo prevedere fino a qual punto la borghesia sarà rimossa dalla sua posizione di comando. È difficile immaginare esattamente per quanto tempo ' i lavoratori saranno in grado d i resistere alla veniente reazione capitalistica e di fare in modo di non provocare una rivoluzione che porterebbe con sè una controrivoluzione. Gli eventi futuri possono smentire l e nostre ipotesi. È certo tuttavia che in Europa la classe lavoratrice e i capi dei partiti dei lavoratori (che non sono sempre lavoratori) stanno rimpiazzando la borghesia capitalistica conservatrice, burocrate e intellettuale, la quale occupava la scena politica prima della guerra. I1 mutamento ha la stessa importanza d i quello costituito dal passaggio della nobiltà e clero alla borghesia, al'epoca della rivoluzione francese.


Le ripercussioni nell'ernisfero occidentale

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Sarebbe interessante studiare le probabili ripercussioni nell'emisfero occidentale di quello che sta accadendo in generale in Europa. I1 Sud America h a eventuali enormi possibilità d i progresso economico, ma non nel prossimo futuro, a causa della mancanza di tecnici, lavoratori specializzati, mercati aperti e libero commercio. Se l'Europa si fa comunista e diventa un compartimento chiuso dove la gente si nutre della propria povertà, i l Sud America ne soffrirà in misura eguale, poichè non sarà in grado di esportare il suo capitale, scambiare i suoi prodotti con quelli dellYEuropae rafforzare i l suo apparato economico con la prospettiva di un prospero futuro. Al contrario, dovrà difendersi contro quanto è cc europeo r, cioè dalla propaganda comunista, col restringere le sue politiche reazionarie e col rivolgersi agli Stati Uniti, i quali non possono nè servire come un mercato per tutti i suoi prodotti nè come'unico e incontestato centro di affinità politica. Gli Stati Uniti sono d i fronte alla necessità di controbattere ogni tendenza all'isolazionismo; devono usare la loro forza e autorità per preservare il loro prestigio in Europa; devono sostenere con capitali la precaria situazione economica della Gran Bretagna e prendere il posto britannico nelle relazioni economiche con il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda. Nel frattempo devono caricarsi il peso morto di un Giappone sconfitto e spossessato, aiutare la ricostruzione economica in Cina e nel Sud Pacifico, e tollerare la vasta e non desiderata presenza della Russia nell'estremo oriente. Se a questi pesi degli Stati Uniti aggiungiamo quelli di una Europa impoverita, bolscevizzata e rivoluzionaria, i l peso diventerebbe intolilerabile. Potrebbe essere ancora peggio se una simile Europa reclamasse il diritto d i costruire un'economia comunista con i dollari americani. Ciò porterebbe d i Stati Uniti a imboccare l a strada sbagliata psicologicamente e politicamente; per di più, porterebbe alla coesistenza di due sistemi economici incompatibili. Alla lunga i l conflitto economico porterebbe ad una rottura delle relazioni politiche, come accadde nel caso di Hitler, quando egli fu o si considerò non più in grado


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di contare ulteriormente sul capitale anglo-americano. Nel frattempo il capitalismo americano ha un'apparente nemico in casa, il movimento dei lavoratori. Dico u apparente )) perchè al fine di mantenere l'alto livello di vita dei lavoratori americani il loro movimento organizzato deve restare dentro una struttura capitalista. Malgrado questo fatto, il contrasto fra capitale e lavoro aumenterà e passerà nella politica ( l ) . I1 mito comunista avrà finalmente buon gioco su entrambi i lati finchè vi è una chiara visione degli effetti pratici della non così improbabile rivoluzione in Europa. Allora sentiremo proclamare il panegirico di Hitler, Mussolini, Pétain e Franco come precursori di un nuovo fascismo nord e sud-americano. Ciò sarà una semplice infatuazione sentimentale o il segno di una reazione al comunismo? Solo il timore di un'altra guerra può spingere gli Stati Uniti a una rinnovata pacificazione, fino al giorno in cui un raddrizzamento della politica mondiale diventi così necessaria che i ceppi del passato debbano venire scossi e ci debba essere un ritorno a più sani principi di politica interna ed estera. Nel frattempo quali pericoli ci sono nell'attendere, quante vittime e quanta sofferenza ancora per l'umanità ? Se n i n fosse per l'ombra della bomba atomica, noi potremmo facilmente prevedere la formazione di un'altra guerra. Tuttavia solo la paura non può riportare il mondo a più normali vie. Le classi lavoratrici che oggi possono mirare al potere politico, su un piede di parità con la borghesia e le classi medie (che tenevano il potere in passato) devono essere guidate da un senso di responsabilità e di moderazione per raggiungere una efficace cooperazione con le altre classi, nel campo interno e internazionale. Entrambe le classi devono rinunciare ad ogni reazione di tipo fascista o ad una rivoluzione di tipo comunista,

(l) I1 Politica1 Action Committee delia C.I.O. è soprattutto uno strumento elettorale dell'unionismo collegata con l'ala sinistra del partito democratico e ad altri gnippi politici uprogressisti, in America. La dichiarata simpatia della PAC per i comunisti non è nè generale nè forte, benche la infiltrazione comunista stia aumentando e approfondendosi in taluni distretti politici americani.

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ma il capitalismo deve capire che la sua funzione è limitata, il suo potere è controllato, e il suo secolare monopolio politico è finito definitivamente.


LE GUERRE MODERNE

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Le guerre delle quali ci occupiamo nel presente studio sono quelle che ebbero inizio con le guerre americane per l'indipendenza e in Europa con quelle della rivoluzione francese, seguite poscia dalle napoleoniche. Da allora fino ad oggi - un periodo d i più di un secolo e mezzo - tutte le guerre combattute dagli stati e dai popoli detti civili, benchè diverse le une dalle altre per tecnica militare, per motivi politici e morali, per estensione ed importanza, hanno avuto in comune certi caratteri che dal punto di vista sociologico l e assimila e le raggruppa. Perciò le chiamiamo tutte guerre moderne. La prima nota caratteristica che le distingue dalle guerre dell'ancien régime è che queste non sono più guerre dinastiche, ma nazionali. La caduta del sistema monarchico-paternalista in Europa e del colonialismo nel continente americano coincide con l a formazione rivoluzionaria degli stati nazionali. La guerra è il mezzo - spesso l'unico mezzo - per la conquista dell'indipendenza nazionale e delle libertà costituzionali e popolari. Altra nota caratteristica, che ne consegue, è quella delle milizie nazionali. I1 reclutamento dell'esercito cambia completamente: non più un'aristocrazia militare ereditaria, non più corpi militari assoldati dal re e reclutati non importa dove. La milizia è popolare e dove più dove meno, vi s'introduce l a coscrizione; I'evanzamento è aperto a tutti. Anche l a tecnica militare varia per il numero, la qualità e il carattere dei nuovi


eserciti; colui che sa intuire i cambiamenti iniziali e sa prevenirne gli effetti, come Napoleone, ha l'immediato vantaggio d'una imprevista superiorità. È stato il caso di Hitler. Ancora un'altra nota distintiva: le finanze di guerra. Un tempo erano i r e che si rivolgevano ai corpi costituiti: parlamento, gilde, municipalità, stati generali e simili (secondo i paesi), per domandare i loro contributi onde iniziare o portare avanti le guerre; non mancavano i banchieri privati anche stranieri (Peruzzi o Rothschild) a sostenere le sempre deficitarie finanze delle monarchie. Nel periodo moderno è la nazione che sostiene le spese di guerra, per via di tasse o di prestiti pubblici, volontari o imposti per legge, ed è il parlamento che vi dà carattere popolare e legale. Non si creda che da un giorno all'altro il passato muoia e il nuovo lo soppianti. Nella storia i passaggi, lenti o violenti, sono sempre complicati e spesso ricorrenti, sì che il nuovo prende aspetto d i vecchio e il vecchio rinasce con il nuovo o persiste più che non si supponga. Così la Germania aristocratica e feudale, l'Austria autoritaria e poliziesca, la Turchia e la Russia assolutiste e tiranniche, resistettero agli influssi rivoluzionari della prima metà del secolo XIX, p u r modificando certi loro orientamenti ed aspetti ; così la borghesia francese, l'aristocrazia inglese e le classi ricche del nord America fecero argine alla democrazia popolare; e i cacichi in Spagna e nel sud America si combattevano fra loro sotto le insegne -del liberalismo e della reazione. Nonostante il complicarsi d i motivi politici e di tendenze sociali, quel che di nuovo rimase fin da allora in tutto il mondo civile fu il carattere moderno delle guerre. Queste, nell'intreccio di moventi nazionali economici ed egemonici, superarono il corso stesso degli avvenimenti politici, e si andarono sviluppando sopra una linea di logica interiore, da guerre locali a guerre generali, coinvolgendo interi continenti e interessando al loro ritmo tutti i paesi e tutte le sfere dell'attività umana. Nello sviluppo delle guerre moderne in Europa possiamo distinguere quattro periodi. Il primo dal 1792 al 1815: guerre rivoluzionarie e napoleoniche; il secondo dal 1821 al 1860: guerre d i indipendenza e libertà (questo periodo si può prolun-


gare di più d i un ventennnio per le rivolte e guerre dei paesi balcanici contro il turco) ; il terzo periodo : guerre egemoniche dal 1866 alla fine del secolo XIX; il quarto periodo dal 1911 ad oggi: quello delle guerre cicliche mondiali (l). Col primo periodo si sviluppano il senso nazionale delle guerre, la coscienza dell'esercito popolare e la propaganda ideologica. Nel secondo periodo si ripetono, localizzandole, le ideologie liberali e l'aspirazione all'indipendenza politica e maturano l'organizzazione militare permanente, il servizio militare preventivo, le spese militari messe nei bilanci. Le guerre del terzo periodo utilizzano meglio le invenzioni dell'industria e la tecnica militare, e portano un continuo aumento nelle spese militari che gravano sui bilanci di quasi tutti gli stati, grandi e piccoli. Infine le guerre presenti assorbono tutte le risorse economiche, finanziarie, tecniche e morali di ogni nazione, formando unico fronte tra la zona di operazione e l'interno. Alla guerra di terra e di mare si è aggiunta quella aerea, che non ha limiti geografici e può imperversare in ogni angolo dei paesi in lotta ('). Tale enorme sviluppo delle guerre moderne, benchè fosse imprevedibile dal punto di vista della tecnica industriale e mi(l) Abbiamo indicato la data del 1911 e non del 1914 come inizio della guerre che chiamiamo cicliche, perchè partiamo dalla guerra delì'Italia contro 1; Turchia per il possesso della Libia. I1 legame con la grande guerra, per un osservatore accurato, non è dubbio. La guerra libica indebolì la Turchia; i paesi balcanici colsero il momento opportuno per saltarle addosso. Finita la prima guerra balcanica, si sviluppa la seconda, spinta dagli intrighi di Viema per indebolire la Serbia. L'esito di tali guerre fece maturare all'Austria i suoi disegni nei Balcani. Ormai è nota la richiesta dell'Austria fatta nel 1913 al governo italiano di muovere contro la Serbia e il rifiuto del presidente Giolitti, perchè sarebbe stata quella una guerra di aggressione non prevista dal patto della Triplice Alleanza. Quel che non si azzardò di fare nel 1913, l'Austria lo fece nel 1914, prendendo pretesto dal delitto di Sarajevo, e rifiutando ogni proposta di mediazione. I1 1914 è strettamente legato al 1911, come il 1939 - inizio dell'attuale guerra - si rivela legato a l 1935, inizio della guerra del191talia contro 1'Abissinia. I1 seguito è ben noto. (2) Possiamo aggiungere la bomba atomica come un'arma normale e permanente delle guerre future?


litare, lo era invece dal punto di vista delle ideologie sulle quali era basato. L'idea d i nazione fu quella che incentrò il nuovo sistema politico. I n Francia essa prese i l posto della monarchia e rappresentò la volontà popolare organizzata dallo stato. I n Germania la nazione fu concepita misticamente - Fichte ne fu il poeta - come un'unità crescente d i forza interiore indipendentemente dalla forma statale. I n Italia la nazione fu il prodotto dell'indipendenza e unità politica conquistata con il risorgimento e fu legata all'idea liberale. Ma, sia la nazione statale, l a nazione mistica o la nazione liberale ( e più o meno così in tutta l'Europa continentale), essa rappresentò un mito (nel senso dinamico della parola), superiore ad ogni altro principio; perciò vi si legò strettamente il militarismo, come naturale difensore ed assertore delle nazioni nascenti. Le milizie reali furono soppiantate dalle milizie nazionali; i re ne divennero i capi, ma come re costituzionali e non più autocrati. Dove, come in Germania o Austria, i re serbavano una posizione dinastica e feudale, i corpi direttivi dell'esercito avevano acquistato, in certo modo, una duplice autonomia e dalla corte e dal parlamento, per sentirsi u n corpo nazionale in senso diverso di come si sentivano nazionali i soldati legati alle sorti delle diverse popolazioni di tali imperi. Parallele alle ideologie nazionali vestite di liberalismo o anche di democratismo, si andarono sviluppando presso le masse l e idee di rivendicazione economica e sociale che presero i nomi di socialismo e di comunismo. Questi marcavano un'opposizione allo stato, quale esso fosse: i l proletario contro l o stato borghese. Una delle prime affermazioni di tali partiti era quella della fratellanza proletaria universale e quindi l a negazione delle guerre e la domanda di abolizione degli eserciti e di cancellazione dei crediti militari dai bilanci dello stato. Non era nuova l'idea che l e guerre dipendessero dal predominio di famiglie, di classi e di caste. I rivoluzionari francesi imputavano ai p o n a r c h i e all'aristocrazia di corte le lunghe ed estenuanti guerre dei secoli XVII e XVIII, e l'assemblea nazionale di Francia nel 1792, intimando la guerra all'dustria, dichiarava d i agire per difesa del proprio territorio, non per


scopo di conquista. I fatti che ne seguirono furono diversi: la nazione rivoluzionaria divenne a sua volta militarista e conquistatrice. Allo stesso modo i social-democratici di Germania, dopo aver combattuto per anni ed anni le grandi battaglie contro l a politica e i bilanci militari di Bismarck e di Guglielmo 11, e sostenuta la tesi che il proletariato internazionale doveva fare fronte unico contro la guerra, nel 1914 cedettero e fecero atto di lealtà al proprio governo per la difesa della nazione. E panda, sotto l a repubblica di Weimar, furono al potere i social-democratici, da soli o con il centro cattolico, lasciarono mano libera a l gruppo militare che preparava la rivincita. La Russia ha fatto la stessa esperienza: Lenin in nome del comunismo non fece alcuna rivendicazione territoriale, e volle un esercito di pura difesa. Ma a poco a poco l'esercito divenne un corpo tecnico e potente; l a politica di difesa si trasformò i n politica di espansione e di conquiste territoriali. I1 timore d i una Germania riarmata e molto forte indusse Stalin a firmare con Hitler il trattato del 23 agosto 1939, e a riprendersi, in nome dei diritti del popolo, quei territori formalmente abbandonati da Lenin ( l ) . Ma la tendenza verso un assetto internazionale pacifico è insita nell'anima dei popoli; perciò, sia l a concezione liberale della nazione-stato, sia la concezione democratica della sovranità popolare, sia quella classista dei socialisti e comunisti, nonostante tutto, tende a superare i limiti domestici per un'intesa fra gli stati. Quel che rende difficile o ineffettiva tale intesa vagheggiata sempre e mai veramente realizzata, si è come fare i l passaggio dall'organizzazione della forza all'organizzazione del diritto. I sociaIisti del secolo XIX non fecero che spostare i termini del problema dal piano politico a quello economico, allo stesso modo che i giusnaturalisti del secolo XVII lo avevano s p o ~ a t o da quello religioso al piano giuridico e i democratici della fine del secolo XVIII dal giuridico al politico. I fatti provarono che in ognuno di tali stadi, il problema. fondamentole era sempre ,

(l) La politica imperialista del Cremlino è stata chiara durante la guerra ed è oggi più chiara.


lo stesso, quello dell'organizzazione pratica del diritto internazionale in una comunità d i stati, garantita da una forza dello stesso nome. Avveniva il rovescio: gli stati accettavano dalla chiesa la morale cristiana e il diritto canonico; dai giuristi il diritto delle genti e il diritto naturale; dai democratici il principio dello stato nazionale e della sovranità popolare; dai socialisti la difesa del lavoro, ma non accettarono mai la diminuzione della propria sovranità per un organismo superiore. Le regole del diritto internazionale erano accettate solo nel proprio interesse e difese solo con la propria forza, quando fossero ritenute utili. Così tutti quei movimenti intesi a regolare la vita internazionale potevano avere efficacia fino alla soglia della guerra. Scoppiata che era la guerra, i capi di tali movimenti, impotenti com'erano a dominare, sul piano politico o militare, gli avvenimenti di una lotta, tutti subivano il predominio delle forze statali. Quel che nel secolo XIX prese una più larga estensione e consistenza internazionale, sfuggendo alle strette dello stato e acquistando segreta autonomia, fu il nuovo tipo di capitalismo di speculazione che si sovrapponeva a quello mercantile del secolo XVIII. Si suole accusare tale capitalismo della corsa agli armamenti e dell'enorme sviluppo dei mezzi tecnici delle ultime guerre. Sarebbe troppo semplicista una tale tesi. Quel che si può dire di esatto si è che d i volta in volta il capitalismo si è servito dei governi e i governi si sono serviti del capitalismo. La grande industria nel suo slancio iniziale assorbiva molte forze dei giovani stati nazionali, e questi per reggersi, svilupparsi, difendersi concedevano alla grande industria quanti favori possibili. I1 militarismo è del secolo XIX, un secolo, che voleva essere pacifista, umanitario, liberale; in questo senso esso è stato nazional-capitalistico; in questo senso può anche dirsi anti-internazionale. Dato questo retroscena della politica europea, quale ce la dà la fine del secolo passato, le buone iniziative delle conferenze dell'Aja per creare una base giuridica, meno imprecisa e più larga, alle relazioni internazionali ed evitare i motivi d i guerra e anche per fermare la corsa agli armamenti, sembravano pannicelli caldi sopra una gamba di legno. Ebbero certo


il loro lato utile, quello di richiamare l a mente ad una realtà per sè grave e minacciosa, e mostrare l a necessità d i creare saldi organismi internazionali, che preparassero l'avvento di una comunità di popoli civili. Nel fatto, pur temendo che la catastrofe fosse imminente, nessuno stato era disposto a cedere un minimo della sua sovranità e del suo potere. Così si a m vava alla vigilia delle grandi guerre mondiali.

L'ABISSOTRA

LA TEORIA CRISTIANA E ZA PRASSI NELLE GUERRE MODERNE

Prima di esaminare i l periodo delle grandi guerre, che noi abbiamo vissuto e viviamo tutt'oggi, vediamo quale era allora l a posizione dei cattolici e il loro pensiero, e quale I'atteggiamento delle autorità ecclesiastiche verso la guerra. La teologia morale medioevale e quella casuistica dei secoli XV-XVIII, avevano tramandato la dottrina e precisato le norme da seguire nel caso di guerra, dal doppio punto d i vista della morale e del diritto. Mentre la morale riguardava il caso di coscienza dei singoli che promuovevano o accettavano l a guerra e d i coloro che vi cooperavano, i l diritto fissava le norme dell'apprezzamento oggettivo della giustizia e legalità di ciascuna guerra ; i due criteri riuniti Insieme davano le regole per valutare la necessità e l a formalità della guerra. Tale costruzione dottrinale e pratica si basava su dati che noi a mano a mano non troviamo più nei vari periodi delle guerre moderne, primo fra tutti il presupposto di un'etica comune, l'etica cristiana. Vero è che dalla riforma in poi si erano stabilite delle chiese dissidenti come chiese di stato ( a non parlare dell'oriente greco o russo ortodòsso che faceva un mondo a sè); ma dal punto di vista dell'etica, pur con notevoli differenze d i criteri e di applicazione, si arrivava sempre alla tesi della guerra giusta e necessaria. Ora, con l a concezione moderna della nazione come principio autonomo, come fonte della sua stessa morale, l a concezione cristiana della guerra giusta non ebbe più posto nella politica moderna. Altra differenza assai notevole veniva dal modo d i conce-


pire il diritto di guerra. Fino al più largo sviluppo delle teorie giusnaturaliste, la concezione prevalente presso le monarchie era quella del così detto stato patrimoniale; le questioni di territorio, i diritti dello stato avevano carattere dinasticcr. Prevaleva, in fondo, anche allora, l'antica concezione privatista del medioevo, nonostante le affermazioni dei giuristi e politici del tempo sul carattere pubblico della guerra. Le guerre erano di fatto guerre regie, specialmente se riguardavano, come spesso accadeva, diritti successori o pretese rivendicazioni di onore leso. Dal punto di vista giuridico, i moralisti del secolo XVIII erano più larghi dei loro predecessori nel giustificare le guerre dinastiche, arrivando ad ammettere che la guerra potesse giustificarsi dai due lati, ma fosse giusta solo da un lato. Infine, dato che i motivi d i guerra ( i giuristi dicono cause di guerra) spesso rimanevano segreti di corte, e dato che della necessità (come ultima ratio) era solo giudice il monarca, i moralisti si limitavano a lasciarne la responsabilità alla sua coscienza davanti a Dio e nell'interesse del suo popolo. È vero che tutti i moralisti erano concordi nell'affermare che se la guerra era palesemente ingiusta, nè i corpi costituiti nè gli stessi eserciti potevano cooperarvi, sotto pena di essere rei di tutti i mali e i danni che porta la guerra, e che i monarchi vittoriosi i n tali guerre non avevano per questo un giusto titolo per spogliare il vinto del suo diritto. Tale caso estremo restava come valvola di sicurezza nel caso che parlamenti, corpi ecclesiastici, municipalità prendessero l'iniziativa d i un rifiuto a cooperare col monarca e consentirgli i crediti necessari alla guerra. Ma, in via generale, data la difficoltà d i valutazione e l'eccitamento delle passioni di guerra, si ricorreva al criterio d i presunzione, cioè che l'atto di un monarca che indiceva una guerra ( e quindi, per contro, l'atto d i un altro monarca che l'accettava) si presumeva giusto fino a che non se ne dimostrava la patente ingiustizia. Come mantenere questa costruzione etico-giuridica in un ambiente in parte diverso e in parte opposto a quello dove essa, con vari adattamenti, attraverso i secoli, si era stabilizzata? Negli stati nazionali o i monarchi erano stati deposti o avevano preso la figura di re costituzionale che regna e non


governa ».Parlamenti, opinione pubblica, plebisciti, referendum prendevano il posto dei consigli segreti d i corte. Per giunta gli stati del secolo XM, anche quelli che erano detti u stati cattolici D, erano per il nuovo carattere politico u stati nazionali D. La casuistica della guerra dinastica non poteva più applicarsi a l caso, come non si poteva più dare fiducia alla coscienza del monarca, nè appoggiarsi alla presunzione della guerra giusta, ora che i motivi di essa dovevano essere fatti palesi ai parlamenti e alla stampa. Oltre a tutto ciò, un contrasto tragico, confessato o no, si era inserito nella società: una morale nazionale che non era ispirata alla morale cristiana. Nel caso supremo di guerra, tutta l a macchina politica non poteva avere altra morale che quella nazionale. È vero che anche sotto le antiche monarchie poteva ripetersi quel che uno spirito acuto diceva dei suoi compatripti, gli inglesi: u Essi sono dal lato di Dio, però solo quando Dio è dal lato degli inglesi ». Così l a pensavano Luigi XIV di Francia o Francesco I di Austria o Carlo PII d i Spagna. Però allora, se c'era il peccatore c'era anche il penitente; e c'erano coloro che potevano richiamare i1 peccatore alla penitenza. Un paragone storico renderà chiaro questo dato: per piacere a Enrico I1 d'Inghilterra fu ucciso dai sicari san Tomaso Becket, ma i sicari furono puniti ed Enrico I1 fece pubblica penitenza. Invece Napoleone potè far uccidere il duca dYEnghien e Mussolini assumere, e con ragione, l a responsabilità dell'assassinio di Matteotti, senza che in nessuna maniera essi si sentissero colpevoli o come tali fossero trattati dalla società. Quel che si andò insinuando nella vita morale dei popoli f u lo stato d'animo che ogni rivendicazione nazionale non solo fosse giusta, ma giustificasse la guerra. Così per tutte l e guerre nazionali del secolo XIX non f u mai sollevata la questione della giustizia della guerra dal punto di vista dell'etica cristiana; la presunzione di giustizia non era per tali guerre un ripiego giuridico o casuistico; si aveva la convinzione della loro giustizia, concepita questa nazionalisticamente. I moralisti non ebbero il tempo di rielaborare la loro dottrina per il nuovo ambiente; forse neppure ebbero il dubbio che il mondo fosse cambiato. Nella pratica, si trovarono cattolici e

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cleri che apertamente parteggiavano per l e rivendicazioni nazionali contro i vecchi sovrani assolutisti o contro le dominazioni straniere. Ma, in via generale, l'atteggiamento delle autorità della chiesa nella prima metà del secolo XIX, fu contrario alle rivolte e guerre dette nazionali, e ciò ( a parte il punto di vista etico se tali guerre fossero o no giuste) per le idee liberali che ne erano l a base e che mutavano lo stato di possesso in cui si trovavano monarchie, aristocrazie e cleri (l). A guerre finite (meno che per l'Italia fino al trattato del Laterano) la Santa Sede si adattò a riconoscere i nuovi stati nazionali, i vari governi popolari, nonostante il succedersi di capi di stati uno scalzante ]l'altro, come in Francia - per non parlare delle repubbliche dell'dmerica latina - tollerando anche le rivolte e le guerre endemiche, o meglio lasciando all'apprezzamento e alla prudenza del clero locale e degli stessi cattolici laici, l'atteggiamento da prendere. I n genere, fu favorito quasi sempre il creduto meno peggio: i governi in carica più che i ribelli; quelli di destra più che quelli di sinistra; il liberale più che i l socialista, in un adattamento quasi spontaneo, a volte interessato, quasi sempre più politico che etico. Sembra, in questo periodo, quasi scomparsa la preoccupazione etica della guerra ( o delle rivolte) per una posizione politica guardata come vantaggio, o creduto vantaggio, della chiesa. Dopo l a metà del secolo XIX, abbiamo già un cambiamento di posizioni. I nuovi stati o i nuovi tipi di governo creati o modificati dalle rivoluzioni e guerre nazionali, prendono u n assetto stabile, i l diritto si rassoda, i monarchi spodestati re(l) Antonio Rosmini Serbati, il noto sacerdote italiano filosofo, i n una lettera del 9 maggio 1848, al suo sostituto a Roma, don Carlo Gilardi, manifestava la sua opinione che l'indirizzo di Pio IX sulla questione italiana non aveva risolto il problema morale della guerra contro l'Austria. Se tale guerra era ingiusta, non solo il papa ma nessun altro principe italiano poteva intraprenderla; ma se era giusta, il papa, quale capo temporale del suo stato, non poteva rifiutare i l suo aiuto al comune sforzo. Fra altre cose interessanti, Rosmini scriveva: a Se il mondo viene portato a credere che il papa non può mai intraprendere una guerra perchè egli è il Padre comune di tutti, può anche credere che il potere temporale e il papato sono incompatibili n (v. Commentano della missione a Roma d i Antonio RosminG Serbati negli anni 184849, Torino, Paravia, 1881.


stano in qualche capitale o in qualche castello come innocui pretendenti. Dall'altro lato, le guerre che si vanno delineando sono di carattere misto tra ~iazionalied imperiali. Il nuovo fatto, che sposta l'equilibrio delle forze e che creetà i motivi delle guerre successive, sarà la prussianizzazione della Germania. Le guerre della Prussia con l'Austria e con l a Francia, quelle dell'Italia con l'Austria e col papa, la guerra anglo-boera, l a russo-giapponese, l a ispano-americana ( a parte quelle di carattere civile o locale-nazionale) diedero luogo a grandi discussioni sulla giustizia della guerra dal punto di vista del diritto positivo come da quello generale di civiltà e umanità. Si era all'indomani dell'iniziativa dello scozzese Urquhart, che aveva scritto nel 1867 il famoso appello d i un protestante a l papa per la restaurazione del diritto delle genti, a l quale seguirono varie petizioni dall'hghilterra e dalla Francia. Quaranta vescovi firmarono una serie di Postulata, da sottoporre al concilio Vaticano. Ma per la sospensione d i questo e la caduta del' potere temporale, l'iniziativa non ebbe seguito. A parte questo episodio (che valeva l a pena di essere ricordato), l'idea di una morale cristiana nel campo internazionale come guida di atti politici e specialmente come valutazione di atti di belligeranza, in quel periodo sembrava quasi scomparsa. I cattolici che se ne occupavano nei loro scritti e nei loro congressi erano pochi e non avevano eco. I1 fatto grave era che i cattolici o per convinzione irriflessa o per spirito d i gruppo o per .non sembrare meno patrioti degli altri, accettavano ancyessi la giustificazione politica della guerra del proprio paese, e, come quasi tutti, dirigevano la loro critica alle guerre degli altri paesi. Neppure i n questo caso l'atteggiamento generale portava ad apprezzamenti di carattere etico cristiano, ma piuttosto ad atteggiamenti politici. Anche i cattolici furono più o meno avvolti in tale ambiente. La maggior parte di essi furono per i boeri contro gli inglesi, per la Spagna contro l'America, per i l Giappone contro la Russia, per l'Austria degli Asburgo e la Francia di Napoleone I11 contro la Prussia di Bismarck. I motivi politici e i preconcetti religiosi si sovrapponevano ad ogni altro criterio.


Non mancarono, per&, neppure. fra i cattolici spiriti antiveggenti e pensosi, che sentivano la grave crisi che pesava sul cattolicesimo del secolo passato, e che preparandola aspettavano una parola liberatrice anche in una materia così grave e delicata quale la moralità della guerra.

IL PENSIERO

CATTOLICO SUiLLA GUERRA F I N O ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE

La posizione presa da Leone XIII in tutti i campi della vita intellettuale, politica e sociale, lo portò a interessarsi della (C pace armata D. Era il periodo della corsa agli armamenti, dello studio dei problemi internazionali come (C balance of power D, della nuova tecnica militare, e si sentiva montare minacciosa la guerra a cui allora davasi i l nome di C( conflagrazione europea B. Leone XIII, nel richiamare il mondo a i principi cristiani, intendeva contribuire ad evitare la guerra. Alla prima conferenza dell'Aja lo zar delle Russie e la regina d'Olanda volevano l'intervento del papa, ma l'Italia vi si oppose; ciò nonostante l a voce di Leone XIII fu sentita a mezzo di una sua lettera che fu letta alla sessione di chiusura. La chiesa non nega il diritto di guerra, se questa è giusta e necessaria D, ma h a sempre e in ogni tempo sostenuto esser suo dovere aiutare a porre i precedenti morali, e anche politici, a che nessuna guerra fosse necessaria, nonostante che potesse essere, stricto jure, detta giusta. Lo stesso Leone XIII aveva esercitato due volte l'arbitrato internazionale, tanto più che l'idea veniva accolta dai cattolici ( e anche da una notevole frazione di non cattolici) quanto più la fama e l'autorità di Leone XIII s i erano largamente imposte nel mondo. Fra i cattolici vi era una specie di nostalgia per un medioevo papale visto con i colori romantici: non per nulla De Maistre aveva scritto il suo celebre libro sul papa. Ma la posizione preventiva non era che precauzionaria; cadeva il giorno stesso che una guerra venisse dichiarata. Poteva in tal caso applicarsi la teoria di una guerra giusta? Che cosa avrebbero fatto i vescovi, i l clero, i cattolici dei paesi in lotta?

1 1 . S m o - Nazionalismo e Internazionalismo


Quale l'atteggiamento della Santa Sede? Ecco quel che angosciava i pochi cattolici antiveggenti ai primi di questo secolo. Per alcuni di essi fu un assai triste avvenimento quello della guerra dell'Italia per l a conquista libica (1911). I1 Banco di Roma, allora in mano ai clericali romani e che si riteneva il banco della Santa Sede e degli ordini religiosi ( i l che non era esatto), si era messo a capo dei fautori di tale guerra, e vari giornali cattolici fra i più diffusi nella penisola furono presi dal fervore della conquista. Coloro fra i cattolici che erano contrari all'impresa venivano accusati di antipatriottismo o addirittura di socialismo, dato che i socialisti italiani furono apertamente ostili ( i n quel tempo Benito Mussolini promuoveva l a rivolta delle donne contro la partenza delle truppe). Ma, si disse, quella era un'impresa coloniale, una guerra contro l'islamismo africano, che avrebbe aperta la porta al cattolicesimo in Libia. L'Italia aveva una specie di investitura sulla Libia, che avrebbe costituito uno sbocco all'emigrazione agricola ('). Così il problema etico veniva eluso, anzi superato dagli stessi cattolici che accettavano in pieno l a giustificazione politica di quella guerra. Fu allora che comparvero a Parigi nel 1911-12 i due libri di A. Vanderpol, e cioè Le droit de guerre d'après les théologiens e t les canonistes d u Moyen Age, e La guerre devant le Christianisme (2), che richiamavano al genuino pensiero etico cristiano sulla guerra, notando le deviazioni e attenuazioni della dottrina cattolica, citando copia di teologi, specialmente Vitoria e Suarez. L'interessante lavoro non arrivò che a pochi. La grande guerra arrivò subitamente, nonostante che da più di venti anni se ne parlasse come di fatto inevitabile, e si presentò in maniera confusa. Perchè molti cattolici dei paesi neutrali furono, sul principio, a favore dell'Austria che aggrediva la Serbia e della Germania che aggrediva l a Francia e violava la neutralità belga della quale essa stessa era garante? Purtrop.

(l)

Tali giustificazioni sono state ripetute dai cattolici filo-fascisti per

la recente guerra all'Abissinia. (2) I due volumi furono fusi in uno: La doctrine scolastique et le droit de guerre, Paris, Pedone, 1919.


po i sentimenti politici o pseudo-politici prevalevan'o sugli apprezzamenti etici: la Serbia era ortodossa e legata a Pietroburgo, mentre l'Austria era cattolica (politicamente diciamo noi); se la Germania era dominata dalla Prussia luterana, la Francia del 1914 era ancora quella dell'anticlericalismo di Combes. E il Belgio cattolico? « Si, è vero, fu aggredito, ma perchè non lasciò passare le truppe tedesche? I n due settimane sarebbero arrivate a Parigi e la guerra finiva; invece se n'ebbe per più di quattro anni! D. Simili discorsi venivano fatti allora, come se la violazione dei patti fra gli stati fosse cosa trascurabile. Mancava la formazione di una coscienza morale in materia politica. I pochi cattolici democratici di quegli anni furono tosto dal lato del Belgio e della Francia; poi a mano a mano l'opinione generale dei cattolici si andò spostando, e non interamente, nè per motivi etici efficacemente sentiti e fortemente espressi; ma come un vago sentimento che li inclinava ad ammirare la resistenza dei paesi dell'Intesa e a sperare così in una pace di compromesso. Presso le nazioni in guerra i cattolici furono tosto dietro i loro governi, lealmente combattenti e cooperanti al trionfo della propria bandiera. Fece scandalo presso molti l'appello dei vescovi tedeschi che tendeva a giustificare la guerra promossa dal Kaiser e minimizzare la responsabilità della violazione del Belgio. I vescovi francesi replicarono con miglior fortuna giustificando la posizione della Francia aggredita, che combatteva in sua difesa una guerra giusta. Mai la discussione sulla giustizia di una data guerra appassionò talmente e fu così generale, come durante e dopo la guerra mondiale; non che si potesse dubitare che Austria e Germania avessero premeditato il colpo, ma la gente era ansiosa di valutare le responsabilità della guerra dall'una e dall'altra parte. Quel che mancava spesso era i1 criterio etico con il quale confrontare le responsabilità dei governi in lotta. Perciò istintivamente molti domandavano alla religione e agli uomini che la rappresentavano, come il papa, una parola autorevole sulla giustizia di tale guerra. Se questa parola fosse venuta, sarebbe stata ascoltata? Ecco il primo problema che si pose Benedetto XV nominato papa quando già il Belgio era invaso e la guerra infieriva sui fronti '


francese e russo-serbo. L'altro problema fu per lui piu grave ancora: come dire una parola serena e giusta senza avere l a esatta notizia dei motivi che avevano spinto alla lotta l e due parti e i loro alleati? E come far ciò senza essere investiti di un loro mandato? Certo, il Belgio era stato violato e l a Francia attaccata, ma quale la loro responsabilità precedente? I n sostanza, in quel momento il giudizio del papa non avrebbe fermata l a guerra e gli avrebbe impedito ogni contatto con i1 clero e i fedeli della parte che avrebbe avuto torto. Nè la chiesa era preparata ad affrontare simile situazione, nè l'opinione generale dei cattolici era matura per sostenere i l papa in una situazione di lotta contro i capi dei propri stati o degli stati amici. Non scriviamo ciò per difendere l a memoria di Benedetto XV (ciò qui sarebbe fuori di proposito), ma dal punto di vista storico, per analizzare quanto fosse profonda la crisi morale nel campo internazionale, anche nello stesso ambiente cattolico. Benedetto XV preferì organizzare l o scambio dei prigionieri e l'assistenza religiosa morale e sociale presso le parti i n guerra, fare appello per la pace (1916), e infine presentare egli stesso un piano di pace con la lettera del 1" agosto 1917. Quella lettera resterà come il più alto e antiveggente documento di pace che sia stato scritto e che rispondeva al comune sentire del popolo. La chiesa non fu ascoltata nè dagli uni nè dagli altri, e l e conseguenze di tale errore si sentirono dopo, perchè invece d i una pace d i conciliazione si volle una pace imposta. A guerra finita, fu auspicata e fondata la Società delle nazioni come l'inizio di una nuova era senza più guerre. Non è qui i l caso di discutere il bene e i l male dell'istituto di Ginevra; noi ne abbiamo parlato a lungo e in massima favorevolmente ne L'organizzazione ,internazionale e il diritto di guerra, (l), in Chiesa e stato (7 e in altri scritti, e ne abbiamo esposti i motivi della grande crisi. Ora domandiamo: perchè nel periodo iniziale della Società delle nazioni i cattolici furono, quasi tutti, meno poche e valide eccezioni, diffidenti e perfino ostili? (l) (2)

Bologna Zanichelli, 1953. Bologna, Zanichelli, voll. 2, 1958-59.

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Lo storico ha i l dovere di indagarne i motivi. Notiamo alcuni sentimenti e risentimenti che prevalsero un po' dappertutto. La Società delle nazioni non fece alcun posto al papato; fu voluta da Wilson, e fu portata a -Ginevra, l'antica-città di Calvino, per farne un'anti-Roma; gli ideatori di essa furono dei massoni internazionali e così via. Queste accuse oggi sembrano fuori tono, allora ebbero larga eco. I n Francia era la destra nazionalista e clericale, era Maurras e l'dction F r a q a i s e con i suoi seguaci in Belgio, Italia e Spagna, che sfruttavano simili argomenti. In Germania, i cattolici erano diffidenti ; in Inghilterra, in Irlanda e. Olanda molti erano a favore della Lega ; i n America la battaglia politica contro Wilson nella crisi del dopo guerra fece chiudere gli Stati Uniti in un rigido isolazionismo. Dopo la prime esitazioni, i cattolici favorevoli, per lo più d'idee democratiche, si fecero avanti. Fondarono l'Unione cattolica di studi internazionali e fecero a Ginevra un centro di manife?tazioni religiose e intellettuali a favore del sistema comunitario e di varie iniziative della Società, specialmente del disarmo. Non mancarono i discorsi del vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo; e il nunzio presso il governo federale svizzero era incaricato dei contatti ufficiosi tra l a Santa Sede e la Società. Ricordiamo la dichiarazione del card. Bourne a nome d e l l ' e p i ~ c o ~ a t inglese o a favore della Lega (1924). NellYUfficio internazionale del lavoro i sindacati cristiani e la loro internazionale di Utrecht avevano posto ed erano rispettati, non ostante certi atteggiamenti monopolistici dei socialisti. Due gesuiti, il padre Arnou prima, il padre Leroy dopo, facevano parte del personale dell'ufficio. A Parigi nel 1924 si costituì il segretario internazionale dei partiti democratici d'ispirazione cristiana (che funzionò fino al 1939)' con programma favorevole alla Società. Furono costituiti i n molti stati d'Europa e d'America delle conferenze o unioni per la pace. I n America esponente della Lega fu il defunto mons. J. A. Ryan. Ciò non ostante, fra i cattolici non cessò mai l a propaganda ostile alla Società delle nazioni; la stampa cattolica, meno quella democratica e qualche grande giornale religioso, fu quasi sempre di5dente e critica. Ai nazionalisti francesi si aggiunsero tosto, dal 1925 in poi, i fascisti italiani e poco dopo i nazi tedeschi a screditare Ginevra. I cat-

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tolici erano sotto l'influenza di tali gruppi e accettavano i loro pregiudizi nei confronti della Lega. Cosi si arrivò alla crisi del 1935, quando il governo fascista decise di muovere guerra all'Abissinia. Si poteva dubitare che quella fosse una pura aggressione? Non c'era nel patto di amicizia fra l'Italia e l'dbissinia, stipulato nel 1928, che ogni vertenza non conciliata amichevolmente doveva sottoporsi ad un arbitrio? Non vincolava l'Italia l'obbligo del patto della Società delle nazioni? La posizione giuridica e quella morale del191talia nel muovere guerra al Negus non avevano alcun fondamento. Perchè allora i cattolici non presero netta posizione a favore della Società delle nazioni? Perchè la stampa cattolica mondiale, meno lodevoli eccezioni, fu a favore del governo fascista? Ciò che più turbò allora fu l'atteggiamento del clero e dei cattolici italiani. Tre vie tennero costoro per giustificarsi: a) l'Italia aveva bisogna di espansione perchè sovrappopolata e perchè senza risorse; ma Pio X I aveva detto, e l'Osservatore Romano ripetuto, che ciò, pur essendo vero, non costituiva un diritto da rivendicare con una guerra; b) l'Italia voleva portare la civiltà in un paese ancora barbaro, ma questo motivo (che fece versare fiumi di discorsi retorici) fu detto dalla stessa Civiltà Cattolica di Roma come insufficiente a giustificare una guerra; C) l'Italia aveva diritto alla riparazione di torti ricevuti dal Negus; ma, nel fatto, nessuno poté dimostrare che tale riparazione (se veramente dovuta) non poteva ottenersi altrimenti che con una guerra a fondo e con la distruzione di un impero ridotto a colonia. Tanto più che, a Parigi prima e a Ginevra dopo, nello agosto-settembre 1925, Francia e Inghilterra avevano fatto proposte molto favorevoli all'Italia, sulle quali si sperava di ottenere il consenso del Negus. I cattolici italiani, e con essi tutti gli altri che erano d'accordo con loro, si trovarono troppo a corto di ragioni per giustificare la loro condotta. Cosi non mancò chi riprese i1 motivo della casuistica tradizionale sulla presunzione a favore della guerra giusta voluta dal re e dal suo governo (l). Ma due giudizi ( l ) Questa idea fu ripresa dal prof. Carlo Colombo della facoltà di teologia di MiIano (v. Ia Rivista di Filosofia neoscolastica, Milano, luglio 1940).


pubblicamente dati pesavano contro tale presunzione. I1 primo quello del papa Pio XI, nel discorso di Castelgandolfo del 28 agosto 1935, dove facendo le due ipotesi della difesa e dell'aggressione, aveva riconosciuto che la difesa non portava alla guerra, perchè sarebbe stata eccessi&, e che l'aggressione, se vi era, sarebbe stata ingiusta ( l ) . I1 secondo, quello dell'assemFra tutti gli italiani, quello che ha capito meglio la tradizionale dottrina cattolica sulla guerra giusta, nel suo vero spirito, è stato il prof. Giorgio La Pira, nei suoi ((Principi (supplemento di Vita cristiana, Firenze, 1939). Ma furono i teologi incontratisi a Friburgo, in Svizzera, nel 1932, che avviarono una revisione della teoria morale della guerra. Sulle loro conclusioni in materia, vedere La Vie Intellectuelle di Parigi (febbraio 1932) e il Bulletin de Littérature Ecclésiastiquc (Tolosa, 1941). (l)

Sulla stampa laica americana sono stato accusato di aver forzato

il significato di questo indirizzo di Pio XI, e di avergli attribuito u n giudizio sfavorevole sull'aggressione fascista contro 1'Abissinia. Le parole del papa, per quel tanto che interessano i miei critici, erano troppo misurate, troppo convenzionali e ben lontane dalla realtà dei fatti. Ma essi non ricordano che Pio XI parlava i l 28 agosto 1935, proprio mentre falliva a Parigi la conferenza dei rappresentanti inglesi, francesi e italiani, e nessuna speranza di evitare la guerra veniva data poi dall'imminente riunione della Lega delle nazioni a Ginevra. Nel fatto, un comitato di cinque era stato incaricato dalla Lega di trovare una nuova base per un accordo. In tale situazione Pio XI era ansioso di manifestare la sua opinione contro la guerra, e al tempo stesso era preoccupato di non interferire nella questione in modo intempestivo o imprudente. Che il suo animo fosse contro ogni guerra, era risultato chiaro quattro mesi prima attraverso un altro suo discorso, nel quale egli aveva citato il noto passo del salmo 76: C Guai alle nazioni che vogliono le guerre ». Nessuno pensò che l'allusione di Pio XI fosse diretta al Negus dell'Abissinia. Tuttavia io comprendo la posizione di alcuni miei critici. A parte quelli che sono fortemente anticattolici e godono nel cogliere gli errori del clero e dei papi, gli altri sono impressionati dal fatto che la stampa cattolica non si è data pena di commentare il discorso papale di Castelgandolfo. Al contrario, la stessa stampa era favorevole alla guerra italiana in Africa e contro le sanzioni della Lega delle nazioni. E dopo la disfatta del Negus, molti dei giornali cattolici riportavano con evidente compiacimento le poche parole di Pio X I alla mostra internazione della stampa vaticana, che notavano la coincidenza di tale inaugurazione con le notizie della pace vittoriosa dell'Italia, per la quale egli gioiva con i suoi figli (maggio 1936). Ricordo come tale parole colpirono molti cattolici, e anche me stesso; ma un mio amico che conosceva Pio XI da lungo tempo, quando era noto a tutti come


blea della Società delle nazioni, il quale giudizio, benchè fosse stato dato in sede politica e non giuridica, pure denunziava la violazione del patto, la qual cosa toglieva ogni valore alla presunzione della giustizia della guerra. Omettiamo di accennare alla guerra di Spagna (abbiamo espresso su d i essa il nostro parere in Chiesa e Stato e in Politics and morality ( l } perchè ci porterebbe a discutere anche la moralità delle rivolte il che è fuori del soggetto di questo studio. Ma è noto che nella nostra opposizione all'intervento armato dell'Italia e della Germania in Spagna, e nella nostra critica alla politica della Francia e della Gran Bretagna durante la guerra civile spagnola nell'opporsi a Franco e alla Falange, non giustificavamo l e stragi del governo spagnolo di sinistra. Ma perchè, quando Hitler marciò su Vienna, pochi giornali cattolici reagirono contro? Oltre l'Osservatcire Romano, notiamo i giornali democratici cristiani di Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, il People and Freedom di Londra, vari giornali d'America. Ma quanti non dissero: « Bene, una questione di meno; dopo tutto, gli austriaci sono tedeschi D. Solo pochi notarono che fu violato il patto ,della Società delle' nazioni, che si mancò alla fede data da Bitler e da Mussolini a l governo di Schuschnigg; che fu violentata la volontà popolare, fu calpestato il diritto di una nazione all'indipendenza; tutto ciò con indifferenza o quasi compiacimento dell'opinione pubblica. E forse non vi furono giornali e periodici cattolici, a sostenere che Hitler aveva ragione a pretendere che i tedeschi sudeti della Cecoslovacchia passassero alla Germania, essi che mai dipesero da Berlino? e non ripetevano che il governo cecodon Achilie Ratti, mi raccontò che il papa in quell'occasione parlò spontaneamente, non da un punto di vista morale o politico, ma solo del sentimento, come un nOM0, o forse come un vecchio patriota italiano, qual'era stato in gioventù. Non tutti gli antifascisti italiani saranno d'accordo con il mio amico; per molti d i loro « p a p a Ratti n era tinto di fascismo a causa del suo conservatorismo e anche per la soluzione sulla questione romana, e solo negli ultimi anni della sua vita capì che razza di disastro il regime fascista era per l'Italia e la chiesa. (l) Op. cit., Bologna 19.58-59; Politics a d morality, London, Burns, Oates and Washboume, 1938.


slovacco era massone e bolscevico? Se questo fosse stato vero, il che non era, sarebbe stato forse una ragione per privare una nazione dei suoi diritti? (l). Quando l'Italia fascista nel venerdì santo del 1939 senza combattere prese l'Albania, nessuno proiestò; solo P& XI ne fece amara allusione nel discorso di Pasqua in San Pietro. I giornali cattolici che rilevarono l'aggressione per condannarla si potevano contare sulle dita. Con simile mentalità anti-etica e antigiuridica, diffusa in tutti i campi, ( i cattolici subivano spesso l'ambiente inquinato per complesso di inferiorità o per adattamento politico alla propaganda fascista e nazista), niente meraviglia se si contribuì, inconsciamente, a rendere attuali i motivi di una nuova grande guerra e a rendere inevitabile il nuovo conflitto. Nè si creda che anche oggi tale mentalità sia scomparsa; essa persiste, vestendosi di diverse guise, ed è riconoscibile tanto presso i belligeranti quanto presso i neutri.

L A SECONDA GUERRA MONDIALE E L A C H I E S A

La posizione di Pio XII nella guerra attuale è quasi identica a quella che assunse Benedetto XV nella passata. Vi sono tuttavia alcune differenze che van rilevate. Pio XII appena scoppiata la guerra manifestò pubblicamente la sua simpatia per la Polonia oppressa, e si affrettò a fissare, nell'allocuzione del Natale del 1939, i punti cardinali per una vera pace, dando così la guida a giudicare delle finalità della guerra sia dal lato della Germania che degli alleati. I cinque punti di Pio XII sono il riassunto del pensiero papale da Leone XIII ad oggi adattato al carattere dell'attuale guerra: 1) sicurezza per tutte le nazioni (l) Da più di quindici anni i cattolici collaboravano al governo cecoslovacco. I1 loro capo mons. Srameck venne nominato primo ministro del governo in esilio (Londra 1940); in seguito egli fu vice-presidente del gabinetto di Praga. Ma oggi, sfortunatamente, la Cecoslovacchia è sotto l'influenza di Mosca.


grandi e piccole, potenti o deboli, al proprio diritto di vita e d'indipendenza, e riconoscimento del diritto alle riparazioni per i mali sofferti dalla guerra secondo l e regole di giustizia e reciproca equità; 2) necessità di porre termine alla corsa agli armamenti e di evitare i l pericolo che la forza materiale divenga tirannica ; 3) riorganizzazione internazionale non unilaterale, con istituzioni giuridiche garanti dell'adempimento leale dei patti di pace: 4) riconoscimento dei giusti diritti delle minoranze; 5) patti internazionali resi validi e animati dalla morale e dalla religione. Lo stesso Pio XII, nel Natale scorso, rivolgendo la solita allocuzione ai cardinali, ha dato ampio sviluppo a questo ultimo punto - morale e religione nel campo internazionale - indicando che cosa si dovrà superare per attuarla: l'odio, che è causa di divisioni e.lotte fra i popoli; la diffidenza che rende impossibile ogni sincero accordo internazionale; l'utilitarismo al posto della legge e del diritto ; l'ingordigia che rende difficile l a giusta partecipazione delle nazioni e delle varie classi alle ricchezze naturali; lo spirito di freddo egoismo che porta alla violazione dell'onore e della sovranità degli stati e di ogni disciplinata liberti di cittadini ('). A tali sentimenti nobili e cristiani rispondono le manifestazioni di Pio XII durante la presente guerra, a favore della Polonia oppressa, del Belgio, dell'olanda, del Lussemburgo invasi, della Francia abbattuta. Non mancano critiche a Pio XII come non mancarono a Benedetto XV, il quale ultimo, pur in mezzo a difficoltà e, se vuolsi, a qualche incertezza, fu un papa antiveggente e coraggioso. I1 presente papa ha anche lui gravi difficoltà da superare, data la diversa posizione sua dopo i l trattato del Laterano. Benedetto XV fece pubblica protesta, durante l a passata guerra, contro il governo italiano,per l'occupazione del palazzo Venezia appartenente all'ambasciata austriaca accreditata presso il Vaticano. Questo atto ebbe qualche replica giornalistica; ma se non fosse stato fatto prima del 1923, quale sarebbe stata la replica del governo fascista? (l) È interessante studiare i documenti di Pio XII durante e dopo la guerra. Vedere Guido Gonella, u World to reconstruct. Pius XII on Peace and Reconstruction D, hfilwaukee, The Bmce Publishing Company, 1944.


