Vol 12 (1951 1953) pag 1 269

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POLITICA DI QUESTI ANNI CONSENSI E CRITICHE (Dal Luglio 1951 al Dicembre 1953)


OPERA OMNIA DI

LUIGI

STURZO

SECONDA SERIE

SAGGI

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DISCORSI

- ARTICOLI

VOLUME X I I


LUIGI STURZO

POLITICA DI QUE~TIANNI . t

CONSENSI E CRITICHE: iDal Luglio 1951 d Dicembre 1953)

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L' EDITORE ADEMPIUTI 1 DOVERI

ESERCITERA

Bologna

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LEGGI

- Tip. Luigi Parma - V-1966


PIANO DELL'OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL'ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMA SERIE: OPERE I I1

111 IV V-VI VI1 VI11

- L'Italia e il fascismo (1926). - La comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). -

La Società: sua natura e leggi (1953). e morale (1936). Coscienza e politica. Note e suggerimenti di politica pratica (1952). Chiesa e Stato (1939). La Vera vita Sociologia del soprannaturale (1943). L'Italia e l'ordine internazionale (1944). Problemi spirituali del nostro tempo (1945). Nazionalismo e internazionalismo (1946). La Regione nella Nazione (1949). Del metodo sociologico (1950). Studi e polemiche di sociologia ,(1949-1950).

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- Politica

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IX

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X XI XII

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SECONDA SERIE: SAGGI

- DISCORSI - ARTICOLI

- L'inizio della Democrazia in Italia. - Unioni professionali Sintesi sociali (1900-1906). - Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-1915). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (1915-1918). - statale I1 partito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). - Riforma e indirizzi politici (1920-1922). - I1 partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). - I1 partito popolare italiano : Pensiero antifascista (1924-1925). La libertà in Italia (1925). - Scritti critici e bibliografici (19231926). - Miscellanea londinese (1926-1940). - Miscellanea americana (1940-1945).

- La mia battaglia - Politica

da New York (1943-1946). di questi anni. Consensi e critiche (1946-1959).

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TERZA SERIE: SCRITTI VARI I I1 I11 IV

V

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I1 ciclo della creazione (poema drammatico in quattro azioni). Versi. Scritti di letteratura e di arte. Scritti religiosi e morali. Scritti giuridici. Epistolario scelto. Bibliogafia. Indici.

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AVVERTENZA

Prosegue, con il presente volume, la pubblicazione degli articoli e lettere d i Luigi Sturzo, apparsi su vari organi della stampa nazionale nel periodo che va dal luglio 1931 al dicembre 1953. Ordinati cronologicamente, questi scritti toccano soprattutto questioni d i politica interna, fra l e quali acquistano particolare rilievo, per il numero d i articoli ad esse dedicato e per l'appassionata insistenza con cui Sturzo v i ritornava, le questioni della rilorma del senato, delle incompatibilità parlamentari, degli enti d i stato in liquidazione e dell'interventismo statale, del voto segreto, delle case da gioco, del credito bancario. Carattere d i vero e proprio saggio acquista la serie d i scritti sullo stato (sei articoli, apparsi durante il 1952 su periodici e quotidiuni); mentre i fatti politici più importanti del periodo, quali le elezioni amministrative del 1952 e quelle politiche del 1953, sono state oggetto di numerosi articoli d i commento. Per alcuni articoli e lettere n o n è stato possibile precisare i l giornale e quindi la data d i pubblicazione, mancando tale indicazione in archivio, ed essendo state consultate con esito negativo le collezioni dei quotidiani e periodici nazionali e locali su cui Sturzo era solito scrivere. N o n è escluso che tali scritti non siano stati allora pubblicati per cui, con l'inserimento nel presente volume, acquistano oggi valore d i inediti. La collazione degli scritti è stata curata dalla dott.ssa Maria Teresa Garutti Bellenzier.

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- Smitzo

- Politica

di questi anni.



I CONSORZI AGRARI AL SENATO

Finalmente, dopo due anni di attesa, il rientro al senato, fra accuse ed elogi, dei consorzi agrari, si è conchiuso con un ordine del giorno a firma « Paratore, Bertone, Ruini ». Si domanda che il ministro dell'agricoltura, d'accordo con quello del tesoro, presenti entro il 30 ottobre prossimo una relazione sulle gestioni dei consorzi agrari, mettendo in evidenza « a ) il movimento finanziario di queste gestioni; b) la situazione al 30 giugno 1951 dei debiti e dei crediti della federazione; C) la situazione dei conti con il tesoro; d) la situazione degli interessi passivi pagati dalle banche e addebitati al tesoro; e) le retribuzioni liquidate e da liquidare per i servizi affidati. La relazione, tenendo speciale conto del portafoglio della federazione, indicherà inoltre, come si è costituito il patrimonio della federazione stessa e la natura di esso D. Ricordo che con l'articolo (C Le gestioni parastatali in parlamento », pubblicato dal Popolo (Roma) il 26 aprile 1949, sollevai apertamente tale questione a proposito della discussione sul disegno di legge dal titolo: « assunzione a carico dello stato dell'onere risultante dalla gestione 1947-48 dei cereali di produzione nazionale e di provenienza estera destinati alla panificazione e alla pastificazione 1). I1 senato, obtorto coUo, aveva ridotto a 35 miliardi l'acconto dei 45 richiesti dai ministri proponenti, come un presunto 80 per cento del debito dello stato verso i consorzi agrari. L'urgenza del provvedimento era stata sostenuta dal tesoro, perchè allora gravavano sullo stato circa dieci milioni al giorno d i interessi presso le banche che avevano finanziati i consorzi suddetti. La legge passò a tamburo battente; e non si


parlò più nè dei conti, nè dei crediti dei consorzi agrari, nè degli interessi da pagare alle banche. Scrissi un altro articolo, pubblicato su vari giornali; ai primi di agosto del 1949, mettendo in rilievo quanto si affermava nella relazione dei deputati Germani e Marenghi, che nel 1947-48 le spese relative ai granai del popolo erano state di ben 89 miliardi, 990 milioni, 939 mila e 10 lire (mancavano solo i centesimi) dei quali le spese di amministrazione ammontavano a 29 miliardi, 340 milioni, 597 mila e 15 lire. Se i relatori ne sapevano tanto da arrivare alle 10 e alle 15 lire finali, com'è che da allora ad oggi i relativi rendiconti non sono stati presentati? Infatti, il c residente della corte dei conti mi scriveva il 28 aprile scorso in una lettera da me pubblicata: « Le gestioni degli approvvigionamenti alimentari, assunte per conto dello stato dalla federazione dei consorzi, sono soggette al controllo postumo della corte; ma questa non ha avuto la possibilità di esercitarlo, perchè ancora non sono stati presentati i rendiconti D. C'è da stupirne: gli on. Germani e Marenghi nell'aprile 1949 conoscevano fino i centesimi dei resoconti 1947-48, ma il presidente Ortona nell'aprile 1951 non è in grado di parlarne perchè non gli sono arrivati. Due anni dal ministero dell'agricoltura alla corte dei conti; e dire che fra i due edifici non ci sono più di cento metri di distanza! La storia continua. I1 mio attacco dell'aprile '49 mirava in modo speciale alla questione degli interessi di dieci milioni al giorno che allora gravavano sul tesoro. Come accadeva ciò? I consorzi agrari erano liberi di accendere mutui con garanzia sui grani nazionali ed esteri, ad un tasso che, si disse, variava tra il 6 e il 7 per cento; quando i consorzi vendevano il grano, depositavano le somme nelle banche, prendendo 1'1 per cento fissato nel famigerato cartello bancario (contro il quale mi batto da quattro anni). Si disse allora ( e la voce non fu smentita) che le banche, per avere tali ingenti depositi, consentivano sottomano (per non offendere apertamente il cartello) una maggiorazione di interessi che non veniva scritta come tale nei registri d i banca e forse neppure nei registri dei consorzi. Ma quando tali insinuazioni (vere o false) corsero troppo,


fu studiato dal tesoro un provvedimento, non so se orale o scritto, per il quale le banche si obbligassero a corrispondere un maggiore interesse sui depositi consortili a diffalco degli interessi attivi per l e somme anticipate o mutuate sulla gestione ammassi. Quale sia stato l'accordo non mi fu dato sapere; si disse che la spesa per interessi a carico del tesoro fosse discesa da 10 milioni al giorno a 4 milioni: conti in aria! Se il credito della federconsorzi denunziato dal ministro Segni nel gennaio 1949 per i conti 1947-48 era di circa 55 miliardi, dei quali furono per legge accreditati in acconto solo 35 miliardi, e se da allora ad oggi il parlamento non ha emanata nessun'altra legge nè di acconti nè di saldi, c'è da pensare che i l credito della federconsorzi per i l 1948-49 e 1949-50 ( a parte l'anno presente 1950-51) sia salito almeno ad altri 100 miliardi: conti in aria! Se fu il carico degli interessi dovuti dal tesoro che diede l a spinta a fare approvare la legge dai due rami del parlamento senza un rendiconto che presentasse un carattere di serietà, perchè nei due anni successivi tale carico sempre crescente non è servito a dare un'altra spinta per riportare il problema a l parlamento? Fra i punti oscuri, questo è tanto notevole da aver indotto i tre senatori a fissare un ultimatum: il 30 ottobre 1951. Un altro punto da mettere in luce è quello che io proposi nell'agosto 1949 circa l e spese di gestione. Un terzo di tali spese, quasi 30 miliardi in un anno, risultarono, nell'esposizione dei relatori della camera, come « costo di servizi ».Allora questo costo doveva esser pagato dal tesoro su esibizione di fatture o d i conteggi: tanto per personale, tanto per noli, tanto per saccheria, tanto per automobili e così di seguito. Dopo l e mie critiche per un sistema così balordo, ebbi l'assicurazione che tesoro ed agricoltura sarebbero stati d'accordo a fissare un forfait per spese generali, sia per quelle da farsi dai consorzi provinciali che per quelle attribuibili alla federconsorzi; il calcolo fu fatto per ogni quintale di ammasso. A quel che si dice, sembra che l'analisi della somma forfetaria per l e relative spese locali e centrali non sia stata fatta con estrema accuratezza, lasciando larghi margini di guadagno. Ciò nonostante il sistema del forfait è meno aleatorio di quello del pagamento su conti e fatture. Kon ho avuto il bilancio dei consorzi agrari del 1950; ma


ho sott'occhio quello del 1948 dove « le gestioni » sono messe a partita d i giro; identica cifra tanto all'attivo che al passivo. Così non s i può rilevare quale ne sia C il movimento finanziario », quale « la situazione dei conti col tesoro », quale u la situazione degli interessi passivi pagati dalle banche e addebitati a l tesoro », quali « le retribuzioni liquidate e da liquidare per i servizi affidati », proprio tutto quello che a distanza di due anni è stato chiesto dai senatori Paratore, Bertone e Ruini. 26 giugno 1951. ( L a Stampa, 6 luglio).

LA MACCHINA LEGISLATWA Ricorre sulla stampa, e le occasioni non mancano, il tema della funzionalità del parlamento. Tempo addietro fu lanciata l'idea (che non ebbe fortuna, e ciò depone a favore dello spirito democratico che bene o male esiste nel paese) dei decretilegge. Altri vorrebbe che le commissioni in sede legislativa avessero più grano da macinare (ho già più volte scritto e scriverò ancora sui motivi che mi fanno perplesso ad accettare il sistema). Ora si cerca di escogitare una procedura più spicciativa, che sarà un bene purchè non si risolva a colpi di bacchetta presidenziale. I n sostanza, non si trova la via di far leggi in serie come si fa p e r le automobili o gli abiti da uomo. Questo è l'errore nel quale cadono gli italiani che mostrano di aver molta fede nelle leggi che poi non osservano, e pochissima nel costume al quale non sanno adattarsi. Nelle sessioni del 1948 e 1949 i l parlamento inglese approvò 106 leggi (delle quali 4 d i iniziativa ~arlamentare),8 ordini provvisori o precauzionali, 11 di ratifica per la Scozia, che gode di una certa autonomia. Nello stesso periodo di tempo (1948-1949) il parlamento italiano approvò 619 leggi (delle quali 90 d i iniziativa parlamentare).


Nel 1950, il parlamento inglese approvò 39 leggi (delle quali nessuna di iniziativa parlamentare), 9 leggi d i ordinamento provvisorio o urgente e 9 ratifiche per la Scozia. Nello stesso periodo il parlamento italiano ha approvato 553 leggi (delle quali 102 d i iniziativa parlamentare). In due anni e mezzo, la differenza fra i due parlamenti è di 990 leggi, che l'Italia h a sfornato in più dell'hghilterra creando una inflazione legislativa di eccezionale imponenza. Dopo di che, giornalisti orecchianti, parlamentari senza senso comune, ministri defraudati della rapida approvazione d i disegni-legge abborracciati e improvvisati, burocrati che dimenticano le leggi esistenti e propongono leggi nuove a getto continuo, si lagnano dicendo che il parlamento è un corpo che non marcia e che non rende, perchè non fa leggi in serie come le macchine Olivetti. Di fronte a tali cifre, ciascuno si chiederà come mai un paese a tradizione parlamentare sette volte secolare quale l'Inghilterra, che ha la stessa popolazione dell' Italia, ma che h a interessi in tutto il mondo infinitamente maggiori di quelli nostri, possa esser contenta di avere deciso nel 1950 39 leggi e 9 disposizioni di contingenza (oltre 9 ratifiche di leggine riguardanti la Scozia, di carattere... regionale); mentre noi siamo scontentissimi delle nostre 553 leggi belle fresche e lampanti! Passiamo, come dire?, ai residui passivi ».I1 parlamento inglese, avendo diviso le legislature in sessioni come u n tempo si faceva in Italia, ottiene il vantaggio che alla fine della sessione i disegni non approvati decadono; lo sgombro è fatto. Chi desidera rimetterli in circolazione si assuma il carico di ripresentarli. Nel fatto la camera dei comuni nel 194849 non respinse alcun disegno di legge; la camera dei lords ne respinse due. Gli altri disegni non debbono essere stati molti se nel 1950 il governo laburista ne presentò 19 ai comuni e 20 ai lords e passò 18 provvedimenti provvisori o d i ratifica; dei quali solo uno bocciato dai lords e nessuno dai comuni. In Italia le cose son andate diversamente per la soppressione delle sessioni fatta non si sa perchè dai costituenti. I disegni di legge di iniziativa governativa nel 1948-49 furono 654; d i ini-


ziativa parlamentare 365, totale: 1019; ne furono respinti o ritirati 20, approvati 619, sicchè passarono a l 1950 la bellezza d i 380. Nel 1950 risultano presentati 470 disegni di legge dal governo, 256 dai parlamentari, totale: 726, dei quali ritirati o respinti 52; approvati 553; rinviati al 1951, 121. Di questo passo, al 1953, avremo la decadenza (finalmente) d i un migliaio di disegni di legge, ma avremo accumulato nel quinquennio da 2500 a 3000 nuove leggi. Come potrà vivere il popolo italiano sotto l'incubo di tante leggi, è quello che non sapranno mai dirci i nostri zelantissimi legislatori. Giorgio Arcoleo, costituzionalista d i gran valore e spirito sottile e penetrante, diceva che il merito del parlamento era quello d i riuscire d i remora a far le leggi, non quello di far l e leggi. Oggi le remore irritano i nostri legislatori e i nostri governanti e perfino i nostri giornalisti, che vorrebbero una macchina legislativa a piena velocità. Sorprenderà forse questa mia adesione all'affermazione tra paradossale e arguta del mio insigne concittadino. I1 perchè l'ho già scritto altre volte e mi riesce ancora più evidente, nel mettere controluce quel che avviene in Inghilterra. Quei signori che vogliono tutto regolare a colpi di leggi, e che mostrano d i avere tanta fede nelle leggi, non sanno che la legge è spesso la forma giuridica di un costume già formato, o la garanzia legale e penale di u n diritto già esercitato, o l'imposizione d i un gravame che risulta d i evidente necessità per il paese. La vera arte di governo è quella di applicare con £ermezza e d equità le leggi esistenti, con quei piccoli ritocchi, che servono a togliere la polvere del tempo, adeguare i valori e snellire le procedure. Chi guarda le collezioni delle leggi vede un crescendo pauroso: un tempo tutte le leggi emanate nel corso d i u n anno andavano in due o tre volumi, poi ne occorsero cinque, ora non bastano dieci. Si parla di riforma burocratica e non si tiene conto d i quante, delle numerose leggi fatte dal giugno 1948 ad oggi, riguardano il personale statale; non parliamo dei decreti legislativi del quadriennio antecedente quando il gabinetto aveva poteri del par.


lamento. Se si fosse evitata l'inflazione burocratica con tante particolari disposizioni su ruoli e g a d i , con speciali favori elargiti dai diversi ministri ai propri personali (salvo i pochi casi dei figli della gallina nera), il problema ora si presenterebbe meno complicato e di meno difficile soluzione. E perchè non regolare meglio gli stati di previsione e le facoltà governative al riguardo, per evitare leggi e leggine che si risolvono in casi particolarissimi d i favore o di sfavore, senza quei criteri organici che presiedono o debbono presiedere alla compilazione dei bilanci, lasciando sulle spalle dei ministri le responsabilità amministrative che loro competono in singolo o collegialmente? Ma il difetto principale dei disegni di legge governativi è che non sono studiati bene, non sono organici, sono scritti male, e, purtroppo, mostrano i segni del compromesso fra i diversi ministri o meglio fra le diverse burocrazie, e, spesso, fra i diversi partiti. Così si trascurano per anni disegni di legge dichiarati urgenti che prima subiscono il tira e molla dei gabinetti dei ministri competenti, poi le diverse vedute dei membri del consiglio dei ministri, poi quelle dei gruppi rappresentati nelle commissioni, così che dopo mesi ed anni si va alla camera o al senato per poi rifare la stessa rimpastatura alla camera o al senato. A conferma di quanto scrivo basta ricordare i disegni di legge sui fitti, sui contratti agrari, sulle regioni, le elettorali amministrative, contro la ricostituzione del partito fascista e simili. Andrei troppo alle lunghe se parlassi qui dei disegni di legge d i iniziativa parlamentare, che sono divenuti una piaga parlamentare che non esiste i n Inghilterra e non esisteva prima del fascismo, per quell'auto-disciplina che dovrebbe essere il primo dovere dei parlamentari. Occorrono provvedimenti per regolarne l'uso i n limiti più decenti. Oggi, che si è provato u n ostruzionismo di colore, tutti si domandano come si fa ad impedirlo. Ma l'ostruzionismo capita anche a Washington e a Parigi, più raramente a Londra (gente seria e meno eccitabile); capitò a Roma prima del fascismo; celebre mezzo secolo fa l'ostruzionismo contro l a legge, Pelloux. Si tratta di febbre di 48 ore o di sette giorni, che cade da sè, con un po' d i doIor di testa e qualche pugno dei parlamentari,


e che (contenuto nei termini di una franca resistenza di nervi

- per i deputati - e di polso - per il presidente t)si esaurisce in se stessa. I1 regolamento serve a contenerlo, non a impedirlo. I1 fatto serio per l'Italia d'oggi è ben altro: l'esistenza di un partito antiparlamentare che usa e abusa del parlamento; cosa che non esiste a Washington e a Londra, ma che esiste a Parigi e a Roma. La cura d i questa malattia si fa dentro e fuori del parlamento; ma non è cura di regolamenti parlamentari (come alcuni credono), nè di leggi (come altri si propone); è cura netta, seria, costante che tocca tutti i partiti democratici costituzionali, e si fa tanto nel parlamento che nei ministeri, tanto nella stampa che nel paese. Molti sono i Dulcamara che vanno vendendo specifici sulle piazze; pochi coloro che conoscono la malattia e sanno preparare la medicina appropriata e usare il bisturi. Se 1107 leggi approvate dal parlamento repubblicano fino al 31 dicembre 1950 sono troppe e troppo indigeste come medicine, nessuna o quasi nessuna sembra che fin'oggi sia stata atta a fermare il processo del cancro bolscevico. Questa è la costatazione che bisogna fare per far rimettere in carreggiata parlamento e governo. 9 luglio 1951.

( L a Via, 14 luglio).

IN ATTESA DEL RIMPASTO (*) Poche battute e subito i n argomento: quel tavolo pieno di carte ci costringe a essere brevi. - Che ne pensa del rimpasto? largo? stretto? di misura? - Ecco, risponde don Sturzo guardando il soffitto: se n'è parlato troppo. È dall'estate 1949, son due anni, che si parla d i crisi ministeriali, di uscite e rientri di partiti; di attese per (*) Intervista con u Il Messaggero n.


l'autunno e per la primavera. Solo il presidente è da cinque anni e mezzo il simbolo della permanenza e della stabilità governativa. Se rimpasto doveva essere, era meglio farlo all'uscita dei socialdemocratici, prima anche delle elezioni. Egli forse sperava reimbarcarli come l'anno scorso, a elezioni fatte; non gli è riuscita; e gli è fallito anche il ritorno dei liberali. Non si può vivere di attese. - Allora lei vorrebbe un rimpasto piuttosto largo, - interrompiamo. - Largo o no, è questione di uomini; quel che importa è che sia efficiente. Non. so perchè il sen. Jannaccone abbia l'idea che « il rimaneggiamento possa essere inteso a mutare certe linee di condotta e a far divenire il governo l'arbitro delle future elezioni politiche ».Già: quell'arbitro è un ricordo giolittiano che oggi non regge. Se i piccoli non vogliono entrare (e De Gasperi ha mostrato per due anni una larghezza e una pazienza eccezionali), certo che il partito di maggioranza si dovrà assumere tutta la responsabilità delle elezioni. Responsabilità, non arbitrio. - È cosi, non c'è che dire; ma il rilievo del sen. Jannaccone rimane integro circa il mutamento d i certe linee d i condotta, senza aver fatto l a crisi. Risponde don Sturzo sorridendo: - Mutamenti di linee di condotta senza crisi e senza rimpasto se ne faranno da tutti i ministeri di tutte le democrazie passate e presenti. Si tratta di aggiustamento di tiro, di valutazione di situazione, di adeguamento al dinamismo dei fatti. Guai a quel ministero che resta fermo al cambiarsi delle situazioni. Oggi si può dire che per certi aspetti la situazione è alquanto diversa e discretamente preoccupante. - Se è cosi, perchè De Gasperi non fa una crisi? - Proprio perchè liberali e socialdemocratici vogliono del tempo gli uni e gli altri per riorganizzarsi, essendo tuttora in uno stato fluido. Perciò De Gasperi deve regolare la partita con i gruppi democristiani della camera e del senato e con i repubblicani. - Vuole dirci in che cosa la situazione sia « diversa e discretamente preoccupante »?


Don Sturzo non è restio a dire il suo parere, abituato com'è a scriverlo sovente e con framhezza. - Secondo me il paese sta attraversando anzitutto una crisi psicologica di carattere politico. Le elezioni hanno rivelato che il comunismo è tuttora forte, ben organizzato, deciso alla conquista. Questa non è stata la rivelazione di un fatto nuovo; è stata la conferma collaudata di un fatto esistente. La perdita di comuni importanti e la mancata conquista di provincie credute sicure da parte dei comunisti è stato il lato negativo per essi; ma il paese ha visto chiaro che tre anni, dal 1948 ad oggi, non sono valsi ad allontanare il pericolo bolscevico. Dall'altro lato, la quasi garibaldina avanzata del MSI ha destato due stati d'animo opposti: quello della borghesia nazionale e delle zone monarchiche in senso favorevole; quello di coloro che temono un ritorno alla concezione fascista, in senso contrario. I1 capo del partito di maggioranza ha il dovere di sentire i propri organi nazionali e parlamentari su questi e altri punti, consultarsi con i partiti alleati o alleabili, per adeguare il governo alla situazione. La crisi psicologica nel settore economico è anch'essa assai notevole. Perchè la chiama psicologica? (viene naturale l'interruzione). - Sicuro, psicologica. Non manca il denaro, solo che stenta a circolare perchè non si vende e non si compra a sufficienza; e questo arresto è dovuto all'acquisto di beni di consumo, sia dai privati per speculazione, sia dallo stato per preveggenza; beni che non si possono o non si devono smaltire subito. Lo stato h a ovviato all'inconveniente un po' tardivamente, con il decreto legge del 7 corrente luglio, in forza del quale I'dTìcio cambi e il tesoro sono autorizzati a cedere e ricevere i n prestito, fino a cento miliardi di lire, la valuta relativa agli acquisti per scorte effettuate e da effettuare. Così le somme spese rientrano (entro tali limiti) nella circolazione ordinaria a sollievo delle banche e alle rispettive possibilità creditizie. Ma il denaro che gli speculatori hanno investito non torna nella circolazione fino a che non si ~ersuaderanno a vendere

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perdendovi; e il denaro che i gros-bonnets della finanza hanno trafugato all'estero, non tornerà finchè non si persuaderanno, come è loro dovere e loro interesse anche, a riportarlo in Italia. Essi speculano sull'inflazione anche larvata, per cavarsela con poco. Ma l'inflazione si sa quando e come comincia e non si sa quando e come finisce. - Lei, che si occupa così spesso d i materia economica e finanziaria, avrà certo idee in proposito. Può dirle brevemente? - Secondo me, lo stato oggi come oggi, dovrebbe rinunziare ad aumentare tariffe postali, telegrafiche e telefoniche, tariffe ferroviarie e di trasporto, tasse sulla benzina e simili, prezzo di gas e di elettricità (pur affrettandone la semplificazione e unificazione delle tariffe). Così eviterà di concorrere o dar pretesto al rialzo dei prezzi, che, in parecchi settori, è ingiustificato. Ha fatto bene il governo a resistere alla pressione degli agricoltori per il rialzo del prezzo del grano. Non basta: occorre finirla col mito della nominatività coattiva dei titoli; la finanza ci avrebbe da guadagnare e la economia ancora di più. I1 denaro rifugiato all'estero avrebbe modo di ritornare. Del resto non mancano modi per colpire la r i p chezza che vuole evadere agli oneri fiscali. Non basta: finirla con il cartello delle banche, che lascia solo alle casse postali il privilegio d i dare alti interessi ai risparmiatori. I1 denaro deve con confidenza trovare i suoi naturali impieghi. I n sostanza, la crisi economica si supera ridando fiducia all'iniziativa privata; la crisi politica ridando fiducia nello stato. A me non piacciono le leggi eccezionali, nè politiche, nè finanziarie, nè economiche. Se la D.C. riuscimà a sanare la frattura che si è fatta in Italia con i ceti medi e con la borghesia produttrice, e saprà mandare via dai ministeri la genia profittatrice e parassita, e iniziare la liquidazione dei molti enti parastatali, che assorbono denari dello stato e denari dei privati, avvierà il paese a superare la crisi psicologica politica ed economica. I partiti democratici che oggi soffrono di interne difficoltà e temono il logorio governativo, troveranno allora motivo per meglio servire il paese, sia collaborando sia passando all'opposizione costituzionale.


Se il rimpasto, non importa in che misura, darà la sensazione d i un adeguamento alla situazione, sarà vantaggioso. De Gasperi h a avuto u n mandato di fiducia e questa non gli negherà il paese, come non gliel'ha negata fin oggi. Con questa battuta don Sturw chiude l'intervista, e lasciamo l'accogliente casa d i via Mondovì. ( I l Messaggero, 14 luglio).