Quel che non è stato messo in luce sufficiente dalla stampa in genere, e da quella cattolica in specie, è come le ripetute affermazioni del papa, benchè trascendano le particolarità del conflitto attuale, ne investano i termini e le finalità. Non si tratta di far credere che il papa parteggi per la Gran Bretagna, ma che egli in diverse occasioni e con atti ben chiari ha difeso il diritto dei paesi oppressi, Polonia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Norvegia. Ma quale delle due parti in lotta h a leso il diritto di questi popoli se non la Germania? E quale delle parti in lotta h a negato i principi sui quali il papa poggia la pace se non la Germania e l'Italia? Non fu Mussolini a dire, appena caduta Varsavia, che la questione polacca era cc liquidata U ? e non approvò il governo fascista l'invasione dei Paesi Bassi e perfino della Norvegia? Non vogliamo forzare i fatti, ma darvi la giusta luce ( l ) . Mentre le dichiarazioni inglesi sui fini di guerra si conciliano con i cinque punti del papa, non si può dire lo stesso per quelli di Hitler e Mussolini. Ma ci si fa spesso la domanda perchè il papa non abbia detto nulla quando l'Italia entrò in guerra contro la Francia che soccornbeva e poi contro la Grecia neutrale, pur trattandosi di casi più o meno simili a quelli del Belgio e dell'olanda. Siamo noi forse autorizzati a dare una risposta? La nostra potrebbe essere solo un'interpretazione più o meno esatta di tale silenzio. Concedendo che la situazione del papa in Italia sia piìi delicata oggi di quel che non fosse nell'altra guerra ( e già lo abbiamo detto) e che il papa abbia voluto evitare una rottura ben certa, ( l ) I1 27 gennaio 1941, lo speaker della radio vaticana, commentando l'atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti di vari governi, disse: n La chiesa rifiuta di interferire nei metodi di governo favoriti dai diversi regimi, ma leverà la sua voce ogni volta che si tenterà di rendere impossibile la sua missione. La chiesa non permetterà mai che i bambini dei fedeli vengano allevati in un'atmosfera di cmdeità. Non si piegherà mai all'incertezza che nasce dal fatto che l'esistenza della legge divina viene negata nelle relazioni fra i popoli, tanto che diventa impossibile la coesistenza di nazioni forti e deboli. Gli uomini devono essere liberi e perciò la chiesa non si piegherà mai allo slogan « l a forza è legge D. Era molto più facile applicare tali parole alla Germania che non alla Gran Bretagna e ai suoi alleati.


potremmo essere nel vero; ma dovremmo 'aggiungere che tutta la condotta di Pio XII in questa guerra è sufficiente a farci comprendere il suo pensiero nel caso dell'Italia. I n tutta questa analisi che stiamo facendo, vi è un punto assai delicato per uno storico onesto, il quale allo stesso tempo abbia simpatia per il suo soggetto. Ci sono storici acxi, che vedono tutto sotto il punto di vista dell'interesse, interesse personale o d i corpo, magari anche alto interesse religioso, ma sempre interesse. Ci sono altri storici scettici, che giudicano l'uomo mai degno di considerazione; trattano l a storia come se essi fossero i giudici superiori di tutti i colpevoli del passato; non si sa perchè essi facciano gli storici. Infine ci son quelli che simpatizzano col proprio soggetto, ed hanno perciò il privilegio delle intuizioni storiche, ovvero i l peso delle inesattezze di interpretazione. Io spero di evitare queste ultime, anche se non avrò i l privilegio delle intuizioni storiche. I1 problema che non mi sono posto solo io, ma che si son posti spesso i cattolici e non cattolici, può essere espresso nella seguente domanda: « Come va che i papi parlano così bene delle questioni internazionali, e clero e cattolici, quando è i l momento di sostenere la dottrina e i moniti dei papi non ne fanno più caso, come di cosa che non li tocchi? Sono condannati la guerra di aggressione, la violazione dei patti tra gli stati, il nazionalismo eccessivo, l'oppressione del debole e così via; ma scoppiata la guerra, i cattolici con i loro cleri sono dal lato dei propri governi, anche quando questi hanno violato i patti, hanno usato metodi di violenza, sono apertamente degli aggressori. E sembra anche che il papa stesso non solo tolleri, ma riconosca legittima una tale condotta W . Così espresso il problema, vediamo di fissarlo in termini più esatti e meno esagerati. I n un importante discorso di Pio XII, rivolto ai rappresentanti dell'azione cattolica italiana il 4 settembre 1940, dove egli ricordava la gloriosa storia di tale azione e i suoi fini religiosi, vi fu un passo che richiamando l'enciclica di Leone XIII del 1" gennaio 1890, diceva: « P e r tal modo (nell'ubbidire alle autorità civili) i soci dell'azione cattolica, l a quale non è e non vuole essere un'associazione di partito, bensì un'élite di esempio e di fervore religioso, dimostreranno di essere non solo ferven.


tissimi cristiani, ma anche perfetti cittadini, non estranei agli alti compiti della convivenza nazionale e sociale, amanti della patria e pronti a dare per essa anche la vita, ogni qualvolta il legittimo bene del paese richieda questo supremo sacrificio n. Ecco la parte in cui i giornali han visto un'allusione all'attuale guerra. Da tutta l'allocuzione si rileva il tono generale dell'insegnamento cattolico, senza riferimenti particolari; qui non c'è altro che la tradizionale dottrina. Per giunta le parole di Pio XII sono assai misurate: « legittimo bene del paese D. La guerra attuale che mena l'Italia risponde veramente al « legittimo bene del paese? D. I n Italia nessuno in coscienza lo può affermare. Ma nel fatto pratico i cattolici (non tutti) suppongono che l'attuale guerra sia « per il legittimo bene del paese », facendo così atto d i lealtà verso i capi politici responsabili (l). Ma bisogna ricordare che quando i cattolici greci, e con più ragione, parlavano di guerra giusta perchè la Grecia era stata attaccata dall'Italia senza fondamento, il New York Times del 28 novembre 1940 riportava la notizia che il papa, rispondendo ai vescovi cattolici della Grecia (che lo avevano interessato di premere sul governo italiano per non far bombardare Atene) fra l'altro raccomandò loro di mantenere la loro « lealtà civica al governo greco n. Questa idea della « civic loyalty » mi richiama alla mente la recente dichiarazione dell'arcivescovo di New York. I1 papa il 17 ottobre fece speciale appello ai cattolici degli Stati Uniti per appoggiare una « pace fra i popoli e le nazioni del mondo basata sull'equo accordo delle divergenze e sull'azione che deriva dal giusto ordine ».L'arcivescovo Spellman rispose nobilmente all'indirizzo del papa, sottolineando in aggiunta che « our loyalty to Christ and to Christ's teachings and our veneration for Thee as Christ's vicar involve no possibile disloy-alty to the legitimate authority of our civil state >) (3. I n un paese de(l) Vedi articolo di mons. Luigi Civardi siiU'Osservatore Romano del1'11 settembre 19M. ( 2 ) K La nostra lealtà a Cristo e agli insegnamenti di Cristo e la nostra venerazione per Voi come vicario di Cristo, non può comportare alcuna slealtà alla legittima autorità del nostro stato civile D. In un altro discorso


mocratico si può usare l a frase negativa no possible disloyalty, in u n paese autocratico si afferma invece la a civic loyalty N. A parte la differenza enorme dei margini che concedono le 'libertà politiche alle manifestazioni del proprio pensiero circa la legittimità della guerra, quando si arriva al concreto della guerra dichiarata sorge il problema della disloyalty e della loyalty che rende difficile la libera azione del clero e specialmente dei vescovi. Poco sappiamo dell'attuale posizione dei vescovi tedeschi. L'unica cosa certa è il fatto che essi non hanno emesso alcun documento collettivo che approvi l a guerra; anzi da qualche notizia trapelata pare che essi abbiano rifiutato di fare dichiarazioni sulla Polonia nel senso voluto dai nazi. L'appello fatto per la vittoria della Germania dal vescovo castrense, benchè potesse esser fatto in termini più ritenuti, è uno dei soliti appelli per tener alto il morale dei soldati ( l ) . Notizie più recenti concementi i l vescovo von Preysing e il decano B. Lichtenberg, entrambi di Berlino, il vescovo di Trier, cardinale Faulhaber, mostravano che in Germania il clero cattolico non aveva mancato di reagire contro il nazismo. Infine, è venuta l'importante lettera d i protesta indirizzata da tutti i vescovi tedeschi il sabato di Passione, 22 marzo 1942. In fondo, quel che preoccupa realmente clero, episcopato e papa, è l'assistenza spirituale delle popolazioni in guerra e dei rispettivi eserciti. E oggi che dal punto di vista della (C guerra guerreggiata non c'è differenza fra la popolazione civile e l'esercito aI fronte, la chiesa ha l'obbligo di raddoppiare ogni sua attività, perchè non manchi con l'assistenza strettamente di Pio XII agli studenti universitari cattolici, tenuto nell'aprile 1941, parlando della carità e umiltà, virtù che debbono essere coltivate dai cristiani, aggiunse che queste non diminuiscono il coraggio nè impediscono ai cittadini u in una veramente giusta guerra, di combattere per la difesa, l'onore e la salvezza del proprio paese ». Può qualcuno affermare che gli italiani sono impegnati a in una veramente giusta guerra, per il legittimo bene del proprio paese n ? (l) Uno quasi identico è stato fatto in gennaio da mons. Bartolomasi, vescovo castrense d'Italia, ove è detto che la guerra dev'essere vinta ad ogni costo. Mons. Colli, assistente generale dell'azione cattolica italiana, in una circolare ha chiesto ai soci di essere buoni cittadini u pregando e operando n.


religiosa tutto quell'aiuto che preti, frati, suore e laici di azione cattolica possono dare alle popolazioni in guerra. Donde la cura (sovente esagerata) di non mettere in dubbio il carattere di necessità patria, che si dà alla guerra stessa per non ingenerare nei fedeli diffidenza verso un clero che dimostrasse disinteresse, critica e distacco dalla causa comune. Nelle guerre d i oggi - e tanto più fortemente quanto pii1 esse sono pericolose e ingaggiano tutte le energie di un popolo e le risorse di uno stato - la nazione prende i l passo sulla morale. La chiesa fin dove può tollera le condizioni di fatto che non è in suo potere modificare. È evidente: nell'attuale organizzazione degli stati nazionali, quale noi l'abbiamo studiata attraverso l'analisi delle guerre moderne, i l clero di ciascuna nazione ne h a subito la formazione ( e anche in vari casi la deformazione nazionale), perdendo dell'universalismo cristiano, che doveva essere sua principale formazione mentale e spirituale. Se è naturale che il clero, come facente parte di un organismo sociale proprio, abbia la cura, l'interesse e l'affetto patrio come tutti gli altri cittadini, non è naturale nè cristiano che acquisti la psicologia nazionalista, che può diventare in certi casi patologica, perdendo quella superiorità di giudizio e di apprezzamento che deriva da una morale universale (l). Ma le vere esagerazioni sono eccezioni, per quanto deplorevoli; l'indirizzo della Santa Sede è equilibrato e pratico; l a cura spirituale dei fedeli e l'assistenza morale e materiale delle (1) È doveroso ricordare a questo punto il vescovo-principe di Trento, C. Endrici, che nel 1916, per essersi rifiutato di pubblicare la pastorale dei

vescovi austriaci che giustificavano la guerra contro l'Italia, fu posto in arresto per ordine militare e con ogni sorta di minacce se ne volevano le dimissioni. Egli resistette, rifiutò di nominare un suo vicario e si appellò a Roma. I1 governo austriaco voleva da Roma un prowedimento immediato contro quel vescovo, ma Benedetto XV si rifiutò, rimandando l'esame degli atti a dopo la guerra. Di questi esempi ce ne saranno anche oggi, ma l a stampa dei paesi totalitari non è libera e la stampa che ha dei corrispondenti in tali paesi o non sa o non può far sapere simili notizie. Da aggiungere che il vescovo di Trento nel 1916 si sentiva appoggiato dalla popolazione e, per quanto autoritaria, l'Austria di allora non era certo totalitaria. Durante l'attuale guerra, il vescovo d i Cremona ebbe sequestrata una lettera pastorale (in violazione dell'art. 2 del concordato fra la Santa Sede


popolazioni sofferenti deve essere oggi il primo e compito in tempo d i guerra. Si può dire che si sono distinte, a poco a poco, due funzioni nel clero e nella gerarchia. Quella pastorale a contatto dei fedeli (clero parrocchiale e vescovi) che ne cura i bisogni individuali, quotidiani, spirituali e per quanto possibile anche sociali; e quella direttiva della Santa Sede, che fa sentire la sua voce alle popolazioni e a i governi, ai combattenti e ai neutri, delineando i doveri di tutti, e orientando verso la pace organizzata e cristiana. A questi due centri d i direzione e di azione si uniscono le congregazioni religiose, l'azione cattolica, le associazioni internazionali per la pace, e la stampa, per cooperarvi ciascuno dal suo posto, con i propri mezzi e con propria responsabilità, affinchè la caritativa, pastorale opera della gerarchia si estenda e l e direttive del papato siano meglio conosciute e attuate, specialmente dai cattolici stessi, che ne hanno un dovere speciale di fedeltà e convinzione. Se in tutto ciò si notano delle oscillazioni, degli scarti, delle incomprensioni, delle insufficienze, che meraviglia? Vorremmo che la chiesa fosse fatta di angeli e non di uomini?

SOLUZIONE MORALE E SOCIOLOGICA DEI PROBLEMI BELLICI

La diversità che abbiamo notato esistere in pratica oggi fra l'atteggiamento della Santa Sede e quello del clero dei paesi in guerra - diversità che può in certi casi disturbare la coscienza - non è condizione normale della vita della chiesa. Sfugge di fatto dall'azione direttiva e pratica cristiana il giudizio etico di ogni guerra, che rimane laicizzato e immanentizzato nel concetto di nazione. e l'Italia). I1 governo fascista soppresse anche un giornale italiano che aveva riprodotta una lettera del cappellano Pignedoli contro l'odio per i nemici. u Voi sapete dalla fede criritiana - diceva la lettera - che il vostro nemico non cessa di essere vostro fratello' perchè egli compie, come voi, il suo dovere verso il suo paese... Di conseguenza, rispettatelo, e non pronunciate parole di odio contro di lui. Perchè l'odio è parente dell'impotenza D.


Non è esatto dire che la chiesa « tollera » la sovrapposizione della nazione alla morale, perchè i papi hanno sempre affermati i doveri cristiani nel caso di guerra. Ma l'applicazione dei principi a i casi particolari non è avvenuta e non poteva avvenire, perchè tale applicazione va fatta in forma collettiva e pubblica, essendo l a guerra per suo carattere collettiva e pubblica. Ora bisogna convenire che oggi, perchè una morale superiore ( l a cristiana) o anche la morale naturale del diritto internazionale possa essere applicata efficacemente, occorre un organismo superiore e internazionale che la traduca in realtà. Altrimenti l'opposizione privata, sia pure a nome della chiesa, si tradurrebbe in fazione attiva contro l a guerra, e porterebbe a disintegrare lo stato nazionale. È bene fermarsi su questo punto, che ci suggerisce alcune considerazioni generali con le quali poter concludere la nostra indagine. Dal punto di vista sociologico tutte le guerre si possono dividere in guerre fra popoli di una stessa civilizzazione ( e su questo capo potremmo qualificarle come guerre civili), e guerre frabdue civilizzazioni diverse che vengono a cozzo. Alle prime si applica un criterio comune di giustizia che può essere 'formulato o come diritto delle genti (jus gentium) o come etica cristiana o come diritto internazionale pattuito o consentito. Alle seconde si applicano solo quelle tali norme che le due civilizzazioni hanno in comune come reciprocamente impegnative (se ne hanno); ma la lotta trascende il carattere di un'etica comune e impegna l'esistenza morale e sociale delle parti combattenti. Sotto questo aspetto possono dirsi tali guerre a carattere religioso, in quanto ogni civilizzazione ha un suo specifico carattere e contenuto religioso, come la piii approfondita sociologia ci apprende. Le iunghe ed estenuanti guerre fra i popoli cristiani di Europa e 1~Islamismo,per più di un millennio, furono guerre di due civiltà a contenuto religioso. Si può discutere rispettivamente se alcune delle tante guerre combattute contro 1'Islam fossero giuste, secondo la morale naturale; e si può convenire che ce ne furono delle ingiuste o per mancato rispetto ai patti o per altra ragione; ma nel complesso prevaleva i l giudizio


di presunzione favorevole; l e guerre contro i mussulmani si presumevano tutte giuste. Erano la religione, la civiltà e la libertà della cristianità che venivano difese contro YIslam. La chiesa, con i papi a capo, era quella che prendeva l'iniziativa di tali guerre e formava leghe e incitava i fedeli a impugnare le armi, non solo lungo il medioevo, ma fino al secolo XVIII, quando già l'Europa era divisa in più chiese dissidenti ed era cessata l'idea e l a funzione della « cristianità 1). Altro ciclo di guerre religiose, pur dentro la stessa civilizzazione cristiana, furono quelle dette proprie guerre di religione. Poiché gli uni, i riformatori, negavano i loro opponenti, i cattolici, non più sul piano d'interessi politici che potevano aggiustarsi secondo equità e giustizia, ma sul piano di convinzioni superiori, la lotta non poteva concepirsi e sentirsi che come lotta di due civiltà opposte: lotta fra angeli e demoni. L'etica sociale, che doveva essere comune alle due fazioni cristiane, era superata dalle due parti per nn'idealità religiosa che nello spirito dei combattenti diveniva moralità essa. stessa. Non dico che tutti la giudicassero così, e che non si sentisse l'autorità del diritto delle genti fra i combattenti, ma la credenza che ammazzando il nemico si facesse un atto di omaggio alla divinità, attenuava ogni vincolo morale che prescrivesse di non farlo. A parte ciò, era più che naturale che in tali guerre i papi e i vescovi fossero dal lato dei principi cattolici e dessero loro aiuto, guida e conforto. Non dico con ciò che essi approvassero o dovessero approvare tutta la condotta dei cattolici e dei loro principi, ma che, nel fatto, potevano essere coinvolti anche in ciò che non potevano approvare, come fh il caso del massacro della notte di San Bartolomeo. Le guerre moderne che presentano i caratteri di cozzo di civiltà ( p u r dentro l a stessa comunità di popoli civili) sono state quelle del periodo delle rivoluzioni democratiche e liberali e sono, ai nostri tempi, l e due grandi guerre. È vero che queste non hanno carattere ,religioso, non basandosi sopra una .data religione positiva: gli stati sono laici e le guerre si presentano del colore laico degli stati. Ma il fondo religioso d i tali guerre non manca, perchè guerre di civilizzazione. Quelle del secolo XIX affermavano gli ideali di libertà e di governo popolare, e

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negando le restrizioni dell'ancien régime, negavano anche le chiese come chiese di stato e il clero come classe aristocratica. Le guerre attuali, benchè si presentassero sotto l a fisionomia politica, per l'egemonia degli uni sugli altri, gli imperi centrali da un lato e Inghilterra e Francia dall'altro, si sono sviluppate nel contrasto fra governi autoritari (oggi totalitari) e governi liberi, fra dominio di una razza sul mondo da una parte, ed equilibrata coesistenza di-tutti i popoli in una possibile organizzazione internazionale dall'altra. La prima fase della presente guerra fu l a distruzione della Società delle nazioni; la seconda è stata l'assoggettamento dei piccoli e medi stati; la terza, la soppressione di,ogni libertà politica e religiosa. Perciò non è inesatto o esagerato dire che in questa guerra (continuazione dell'altra) è in gioco la civiltà cristiana occidentale e le conquiste della vita moderna: un complesso religioso, pur sotto gli aspetti mondani e secolari del conflitto. L'estensione della guerra, prima alla Russia per l'aggressione tedesca, poi agli Stati Uniti per l'aggressione giapponese, 'non muta i l significato che dal punto di vista religioso diamo al conflitto fra l e civilizzazioni. Possiamo dire senza ironia che la. Russia rappresenta il lato religioso o, ancora di più, i l lato cristiano della lotta? Essa è stata attaccata, e difendendo il suo territorio è dalla parte della giustizia. Per d i più essa ( i n buona fede o no) ha fatto causa comune con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, e sottoscrivendo la carta atlantica e l a dichiarazione di WaShington, ha accettato i principi ivi contenuti, anche l a libertà religiosa; Ora ci rendiamo conto perchè la morale tradizionale della guerra non s'inquadra in questo complesso sociologico. I1 primo colpo lo ebbe dalla prevalenza degli stati nazionali laici, ma resisteva ancora come diritto internazionale positivo, del quale fu tipico prodotto la Società delle nazioni. Ma quando si è sviluppata la concezione di una razza privilegiata e superiore, dividendo l'umanità e alterando la base reale della civilizzazione cristiana, la guerra decisiva è scoppiata (come l e guerre di religione del secolo XVI) perchè la convivenza di stati nazionali, che ancora si teneva su per un diritto internazionale positivo accettato di comune accordo, non resistette più e crollò. La


C tolleranza » internazionale, chiamiamola così, è stata abolita ' per un conflitto ideale che la supera. Coloro che nel conflitto rappresentano l a civiltà che si difende sono impari a imporre le leggi della convivenza internazionale, e sono costretti a battersi in nome di una civiltà che non si può non chiamare.« cristiana D. Ed è proprio qui che ci travaglia un equivoco pressochè insolubile. Ricordo che a Londra in una riunione amichevole e giorualistica di vari rappresentanti degli alleati, nel maggio 1940, ci fu chi disse ( u n inglese), che essi combattevano per la civiltà cristiana; e una signora francese protestò dicendo che ciò non rispondeva ad una realtà spirituale vera: « molti non sanno più che cosa sia il cristianesimo - ella disse -, e la nostra è una civiltà scientifica e positivista ». Può essere che avessero ragione entrambi, perchè oggi i paesi democratici sono divisi fra le due concezioni, la cristiana e la naturalista. Ma, al momento che il conflitto fra democrazie e totalitarismo è dichiarato, ed è conflitto a morte, le prime non potranno vincere la forza bruta del totalitarismo che per virtù spirituali, quali solo il cristianesimo h a affermato e può rendere valide. Altrimenti, non reggerà nella vita internazionale nè la libertà, nè l'eguaglianza, nè l'indipendenza, nè l'ordine, nè l'autorità, nè qualsiasi altro valore etico che si vuole difendere e riaffermare. Data questa posizione sociologica r la chiesa non può prendere posizione di belligerante, come contro i turchi o contro gli eretici, dato che dal lato delle democrazie vi sono, si può ben dire, e turchi ed eretici, cioè negatori dei valori cristiani; o meglio, dato il carattere laico sia degli stati moderni sia della guerra attuale, allo stesso tempo la chiesa, e per essa il papa, riafferma quei valori morali che sono propri del cristianesimo, e che coincidono in gran parte con le posizioni etiche e le finalità direttive della lotta ingaggiata.dalle democrazie contro il totalitarismo. Se parte dei cleri locali non arrivano a prendere posizione, o per incomprensione, o per salvaguardare la loro attività pastorale, non deve fare meraviglia. Si sono avu- ' te sempre tali dificoltà pratiche nella chiesa, fatta di uomini con le loro virtù e le loro debolezze. Ma deve aggiungersi a loro


discolpa che per molti non è facile cogliere le affinità fra le democrazie di oggi e i valori etici del cristianesimo, perchè spesso le democrazie non han saputo tener alti tali valori; dal punto di vista della difesa sociale-delle classi lavoratrici, tali democrazie si sono confuse con le plutocrazie, e dal punto di vista internazionale hanno condot,to una politica di compiacenza e di debolezza verso i dittatori, sì da renderli audaci ad affrontare la lotta suprema. Si dirà: allora a che serve il giudizio morale della guerra, sul quale in questo studio si è tanto insistito? D. Quel giudizio s'intende, che è norma delle azioni, e non quello storico, che per anni e per secoli gli storici di professione emetteranno su documenti che provano poco quale responsabilità ebbero in una data guerra le due parti in causa e i loro rispettivi alleati. Ma il giudizio morale è veramente tale se è seguito dagli individui che lo accettano e dalla comunità che lo fa valere. Ora nel caso delle guerre moderne è già difficile in democrazia (lo abbiamo 'visto) portare il problema della guerra sul terreno morale. Ciò nonostante, è solo in democrazia che il giudizio morale può arrivare alle assemblee politiche e alla pubblica opinione; ed è solo in democrazia (almeno la anglosassone) che il giudizio individuale degli obiettori di coscienza.ha tolleranza legale, ed è anche in democrazia dove una cospicua frazione del paese può anche opporre rifiuto ad una guerra creduta immorale, affrontando i rischi di una guerra civile ( l ) . I n fondo pur nella ricerca istintiva di una moralità di guerra, per chi la combatte ogni guerra deve essere morale. Così si arriva oggi alla-tesi falsa, ma rispondente alla concezione totalitaria dello stato, che ogni guerra in quanto propria e combattuta per il proprio vantaggio, h a una morale immanente, deve quindi ritenersi morale. Si dirà a l o r a che l'etica cristiana in materia di guerra debba dichiarare il proprio fallimento? Così la pensano i so(1) I1 ben noto gesuita francese studioso di diritto internazionale, padre de 'la Brière, si occupò di un caso simile in relazione al possibile intervento francese a favore dei repubblicani di Spagna, nel 1937. V. Luigi Stuno, Politics and Morality; cap. X : « The Citizen's Rights in Time of war n, London, Burns, Oates and Washbourne.


ciologi positivisti. Ad essi contrapponiamo l a nostra risposta sul terreno sociologico. La conquista dell'etica cristiana (che ha una base sull'etica naturale) da parte del mondo civilizzato non è senza difficoltà, nè si mantiene senza lotte, n è può divenire morale comune senza istituti giuridici e religiosi che la mantengano e la facciano valere, ciascuno nella sua sfera. P e r ogni particolare conquista etica, come risulta da analisi storica, occorrono quattro condizioni: 1) una formazione educativa, 2) un ordine politico, 3) una maturazione sociale e 4) un processo continuo di riconquista e riadattamento. Perciò le conquiste etico-civili stabili sono difficili e lente. Prendiamo l'esempio della schiavitù. Per superarla occorreva anzitutto una preparazione spirituale educativa; fu il compito del cristianesimo; affermando l'unità della stirpe umana, la figliolanza divina e l a fratellanza con Cristo, la Buona Novella tolse ogni base etica alla schiavitù, avvicinò l o schiavo a l padrone, ne attenuò i mali e agevolò l'emancipazione. Ma occorreva un ordine politico che non solo riconoscesse e garantisse i diritti degli emancipati e ne impedisse l o sfruttamento, ma che intervenisse a renderne meno precarie l e condizioni conomiche. Ci vollero secoli e secoli per superare i tristi effetti di una economia povera e primitiva che si basava sulla schiavitù. Bisognò attendere i secoli XIII e XIV per vedere giuridicamente proclamata l'abolizione della schiavitù: il comune d i Firenze uno dei primi. Ma forse per questo era finita la schiavitù? La scoperta del nuovo mondo vi diede altra spinta, e questa non fu l'ultima delle fasi ricorrenti. Quante difficoltà a superare il traffico degli schiavi organizzato o sostenuto dagli stati europei? l a dichiarazione dell'abolizione della schiavitù fatta nel 1815 dal congresso di Vienna ne fu l'ultimo atto definitivo? E la guerra civile americana? Ricordiamo anche l'enciclica d i Leone XIII sull'antischiairismo e l'opera della Società delle nazioni contro l a tratta delle bianche. Le dichiarazioni e i provvedimenti contro l a schiavitù non bastano a sradicarla dalla società come non bastano a sradicare il furto e l a frode; ma servono per organizzare i metodi preventivi e repressivi, per togliervi la radice morale e le cause '

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sociali ed economiche e per prevenire le crisi ricorrenti. I n sostanza tutto deve convergere alla continua riconquista della libertà e alla sua organizzazione, contro le varie e insidiose forme di schiavitù che tuttora esistono. Lo stesso processo notiamo in altri istituti pre-civili quali la poligamia, la vendetta di famiglia, la servitù della gleba. Si dice che il cristianesimo non fu capace di sradicare la schiavitù, che può dirsi sia durata fino ai nostri giorni. Ma chi ripete quest'accusa mostra di non comprendere che il carattere e il fine diretto del cristianesimo è quello. d i essere religione personale adatta a tutti i tempi e tutte le persone, sotto tutti i regimi e in tutti i climi e per tutte le razze e condizioni. Esso ha la virtù di far trascendere ogni situazione terrena elevandola ai fini superiori. Per conseguenza la chiesa aiuta, agevola ogni buona trasformazione sociale, condanna l'immoralità che si insinua negli istituti umani e ne indica le necessarie riforme; vi mette tutta la sua autorità e il suo influsso; ma non si sostituisce ai poteri pubblici, nè ha per.suo compito quello di adattare l'economia e la politica degli stati alle riforme sociali. Lo stesso si può dire della guerra: fin che questa è stata ammessa come istituto pubblico, a l quale gli stati possono ricorrere per regolare le loro vertenze, la chiesa non poteva fare altro che sostenerne le norme etiche da un lato, e cooperare alla pace fra i popoli dall'altro. E se questa pace era legata alla difesa armata (come nel caso delle guerre contro 1'Islam) promuovere anche quelle guerre, che avevano per fine di salvaguardare il complesso della civiltà cristiana. . Oggi però che la guerra è arrivata a tale estensione tecnica e politica che è divenuta uno strumento sproporzionato alla difesa di ogni giusto diritto, tali e tanti sono i mali che ne vengono non solo ai combattenti ma a tutto il mondo, che non c'è altro rimedio che quello di impedire ogni guerra mediante un'efficace organizzazione internazionale sulla base del diritto e del potere. Questa verità fu vista da lungo tempo, ma la realtà non vi corrispose. I1 tentativo di Ginevra fu insufficiente ed inefficace, perchè mentre tendeva a creare u n diritto « societario » mancava d i un corrispondente potere « societario D per farlo valere. Si volle lasciare intera l'indipendenza nazionale


e non si riconobbe la necessaria interdipendenza degli stati. Dall'altro lato il vero carattere del fenomeno totalitario, che investe tanto uno stato quanto tutti gli stati, fu compreso -10 da pochi. Ora, a guerra guerreggiata, si incomincia a vedere che il cozzo non è fra due imperialismi per egemonia politica ed economica, ma fra due concezioni di vita civile; non è di semplici adattamenti territoriali, ma di due moralità in contrasto. Quindi ci si presentano due compiti urgenti: quello di superare l'eresia totalitaria, che infetta anche i paesi democratici e gli ambienti religiosi, e quello di preparare il nuovo organismo internazionale basato sul diritto ma dotato di sufficiente potere. La chiesa non solo può rimanere estranea a tale palingenesi sociale, ma deve esserne attiva promotrice. Essa non h a il compito di organizzare la nuova società degli stati, nè di fissare i termini giuridici del potere di cui sarà investita, nè precisare le condizioni per le quali i singoli stati possono avervi accesso; I1 suo compito è quello di illuminare, educare, incoraggiare, formare uomini adatti ai compiti formidabili del prossimo avvenire. Avremo turbamenti di classi e di nazioni, miserie e fame, disoccupazioni e rivolte. E quando finirà? Ma bisogna aver fede che dal caos di oggi dovrà sortire un nuovo ordine internazionale, dal quale la guerra, come mezzo giuridico di tutela del diritto, dovrà essere abolita, così come legalmente furono abolite la poligamia, la-schiavitù, la servitù della gleba e la vendetta di famiglia. Questa risposta ci danno la storia e la sociologia, dacchè il cristianesimo è stato predicato al mondo.


IMPERI E IMPERIALISMI

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Ci sono stati sempre e ci sono anche oggi grandi e piccoli stati; così ci sono stati e ci sono imperi di diverso tipo e formazione. Coloro che pensano che l'uniformità e il livellamento sarebbero, in economia o in politica, possibili e desiderabili, si devono rendere conto che non essendo possibili non sono neanche praticamente desiderabili. Di utopie si è pasciuto l'uomo e si pascerà ancora: è questo un mezzo di evasione, più o meno euforica, dalla realtà.

Imperi antichi La parola a impero D ci viene da Roma; l'impero romano è rimasto storicamente l'impero tipico, quello con il quale si confrontano gli altri imperi per ricavarne le differenze e studiarne i caratteri. Così applichiamo la nozione di impero » anche a complessi politici precedenti a quelli di Roma o parliamo di impero persiano, assiro, babilonese, egiziano, dell'impero grecomacedone d i Alessandro Magao, dell'impero cinese e di quello giapponese. I n verità, le differenze storico~sociologiche di tali imperi sono tante, che l a nozione fondamentale d i governo centrale e di metropoli in rapporto ai popoli soggetti non rende altro che un lato assai schematico della realtà. Allo scopo del presente studio dobbiamo fare una distinzione fondamentale fra imperi organicamente sviluppati e storica-


mente stabilizzati, e imperi precarii, formati per la prevalenza delle armi e senza consistenza interna. Può darsi che questi ultimi, nati occasionalmente per i l genio militare di u n capo, trovino il terreno adatto per uno sviluppo impensato; ma presi per se stessi non sono che momenti di successo, che decadono per esaurimento o sono annullati da forze contrarie. I n tale categoria dobbiamo mettere i più brillanti e stupefacenti successi storici quali quelli di Alessandro Magno, Carlo Magno, Gengis Icahn, Napoleone. Quegl'im~eri non durarono più i n l à dei loro fondatori; Napoleone lo vide cadere a Waterloo i l giorno stesso della sconfitta. È interessante studiare tali e altre simili avventure, dal punto di vista storico. Anche la sociologia s'interessa a tali fenomeni per i rivolgimenti sociali che essi maturano; ma dal punto di vista dello studio sociologico politico degli imperi, hanno solo l'importanza che in astronomia ha l'apparizione di una bella cometa. L'unificazione di popoli diversi fatta con la forza, l'evizione dei vinti, la loro deportazione o riduzione allo stato di schiavitù non arriva a creare un impero stabile : occorrono elementi umani di unificazione, che controbilancino l'uso della forza e l'assoggettamento economico. Vi sono stati sempre fattori superiori che han reso stabili gli imperi: l'unificazione religiosa e quella legislativo-amministrativa. Prima del cristianesimo l'unificazione religiosa si formava nel tipo teocratico del despota o imperatore: che venisse deificata l a famiglia imperiale, ovvero la persona dell'imperatore, o l a metropoli (come Roma), l a tendenza unificatrice si faceva nel passaggio (legge di trascendenza) dalla forza al culto: il mito imperiale serviva come mediatore dell'adesione del popolo a l centro del potere. La legislazione e l'amministrazione, regolando i rapporti fondamentali dei cittadini e dei popoli soggetti, spesso con l'ausilio della religione che sanzionava diritti e privilegi di classi e di caste, formavano il nesso connettivo d i quegli imperi che, prima o fuori del cristianesimo, si erano andati stabilizzando nel mondo.

I1 cristianesimo detronizzò i lari familiari, gli dei delle città e le divinità imperiali, sia ideali che impersonate nell'imperatore. Questi divenne persona consacrata, ma fu anche trat-


tato da fedele soggetto all'autorità della chiesa, e nei casi particolari, anche come peccatore e pubblico penitente. La religione dell'impero divenne la cristiana; ma questa soverchiò gli interessi imperiali, superò la pura concezione d'un potere assoluto. penetrò nelle masse anche come religione dei barbari invasori, vivificò i nuovi regni che si andarono formando fuori della cerchia imperiale. La divisione di lingua, rito, e interessi politici fra oriente e occidente, portò alla divisione degli imperi e diede motivo agli urti ecclesiastici fra le due parti e poi finì con i l distacco di Bisanzio d a Roma. Un altro impero intanto si era formato, anch'esso sulla base religiosa, quello islamita che per quasi un millennio fu l'avversario della cristianità. Questa sotto vari aspetti prese un carattere imperiale sia creando l'impero franco-romano con Carlo Magno, sia creando il sacro impero romano-germanico, sia tendendo ad unificare la cristianità nel papato medievale. Queste tre forme nuove e tipiche di impero, non ebbero stabilità politica, sia per il carattere feudale della società, che si andava sviluppando sui resti dell'organizzazione romano-barbarica, sia per l'insito e insanabile conflitto fra sacerdozio e impero. Ma questa debolezza imperiale fu la matrice delle autonomie cittadine, nazionali e locali che si andarono sviluppando in EUropa animando così lo spirito nuovo delle rinascenze dell'XI, del XIII e del XV secolo. Dall'altro lato, lo sviluppo del191slam nel levante in Africa, in Europa fu difficilmente contenuto dall'impero bizantino o dal papato. Anch'esso era un impero religioso sui generis assai più teocratico della cristianità medievale, e più combattivo, dato che si basava sul proselitismo con la forza. Ricacciato 1'Islam dai confini della Francia, sotto Carlo Magno, espulso dall'Italia e dalle isole mediterranee per l'intervento dei Nomanni, 1'Islam arrivò a prendere Gerusalemme, aprendo così il periodo delle crociate, finchè da un lato conquistò Bisanzio e ne fece cadere il suo morente impero, e dall'altro dovette abbandonare la penisola iberica. La lotta continuò i n Europa dal lato orientale. Polonia, Ungheria e Austria furono gli antemurali contro 1'Islam; nel Mediterraneo Venezia tenne testa per secoli. La


storia d'Europa sarebbe incomprensibile senza questo cozzo imperiale di civiltà e di religioni. Al nord Europa si ebbero nel medio evo aggruppamenti ben diversi, ma che entrano nella fenomenologia sociologica dell'imperialismo. Danesi, inglesi, normanni invasero la Gran Bretagna, ma vi si assimilarono distaccandosi dal paese di origine, sì che la loro espansione non creò imperi ma fissò emigrazioni. Così fecero i normanni in Francia, in Sicilia e nell'Italia meridionale. Lituani, svedesi, danesi ebbero i loro imperi di carattere instabile e fluttuante; i Cavalieri Teutoni, il loro dominio nei baesi baltici. Ne facciamo un cenno solo per notare che i movimenti di civilizzazione sono connessi coll'espansionismo dei popoli. Mediterraneo e mar Nero, mare del Nord e mar Baltico ci danno nel loro complesso i centri storici delle formazioni e disfacimento degl'imperi dell'antichità e del medio evo fino all'era che si usa chiamare moderna. Imperi co~loniali

Con la scoperti del Nuovo Mondo e i grandi viaggi transoceanici comincia la formazione degl'imperi coloniali, in America, Asia e Africa. Quest'imperi han dato alle potenze europee un potere eccezionale sul resto del mondo, fino a che il continente americano, guadagnando la sua indipendenza politica, h a costituito E sua volta nuovi tipi d'impero. Portogallo, Spagna e Francia hanno solo un residuo pressocchè insignificante del vasto impero che ebbero al XVI o al XVII secolo; l'Olanda passò anch'essa a un rango secondario, dopo un periodo di eccezionale importanza; solo la Gran Bretagna, non ostante la secessione delle colonie dell'America, è rimasta la dominatrice del mondo fino alle due grandi guerre che l'hanno gravemente ferita. Anche la Francia, dopo la ripresa colopiale del secolo XIX, ha sofferto e soffre di una grave crisi. Per quanto larghe fossero le parole e le oneste aspirazioni dei re di Spagna e Portogallo, fra i quali Alessandro VI - usando d i un diritto medievale del papato - divise il Nuovo Mondo, che poi divenne l'America Latina, nella realtà si trattò di completa soggezione dei popoli indigeni allo sfruttamento di altri popoli, più esattamente delle claesi privilegiate di altri popoli


e per essi, delle rispettive case regnanti. Non si nega che la c o l o n i z z a z i o ~del Nuovo Mondo.fatta da spagnoIi e portoghesi abbia avuto dei lati buoni, quale l'introduzione del cristianesimo, l'istituzione di scuole e di ospedali, una spe& di amministrazione e di giustizia per quanto imposta dall'esterno, improntata a criteri e sistemi legali che segnavano u n progresso. Purtroppo tutto il bene fu soverchiato dall'introduzione della schiavitù, dalla ingordigia dei conquistatori e dalle guerre spesso ingiuste e crudeli. Le colonie divennero sorgente di rendita per lo stato metropolitano, i suoi re, capi e funzionari, con uncontinuo impoverimento e sfruttamento dei paesi colonizzati. Al nord, Francia e Inghilterra si combatterono fino alla eliminazione della Francia da tutte le colonie ad eccezione di poche isole. Ma gli indigeni subivano tale ed erano espropriati, cacciati dalle loro zone, razza inferiore destinata alla distruzione. Nell'America latina conquistatori e conquistati, antichi COlonizzatori e nuovi emigrati formarono un nuovo tipo d i popolo, ai margini del quale rimasero poche tribù indigene, viventi in zone remote ovvero ridotti a gruppi ex-lege che non arrivano ad essere assimilati. Invecé nell'America del nord e nel Canadà (come in tempi più recenti nell'Australia) gli emigrati europei, antichi e nuovi, non assimilarono gli indigeni, la cui esistenza divenne precaria, marginale, e insignificante (l). . Per avere mano d'opera gli americani importarono come schiavi i negri dall'Africa che formano anche oggi una zona pressochè inassimilabile, non ostante che legalmente siano dei' cittadini. Questi accenni chiariscono un punto capitale per l'esame che stiamo facendo. Lo stato colonizzatore che acquista o mantiene i suoi possessi è come tale importatore di una civiltà, la propria, che viene imposta al popolo soggetto. La rispondenza di questo popolo alla nuova civiltà è più o meno facilitata da un complesso di vantaggi morali e materiali che la colonizzazione offre. Altrimenti si apre un duello a morte fra conquistatori e conquistati, finchè l'uno dei due è sopraffatto: o il primo

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(l) In Tasmania, occupata dagli Inglesi nel 1803, di tutti gl'indigeni solo una donna, la famosa Tucranine, era rimasta viva dopo pochi anni.

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lascia il tentativo di colonizzazione ovvero lo rimette a miglior tempo con forze più adeguate; o l'altro finisce per esaurirsi ovvero si sottomette. Non può concepirsi una civilizzazione se non in termini religiosi. La civilizzazione dei. barbari invasori dell'Europa fu cristiana; la civilizzazione dell'Islam nelle zone di qua e' di l à del medio oriente, dove nacque, fu mussulmana. La civilizzazione del Nuovo Mondo e dell'oceania è stata cristiana (cattolica O protestante). I popoli colonizzati saranno rimasti nelle loro tradizioni primitive, resistendo alla propaganda religiosa. Ma l'elemento civilizzatore che essa contiene penetra anche là dove non penetra la fede. L'elemento religioso si confonde con la civiltà perché nel fatto, anche coloro che non accettano il cristianesimo come religione, ne accettano, coscientemente o no, gli elementi sociali della concezione cristiana. Questo fatto ha portato pregiudizio allo stesso cristianesimo, che è apparso, in molte istanze storiche, come alleato allo stato oppressore dei popoli coloniali. Questo pregiudizio veniva corretto, dove e come era ~ossibile,o dallYatteggiamentodel clero indipendente (come fu il caso di Bartolomè de Las Casas) e dagli stessi capi politici e militari, ovvero dalla moltiplicazione d i istituti di carità, di istruzione, di igiene e di miglioramenti sociali condotti dal clero. L'altro fattore importante per gli imperi coloniali è stato lo sviluppo economico, l'introduzione di metodi più adatti alla produzione e ai commerci, la formazione di emporii e così via. I1 quadro ha i l suo rovescio, perchè i miglioramenti dell'economia portavano e portano degli1sfruttamenti, si che le popolazioni coloniali non si avvantaggiarono che assai relativamente d i quel che era i l loro sforzo produttivo, andando gran parte dei vantaggi al paese dominante. L'assimilazione. di civilizzazione (sia pure a scala inferiore) e lo sviluppo economico (sia pure con sfruttamento a danno della colonia), sollevano il livello sociale al punto che la colonia comincia a vivere vita propria e tende naturalmente alla sua emancipazione. Che i capi degli stati europei del secolo XVIII si siano resi poco conto della possibilità dell'indipendenza del hiuovo Mondo


non è meraviglia. Per essi a quel tempo, le Americhe erano troppo lontane e sotto certi aspetti già esaurite di risorse. Così Francia, Spagna e Portogallo erano arrivate al punto di reputarle possedimenti quasi passivi, buoni per inviarvi funzionari, uomini di affari, aristocratici senza denaro e fra questi preti e vescovi per curare l'educazione del popolo. Ma le due rivoluzioni: l'americana e la francese,, e le altre locali che ne derivarono, le rivolte e l e guerre resero possibile il distacco di tutto i l Nuovo Mondo dall'Europa. I1 tipo « coloniale degli imperi europei finiva per sempre. Altri imperi sarebbero nati con altro tipo e altre risorse. Se di qnalche cosa è degno di essere menzionato il periodo che va dal 1492 al 1815, è che l'Europa creò popoli nuovi con il vecchio sangue spagnolo e portoghese, olandese, francese e anglo-irlandese, mescolato, dove più dove meno, al sangue delle razze native. Mentre nel Nuovo Mondo gli europei formavano veri imperi coloniali, in Asia penet.ravano con i traffici e formavano centri adatti a difendere la navigazione dai pirati, le case di commercio da bande locali, ed estendere gli interessi sotto la protezione del proprio paese e del- proprio monarca. Così nacquero i possessi portoghesi e spagnoli, gli olandesi, inglesi e francesi e la loro influenza culturare e religiosa in India, Birmania, Cina, Giappone e nelle isole del Pacifico. Era naturale che fossero destate le di5denze indigene, che l'idea di penetrazione fosse congiunta con quella di dominio. L'istinto di difesa dagli stranieri divenne più volte persecuzione religiosa e xenofobia. I1 Giappone si isolò per secoli, finchè fu obbligato con le armi a riaprire, appena cento anni fa, l a porta ai commerci. La Cina subì varie guerre di diverso tipo, da quella per i l commercio dell'oppio alla rivolta dei boxers; e fu mutilata con le concessioni alle potenze estere. L'India divenne impero britannico; l'Indonesia impero olandese; l'Indocina alla Francia ; oltre gli antichi possedimenti portoghesi, quelli ultimi della Germania, e per non mancare al concerto europeo, anche una piccola concessione all'Italia. . Lo stesso avveniva i n Ahica, dove p u r troppo il più fiorente commercio fu quello degli schiavi, fatto sotto il nome e la


bandiera di re cristiani, cattolici e protestanti. Non bastano parole per stigmatizzare un simile sfruttamento umano, che durò secoli. La fine u5ciale pubblica di tale traffico non ne segnò, purtroppo. la fine effettiva; nè i sentimenti umanitari che la provocarono, arrivarono a fare evitare lo sfruttamento delle popolazioni indigene. I possedimenti coloniali del secolo XIX si sono formati per due vie: la prima quella della liquidazione dell'impero ottomano, che per vecchiezza, corruzione, inabilità a evolversi, non potè resistere alle pressioni delle potenze occidentali, sì da perdere il controllo del nord Africa e il dominio sui paesi della penisola balcanica; e l'altra, quella della trasformazione delle imprese commerciali o degli approdi marittimi negli oceani, in vere e proprie colonie. La prima a creare un impero sui generis d i un'importanza eccezionale fu la Gran Bretagna che arrivò così a controllare tutti i mari e tutti i continenti. Seguì la Francia che dall'occupazione di Algeri in poi andò estendendo il suo impero in Africa e in Asia. L'Olanda estese e intensificò le sue colonie, il Belgio ne creò una inaspettata, il Congo. La Germania (già unificata) ebbe anch'essa le sue colonie in Africa ma queste non formavano un impero, nè formavano impero le povere colonie africane che l'Italia ultima arrivata cercò di conquistarsi come terre per l'emigrazione. Nel fatto però, tutte queste potenze formarono nel secolo XIX un nuovo regime internazionale, portando nelle terre conquistate metodi, concezioni, tipi di studi, sistemi amministrativi. igiene, cultura, religione che han potuto largamente sviluppare, fra una guerra e l'altra, con un notevole vantaggio delle popolazioni indigene. Non si nega che ci siano stati sfruttamenti capitalistici, oppressioni militari, incomprensioni politiche a rendere di5cile l'opera di elevazione morale e culturale e tendenti a dare alle popolazioni soggette una propria personalità e avviarle all'auto-governo. Se si paragona la quasi distruzione di razze indigene awenuta in America, in Australia e Canadà, e Ia conservazione e sviluppo delle razze nei paesi coloniali del secolo XIX, si deve dire che gli europei avevano fatto dei progressi. Sol che si guardino le conquiste igieniche e sanitarie, gli

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studi e le applicazioni fatte per i paesi coloniali, si dovr,à conchiudere che a qualche cosa di bene è valso il sistema coloniale. Perchè occorre riconoscere che se- quelle popolazioni fossero ancora chiuse al contatto dei paesi occidentali a civiltà cristiana, sarebbero rimaste statiche nella evoluzione sociale e morale e culturale, come lo sono ancora molti paesi fuori del ciclo della civiltà moderna. Imperi territoriali

Per finire il quadro occorre parlare degl'imperi territoriali, siano stati o no chiamati imperi. La Francia di Napoleone Bonaparte prese il nome di impero, ma finì con la caduta dell'eroe; nel fatto era un impero all'antica, che controllava mezza Europa, ma che perciò non poteva reggere, dato che l'Europa di quel tempo era della stessa cultura, civiltà, posizione economico-sociale della Francia. Le vittorie militari e l a forza degli eserciti non possono mai costituire da sole un impero, Napoleone I11 riprese il titolo di impero piii per vanità che per realtà. La guerra all'Austria per sostenere le rivendicazioni italiane gli fece guadagnare Nizza e Savoia; l'avventura messicana non giovò al suo prestigio ; la guerra del 1870 gli fece perdere l'Alsazia e l a Lorena e il trono. Tre imperi territoriali erano in piedi fra i due Napoleoni: l a Russia, che aveva partecipato alle guerre anti-napoleoniche ed aveva ottenuto la Finlandia, si estendeva al sud verso la Turchia e l a Persia, mirando come sempre a Costantinopoli, e, facendo la protettrice degli stati balcanici, contendeva il potere all'Austria; l'impero ottomano che andava perdendo potere e forza ( i l grande ammalato) e che si reggeva per la politica di equilibrio dell'hghilterra; l'Austria-Ungheria, che era minata all'interno dallo spirito di nazionalità dei paesi che la componevano, all'estero dalla crescente potenza della Prussia e dalla rivalità con l a Russia. Nella seconda metà del secolo scorso apparve fra l a costellazione degli imperi territoriali uno nuovo : l'impero germanico, che Bismarck formò sulla base dell'idea prussiana e dell'organizzazione militare, non ostante che non vi mancassero il parla-

13. SWRZO - Nazionalismo e Internazionalismo


mento e i partiti a base popolare: socialista e centro. Le vittorie avute da Bismarck contro la Danimarca, l'Austria e la Francia, oltre che segnare notevoli guadagni territoriali posero il suggello all'idea dell'unità della razza germanica. La triplice alleanza (con l'Austria e l'Italia) servì a creare in Europa un nuovo allineamento di forze che fu controbilanciato dall'intesa anglo-francese e dall'alleanza franco-russa. Un altr'o impero si era già costruito in America non di nome come il Brasile o il Messico, ma come repubblica democratica che si sviluppava su base territoriale. Le tredici colonie dell'est che formavano l'iniziale confederazione del 1776, si estendevano verso il sud e verso il centro fino all'ovest, sì da arrivare dall'un mare all'altro, annettendo paesi diversi per tradizioni, lingua e costume come la California, il Nuovo Messico, 1'Alaska. Dopo la guerra con la Spagna, prendeva Cuba, le Filippine, Portorico, Nicaragua, Panama, e controllava il mare dei Caraibi. Tutto ciò non fu considerato imperialismo, non fu concepito come conquista di paesi da assoggettare, sì bene come allargamento territoriale della nazione; annessione di zone imprecisate che mano a mano, attraverso periodi di assimilazione arrivavano a far parte dell'unione, con parità di diritti, salvo per le isole che vennero o trattenute per ragioni di sicirrezzii o di economia, o rimesse nella loro più o meno apparente sovranità. P u r non avendone il nome e pur essendo u n tipo a sè senza paragoni con altri - anche gli Stati Uniti devono essere classificati fra gli imperi territoriali formatisi nel secolo XIX. Vi erano anche imperi d i nome: l'India che faceva parte dell'impero britannico; la Cina che finiva per disfarsi dell'imperatore, e divenne in parte preda delle potenze europee che vi si erano stabilite nei punti più interessanti dei traffici mondiali. Dall'altro lato, i1 Giappone vittorioso sulla Russia, cresceva in potenza e in considerazione internazionale e aveva già tutti i caratteri di un impero che si sviluppava con ritmo proprio. Questa era la geografia politica alla vigilia della prima grande guerra mondiale, già preceduta dalla guerra italo-turca per la conquista della Libia e dalle due guerre balcaniche. Queste,


iniziate per cacciare la Turchia dallYEuropa,finirono in una lotta intestina e rovinosa. La liquidazione dell'impero ottomano, chè già in sfacelo si reggeva per la politica gelosa fia le grandi potenze europee, era ormai avviata. L'allineamento si fece allo scoppio delle ostilità che portarono alla grande guerra: la Turchia e l a Bulgaria con la Germania, la Serbia e la Romania con gli alleati, la Grecia sotto l'occupazione inglese. La Russia a causa della rivoluzione bolscevica si ritirò dalla guerra e perdette apparentemente il carattere d'impero; - la sconfitta liquidò l'impero austro-ungarico e trasformò l'impero germanico in repubblica tendenzialmente democratica. L'America rinunziò ad ogni guadagno e si ritirò nel suo isolamento. Invece Inghilterra, Francia e Giappone aumentarono con i mandati in Africa, nel Levante, e nel Pacifico, le loro posizioni imperiali, mentre la Francia riprese le provincie dell'Alsazia e Lorena. La Cina avrebbe dovuto riprendersi, ma nessuna concessione ebbe dagli Alleati, e appena poco dopo fu aggredita dal Giappone e perdette la Manciuria perchè nè l a Lega delle nazioni nè le grandi potenze firmatarie del patto del Pacifico la difesero, com'era loro dovere e interesse. La meraviglia di un tale periodo consiste nel fatto che la Germania vinta, priva di colonie, economicamente rovinata, potè risorgere e divenire una minaccia al mondo e ritentare la avventura iniziando la seconda guerra mondiale, per l a quale mano mano si trovò di fronte i tre imperi più forti: Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti, ed ebbe con sè solo il Giappone e quell'impero sulla carta che fu i l sogno di Mussolini. Naturalmente la Cina era con gli Alleati nella speranza non solo d i salvarsi ma di riprendere i suoi territori e restaurare il SUO impero. L'esito dell'ultima guerra ha portato alla completa evizione della Germania e del Giappone, alla elevazione nominale della Cina a membro della pentarchia insieme alla Francia (ancora sotto. i l peso degli avvenimenti), all'Inghilterra molto scossa, e ai due imperi sotto certi aspetti in antagonismo: l a Russia e gli Stati Uniti di America. L'evoluzione storica dalla Spagna d i Carlo Quinto a oggi ci


dà una catena ininterrotta e costante di imperi che salgono e cadono per una specie di necessità storica che grava sul mondo attraverso l'azione d i uomini attivi e decisi che ne rappresentano la potenza, il valore e il finalismo.

Non è finita l'epoca degli imperi, e neppure è stabilizzata una volta per sempre la loro carta geografica. Oggi ne abbiamo tre : Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti ; forse domani risorgerà un nuovo impero francese; .forse 'la Cina, superando le crisi attuali, diverrà un vero impero. Forse anche l'India, liberata dalla protezione inglese, troverà la via per una politica imperiale. Forse qualcuno degli imperi creduti morti e seppelliti tornerà a rivivere, Giappone o Germania. Nel dire ciò non intendiamo fare previsioni, solo affermare un principio: I'impero come tale non scomparirà dalla faccia della terra, perchè esso risponde a leggi interiori della società. Popolo dominante e popoli dominati Vediamo di fissare i l quadro sociologico dell'impero. Questo, per dirsi tale, dovaà avere un popolo dominante (ruling people) e dei popoli dominati. Non importa quale la cristallizzazione storica di questi due elementi; quel che interessa alla caratterizzazione di un impero è che questi esistano. I tre imperi che oggi emergono dalla guerra padroni del mondo mostrano tipi diversi di questi due elementi. Nell'impero britannico, i l popolo dominante era quello della madre patria; oggi è anche quello emigrato e sviluppatosi in tutto l'impero che per brevità classifichiamo anglo-sassone. I dominions prima soggetti a Londra, ora partecipano sempre di più con l a madrepatria alla politica direttiva deil'impero. La Russia sembra essere una federazione di repubbliche socialiste; nel fatto la compenetrazione del tipo imperiale con quello totalitario fa sì che il centro dirigente resti il Kremlino con l a sua burocrazia e


tutte le sedici repubbliche non sono che popoli soggetti. I n più vi sono i popoli assoggettati per l'espansione d i guerra, che possono essere caratterizzati come « satelliti », ma sono effet-tivamente dipendenti. Neppure gli Stati Uniti mancano di una simile classificazione: è vero che qui non c'è nè una Londra - centro un tempo di affari e di potenza, d i cui oggi conserva il rango come quei nobili che contano più sulla tradizione del blasone che sul patrimonio degli avi, oberati da ipoteche - nè una Mosca sede di una misteriosa politica incomunicabile a l volgo profano. Gli Stati Uniti hanno invece Wall Street di New York e i l Treasury di Washington che formano un centro di dominio su tutto il resto del mondo creando un impero sui generis. La prima vittoria egemonica di questo nuovo impero fu sopra la City of London, durante e dopo la prima guerra mondiale; la seconda vittoria, e più decisiva, è stata durante la seconda guerra. Ora l'America non ha più competitori - in questo campo - e perciò ha dei « sudditi » di nuovo tipo. Essa è obbligata a crearsi l e garanzie di « sudditanza imperiale se vuole resistere a due effetti contraddittori, l'isolamento o la compromissione, con l a conseguenza di gravi perdite in economia e in politica. Così gli Stati Uniti sono impegnati a fondo i n Giappone, i n Cina, nel Medio Oriente, in Europa, hanno bisogno di basi navali in tutti i mari, creano monopoli politici, militari ed economici nell'aviazione transcontinentale, nello sfruttamento delle risorse, nella stessa vita interna dei paesi debitori quali l'Inghilterra e la Francia. Qualcuno crederà che tutto ciò non significa tenere « soggetti » i popoli stranieri. Per l'idea ordinaria di impero (usualmente si pensa l'impero britannico dell'India) si può dire che i popoli che trattano con l'America sono ancora liberi; ma non dimentichiamo che la politica del dollaro, l a teoria del riconoscimento dei governi (che ora si dice sarà abbandonata), quella di sfere di influenza, che purtroppo è in atto, quella della sicurezza nazionale (fatta valere nel centro America e nei rapporti col Messico e con le Filippine) sono tutti segni di una politica imperiale, che presuppone o un impero acquisito o un impero da consolidare.


I1 primo e basilare carattere dell'impero è oggi presente in tutte e tre le grandi potenze del mondo.

Potenzialità militare

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Altro carattere è la potenzialità militare superiore a quella d i tutti i paesi sui quali si esercita il raggio di influenza tale da assicurare la posizione e lo sviluppo dell'impero. Un impero senza forze militari sufficienti non può considerarsi effettivamente tale. L'impero del Brasile, quello del Messico, il così detto impero mussoliniano, non avevano che il nome di impero; mancavano di ogni dato necessario, o lo avevano in misura puramente relativa, sì da considerarsi tentativi di impero. Non importa che uno si appoggi principalmente sulla flotta, un altro sugli eserciti di terra; ciò dipende dalle condizioni geografiche e storiche di ciascun impero. Quel che importa è che esso abbia una forza permanente ed adeguata sulla quale contare per la difesa del presente e per la espansione nel futuro in quel raggio di azione nel quale l'impero può considerarsi come realmente egemonico. L'idea di impero si lega con 'quella di egemonia, cioè di dominazione nella sua sfera, senza limitazioni, e di espansione senza ostacoli o in condizione di superare gli eventuali ostacoli. Pertanto, ai mezzi diplomatici ed economici vanno aggiunti quelli militari, per ottenere quell'efficacia che nè l'economia, nè la diplomazia hanno da sole di fronte alla resistenza avversaria. È vero che la storia ci mostra che certi imperi egemonici possono coesistere per lungo tempo come l'impero inglese e quello russo; ma tale coesistenza è stata condizionata dal fatto che i reciproci interessi e il moto di espansione non toccava che i margini rispettivi (diciamo pure in senso lato le loro sfere d'influenza) e che al momento che venivano in contatto si determinava quel contrasto fra di loro che mai è cessato nel mare del Nord, nei Balcani, nel Medio Oriente e nel Mediterraneo. Se non si è arrivati a un duello decisivo è stato perchè fino a ieri erano separati da altri imperi oggi scomparsi, E h -


pero ottomano, I'austro-ungarico ed i l tedesco. Solo oggi emerge il pericolo di una lotta egemonica fra Russia e impero britannico, perchè i loro interessi si contrastano direttamente. Una volta ingaggiata la lotta fra due imperi rivali - rivali perchè vicini o perchè l'espansione dell'uno va a danno dell'altro è difficile che non -porti alla decadenza di uno dei due, o anche di ambedue, quando allo stesso tempo ne va a sorgere un terzo. Così nel passato le guerre egemoniche tra Francia e Spagna, o piuttosto tra Francesco I e Carlo V, portarono allo spostamento di potenza verso il nord, con i l sorgere delle potenze marinare dellwlanda e dell'hghilterra. Così oggi con l a sconfitta della Germania e del Giappone, e la parziale decadenza della Gran Bretagna, emergono in primo piano gli Stati Uniti e l a Russia. C7è una legge interna della sorte degli imperi che, al disopra delle circostanze storiche di ciascuno, si ripete in tutte le epoche. L'impero cresce spontaneo per circostanze favorevoli etniche, politiche, ed economiche; fatte le ossa tende ad espandersi e a superare gli ostacoli o per abilità politica o per valore di eserciti. Incontrando un rivale, - un'altra potenza con caratteri imperiali - è costretto a l duello, duello di egemonia che può durare anche per secoli. Arrivati alla maturità, i due rivali si affrontano per una guerra decisiva, o sono costretti all'usura di guerre periodiche, finchè l'uno cede e l'altro emerge; ovvero i due si fiaccano creando le condizioni favorevoli perchè altro impero sorga, o se sorto si riaffermi e prevalga. Questa legge, come tutte l e leggi storiche, non è fatale; può essere corretta dalla volontà degli uomini (la storia ci mostra molti imperatori, capi di stato, statisti e generali savi ed accorti e altri no); ma ogni correzione portata alla spinta degli eventi non riesce a modificare di molto quel condizionamento storico che per la sua importanza e complessità supera i limiti normali dell'accorgimento umano. Spinta interiore a espandersi I1 crescere di u n impero può dipendere dall'abilità di un capo, o di una generazione di capi e di uomini geniali (Pietro


i l Grande o Bismarck, Pitt, Gladstone o Disraeli o i due Roosevelt); ma se non c'è una spinta interna ed efficace a tale sviluppo, l'impero non potrà mai realizzarsi; sarebbe un fenomeno passeggero come quello del genio che lo creò (Alessandro il Grande o Napoleone). Questa spinta interna può venire dalla situazione geografica di un popolo intraprendente : l'egiziano, il greco, i l romano dell'antichità, l'iberico (Spagna e Portogallo alla scoperta del Nuovo Mondo). Può venire da fattori economici prevalenti ( i l carbone per l'Inghilterra); dal bisogno di sbocchi al mare ( p e r l a Russia il Baltico e il Mar Nero); dall'accentramento di affari su larghi territori (Vienna tra oriente ed occidente); dai commerci per mare (Venezia nel Mediterraneo, Danimarca nel Mare del Nord, Olanda, Francia e Inghilterra negli oceani). Gli Stati Uniti hanno avuto tre fattori: lo sviluppo economico e immigratorio sì da creare un'unità territoriale completa fra i due oceani; l'attività commerciale con l'estero; l'immenso sviluppo industriale con il conseguente accumulo di ricchezza. Un altro fattore d i espansione è la popolazione, se questa non ha sufficiente spazio. Questo non potrà essere un fattore prevalente, ma solo un efficace fattore concomitante con altri più specifici e atti a creare l'essenza di u n impero, quali l a potenza militare, lo sviluppo industriale, la posizione geografica. Così sorsero gli imperi tedesco e giapponese della seconda metà del secolo scorso. La necessità di spazio vitale per la popolazione ad alto livello di vita, orientò la Germania da una parte verso l a subjugazione dei popoli vicini e ~ e r f i n ol'eliminazione di minoranze etniche ( l ) e dall'altra verso l'esportazione pianificata di élites militari, tecniche, culturali e capitaliste in paesi di emigrazione per avere parte nella direzione degli affari e della politica: preparava così la sognata conquista del mondo. Il Giappone con Ia politica della co-prosperità in Asia ebbe mandati nel Pacifico, conquistò l a Manciuria, invase la Cina, iniziando la utilizzazione industriale dei paesi occupati. Perchè l'espansione pacifica è lenta e non riesce a superare gli ostacoli opposti con la forza, la guerra è mezzo ordinario dell'espan(1)

Vedi il cap. I ,

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Nazione e oazionalismc z.


sione imperiale. Quali essi siano l a natura, i caratteri, le occasioni e l'esito delle guerre, l'impero ha sempre modo di consolidarsi e svilupparsi (anche nelle disfatte parziali e nei ripiegamenti obbligati) fin che verrà quella guerra che ne stronchi l'esistenza o ne comprometta l'avvenire. L'espansione è la legge interna di un impero, anche quando la volontà del popolo vi è ostile, e anche quando i capi vorrebbero fermare l e avventure - specialmente di guerra - che tale espansione comanda. Gli Stati Uniti han provato il contrasto (che non è ancora spiritualmente superato) fra l'espansionismo imperiale e l'isolazionismo politico; fra la negazione della guerra e l'esigenza espansiva dell'economia; fra i l pacifismo sentimentale e l a necessità della difesa armata. Chi nell'espansionismo territoriale degli imperi vede solo aspirazioni di grandezza, soddisfazioni di avere popoli soggetti quanto più è possibile, piani titanici di dominazione nel mondo, erra nella valutazione sociologica dell'impero. Ci possono essere degli Hitler o dei Napoleoni che hanno tali sogni, e li pagano; ma l a natura, come resiste a coloro che la violentano, così domanda docilità a coloro che ne seguono gli impulsi. La espansione territoriale è spesso richiesta da interne esigenze di un impero in formazione. Gli Stati Uniti vollero far propri territori che appartenevano al Messico o potevano appartenervi i n seguito. Quelle immense distese, quella costa oceanica erano una zona di sicurezza naturale. 1È vero che il Messico, per l e sue condizioni economiche e morali non sarebbe mai stato un .vero antagonista dei Tredici Stati del nord, ma è anche vero che l e popolazioni del nord tendono verso il sud per naturale esigenza; una volta che l'America del nord si era estesa fino a l golfo del Messico, l a sicurezza del mare Caraibico diveniva un'esigenza politica oltre che una necessità economica; una volta arrivati a Cuba, aperto il canale del Panama, occupato Nicaragua e Portorico, gli interessi americani esigevano una specie di più larghe garanzie da ottenersi (sia pure pacificamente, o con intrighi) dal Messico e nelle altre repubbliche del centro. Si sviluppò la politica dei governi amici, dei favori politici dei prestiti, delle prese di posizione economiche, petrolio nel Messico, petrolio nel Venezuela, politica del d o l l a ~ onell'emisfero;


tutti mezzi di espansione e motivi di difesa di quegli ingrandimenti vecchi e nuovi che domandano sempre maggiori garanzie. Abbiamo accennato agli Stati Uniti per denotare che i caratteri formativi della nazione erano tali da comandare una politica senza che il popolo ne avesse chiara notizia, anzi senza volerla; per tanto essa portava passo passo alla sua imponente formazione imperiale.

Ideale imperiale

Tutto ciò non porterebbe a creare l'impero che abbia una sua individualità vivente, se manca un ideale comune che rende unite le parti al centro e che vivifica e trasforma la forza materiale di dominio in superiore volontà di vita: un ideale. L'impero ha anche esso un suo ideale, e se ne manca, cessa presto o tardi di essere impero. Gli imperi feudali avevano quello della lealtà dei vassalli al signore; il Sacro Romano Impero aveva l'investitura papale e il concetto della difesa della cristianità; Venezia, signora dei mari, idealizzava la cultura occidentale e cristiana; 1'Islam l'affermazione e la propaganda del Corano: tempi di ideali religiosi, la religione consacrava gli imperi. Dopo la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Colombo, gli spagnoli nel costituire il loro impero coloniale idealizzarono la loro fede di portare la croce in terre pagane; ma decaddero presto perchè i paesi conquistatori erano lontani dalle COlonie conquistate, i costi delle conquiste elevati, la spinta religiosa attenuata e macchiata da gùerre, schiavitù, crudeltà, sfruttamenti. Gli imperi coloniali ebbero la contropartita nelle guerre europee di religione e di egemonia allo stesso tempo, che crearono le nazionalità moderne. Allora l'ideale nazionale i n Francia, Spagna, Inghilterra e Olanda, surrogò quello degli'imperi feudali e religiosi; l a borghesia europea trovò i n seguito negli ideali umanitari e nazionali di che potere improntare lo spirito dei nuovi imperi. Dalla fine del secolo diciottesimo gli imperi vecchi e nuovi ebbero le seguenti linee ideali: l'impero ottomano ( g i à in ini-


ziale decadenza rappresenta ancora il residuo religioso del1'Islam; l'Austria il residuo religioso cattolico della contro-riforma; la Russia chiudeva in sè la tradizione di Bisanzio in uno stadio ancora feudale, s~iritualizzantee primitivo, in opposizione all'occidente già evoluto e corrotto. Caduti con le rivoluzioni americane i vecchi imperi coloniali dello emisfero occidentale, solo l'Inghilterra si rifece e e i evolse in impero sui generis con i dominions che ebbero a poco a poco libertà e indipendenza formando infine il Commonwealth britannico, una specie di libera associazione dei popoli in prevalenza della stessa lingua ed origine, un'estensione della propria nazionalità in territori acquistati, dove gli indigeni e le altre emigrazioni formavano una minoranza di seconda classe, da assimilare o tollerare. Per tanto, quest'ideale fondamentale di nazionalità e di razza poteva reggere moralmente e materialmente ed avere un largo sviluppo per quanto era da un lato associato ad una concezione fondamentale di libertà e dall'altro agli interessi reciproci che venivano assicurati dal dominio dei mari e &alla coesistenza di colonie o di territori sotto bandiera britannica in tutte le parti del mdndo. Si veniva formando un ideale civilizzatore, quasi come monopolio di un popolo che aveva la tradizione della libertà e del dominio unite insieme e consacrate dalla tradizione. Chi voleva legare questi fattori spontanei a criteri fissi, quali quelli di razza (anglo-sassone), a concezioni religiose (l'anglicanesimo vagamente definito) o al semplice gioco politico di potenza (divide et impera) trovava la resistenza nel buon senso del popolo che teneva fermo alla tradizione della libertà e al metodo pragmatista. Questa assai complessa mentalità doveva cozzare con quella troppo logica e stretta del popolo tedesco che veniva a creare un nuovo impero che s'incuneava tra i vecchi tre imperi decadenti dell'est e del sud est (Russia, Austria e Turchia) e diveniva implicitamente l'antagonista dell'impero britannico. Lo ideale germanico era u n ideale di razza omogenea e conquistatrice, una razza investita dall'alto perchè superiore, popolo scelto che accoppiando scienza a forza doveva in sè unificare l'Europa e trasformare il mondo. Questo ideale nazionale-mistico non era un'imitazione della Santa Russia (l'antagonista


dell'est), ma era originato tanto dalla tradizione luterana antilatina e anticattolica, quanto da quella antislava dei Cavalieri Teutonici. I1 misticismo inglese si polarizzò nella libertà indi.viduale, che animò la potenza imperiale sui mari e nelle colonie; il misticismo russo si polarizzò verso l'unione dei popoli slavi d'Europa, eliminando le minoranze latine e cattoliche da assorbire nella ortodossia greco-bizantina; i l misticismo germanico si concentrò nella omogeneità della razza ariana, dominatrice dell'Europa e. del mondo; quello giapponese anche esso orientò le sue classi militari, industriali e politiche al misticismo della razza dominatrice dell'dsia. Ultimo nell'arengo venne i l popolo americano del nord; la espansione fu territoriale all'interno, economica all'esterno ; gli ideali umanitari e democratici che hanno spinto gli americani a molte iniziative benefiche e religiose nei paesi stranieri non erano nutriti da misticismo imperialista. La partecipazione alle due guerre mondiali è avvenuta contro i sentimenti generali della popolazione, più per istinto di difesa che per volontà di espansione. Gli Stati Uniti si possono dire impero loro malgrado, impero senza ideali da far valere all'interno e presso i popoli che legano l a loro politica e la loro economia con l'America. P e r questo gli Stati Uniti hanno anche oggi una politica fluttuante ed incerta, e la coscienza pubblica non è ancora vivificata da un ideale definito, divisa com'è fra la tutela dell'enorme massa di interessi materiali accumulati, e il nuovo compito di paese a capo della organizzazione mondiale. Perfino l a tradizione di democrazia libera non è per gli americani nè un ideale da far valere, nè una merce da esportare, visto che non produce nè correnti sentimentali nè utilità pratiche. Lo stesso « americanismo )) come modo di vivere americano, essendo legato a un alto livello economico e un'attività pratica che solo può avere largo sviluppo sul suolo americano, non è attuabile in altre contrade a basso livello di vita materiale ovvero con tradizione più elevata di vita intellettuale. L'America deve ancora trovare l'ideale « imperiale che accompagna la forza e l'influenza della ricchezza. Fino a che non lo trova, resta, in confronto alla Russia e alla G r a n Bretagna, in una posizione inferiore e non ben definita.


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La proposta d i Winston Churchill, di legare insieme Gran Bretagna e Stati Uniti con unica cittadinanza, fusione o cooperazione di forze militari e di intenti politici, avrebbe potuto dare un nuovo orientamento alla razza anglo-sassone nel mondo se questa fosse stata meno inglese e più sassone, e se i due rami della razza (l'europea e l'americana) avessero tanta comunanza di sentimenti e tanta coesione di interessi economici quanti ne hanno di realtà politica. Ma questo sogno non è realizzabile, perchè manca negli americani un ideale di impero, e l a volontà, che ne è implicita, d i dominare il mondo; essi invece sarebbero sentimentalmente più felici se fossero lasciati liberi in casa propria, senza essere disturbati dal mondo di fuori. Ma la storia non torna indietro.

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Come lo spirito nazionale crea il nazionalismo, così lo spirito imperiale crea l'imperialismo. C'è una differenza sostanziale fra l'uno e l'altro di questi sentimenti collettivi; il primo ha quasi sempre una base popolare e si diffonde presso intieri popoli; l'altro invece è limitato al popolo o alla classe dominante, e non ha vera base popolare diffusa. Ciò è naturale perchè l'impero è essenzialmente il dominio di una minoranza (don importa se sia una classe, una razza, una casta o una nazione) che tiene i n mano i poteri imperiali, ne ha i vantaggi e ne determina l a politica. Per poter creare uno slancio popolare a favore di un impero occorre che sia minacciata non l'esistenza dell'impero come tale (cioè come agglomerato territoriale-politico-economico), sì bene l'esistenza della razza o della nazione dominante, e che tale minaccia sia sentita da tutti senza differenza di classi sociali. Può anche darsi che un'awentura di guerra sia presentata come necessità di vita, un vantaggio ideale o reale nel quale sia coinvolta l a nazione dominante. Ma questi casi sono rari; del primo tipo il caso più recente e più eroico è stata la resistenza dellYInghilterraall'invasione hitleriana nel 1940-41


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col concorso di tutto l'impero. Al secondo tipo appartiene la guerra promossa dalla Germania nel 1914, guerra di sua natura prettamente imperiale, che però ottenne il consenso d i tutti i partiti, anche del centro e della social democrazia, e così di tutte le classi sociali. Invece la guerra di Hitler del 1939 non ebbe inizialmente gli stessi consensi della precedente, perchè già il popolo era diviso, i nazi formavano il gruppo dominante, e l a 10ro adesione alla guerra era tanto più fanatica, quanto più ferma era in loro l'idea che avrebbero non solo controllato l'Europa, ma tutto il mondo. La certezza dell'esito felice dell'avventura attirò anche l'adesione del resto della nazione, non ostante le ripugnanze morali e il dissenso politico che la divideva. La mistura di sentimenti nazionalistici (facili ad erompere spontaneamente o ad essere manipolati), dal punto di vista sociologico va tenuta distinta dai calcoli imperialistici, per poter cogliere i caratteri particolari di ciascuna di tali malattie sociali. Mentre l'impero è basato, come abbiamo visto, su fattori naturali che pur sviluppati ed attuati per l'abilità dei capi, ne costituiscono u n condizionamento stabile, l'imperialismo trova la sua radice nei difetti e nei vizi degli uomini al potere. L'ambizione di re e di generali, l'ingordigia di uomini di affari, il puntiglio dei politicanti, lo spirito di sopraffazione e di vendetta, la paura di nemici immaginari e di nemici reali, dei quali l a stessa paura ingrandisce i pericoli, tutto ciò dà la spinta a quegli eccessi che noi chiamiamo imperialismo. La storia è piena di imperi agitati dal cattivo spirito dell'imperialismo. Per esso si promuovono guerre non solo ingiuste ed onerose, ma pericolose e fatali. Fatto il primo passo verso il sogno di grapdezza, è difficile non essere trascinati dai successi, senza più tener conto dei limiti della propria potenzialità. È di5cile arrestare le avventure imperialistiche specialmente quando non si ha dietro l'esperienza dei secoli, come nei casi d i Napoleone Bonaparte e di Adolfo Hitler. Non parliamo degli imperi sulla carta come quello di Mussolini, il quale visse di questa fatuità e trascinò nell'abisso un paese, che dalla caduta dell'impero di occidente in poi non aveva mai sognato di dominare l'Europa o l'Africa, nè d i tenere in tasca l e chiavi del Mediterraneo e farne il mare nostrum.

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A parte le follie, sciocche o geniali che siano ( e Napoleone ci credette al suo impero con lui molti altri in Europa abbagliati dal suo genio), anche imperi stabili e secolari possono essere trascinati in avventure che mostrano il peccato di imperialismo, come la guerra contro i Boeri da parte dell'rnghilterra, l'oppressione per secoli dell'rrlanda che ottenne la sua indipendenza, pur non intiera, con una ribellione appoggiata dall'opinione pubblica americana. I1 più grave vizio di ogni imperialismo è quello di non tenere alcun conto della morale comune. Patti che si violano, trattati che non si osservano ; intrighi, violenze, disprezzo della personalità altrui, schiavitù e persecuzioni. È vero che la violazione della morale internazionale non è uno stigma imperiale; ogni politica, anche quella d i stati medi e piccoli, può essere intinta nella stessa pece ( e lo è quasi sempre); ma quanto più la potenzialità è grande e le occasioni maggiori, tanto più è facile manomettere diritti di paesi alleati e di popoli « protetti » o assoggettati. Quanto più si sviluppa lo spirito imperialista, tanto più si va incontro a sacrifici che i popoli soggetti devono sopportare per i primi; sacrifici che impegnano gli stessi gruppi dominanti, sia per gli eserciti dei quali essi sono la parte prevalente, sia per i gravami fiscali, sia per le limitazioni politiche e le conseguenti fazioni e rivolte da contenere e reprimere.

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L'imperialismo britannico Gli stessi imperi che all'interno sono arrivati a conquistare e mantenere la libertà per il paese dominante, non sono stati mai capaci di darla o mantenerla nei paesi dominati. F a eccezione il Commonwealth britannico per il fatto, unico nella storia, che i dominions elevati al rango di stati indipendenti sono stati liberamente aderenti alla madre patria. Però occorre spiegare un tale fatto per i suoi dati sociologici-etnici: Australia, Canacà, Nuova Zelanda sono paesi dove l'emigrato britannico ha soggiogato l'indigeno ed h a o assimilato o discriminato l'emigrato di altri popoli e razze. La popolazione dominante è la stessa, origina-


riamente ed etnicamente, di quella della madre patria; ed è arrivata spontaneamente a condividerne la posizione rispetto agli interessi britannici nel mondo. I nuclei non assimilati o che rifiutarono l'assimilazione ( o I'assoggettamento) sono rimasti fondamentalmente anti-britannici: l'Irlanda, la provincia di Quebec, i Boeri del Sud Africa, non domati da guerre nè resi amici con le concessioni, pur ritenendo che il loro interesse economico e politico li spinge a mantenere il legame tenue ed equivoco nel Commonwealth. La guerra boera e le repressioni delle rivolte irlandesi e l'attuale divisione dell'Irlanda nel Nord e Sud, sono stati indici d i u n contrasto fondamentale, che derivava e deriva dalla concezione imperialistica britannica in conflitto con sentimenti nazionali di popolazione locali. E per quanto ne1 Canada non esista un conflitto imperialistico con la provincia francese, pure il sentimento nazionalistico ne rende quasi inconciliabile la coesistenza. Ho accennato a questi punti ( e altri ne potrei citare: basterebbe per tutti i1 problema della Palestina dove il conflitto fra interessi imperiali e quelli nazionalistici sembra insanabile), per arrivare al punto che pur in democrazia, l'impero più progredito quale il britannico non è capace di superare lo spirito imperialistico che si sviluppa come un fiore di male dalle crepe stesse della costruzione imperiale. Si è sempre affermato che l'imperialismo fosse il prodotto della classe mercantile e conservatrice britannica, così che l'avvento del laburismo avrebbe disincantato l'impero dallo spirito imperialista. Certo che i capi laburisti sono i meno affetti di imperialismo che gli uomini politici del passato; ma, da un lato, essi si trovano ad averne l'eredità proprio dopo una guerra politicamente ed economicamente rovinosa ; e dall'altro non possono liquidare u n impero le cui posizioni ed interessi legano insieme tanti popoli diversi e costituiscono ancora una delle stmtture mondiali cui è condizionata la civiltà presente. Ciò obbliga i laburisti a resistere tanto agli idealisti di casa propria, quanto agli aspiranti alla successione fra alleati, amici e presunti avversari. Che poi la difesa, anche legittima, dell'impero britannico sviluppi un'ondata di imperialismo presso i laburisti e il popolo inglese nel suo insieme, niente da meravigliarsi: sarebbe

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questo l'indice di una crisi di mezza strada, che potrà portare tanto alla guarigione che alla cronicità del male. Certo sarebbe un gran progresso per lo sviluppo della civiltà, poter trovare un impero che abbia superato le forme acute di imperialismo, e che possa anche guarire delle forme insidiose di intossicazione cronica con febbri ricorrenti fra i periodi di normalità. Ciò non è escluso che avvenga: non ci sono limiti alla perfettibilità umana; però nel fatto ogni superamento di un male sociale che s'inserisce quale parassita in una forma naturale di società ( i n questo caso, l'imperialismo per ogni impero), comporta l a trasformazione del tipo impero in altro tipo sociale. Così, come è avvenuto alla Gran Bretagna di trasformare vecchi possedimenti in dominions liberi, autonomi e spontaneamente consociati, potrà arrivare a trasformare l'India e le colonie in stati autonomi e cooperanti, in una specie di zona d'influenza o sfera vitale nella quale i reciproci vantaggi saranno assicurati dalla libera cooperazione. Sogno o realtà, si vedrà in seguito.

L'imperialismo americano Un cammino analogo, benchè diverso, dovran percorrere gli Stati Uniti di America. Qui manca fino ad oggi una vera unificazione spirituale del popolo americano. I1 paese è troppo grande e troppo giovane, per avere avuto il travaglio unificatore dei secoli. Mentre gli Stati Uniti sono un impero, il popolo non ne ha ancora coscienza completa; così esso può soffrire tanto della malattia di imperialismo, pur con fenomeni che la mascherano e la nascondono agli stessi pazienti; quanto la malattia dell'isolazionismo e del disfattismo. E poichè la popolazione americana non è omogenea ed h a in sè divisioni fondamentali: gli yankees, gli irlandesi, come dominanti; altri emigrati europei, tedeschi, slavi, latini, messicani, negri, cinesi e giapponesi come gruppi compatti, più o meno discriminati e prementi; così gli effetti di tali malattie sono sentiti diversamente e con varia intensità. La politica americana non può fare a meno, oggi, dall'essere 209

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14. STUU Nazionalismo e ZnternazionaIismo


imperiale; tale è specialmente col Giappone e in Cina, tale è l a sua politica oceanica. Fin oggi non può dirsi imperialista, perchè è mancato il tempo di una simile maturazione; nel fatto la vittoria non ha dato agli americani nessuna ubriacatura. Ha dato invece il senso della paura, senso che non esisteva prima della guerra se non implicitamente nell'isolazionismo che era paura della guerra in sè. Oggi è anche paura dell'essere gli americani troppo grandi e avere nel futuro dei nemici, anzi un nemico, la Russia; paura di essere trascinati a una contesa finale con la Russia come vi fu trascinata col Giappone; paura dei suoi impegni in Europa; paura del segreto della bomba atomica che possiede; paura che la Russia possa anche essa scoprire l a bomba atomica. Purtroppo il senso della paura così subitamente inoculato nella massa americana, può portare una reazione imperialista. Intanto assistiamo al mantenimento di eserciti e di flotte « imperiali D, di acquisto di punti strategici e di garanzie per l'avvenire. È giusto, è necessario tutto questo; non c'è che dire. Solo si desidera che insieme alla presa di posizioni, ci sia una politica equilibrata che affermi l'esistenza dell'impero e neghi la possibilità dell'imperialismo. L'imperialismo russo Dopo la caduta a pezzi degli imperi della Germania e del Giappone, proprio per eccesso di imperialismo sproporzionato alla loro recente creazione, dei vecchi imperi di carattere realmente imperialistico non è rimasta che l a Russia. Si pensava che con la caduta degli zar, la cacciata delle classì nobili militari e borghesi, e l'ntroduzione del comunismo, fosse cessato non solo l'imperialismo russo, ma perfino l'impero. I1 fatto che la Russia di Lenin riconobbe le repubbliche baltiche, Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania, fece pace con l a Polonia, non rivendicò la Bessarabia, sembrava a tutti che avesse inaugurato una nuova era. Ma questa era solo apparente. L'Unione delle Repubbliche Socialste Sovietiche fu obbligata a combattere le guerre dette rivoluzionarie, e benchè fossero guerriglie più che guerre, cominciarorio E ridare (come awiene in simili casi) una coscienza nuova ai dirigenti, ai fanatici, alla


burocrazia esecutiva, ai rifatti della rivoluzione, a tutti coloro che andavano creando la nuova classe dirigente: la coscienza del potere militare. L'idea di essere accerchiati daPotenze ostili produsse il 'militarismo sovietico. I contatti con la Germania vinta che aveva volontà di rivincita, fecero presa sulla classe militare russa in formazione. La Germania fu vista volta a volta come un'alleata contro l'occidente ovvero come una nemica. L'avvento di Stalin segnò il passaggio dalla infanzia alla ,giovinezza della nuova Russia. L'impero si riconsolidava all'interno, sviluppando il nuovo militarismo sovietico e i piani industriali. La politica portava a studiare chi potevano essere i futuri nemici ed avversari in una guerra che l'avvento di Hitler fece comprendere possibile e non lontana; occorrevano piani di difesa e piani d i rivendicazione bene studiati e tali da potersi attuare a l momento dato. Ma quali piani? I piani antichi, quelli degli zar, quelli per i quali la Russia aveva sempre combattuto, e che erano un naturale svolgimento della sua posizione unica nel mondo, dominatrice dell'Europa e dell'Asia: gli sbocchi nel Baltico, nel Mediterraneo, nel mar Persico, nel Pacifico. A questo scopo Stalin seppe maneggiarsi da vero capo di u n impero da quando entrò nella Società delle nazioni abbandonando l'isolamento politico, fino ai patti con la Francia, la Cecoslovacchia, il Giappone e la Germania. Stalin sapeva quel che faceva quando nell'agosto 1939 firmò il patto con Hitler, dopo aver rigettato l e richieste dell'Inglii1terra e della Francia; sapeva che la guerra diveniva inevitabile perchè Hitler essendosi assicurato il fronte russo poteva muovere sicuro contro la Polonia, i Paesi Bassi e la Francia. Ma egli, nelle due ipotesi di una vittoria di Hitler e di una vittoria degli Alleati, aveva reso la Russia di nuovo un fattore efficiente nella politica europea e si preparava all'avvenire. L'aggressione di Hitler nel giugno 1941 contro la Russia non fu una sorpresa nè per Stalin nè per altri; fu una sorpresa per il mondo che non conosceva i segreti della politica di guerra, nè le esigenze storiche degli imperi. Stalin si era preparato al duello mortale e Hitler lo affrettò imprudentemente. Ma i due ne sentivano gli impulsi nella loro concezione fondamentalmen-


te egemonica. L'America e l'Inghilterra diedero alla Russia tutto l'aiuto possibile non perchè coincidessero i loro interessi imperiali, ma per evitare che cadesse il bastione russo che pel essi costituiva in quel momento una difesa militare. La conseguenza politica di una Russia vittoriosa in Europa e in Asia, anche se fosse stata chiara ai governi di Londra e d i Washington ( e non lo era), non poteva avere per essi un peso decisivo. La Russia h a già superato il periodo di incubazione della febbre imperialista. Questa febbre è al suo culmine; perciò la Russia impedisce o ritarda la rinascita europea, prende posizioni strategiche per il futuro conflitto con i paesi anglo-sassoni, e vi si prepara estendendo la sua potenza, intensificando le sue industrie, utilizzando il suo prestigio presso le masse operaie del mondo. Nessuna meraviglia che la Russia usi la stessa tecnica di Hitler, che abbia un regime totalitario senza speranza d i attenuazione, che tenga i popoli soggetti in tirannia, che vessi i paesi conquistati o satelliti sfruttandone l'economia e dilapjdandone gli impianti industriali e le risorse economiche; deportando masse di popolazione da una zona all'altra, perseguitando rifugiati politici e creando un vuoto spaventevole nel centro europeo. La meraviglia è dall'altro lato, che gli angloamericani possano non solo assistere impotenti a questo disastroso dopoguerra, ma anche cooperare - direttamente e indirettamente - accedendo alle pressanti richieste d i Mosca, ovvero rendendosi impotenti a resistervi per incapacità politica e per imprevidenza diplomatica. Oggi, dopo una guerra fatta in nome della libertà e della democrazia, gli imperialismi, in diversi gradi, di nuovo agitano il mondo.


L'INTERNAZIONALISMO

Quando si credeva che il mondo abitato finisse, più o meno, con i confini dell'impero romano, i cristiani dopo Costantino lo concepirono come una comunità internazionale unificata dalla nuova religione trionfante. Quando cadde l'impero di occidente ne sentirono il crollo ma non perdettero la fiducia nella unificazione, dato che sopravviveva l'impero di oriente sul quale si appuntavano le speranze, che purtroppo a poco a poco svanivano. Sorta la stella di Carlo Magno si pensò ad u n impero che dovesse riunire la cristianità e far fronte all'Islam : Leone I11 compì il miracolo. Caduto in frantumi l'impero franco, fu ripresa l'idea con l'impero romano-germanico ( o sacro romano impero); ma allora Bisanzio si era distaccata da Roma già più volte e. fra poco si sarebbe distaccata per secoli. L'unificazione imperiale falliva anche perchè i regni dell'occidente: franco, britannico, aragonese, e la potente repubblica di Venezia non ne facevano parte. Però nel papato tutto il mondo cristiano era allora spiritualmente unificato e si sperava da molti che lo fosse anche sul piano temporale. Ma l'unificazione internazionale della cristianità fu rotta prima dagli scismi d i oriente e d i occidente, poi dalle guerre religiose della riforma e controriforma. Da allora, si cercò l'unificazione sul piano giuridico sulla base del diritto di natura e del diritto delle genti: i nomi più noti e più generali di tali pionieri sono quelli di Alberico Gentile, Ugo Grozio, Francesco


Suarez. Nel conflitto di fedi religiose e di interessi temporali l'adesione ai principi giuridici non poteva restaurare l'unificazione; perciò uomini come Leibniz e altri cercarono una intesa religioso-morale-politica, come basilare all'unificazione europea e mondiale. Caduta tale speranza, e sviluppatosi il razionalismo naturalista, furono l'abbé de Saint-Pierre e Kant a interpretare le aspirazioni di unificazione politico-sociale dell'umanità. Proprio in quel tempo cominciava ad emergere il proletariato come effetto della trasformazione del mondo derivante dalla trasformazione economica nelle industrie e nei commerci. Fin dalla rivoluzione francese veniva asserito che imperialismo e guerre dipendessero dall'esistenza delle monarchie assolute e dalle nobiltà militari. Quando l'assemblea nazionale di Parigi decise la guerra all'Austria, proclamò che quella era guerra Idifensiva e non d'ingrandimento: così anche fu detto per le guerre successive della convenzione. Ma com'è possibile segnare un limite fra guerre difensive e guerre offensive? Quando Napoleone prese il comando degli eserciti d'Italia egli difendeva la Francia; quando vinse a Marengo egli prese l'offensiva e guadagnò l'alta Italia che non aveva responsabilità contro la Francia, abbattè la repubblica di Venezia e occupò Roma che erano stati neutrali. Colpa di Napoleone? dei dirigenti di Parigi? di tutti. Fatto sta, che appena messa alla prciva, la borghesia antimilitarista, antimonarchica e rivoluzionaria accettò le guerre di conquista e gl'imperi. Da allora divenne tesi corrente che solo le masse operaie sarebbero state capaci di creare un mondo internazionale senza imperi e senza guerra. Karl Marx nel 1848 lanciò il manifesto operaio cc Operai d i tutto il mondo, unitevi)). Ne nacque'la prima internazionale con sede prima a Londra, poi a Parigi. Vi succedette la seconda internazionale detta di Amsterdam, per la quale si ebbero maggiori speranze di realizzazioni politiche da parte della classe operaia, che entrando nella sua maturità gi.5 si era organizzata in partiti efficienti e pronti tanto a lanciare la rivoluzione proletaria quanto a prendere in mano il potere per via democratica. La seconda via sembrava più lunga e con meno probabilità onde i partiti socialisti si frazionavano in varie tendenze: dormisti, massimalisti, rivoluzionari del-


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l'azione diretta; le discussioni aperte si mescolavano ad intese segrete. Nel fatto si aspettava che il momento propizio maturasse. I partiti socialisti per lunghi anni sostennero il disarmo universale, combatterono le spese militari in ciascun paese, appoggiarono la propaganda pacifista. Tutto sembrava che dovesse condurre in Europa allo scisma dallo stato della classe operaia organizzata, e alla proclamazione della rivolta. Ma scoppiata la guerra nel 1914, tutti i partiti socialisti di Europa, quale prima quale dopo, aderirono in maggioranza alla guerra combattuta dalla propria nazione (già abbiamo notato che il sentimento nazionale allora prevalse sopra la particolare concezione di classe sociale). Le eccezioni furono poche, benchè di uomini convinti; nel complesso l'internazionale socialista fallì al suo ideale anti-bellico e anti-imperiale. I socialcomunisti di Germania furono col Kaiser, quelli di Austria coll'imperatore; i francesi e i belgi ebbero la scusa della difesa del territorio attaccato; i laburisti inglesi tentennarono e poi accettarono la corresponsabilità della guerra. Gl'italiani si spezzarono i n quattro tronconi: Bissolati e il suo gruppetto per la guerra alleata; Mussolini e i suoi seguaci per la guerra nazionalista; la massa con Turati e Treves benevolmente neutrali; l'ala estrema decisamente opposta. In quel tempo Lenin rifugiato in Svizzera poteva scrivere il suo aZmperialismo come ultima fase del capitalismo». Ma oggi avrebbe visto come l'imperialismo risorge dalle sue ceneri anche attraverso il comunismo ; l'ideale di fratellanza umana e di unificazione internazionale non è realizzabile nemmeno sotto la bandiera del comunismo, come non lo è stato sotto la bandiera del socialismo. Questi due ideali, che nella paternità marxista si identificano, hanno un punto di partenza: tutto il potere al proletariato, che dovrà essere l'unica classe sociale nella regimentaziose economico-politica di ciascun paese. Onde essi ammettono come processo necessario, la cosidetta azione diretta che può sboccare o nella presa del potere per rivoluzione con la eliminazione delle altre classi, o nella guerra civile ad oltranza, nella quale può prevalere ancora la cosiddetta classe capitalista o borghese. L'esperienza delle due guerre mondiali ci dà il fatto che nè


socialisti nè comunisti abbiano resistito all'ondata delle passioni nazionaliste, nè alla politica imperialista; nei due casi essi si sono diportati nè più e nè meno come l e antiche classi nobili prima delle rivoluzioni del secolo decimottavo, come le classi borghesi e capitaliste del secolo decimonono. E quanto più le guerre sono passate da monarchiche e da nazionali a generali, tanto più sono divenute estese e passionali per i l fatto stesso che ogni nazione vi si è impegnata con tutte l e risorse economiche e morali, e con l'adesione di tutto i l popolo. Socialisti e comunisti obiettano che fin oggi, tranne la Russia, non esiste alcuno stato veramente proletario dello stesso ideale. Chi scrive, contesta che la Russia possa dirsi stato proletario e comunista. Ma a parte questa questione estranea al presente studio, si può rispondere loro che gli stessi comunisti d i oggi contrastano gli uni gli altri proprio per questioni ed interessi nazionali: quelli di Germania vogliono uno stato unificato e si oppongono alla internazionalizzazione della Ruhr e della Sarre, mentre comunisti francesi sostengono la tesi opposta ; quelli jugoslavi vogliono tutta la Venezia Giulia, Trieste compresa, mentre i comunisti italiani sostengono che Trieste e zona dell'ovest sono da lasciarsi all'Italia; così awiene in ogni paese europeo, dove gl'interessi nazionali sono sentiti più vivamente che altrove. Bisogna attendere l'evoluzione del mondo, si da comporre u n tutto social-comunista e unificato. Ma questo sogno sarà rotto per primo dagli operai comunisti dei paesi ricchi e dai loro capi alla Lewis. Forse che egli e i suoi luogotenenti non ha; chiuso le orecchie e il cuore all'appello di La Guardia, che deprecava lo sciopero minerario a nome d i intere popolazioni affamate e disoccupate in tutto il mondo la cui morte lenta poco interessa gli scioperanti americani? Chi crede che gli operai americani comunistizzati vorranno scendere a l livello di vita dei loro camerati di Russia, di Cina, o della stessa Europa? Anche nell'assurda ipotesi che con l'avvento del socialcomunismo non ci saranno imperi territoriali, ci saranno d i sicuro imperi economici che-avranno anch'essi i loro limiti territoriali, guardati da eserciti rossi o verdi che siano. I1 vero internazionalismo non nascerà nè dalle guerre civili per scacciare le classi borghesi e proprietarie, come fece la Russia del


1917-1918, e neppure dalla livellazione di tutto i l mondo in unica classe operaia, con unica bandiera la social-comunista e con unico sistema. Le differenze economiche e politiche supereranno le velleità di un apparente unionismo mondiale e l'individualismo nazionale vincerà una qualsiasi dittatura internazionale e totalitaria, mantenuta con la forza.

La Società delle nazioni fondata nel 1919 alla conferenza di Parigi, dopo la prima guerra mondiale, doveva essere un passo in avanti verso un sano e organico internazionalismo. Non ostante le divergenze fra i promotori e l e diEcoltà di attuazione incontrate fin dai primi passi della nuova istituzione, si aveva speranza che per l a buona vo1ont.à dei governi interessati, il favore della pubblica opinione e lo spettro della guerra mondiale vinta dopo quattri anni di inutile strage ( p e r dirla con le parole di Benedetto XV), la Società delle nazioni fosse capace di fermare le guerre e di dare al mondo un nuovo ordine. Dopo venti anni di vita incerta e travagliata, l a Società delle nazioni falliva a l suo compito principale, iniziandosi una seconda guerra mondiale, prevista e temuta, che essa non potè nè tentò di evitare. Far risalire l a colpa del fallimento alla Società delle nazioni come se fosse un meccanismo che doveva funzionare automaticamente, o come un'entità che avesse proprie responsabilità, è tanto irrealistico, quanto è comune attribuire colpe allo stato, ai parlamenti, alle unioni e a molte altre associazioni che sono mezzi con i quali gli uomini responsabili agiscono e attuano la loro volontà e quella degli associati che rappresentano. Era un'alta e ambiziosa idea quella che mosse i promotori della Lega tendendo alla eliminazione della guerra attraverso un controllo giuridico-politico internazionale. Ma i mezzi adottati erano inadatti e insufficienti; sì che la Lega fu destinata al fallimento. E per quanti sforzi potevano farsi per evitarlo, non si sarebbe riusciti a d altro che ad allontanarlo di mesi od anni. Non era la Lega l a responsabile vera sì bene i governi


delle grandi potenze che operavano in essa e per essa. Oggi, all'inizio del secondo esperimento, quello delle Nazioni Unite (ONU), possiamo meglio valutare il contributo della Società delle nazioni al lento progresso del mondo verso l'internazionalismo ; perchè il poco che se ne guadagnò e la profondità della crisi che ne segui, segna il solito cammino dell'umanità verso le grandi trasformazioni. Che siamo di già incamminati verso una più comprensiva sistemazione mondiale che chiamiamo impropriamente internazionulismo, che sorpassando lo stadio delle « nazioni unite a si dovrà arrivare al « mondo uiito », non c'è dubbio. Però noi uomini abbiamo difficoltà di visualizzare l'avvenire e siamo impazienti: vorremmo che le nostre idee si realizzino subito, mentre la natura procede lenta nel fornirci l'opportuno condizionamento. Le nostre idee si concretizzano lentamente, parzialmente e in diverso modo di come noi le concepiamo, al punto da non riconoscerle più come nostre; e perfino di combatterle come opposte alle nostre. Quando poi si sono realizzate, e appartengono al passato, allora siamo capaci di vedervi i l filo conduttore, d i analizzarne il loro intimo significato e di scoprirne il processo logico per il quale si sono imposte nella storia e sono divenute realtà. Pertanto, mentre ci è possibile dire perchè gli internazionaliorni del passato sono falliti, e trarne motivo di sperare per l'avvenire, non siamo capaci di avere un piano sicuro per il quale il termine internazionalismo possa definitivamente stabilirsi nel mondo. Questa deficienza insita nella natura umana, che non ci fa essere sicuri dei nostri risultati, è utilissima per farci raddoppiare gli sforzi in più direzioni fino che, per via di esperimenti falliti e di crisi superate, imboccheremo la strada buona. I1 problema più difficile è quello di definire l'internazionalismo. Si esclude naturalmente I'internazionalismo dell'impero unico, come fu creduto l'impero romano ; neppure regge l'internazionalismo religioso come fu realizzato nel medio evo, per il fatto che fuori della cristianità esistono molte altre religioni, e fra i popoli cristiani esistono molte divisioni; neppure basta l'internazionalismo giuridico, basato sull'accettazione del di-

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ritto delle genti sviluppato in diritto internazionale, perchè vi mancherebbe l'autorità capace di darvi sanzione e di curarne l'esecuzione. L'internazionalismo proletario si è visto fallire allo scoppio delle due guerre mondiali ed oggi non sarebbe altro che l'organizzazione sussidiaria per l'espansione di un impero quale è quello della Russia. Con la Società delle nazioni si scelse il piano politico: organizzare in lega gli stati che aderivano alla Società o che vi erano ammessi dagli stati vincitori. Ma il piano politico fu in gran parte nominale, perchè gli stati restavano nella loro integrità sovrana, con la propria politica e i propri interessi, sì che gli organi della Società non erano altro che camere di compensazione solo per quegli affari che potevano trovare un comune denominatore. Se questo denominatore fosse stata una legge etica internazionale, una serie di principii inconcussi e saldi nella coscienza comune, ai quali subordinare affari politici e interessi economici, il cammino verso I'internazionalismo sarebbe stato più sensibile; ma ciò che sarebbe stato molto arduo per l'uomo ordinario, era impossibile per un uomo politico, che si sente investito della rappresentanza degli interessi del proprio paese. L'esperienza umana ci porta a credere che gli uomini, per mantenersi organizzati, hanno bisogno tanto dell'elemento razionale che ci spinge ad accettare le limitazioni della società, quanto dell'elemento coercitivo che ci impedisce di evaderne. Nella Lega delle nazioni, pur non mancando i principi razionali, mancava la loro trasposizione in termini politici, perchè non c'era una politica propria; mancavano anche i mezzi coercitivi, perchè le stesse sanzioni erano troppo ipotetiche, e a carattere volontario per ciascuna nazione e di difficile realizzazione; sostanzialmente inefficaci. I1 piano politico della Società delle nazioni era, in fondo, fittizio ed apparente non solo per la legge dell'unanimità, che impediva la formazione di una politica attiva e si reggeva solo su compromessi negativi; ma anche perchè la Società delle nazioni (come ogni altra simile società) era formata di nazioni che avevano idealità, principi e finalismi contrastanti ; vi coabitavano insieme nazioni democratiche e libere e nazioni già ,


organizzate in forma totalitaria. Nella Società delle nazioni si sviluppò quindi quel dualismo internazionale, che fece fallire Ia conferenza del disarmo, fece ritirare dalla Società i paesi effettivamente aggressori, Giappone e Germania, rese inutili le sanzioni contro l'Italia, e diede agio a formare i precedenti immediati della seconda guerra mondiale. F u evidente per l'esperienza di venti anni che non ci poteva essere e non c'era una politica » della Società delle nazioni, come prodotto di una società sopranazionale e internazionale allo stesso tempo; ma vi erano varie politiche secondo che gli stati più attivi e potenti facevano valere i propri punti di vista, ovvero li compromettevano a vicenda, per ottenere il risultato più favorevole o per impedire un risultato creduto sfavorevole. I n conclusione, l a pura interdipendenza politico-economica degli stati può creare una camera di compensazione che funzioni limitatamente, ma non può creare un ordine internazionale.

Durante e dopo la guerra si è pensato dai paesi vincitori di liquidare l a Società delle nazioni e di sostituirla con altra, che ha preso il nome di .Nazioni Unite (ONU). I1 nuovo statuto fu approvato dalla conferenza di San Francisco nel 1945 ed è già in vigore, nel penoso sforzo di organizzare una nuova internazionale. Le intenzioni di eliminare le deficienze dell'organismo di Ginevra e d i dare al nuovo esperimento un'efficienza maggiore sono state evidenti. Però, nel fatto, i nuovi legislatori sono stati, come i loro predecessori, legati tenacemente alla sovranità politica degli stati, da mantenere e consolidare a danno di una reale concezione internazionalista. Facendo il paragone del passato con il presente, ne vengono fuori le similarità pur nell'apparente divergenza. La Lega era basata sulla sovranità dell'assemblea e legata alla unanimità delle decisioni; 1'ONU è basata sulla sovranità del consiglio di sicurezza e legata alla unanimità dei cinque grandi stati a voto permanente. L'ONU ha così mante-


nuto il principio della Lega (l'unanimità) pur resiringendolo alla pentarchia. Nel fatto la situazione di ieri era identica a quella di oggi; coloro che facevano la politica di Ginevra erano i quattro: Gran Bretagna, Francia, Giappone e Italia; il Giappone preparava la sua guerra e non molestava l'Europa; 1'Italia veniva trattata come il fratello cadetto. Entrata poi la Germania a seggio permanente, la divisione fra i grandi divenne evidente e fatale. Tutti gli altri paesi sui quali si faceva cadere l'accusa che la Società delle nazioni non potesse funzionare per via di quella unanimità di assemblea che li garantiva della manomissioni dei grandi, non diedero in venti anni che pochi disturbi, facilmente aggiustabili, se non ci fossero state dietro di loro le politiche contrastanti dei grandi. Così avvenne per la questione polacco-lituana per Wilno e quella degli armeni di Turchia ed altre simili. In sostanza come i quattro o i cinque (esattamente i due, Gran Bretagna e Francia) della Società delle nazioni trasportarono a Ginevra il loro dualismo politico e la loro incomprensione psicologica, e rovinarono l'Europa e il mondo; così oggi i cinque, che poi sono i tre, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti di America, han trasportato sul piano dell'organizzazione internazionale i loro interessi politici e la loro incomprensione psicologica. E come l'assemblea di Ginevra, pur col diritto di veto di ogni repubblichetta di u n milione di abitanti o meno, non ebbe la capacità di ostacolare la politica degli stati a seggio permanente ( e loro satelliti), così a maggior ragione, l'assemblea dell'ONU non avrà potere di impedire che i tre, i quattro o i cinque non facciano la loro politica? uno in contrasto coll'altro, a danno della nuova organizzazione. Un'altra somiglianza fra la Lega e 1'ONU sta nella mancanza di principii statutari che facciano legge e che siano resi effettivi da un organismo indipendente. Non mancano enunciati generici nella carta di San Francisco che riaffermano (C faith in fundamental human rights, in the dignity and worth of the human person, in the equa1 rights of men and women and of nations big and small » e simili, come non mancavano neppure nel Covenant del 1919. Quale autorità farà valere questi principii se uno stato li viola? I1 consiglio di sicurezza? E se manca al suo dovere i1 consiglio di sicurezza, forse l'assemblea? Si può


andare dall'assemblea alla corte internazionale dell'Aja per avere giustizia? Come ieri nessun individuo e nessuna minoranza e nessun popolo oppresso potè trovare giustizia a Ginevra (la corte dell'Aja era riservata per questioni specifiche e non politiche e come tale Rinzionò discretamente bene), oggi avviene lo stesso con l'aggravante che, non ostante 1'ONU e le conferenze dei tre e dei cinque, sono accaduti fatti di una barbarie inaudita, quali quelli della deportazione e trasferimenti di popolazioni a migliaia e milioni, della servitù di lavoro di prigionieri e deportati, dell'uccisione, promossa dai governi di nazioni unite, di avversari nazionali e politici, a dispetto del1'ONU e delle conferenze dei tre o cinque grandi. La mancanza di un sistema di leggi internazionali, la cui osservanza obblighi ugualmente tutti gli stati grandi e piccoli, nonchè di organi giudiziari che ne abbiano la tutela e ne curino l'esecuzione, è stata ed è una delle più gravi deficienze dell'organizzazione internazionale. Si deve aggiungere che il nuovo statuto è, al riguardo, inferiore al precedente, sia per i limiti molto stretti posti alla corte internazionale, sia per il carattere quasi consultivo e senza libera iniziativa attribuito all'assemblea degli stati, sia per i l tipo quasi dittatoriale della pentarchia ( l e cinque potenze a seggio permanente). Quel che avviene oggi i n Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia, ( p e r parlare solo di paesi piccoli e a piena sovranità e reputati alleati e liberi) 6 in contrasto con i principi etici e legali della carta di San Francisco. Se paragoniamo la politica di questi tre paesi con quella fascista d'Italia, Spagna, Austria, Grecia, Jugoslavia e Bulgaria del periodo dell'ante guerra, quando erano membri della Lega, possiamo dire che allora vi si stava peggio d i oggi? Ma come allora la Lega fu impotente a difendere i diritti e l a dignità della persona umana e dei popoli oppressi, così oggi 1'ONU è impotente a dare forza di legge ai principi enunciati nella carta e renderli effettivi e rispettati. Questo fatto è legato al sistema erroneo tenuto dalla vecchia e rinnovato dalla nuova organizzazione: quello di ammettere o mantenere come membri quegli stati che basano la loro politica su principi antitetici a quelli sui quali è costruito l'organismo internazionale (Lega o ONU). Forse non furono ammessi


nella vecchia Lega paesi dove si esercitava la schiavitù con Ia connivenza dei loro governi? E non restarono nella Lega quei paesi che divennero totalitari come l'Italia fascista e i suoi imitatori? Anche nel caso che I'ltalia fascista non avesse mai aggredita 1'Abissinia riducendola a propria colonia, non poteva più stare nella Lega (come non ci poteva stare la Spagna di Primo de Rivera e poi di Franco, la Germania di Hitler e così via) per il fatto di avere privato i relativi popoli dei diritti fondamentali e della libertà. Oggi ci troviamo in peggiore condizione; mentre nè Hitler nè Mussolini e altri pretendevano di avere fondato delle democrazie, e di rispettare i diritti politici dei popoli, Stalin e i suoi satelliti pretendono di avere una democrazia più progredita di quella occidentale, un sistema sociale e politico più morale e di tutelare i popoli con metodi più rispondenti alla uguaglianza umana. Tale propaganda si insinua negli altri paesi, confonde le menti, indebolisce i principii sui quali si basa la civiltà presente e rende sospettosi gli uni gli altri i due mondi che convergono nelle Nazioni unite che sono purtroppo disunite in etica, in politica e i n economia. La Lega sorse sotto la stella del disarmo, nel senso che mano mano che la sicurezza collettiva veniva a realizzarsi, i paesi vincitori dovevano diminuire i loro armamenti e ridurne il peso delle spese militari. Con questa idea fu tenuta la conferenza navale di Washington nel 1921, che fissò per dieci anni i limiti rispettivi delle potenze navali; vi fece seguito la conferenza di Londra nel 1931, che fallì perchè il mondo andava cambiando, come infine fallì la conferenza del disarmo generale tenuta a Ginevra nel 1932. Non erano solo l'Italia fascista e la Germania nazista a non volere i l disarmo; anche .la Francia voleva mantenute l e clausole militari del trattato di Versailles e il sistema militare della Piccola Intesa e della Polonia. I n sostanza, niente disarmo, sì bene il riarmo verso la seconda guerra. Oggi di disarmo non si parla più; i capi militari russi e americani sono chiari nei loro intendimenti: mantenere gli eserciti in piena efficienza, continuare nella produzione bellica ; provare nuove armi e nuova tecnica; fabbricare bombe atomiche (chi ne ha i l segreto) ovvero continuare ansiosamente nella ricerca


di scoprirne il segreto, sia scientificamente sia con lo spionaggio. L'Inghilterra sta anche essa sul piede di guerra. La Cina continua la guerra civile; l a Francia ha accettato per ora il piano della riduzione delle spese militari - onde il generale de Gaulle ha lasciato il potere -, ma non ha mai rinunciato alla sua tradizione militare. Fra i paesi satelliti della Russia, la Jugoslavia è in pieno riarmo. La situazione psicologica attuale sotto 1'ONU è quella di paura della terza guerra mondiale; la situazione psicologica di ieri sotto la Lega era quella di paura della seconda guerra mondiale. La paura allora non fece realizzare i l disarmo ; la paura oggi non fa parlare di disarmo. Si è più previdenti oggi? Ovvero questo è l'indice di un fallimento anticipato della nuova organizzazione internazionale ? Infine, la vecchia Lega per applicare le sanzioni economiche e militari contro lo stato che avesse violato i l Covemnt, doveva ottenere l'assenso unanime dell'assemblea e lasciava a ciascuno stato la responsabilità dell'applicazione fissata dall'assemblea, mentre l e Nazioni unite hanno affidato la decisione e i poteri al consiglio d i sicurezza ed hanno ( o meglio avranno) un'organizzazione militare propria che agirà sotto la responsabilità del consiglio stesso. Dal punto di vista tecnico si è fatto u n passo avanti; ma il diritto al veto che posseggono le cinque potenze a seggio permanente può paralizzare qualsiasi iniziativa e rendere il consiglio di sicurezza dell'ONU più inefficiente dell'assemblea di Ginevra.

Secondo la nostra opinione, tanto nel primo che nel secondo tentativo d i organizzare gli stati internazionalmente, p u r avendo utilizzato vari elementi necessari alla nuova costruzione, si è sbagliato sulla fondazione. La storia mostra come fatto costante che le leghe nate per la guerra difficilmente durano compatte durante la guerra, ma si sfaldano di sicuro al momento di cogliere i frutti della vittoria fioale. L2 Lega del 1919 nacque come strumento degli Alleati; gli Stati Uniti si staccarono ; Inghil-


terra e Francia seguirono piani diversi e spesso opposti; Giappone e Italia ne violarono apertamente i patti. L'ONU del 1945 segue più o meno la stessa rotta; il dissenso fra i tre alleati e i due associati (chiamo così la pentarchia per marcare le differenze interne) va divenendo tale che appena chiusa l a seconda guerra mondiale si parla della terza: e non mancano movimenti di truppe e combattimenti locali anche oggi. Leghe di stati per l a guerra e intese interessate di paesi vincitori non sono materiali adatti per fabbricare l'edificio internazionale della pace. Sono però l'occasione psicologica per parlare di pace perpetua, di disarmo, di guerra alla guerra; cioè di utilizzare i sentimenti che giocano alla demagogia di pace. Nel 1919 tale demagogia era più spinta ed e5cace, perchè si era sperato che quella del 1914 poteva essere l'ultima guerra; mentre nel 1945 si sperava sugli effetti salutari della bomba atomica, alla cui paura gli uomini si sarebbero arresi per non tentare più guerre. Ma come passa il tempo si vanno proseguendo gli studi su come utilizzarla per la prossima guerra e come prevenirne gli effetti deleteri e organizzare la difesa. Studiosi di cose internazionali, uomini politici e statisti di mentalità democratica, e di tendenze di sinistra, han sostenuto fin dalla prima guerra mondiale che non una lega di stati, ma una lega di popoli si doveva costruire. Anche oggi, durante e dopo la costituzione delle Nazioni unite, si ritorna all'idea d i un parlamento internazionale eletto dai popoli degli stati associati, attribuendovi potere legislativo e dando al centro esecutivo poteri politici, amministrativi e militari. Le due concezioni sono basate su principii opposti: la prima è legata alla sovranità di ogni stato che entra a far parte della lega; la seconda alla costituzione di un super-stato come espressione della volontà popolare. La prima concezione deve contare sulla politica di potenza (power politics) come mezzo d i far valere i propri interessi, perchè non ci sarebbe altro modo di farsi la parte propria che i l compromesso o la guerra; - l a seconda invece deve contare sopra il consenso di maggioranza, che nell'esprimersi in legge dovrebbe subordinarvi gli interessi particolari. I primi obiettano che mancando tra i popoli associati quell'omogeneità, quel cointeresse, quella tradizione sto-

13. STLWO - Nazionalismo e Internazionalismo


rica che fa una nazione veramente tale attraverso il travaglio d i secoli, sarebbe impossibile formare un'assemblea veramente cosciente degli interessi mondiali e quindi espressione reale della sovranità dei popoli associati. A questa obbiezione si potrebbe rispondere che la formazione di una coscienza internazionale non può mai avvenire senza che ci sia un'internazionale in atto. La storia ci dà varie istanze della difficoltà della formazione della coscienza collettiva. Al suffragio universale maschile erano contrari molti delle classi intellettuali e borghesi, ~ e r c h è essi , dicevano, il popolo lavoratore, le classi illetterate non hanno una mentalità nazionale e politica e per il loro numero renderebbero inefficienti le classi che hanno una tradizione di cultura e di pratica negli affari pubblici. Ma il suffragio universale fu esteso a tutti gli uomini, e le nazioni non caddero nel . caos; lo stesso si può dire per il suffragio femminile, che è stato avversato, e lo è ancora in parecchi stati, per la mancata preparazione della donna alla vita politica. È questa la vecchia questione se è possibile imparare a nuotare prima di scendere nell'acqua. È chiaro che per formare una coscienza internazionale fra tutti i popoli con così diversa mentalità etica e politica occorre tempo, educazione e pratica. Solo che si noti come sia difficile in uno stesso paese superare le differenze e i pregiudizi di classe, di casta, di religione, di educazione, possiamo renderci conto di quanto sarà ancora più difficile ottenere tale superamento sul piano internazionale. Le nazioni moderne si formarono col passaggio delle unità locali, città, contee e province, in unità superiori, regni, stati, nazioni; passaggio contrastato e faticoso per la coesistenza di diritti e costumi locali e di interessi più larghi e nazionali. È quindi prevedibile che lo stesso passaggio awenga da nazioni a gruppi internazionali a carattere regionale e continentale e da questi ad unità intercontinentali, e così via fino a una rappresentanza di tutti i popoli nel parlamento mondiale. Non è il problema dell'organizzazione materiale e strutturale di tali unità quello che importa di più, ma il problema della formazione di una coscienza collettiva efficace che ci faccia superare dettivamente i limiti nazionali.