SISTEMAZIONE MONTANA E FLUVIALE Prendo l'occasione di un disegno di legge Aldisio e della discussione del bilancio dell'agricoltura e delle foreste a l senato (molto agricoltura e pochissimo foreste) per riprendere il tema dell'ultimo mio articolo su Difesa boschiva ». Debbo anzitutto fare una rettifica, chiestami dal ministro Campilli, il quale ha smentito la voce corsa che siano stati diminuiti i 50 miliardi assegnati alla sistemazione montana del mezzogiorno. Egli, però, converrà con me che con cinque miliardi all'anno in dieci anni si farà ben poco, per iniziare la sistemazione idraulico-forestale del mezzogiorno, quando organizzazione, piani normali e mezzi di bilancio del settore foreste sono semplicemente inadeguati. Or non è molto mi si riferiva un colloquio con un alto funzionario del ministero dell'agricoltura, il quale criticava coloro che si facevano forti della mia a campagna D per una seria politica forestale, dicendo che per sistemare la montagna italiana non basterebbe tutto il bilancio dello stato; mentre è più urgente e più conclusivo che si facciano le bonifiche; alla montagna ci penseranno i posteri. È assurdo opporre bonifica a sistemazione montana ; ci troviamo di fronte una diversa mentalità professionale di agrari e di forestali, acuita dalla presa d i possesso del ministero dell'agricoltura da parte dei tecnici agrari, che fanno come il riccio, allontanando a colpi d i pungiglione i forestali e gli amministrativi che


dànno loro noia. I n fondo, c'è un animus professionale che ingrandisce i l proprio settore e rimpicciolisce quello dell'incomodo vicino. Questa mentalità antagonista si sviluppa anche presso i bonificatori,. ai quali ha fatto meraviglia i l mio articolo succitato, e qualcuno ricordò la mia antica attività a favore delle bonifiche e il mio deciso intervento a l convegno di San Donà di Piave del 1923. Sostenitore della bonifica integrale sono stato da mezzo secolo; mai però h o ammesso che si possa bonificare l a pianura e la valle, senza le relative sistemazioni montane. Purtroppo, nonostante le leggi, sia lo stato, sia i privati hanno lesinato i mezzi alla sistemazione montana ed hanno abbondato in spese per le bonifiche, con il bel risultato che basta un (C discreto temporale, una K normale piena, una serie, di pioggie estive o autunnali per portare nuovi danni e fare affrontare tante nuove spese, sia per rimettere a posto le bonifiche, sia per arginare fiumi e torrenti. Bonifiche e sistemazione montana vanno di pari passo, anzi a braccetto, non in contrasto, come pensano i sapientoni d i via XX Settembre. È vero che, volendo affrontare i due problemi insieme, i mezzi non bastano a bonificare tutta l'Italia. Ma a chi è venuto mai in testa che sia possibile in un giro di pochi anni bonificare tutta l'Italia? Si potrà creare un esercito di tecnici agrari che facciano piani di bonifica, ma non si potranno fare serie bonifiche senza larghi mezzi e larghissimi investimenti, unendo insieme iniziativa privata e integrazione statale. Purtroppo, se l a bonifica grava parzialmente sul privato, la sistemazione idraulico-forestale è a carico dello stato, ed è lo stato che deve prenderne la piena responsabilità. I1 ministro Aldisio sta varando un disegno di legge sulla sistemazione fluviale, limitatamente ai principali fiumi: Adige P o Amo Tevere Calore Volturno Garigliano e Simeto. E sta bene; spesa urgente, inderogabile e iniziativa degna di plauso. Ma, e dei relativi bacini montani chi se ne occupa? Qui si fa questione di competenze. Un tempo le bonifiche e opere idraulico-forestali appartenevano ai lavori pubblici; oggi sono dell'agricoltura e foreste, con ingerenza però degli organi dei

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LL. PP.: consiglio superiore

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provveditorati magistrati delle acque geni civili. Non se ne può fare a meno. Ma il tesoro riparte le somme per ministeri; la Cenerentola d i via XX Settembre h a solo le briciole. La ragioneria è facile quando ce la può fare; perchè quella brava gente che ha da fare con i numeri, non vede gli oggetti nella loro realtà, vede numeri in colonne, con riporti parziali e somme finali, Se questi numeri allineati si chiamano bacini montani o bonifiche, o in altra maniera, non conta: contano i totali per ministeri, che stanno lì come colonne d'Ercole invalicabili. Così, se il ministro Aldisio riesce a far sistemare i fiumi nel loro decorso (competenza dei LL.PP.) e il ministro Segni non riesce a sistemare le relative zone montane (competenza delle foreste), avremmo il bis delle bonifiche d i pianura e di valle, senza le relative difese boschive. Ma queste costano troppo, risponde l'ingenuo (il troppo ingenuo neo-funzionario dell'agricoltura, che io credo di avere identificato); sicuro che costano! Ma chi invece di riparare una casa che fa delle crepe con rinsaldarne le fondamenta ( e nel caso nostro le fondamenta del sistema agrario poggiano sulla montagna), si contenta di aggiustar l'intonaco e d i mettere le cornici alle finestre, ci ritornerà più volte fino che si rimette a rifare per intiero la casa o a lasciarla andare i n malora. È per questo che io ho criticato i cantieri di rimboschimento; l'on. Fanfani sulla stampa, l'on. Rubinacci con una cortese lettera, hanno cercato di rimettermi sulla buona strada: i miliardi spesi i n tali cantieri non sono stati trenta ma dieci; come poi spuntino sui conti americani dell'ERP i 30 miliardi da me denunziati, è uno di quei grovigli che non ho 'avuto tempo d i districare. Può darsi che in un conto si tratti di cantieri, e nell'altro siano riuniti insieme cantieri e corsi d i riqualificazione; è una mia supposizione. Spero che anche i conti dei fondi E R P arrivino un giorno in parlamento: chi vivrà vedrà. Ma non è questo il mio punto fisso; è un altro. Io concepisco la sistemazione montana come una cura radicale, complessiva, integrale. Non mi piace, e l'ho scritto, quel che sta facendo la cassa per il mezzogiorno con l'approvare progettini di pochi milioni qua, altri milioni là, per mettere su qualche briglia e

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delle piantagioni. No : occorre aggredire la montagna ; occorre mettere in sesto le zone calancose; occorre canalizzare le acque, fare serbatoi di garanzia, circondare le zone coltivabili con protezioni arboree adatte; rifare il demanio forestale con criteri di utilità industr-iali; dar vita alla montagna oggi che l a montagna è stata devastata, abbandonata, e muore. Quegli empiastri che sono i piccoli provvedimenti in uso, fatti con lavori in economia, periziati a cinque milioni l a volta per evadere gli obblighi del regolamento, escludere gare, aste, appalti e simili; quelle stradelle fatte e rifatte cento volte, sia per improvvisazione d i tecnici che per improvvisazione d i operai, ovvero per mancate manutenzioni, e così di seguito, non valgono il denaro che ci si spende e la fatica che ci s i impiega. Mi si assicura che i cantieri di rimboschimento sono stati u n successo; me l o conferma l'on. Rubinacci; ne prendo atto VOlentieri; ma non hanno a che fare con quel che io sostengo nei miei articoli. Ecco perchè non computo i dieci o i trenta miliardi spesi fra quelli che riguardano la C difesa boschiva ». Dopo d i che spero che alla camera, discutendo del preventivo 1951-52 del ministero dell'agricoltura e delle foreste non avvenga quel che è avvenuto a l senato, ove quasi tutto il tempo, tutto l'interesse e tutti i fondi sono andati per l'agricoltura, trascurando la £oresta. Fino a che manca in merito la più stretta collaborazione delle foreste con i lavori pubblici, e non si ha una visione larga e organica del problema, e fino a che il tesoro non si rende conto che tali opere meritano più dei l20 miliardi dati d i recente a1171RI per rattopparne l a carcassa, l'Italia forestale e l'Italia agricola (insieme) andranno verso la più rapida e irreparabile decadenza.

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16 luglio 1951. (Realtà Politica, 21 luglio).

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- S r o ~ z o- Politica

di questi anni.


LE CRISI MINISTERIALI 1920-22 E I L PARTITO POPOLARE

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È nella opinione comune che il partito popolare italiano, e per esso il primo segretario politico (colui che scrive), sia stato un prepotente facitore e disfacitore di ministeri. Giorni fa sul « Mattino di Napoli » Giovanni Ansaldo, confrontando il metodo di De Gasperi, con quello (ritenuto classico) di Giolitti, scriveva: « Il suo urto con Sturzo - urto così gravido di conseguenze per tutta la storia parlamentare italiana - derivò precipuamente dalla intransigenza con cui egli sostenne che don Sturzo, segretario del partito popolare, non aveva assolutamente da interferire per nulla nelle sue offerte di portafogli ministeriali, per esempio a Meda anzichè a Cavazzoni n. Nulla d i più inesatto nei miei riguardi, perchè io mai interferii nè con Giolitti nè con altri circa i nomi dei ministri popolari da scegliere; mai feci da schermo fra gli uomini chiamati dal re a comporre i ministeri e i ministri che vennero scelti. I1 mio urto con Giolitti non fu di carattere personale e crisaiuolo, sì bene di indirizzo politico. Essendo di attualità la crisi di governo, ed avendo io espresso di recente le mie idee in merito, mi piace qui ricordare l e « ingerenze del partito popolare e mie personali nelle cinque crisi avvenute dal 1920 al 1922. Crisi Nitti, maggio 1920. Eletti nel novembre 1919 novantanove popolari, lasciarono Nitti al posto senza partecipare a l suo governo. Ma fu tale l'urto col ministero Nitti per gli scioperi politici, ferroviari e postelegrafonici, del gennaio-febbraio 1920, - nei quali la confederazione bianca fece andare avanti i servizi, e poi fu lasciata in disparte nelle trattative finali, - da potersi dire che la fine era già stata segnata. I1 voto contrario si ebbe nel maggio 1920 e Nitti si dimise. P u r senza base parlamentare, Nitti ebbe il reincarico e chiamò tre popolari. I n quella occasione io personalmente ero incerto se a l partito convenisse una reincarnazione Nitti. Fu allora che per iniziativa di


comune amico ebbi con Nitti a casa sua un abboccamento mattutino, che si conchiuse con un mio disinteresse. Egli iniziò le trattative col segretario del gruppo popolare, on. Micheli. La direzione del partito si limitò a chiedere l'assicurazione su tre punti del programma: riforma agraria, riforma scolastica, parità sindacale (allora i socialisti avevano il monopolio sindacale). Scelta di uomini e altre condizioni passarono fra Nitti e Micheli e pochi altri parlamentari, senza chiasso nè indiscrezioni. Ma quel ministero nacque morto, perchè come suo primo atto (senza avere ancora avuto il voto di fiducia) emise u n decreto-legge sul prezzo del pane. I socialisti montarono l'opinione pubblica; la quale fu talmente ostile, che Nitti ritirò il decreto e si presentò dimissionario. La crisi fu riaperta sotto il segno di Giolitti. Quel nome mi era personalmente ostico per mille ragioni che rimontavano al lontano 1892. Ciò nonostante, non mi opposi ad un ministero da lui presieduto; solo feci segnare a verbale che le mie previsioni erano del tutto sfavorevoli. Non si parlò di Meda o Cavazzoni, come pensa Ansaldo; si lasciò la scelta all'on. Giolitti d'accordo con il rappresentante del gruppo. Gruppo e direzione del partito puntavano su tre seggi; Giolitti ne offri due, a Meda e Micheli, e furono accettati. Ci furono però due impegni chiesti dal partito: la legge d i trasformazione del latifondo e la legge sull'esame di stato. Giolitti consentì; diede il portafoglio dell'agricoltura a Micheli, i1 quale presentò il disegno di legge nel 1921; e diede l'istruzione a Croce: che presentò il disegno di legge, se mal non ricordo, a fine dicembre 1920. Per completare la cronaca debbo aggiungere che per la scelta d i Croce fui richiesto del mio parere a mezzo dell'avv. Gaetano Scavonetti, incaricato a ciò dall'on. Corradini; lo Scavonetti mi assicurò che Croce avrebbe preso impegno a favore dell'esame di stato. La mia risposta personale e riservata fu del tutto favorevole. Ed è la prima volta che ne parlo e ne scrivo, e facendo nomi, per dimostrare quale riserbo abbia tenuto in proposito. Ma desidero anche dire come fu mantenuto l'impegno dai giolittiani: il disegno di legge Croce ebbe negli uffici della camera non solo il voto contrario dei socialisti, ma d i quasi tutti i gio-


littiani e d i molti altri della maggioranza liberale. Giolitti si scusò con un amico che quella non era materia sulla quale egli avrebbe mai posto la fiducia. Sarei reticente, se non dicessi un altro fatto: avevo pregato personalmente Meda di cercare d i evitare che fosse incluso nel gabinetto l'on. Pasqualino Vassallo ( d i recente passato ai vivi col conforto religioso). Allora faceva l'anticlericale e in Sicilia avversava accanitamente i popolari. Meda tastò il terreno e lasciò cadere la richiesta; benchè a malincuore io mi vi rassegnai. La cosa passò del tutto inosservata. Crisi Giolitti. Questi nel marzo 1921 volle sciogliere la camera e indire le elezioni col proposito di favorire le destre (fascisti compresi, che già erano stati imbarcati nelle alleanze liberali delle elezioni amministrative dell'autunno precedente) e di attenuare se non eliminare la pressione dei popolari e dei socialisti. Le elezioni del maggio 1921 diedero 35 fascisti (prima zero); 107 popolari (prima 99); 123 socialisti e 15 comunisti (prima unificati: 158). Giolitti vide che non si reggeva e sopra un voto d i politica estera, pur avendo ottenuto 17 voti d i maggioranza, si dimise e lasciò il governo. Vi successe Bonomi. Durante le trattative non ricordo di averlo mai visto; ricevetti qualche visita dal suo futuro capo gabinetto ( e mio amico personale) l'avv. Gaetano Scavonetti. Le condizioni politiche della riforma agrari2 e della riforma scolastica furono poste a Bonomi come a Giolitti, attraverso i dirigenti del gruppo parlamentare. La scelta degli uomini rimase d i competenza del gruppo. Luigi Sturzo personalmente accettò la soluzione Bonomi con le stesse riserve precedenti, perchè la sua idea era che già maturasse una presidenza popolare e che i socialisti (già distaccati dai comunisti) dovessero partecipare al governo per fronteggiare l'ondata fascista. Criteri direttivi, adunque, non intrighi d i persone. Crisi B o m m i e CC veto a Giolitti. Siamo al febbraio 1922. e a camera chiusa. I ministri giolittiani decidono d i ritirarsi dal gabinetto, e Bonomi si dimette. Torna la candidatura Giolitti. Convoco la direzione del partito e la rappresentanza del gruppo e d'accorda si decide che i popolari non parteciperanno ad u n governo presieduto da Giolitti.


Si parla in malafede di un mio veto 1) personale a Giolitti: si tratta del diritto di un partito di decidere della propria politica se partecipare o no ad un governo. Giolitti poteva fare il gabinetto con i liberali e le destre, fascisti compresi (che egli aveva messo dentro): in tutto circa 280 deputati, di fronte a 257 tra popolari, socialisti, comunisti e repubblicani. I1 gruppo popolare in quella occasione aveva dichiarato di votare tutte le leggi che reputasse utili al paese, astenendosi dal voto d i fiducia. Giolitti, in tali condizioni, non riuscì a combinare un governo, e fece chiamare dal re il suo luogotenente on. Facta, in spregio del metodo parlamentare che imponeva venisse chiamato un popolare, sia perchè era questo il gruppo che prendeva l a responsabilità d i fare andare a monte la combinazione Giolitti, sia perchè era il più forte gruppo costituzionale venuto fuori dalle elezioni del 21 maggio. I n quel periodo di crisi ebbi lunghi abboccamenti riservati con parlamentari autorevoli del campo liberale (non tutti da me sollecitati); niente meraviglia. La mia posizione mi vi obbligava. Mai però trattai di nomi, d i offerte di portafogli; mai fui vessato per proteggere questo o quello. Volli di proposito rimanere estraneo alla fiera di vanità, che allora era del resto minima e niente affatto paragonabile con quella attuale. Crisi Facta. Imposto dal re il nome di Facta, i miei amici del gruppo popolare accettarono di far parte d i quel governo. Io fui nettamente di parere contrario e poichè lo statuto non mi dava altra alternativa che dimettermi o appellarmi al congresso, feci riserva della mia condotta futura. I miei amici del gruppo parlamentare cedettero a malincuore perchè non credettero matura una presidenza popolare. I1 secondo ministero Facta del luglio 1922 fu anch'esso imposto dal re durante le trattative che Orlando faceva per un governo di coalizione con dentro popolari e socialisti. La combinazione era già fallita in partenza, perchè l'on. Turati non potè impegnarsi a far parte del governo, essendo la direzione del partito socialista del tutto ostile. Fu allora che i socialisti si unirono a i comunisti nel promuovere i l disgraziato sciopero generale del 31 luglio l agosto 1922, quando già l a crisi di regime era alle porte.

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F u in quella occasione che io diedi a Facta il nomignolo d i u Romolo Augwtolo 1922 ». 20 luglio 1951.

(La Via, 28 luglio).

IL PARTITO DI MAGGIORANZA E I L PAESE Di tutta la polemica sulla crisi e la soluzione del settimo gabinetto De Gasperi, un problema è rimasto quasi i n penombra, accennato più o meno superficialmente, ma sottinteso sempre, quello della posizione del partito di maggioranza nel paese e d i fronte al paese. In sostanza si sono posti tre quesiti, pur rimanendone la formulazione incompleta: lo) la democrazia cristiana vale ancora come baluardo contro il comunismo? 2') avrà la possibilità d i ridare vigore alla pubblica amministrazione e all'autorità dello stato? 3') sarà capace d i guidare alla vittoria elettorale nel 1953? Sotto i tre punti, si intravvede una questione di fiducia specie da parte della borghesia vecchia e nuova che è ancora la spina dorsale dello stato moderno. Questa, in buona parte, è indifferente agli ideali che la democrazia cristiana persegue, e non è legata agli uomini che la guidano; ma sente che è nel suo interesse che ci sia in Italia un partito che possa dare sicurezza di libertà e di ordine e possa fronteggiare i l pericolo comunista. L'esito delle ultime elezioni diede al pubblico una prima scossa: quella di vedere intatte le posizioni numeriche del blocco d i sinistra, pur nella conquista fatta dai costituzionali della maggior parte delle amministrazioni comunali e provinciali. Poi la crisi di gabinetto, decisa fuori dal parlamento per dissensi fra le varie tendenze dei partiti d i maggioranza, ha dato una seconda scossa, non per la crisi in sè, cosa naturale in democrazia, quanto per l'impressione che il partito si sfaldi o si Suddivida, come avvenne dei liberali storici di destra e di sini-

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stra, e come è stata la sorte dei socialisti di prima e di dopo il fascismo. . Lasciando da parte quelle zone grigie di borghesia che oscilla fra l'ordine e la rivoluzione, perchè vuole trovarsi sempre in sella, quali che siano gli eventi, resta sempre una borghesia amorfa, che vive ai margini della politica e auspica un partito forte formato tutto d'un pezzo, sia questo la democrazia cristiana, sia altro che ne prenda il posto. Questa idea va formandosi nella psicologia istintiva d i destra, mentre a sinistra si vorrebbe un socialismo forte e unito, compresivi molti nenniani senza Nenni. Sono castelli i n aria, che la realtà quotidiana dimostra irrealizzabili, per lo meno alla scadenza del 1953; ma che sono segno d i un disorientamento in parte giustificabile e in parte ingiustificato. Anzitutto non è giustificato il timore di un8 sfaldamento della democrazia cristiana, che possa ridursi a tre tronconi centro degasperiano, dossettiani di sinistra e vespisti di destra, con in più il gruppo gronchiano. I dissensi pratici sono la sorte dei partiti grandi e piccoli. Tutta la storia dei due grandi partiti americani + democratico e repubblicano ( a parte, il periodo della guerra di secessione) è fatta di dissensi, che sono stati sempre regolati nell'intemo di ciascun partito. Noi latini siamo più individualisti, è vero; lo sa la Francia che non trova tregua ai suoi dissensi. Ma la democrazia cristiana ha tali elementi di stabilità e di coesione, che può affrontare con sicurezza i ventuno mesi che occorrono per arrivare ben salda alla prova del 1953, vi sia o no altra crisi di mezzo che tenda ad allargare le basi del governo. I1 paese sarebbe più convinto di ciò e più fidueioso, se non avesse ancora viva l'immagine del partito granitico, corale all'unisono, quando i dissensi si soffocavano e i dissidenti venivano defenestrati. I n democrazia le concezioni e i metodi sono diversi; gli uomini sono uomini, i deputati e i senatori sono deputati e senatori con la loro testa e i l loro cervello. I partiti democratici vivono del dinamismo interno; si evolvono e si atteggiano secondo l'evolversi e l'atteggiarsi degli avvenimenti. È regola che i


programmi si rivedano, che gli uomini si avvicendino, che le esperienze si comunichino. Nessuno è infallibile e nessuno è superiore alla critica e al controllo. Fuori dei punti programmatici di partito che intanto sono suscettibili di molte e diverse attuazioni; fuori delle posizioni politiche sulle quali il governo volta per volta chiede alla sua maggioranza la fiducia, il resto è opinabile, discutibile, variabile. Questo articolarsi dei gruppi parlamentari di maggioranza fra i due pilastri della fedeltà ideale al programma e della fiducia al governo di sua scelta, rende politicamente innocue le critiche e dà la possibilità al partito di piegarsi alle esigenze del paese, senza irrigidimenti e senza sotterfugi. Pertanto, è bene dire francamente che le crisi extra parlamentari non giovano al prestigio del parlamento, disorientano il paese, e fanno supporre dissensi maggiori che non siano i n seno a l partito di governo. Il paese avrebbe voluto saperne di più d i dossettiani, gronchiani e vespisti; perchè, incidendo le differenze nella struttura governativa, avrebbero dovuto farsi palesi in parlamento. Altrimenti capita quel che oggi si è avvertito, che ogni muovere d i foglia venga preso per u movimento d i fronda D, e ogni articolarsi di tendenza venga interpretato come possibilità d i « secessione D. I1 dibattito sulla riforma agraria fra le due tendenze democristiane ebbe momenti vivaci, senza che il partito ne sia stato scosso. E se gli zelanti della « disciplina comandata 1) fossero stati meno intransigenti, il paese avrebbe potuto apprezzare e la serietà delle critiche e la fermezza dei propositi, con esito assai migliore, politicamente, di quel che se ne ebbe. Ora le due camere discutono sulla soluzione della crisi e sul programma del nuovo gabinetto. Sarebbe opportuno che i promotori della crisi, nel dire se sono o no soddisfatti, facessero conoscere al parlamento e al paese i motivi che li indussero a provocarla. Non è certo col giuoco delle palle nere che si serve la democrazia. I1 voto segreto per la approvazione delle leggi è una pratica antiparlamentare tutta italiana, che non si trova in nessun parlamento. I1 voto deve essere palese, liberamente chiesto, liberamente dato, liberamente negato.


Solo se si ritorna al senso di libertà e responsabilità personale, si può attendere una elevazione morale di tono e nel parlamento e nel governo, e si ridarà così la fiducia nelle istituzioni e negli uomini che ne sono gli esponenti. So bene quel che si dice: di fronte alla compattezza del blocco delle sinistre, ci vuole compattezza da parte della maggioranza; altrimenti, il lavoro parlamentare sarà paralizzato dal contrasto delle opinioni. Ciò vale per i disegni d i legge per i quali il governo chiede l'urgenza e mette la fiducia ( e stia attento a non abusarne); per il resto è sempre più desiderabile il lavoro paziente d i studio e di persuasione, che una fabbrica affrettata di leggi fatte a colpi di maggioranza. Sono idee queste d i chi ha fede nella democrazia e nel metodo d i libertà, in qualsiasi clima e con qualsiasi parlamento. Solo così si conquista la fiducia del pubblico, e si prepara il paese alle battaglie politiche. 30 luglio 1951.

(Sicilia del Popolo, 3 agosto).

ENTI E BUROCRATI Limito l'esame agli enti economici statali, parastatali, semistatali e con partecipazioni statali, visto che non solo esistono, ma si moltiplicano come gramigna che ha invaso il suolo non molto fertile dell'economia italiana. Secondo Ernesto Rossi, che è uno dei più esperti indagatori del fenomeno, un certo numero di enti abbastanza ragguardevole dovrebbe essere eliminato con vantaggio dello stato e del paese; ma una parte, che è forse la maggiore, e certo la più importante, dovrebbe essere mantenuta, riorganizzata nella struttura economica e amministrativa, semplicizzandone ( e sterilizzandone, aggiungo io) i rapporti con lo stato. Potrei convenire con lui per una buona metà, mettiamo anche per due terzi quasi delle sue idee; ma ci sono punti sui quali


la divergenza d i concezione e di orientamento è radicale: l'interventismo statale nel campo industriale e la necessità di mantenere e ampliare la costruzione dell'I.R.1. Di ciò altra volta. Qui m i occupo del problema della burocrazia statale sulla quale poggia il peso dell'amministrazione e del controllo di tali enti. I1 prof. Rossi scrive: u nel mio precedente articolo ho spiegato le ragioni per le quali non sono affatto d'accordo con don Sturzo su questo argomento, come lui crede, che convenga cercare i dirigenti delle aziende statali, parastatali e a partecipazione statale fra i tecnici che hanno dato buona prova nelle aziende private. Questa soluzione, come quella di chiamare tecnici stranieri, può servire solo in via provvisoria, in attesa della soluzione vera del problema che richiede molto tempo: l'allevamento e la preparazione dei dirigenti all'interno delle aziende controllate dallo stato ».(Il Mondo, 4 agosto). Egli, partendo dalla tesi della conservazione e del potenziamento della maggior parte d i tali enti, arriva diritto all'allevamento dei nuovi funzionari e amministratori di stato; se invece ,si parte dalla più larga smobilitazione possibile (sia pure graduale) dell'economia statizzata, si darà meno rilievo all'allevamento di un nuovo personale futuro, 4 assai di più alla sostituzione dell'attuale, che (salvo poche e lodevoli mosche bianche) è pesante, ingombrante, poco competente, per non dire incompetente, e soprattutto attaccato agli enti come ostrica. Sfogliando la Gazzetta ufficiale più recente, leggo in data 7 luglio il decreto presidenziale del 30 giugno sulle norme per l'organizzazione e il funzionamento dell'ente autonomo del parco nazionale d i Abruzzo. Non si tratta di una impresa economica, pur avendo l'ente interessi economici non trascurabili. I1 consiglio d i amministrazione è formato da quattro funzionari '(detto espressamente funzionari), in rappresentanza dei ministeri dell'agricoltura, dell'industria, della pubblica istruzione e del commissariato del turismo; nonchè di quattro rappresentanti dei comuni interessati (vedete dove si ficca la politica!), dai prefetti dell'dquila, d i Frosinone e di Campobasso; e finalmente da tre esperti di botanica, zoologia e geologia (il turismo fu saltato) scelti dal ministro dell'agricoltura fra i titolari di cattedre universitarie. Così funzionari ministeriali, probabilmente fun-


zionari d i prefettura o di municipalità e professori universitari che abitano quasi tutti a Roma (infatti la sede dell'ente è a Roma, per (C naturale centralizzazione!) vi faranno della teoria più che della amministrazione, con qualche bella gita nella zona del parco, per il futuro avvenire dell'ente già sciolto ed ora ricostituito. S'intende: le deliberazioni devono essere approvate dal ministro dell'agricoltura con o senza il concerto del tesoro, secondo i casi; si farà un regolamento impiegatizio, pure approvato da1 ministro; anche il collegio di tre revisori nominato dal ministro dell'agricoltura, due dei quali designati dai ministri del tesoro e delle finanze. Dopo di che avremo le solite passività, quelle derivanti dall'ente già soppresso, quelle fatte dalla gestione forestale ora assorbita (ciò risulta dalle predette norme) e quelle che faranno i nuovi consiglieri di amministrazione, funzionari, professori e persone così così, designati dai prefetti. Se poi ragion d i stato o altro imprevisto (di qui a sei mesi o ad un anno) ne darà la spinta, il ministro nominerà subito un commissario (funzionario s'intende) il quale una volta installato, vi resterà attaccato, come pietra di confine, si dice in Sicilia. I1 ministro potrà anche nominare due vice-commissari, come è capitato nel maggio scorso all'ente approvvigionamento carboni. Se si facesse una statistica, credo si troverebbe che gli enti gestiti da commissari superano per numero quelli che « godono » (per modo di dire) una normale amministrazione. Non parliamo dei commissari liquidatori. Chi h a il gusto d i leggere la Gazzetta uficide, troverà decreti di proroga dopo proroga per tali commissari che, beati loro, non riescono a liquidare gli enti soppressi, essendo molto occupati in mille affari, compresa la liquidazione delle proprie indennità. delle ex-associazioni sindacali della Libia ebbe il dott. Carlo Pirrò come commissario nominato nel 1946; il 3 luglio scorso se ne legge sulla Gazzetta uficiale la surroga con la nomina del dott. Angelo Ortisi. Solo quest'anno è passato alla camera (11 luglio) il disegno di legge per la liquidazione dell'ente di colonizzazione della Romano d'Etiopia, ed è già al senato (n. 1787). È del 16 luglio scorso il decreto ministeriale che chiama il dott. Zeno Massari (naturalmente un funzionario del ministero del lavoro) a far parte del comitato di sorveglianza sulla liquidazione della

ente


soppressa federazione nazionale dei servizi tributari in dipendenza del decreto legislativo luogotenenziale del 23 novembre 1944. L' Endimea ebbe un'inchiesta; fu passata in gestione al1'A.R.A.R.; ma l'Endimea, al di sopra di tutti i deliberati, vive ancora per merito dei funzionari che hanno sostituito quelli già eliminati; e nel provvedimento del comitato interministeriale dei prezzi del 30 giugno 1951 (Gazzetta ufficiale del 7 luglio) si legge che 1'Endimea (1'Endimea e non l'ARAR) ha importato dagli Stati Uniti d'America dei medicinali sul fondo E R P e sui fondi valutari. Non parlo di tutti i nuovi enti per la trasformazione fondiaria e agraria, basta leggerne i decreti sulla Gazzetta ufficiale: il tale dei tali (funzionario) in rappresentanza del ministero delle finanze; il tale dei tali (funzionario), in r. dell'agricoltura; il tal dei tali (funzionario), in r. dei lavori pubblici; il tale dei tali (funzionario) in r. del lavoro e previdenza sociale, e così via; (in Sardegna ci sono anche rappresentanti degli assessorati regionali) e infine tre esperti. Naturalmente in Sardegna la sede dell'ente dovrebbe essere a Cagliari: i signori dei ministeri vi andranno in aeroplano a sentire quel che ne riferirà il presidente o il direttore; ovvero i rappresentanti sardi verranno a Roma, il che farà lo stesso. Identica è la storia degli enti industriali: l'ultimo decreto che ho sott'occhio è quello del febbraio scorso con il quale è stato nominato ex novo il consiglio di amministrazione dell'ente metano (G.U. 24 marzo 1951). Sbagliato il sistema, dice il prof. Rossi: d'accordo; facciamo l'allevamento delle nuove reclute impiegatizie-tecniche, passi. Ma così il prof. Rossi non cancellerà dalla carta geo-economica italiana un solo ente o sotto-ente nel quale sia annidato un qualsiasi anche modesto funzionario statale. In quanto all'allevamento è da notare che non si impara a nuotare se non scendendo in mare e ingozzando parecchia acqua salata. Se i funzionari statali oggi in carica vedranno nuove reclute con preparazione tecni. ca adatta, posti in un molo speciale e con stipendio adeguato, e quindi più alto d i quello spettante a corrispondenti gradi e classi d i fascista istituzione, (rispettata ancora oggi come i sacri

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canoni della burocrazia imperante), renderanno a costoro l a vita amara, così da farli fuggire appena troveranno aperta una porticina nell'industria privata. Ma che si spera? che la Cogne risorga (e potrebbe divenire un impianto di primo ordine) e che 1'Agip risolva i problemi degli idro-carburi della Va1 Padana? Si tratta della quadratura del circolo, perchè mancano due cose che in economia sono della massima importanza: la responsabilità degli amministratori e dei capi servizi e il rischio dell'impresa. È impossibile che si creino i corrispondenti stati psicologici della responsabilità e del rischio, dove la responsabilità dell'amministratore è minima e circondata da cautele per l e quali ogni evasione risulta facilissima; e dove i1 rischio, tutto il rischio è garantito (volere o no) dallo stato. Ha visto il prof. Rossi che lo stato faccia cader i n fallimento un proprio ente? Anzi, è così generoso che profonde miliardi i n casa d'altri. Peccato che gli amministratori della Nebiolo siano caduti troppo presto nelle grinfie della giustizia; l a proposta del salvataggio non era mancata. I1 FIM ha fatto scuola e I'Ansaldo h a fatto scuola. Dall'altro lato, ha visto mai i l prof. Rossi un solo funzionario prevaricatore che sia stato messo sotto procedimento giudiziario a i tribunali o alla corte dei conti? Si parlò d i inchiesta per 1'Endimea: dove sono gli atti d i tale inchiesta? E che ne è dell'inchiesta sull'INA? È vero: sono pessimista. Ma quando lo stato è inabile a ridurre il deficit ordinario delle ferrovie (non parlo delle rico. struzioni nè delle nuove costruzioni, ma della spesa normale d i gestione), lo stato è per definizione inabile a gestire una semplice bottega di ciabattino. Conclusione: tolleriamo quel che è servizio pubblico (passi per l e ferrovie); mettiamo alla pari e in concorrenza quel che pur essendo gestito dallo stato, può anche essere gestito da privati senza inconvenienti (assicurazioni, servizi sociali e simili); ma smobilitiamo, appena vi sia l a possibilità, tutti gli enti che potranno essere passati all'economia privata, ovvero resi perfettamente autonomi. A f a r ciò primo e unico passo: proibizione per legge che gli


impiegati statali d i qualsiasi rango possano essere nominati amministratori, commissari e sindaci degli enti statali, parastatali o con partecipazione statale. Tarda troppo l'approvazione della proposta di legge dell'on. prof. Bellavista. Spero che anche i deputati e senatori impiegati si rendano conto del gran servizio che renderanno allo stato, votando a favore di una simile legge. 6 agosto 1951.