La coscienza collettiva, quale essa sia, non potr,à formarsi che per due vie, quella del primo nucleo che l'afferma e la diffonde con le idee e i fatti, e quella della realizzazione organizzativa, che chiama gli altri a operare per mezzo di un'iniziale adesione cosciente, sia pure ancora sentimentale e vaga. Così fu formato e imposto alle colonie americane, unite in guerra contro la madre patria, l'ideale di unione federale; così fra tante difficoltà iniziali fu tale ideale attuato e tradotto in pratica; e fu difeso con una guerra civile dal moto secessionista ; così fu estesa alle popolazioni dei nuovi stati pur con tradizioni e lingua differenti da quelle del nucleo principale. La coscienza nazionale è u n requisito necessario perchè una nazione si formi, viva e si sviluppi; tale coscienza vi è sempre presente ed operante; se non vi è o se si sterilizza, la nazione non si forma o non supera le difficoltà che si oppongono al suo sviluppo. Ma se c'è, perdura anche sotto la più lunga ed aspra oppressione, come è avvenuto con i popoli dell'brmenia, dell'Irlanda e della Polonia. Lo stesso si potrà dire della coscienza internazionale. Un esperimento importante è stato fatto con la fondazione della Unione pan-americana. Data la diversità di origine, lingua, formazione religiosa, tradizioni, abitudini, condizioni economiche e politiche fra l'America del Nord e l'America Latina, mancava, certo, una base comune per ottenere una coscienza collettiva dell'emisfero occidentale. La difesa dell'indipendenza dallTuropa una volta che le colonie furono emancipate, era certo un interesse comune, onde la teoria di Monroe, pur diversamente intesa, ne fu un'espressione corrente. Ma dopo il fallimento delI'awentura messicana di Napoleone I11 e dopo la rivoluzione del Brasile, che mandò via l'ultimo Braganza, scomparve del tutto il pericolo europeo nell'America Latina, e ne sorse un altro, quello del colosso del nord, divenuto potente e ricco, che avrebbe pesato con la sua politica del dollaro sul resto del continente. L'Unione pan-americana è servita a diminuire il sentimento di ostilità o di di5denza del sud verso il nord, ma non ancora ad eliminarlo. Non ostante le belle frasi, una coscienza americo-continentale non c'è. Le intese fra i governi, le amicizie politico-diplomatiche non possono sostituire l'avvicinamento


dei popoli fra di loro, nè i contatti fra gli stati in seno alle assemblee internazionali di delegati dei vari governi, come nell'antica Lega e nella presente organizzazione. I delegati dei vari stati, come uomini o donne, potranno arrivare alla stima reciproca o all'amicizia disinteressata, ma l'avvicinamento dei popoli non avrà progredito di un'oncia, se altro non interviene a renderli affini e cointeressati. La formazione della coscienza internazionale, come ogni altra coscienza collettiva, procede per gradi e si sviluppa lentamente da nuclei ristretti e convinti a zone più larghe e da convincere, fino a che arriva alle sfere che non sono o non sembrano direttamente interessate, ma che formano lo sfondo sociale che dà sostegno all'azione dei pionieri. I1 processo storico è lungo per tutti i cambiamenti di unità sociali che sono accompagnati da cambiamenti di orientamento popolare e di sviluppi di coscienza collettiva. Deve anzitutto poter cambiare il condizionamento sociale, economico e politico per cambiare la coscienza collettiva, perchè i fatti della vita quoiidiana s'inscrivono nella coscienza di ciascuno d i noi con la loro persistenza e il loro peso. Le popolazioni che emigrano da un paese all'altro stentano ad adattarsi non solo ai climi e ai cibi forestieri, ma anche alle abitudini, alla mentalità, alla concezione di vita; e a poco a poco, di generazione in generazione, rifanno la propria coscienza collettiva così da divenire elemento attivo che influisce sul cambiamento delle abitudini dello stesso paese che li accolse. Queste considerazioni ci portano ad una conclusione preliminare: l'internazionale giuridica, politica, organizzativa, fatta per volontà di governi, a scopo di intesa permanente è certo un passo verso la coordinazione delle forze mondiali; ma non si può domandare a tali organizzazioni (come oggi I'ONU) più d i quello che esse possono dare: un forum per le discussioni o un mercato per le transazioni. Non ci illudiamo che con tali leghe si formi la coscienza internazionale dei popoli. Ci vuole un principio ,fecondatore per la formazione di qualsiasi coscienza collettiva. Come a formare una nazione ci vuole il sentimento nazionale, a creare uno stato libero ci vuole l'ideale della libertà, a stabilire una democrazia occorre u n popolo che senta l'impulso di governarsi da sè liberandosi da tiranni, dittatori


o protettori privilegiati; così a voler creare le nazioni unite ci vuole la fede nell'internazionalismo. Dico « fede n invece che « ideale o n convinzione », perchè non essendo stata mai attuata una vera C( unione delle nazioni D, ed avendo avuto il fallimento della « Lega » ( o Società delle nazioni), così occorre cr fede » nell'« ideale per convincersi che lo sforzo non sarà vano e che le difficoltà credute insormontabili saranno sormontate. Purtroppo oggi nè i capi nè i popoli hanno fede nell'organizzazione internazionale, per una di quelle crisi profonde che affetta di tanto in tanto l'umanità, e la fa disperare d i sè stessa. Manca nei più la fede religiosa animatrice dei grandi ideali, è fallita la fede nel progresso perchè la scienza dà le armi per la vita e per la morte, e l'uomo le usa più per ammazzare gli altri che per creare nuova sicurezza. Gli ideali politici del secolo passato : libertà, democrazia, elevazione della classe operaia, sembrano divenuti vecchie frasi senza significato. Oggi il mondo si va dividendo contro e pro il comunismo, dagli uni denunziato come totalitarismo e dagli altri esaltato come vera democrazia e ideale internazionale. Qui sta la radice della crisi di oggi che affetta il mondo internazionale. Gli uomini non arrivano senza lotte a sentire u n ideale; la legge di dualità di concezioni, di forze, di correnti, è fondamentale, e grida contro tutti coloro che partendo da una concezione « monista » dell'essere e della vita, vogliono arrivare ad avere u n mondo « uno » senza contraddizioni, senza lotte, senza differenze. Impossibile; questo sarebbe un mondo senza attività e sènza vita. L'ideale che l'uomo può perseguire è sempre concreto e mai astratto, quindi limitato nei suoi contorni e nella sua finalità, e non illimitato e vago; immediato nel suo inizio pratico benchè protratto nel futuro per la sua processuale realizzazione. Oggi si vuole u n organismo internazionale che possa funzionare, che risponda all'esigenza di far cessare le guerre, che contribuisca a far vincere le crisi del dopoguerra, che dia tranquillità ai popoli. Bisogna esser convinti che questo organismo può essere creato ed è i n marcia. Manca tale convinzione perchè manca un principio su cui appoggiare l'organismo; e senza u n principio si vagolerà sempre nel vuoto. L'errore dei tre grandi


è stato quello d i darci una carta (quelIa di San Francisco) senza anima; e di perseguire un « mercato 1) degli interessi dei

popoli senza criteri direttivi; e d i attuare una pace senza ideale di « giustizia n, e di accettare i « fatti compiuti » e le u soluzioni unilaterali a dispetto della loro intrinseca immoralità e mancanza di buona fede. Perchè'la carta dell'Atlantico destò la fiducia mondiale in u n migliore avvenire? Perchè aveva un minimo di giustizia e d i moralità. Perchè la carta di San Francisco lascia il mondo freddo? Perchè gli stessi principi che vi sono stati messi in testa non sono riscaldati da una convinzione vitale, e sono virtualmente violati dalla stessa carta, che attribuisce ai grandi stati una dittatura negativa in forma di veto. Il veto )) della carta di San Francisco è così distruttivo della società internazionale come la bomba atomica è distruttiva della vita fisica. I1 1945 segna per la civiltà umana due guerre perdute; proprio a San Francisco ed a Hiroshima. Si dirà: a che scopo organizzarci internazionalmente se non potranno evitarsi .le guerre nè il mondo diverzà mai unito e pacifico? Rispondiamo che mai si potrà fermare il pensiero umano nè limitare le aspirazioni dell'uomo verso un migliore avvenire. Come il suicidio è contro natura, così è contro natura il fermare il processo storico. Noi andiamo verso u n ampliamento del raggio dell'attività umana: ~ e r c h èoggi possiamo girare per il mondo i n areoplano e percorrere enormi distanze in poche ore, perchè non c'è paese che sia su5ciente a sè stesso, ~ e r c h èsi sono penetrate tutte le zone della terra prima chiuse alle ricerche esterne; perchè le guerre sono divenute da locali a mondiali. Così oggi l'uomo non può più fare a meno di u n organismo internazionale che ne regoli gl'interessi politici ed economici. Si va a tentoni: è nella natura della sperimentazione umana. Si fallisce: è una delle avventure che capitano agli uomini attivi. Ma non sarebbe nel ritmo della vita se dopo il primo fallimento non si tentasse il secondo, il terzo o il quarto, non solo per spirito d i avventura, ma per necessità di vita. Che se per nostra disgrazia oggi manca un ideale sentito, o piuttosto manca l'animatore di un ideale che è nella coscienza umana (manca


un Washington internazionale; manca uno Jefferson o un Lincoln internazionale), l a razza umana non ha perduto l a sua matrice, spunterà al momento opportuno, quando l'umanitii proverà ancora altre angoscie e altri dolori. I piccoli uomini di oggi tentano questa o quella via; ma non contribuiscono a formare una coscienza internazionale perchè non hanno fede in un ideale di giustizia e di moralità da applicarsi ai rapporti fra le nazioni; e se partono da principi ammessi da tutti e parlano di pace equa, giusta e duratura, nella pratica mancano di fedeltà ai principi e cedono. Sono queste tante battaglit perdute sulla via del progresso, mentre si preparano altre battaglie più decisive. Ma se per strada cadono uomini e istituzioni, colpiti dalla paralisi per mancanza di spirito animatore, l'umanità troverà nella riserva della sua anima gli impulsi vitali per le conquiste future. Così si £armerà la coscienza internazionale e si riconoscerà che solo un ideale morale di giustizia e di libertà può animare le istituzioni umane vecchie e nuove.


CAP.

IX

LA CRISI INTERNAZIONALE DEL DOPOGUERRA Consideriamo la crisi internazionale del dopoguerra nelle sue attuali fasi e nelle sue cause profonde al fine di comprendere l'errore dell'umanità verso il suo compimento. Una crisi postbellica non è un fatto nuovo, nè è strano che una simile crisi sia profonda e senza prospettiva immediata di superamento. Forse è peggiore, perchè non abbiamo alcuna stella in questa turbolenta notte, come guida del nostro cammino. Ma a nessuno è lecito disperare; l a storia è fatta di una crisi dopo l'altra. Malgrado i nostri errori e le nostre manchevolezze stiamo andando verso una vita internazionale. Per comodità mentale e ad uso dei manuali storici, vogliamo datare la presente crisi dalla fine della guérra in Europa, o dall'inizio della conferenza di San Francisco, benchè le tappe della crisi siano visibilissime ed abbiano nomi ormai storici: CasabIanca, Teheran, Dumbarton Oaks, Yalta. Ma poichè, nonostante tutti i moniti delle varie Cassandre disseminate nel mondo, nè l'opinione pubblica nè i capi responsabili han mostrato di dare loro ascolto ( e se le avessero ascoltate non potremmo più chiamarle Cassandre), così datiamo la crisi dalla fine dell'aprile 1945.

I

ILPOTERE DI VETO Quali che siano state l e decisioni sulle varie questioni sollevate a San Francisco per il veto attribuito a ciascuna delle potenze della Pentarchia, la situazione mondiale non ne viene modificata, e l a crisi del dopoguerra avrà il suo naturale sviluppo senza che possa esser fermata od attenuata. II veto stesso, ri-


dotto ai termini modesti e formalistici degli ultimi accordi fra Mosca e le altre quattro potenze, avrebbe una importanza molto limitata. Esso rivela tuttavia una crisi fondamentale e profonda. L'unanimità dei Cinque Grandi era diretta a dividersi i l mondo i n « zone di influenza » ( u n eufemismo imperialistico per tenere i paesi più piccoli a bada), ma essi non pensarono che un tale sistema potesse rivolgersi contro loro stessi più che contro chiunque altro. Walter Lippmann sostiene che l'unanimità delle cinque grandi potenze non può essere fissata con regole preventive; deve funzionare secondo gli avvenimenti e adattarsi ad essi: give i t a chance to work », secondo l'adagio inglese. W. Lippmann ha citato come esempio i l diritto di veto del presidente degli Stati Uniti. Egli però non ha portato avanti il paragone, perchè h a trascurato di dire che gli Stati Uniti hanno una concezione etico-giuridica dei poteri dello stato e un sistema democratico per i l quale l'arbitrio e l a sopraffazione hanno u n controllo legale e sicuro e possono essere frenati senza ricorrere alla forza : mentre nella nuova organizzazione internazionale il veco di una sola potenzta può paralizzam l a macchina direttiva e lascia compiere i più ingiusti arbitri senza altro rimedio che la guerra. È questa la ragione principale per cui la carta di San Francisco potrà funzionare solo a due condizioni: la contrattazione dei potenti a danno dei deboli, concedendo favori caso per caso ; ovvero precisando le sfere d'influenza dove nessun'altra potenza potrà interferire negli affari di un'altra. P u r con questa seconda condizione c'è sempre la possibilità che una questione portata avanti i n base a principi e con un certo vigore possa mettere l e grandi potenze una contro l'altra. Questo stato d'animo è oggi visibile ad ogni opposizione che America e Inghilterra possano fare alla Russia, ed è sfortunatamente identico allo stato d'animo dei governi di Francia e di Inghilterra tra il 1934 e i l 1939 nei riguardi della Germania d i Hitler. Questo fu il fattore principale della politica dell'c appeasement » per il quale furono consentiti lo smembramento della Cecoslovacchia, l'occupazione di Praga, l'annessione dell'Austria, la soppressione del regime libero di Danzica, e infine


l'invasione della Polonia e lo scoppio della seconda guerra mondiale. Ma il « cappio » che nel 1939 non c'era, e che nel 1945 6 stato fissato, riguarda proprio i cinque della Pentarchia, i quali hanno assunto la responsabilità della pace legata ad una loro permanente intesa. In tal modo sono obbligati a sottoscrivere a tutti gli atti più ingiusti e d odiosi che uno dei cinque farà sotto la minaccia della guerra e coperto dalla formula del veto. Questi atti possono essere compiuti tanto dalla Russia che dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti, dalla Francia o dalla Cina (benchè Francia e Cina siano oggi i parenti poveri della compagnia). Però u n atto di tal genere si teme più dalla Russia, soprattutto perchè in Russia non ci sono partiti di opposizione, non c'è stampa libera, non c'è opinione pubblica, non ci sono libere elezioni; sicchè la volontà dittatoriale dei capi resta senza alcun controllo. La Russia può continuare ad occupare i paesi satelliti, può impedire che la stampa internazionale vi abbia accesso, può impedire pedino la esistenza di rappresentanze diplomatiche, mentre gli stati alleati non possono fare lo stesso nelle loro zone di influenza. P e r giunta, mentre l a Russia può minacciare di occupare militarmente questa o quella zona dell'Europa o dell'Asia, e lo fa anche in forma subitanea senza consultazioni preventive, come nel caso dell'Iran, le democrazie occidentali non possono fare lo stesso, senza assumersi l a responsabilità di una rottura che l e loro popolazioni non vogliono affatto. I n questo stato senza equilibrio fra l'uno e l'altro possibile antagonista, la necessità dell'unanimità si risolve in continue concessioni di C( appeasement », che fatte di malavoglia e con riserve mentali o con sotterfugi diplomatici, non servono ad altro che ad aumentare i sospetti di qua e di là e a creare false posizioni psicologiche e politiche che non possono contribuire ad una vera intesa dei popoli. Per di più, dato che la Russia non pretende di avere lo stesso codice morale internazionale che hanno l e democrazie occidentali, tutte l e volte che le tre o le quattro o le cinque potenze arrivano ad un compromesso, Stalin non dovrà render conto di quel che avrà fatto, mentre Attlee e Truman o altri saranno obbligati a giustificarsi


del perchè hanno sottoscritto ad atti che ripugnano alla nostra coscienza di cristiani e di popoli liberi. Nel caso del trasferimento di popolazioni riguardanti l'assetto della Polonia e le provincie tedesche, se non ci fosse stata l'unanimità, o Stalin si chinava ai due (Roosevelt e Churchill) ovvero operava sotto la propria responsabilità. Ci avrebbe pensato una prima e una seconda volta: data l'unanimità, Stalin è giustificato anche davanti al mondo al di fuori del suo. L'unanimità è una trappola e una delusione che non contribuisce alla pace ma alla formazione dei centri di egemonia e di lotta internazionale. Il cappio » che doveva prendere gli altri, ha preso per primi gli stessi autori.

Le sfere di influenza Siamo giusti: una guerra a breve distanza è tanto improbabile da dirla impossibile. La guerra non nasce da semplici conflitti di idee, nè da semplici diversità di interessi. La guerra h a una sua preparazione psicologica a lunga portata, che conta più delle idee e degli interessi. Forse fra quindici o vent'anni, il mondo sarà preparato per un altro conflitto, oggi no. Escludiamo che Gran Bretagna, Stati Uniti possano ideare una guerra contro la Russia; e che la Francia, nonostante tutti i risentimenti, abbia voglia di combattere contro l'Inghilterra. Escludiamo anche che la Russia, dopo aver avuto non si sa se dodici o venti milioni di morti e quasi tutta la parte europea del suo stato rovinata, voglia imbarcarsi in un'altra guerra, tanto più che essa non ha una flotta sufficiente nè un'aviazione pari a quella dei suoi pretesi avversari, Stati Uniti e Inghilterra. I1 desiderio di pace dei cinque della Pentarchia è sincero, ed è sostenuto dalla volontà dei rispettivi popoli e dalle condizioni di fatto, fisiche, economiche e psicologiche. Però, quel che oggi è impossibile, potrà essere possibile domani. C'è di mezzo una paura che divide le grandi potenze; paura che la compagnia d'armi durante la guerra e la comune vittoria non solo non h a dissipata, ma ha acresciuta. La paura che il comunismo voglia sopraffare il capitalismo, che l'imperiaIismo russo non sia sazio dei guadagni dell'oggi e miri alle conquiste future, che la privazione di libertà che si stende come


un velo su gran parte dell'Europa, possa toccare i paesi latini e anglosassoni e coprire il mondo futuro. Lasciamo da parte le previsioni dei conflitti possibili (il mondo è ancora giovane) e fermiamoci ai conflitti dell'oggi. La posizione presente è questa: la terza guerra mondiale non potrà venire dalla Germania nè dal Giappone: la loro sconfitta per mezzo secolo almeno è definitiva. La guerra potrebbe eventualmente essere scatenata tra Russia e paesi anglosassoni, dividendo di nuovo il mondo in un conflitto spaventoso. L'ipotesi è oggi presente alle menti dei dirigenti e dei popoli, non come un termine verso cui ci si prepara, ma come un'eventualità che si vuole e si deve allontanare con tutti i mezzi. Accusare Stalin e gli altri capi della Pentarchia di preparare una nuova guerra, è tanto ingiusto quanto stupido. Dall'altra parte, se contro la loro volontà e con le migliori intenzioni i capi della Pentarchia mettono su i precedenti per una guerra, è doveroso richiamare l'attenzione del pubblico sui loro errori e concorrere alla formazione di una coscienza collettiva atta a superare la crisi e a rendere fattibile l'organizzazione del nuovo mondo. Fra i tanti errori commessi durante la guerra europea e continuati oggi nel periodo fra l'armistizio e la pace, ce ne sono tre che potranno essere fatali. I1 primo fu iniziato dal patto anglo-russo del maggio 1942 che contiene i germi della politica delle sfere di influenza. Intendiamoci: non si può negare che la Russia sia più interessata in Polonia che in Grecia o in Spagna, e che gli Stati Uniti siano più interessati nei Caraibi o nel Pacifico che non nel Mediterraneo e così via. Ma altro è riconoscere quel che è geograficamente o etnicamente più interessante per una grande potenza, altro è attribuirvi un influsso politico o un'ingerenza economica che va allo stesso tempo a detrimento dell'indipendenza degli stati minori e dell'unità regionale e eontinentale che esisteva molto prima della definizione della u sfera 1). Quel che è successo in Polonia e negli Stati baltici per l'ingerenza della Russia, è successo in Grecia e in Italia per l'ingerenza della Gran Bretagna. Lo stesso è al fondo nei piani di sistemazione dell'Europa, dei Medio Oriente e dei17Africa dei


nord; lo stesso avverrà nel Pacifico. I1 così detto sistema di (C trusteeship )) servirà a mascherare i guadagni territoriali e l a divisione del bottino fra i vincitori come si fece alla fine dell'altra guerra con il sistema dei mandati A, B e C. I1 peggio sta avvenendo con la Germania, per i l fatto che è stata divisa in quattro zone di occupazione militare. Le stesse discussioni circa l a estensione delle quattro zone e loro confini, tradiscono l'idea del vantaggio che ogni occupante vuol trarre per sè. Se l'attuale fosse una occupazione temporanea e strettamente militare, il gioco non varrebbe la candela! L'occupazione della Germania durerà dieci o quindici O venti anni. Più durerà e meno sarà possibile che finisca in pace. La Russia potzà usarvi impunemente i sistemi degli zar e delle purghe; la Francia sarà dura, ma l a sua severità sarà mitigata dalla coscienza del popolo francese e dall'occhio geloso della Gran Bretagna; la Gran Bretagna avrà un'opinione pubblica ostile alla occupazione, pur sopportandola per ragioni politiche. L'America avrà fretta di andar via. Ci troveremo un giorno all'assurdo che i due paesi egemonici di qua e di là dell'Europa continentale, Russia e Inghilterra, avranno u n confine comune proprio sul territorio della Germania e quindi dovranno seguire il vecchio adagio: Si vis pacem para bellum. L'Inghilterra non avxà più in Europa la possibilità di giocare alla bilancia del potere D, contrapponendo gli interessi dei vari gruppi d i stati e facendo pendere la bilancia ora di qua ora di là. Oggi è essa stessa esposta in prima linea; essa stessa dovrà avere un esercito di terra; essa stessa dovrà utilizzare i tedeschi sotto il suo controllo; essa stessa dovrà essere legata alla Francia, volere o no, per la vita e per la morte. La divisione della Germania in quattro zone è pericolosa, ma l a divisione i n quattro zone dell'Austria è ridicola e dannosa allo stesso tempo. (Tra parentesi, perchè non si parla dell'Ungheria come se non esistesse? Ci sarà forse sotto questo silenzio qualche intesa scritta o non scritta, di quelle concordate a Teheran e a YaIta e delle quali non siamo ancora stati informati?). A Mosca nell'ottobre del 1943 i tre ministri degli affari esteri dei Tre Grandi scrissero un capitolo per l'Austria e il suo


futuro d i stato democratico. Perchè oggi l'Austria debba subire la quadripartita occupazione militare non può ben comprendersi, tranne che non si arrivi agli stessi errori che abbiamo visto nel caso della Germania. L'Austria sarà confine comune dellYInghilterrae della Francia da una parte e della Russia dall'altra. Ma oggi 1Turopa è finita come unità continentale: la spartizione dell'Europa è un fatto compiuto. Che tutto ciò avvenga con il consenso unanime dei Cinque, con l'astensione o con il veto di questa o di quella potenza, non conterà nulla; i precedenti per simile avvenimento sono in marcia e saranno più forti della volontà comune. Lo stesso sta accadendo in Asia. Gli Stati Uniti credono di aver avuto come propria zona o sfera d'influenza i l Pacifico. Così fu concordato al Cairo fra Roosevelt e Churchill: il Pacifico all'America; il Mediterraneo all'lnghilterra. Ma l'America si troverà a dover risolvere vari problemi con l'Inghilterra, la Francia, la Cina e la Russia. Gli Stati Uniti dovranno ingoiare molte pillole amare, contrattare e cedere, compensare in Europa quel che si negherà i n Asia e viceversa. La pace sarà dura, certe volte più dura della guerra. La prima causa della crisi Quando Wilson, nel gennaio 1918, pubblicò i Quattordici Punti, l'opinione pubblica degli alleati e dei neutri ne fu scossa, e presso i paesi nemici l'effetto a poco a poco divenne efficace. Ci furono critiche, certo; queste vennero dai nazionalisti feroci, dai politicanti « realisti D, dagli scettici impermeabili a qualsiasi idealità ; ma il gran pubblico non sofisticato fu con Wilson. Venne, però, la delusione e si chiamò trattato di Versailles, che allora sembrò il colmo della Realpolitik i n opposizione all'idealismo wilsoniano e che oggi in confronto al (C realismo dei Tre Grandi può sembrare gioco di fanciulli. Lo stesso ci è accaduto con la Carta Atlantica, che nell'agosto 1941 sembrò una luce nelle tenebre ed eccitò non certo l'entusiasmo wilsoniano ma la speranza fiduciosa per un migliore avvenire. Anche oggi, dopo mille delusioni della politica dei Tre Grandi, la Carta Atlantica resta una pietra miliare nel

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cammino dell'umanità, alla pari dei Quattordici Punti di Wilson. Bisogna convenire che nella realizzazione pratica dei migliori programmi politici ed umanitari, c'è sempre il distacco che differenzia l'ideale dal reale. Così concediamo che l'attuazione della Carta Atlantica, come l'attuazione dei Quattordici Punti, non poteva essere fatta di botto, ma gradualmente, con quegli adattamenti opportuni che servono a rendere possibili i passaggi dall'ordine ( o disordine) vecchio all'ordine nuovo. Ma altro è lavorare con impegno alla realizzazione pratica di un piano ideale, altro è abbandonare quel piano in tutto o in parte, o per debolezza o per partitò preso. L'equivoco, circa la Carta Atlantica, f u creato il giorno che Winston Churchill dichiarò che non si applicava all'India (poche settimane dopo l a firma), e ancora d i più quando egli ebbe a dire che col procedere della guerra si diventava più realistici e che la Carta Atlantica restava come un ideale o una direttiva, non come un'obbligazione (oh, casuisti del secolo di Pascal!). Eden rinnovò l'impegno di applicare la Carta alla Polonia e quindi di non riconoscere alcun ingrandimento operato durante la guerra da parte di terze potenze; ma dall'altro lato dichiarò che la Carta non si applicava ai paesi nemici (ci voleva forse una carta per garantire i paesi alleati dalla cupidigia dei Tre grandi?). I n verità, dal primo giorno che gli Stati Baltici furono esclusi dal beneficio della Carta Atlantica per far piacere a Stalin, ne fu lesa la consistenza politica e la sua stessa applicabilità pratica. È così: quando Roosevelt e Churchill, a denti stretti, senza confermarlo, nel segreto dei loro colloqui, quasi in un'ammissione fatta con vergogna senza neppure discuterla nè timidamente accennarla, consentirono a che gli Stati Baltici perdessero la loro personalità e cadessero sotto il regime sovietico, essi, come l'anima di Petrarca, a corsero al loro mal liberi e sciolti )) ; ma dopo quell'istante furono legati, perché avendo peccato la prima volta, rimasero stretti nelle spire del loro peccato e d i colui che piegò la loro volontà. L'equivoco politico sorse in quel giorno, ed è continuato e continua, passo passo, con una logica inesorabile, senza un solo ritorno indietro. È vero che alla camera dei comuni o alla Casa Bianca o al congresso o sulla stampa si sono avute


dichiarazioni solenni di Eden e di Churchill, di Bevin ed Attlee, di Roosevelt, Cordell Hull, Stettinius, Truman e Byrnes. Rla che cosa valgono le parole di fronte ai fatti d i Teheran, Yalta, San Francisco, Potsdam, Londra e Mosca? Si è creato così un fondamentale equivoco che turba la politica mondiale e che rende inefficace l'opinione pubblica dei paesi occidentali, dove questa ancora esiste, e che altera qualsiasi programma politico che si possa stabilire come realizzazione di una pace di là da venire. L'ultimo atto di una sequela di fallimenti nella politica internazionale è stato l'accordo di Mosca ne1 dicembre 1945. Walter Lippmann, autorevole articolista e scrittore, e spesso porta-voce o difensore del dipartimento di stato, in un articolo dal titolo CC Mr. Bymes critics tende a dimostrare che il segretario di Stato a Mosca fu un buon contrattante ; lasciò che la Russia guadagnasse o mantenesse le posizioni nei paesi satelliti dell'Europa mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione nel Giappone. E si domanda: (C Se qualcuno obietta a questa divisione come contraria alle nostre dichiarazioni ostili alle sfere di influenza, domandi a se stesso se egli è onestamente preparato a liquidare la nostra propria sfera di influenza per poter liquidare quella dell'unione Sovietica ». I1 ragionamento d i Lippmann fila diritto, solo che manca di base; cioè: era dovere ed è dovere del dipartimento d i stato O del congresso o del presidente dire al popolo americano e anche agli altri paesi cointeressati nella poliIica americana - che a partire da oggi non esiste più alcuna opposizione alle sfere di influenza. Ma no; verrà il momento che si riprenderanno le frasi di Cordell Hull contro tale politica, se ciò sa& utile in data occasione o per u n dato pubblico (quello elettorale, per esempio). Ovvero avverrà in altro momento, quando per esempio si sosterrà l'autorità di MacArthur contro le velleità di ingerenza d i Mosca negli affari del Giappone, riaffermando così l'equivoco che si nota tra parole e fatti. Una delle prove più evidenti di tale equivoco è il caso dell'Iran. I Tre Grandi, Churchill, Roosevelt e Stalin, andarono a Teheran e quali ospiti dello Scià di Persia non poterono fare a meno d i dargli delle garanzie che a guerra finita le truppe


alleate se ne sarebbero andate. I n quella occasione fu fatto, con la data del lodicembre 1943, un comunicato urbi et orbi che diceva chiaro e tondo che l'Iran sarebbe rimasto intatto (C d'accordo con i principi della Carta Atlantica alla quale tutti e quattro i governi (Iran compreso) hanno continuato ad aderire D. Si disse che questa fu una vittoria di Roosevelt ; ma il suo successore Truman non si sente più legato agli impegni del predecessore, almeno nell'azione equivoca di Byrnes, il quale, arrivato a Mosca, non si senti di difendere a fondo quell'impegno morale e politico che legava gli Stati Uniti all'Iran. Vero è che Byrnes può dire: (C ogni giorno il suo male D ; ma altro è mantenere fermo il principio e rimandare l'applicazione a tempo opportuno, altro è fissare i l principio opposto; tra la Carta Atlantica e l e sfere di influenza c'è la distanza che c'è tra il bianco e i l nero. Lo stesso fece Eden ( e con lui Churchill), quando, dopo avere riaffermato la politica della Gran Bretagna di non riconoscere durante la guerra cambiamenti territoriali a danno della Polonia, accettò a Yalta - siamo ancora durante la guerra - per confine orientale la linea di Curzon e altre modifiche, che non combaciavano per nulla con la politica fissata, proclamata e ratificata in precedenza. Un tempo l'uomo politico che era 'costretto a fare simili piroette si dimetteva dall'ufficio per far luogo a persone non compromesse; e perfino (in sistema parlamentare ortodosso) si scioglievano le camere che avessero fissato una data politica per fare appello al paese se la nuova politica importava un cambiamento di rotta. Oggi è passato di. moda ogni senso di dignità personale e di coerenza politica. Le dichiarazioni dei governi non si contano più e variano così spesso che non vi si può più attribuire l'importanza e la serietà dovute. Chi poteva mai credere che dopo tante aEermazioni a favore della democrazia da istaurarsi e favorirsi nei paesi invasi e oppressi dai nazi, si finiva col favorire i n JugosIavia, in ROmania, in Bulgaria, in Albania e in Polonia regimi pressochè totalitari, senza libertà di stampa, senza libertà di voto e perfino con metodi di persecuzione politica e religiosa degni di Hitler? America e Inghilterra hanno reagito, è vero, hanno cer-

16. Srum - Nazionalismo e Internaziondismo


cato di non riconoscere i governi slavi istallati unilateralmente dalla Russia, hanno fatto obiezioni di procedura ma alla fine si sono stancate ed hanno ceduto. Quale sia la ragione di avere ormai sciupata l'idea e la parola di democrazia, non si sa proprio affatto. Quando Anthony Eden e Cordell Hull insieme a Molotov si riunirono per la prima volta a Mosca nell'ottobre 1943, fissando le basi della politica per l'Italia, riconobbero che il governo italiano doveva essere reso « più democratico » (allora erano Badoglio e i suoi tecnici al governo), e che il popolo italiano doveva riavere in pieno libertà di parola, culto, opinione politica, stampa, pubbliche adunanze e così via. Finsero di non accorgersi, Cordell Hull e Antony Eden, che il dono o la concessione che essi facevano all'Italia era in contrasto con quel che esisteva a Mosca, dove non c'era ( e non c'è) libertà nè di parola, nè di culto, nè di opinione politica, nè di stampa, insomma dove non c'era ( e non c'è) una democrazia ? Ebbene, da allora sorse il problema se il sistema sovietico fosse una democrazia, se fosse una democrazia migliore di quella americana e d inglese, se in Russia vi fosse libertà, se tale libertà fosse meglio garantita che i n America e in Inghilterra. Questo equivoco valicò i confini russi; si parlò di plebisciti baltici, p u r sapendo che erano stati fatti sotto l'occupazione e la miaaccia armata dell'orso Bianco; si parlò d i 1ibert.à dei polacchi, pur sapendo che la Polonia era sotto u n sistema di costrizione straniera; si parlò anche di democrazia e libertà in Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania, Ungheria, come se potessero coesistervi con metodi totalitari. Si sa bene a Londra e a Washington che non si tratta di regimi democratici nè di regimi liberi; ma i documenti, le dichiarazioni, i comunicati sono là per creare un equivoco insanabile; I'eguivoco che penetra nelle masse e che mina la stessa consistenza politica dell'organizzazione internazionale e dei regimi democratici dell'occidente. Fino a ieri avevamo nel mondo democrazia e dittature, che cercavano di intendersi e che finirono con farsi guerra: d i qua Inghilterra-Francia-Stati Uniti; di là Germania, Italia e Giappone. Oggi invece abbiamo le vecchie democrazie dell'occiden-


te e le pretese « nuove » democrazie dell'oriente, le quali mostrano uno zelo eccessivo contro i residui del fascismo, senza voler confessare che esse continuano nei metodi dittatoriali e totalitari del fascismo italiano e tedesco, in nome di una pretesa democrazia umanitaria e internazionale, che non esiste. Io non accuso la Russia che prosegue una sua politica e sa dove arrivare; io accuso l'Inghilterra e l'America che accettano e sottoscrivono l'equivoco morale e politico di dittature che si chiamano democrazie, e di totalitarismi che fanno finta di difendere l a libertà.

Una profonda crisi mor<rle

A questo punto il lettore ingenuo può domandare se chi scrive preferisce il conflitto aperto agli accordi sia pure parziali o stentati che i Tre Grandi vanno raggiungendo nel le^ loro conferenze. Io sono per gli accordi, ma dicendo pane al pane e vino al vino,. Se la politica della Russia - sine qua non per una pace internazionale - è quella di crearsi una sfera di influenza tutta sua (zona d i sicurezza è chiamata dai portavoce di Stalin), e alla quale America e Inghilterra, pur non potendo accedere, dovranno consentire: si dica che il fatto è questo e che è accettato non in nome della democrazia, dell'internazionalismo, della Carta Atlantica (che secondo i tre di Teheran è stata sempre osservata) e altre menzogne per i l grosso pubblico; ma in nome di un compromesso di interessi o per una politica d i necessità. Insomma dire la verità ed educare il pubblico alla verità è il primo dovere di un governo democraticc~che si rispetti. La verità presto o tardi si farà strada; c'è però una differenza tra la verità detta a tempo e attuata lealmente, e la verità nascosta o trasvestita che si svela quando è troppo tardi. Ricordo che nel 1935, al momento dell'aggressione fascista contro l'Abissinia, i l ministro degli esteri di Sua Maestà Britannica, Samuel Hoare, fece a Ginevra un gran discorso a favore della Lega delle nazioni e della sua funzione preminente nella


pace del mondo, riaffermando la volontà del governo inglese a non deflettere nè venir meno alla solidarietà colle altre nazioni; il successo £u straordinario, e coloro (come me) che non avevano fiducia nell'uomo, dovettero convenire che per lo meno una volta l'aveva indovinata. Ma poco dopo si seppe che lo stesso Samuel Hoare, che parlava così bene all'assemblea della Lega, si era inteso dietro le quinte con Laval nell'applicare le sanzioni' contro lo stato aggressore (l'Italia fascista) solo Iimitatamente, senza estenderle alle materie necessarie alla guerra. Intanto lo stesso Sir Samuel combinò i l piano detto u LavalHoare » d'accordo con lo stesso Mussolini, il quale all'ultima ora lo rigettò perché comprese che poteva impunemente arrivare alla conquista dell'impero. Perchè quel discorso tutto entusiasmo per la Lega delle nazioni? Anche di questo si.seppe lo scopo. Si era alla vigilia delle elezioni politiche e la massa elettorale inglese era contro la guerra all'Abissinia. I conservatori avrebbero perduto le elezioni se svelavano i loro rapporti con Laval e Mussolini; così mascherarono il compromesso equivoco e miserabile con un discorso demagogico (perchè in £ondo menzognero) a favore della Lega delle nazioni. Le elezioni riuscirono in favore dei conservatori, lo scopo f u raggiunto e Mussolini guadagnò la partita a dispetto del popolo inglese che aveva ostacolato i1 piano LavaI-Hoare. Arrivò il momento quando non più un conservatore come Samuel Hoare (oggi Eord Templewood) ma un socialista sincero ed anche ingenuo come Léon Blum ebbe a proporre a Ginevra il ritiro delle sanzioni contro l'Italia, il riconoscimento della conquista dell'Abissinia e quindi l'espulsione del Negus dall'assemblea della Lega delle nazioni. Allora mi venne in mente un altro dato storico, quello del Sultano di Costantinopoli della fine del secolo XVIII quando - avvenuta la spartizione della Polonia da parte della Russia, Prussia ed Austria - si rifiutò di riconoscerla, e ogni volta che egli riceveva insieme gli ambasciatori accreditati alla Sublime Porta, l'ufficiale di servizio, dopo aver annunziato la Polonia gridava sulla porta u. Assente! D. Non dico che quel sultano facesse ciò per puro rispetto del diritto internazionale, ma, caspita, 10 faceva per rispetto a se etesoo. Un'assemblea come quella di Ginevra poteva ancora aspettare


qualche anno prima d i decidere se espellere il rappresentante dell'Abissinia aggredita e mantenere nel suo seno con tutti gli onori il- rappresentante dello stato aggressore. Cosa succede ora, dopo la seconda guerra mondiale? Bei discorsi, elenco di punti alla Wilson, dichiarazioni solenni, promesse abbondanti, assicurazioni ripetute, principi morali di indiscutibile valore, ma nella sostanza siamo alla fase del dominio dei Tre, della dittatura internazionale, del diritto di veto, della politica di forza. Questo contrasto forma la più grave tragedia morale che abbia mai travagliato il mondo. Non è una novità dell'oggi coprire gl'interessi privati con il manto dei principi generali e, col pretesto di attuare l a giustizia e la verità, guadagnare dollari e sterline, occupare pozzi di petrolio, far la guerra alla Cina per i l commercio dell'oppio, e così via. Ma oggi siamo a un punto cruciale; l'umanità ha in mano l a scoperta del mezzo più rapido per il proprio suicidio, la bomba atomica. Ciò nonostante, anche oggi le grandi potenze cercano rettifiche di confini, zone di sicurezza, sfere di influenza, basi navali, punti strategici, diritti di veto, come se i l passato prossimo della guerra dei tanks e dei velivoli fosse stato dimenticato e come se il futuro prossimo di una guerra atomica non possa esistere.

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Dieci mesi d i tentennamenti dalla conferenza di San Francisco alla istallazione della sede dell'ONU a New York. Possiamo definire questo periodo come quello delle ricerche della strada che potrà condurre alla pace. Siamo nel dopoguerra, ma non abbiamo la pace. 11 mondo è ancora sottosopra; l a strada della pace non è stata trovata. Mentre Mosca fa la sfinge, mantiene il segreto dei suoi ultimi pensieri, gioca di scaltrezza e di abilità, usa indipendenza di mosse e tiene in scacco gli altri due, Londra e Washington sono sinora andate a tentoni per arrivare a possibili intese caso per caso, in tutti gl'imbrogliati affari del mondo.


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La prima prova fu fatta a Londra, nel settembre 1945. Allora si era sotto l'impressione della bomba atomica che i n pochi giorni aveva posto fine alla guerra con il Giappone. E lo spettro della bomba giocò un brutto tiro ai due paesi anglo-sassoni. La stampa americana affacciò subito la discussione se tenere segreto « il segreto » della bomba atomica o comunicarlo alla Russia. Ma Stalin o il suo ministro degli affari esteri (pardon, commissario) la seppero più lunga. Mandarono a monte la riunione dei cinque ministri che dovevano fissare i termini della pace con l'Italia, la Finlandia, l'Ungheria, la Romania e la Bulgaria, mostrando d i avere col veto e con i sottili pretesti di procedura un potere che valeva più dello spettro della bomba atomica. Era chiaro che, nonostante che la bomba atomica fosse un potere immenso, non avrebbe avuto mai, nelle mani dellyAmerica e dell'hghilterra, paesi civili e democratici, lo stesso potere che nelle mani di un paese dittatoriale e totalitario, come era la Germania di Hitler e come è (nonostante le non poche differenze) la Russia di Stalin. Breve: dopo il fallimento di Londra, Bevin e Byrnes si decisero, bon grè mal grè, ad andare a Mosca. Si ricordarono di una decisione del tempo della guerra, delle riunioni dei tre ministri degli esteri nelle tre capitali delle tre potenze, e quindi ripresero il bastone di pellegrini verso il Kremlino, venendo alla conclusione di dare l'abbrivo all'ONU e riprendere le riunioni dei sostituti dei ministri degli esteri per i trattati di pace. F u esclusa la Cina p e r tutti i paesi e fui ammessa la Francia solo per il trattato con l'Italia. Tutte le speranze si posero nell'ONU che si riunì a Londra nel gennaio di quest'anno. Con molta buona volontà si superarono le difficoltà delle nomine, la scelta del segretario generale, la sede permanente e provvisoria. Ma tosto scoppia il conflitto tra i governi della Russia e della Gran Bretagna per l'affare dellYIran,della Grecia, della Indonesia, coll'appendice degli affari della Siria e del Libano. Le riunioni del170NU a Londra ebbero una chiusa formalmente conciliativa, ma mostrarono la sostanza del conflitto fra i Tre. I n questo ambiente, cominciò in America una revisione della


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situazione, con una serie di dichiarazioni a tono forte, fatte dal senatore repubblicano Vanderberg - uno dei delegati americani a Londra - dal segretario di stato Byrnes ( p e r non parlare di altri minori) e finalmente da Churchill in u n discorso che resterà famoso anche per il luogo, Fulton nel Missouri, e per la presenza del presidente Tmman. I n tale discorso - e nei successivi - la tesi di Churchill è stata quella di mostrare alla Russia il viso forte, sia a parole e sia con un'alleanza militare anglo-americana che serva a tenere la Russia al suo posto, perchè per essa la forza vale più della ragione. Nell'interim fra il discorso - anzi i discorsi - di Churchill e la ripresa del consiglio di sicurezza dell'ONU all'Hunter College, ci sono state altre tre proposte per trovare la strada di intesa con Mosca, che meritano di essere rilevate. La prima, del senatore Pepper che propone un'altra riunione dei tre capi: Truman, Stalin, Attlee; la proposta è stata rigettata da Truman, prontamente e completamente. E ciò è stato un bene perchè il funzionamento dell'ONU non deve essere pregiudicato da accordi segreti fra tre, con gli effetti deplorevoli avuti durante la guerra a Teheran, Yalta e Potsdam. Altra proposta f u quella di inviare la flotta americana a fare un bel giro per i mari e dimostrare la volontà di usarne se e come necessario. Questa dimostrazione di forza, che avrebbe fatto pendant con lo spettro della bomba atomica agitata durante le riunioni di settembre a Londra, è stata fermata in tempo. Tra la Russia che manda i tanks nell'lran e l'America che fa fare un viaggio alla sua flotta per i mari, avrebbe avuto più efficacia la prima. Le proposte elencate sono, secondo la nostra opinione, vie che non spuntano; non hanno uscita, e prese i n singolo menano a u n vicolo cieco: l'attuale vicolo cieco. È vero che il generalissimo Stalin, alla vigilia delle riunioni di New York, ha dichiarato la sua fede nell'ONU ed ha riaffermato la eguaglianza di tutte le Nazioni Unite. Parole generiche che non gli hanno impedito di mandare i suoi eserciti nell'Iran. Invero l'intesa a tre durante la guerra era subordinata ad una idea unificatrice, quella di vincere la guerra; a tale idea si sacrificarono interessi generali, diritti di popoli alleati e d i po-


poli da soggiogare, principi ammessi d'accordo come quelli. della Carta ~ t l a n t i c a Se . ciò fu savio o no, oggi è questione da lasciare agli storici, ai moralisti e ai giuristi; il fattore politico unificatore c'era e fu raggiunto con la vittoria. Finita l a guerra c'è, è vero, un principio unificatore, quello della pace ( e non si mette affatto in dubbio che anche Stalin e compagni vogliano la pace); ma mentre l'idea di vincere la guerra si poteva portare alla più semplice espressione, comune a i tre ( e loro alleati), cioè la distruzione del nemico e di ogni ostacolo alla vittoria fisica, l'idea di pace non ha nessun termine semplificatore, essendo costruttiva, non distruttiva. Tanto più difficile è la costruzione di pace quanto più profonda è stata la distruzione arrecata al mondo con la guerra, distruzione che ha alterato l'equilibrio delle forze morali, politiche, economiche e sociali in tutti i paesi del mondo. I1 dualismo rivelatosi così profondo tra paesi occidentali ed orientali, ed espresso dai contrasti fra l e tre grandi potenze vincitrici, esisteva prima di oggi, divenne acuto anche durante la guerra, benchè mai accentuato per non indebolire il fronte alleato. È invero un dualismo profondo di ideologie e di interessi, che involge il presente e l'avvenire del mondo. P e r tali ragioni, le riunioni dei tre non potranno mai arrivare ad altro che ad un compromesso provvisorio (anzi, un mercato) fra i tre a danno degli altri, senza per questo far fare un passo verso la pace e l'ordine internazionale. 11 ragionamento è semplice: se i tre agiscono in accordo con i principi e le procedure dell'ONU, perchè allora arrogarsi essi soli la decisione, urtando i sentimenti generali degli altri paesi e i loro diritti? Se, invece, i tre agiscono fuori delle linee e a dispetto degli interessi generali dei paesi associati, perchè, allora, mantenere in vita I'ONU e dichiarare ad ogni piè sospinto che l'unica salvezza del mondo è basata sulla nuova organizzazione e sulla uguaglianza di tutti i paesi associati? I tre hanno già tanti poteri nell'ONU ed hanno tanti vantaggi sul resto del mondo ( e anche tante responsabilità) che non. è proprio necessario appartarsi nel segreto dei conciliaboli di Potsdam o d i Mosca per sfuggire al controllo degli altri paesi e dell'opinione pubblica. I n sostanza, o dittatura dei tre, o costitu-


zione dell'ONU; le due cose insieme ripugnano e si elidono. A chiarificare l a situazione Walter Lippmann ha proposto una specie di conferenza militare fra i tre (l). Egli dice, in sostanza: misuriamo oggi la potenzialità militare della Russia, degli Stati Uniti di America e della Gran Bretagna e le loro posizioni strategiche e vediamo se il gioco di forze fisiche sia tale da dare prevalenza al gruppo orientale o a quello occidentale. Secondo lui, un tale esame preventivo dovrebbe portare alla conclusione che nessuno dei due blocchi potrebbe ottenere la vittoria e che viceversa i due blocchi arriverebbero di sicuro alla reciproca distruzione. La proposta d i Lippmann, per poter avere valore pratico, presuppone che Stalin sia incline a discutere con i capi militari americani e inglesi i suoi piani e le sue forze; e che sia disposto a concludere accordi militari tali da consentire con l e due potenze il diritto di reciproco controllo. Chi tiene presente con quale rigidità Stalin e compagni durante la guerra negarono ai capi militari alleati qualsiasi accesso non solo ai campi di battaglia, ma alle retrovie e alle officine militari, anche nelle ore più difficili quando i nazi erano vicino a Mosca, assediavano Leningrado e Stalingrado, si renderà conto del rifiuto netto e corto a qualsiasi conferenza e intesa militare fra i tre, che porti a pratiche e serie conclusioni. Se Stalin ha piani militari per un avvenire, vicino o lontano, di supremazia russa, aon sarà mai disposto a svelarli e discuterli con i suoi presunti avversari. Stalin sa bene che oggi come oggi egli non può fare una guerra ; ma sa anche che neppure la possono fare gli altri due. La posizione sua è chiara: oggi e non domani - può guadagnare tutto quel che oggi ottenere mediante abilità, scaltrezza, e ricatto, sì da trovarsi per l'eventuale domani in posizione più che mai vantaggiosa. È un'idea ambiziosa, ma pratica. Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno altra scelta che mettersi sullo stesso piano, ovvero agire in modo da portare le controversie sopra un piano differente, obbligando Stalin ad abbandonare il suo.

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( l ) « Soviet American Military Ideas D, in The New York Herald Tribune, 21-3-1946.


Churchill col suo celebre discorso di Fulton volle saggiare il terreno allo scopo di poter col tempo obbligare Stalin a giocare sul piano anglo-americano. Egli propose che Stati Uniti e Gran Bretagna si unissero per la pace e per la guerra; flotte ed eserciti unificati, cittadinanza unica, mezzi e scopi comuni. Di fronte a simile realizzazione, la Russia cambierebbe politica ovvero troverebbe pane per i suoi denti. L'opinione americana i n parte fu fredda, in parte reagì all'idea di un simile patto contrario alla tradizione e alla psicologia del popolo. Churchill si persuase di avere corso troppo, limitò, attenuò, spiegò nei successivi discorsi. Se la prospettiva di una Russia invadente e antitetica ai paesi anglo-americani giustificava l'attacco di Churchill, il rimedio mancava di visione politica: perchè mai l'America accetterebbe il sistema di una diarchia Washington-Londra, mai la Gran Bretagna accetterebbe di divenire la quarantanovesima stella americana. Sanno bene americani e inglesi che il giorno del pericolo l'istinto d i razza, gl'interessi politici, e i valori della civiltà occidentale che i loro paesi contengono, li porteranno, come nel 1917 c come nel 1941, a legare in guerra le sorti reciproche. Sanno anche bene che durante i periodi di tregua e d i pace, i due paesi sono destinati a comprendersi e ad aiutarsi dentro certi limiti, facendolo più che dicendolo, e spesso senza volerlo. È vero che di fronte aila Russia, sia sfinge sia minaccia, Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno politiche chiare e coerenti, mancando spesso della facoltà intuitiva a intravvedere la realtà nella nebbia dell'avvenire. Perciò non sono capaci di prendere impegni che superano la comprensione del momento. Se inglesi ed americani non fossero stati così incapaci ad auto-decidersi, non avrebbero subito nè la prima nè la seconda guerra mondiale. È perciò che Churchill non convincerebbe neppure gli inglesi, neppure il suo partito conservatore d i cui egli stesso è capo, ad accettare la politica da lui proposta a Fulton. E come pensare d i poter convincere gli americani? Questo Stalin lo sa; Stalin sa bene che tutte le dichiarazioni di Vanderberg, di Byrnes, dello stesso Truman, di volere essere forti e finalmente farsi valere e finirla con la politica delle conferenze di Yalta, di Potsdam e di Mosca, non durano più del giorno che Ie vede


riprodotte nei giornali. Dietro le parole non ci sono i fatti: non ci possono essere perchè i fatti urterebbero la mentalità e la sensibilità degli anglo-americani che non sono 'disposti a battersi se non all'ultimo momento, quando cioè non c'è altra alternativa, perchè l'iniziativa della guerra è stata presa dall'avversario. Questo, che i n fondo può essere un sentimento altamente civile, può anche essere una debolezza congenita e insuperabile. È perciò che la proposta di Churchill non sarebbe altro che una facciata formidabile con di dietro i l vuoto. Supponiamo per un istante che il piano di Churchill fosse realizzabile. Se l'intesa militare anglo-americana dovrà giocare dentro il quadro dell'organizzazione delle Nazioni Unite, riuscirà solo a creare un sospetto e un risentimento permanente, senza utilità diversa da quella che oggi potranno avere Stati Uniti e Gran Bretagna nella comprensione dei loro reciproci interessi transatti dall'ONU. Se al contrario (cosa che Churchill non pensa) l'intesa militare anglo-americana dovesse funzionare con autonomia di mosse, rispondendo alle eventuali mosse della Russia, I'ONU perderebbe la sua ragione d'essere e farebbe l a fine della Lega delle Nazioni. Anch'essi, gli isolazionisti, meritano u n cenno, dato che sono così coerenti anche contro l'evidenza dei fatti, da doversi reputare vera gente di carattere. Essi non vedono che gli Stati Uniti di America sono arrivati, senza la volontà esplicita del popolo e senza un programma prestabilito dei capi, ad essere il paese leading nel mondo, o almeno a dividere l a responsabilità dell'ordine mondiale con due compagni, uno indebolito dalla guerra, l'alti0 con idee e costumi, tradizioni e politica incompatibili con quelli americani. Volere o no, l'America ci deve stare a quel posto. Gli isolazionisti non vedono ciò ; pensano che 1'America potrà tornare indietro di quarant'anni e più e rinunziare al nuovo ruolo che le è stato imposto dagli eventi. L'effetto di simile politica sarebbe per l'America sia economicamente che politicamente così dannoso, che sembra strano come possa essere non dico pensata, ma discussa e sostenuta. Se l'America si chiudesse nel suo guscio, dovrebbe anzitutto rinunziare all'espansione economica che le è comandata dal suo stesso


tenor di vita, dal carattere delle sue industrie, dallo spirito intraprendente del suo popolo. Ciò è impossibile: l'America ha bisogno del resto del mondo ( e un mondo in pace) come il resto del mondo ha bisogno dell'America. Edgar Mowrer ha più volte accennato all'impellente alternativa : « o intendersi (con i russi) o divorziare. Purtroppo tale alternativa non esiste, essendo necessario l'intendersi e impossibile il divorziare. Egli si è riferito al problema della Germania, ma quello è uno dei tanti problemi e niente affatto isolabile. L'America può (se vuole) lasciare la Germania e ritirare il suo esercito dalla zona di occupazione, ma nel far ciò, l'America rinunzierebbe al suo molo non in Baviera o in Austria, ma in Europa. L'America diminuirebbe la sua posizione nel mondo dichiarandosi inabile a sostenere in un sol punto i suoi interessi, i suoi ideali e la sua politica. L'America è purtroppo obbligata dalla sua nuova statura a essere sempre e da per tutto presente e corresponsabile del nuovo ordine di cose. Come l'isolamento e il divorzio sarebbero il rifiuto materiale a prendere le proprie responsabilità sul campo, così l'appeasement (non c'è una parola italiana che vi corrisponda) sarebbe il rifiuto morale a prendere le proprie responsabilità e seguire la propria linea d i condotta. Oggi gli appeasers americani non ricordano i loro cugini inglesi del periodo di HitIer e di Mussoiini fra il 1933 e il '1939 ;. non ricordano nè i Chamberlain, nè i Runciman, nè i MacDonald, Samuel Hoare, Baldwin e Simon. Sarebbe istmttivo e opp,ortuno un confronto fra quel periodo e il presente, fra quegl'inglesi pieni .di sufficienza e gl'ingenui americani di oggi. Si vedrebbe come la politica dell'anteguerra si ripete oggi tale e quale, senza attenuanti, anzi con l'aggravante che oggi non ci sono più gli antemurali che tenevano limitato l'espansionismo russo ( e quello anglo-americano) cioè la Germania all'ovest e il Giappone all'est. Gli appeasers americani credono d'impedire un 'conflitto presente mentre fanno le concessioni che serviranno al presunto avversario per u n conflitto del domani. Per la sua inerente debolezza la politica dell'appeasenent può essere puramente occasionale e limitata nel tempo e spazio, non può essere affatto una politica normale e a lunga portata. Coloro che l a sostengono


o sòno ingenui i n buona fede, o sono quel tale che si dice usualmente fellow-traveler, ovvero addirittura votati al trionfo non solo di un ideale che non è americano, quale il comunismo, ma di una potenza straniera quale è la Russia.

La conferenza d i Parigi Non dico le sorti di Trieste o le sorti delle colonie o quelle della flotta, dico le sorti dell'Italia, che si stanno discutendo a Parigi, dai ministri delle quattro grandi potenze. Intanto è un fatto, noto fin da due anni fa e mai voluto confessare, che l'ostacolo principale ad una pace equa con l'Italia è stato ed è l'atteggiamento della Russia. Non che l a Russia sia per preconcetto, per risentimento o per interessi diretti contraria all'Italia; l a Russia h a una politica opposta a quella dell'Inghilterra, perchè vede nell'Inghi1terra un ostacolo alla sua espansione e al consolidamento dei suoi guadagni presenti e futuri. L'Italia è al centro del Mediterraneo e al confine sud della (C sfera d'influenza 1) della Russia in Europa: Jugoslavia e Austria. L'Italia non deve essere precostituita come una possibile nemica della Russia ( e ciò è giusto), nè come un presunto baluardo dell'hghilterra nel Mediterraneo ( e ciò è ragionevole); ma neppure (secondo Mosca) come una potenza indipendente che abbia una sua politica e una sua personalità ( e ciò è inammissibile). La stranezza della posizione deriva dal fatto che mentre l'Inghilterra ha tutto l'interesse di non far cadere l'Italia nella C sfera d'influenza » della Russia e la vuole nella propria « sfera d'influenza », non desidera che sia un bastione dell'occidente verso l'oriente, nè che abbia una personalità tale da poter decidere da sè la propria politica. Tutto ciò è assurdo per una politica d'insieme, ma è cosa realistica per la solita politica inglese del divide e t impera, del wait and see, del meglio l'uovo oggi che la gallina domani, e simili concezioni pragmatistiche, che han servito a costruire pazientemente l'impero britannico, e anche a farci avere due guerre mondiali, ambedue evitabilissime. Roosevelt, come ogni buon americano, era convinto che un


bel gesto, un'offerta spontanea, una cessione senza contropartita, avrebbe appagato Stalin rendendolo più fiducioso verso l'America. Anche l'Italia era una carta da offrire, un mezzo per u commerciare » l a politica dell'ovest con quella dell'est. Egli fece lo stesso a Yalta quando diede, senza contropartita, mezza Polonia alla Russia, rinunziando a tale carta per fissare i confini polacchi dell'ovest ed evitare le deportazioni in massa; fece lo stesso quando offrì mezza Corea e le isole Kurili, e implicitamente o esplicitamente permise l'occup?zione della Manciuria, nella speranza di fare entrare la Russia in guerra col Giappone, senza accorgersi che la Russia sarebbe entrata poco prima della resa (non si disse che fosse stato quello uno stab in the back, ma ne aveva tutti i caratteri). Così poco a poco Washington si è trovata senz'altra carta in mano che i l prestito alla Russia, carta che l'abilità di Stalin farà valere a tempo e luogo contro la stessa America dato che ha la possibilità di eccitare parte dell'opinione pubblica degli Stati Uniti a suo favore. Ora il segretario di stato James Byrnes, accortosi degli errori del passato, sta mettendo tutta la sua abilità a raddrizzare la politica internazionale degli Stati Uniti; ma dovunque si volga, trova u n muro chiuso e una cittadella fortificata. Così nelle conferenze di Londra e di New York dell'ONU; così nel trattato di pace con l'Italia e i paesi balcano-danubiani; così per la sistemazione della Germania e perfino dell'Austria. Dal 25 aprile in poi, Mr. Byrnes tasta, assaggia, propone e torna a proporre, modifica, attenua, concede, ma, a parte le differenze che può avere con Bevin e Bidault, trova ~ o l o t o vlì duro, sia con parole melliflue, sia con frasi mordenti, sempre l o stesso, come chi ha una consegna che non può violare o un piano che deve attuare ad ogni costo. P e r l'Italia tutto è in sospeso. La principale questione è quella di Trieste e altre zone della Venezia Giulia. A Londra nel settembre scorso fu deciso d'accordo di tracciare una « linea etnica » come confine italo-jugoslavo. A Parigi lo stesso Molotov nega la linea etnica e ne propone una del tutto arbitraria, che sottrae allfItalia zone del suo vecchio territorio posseduto fin dal 1866.