( L a Via, 11 agosto).

LA RIFORMA DEL SENATO ELEZIONI OGNI CINQUE ANNI Si parla di riforma del senato, ma c'è molto, anzi moltissimo da lasciare che si operi per adattamento interno, sia spontaneo per costume, sia con modifiche d i regolamento, sia occasionalmente nella soluzione d i problemi concreti sorti nell'esercizio legislativo, sia infine per migliore articolazione ed efficienza degli organi senatoriali. In sostanza, si dovrebbe seguire la legge naturale dell'adattamento e dello sviluppo per superare stati febbrili e indebolimenti organici con l'aiuto di arte medica accorta e prudente. Mia intenzione è quella d i prospettare un problema d i carattere costituzionale che dovrebbe essere dibattuto dall'opinione pubblica prima ancora che affrontato in parlamento: la riforma dell'articolo 60 dove è detto: La camera dei deputati è eletta per cinque anni, il senato della repubblica per sei D. Si tratta d i una d i quelle incongruenze teoriche (non per nulla professori e professorini ebbero dominio nella costituente) che nella pratica si rivelano senz'altro dannose. Mobilitare per due anni d i seguito trenta milioni di elettori non solo crea disagio ai cittadini e spesa per l'erario, ma svaluta in partenza l'esito della elezione che precede. I1 partito sconfitto pensa subito alla rivincita; gli scontenti si fanno avanti;


i partitini che hanno avuto dei vantaggi contano sulle nuove elezioni; il paese resta per un anno ancora in agitazione, prolungando così la psicosi elettorale. Se negli Stati Uniti di America, paese istituzionalmente stabile e dove i due partiti di avvicendamento al potere sono ambedue costituzionali, e dove nessuna minaccia vi è d i rivoluzione e nessun pericolo d i passaggio sotto i l dominio bolscevico, pure la febbre elettorale ogni biennio tiene in sospeso molti degli affari pubblici e influisce a modificare il normale corso della vita economica e sociale; che dire della nostra Italia non ancora stabilizzata nella sua psicologia politica e nel rapporto di forza fra partiti costituzionali, partiti extra-costituzionali e partiti rivoluzionari ? È bene ricordare che la successione rapida d i elezioni di vario genere fra il 1929 e il 1932 nella Germania repubblicana contribuì molto a orientare il paese verso il nazismo e diede a Hitler il potere per via di suffragio popolare. Che dire se i n ogni città e in ogni villaggio si trova accampato un partito che ha il vantaggio del metodo elettorale e parlamentare unito alla preparazione della rivolta anche armata per la dittatura del proletariato, usufruendo così allo stesso tempo della legalità o della illegalità? Su questo terreno nessun altro partito potrà fare concorrenza al comunismo, tranne un partito fascista, che per ciò stesso provocherebbe quel contrasto sul terreno della illegalità e della violenza che noi del 1920 conoscemmo per prova e del quale fummo vittime insieme al paese. Poche aro le: l'articolo 60 deve essere modificato nel senso della contemporaneità della elezione dei deputati e senatori. Portare la camera a sei anni sarebbe troppo comodo per i deputati in carica, ma non corrisponderebbe affatto a l nostro tradizionale periodo dei cinque anni, di marca inglese. La maggior parte dei parlamenti hanno il c eri odo di quattro anni. I n America si fanno anche coincidere nel ritmo elettorale d i metà per biennio, sia la elezione del presidente, sia le elezioni delle assemblee statali, sia quelle comunali, perfino il referendum per modifiche costituzionali, tanto è tenuta in conto la delicatezza dell'appello politico del corpo elettorale.


I1 mio parere è quello di riportare il senato al quinquennio e non mai d i avanzare la camera al sessennio. Tanto più che la situazione politica presente ha già subito l'avvisaglia delle elezioni amministrative d i primavera e subirà quelle del resto d i comuni e provincie, siano a dicembre siano in aprile; con l'aggiunta che si prevede un nuovo scarto sul fatidico 18 aprile. P e r u n paese sensibilissimo come il nostro (e non dico che tale sensibilità sia una virtù politica), ogni nuovo scarto non è fatto per calmare i nervi dei dirigenti dei partiti: tutt'altro. Qualcuno mi ha detto: non è necessaria una modifica alla costituzione; basta applicare l'art. 88 e sciogliere il senato un anno prima della scadenza. Idea questa da rigettare senz'altro. L'uso di u n potere tanto delicato quale quello dello scioglimento d i una o d i ambedue le camere non può essere giustificato davanti i l paese che da motivi occasionali gravissimi ed evidenti: conflitto continuato tra le camere, dissenso tra opinione pubblica e parlamento, impossibilità di avere un governo stabile e simili. Mascherare una riforma costituzionale con un atto d i arbitrio, svaluterebbe l'istituto dello scioglimento e nuocerebbe alla fiducia nel capo dello stato che a ciò si presterebbe. I n politica, è sempre meglio la linea diritta che la obliqua: ogni deviazione presto o tardi si paga. Del resto, ci sono altri punti per i quali si richiede una R. forma costituzionale, sovrattutto quello della composizione del senato. L'accenno d i De Nicola è stato ben chiaro e tende a introdurre nel senato un certo numero di membri d i nomina presidenziale, che vi portino l'esperienza e la maturità della vita politica e amministrativa dello stato. Secondo la mia opinione, includerei ex-presidenti del consiglio, ex-deputati d i u n certo numero d i legislature; presidenti non più in carica del consiglio di stato e della corte dei conti; avvocati generali dello stato in pensione, ex governatori della banca d'Italia, ex ambasciatori. Escludo sempre coloro che sono in carica. Due condizioni: che il numero sia assai limitato, in modo da non alterare il carattere di senato elettivo e da non modificare il responso politico delle elezioni. A questo fine è da evitare ad ogni costo la nomina a vita ; la nomina dovrà essere fatta per ogni legislatura e tale da rispettare il significato del responso


elettorale. Dall'altro lato, il numero limitato (mettiamo venti) da scegliersi fra le categorie suindicate, non dovrebbe creare u n titolo di diritto per nessuno di coloro che si troveranno nelle condizioni previste. Già il senato h a provato in questa sua prima legislatura l'errore commesso dalla costituzione nell'introdurre i centocinque senatori di diritto, alterando così a priori l'esito elettorale e l'equilibrio dei partiti, e dando alle sinistre una efficienza superiore a quella che poi fu espressa dal voto popolare. So bene che molti dei 105 (oggi 95) dell'infausta disposizione IIIa della costituzione si agitano per rimanere senatori a vita, o almeno per una seconda legislatura. Ma sarebbe un errore politico, oltre che un'indegnità legislativa. Cotesti senatori che in maggioranza si autonominarono, se avranno il desiderio d i ritornare a Palazzo Madama, vadano a fare gli esami davanti i propri elettori. Poichè questi e forse altri ritocchi costituzionali esigono la procedura dell'art. 138 della costituzione, è necessario che il disegno di legge sia pronto in autunno, e vada presto in discussione, prevedendosi un anno almeno per un'approvazione d i stretta misura. L'aprile 1953 non tarda ad arrivare con tutte le preoccupazioni d i grossa battaglia elettorale; e quella per il senato sarà una grossa battaglia; non si illudano i nostalgici del senato vitalizio o i sostenitori del senato corporativo: il senato deve essere elettivo e, salvo pochi ritocchi alla legge vigente, eletto a suffragio universale e diretto. 17 agosto 1951.

(La Stampa, 25 agosto).

CASE DA GIOCO ( a proposito di San Marino) Due anni di silenzioso assedio poliziesco e il casinò (Kursaal) d i San Marino h a chiuso i battenti. I capitalisti intraprendenti (se sono nati con la camicia) avranno modo di rifarsene in altra

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- Srcnzo -

Politica di piiesti anni.


parte del globo.*I poveracci accorsi lassù se ne ritorneranno ai patri lidi disoccupati come prima e delusi come prima. A San Marino, niente casinò. Neppure a Taormina: quell'ente turistico e alberghiero della Libia, che, abbandonata la colonia libica per forza maggiore, aveva ottenuto il decreto di poter operare nel territorio nazionale, e, in seguito, una specie di lettera commendatizia presso la regione siciliana con lo scopo di sovvenire ai profughi libici (in Sicilia si dice: u rubare il porco, e dare le setole per le anime del purgatorio D), un bel giorno si vide tagliati i passi con il decreto ministeriale 3 marzo 1951 di revoca dell'autorizzazione. Anche all'ETAL, o meglio ai finanziatori del19ETAL, è andata come ai finanziatori del casinò 'sammarinese, con la differenza che il primo aveva solo cominciato con acquistare un locale buttarlo giù e riadattarlo (il valore più o meno esiste e aumenterà col tempo), mentre gli altri non sapranno che farsi del Kursaal e alberghi su1 picco di una montagna. Consiglierei la trasformazione d i quegli edifici in istituti di convalescenza per coloro che han bisogno di aria fina pura fresca e gentile. Comunque: assedio a San Marino, ritiro di autorizzazione a Taormina ( a parte il conflitto di competenza che secondo me non h a base); e le due nuove iniziative sono state soffocate i n sul nascere; d i ciò, chi come me fa da cinque anni la campagna anti-casinò, non ha che esserne soddisfatto, anche se non si sia compiaciuto dell'andamento dei cosidetti « precedenti » amministrativi e politici che han creato i casi di Taormina e di San Marino. Ma cosa dovrei dire del casinò di Saint Vincent i n Va1 d'Aosta? non se la prendano a male i miei amici della regione valdostana; avendo, pur siciliano, negato una competenza propria alla mia regione di aprire case da gioco, mascherate o no ( e nel ripetere per la tema volta questa mia affermazione so bene d i non poter sedere al posto di giudice dell'alta corte siciliana se una vertenza dovesse sorgere fra Roma e Palermo su tale specifico soggetto), ho ben diritto di affermare lo stesso per il casinò di Saint Vincent. Ignoro i motivi attuali perchè debba essere tollerato lassù quel che non è stato tollerato nè a San Marino, nè a Taormina.


È vero che i promotori del casinò d i Saint Vincent furono tempestivi nello scegliere il momento buono, tra la fine della guerra e i l referendum costituzionale, quando i risentimenti valdostani erano vivi e operavano nei due sensi dell'autonomia e del separatismo. I1 governo di Roma non voleva creare un fatto politico che i signori finanzieri di Saint Vincent avrebbero potuto alimentare a danno dell'italianità di quella regione. Ma la tolleranza di allora si è protratta fino al 1951 andando a creare una specie di diritto d i prescrizione che si tradurrebbe i n quieta non movere, o meglio: tira a campà. Comune, regione e abitanti ci si sono adattati, partecipando agli utili del tappeto verde. Ma perchè infierire contro Saint Vincent, dimenticando Campione, Venezia e San Remo? Forse perchè questi tre hanno «. il privilegio sancito dal volere del principe » (il dittatore del passato regime); e Saint Vincent è nato come un bastardo senza titoli? È vero: parliamo dei casini legittimi o legittimati con tanto di legge o decreti legge, amministrati sotto la sorveglianza dei prefetti. Non so se San Remo abbia un commissario prefettizio a capo della gestione dell'ente. Ma commissario o no, le relative gestioni sono sotto controllo governativo e questo è quel che conta. A proposito di San Remo, l'agenzia finanziaria internazionale nel n. 22 dell'anno TI (2 febbraio 1951), ci faceva conoscere che « San Remo » nel 1951 frutterà un miliardo e mezzo, ossia 80 milioni in più del 1950, e che ha acceso debiti presso l'Istituto nazionale infortuni per 300 milioni e presso la Banca popolare di Novara per 350 milioni; e che gira gira, mentre l'entrata sarà di 1.500.000.000, la spesa sarà d i 1.470.000.000; con la differenza (poveretti!) di soli 30 milioni; e con l'aggiunta che in questo conticino non è stato segnato un altro mutuo di 100 milioni per lo stabilimento balneare. Se si tratta di giochi contabili per evadere la pressione fiscale, lo sapremo dopo il 10 ottobre prossimo, quando sarà fatta la dichiarazione di legge. Gli agenti del fisco dovrebbero essere avvertiti fin da ora che i peggiori loro clienti sono proprio gli amministratori degli enti statali, parastatali, con partecipazione statale, concessionari


statali, amministrati o no da commissari ministeriali o prefettizi, con l'intervento o no d i funzionari del tesoro o della ragioneria generale o della corte dei conti; perchè nelle pieghe dei loro bilanci vengono nascosti tutti i profitti per non pagare quelle poche tasse dalle quali non sono stati esentati per legge (chiudo la parentesi fiscale). I1 problema delle case da gioco da tre anni è stato portato alla camera dei deputati sotto forma d i interpellanza prima e di mozione dopo. Ogni volta che doveva essere trattato (strano a dirsi) è andato in decadenza. Ora sarà la quarta o la quinta volta. Ci devono essere stati finora intrighi d i corridoio e d i anticamera che sfuggono al cittadino italiano; il quale finalmente vorrebbe conoscere ( e ne ha diritto) i veri motivi di questa disparità di trattamento £ra i casinò di istituzione fascista, il casinò tollerato, e i casinò fatti cadere. La cosa interessa, perchè spesso si legge sui giornali (è di questi giorni un lungo articolo di un grande giornale indipendente che finisce con la solita conclusione) che Rapa110 vuole la bisca, che Santa Margherita non può fare a meno della bisca, che Sorrento si contenterebbe di una piccola bisca; che Napoli non è meno di Venezia per avere diritto ad una bisca. E perchè no, Bari? e perchè no, Castellammare di Stabia? e perchè no Montecatini o Fiuggi? Così di seguito: L'Aquila e dintorni, Rimini e dintorni, Taormina e dintorni, e col tempo anche Pantelleria.. e dintorni! Non si potrà una buona volta mettere un assedio, come quello di San Marino, a Venezia, San Remo, Campione e Saint Vincent? e far capire agli italiani che si può avere un turismo sano, un turismo costante, un turismo vantaggioso senza casinò e senza treni speciali d i gran lusso per portare i «signori » di Milano a San Remo tutti i sabati, per santificare la festa? Si dice: se non ci sono i casinò italiani d i frontiera (infatti i quattro sono in punti strategici) gli italiani che hanno voglia di giocare se ne andranno all'estero ed esporteranno moneta. La brava gente che dice così farebbe meglio a pregare il Signore che ci faccia esportare anche i giocatori italiani che sentiranno il bisogno d i andare all'estero a questo nobile fine. C'S tanta gente che esporta denaro all'estero ( a parte quella

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che va alle bische) che sarebbe bene mettere ai confini una sorveglianza seria pari a quella che fa l'Inghilterra ancora ricca, l'Inghilterra che non ha case da gioco.

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20 agosto 1951.

(L'Italia, 24 agosto).

LETTERA AD ARNALDO FABRIANI (*) Caro Fabriani,

il mio? Quando, sulla Gazzetta Perchè « colpo ingiusto ufficiale del 21 dicembre scorso (n. 292) lessi la legge: Ricostituzione dell'ente autonomo del parco nazionale d'Abruzzo, non ho fiatato. Quell'autonomo messo là mi dava un po' d'aria di montagna, odore di foreste, ricordi di mia giovinezza, colore meridionale. Stetti a vedere cosa nascesse con quell'art. 5, che mi fece arricciare il naso. Vennero le norme (Gazzetta ufficiale 17 luglio 1951 n. 161) e decisi d i parlarne alla prima occasione; questa mi fu data da Ernesto Rossi. Enti e burocrati » è i l tema del mio articolo: h o voluto colpire questo rapporto con tiro giusto, aperto, senza appostarmi dietro una siepe, perchè quelle norme hanno cancellato la qualifica d i ente autonomo e ne hanno fatto u n ente statale e burocratico; dove gli interessati, gli abruzzesi, i comuni di Abruzzo, le provincie di Abruzzo, le comunità montanare d i Abruzzo si son perdute di vista. Non mi dire che i comuni avranno i loro rappresentanti; sono i prefetti che nomineranno (con considerazioni burocraticopolitiche com'è loro dovere) i cosidetti rappresentanti degli enti locali. Nè c'era bisogno di inserire la figura del professore universitario nel diritto di rappresentanza. È vero che si dice di preferenza, ma perchè legare le mani a chi deve scegliere? E non basta; le mani sono legate definitivamente per i rappresen(*) L'on. Arnaldo Fabriani aveva presentato un dis. di legge per il riconoscimento come ente autonomo del parco nazionale d'Abruzzo.

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tanti di ministeri, che devono essere esclusivamente funzionari. È il colmo della dittatura burocratica, che nessun parlamento tenta d i scuotere. Nel disegno di legge sull'ente nazionale idrocarburi all'articolo 11 è scritto: C Fanno parte del consiglio: il direttore generale delle miniere; il direttore generale della produzione industriale; un funzionario della direzione generale del tesoro; un funzionario della ragioneria generale dello stato 1). Andiamo: la vita economica del paese è messa decisivamente nelle mani dei funzionari statali. I1 peggio è che si va abdicando nelle mani dello stato tutto i l libero articolarsi della vita locale. La tua affermazione che essendo lo stato a sostenere le spese del parco di Abruzzo, ha il diritto di esserne il padrone, non mi ha sorpreso dati i venti anni d i fascismo, mi ha fatto pena. Nulla di più dannoso per la vita della nazione della mancanza di senso d i responsabilità, iniziativa, coscienza locale, che rende veramente cittadini. La vita nazionale è basata sulla cooperazione civica, libera e cosciente, non sull'abdicazione di ogni senso di autonomia locale e personale. Che significato ha che gli amministratori del parco d'Abruzzo, come quelli della mostra d'oltremare di Napoli o d i migliaia d i altri enti disseminati nel paese, debbano essere nominati dai tre o quattro o sei ministeri, detti interessati, e con la possibilità d i mandarli a gambe per aria in un momento d i malumore con la nomina di u n commissario? Così si formano non delle amministrazioni ma dei comitati che chiacchierano, d i gente raccolta ai quattro venti che non assume mai responsabilità, che deve correre a Roma ad avere il benestare di tutto quel che pensa e vuole e che deve intrigare nei corridoi ministeriali se i vari membri non si mettono d'accordo, e che alla fine deve ricorrere a Roma per saldare le passività. Perciò il fascismo inventò la figura del presidente unico reale amministratore con il consiglio semplicemente consultivo. E fu logico, come fu logico sopprimere i consigli comunali e mettere i podestà, e far passare al rango di impiegati statali tutti i segretari comunali. Oggi abbiamo i residui fascisti a ostacolare la ripresa nazionale. Ma sta sicuro, caro Fabriani, che fino a che si continua a falsare le funzioni ministeriali burocratiche, che sono quelle


dei controllori, per mandarli a fare gli amministratori e i sindaci degli enti pubblici (che sarebbero i controllati), non c'è possibilità di evitare il doppio danno ai ministeri e agli enti locali, danno anzitutto psicologico gravissimo che stempera il cittadino e che guasta il funzionario. I1 parco autonomo del tuo Abruzzo, caro Fabriani, non doveva entrare in prima fila nella mia lotta tenace contro gli enti e contro i burocrati statali controllori-controllati, e contro lo statalismo invadente; ma c'è entrato per quella qualifica di autonomo che è stata cancellata dalle norme. Perchè l'autonomia riviva, non ti dispiaccia di riprendere il cammino; anzi non dispiaccia a te e ai colleghi della tua generazione ripensare il problema della cooperazione civica, libera e responsabile, come problema capitale nella formazione della nuova Italia. Cordialmente

LUIGISTURZO 19 agosto 1951.

( I l Popolo, 1 settembre).

PARTITI E PARTITOCRAZIA Continuano i risucchi giornalistici della crisi e. delle sue fasi; ed è naturale dato che sono venute a galla da un lato deficienze politiche e dell'altro problemi strutturali. La critica degli indipendenti (così chiamati o cosi creduti) va dalla natura dei partiti alla concezione di una specie di partitocrazia. La critica degli organizzati ( p e r differenziarli dagli indipendenti) va invece alla necessità di maggiore coesione e disciplina. Ai primi occorre dire che il partito è un fatto cosi strettamente connesso con il sistema parlamentare, sia o no democratico nel senso pieno della parola (nessuno potrà parlare di democrazia senza suffragio universale maschile come è stato in Italia fino al 1912), che scrivere oggi che il partito è quasi tollerato dalla costituzione repubblicana, non ha proprio senso. Non ci facciamo bigotti della legge scritta, nè insistiamo troppo sulla cosiddetta costituzione rigida; tutte le costituzioni sono


elastiche e adattabili non ostante le opinioni « professorali D che nella vita vissuta contano come storiografia delle teorie astratte e delle opinioni vaporizzate. La differenza fra noi latini e gli anglosassoni, gli elvetici e gli scandinavi sta in ciò che noi non siamo stati capaci a creare una tradizione che fissi i compiti e l'attività politica dei partiti; gli altri al contrario hanno creato la tradizione dentro la quale opera il partito con legittimità riconosciuta e divenuta coscienza collettiva. Per la stessa ragione, il partito nel parlamento latino è invadente e caotico; non lo è negli altri paesi, i veri paesi democratici, nei quali il partito si autolimita osservando i limiti che la coscienza pubblica impone. Qualcuno si domandava perchè i latini tendono sempre a sinistra e rifiutano di essere qualificati destra; la risposta è semplice : perchè i latini non sanno autodefinirsi, auto-classificarsi, e difendere le proprie posizioni « storiche D. Benedetto Croce h a più volte negato al partito liberale la definizione di destra ed ha cercato di attribuirvi quella di centro. Ma il partito liberale, quello organizzato, ha sempre discusso delle proprie tendenze, di destra o di sinistra, escludendo però che il partito sia di destra. È vero o no, che in Italia nessun partito si qualifica di destra? Così anche in Francia. Buttiamo a mare destra e sinistra: viva la nuova topografia: tutti a sinistra! È vero che non si può fare a meno d i una sinistra che va al lato estremo e di una sinistra che va verso il centro. Ma a sentirli questi sinistrorsi, credono che la definizione di sinistra dia loro un titolo di nobiltà. In verità, si tratta di un complesso di inferiorità dei meno demagoghi verso i colleghi più demagoghi. Tutti vogliono superare i vicini che parlano di popolo, che si interessano del popolo! Così il partito è soffocato dalla demagogia popolaresca sia che prenda i nomi d i comunismo e d i socialismo, sia che prenda i nomi di democristianismo, liberalismo, sindacalismo ( e così di seguito). Non si tratta più d i partiti politici, ma di bandiere demagogiche. Queste sono le premesse della partitocrazia e non mai il partito politico che è tutt'altro e che è quello nel quale e col quale si concretizza il regime parlamentare. Queste idee mi son tornate più chiare alla controluce di -


due importanti articoli di questi giorni, importanti per la impostazione e per le firme: « Partiti e costituzione » d i Arturo Orvieto; « Oltre la crisi » del senatore Jannaccone. Non intendo entrare in polemica con tali egregie persone per il fatto che le loro intenzioni vanno oltre ogni polemica d i dettaglio e per il fatto che qualsiasi nuova analisi della crisi oggi sarebbe superata e perciò fastidiosa. Quel che interessa è una visione irreale che se ne ricava di un De Gasperi distaccato dal suo partito: il che porterebbe o a u n De Gasperi che si regge al posto di presidente del consiglio dei ministri senza una base parlamentare (formata dal partito di maggioranza) il che non è pensabile; ovvero di un De Gasperi dittatore, il che sarebbe anticostituzionale ( e pertanto irrealistico). La svalutazione del partito di m a g g i ~ ~ a n z ache , è fra le righe dell'articolo di Orvieto e apertis verbis in quello di Jannaccone, insieme a riconoscimenti (più o meno velati) della statura di uomo di stato del presidente De Gasperi, porta (volere o no) alla situazione del principe buono e dei consiglieri malvagi; del capitano di valore e dell'esercito mal combinato e simili, nei quali si rivela l'istinto del popolo che non può immaginarsi un capo che non superi la folla, come Saulle, dall'omero in su. I n democrazia invece, il capo del governo deve avere una maggioranza della quale sia espressione unificante e vitale. Nel contrasto o nella mancata sintesi, uno dei due deve cedere, o il capo o la maggioranza. Di qui la tradizione italiana dal risorgimento in poi o del cambiamento del presidente o dell'appello al paese. I giornali indipendenti, i liberali ( i n senso generico), la borghesia intellettuale italiana, nel criticare con una certa acredine la democrazia cristiana, e nel cercare di svalutarla distaccando (nell'opinione pubblica benchè non nella realtà) De Gasperi dal suo partito, da un lato non avvantaggiano i piccoli partiti ieri collaboranti, e dall'altro tentano di danneggiare il baluardo anti-comunista che è stato posto con le elezioni della costituente (1946) e riconfermato con quelle dell'attuale parlamento (1948).


Oggi siamo alla vigilia (ed è vera vigilia) delle elezioni del 1953; e non ci sono le premesse per sostituire il baluardo attuale con un altro baluardo. Liberali, socialdemocratici e destre dissidenti, pur conservando la loro personalità, sono obbligati fin da ora a intendersi con i democratici-cristiani. Forse essi pensano che debba essere a l contrario: che la democrazia cristiana debba intendersi con loro. Per me -non ci vedo differenza: in un caso come quello del 1953 l'intesa deve tener conto della consistenza reale dei partiti; e non si deve mirare (dalle due parti, si intende) a indebolire il futuro alleato. Detto questo, voglio aggiungere una parola ai democristiani, i quali hanno agito e agiscono troppo facilmente fuori del parlamento. Che i loro particolari dissensi ( e non c'è partito al mondo che non ne abbia) debbano essere esaminati e aggiustati dai propri organi interni, nessuna obiezione. Ma quando si tratta di rapporti con il governo come tale, il partito deve tacere e sono i gruppi parlamentari che debbono agire in seno a l parlamento; perchè il parlamento è l'unico organo costituzionale nel quale i dibattiti sull'andamento governativo hanno significato. L'invadenza del partito in tale campo sarebbe veramente atto d i partitocrazia, e quindi violazione dello spirito della costituzione. I1 prof. Orvieto trova non costituzionale che il presidente possa essere prigioniero del partito e subordinare la sua condotta agli alternati movimenti delle tendenze di destra e di sinistra. Se egli volge l'occhio alla storia dei gabinetti di De Pretis e d i Giolitti, vedrà che per costoro ( i n epoca in cui i partiti erano fluidi e l'elettorato era limitatissimo in rapporto all'attuale : 2 milioni di fronte a 30 milioni) le evoluzioni o trasformazioni da destra a sinistra erano di moda. Per l e crisi extraparlamentari basta ricordare quella di Bonomi a fine gennaio 1922, quando i giolittiani si ritirarono dal gabinetto con un pronunciamento mezzo pretoriano ed extraparlamentare. Non difendo i gruppetti democristiani operanti nell'ultima crisi; ma ricordo solo che la crisi ultima deriva in linea diretta dall'uscita dei social-democratici nel 1949 e dei liberali nel 1950. Chi è senza colpa scagli la prima pietra. La partitocrazia, dice bene Orvieto, è nata nel clima u ciel-

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lenista 1 ) : era però iniettata nel sangue di molti che venendo dal partito unico invasero i campi dei sei partiti collegati nei C.L.N. Ma i regolamenti parlamentari creando i gruppi «politici » nelle due camere, abolendo il sistema degli uffici a sorteggio e stabilendo le commissioni permanenti dosate sulle efficienze dei gruppi e così via, hanno aggravato gli errori del 1920 ed hanno reso più efficienti gli stimoli verso la partitocrazia. Ritornano spesso i giornali detti indipendenti con articoli pieni di nostalgia per il collegio uninominale come l'unico correttivo all'attuale partitocrazia. Sfido costoro a dire ai loro amici deputati e senatori liberali di presentare un disegno d i legge sul collegio uninominale. Si sentiranno rispondere secco d i non volere suicidarsi e di non essere così stupidi da mettere l'Italia nelle mani dei bolscevici. Per quanto riguarda la partitocrazia, essi confondono la pressione dei partiti di massa con la partitocrazia; la prima è inevitabile quando si hanno 30 milioni di elettori e lo rileva molto bene Mario Ferrara sulla Nuova Antologia di agosto; la seconda è evitabile quando si hanno regolamenti e disciplina parlamentare che escludono (come dovrebbero) l'ingerenza dei partiti attraverso l'organizzazione dei gruppi. Ma più che di regolamento si deve parlare di educazione parlamentare, che nell'Italia prefascista esistette nell'ottocento come imitazione inglese con quelle attenuazioni che il nostro temperamento esigeva; ma che oggi è caduta, specie dopo la parentesi fascista e la deformazione ciellenista, e infine sotto la pressione dell'estrema bolscevica, cui è ormai subordinata gran parte della vita parlamentare. Poichè il pericolo della dittatura comunista non è passato, e si va diritto alla prova di forza del 1953, ci sarebbe ben altro da fare che svalutarsi a vicenda, svalutare i partiti di resistenza e d i lotta e svalutare parlamento e governo. 25 agosto 1951.

(Realtà Politica, 1 settembre).


ELEZIONI 1953 PROPORZIONALE O COLLEGIO UNINOMINALE?