Quando Molotov crede che non sia osservata una virgola delle decisioni di Yalta o di Potsdam protesta, tiene duro, e si appella ai « dogmi già definiti; ma quando al contrario è lui stesso che propone la modifica delle decisioni prese, allora ne svaluta il significato e la importanza, anzi nega addirittura che egli abbia inteso le parole per quel che suonavano. Se inglesi e americani fossero stati più guardinghi nel deliberare e più forti nel sostenere i deliberati presi, sarebbe stato assai meglio per tutti. Ma questi ottimi commercianti » e K uomini di affari » han creduto che il meglio che si potesse fare nel trattare con la Russia, era di offrire ogni giorno una soluzione nuova, senza comprendere che così i piani stabiliti perdevano consistenza e le posizioni prese venivano indebolite. C'è stato un raddrizzamento: Byrnes, Bevin e Bidault, pur differendo sulla « linea etnica D, sono rimasti fermi per l'italianità di Trieste e zona occidentale, al punto che lo stesso Molotov ha preso l'iniziativa di tentare prima i tre compagni di conferenza e poi il presidente del consiglio dei ministri d'Italia, on. De Gasperi, offrendo soluzioni più favorevoli per le colonie, le indennità e il Dodecanneso pur di destinare Trieste alla Jugoslavia. C'è pertanto per la Russia tale un interesse verso Trieste fino ad abbandonare ( o fingere di abbandonare) la richiesta di Tripoli e del Dodecanneso. Chiaro: Trieste in mano Jugoslava è Trieste in mano russa. Trieste è la chiave dell'Adriatico, è la porta di dietro del Mediterraneo. La Russia che non avrà mai Tripoli e il Dodecanneso ( e lo sa bene che l'Inghilterra non cederà di un punto) tenta di potere avere Trieste per interposta persona, e cerca di ottener per la Jugoslavia tali ingrandimenti da farne il suo baluardo verso la Grecia e verso l'Italia. Che vale la Carta Atlantica firmata dalla Russia e per riferimento anche dalla Jugoslavia con la quale si rinunziava ad ogni ingrandimento? E chi la ricorda la Carta Atlantica? Nè a Londra, nè a Parigi nessuno dei quattro ha la minima idea di fermarsi lì, come ad una roccia. È per questo che si hanno le sabbie mobili dal lato occidentale, mentre dal lato orientale c'è la volontà misteriosa del Kremlino che non deflette: Trie-


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ste, a torto o a ragione, deve essere in mano della Russia (l). Se si ricorda, per poco, l'atteggiamento che durante l a guerra tenne Stalin circa la Jugoslavia, verrà subito in mente il suo veto a che le truppe alleate (s'intendono le inglesi e le americane) entrassero in Jugoslavia. È vero che Churchill per £aie piacere. a Stalin buttò a mare Mihajlovich e preferì Tito; e la stampa anglo-americana creò presso i l pubblico dei paesi alleati il mito del generale e poi del maresciallo Tito come l'unico eroe che emergeva dalla resistenza, un eroe leggendario. Però, al momento che si doveva decidere la via migliore da seguire dal sud a l nord, Churchill vide giusto e propose a Teheran la via dall'Adriatico a Vienna, attraversando la Jugoslavia; Stalin si oppose, e Roosevelt diede ragione a Stalin, sotto i l pretesto che il comando militare alleato aveva piani per procedere attraverso l'Italia, ma non ne aveva per attraversare la Jugoslavia. Chi scrive ama ricordare che nel novembre 1942, allo sbarco alleato sulle coste di Algeria, egli aveva sostenuto sui giornali la.tesi di prendere la Sicilia e le Puglie, sbarcare in Albania e Jugoslavia, e portare la guerra in Austria. Un articolo a tale scopo fu pubblicato su People and Freedom d i Londra, e su The New Leader di New York nel dicembre dello stesso anno, e chi scrive tornò sullo stesso argomento in un libro sull'Italia, pubblicato negli Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia. Ora vedo che Walter Lippmann - il primo americano che h a il coraggio (nell'articolo del 4 maggio corrente) d i accennarvi - conviene che quello fu uno degli errori capitali d i Roosevelt, che ha fatto cambiare l a faccia all'Europa e ne ha rovinato l a struttura. Allora il cosi detto veto di Stalin, che nel fatto non poteva essere un veto militare ma solo politico, aveva poco valore, quando Stalin era costretto a battersi a Stalingrado e d aveva. un fronte lunghissimo di battaglia sul suo stesso territorio dal nord al sud. Invece allora l'Inghilterra fu costretta a tentare

(1) La Jugoslavia firmò la dichiarazione di Washington dove era il riferimento alla Carta Atlantica.


l'offensiva nel Dodecanneso, credendo di poterlo conquistare isolotto per isolotto, ma dopo pochi infelici tentativi lasciò l'impresa. L'Italia fu la sacrificata, in una guerra di posizioni tanto inutile ai fini generali, quando dannosa per un paese che si era arreso a discrezione. La conseguenza di tale fatale errore f u che nè Jugoslavia, nè Ungheria, nè Austria furono conquistate con gli eserciti anglo-americani; e da allora non sono più nè politicamente nè economicamente campo comune alleato. Questi paesi e d altri (Cecoslovacchia compresa) sono caduti nella zona d'influenza russa.' È vero che la Russia ha vinto le battaglie mediante il contributo dell'America e dell'Inghilterra con la flotta e gli enormi rifornimenti di armamenti e di viveri; ma quel che conta, politicamente, sono gli eserciti vittoriosi e le posizioni prese. Americani e inglesi o hanno sloggiato da quei paesi OVvero non ci sono entrati; se ci sono entrati sono stati costretti a un ruolo subordinato accettando spesso - come in Germania e in Austria - la volontà del « compagno n. L'Italia, sacrificata quasi inutilmente in una guerra di usura e distruzione, oggi paga per giunta-gli sbagli alleati ed è costretta a difendere con tutte le sue energie perfino la Venezia Giulia per la quale (insieme al Trentino) ebbe seicentomila morti nell'altra guerra mondiale. Non è a,credere che Londra e Washington si battano con la Russia a Trieste, proprio per i begli occhi dell'Italia. Trieste oggi è il simbolo della contesa; il punto ideale e strategico dell'incontro delle. dué civiltà dell'est e dell'ovest, come un tempo erano Budapest, Praga e Vienna. Questi centri si debbono ritenere perduti. Non ancora Trieste. La città può essere presa di sorpresa da una combinata mossa di assalto di truppe jugoslave (con a distanza i .russi) o da una rivolta popolare dei centri slavi dell'Istria dove si sono infiltrati croati e sloveni. Chi pensò alla linea Morgan di occupazione, credette di fare un gesto di appeasement verso Tito; lo stesso è stato fino ad oggi la politichetta dei generali e colonnelli inglesi e americani e dei loro esperti, che han tollerato l'assassinio di tanti italiani dell'Istria -rendendo sempre più torbida la situazione locale.

17. STURZO - Nazionalismo e ~nternazionalismo


La malattia dell'appeasement è nel sangue degli anglo-americani; è la malattia del metodo commerciale » come mi piace chiamarla ; d e l « pragmatismo » a-logico, re-logico o illogico d i coloro che non amano le teorie impegnative, nè i commitments decisivi. Ora si dibattono, creando soluzioni sopra soluzioni di fronte a chi l i ha messi con le spalle al muro. Per fortuna, inglesi e americani sono coloro che messi con le spalle al muro sanno finalmente reagire. Di più gli americani avevano a Parigi acquistata la convinzione che con la Russia bisognava cambiare metodo, perchè essa ha delle concezioni, degli interessi e dei piani che non armonizzano affatto con quelli dell'America e dei paesi europei ancora liberi da una decisiva influenza del Kremlino. È il tempo di dire: di qui non si passa; cessare ogni dubbia contrattazione, fermarsi sulle linee più ragionevoli e più sicure e divenire intransigenti. La politica delle .concessioni, da Teheran a Yalta, Potsdam, Londra e Mosca deve essere finita per sempre. Questa è la guerra? no, questo è il metodo di superare le crisi d i paura che ha preso i Quattro Grandi: avere i l coraggio delle proprie idee e posizioni. La Russia non cambierà dalla mattina alla sera. Bisogna aver pazienza; si tratta di affare di anni. Ci saranno gravi noie qua e l à ; ma ogni politica ha le sue noie. Forse che le noie dell'Iran o della Corea o della Manciuria, quelle delle quattro zone di Germania e Austria, tutte le altre in Europa non sono capitate col metodo dell'appeasement? Ne capiteranno altre col metodo della resistenza. Bisogna vedere quale dei due metodi avr,à più fortuna. Tentare occorre. Non parliamo più delle offerte di trattati. o delle dichiarazioni collettive. Sono ricette svuotate di senso dal giorno che la Carta Atlantica fu svalutata e violata dagli stessi inglesi e non fu sostenuta come si doveva dagli americani. Stiamo alla Carta di San Francisco; è un punto fermo nonostante i suoi difetti e nonostante il diritto di veto che dovrà essere sempre più limitato e reso meno efficace dall'opinione pubblica e dall'intervento delle piccole nazioni negli affari mondiali. I voti consultivi della maggioranza delle Nazioni Unite avranno .un

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tale peso mondiale, da neutralizzare gli effetti del veto di una delle potenze della pentarchia. Torniamo ai principi, e accettiamo con sincerità il metodo democratico. Ma per far ciò bisogna che Stati Uniti e Gran Bretagna rinunzino alla concezione della power politic e fissino i piani della ricostruzione europea. Fra tali piani, la pace con l'Italia viene per prima: è un impegno di onore dei tre che concessero la cobelligeranza nell'ottobre 1943 e ne riconobbero l'utilità in tanti documenti, ultima l a dichiarazione di Potsdam. Se dopo aver discusso per la terza volta i termini di pace, non si raggiungerà l'accordo con la Russia, il miglior modo sarà quello di mantenere ancora I'occupazione militare anglo-americana nella Venezia Giulia, nelle colonie italiane e nel Dodecanneso, e firmare, i tre, l a pace con l'Italia su tutti gli altri punti, garantendola da ogni possibile molestia. La Russia firma, bene; non firma, pazienza! Un fatto compiuto è necessario quando il diritto di veto si trasforma in un ostruzionismo, che rende. impossibile qualsiasi ricostruzione e lascia l'Europa in re da alle agitazioni interne, instabile e soggetta a colpi di mano e a guerre civili. C'è del pericolo nel rimandare i trattati di pace fino alla soglia dell'inverno del 1947.


CONCLUSIONE

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I1 lettore che mi ha seguito attraverso tutti i capitoli di questo libro avnà pena a rilevare quale delle varie e complicate tendenze attuali avrà il sopravvento: i l nazionalismo? il laburismo ? l'imperialismo ? l'internazionalismo ? Tutti questi « ismi » ed altri ancora - più moderno fra tutti il totalitarismo . in opposizione a l primo nato la democrazia ( o per usare termini e idee omogenee il democratismo) - hanno i loro assertori, i loro seguaci, le loro sfere di influenza; si combattono, si elidono, cooperano, ritornano a lottare senza tregua come se ognuno di questi abbia per sè il diritto all'adesione completa dell'uomo. ' P e r la nostra mentalità semplicizzante, particolaristica e pratica, la coesistenza di questi e di altri « ismi è piuttosto ingombrante ed illogica; noi siamo indotti dal nostro stesso istinto a fare una scelta, a preferirne uno e ad eliminare gli altri. Non mancano quelli che, fatta una scelta, non vedono che quel solo ideale (la desinenza in ismo » è l'indice tanto di un ideale quanto di una degenerazione) e a questo attribuiscono tutti i meriti, e così diventa il tocca-sana d i tutti i mali. Non si accorgono della ragion d'essere degli altri « ismi 1) e dell'utile che reca all'uomo il conflitto permanente e processuale degli ideali e degli interessi collettivi, tendente ad eliminare i mali presenti e a realizzare il bene nel futuro. È vero che nazionalismo ed internazionalismo già coesistono da un pezzo, e dei passi si son fatti per il passaggio dal primo a l secondo come sistema strutturale della società avvenire. Riducendo i due fatti in termini di conflitto socioIogico, dobbiamo classificare il nazionalismo come condizionamento storico at-


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tuale e l'internazionalismo come ideale da realizzare nel futuro. Si sa bene che queste due posizioni possono essere invertite sol che in un dato luogo e per date ragioni il nazionalismo è sentito ancora come un ideale da sviluppare (per esempio l'unità dell'Eire o la libertà e la riunificazione della Germania), e l'internazionalismo, quel particolare internazionalismo, è sentito come un presente da superare ~ e r c h èin contrasto con la concezione d i un internazionalismo- più elevato o più efficiente (I'ONU con il diritto di veto in confronto a un superstato internazionale). Ma non bisogna farsi ingannare dall'inversione dei termini sociologici; in fondo ci sono due momenti dello spirito e dell'attività umana, quello del rigetto del presente perchè insufficiente, erroneo e dannoso, e quello della ricerca di un futuro migliore; ovvero quello della difesa del presente perchè creduto più sicuro in confronto al futuro creduto pericoloso. Così si formano dué correnti: l'ideale o mistica, e la conservatrice o realistica, che sono necessarie perchè l'umanità faccia il suo cammino e raggiunga i suoi obiettivi, come in un veicolo sono necessari la spinta e il freno. Ma non sono del tutto soggettive queste. tendenze; esse sono condizionate dalla realtà esistente, che preme sulla natura umana e ne sprigiona le forze intellettive e fisiche. Premono oggi sull'uomo gli. interessi nazionali, che rappresentano il patrimonio di lingua, cultura, storia, economia e potenza politica quale ogni nazione ha realizzato fino ad oggi. Ma premono anche i mali e i pericoli che gravano sul sistema nazionalistico e imperialistico ( e le due guerre mondiali ne sono state la più tragica esperienza), sì che l'uomo è costretto, volere o no, a pensare internazionalmente. L'economia spinge a superare i limiti nazionali verso interessi e scambi internazionali e mondiali, Quando vediamo le barriere volontarie e autoritarie messe dalla Russia alle comunicazioni internazionali, ci rendiamo conto che oggi sono obsolete e contro natura, proprio perchè il mondo va superando i limiti particolari e nazionali. E quando vediamo che molti americani ancora insistono nella concezione delle alte tariffe doganali e della protezione anti-emigratoria, comprendiamo che c'è molto cammino


da fare verso l'internazionalismo, non essendo facile superare la mentalità nazionalistica. Ma mentre l'uomo si attarda nelle posizioni del passato e a malincuore si spinge verso le posizioni del futuro, la natura coopera con l'uomo sia presentando ostacoli insormontabili che eccitano le facoltà inventive dell'uomo, sia favorendone le soluzioni con impensati avvenimenti. Oggi. è la scoperta della. forza atomica che spinge l'uomo verso le zone incognite di un nuovo internazionalismo. I detentori del segreto della forza atomica che è stata attuata come mezzo di distruzione, e i detentori di altri terribili segreti circa i mezzi di distruzione del mondo sono convinti*che il segreto non durerà e che non è lontano i l giorno che altri paesi e altri governi potranno fabbricarne di simili o più potenti. È una necessità assoluta prevenire l'uso distruttivo di ogni forza naturale, controllarne la produzione, e permetterne l'utilizzazione solo a scopi scientifici ed industriali. Un pericolo di più per l'umanità ma anche un 'compito ancora più arduo; u n nuovo dovere collettivo di fronte a u n maggiore pericolo collettivo. L'uomo è richiamato di nuovo alla sua realtà di ministro di un potere supremo che è sopra di lui e che ne fissa i diritti e i doveri. L'internazionalizzazione della bomba atomica porterà con sè una trasformazione dei diritti nazionali in diritti internazionali. Le materie prime con le quali si fabbricano tali bombe dovranno essere sottratte, mediante indennizzi, alla proprietà privata e allalproprietà nazionale e divenire proprietà internazionale. Ci saranno paesi che accetteranno la nuova legge ed altri che vi si opporranno, creando un altro conflitto tra nazionalismo e internazionalismo. È chiaro. che a prevenirlo ci vorranno un'autorità, una legge e un potere esecutivo con forza adeguata. Eccoci di fatto al bivio tra l'internazionalismo volontario (quello della fu Lega delle nazioni e dell'ONU di oggi) e l'internazionalismo « coattivo », quello che si prevede debba attuarsi per controllare l'energia atomica. Non può fissarsi nè prevedersi se questo internazionalismo coattivo (che usualmente si suole designare con un termine inesatto come super-stato) satà fatto per vie pacifiche e di '


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persuasione o per vie anche di forza. La trasformazione della Europa feudale in unità monarchiche e da queste in stati nazionali, fu un processo lungo di secoli, maturato attraverso conflitti e guerre interminabili. Oggi, dopo essere passati attraverso due mari di sangue con le due guerre mondiali, il tempo è maturo per l'internazione e non ci sarebbe proprio bisogno di una terza guerra. L'uomo, ha più di un secolo di avviamento verso una coscienza internazionale, dal giorno che col vapore si solcarono i mari, che con il telegrafo si legarono i continenti, che con l'automobile si abbreviarono le distanze terrestri e con gli aerei si girò il globo in pochi giorni. Le economie plurime convergono verso l'economia unica, e la politica dei pochi dà l'impronta alla politica del mondo. Cosa strana, in questo secolo di maturazione internazionale i nazionalismi si sono accentuati, sono divenuti. pericolosi, han vissuto periodi di frenesie, come chi vedendosi verso la fine vuole affermare la sua personalità, eccitando tutte le sue forze fino a soccombere. I1 fatto della bomba atomica costringe l'uomo a cercare una soluzione di sicurezza che sia internazionale, perchè la nazione non ha più confini, l'economia non ha più protezioni, l'uomo stesso non ha più alcun rifugio personale che lo liberi dal mondo in cui vive. Oggi un solo paese può dire no all'organizzazione internazionale, ed è la Russia: questa è la rivelazione del dopo guerra che disturba il mondo intero. Quando tecnici, politici e militari avranno studiato il modo di proteggere il mondo dalla bomba atomica, - e non c'è altro modo che quello di sottoporre tutti i paesi ad una legge unica di disciplina internazionale coattiva - allora solo la Russia si può chiudere nei suoi confini e rifiutare l a internazionalizzazione delle miniere, degli impianti e delle manifatture che contribuiscono alla produzione dell'cnergia atomica. Solo in quel momento sorgerà il problema di come costringere la Russia a ubbidire alla legge iniernazionale e a sottostare alla disciplina di sicurezza che l'umanità esige per evitare il suicidio. Coloro che pensano che sarà inevitabile una guerra fra l'America e la Russia, con schieramento di qua e di 1,à di tutto


di catastrofe. Ho più il mondo, sono secondo me dei volte accennato i n queste pagine che una terza guerra mondiale oggi non è probabile n è prevedibile. Quel che purtroppo è vero, si è che i maiintesi fra i tre grandi avvelenano l'atmosfera mondiale e fanno parlare di prossima guerra. Oggi siamo al caos europeo*perchè Inghilterra ed America non riescono a fissare un piano costruttivo al quale invitare la Russia a cooperare. Ma non sono nè i problemi della Germania, nè i confini italo-jugoslavi, nè la navigazione del Danubio, nè le co1oni.e italiane motivi di guerra, come non lo sono le questioni dell'Iran, della Manciuria, della Corea. I1 punto centrale è il controllo atomico da parte di un potere internazionale efficace e liberamente costituito. Questo controllo sarà impossibile finchè vige il diritto di veto consacrato dalla carta di San Francisco, finchè I'ONU è dominato dalla forma antidemocratica di ~ e n t a r c h i a dittatoriale, finchè dureranno gli isolazionismi, sia quello russo, sia quello americano e i loro nazionalismi economici e militari. Varrà l'opinione pubblica mondiale a far uscire dal vicolo cieco in cui si trova l'internazione? Occorreranno nuove guerre fra dieci o vent'anni? Poichè l'arte politica è quella di correggere i mali di oggi e prevenirli per un raggio di anni che' - secondo la sapienza del passato - non può superare i dieci anni, contentiamoci di a E e m a r e che il dovere di oggi e le previsioni del domani ci obbligano ad andare verso l'internazionale cercando di immettervi dentro nazioni ed imperi quali si trovano oggi, subordinandoli ad una legge superiore, quella della sicurezza mondiale. Non sarà possibile questa palingenesi se la legge morale di giustizia e d i libertà non venga accettata e proclamata come la vera legge del mondo, che animi quella materiale e pratica che sarà la legge d i sicurezza. Sono gli uomini responsabili al governo degli stati e oggi riuniti nell'ONU capaci di affrontare il problema nella sua portata tecnica-politica e nel suo significato morale? Noi lo auguriamo per il bene dell'umanità, ma la pubblica opinione deve correggere gli sforzi che sono verso la giusta direzione, criticare quelli che sono sulla falsa via, perchè vengano in tempo raddrizzati e rivalorizzati. Si deve


rifare una nuova coscienza collettiva che, vincendo i pregiudizi nazionalistici e gli interessi particolaristici, accetti le restrizioni dell'internazionalismo per poterne godere i vantaggi; nella convinzione che dentro una struttura internazionale avranno un posto coordinato e organicamente piii utile le patrie nazionali, come oggi nel quadro della nazione hanno i l loro posto le cittĂ e le provincie che nel passato furono cause di turbolenze e di guerre.



APPENDICE



NAZIONALISMO E INTERNAZIONALISMO

I due termini nazionalismo e internazionalismo non sono, per certo, l'uno all'altro opposti; ma sia per il modo corrente d i intenderli, sia per il valore politico che vi si attribuisce, sia per tradizioni storiche, si tende a stabilire fra di essi un'antitesi aperta. Anche la filologia è per l'antitesi, poichè le parole che finiscono i n ismo indicano, o tendono ad indicare, un sistema in sè ben definito (liberalismo, socialismo, popolarismo, comunismo e così via); ed è naturale che « il sistema » detto nazionulismo. che si basa cioè sulla nazione come sua.raeion d'essere. " escluda « i l sistema » detto internazionalisrno, che si basa invece sulla ragion d'essere dell'internazione. Per la parola « internazione » c'è una speciale antipatia nei ceti intellettuali e nei circoli politici, dovuta al fatto che fin dal 1864 tale parola fu usata per indicare il movimento operaio (specialmente europeo), unito al di fuori e al di sopra dei confini e degli interessi nazionali. L'organizzazione operaia poi divenne socialista, e le sue fasi e caratteristiche diverse furono marcate coi termini, anche oggi i n uso, d i 1" internazionale, 2" internazionale, 3" internazionale. Quando fu per la prima volta usata in questo senso la parola « internazionale » era ancora recente il movimento delle nazionalità nella loro caratteristica politica romantica, del secolo XIX, dalla Grecia al Belgio, dalla Germania all'Italia; e l'idea di nazione, divenuta simbolo, racchiudeva due aspirazioni fondamentali: l'autonomia dei popoli a reggersi politicamente da sè, ciascuno secondo la propria personalità storicopolitica; e la conquista delle libertà politiche come base popolare della nazione e garanzia della propria personalità. Pertanto l'idea di nazione completava e superava l'idea di stato. I n questo periodo le parole nazionalismo e intemazionalismo non erano in uso comune e generale, ma l'idea di nazione, sorta contro le tirannie esterne ed interne, veniva riaffermata


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anche contro l'« internazionale D, che si presentava alla mente dei più come distruggitrice dell'ordine e dei valori di ogni singolo paese, valori di benessere, di libertà, di patriottismo e di cultura, .che ne rappresentavano il patrimonio d i civiltà europea. Intanto si andavano sviluppando le idee umanitarie e con esse il pacifismo sentimentale, che si contrapponeva agli egoi-' smi dei singoli popoli e al militarismo sempre più sviluppantesi in armamenti di terra e d i mare; Anche auesto movimento si appoggiava all'idea internazionale, non più esclusivamente proletaria ed economica, ma largamente democratica e morale. Di fronte vi si posero le correnti conservatrici e militariste, i movimenti antisemiti e strettamente nazionali, i partiti politici detti liberali, in quanto erano divenuti partiti di governo. Da questo complesso di elementi non armonizzanti fra di loro, nè convergenti in azione pratica contro l'internazionaliamo della democrazia umanitaria, e del proletariato socialista, sorse il movimento che si appellò da sè nazionalista, e che assicurò la vita alla parola nazionalismo, come sistema e come partito politico. La grande guerra ne allargò la portata, confondendo spesso sotto la bandiera del nazionalismo le giuste esigenze della difesa della -patria. A guerra finita, la costruzione della Società delle nazioni, il maggiore sviluppo della unione pan-americana, le conferenze internazionali per la liquidazione della guerra, e per il disarmo, le varie associazioni libere all'uopo promosse nei .diversi stati, l'influsso delle correnti giuridiche e politiche ispirantesi alla cooperazione fra i popoli, hanno dato un nuovo e concreto significato alla parola internazionulismo. Questo, per alcuni è semplicemente una direttiva politica pratica, una tendenza in progresso; per altri va divenendo o è divenuto un sistema. P e r naturale reazione, i l nazionalismo, piazzandosi sul terreno della politica estera di ogni paese, prende la posizione di contrario sia alla tendenza politica, sia. al sistema dell'interna: zionalismo del dopo-guerra, che i nazionalisti credono che sia niente altro che un'infatuaziane dannosa agli interessi della nazione e alla sua caratteristica e potenzialità. Ecco come oggi i due termini trasportati dagli eventi sul terreno dei rapporti politici fra gli stati, esprimono idee e sentimenti opposti e antitetici. Ma la realtà è diversa: questa è un processo, perciò è dinamismo, mentre le idee e i sentimenti ridotti a sistema tendono a cristallizzarsi in forma statica e definitiva. Onde spesso avviene che nazionalisti e internazionalisti si vedono sfuggire la realtà dalle mani, e combattono l e nuvole come don Chisciotte.


I n questo, come in simili témi, occorre evitare lo schematismo e l'astrattismo; sono abitudini scolastiche, che in materia sociologico-politica danno risultati disastrosi. Noi dobbiamo studiare i valori concreti rappresentati dai termini nazione e internazione, cogliendo quelli attuali nel loro realizzarsi e quelli ancora da svilupparsi nel dinamismo del processo storico, quale possiamo fin da ora intuirlo. La nazione è intesa come la ragione e la caratteristica dello stato moderno, in quanto questo non è più uno stato dinastico, o patrimoniale o paternalista, nè uno stato prodotto da combinazioni e intese estranee nel suo nascere e nel suo ordinarsi, nè basato su oligarchie militari o terrene, ma è uno stato che si realizza per coscienza e volanti di nazione, cioè della popolazione che si sente ed è unita in una volontà politico-sociale. Così può parlarsi di nazione svizzera, non ostante che sia trilingue e sia ordinata in cantoni autonomi, federati fra loro; o di nazione belga, non ostante !a diversità di lingua e di interessi dei due popoli che la compongono; mentre non poteva parlarsi, prima della guerra, nè di nazione austriaca, nè di nazione tedesca. Ora i l valore espresso dalla parola nazione, come ogni valore, è dinamico, esso supera l'ordinamento politico come tale, perchè è u n fatto di cultura, religione, tradizione, utilità; e quindi si sviluppa assimilando nuovi fattori, eliminandone dei vecchi che non sono più utilizzabili, creando nuove strutture sociali-politiche che possano esprimerne i bisogni e le tendenze. Noi diamo alla nazione un valore reale, permanente e dinamico, in quanto noi fissiamo il centro dei nostri rapporti ed interessi, tuteliamo e sviluppiamo la nostra personalità, parte- cipiamo alla vita sociale, formiamo la nostra cultura, acquistiamo un valore extrapersonale per il nome stesso della nazione a cui apparteniamo. Questa attribuizione di valore all'idea di nazione è adunque una non indifferente ragione della nostra vita personale e sociale; e tanto più si approfondisce un tale valore quanto più efficacemente la nazione agisce su di noi con la sua organizzazione economica, -politica, sociale, intellettuale e religiosa. Ma non facciamo noi un'attribuzione di valore anche al resto del mondo che è fuori della nazione? E come no! O è religione, o è cultura, o è politica, o è utilità pratica, non è possibile non sentirne i riferimenti, non parteciparvi, non attribuirvi un valore. Ma ecco il problema; è questo un valore attribuito al mondo extranazionale come in funzione del valore

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della nazione a cui noi apparteniamo, o anche come per si: stante, subordinato o coordinato? Se ci rifacciamo' a prima della guerra, non esisteva u n « extranazionale » a cui attribuire u n valore sociale, tranne nell'ordine religioso l a chiesa cattolica. Le associazioni di cultura e di pratica a tipo internazionale davano poco motivo per una vera attribuzione di valore, tranne come abbiamo visto l'internazionale operaia o quella umanitaria, le quali però erano più o meno limitate o a una categoria (proletari) o ad un'élite (democratici). Oggi però non è più così: oggi volere o no, siamo chiamati, non solo sul terreno politico, ma anche su quello delle idee e dei sentimenti, a fare un'attribuzione di valore ad un'altra entità : I'internazione. Questa, è vero, è tuttora un'entità nebulosa, che sembra non essere concreta, non vedersi bene, ma invece si sente ed è. Come nel medioevo nessuno poteva ignorare l'impero o il papato, n è poteva chiudersi nel proprio comune o regno, come in una rocca ove non potesse penetrare il valore dell'impero o del papato, così oggi non si può disconoscere l'esistenza e l'influsso di una nuova realtà che è l'internazione. Ma che forse non esistevano rapporti fra popoli e nazioni prima di oggi? Sì, esistevano. Però, dalla caduta dell'impero ad oggi, attraverso un lungo processo, non ancora finito, le nazionalità sono divenute nazione-stato; sono recenti gli stati di Irlanda, Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Lituania, Estonia, Lettonia, Finlandia; si è perciò creata la coscienza nazionale, u n tempo confusa o con la religione, o con la casa regnante, o con le franchigie feudali, o semplicemente con l a lingua e razza fuori di u n vero quadro politico. Per formare la coscienza nazionale occorreva la libertà e l'indipendenza; occorreva l a estensione della vita politico-sociale a tutti i membri della nazione, non ad una oligarchia, o ad una classe solamente. Tutto ciò è acquisito, non ugualmente da per tutto, ma con una tendenza incoercibile di assimilazione. Solo ora ~ u ò nascere l'internazione ; cioè una società organica fra le nazioni, e quindi solo oggi può svilupparsi nei popoli una nuova coscienza sociale, la coscienza internazionale. Quelli che erano sentimenti cristiani o umanitari o sociali, quelli che erano ideali di concordia e di pace, quelli che erano desideri di un avvicinamento e u n affratellamento fra i popoli, valori morali già diffusi nel mondo, oggi si ostentano in forma concreta verso u n organismo nascente, e quindi si riflettono sulla nostra coscienza .come u n apprezzamento e un giudizio di valore. È veramente o no, una nuova realtà questa, alla quale noi partecipiamo come viventi in essa e di essa costruttori? A

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Colorot che credono che l'internazione danneggi e sopprima l a nazione, la temono, l'odiano, la combattono, coloro che credono che l'internazione sviluppi e completi la nazione, la sostengono e l'amano. Ecco delle varie attribuzioni di valore che indicano una vita, perchè sono date. non ad un fantasma, ma ad una realtà: I'internazione è oggi una realtà.

Se non avesse una base reale nella coscienza e nei bisogni dei popoli questa costruzione nascente, che è l'internazione, presto o tardi andrebbe a perire. Ma una base l'ha: dieci anni, oggi che la vita di relazioni è moltiplicata in modo straordinario, valgono cento anni di dieci secoli fa. Anche allora con l'impero ecclesiastico feudale si tentò una unificazione di popoli, secondo la caratteristica dei t e m ~ i ,e non ostante tutto, buella costruzione durò, più o meno, quasi seicento anni. Una delle ragioni fondamentali della internazione è data " dalle condizioni di oggi, quando la interdipendenza degli stati è in notevole sviluppo. Nè economicamente nè politicamente oggi può dirsi che vi sia uno stato sufficiente a. sè stesso. L'economia tende a internazionalizzarsi sempre più, e perciò a evadere i limiti di u n singolo stato; ogni tipo di economia forma una sua propria zona interstatale. L'economia fa sempre da battistrada delle .evoluzioni politiche, perchè il suo trasformarsi e d estendersi crea bisogni e interessi ai quali la politica deve poter sopperire. La grande industria nel secolo passato fece cadere le barriere economiche insieme alle barriere politiche, agevolando i l passaggio dal vincolismo al liberismo. -D'altro lato, gli stati autonomi e giuridicamente uguali quali gli stati di oggi, non hanno via di scelta tranne che o coalizzarsi per affinità di interessi contro gli interessi opposti, ovvero trovare la base per una cooperazione reciproca. Prima della guerra i l sistema internazionale era basato sulle coalizioni o alleanze e le neutralizzazioni, come un sistema di forze e controforze, col quale si giocava come con un meccanismo. Dopo la guerra invece si tende alla cooperazione fra gli stati. Nel primo caso è specifica la ricerca dell'equilibrio delle forze, e nel secondo caso la ricerca del minimo comune interesse. Ora come più si attenua negli stati la potenzialiti di far da sè, e di equilibrare le forze avverse, tanto più si sviluppa l a tendenza alla cooperazione. Si comprende bene come questa idea di cooperazione internazionale si sia potuta portare sul terreno dei fatti dopo la guerra,-perchè allora era flagrante l o scacco del sistema dell'equilibrio delle forze e vigeva l a restauA

18. Srv~zo- Nazionalismo e Internazionalismo

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razione della solidarietà. La Società delle nazioni, idea carezzata da teorici, allora e solo àllora poteva essere attuata, dopo che quasi tutto i l mondo civile era stato diviso in due campi sanguinanti e fumanti che ne avevano distrutto l a solidarietà. I1 concetto di solidarietà internazionale sembrava ( e tuttora sembra ad alcuni u n dato puramente sentimentale, piuttosto morale, o come moralità religioso-cristiana o come umanitarismo. Purtroppo la solidarietà sentimentale o morale, religiosa o umanitaria non è ancora arrivata allo stadio di coscienza internazionale; ma c'è una legge di solidarietà naturale profonda che va dal campo economico a quello politico e si proietta i n quello morale, che è solo percepita quando è turbata non alla superficie ma nel fondo, ed è la solidarietà della struttura sociale. Questa non è ancora una nel mondo, ma sono diverse l e solidarietà come sono diverse le civiltà coesistenti, la cristiana o occidentale, la mussulmana, la cinese e così via. Ma tutte si polarizzano verso la civiltà più evoluta. La guerra ruppe la solidarietà della struttura sociale dove più dove meno in ogni parte del mondo. Occorreva e occorre ancora rifarla: la base delle coalizioni di stati, dell'equilibrio degli armamenti, delle economie prevalenti, non era più possibile; la psicologia dei popoli vi ripugnava, mancava l'adesione di coscienza, oscura come u n istinto o esplicita come u n atto di ragione; sorse dal fondo dell'anima di tutti l'idea della internazione come una liberazione dal passato terribile e temuto e come un'ideale di u n avvenire restauratore della solidarietà sociale. Uno degli ostacoli principali al cammino dell'internazione 6 dato da un elemento idealistico, tradotto in una formula giuridica: ed è i l concetto della sovranità dello stato: con qualsiasi forma di internazione giuridicamente costituita, viene intaccata la sovranità di uno stato, perchè i promotori della SOcietà delle nazioni hanno avuto cura di rispettare la forma di questa sovranità, e gli stati dell'unione pan-americana non hanno dato nessun carattere obbligatorio alla loro organizzazione, per uno scrupoloso rispetto alla indipendenza di ciascuno stato. 4 Ciò nonostante bisogna convenire che il concetto di sovranità d i uno stato nel senso vero della parola, cioè di illimitatezza interna ed esterna e autodominio, ormai non ha più senso, tranne che per distinguere lo stato indipendente da quelli dipendenti come gli stati sotto protettorato o sotto mandato e l e colonie. Oggi la frase corrente è indipendenza dello stato; e tutti convengono che si tratta di una indipendenza - interdipendenza: è questa una forma binomiale che senza contraddirsi si sintetizza. Ogni stato è limitato nella sua potenzialità e subisce la legge

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degli altri stati volontariamente o senza completa volontà o anche suo malgrado. La differenza fra il passato e il presente è fra l'altro anche questa, che nel passato gli stati egemonici creavano le alleanze offensive e difensive secondo le proprie iniziative e gli altri stati vi aderivano per propria convenienza o perchè costretti dalle circostanze, ovvero resistevano come potevano, dati i mezzi più limitati di lotta. Oggi invece vi è un piano di convergenza di tutti gli stati, pur entro una certa libertà di mosse, sicchè anche gli stati egemonici o ancora creduti tali, debbono subire le correnti della pubblica opinione e i legami della organizzazione della Società e dei patti e tribunali internazionali. I n sostanza un nuovo fattore esiste che partecipa al governo degli stati, ed è la conferenza interstatale, con tutti i vari organismi temporanei o permanenti: onde, bon gré mal gré, oggi gli stati in materia internazionale hanno meno indipendenza di prima. I1 Covenant della Società delle nazioni, i patti di arbitrato, la clausola opzionale dello statuto della Corte permanente di giustizia internazionale, il patto Kellogg, sono tutti passi già compiuti e ciascuno indica una limitazione; e il cammino è segnato. Quando si sarà concretiziato il disarmo e i l controllo interstatale riguardo gli armamenti, ancora altro limite efficace sarà imposto alla sovranità statale. I giusti, quelli che ancora ci credono, fanno salva la sovranità di ogni stato, perchè, essi dicono, ogni stato si lega da se stesso e volontariamente. Finzione di diritto! entrato nell'ingranaggio internazionale, lo stato che volesse rifiutare sul serio l a cooperazione e quindi i vincoli che essa porta, si metterebbe al bando della vita dei popoli; come quell'individuo che cittadino del suo paese non volesse osservarne le regole e le norme. Ma questo modo di considerare la vita sociale è unilaterale e inesatto; u n vincolo è veramente tale quando non è imposto a tutti, e non è imposto ragionevolmente; altrimenti non è più vincolo una regola liberatrice. Oggi il disarmo è imposto ai paesi vinti, ed è u n vincolo, perchè è limitativo per essi in confronto agli altri paesi; ma quando tutti gli stati saranno disarù limitazione. ma invece una liberazione mati. non sarà ~ i una dal peso di speie insopportabili e 'da u n sistema sociale pericoloso e antiumano. Lo stesso si dica del sistema arbitrale, del controllo sulla fabbricazione delle armi, della libertà dei mari e via via. Tutta l a vita sociale è limitativa e liberatrice allo stesso tempo; se così non fosse si tornerebbe allo stato selvaggio, cioè si negherebbe la società nella sua ragion d'essere e nel suo sviluppo naturale. Bisogna convenire che il sistema politico su cui si deve ba-


sare la cooperazione degli stati non può essere altro che quello detto della indipendenza-interdipmhnza; tale binomio oggi è fondato sulla doppia coscienza in sviluppo e in sintesi: l a COscienza nazionale e quella internazionale; il binomio non è statico e definitivo, ma dinamico; da ciò una nuova politica internazionale e un nuovo diritto internazionale, tutte due in formazione.

Di fronte a un così imponente sviluppo dell'internazione, il tentativo di tutti i nazionalismi dei vari paesi è uguale; quello di diminuire i l valore fino a ridurlo, nel loro apprezzamento, a formule demagogiche e a costruzioni di cartapesta; e d'altro lato a fare in modo che il regime politico internazionale rimanga sulla base del vecchio sistema dell'equilibrio delle forze ( o delle coalizioni}, pur entro la forma della cooperazione, che dalla Società delle nazioni è detta anche forma « societaria D. Di fatti i residui del passato non sono ancora liquidati, e l e condizioni attuali dei rapporti fra gli stati si prestano a questo gioco equivoco e pericoloso. La Francia tende a mantenere, un'influenza politica, e anche militare, in Belgio, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Romania e Polonia; 1'Italiji estende l a sua influenza in Albania e Ungheria. e amerebbe veder l'Austria fa. scistizzata; i suoi rapporti con la Russia sono di piena amicizia. L'Inghilterra abbandona definitivamente l a così detta « entente cordiale » (che già era caduta a Locarno) e si awicina agli Stati Uniti d'America. La Germania tende a riunirsi all'Austria, mentre già ripigiia l a sua influenza nel Baltico. P e r quanto gli spiriti antiveggenti trovino che la coesistenza di due politiche divergenti neutralizzi il bene che potrebbe venire o dall'una o dall'altra, pure è difficile abbandonare del tutto il sistema del passato per affidarsi interamente al sistema del futuro: ci vorrebbe troppa fede, e i governi di oggi, agitati dalle correnti nazionaliste delle varie gradazioni, non mostrano ancora di avere completa fede nel sistema della cooperazione fra gli stati, senza che nel medesimo tempo non si assicurino le amicizie e l e influenze particolari in base agli - eserciti e alle intese. È la lotta delle tendenze, le quali si orientano pro o contro il nazionalismo, pro o contro' l'internazionalismo. Questa lotta è necessaria e potrà anche riuscire utile nel gioco delle forze morali e politiche, perchè serve a provare la consistenza dei nuovi istituti, a impedire le facili improvvisazioni, e a farli amare tanto più quanto più sono costati nella difesa, nel consolidamento e nello sviluppo. Così, da un punto di vista dinamico, è bene valutare la lotta dei nazionalisti, a patto di contrapporsi


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ad essi validamente e di dare alla lotta chiarezza, sincerità e valore morale. I1 tentativo dei nazionalisti tedeschi nel promuovere il referendum contro il piano Young fu certo una dura prova a cui si sottopose il Reich; ma esso ne uscì con una larga riaffermazione della politica di cooperazione intemazionale, contro la politica di forza e di resistenza; l'effetto tonizzante fu molto notevole. E così via per tutte le questioni sorte o che sorgeranno, come quella del disarmo delle minoranze o dell'Anschluss austriaco. Poichè, è-bene tenere sempre presente che la vita dei popoli non è statica, ma dinamica; le situazioni non rimangono mai le stesse. Se così fosse stato nel passato, non sarebbero sorte le nazionalità come il Belgio, la Grecia e l'Italia, nè l'Irlanda o la Cecoslovacchia e le altre. Or mentre bisogna difendere lo statu quo da tutte le agitazioni passionali di revanche, bisogna non chiu.dere gli occhi sui naturali sviluppi della vita intemazionale, alla quale siamo legati in una insuperabile solidarietà. Ma non ci sono che due vie a questo fine: o gli accordi in una bene ordinata società dei popoli, ovvero le guerre; altra via non esiste. E d è questo il punto centrale dove si scontrano e si contraddicono nazionalisti e internazionalisti: la eliminazione clella guerra come diritto di un singolo stato. Dal patto Kellogg in poi i più avanzati internazionalisti chiamano ogni guerra promossa da uno stato, guerra privata, e danno il titolo di guerra pubblica solo a quella autorizzata dalla Società delle nazioni. La corrente americana del nuovo diritto intemazionale non ammette neppure la cosiddetta (C guerra pubblica )), e solo consente la difesa dall'aggessione. Tutto lo sforzo della costruzione dell'internazione mira lrà, alla eliminazione della guerra. I nazionalisti invece negano la possibilità della eliminazione; e gli estremisti vanno più in là, sviluppando la teoria della mistica della guerra: per i primi la guerra è fatale, per i secondi è anche un bene. Qui è l'antitesi irriducibile fra nazionalisti e intemazionalisti. Questi ultimi si basano sulle analogie storiche; vennero meno nei paesi civili sotto le condanne della coscienza umana e cristiana, istituti millenari basati sull'istinto più profondo, come la schiavitù, la servitù della gleba, il giudizio di Dio, la vendetta di famiglia, il duello, la poligamia; perchè non dovrà venir meno anche la guerra? e perchè non lavorare a questo scopo, costruendo la società dei popoli? I nazionalisti invece credono di essere più realisti, nel prepararsi spiritualmente e politicamente per la guerra futura, che per loro non è lontana.

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La massa del popolo non resta mai .indifferente a l soffio delle idee e delle passioni; non può vivere nella indifferenza o nella indecisione o nella semplice critica; ha bisogno di orientarsi verso qualche cosa di deciso e di assoluto, perchè è sempre attratta da sentimenti di fede e di amore oppure eccitata da sentimenti di odio e di ripugnanza. Il campo degli indifferenti e degli scettici non è mai un campo di azione d i massa e di formazione di coscienza popolare. Di fronte al problema di domani della vita dei popoli, oggi i termini sono posti nella loro antitesi ideale, se non interamente reale; cioè nazionalismo=guerra e internazionaZismo=pace. Le parole perdono il loro significato complesso e il loro valore storico, e invece divengono rappresentative di miti; è l'ideale e il sentimento che si esprimono in un'insegna, in un motto, in un nome, in u n simbolo. È chiaro: la gioventù e la massa popolare di oggi e di domani sarà profondamente divisa fra nazionalisti e internazionalisti. La lotta fra le due tendenze contiene il segreto dell'avvenire. (La Terre Wallonne, Bruxelles, novembre 1929).


L'IMPERIALISMO DAL PUNTO D I VISTA SOCIOLOGICO-STORICO Non è raro sentir dir male dell'imperialismo, oggi qualificato capitalistico, e attribuirgli la causa di questa e di altre guerre, e volerne (come dire?) l'abolizione. Pure, se c'è nella storia dell'umanità una nota costante, è quella delle formazioni di imperi, e della coincidenza di dati imperi con date civiltà. I1 problema merita studio tanto per sè quanto nei riflessi della vita moderna e dell'esperienza delle due guerre mondiali di questo secolo.

Noi prendiamo la parola impero nel senso largo che vi ha dato la storia dall'impero di Alessandro Magno e l'impero romano, fino al sacro impero romano-germanico, al Commonwealth britannico, all'impero coloniale della repubblica francese e così via. I n una parola u n potere che tiene soggetti vari popoli alla sua regola e ne mantiene l'equilibrio. I n ogni tipo storico di impero c'è un centro regolatore e dominatore: sia esso un popolo, uno stato, una nazione, una dinastia, un'assemblea di elettori, una chiesa, una classe. C'è una struttura organico-amministrativa, un sistema giuridico, un obiet. tivo economico, un carattere politico proprio. La tendenza di risolvere i l molteplice nell'uno è insista al carattere di ogni società umana; ma questa (che è rappresentata dal dominiurn e dalla potestas) non può esercitarsi senza la coesistenza dei membri, cioè l a libertà che l i rende partecipi dell'organismo. Ora quel che è in piccolo in ogni società, è in largo nell'impero. Perchè un impero sia tale, cioè .acquisti i l suo dinamismo e si sviluppi secondo la propria capacità, occorre la coesistenza dei molti e la risoluzione nell'uno.


È questo il. problema capitale di ogni impero, pel quale molti sono falliti come imperi o sono rimasti fossilizzati nella loro stessa mole. Ma prima di passare all'analisi dei vari tipi di imperi, vediamo anzitutto come nascono, se la loro esistenza sia determinata da fattori costanti, e a quale funzione sociale essi COIrispondano. Distinguiamo anzitutto gli imperi effimeri dagli imperi stabili. Mettiamo da una parte gli imperi effimeri, non per escluderli dalla fenomenologia politica e sociale, ma per darvi i l debito posto. Essi nascono per il volere di un uomo favorito dal genio e da circostanze storiche atte al suo espandersi, e cadono con lui o i n breve tempo dopo di lui. I più importanti tipi storici sono tre geni: Alessandro, Carlo Magno e Napoleone. Cosa mancasse ai tre suddetti imperi per divenire stabili può essere descritto dalla storia come un post hoc ergo propter hoc:Però gli avvenimenti non restano muti: essi sono rivelatori. Uno dei dati comuni ai tre imperi suddetti è,che sorsero in poco tempo, per una serie di guerre fortunate e di avventure gloriose, sì che il tempo dell'adattamento di una enorme mole per il suo equilibrio mancò. Bastò la sco-mparsa del genio e la costruzione rovinò. Alessandro fu lui a dividere, sul letto di morte, l'impero fra i suoi generali? Questo stesso fatto -.non accertato storicamente - vale l'altro che i generali si divisero le spoglie. Cioè l'idea di una struttura unitaria di un popologuida di una società di stati mancava all'impero, ovvero non era appoggiata a nessun ideale popolare che la sostenesse, e cadde appena l'uomo di genio venne meno. Carlo Magno ebbe l'idea dell'impero o fu un colpo d i genio di Leone I11 nella celebre notte di Natale de11'800? Gli storici discutono anche oggi. A me sembra che il meno che interessasse a Carlo Magno era di essere dichiarato imperatore - e che questa idea latina,. ecclesiastica e letteraria in quel tempo era dovuta più alla rinascita culturale di un'élite che alla coscienza d i u n popolo. L'impero reale era ancora quello bizantino, erede di Roma, dominatore di popoli, con una tradizione amministrativa, politica, giuiidica ed ecclesiastica che lo sosteneva nelle sue debolezze e nelle sue guerre contro mussulmani e barbari. I1 passaggio dell'impero ad occidente era nella concezione ecclesiastica non dico di una rivalità spirituale, ma per la necessità di un'unificazione morale delle nuove popolazioni rifatte cattoliche. Anche se Leone I11 ebbe motivi =~ e r s o n a l ia far ciò (come sostengono certi storici francesi moderni) la sua idea era sostanziata di un valore storico. Se non ebbe effetto duraturo si deve al fatto che i capi politici e militari, cioè la classe del


potere, non aveva alcuna visione reale di un impero nè la possibilità di mantenerlo. La divisione del regno franco fu naturale avvenimento politico del tempo. L'impero napoleonico è tanto vicino a noi da poterci rendere conto che un'Europa civilizzata, con tanti stati nazionali ognuno con la. sua tradizione storica, non poteva essere violentemente rimaneggiata a volontà di un despota; nè era possibile che le idee di libertà ed eguaglianza disseminate con la propaganda francese e le armi napoleoniche potessero coesistere con un regime di costrizione politica. Cadendo Napoleone cadde la sua inconsistente costruzione. Fra gli imperi effimeri dovremo mettere quello tartaro, che occupò parte dell'Europa con la forza delle sue armi presso popoli in genere disarmati o armati solo per poter fare le piccole guerre feudali fra castelli e fra città e contee. I1 fenomeno tartaro in Europa ebbe altri coefficienti che la debolezza dei popoli invasi e la inefficace struttura feudale a far fronte all'invasione. Ma più che impero, nel senso strutturale della parola, si trattò di conquista temporanea. I n questi e altri esempi di imperi effimeri noi troviamo un dato importante da segnare come u n primo: che mentre I'espansione del potere al di là dei limiti di ciascuno stato ( o nazione) risponde alle condizioni di disequilibrio fra lo stato stesso e i paesi circostanti, e alle occasioni favorevoli per imprese militari; la costruzione di un impero (cioè la riunione - sotto un potere centrale - di vari popoli nazioni e stati) deve rispondere alle condizioni di stabilità che un conquistatore possa creare con le sue vittorie.

Nell'antichità non abbiamo i m ~ e r icivili e civilizzatori di struttura stabile e di larga estensione superiori all'impero romano. Gli imperi dell'Assiria, della Persia, della Media e dell'Egitto non possono paragonarsi a Roma, nè sotto il punto della stabilità nè sotto quello della estensione, nè della civiltà. Comunque, ebbero le loro caratteristiche e il loro ruolo storico. Qui non ci interessa intrattenerci su tali imperi che possono classificarsi imperi un po' meno di quel che crediamo leggendarie le storie. Quel che veramente fu l'impero tipo e nella sua formazione e nella struttura e nella decadenza, fu l'impero romano e marcò una civiltà. Esso ereditò quanto di ben fatto veniva dalle civiltà asiatiche e greca, ne utilizzò e trasformò i n realtà pratica la loro sapienza. Quel che è da notare anzitutto si è che il romano della


repubblica non ebbe mai l'idea che si costruiva un impero, nè l e guerre promosse o accettate, fino alle guerre pirriche e cartaginesi, uscivano fuori del quadro di limitata espansione e di difesa, di tentativo di partire dal centro dell'Italia verso punte di naturale conqiiista o annessione. I n sostanza Roma diveniva un centro naturale per una serie di dati geografici e fatti storici, senza un piano prestabilito di dominio non dico mondiale ma neppure mediterraneo. È superfluo fare lo schizzo della storia dell'espansione romana. Quel che interessa notare sì è ' che l e singole conquiste, volute come tali, e per ragioni contingenti, ampliano non solo l'orizzonte politico dei romani, ma le loro esigenze economiche, e le ulteriori necessità militari; Sicchè avviene, come risultato di fatti, la designazione di u spazi vitali » - chiamiamoli così con termine modernissimo - alle conquiste stesse che potevano essere riguardate come fine a se stesse. E d'altro lato, il consolidamento del dominio sui paesi conquistati esigeva quell'adattamento politico, giuridico, amministrativo ed economico, del quale i romani diedero esempi di saggeva e seppero frenare ( p e r quanto ~ossibile)le ingordigie dei funzionari e le violenze dei legionari. I1 sistema di colonizzazione romana in Europa ed Asia può dirsi unico, come quello della rete stradale che rese possibile la unificazione europea. Ma quel che risponde al genio romano fu il concetto di cittadinanza, che a poco a poco fu esteso a tutti i paesi soggetti, nei quali il greco e l'ebreo, e il gallo e il celta potevano dire civis romanus sum, e appellarsi a Cesare come fece S. Paolo. Nel fare questi cenni sull'impero romano - e sul suo erede l'impero bizantino che ebbe i Teodosi e i Giustiniani -, non intendiamo che tutti gli imperi o sono simili al romano o non sono veri imperi; intendiamo far rilevare che un impero di otto secoli (quello di occidente) e di undici secoli (quello bizantino) centro l'uno e l'altro di civiltà. non si sarebbe retto se fosse mancato di quella struttura spirituale che ne fece un'unità politica e storica, fondata sulla stessa natura umana.

I1 sacro romano impero o impero romano germanico non può assimilarsi a nessuno degli imperi precedenti e seguenti. Fu una costruzione sui generis, che ebbe una funzione coordinatrice, giuridica e rappresentativa; ma non ebbe forza effettiva se non nei casi di imperatori che trasformarono la posizione presidenziale e formale di quell'impero, in effettivo comando con le armi e i guadagni territoridi. I principali tipi ,hrono Barbarossa e Federico 11. Ma non è il caso di insistervi in


questo schizzo, per l'eccezionalità non ripetibile di quella costruzione ecclesiastico-feudale. Però nella sostanza, l'occidente o la cristianità medievale, non ostante tutto i l frazionamento feudale, il gran numero di regni, un impero che non comprendeva le zone più importanti ed evolute: Inghilterra, Francia e Aragona e Castiglia; e non ostante i due capi spesso in conflitto (papi e imperatori): costituiva un'unità in confronto alla invasione dei maomettani, che a poco a poco si resero padroni dell'Africa, Sicilia, Spagna, e poi di Bisanzio e della Grecia e dei paesi balcanici, minacciando tutta l'Europa. Fu quello un impero sui generis, anch'esso possiamo classificarlo militare-feudale, religioso, antagonista della cristianità, che dominò per lunghi secoli paesi già cristianizzati, e che ebbe influsso anche intellettuale e artistico attraverso arabi e persiani, nel mondo occidentale. Tra il medioevo e l'evo moderno dobbiamo inserire Venezia. Fenomeno particolare nella storia, ebbe un impero di mari senza avere importanti possessi di terre. Era quello i l sistema delle repubbliche marinare italiane; ma Venezia assurse ad una potenza europea di primo ordine per circa quattro secoli. Questo ci dà l a chiave del fenomeno imperiale, perchè ci f a vedere come la base di un impero come tale, è il mare e non l a terra; ed è i l mare non solo un coefficiente necessario alla creazione e stabilità degli imperi, ma un fattore che ne determina Ia stessa natura ed esistenza. Quando i principali mari dell'Europa erano il Mediterraneo e quello del nord, noi troviamo i domini marittimi dei fenici, della Grecia, di Cartagine e di Roma, e sono la base e ragione. del loro impero ; e poscia da un lato i mussulmani e dall'altro le repubbliche italiane, prima Venezia. Tripoli e Lepanto decidono dell'impero di Carlo V e dell'occidente moderno. Al nord sono i danesi, o i normanni, gli inglesi o gli altri popoli costieri che tengono i l dominio del mare ed hanno i loro periodi che possiamo chiamare imperiali. Quando si aprono le vie marittime dell'Atlantico per il nuovo mondo o attraverso il Capo di Buona Speranza per i l Pacifico, cominciano a formarsi gli imperi coloniali che caratterizzano l'epoca moderna: ~ o r t o g h e s ie spagnoli, francesi, olandesi e inglesi si contestano il dominio del mare e creano il periodo degli imperi egemonici. Da Carlo V e Filippo I1 a Napoleone, è la lotta di trecento anni che doveva finire con la incontrastata supremazia sui mari dell'hghilterra. I n tale periodo il concetto imperiale romano era completamente assente, quello feudale-ecclesiastico era rovinato come

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idea-resistenza alla riforma che dava una posizione speciale agli imperatori rimasti cattolici. Ma nel fatto le dinastie o case regnanti tendevano ad accrescere potenza ed estensione, sì che non importava nè una continuità territoriale nè una struttura giuridica unica nè un esercito permanente, ma una molteplicità di regni e stati unificati nella persona del monarca. I possessi della corona erano quelli coloniali, che formavano zone di sfruttamento di risorse e di uomini. I1 mare era i l mezzo necessario: il dominio del mare dava la supremazia internazionale. In questo periodo si vanno formando tre nuovi centri che chiamiamo imperiali per u n complesso di ragioni storiche e politiche. Cioè l'Austria, 'la Polonia e la Russia. Tutte tre hanno sete del mare, e tutte tre sono limitate dalla potenza ottomana. La lotta è reciproca e insieme contro Costantinopoli. Così la Polonia per prima arriva al mare Baltico al nord, e al mar Nero al sud, ma per poco e perde presto la sua potenza d i espansione. L'Austria tende a1l'Adriatico e al mar Nero; ed a questo è ordinata tutta la sua politica imperiale. La Russia tiene il mar Nero e tende a Costantinopoli da un lato e al Balbico dall'altro e fonda Pietroburgo, divenendo così potenza occidentale e influendo largamente sul17Europa.

Così siamo arrivati, per catena ininterrotta di imperi, dal periodo greco-romano fino alla fine del sec. XVIII e all'inizio del secolo XIX, quando si inseriscono nella vita politica la forma democratica d i governo e le idee liberali dei popoli e delle nazionalità. Pareva che l'idea imperiale con la caduta di Napoleone dovesse tramontare. Quelli che si chiamavano imperi: l'impero ottomano, l'impero msso e l'impero austriaco e poi austro-ungarico, soffrivano già della loro mole e venivano riguardati come cose del passato che dovevano perire ( e infatti, quali erano, i n un secolo cessarono di esistere). E invece avviene che proprio gli stati liberali e democratici arrivano i n u n secolo a costituire veri e nuovi imperi. Nasce per primo e più importante l'impero britannico. La perdita delle colonie americane non è nulla. Senza intenderlo nè volerlo si forma mano mano nel secolo XIX la coscienza imperiale britannica; l'aver il dominio dei mari dà la possibilità di legare in un'unità morale-politica popoli diversi; formare stati liberi di colonie e d i domini. unirli a sè in una comunità-di interessi e di sentimenti unica nel mondo. L'impero britannico non è nato quando Disraeli fece incoronare Vittoria imperatrice delle Indie, ma quando l'Inghilterra creò Ia sua incontestabile potenza navale e quando riconobbe agli altri popoli il

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valore di uomini liberi o degni di conquistare la libertà. L'altro impero nato senza volerlo, fu quello francese. Non per volontà di duci e di conquistatori: nè il primo nè il terzo Napoleone vi hanno a che fare: ma per volontà di una classe dirigente borghese e militare e per una serie di favorevoli event i la terza repubblica ebbe il suo impero. Anch'esso unito alla madre patria da vincoli cordiali, da probità amministrativa, da coraggio militare e da sacrifici missionari; anch'esso posto sul piede dei principi d i democraticità e libertà. Anch'esso reso possibile da un condominio dei mari, che, riconoscendo l'incontestabile superiorità inglese, non ne turbava gli interessi e vi si accostava politicamente. Furono l'impero ed il mare i fattori necessari (benchè inconsci per molti francesi) che avvicinarono Francia e Gran Bretagna, mentre la questione tedesca (alla quale mirava la Francia) era piuttosto un elemento d i malintesi reciproci. Infine il terzo impero fu quello germanico o prussiano, come meglio può essere classificato; chiuso ai mari del sud e dell'ovest, era spinto al nord e all'est. La formazione unitaria della Germania era matura; ma sfortunatamente l'unico stato che poteva farla era la Prussia e l'uomo che la fece era Bismarck; e la fece a spese dell'Austria, della Danimarca e della Francia. L'Austria doveva un giorno finire. La Germania sarebbe succeduta naturalmente se la prima grande guerra non n e avesse alterato la naturale spinta a sud-est. I1 mar Nero e l'Adriatico erano gli sbocchi ambiti della nuova entità centro-europea. Le colonie tedesche erano già un primo complemento dell'impero. Ma poichè il mondo coloniale era già conquistato e diviso, non restava che o intendersi fra le grandi potenze e mantenere l'equilibrio con la paura della guerra; ovvero affrontare le sorti del dominio del mondo. La guerra ridusse la Germania di Bismarck ad una repubblica vinta; ma la sua posizione politico-geografica rimase la stessa.

Ed ecco che allo stesso tempo che la Germania ingrandisce, due altri imperi si affacciano sull'orizzonte della politica mondiale: gli Stati Uniti e il Giappone. Gli Stati Uniti non avevano mai sognato di divenire u n impero. E se oggi si domanda a molti se la repubblica stellata sia un impero, potrebbero rispondervi che simile idea non è nelle più pure tradizioni americane. E difatti, se si crede che l'impero degli Stati Uniti consista nelle Filippine (che avranno o dovranno avere la loro personalità politica) o nelle isole caraibiche o Hawai, ovvero nell'Alaska, si sbaglia di grosso.


L'impero degli Stati Uniti è negli oceani che l a circondano, Atlantico e Pacifico. Prima la secessione dall'Europa, poi le necessità commerciali, la sicurezza dei mari, l'equilibrio delle marine, l a difesa del canale d i Panama, ha fatto rientrare l'America in Europa. La partecipazione degli Stati Uniti alla gran guerra e la rinunzia a qualsiasi guadagno territoriale o coloniale fu il gesto di ritornare all'unità mondiale con le mani nette. Oggi anche gli Stati Uniti sono un impero, e debbono avere la loro politica imperiale.. L'ultimo a nascere è stato il Giappone: anch'egli ebbe il suo bottino di euerra. Con la Corea., .Manciuria e Cina ha esteso " i l suo dominio e tende ad estenderlo ancora. Infine la Russia bolscevica. erede dell'im~ero deeli " Zar. voleva essere una federazione di Soviets dei vari popoli russi, sotto l'egida del partito comunista. Abolita la proprietà, rinunziato .ai territori di altri popoli, lasciato S. Pietroburgo (Leningrado) come sede capitale, chiusa l'economia, voleva sembrare u n mondo a sè, senza contatti, non più u n impero. Ma la realtà è superiore alle ideologie. Così alla vigilia della seconda grande guerra noi avevamo nel mondo come veri imperi: 1) i l Commonwealth britannico ; 2) l'impero coloniale francese; 3) il Reich germanico; 4) gli Stati Uniti; 5) il Giappone; 6) la Russia dei Soviets.

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Prima di. andare avanti nella nostra analisi, fermiamoci a considerare anzitutto il problema da u n punto di vista generale. La esperienza storica ininterrotta di imperi dall'antichità ad oggi è sufficiente a farci dedurre che un tipo d'impero o u n gruppo di imperi dovr,à esservi sempre nel1'organizzazio.ne politica del mondo ? Certo dal passato non si arguisce al futuro; ma da quel che l'esperienza ci dà, possono dedursi certe leggi generali che regoleranno anche il futuro della politica mondiale. Bisogna vedere quali leggi potranno dedursi dall'esperienza storica degli imperi e quale la portata generale e costante di tali leggi. P e r arocedere con un aasso cauto e sicuro. consideriamo anzitutto i fattori principali che emergono in ogni epoca dalla formazione e dal disfacimento degli imperi. Ne segnalo i principali: 1) anzitutto la tendenza a trasformare un dominio singolos in una più larga sfera d i interessi e relazioni con altri popoli,

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sì da trarne profitto di potenza, ricchezze e utilità varie, è insita in ogni comunità politica. Ma come una famiglia o poche riescono a primeggiare in una città, e poche città riescono a dominare provincie e regioni e a divenirne centri interessanti di traffici e di attività di ogni genere; così pochi stati fra gli stati (diciamo genericamente comunità politiche) riescono ad avere una larga sfera d'influenza al di l à dei propri confini e un'importanza che oggi diremo « internazionale D. Alla radice di ogni. impero c'è adunque la tendenza soggettiva al dominio e alla conquista e la necessità oggettiva all'unificazione. Queste due leggi « della conquista e dell'unificazione valgono per tutta l'attività umana in tutti i campi, sia per il bene che per il male che l'uomo fa a sè e agli altri. Sono nel dinamismo politico-sociale, che non può restare chiuso in uno stadio fossilizzato e in una staticità stagnante, ma è spinto all'azione, secondo le possibilità che il condizionamento storico e sociale di ogni singolo caso rende possibile, sia agevolando sia ostacolando i desideri e le ambizioni umane. Ma questa, che può essere presa come una considerazione banale, e che per noi è alla radice del fenomeno imperialista (del quale nella sua parte difettosa parleremo in sèguito), non l o è se si tiene presente che tanto i sociologi cattolici, quanto anche molti non cattolici ( e i filosofi della morale sociale) mettono in cima alla scala sociale lo stato, come potere sovrano, nei rapporti con i cittadini; mettono anche se occorre la società degli stati, o come ideale o come fatto realizzato nella Lega di Ginevra, ma non danno all'impero nessun carattere etico e nessuna posizione sociologica che ne designi una comunità sui generis. Mentre i padri dei primi secoli cristiani credevano che l'esistenza dell'impero romano dovesse essere così lunga come la chiesa, e rispondesse ad u n disegno di Dio o ad una vocadione, e nel medioevo non solo troviamo Dante con l'ideale della monarchia universale, ma ben cinque secoli prima, da Alcuino in poi, si formò u n ideale imperiale adatto alla concezione feudale e cristiana dell'epoca. I papi continuarono a incoronare imperatori, anche senza effettivo potere, da Ferdinando I1 d'Asburgo in poi giù fino a Napoleone (gesto purtroppo non felice di Pio VII). Anche imperatori non cattolici ebbero riti sacri a celebrarne il potere. E certo, sacro era il capo dei mussulmani fino all'ultimo sultano. E sacri, anzi Dio, gli imperatori di Cina e Giappone. Ora tutto ciò che l'umanità ha consacrato, deve avere certo u n significato al d i l à della semplice assimilazione che si è fatta del potere statale con i l potere imperiale. 2) Ed eccoci al secondo punto. Noi ora siamo arrivati alla


concezione che il potere politico, come sorgente immediata e legistica, deriva dal popolo. Questo non solo non esclude, ma secondo noi include che non c'è potere se non da Dio (su questo vedere il mio saggio su Chiesa e stato). Ma il popolo che riconosce il proprio potere e lo organizza (quale essa sia l a forma se monarchica o repubblicana non importa) è il popolo libero per i l suo stesso governo. E il popolo che si organizza i n stato: sia esso federale (Svizzera o Stati Uniti) o unitario (Francia), è la comunità omogenea dei cittadini. Ma nell'impero noi troviamo tre specie di rapporti fra il sovrano e i soggetti: quello del suddito cittadino (che è di carattere politico-statale); quello del popolo diverso soggetto ad u n 'potere non proprio ( o immediatamente o mediante u n proprio sovrano vassallo o dipendente); quello del popolo coloniale, posto in un livello di inferiorità politica, diremmo d i minorità, cioè senza riconoscimento di alcun diritto alla personalità politica o politico-amministrativa. Questi tre gradi d i potere politico si possono trovare anche presso uno stato che non è impero ( i l Belgio che possiede il Xongo). I n quanto tali essi esercitano un potere imperiale, benchè non siano considerati come imperi nel senso di ruling power del' mondo. La legittimità di tali poteri può discutersi sia dal punto di vista etico come da quello storico. Ma noi seguiamo il fatto come una tappa nel dinamismo sociale, e vedremo più avanti se e in quanto tale tappa può essere riguardata oggi legittima e a quale sviluppo sia destinata. Per ora seguiamo questo secondo punto ~ i e l l adescrizione dei caratteri storico-sociali dell'impero. 3) Ancora una nota. Potere e ricchezza o si limitano o si assommano in ogni comunità politica: ma secondo che uno e altro caso prevale, le forme d i accentramento politico ed economico o sono reciprocamente controllate o tendono a confondersi nell'assolutismo illimitato. Questa posizione sociologica che forma una determinante della comunità politica, diviene formidabile nella formazione degli imperi e rende quindi l'impero per ' se stesso una forza dinamica in processo. Se non è così, o resta stagnante e vive per la propria mole p e r il fatto che o posizione geografica o condizioni di civilizzazione ne impediscono alcun ulteriore sviluppo (possiamo alludere alla Cina statica e pacifica) e quindi ne fossilizzano le in- , nate forze fino al disfacimento interiore. Il dinamismo del quale ci occupiamo non è quello artificioso creato da conquistatori geniali e che cade con loro: qui non parliamo degli imperi effimeri ma di quelli cootmttini; il dinamismo è nella natura e struttura dell'unità politica che diverrà

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impero prima che gli uomini abbiano l'occasione e se vuolsi la volontà di farlo. Le fasi di questo dinamismo sono un misto di interessi materiali (economici e politici) e di valori morali (etici, sociali e religiosi), come in ogni attività complessa dei nuclei umani. L'espansione ha sempre due direzioni: la difesa da un presunto nemico e l a conquista di un bene creduto necessario alla collettività: i due si uniscono insieme. La tendenza verso i l mare è insita alle popolazioni circondate da confini senza sbocchi. L'adattamento a restare chiusi fra montagne non può essere che di piccoli popoli o che restano soggetti ad altri per sempre (rivendicando per quanto è possibile la propria personalità) ovvero a popoli che per lunghi secoli han saputo conquistarsi il rispetto del libero transito, come l a Svizzera. È raro che un popolo sappia usare così bene dei propri limiti e assurgere ad altezza così civile). Una volta aperta la via del mare, se vi corrispondono interne risorse e condizioni favorevoli, si prende, anche involontariamente, l'abbrivo verso l'impero. Bisogna vincere i rivali del mare, occupare i punti strategici, avere rifornimenti sicuri, garantiti da eventuali attacchi. Tutta una nuova e larga esperienza di potere nei confronti di vicini e lontani, in cui interessi commerciali e politici si mescolano insieme e danno il carattere agli sviluppi imperiali. I n tale espansione per l'area vitale » il fattore uomo è prevalente sotto due punti di vista: l'dite conquistatrice che si forma, si sviluppa, si affina nell'esercizio di una tecnica militare, marinara, amministrativa, culturale; e la massa conquistata che è destinata a percorrere le vie dolorose della schiavitù. Non abbiamo messo a caso la parola schiavitù, nè per fare impressione, nè per riferirci solo alle varie epoche passate. È per indicare un carattere ( p e r quanto transitorio possa essere, e non lo è) della formazione imperiale. La schiavitù ne è una delle conseguenze, fino a qual punto inevitabile lo vedremo in seguito. Due tipi di schiavitù possiamo fissare all'ingrosso: quella familiare e quella politica. La prima sopravvive ancora nei paesi selvaggi o sotto altro aspetto nei paesi di costa; non è il caso di occuparcene qui per quanto affinità vi abbia. L'altra, l a politica, derivava in antico dalla soggiogazione dei popoli vinti, dai prigionieri di guerra, dalle deportazioni di classi determinate O d i popoli interi, dallo spossessamento dei proprietari per dare l e terre ai vincitori, agli invasori, ai legionari, ai vassalli, secondo le epoche. Non si creda che questi fossero sistemi antichi e medievali.

19. S r m o - Nazionalismo e Internazionalisrno


Anche oggi possiamo ricordare il milione di greci cacciati dall'Asia Minore ( p e r non dire dell'eccidio di Smirne), gli ottantamila senussi fatti deportare dall'Italia fascista, i tirolesi (Alto Adige) spossessati e deportati in altre zone dell'Italia. E oggi ebrei posti in zone di riserve, polacchi spossessati e deportati ( p e r accennare a pochi casi) sono alcune forme della schiavitù politica imperiale che si va sviluppando nell'Europa del secolo XX. Chi non ricorda il celebre commercio degli schiavi dei secoli XVII e XVIII, e la concorrenza in questo lucroso affare tra Spagna, Francia e Inghilterra? Si crede che fossero navigli di pirati? Era un traffico autorizzato, fatto a nome di re cattolici e protestanti, che si vantavano di servire Cristo e il Vangelo. Quello era non solo per la ricerca di un lucro, ma per il dominio degli oceani. I n questa sporca e disgustosa gara vinse l'Inghilterra e rimase la padrona dei mari. Allora, per un bel caso di coscienza, fu l'Inghilterra a promuovere l'abolizione della schiavitù ( e quindi dei traffici); e fu l'America che affrontò una delle più grandi crisi del secolo XIX per finirla con la schiavitù negli Stati Uniti. Ma nel secolo XIX nacque altra schiavitù politica nel continente europeo, e dalla grande guerra si è infiltrata nel mondo anglosassone : la coscrizione obbligatoria e le masse di eserciti sotto le armi. I piccoli stati seguono la politica imperiale e sono necessitati a tenere eserciti e a sostenere le spese delle coscrizioni obbligatorie. Ma sono gli imperi quelli ai quali è necessaria questa nuova schiavitù: e furono i padri delle guerre moderne, Federico I1 e Napoleone, a introdurre gli eserciti permanenti, e quest'ultimo a reclutare eserciti presso tutti i paesi soggiogati per farne « carne da cannoni D. La schiavitù deriva da u n dato, costante presso. i popoli, che i pochi potenti e ricchi impiegano le masse obbligatoriamente in lavori dove non può arrivare nè il meccanismo nè l'abilità specializzata. È quindi in proporzione di u n fine che solo la massa può raggiungere. Oggi che ci sono tanti strumenti per trasportare i massi ed elevarli ad altezze straordinarie, non occorrono più le spalle degli schiavi che in lunga fila portavano i massi a costruire i circhi e i palazzi delle città romane. Oggi che ci sono ferrovie e automobili non occorrono schiavi per fare i convogli delle carovane. e così via. Ma oggi che la politica imperiale impegna i popoli alle dure guerre attuali, ci sono altri schiavi per fare quel lavoro d i masse che non trovano possibilità di sostituzione. Quando la guerra era fatta dai piccoli eserciti d i mestiere, e con certe regole che


oggi ci paiono regole da scacchi, allora non era necessaria la massa armata. Quel che è costante in tutta la storia dei grandi imperi, è proprio questo asservimento delle masse che in una forma o in un'altra ne caratterizza l a possibilità di formazione ed espansione o di tutela, secondo le epoche. 5) Altra nota da segnalare è la formazione amministrativa dell'impero, o legge imperiale. Questa non esce dalla testa di Giove come Minerva tutta bella e fatta: è un adattamento continuo e uno sviluppo di epoche. Qui si vede se il paese imperiale ha del genio e della comprensione oppure no. Da questa dipende gran parte della solidità della struttura dell'impero. Spesso l'errore è nel valore tutto accentrato in poche mani, e per la paura d i perdere i l comando o si crea la servitù dei popoli soggetti ovvero la continua loro irrequietezza. 6) Infine lo sfruttamento economico è quello in cui molti dei sistemi amministrativi e politici si risolvono e che spesso fanno dei popoli soggetti i servi delle plutocrazie imperiali.

Ora che abbiamo analizzato gli elementi dinamici e costruttivi degli imperi, lungo la storia, possiamo fare una classifica all'ingrosso, distinguendo gli imperi militaristi dagli imperi amministrativi e da quelli commerciali. Non potrebbe veramente dirsi una classifica, ma i l rilievo di note predominanti o di stadi di uno stesso impero. Certo l'impero romano è militarista nel periodo delle fortunate conquiste e delle lotte egemoniche, è amministrativo quando h a acquistato la stabilità e tende alla conservazione. E d è proprio in questo se6ondo stadio che gli imperi cominciano a incanutire e danno i primi segni della loro vecchiezza. Quando Roma non volle più combattere con i germani e pensò a costruire il muro di difesa (oggi noi diremmo una linea Maginot) fissò per sempre i l fato dell'occidente che doveva essere diviso fra popoli civilizzati e popoli barbarici. Se Roma continuava la lotta per l'incivilimento, avremmo avuto una Germania civilizzata otto secoli prima e certo meglio dei tentativi di Carlo Magno, perchè non avremmo avuto le invasioni barbariche, in quanto i barbari avvicinando una Roma forte avrebbero avuto la stessa trasformazione che ebbero i galli e i cirnbri. Lo stesso si potrebbe dire di Bisanzio in confronto alla pressione mussulmana nel vicino oriente, Grecia e Balcani. E così via. Quindi l'elemento militare, come caratteristica insita ad un


impero non può mancare. Ma altro è i l militarismo, cioè la conquista per la conquista, con la distruzione di tutto quel che si conquista compresi i valori superiori della civiltà, altro è la struttura militare di difesa e di autorità. Roma conquistò la Grecia e ne fu conquistata: i valori culturali greci furono rispettati e accolti. I barbari solo dalla chiesa furono riconquistati, ma la civiltà passata ebbe a perire quasi interamente. Oggi i nazisti sono peggio dei tartari di Gengis ICan nel distruggere quanto la civiltà presente aveva prodotto. Gli imperi amministrativi sono quelli che, avendo acquistato la loro stabilità, non esigono ulteriore sviluppo che nella vita interna legale e politica. Gli Stati Uniti sono di quelli ( o almeno sono stati di quelli). Da tredici stati confederati sono accresciuti per naturale seguito di fatti e senza militarismo o sete d i conquista, a quarantotto stati fra due oceani e sul mare Caraibico. Si sono assicurate le posizioni geografiche adatte alla propria importanza e attività. Se il mondo europeo fosse stato tranquillo, gli Stati Uniti nulla avevano da preoccuparsi. Però c'erano i mari in comune, e quindi necessità di equilibrio fra gli eserciti delle potenze navali. La conferenza di W a s h i q t o n fu l'effetto della grande guerra, ma nel 1930 quella di Londra fu un fiasco. Dovevano tutti avvertire che il mondo non era tranquillo. Quella ch'era la linea Maginot per la Francia, era il blocco marittimo per l'Inghilterra, cioè l a così detta difesa automatica. Tempo perduto: gli imperi che contano sulle linee assolute di difesa, sono destinati a disfarsi, come imperi; cioè a perdere l a posizione imperiale dominatrice. L'impero amministrativo degli Stati Uniti vale l'impero commerciale dell'hghilterra. La guerra del 1914-20 le fece perdere in parte il monopolio degli affari mondiali tenuto dalla City e l'Inghilterra fu costretta a fare i conti con Wall Street. Questa specie di condominio che si inaugurò con l a stabilizzazione della sterlina non resse e non poteva reggere. La Germania del dopoguerra divenne un cliente prima ricercato e noi insolvente. Donde tutta una politica di concessioni e di debolezze per assicurare i miliardi ch'era impossibile recuperare. Le crisi economiche dell'ultimo decennio mostrarono il piede di argilla dell'economia capitalistica dei tre imperi detti democratici: Inghilterra, America, Francia. L'affare dei debiti alleati e l e difficoltà di tariffe resero impossibile l'intesa politica. 11 disarmo si presentò come un alleggerimento finanziario sui popoli, mentre erano in corso le grandi trasformazioni della tecnica militare, le unità motorizzate e le armate aeree. L'impero basato sul capitalismo commerciale ( i l cui esponente fatale fu Neville Chamberlain) non poteva avere risorse


contro le forze militarizzate, nè contro la propaganda anticapitalistica, Nel complesso, l'impero per reggersi deve allo stesso tempo essere militare, amministrativo e commerciale: ma soprattutto deve avere la coscienza e la missione di essere impero, cioè una missione civilizzatrice. E qui entrano in gioco le concezioni morali e politiche che si hanno dell'impero. Anzitutto coscienza di un impero. Se questo risiede solo nella volontà del capo e della casta militare che lo circonda, non forma una vera coscienza collettiva, del popolo guida, che si tratta di impero. Sono conquiste di popoli soggetti, non unità vivente di popoli che hanno, a diversi gradi, comune interesse nell'impero. Noi potremmo citare come primo caso le conquiste dei cavalieri teutonici, che formarono una casta dominante, e dei popoli servi. Potremmo anche applicarla alla Russia del periodo precedente alla cristianizzazione, e anche in periodi susseguenti, per il distacco enorme tra la classe dirigente e i l popolo ; sicchè mancava una vera coscienza imperiale e in basso si sviluppava solo la coscienza religioso-mistica 'dello zar o piccolo padre n. Nella coscienza collettiva ci sono gradi di sviluppo e certo essa va dalle élites alle masse e non viceversa. Così quanto più largo è il sistema etico-politico, tanto più si sviluppa la coscienza collettiva. Quando Roma estese la sua cittadinanza a i paesi conquistati, rese questi partecipi degli interessi e della vitalità dell'impero stesso. Un esempio notevole di questo sviluppo di coscienza imperiale, di necessità quindi di unificazione nell'impero, come proprio interesse morale e politico, è dato dall'impero britannico, Quante volte i politici realisti e gli adoratori della forza non han detto che l'impero britannico era nel suo periodo di disfa. cimento, perchè Londra non governa i dominions e non sa governare le colonie? Invece e nella prima e nella seconda guerra si è vista la lealtà, il cointeresse dei dominions all'impero, perchè essi stessi sentono che sono l'impero. E se questo stesso sentimento manca nell'Eire, ciò è dovuto al fatto che l a politica di Londra verso l'Irlanda non è stata così larga e fiduciosa come verso il Canada o l'Australia o i l Sud Africa. A parte i risentimenti storici, che giocano la loro parte, ci sono i risentimenti attuali della mancata unificazione dell'isola. Qui non diciamo se e in quanto i torti siano divisi; ma vogliamo solo notare che, non ostante ciò, nessun impero del mondo ( i l tedesco o il francese per esempio) tollerarono che una parte dell'impero facesse secessione, propria politica, neutralità, senza reagire e come. E pure, noi non possiamo non lodare l'Inghilterra anche oggi che soffre del-


l a mancanza di basi navali in Irlanda, e rispetta il patto di retrocessione che (imprudentemente diciamo noi) Chamberlain (nella sua politica liquidatoria) si affrettò a fare senza riserve. Si accusa l'Inghilterra di aver fatto in India una politica incerta sì da non essere arrivata a poterle dare il grado d i dominion. Non è questo il luogo di discutere un problema così complesso. Quel che ci interessa notare si è che il sistema coloniale inglese da u n secolo ad oggi è, insieme a quello francese, olandese e infine anche belga, il migliore del mondo; e se il cammino da fare è ancora lungo, ciò si deve alla natura dei problemi che le colonie comportano. Non ostante tutto, la stessa India, nei suoi vari esponenti, è anch'essa solidale con l'Inghilterra, e l a sua autonomia (che u n giorno dovrà raggiungere) non la distaccherà, se i l mondo non cambia e se nazi e bolscevici non controlleranno l'Asia occidentale. Gli Stati Uniti sono un impero sui generis. Non c'è ancora diffusa la coscienza di essere un impero. La riunione dei quarantotto stati non ha avuto carattere imperiale bensì quello d'integrazione federale. Lo stato politico è q u i + l a federazione, mentre gli stati singoli sono stati amministrativi. Non ostante l'uso diverso delle parole, la sostanza è questa: e i quarantotto stati formano un'unità politica. Le acquisizioni al di là del territorio di questi stati (Cuba, le Filippine, ecc.) sono state fatte non con l'idea imperiale, nè per espansione commerciale, ma per garanzia politica e con l'idea di dar loro l'autonomia appena possibile. Alla fine della guerra 1917-18 l'America rinunziò spontaneamente a qualsiasi guadagno territoriale. Per giunta si chiuse nell'isolazionismo, cioè negò in radice qualsiasi carattere imperiale. La dottrina di Monroe non era e non è che una salvaguardia difensiva. Eppure, non ostante tutte le precauzioni antiimperiali, gli Stati Uniti sono un impero; lo abbiamo gi.à notato, e la coscienza di esserlo si va sviluppando con gli avvenimenti. L'esistenza che si vuole difendere è un'esistenza morale, è vero, ma anche politica ; navale, ma anche commerciale; individuale (Stati Uniti) ma anche collettiva (America del nord, del centro e del sud) e infine anche mondiale (Gran Bretagna e Francia, Olanda, Belgio); e non bisogna negarlo, si tratta del dominio dell'Atlantic0 e del Pacifico. Impero terrestre o impero marittimo, è sempre impero. Se tale coscienza si sviluppa oggi rapidamente, gli Stati Uniti entreranno in gioco, nel conflitto delle grandi unità mondiali.

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Imperi contro imperi: Germania e Giappone con l a connivenza russa e la collaborazione indiretta della Francia: Gran Bretagna con la collaborazione diretta e forse l'intervento degli Stati Uniti.

IV. Non è illogico, arrivati a questo puto, affermare 1) che, rebus sic stantibus, la struttura internazionale attuale esige che ci siano degli imperi, e che quindi l'impero come tale risponde ad una funzione e finalità sociale nel campo internazionale; 2) che come ci sono buone, cattive o mediocri organizzazioni sociali, siano esse famiglia, città o stati, così ci sono o ci saranno buoni, cattivi e mediocri imperi; 3) che come le civilizzazioni modificano gli orientamenti e le realizzazioni delle società umane, è così anche degli imperi. Detto tutto questo, non siamo arrivati al punto critico dal quale siamo partiti; cioè al fatto che mentre nessuno ( a meno che non sia u n libertario) ragionevolmente dice di volere aboliti gli stati, riconoscendo che lo stato è un ordine giuridico-politico necessario, ci sono molti che vorrebbero aboliti gli imperi, che aspirano alla riduzione della loro potenza, che pensano che essi siano un motivo costante di insicurezza, di gelosia e di guerre fra gli uomini e che infine, in un « ordine nuovo D, dovrebbero per lo meno essere trasformati. Certi stati d'animo sono rivelatori; questo è evidentemente uno stato d'animo oggi diffuso presso le masse in primo luogo dalle teorie anticapitaliste (siano socialisti o comunisti), in secondo luogo dalla propaganda germanica e italiana circa i paesi proletari e i paesi capitalisti, gli « have » e gli « have-not 1); in terzo luogo dai ricordi dell'altra guerra e della divisione del bottino fatta sotto la figura di mandato, ma nel fatto ritenuto come vero possesso; per la questione delle materie prime che sono più o meno monopolio di alcuni imperi e così via. Se a questo gruppo di risentimenti e di mezze ragioni, si aggiungono una ragionevole visione di un mondo già arrivato ad un grado di benessere materiale che potrebbe essere meglio distribuito, ad una facilità di comunicazioni, per vie navali ed aeree, sì da poter raggiungere i punti più difficili; si vede come in fondo c'è un desiderio impreciso per un migliore ordinamento, nel quale a l'impero come storicamerite concepito e come si presenta oggi ai nostri occhi, dovrebbe sparire. Ma la natura non fa salti, nè arriva mai con fretta: anzi l a fretta altera il processo lento e sicuro della natura. Quello di cui si potr-à dubitare non è che la natura non segua i l suo pro-


cesso, ma se è proprio nel processo naturale l'eliminazione della forma politico-economico-militare che chiamiamo impero. Qui facciamo una digressione per evitare il solito avvenirismo o u messianismo » che altera le visioni finalistiche dell'attività umana. Non si può sopprimere quel che è nella natura e che genera il bene o i l male degli uomini, cioè l a ricchezza e i l potere. Tutta la società umana è informata da questi due fattori che sono di per sè creati da Dio perchè diano agli uomini mezzi di sostentamento, di attività e di ordine. Se gli uomini ne abusano ( e sempre ne abusano) vi sono i limiti morali, giuridici e politici a riconoscerne gli abusi. Se gli uomini non valgono a tenere questi limiti fermi, c'è una legge di necessità storiche che tali limiti alterati rimette in evidenza per le stesse crisi che scuotono l'umana società; e quando tutto è compromesso, i valori morali e di coscienza emergono dalle distinzioni catastrofiche dei poteri umani resi potenti dalla malizia dei capi. Tutto questo diciamo, perchè non si creda che anche se venisse raggiunto l'ideale ( o preteso ideale) della scomparsa degli imperi, ne verrebbe l a caduta del capitalismo e delle guerre. Ma quel che non si pensa da coloro che fan gli anti-imperialisti a buon mercato, è cosa sostituire nel mondo a tali unità per il servizio utile che essi fanno. È legge in soctologia, che l'unità sociologica una volta creata non è distruttibile, ma solo trasformabile e sostituibile per la funzionalità che adempie.

Dopo l a passata guerra si pensò alla Società delle nazioni: intanto erano caduti due antichi imperi e due erano stati trasformati. Vediamone gli effetti. L'impero austro-ungarico era un vecchio e corroso bastione dell'est Europa, che limitava Russia e Turchia nella loro tendenza espansionistica e unificava (bene o male, più male che bene) i popoli soggetti. Tolto il bastione imperiale, i popoli del centro est Europa fecero il duro esperimento di u n nazionalismo protezionista e diffidente e non poterono fronteggiare la ripresa del germanesimo, non ostante gli aiuti finanziari e le promesse di aiuti dalla Francia. L'impero turco fu in parte ricostruito da Kemal Pascià; in parte fu passato sotto carattere di mandato ai due imperi successori: Inghilterra e Francia. Però l'Inghilterra alterò I'equilibrio dei mandati con la questione palestinese e diede troppo posto all'autonomia dell'Iraq (Mesopotamia). Ora la Turchia è sotto l'influenza russa. La Russia, per suo cooto, dopo aver fatto il gesto di rinun-

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ziare ai possessi baltici, ha trovato modo di riprenderli, per il fatto stesso che quei paesi fra due colossi non erano difendibili da nessuno stato confinante nè da alcuna Dotenza lontana. Così anche quella naturale e giusta ripresa di autonomie statali di popoli liberati da u n giogo mostruoso ha avuto presto fine. E quell'impero che aveva scatenato l a prima guerra e al quale si erano poste catene di ferro, è stato visto in vent'anni divenire il mostro terribile della seconda euerra. " Che cosa era avvenuto? La Società delle nazioni nella difesa dei piccoli e nello equilibrio delle forze internazionali doveva o integrare o sostituire la potenza dei centri imperiali. Diciamo « centri imperiali » perchè vogliamo includere anche quelle potenze che pur non assurgendo a posizione di imperi « concorrenti », hanno un raggio di azione al di là del proprio stato. Così l'Italia, così l'Olanda e i l Belgio per le loro colonie, così la Turchia per l'influsso sui popoli mussulmani. Così la Società delle nazioni ~ o t e v aentrare a far arte delle forze internaiionali, sotto carattere giuridico e morale-politico (si noti il binomio), che integrava la funzione imperiale ; facendovi partecipare, sul medesimo piede, tutti i paesi civili associati ( e anche quelli non realmente civili...!). I1 piano era buono, ma non avrebbe funzionato che secondo il beneplacito di due imperi: Inghilterra e Francia. Gli Stati Uniti se ne staccarono : la Germania entrò d o ~ o diffidente . e diffidata, con u n patto aggiunto (Locarno), che alterava in parte l a concezione societaria; la Russia assente per lungo periodo, entrò dopo la sortita della Germania, ma senza dare alcuna garanzia della propria cooperazione; i l Giappone meditò subito ia modo come guadagnare sulla Cina (consociata) approfittando dei dissensi degli altri. Restate Inghilterra e Francia a far la legge deIla Società, non s'intesero quasi mai, nè sui mezzi nè sui fini. La questione della guerra italo-abissina fu la prova fatale della Lega: iniziata con una magnifica unanimità, finì con la liquidazione. I n verità gli imperi, come tutti i potenti e ricchi, non soffrono nè il controllo dei minori, nè la società degli eguali, nè la preponderanza dei superiori. Eppure anch'essi debbono cercare un ordine internazionale, perchè non possono sottrarsi alla legge della interdipendenza con gli altri stati e popoli, & questa una legge che non può evadersi. Anzittutto è legge economica: nessuna unità politica (stato o impero), è mai sufficiente a se stessa nè può chiudere la propria economia, senza ridursi a stadi primitivi e fossilizzati. E A

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mentre una tribù selvaggia potrebbe (fino a u n certo punto) vivere da sè e isolata, dal giorno che prende contatto con altri non può più ritornare indietro: o sono i commerci pacifici o è la guerra d i distruzione. L'isolamento è, in u n certo senno, wi imbarbarimento. Ma l'economia interdipendente porta alla formazione naturale dei bacini economici. La politica può opporvisi e alterare la natura, ma questa prende la rivincita in campo politico. L'interdipendenza economica è anche uno dei fattori dell'interdipendenza politica. E non è solo il piccolo che dipende dal grande, è anche il grande che dipende dal piccolo. È vero che i n questo caso lo stato grande fa come i pesci grossi che mangiano i pesci piccoli: ma tante volte restano in gola e soffocano. (L'opposizione morale che fanno oggi Norvegia, Olanda o Belgio alla Germania vale assai di più che ,non la remissività del governo di Vichy della u n dì grande Francia). Le civiltà formano un ambiente storico, che non è facile evadere : e quando se ne tenta l'evasione sono le rivoluzioni : quella francese, quella bolscevica e quella fascista (nazista). E ciò non ostante, e non ostante le grandi crisi di guerra, si deve tendere ad u n ordine mondiale in cui la coesistenza dei popoli è segnata dalla reciproca dipendenza politica, economica e civile. Oggi siamo dunque ad un bivio, nel quale non è la scomparsa del tipo impero che si intravvede come soluzione, ma è i l consolidamento dell'un tipo di impero sull'altro. Sotto questo punto d i vista, si può ben dire che l'attuale guerra è « guerra imperiale » o guerra egemonica ».Solamente bisogna vedere quali tipi stanno di fronte. E allora si fanno due analisi: una delle teorie che informano i colossi in lotta, e l'altra della pratica del passato e del presente, che fornirebbe elementi per l'avvenire. Circa le teorie noi, semplificando, diciamo che di l à ci sono gli stati totalitari che negano la civiltà presente (nazi, bolscevici e fascisti), e d i qua ci sono le democrazie che la difendono. Ma sarebbe semplicista restare a questa definizione, quando noi possiamo fare agli imperi democratici un vero processo per tutte le loro manchevolezze ed errori. Anche questi oggi scontano ima politica egoistica, quando l'esperimento della Società delle nazioni poteva dare risultati tangibili in tutti i campi della vita internazionale, quello economico compreso. Quel che oggi è da esaminare è proprio il problema capitalistico, che dà grandi motivi a temere anche dal lato delle democrazie. 19 maggio 1941.

(Arch. Cart. 2 , I l ) (non risulta pubblicato)


PRESUPPOSTI E CARATTERI DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA

Questo antico nome romano per i suoi tre significati fondamentali distingue l'interesse pubblico da quello privato, ne fissa la consistenza autonoma, ne caratterizza il fine che è il bene comune. La parola stato » che in confronto è assai recente, fu usata a differenziare l'amministrazione della cosa wubblica da auella privata, che nelle monarchie della rinascenza si confondeva nella casa, nel patrimonio e negli interessi delle dinastie regnanti. Però l'accento fu messo sull'organismo politico, come entità superiore, trascendente la collettività governata e, in quanto tale, subordinata ai suoi fini. Donde la teoria della ragion di stato e la identificazione fattane dai sovrani del tempo e riassunta nella celebre frase di Luiai " XIV: « L o stato sono io 1). A marcare un ritorno al principio degl'interessi finalistici della collettività fu ripreso, durante l a rivoluzione francese, il nome di res publica (république) anche quando ancora vi era un re (Luigi XVI), riportandolo così al significato originale romano: mentre con la warola nazione fu indicata In collettività che sicondo i casi o cimprendeva il re o vi si opponeva. Nella elaborazione rivoluzionaria e ~ost-rivoluzionariasi andarono, in Francia e altrove, precisando o alterando i significati di tali parole: repubblica rimase a indicare il regime popolare presidenziale ( i n opposizione a monarchia e a impero personale); stato fu preso per il compIesso strui~uralepolitico-giuridico-amministrativo della nazione; nazione per la personalità collettiva di un determinato popolo, l a sua storia, la sua posizione specialmente in confronto agli altri stati e alla comunità internazionale. A


I n certi momenti e con vari significati, si aggiunse il nome di popolo a quello di nazione, ora per significare la sorgente del potere politico e la espressione della volontà generale; ora per affermare gl'interessi sociali delle classi lavoratrici che dovevano essere tutelati dallo stato o rivendicati con azione diretta. Questi accenni mi portano a l tema che mi propongo di esaminare brevemente: quale il rapporto e il dinamismo fra la struttura dello stato e i tre aspetti della società. politica indicati dai termini di repubblica, nazione e popolo.

Popolo Cominciamo da C( popolo D, perchè nella formazione della mentalità politica moderna la nozione di popolo è stata assunta ora come l'antagonista dello stato ( o di una certa forma di stato); ovvero come la genuina e fondamentale espressione dell a futura società politica nella quale lo stato moderno dovrà dissolversi; e infine come i l « demos » che si governa da sè e a proprio vantaggio, che sarebbe il vantaggio di tutti. A fissare questi punti ricordiamo alcune fasi delle tendenze politiche ( o politico-sociali) già formatesi nel secolo scorso: l'ideale sindacalista rappresentava la tesi dell'antagonismo del popolo allo stato; i l comunismo rivoluzionario (parecchio diverso dal comunismo presente in Russia o altrove) tendeva alla risoluzione dello stato nella società economica egualitaria; la democrazia pura cercava la realizzazione di u n vero governo « del popolo, dal popolo e pel popolo D. Uscendo fuori dalle idealità teoriche, e seguendo le fasi dei partiti operai a tinta socialista, popolo fu identificato con la massa dei lavoratori, che rivendicavano i loro diritti e che auspicavano l a rivoluzione sociale. Naturalmente, gli altri non consentivano a che tale nozione di popolo fosse cosi limitata ( e politicamente monopolizzata). Però comunemente si indicò con popolo la tendenza ad allargare la base dello stato, a fare entrare nei partiti le classi lavoratrici, a livellare l e altre classi, dette ricche, borghesi, privilegiate, sì da ottenersi una eguaglianza politica e sociale come si aveva ( o si presumeva di avere) una eguaglianza legale. Ne è derivato, da quasi due secoli di fluttuazioni, che la nozione di popolo, mentre può esprimere tendenzialmente una delle forme dello stato, la democratica, come l'equivalente della totalità dei cittadini che si governano da sè è indotta a indicare Io stato come tale, nelle sue caratteristiche di struttura amministrativa e di funzionalità politica. Al fondo ci stanno varie ragioni importanti che non possono


essere pretermesse. La prima che (( popolo » preso come espressione di tutta la collettività civica, non può essere riguardato allo stesso tempo e per lo stesso oggetto come « sovrano » e come « soggetto »,ma lo può essere funzionalmente, in quanto diviene (attraverso l'elettorato) uno degli organi dello stato a funzione particolare e precisa; o in quanto può influire, come opinione pubblica, sugli altri organi dello stato; o in quanto può, in u n determinato momento, esprimersi ( i n forma rivoluzionaria) COme antitesi delle classi che detengono il potere e si identificano con lo stato. Fuori di queste tre fasi, che chiamerei la costituzionale, l'agitatrice e la rivoluzionaria, il popolo, come collettività, non è affatto un potere organico nè si può identificare con lo stato. I n via generale i l popolo, come opinione pubblica, riesce ad essere una forza di controllo e di limitazione dello stato o meglio degli organi statali che si presume eseguano la sua volontà. Ciò avviene per una fondamentale esigenza della società politica, quella della limitazione' dei poteri. Un potere illimitato è potenzialmente un potere ingiusto. Quando si parla di monarca assoluto (come lerribus solutus) si fa un'astrazione di carat" tere giuridico. Nel fatto, l'antico monarca assoluto aveva u n potere limitato. Fossero i 1imiti.che gli ponevano la nobiltà di provincia e quella della corte, le chiese nazionali e il papato, le città libere e i corpi autonomi, il parlamento o gli stati generali, il fatto era non solo innegabile, ma entrava nel quadro dello stato, che senza quelle limitazioni (feudali, giurisdizionali s popolari, secondo tempi e luoghi) non poteva realmente articolarsi e funzionare. « Popolo », preso come la somma degl'individui di una collettività politica, è potenzialmente la forza sociale di controllo; ma non diviene effettivamente tale se non si organizza a questo fine. I1 semplice elettorato individualistico raramente riesce organico. Le circoscrizioni elettorali come tali non sono organismi viventi. I arti ti politici sono già un inizio di organizzazione delle masse elettorali, quando rispondono alle esigenze, alle tradizioni e alla psicologia del popolo. Ma, fino a quando non acquistano stabilità e non s'inquadrano nella struttura politica del paese (com'è negli Stati Uniti d'America), restano solo come punti di orientamento, come nuclei di coagulazione e mezzi di formazione di opinione pubblica. Donde avviene che i così detti partiti di massa a tipo europeo sono più adatti a interpretare 1s funzioni e le fasi popolari dell'agitazione e della rivoluzione, anzichè quelle statali di governo, amministrazione e politica. Tali partiti mal s'inquadrano

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a divenire classe di governo » e, se ci arrivano, mantengono, pur nel governo, le tendenze agitatrici e rivoluzionarie, ovvero si trasformano i n burocrazie di dittatura, lasciando per via l'estremismo d i partito. L'esperienza occidentale dell'inserimento dei partiti nella organizzazione dello stato, dalle rivoluzioni del secolo decimottavo a d oggi, ci mostra che il popolo come tale, non arriva mai ad essere una forza organica definita, ma resta sempre allo stato fluido di forza potenziale che si attua secondo le possibilità storiche e gl'impulsi occasionali. Però, sia a mezzo dei partiti o di altre enucleazioni storiche, (classi, comuni, società culturali, gruppi economici) il popolo è la matrice delle élites politiche e amministrative di uno stato. Queste élites si sogliono chiamare classe politica, che spesso si identifica con la borghesia ( i n opposizione a popolo) ovvero con le categorie colte, denarose, professionali delle città che per tradizione, capacità ( a parte l'intrigo) sogliono dare gli eletti alle cariche pubbliche e alle rappresentanze parlamentari. Sarebbe grave errore fare della (C classe politica D una categoria a parte o una sovrapposizione al naturale svolgersi dei nuclei sociali. Non si tratta di una vera classe; la categorizzazione è piuttosto a scopo didattico anzichè pratico. Perciò si preferisce l'uso della parola francese, les élites, gli scelti, non importa in qual modo venga fatta la loro selezione. Fra i l regime democratico e i regimi autoritari si ha la differenza che nel primo le élites si formano spontaneamente, liberamente; sono intercambiabili o per lo meno non sono fisse; si appoggiano al popolo, che nei comizi elettorali sceglie i propri rappresentanti politici e amministrativi. Non tutte le élites dirigenti emanano in democrazia direttamente dal popolo; però anche coloro che pervengono ai posti di potere o per elezioni di secondo o terzo grado, o per carriera burocratica, o per scelta diretta, operano sotto il controllo popolare e. sono influenzati dalle correnti politiche espresse dai partiti. I n conclusione, la nozione di popolo non s'identifica con quella di stato; il popolo come tale influisce sulla struttura e funzionalità dello stato in quanto può organizzarsi spontaneamente come elettorato, inquadrarsi nei partiti liberi, partecipare alle espressioni della pubblica opinione, provocare la formazione e deformazione dei nuclei dirigenti (classe politica). I1 popolo può essere nello stato una forza dinamica normalizzante quando la forma statale è la democratica; o quando, attraverso le libertà politiche, può arrivare per via di radicali riforme alla partecipazione di tutte le classi al potere politico e a l benessere sociale.


Nazione La (C nazione non s'identifica con lo stato, non solo perchè la nazione indica un'entità collettiva più complessa dello stato, ma anche perchè storicamente e psicologicamente trascende l a forma politica in cui può esprimersi. L'Italia di prima dell'unificazione era nazione benchè politicamente divisa e parzialmente soggetta allo straniero. Perfino l'Irlanda tenuta oppressa dal171nghilterra e la Polonia divisa in tre tronconi occupati dallo straniero, non perdettero mai la coscienza della loro nazionalità. La tendenza a far coincidere lo stato con l a nazione, a far rivivere nazionalità antiche e quasi spente, è stata abbastanza .recente ed h a coinciso con le rivoluzioni dei secoli decimottavo e decimonono, per le quali si risvegliò l a coscienza collettiva dei popoli e se ne affermarono i diritti politici. Così i l senso di nazione coincise con l'ideale di libertà. I1 popolo, fino a quegli strati poco sensibili che ne ebbero sentore d'istinto, partecipò al risveglio generale politico e alla formazione dei regimi costituzionali. Come il popolo fu chiamato sovrano ( e non si posero limiti alla sua sovranità), così la nazione fu elevata a suprema entità cui subordinare tutti gli altri interessi della collettivit*à. Popolo fu il termine preferito dai partiti di sinistra, facendone un mito o una divinità verbale; nazione 1) fu i l termine preferito dalla ricca borghesia, e fu elevato a mito o divinità cui tutto sacrificare per la sua grandezza. A parte gli eccessi ( e il nazionalismo è costato assai caro alle nazioni europee) lo stato rappresenta la nazione nei rapporti con gli altri paesi, per tutelarne gli interessi morali, culturali, politici ed èconomici, aumentarne i l prestigio e valorizzarne la potenzialità. Sotto questo punto di vista l'idea di nazione surrogò quella delle case regnanti, per il fatto che, dalla rivoluzione francese in poi, non era la grandezza l'onore o i l prestigio della dinastia, ma quello della nazione che si cercava di tutelare in guerra o in pace, con le armi e con i trattati. Le guerre furono, da allora in poi, non più dinastiche ma nazionali, così come nazionali e non regi erano gli eserciti, nonostante i titoli di regio che potessero portare, per tradizione o per attribuzione, i relativi corpi. Lo stato nei rapporti con la nezionr può considerarsi anzitutto come un aspetto della realtà perenne di u n paese, quello politico, realizzato secondo l e esigenze delle sue fasi storiche. Può anche essere, astrattamente, considerato come il garante deIla esistenza nazionale, sia nella sua unità interiore sia nella difesa da presunti nemici. Può infine essere, abusivamente, identificato con l a nazione in quanto coloro che detengono il potere


pubblico presumono di interpretare tutta la nazione ovvero ( i n forma totalitaria) riassumono in sè tutti gli interessi anche extrastatali della nazione, con la ben nota formula: « tutto nello stato, niente contro, fuori o al disopra dello stato ». Quindi la nazione si esprime politicamente nello stato, ma essa s i attua in tutte le altre forme primarie e secondarie ( l ) e in tutte le attività che individui e nuclei volontari svolgono liberamente sia nell'ambito del paese e sia negli altri paesi dove la loro azione è possibile. Se l'idea di nazione ci porta a riguardarla come u n tutto in sè completo, l'idea di internazione ci deve spingere a superare le angustie e le odiosità dei nazionalismi verso concezioni più larghe d i convivenza umana. La nazione ha u n suo dinamismo che affetta tanto lo stato come organismo del potere, quanto il popolo come sorgente del potere politico. Essa è la concretizzazione dello spirito di u n popolo, ne fissa la continuità storica, vi dà lo stampo educativo, ne crea l a possibilità di resistenza nelle avversità, ne foggia le tendenze in tutti i campi, ma specialmente nelle creazioni di poesia e di arte. La

cc

cosa

pubblica

Res publica qui vale per la totalità degl'interessi pubblici che l o stato amministra,. tutela, promuove, difende, rivendica. La cosa pubblica è sacra e va differenziata dalla cosa privata, ~ e r c h èripuarda il bene comune. È vero che in tutti i tempi " non mancano coloro che tentano di ridurre gl'interessi pubblici a vantaggio privato, o confondono i propri interessi con quelli pubblici, ma è anche vero che in tutti i tempi la coscienza collettiva h a reagito e reagisce tanto contro i malversatori e profittatori a danno del popolo quanto contro gli usurpatori del potere a danno dello stato. Non è facile tenere a posto coloro - individui, gmppi, partiti o classi - che tentano di trasformare l a cosa pubblica in affare privato. Non è il caso qui d'indugiarci nell'esame del periodo quando la cassa dei re e l'erario pubblico erano confusi, quando i regni erano patrimoni di case principesche, e l a concezione d i diritto privato prevaleva su quella pubblica anche nei rapporti politici e collettivi. Ma, nonostante l a nuova tradizione pubblicista e l a trasformazione operata negli stati moderni, noi dobbiamo rilevare anche oggi che si superano facilmente le prescrizioni del codice (1) Vedi Luigi Stnrzo, La società sua notura e leggi, Bologna, Zanichelli, 1960.


penale, nel tentativo di fare della cosa pubblica un affare privato. Lasciamo da lato i ladri, i profittatori, i malversatori individuali, che un giorno o l'altro si spera capitino nelle maglie della giustizia. Mettiamo pure fuori discussione i sistemi-tirannici dittatoriali nei quali la mancanza di limiti guridico-morali rende i capi propensi ad abusare non solo delle persone dei soggetti e dei loro beni, ma dello stesso erario pubblico: guardiamo i regimi democratici. La piaga dei favoritismi dei partiti è tale, per esempio in America, che partiti e privati non si rendono conto che ciò costituisce di fatto una piaga morale insanabile. I1 traffico degli uffici pubblici, degli appalti e delle concessioni, è cosa generale e usuale; nessuno se ne meraviglia e a nessuno viene più in mente di frenarlo e di opporsi. Accenno agli Stati Uniti di America non perchè sia un'eccezione o una specialità, ma per prendere spunto dal fatto che si tratta di una democrazia (C capitalista n che presenta proprie caratteristiche degne di studio. I1 fenomeno suddescritto si deve inquadrare nel complesso sociologico della reciproca limitazione di potere e possesso (l). Quando il potere pubblico e la ricchezza sono nelle stesse mani o in mani affini (classi nobili e ricche), allora le fazioni che si determinano all'interno delle suddette classi, si contendono poteri e ricchezze ; la limitazione ha un cerchio ristretto e lo sfruttamento del resto della società prende i nomi di schiavitù, servitù della gleba, proletarizzazione operaia e simili. Quando invece il potere e la ricchezza non coincidono com~letamente.al. lora il primo limita la seconda e viceversa, come avviene nelle democrazie moderne. In queste si producono fenomeni assai più complessi, secondo che le classi capitalistiche e quelle di lavoro hanno successivamente o simultaneamente interessi convergenti e posizioni antagoniste. Però tanto è più possibile il controllo pubblico del potere quanto più la ricchezza, o meglio il benessere, è diffuso, e cliianto più le classi meno desiderose di orricchire o meno legate alla ricerca dei mezzi di vita (normalmente le classi medie e i ceti artigiani e professionali) riescono a d essere elemento equilibratore nel dinamismo sociale. Da questo punto di vista, i partiti a base personale e indidualistica riescono ad influire più efficacemente di quelli larghi e reggimentati; perchè da un lato l'articolazione sociale si fa più agevolmente C dall'altro l'individuo trova modo d i emergere con le siie qualità morali, intellettuali e tecniche. E poichè c'è sempre il rovescio della medaglia, così il frazionamento dei par-

(1)

Vedi: Luigi Sturzo, Politics ond Morality, London, 1938, Cap. I .

20. STURZO - Nazionalismo e Internazionalismo


titi rende più difficile la solidità del potere e quindi anche il controllo della ricchezza. Pertanto, se si rimanesse sul gioco di forze d i classi e partiti, senza il passaggio dal terreno strettamente politico a quello morale, non si uscirebbe da un circolo chiuso e fatigante, dentro il quale potere e ricchezze non avrebbero altro che il carattere utilitario e privato (non importa se il privato fosse un individuo assunto alla dittatura o un gruppo di sfmttatori o un partito d i demagoghi). Occorre passare dalla dialettica delle forze politiche alla finalità statale: res publica indica un elemento morale fondamentale, il bene della collettività per il quale gli uomini al potere sono ministri e servitori del popolo, e ogni cittadino deve concorrere con i suoi beni e le sue capacità alla esistenza e allo sviluppo della società. Nella nozione di res publica i due termini di politica e morale si riuniscono per intima connessione, termini distaccati storicamente prima dalla ragion di stato che si confondeva con gl'interessi (spesso privati e personali) delle case regnanti, poi dalla concezione di volontà o sovranità popolare che £u concepita come illimitata; quindi dalla deificazione della nazione o dello stato o della classe, che assursero a primo politico e primo etico allo stesso tempo. L'idea res aublica è strettamente connessa con il nrincinio fondamentale di bene comune, che, come tale, abbraccia tutte le comunità politiche, dalla più piccola alla più grande e da quella nazionale a quella internazionale. Perchè non deve tendersi ad una res publica universale? Cioè al bene comune dell'umanità ?

(C

Popolo

in democrazia

È vecchia la disputa se. si dà libertà senza democrazia e democrazia senza libertà; tale disputa oggi si rinnova fra i democratici C( tradizionali » dell'occidente e i u nuovi )) democratici dell'oriente. A chiarire, preliminarmente, i termini della questione, occorre precisare cosa s'intenda per &mos (C popolo ». I n Grecia - donde abbiamo il termine democrazia - non erano considerati popolo n è gli schiavi, nè gli iloti, ma solo i cittadini. Così anche in Roma, dove al posto di una democrazia fu creata


la diarchia di senato e ~ l e b e(Senatus Populusque Romanus). I n regime feudale, i servi della gleba non erano cives neppur nelle gloriose repubbliche medievali. Ciò non ostante, nessuno nega che in Atene ci fosse stata una democrazia e che i n Roma repubblicana certi lati del regime fossero democratici e che democrazia ci fosse in molti comuni e città libere medievali e nei cantoni svizzeri. Nei tempi moderni, la prima e più grande democrazia sorse in America, dove la schiavitù durò per quasi un secolo e dove la discriminazione sociale e politica di razza non è scomparsa. Nei paesi scandinavi la servitù della gleba scomparve nel tardo ottocento. Nella Gran Bretagna il suffragio allargato (non ancora universale) ebbe inizio nel 1882 e il suffragio universale £emminile ne1 1920. I n Francia e in Italia le donne hanno ottenuto il diritto di voto nel 1945, e non ancora è stato loro dato in Svizzera, nel Belgio e nell'olanda. Questi cenni valgono a indicare che in democrazia « popolo » è una nozione che varia secondo i tempi e i luoghi, ma che non pertanto ne è la nozione basilare. Libertik e democrazia I1 secondo problema che nasce dal primo, è se dove c'è democrazia ci debba essere anche libertà. La risposta non può essere che affermativa, perchè non si può dare « crazia » dove il popolo (nel caso, il demos in atto, sia quello di Atene del secolo V avanti Cristo, sia quello degli Stati Uniti d'America del 1947) non sia libero di governarsi da sè. Qualunque sia la estensione materiale del popolo come « volontà politica collettiva n, nel SUO ambito ci deve essere liber&. Se questa non c'è non ci può essere un vero governo di popolo. Cicerone dice che l a libertà è l a partecipazione al potere, ed ha ragione sotto il duplice e combinato aspetto dei diritti civili e delle libertà politiche. I1 despota ha egli solo diritti e libertà; altri possono partecipare all'uso dei suoi diritti e delle sue libertà ma per concessioni unilaterali e temporanee, che il despota stesso può ritirare ad ogni momento. Nei regimi aristocratici, sono le famiglie privilegiate che godono diritti e libertà secondo graduazioni gerarchiche e tradizioni intangibili. Nei regimi misti, anche altre classi e corpi, terzo stato, città libere, corpi di mestiere, chiese, godono quella libertà caratterizzata da privilegi e franchigie, che hanno acquisito con le lotte, le rivolte e la congiura (Magna Charta in Inghilterra). Ma in tali casi si tratta di classi chiuse e privilegiate e non di popolo. La democrazia è solo tale quando l a


partecipazione al potere è un diritto inalienabile del popolo quello che in u n dato momento storico è reputato essere il vero popolo - che gode pertanto d i una sovranità che esso esercita o direttamente o a mezzo dei suoi rappresentanti. La libertà è quindi insita nella nozione di democrazia, sì che l à dove non c'è libertà non ci può essere democrazia reale ma solo apparente. Diritti civili e diritti politici La libertà comporta due aspetti, quello dei diritti civili ( o dell'uomo) e quello dei diritti politici. I primi: la legge uguale per tutti, il diritto alla vita, il diritto di proprietà, l'habeas corpus e così via, non possono essere negati a nessuno, sia in forma potenziale (minorenni, prigionieri, mentecatti, emigrati in corso di naturalizzazione) sia in forma attuale per ciascun cittadino uomo o donna. Ogni privazione di tali diritti è una lesione che affetta non solo l'individuo, che non ha così l a pienezza della sua capacità, ma l a stessa comunità; lede, quindi, in radice il regime democratico. Le franchigie politiche sono state fino a d oggi una conquista piii lenta; e p u r ammettendo che la discriminazione fra elettori e non elettori produce una grave mutilazione nel corpo collettivo del popolo (come per esempio la mancanza di diritti politici alle donne), la democrazia come tale, dato i l graduale sviluppo della coscienza politica, non perde la sua natura di regime d i popolo, se quella parte della popolazione che forma politicamente il-popolo-in-atto sia anche i l garante dei diritti di coloro che politicamente sono considerati come minorenni. Processo di democratizzazione politica I1 punto che differenzia il vecchio regime parlamentare degli stati o categorie da quello democratico (sia pure a u popolo n limitato), si è che il primo tende di sua natura a mantenere i diritti chiusi dentro i privilegi di ciascuno stato e quindi a fossilizzarsi, il secondo tende ad estendere la nozione di popolo fino a comprendervi tutti gli adulti; è quindi dinamico di sua natura. I1 processo di democratizzazione di u n paese è per se stesso u n movimento interiore, basato sulla coscienza generale che la comunità sociale ha u n diritto inalienabile d i governarsi da sè, diritto che va conquistando per processi graduali o rivoluzionari, contro coloro che lo negano per poter mantenere i propri privilegi. Questo processo è sempre in cammino, perchè mai una co-


munità arriverà alla pienezza statica di tutti i diritti, dato che coloro i quali li detengono tendono a conservarli per sè, e coloro che non ne hanno l'uso diretto e i vantaggi immediati, sono spinti a conquistarli. Onde avviene, storicamente, che i democratici di ieri (che conquistarono gli esponenti) spesso divengono gli antidemocratici di oggi, che vogliono sbarrare i l cammino alle altre classi o categorie di persone ( p e r esempio le donne e gli operai). Così si spiegano - i n paesi ad alta cultura e individualistici come la Francia - le lunghe difficoltà per assicurare una vera democrazia e i periodi di carenza democratica (terrore - Napoleone I .- restaurazione Napoleone I11 - Pétain).