Fra liberali di antica osservanza, laicisti sinistreggianti e nazionalisti di fresca data, non pochi invocano il ritorno al collegio uninominale come il tocca-sana della nostra politica. Ma bisogna convenire che ci vuole un grande sforzo di buona volontà per rendersene ragione, tanto i l desiderio di costoro è lontano dalla realtà vissuta. Se per le elezioni del 1953 della camera dei deputati si adottasse i l collegio uninominale, si potrebbero avere due risultati gravidi d i pericoli: nessuna maggioranza effettiva con in cima i democristiani o le sinistre, e a distanza una coalizione nazionale con i piccoli partiti in coda; ovvero, in caso più difficile ma non impossibile, una lieve maggioranza delle sinistre coalizzate, con prevalenza comunista. Non presumo fare il profeta, ma l'occhio clinico elettorale, che non mi è mai fallito, può darsi che veda giusto anche questa volta non ostante gli anni e l a mancanza di contatto esterno. Sfido gli uninominalisti a fare delle previsioni, con la mia stessa franchezza, e dire apertamente, in articoli firmati, se si sentono la responsabilità di mettere in gioco le sorti del paese d i fronte ad u n pericolo bolscevico non indifferente, per i begli occhi del collegio uninominale. Se questo pericolo non ci fosse, io, pur essendo tuttora proporzionalista convinto, sarei disposto a proporre l'esperimento delle elezioni a collegio uninominale per le elezioni 1953 della camera dei deputati. Avrei così i l piacere d i sentire strillare come oche i rappresentanti dei piccoli partiti (liberali compresi), perchè non venisse abolita la proporzionale. Vendetta degli dei questa, ma non degli uomini, che oggi sono li a trarre i l fiato per difendere il proprio paese dalla dittatura comunista. Forse si potrebbe tentare un compromesso seguendo in ciò i1 metodo del mio amico De Gasperi; benchè sia strano che venga


a proporlo chi nella propria vita ha rifiutato sempre. qualsiasi compromesso. Si tratta di ridurre i roti preferenziali a d uno solo. Automaticamente gli aspiranti a deputato e i deputati in carica che non pensino di ritirarsi (credo ce ne siano pochi) cercheranno di formarsi l'ambiente fedele in modo da assicurarsi la riuscita. Da un lato i1 partito preferirà candidati localmente ben piazzati, e dall'altro diminuirà notevolmente i l procacciantismo elettorale delle nullità che affollano le liste e che contano sulla racimolatura dei voti i n paesi estranei al proprio ottenuta con intese e combinazioni cogli uni a danno degli altri della stessa lista, fomentando così le gelosie che dureranno lungo tutta l a legislatura. È probabile che l'ambientazione personale del futuro candidato non possa estendersi al di l à di una specie d i collegio « naturale », non importa se più o meno ampio. Certo sarà utile a mettere in vista coloro che nei diversi partiti si faranno notare per capacità e attività. Arrivato a questo punto mi viene il sospetto che i piccoli partiti troveranno più comodo il sistema attuale ovvero quello delI'apparentamento, anzichè questa mia ultima invenzione; mentre i bigotti del collegio uninominale, che stanno con l a testa nelle nuvole della storia del risorgimento, non ne saranno soddisfatti. I1 lettore si deve render conto che con il collegio uninominale i voti non utilizzati possono ascendere fino al 49 per cento dei voti validi, e in certi casi superare il 50 per cento dei votanti. I1 significato è grave; quasi la metà ( e anche più della metà dei cittadini votanti) secondo tale sistema non influisce sull'esito delle elezioni e non h a rappresentanza politica. Se poi si applicasse il sistema inglese, per il quale viene eletto il candidato che h a raggiunto il maggior numero di voti (anche una maggioranza relativa) purchè abbia superato il minimo di legge, allora la percentuale dei voti perduti sarà tanto più alta quanto maggiore sarà i l numero dei candidati dello stesso collegio. Bisogna tener presente che se in un collegio di 80 mila elettori si presentano tre candidati che otterranno: il lo 40.001, il 2" 25.000 e il 3V4.999 voti, ci* saranno 39.999 elettori che non avranno propri rappresentanti. I1 risultato nazionale man-

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cherebbe di adeguamento alla volontà individuale degli elettori perdenti, e la rappresentanza parlamentare sarebbe fortemente monca. Col sistema uninominale, nelle elezioni del 1913 si perdette il 49 per cento dei voti validi; nel 1921 con la proporzionale si perdette solo il 4 e mezzo per cento. Con il sistema che viene ad essere proposto, la rappresentanza proporzionale dei partiti rimarrebbe salva, mentre la scelta dei candidati sarebbe più o meno concentrata nei comuni che raccolgono gli o.ttanta mila e più elettori che formano la base di un collegio. Le ambizioni senza base cadrebbero più facilmente, o più esattamente, con minore difficoltà. Una prima conseguenza di tale sistema dovrebbe essere la revisione delle circoscrizioni elettorali, da ridursi al tipo medio tra dodici e sedici seggi in modo da ottenersi una più facile ambientazione. Naturalmente, si dovrebbe abolire il collegio nazionale. Questo fu il ripiego spiegabile per la elezione della costituente, quando molti candidati non erano conosciuti non avendo base locale. Bisogna ricordare che si usciva fuori dal caos della guerra con alle spalle il ventenni0 fascista. Oggi il collegio nazionale non si regge più sotto ogni titolo. I voti residuati non debbono andare nel calderone nazionale, falsando così la volontà elettorale ; sì bene essere utilizzati nella stessa circoscrizione con uno dei tanti metodi proporzionalisti in uso. Non entro a discuterne i dettagli che formano materia di controversie tecniche le quali oggi sarebbero premature. Ultima conseguenza (che del resto non è legata strettamente al sistema, ma lo favorisce) è quella di ritornare alla busta d i stato. Non si tratta di ripristinare la busta Bertolini, costosa e complicata. Basta una busta tipo Svizzera, che costa meno della scheda d i stato e rende più facile i l disbrigo delle operazioni elettorali. L'elettore non dovrebbe fare altro che mettervi dentro un cartoncino con il contrassegno del partito per cui vota, segnandovi, se lo vuole, il nome del candidato preferito (uno s'intende). Nel caso d i votazione contemporanea per la camera e per il senato (è la mia tesi già svolta in altro articolo), basta introdurre due cartoncini cop colori e tipi diversi. La busta dà il vantaggio di diminuire la percentuale dei voti


nulli. Nelle elezioni del 1919 (busta Bertolini) si ebbe 1' 1,7 per cento di voti nulli; nelle elezioni del 1946 (scheda di stato) si ebbe i l 7,7 per cento di voti nulli; nelle ultime elezioni amministrative (scheda di stato) si è avuto 1'8,5 per cento d i voti nulli. La semplificazione che reca la busta di stato nello svolgimento delle elezioni, dovrebbe giustificare i l provvedimento di abbreviare il periodo elettorale. La costituzione prescrive che le elezioni hanno luogo entro settanta giorni dalla scadenza della camera e del senato; ma è la legge elettorale che rincara la dose e porta il termine a un minimo di almeno settanta giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto di convocazione a l giorno delle elezioni. Ne dovrebbero bastare quaranta (secondo l'uso dei paesi democratici) il che darebbe gran vantaggio ai partiti che debbono sostenere oggi così lunga campagna, e più di tutto al paese che subisce le noiose conseguenze d i una prolungata mobilitazione elettorale. Tutto sommato, sono necessarie non poche modifiche all'attuale legge elettorale. Se i signori deputati non ci pensano subito, si ridurranno all'ultimo momento, come avvenne alla costituente, e si sa: (C la gatta frettolosa fa i gattini ciechi ». Le elezioni del 1953 meritano in tempo tutta l'attenzione dei partiti, del governo e del parlamento. 28 agosto 1951.

(Sicilia del Popolo, 5 settembre).

LA PATRIA NON SI MONOPOLIZZA Ho avanti agli occhi l'immagine di quell'italo-americano che, un mese fa, arrivando a Messina dopo quasi mezzo secolo d i assenza, si inginocchia a baciare la terra natale e muore di commozione. Egli, con l a sua tragica fine, ha messo in rilievo l'amore di milioni di emigrati che, pur avendo trovato all'estero ospitalità, lavoro, benessere e perfino ricchezze, non hanno mai di-


menticato l'Italia cui restano legati con i vincoli di famiglia, di lingua, di cultura, di nazione e di religione. Siamo noi la patria vivente, figli della stessa terra, impastati della storia vissuta nei secoli, prodotto delle nostre fatiche, dei nostri errori e delle nostre buone azioni. La terra natale è anzitutto la famiglia; sono anche i rapporti civili, economici, politici, vissuti nell'ambito del territorio nazionale, con proprie istituzioni alle quali partecipiamo e delle quali siamo gli autori. Questa patria è di tutti e di ciascuno di noi: nessuna classe, partito, casta, fazione ha il diritto d i monopolizzarla ai propri fini; di identificarla con la propria organizzazione; di asservirla ai propri egoismi. Purtroppo, mentre la patria si sente unica e non frazionabile da coloro che vivono all'estero e ne provano la pungente nostalgia; mentre la patria è difesa da tutti senza discriminazione di parte, di fronte a un nemico che la minaccia con le armi; è invece dilaniata internamente dallo spirito fazioso e dalla intolleranza di partiti. Così nel passato, così oggi. L'errore di visuale degli italiani ( e in minor misura anche dei francesi) è quello di confondere la politica militante con gli interessi superiori della patria e di contestare, proprio a nome della patria e della nazione, la bontà o meno di metodi pratici della politica del governo o dell'opposizione. È facile, su questo terreno, il formarsi di categorie di persone o di gruppi che si qualificano patrioti di fronte a presunti nemici della patria; e di partiti autodefinientisi nazionali di fronte ai partiti accusati di essere non-nazionali o antinazionali. Questa deformazione politica è stata alla base di molti mali che ci hanno afflitti nel passato e ci affliggono anche adesso. Non si vede se e quando potremo liberarci di così grave complesso di faziosità. Perchè il monarchico deve qualificarsi per nazionale, qualifica contestata a chi non è monarchico o non sente di dover portare tale questione sul terreno politico ovvero sia addirittura repubblicano? E perchè gli ex-fascisti o i neo fascisti si qualificano nazionali contestando tale qualifica a democratici cristiani, a socialisti democratici e ad altri partiti risorti dopo la guerra?


Se il comunista fosse un partito autonomo nellfambito nazionale, senza legami internazionali decisamente politici, e per giunta con una potenza straniera, non lo chiamerei affatto antinazionale. Sono convinto che una larga percentuale di gioventù comunista, se chiamata sotto le armi e obbligata alla difesa della patria, non diserterebbe e compirebbe il proprio dovere di soldato sia per disciplina sia anche per sentimento patrio. Lasciamo da parte l'analisi degli stati d'animo di molti comunisti verso l'Italia, e guardando invece il partito in sè, non può negarsi, anzi deve esplicitamente affermarsi, che sia dal punto di vista ideologico, sia dal punto di vista politico, si trova fuori dell'ambito nazionale. Non si tratta solo di posizioni parlamentari o di dibattito pubblico, nel quale la tolleranza può arrivare ad un limite estremo ( e difatti vi arriva); ma si tratta di attività pratiche che violano le leggi positive e che mostrano la direttiva di arrivare alla dittatura comunista e all'asservimento a paesi d'oltre cortina. I depositi di armi che da cinque anni si vanno scoprendo nelle fabbriche e nelle campagne, nei camposanti e nelle gallerie sotterranee, lubrificate, pronte all'uso, con notevoli depositi di munizioni, con impianti elettrici atti a far saltare quartieri e uffici pubblici, che significato possono avere? Perchè il partito comunista non ha mai sentito il bisogno di sconfessare quegli operai che, perlino in aziende statali e parastatali, occultano armi e munizioni? E quale è mai l'omertà che lega insieme un gran numero di persone in modo che fin oggi non si conoscono i rei di occultamenti e nessuno dei mandanti immediati e dei responsabili diretti? E che dire di coloro che istigano le reclute militari a non presentarsi o che formano nell'esercito stesso cellule secrete di resistenza? Se costoro operano a danno del paese, non certo operano a bene del paese coloro che ne minano la base fondamentale che è la libertà, nel volere praticamente un regime di dittatura. Neghiamo la dittatura del proletariato, ma neghiamo anche la dittatura della borghesia; neghiamo il partito unico di sinistra, ma neghiamo il partito unico di destra o di centro. Coloro che oggi si lagnano della disposizione XII della costituzione, non ricordano che nel passato, da loro idealizzato, non era lecita l'esistenza di ogni altro partito che non fosse il

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- STCRZO- Politica di q u e s t i anni.


fascista e che, per giunta, ne1 partito unico veniva identificata, arbitrariamente, la patria. Non si tratta di discutere il bene e il male che sono mescolati in tutte le fasi del processo umano; lasciamo alla storia quella continua revisione degli eventi del passato che serve a soddisfare i l desiderio della verità e insieme la giustificazione delle nostre vedute e delle nostre azioni. Si tratta di ben altro. La patria oggi non si può scindere dalla concezione della libertà. Le istituzioni possono modificarsi, ma lo spirito che le anima, la libertà nel cui raggio benefico vivono e si atteggiano le istituzioni e gli uomini che vi operano e il metodo di libertà del quale usano, non possono essere abolite, pena la falsificazione del vero significato di patria. Quando i costituenti vietarono « la riorganizzazione del disciolto partito fascista » non fecero un giudizio storico ma un'affermazione istituzionale di libertà, negando la possibilità di un ritorno alla dittatura, cioè alla perdita della libertà personale e politica dei cittadini. Oggi questo pericolo è da sinistra, ma non è detto che non possa domani venire da destra, se si ridestasse il fanatismo di u n partito unico sotto l'etichetta nazionale. COI fine di evitare un passato che non si vuol ripetere, e quindi sotto lo stimolo di naturali preoccupazioni, fu adottata l a disposizione XII. Ma, secondo me, qualsiasi partito che venisse alla ribalta politica con il programma di abolire la libertà e di instaurare l a dittatura dovrebbe essere riguardato come anti-costituzionale. Può darsi che, non costituendo un tale partito u n vero pericolo per il paese, sia lasciato vivere ai margini sociali, perchè il rispetto della libertà merita precauzioni assai-gelose e perchè l a società può assorbire certe dosi di veleni senza caderne ammalata. Ma altro è il caso di una tolleranza che lasci alla società curare i suoi mali, altro quello di recare pregiudizio in radice al vero carattere della libertà del paese. Oggi, alla vigilia delle elezioni del 1953, siamo ad una svolta storica senza precedenti. Non si ripete i l 18 aprile, perchè l a storia non si ripete. Oggi, volere o no, ci troviamo in una perplessità politica assai più grave di allora, perchè il gruppo dei


nazionalismi dissidenti (intendo dissidenti dalla costituzione), per colpa propria o per colpa degli altri non importa, tende a rievocare il passato per combattere il presente. Non può negarsi che l'Italia soffra le difficoltà che hanno accomunato paesi vinti con paesi vincitori, con l'aggiunta delle difficoltà create dalla disfatta e dal trattato di pace. Ma il processo a questo passato, se da un lato lo fanà la storia, dall'altro viene fatto da noi stessi con lo sforzo di riabilitazione. Questa è stata la volontà e l'opera di tutti fin dal primo giorno. A questo fine è stata diretta l'opera di coloro sui quali da sette anni pesa la maggiore responsabilità. Se l'Italia oggi non è bolscevica, si deve in gran parte ai cattolici italiani che levarono la bandiera della democrazia cristiana e affrontarono le difficili situazioni del 1944, del 1946 e del 1948 ; ed essi, grazie a Dio, affronteranno con lo stesso ardore la situazione del 1953. Se il mio appello è diretto a far convergere tutte le forze vive del paese per la difesa dal pericolo bolscevico che incombe, non è certo perchè il paese vada incontro ad altra dittatura, ma perchè vinca tutti gli istinti dittatoriali nella libertà vissuta come sostanza e come metodo. Solo così saremo patrioti e italiani. 4 settembre 1951.

(L'Italia, 8 settembre).

NAZIONALI

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A-NAZIONALI

. ANTINAZIONALI

La nostra storia unitaria ci presenta costante il problema delle qualifiche dei partiti o delle correnti politiche guardate sotto l'angolo visuale della nazione. I liberali di destra del primo risorgimento erano di sicuro nazionali; molti di loro si credettero i soli nazionali. La teoria del liberalismo che correntemente fu loro attribuita si basava sull'idea naturalistica che la chiesa aveva condannato come antitetica al cristianesimo soprannaturale. Nella pratica politica


quei liberali, non pochi dei quali cristiani per tradizione e per sentimento, furono coloro che soppressero gli ordini religiosi e ne incamerarono i beni; (naturalmente lo stato ne fece tutte le spese, mentre la classe dirigente del tempo, specie i liberali di occasione, liquidarono l'asse ecclesiastico a loro pieno vantaggio); quei liberali furono coloro che incarcerarono non pochi vescovi o li mandarono a domicilio coatto, processarono preti e frati, come qualsiasi stato d'oltre cortina. Perchè ricordo questa lotta oramai superata nello spirito e nella memoria? Non per far piacere al gruppettino degli acidi laicisti e dei volterriani snob, che han tentato vantarsene come discendenti in linea diretta dei rivoluzionari di destra, della destra storica; nè per toccare le piaghe che il tempo e gli eventi storici hanno sanate, ma per studiare la filologia politica della qualificazione di nazionale. Infatti, anche la sinistra 'arrivata al potere nel 1876 intese essere nazionale. Leggendo i giornali del tempo, si ha l'impressione che l'Italia fosse alla vigilia dello sfacelo e della rivoluzione. La borghesia danarosa ne ebbe paura, le masse operaie credettero alla loro riabilitazione, ma il suffragio universale non venne, mentre C il pane e lavoro invocato sulle piazze dal popolo affamato, non fu su5ciente; e invece di leggi sociali, che furono portate piÚ tardi al parlamento, si ebbe una recrudescenza d i anti-clericalismo, con le leggi sulle opere pie, con le leggi scolastiche, col codice Zanardelli, con la precedenza del matrimonio civile, con l'aperta tendenza a scristianizzare l'Italia sotto l'aspetto di difendersi dal clericalismo e dal  temporalismo D. I socialisti di fine ottocento non avevano interesse a dirsi nazionali. Oggi gli storici idealisti (che credono di avere il monopolio della storia e dello storicismo) ci presentano i socialisti del tempo come i missionari delle campagne e delle o5cine. Allora la faccia piÚ visibile era quella della rivolta (non rivoluzione). I1 primo maggio faceva paura; i fasci siciliani, il 1898 a Milano, i moti di Puglia e delle Marche e di Toscana, finirono con gli stati d'assedio. ~ a t u r a l m e n t eerano quasi solo i cattolici a preoccuparsi del materialismo antireligioso, che animava la propaganda socialista e arrivava a impedire il matri-


monio religioso e ~ e r f i n oil battesimo dei bambini. I n Toscana e nelle Romagne, dove trovarono la minore resistenza dei cattolici e degli ecclesiastici che non in Lombardia e nel Veneto, la scristianizzazione delle famiglie si estese a intieri comuni e a larghe zone di campagna. Dal punto di vista « nazionale » i socialisti del tempo furono internazionalisti; ma la 2" internazionale non impedì nel 1914-15 l'adesione delle masse operaie alla politica di guerra di ciascuno dei paesi in conflitto. Se i socialisti italiani primeggiarono nel loro neutralismo anche a guerra dichiarata, e se l'on. Treves alla vigilia di Caporetto potè lanciare il grido: « a novembre non più in trincea », l'operaio italiano anche socialista fece il proprio dovere nella più sanguinosa guerra che l'Italia unitaria abbia combattuto nel suo primo secolo di esistenza, mentre vari gruppi di socialisti si distaccarono dal partito. Ciò detto, eccoci al punto. Nazionali i liberali di destra; nazionali i radicali e repubblicani di sinistra; nazionali i trasformisti D e ~ r e t i s ,Giolitti e loro seguaci; nazionali anche i socialisti; la storia ufficiale, la storia positivista, la storia idealista, ha negato tale qualifica solo ai cattolici. Questa è stata la tradizione risorgimentale, non ostante i neo guelfi alla Balbo e alla Gioberti, non ostante i Pellico e i martiri di Belfiore, non ostante i cosiddetti cattolici liberali alla Manzoni, alla Cantù, alla Lampertico, e non ostante i deputati e senatori che si professarono cattolici convinti e praticanti, come Vito d' Ondes Reggio; non ostante un padre Tosti e vescovi come Bonomelli e Scalabrini. Niente, non si perdona ai cattolici italiani di essere stati coerenti, fedeli alla chiesa e al papato e come tali anch'essi figli d'Italia, che fecero seilipre il loro dovere di cittadini, pur dissentendo dalla politica pratica antiecclesiastica e anti-cattolica dell'Italia unificata. Ma quei cattolici ( a parte i fanatici che legavano la chiesa, non per idealità religiosa, alle dinastie cadute, o all'Austria, o all'ancien régime) sempre aspirarono alla pacificazione fra l a chiesa e lo stato e alla soluzione della questione romana; riconoscendo che l'Italia stessa ne avrebbe patito per la sua struttura e per il suo avvenire.


Ciò detto, escludo che si possa contestare la qualifica di nazionale a me che ho sempre servito la patria con piena dedizione; e che con il lavoro di lunghi anni di preparazione e di attesa, potei arrivare a condurre i cattolici a formare un partito, non religioso, ma politico, con il titolo di partito popolare italiano, dichiarando che accettavo le istituzioni nazionali (compresa perciò la monarchia, io repubblicano). Escludo che possa esser messo in sospetto, io prete, perchè non ho assimilato la qualifica di nazionale con quella di cristiano. Se non nego la qualifica di nazionali a liberali radicali repubblicani e socialisti del passato dal risorgimento in poi, nego a d essi una concezione cristiana della vita; così oggi non nego a nessun partito italiano la qualifica di nazionale, anche se, purtroppo, molti non basano la loro ideologia sopra una concezione cristiana della vita. Dall'eccezione fatta del partito comunista, perchè non solo geograficamente extra-nazionale, ma politicamente anti-nazionale, ho voluto escludere quei comunisti, che non mancherebbero (come i loro antecessori, i marxisti del partito socialista del 1915) di fare i l loro dovere in caso di guerra. E se i comunisti di oggi fossero un partito autonomo e non collegato con paesi stranieri, non avrei difficoltà a calcolarlo nell'ambito nazionale, come quegli altri che, per motivi ideologici o per motivi pratici, fecero nel passato della politica anticlericale e perfino anticattolica. Non vorrei esser frainteso. L'Italia è nazione cattolica, ma non intendo combattere gli anti-cattolici in nome della nazione, intendo combatterli ( e li ho sempre combattuti) in nome della fede e della chiesa. E se dal campo dottrinale essi passano a quello politico (come quando nella costituzione introdussero il famoso inciso nell'articolo 33 che nega aiuti statali alle scuole private apertamente in odio alle scuole dette confessionali), li combatto in nome della libertà: principio che mette alla pari tutti i partiti sul terreno politico. Non intendo così scindere il cittadino dal cristiano, intendo mantenere al proprio posto i valori per i quali ci muoviamo sul terreno delle libere istituzioni, pur auspicando che i l paese,


anche se diviso in vari partiti, sia unito nelle supreme difese della sua esistenza morale basata sul cattolicesimo. P e r questo non cesso di ricordare a tutti il traguardo del 1953. 12 settembre 1951.

(L'ltalia, 14 settembre).

QUALE IL NUOVO TIPO DI SENATO? Del mio articolo di fine agosto sulle elezioni del senato ogni cinque anni i n unica elezione con la camera dei deputati, ho avuto un'eco favorevolissima. Consensi a destra e a sinistra, per lettera, per telefono e a voce. Naturalmente, i consensi non potevano venire che da coloro che sono convinti del senato elettivo e a suffragio universale e diretto. Gli altri (non so se pochi o molti) che discutono sulla conservazione o no del senato ovvero sul senato vitalizio di nomina presidenziale ( e per i monarchici, a suo tempo, di nomina regia) attaccano la mia tesi in radice. Un sindacalista mi h a scritto sostenendo l'abolizione del senato, perchè u n duplicato con la camera, buono solo a far perdere tempo nella fabbrica delle leggi. Si può discutere fino al giorno del giudizio se sia o no preferibile il sistema bicamerale; nel fatto, tutte le democrazie moderne, per tradizione e per utilità di risultati, tengono al sistema bicamerale. Io sono dello stesso avviso anche per l'Italia, se non altro per la tesi opposta, essendo assai utile, tanto per i l paese che pel cittadino, il rallentamento del ritmo legislativo, sia per avere leggi meno abborracciate e più aderenti alla realtà molteplice della vita; sia per diminuire il numero delle leggi, perchè non è la legge che crea la realtà ma è la realtà che esige la legge. Passiamo a i nostalgici del senato vitalizio; costoro non si accorgono che se i n Inghilterra e solo in Inghilterra esiste ancora la casa dei signori » è perchè quel paese è tradizionalista, tuttora impastato di residui medievali, con u n lento ma sicuro adattamento ai bisogni e alle idealità moderne, prodotto unico, isolano, di una monarchia religiosa a tipo laico e d i una


popolazione individualista e libera, che ha forte il senso gregario e si autolimita per uso e per convinzione. I veri nobili che siedono nella « casa dei signori » sono affiancati ai « parvenus » anche laburisti che accettano con piacere titoli risonanti di baronetti o di visconti che i l re elargisce su proposta del gabinetto. Vorrei vedere al senato italiano un ROmita divenire visconte di Alessandria della Puglia, u n Boeri, barone di Taggia d71mperia, u n Gava, marchese Trevigiano d i Castellammare. Mi perdonino i tre esimi senatori, che io apprezzo tanto ; ne ho preso i nomi perchè conosciuti ed ho voluto mettere controluce il paragone con l'Inghilterra che non regge affatto. Ritornare all'antico, mi si dice: categorie fisse più o meno come nello statuto albertino ; scelta presidenziale su parere del consiglio dei ministri ovvero (per quelli che diffidano del consiglio dei ministri) su parere dell'ufficio di presidenza del senato o anche delle due camere. Ma il difetto è in radice: u n senato vitalizio nominato da u n presidente temporaneo è contraddizione in termini: l'effetto superiore alla potenzialità della causa. Per giunta, si tratta di u n corpo, i l senato, che partecipa con i suoi membri a formare l'assemblea che elegge il presidente: altro che « controllato-controllore »; qui i termini si capovolgono. Altro guaio verrebbe se i l numero dei senatori fosse limitato, come quello delle accademie degli immortali, così che l e nomine successive dipenderebbero dalla morte dei titolari; avremmo u n corpo fossile senza l'adeguazione periodica alle esigenze del paese. Se poi si ritorna al numero illimitato, presidente e governo possono alterare l'equilibrio del senato come fu minacciato in Inghilterra ai tempi di Lloyd George quando questi tentò di piegare i lords alle sue vedute. A queste mie osservazioni evidenti qualcuno ha ripiegato sul sistema misto: senato metà elettivo e metà di nomina presidenziale o due terzi e un terzo ovvero tre quinti e due quinti. È che la dosatura non regge; verrebbe a mancare l'omogeneità del corpo con una continua discrepanza di valutazione fra membri elettivi che si crederanno valere di più perchè emanazione popolare, e senatori vitalizi che si crederanno le vestali della tradizione. Resta sempre fermo in questo caso il rilievo da me


fatto sulla qualità di elettori del presidente della repubblica, a meno che non si sancisca la incompatibilità d i prender parte alle votazioni di coloro che sono stati nominati dal presidente uscente nel caso che questi abbia accettata la candidatura. Ma la disposizione non solo è odiosa ma priva il senato del suo apporto numerico. Si può ripiegare sulla proposta da me fatta, che i senatori di nomina presidenziale durino in carica sino alla fine della legislatura e decadano insieme agli elettivi, salvo una successiva nomina per la legislatura seguente. Ma la mia proposta è limitata di numero, è facoltativa, e i posti non dovrebbero superare il decimo dei senatori in carica, in modo sempre da non alterare la maggioranza senatoriale. Sarebbe non solo politicamente deplorevole, ma democraticamente assurdo che un presidente della repubblica possa, nominando dei senatori, variare i l significato del responso elettorale. I n sostanza, u n senato misto è un pericolo per la democrazia, sia che si tratti di nomine a posti numerati o che si tratti di posti senza limite d i numero; sia che si tratti di nomine temporanee ovvero di nomine vitalizie. Sarebbe sempre un'arma a due tagli e non è detto che presidente e governo in certe situazioni non possano abusarne, Si ripete che in mezzo a tanti deputati e senatori incompetenti o quasi, sono necessarie persone di autorità e d i esperienza. È facile rispondere che il governo nella elaborazione delle leggi si può servire di tutti gli esperti d'Italia; e che le due camere possono sentire tutti i tecnici che vogliono. Aggiungo che di tecnici e di burocrati abbondano oggi la camera e il senato; troppi secondo me e non sempre bene intonati. Ma questa è un'altra questione. Certo, l'esperienza degli anziani è sempre desiderabile nei consessi legislativi; ma questi grazie a Dio oggi non mancano al senato; e se non sono sempre ascoltati, ciò è o perchè non si fanno valere o perchè non sono sempre presenti, ovvero perchè le nuove generazioni hanno preoccupazioni diverse, per non dire opposte. E sono queste, le generazioni nuove, che debbono formarsi ed acquistare esperienza, cosa che non potrà essere fatta senza


che vi si provino nei posti di responsabilità. Ripeto spesso che non si può saper nuotare se non si scende nell'acqua e se ne ingozza parecchia. Per i deputati e senatori la prova, anche a spese del paese, si fa a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comunque: un decimo di senatori di nomina presidenziale, su categorie prestabilite, a carattere temporaneo ( e non vitalizio) con effetto solo per la legislatura in corso, potrà essere un'utile concessione alle richieste di nomina di persone eminenti che non sono in grado di correre l'alea elettorale. L'attuale marasma è in parte dovuto alla immissione fatta dalla costituente dei 105 senatori di diritto, che alterò in partenza il responso del corpo elettorale, al giudizio del quale furono sottratti candidati di esperienza parlamentare, che avrebbero con il loro nome eliminato parecchi venuti su senza alcuna esperienza politica. Fu anche un errore che si è scontato, quel 65 per cento inserito all'ultima ora nell'articolo 17 della legge elettorale del 6 febbraio 1948 n. 29; e quell'altro disposto, pure improvvisato all'ultima ora, dell'art. 19 della stessa legge che fissò la ciGa relativa individuale, invece del rapporto proporzionale puro per la nomina dei senatori che non raggiunsero il 65 per cento d i voti in ogni singolo collegio. Questi e altri errori della legge elettorale senatoriale dovranno correggersi e ne parlerò a parte; ma prima d i far ciò, dovrò sgombrare il terreno dall'idea del senato corporativo, che ritorna in mente a parecchi che attendono la riforma del senato per rimetterla in discussione. I1 tempo stringe: se le elezioni del senato dovranno essere contemporanee a quelle della camera - e il 1953 è alle porte i mesi per rivedere costituzione e legge elettorale vanno scorrendo celermente, e fra poco ci troveremo con i termini d i stretta misura. È bene prevenire il momento della psicosi elettoralistica; perchè « presto e bene raro avviene », specialmente con u n corpo che può divenire, secondo il motto antico anzi antichissimo, senutus mala bestia, non ostante che i u senatores siano « boni viri n 10 settembre 1951.

(Realtà Politica, 15 settembre).


VENTIQUATTRO ORE DI SCIOPERO Così è stato deciso: e vada pure per coloro che non ne sentiranno ripugnanza e non ne comprenderanno la inconclusività. Infatti non si tratta di uno sciopero come quelli dei minatori d i John Lewis in America, che paralizza tutta l a vita economica del paese per due o tre mesi, fino alla conclusione; si tratta di sciopero dimostrativo. Il primo a risentirlo sarà il pubblico minuto; ma fino a u n certo punto. Alla mancanza del postino in u n giorno di settimana ci siamo abituati con le tante feste del calendario statale che, una più una meno, non dà grande noia. Anzi; il nipote spera non ricevere cattive notizie della ricca zia che è ammalata; a l cliente sarà evitato il disturbo della risposta negativa del fornitore che ha aumentato i prezzi; i l debitore non riceverà nuove intimazioni dal creditore e così via; il novanta per cento di quelli visitati dal postino avranno un giorno più calmo, non dispiacer.à affatto in questo clima nervoso. Anche i cittadini che dovrebbero andare agli uffici pubblici per lunghe anticamere e sentirsi dire che il mandato non è arrivato, che il vice prefetto non c'è, che i l capo ufficio non riceve, che l'ispettore è in commissione, certo non malediranno contro \ lo sciopero. Gli annoiati saranno i viaggiatori ferroviari, specie quelli che vivono in fretta. Ma i più che ne soffriranno saranno gli abitanti delle grandi città, Roma, Milano, Napoli e altre poche, dove le distanze sono notevoli e la mancanza di tram disturberà la povera gente, che, avendo per lo più un'entrata inferiore a quella del tramviere (quando non si tratta di disoccupati), non si renderanno conto perchè debbano essere proprio essi il capro espiatorio delle vertenze fra personale e amministrazioni pubbliche. Tutto sommato, ventiquattro ore passeranno, i l ritmo cittadino ritornerà normale; di qui a qualche mese (o prima) sarà tutto dimenticato. Dunque, effetto sociale: zero. Vediamo cosa succederà dal lato del governo, contro il quale


lo sciopero è stato montato. Dal punto d i vista personale dei ministri si tratta di una grossa noia, ma siccome i ministri come tali debbono sempre avere delle noie, grosse, mezzane e piccole, possiamo compiangerli; gli antichi dicevano: honores cum oneribus; sono i pesi della carica. Che ci starebbero a fare i ministri a quel posto, se tutto andasse liscio? Una delle due: i ministri cedono alle intimazioni degli statali, e saranno degni di essere mandati via dal posto immediatamente perchè per cedere dovrebbero avere i fondi d i copertura della maggiore spesa: se essi hanno creduto e dichiarato che fondi non ce ne sono, non possono fare di pietre pane (come si dice in Sicilia), nè possono darsi all'allegra vita di stampare carta moneta; perchè darebbero non solo agli impiegati ma a tutto il paese carta falsa, cioè diminuita del valore di acquisto, e perciò inutile allo scopo, anzi dannosa. Se poi i ministri, come lianno già dichiarato, resistono, unico giudice dei loro atti sarà i l parlamento; solo il parlamento può decidere se il governo ha ragione o torto. Nel primo caso, approverà il disegno d i legge, nel secondo esso lo boccerà; i l governo se ne andrà, e coloro che avranno bocciato il progetto si assumeranno l a responsabilità di formare il nuovo governo e di presentare un altro disegno di legge secondo le direttive date dalla maggioranza parlamentare. Questa e non altra è la via maestra che bisogna seguire, quali ne siano poi gli ulteriori svolgimenti. Facciamo l'ipotesi che, approvati tali e quali i proposti aumenti, gli statali, credendosi defraudati nei loro interessi, pensino sul serio di sfidare il parlamento e creare un'agitazione nel paese. I1 nuovo duello potrà avere per seguito l'approvazione delle norme sullo sciopero degli statali che ne definisca i diritti e doveri ( h o già detto altra volta il mio pensiero in merito), e perfino lo scioglimento delle due camere per un appello a l paese, che infine avrà (se Dio vuole) l'ultima parola. Si tratta di un problema che in maniera semplice e d i fronte al cittadino elettorale si pone così: per aumentare ancora gli stipendi degli statali il governo dovrà imporre ai contribuenti nuovi oneri, ovvero, dovrà diminuire le assegnazioni per investimenti; o, infine, dovrà ridurre il personale impiegatizio dello


stato e degli enti che direttamente o indirettamente gravano sul bilancio statale. Ciascuna di queste soluzioni porta un aumento d i disoccupazione, sia nel caso d i riduzione di personale impiegatizio, sia per i l caso di diminuzione di fondi per investimenti, sia anche per l'aumento fiscale, che superando un certo livello di pressione, inaridisce la stessa iniziativa privata. Si tratta di una coperta da letto, che non basta per quelli che vi dormono. I1 governo nei suoi diversi provvedimenti ha seguito una certa gradualità con adattamenti imposti dalle circostanze ed è arrivato mano mano ad una rivalutazione onesta (non parlo qui dei casuali, la cui rivalutazione non giudico tale). Dal 1945 (indennità carovita) si passa a l 1946 col premio di presenza, i l compenso d i lavoro straordinario anche quando solamente si suppone e non si £a (il che non è di mio gusto nè credo di gusto del pubblico); e alla tredicesima mensilità. Così di anno in anno: indennità di funzione, d i studio, di carica, accademica, d i rappresentanza, d i ricostruzione, di rendimento, oltre il caro pane, l a razione viveri, gli assegni giornalieri, gli assegni perequativi, fino agli aumenti del 1950, e infine all'attuale disegno d i legge. A quel che dicono i comunicati ufficiosi, oramai si arriva ad una rivalutazione uguale a quella ottenuta dall'impiego privato, che però non ha i privilegi dello stato giuridico applicato agli statali e neppure la comodità dell'orario unico, che sarebbe tempo di abolire nell'interesse del servizio. Credono gli statali che nel 1952, se le condizioni dell'economia saranno diverse da quelle di oggi, non si prospetteranno altre richieste da aggiungere alla lista? Purtroppo, s i dovrebbe avere il coraggio d i tagliare quel che non regge più e di abolire la « lista di bucato D che sono l e rimunerazioni statali. Indietro non si torna; la eliminazione delle indennità impiegatizie per una miracolosa rivalutazione della moneta, è un sogno sciocco, e potrebbe essere l'indice di una crisi di prima grandezza. Stiamo al criterio d i stabilizzazione della moneta nel quadro delle oscillazioni internazionali e questo ci basta. Detto ciò, bisogna rilevare u n aspetto inquietante dell'attuale vita pubblica italiana, che in fondo è affetta da istintivo e mai domato anarchismo. -


La lotta che il funzionarismo sta impegnando su vari settori è u n fatto assai grave. Le banche statali o parastatali sono in mano a funzionari e come amministrazioni sono sfuggite a l reale controllo dello stato. Gli enti parastatali sono in mano a i funzionari e come amministrazione vanno sfuggendo a l controllo dello stato. I ministeri si credevano immuni da simile tabe, perchè i l funzionario è per tradizione un collaboratore dello stato, e sotto certi aspetti partecipa alla vita dello stato. Ma no, si stanno capovolgendo le posizioni; vi è un'oligarchia burocratica che sta assoggettando a sè tutti, compreso il governo e i l parlamento. Non si neghi la mia affermazione; ne darò la prova. Ora vengono le confederazioni sindacali a creare u n contraltare a l governo e al parlamento; a tentare di svuotare gli organi supremi dello stato dalla loro responsabilità terminale, trasportando le valutazioni della vita amministrativa dal campo pubb l i c i s t i ~a~ quello privatistico. Questo è stato fatto, con il consenso cosciente o incosciente degli stessi organi dello stato, quando si sono create le gestioni extra-bilancio in mano a funzionari; questo si è fatto perfino per certi compensi extra-bilancio, affidati a funzionari; questo è fatto tutte le volte che la volontà del funzionario (ragioneria e tesoro) prevale su quella del governo e del parlamento. Se i sindacati con le loro agitazioni potranno disporre del bilancio dello stato, conviene che prendano i l posto del parlamento. La nuova maggioranza sarebbe non più democratica, ma sindacalista, non più politica, ma economica; così preparerebbe facilmente la strada all'avvento del bolscevismo. C'è gente che pensa sul serio a u n simile sbocco per l'Italia: altro che fasci e corporazioni. Certi dirigenti dei sindacati liberi, che non sentono i l pericolo di un abbraccio con i comunisti per catapultare governo e parlamento, assumono la maggiore delle responsabilità. E quei deputati e senatori, che essendo impiegati statali, non sentono il dovere d i optare per il mandato parlamentare, tradiranno insieme lo stato e la democrazia. 16 settembre 1951.

( I l Popolo, 28 settembre).


LE CLASSI MEDIE 0pportunam.ente l'istituto cattolico di attività sociale ha pubblicato un numero speciale dedicato alle Classi medie ( l ) . L'iniziativa merita seguito e approfondimento. Non sia discaro agli esimi promotori se, assente di corpo e presente in spirito, rifacendomi agli anni da me dedicati all'azione cattolica sociale, intervengo anch'io come posso, cioè scrivendone sopra un giornale. Valga il mio scritto non solo come contributo, ma come eco di pensieri lontani. Prego i giovani, ai quali forse suonerò come campana poco conosciuta, di non rifiutare di ascoltare l'intimo significato pieno di nostalgie e di speranze. Anzitutto, il problema delle classi medie non può essere trattato fuori della struttura sociale del tempo e del luogo. Assimilare le classi medie di oggi a quelle di cento anni fa, a quelle dell'amien régime, della rinascenza o del medioevo, e farne una specie di sequela storica di cause ed effetti, è piuttosto erudizione che studio sociologico e storico. Per evitare assimilazioni e generalizzazioni non proprie, occorre contentarsi di circoscrivere lo studio a dati gruppi di classi medie, collocandole dentro determinata struttura sociale e farne il rilievo concreto. Avendo lo studio iniziato dallYICASscopi pratici, non p0tr.à riferirsi che alle classi medie di un determinato paese (l'Italia), in un dato clima (l'attuale) e con finalità particolari (economico-sociali). Questo ci fa evitare una posizione astrattistica di tipo marxista, quella di farci fare il processo etico alla borghesia, al capitalismo e alle classi medie, quali cause della proletarizzazione moderna. Si prendono così le classi come organismi vitali e viventi, e si dà loro pensiero, volontà, finalità, colpe, meriti e demeriti, come se fossero persone umane, o enti giuridici ope-

(l)

Vedi Orientamenti sociali dell'agosto.


ranti nell'ambito di una civiltà con un auto-determinismo (proprio) e verso fini prestabiliti. Se noi diamo una volontà alla chiesa cattolica è perchè crediamo che, nel campo dell'azione redentrice, essa è animata dal vero capo che è Gesù Cristo. Nel campo umano invece dobbiamo parlare di papi, di gerarchia episcopale quando questa si muove collettivamente, o di singolo vescovo in una diocesi o parroco in una parrocchia. Se generalizziamo, e diciamo che i parroci d'Italia o i vescovi italiani fanno questo o quest'altro, sono orientati così o così, cominciamo gi.à a passare dal piano concreto a quello astratto; dall'attività volitiva all'impressione psicologica; e smarriamo facilmente la strada. Che dire poi, se usiamo. lo stesso linguaggio per lo stato? Lo stato vuole, lo stato si difende, lo stato esige, lo stato manca ai suoi doveri. Linguaggio contratto per dire ora governo, ora parlamento, ora pubblica amministrazione, ora ministero A-B-C-D, ora burocrazia (che è un po' il vero stato), ora perfino il prefetto, il questore, il provveditore agli studi, e perchè no? la guardia di dogana. E qui siamo ancora sul piano di un ente organizzato, lo stato, che rappresenta la società nella sua espressione politico-giuridica. Ma attribuire a nuclei non organizzati, o solo organizzabili a scopi morali ed economici, la cui articolazione è varia e imprecisabile, una coscienza interindividuale che si sviluppi come diversa da quella degli individui, oltre che un errore ontologico e psicologico, è anche una falsa impostazione sociologica alla quale ci han portato il positivismo da un lato e l'idealismo dall'altro. Passando alle classi medie (io direi all'antica ceti medi) dobbiamo potere affermare come dato essenziale, che questi si sono sempre sviluppati sul piano culturale delle professioni libere o liberali, nell'ambito cittadino e nello sviluppo degli affari. Fra tutti questi aspetti c'è stata intima colleganza strutturale, perchè l'esistenza degli uni creava l'esigenza per gli altri, formando una solidarietà civico-sociale-economica. Quei cattolici che scrivono contro la t( borghesia », quale personificazione malefica e personificazione filistea, dalla riforma in poi, non si accorgono di tre cose: che anch'essi sono borghe-


sia (infatti scrivono); che il clero del passato, quando non era nella categoria dei nobili, era borghesia, come è borghesia oggi; che tutti i Turati e i Prampolini, i Marx e gli Engels del passato socialista, e i Meda, i Mauri, i Léon Harmel e i Toniolo del passato democristiano erano borghesia; come borghesia sono i Togliatti, i Nenni, i Saragat, i De Gasperi e i Piccioni e i Giulio Pastore di oggi. E tanto per intenderci: non possiamo giudicare il passato col metro dell'oggi; nè discutere con le idee dell'oggi la persistenza della schiavitù nella società cristiana e poi la ricomparsa, nè l'atteggiamento teorico e pratico sulla schiavitù e sulla servitù della gleba tenuto dai cristiani ( i n sostanza dai ceti medi) lungo i secoli. Ogni epoca ha le sue benemerenze e i suoi errori ed orrori; e l'idea del costante progresso sociale è tanto sbagliata quanto quella del costante progresso politico e del progresso etico. Ceti medi o classi medie, certo hanno una storia, che può essere vista come la storia di un Francesco d'Assisi o di un Dante, o come quella di Robespierre o di Hitler. Ma il ceto medio o c'è o si crea; perchè la società progredisca dove non c'è ceto medio, è la chiesa che diviene storicamente la intermediaria fra i potenti e le classi lavoratrici, fra i ceti militari e gli artigiani. Dove c'è invece un ceto medio sviluppato e progrediente, questo diviene il dominatore, come f u per gli universitari e gli studiosi (novanta per cento ecclesiastici) e gli artisti dell'umanesimo, oppure i banchieri toscani e lombardi della rinascenza che in molti posti gareggiarono con gli ebrei e l i soppiantarono, tenendo in pugno papi e monarchi. In Russia si è sviluppata dal nuovo ceto medio una burocrazia potentissima che domina i l Kremlino e minaccia il mond o ; ed i ceti medi sono quelli che dominano nell'America del nord più che i baroni dell'industria e del commercio. Una nota che individualizza bene i ceti medi è quella del rinnovamento per l'apporto costante che viene dagli altri ceti e per i l dinamismo che deriva dalla libera iniziativa. È errore credere che l'artigianato e i lavoratori dell'industria e della terra non diano più nel mezzogiorno elementi freschi ai ceti medi. I1 novanta per cento del clero viene dalle famiglie con-


tadine e artigiane, che danno anche un contributo non scarso alle professioni libere o impiegatizie con notevole sacrificio delle famiglie solidali per quell'uno che ascende. Oggi c'è pletora di maestri e maestre elementari venuti su dalle classi lavoratrici. Non parliamo del contributo che il mezzogiorno dà alla polizia, ai carabinieri, agli agenti di custodia e d i finanza e alle poste e alla ferrovia. E se i ceti di cultura soffrono più degli altri, quando non hanno un posto stabile nell'amministrazione pubblica, ciò è dovuto più a crisi morali che a crisi economiche (cosa che meriterebbe uno studio a parte). Tutto sommato, il disorientamento dei ceti medi in Italia ( a fase alterna) è dovuto anzitutto alla pesantezza della nostra economia post-bellica che non ha potuto ancora trovare la via di una ripresa organica e promettente; - alla tendenza (ed è una terribile malattia) di voler divenire tutti impiegati dello stato e degli enti pubblici -; alla sfiducia in se stessi, nella società, nell'avvenire, che è anche in fondo sfiducia nella provvidenza; la crisi morale è alla base di ogni crisi economica. Si grida all'intervento statale, ma a far superare l a crisi basterebbe che lo stato (governo e parlamento) attenuasse la pressione fiscale verso i ceti medi, desse maggiori aiuti agli studenti poveri, regolasse meglio i rapporti di impiego, ristabilisse anche il senso di giustizia fra le classi, sulla quale poggia l'ordinamento sociale. I1 resto deve essere lasciato all'iniziativa privata, sociale, culturale, morale e assistenziale (sia o no integrata dagli enti pubblici), nella quale i cattolici, come tali, debbono tenere i1 primo posto. (La Via, 22 settembre).

17 settembre 1951.

XX SETTEMBRE STORIA

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SIMBOLO

. MITO

La festa civile del u 20 settembre fu stabilita dal parlamento, per riaffermare una conquista intangibile di fronte a


credute insidie all'unità nazionale. I n verità, le insidie interne f ed estere erafio nella fantasia dei politicanti e demagoghi; la Francia e l'Austria non avevano interesse a far guerra all'Italia per restaurare il potere temporale; nè il Vaticano a gettare l'Italia nella guerra civile; nè i cattolici a divenire i carbonari del papa. La festa del 20 settembre diede solo un pretesto allo spiegamento di bandiere massoniche e alla formazione di cortei anticlericali. Mano a mano che passavano gli anni e la nazione italiana si consolidava e diminuivano i motivi di urto fra stato e chiesa, il 20 settembre rimase una ricorrenza annuale di rito; naturalmente il monopolio restava ai massoni e agli anticlericali del tempo, per i quali, del resto, la questione romana non esisteva più; i cattolici non contavano e il papa poteva andar via da Roma tranquillamente. Gli altri, i pensosi delle sorti della patria, pur cercando di non acuire il contrasto, punti anch'essi da istinti ghibellini, non osavano guardare in faccia il problema in tutta la sua portata. Con Pio X e poi con Benedetto XV le speranze, pur vaghe e incerte, per una soluzione della questione romana, si diffusero nel paese; gli eventi della prima guerra, il concorso dei cattolici alla resistenza civile e militare e l'intervento aperto nella vita nazionale con partito proprio e infine l'abolizione ufficiale del non expedit (novembre 1919) riproposero il problema nella coscienza nazionale come maturo per una soluzione. Chi scrive aveva dichiarato al congresso popolare di Bologna (giugno 1919) che non intendeva dare carattere di partito ad una questione di interesse nazionale. Orlando e Nitti trattarono, ma, a parte le difficoltà pratiche, le loro barche ministeriali sbattute dalle ondate del dopo guerra, non reggevano alle tempeste; il nuovo timoniere, Giolitti, era ancora fermo alla figura retorica delle parallele di chiesa e stato che non si incontrano mai. Fu allora che Mussolini, nuovo venuto a Montecitorio (luglio 1921) affermò in termini nazionalistici (gli unici comprensibili nella sua bocca) la necessità di risolvere la questione romana. E otto anni dopo fu egli a portare nella stessa aula, ma con tutt'altra assemblea, l'approvazione del trattato del Late-


rano e atti annessi, con un discorso che dispiacque a l papa e lasciò perplessi i cattolici. A noi uomini liberi non poteva riuscire gradito che un dittatore avesse messo la sua firma su quei documenti; i l precedente di Napoleone non era tale da farci dimenticare i vantaggi derivati alla dittatura dai consensi di tutto i l mondo cattolico estero, che lo esaltava quale riparatore dei sacrilegi del risorgimento italiano. Ma le vie della provvidenza sono diverse da quelle degli uomini. La sanzione di un popolo libero che mancava nel 1929, fu data nel 1947 dalla costituente. La controversia sull'art. 7 non feriva il proposito di tutti, meno pochissimi laici impenitenti, a riconoscere effettiva e definitiva la pacificazione fra papato e nazione; così la questione aperta nel 1861 dal parlamento di Firenze, quando fu proclamata Roma capitale d'Italia, fu chiusa ottantasei anni dopo dalla costituente della repubblica italiana. Oggi le fasi di quel conflitto e lo spirito che l'animò possono essere guardati come storia superata e felicemente compiuta; non più nella nostra passionalità attiva, ma nella obiettività di una serie di eventi guardati fuori di noi, inseriti nell'alveo del processo storico, riflettenti motivi nazionali e religiosi in tutto e in contemperanza, in elisione e in convergenza, in un dramma di popolo a fasi varie e anche spiritualmente tragiche, il cui fato » finale ne ha trasceso i motivi, i simboli e i miti. La dialettica del processo storico può essere vista come quella del nostro spirito riflettuto sugli eventi, che noi guardiamo come compiuti, perchè analizzati nel loro ciclo risolutivo. È vero che il processo umano non si ferma nè si spezza; ma noi non possiamo valutarlo che a cicli compiuti: così parliamo di riforma e controriforma, di rivoluzione francese, di guerre napoleoniche, di risorgimento italiano, d i guerre mondiali, la prima e l a seconda. Per noi c'è un termine risolutivo, ed è sempre un termine guardato come un bene acquisito, prodotto da molti eventi che a giudicarli o sotto l'angolo etico o sotto quello civico, nazionale, economico, politico, sembreranno deficienti, pieni d i azioni malefiche, di disastri immani, di delitti incomprensibili.


Ma noi vi riflettiamo i l nostro bisogno di bene, come speranza, come minor male, come cessazione della pressione maligna, come vita: è la vita che prevale sulla morte anche nelle più grandi catastrofi. E non l'abbiamo provato di recente il senso di vita, quando cessò la guerra, quando le truppe straniere lasciarono il nostro paese, quando potemmo parlare e riunirci liberamente? E non sentimmo il senso di vita quando nelle provincie rosse si potè superare l'omertà del delitto notturno e anonimo che pesava come un fato tragico su tante famiglie? È questa e non altra la dialettica storica, il continuo passaggio da un male presente a un bene sperato, desiderato per lunghi anni, alla cui attuazione volenti e nolenti cooperano tutti, ciascuno con la sua azione positiva o negativa, e con quegli elementi imponderabili, impercettibili, invisibili, che ci aprono spesso le porte di un avvenire migliore. Non tutti sono convinti di quel bene in cui si risolvono i fatti, nè lo accettano come definitivo, nè l'apprezzano nel SUO valore relativo e pratico. Sono quelli che continuano la lotta del passato su altro piano e gettano i fermenti per l'avvenire. I n buona o cattiva fede, con criteri sani o sbagliati, verso mete vicine o lontane, non importa. C'è qualcosa di vero e d i bene in ogni resistenza al presente, che non è mai compiuto, mai perfetto, mai definitivo dal punto di vista del processo storico. Chi guarda al passato, crede di poterlo riprodurre; chi guarda all'avvenire, crede di poterlo realizzare. Molto cade e svanisce in tale ripresa umana dei problemi vissuti; molto anche si afferma e si sviluppa. Non neghiamo i l processo, .perchè nel contrasto delle forze si sprigiona la vita, il bene si riafferma nella lotta col male. Tornando al tema ( l a digressione ne è tutta impregnata), oggi ci sono in Italia laicisti che, rivolti al passato, cercano di far rivivere un anticlericalismo intellettuale che non ha base; altri cercano sollecitare le passioni volgari contro preti e frati, chiesa e papato. Gli uni e gli altri non passano mai tali nell'alveo del processo storico, finchè non arrivano a posizioni positive contenenti un bene, sia pure pseudo-bene: imagini


di ben seguendo false ». Ma ci sono coloro, i comunisti, che usano verso la chiesa ora la minaccia persecutrice, ora la « mano tesa a scopo di propaganda, quale mezzo per una finalità che supera le posizioni di stato e chiesa o di nazione italiana e papato, per arrivare alla dittatura bolscevica in Italia. Questo è un problema nazionale e internazionale, politico e religioso, che supera le angustie delle fazioni dissidenti laiciste ed anticlericali, e impegna le nostre responsabilità dell'oggi e del domani di fronte alla nostra coscienza e di fronte alla storia. 24 settembre 1953.

(Sicilia del Popolo, 28 settembre).

19.

UN a LIBERISTA » FUORI STAGIONE Secondo il prof. Ernesto Rossi io sarei un liberista manchesteriano di cento anni fa. Non c'è dubbio che io sia stato sempre coerente ad un ideale temperatamente « liberista D, fin da quando, sull'altra sponda, mi trovavo sulla medesima linea di Napoleone Colajanni, combattendo contro i l dazio sul grano, e partecipando alla corrente guidata da Edoardo Giretti. Però, e prima e dopo il fascismo, i n Italia e all'estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati. Non c'è dubbio che l'azione statale, anche se volutamente limitata al solo regime fiscale, interferisca nel ritmo dell'economia privatista. Lo stesso effetto ha qualsiasi regime doganale, tanto a scopo fiscale che a scopo politico (nei rapporti con altri stati). Quando poi sovraggiungono esigenze eccezionali per epidemie, terremoti, guerre, i provvedimenti statali incidono naturalmente in parte o anche in tutta la struttura economica del paese; sta al governo e agli organi dello stato temperare, regolare, correggere il corso degli affari, per dare ai cittadini il minore disturbo possibile.


I1 liberismo puro è una concezione irrealistica, come è irrealistico il dirigismo puro, il comunismo puro e tutto quel che l'uomo idealizza a l di fuori della realtà concreta. Stando con i piedi sulla terra, possiamo parlare di indirizzo, di orientamento, d i relatività; infatti la legge più adatta all'uomo politico, come all'uomo d i affari e anche all'uomo comune, è quella d i un sano relativismo. Quando lo stato liberale era timido ad adottare leggi sociali, non solo noi democratici cristiani della fine ottocento, ma anche molti altri d i vario settore, a parte i socialisti, sostenevamo il diritto dello stato a intervenire, per proteggere il lavoro contro l o sfruttamento; sostenevamo il diritto dell'operaio ad organizzarsi ed il dovere dello stato a riconoscerne i sindacati e le leghe. Si trattava, è vero, d i interventi d i carattere giuridico-sociale. Ma, facendo u n passo in avanti, accettavamo anche le municipalizzazioni, allo scopo di far diminuire i costi e calmierare i consumi. Naturalmente l'esperienza « italiana », fatta spesso d i facilonerie e d i furberie, portò in molti casi, così nel campo della municipalizzazione come in quello della cooperazione, ad elevare i costi e a fare sparire gli utili e i vantaggi che si speravano. Proprio come avvenne nel campo delle assicurazioni d i stato, che pur favorimmo, nonostante certe riserve. Ma in teoria avevamo ragione e in pratica no. intervenzionismo » della fine del secolo Oggi il timido scorso è superato; il così detto « dirigismo » di stato è accettato da tutti, anche se si è arrivati a formare un migliaio d i enti statali o parastatali. Lo stato non si è limitato a regolare l'economia a mezzo degli interventi fiscali e doganali; ha prodotto con i suoi interventi due grossi monopolii intercomunicanti: i l monopolio dello stato, parte scoperto e parte sotto etichette varie, e il monopolio di grandi imprese apparentemente libere che vivono dei favori diretti o indiretti dello stato. Quando tali imprese vanno male, si annettono apertamente e subdolamente allo stato, che così accresce il suo immenso « demanio » industriale, immobiliare e mobiliare. Di questo passo lo stato, i n forma caotica e incoerente, costituirà una nuova manomorta superiore a quella feudale dei monarchi o delle chiese del medio evo e quasi pari all'attuale manomorta sovietica. -


La situazione italiana di oggi è di una incoerenza tale, che il prof. Rossi può denunziare la mala amministrazione statale, l'invadenza burocratica nella economia, il parassitismo a danno dello stato, e allo stesso. tempo scrivere contro i « baroni D o i « briganti 1) dell'elettricità o dello zucchero e in genere contro i ((pirati » di terra e di mare della industria privata; con l'eccezione del cielo perchè là non c'è nessun « pirata », dato che la nostra industria aviatoria non ha possibilità di contendere con quelle estere, che si aggiornano sempre di tutte le novità scientifiche succedentisi a ritmo accelerato. L'assurdo dell'economia italiana sta nel fatto di essere apparentemente privatistica e di mercato, ma effettivamente controllata da uno stato che pretende di dirigere e non dirige; mentre il privato cerca d i farla al dirigente e al cliente e la fa a se stesso. Fra gli elementi del caos economico che si è prodotto in Italia, il primo e il più grave è di natura psicologica. Gli operai, quelli che, lavorando o anche non lavorando, hanno la fortuna d i un salario giornaliero assicurato, pensano che, se non paga l'imprenditore, pagherà lo stato, sia direttamente sia sotto i fatidici nomi d i IRI, FIM, ILVA, ANSALDO e simili; hanno così perduto il senso del rischio. Se sono licenziati, tentano le agitazioni sindacali, gli scioperi, l'occupazione delle fabbriche, sicuri che, novanta volte su cento, la spuntano. I n tutti questi casi, casi d i ogni giorno, il meno che si pensa è di rendere efficiente l'impresa e d i evitare che l'impresa fallisca. Anche l'impresa i n stato fallimentare deve vivere ed essere oggetto di salvataggio statale. L'imprenditore, da parte sua, non solo entra in questo ordine di idee, ma usa dell'arma dei sindacati operai e delle deputazioni politiche di tutti i partiti, per costringere ministeri e governo a intervenire. La burocrazia non sta con le mani in mano, sia quella normalmente amica, pour cause, degli industriali; sia quella eventualmente interessata; sia anche quella impegnata dai ministri a trovare una soluzione temporanea che allontani il disturbo )e rimandi la ricerca di rimedi più sostanziali. Se ciò non ostante, non si riesce a salvare le imprese, le larghe braccia dello stato sono là per rilevare tutte le Brede, tutte le Reggiane e tutte le

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Ducati di questo mondo, accrescendo la manomorta industriale statizzata. I1 prof. Rossi domanda a bruciapelo, se sia possibile il fallimento della Fiat. Io escludo l'ipotesi, non perchè la Fiat non sia come tutte le cose umane, che possono andare bene o male, ma (a parte la solidità di quella impresa, che vorrei più contenuta e senza tante filiazioni), perchè escludo che si debba a priori ipotizzare il caso di un salvataggio statale di un'impresa i n fallimento. Fatta la ipotesi, viene creata d i botto la psicologia del pubblico che lo stato è obbligato a garantire tutte le imprese industriali che andranno male. Non ne resterà una'in piedi. Se la Fiat, non ostante tutti gli aiuti e le protezioni avute, come ogni altra impresa industriale, andasse male, ed io fossi qualcosa nel governo italiano (supposizione ieri irrealizzata oggi irrealizzabile), sequestrerei tutti i beni degli azionisti della Fiat e di tutte le società alle quali partecipa la Fiat per fare fronte al disastro; manderei in galera tutti i responsabili del fallimento e metterei l'impresa in mano ad abili liquidatori. La nuova Fiat verrebbe su sana e valida, senza debiti e senza creditori. Quegli operai licenziati dovrebbero essere messi alla pari dei disoccupati, per i quali lo stato provvede nei limiti delle sue possibilità, curando che nessuno muoia d i fame, ma chiarendo che nessuno possa avanzare diritti contro lo stato. Questo atto di politica risanatrice porterebbe certo la ribellione dei sindacati, il voto di sfiducia dei deputati, la crisi ministeriale, ma sarebbe l'inizio dell'apertura degli occhi degli italiani che non vedono verso quale disastro si va incontro ammettendo a priori che nessuna impresa importante debba fallire. È vero; Sturzo, l'organizzatore di contadini e di operai della prima gioventù, il sostenitore del sindacalismo giuridicamente riconosciuto, il sociologo storicista e spiritualista, l'uomo d i azione sociale e cattolica, il politico democratico, sarebbe i n questo caso dipinto quale nemico del popolo e sarebbe messo in istato di accusa. Cinque anni fa, al mio ritorno dallyAmerica, trovai l'improvviso provvedimento del blocco della mano d'opera nelle industrie. Proposi la creazione di una cassa autonoma per la disoccupazione con il concorso dello stato, delle industrie e degli


operai occupati, sicuro che entro due o tre anni, tutta la mano d'opera licenziata sarebbe stata riassorbita, le industrie avrebber0 prosperato della congiuntura, e avrebbero avuto maggiore possibilità per il riadattamento post-bellico delle imprese. Forse ero ottimista nelle previsioni; ma l'altra strada, quella seguita, ci ha dato la perdita di cinque anni nella ripresa e ci ha portato al marasma presente. Un'altra delle mie campagne (naturalmente senza risultati) tocca una delle piaghe più gravi: la nostra economia nei rapporti con il sistema bancario. Quale economia, anche elementare, può stare in piedi con gli attuali interessi bancari attivi, che dal 7 per cento nominale vanno al 13 per cento normale, e arrivano a punte che superano il 18 per cento? Che dire poi se le banche pretendono (non si tratta di pochi casi) di associarsi ai profitti dell'impresa per quel 10, 20 o anche 30 per cento, che trasforma la banca in una compagnia di affari, e non si sa in certi casi se pubblici o privati? Mi fermo qui, perchè gli organi dello stato non ignorano questo ed altro, dato che la gran parte delle banche sono statali o C irizzate » che è lo stesso. La piaga italiana sta principalmente nella burocratizzazione generale: lo stato, le aziende statali, le banche, gli enti statali o parastatali e perfino le grandi imprese industriali e agrarie sono tutte burocratizzate: la burocrazia vi comanda e vi impera. L'impresa piccola e media, fisco permettendo, banca permettendo, sindacato permettendo, congiuntura permettendo, vive o vivacchia, secondo i casi, o va in malora con fallimenti risanatori. Ma il grosso, quello che Ernesto Rossi definisce dei « pirati », dei « briganti », dei « baroni », vive con l'aiuto diretto o indiretto dello stato, con i favori della burocrazia, con il consenso non disinteressato dei partiti. Quel poco che ci mette l'iniziativa privata da sola, al di fuori dei contatti ibridi e torbidi con lo stato, è merito di imprenditori intelligenti, di tecnici superiori, d i mano d'opera qualificata, della vecchia libera tradizione italiana. Ma va scomparendo sotto l'ondata dirigista e monopolista. Mi si domanda, perchè, in tale situazione, continuo a perseguire idee e ricordi di un liberismo seppellito. Rispondo: il segreto della mia campagna non è strettamente economico.