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Processo d i democratizzazione economica Lo sviluppo progressivo della nozione di popolo nella struttura politica della democrazia, si avverte anche nella struttura economica. E allo stesso modo che i l lavoratore è arrivato tardi - pure in democrazie sviluppate - ad avere voce i n politica, così anche va arrivando solo da poco tempo a rivendicare un'equa partecipazione in economia. Ma la democrazia non sarebbe tale se mantenesse ordinamenti atti a fare da barriera alla partecipazione del lavoratore in politica ed in economia. La via delle rivendicazioni sociali è stata ed è dura e lunga, ~ e r c h ècomporta serie trasformazioni, che sono rese possibili solo in regime libero e democratico. Un tempo si credeva che la democrazia fosse inadatta a soddisfare le esigenze della classe lavoratrice, e si presentarono due sistemi come opposti ad essa: il socialismo e il comunismo, ambedue basati sulla lotta di classe per la vittoria finale della classe lavoratrice. Ciò awenne sul piano storico, perchè democrazia fu intesa quella della borghesia o del capitalismo, per i l fatto che le classi possidenti hanno tenuto fino ad oggi in mano i l governo dei paesi retti a democrazia ed hanno sviluppato i n essi l'economia detta capitalistica con sfruttamento del lavoratore. Ai due sistemi si aggiunge verso la fine del secolo scorso quello della democrazia cristiana che accettò la democrazia dei paesi liberi come punto di partenza per l'attuazione d i una concezione sociale basata sulla collaborazione delle classi. La grande discussione dell'ultimo mezzo secolo è stata sull'interventismo di stato: se lo stato - i l potere politico - abbia il diritto e l a funzione di intervenire o no nelle competizioni economiche del paese e nei conflitti fra capitale e lavoro. La tesi contraria era appoggiata sul principio di libertà esteso dalla politica all'economia; la tesi favorevole (quella


che è prevalsa) era appoggiata sul principio del benessere comune. Ora nessuno più nega allo stato il diritto di intervento, a patto che non sia lesa la libertà economica nella sua radice. I socialisti i n maggioranza hanno accettato il sistema di democrazia libera a carattere sociale; i democristiani insistono un po' di più sul concetto di proprietà generalizzata che è garanzia di libertà; mentre i comunisti teoricamente, e dove è ~ O S sibile anche praticamente, rinunziano al concetto di coesistenza delle classi e d i 1ibert.à economica, per la tesi della dittatura del proletariato. Le u élites » politiche ed economiche Lasciando fuori quadro il problema della dittatura del proletariato, che non h a posto in democrazia, cerchiamo quale sia il dinamismo interno di una democrazia politica e sociale come sopra caratterizzata. Questo è dato dalla formazione dei nuclei politici e dei nuclei economici e loro interscambio. Chiamiamo , grave scandalo dei demagoghi che fanquesti nuclei é l i t ~ s con no appello alle folle. Se il termine non piace, se ne scelga un altro, la nozione rimane perchè è nelle cose. I1 corpo elettorale in America sceglie i suoi eletti per il senato, la camera dei rappresentanti, la presidenza, i governi degli stati, i sindaci dei comuni, i giudici, i consiglieri, e cosi di seguito. Tutti costoro, investiti di una funzione responsabile, formano già dei gruppi scelti. Ma poichè sarebbe impossibile per ogni elettore sapere chi dovrà scegliere e farsi valere per la scelta, i partiti politici ne sono gli organi, a loro volta con capi e organizzazioni che formano altri gruppi scelti. Lo stesso avviene nell'economia con la formazione d i nuclei scelti che emergono sugli altri e che ne sono gli esponenti, in una libera coesistenza di forze, sia dell'impresa sia del lavoro. I capi delle unioni e dei sindacati ne sono i gruppi scelti. Come i n America cosi in ogni altro paese retto a democrazia. La differenza fra democrazia e altre forme sociali si è che nei sistemi assoluti l'élite politica ed economica è stabilizzata per casta o classe, ovvero fissata per privilegio reale o tramandata per eredità, e determinata dal dittatore; invece in democrazia le élites sono spontanee, scambiabili o sostituibili, moltiplicantisi secondo lo spirito di iniziativa individuale e nucleare. È fuor dell'ordine naturale il livellamento assoluto della società, dove manchi l a nucleazione attiva e la direzione per centri e per organismi. La democrazia è caratterizzata dalla spontaneità di tale nucleazione, la sostituibilità degli individui, la maggiore preparazione del popolo a prendere posizioni di-


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rettive e di responsabilità e la formazione delle tradizioni libere del popolo che si governa da sè.

I tre limiti della democrazia I1 popolo che si governa da sè ha anch'esso dei limiti insuperabili sia derivanti dalla natura del potere sia derivanti dai caratteri della democrazia ; tre ne sono i principali : 1) I1 corpo elettorale non governa i l paese, ma designa coloro che governano il paese; non controlla direttamente e tecnicamente il governo, ma esercita un controllo morale permanente attraverso i l rinnovamento dei corpi eletti e per mezzo delle manifestazioni dell'opinione pubblica; non precisa i piani di governo, ma vi dà le linee attraverso i programmi dei partiti. La sovranità popolare esprime in valore morale indicativo e direttivo, quello che i corpi eletti tradurrapno in politica economica e leggi. Così il popolo stesso è limitato nella sua azione di autogoverno, e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere. 2) Altro limite alla volontà popolare è dato dalla legge morale naturale. Si discusse ( e si discute) se questo limite esista e se sia efficace, perchè sul terreno positivo non potrebbe esservi nessun altro potere organico a limitare la volontà popolare una volta espressa, tranne una propria revisione. Così avvenne negli Stati Uniti con il proibizionismo che attuato per volontà popolare, non ci fu altro mezzo per eliminarlo che l'appello alla stessa volontà popolare. È nella natura della sovranità che non ci sia altro sovrano sopra il sovrano. Anche in regime assoluto non c'è che il monarca stesso a correggere il suo errore, annullando una legge da lui precedentemente emanata. È vero che, dal punto di vista obiettivo, una legge immorale (che urti la legge naturale), sia essa emanata dal re o stabilita per volontà di popolo, non ha valore di legge e non vincola in coscienza coloro che sono convinti della sua immoralità, come fecero i primi cristiani nel rifiutare l'incenso agli idoli. Ma dal punto di vista della legalità materiale, la stessa volontà sovrana che l'ha voluta deve essere quella che deve cassarla. Sta perciò a coloro del popolo che sono avvertiti della immoralità intrinseca di una legge a opporsi alla sua introduzione (come avvenne nelle elezioni del 1944 nel Massachussetts circa l'emendamento sulla limitazione delle nascite) ovvero a impegnarsi a farla annullare (come è il caso delle leggi discriminatorie di razza in vari stati americani). I1 limite etico è intrinseco all'istituto della sovranità, perchè istituto umano e razionale; onde non si comprende perchè


certi sostenitori della sovranità popolare del secolo diciannovesimo la presentarono come illimitata e certi filosofi cattolici la combatterono perchè illimitata. 11 loro equivoco fu non sulla natura vera della sovranità, ma su altro ounto. I tradizionalisti della sovranità dei re, ammettendo che l'autorità viene da Dio, ne accettavano la limitazione morale: mentre i fautori della sovranità popolare appoggiavano la loro tesi sopra un naturalismo assoluto che prescindeva dalla nozione di Dio e quindi dalla limitazione della legge morale. L'errore però stava nelle premesse interpretative di un fatto sociale ( l a democrazia) che si andava attuando a spese della concezione del diritto divino dei re, il quale era tutt'altro che il limite etico al potere, sì bene una creduta investitura divina del potere assoluto della monarchia. Caduta simile concezione (che non aveva fondamento nell a tradizione cristiana), ,, non restava che ritornare alla concezione del popolo, sia implicita che esplicita, dalla quale far derivare gli organi sociali di autorità. 3) I1 terzo limite è dato dalla natura stessa della democrazia, che attuata tende a svilupparsi e a consolidarsi. Ma ooichè non ootranno mancare mai concezioni politico-sociali .. antidemocratiche sì che nessun regime è mai sicuro di sè, così il popolo pone una specie di limite a se stesso di non violare i l patto che costituì in essere la democrazia. Questo patto è detto costituzione o statuto, e a guardia di questo patto stanno organi speciali che hanno il diritto di annullare l e leggi che possono violarlo. È vero che lo stesso popolo che fissò la costituzione può farvi cambiamenti e aggiunte, ma se gli emendamenti preposti feriscono Eo spirito della costituzione e ledono i l principio democratico, allora il popolo deve respingerli; i l popolo ha un limite che non può sorpassare, pena la cessazione della democrazia. Come il suicidio è contro la natura. così il w o ~ o l oche delibera di privarsi dei suoi diritti commette un suicidio politico : cessa di essere « popolo ». Questo fatto è avvenuto in tutte l e democrazie, ed h a dato luogo o a guerre civili e di secessione (Svizzera, Stati Uniti d'America) o a dittature militari (Francia: Napoleone I e 111; Inghilterra: Cronwell); o a dittature totalitarie (Italia: htussolini e Germania: Hitlerl e così via. Ci sono popoli che hanno superato le crisi, altri no. Questa è storia. I1 principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare. A

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Il valore dell'autolimitazione in democrazia La domanda che viene naturale allo studioso come all'uomo

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comune, è come poter far valere, in regime di libera democrazia, i tre limiti sopra descritti: l'organico, l'etico e il politico. Giuristi, filosofi e statisti hanno affacciato varie. soluzioni, e le teorie hanno oscillato da quella teocratica moralista di un limite allo stato a quella dialettica immanentista dello stato limite a sè stesso. Nella pratica, la democrazia moderna andò verso la tesi dello stato limite a se stesso, cioè dello stato illimitato, che degenerò in stato panteista (totalitarismo), negando la stessa libera volontà popolare. I1 problema del limite a tale volontà rimane insoluto, se non si creano nel popolo le condizioni etico-psicologiche, per le quali esso stesso impone a sè i limiti che non può oltrepassare. Si tratta di convinzione, di senso del dovere, di coscienza che si ha delle responsabilità che impone il vivere in democrazia. Come il monarca assoluto dei passati regimi doveva avere coscienza dei suoi doveri e dei limiti naturali ed etici della sua sovranità, e se non l'aveva comprometteva sè e i l bene del suo popolo, così il popolo sovrano ( p e r chiamarlo con l'amplificazione retorica di un tempo) deve avere coscienza della sua responsabilità e dei limiti del suo potere; se non l'ha perde se stesso e la democrazia che l'incoronò sovrano. Si tratta di rendere edotto il popolo della sua funzione perenne e fondamentale in democrazia, sia come elettorato, sia come opinione pubblica, sia come matrice degli uomini dirigenti della politica, dell'economia, della cultura, della tecnica; sia per lo spirito di riforma che deve animare le correnti ideali o mistiche, sia per i l carattere di stabilità che si deve dare agli istituti politici, sia per la formazione delle tradizioni locali e nazionali, che tengono legate le nuove generazioni alle precedenti in una spirituale continuità della democrazia di oggi con quella di ieri, nonostante i dovuti cambiamenti e sviluppi. La libertà e la democrazia sono beni spirituali (prima che regime politico) che debbono essere conosciuti, amati e difesi. Come tali partecipano della verità e dell'amore che anima ogni ascesa sociale. Senza verità e amore ogni società decade e si riduce al caos della menzogna e dell'odio. Ne abbiamo visto gli esempi. Perciò è da augurare che le democrazie moderne siano basate sulla verità e sull'amore sociale. come valori ~ e r e n n ida conquistarsi e da realizzarsi sempre e da estendersi da per tutto, nei singoli stati e nelle unioni di stati, e da difendersi sempre e dovunque con convinzione. Perciò diciamo che i l popolo deve avere coscienza di cosa siano democrazia e libertà e quali sono i suoi doveri e le sue responsabilità.


Un'esperienza storica che fu iniziata quasi cento anni addietro e che, con varie fasi di sviluppo e non poche crisi, è emersa con maggiore energia dalla guerra, non può non essere basata sopra una propria teoria, e come si usa dire, una propria filosofia. Tale è il fatto della democrazia cristiana. Perchè non ci siano equivoci intendiamo fissare i contorni storici della democrazia cristiana con le due tendenze che si svilupparono presso i cattolici europei nel periodo post-napoleonico, q u ~ l l apolitica a £avore del sistema costituzionale con a base le libertà politiche, e quella sociale per la riabilitazione morale economica e politica delle classi lavoratrici. I1 primo leader della democrazia cristiana, che ne intuisce l'avvento storico e la ragione sociale e cristiana fu Federico Ozanam, noto per i suoi scritti e l e conferenze d i San Vincenzo ch'egli fondò; il pioniere più amato dalle folle fu i l domenicano Lacordaire; l'economista e sociologo più insigne, l'italiano Giuseppe Toniolo. I1 prete-deputato del centro germanico, Franz Hitze fu il precursore delle leggi sociali a favore degli operai. Noto tra i tanti l'organizzatore degli operai cattolici francesi e insieme il padrone di fabbriche in Val-des-bois, Léon Harmel; lo statista svizzero Gaspar De Courtins; il teorico belga Charles Perin ; i tre famosi cardinali : Manning d'Inghilterra, Mermillod di Svizzera e Gibbons di America, e moltissimi altri, che formano la grande schiera della democrazia cristiana del secolo XIX. Le esperienze sociali e politiche immediate e le altre fra l e due grandi guerre, portano a risultati di primo ordine con l'internazionale operaia di Utrecht e la sua rappresentanza nell'ufficio internazionale del lavoro a Ginevra, i partiti politici democratici d'ispirazione cristiana in molti paesi d'Europa con al centro un segretario internazionale a Pari~i. l"capi del totalitarismo italiano e germanico mirarono ben tosto alla liquidazione di tale movimento, come il più ostile allo spirito di dittatura, e, ancora di più, come un ostacolo alla benevolenza del clero e dell'ala conservatrice cattolica, sempre forte presso l'opinione pubblica. La lotta fu impari di fronte alla persecuzione armata, quale fu in Italia, e alla denigrazione morale e nazionalista, quale in Germania. Ma più ancora per una propaganda pseudo-religiosa, per cui la resistenza alle dittature fu presentata subdolamente come motivo d i un'imminente persecuzione alla chiesa, ad evitare l a quale fu da molti


creduto opportuno cedere sul fronte politico e abdicare ai diritti e alla libertà dei cittadini. Negli altri paesi la resistenza democratica si attenuò mano mano che il conservatorismo cieco e il nazionalismo reazionario presero i l sopravvento. Gli ultimi a cedere, col sopravvenire della guerra, furono il segretariato di Parigi (nel 1939) e l'unione internazionale operaia di Utrecht (nel 1940). I1 movimento democratico si rifugiò a Londra, formando un centro in esilio (l'unione internazionale democratica cristiana), per merito del P e o p b and Freedom Group di Londra, che con il suo foglio mensile, tenne alto il nome e la difesa della democrazia cristiana. mentre nella Svizzera Italiana (Canton Ticino) continuò per tutta la guerra e continua ancora a pubPooolo e Libertà che da tant'anni combatte a blicarsi i l £odio " favore della democrazia cristiana. I gruppi d i Popolo e Libertà si van diffondendo anche in America. Finalmente. mano a mano che andavano emergendo dalla " guerra le nazioni liberate, ritornava a sventolare la bandiera della democrazia cristiana. che ha combattuto nelle ore oscure della resistenza nei paesi europei. Così in Italia, fin dal luglio 1943, così in Francia dal luglio 1944, così nel Belgio, in Olanda, nel Lussemburgo, in Cecoslovacchia e Polonia. Nulla sappiamo della democrazia cristiana in Lituania, che prima della guerra vi aveva un centro e un giornale. Anche in Austria, in Ungheria e i n Germania - che ebbe nell'ala sinistra del centro e nei sindacati cristiani una tradizione realmente sociale e sotto vari aspetti democratici - è riapparso il nome e il contenuto della democrazia cristiana. La profezia di Ozanam del 1848 viene oggi a realizzarsi come un frutto maturo, dopo un secolo di tentativi e di dure esperienze (l). Autonomia della .democrazia cristiana Si suole confondere la democrazia cristiana con il movimento sociale dei cattolici a favore delle classi operaie, secondo gl'insegnamenti pagali, fra i quali i più noti quelli dati colle encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo Anno di Pio XI. (Non cito la Graves de Communi di Leone XIII perchè superata dalla Quadragesimo Anno dai punto di vista delle

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Vedi Luigi Stuno, La chiesa cattolica e la democrazia cristiana,

Roma, Seli, 1945.


questioni sociali) ( l ) . Nel fatto, la democrazia cristiana, avendo preso carattere politico, con la formazione dei partiti democratici cristiani e popolari ( e l'adesione dei vecchi partiti cattolici che, adottando larghi programmi sociali, si andavano orientando verso la democrazia) ha superato lo stadio di una semplice attività a favore delle classi operaie e si è posta sul piano politico con programma e azione propria. Quest'è stata ben distinta da quella di altri nuclei cattolici per lo più conservatori, che si sono interessati (sia i n forma di partito o nuclei di partiti, sia come partecipanti ad altri partiti, sia solo come ~ e r s o n a l i t à eminenti e indipendenti) alla vita politica dei propri paesi, curando in modo speciale gli interessi religiosi messi in pericolo dai partiti liberali e socialisti a tinta anticlericale. P e r arrivare al piano specifico della democrazia cristiana, occorre pertanto distinguerla anzi tutto dalla chiesa cattolica come gerarchia insegnante e come massa di fedeli. I democratici cristiani sono stati e sono, nella loro stragrande maggioranza, dei fedeli cattolici devoti alla chiesa e curanti dell'osservanza dei precetti cristiani; hanno avuto anche appoggi da vescovi, e da papi, secondo i tempi e i luoghi; sono stati anche tenuti in sospetto, criticati, eliminati da posti di responsabilità nella chiesa e nell'azione cattolica, sempre secondo i tempi e i luoghi ( p e r colpa loro o per colpa di altri non importa). Basta citare l'abate Naudet in Francia a cui fu imposto di non scrivere più e non parlare più e la passò così per quasi venti anni fino alla morte. Basta ricordare Marc Sangnier di Parigi, che subì con disciplina l a condanna della sua associazione Le Sillon (che fu trasformata in organizzazione dipendente dai vescovi) a cui si deve la fioritura in Francia della gioventù democratica cristiana dal 1900 in poi; e anche le lotte amare contro mons. Michele De Andrea di Buenos Aires (oggi vescovo in partibus), e così via. Allo stesso modo, riandando la storia, troviamo anche la condanna dell'dvenir e implicitamente di Lamennais, Lacordaire e Montalembert nel 1832, l'esilio in Francia di padre Gioacchino Ventura (già generale dei Teatini) nel 1849. Questi ricordi servono non a giustificare coloro che subirono i provvedimenti della disciplina ecclesiastica, nè per gettare ombra sulla gerarchia della chiesa, ma a dimostrare come il movimento democratico cristiano ha fatto l a sua esperienza ed h a creato l a sua base teorica e l a sua attuazione pratica, in (l) Per le retta Interpretazione di tale enciclica leggere pagine 31 e 32 del suddetto opuscolo.


forma autonoma, pur dentro la grande esperienza del pensiero e della attività cattolica. Infatti, senza il fondo del cristianesimo non poteva svilupparsi una vera forma di democrazia cristiana, anzitutto perchè l a democrazia moderna è frutto di civiltà cristiana, ed ha poco in comune con l e forme della democrazia classico-mediterranea di prima del cristianesimo. Secondo, perchè dando valore prevalente alla moralità nella vita pubblica, era naturale che si appoggiasse sulla tradizione morale del pensiero giudeo-cristiano quale base storica e ideologica della civiltà moderna. La crisi della moralità pubblica I1 problema che si pose ai cattolici nel secolo XIX, e che si pone anche nel nostro secolo, dopo l'esperimento tragico di due guerre mondiali, è proprio quello della moralità nella vita pubblica. Tale problema ci si presenta, di epoca in epoca, come non risolto nelle sue applicazioni pratiche e anche nei teoremi che ne influenzano le risoluzioni, non ostante che salendo fino a i principii generali, si trovi la perfetta coincidenza con gl'insegnamenti del cristianesimo. La ragione dello scarto, che si nota in ogni epoca, fra i principii generali della moralità pubblica e l e pratiche applicazioni, deriva anzitutto dalla complessità delle posizioni politiche e dai conflitti di diritti e doveri dei nuclei sociali fra di loro e degli individui nel loro simultaneo rapporto con le varie comunità a cui necessariamente o liberamente si appartiene. Da qui la differenza non solo di accentuazione su questo o su altro problema sociale, ma anche la differenza di teorizzazione, al punto da trovare oggi tollerabile, e da reputare non repugnante a natura (come nel caso della schiavitù) quello che in epoca successiva sarà giudicato contrario ai diritti della personalità umana, cioè la parte più elevata e razionale della natura stessa. Ciò è dovuto non solo alla difficoltà usuale a vincere i pregiudizi sociali dei fatti stabiliti e gli effetti stessi delle tradizioni, ma anche al processo assai lento e non sicuro con il quale la razionalità umana arriva a far proprie le verità pratiche e metterle in completa corrispondenza con i principii teorici. Non è solo il (C video meliora proboque, deteriora sequor » che c'impaccia perfìno nella ricerca della verità; è anche l a zona buia che separa i due estremi dell'intellettualismo e del pragmatismo, e che rende spesso inintelligibili le connessioni fra ragione teorica e ragione pratica. Nessuna meraviglia se, anche oggi, ci siano coloro che non si rendono conto del valore etico della democrazia, concepita

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idealmente, perchè non vedono la possibilità della realizzazione pratica d i una vera democrazia. Essi sono legati dal peso di un passato razionalistico, intellettualistico o scolastico, di coloro che si sono sempre pronunziati contro la democrazia politica, e non hanno mai affrontato le questioni della democrazia economica : che hanno sostenuto e difeso l'autoritarismo delle monarchie assolute, i l monopolio governativo delle aristocrazie storiche, che han legato le sorti dei popoli ai diritti patrimoniali delle dinastie, e che hanno combattuto le forme rappresentative volute dalle borghesie del secolo scorso, che han temuto sempre l'avvento del quarto stato perchè creduto un estremismo sociale, ovvero giudicato come inattuabile, e quindi anarchico. Gli eventi storici sono stati più forti delle teorie; l e rivoluzioni americana e francese hanno segnato una nuova fase nella storia dell'umanità. Sventuratamente, prima che una separazione puramente politica fra chiesa e stato si effettuasse, si andò maturando una separazione profonda fra morali& pubblica e pensiero cristiano. Le democrazie moderne naccruero sotto la stella dell'umanitarismo, del naturalismo, del positivismo. La stessa democrazia americana (che non fu, di fatto, concepita come democrazia vera se non più tardi), benchè mantenesse un'ispirazione deistica nella dichiarazione di indipendenza e una tradizione religiosa ben diffusa nella popolazione (cosa del resto che - a parte l'anticlericalismo di reazione dovuto a fattori storici - non mancava in Francia), subì gli effetti di filosofie politiche razionaliste e positiviste. Nel campo pratico si arrivò presto o tardi alla separazione dello stato dalla chiesa; passo che era storicamente implicito nella denunzia del regime delle monarchie assolute legate alle chiese « stabilite D, ma che diede per risultato lo sviluppo di un agnosticismo religioso nella classe dirigente e nella scuola, con il quasi abbandono della concezione di una morale naturale e religiosa per andare verso le teorie di morale storica, relativa,, fluttuante, indipendente dalla religione in genere e dalle religioni positive in particolare. Tale processo, che indichiamo in oche linee, non fu nè rapido, nè *costante, n è in varie zone sensibile. Ma permeando l a classe studiosa nell'insegnamento delle sociologie e delle filosofi? politiche e nella prevalente concezione statale, invase le legislazioni, prese il posto delle tradizioni cristiane e diede corpo ad una particolare moralità, pubblica e privata, che fu definita maniera di vita d i ciascun . popolo o nazione. Ciò non ostante, i l patrimonio della morale cristiana non f u completamente perduto; viveva ancora come morale naturale


in quelle zone dei codici e delle legislazioni di ciascuno stato, cbe avessero a che fare con comandamenti che riguardano l a giustizia commutativa, certi aspetti della vita di famiglia, certe zone della vita sociale. Di spirito cristiano (consciamente o no) si andavano imbevendo non pochi degli istituti sociali moderni circa i rapporti fra capitale e lavoro, circa le previdenze sociali e gli istituti pubblici di beneficenza e d'assistenza. Ma a rendere sempre più precaria e instabile la moralità pubblica influiranno tre eresie moderne ; quella dell'autonomia dell'uomo da ogni soggezione religiosa, sia in nome dell'idealismo hegeliano che in nome del positjvismo comtiano; quella del materialismo storico di marca marxista; infine quella del pragmatismo agnostico e del relativismo storico, che toglie ogni valore etico agli atti umani. Conseguenza: la ricerca di un assoluto politico, senza il quale non si avrebbe dove agganciare la fluttuante barca della società. Primo in ordine di temr~olo stato: lo stato « illimitato », come espressione della volontà collettiva; se ne cercò l'ispirazione in Rousseau e divenne lo stato fonte di diritti. Ma ponendo lo stato al di fuori di ogni limite etico, si arrivò a farne anche una fonte di eticità; lo stato etico degli hegeliani di cui fu pontefice (sotto il fascismo) il filosofo Giovanni Gentile, e lo stato nazionalista di Charles Maurras in Francia. I1 secondo assoluto fu la classe oroktaria. come unificatrice di ogni interesse politico riespresso in termini economici: il profeta ne fu Lenin; con questi finì l'esperimento del comunismo russo; i l seguito di Stalin è già sul piano nazionalista-imperiale. I1 terzo assoluto fu la razza deificata nella concezione germanica: Fichte ne fu il profeta e Hitler il demone. La moralità pubblica, nei tre casi, si identifica con la divinità dello stato o nazione, della classe, della razza, sottoponendo l'individuo ad una volontà totalitaria e incrollabile. Come la natura ha le sue forze che reagiscono a tutte le malattie (eccetto all'ultima che è quella mortale), così anche negli esperimenti totalitari, le forze interne di contrasto e di rivalutazione influiscono (dove più dove meno) ad attenuare gli effetti etici e politici e a creare le reazioni salutari, appena i l gioco di forze contrastanti consente i margini di evasione o di resistenza. È in forza di tali resistenze naturali, che anche i totalitarismi non possono creare vere, stabili e profonde convinzioni « panteistiche » dello stato, della nazione, della razza, della classe, per cui la ragione umana cerca d'istinto le leggi etiche che si appoggiano sui diritti della personalità umana, e va ancora più a fondo, a domandarsi chi d,à valore a questa fondamentale razionalità che è l'animatrice della vera personalità.


Alcuni credono che la ricerca di un primo etico nei rapporti politici sia un ritorno alla vita metafisica dello scolasticismo medievale, ovvero a l razionalismo e al giusnaturalismo dei secoli XVII e XVIII; un guardare indietro e non andare avanti. Essi non si accorgono che le involuzioni di pensiero servono a ulteriori sviluppi, in cui il passato si riflette sotto altri aspetti nel presente e prepara l'avvenire. La ricerca del primo etico un tempo era guardata come pura speculazione filosofica, o come necessità spirituale dell'individuo e in questo secondo caso si confondeva con le esigenze religiose di ciascuno d i noi. Oggi il primo etico si guarda dal punto di vista sociologico; se manca un appoggio assoluto all'etica, l a società resta senza orientamento morale; e se l'etica è un puro prodotto ideale, l'idea sarà variabile secondo la varietà dei nuclei sociali e del loro sviluppo. Così siamo obbligati a rivedere tutto il problema sociologico, e trovare che in fondo la società non è che l a proiezione simultanea e processuale delle attività della personalità umana concretizzata negli individui che, o necessariamente o volontariamente, cooperano fra di loro. Da tale revisione emerge, come fattore sociale e come costante etica, l a personalità umana, onde i l problema fondamentale è come la società possa ridursi alla personalità, e come la personalità possa animare l a società. Tali processi, nel loro reciproco influsso, acquistano equilibrio sui piani culturali, politici ed economici, quando l a razionalità ha la prevalenza sulla pseudorazionalità e sulla irrazionalità (che giocano il loro ruolo sociale atteggiandosi a razionalit4à); quando nel campo pratico si arriva a trovare l'equazione fra legge razionale e la sua applicazione etica. Così si arriva alla trascendenza necessaria nel processo umano, della razionalità-eticità che imprime alle varie attività della vita in società i l loro significato di valore interiore e permanente. Caratteri dellà democrazia cristiana La caratteristica che differenzia la democrazia cristiana da ogni altra formazione ideale politica del tempo moderno, sta anzitutto nella particolare concezione di democrazia (che alcuno ha chiamato moralistica facendone una critica infondata ( l ) la

(l) In Race, Nation, Person (Barnes e Noble, New York) un autore francese che essendo allora sotto la dominazione nazista non ha firmato, ma che daiio stile è riconoscibile da chi ha abitudine ai suoi scritti, a pag. 379 ettacca i democratici cristiani come quelli che fanno del moralismo trascurando gli elementi di forza, la tecnica politica e ciò che appartiene all'ordine temporale. La critica, dal punto di vista dei fatti, è infondata ( o forse


quale teoricamente e praticamente ha una base diversa dalla democrazia moderna non ostante le coincidenze storiche e tecniche. Ne seguiamo alcune linee: 1. La democrazia moderna e la democrazia cristiana coincidono nell'affermare che vera democrazia è il governo del popolo, dal popolo e pel popolo. 2. La democrazia non sarebbe reale senza l e libertà politiche della parola, della stampa, delle riunioni e del voto, pur ammettendo che tali libertà debbono avere un minimo di regolamentazione sì da non divenire, per abuso, dannose alla società stessa. 3. La democrazia moderna non può esistere e funzionare senza parlamenti e deve tendere a mantenere distinti i poteri statali: l'esecutivo, il legislativo e il giudiziario. 4. La democrazia non può concepirsi se non è basata sulla giustizia sociale si da evitare lo sfruttamento economico di classi o categorie sociali, e dare a tutti l'opportunità per i l loro benessere e miglioramento. Questo schema, che è in comune con tutti i democratici moderni, se si guarda bene, è formalistico o intenzionale, si da potemi comprendere tutte le forme di democrazia che dalla fine del secolo decimottavo ad oggi sono state realizzate in tutte le parti del mondo. Non mancano certi democratici puri, p"1U O meno alla Rousseau, che negano anche oggi che una vera democrazia sia mai esistita sotto la luna. I pensatori cattolici, di fronte alla prevalente teorizzazione naturalistica della società moderna, sono stati inclini a condannarne le tendenze dette liberali e democratiche confondendo spesso i presupposti filosofici o sociologici delle teorie correnti con gli istituti politici. Ne è seguito che i regimi rappresentativi e democratici sono stati realizzati al di fuori o contro l'influsso della chiesa, facendo le proprie esperienze, attraverso una serie di crisi ben naturali, ora in intesa ora in contrasto con certe ali cattolico-politiche, mentre la critica cattolica usuale (trasportata dal campo dei principii alla polemica della politica quotidiana) si è presentata, in molte istanze, specie nel secolo scorso e nel si riferisce a casi particolari a conoscenza dell'autore). L'accusa generale di guardare i problemi politici dal punto di vista della morale cristiana (dicendo che democrazia e cristianesimo sono su due piani differenti) presuppone quel che per ogni buon filosofo è assurdo, cioè separare l'attività umana da ogni giudizio etico precedente, e lasciarla solo sotto il giudizio di utilità pratica. Se questo non è ( e la professione cattolica dell'autore lo vieta), la critica a a certi democratici cristiani n e non alla « democrazia cristiana n doveva farsi sul loro paiticolare atteggiamento di aver trascurato le passibilità dell'azione politica, non al fatto di accentuarne il valore morale.

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periodo fascista, come negatrice delle stesse libertà politiche e delle forme democratiche di governo. Su tale incomoda posizione dei cattolici ha influito il fatto che i maggiori scrittori sono stati uomini di chiesa, che per i l loro abito mentale sono più logici degli altri ( e qualche volta anche un po' consequenziari) ed hanno avuto l'abitudine di valutare i fatti dallo stretto punto dei principi. Onde, dato che, p e r esempio, il padre della democrazia sia Rousseau, vi sono quelli che hanno valutato la democrazia di Francia dal 1789 in poi, come unfapplicazione o un teorema matematico ( a l di fuori degli avvenimenti storici), alla luce della parola e delle ;dee del Contratto Sociale. I n America, prevale presso la cultura ecclesiastica l'idea che la democrazia degli Stati Uniti non derivi affatto da Rousseau, ma dallo spirito cristiano dei « padri fondatori che furono felici nel mettere delle frasi teiste nella dichiarazione d i indipendenza. Così la de.mocrazia americana - che non h a molte differenze con le democrazie europee da1 punto di vista fondamentale (governo di popolo, libertà di parola, stampa, riunione e voto) e solo ne differisce nel meccanismo pratico - h a avuto . l'appoggio aperto (benchè teoricamente qualificato) dei pensatori cattolici. Dico « teoricamente qualificato » perchè, dato l'atteggiamento del papato durante le rivoluzioni europee e americane e date le lotte religiose che ne seguirono nei paesi cattolici, era naturale in molti l'attitudine di guardare più il passato da conservare che l'avvenire da guadagnare. Dall'altra parte, quei cattolici che partecipavano alla vita pubblica dei paesi liberi, sia i n posti rappresentativi e governativi, sia come esponenti di partiti o di stampa, sentivano l'importanza delle nuove posizioni popolari, e i vantaggi che potevano derivarne alla religione stessa, se gli ecclesiastici avessero abbandonato la critica negativa e la concezione conservatrice di un passato che non poteva più ritornare. Costoro nel secolo scorso furono chiamati « cattolici liberali » dal punto di vista politico, e « socialisti cristiani dal punto di vista sociale. Solo dopo la pubblicazione delle encicliche di Leone XIII (specialmente Libertas, Humanum Genus e Rerum Novarum), spuntò i l movimento audace della democrazia cristiana che ereditò lo spirito delle correnti liberali (nel senso di governo ~ o p o l a r e ) e delle correnti sociali (nel senso di riforme economiche) dell'ala cattolica progressista. Ne avvenne una differenziazione che si è perpetuata fino ad oggi, con crisi varie e allo stesso tempo con una intensa revisione delle posizioni filosofiche del pensiero cattolico. Pensatori come Maritain e Blondel, - che non hanno partecipato diretta-


mente ai movimenti politici e alle attività sociali dei cattolici hanno largamente contribuito (ciascuno dal suo punto di vista) al riesame filosofico delle teorie tradizionali. Elementi teorici della democrazia cristiana Uno dei punti acquisiti oggi nel pensiero cattolico è quello dei diritti della versona umana (che ha fatto coniare in Francia la parola personalismo e creare un gruppo personalista, e un po' personale). I n complesso è servito a chiarire molti casi del problema etico della società. Di fronte alle tendenze statolatre del secolo decimonono e a l totalitarismo dei nostri tempi, rivalutare i diritti della persona non nel puro senso naturalista ma anche nel senso storico-cristiano (che fa sintesi del naturale col soprannaturale) è stato un gran passo nelle acquisizioni umane e un'affermazione positiva contro le teorie moniste dello spirito o idea alla Hegel o della umanità alla Comte o del materialismo storico alla Marx. Certo si deve alla grande tradizione cristiana la fondamentale rivalutazione della personalità, ma politicamente questo valore era offuscato dall'assolutismo dei monarchi dell'ancien régime, dal criterio politico della religione di stato, dallo sfruttamento economico delle classi lavoratrici, dalla concezione della democrazia di Rousseau basata sulla tirannia della pretesa volontà collettiva. I1 liberalismo volle essere la parola liberatrice di un simile passato, ma esso tendeva a disorganizzare la società risolvendola nell'individuo ; sicchè poi, per riorganizzarla, ricorreva teoricamente alla concezione dello stato onnipotente, e praticamente alla difesa della borghesia come classe dirigente, identificando gl'interessi economici di tale classe con quelli della nazione intera. Donde la forte e decisiva reazione socialista. La concezione personalista utilizza le teorie liberali, e quelle socialiste nella parte sana che contengono, le concilia nel prevalente valore della personalità umana e cerca di attuarle nella riforma degli organismi sociali e del nesso che li rende interdipendenti ed effettivi. Si è molto scritto. da warte cattolica. contro l'individualismo del secolo scorso, come causa dell'accentramento statale, contrapponendovi un organismo corporativo a tipo medievale. Ma la storia non torna indietro, procede; diciamo procede e non diciamo progredisce, perchè involuzioni e progressi si alternano, si urtano, si disincagliano secondo tempi e luoghi, in zone limitate, sotto aspetti parziali, dando luogo a d una successione che non potrà mai chiamarsi progresso, secondo la mitologia storica di Comte o di Hegel.


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L'individualismo di ieri fu una reazione necessaria a l vincolismo che lo precedette, ma degenerò nell'accentramento statale pur facendo pocto ad un organicismo fluido adatto alle nuove condizioni economico-sociali, e tende a impedire l'affermarsi del totalitarismo politico ed economico che mortifica l'individuo nella sua essenza di razionalità e libertà. Per affermare il principio di libertà senza cadere nell'agnosticismo teorico e nell'individiialismo pratico apparve in Francia dopo la prima guerra mondiale la teoria del pluralismo come caratteristica deila società moderna. Non è i l caso qui di riprendere i l fondo giuridico o legalistico di questa teoria, nè di discuterla dal punto di vista sociologico ('). Si contesta anzitutto l'affermazione che possa dirsi pluralistica solo la società moderna; tutte le forme complesse di società sono in certo senso pluralistiche. Si contesta inoltre che la società possa funzionare senza i l processo di dualizzazione delle forze sociali e senza la tendenza all'unificazione. I1 pluralismo è una formula analitica (abbastanza felice) dello stato nucleare della società e della esigenza dell'iniziativa individuale a formare sempre nuove serie di nuclei, in coordinazione o in opposizione; è questo un dinamismo centrifugo realmente necessarro a controbilanciare il dinamismo centripeto. Quel che i l liberalismo interpretò come puro diritto individuale (che, se fosse realmente tale come certi pensatori liberali lo concepirono, porterebbe alla pura anarchia), il pluralismo analizza più realisticamente e giustifica più ragionevolmente. P cattolici da parte Ioro, dopo un secolo di incomprensioni della vera essenza storico-socioloeica del liberalismo, e " dopo. tante lotte dirette più che altro alle premesse naturalistiche e alle conseguenze agnostiche del liberalismo, preferiscono parlare di pluralismo, che c o ~ t i e n eu n principio di organicità sociale, e che può avere come presupposti tanto l e teorie natnralistiche dei liberali che le teorie etico-sociologiche della tradizione cristiana. Alla teoria del pluralismo si è dato da alcuni un contenuto e un'estensione che non risponde a criteri sociologici ben fondati, in quanto tale teoria possa far parte della dinamica della società nella formazione e deformazione dei nuclei sociali e nella coesistenza di nuclei non relativi fra di loro. È questo un campo interessante di indagini, da inquadrarsi nella funzione politico-sociale dei partiti mòderni, ira i quali (1) Chi ama conoscere le vedute dell'autore in proposito, legga società sua natura e leggi, Bologna, Zanichelli, 1960.

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per la sua originalità e complessità, ha u n posto speciale la democrazia cristiana. Altra teoria, anch'essa di origine francese, che fa parte della revisione del pensiero moderno, è quella dell'istituzionaZisno, cioè del valore organico dell'istituto sociale (giuridic~-politico)', che trascende gl'individui e permane nel tempo e nello spazio con proprio carattere e vitalità, come una realtà extra-personale. Questa teoria è ancora da rivedersi per essere messa in pieno rapporto con quella del personalismo e con l'altra del pluralismo. Chi scrive ha criticato il carattere extrapersonale dato all'istituto ed ha precisato. l'importanza dell'attività personale e volontaria nelle creazioni sociali storiche ( l ) . Scrivevamo fin dal 1935 (3 : « La teoria dell'istituzione h a trovato favore presso noti giuristi francesi. Sembra ch'essi la considerino come entità al di fuori e a1 di sopra delle volontà che la realizzano, posta quale a priori logico di fronte all'individuo. Nel fatto non è che un a posteriori, una risultante d'esperienze, tanto nella sua-struttura oggettiva che i n ogni sua variazione. La differenza fra i due modi di concepire l'istituzione si ripercuote nel problema della dualità sociologica. P e r i teorici summenzionati l a realtà dell'istituzione è tutta nel suo essere tale come un'entità unitaria; per noi, l'istituzione è dualistica nel suo dinamismo perenne, e solo tendenzialmente può dirsi unitaria, perchè l'istituzione non è e non può essere fuori del ritmo dell'attività individuale-sociale. Se diciamo ch'essa ne è I'oggettivazione, è perchè 'noi lavoriamo a costruire ( e anche a demolire per costruire) nel senso che cumuliamo le nostre esperienze con quelle del passato. Come tutta l'esperienza umana è dualisticamente vissuta e realizzata con tendenza all'uno, così l e istituzioni sono dualisticamente realizzate con tendenza all'unificazione. Non dobbiamo lasciarci Fuorviare dalle immagini, alle quali appoggiamo i l nostro pensiero. Noi abbiamo già notato che non esiste u n atto individuale che non sia allo stesso tempo sociale, che non esiste un solo momento di vita associata, che non sia organizzante ; onde non vi è u n istante i n cui non si realizzi un'istituzione, sia pure elementare ed incoativa. Ma, in qualsiasi stadio della società, l a realtà etico-giuridica istituzionale che crediamo avere costruita per sempre, non è che un momento del processo; la formazione giuridica che si crede fissata non è che una tappa per l'ulteriore sviluppo. L'istituzione serve a mettere

Luigi Sturzo, La vera vita, cap. IX. (a) Luigi Sturzo, La società, cit., p. 226-228. (l)

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davanti a noi l'impronta stabile di una realtà in processo. Siamo noi stessi che ci rappresentiamo questa stabilità, come identità di una realtà sempre uguale. Quando parliamo di uno stato, come la Francia, ci sembra che possiamo parlarne come di una persona morale sempre presente a ae stessa, sempre identica. Ma sé. vogliamo analizzare le sue fasi politiche o culturali o religiose, nel processo di un solo secolo, non possiamo darvi il medesimo valore (non ostante che sia identico il nome e r ~ i ùO meno la sua geografia) trovando ben diversa la Francia del 1830, de1.1832, del 1870, del 1914, del 1940, del 1949, del 1959. L'identificazione ideale si fa non in forza della coscienza collettiva che in atto non è mai identica, mai unificata, mai veramente unica, ma sempre in sè pluralistica, che si orienta in una dualità pratica e che tende ad un'unità ideale, e si manifesta nell'istituzione Francia, proprio in virtù del suo dinamismo, poichè coscienza veramente vivente. Al contrario, non ostante che la geografia di Roma nel 1959 sia la stessa d i quella della Roma degli Scipioni e dei Cesari, come l'Atene del 1959 è geograficamente la stessa di quella di Pericle e di Platone, pure nè l'una nè l'altra, non ostante il nome, i ricordi e la retorica usuale, sono identiche come istituzioni, poichè manca la coscienza collettiva della continuità, essendo a sua volta mancata la continuità processuale. La realtà collettiva del passato fu risolta in un'altra realtà collettiva del tutto nuova, con altro ritmo, altri motivi dualistici e altra tendenza unificatrice n. La teoria istituzionalista merita un maggiore approfondi-. mento e una migliore caratterizzazione per potere essere di contributo alla revisione delle posizioni della filosofia tradizionale. È una necessità dissipare i! malintesa fra cristianesimo e società moderna, ed arrivare alla giusta e sana valutazione degli istituti sociali'e politici presenti e della loro portata etica. Ma qualsiasi revisione teorica non ha reale importanza nella vita se rimane nel puro campo speculativo e non ha la riprova della sua concretizzazione nel campo pratico. Fino a che le correnti politiche economiche e sociali prevalenti nella vita moderna sono imbevute di materialismo o sono ispirate a u n moralismo relativistico e in fondo edonistico, le corrispondenti attuazioni pratiche, non ostante i bei nomi di liberalismo, democrazia, radicalisuio, socialismo, resteranno dentro la cerchia del naturalismo e potranno passare nella sfera dei valori umani permanenti solo per extra-polazione, ovvero per le abitudini tradizionali di pensiero e di vita. Dall'altro lato, le teorie cristiane non avranno presa, anche come teorie ( a parte l'esercizio di scuole e le tradizioni di pensiero), se non ci sono correnti politico-sociali che ne curino I'at-


tuazione e l a sperimentazione. L'azione della democrazia cristiana ha contribuito, nel campo pratico, a portare le masse popolari cattoliche nella vita politica, senza diffidenze, nè arrière pensée, nè recriminazioni del passato; - a fronteggiare con coraggio, con forza e con sacrifici personali i totalitarismi moderni di destra e di sinistra, anche quando il pensiero espresso dalla stampa cattolica era (con poche riserve e molti elogi) dal lato dei dittatori; - ad accettare il metodo di libertà e gli istituti politici moderni come piattaforma comune, per riformarne lo spirito secondo l'etica cristiana. Se c'è ancora presso le correnti progressiste dei cattolici da un lato una certa povertà di pensiero e dall'altro incertezza di mosse, si deve in parte al fatto che gli scrittori più noti hanno guardato la democrazia cristiana dall'alto in basso, preferendo più la polemica contro i nemici della chiesa che la costruzione lenta e pratica di una società moderna e democratica. La scuola cattolica non ha contribuito alla vita politica militante, anche per i l fatto che alle premesse dell'etica individuale e ai principi tradizionali della società, non si è aggiunta. la formazione intellettuale e pratica rispondente ai bisogni di una nuova società democratici. Dati gli effetti distruttivi della presente guerra, s'impone u n più largo e generoso contributo agli studi della filosofia etica e sociologica che informano gl'ideali della democrazia cristiana, e che nossono servire a una riorientazione cristiana della società moderna, senza vani rimpianti del passato e senza antistorici ritorni al medio evo. Pubblicato in ((Piccola Biblioteca di Cultura Politica 1947.

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Roma, SELI,


SUL FUTURO DEL MONDO Non è dato agli uomini prevedere ed evitare tutti i mali che incombono sul mondo, così come non è loro dato di stabilire la perfetta felicità nel mondo. Agli uomini è dato solo di contribuire al bene e di rimediare agli effetti del male; tutta la nostra attività, sia individuale che collettiva, si sviluppa entro questi stretti limiti. Ho spesso sostenuto che la prima guerra mondiale poteva essere evitata s dilazionata di molti anni, se soltanto i l governo di Londra avesse detto chiaramente al governo di Berlino che sarebbe intervenuto se la neutralità.de1 Belgio fosse stata violata. Ciò era doveroso fare, poicbè il Regno Unito era uno dei garanti internazionali della neutralità di quel paese. Quel passo non fu fatto, per motivi che l a storia diplomatica ha già spiegato; ma, venisse tale omissione da colpa o da debolezza, la sua conseguenza fu appunto la guerra mondiale. Lo stesso può dirsi della seconda guerra mondiale. I1 clima di guerra cominciò il giorno in cui i governi della Francia e nermisero che Hiiler. nel marzo del 1936. marGran Bretagna " ciasse sfacciatamente, con un atto militare, nella zona smilitarizzata del Reno e vi costruisse la linea Sigfrido. Lo stesso potrà dirsi della terza guerra mondiale (se e quando scoppierà), ricordando il primo gesto di imprevidenza, debolezza o complicità che è servito ad aprire la serie di atti la cui combinazione sta maturando u n nuovo conflitto. A mio avviso, tale serie si è aperta i l giorno in cui gli Alleati hanno accettato il primo veto di Mosca, che ordinava loro di astenersi dall'inviare truppe nei Balcani, limitandosi alla Grecia, se lo desideravano. A questo atto sconsiderato ne sono legati altri tre: il patto anglo-russo del maggio 1942, che stabiliva il principio delle zone di influenza; poi, e di conseguenza, l'impedimento all'occupazione di Praga da parte del generale Patton con truppe americane ; infine, l'assenso alla separazione d i TrieA

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ste dallYItalia,e, al fine di non darla alla Jugoslavia, la proposta di quella mostruosità che è il « territorio libero n, dagli abitanti dell91stria chiamato TopoEinia. I n sostanza, l a linea Stettino-Trieste che oggi divide l'Europa è stata tracciata da Roosevelt e Churchill, ai quali l a storia attribuirà la responsabilità maggiore per la presente situazione e per le origini diplomatiche e politiche di una possibile terza guerra mondiale. Ciò nonostante, l a terza guerra mondiale può ancora essere evitata se l'America porta a buon fine la ricostruzione politica ed economica dell'Europa occidentale, basandosi soprattutto sulla Francia e sull'Italia, e non cede alle minacce e alle insidie della Russia, e se, d'altro lato, essa tiene alti i principi stabiliti nelle Nazioni Unite ed è in grado di assicurare l'abolizione del diritto di veto per tutti i Cinque Grandi. Un'organizzazione internazionale è necessaria. Quella attuale, con tutti i difetti di una Carta mal accomodata, può essere uno strumento di pace a due condizioni: primo, che tutti gli stati membri siano egualmente soggetti alla legge internazionale, senza il privilegio del veto; secondo, che i principi di morale internazionale e di giustizia siano resi effettivi da tutti gli stati membri. Gli stati che non accettano il principio di una legge eguale per tutti devono cessare di appartenere alle Nazioni Unite. Non è da anticipare che la Russia voglia lasciare l'organizzazione, ponendosi in opposizione con il mondo intero. Anche supponendo che lo faccia, e che con lei vadano i suoi satelliti, non c'è da temere una terza guerra finchè gli altri stati rimangono uniti. Per raggiungere l'ideale di un mondo unito, dobbiamo passare attraverso lo stadio dei due mondi, così come gli attuali due mondi sono stati raggiunti attraverso lo stadio degli stati nazionali, mentre gli stati nazionali furono raggiunti attraverso lo stadio delle monarchie e dei principati, delle città libere, dei piccoli ducati e marchesati, nei quali il mondo del medioevo e della rinascenza era diviso, fino alle rivoluzioni francese e americana. I1 dinamismo del1,'organizzazione politica del mondo non può essere fermato a volontà. Esso è intrinseco al moto interno della socialità umana, e si sviluppa secondo il grado di civiltà e di mezzi normali, con alternanza di costumi, leggi e forza. Spetta agli uomini civili dar preponderanza alla ragione piuttosto che all'istinto, e superare l a cieca fiducia evocata dalla forza, accettando la risposta della legge morale. Tutto ciò sarebbe impossibile senza una qualche forma di autorità internazionale capace di fare leggi, di difendere l a giu-


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stizia e di affermarsi anche con la forza. Un'organizzazione internazionale senza i1 sostegno della forza sarebbe inefficace e di ingombro. Gli Stati Uniti d'America sono oggi la potenza guida del mondo, ma devono superare lo stadio di reciproca diffidenza e d i debolezza centrale. che caratterizzava la ~ o l i t i c aamericana dell'ultimo quarto del secolo diciottesimo. Allora essi dovevano f a r fronte alla secessione degli stati del sud. Washington e Lincoln sono i nomi di due grandi uomini che caratterizzano due momenti storici di primaria importanza per l'America e per il mondo. Le guerre sono imposte dalla situazione, ma ci sono guerre di liberazione e di giustizia. Le cose che contano nella vita personale e .in quella collettiva sono i valori morali. Tali valori sono i l sacrificio e la morte, sia perchè essi elevano il tenore di vita sia perchè sono i veri valori, in grado d i generare pace, tranquillità e sicurezza nella società umana. Un mondo unito è oggi un bel sogno i l cui compimento può venire solo in un lontano domani: dobbiamo aver fede in esso, come u n grande ideale che può diventare realtà solo se gli attuali componenti del futuro mondo unito hanno la stessa fede nei valori morali della società (che sono in realtà valori cristiani), e nella preminenza della giustizia sull'opportunità e della legge sulla forza. Solo così può essere evitata una terza guerra prossima o remota.

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(In LASTCRANCE 11 Questions on h e s Determining Our Destiny: Answered by-26 Leaders of Thought of 14 Nations, edited by Clara Urquhart, Boston, The Beacon Press, 1948, pp. 57-59).