Io non ho nulla, non possiedo nulla, non desidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertà politica completa, ma responsabile. La perdita della libertà economica, verso la quale si corre a gran passi in Italia, segnerà la perdita effettiva della libertà politica, anche se resteranno le forme elettive di un parlamento apparente che giorno per giorno segnerà la sua abdicazione di fronte alla burocrazia, ai sindacati e agli enti economici, che formeranno la struttura del nuovo stato più o meno bolscevizzato. Che Dio disperda la profezia. 4 ottobre 1951.

( L a Via, 6 ottobre).

A PROPOSITO DEL 20 SETTEMBRE (*) Caro onorevole amico,

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I1 mio articolo « XX Settembre Storia Simbolo Mito » mirava, come han rilevato i lettori spassionati, a precisare che il 20 settembre 1870 fu una delle date della questione romana, aperta dal moto risorgimentale per l'unificazione nazionale e poi, in forma più diretta, con il voto del 1861 del parlamento di Firenze per Roma capitale, e risolto con i patti Lateranensi del 1929, dei quali il voto della costituente nel 1947 fu una specie di sanzione del popolo ritornato in libertà. Non era nello scopo del mio articolo dare rilievo a chi ne avesse il merito e chi il demerito; non parlai pertanto nè del re nè del papa, certo che senza il volere dei due capi, dello stato e della chiesa, non si sarebbero conchiusi trattato e concordato. È chiaro che chiunque fosse stato il papa del momento, a parte ogni qualità personale, avrebbe fatto più o meno lo stesso di quel che fece Pio XI, affrettando una soluzione che oramai era andata maturando nell'atteggiamento del papato fin dai (*) Lettera u Reggio D'Aci, direttore di Realtà Politica.


primi tentativi di conciliazione, e si presentava possibile, se non imminente, fin dai tempi del beato Pio X. Che Vittorio Emanuele I11 sia stato l'ideatore e il propulsore della conciliazione, non credo che storicamente risulti; l'esame va lasciato agli storici che si interessano di fare ricerche utili di un passato che è giusto mettere in luce per obiettività storica, e non per passionalità politica. Tanto più che i meriti e i demeriti delle monarchie in genere e dei monarchi in singolo sono politicamente' scontati in partenza: i l monarca assoluto è sempre i l re buono che tocca il cuore del popolo, ma egli è stato sempre, nell'opinione comune, circondato da ministri inabili o malvagi; onde i l popolo gli ha sempre attribuito il bene ma non il male. I re costituzionali regnano e non governano: siccome ogni accolta di ministri è sempre popolarmente i l governo ladro, così si può supporre che il re dia dei buoni suggerimenti ma sia legato dalla costituzione a firmare tutte le leggi malfatte, e tutti i decreti cattivi. La posizione di Vittorio Emanuele I11 durante la dittatura è u n fatto storico pressochè unico, perchè i poteri passarono al dittatore, che nella opinione pubblica si pose al primo piano: f u lui, i l dittatore benefico circondato da ministri e da gerarchi malefici; egli che ebbe tutti gli onori e tutti gli oneri. I1 re rimase in p ~ n o m b r a ,sempre re costituzionale anche quando la costituzione era stata lacerata; una specie di custode extra temporale'dell'Italia, nazione e regno. I n tale posizione di testimonio del passato costituzionale durante u n presente dittatoriale, egli avallò legalmente tutti gli atti della dittatura, compresi quelli detti razziali e compresa la partecipazione alla seconda guerra mondiale; allo stesso modo che aveva avallato legalmente i patti Lateranensi. Noc ci sono differenze politiche e legali f r a tali atti, a parte la ripugnanza personale che i l re potè avere per gli uni e il consenso cordiale che potè dare per gli altri. Non fo torto a coloro che conservano attaccamento devoto a casa Savoia e ai re che da Carlo Alberto al luogotenente Umberto si succedettero in un secolo così decisivo per la storia d'Italia; e neppure fo torto a coloro che sono convinti che l'istituto monarchico sia i l più adatto per gli italiani. Ma non


posso che riprovare coloro che della monarchia vogliono fare vessillo di fazione e motivo di vilipendio delle nostre istituzioni repubblicane. Non ripetiamo l'errore che tormentò l a Francia per quasi un secolo; specie oggi che l'Italia è al bivio f r a restare nazione libera o passare sotto il tallone bnlscevico. Che questo pericolo derivi dalle tragiche fasi della seconda guerra mondiale, i neo regionalisti non mostrano di avere coscienza, credendo possibile cancellare la storia o falsarla a scopi politici. Ma chi si rende conto di quel che fu per l'Italia l'infausta repubblica di Salò e la dominazione tedesca dalla linea gotica in su, si renderà anche conto che la bolscevizzazione operaia era già i n corso prima che Badoglio ( o il r e ? o gli americani?) avesse chiamato Togliatti dalla Russia. La questione romana sarebbe stata riaperta di sicuro se l'opera di Pio XII durante la guerra, opera mirabile d i papa e di italiano, non avesse riavvicinato la chiesa a l cuore di tutto il popolo; e anche se i cattolici, ripreso i l ruolo del partito popolare, non avessero creato la democrazia cristiana che ha fatto fin oggi da baluardo contro l'invadenza comunista e da remora ai risentimenti dei neo-laicisti. I1 voto della costituente circa i patti Lateranensi, come già scrissi ( a parte la disputa giuridica di inserirlo o no nella costituzione), fu espressione quasi unanime della coscienza italiana in quel dato momento. Nessuno può negare, che se al contrario l'atteggiamento dei partiti (allora i cattolici erano minoranza) fosse stato avverso alla chiesa, il concordato sarebbe stato denunziato, riaprendo un conflitto che si credeva già chiuso. Sono considerazioni ovvie queste; ma chi mi accusa di sentimenti partigiani, non mi conosce; ignora la mia oggettività ed equanimità in tutti gli avvenimenti deIla mia vita; l'assenza di risentimenti e di odi; l a ricerca della verità, la comprensione verso i miei avversari. Per questo stato d'animo, non ho mai rilevato l e accuse, anche l e più amare, verso la mia persona; ed ho sempre steso l a mano a tutti, ignorando volutamente o dimenticando quel che è stato detto, scritto e fatto contro di me. Quando mi si rimprovera sulla stampa di aver mancato a l mio carattere sacerdotale nello scrivere l'articolo sul 20 set-


tembre, dando sfogo a bassi risentimenti, ho il dovere di fare pubblica testimonianza di me stesso e della mia coscienza, appellandomi a quanti mi han conosciuto e mi conoscono. Non pretendo di non avere sbagliato; anzi avrò sbagliato tante volte in così lunga e agitata vita: è umano; ma ho tenuto sempre come mia norma e mio dovere cercare e affermare la verità e seguire gli impulsi dell'amore cristiano come uomo e come sacerdote. 9 ottobre 1951.

(Realtà Politico, 13 ottobre).

CHE FARNE DEL SENATO? I1 senato è guardato in Italia o come un istituto tradizionale rispettabile (direi venerabile) benchè oggi i senatori non abbiano più cappello a tuba e barba lunga, e non siano nominati a vita; ovvero come un consesso superato dagli eventi, una specie di ingombro costituzionale da ridurre di peso; e perfino una specie d i terzo incomodo fra la camera e il governo, da doversi senz'altro eliminare. Una prima impressione sfavorevole, dopo l'euforia della costituente, è venuta dal fatto che il senato ripete tale e quale le esuberanze, la formula, gli aspetti della camera dei deputati. Discorsi su politica generale qua, discorsi su politica generale l à ; lunghi qua lunghi là; a Montecitorio comunicazioni del governo e relativa settimana di ambiente eccitato; a palazzo Madama comunicazioni del governo e relativa settimana di ambiente eccitato. L'esame e la discussione dei disegni di legge ha la medesima trafila, e più o meno si impiega il medesimo tempo, quando non si arriva - per criteri divergenti - a far fare alle carte la spola fra le due sedi monumentali, per arrivare dopo qualche anno a nulla d i fatto, ovvero ad una soluzione che non piace agli uni ( i deputati), nè agli altri ( i senatori) e neppure al paese.


Questi i fatti prospettati da una critica negativa che dopo tre anni non sa ancora che cosa fare del senato. Le diverse disposizioni della costituzione non son tali da creare fra senato e camera una differenziazione effettiva. Anparte certi ritocchi costituzionali, molto dovrebbe essere affidato al costume, a l senso di responsabilità ed autolimitazione del corpo senatoriale, e alla buona tradizione. Questi elementi d i psicologia politica funzionano poco in un paese indisciplinato come l'Italia; ma quel poco, sentito da uomini responsabili, finirebbe per creare una prassi rispondente alla nostra concezione italiana, derivata da quella inglese, di una seconda camera con funzione temperatamente conservatrice. Basterebbe, intanto, la modifica del disposto dell'art. 81 della costituzione, dove è detto « l e camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal governo n, stabilendo che la camera dei deputati approvi ogni anno i bilanci preventivi e il senato il rendiconto consuntivo, dando però reciprocamente conoscenza dei relativi atti. Si avrebbe così una separazione di compiti che non tocca la sostanza costituzionale della normale legislazione, perchè lo stesso art. 81 provvede opportunamente a che con la legge d i approvazione del bilancio non si possano stabilire nuovi tributi o nuove spese. Circa i rendiconti, ci troviamo oggi a questo punto che a partire dal luglio 1943 (data della caduta del precedente regime) non ne è stato approvato nessuno d i quelli governativi con O senza la consulta, nè di quelli governativi durante la costituente e neppure del governo parlamentare; otto anni, dal 1943 ad oggi. M d a n d o l'esame e l'approvazione dei rendiconti al solo senato si eliminerebbe u n duplicato inutile con vera perdita di tempo e si creerebbe un vantaggio Sotto tutti i riguardi notevole, si inizierebbe così la moralizzazione della nostra amministrazione, e si otterrebbe la verifica della reale consistenza dei nostri bilanci. E chi non darebbe al senato la sorveglianza d i indirizzo economico delle aziende autonome e degli enti statali e parastatali, esonerandone la camera dei deputati perchè la vera sorveglianza non può essere bicipite come l'aquila asburgica? Non mi dicano i bigotti del sistema bicamerale, che con ciò verrà scardinata l'unicità del parlamento. I1 principale compito del quale


è la funzione legislativa che è esercitata dalle camere u collettivamente », come dice la costituzione; l'altra, la funzione di carattere politico, è esercitata tanto a camere riunite (assemblea nazionale, per la elezione del presidente della repubblica e d i cinque membri della corte costituzionale), quanto distintamente: dichiarazione di guerra, trattati internazionali, voti d i fiducia al governo, mozioni, nomine di commissioni di inchiesta. Con questi mezzi la camera potrà anche intervenire nell'andamento amministrativo dei ministeri quante volte lo voglia, dandovi però aspetto di indirizzo politico. Ma la funzione amministrativa del parlamento (bilanci e resoconti), mantenuta distinta da quella legislativa, può senza offendere le nostre istituzioni, essere affidata all'una o all'altra delle camere; ciò servirà ad evitare quel parlamentarismo decadente che tende ad invadere i compiti e le responsabilità del governo. Certuni credono che la differenziazione fra le due camere dovrebbe derivare dalla qualità specifica dei senatori, qualità che non può aversi altrimenti che con la nomina a vita su categorie prestabilite. I n sostanza: tornare all'antico. Invero l'antico rimodernato mancherebbe oggi di due presupposti: la monarchia ereditaria e la struttura politico-costituzionale su base censuaria, che creava l'oligarchia della proprietà immobiliare. Oggi siamo invece i n regime di « repubblica democratica fondata sul lavoro )) (art. l della costituzione). È da escludere la nomina presidenziale dei senatori, essendo costoro gli elettori del presidente della repubblica. L'eletto che nomina una parte dei suoi elettori, altererebbe in partenza l'indipendenza e la libertà dell'istituto. È vero che il papa nomina i cardinali che sono elettori del futuro papa, ma l'esercizio di tale diritto da parte dei cardinali avviene dopo la morte del papa; nel caso nostro la nomina può cadere sullo stesso presidente in carica o su altro candidato cui il presidente uscente darebbe il suo appoggio. Nei paesi a regime bicamerale, tranne l'Inghilterra che conserva la tradizione vitalizia della u casa dei signori » ( p e r quanto democratizzata con tutti i borghesi e i laburisti fatti visconti e haronetti), i senati esistenti sono tutti elettivi, senza ammissione


d i membri a vita nominati da re o presidenti; la tradizione si mantiene secolare e nessuno parla, come da noi, d i duplicato inutile o ingombrante. La ragione è evidente: o i l senato è reputato la prima camera ovvero la seconda camera, secondo le tradizioni locali. La uguaglianza, anche se si trova nella legge, non esiste nel costume. Qui in Italia il primo esperimento del senato elettivo è stato turbato da due fattori: l'ammissione di 105 senatori « di diritto D, alterando così la volontà elettorale del paese, e la pretesa di voler essere a pari 3 della camera dei deputati, contro la tradizione italiana e contro lo spirito de117istituto bicamerale. La pretesa è stata avvalorata dall'orientamento avuto dai costituenti i quali effettivamente idearono il senato in tutto pari alla camera dei deputati, senza reali attenuazioni e senzà compiti specifici, pur dopo aver accennato a tenui caratteristiche regionali. Questo errore iniziale si può correggere (a parte qualche ritocco alla costituzione come quello suaccennato) con la convinzione che un organo in tanto è utile, in quanto h a una sua funzione propria insostituibile. Per le istituzioni parlamentari, il senato è veramente insostituibile, se è davvero senato e non il duplicato della camera. I1 senato elettivo può essere nominato in forma diretta e per elezioni di secondo grado. I n tutti gli stati è ammessa la elezione popolare; solo in alcuni cantoni della Svizzera l'elezione dei relativi rappresentanti è fatta dalle assemblee cantonali, come a Ginevra. L'Italia è uno stato unitario; l'idea d i fare eleggere i senatori dalle assemblee regionali fu scartata. Potrebbero essere eletti dalle provincie o dai comuni; ma il corpo eletto non guadagnerebbe in omogeneità rappresentativa. Bisogna arrivare all'elettorato diretto, com7è prescritto dalla costituzione. La legge elettorale del senato del 1948 non soddisfece; si può correggere o se ne può fare un'altra. Si tratta d i leggi d i adeguamento alle esigenze della opinione pubblica, che possono sempre modificarsi, purchè non si cerchi di sofisticare la volontà della nazione. Le elezioni del senato debbono essere fatte contemporanea-

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- S W R z O - Politica d i questi anni.


mente a quelle della camera, correggendo il disposto della costituzione che fissò per il senato sei anni e per la camera cinque. Sarebbe u n errore assai grave sottoporre il paese a due lotte elettorali politiche alla distanza di un anno, con l'effetto d i svalutare in partenza i risultati della prima votazione che potrebbero essere modificati dalla seconda. Per questo, alla vigilia del 1953, il problema del senato, della sua funzionalità e della sua nomina sono oggi all'ordine del giorno.

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29 settembre 1951.

(Sicilia del Popolo, 18 ottobre).

LA CORTE COSTITUZIONALE IN PARLAMENTO

Un disegno di legge costituzionale sulla corte costituzionale è all'ordine del giorno della camera per la seconda lettura; un altro disegno di legge « ordinaria è tornato a Palazzo Madama dopo una specie di rimpasto £atto a Montecitorio del primo testo approvato dal senato. Questa contemporaneità dovrebbe indurre i due consessi ad una possibile intesa, per evitare altre remore all'attuazione d i tale istituto che dovrà essere di garanzia per i cittadini, per le regioni e per lo stato. L'intesa è necessaria perchè, trattandosi di materia nuova per l'Italia, le opinoni dei giuristi e quelle degli pseudo-giuristi sono assai discordanti, come si può osservare leggendo i disegni di legge usciti già dal torchio delle prime votazioni. Non voglio addentrarmi sul quesito se fosse necessaria una legge costituzionale per quel che fa materia della proposta del vicepresidente Leone e di altri, già approvata in prima lettura dalla camera; mi piace accedere, in questo caso, al noto motto americano del safety first, mettersi cioè dal lato della sicurezza giuridica. Ma ho i miei dubbi sulla opportunità di quell'articolo loche vi fu inserito nella discussione, dove è detto « che


la corte costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme, nei limiti e alle condizioni di cui alla carta costituzionale, alla legge costituzionale 9 febbraio 1948 n. 1 ed alla legge ordinaria emanata per la prima attuazione delle predette norme costituzionali D. Si tratta di una superfetazione che nulla aggiunge allo stato attuale della legislazione; ma il richiamo ad una legge ordinaria non ancora « emanata s, può dare l'impressione che vi si voglia dare una specie di sanzione costituzionale, con u n ne mutetur, tranne che con la procedura dell'art. 138. Si dirà che non è così; si dirà che la mia è una esagerata preoccupazione ; ma allora io domando : « che ci sta a fare questo articolo l o ? Che scopo ha mai? )). Majora canamus. La questione più grave per il funzionamento della corte è contenuta nell'art. 16 del disegno di legge ordinario che è avanti il senato, dove sta scritto: « La corte funziona con l'intervento di almeno undici giudici D. Si è detto che tale disposizione non è in contrasto con l'articolo 135 della costituzione (che fissa a 15 i l numero dei giudici) in quanto la stessa costituzione affida alla legge ordinaria « le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della corte ». Ma dal complesso degli elementi che ne derivano, si h a motivo di credere che si tratti di una vera e propria revisione costituzionale. Sicuramente, sarebbe un impaccio alla funzionalità della corte imporre che debbano sedere tutti i quindici giudici per ogni udienza; basterebbe un raffreddore o un dolor di stomaco di uno solo a far rinviare le cause. Per giunta, un consesso di quindici o di tredici o di undici o anche di nove, per ogni ricorso, renderebbe assai pesante il funzionamento della corte, e impedirebbe quella osservanza di termini (venti giorni) che la legge in esame ha curato di rendere quanto mai corti (direi quasi jugulatorii), tali da rendere difficile uno studio accurato nella stesura delle decisioni, quale si aspetta da u n così alto consesso. L'esperienza di più di tre anni acquisita presso l'alta corte per la regione siciliana mi induce a credere che u n collegio di sette membri è più che sufficiente per l'esame dei più delicati problemi. Del resto la corte costituzionale degli Stati


Uniti ha in tutto nove giudici e decide anche con cinque presenti. L'idea di fare due sezioni, una per le questioni di legittimità costituzionale e l'altra per i conflitti di attribuzione, la prima di nove e l'altra di cinque, o ambedue di sette, non è da scartare, perchè darebbe alla corte una migliore funzionalità e renderebbe possibile le vicendevoli supplenze per i giudici impediti. La disposizione di un corpo giudicante di ((non meno di undici » ne rende incerto il numero e lascia troppa libertà al presidente sia nel fissare il numero sia nello scegliere i giudici. È vero che si tratta di decisioni non politiche, ma l'effetto delle sentenze potrà essere anche politico ; perciò si debbono evitare le ombre. L'alta corte per la Sicilia ha due giudici « supplenti D, nominati con la stessa procedura degli altri e con le stesse funzioni, salvo che partecipano al corpo giudicante solo in caso d i assenza dei titolari. I1 prof. Costantino Jannaccone dell'università di Pisa h a proposto, in un congresso di giuristi tenuto in quella città, la nomina di giudici supplenti anche per la corte costituzionale; ma egli intende riportare il corpo giudicante a quindici, cosa che ripugna ad una sana visione funzionale di qualsiasi anche altissima corte. Con le sezioni - già ammesse presso la suprema corte di cassazione e presso il consiglio di stato in sede contenziosa -, si può provvedere alla sostituzione degli assenti senza creare i supplenti (almeno per un primo periodo) aumentando così il numero già esorbitante dei giudici della corte costituzionale. E veniamo al problema delle nomine. Un primo problema, quello delle nomine presidenziali, ha agitato l'opinione pubblica, quando fu approvato dalla camera l'emendamento Fumagalli, che sembrò diretto a darvi una specie di controllo governativo. La commissione senatoriale, che ha i n esame il progetto, ha proposto un emendamento per cui il decreto di nomina presidenziale verrebbe controfirmato dal presidente del consiglio dei ministri in esecuzione del disposto dell'art. 89 della costituzione; escludendo pertanto la proposta e la firma del guardasigilli. Basta la questione della nomina di cinque giudici fatta dal


parlamento in unica assemblea. I1 testo della camera porta a tre quinti i voti validi per la nomina dei giudici. I1 che è u n sistema incongruo e in regime maggioritario può mettere la maggioranza alla mercè di una piccola frazione di parlamentari che diverrebbero così gli effettivi elettori dei giudici di una corte. L'articolo 83 della costituzione fissa a due terzi dell'assemblea la elezione del presidente della repubblica, e alla maggioranza assoluta dopo i tre primi scrutini. È anche questo un modo di garantire il sistema maggioritario. Ma per i giudici della corte costituzionale si arriva all'assurdo dei tre quinti dell'assemblea e per gli scrutini successivi al secondo a tre quinti dei votanti. Così il principio di maggioranza della metà più uno viene violato nella sua sostanza democratica. Sarebbe meglio adottare in questo caso l'articolo 83 della costituzione, che esige la presenza dei componenti l'assemblea, ma rispetta la volontà finale e decisiva della maggioranza nel caso di tre votazioni inconclusive. Purtroppo, la proposta dei tre quinti dei voti necessari per la nomina dei giudici costituzionali è stata avanzata a titolo di compromesso data la resistenza dei comunisti, che pretendono di essere trattati quale minoranza costituzionale, mentre si sa che sono dei sovvertitori dell'ordinamento parlamentare e tendono alla dittatura. In America i giudici della corte costituzionale sono nominati a vita dal presidente, che è esponente di un partito. I1 senato ratifica le nomine con procedura ordinaria senza nè due terzi, nè tre quinti; e si tratta del paese più democratico che esista nel mondo, di una democrazia resistente a tutte le prove da un secolo a tre quarti; una democrazia forte e non mucillaginosa, come certe democrazie europee. Noi arriveremo al bel successo di avere uno o anche due giudici comunisti nella nostra corte costituzionale per i begli occhi dei « moscoviti ». Meglio pensarci a tempo! 15 ottobre 1951. ( L a Via, 20 ottobre).

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L' I.N.A. ALL' ORDINE DEL GIORNO È mio costume la critica politica, specie nel campo dell'economia statale e parastatale; mi ripugna però lo scandalismo, perchè toglie la visione obiettiva delle cose e trasmuta la critica in arma faziosa. Questa premessa è necessaria a chi vuole parlare dei fatti dell'1.N.A. portati all'ordine del giorno dalle dimissioni di cinque membri di quel consiglio di amministrazione. I1 sussurro attorno a certe strane operazioni nelle quali 1'I.N.A. era direttamente interessata, non è mancato da circa due anni ad oggi. I1 governo, messo sull'avviso, aveva autorizzato 1'I.N.A. a destinare una grossa somma (2.500 milioni) ad un istituto liquidatore del passato (I.N.E.); cosa niente segreta perchè risulta da un decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. F u anche ordinata un'inchiesta amministrativa portata avanti con la lentezza burocratica, che è una delle caratteristiche della macchina amministrata dallo stato. Si attendeva l'esito dei due atti, quando la questione è stata portata dalle dimissioni di cinque amministratori dal piano amministrativo a quello parlamentare (interpellanze) ed a quello pubblico della stampa. È ciò u n male? Io non lo credo; quelli che generalmente si chiamano scandali (da una parola evangelica a tutti nota) non sono che la manifestazione di un male (dove e quando esiste) che è bene venga alla luce per correzione, per emendamento, per riparazione, mai per fare gli scandalizzati che è l a caratteristica dei farisei e di coloro che si atteggiano a farisei. Bisogna essere rigorosi: accertare le responsabilità, eliminare i colpevoli, tagliare il marcio (evitando di coinvolgere il reo con l'innocente, e la persona proba col farabutto), è atto di sana amministrazione e di giustizia civica. I1 popolo h a sete di giustizia. Nel dire ciò, non intendo riferirmi a nessuno d i coloro i cui nomi son venuti fuori nel caso presente ( e il pubblico sano è dello stesso avviso) perchè nessuno è oggi in grado d i portare un giudizio sui fatti venuti a notizia del pubblico, e d i identifi-


carne le responsabilità. Sarà cura del governo, e dei nuovi amministratori che surrogheranno gli assenti (che del resto venivano a scadere col dicembre), ovvero, se del caso, dell'autorità giudiziaria, stabilire se e quanto ci sia stato nei singoli atti di non corrispondente alle leggi o alle buone norme della pubblica amministrazione. Quel che oggi interessa è anzitutto rilevare che gli assicurati nulla hanno a temere per le loro polizze garantite per legge e che i l patrimonio immobiliare dell'istituto è stato largamente ricostruito a garanzia dell'azienda assicuratrice. I o che lotto per la moralizzazione del costume nelle pubbliche amministrazioni, non da oggi, ma ancor giovane nei lontani tempi di Crispi e di Giolitti; io che avrei voluto che i responsabili della Banca di sconto e di altri istituti del periodo prefascista fossero messi di fronte alle proprie responsabilità (non parlo di quel che accadde nel periodo fascista perchè assente dall'Italia), credo aver diritto di poter fare oggi l e stesse affermazioni di u n tempo, con in più l'esperienza avuta all'estero, proprio per casi di ben maggiore rilievo e di portata morale e finanziaria. Ero a Parigi durante lo scandalo Stavinsky, e pareva che la Francia stessa ne dovesse soffrire nella sua struttura politica. A parte la mancanza di buonsenso di elementi sensibilizzati dallo scandalo, e a parte la faziosità degli antidemocratici e dei monarchici di allora (che non ricordavano, s'intende, gl'1 scandali famosi dell'ancien régime), la reazione del paese fu sana e intiera. Maggiore serenità e serietà notai a Londra durante lo scandalo della City negli anni dopo la prima guerra mondiale, e pii1 rapidi i provvedimenti, come è nell'indole del paese. Negli Stati Uniti d'America gli scandali nelle amministrazioni municipali, statali e federali non mancano periodicamente, per quella commistione di razze e di popoli che forma la struttura di quel paese sempre in crescenza. Tammany Hall è celebre come simbolo di corruttela delle amministrazioni; Chicago aveva un tempo il primato; ma la reazione della coscienza pubblica non è mai mancata, sia pure con quella tolleranza e condiscendenza che un paese ricco può consentirsi.


A me, che vado esaminando le falle della nostra struttura economica (eredità d i un. passato del quale non si è fatto ancora l'inventario), siano consentite due osservazioni di carattere generale. La prima riguarda il sistema assai discutibile della filiazio& d i società di comodo, fatte dalle società ed enti principali, per poter operare i n campo diverso, sia per evadere particolari disposizioni d i legge, sia per speculazioni mascherate, sia per nascondere profitti, anche per fini utili e vantaggiosi all'azienda madre, ma con effetti dannosi perchè riescono a COstituire dei veri monopoli mascherati. Lo stato dovrebbe intervenire con provvedimenti legislativi atti 'a disciplinare simile materia, e anche con fiscali per colpire l e evasioni e mettere in chiaro i profitti che sono stati nascosti nelle pieghe delle operazioni d i comodo. L'altra osservazione riguarda la sempre crescente sfera d i azione degli enti statali o parastatali, che al coperto di leggi protettive e con garanzie statali sempre più facili a ottenere, invadono il campo dell'attività privata, e creano per conto loro monopoli economici che la legge dovrebbe impedire tanto a i privati che agli enti. Queste tesi che da tempo vado sostenendo trovano un ambiente sordo e nel campo economico e nel campo politico. Ma fino che avrò fiato non cesserò mai di ripeterle per il risanamento della nostra economia. 19 ottobre 1951. (Sicilia del Popolo, 21 ottobre).

MONTAGNE E ALLUVIONI L'attuale ministro all'agricoltura e alle foreste (io scriverei: « alle foreste e all'agricoltura D), in un articolo su 24 Ore d i Milano mostrò molta comprensione alla mia campagna per la sistemazione montana, e benevola interpretazione, pur rettificando alcuni dati, alle mie ripetute critiche per i cantieri di rimboschimento. Egli ora a quel posto, potrà rendersi conto


della necessiti di potenziare i servizi forestali con fondi adeguati e con una riorganizzazione tecnica, rispondente a criteri moderni e alle cresciute esigenze della stessa economia agraria. Bisogna anzitutto superare il pregiudizio demagogico che i iavori forestali non sono visti nè apprezzati dal pubblico e dalle folle, sol perchè se ne vedono i risultati in lungo giro d i anni, quando non saranno più al posto attuale nè ministri, n è sottosegretari e forse neppure i direttori generali e certo neppure i deputati e senatori che ne hanno votato le leggi. Ebbi l'occasione di domandare a Mr. Mc Kellan dell' ECA (oggi non più in Italia) perchè non includesse nei fondi E R P per la bonifica della piana di Catania una congrua somma per il rimboschimento della zona del Simeto; egli mi rispose che l'America interveniva a finanziare opere che nel ciclo di quattro anni nel fondo ERP si sarebbero potute effettuare. Ai bacini montani avrebbe dovuto provvedere il governo italiano. Dal suo punto di vista aveva ragione, ma il governo italiano allora non aveva mezzi per i bacini montani e quando li ebbe (cassa mezzogiorno e provvedimenti centro nord), al ramo bacini montani furono assegnate le briciole. La differenza fra la missione ECA e il governo italiano è che la prima, a E R P finito, se ne ritorna negli Stati Uniti; ma il governo in Italia, quello impersonale, resta sempre, anche quando il governo del tempo, quello personale, se ne è già andato. Purtroppo, le montagne sono là (benedetta geografia!) e i bisogni di queste creature di Dio crescono con gli anni, se l'uomo (purtroppo questo è impersonale) non se ne occupa e lascia andare tutto alla malora. Una volta andata alla malora, la montagna si vendica contro l'uomo ( e questo sempre personale), inviando al piano e alla valle le acque che riceve, non potendo frenare i rovesci che il cielo scatena. Non dico che tutti i danni della furia temporalesca ( e peggio ciclonica) possano essere eliminati dalle difese boschive; ma affermo che buona parte dei danni possono essere prevenuti e attenuati. Ricordo le inondazioni della piana di Catania da quando, piccolino ancora, facevo in corriera la strada da Caltagirone a Valsavoia o a Catania; allora, la bellezza di settant'anni fa e forse più, si passavano i fiumi e i torrenti su barcacce piatte.


Fin da allora tutti invocavano i rimboschimenti delle zone del Salso e del Simeto; tutti censuravano l'abbandono nel quale erano lasciate dal governo del tempo le zone vincolate a bosco e la larghezza con la quale si consentivano i disboscamenti. Da allora pochi i provvedimenti e insufficienti; e poi l e distruzioni di guerra e quelle di pace, specie per l a cosidetta battaglia del grano, in nome della quale si consentivano i più assurdi assalti alle coste scoscese di alte colline e di montagne argillose. Due o tre mesi fa vidi diramata da un'agenzia una statistica precisa di quanto era stato fatto dalla direzione delle foreste in questo dopo guerra. Naturalmente, allineando le cifre si ha l'impressione ( i n questo bel periodo di milioni e di miliardi!) di chissà che cosa. Nel fatto, ci siamo fermati a quel tran tran di un tempo, con qualche esperienza nuova utilissima (vedi: calanche toscane) e qualche sciupio nuovo di dubbio esito (vedi: cantieri di rimboschimento) o provvedimenti a metà (vedi : centri sperimentali). Tornando ai miei ricordi della piana di Catania, debbo dire che l'allagamento di questi giorni, per quanto sia assai grave, non può dirsi eccezionale. Ce ne sono stati non pochi di allagamenti nel settantennio scorso fino da quando io ne ebbi il primo spaventevole saggio; a memoria ne ricordo dieci di gravissimi ( e non conto quelli avvenuti nei venticinque anni di mia permanenza all'estero); oltre i soliti non indifferenti più o meno annuali. I1 Simeto è un terribile fiume, non per la sua importanza - non' essendo paragonabile al P o o all'Arno O al Tevere -; ma tale da recare danni notevoli all'agricoltura intensiva di quelle plaghe e da danneggiare il porto di Catania con i continui interramenti. I sette miliardi previsti dal ministro Aldisio nel piano di sistemazione fluviale non basteranno per l e opere di arginatura e correzione fluviale, mentre non vi sono compresi i lavori di sistemazione montana. Lo scrissi già: i l ministro dei LL.PP. non ha competenza sulla montagna. Egli è il medico dei fiumi; l'altro, il ministro delle foreste, è il medico delle montagne. Se debbono provvedere d'intesa ( l a frase tecnica dei rapporti interministeriali) occorre l'intervento del terzo incomodo: il tesoro. Quei buoni funzionari della ra-


gioneria generale non hanno idea della importanza della montagna, forse perchè si crede che non faccia sciopero. Questa volta lo sciopero c'è stato, e come: lo sanno la Calabria e la provincia di Messina con i loro torrentacci (quanti reclami, quante invocazioni e quanti progetti!); lo sanno la Sicilia orientale e la Sardegna e ora lo sanno Piemonte, Liguria e Lombardia e lo seppe mesi addietro il Veneto. La visita sul posto delle autorità è stata fatta dal presidente della repubblica, Einaudi, dal vice presidente del consiglio dei ministri, Piccioni, e dal ministro dei LL.PP., Aldisio. Mancano quello delle foreste e quello del tesoro; non necessaria l a visita di questi due, ma necessaria la loro comprensione. La montagna abbandonata si vendica dell'uomo; e l'uomo corre ai ripari come può, anche con le visite delle autorità; ma bisogna pensare fin da ora ( e perchè no?) alle alluvioni del 1971; venti anni di lavoro assiduo e di spese necessarie e saranno salvi le foreste e l'agricoltura: cioè tre quarti dell'economia italiana. 24 ottobre 1951.

(La Stampa, 30 ottobre).

AI CONVEGNISTI DELLA COOPERAZIONE (*) Cari amici, ho molto gradito i l vostro telegramma e il ricordo della mia attività nel campo cooperativo. Fate bene a organizzarvi regionalmente e a stabilire una costante disciplina di tutte le cooperative aderenti per ottenere due fini, la rigida amministrazione e la prova che i cooperatori possano fare da calmiere al rialzo dei prezzi e ottenere, a parità di condizione, vantaggi superiori a quelli delle imprese ed aziende private. (*) Lettera inviata a Zampardi, Di Leo, Salomone, Bamffaldi, in occasione del convegno regionale della cooperazione tenutosi a Palermo.


Aggiungo una mia esperienza: la cooperazione libera è sempre superiore alla cooperazione statizzata e legata agli aiuti della burocrazia, che educano all'asservimento, alla speculazione e al parassitismo. Auguri vivissimi e cordiali saluti LUIGISTURZO (Sicilia del Popolo, 28 ottobre).

LABURISTI E CONSERVATORI Nel pomeriggio del 27 ottobre del '24 arrivavo a Londra, desideroso di esser presente alle elezioni generali della camera dei comuni. La sera, con il mio amico Angelo Crespi, che mi ospitò per alcune settimane, girai in lungo e in largo per vari quartieri da Sloan Square a Oxford Street: calma, silenzio, poca gente che andava a l cinema; poca folla a Picadilly che aspettava i primi risultati; tornai stanco e deluso a casa. Il mio amico mi assicurava che la giornata a Londra era passata più o meno come tutte le altre; non agglomerazioni, non impazienze, non eccitazioni: la vittoria dei conservatori era scontata in partenza, perchè i laburisti, che avevano fatto i l primo saggio al governo con a capo Mac ~ o n a l h(governo di minoranza con benevola e tollerante opposizione) avevan dato prova assai mediocre. Così avvenne; ed io che contavo sopra una vittoria dei laburisti (non l i conoscevo bene), e speravo in una loro maggiore comprensione, che non quella dei liberali di Lloyd George e dei conservatori di Baldwin, per i problemi internazionali di pace, specie della Società delle nazioni, ebbi una oscura sensazione dell'avvenire. Di fatti, il declino dei liberali seguì una marcia costante fino ai ruderi dell'oggi; i conservatori furono incapaci a comprendere l'Europa continentale sorta dalla caduta dei tre imperi, nonchè i l ruolo imposto dagli eventi all'Inghilterra. Ma i laburisti, che collaborarono per diversi anni con i conservatori e i liberali nel gabinetto di coalizione di Mac Donald,

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si mostrarono meno abili dei rivali e più chiusi al mondo esterno. Se nel 1924 l a vittoria dei conservatori mi attristò e mi deluse, oggi, dopo ventisette anni in punto, alla vittoria dei conservatori (nel '24 larghissima e nel '51 quasi di stretta misura) i miei sentimenti sono diversi; adesso desideravo la caduta dei laburisti più che la vittoria dei conservatori; ed è un bene che questa non sia stata clamorosa come quella del 1924. L'esperienza di sei anni di governo da parte di Attle e compagni è interessante per noi continentali, per avere dissipato certe idee fatte e aver chiarito certe nostre incomprensioni di quel che avviene oltre la Manica. Anzitutto ci ha confermato il fatto che quale che sia i l partito al potere, la politica estera inglese è dettata dal Foreign Ofice e dall'Admiralty, che hanno una struttura, una tradizione e un potere che supera l e direttive degli uomini di governo. E se W. Churchill con la sua statura, il suo passato e l'impero personale della sua azione supera tutti, non arriva neppure lui a modificare le direttive storiche del suo paese, delle quali egli, del resto, è stato sempre u n assertore qualificato. La differenza fra le incertezze dei laburisti e le rapide decisioni churchilliane colorisce l a politica degli uni e degli altri, ma non l a cambia. Le conseguenze della politica inglese in India, nel Medio Oriente e in Egitto, sono state previste e scontate; così come furono previste e scontate quelle del 1914 alla vigilia della laguerra mondiale e quelle dal 1935 a l 1939 per le guerre di Etiopia e di Spagna, I'occupazione della zona demilitarizzata del Reno, l a presa di possesso di Danzica e dell'Austria, l a conferenza di Monaco, che fecero precipitare la seconda guerra mondiale. Oggi le esigenze dell'Inghiltena e quelle dell'Europa continentale coincidono non solo 'nel patto atlantico, ma nella creazione di una Europa occidentale unita (preferisco la forma fede. rale) compresavi, s'intende, l'Inghilterra ; di un'Europa rimessa in piedi economicamente e congruamente riarmata per la difesa. A questi scopi, la presenza di Churchill come primo ministro, sia in un governo conservatore, e a suo tempo in un governo di unione sacra (fortuna per l'Inghilterra il non avere comunisti in parlamento ed effettivamente neppure nel paese), è di


gran vantaggio psicologico, specialmente per l'estero, America e Russia comprese. Quanto a noi italiani non avremo a sperare, Attle o Churchill, alcun serio cambiamento fino al giorno che non avremo fatto le ossa politicamente, economicamente e militarmente. Comprensione fino a un certo punto; prevenzione persistente ma temperata: desiderio di averci amici ma di tenerci lontani. I1 Foreign Ofice e 1'Admiralty non dimenticano. Per u n punto ci siamo avvantaggiati con la caduta del laburismo, per una certa confusione di qua ,e di là della Manica fra i rapporti con l'Inghilterra e quelli con il partito al governo, che portava alla vaga idea di certi laburisti di una Europa occidentale laburistizzata. Certi dirigenti inglesi hanno in ciò peccato di semplicismo non disgiunto da un involontario e naturale doppio gioco. Quando Attle andò a Washington a perorare i l primo grosso prestito del dopo guerra, fece un bel discorso al congresso americano, affermando che il laburismo non era il partito di una sola classe, sì bene il partito di tutte le classi in collaborazione. L'affermazione fu sottolineata dalla stampa degli Stati Uniti. Ma quando gli emissari del laburismo vennero nei nostri paesi europei a raccogliere i rottami del socialismo continentale che si disincagliava dalle morse del comunismo, affermarono più volte la concezione del partito di classe. Queste due anime, che in Inghilterra sono rappresentate oggi da Attle e da Bevan, hanno reso equivoca l'azione riformatrice del governo caduto alle elezioni, lasciando dietro a sè una situazione economica assai grave, che rende precari i vantaggi sociali realizzati con fretta demagogica, anche se in fondo utili e opportuni. I n un'Europa economicamente rovinata dal comunismo e da quel socialismo che gli si è alleato, l'iniziativa laburista per una trasformazione europea in regime « classista n, danneggia la ripresa economica, ritarda il necessario riarmo e compromette l a lotta anticomunista. Questa in Inghilterra non esiste, ma in Europa, specie in Francia e in Italia, è presente e dura. Ecco perchè, mentre nell'ottobre 1924 mi dolsi della sconfitta di Mac Donald, nell'ottobre 1951 mi sono compiaciuto, con


le riserve necessarie, della parentesi di governo dei laburisti, parentesi che può durare due o cinque o dieci anni secondo l'abilità di Churchill e dei suoi collaboratori e successori, nel sapere dare ripresa politica ad un31nghilterra legata al patto atlantico e parte viva ed efficiente dell'Europa libera. Solo in questo quadro le attuali vertenze inglesi con l'Iran e con l'Egitto potranno essere risolte per il meglio di tutti. 30 ottobre 1951.

(La Via, 3 novembre).

LE LIBERTÀ MUNICIPALI (*) Caro Alessandrini,

Ti sono grato del telegramma di saluto inviatomi a nome dei sindaci ed amministratori di cotesta provincia riuniti a congresso, ricordando le mie lotte del passato per le libertà municipali. Queste libertà, mortificate sotto i governi liberali, furono soppresse durante il regime fascista. Con la liberazione si ritornò alle elezioni popolari a suffragio universale maschile, ampliato dal femminile, si adottarono vari sistemi elettorali dalla proporzionale all'apparentamento, si adottarono utili modifiche alla legge comunale e provinciale. Passi notevoli verso un ritorno al passato, con accenni costituzionali decisi verso un più adeguato sistema autonomista. Ma la vera autonomia municipale deve ancora essere realizzata, non tanto per provvidenze legislative, che debbono venire di sicuro come quella in corso di discussione sulla finanza dei comuni e delle provincie, quanto per convinzione, volontà ed iniziativa degli amministratori dei comuni. Non si creda che il diritto che avevano i comuni a scegliersi i segretari comunali come propri dipendenti possa essere ridato senza contrasti; ma (*) Lettera all'on. Alessandrini.

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se non si crea la convinzione che tale rivendicazione è giusta ed è necessaria, non si otterrà mai. E così sarà per superare certe ingerenze statali, siano a scopo politico che a scopo paternalistico, che turbano lo svolgimento autonomo e spontaneo della vita locale. Ma c'è una contropartita importante: quella della retta amministrazione, nell'osservanza delle leggi, nel superamento delle ingerenze dei partiti, e nella franca resistenza alle richieste de. magogiche e alle pretese parassitarie. Così si rinnova la vita pubblica, che non va mai dall'alto al basso, ma che sale spontanea e vivace dal basso all'alto. Con i migliori auguri per i nostri comuni e per la nostra Italia. LUIGISTURZO 16 ottobre 1951.

(Sicilia del Popolo, 4 novembre).

LIBERTÀ ECONOMICA E INTERVENTISMO STATALE Più volte mi è stato rilevato che sostenere, come io faccio, la libertà economica in un mondo impigliato nel dirigismo, dà l'impressione di chi non si accorge dei cambiamenti (altri dice del progresso) avvenuto da cinquant'anni ad oggi nella struttura sociale. Di recente un mio illustre contraddittore (e personalmente amico) mi qualificava di machesteriano d i u n secolo fa, al che io replicavo definendomi « un liberista fuori stagione D. Eppure, mai come oggi ho sentito così pressante la necessità d i una difesa della libertà economica al vedere nel caotico dopoguerra italiano, come il preteso dirigismo statale si trasformi in un vero interventismo, sia in forma diretta sia a mezzo dei mille e più enti statali, parastatali, criptostatali, pseudostatali, che si sono infiltrati nell'economia del nostro paese. Non sono il solo a sentire la necessità di tale difesa, perchè i ceti economici, quelli che impiegano attività e capitali in


imprese sane, e i cittadini che ne provano gli effetti dannosi, pur credendo impossibile far macchina indietro, vorrebbero almeno per l'avvenire un cambiamento di rotta. Siamo in pochi oggi a difendere l a libertà economica, con sincerità di intenti e senza interessi particolari da tutelare; parecchi altri, pur insistendo per un maggior rispetto per l'iniziativa privata, invocano anch'essi, quando loro giova, l'intervento dello stato. Poco male se si trattasse di opportune esenzioni fiscali, d i ritocchi alle tariffe doganali giovevoli alla generalità, di crediti bancari con qualche attenuazione agli interessi usurai che la banca in gran parte statizzata esige dai disgraziati clienti. I1 coro del mondo economico italiano è formato da ben altre voci, che non cessano di stazionare nei corridoi dei ministeri e negli ambulacri di Montecitorio e palazzo Madama a chiedere protezioni, aiuti, crediti d i risanamento, privilegi, interventi in tutte le fasi del processo economico, direttamente e a mezzo di enti. Ad ogni piè sospinto, c'è chi propone, o meglio fa proporre da uomini politici « ingenui » o da burocratici « filoni », l a creazione di nuovi enti, di nuovi consorzi, o il « potenziamento » di enti e consorzi esistenti, suggerendo filiazioni di società sopra società, con partecipazioni statali, garanzie 'per emissione di obbligazioni, privilegi monopolistici e così via, sì che la loro difesa dell'iniziativa privata (quella si intende che non riguarda i loro affari) suona falsa e offusca la campagna d i coloro che, al disopra di interessi privati, per convinzione e per il bene pubblico, sfidano l'impopolarità e le ire dei dirigisti. Intendiamoci sulla libertà economica. Qualsiasi attività sta.tale è per sè limitativa dell'azione dei cittadini, così nel campo politico e nel campo morale, come anche nel campo economico. Basta pensare ai limiti del fisco e delle dogane, anche se questi sono concepiti, in regime liberista, come semplici entrate d i bilancio per i servizi pubblici fondamentali, e non mai in funzione economica; l'incidenza sull'economia è non solo quantitativamente sensibile, ma anche qualitativamente dirigista. Se si fa pagare il consumo, si colpisce la generalità della popolazione: lavoratori, artigiani e nullatenenti; se si preme sulle imposte dirette, si colpiscono le categorie abbienti e produttive. Ecco perchè, in democrazia, il diritto di mettere tasse è riser-

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- S r c ~ z o- Politica

di questi anni.


vato al parlamento, che si suppone debba garantire con sano equilibrio gli interessi di tutto il paese. P i ù o meno, lo stesso è a dirsi per il sistema doganale, che h a un aspetto, quello dei rapporti con altri stati, che entra come fattore decisivo in combinazione con gli interessi dell'economia nazionale. Ma anche qui, la direttiva statale può favorire imprese e gruppi agrari e industriali a danno di altri gruppi concorrenti. I1 dirigismo statale è in atto sempre dove c'è uno stato, e fin dall'inizio viene in contrasto con la tendenza liberista, se nei sistemi fiscali e doganali si manca di quella equa distribuzione d i carichi e di vantaggi, che è dovere dei governi saggi, limitando le spese pubbliche al giusto necessario. Anche con le spese statali si dirige, si corregge, si orienta, si limita l'attività privata, sia facendo assumere allo stato determinati servizi che nell'interesse della generalità non sarebbe bene lasciare ai privati (vedi poste e telegrafi, e anche le ferrovie principali), sia integrando le iniziative private se insufficienti (come nell'assistenza sanitaria e nella pubblica istruzione), sia incitando, con premi, esenzioni e credito, quando l'iniziativa privata sia tarda a svegliarsi o lenta a svilupparsi. C'è un campo che nell'ottocento era reputato estraneo all'attività statale, ma che per il movimento operaio della fine del secolo si è andato sempre più imponendo: quello detto « sociale », con una parola che ha preso tanti e così complessi significati che prima non aveva. Si invocarono le leggi protettive del lavoro, e furono attuate quasi dappertutto le più essenziali: ore d i lavoro, lavoro notturno, lavoro di donne e fanciulli. Fino a che lo stato si limitò ad una legislazione giuridico-precettiva, fece il suo dovere per impedire lo sfruttamento degli imprenditori privati. Quando volle sostituirsi alla iniziativa privata delle associazioni mutue e delle società assicurative di carattere volontario, e volle statizzare l'assistenza e la previdenza, trovò modo di giustificare presso le organizzazioni operaie il salto negli affari privati che aveva fatto a vantaggio delle classi capitaliste. È così: siamo arrivati allo stato imprenditore. Che in certi casi eccezionali, alluvioni, terremoti, e simili, i geni civili e


militari o anche gruppi improvvisati eseguano lavori urgenti per la salvezza delle popolazioni, risponde al dovere dell'ente pubblico eollettivo: stato, regione, provincia, comune, ciascuna nella sua sfera (nel 1908 essendo io sindaco di Caltagirone, inviavo a Messina, distrutta dal terremoto, ingegneri di quell'ufficio tecnico con squadre di operai). Ma che in via normale, lo stato faccia l'imprenditore edilizio, l'industriale, il costruttore di navi, i l banchiere, l'assicuratore, l'armatore, i l commerciante, l'impresario di cinematografi e di teatri, è veramente u n abuso della sua pretesa onnipotenza politica D. Oramai i governi si servono di aziende speciali, di enti cui conferiscono una somma capitale e privilegi speciali che tur. bano l'equilibrio degli interessi dei cittadini e la possibilità di sviluppo della economia libera. Effetti di tale invadenza economica: maggior costo dei servizi e dei prodotti; minore capacità tecnico-amministrativa; ingerenza politico-burocratica; creazione di monopoli d i diritto o di fatto. Così l'economia nazionale è resa caotica, quando non è addirittura sterilizzata. Si criticano oggi il governo democristiano e suoi alleati, come responsabili dell'affarismo penetrato nelle amministrazioni statali e parastatali, come ieri si criticava il regime fascista: ieri sottovoce, oggi apertamente. Ma dobbiamo renderci conto che il complesso degli interessi consolidati da e per gli enti statali e parastatali è così forte che nè il fascismo dopo averli creati fu capace di smontarli, e nemmeno sarà capace di smontarli qualsiasi governo democratico, se non è assistito da una opinione pubblica travolgente. Occorre anzitutto riportare la burocrazia alla sua vera funzione amministrativa e di controllo pubblico (eliminando in essa la figura dei controllati - controllori). A formare un'opinione pubblica estesa, seria, e forte, osta la mentalità generalizzata in Italia dal fascismo. Non c'è tecnico che al formulare una nuova proposta, non richieda di creare un ente apposito per realizzarla; non c'è cittadino, che per rimediare ad u n disservizio non proponga la creazione di u n ente statale, regionale, provinciale o municipale; non c'è deputato o senatore che avendo in testa un'idea luminosa per


il bene dell'umanità, non tiri fuori un disegno di legge per l a formazione di un nuovo ente; soprattutto non c'è burocrate che voglia far carriera che non proponga al ministro la creazione di un nuovo ente; nè c'è ministro riformatore o no, che non trovi brillante l'idea d i un nuovo ente per estendere le competenze del suo dicastero. Tutto adunque: governo, classi politiche e cittadini, per il progresso e la salvezza del paese desiderano e vogliono la creazione di enti pubblici a centinaia e a migliaia. Strano a dirsi, tutti costoro, al d i fuori dell'ente vagheggiato, quello di propria invenzione, sono pronti a riconoscere che la libertà economica è soffocata. Ma allo stesso tempo vi confermano che degli enti esistenti proprio non si può fare a meno. Riconoscono senza ditEcoltà che tutti gli enti pubblici, su per giù quasi tutti, vanno male, perchè producono ad alti costi, perchè si fanno pagare i deficit dallo stato, perchè prolificano enti d i comodo per sfuggire alle leggi e così via, ma purtroppo non se ne può fare a meno. Naturalmente, le domande di impiego e le raccomandazioni per ottenere un posto in tali enti si contano a milioni; anzi non si contano più. I parlamentari sono subissati da lettere, telegrammi e insistenze d i elettori per posti, paghe, leggine opportune e provvedimenti di favore. I1 fenomeno sociale più grave è l'accrescimento a dismisura della popolazione che direttamente o indirettamente trae gli emolumenti dalla pubblica amministrazione. La pressione politica di questa classe diviene dunque sempre maggiore, sì da sovrapporsi alle altre e influenzare gli stessi organi statali. La società può sviluppare il suo dinamismo in tutti i campi dell'attività associata, quando ne è resa efficiente la responsabilità per il rischio che si corre. Quel che si afferma nel campo morale, responsabilità delle proprie azioni anche col rischio d i doverne portare. le conseguenze, si afferma nel campo po. litico, 'e nel campo economico. Oggi si è arrivati all'assurdo d i voler eliminare il rischio per attenuare le responsabilità fino ad annullarle: tipico il sistema dei comitati e delle commissioni deliberanti in materia esecutiva, togliendo o diminuendo (secondo i casi) le responsabilità dirette dei ministri,


dei direttori generali, dei funzionari a capo dei servizi, e così negli enti statali e parastatali, per tutta la gerarchia degli esecutori nessuno più risponde del merito dei provvedimenti, ma solo sulla forma. Gli amministratori, i direttori, gli esecutori degli enti statali sanno in partenza che se occorrono prestiti, garantisce lo stato; se occorre lavoro dovrà trovarlo lo stato; se si avranno perdite si ricorrerà allo stato; se si produce male ripara lo stato; se non si conchiude un gran che, i prezzi li mantiene alti lo stato. Dov'è il rischio? svaporato. E la responsabilità? svanita. E l'economia? compromessa. C'è un contagio e gravissimo: le società private che hanno avuto periodi floridi con le commesse dello stato; l e società che han contato sulle protezioni di stato, le società che si sono ingrossate con i favori dello stato (ed hanno fatto passare i vantaggi ottenuti in altre società private anzi privatissime), al momento che la « contingenza (parola oggi pregna di significati) le ha messe in imbarazzo, pensano allo stato come salvatore e benefattore; perchè in Italia oggi solo le aziende dei poveri diavoli possono fallire; le altre sono degne d i salvataggio, entrando per questa porta a far parte degli enti statali, parastatali e pseudo-statali. 11 rischio è coperto in partenza, anche per le aziende che non sono statali, ma che hanno avuto gli appoggi dello stato. impieI n un paese dove la classe politica va divenendo gatizia (le alte indennità portano alla burocratizzazione dei parlamentari); dove la classe economica si statalizza; dove l a classe salariale va divenendo classe statale, non solo va a moE rire la libertà economica, ma pericola la libertà politica questo al 1951 è u n punto degno di meditazione.

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( N o n risulta pubblicato)

4 novembre 1951.


PROSPETTIVE INTERNAZIONALI (*) Le due guerre mondiali del 1914 e del 1939 furono possibili perchè il tedesco credette nella superiorità della propria efficienza bellica e nella rapidità della vittoria. Nel fatto: gli alleati gli contesero la vittoria che sembrava imminente, guadagnarono in efficienza bellica fino a superare quella dell'avversario, trasformando la guerra militare in guerra totale. Ma mentre il principale errore dell'aggressore fu quello di credere ad una vittoria sicura e quasi immediata, il principale errore degli alleati, in entrambi i casi, fu quello di credere all'annientamento del nemico. Nel fatto, tanto dopo la prima che dopo la seconda guerra, i vincitori sono stati costretti, dagli eventi e nel proprio interesse, a concorrere largamente, per rimettere i paesi vinti in efficienza economica e politica e a tollerarne, nel primo caso, e a promuoverne, nel secondo caso, perfino i l riarmo. La passata esperienza rende oggi cauta l'America, insieme agli altri paesi occidentali uniti nel patto atlantico, allo scopo di arrivare ad un equilibrio di forze con i paesi che fan capo alla Russia, per neutralizzare le minacce di guerra e d essere pronti a possibili sorprese, facendo per dippiù comprendere che sarebbe vana illusione da parte della Russia l'idea di un possibile e rapido knock-out. Dall'altro lato i paesi del patto atlantico debbono essere ben convinti che la politica dell'annientamento o eliminazione dell'avversario gioca contro di loro tanto in periodo di pace che in periodo di guerra. Bisogna rifare le idee in proposito e convincersi che le guerre non danno quel che loro si domanda da ciascuna delle due parti i n lotta. Oggi siamo in un « impasse » internazionale; sarebbe errore credere che la guerra ne sia sbocco necessario. Nè la Russia nè gli occidentali hanno interesse alla guerra che deve essere evitata. Occorre maggiore comprensione sia fra l'Europa e 1'Ame. rica, sia fra l'occidente e l'oriente. (*) Intervista con The Associated Press.


Purtroppo, i l Cremlino non è convinto della politica pacifica dell'America ed è perciò diffidente; e per giunta conta sulle quinte colonne dei comunisti di tutti i paesi. Politica saggia da parte del17America e degli altri paesi del patto atlantico è destare fiducia che nessuno vuole la guerra e cercare di eliminare l e cause della formazione delle quinte colonne. Ma, soprattutto, generalizzare l a convinzione che la guerra non potrà essere un mezzo per instaurare nè debellare il comunismo. Essere preparati a tutte le evenienze, è dovere; essere pazienti, longanimi e fiduciosi nella buona causa della civiltà cristiana è il mezzo più savio per evitare colpi di testa. I1 dialogo degli occidentali con Mosca sarà lungo, penoso, drammatico; bisogna avere i nervi a posto per molti anni. 19 novembre 1951.

(Sicilia del Popolo, 24 novembre).

MESSAGGIO A CALTAGIRONE Cari miei concittadini, voi che conoscete il mio affetto per la città natale, e per tutti quanti portano i l nome di caltagironesi, comprenderete il mio rincrescimento e disappunto di essere stato per così lunghi anni lontano, di non essere in grado di farvi una visita e di non passare il mio 80' in mezzo a voi. Mai però ho dimenticato la mia Caltagirone, e non la dimenticherò fino che Dio mi conserva e mi dà la possibilità di partecipare in qualche modo alle vicende vostre, orgoglioso di poter servire anche il più umile e il più piccolo dei miei concittadini. Due sogni, veri sogni, fatti durante il mio esilio, mi sono stati sempre presenti: quello di aver visto un tempio alla Madonna del Ponte, dove accorrevano lunghe file di pellegrini; l'altro di vedere, da un treno in movimento, il panorama scenico della nostra città tutta circondata di alti alberi verdeggianti e illuminata di sole; furono sogni e saranno realtà.