DEMOCRAZIA CRISTIANA Caratteri

- principi - dati storici

Sia come elaborazione teorica sia come realizzazione pratica, la democrazia cristiana è dentro il quadro della democrazia moderna quale fu definita da Jefferson: governo d i popolo, dal. popolo e per il popolo 1). Alla parola popolo n nel concetto di democrazia è dato il significato della totalità dei cittadini resi uguali dinnanzi alla legge e resi egualmente capaci dei diritti politici. All'epoca delle rivoluzioni del secolo decimottavo, la parola popolo indicò l'opposto delle classi privilegiate e delle gerarchie politiche che caratterizzavano la società feudale e quella dell'ancien régime. La partecipazione completa del popolo alla politica di un paese è stata storicamente una conquista lenta e spesso contrastata; solo da poco si è arrivati, e non in tutti i paesi a regime democratico, al suffragio universale dei maggiorenni di ambo i sessi. Ma la nozione di popolo come universalità di cittadini è sempre implicita in quella di democrazia, anche se nella concretizzazione degli istituti politici di un dato paese non si sia arrivati ancora alla identità numerica fra popolo politico e cittadini maggiorenni. Dal punto di vista sociologico le differenze dipendono dalla incompletezza e dalla dinamicità della formazione della coscienza collettiva la quale, nella sua espressione politica, comprende anche i cittadini non elettori solo quando questi ultimi, nell'affermare i loro diritti, non escludono che gli elettori in atto l i possano realmente rappresentare. Connessa alla nozione di popolo, nella democrazia moderna, vi è quella di rappresentanza elettiva per lo più a tipo parlamentare, insieme a quella di governo responsabile direttamente verso le assemblee elette e mediatamente verso i l popolo. Simile struttura politica esige per sussistere le garanzie di libertà, per lo più precisate in libertà di opinione, di parola e stampa, di riunione e di voto. Quale che essa sia la struttura politica nella


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quale si concretizza una democrazia, senza le libertà politiche sarebbe vuota di realtà, democrazia nominale o piuttosto pseudo democrazia, perchè mancherebbe di anima, che solo l e viene dalla libera partecipazione del popolo come liberi individui formanti una volontà collettiva. Queste premesse valgono per ogni regime democratico, compresa quindi la democrazia cristiana, la quale non si differenzia per il carattere schematico della struttura politica, ma per il contenuto della volontà popolare che agisce nello schema del quadro politico. La qualifica di cristiana messa a democrazia appartiene a l contenuto della volontà popolare e non è quindi una specificazione di' democrazia nel senso che si tratti di una democrazia a tipo religioso. Se la forma democratica di governo di popolo si è potuta introdurre nel mondo, è stato per una maturazione secolare dei valori cristiani inseriti nella società. L'unica democrazia antica, quella ateniese, e certi elementi democratici nella struttura romana, rappresentavano solo i l tentativo di democratizzazione della classe dominante, mentre una parte dei lavoratori tenuta schiava era tagliata fuori da siffatte società privilegiate; senza la partecipazione completa dei lavoratori non c'è vera democrazia. I1 cristianesimo, elevando il lavoratore a fratello, h a preparato il passaggio dallo schiavo al cittadino ; ogni democrazia moderna h a qui la sua radice. La qualifica di cristiana data a democrazia ebbe originariamente un carattere polemico, per contrapporla alla democrazia della rivoluzione francese presentata come un regime non solo laico e naturalisiico, ma negaiore, in parte, dei valori tradizionali del cristianesimo. Ebbe anche un significato polemico per quei cattolici del periodo della restaurazione che opinavano che il cristianesimo fosse legato ai regimi monarchici assolutisti; nonchè per controbattere le affermazioni del socialismo del secolo scorso che la chiesa fosse dal lato delle classi abbienti e privilegiate. Questi dati polemici accompagnavano un'affermazione sostanziale del pensiero dei cattolici democratici, cioè che la vera democrazia dovrebbe avere carattere cc sociale ». Quel C sociale è un aggettivo che va assumendo significati sempre più pregnanti, dal giorno che i cattolici rifiutando l a qualifica di i c socialisti perchè già presa da un partito che si era qualificato marxista, avevano accettato l'aggettivo sociale n per indicare il loro interessamento ai problemi delle classi lavoratrici. Come si parlava mezzo secolo fa di u questione sociale » così si parlò anche di u cattolicesimo sociale )) e simili. ' Democrazia cristiana valse, per i Cattolici democratici, a signifi-


care non solo una democrazia basata sui valori morali della civiltà cristiana. nia una democrazia in cui i lavoratori fossero non solo elettori (si era ancora verso la fine del secolo decimonono e il suffragio universale maschile era ancora largamente avversato), ma economicamente protetti da leggi sociali e messi in condizione di aarità con i datori di lavoro a mezzo dei loro sindacati riconosciuti e legalizzati. Mentre l'azione socialista a tipo marxista si è andata svolgendo sulla lotta di classe, sia come concezione dinamica della società, sia come metodo organizzativo, l'azione democratica cristiana ha avuto per concezione fondamentale la 'cooperazione fra le classi, e d ha ammessa la lotta solo come fatto contingente, non mai come metodo generale per un conflitto insanabile con u n avversario da eliminare. 11 finalismo dei due movimenti è stato opposto; perchè il marxista mira alla formazione di una s0ciet.à senza d~stinzione di classi e a carattere collettivista; il democratico cristiano mira ad una società libera. nella coesistenza delle classi in un'armonia sociale basata sulla giustizia dei rapporti economici. Dati, però, i contrasti di bene e di male inerenti all'uomo, è impossibile concepire una società definitivamente stabilizzata; la soluzione di un problema crea sempre nuovi problemi; la eliminazione di un contrasto altri ne produce. Nelle polemiche che destò verso la fine del secolo scorso il movlmenio democratico cristiano in Italia, in Francia e nel Belgio, si delineò fra cattolici una netta opposizione per la democrazia wolitica. Allora in Eurowa di stati democratici non c'era che la Svizzera; in Inghilterra mai si parlò di democrazia avanti la prima guerra mondiale; l'Italia andava provando i governi di reazione e gli stati di assedio ; la Francia difendeva le istituzioni repubblicane con la persecuzione contro le scuole libere e l e congregazioni religiose; nessuna reale tendenza verso la democrazia nellYEuropacentrale; i paesi scandinavi erano usciti da poco da regimi paternalisti. In queste condizioni sembrava audacia che cattolici si affermassero a favore di una democrazia politica qualificata come cristiana, tanto più che i cattoIici italiani sottoposti al non expedit non potevano partecipare direttamente alla vita politica. Fu in questo clima che Leone XIII pubblicò l'enciclica Graves de communi del gennaio 1901, con la quale, p u r ammettendo che cattolici si appellassero democratici cristiani, precisò che il significato veniva limitato da un'azione sociale a favore del popolo ispirata agli insegnamenti della chiesa e nel quadro delle organizzazioni ed attività cattoliche. Il documento leoniano segnò un punto di arresto per la democrazia cristiana e diede luogo a successive revisioni di proL


gramma e di posizioni, fino a che si potè ripigliare l'organizzazione sindacale. Solo nel 1919 fu formata in Italia la confederazione italiana dei lavoratori che in due anni toccò i l milione di aderenti e arrivò nel 1921 a un milione e duecentomila. Verso la fine del 1918 da un gruppo di promotori fu deliberata la costituzione del partito popolare italiano con programma democratico cristiano; questo fu reso pubblico il 18 gennaio 1919. A poca distanza furono creaìi partiti consimili che presero il nome di popolare o popolare democratico in Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia. Lituania, Baviera; in Spagna nel 1920, in Francia nel 1924. I n Austria e in Ungheria si ricostituirono nel 1920 a base democratica i partiti cristiano-sociali già esistenti nei parlamenti dell'impero. L'antico partito cattolico belga costituì nel 1919 una sinistra con la lega democratica; quello cattolico di Olanda accentuò il carattere sociale pur non volendo prendere il nome di democratico: così anche auello del Lussemburgo; il partito conservatore della Svizzera si orientò più decisamente verso la tendenza sociale (nel Canton Ticino mantenne la denominazione di democrazia cristiana), pur mantenendosi nell'equilibrato orientamento dei partiti tradizionali di governo. Recentemente ha preso il nome di partito cattolico popolare. Nel 1925 W costituì a Parigi un segretariato internazionale dei partiti democratici d'ispirazione cristiana, che durò fino a l luglio 1939. L'idea democratica cristiana si propagò fuori del continente europeo, e nel 1931 si costituì a Londra il P e o p k and Freedom Group; questo 'promosse nel 1940 la costituzione dell'unione internazionale democratica cristiana. che durò fino al 1945. Altre formazioni democratiche cristiane o popolari si ebbero negli Stati Uniti (gruppi. di « Popolo e libertà D), nell'Argentina e nel Brasile. Nell'Uruguay e nel Cile i partiti d'ispirazione democratica cristian'a hanno gi.à un loro nome e una loro storia. Le confederazioni sindacali cristiane dei vari paesi europei formarono nel 1919 una confederazione internazionale cristiana con sede a Utrecht in Olanda; questa ebbe a Ginevra, nell'ufficio internazionale del lavoro, una costante rappresentanza. Dopo la seconda guerra mondiale i partiti democratici cristiani hanno preso una posizione eminente nella politica europea, specialmente in Italia e i n Francia; si sono affermati anhhe in Germania ed Austria per quel che consente lo stato di occupazione alleata. Fino a che non prese il sopravvento il comunismo in Ungherin come maggioranza e in Cecoslovacchia come minoranza, 3 partiti popolari sopravvissero. Il partito cattolico belga si chiamò partito sociale cristiano, modificando programma,


orientamento e quadri. Altre modifiche a tendenza sociale in Olanda e Lussemburgo. Varie sono state le riunioni internazionali dal 1946 in poi, per una intesa di partiti da un lato e una intesa di organizzazioni a tipo sociale dall'altro. Le relative organizzazioni sono in sviluppo attualmente con centri in Francia e in Svizzera. Fatto di eccezionale importanza, datane la ripercussione internazionale, è stata la vittoria della democrazia cristiana italiana nelle elezioni politiche del 18 aprile 1948. Aprile 1948

(Voce dell'Encielopedia Treecani, App. 11, pagg. 770-771).


LA DEMOCRAZIA CRISTIANA DAL 1848 AL 1948

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Federico Ozanam fu dei .primi ad accennare ad una democrazia cristiana. sia come orientamento economico e sociale verso le classi lavoratrici, sia come struttura politica della società. La degenerazione politica della democrazia del 1848 e la sopravvenuta dittatura di Napoleone 111 non gli fecero, come avvenne a molti, cambiare le sue convinzioni. * Negli stessi anni il teatino s p l i a n o Gioacchino Ventura affermò con sicurezza e con foga gli stessi ideali di democrazia e le stesse preoccupazioni per un cattolicesimo sociale, nei celebrati discorsi per la morte di O' Connell e per i morti di V'ienna. Le fasi per l e quali lungo un secolo, dal '48 al '48, la democrazia di ispirazione cristiana ha superato le difficoltà teoriche e pratiche che si sono frapposte alla sua affermazione sociale e politica, dovrebbero fermare l'attenzione di storici e d i uomini politici, sol che si volesse approfondire u n simile avvenimento d i eccezionale portata. Fin oggi la incomprensione ed il silenzio della classe colta, la confusione fra problemi religioso-ecclesiastici e quelli politici dei cittadini, di fede cattolica, l a preoccupazione di una parte di questi ultimi orientati verso u n passato paternalista che non torna per un presente reazionario e perfino totalitario, ha fatto si che l'esperimento politico-sociale~dellecorrenti cristiane sia stato in parte misconosciuto, spesso avversato, stroncato anche nei momenti più critici della ~ o l i t i c aeurooea. La stranezza d i cento anni di storia della democrazia in genere e della democrazia cristiana in particolare, come orientamenti ideologici e come tentativi pratici, è che non se ne vedeva l'esistenza proprio mentre fervevano idee e. maturavano fatti, perchè se ne svalutava il significato, venendo usualmente messo nella comoda categoria di politica clericale fatta da ceti e da uomini per nulla democratici anche se nell'apparenza liberali. &

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Ma dov'cra l a democrazia dopo i fallimenti del quarantotto? La Francia sotto Napoleone 111 provò la dittatura; l'Inghilterra vittoriana era tutt'altro che una democrazia, pur mantenendo la libera tradizione parlamentare. L'Italia, meno il Piemonte e la Sardegna, non aveva più parlamenti ed era nell'orbita della reazione austriaca. I1 Beleio manteneva l'istituto " parlamentare in u n clima di oligarchia detta liberale. Solo la Svizzera, superata la guerra cantonale, emergeva nella sua fipr? tradizionale di paese democratico; i l resto dell'Europa era antiliberale e antidemocratico per convinzione, per tradizione, per paura. I n quel clima maturavano le guerre prussiane e l e guerre italiane, le rivolte irlandesi e polacche, si risvegliavano le nazionalità dell'impero austro-ungarico, si andavano affermando tra libertà e feudalesimo gli stati balcanici. E l'eresia democratica (eresia tanto per i fedeli dell'assolutismo quanto per gli oligarchi liberali) si andava diffondendo; eresia anche democratica cristiana (così era appresa anche da molti cattolici); e questa si insinuava con le idee e le iniziative di carattere sociale per i lavoratori, con le rivendicazioni per i l suffragio universale e per la partecipazione diretta di tutte le classi nella vita pubblica. I cattolici liberali di allora ci fanno l'impressione di conservatori e lo erano, ma Montalembert, che al congresso di Malines del 1863 dice che (( egli guardandosi attorno non vede che dappertutto democrazia 1) e che nel nuovo ordine i cattolici hanno sì da combattere ma non da temere D, è allo stesso tempo un veggente e u n profeta. Vedeva una democrazia che non esisteva nei fatti ma che maturava attraverso gli eventi; rilevava i l compito dei cittadini di fede cattolica nella partecipazione alla lotta con fiducia e senza paura. Ma la stessa Francia per stabilire una democrazia formale deve passare attraverso la disfatta, superare le tendenze imperialistiche, monarchiche e marescialliste, arrivando così al seize mai; l'Italia deve superare il eri odo di unificazione e tentare con la forza una soluzione unilaterale alla questione romana, fino al trionfo della sinistra, due anni prima del seize mai. La Germania si unifica, diviene impero, modifica i l sistema parlamentare. L'Austria cerca di sclericalizzarsi, l a Spagna risolve il problema dinastico e si dà una forma discretamente parlamentare. L'Inghilterra modifica i l suo sistema elettorale verso un suffragio quasi universale. L'Olanda e i Paesi Scandinavi si evolvono. Sono però le borghesie e le borghesie laiche con tendenza

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radicale ad alternarsi con le borghesie laiche a tendenza conservatrice, spesso a tipo reazionario, le quali si battono su due fronti: contro i socialisti rivoluzionari che si organizzano in partiti, e contro i cattolici a sfondo clericale che ondeggiano fra u n parlamentarismo aristocratico e u n monarchismo paternalista. Pure è questo il periodo della più larga discussione di cattolici verso forme sociali politiche organizzative, p u r con diversità di orientamenti e di attività, democratici nello spirito anche quando non facevano p a n d e uso della parola democrazia, tenuta da molti in sospetto per i ricorsi delle rivoluzioni de11'89 e del '48. Vale la pena di ricordare qui di passaggio i nomi di Vogelsang, La Tour du Pin, Enrico Amari, d'Ondes Reggio, Albert de Mun, l'abbé Hitze, Claude Janet, Helleputte, De Courtins, mons. Talamo, Giuseppe Toniolo e molti altri che precorsero e concorsero a creare l'ambiente adatto per l a pubblicazione nel 1891 della enciclica di Leone XIII sulla condizione dei lavoratori. Questa non fu, nè poteva essere, un'affermazione di democrazia nel senso politico della parola; ma era di sicuro una premessa per quella concezione di democrazia nella quale la classe lavoratrice avrebbe trovato il suo ~ o s t omorale ed economico prima di quello politico. Conseguenza di tutto ciò fu l'affermazione fatta da Leone XIII, nove anni dopo quella enciclica, quando disse che se l a democrazia sarà cristiana farà gran bene a l mondo (1900). Sembrò a molti u n brusco cambiamento da warte dello stesso pontefice la pubblicazione dell'enciclica Graves de Comuni (1901) con la quale pur permettendo che certe organizzazioni cattoliche mettessero per titolo e per programma la democrazia cristiana, ne toglieva ogni significato politico. I1 nuovo intervento mirava ad imwedire che l'azione cattolico-sociale divenisse u n movimento politico in nome della chiesa (democrazia volere o no significa governo di popolo); tanto più che in quel momento non solo gli stati europei non erano democratici, ma la classe politica dirigente era contraria alla democrazia. Faceva eccezione la Svizzera. ma era la eccezione della singolarità di una democrazia medievale e moderna, tra cantonale e nazionale, distaccata dalla politica europea per la sua neu- ' tralità. La Francia, è vero, si diceva democratica, ma d i una democrazia che si difendeva perseguitando. Siamo nel periodo dell'affare Dreyfus e della lotta anticongregazionista. I socialisti ed i sindacalisti erano dappertutto antistatali e mantenevano l a pregiudiziale anti-borghese si da non partecipare ai gc~verni del tempo. I tentativi anarchici si ripetevano nei vari paesi e


re Umberto era stato assassinato pochi mesi prima.' Com'era possibile che i democratici cristiani del cui gruppo erano Murri in Italia, Marc Sagnier in Francia e una larga schiera di giovani baldanzosi dappertutto (sarebbe bene ricordarne i nomi) volessero a nome della chiesa (era questo l'errole al quale io non volli sottoscrivere anche per via del mio repubblicanesimo) modificare il regime politico sia attuando dove non c7era il suffragio universale anche femminile, sia portando una larga autonomia nelle provincie e regioni, sia facendo riconoscere i sindacati operai che in vari paesi erano solo tollerati, sia attuando una riforma finanziaria che allora sembrava confiscatrice, sia volendo una riforma fondiaria che apariv va rivoluzionaria ? Che dei cittadini di fede cattolica volessero questo e altro nel campo civile e politico era loro affare; che ciò fosse sostenuto e organizzato sotto 17egida della chiesa e con, il nome di democrazia cristiana, ecco quel che allora non era nè possibile, n è desiderabile. Gli eventi si incaricarono di rendere possibile e desiderabile una democrazia e una democrazia di ispirazione cristiana; ma per circa un ventenni0 questa rimase quasi sempre come aspirazione di un lontano avvenire. La maturazione definitiva in Europa verso la democrazia politica avvenne durante la prima guerra mondiale, quando i socialisti credettero di scendere dalla loro torre di avorio della pregiudiziale antiborghese e antinazionale e partecipare ai governi dei loro paesi; i cattolici (anche in Italia dove dal 1870 non avevano assunto cariche di governo) anche essi unirono le loro forze per la vittoria alleata. Questa diede l'impronta democratica anche ai paesi vinti. In quel periodo la democrazia cristiana, sotto la insegna del « popolarismo sociale » fece ingresso in molti parlamenti europei (per il primo in Italia con cento deputati); e dopo molte trattative fu creato a Parigi il segretariato internazionale dei partiti democratici d'ispirazione cristiana. Ma proprio quando, nel 1925, nelle sale dell'Hote1 du Quai d70rsay vidi realizzato questo mio lungo sogno di venticinque anni, io ero in esilio e il mio paese era sotto la dittatura fascista; i miei amici lottavano ancora e avrebbero lottato per un altro anno a difendere la libertà perduta. Poco dopo mi raggiunsero all'estero Giuseppe Donati già direttore del Popolo e Francesco Luigi Ferrari, membro del consiglio nazionale del partito popolare. I tedeschi del centro venuti a Parigi, nello stringere la mano ai democratici popolari francesi e agli alsaziani (già sotto Ia Prussia e ora riuniti alla patria francese),

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non sognavano affatto che anch'essi sarebbero caduti sotto una noi non siamo italiani 1). dittatura: ci fu di loro chi disse: Parole spavalde ma vane. Mancavano i popolari sociali spagnoli e i cristiano-sociali baschi già sotto la dittatura di Primo de Rivera ; poco dopo si allontanarono i democratici cristiani polacchi che dalla dittatura Pilsudski passavano sotto il regime dei colonnelli, e così via i nostri amici ungheresi, lituani, austriaci e finalmente nel 1933 anche i tedeschi. L'ultima riunione del segretariato indetta per il luglio 1939 non fu tenuta. La fiaccola passò lo stretto: l'unione internazionale democratica cristiana sorse a Londra sotto i bombardamenti, riunendo i democratici cristiani dei governi in esilio; il centro dell'unione fu presso i l gruppo di r< Popolo e Libertà D, che dal 1936 pubblica il suo bollettino dallo stesso nome, diretto da miss Barbara Barclay Carter, con l a dicitura: « £or Christian Democrats o£ al1 Countries 1). E questi « Christian Democrats » sono risorti durante la seconda guerra mondiale ricevendo un mandato che non è strettamente dato dai propri amici, ma dato in ogni paese da larghe zone popolari di opinione varie e anche di varie fedi, come a una nuova insegna politica di salvezza. I n questo ambiente ben si inquadrano, dal punto di vista religioso, i documenti pontifici del 1944-45 sulla vera democrazia e sul dovere della donna nell'attività elettorale sociale; i quali, senza invadere campi politici e pur restando nel campo dell'etica religiosa, restano una guida autorevole e sicura nell'attività dei cittadini di ogni paese in clima democratico. Ma non ci illudiamo che oggi come oggi la democrazia sia bella e fatta sol perchè le costituzioni rivedute, i n quei paesi che credono di dover tutto fissare sulla carta statutaria « aere perennius », parlino di democrazia e siano basate sul popolo; oggi come ieri lo spettro della dittatura non manca. E sono i democratici di ispirazione cristiana che portano l a maggiore responsabilità di attuare la democrazia nel suo pieno significato e di difenderla dalle minaccie della dittatura di sinistra o di destra. Purtroppo essi non sono soli a far ciò; spesso sono obbligati a marciare insieme con i socialisti. Questi sono un po' come l'asino di Buridano, egualmente attratti da u n lato verso la rivoluzione sociale monopolizzata dai comunisti e dall'altro verso l a democrazia in compagnie da loro poco ambite, come quella dei democristiani. « Nec cum te nec sine te vivere valeo D, è i l verso tragico che si può applicare a COstoro. Sarà sempre possibile difendere con tale compagnia l a libertà? Quella libertà che è ordine, e quell'ordine che è e deve essere libertà?


I1 cammino è aspro: la democrazia nata in Europa con la rivoluzione francese volle la libertà, ma cadde nel disordine. Quella risorta nel 1848 volle la libertà ma cadde nel disordine. Quella dopo il 1870 volle la libertà, ma solo per l a borghesia che da oligarchia conservatrice si trasformò in oligarchia radicale. La democrazia emersa dalla prima guerra mondiale tentò di essere democrazia a tipo sociale, ma per intrinseca debolezza fu vinta dalla rivoluzione borghese totalitaria. Oggi la nuova è minacciata dal totalitarismo comunista. I tentativi democratici si rinnovano, perchè l a democrazia moderna è ancora in elaborazione. La democrazia deve essere alimentata da spirito di tolleranza tanto più efficace quanto meno egoista possibile; da un afflato di libertà tanto più vivificante quanto più penetrerà nella coscienza popolare orientando verso il bene; da una concezione dei diritti tanto più efficace quanto più sarà animata dalla moralità. Tutto ciò è cristiano anche quando la scorza della società moderna sia laica. I1 clero come ordine sociale non ha più posto speciale nella politica; la chiesa non domanda privilegi ma rispetto per l a sua funzione religiosa e per le sue opere di carità. La scuola deve essere libera ed eguale per tutti; per essa lo stato non può pretendere monopoli di carattere educativo nè ha diritto di imporre teorie a suo nome. Ma chi potrà mai contenere lo spirito cristiano che da duemila anni aleggia nel mondo e penetra nella struttura sociale? La democrazia è di fatto cristiana nel senso etico (perchè l'etica più elevata è semplicemente cristiana) ovvero non è democrazia. Non furono complete democrazie quelle di Atene e di Roma, p u r in mezzo a tanto splendore di arti e di virtù umane, perchè la loro economia era basata sulla schiavitù e alla loro morale mancava il soffio del prossimo. Furono democrazie quelle dei comuni medievali solo per quel tanto che vi si ~ o t attuare è di spirito cristiano. Sono state democrazie le moderne, se e in quanto l a civiltà cristiana l e ha penetrate. Ma per il resto, si è trattato di tentativi formali o d i sviluppi pragmatistici di democrazia; tra i quali sono esempi vivi quello della piccola Svizzera e quello della grande America, e sono tali per essere state l'una e l'altra fedeli alla loro tradizione anche religiosa e agli istituti originali adattati allo sviluppo storico gradatamente così da evitare le scosse rivoluzionarie e da respingere gli allettamenti dei regimi assoluti. Oggi che in Europa c'è tutto da rifare, l'avventura democratica è in gran parte nelle nostre mani. I socialisti di oggi con i quali collaboriamo non sono più i rivoluzionari e gli anticlericali di ieri, e quando lo sono corrono ad allearsi con i comu-


nisti. Ma i democratici potranno adempiere al loro compito e collaborare con uomini di sinistra o di destra, solo se saranno fermi nel rispetto della libertà, anche quando sembra che la libertà torni a loro danno; fermi nella rigidità morale nella vita pubblica e privata anche quando ciò imponga colpire amici e alleati; fermi nella difesa del diritto sia per i deboli sia per i forti sotto l'insegna della legge uguale per tutti, senza pnvilegi di partiti o di classi. E se verrà l'ora del pericolo, i primi a difendere libertà e diritto, paese e popolo, siano i democratici cristiani. Vecchia bandiera onor di capitano! Cento anni di piccola e grande storia fatta da uomini insigni in tutti i paesi, siano stati o no chiamati democratici cristiani, ma che certo sono stati nell a corrente del ~ e n s i e r oe dell'azione che ha fecondato l a situazione di oggi, dovranno essere per noi esempio, sprone, realtà vivente, per l'attuazione presente e futura in ogni paese della democrazia di ispirazione cristiana. A

Roma, 25 luglio 1948 Pubblicato in «Piccola Biblioteca di Cultura Politica D, Roma, SELI, 1948.


ORIGINI E SVILUPPI DEL MOVIMENTO DEMOCRATICO E SOCIALE CRISTIANO IN ITALIA Si suole fare incominciare il movimento sociale cristiano dal 15 maggio 1891, data della enciclica di Leone XIII sulla condizione degli operai (Rerum novarum); ma non può omettersi il periodo precedente, che ha per alfieri l'italiano padre Gioacchino Ventura e il francese, ma anche italiano di nascita e di affezione, Federico Ozanam. Aggiungiamo Niccolò Tommaseo, la cui figura poliedrica e le cui esuberanze non lo rendono facilmente classificabile. È stata fortuna la mia aver potuto sentire a venti anni l'impulso dato alle attività sociali cattoliche da Leone XIII; ed essere passato attraverso le varie fasi e varie crisi del movimento democratico cristiano, come attore o come partecipante alle più interessanti vicende nazionali e intemazionali, legate a l nome e alla realtà della democrazia cristiana e vivendone lo spirito e la passione. Nel periodo immediatamente precedente e seguente alla Rerum novarum avevano avuto rilievo gli orientamenti sociali dell'opera dei congressi cattolici, iniziata con i l congresso del 1874 e sviluppatasi con un ramo speciale che in seguito ebbe il titolo di sezione economico-sociale. Tra i presidenti noto il conte Medolago Albani di Bergamo; tra i dirigenti più ascoltati e più noti, il prof. Giuseppe Toniolo. Nel campo teorico mons. Talamo raccoglieva i più capaci studiosi di economia, politica e sociologia nella sua Rivista internazionale di scienze sociali di Roma, alla quale facevano capo anche non pochi studiosi stranieri di indiscusso valore. Se l'attività pratica del tempo si svolgeva più che altro fra i contadini nel campo cooperativo del credito (casse rurali) a combattere l'usura, e fra gli operai nel campo della mutualità, non mancavano iniziative di leghe operaie che preludias-. sero il movimento sindacale della fine dell'ottocento.


I1 non expedit, che impediva ai cattolici la partecipazione attiva alla vita politica, toglieva loro la possibilità di porre il problema operaio, come avevano fatto i socialisti, sul terreno politico. Mentre da un lato anche i cattolici invocavano leggi protettive del lavoro, fatti forti delle solenni affermazioni leoniane, e su questa magna charta chiamavano operai ad organizzarsi, dall'altro la diffidenza e la paura delle borghesie, anche cattoliche, verso il movimento operaio e l a propaganda anticlericale e marxista del socialismo del tempo, rendevano difficili i progressi pratici del movimento sociale-cristiano. Fu in quel periodo che l'idea e la definizione di democrazia cristiana, dopo mezzo secolo dalla prima enunciazione, ritornò a galla e fu presa per insegna nel Belgio, in Francia e in Italia (1895); divenne subito una bandiera di raccolta, un programma di azione, la sintesi delle aspirazioni morali economiche e politiche del rinnovamento sociale. Ebbe così inizio quella che io chiamo la prima fase della democrazia cristiana del periodo leoniano, che in Italia ebbe due nomi celebri: Toniolo e Murri. I1 primo economista e sociologo, cristiano fervente e fedele, contribuì a darvi base teorica e mantenere il movimento nei ranghi della disciplina cattolica secondo gli insegnamenti papali; il secondo, giovane ardente ed audace, raccolse la gioventù italiana in circoli di studi e leghe operaie, e portò nel campo della organizzazione cattolica ufficiale e della stessa attività ecclesiastica la lotta aperta alle tendenze conservatrici. È di quel tempo (1900) l'opuscolo di chi scrive: Conservatori cattolici e democratici cristiani che faceva il punto sugli orientamenti dei cattolici italiani; e l'altro sulle Unioni professionali e Le organizzazioni d i classe (1901), pubblicati l'uno e l'altro dalla Cultura Sociale, che fu la rivista di orientamenti e battaglie di don Romolo Murri ('). Don Albertario, che aveva combattuto lunghe e allora assai aspre battaglie in difesa del papato, chiuse Ia sua vita di combattente in difesa degli operai cattolici, per i quali provò il carcere di Finalborgo ( 1898). Parlare a principio del secolo di democrazie cristiana, quando nessun paese europeo si appellava democratico o aveva istituti democratici, meno la Francia che però passava un tragico periodo anticlericale n, sembrò un'audacia eccessiva e nel campo politico una rivoluzione. Venne così il periodo di crisi, e ne fu coinvolto i l prete Murri, che si staccò dalla disciplina della chiesa, prima politicamente (eletto deputato nel 1909)

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Ora riprodotti in Sintesi sociali, Bologna, Zanichelli, 1961.

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e poscia religiosamente (lasciando l'abito), finchè il figlio1 prodigo non fece ritorno alla casa del Padre, il che avvenne fortunatamente negli ultimi anni della sua vita. I1 periodo che va dal 1909 al 1915 segna una lunga stasi; di democrazia cristiana non si parlò che solo da pochi come di un movimento ideale, un complesso di dottrine e di orientamenti sociali e una speranza per l'avvenire. Si trattava infatti di nuclei di fedeli dispersi nelle varie parti d'Italia. Durante la prima guerra mondiale furono ripresi i problemi insoluti della mesenza dei cattolici nella vita della nazione. L'azione cattolica, ricomposta in unità con la giunta centrale di azione cattolica. lanciò l'appello del maggio 1915 per la unificazione nazionale con Trento e Trieste e la partecipazione alla difesa dell' Europa. I1 segretariato Pro Schola rimise in primo piano il problema delle libertà scolastiche. L'associazione nazionale dei comuni italiani - dove dal 1901 si trovarono insieme a chi scrive e ne fu vice-isresidente. Micheli, Meda, Mauri, Rodinò, Mangini, provenienti dal movimento sociale italiano - portò avanti con arditezza i problemi delle autonomie degli enti locali. Le varie associazioni e leghe e società cattoliche degli operai e relative federazioni si riunirono in due confederazioni: quella dei lavoratori e quella delle cooperative (1918): fondato i l consorzio di emigrazione e lavoro nel 1916, ebbe i l riconoscimento legale nel 1919. I n questo clima di fervida attività sbocciò i l partito popolare venuto su rapido e sembrò improvviso. Venti anni di maturazione, di attività collaterali, di orientamenti, di attese, di prove elettorali, di affiancamento caso per caso, e interessanti esperienze parlamentari del piccolo gruppo dei cattolici deputati, avevano reso possibile l a sorpresa del partito popolare coi suoi cento seggi conquistati di botto alla camera dopo appena dieci mesi di esistenza, e in base ad u n programma democratico gi,à vivo nella coscienza nazionale. Alla fase dei tentativi di organizzazione e delle attività cattolico-sociali del 1895-1915, era successa la fase delle realizzazioni politico-sociali con due organizzazioni nazionali autonome ma influenzantisi a vicenda : la confederazione sindacale bianca e il partito popolare con i1 suo gruppo parlamentare. L'una e l'altro ebbero a combattere su due fronti: da un lato la gelosia socialista a sinistra, che impegnò, alla camera e fuori, i nuovi venuti a togliere a quel partito il monopolio della rappresentanza operaia sia negli organismi governativi, sia nella pratica sindacale, sia anche nella opinione pubblica che tradizionalmente legava all'idea socialmamista le rivendicazioni della classe lavoratrice; a destra l'antagonismo della borghesia A

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politicante che vide in poco tempo ingrandirsi un partito di quei cattolici ai quali avevano per lunghi anni guardato come propria massa di manovra elettorale per mantenersi a galla sotto le insegne storiche della libertà già a fatti ripudiata, e presa ora per insegna dai popolari. P e r questo stato d'animo, appena venne il fascismo sulla scena, divenne il favorito contro quel che essi chiamavano, alternativamente, pericolo clericale e demagogismo comunistoide. La partita fu perduta per la democrazia cristiana (oltre che per la democrazia tout court) con l'avvento del fascismo e l'instaurazione della dittatura. Resistette il partito popolare (con gli altri della coalizione aventiniana) per quattro anni, fin che fu disciolto nel novembre 1926; resistette per cinque anni la confederazione bianca fin che fu costretta a sciogliersi nel 1927. Ne seguì il lavoro individuale, lo studio degli appartati o dei profughi, i l travaglio segreto dei fedeli all'idea. I n questo periodo, la chiesa ebbe modo di ricordare e aggiornare i suoi insegnamenti sociali con la Quadragesimo anno di Pio X I e altri documenti papali. I1 pensiero sociale cristiano dei cattolici non è legato alle fasi di realizzazione politica o sociale; è un insegnamento perenne per tutti i cattolici di tutto il mondo; una dottrina anche per i non cattolici indifferenti, che al momento dato Dossono trarne motivo di meditazione e di azione, vantaggio per sè, per gli altri, per la società. Pio XII, in materia sociale e nei riflessi politici della democrazia aggiunse nuova luce agli insegnamenti dei predecessori che ininterrottamente da Leone XIII ad oggi hanno dato il piii largo rilievo ai doveri socioli dei seguaci del Vangelo e alle teorie e alle forme di organizzazione politica e professionale adatte ai tempi. Questi insegnamenti, ai quali l'azione cattolica ha avuto cura di dare pratica diffusione, mediante corsi, settimane sociali, conferenze, pubblicazioni, hanno maturato nuovi fermenti di attività sociali, durante la seconda guerra mondiale. La terza fase della democrazia cristiana italiana si inizia nelle ore oscure della caduta del regime e dell'occupazione tedesca, e si attua nella formazione politica che prende definitivamente il nome di democrazia cristiana. Questa è legata indissolubilmente agli insegnamenti della scuola sociale cristiana che ha ormai u n secolo difvita e che ha fronteggiato non solo il marxismo materialista, il Ieninismo comunista, ma l e varie forme del socialismo positivista e statalista e del corporativismo accentratore e dittatoriale. L'esperienza europea del presente periodo ha messo in risalto il- pensiero e l'organizzazione democratica cristiana nella


politica e nel sindacato sotto alcuni punti di vista che vale la pena precisare, nella loro importanza storica. Il fatto che nellYEuropalibera ( a parte gli stati scandinavi) i partiti democratici cristiani hanno il potere in mano da soli o i n larghe coalizioni, non sarebbe spiegabile senza il cambiamento di orientamenti nella classe dirigente e nelle masse lavoratrici: cambiamento dovuto non solo. come si usa affermare, al pericolo comunista (che in un primo tempo, specie in Italia e in Francia, non fu chiaramente compreso), ma alla chiara unione delle istanze sociali con i principi di democrazia e di libertà animati da ispirazione cristiana. Una realtà e una speranza unite insieme: la realtà di una forza i n progresso, soppiantando le forme politiche libere e dittatoriali dell'ultimo cinquantennio; la speranza di un fronte nuovo atto a fermare le degenerazioni demagogiche e bolsceviche e i tentativi di un ritorno al passato. Realtà e speranza, legate ad un fatto inderogabile: la ricostruzione della struttura organica ed economica della Europa distrutta dalla guerra e la prevenzione difensiva da una terza guerra. In questo clima si inserisce l'esperienza del sindacato unico che l'Italia, nella euforia post-bellica, credette di attuare. L'euforia durò poco; i contrasti interni nella confederazione generale dei lavoratori italiani durarono un triennio, e si arrivò alla rottura, necessario epilogo di un non necessario errore. Da una ad altra esperienza, si dovrà arrivare a rielaborare in questo campo gli insegnamenti papali per un sindacalismo realmente democratico e realmente inserito nell'ordinamento economico e politico del paese. Nè l'Italia nè i paesi dell'Europa libera l'hanno ancora tentato per via del sindacalismo comunista e anche di quello socialista rivoluzionario che sono di ostacolo allo sviluppo democratico delle istituzioni sociali. L'avvento della democrazia cristiana nella vita pubblica europea non è un fatto assicurato per sempre, nè una posizione statica che chiude un ciclo storico; è l'avvento di una classe politica nuova con le sue teorie, i suoi orientamenti, anche con le sue fasi, che avranno un proprio ciclo e daranno luogo a non prevedibili svolgimenti. Potrà esserne il consolidamento, ma anche il tallone d'Achille, il problema economico, che è fondamentale per l'avvenire politico e sociale dell'Europa. Non si tratta di scelta fra liberismo e dirigismo, si tratta di concretezza e vitalità dell'economia privata e libera integrata da interventi statali e inquadrata nel complesso della economia organica internazionale, di fronte alla economia (se economia potrà chiamarsi) del socialismo di stato e della dittatura comunista, palese e larvata.


Se nel delicato settore della economia la democrazia cristiana fallirà, o piegando a destra o piegando a sinistra, fallirà anche nel suo compito di attuare sia la democrazia sposata alla libertà, sia la collaborazione delle classi nella giustizia sociale " e nella elevazione del lavoro. Grande, ambizioso compito è questo affidato alla democrazia cristiana nel presente periodo insieme all'altro, immediato ed urgente, di tenere lontano dalle nostre terre il pericolo della dittatura comunista. 6 aprile 1952 Pubblicato su La Vici del 24 maggio 1952 col titolo della D.C. in Italia n.

«Le tre fasi


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INDICI



INDICE ANALITICO Action Francaise, 20, 30, 32.33, 59, 105. ANTISEMITISMO, 22-23, 38-43, 72. ARDITISMO,67. BARBARIE,38-43. BOLSCEVISMO, 57, 61 (v. anche comunismo). BOMBA ATOMICA, 223, 230, 245, 262. BORGHESIA, 76, 79, 82-83, 87, 98, 100, 115, 119-121, 139-149. CAPITALISMO, 77, 87, 116, 130, 133, 143-144, 148, 155, 236, 279, 292, 298. CATTOLICI, 2, 5, 7-8, 22-23, 27-29, 47-65, 79-111, 114, 122, 127-128, 163, 165184, 314-328, 332-335, 337, 339-348. Centro, 59, IP8, 106. CHIESA, 47, 35-37, 38-45, 47-60, 80, 127, 159, 161-164, 166-184. CLASSE,37-38, 77, 116, 129. - media, 85, 87, 139.149. - operaia, 83, 87, 89, 90, 98, 116117, 139, 214, 300. - lotta di, 76, 132-133. COLONIE,188-193. COMUNISMO, 1-2, 46, 35, 57, 69, 71-73, 77, 98, 119, 133, 143, 148, 153, 215216, 236, 340, 348. CONCILIO, 12, 55. DI PARIGI, 253-258. CONFERENZA 90-95, 120. CONSERVATORI, CONTRORIFORMA, 55, 58. CORPORATIVISMO, 87-88, 90.91, 117-118, 132, 135.136.

CRISI INTERNAZIONALE, XIII-XVI, 232258. - morale, 243-245, 317-320. CRISTIANESIMO, 156-183, 186-187 (v. anche Chiesa). DEMOCRAZIA, DEMOCRAI~CI, 57, 60, 6263, 77, 90-95, 241.242, 260, 298, 299313, 321-322, 331.333, 337, 340. DEMOCRAZIA CRISTIANA, 54, 73, 79-111, 122-124, 314-328, 331-34%. DEPORTAZIONI, 4142, 74-75, 235. DISARMO,223-224, 275. DOPOGUERRA, XIII-XVI, 74-78, 95, 112, 140, 232-258, 263, 347.


INTERIVAZIONALISMO, XV-XVI, 213-230, 261-262, 265, 269-279. INTERNAZIOR'E, XVI, 260-265, 269, 272. 279.

MILITARISMO, 155, 198-199, 211, 291292. MONARCHIA, 13, 55, 58, 64, 73, 150-151, 153, 157-158. MORALE,XV, 15-20, 156-183, 207, 311313. NAZIONALISMO, XV-XVI, 145, 263, 269279. NAZIONE,145, 150, 153, 226, 269.279, 303-304. NAZISMO,34, 38-43, 71, 77, 105-106, 136, 223. Nw-CUELFISMO,82. NON-EXPEDIT, 56, 344. O.N.U., XIII, XIV, 218, 220.224, 246249, 261, 264.

PACE, 245-259. PAPI, 4-7, 12, 28, 32, 38-45, 47-60, 80, 85-86, 90-91, 93-95, 113-114, 131-132, 134-135, 161-164, 166-184, 315-316, 333, 346. PARTITI,301-302. - dei lavoratori, 113-148. PARTITO POPOLAREITALIANO, 96-100, 345-346. POLITICA, 118, 130. - internazionale, XIII-XVI, 26, 155,

RAZZA,10, 22, 26, 37-43, 77. Res publica, 299-306. RICCHEZZA,116-117, 288. . RIFORMA,58. RIVOLTA,17-18, 80.81, 93, 337. FRANCESE, 150, 214, 299, RIVOLUZIONE 332, 341. SCHIAVIT~, 182-183, 290-291. SFEREDI INFLUENZA, 235.238, 243. SINDACATI, 131, 133, 134, 140 (v. anche unioni operaie). SOCIALISMO, SOCIALISTI,1-2, 47, 61, 68?69, 71, 73, 76, 79, 85, 91, 98-101, 122-124, 132, 139, 153-154, 214-216, 345. - cattolico, 6. SOCIETÀ,15, 61, 115, 279. SOCIETÀDELLE NAZIONI, 30, 164168, 217-220, 244, 270, 275, 296-297. STATO,9, 19, 38, 60-63, 88, 113-148, 274, 299-306. - monismo statale, 73-77. TOTALITARISMO, 33-38, 60-65, 70-73, 95107, 129, 131, 132-139, 260, 314. Trade uniom, 120, 126.

Veto (potere di), XIII, 232-245.


INDICE DEI NOMI A ALBERTARIO don Davide, 93, 344. ALCUINO,287. ALESSANDRO Magno, 185,186,200,279, 280, 281. ALESSANDRO di Jugoslavia, 104. ALESSANDRO VI, 188. AMARIEnrico, 338. ANDRIEU card. Paulin Pierre, 32. ANILEAntonino, 100. ANTONESCU Ion, 72. ARNOUpadre, 165. ATATURK Mustafa ( Kemal Pascià), 42. ATTLEEClement, 234, 240, 247. B BADOGLIO Pietro, 242. BAGNARA Mary, XVI. BAKUNIN Michel, 85. BALBOCesare, 82. BALDWINStanley, 252. BARCLAY Carter Barbara, 340. BARRÈSMaurice, 29. BARUCHBernhard, XIII. BAUMANN Emile, 31. BECKETTommaso, 158. BENEDETTO XV, 32, 55, 98, 163, 164, 170, 175, 217. BENESEdward, 75, 100. BERNOUILLE Gaétan, 32. BEVINErnest, XIV, 240, 245, 254, 255. BIDAULT Georges, 112, 254, 255. B I L L card., ~ 48. BINCHP Daniel, 48, 50, 51, 56, 57, 58, 59, 63.

23. S

m - Nazionalismo e Internazionolismo

BISMARCKOtto von, 10, 21, 23, 26, 86, 88, 154, 160, 169, 103, 194, 200, 285. BISSOLATILeonida, 68, 95, 215. BLONDEL Maurice, 28, 32, 322. BLUMLéon, 145, 244. BONNETE., 108. BONOMELLI mons. Geremia, 48. BONIFACIO VIII, 55. B o m card. Francis, 165. BRIANDAristide, 30. BRIÈREp. de la, 181. BRUNINGHeinrich, 105, 106. BURRI,89. BYRNESJames, XIV, 240, 241, 246. C CALVINO Jean, 165. CANNING George, 80. CWUCCI Giosué, 54. CARLOMagno, 63, 186, 187, 213, 280, 291. CARLOI I I di Spagna, 158. CARLOV, 195, 199, 283. CHAMBERLAIN Houston Stuart, 22. CHAMBERLAIN Joseph, 24, 252. CHAMBERWNNeville, 108, 292. CHAPTAL mons., 31. CHURCHILLWinston, 74, 205, 235, 238, 239, 240, 241, 247, 250, 251, 256, 329. CIVARDImons. Luigi, 173. COLLImons. Evasio, 174. COLOMBO Carlo, 166. Cristoforo, 202. COLOMBO


COMBESEmile, 163. C o n l ~Auguste, ~ 27, 37, 323, CONSALVIcard. Ercole, 53. CORBINO Epicarmo, 100. CORDELLHuIl, 7, 240, 242. COSGRAVE Wilìiarn Thomas, 104. COSTANTINO,65. CRAWFOED Violet, 107. CRISPIFrancesco, 24. CROCEBenedetto, 73, 100. CRONWELL Olivier, 312. CURZON George Nathaniel, 241. D DANTE,287. D'ANNUNZIOGabriele, 24, 29, 33, 67. DAUDETAlphonse, 29. DE ANDREA mons. Michele, 111, 316. DÉAT, 110. DE COURTINS Gaspar, 89, 314, 338. DE GASPERIAlcide, ,112, 255. DE GAULLECharles, 109. DE RIAISTBE Xavier, 161. DE RIVERA Primo, 102, 223, 340. DE VALERAEamon, 104, DISRAELIBenjamin, 200. DOLLFUSSEngelbert, 70, 101. DOKATIGiuseppe, 95, 339. D'ONDES Reggio Vito, 86, 338. DORIOT,110. DOZPHIÉLOUX mons., 89. DREYFUSAlfred, 22, 23, 26, 93, 338. Du PONGE, 103. DURKHEIMEmile, 15, 37. E EDENAnthony, 239, 240, 241, 242. ENDRICImons. Celestino, 175. ENGECSFriedrich, 79. ENGHIENL O UAntoine ~ duca di, 158. EIKAUDIMano, XVI. ENRICOI1 dlInghiIterra, 158.

F card. Michad, 174. FEDQUCO Barbarossa, 282. ~AULXABER

FEDERICO 11, 282, 290. FERBARI Francesco L., 107, 339. F ~ I N Contardo, I 49. FERDINANDO I1 d'Asburgo, 287. FICHTEJohann Gottlieb, 9, 10, 15, 153, 319. FILIPPOI1 di Spagna, 283. FOURIERCharles, 79. ~ C E S C OI d'Austria, 151. FRAIL'CESCO I1 di Francia, 199. FRANCOFrancisco, 70, 71, 102, 148, 223. FUNDER, 101. G GASPARBI card. Pietro, 98. GENGISKan, 186, 292. GENTILE Alberico, 213. GENTILEGiovanni, 319. GERLACH Helmut von, 56. G E S ~Cristo, I 46, 290. GIBBONScard. James, 89, 111, 126, 314. GILARDIdon Carlo, 159. GIL ROBLESJosé Maria, 102. GIOBERTI Vincenzo, 82. GIOLITMGiovanni, 130, 152. GIOVA~XA d'Arco, 12, 28. GIULIOCesare, 33, 282. G L A D S TWiliiam ~ Ewart, 75, 200. GOBINEAU Joseph Arthur de, 22, 23, 27. GOWW Guido, 170. GREGORIO XVI, 51, 81. GROZIO Ugo, 213. GUGLIELMO 11 di Prussia, 151. H

BMS Francia J., 111. HALIFAXEdward, 108, 109. HARMELLéon, 89, 314. Haws Carlton, 24. HEGELFnedrich, 8, 9,10, 15, 37, 323. HELLEPUTIE,86, 89, 338. H ~ R &orge, X 79, 89. h n m c Ludwig, 95.


HESS Rudolf, 40. HEYMANHenri, 103. HIMMLERHeinrich, 40. H I N D ~ U Rvon G Paul, 105. HITLERAdolf, 20, 35, 38, 42, 63, 70, 71, 72, 104, 105, 106, 107, 147, 148, 151, 154, 168, 171, 201, 206, 211, 223, 233, 241, 246, 252, 312, 319, 328. HIRE Franz, 88, 314, 338. HOARESamuel, 243, 244. HORTHYNicolas, 72. Huss Jean, 55.

J JANETClaude, 89, 338. JAURÉSJean, 28. JEFFERSON Thomas, 331. K

KAASLudwig, 106. KANTEmmanuel, 214. KELLOGFrank Billings, 275, 277. KET~ELER Wilhelm Emanuel, 81. KIPLINGRudyard, 24. KOROSECH, 104..

117, 119, 121, 122, 126, 131, 134, 161, 169, 172, 182, 315, 322, 333, 338, 343, 345. LE PLAYFrédéric, 89. LÉRON-VRAU Camille, 89. LE ROY,28. LE ROYp. S. J., 165. LEWIS George, 216. LICHTENBERG Bemhard, 174.

LIE Trygve, XIII, XIV. L I G U mons. ~ Luigi, 111. LINCOLNAbraham, 25, 330. LIPPMANN Walter, 233, 240, 249, 256. Lo GRASSO Angeline, XVI. LO~VROT Elias, 20. LUIGI XLV, 9, 116, 158, 299. LUIGI XVI, 299. LUTEROMartin, 22. M MACARTHUR Douglas, 240. MACDONALD James Ramsay, 95, 252. MACHIAVELLI Niccolò, 33. MACKENZIE Compton, 25. MADARIAGA Salvador de, 108. MANCINI,345. MANNING card. H. Edward, 87, 89, 107, 314.

LABERTHONNIÈRE, 28. LACORDAIRE Henri Dominique, 60, 314, 316.

LAMENNAIS Félicité Robert, 81, 316. LANZAFrancis, XVI. LA PIRAGiorgio, 167. LASCASASBartolomé, 190. LA TOURdu Pin Réné de, 88, 338. LAVALPierre, 110, 244. LEFEBVRE Gordon, 138. LEIBNIZGottfried Wilhelm, 214. LEMIREabate, 95. LEXIN Vladimir Ilitch, 33, 61, 154, 215, 319.

LEONE111, 213, 280. LEONEXIII, 6, 22, 28, 48, 54, 55, 59, 87, 90, 93, 94, 95, 101, 113, 114,

23.' S ~ I R Z- O Nazionalismo e Internazionatismo

MANZONIAlessandro, 82, 86. MARGOT~I don Giacomo, 86. MARITAIN Jacques, 62, 108, 322. MARXKarl, 8, 37, 61, 76, 79, 83, 119, 214, 323.

MARXWilhelm, 105. MASARYK Thomas, 100. M A m m Giacomo, 158. MAURIAngelo, 345. MAURRAS Charles, 23, 24, 27, 28, 29, 32, 33, 110, 165, 319.

MAzzr~rGiuseppe, 10. MEDAFilippo, 95, 345. MEDOLAGO Albani Stanislao, 343. MERMILLOD card. 89, 314. MERRYdel Va1 card. Rafaél, 47. MICHELIGiuseppe, 345. MIHAJLOVICH Draza, 256.


MOLOTOV Viacheslav, 242, 254, 255. Monno~James, 26, 294. MONTALEMBERT Charles, 60, 81, 86, 87, 91, 316, 337. Mowrer Edgar, 252. MUIRRamsay, 25. M ~ R Romolo, I 95, 339, 344. M u s s o ~ m rBenito, 33, 35, 42, 49, 56, 59, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 74, 76, 100, 101, 103, 105, 108, 148, 158, 162, 168, 171; 195, 206, 215, 223, 244, 252, 312. N NAPOLEONE I, 35, 52, 72, 151, 186, 193, 200, 201, 206, 207, 280, 281, 283, 284, 285, 287, 309, 312. NAPOLEONE 111, 52, 84, 86, 160, 227, 309, 312, 336, 337. NAUDETPaul Antoine, 95, 316. N I T ~ IFrancesco Saveno, 6.

158, 214, 290, 193,

o O'CONNELDanieI, 60, 81, 82, 336. ORIGOmons., 103. OSSORIO y Gallardo Angel, 102. O'TOOLEG. Barry, XVI. OWENRobert, 79. OZANAM Frédéric, 82, 83, 84, 86, 91, 315, 336, 343.

P PAOLOdi Tarso, 282. PAPENFranz von, 105, 106. PASCALBlaise, 239. P A ~ gen. K George, 328. P A ~ IAnte, C 104. PEPPEBsen., 247. PERICLE,326. PÉRIN Charles, 89, 314. PERTIHAX, 65. PERUZZI(banchieri fiorentini), 15. PÉTAIN Philippe, 70, 110, 148, 309. PETRARCA Francesco, 239.

PIETROil Grande, 200. PIGNEDOLI mons. Sergio, 176. PILSUDSKIJosef, 100, 340. Pio VII, 51, 287. PIO IX, 6, 17, 51, 53, 54, 55, 58, 81, 82, 85. PIO X, 32, 48, 55, 94. PIO XI, 4, 5, 7, 18, 32, 35, 36, 37, 38, 39, 41, 43, 44, 46, 48, 49, 50, 56, 57, 63, 76, 1Q5, 111, 116, 120, 131, 132, 134, 135, 166, 167, 168, 169, 315, 346. PIO XII, 33, 37, 43, 44, 56, 65, 113, 131, 132, 169, 170, 172, 173, 174, 346: P I William, ~ 200. PLATONE, 326. POULLET Prosper, 95, 103. PREYSLR'G mons. Konrad von, 174.

REICHSPERGER August e fratello, 86. RHODESCecil, 24. RICHELIEUArmand Jean du Plessis, 9. ROBERTSON J. M., 24. RODINÒGiulio, 345. ROOSEVELT Franklin Delzno, 111, 200, 235, 238, 239, 240, 241, 253, 256, 329. ROOSEVELT Theodore, 200. ROSMINIAntonio, 17, 53, 60, 82, 159. ROTSCHILD (famiglia), 151. R o u s s ~ ~Jean u Jacques, 37, 321, 322, 323. RUNCIMAN Walter, 252. rum^ Peere, 103. RYAIVJohn A., 31, 111, 165. S SAINTPierre abate, 214. SAINTSimon Claude, 79. SALAZAR Antonio de Oliveira, 70. S ~ G H I EMarc, K 95, 103, 316, 339. SAVONAROLA Girolamo, 102, 108.


6

SCHMIDT,101. SCHUSCILNIGG KURTE., 72, 168. SCIALOJAsen., 51. SEIPJILIgnaz, 101. SERWI card. 101. SERRARENS, 103. SIMONJohn, 252. SIMONYves, 23. SODERINI Edoardo, 6. SORELGeorges, 28, 33. SPELLMAN card. 173. SRAMEKJan, 100, 169. STALINJosef, 71, 72, 154, 211, 223, 234, 235, 236, 239, 240, 243, 246, 247, 248, 250, 254, 256, 319. STARHEMBERG Emst von, 101. STETTINIUSEdward, 240. STURZOLuigi, XI, 6, 12, 14, 47, 62, 102, 106, 117, 181, 305, 315, 325. SUAREZFrancesco, 162, 214.

T TALAMO p. S., 89, 338, 342. TAPARELLI D7Azeglio Massimo, 18. THOMASAlbert, 95. TITO, Joseph Broz, 256, 257. NiccoIÒ, 343. TOMMASEO TOMMASO dYAquino,62. TONERJerome, 128. TONIOLO GIUSEPPE,60, 89, 91, 94, 314, 338, 343, 344. TOSTI abate L., 48. TREITSCHKE Heinrich von, 21, 22, 23. TREVES Claudio, 215. TRUMA.. Harry S., 234, 240, 241, 247, 250.

TUCRANINE, 189. TURATIFilippo, 68, 215.

U ~ E R Tdi O Savoia, 93.

.

VANDERBERG sen. Arthur, 247, 250. VANDERPOL A., 162. VANDERVELDE Emile, 95. VAUSSARD Maurice, 7, 30, 31, 32, 45. VENTURApadre Gioacchino, 17, 53, 6 4 82, 86, 316, 336, 343. VERHAEGEN Arthur, 86. VERMERSCH S. J., 46. VEUILLOT Louis, 86. VITORIAFrancisco de, 162. VlTOS, 100. VITTORIAd'Inghilterra, 284. VITTORIOEmanuele 11, 66. VOGELSANG Karl von, 87, 88, 338.

WASHINGTON George, 330. WICKHAMSTEEDHenry, 108. WILSONTHOMASWoodrow : 165, 238, 239, 245. WLNDT~ORST Ludwig, 60, 86. WIRTH Karl J., 105. WRIGHTJohg J., 39. WYCLIFFJean, 55.

ZINOVIEV Gregory, 145.



INDICE TAVOLA DELLE MATERIE

Awertenza

. . . . . . . . . . . . . . .

Prefazione

. . . . . . . . . . . . . . .

pag.

xi

D

XIXX

»

47

» n »

56 60

.

Cap I: NAZIONE E NAZIONALISMO

I. Origine del nazionalismo

. . . . .

. I l significato di nazionalismo . . I1. Le moderne teorie della nazione . La nazione nella storia . La personalità d i una nazione . . Limiti morali dei diritti nazionali . . Il1 Tipi odierni di nazionalismo . .

.

. . . . . . . . .

. . - Nazionulismo inglese e americano . . Teorici francesi del nazionalismo . .

. . . . .

IV . Nazionalismo e guerra . Nazionalismo e totalitarismo . Nazionalismo, antisemitismo e barbarie

. . .

V

Cap

.

Ultime parole di Pio XI su1 nazionalismo

. n: LA

QUESTIONE ROMANA PRIMA E DOPO I L FA-

SCISMO I. Da Pio X a Pio XI . . . . . . . Gli ultimi decenni del potere temporde Il . Pio XI e Mussolini . I cattolici in una stato totalitario ,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Cap . 111:

E

FINITO

50

FASCISMO CON MUSSOLINI?

. Mussolini e il fascismo . . . . . . . . . . Totalitarismo . . . . . . . . . . II. I residui fascisti e il n monismo statale . . . . .

I

D

»

» n

67 70 73


Cap . IV: DEMOCRAZIA CRISTIANA

I . I primi segni (1815-1848) . . . I1. Le due correnti cattoliche (1849-1871) 111. La questione sociale (1871-1891) . .

. . . . . . . . . . . . . . . IV . Democratici e conservatori dopo la Rerum Novarum (1891-1914) . . . . . . . . . . . . V. Rinascita democratica e crisi totalitaria (1914-1939) . . VI . Durante e dopo la guerra (1939-1946) . . . . .

» » »

79 84 87

n

»

90 95 107

»

150

»

156

n' »

161 169 176

W

.

Cap V: LO STATO. LE UNIONI E I PARTITI DEI LAVORATORI

I . Lo stato e i diritti delle unioni operaie

. . . . . . .

. Lo statuto legale delle unioni operaie

I1. I problemi delle unioni

. . . . . . . . . . . Aspetti tecnici . . . . . . . . . . Le unioni negli stati totalitari . . . . . . Unificazione dei movimenti operai

. . . .

I11. Partiti dei lavoratori e classi medie fra le due guerre . Mutamenti sociali dopo la seconda guerra mondiale . I partiti laburisti europei al potere . Le ripercussioni nell'emisfero occidentale

. . . . . .

.

Cap VI: LE GUERRE MODERNE

1. Carattere delle guerre moderne del sec. XIX

. . L'abisso tra la teoria cristiana e la prassi nelle guerre moderne . . . . . . . . . . . . . I11. I1 pensiero cattolico sulla guerra fino alla seconda guerr a mondiale . . . . . . . . . . . IV. La seconda guerra mondiale e la chiesa . . . . . V . Soluzione morale e sociologica dei problemi bellici . . I1

»

.

Cap VII: IMPERI E IMPERIALISMI

. . . . . . . . . . I1. Caratteri sociologici dell'impero . . . . Popolo dominante e popoli dominati . Potenzialità militare . . . . . . Spinta interiore a espandersi . . . . Ideale imperiale . . . . . . I11. Spirito imperiale e imperialismo . . . L'imperialismo britannico . . . . . L'imperialismo americano . . . L'imperialism russo . . . I

.

Caratteri storici dell'impero

. Imperi coloniali . Imperi territoriali

. . . . . .

.

Cap VI11 : L'INTERNAZIONALISMO

1. L'intemazionalismo e i suoi vari aspetti I1. La Società delle nazioni . . . . I11. Le Nazioni Unite . . . . . IV. I fondamenti dell'internazionalismo .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

n D

n n

213 217 220 224


Cap. IX: L A C R E I INTERNAZIONALE DEL DOPOGUERRA

. . . I . Il potere di veto . Le sfere di influenza . . . La prima causa della crisi . Una profonda crisi morale 11. I n cerca della strada . . . La conferenza di Parigi

. . . . . . . . . . . . . .

. .

.

.

. . . . . . .

n

n » n n

CONCLUSIONE APPENDICE

. . . . . . . . . . . . . .

.. Nazionalismo e internazionalismo . . . . . . . . 2 . . L'imperialismo dal punto d i vista sociologico.storico .

1

3

.. Presupposti e caratteri della democrazia cristiana . . . I . Res publica . . . . . . . . . . . . . Popolo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pubblica . . . . . . . . .

- Nazione cosa I1 Democrazia . u Popolo n i n democrazia . Libertà e democrazia . Diritti civili e diritti politici . Processo di democratizzazione politica . . . Processo d i democratizzazione economica . . . Le a élites politiche ed economiche . . I tre limiti della democrazia . Il valore dell'autolimitazione in democrazia I11 Democrazia cristiana: u n secolo di storia -Autonomia della democrazia cristiana . La crisi della moralità pubblica -Caratteri dellademocrazia cristiana , . Elementi teorici della democrazia cristiana . La n

.

. . . . . . . . . . . . . .

.

.

.

.

.

. . . .

.

. . . .

.

4 .. Sul futuro del mondo

.

.

. .

.

.

. .

. . . . . . . . . .

. . Democrazia cristiana . Caratteri . principi . dati storici . . .. La democrazia cristiana dal 1848 al 1948 . . . . . . 7. . Origini e sviluppi del movimento democratico e sociale cri. . stiano i n Italia . . . . . . . . . . . .

n D

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