Allo sviluppo edilizio, agricolo, forestale, industriale e commerciale della città e dell'agro caltagironese, alle opere diurne d i attività, industriosità, lavoro e relativa elevazione delle classi artigiane e lavoratrici, all'incremento degli istituti scolastici e di cultura, ai progressi della nostra arte ceramica rinnovante l a sua antica rinomanza, formulo i più fervidi auguri. Nel passare e nel rinnovarsi di generazioni, Caltagirone s i è mantenuta e si mantiene fedele alla sua tradizione religiosa e cattolica nella integrità della famiglia, nella frequenza della chiesa, nelle opere educative e di assistenza religiosa, morale e sociale, nelle attività civiche, nello splendore delle sue chiese e nel gaudio festivo delle sue campane: che la Madonna d i Conadomini e S. Giacomo ci proteggano sempre. A S. E. mons. vescovo, ai confratelli del clero, al sindaco e alle altre autorità del mio comune, presento i miei più devoti omaggi; ai capi e al personale degli istituti vecchi e nuovi d i cultura, beneficenza e assistenza, - ultimi in ordine di tempo: l'istituto Santopietro e la città dei ragazzi - i sensi di stima comprensiva del bene che fanno alla cittadinanza, con l'augurio di sempre maggiore adeguatezza di mezzi ai crescenti bisogni; ai cittadini tutti la mia solidarietà affettuosa e costante, augurando ogni bene nel nome del Signore. ( N o n pubblicato) 21 novembre 1951.

AGLI AMICI DI AMERICA Parlando a voi per via aerea, mi par di ritornare in America, - ed è così facile oggi, - e di rivedervi col pensiero e sentire l a vostra voce e rivivere i giorni che conobbi gli Stati Uniti e potei personalmente apprezzarne lo spirito, la vitalità, la tempra, nella cattiva e nella buona fortuna. La seconda guerra mondiale ha portato gli Stati Uniti a essere il popolo leader del mondo, e a combattere un'altra ben


forte battaglia per la pace, chiamando attorno a sè tutti i popoli nella difesa della civiltà, della libertà e dell'ordine. Sono giorni difficili questi nei quali viviamo; ma è proprio dei popoli responsabili saperli vivere affrontando i pericoli con rettitudine, saggezza, prudenza e fortezza, senza spavalderie e senza timidità. L'Europa libera è con voi, e l'Italia uscita dai tragici eventi bellici ha potuto risollevarsi per energie ingenite e per i l valido concorso dell'America e la ripresa amicizia con gli altri stati della comunanza civile, assumendo anch'essa nel patto atlantico la sua parte di responsabilità internazionale. Oggi l'Italia è ancora fuori dell'assemblea delle nazioni unite, ha ancora insoluto il problema di Trieste. Le accoglienze americane al presidente De Gasperi e le affermazioni diplomatiche, sottolineate dall'appoggio popolare, e dal cordiale entusiastico intervento degl'italo-americani acclamanti Trieste italiana, sono segni di quella comprensione che deriva non solo dal giusto apprezzamento dei fatti, ma anche dal senso di rinnovata amicizia. A questa amicizia, che durante i sei anni passati in mezzo a voi in periodo assai difficile per l'Italia, affermai e sostenni, inneggio ora nel vederla realizzata e attuata. I motivi di interesse politico sono avvalorati da quella simpatia che rende più caldi i nostri rapporti. Ciò è anche merito vostro, cari amici di origine italiana; voi che avete saputo unire insieme la lealtà e l'amore alla patria vostra, con il ricordo affettuoso e sempre presente della patria dei vostri padri, che non avete mai dimenticato, non solo nelle glorie e nei fasti del passato, ma nelle presenti lotte e difficoltà in cui l'Italia si trova a rifarsi, a riprendersi, a sanare le piaghe, a superare l a crisi di guerra e la umiliazione del trattato di pace, a riprendere il suo posto nel mondo e tendere a migliore avvenire. La data del mio ottantesimo mi ha offerto assai gradita occasione per ricordarmi a voi, ringraziarvi del vostro concorso alla creazione di un istituto internazionale di studi sociologici, al quale è stata di spinta una modesta ma seria iniziativa americana: la Luigi Sturzo Foundation di New York. Ma questa particolare occasione viene sommersa nel vostro affetto per l'Italia al cui benessere odierno e al cui avvenire oggi mi piace guar-


dare in modo speciale, riandando tutta la mia attività di organizzatore sociale, di amministratore municipale, di uomo politico e di scrittore, come un contributo dato principalmente al mio paese. E se gli eventi politici mi han fatto vivere all'estero per ventidue anni, sono lieto d i aver contribuito a far conoscere nei paesi europei e americani certi aspetti dell'Italia allora pressochè ignorati: quelli della democrazia, della ricerca sociologica e storica e della battaglia per la libertà promossa in nome dei principi cristiani. Oggi che siamo costretti a difenderci giorno per giorno dal pericolo della dittatura bolscevica, bisogna rafforzare nella vita civile la libertà ( l a cui statua veglia all'imbocco dell'Hudson); la libertà, dono di Dio agli uomini, garanzia di ordine, mezzo per l'attuazione del bene, elemento vitale di civiltà. Tutti sappiamo che questa libertà è apparsa nel mondo con la luce del cristianesimo, in epoca quando la schiavitù teneva soggetti, anche in Grecia e in Roma, più di tre quarti del genere umano; e si è sviluppata sempre e solamente in paesi a civiltà cristiana e che da questa civiltà hanno preso usi e costumi. Sia pertanto concesso a me, prete cattolico, di inneggiare alla libertà nell'invocare la pace per il mondo travagliato, e nell'unire in questi voti insieme la vostra alla mia patria. 17 novembre 1951.

(Realtà Politica, 24 novembre).

UNITI NEL SERVIZIO ALLA PATRIA Al presidente della repubblica italiana, prof. Luigi Einaudi, e con Lui alle autorità italiane e straniere, e a quanti hanno

voluto ricordarmi nel tardo vespero della vita che la provvidenza mi h a concesso, il mio devoto e commosso ringraziamento. Non certo per meriti che non ho, questo speciale ricordo d i me; ma per una serie d i ,eventi, ai quali ho partecipato dai miei primi passi nell'attività pubblica e sociale, si è potuta ri-


versare l'attenzione, la stima, e l'affetto anche, di molti sulla mia persona. E ciò mi confonde assai guardando la piccolezza del me stesso in me, e ne trovo motivo di umiliarmi in mezzo a voi. Ma lo spirito di fratellanza cristiana, che unisce i piccoli ai grandi, i dotti agli ignoranti, i possidenti ai poveri, e ci fa desiderare sulla terra quella giustizia, equità e benevolenza reciproca che è dono divino, mi ha assistito in tutte le circostanze della vita, portandomi ad assolvere un compito che non fu nei miei propositi, e neppure nelle mansioni dirette della mia vocazione ecclesiastica, e neppure nelle aspirazioni della mia vita di studio. A guardare u n passato che non torna, posso ben dire di avere servito con rettitudine e ardore una causa non indegna di u n sacerdote cattolico, quando all'amore e al servizio per la patria ho unito quello dell'ideale cristiano e umano della pace fra i popoli, della elevazione dei lavoratori, della collaborazione fra le classi, delle libertà politiche quale garanzia di bene e di progresso, della ricerca della verità negli studi storici e sociologici, della difesa dei diritti della personalità umana di fronte ad uno statalismo che invade anche il campo sacro della coscienza e della religione. Avrò potuto sbagliare e, nell'ardore della lotta è delle polemiche, avrò potuto offendere compagni ed avversari, e d i ciò me ne dolgo; ma la purezza delle mie intenzioni non è stata offuscata, ve lo confesso, da personalismi, da risentimenti, o da secondi fini, che, Dio proteggente, sono stati lontani dal mio cuore. Oggi sono forse l'unico o il più vecchio superstite dei preti che durante l'ottocento e nei primi decenni del novecento sono stati tratti dalle circostanze dei rispettivi paesi, ad occuparsi di affari pubblici. Compiti di eccezione questi in periodi eccezionali, che a distanza di tempo potranno essere valutati adeguatamente nei loro contorni storici. Permettetemi ch'io ricordi, in questa occasione, i miei collaboratori e amici e quegli altri con i quali io ho collaborato in tutti i campi della mia attività di azione cattolica e di organizzazione sociale, nell'amministrazione municipale e provinciale e nelle commissioni governative, nell'attività politica


nazionale e internazionale, nel giornalismo, negli studi e nelle opere di cultura. Molti non sono più fra noi, altri sono scomparsi dalla scena; senza costoro sarebbe stata nulla, o quasi, ogni mia buona volontà d i lavoro. Desidero ricordare tutti i rappresentanti e capi dello stato italiano, a i quali come autorità ho sempre dato il mio ossequio e la mia collaborazione, pur nel dissenso di ideali e di metodi. Debbo un omaggio d i gratitudine ai miei superiori ecclesiastici, a mio fratello vescovo, che mi hanno o confortato ovvero, occorrendo, ammonito, e la cui immagine paterna è impressa nel mio cuore; omaggio d i venerazione e di fedeltà ai sommi pontefici che da Leone XIII a Pio XII ho guardato come Cristo in terra. I n questo giorno di comunione di pensieri e d i spirito con i miei amici italiani ed esteri, vorrei aggiungere che solo nella visione cristiana della vita si potrà proseguire la lotta per il bene comune, uniti nell'amore e nel servizio alla patria cui è legata la nostra esistenza; nell'amore e nel rispetto alla società internazionale nella quale siamo tutti affratellati; neu'amore alla verità che andiamo cercando e che è l'unica che rimane delle nostre attuazioni; alla libertà che garantisce la nostra personalità; all'ordine che rende effettiva la libertà e operosa la verità; alla pace interna e internazionale che è il bene che dobbiamo chiedere a Dio con le parole della Scrittura con l e quali chiudo questo saluto: Dà la pace, o Signore, nei nostri giorni D. E che sia da noi meritata questa pace nella offerta di noi stessi; meritata per l a nostra attività e per i nostri sacrifici, affinchè in noi e fuori di noi sia la pace del regno di Dio. 22 novembre 1951. (Sicilia del Popolo, 27 novembre).

PAROLE SOTTOVOCE Non posso lasciar passare le pubbliche e private manifestazioni per i l mio 80°, senza rivolgermi ai tanti amici (mi piace chiamarli tutti così) vecchi e nuovi, piccoli e grandi, vicini e


lontani, che mi hanno ricordato con telegrammi, lettere, biglietti da visita, indirizzi. Come corrispondere uno ad uno e far sentire a tutti una parola d i gratitudine, benevolenza, omaggio, che sia adatta per ciascun di loro e che porti ad una vera comunicazione d i anime? I1 biglietto da visita è freddo, convenzionale; la lettera, ad ognuno la sua con la parola adatta, vorrei farla ma non posso; mancherebbero il tempo e le forze; mettere una firma sotto lettere fatte dai segretari, priverebbe la corrispondenza del carattere particolare ed intimo che vorrei darvi. Scrivo questo articolo, lo pubblicherò in quanti giornali mi è possibile, perchè sia compreso e compatito, e perchè arrivi a quanti è possibile una parola viva. I primi ai quali intendo parlare sono i bambini e le bambine degli asili infantili, i fanciulli e i giovanetti di orfanotrofi e altri istituti di ambo i sessi, che mi hanno inviato i loro auguri, affermando di avere pregato per me; mi hanno fatto sapere le comunioni applicate per me, e i rosari detti, e i «fioretti fatti a mio vantaggio. Quale odore primaverile, di fiori di campo e di bosco, ingenui e naturali, si sprigiona in tali letterine, anche se scritte sotto dettato. È vero: sono maestre, istitutrici, suore che han detto loro d i pregare per don Sturzo; che ne sanno essi di questo vecchio prete? Del suo lungo passato in Italia e fuori? Sanno forse che si interessa di asili, orfanotrofi, colonie, istituti, villaggi del fanciullo, specialmente del mezzogiorno e delle isole; o meglio, sanno che si interessa del loro istituto, e che la maestra o la superiora o il prete direttore o altre persone han detto loro di pregare per don Sturzo. E questo è il massimo dei £avori che posso ricevere su questa terra. Così mi sento vicino in nome d i Gesù ai bambini da lui tanto amati. Solo nei primissimi anni del mio sacerdozio, quando fondai l'associazione catechistica S. Tarcisio e in seguito di tanto in tanto come sindaco, mi occupai della prima infanzia. Poi altri affari, altre preoccupazioni, fino a che, ritornato in patria, ebbi occasione di interessarmi direttamente o a mezzo del consorzio nazionale di emigrazione e lavoro di un numero sempre crescente di asili infantili e istituti di assistenza, educazione e rie-


ducazione, a mezzo del comitato per il mezzogiorno anche di villaggi del fanciullo, si da sembrarmi che fioriscano proprio nel mio giardino come conforto dei'miei tardi anni. Io non vedo altro che lettere, carte, progetti, promemoria, e d i tanto in tanto suore, preti, laici e laiche. Qualche volta vedo anche i bimbi che essi mi presentano. È una gioia. Aggiungo che io non sono che un tramite per sussidi da tutte l e parti: stato regioni comuni amici italiani ed americani organizzazioni pubbliche e private. Nessun merito, da parte mia, tranne un po' di cuore e un po' di attenzione. Ringrazio Dio d i avermi dato, meglio ridato, tale paternità spirituale negli ultimi giorni della mia vita. Se una parola mia vale qualche cosa, a tutti raccomando di aiutare, proteggere, sviluppare asili infantili anzitutto e sopra ogni altra opera; e quanto più è possibile istituti d i assistenza, educazione e rieducazione infantile e giovanile. Che Dio benedica ogni sforzo in questo senso.

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Gli altri che metto subito dopo i miei cari bambini, quelli assistiti e quelli che han bisogno di assistenza, sono coloro che disoccupati, sofferenti,, bisognosi di aiuti, sono sempre in cerca di un po' di equità, giustizia, comprensione, umanità, carità. Mi hanno scritto inviando auguri e allo stesso tempo ricordando pratiche in corso o chiedendo aiuto, consiglio, soccorso, raccomandazione. Vi saranno anche i soliti richiedenti a tutti coloro che stanno in alto, spe.cie oggi che l'accentramento dei posti, dei servizi e perfino dell'assistenza, richiama tutte l e aspirazioni e tutte le domande al centro d i Roma. Ma chi potrà mai fare una giusta selezione fra il più e il meno bisognoso, fra i bisognosi veri e quelli che non lo sono? Fra quelli che invocano giustizia e quelli che pretendono favoritismi? I bisogni del nostro popolo sono senza limiti; una parola di conforto, u n gesto di assistenza, u n aiuto anche minimo sono goccie di balsamo ai cuori esacerbati. I n mezzo .all'oro la scor i a ; questa si elimina da sè, quando non può essere eliminata dalla prudenza umana. La soccorrevole assistenza, specie per


coloro che la società ha dovuto allontanare da sè, è squisita carità cristiana. Se potessi spendere tutta l a mia restante energia a questo scopo, dico che ne sarei lieto e aggiungo di non esserne degno.

Tra gli amici e gli intimi, devo prima rivolgermi, in questo breve colloquio, a coloro che sono dall'altra sponda del mio pensiero religioso, scientifico o politico, e che si sono ricordati di me, sia i n privato che in pubblico, non importa se con riserve aperte o sottintese. Avrò occasione in qualche mio scritto di ritornare su questioni di politica che sono state discretamente accennate, essendo opportuna la polemica chiaritiva, anche quando lascia intatte le reciproche posizioni, se riesce a togliere ombre personali e ravvicina le anime. Questo conta. E se rimangono ( e ne sono rimasti) risentimenti nel campo politico essendo assai difficile superarli, specialmente se l a battaglia continua, il passato di colleganza nella difesa della libertà e nell'amore alla nostra patria, ci avvicina nella stima e nel rispetto reciproco. Oggi i l dovere di servire la patria con disinteresse e abnegazione, in periodo difficile e pericoloso come il presente, ci deve rendere cauti, evitando d i acuire i dissensi, e facendoci ricercare la maggiore intesa possibile negli ideali della libertà, nella solidarietà umana e nei valori cristiani.

Che dirò agli amici più di quel che ho detto nel mio messaggio? e che ripeterò per sdebitarmi del carico di gratitudine? Coloro che han pensato a creare un istituto internazionale di studi sociologici e storici hanno interpretato (senza svelarmi il loro iniziale segreto) la mia aspirazione, niente personale e solo obiettiva, per una ripresa degli studi sociologici in Italia. Nel pubblicare presso l'istituto italiano edizioni Atlas il mio volume sulla società, nella prefazione del 5 maggio 1949, scrivevo quanto segue: « Questo e altri miei lavori non possono


essere guardati che come tentativi di una nuova sociologia. Sia che si segua la mia traccia, sia che si riesaminino. ex-novo i problemi da me posti, sia che si ritorni a metodi che io ritengo superati, non credo del tutto privo di utilit,à scientifica questo mio sforzo 1). I1 futuro istituto fornirà l'occasione perchè le tre ipotesi di cui sopra possano verificarsi nella utile rielaborazione delle scienze sociologiche, che l'Italia, per strana avventura, ha quasi completamente abbandonate. 4 dicembre 1951.

(La Via, 8 dicembre).

IL CITTADINO La nuovissima Italia democratica e repubblicana h a tutti i tipi del passato prossimo e remoto, compresi quelli immortalati da Giuseppe Giusti, - uomini politici e demagoghi, partigiani e parteggianti, burocrati vecchio tipo e nuovo tipo, gente che si tiene lontana dalla politica e gente che ne vive, parassiti e sfruttatori dello stato e degli enti statali, scettici, disillusi e disinteressati; ma il tipo che non è facile incontrare oggi, o non si incontra affatto, è il « cittadino D, il tipico cittadino disinteressato, che presta il suo servizio spontaneamente, ovvero, chiamato a prestarlo, nulla chiede per sè e per i suoi (parenti, amici o compagni di partito o di cricca), un po' restio ad assumere cariche, felice nel lasciarle senza pretendere altri posti o compensi consolatori. La rarefazione oggi di questo tipo, che un tempo si trovava anche nei piccoli comuni, gentiluomini di campagna, liberi professionisti e onesti artigiani e contadini, non è dovuta al fatto che se ne sia rotto lo stampo; ma a fattori del tutto nuovi penetrati nella compagine sociale. Dal punto di vista sociologico il tema merita un'indagine più approfondita che non possa farsi in un breve articolo di giornale. I1 primo colpo atto ad affievolire la coscienza del cittadino venne dalla formazione del partito-unico e del partito-governo


del regime fascista. I1 cittadino come tale fu assorbito dal cittadino-fascista; e poichè tutto fu pensato, fatto, organizzato in funzione del fascismo, così anche il cittadino-individuo fu fascistizzato. Gli altri, non fascisti, non erano considerati come cittadini; e se per caso venivano utilizzati, la loro sorte era quella dei limoni spremuti. Nel quadro organizzativo del partito unico, c'era u n interesse del governo in quanto tale e del governo in quanto dittatura di u n uomo al disopra del gabinetto e del partito: quello di iin cuntrollo vigile sulle amministrazioni, onde fu dato alla burocrazia u n potere particolare ed efficace, sia attraverso la ragioneria generale, sia attraverso le nomine di burocrati ad amministratori e sindaci di tutti gli enti statali, parastatali, criptostatali e corporativo-statali, che formarono l a nuova mastodontica macchina dello stato accentratore e dittatoriale. Tale potere era controbilanciato dal potere assoluto della dittatura ( l a paura guarda l a vigna, si dice in Sicilia); sicchè per i burocrati potenti i limiti regolamentari stavano sempre al disotto dei limiti reverenziali (paura personale). I due nuovi ceti organici: gerarchie fasciste e burocrazia dirigente, soppiantarono, nella vita pubblica, i liberi cittadini e i liberi uomini di parte dell'Italia risorgimentale o post-risorgimentale. Caduto il fascismo, la nuova Italia del dopo guerra desiderosa di libertà cercò di farla rivivere con la formazione dei partiti liberi, ma purtroppo inciampò nei comitati di liberazione; di far risorgere i sindacati operai, ma cedette al mito dell'unità confederale; di avere u n governo di cittadini liberi, ma ebbe un governo con l e mani legate dall'esarchia prima e dal tripartito dopo. Finalmente, a costituente finita, inaugurato il nuovo ordine di democrazia repubblicana e parlamentare, tornavano a soffocare la libertà, come funghi malefici in una pianta debole, la partitocrazia da u n lato e l'alta burocrazia imperante dall'altro. Parlamentari e burocrati cercarono di confondersi nei nuovi organismi. Senato e camera ebbero un numero eccessivo di burocrati eletti a doppio stipendio, quello politico e quello delle funzioni, compresi in tale stipendio anche i compensi delle ore di lavoro straordinario che non si fanno, le indennità della carica che non si mantiene o si mantiene a metà, o dei casuali

8 - Srcrtzo

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Politica d i questi anni.


e delle percentuali sui mandati dello stato e altri enti pubblici per i favoriti delle finanze, del tesoro e ora, della corte dei conti. Gli uni e gli altri, - parlamentari effettivi, parlamentari aspiranti e burocrati - ebbero posti nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali di tutti gli enti statali, parastatali e cripto-statali, nomine di commissari e vice commissari disseminati a migliaia, al posto delle amministrazioni liberamente elette ovvero di nomina governativa, così da creare una nuova ed effettiva classe dirigente. I1 rapporto sociologico fra possesso economico e potere pubblico, che è alla base di ogni gerarchia politica sia in regime oligarchico che in regime democratico, oggi si va consolidando fra i parvenus della politica e le alte gerarchie impiegatizie. Che questo consolidamento vada fatto a spese dello stato, per interessi privati sollecitati da società capitaliste o da sindacati operai, è un altro lato del problema che va esaminato in sede propria. Qua si voleva arrivare per conchiudere che il cittadino non si vede più in nessun organismo statale e in nessuna nuova costmzione politica e amministrativa centrale e locale. C'è l'uomo di partito che spunta, o è il burocrate che piglia il posto. Chi h a la pazienza di leggere ogni giorno la Gazzetta ufficiale e tenere presenti gli elenchi dei parlamentari di ambedue le camere, dei dirigenti dei partiti o i bollettini dei ministeri, troverà sempre nomi già noti scelti a posti nei comitati, commissioni e amministrazioni pubbliche. I1 funzionarismo ha soppresso il libero cittadino; il politicantesimo ha soppiantato il libero cittadino; il sindacalismo ha eliminato i l libero cittadino. Tutti corrono per avere prebende, gettoni di presenza, cumulo d i emolumenti, indennità a getto continuo e così di seguito. E quando per caso qualcuno di tali dirigenti perde il posto, mai più per scioglimento d i ente ma per eventualità assai rare, allora ne pretende u n altro che si crea se non c'è, sì da rimediare subito al prestigio perduto e alla prebenda venuta meno. I n tale ridda non si troverà mai più il vecchio tipo di gentiluomo d i campagna, i l libero professionista non intrigante, l'artigiano onesto, il vecchio funzionario fedele e dimenticato. 11 dicembre 1951.

(Realtà Politica, 15 dicembre).


CASE DA GIOCO A PALAZZO MADAMA L'attesa dell'esito della mozione del senatore Ricci e altri contro le case da gioco è stata smorzata con la mossa di rinvio per un accordo internazionale. E poichè tale accordo internazionale non solo andrà alle lunghe assai più di quello sull'esercito europeo, ma non se ne farà nulla, così l'Italia avrà le sue case da gioco per oggi e per sempre. Questo tipo di insabbiatura in Sicilia si chiama: «soffocare il cane con le lasagne 1): messo avanti a un bel piatto di lasagne lunghe e intrecciate il povero cane, preso dalla fretta di mangiare, resterà soffocato Accordo internazionale, dicono i senatori, per l'abolizione delle case da gioco: campa cavallo! I casinò portoghesi, spagnoli e francesi che fronteggiano l'Atlantico possono considerarsi estranei alla concorrenza mediterranea, come quelli francesi e belgi del Mar del nord. I turisti che da quei centri passano nella zona mediterranea vengono per il sole mite e asciutto non per la roulette; se questa c'è tanto meglio per i giocatori di professione o per i nababbi stravaganti; ma che sia un'attrattiva per il gran pubblico, senza la quale il turismo italiano languirebbe o andrebbe in malora, non lo affermerà nessuno. I frequentatori dei casinò della C6te d'Azur arrivano a San Remo e vanno a Venezia col pied-à-terre a Nizza e a Monaco. Credono sul serio i senatori che, portando nelle riunioni internazionali del turismo o dell'unione interparlamentare l a proposta di un'abolizione generale, arriveranno a far saltare le bische autorizzate? Nè Spa e Ostenda, nè Monaco e Nizza saranno chiusi dalla voce incantata del nuovo mago Merlino del senato italiano; e fallito i l saggio tentativo di una moralizzazione collettiva, ci resteranno intatte le bische di San Remo, Venezia, Campione con la coda di San Vincent sotto il pretesto dello sviluppo del turismo dell'Italia (l'alta s'intende), che altrimenti non avrebbe risorse. L'agenzia romana d'informazioni del 13 dicembre ci fa sapere che nel novembre scorso San Remo ha avuto la visita di 5050 italiani e di 1187 stranieri, con la contrazione sul novem-

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bre del '50 di 1216 unità; proprio quando le statistiche nazionali danno u n incremento d i turisti stranieri superiore a quello del 1950, che ebbe a suo vantaggio i pellegrinaggi dell'anno santo. Nello stesso novembre San Remo, pur avendo avuto l a diminuzione d i 1216 unità ha usufruito, in confronto al novembre '50, dell'aumento di 8824 giornate di presenza: o che i milanesi del treno del sabato (che contribuiscono per l a maggior parte a formare i cinquemila italiani del novembre scorso) si siano soffermati là a santificare la domenica; ovvero che gli stranieri abbiano preferito godersi qualche giorno l a riviera più che il casinò. Comunque, si può affermare con sicurezza che gli stranieri che visitano Venezia non vi sono attirati da quel lugubre luogo che si chiama casinò del Lido; e che a San Remo ci vanno assai più italiani che stranieri. Delle cifre portate in senato occorre fare un esame accurato e statisticamente controllato e categorizzato; perchè non si creda d i far leva sulla perdita di u n certo numero di turisti per mantenere le nostre bische autorizzate, sol perchè Nizza e Monaco rimangono i n piedi. Non tenendo conto della riviera ligure, perchè si può affermare che abbiamo San Remo a portata di mano (prima del 1928 senza l a bisca di San Remo i centri liguri erano affollati lo stesso), e senza tener conto d i Venezia che è sempre un'attrattiva mondiale, bisca o non bisca; chi dirà che Firenze, i laghi lombardi, Roma, Napoli e Sorrento, Palermo, Siracusa e Taormina manchino di stranieri perchè non ci sono le attrattive del gioco di stato? Passando dal turismo alla beneficenza, Mino Caudana ci ha raccontato il caso d i un signore triste e malinconico che ogni giovedì va a l casinò di San Remo, e regolarmente vince mandando, senza dire il suo nome, l e somme riscosse alla piccola casa della divina provvidenza di Torino, fondata dal Cottolengo. Mi dispiace parlarne: non nego la retta intenzione del signore sconosciuto e l'opera buona alla quale sono indirizzati i suoi denari. Ma come per il turismo così per l'opera pia non mi piace l a teoria che (C i l fine giustifica i mezzi n. I n Sicilia si dice: rubare i l porco e offrire le setole per le anime del purgatorio. Anche gli altri casinò offrono denari a chiese e ad or-


fanotrofi per propiziarsi la curia celeste, dopo essersi propiziata quella municipale, e certe altre curie di dietro le quinte. Sarebbe l'ora d i finirla con questa educazione farisaica. Quando Gesù disse a Zaccheo che voleva pranzare da lui, Zaccheo lo accettò pieno di gioia, aggiungendo che avrebbe dato la metà dei suoi beni ai poveri e il quadruplo alle persone che egli aveva defraudate. Così giustizia e carità si unirono con il pentimento del peccatore che aveva fatto molti denari al telonio pelando il prossimo. Questo è il Vangelo; questa è la morale. Le elemosine fatte a coprire la colpa ( i l gioco d'azzardo è tale ed è proibito dalle leggi civili e da quelle ecclesiastiche), non sono nè buone n è desiderabili. Qualcuno mi ha scritto che la mia campagna contro le bische per essere logica dovrebbe estendersi contro il lotto e il totocalcio che lo stato non solo permette, ma organizza a suo profitto. Premetto una distinzione: la bisca h a una forma collettiva passionale di gioco, con tutto il contorno di lusso e di sensualità, che costituisce u n pubblico scandalo e una intensiva coltivazione di vizi; la cosa è diversa per il lotto e il totocalcio. Però, mi metto anch'io fra coloro che invocano provvedimenti per eliminare la passionalità che destano questi giuochi, da essere ridotti (se debbono ancora sopravvivere) al minimo di puntate o di vincite, riducendoli a semplice distrazione e non mai come mezzo di ingiustificato arricchimento, che, nella maggior parte dei casi, non giova ai vincitori e a lungo andare asciuga le borse dei poveracci che ci sperano. E le bische clandestine? che la polizia faccia il proprio dovere; sorprenda le bische e denunzi i contravventori, giocatori e tenutari; la magistratura faccia il proprio dovere, giudicando i denunziati sollecitamente ed esemplarmente. Un paese dove non si osservano le leggi è un paese in decadenza, non in progresso. li dicembre 1951. (La Via, 22 dirembre).


I L CITTADINO INDIFESO Non ostante una circolare del presidente del consiglio, è tuttora comune l a formula di fare entrare in vigore l a legge il giorno dopo l a sua pubblicazione nella Gazzetta uficiale. Non si tratta di affari urgenti, ma normali, spesso provvedimenti che vincolano il cittadino, recando limitazioni ad eventuali diritti o creando favori a determinate categorie. I1 metodo è seguito meno spesso anche dalle regioni a statuto speciale, ma colpisce. Non importa se per varare una legge passino otto o dieci mesi. Si ritiene che i quindici giorni di rito per andare in vigore siano troppi e si riducono ad uno.

La Gazzetta ufficiale non è un giornale di facile lettura, nè diffuso nel paese. I1 cittadino comune l a ignora; il cittadino specializzato in materie amministrative che non vi si può abbonare (dodici mila lire all'anno per le due parti non sono alla portata di tutti) cerca i numeri che lo interessano. Gli abbonati stessi non hanno tempo e voglia di leggere tutti i ~rovvedimenti.Non ci sono fogli che ne riportino ogni giorno i sommari o facciano un sunto dei provvedimenti. È difficile che i l cittadino italiano arrivi a conoscere non dico subito, ma regolarmente, quel che lo può riguardare, se non quando c'incappa in senso negativo O positivo. La stampa quotidiana è così aliena da rendere pesante le proprie colonne con conoscenze legali, da far cadere perfino le notizie di quei provvedimenti che hanno interesse politico (oltre che tecnico ed economico). Ho visto che si invocano provvedimenti per lo sviluppo della elettricità nel mezzogiorno, quando c'è già la legge del 30 giugno 1951 e con dei termini già scaduti il settembre scorso, senza che se ne siano accorti perfino certi parlamentari di Roma e di Palermo. Colpa del cittadino, di sicuro, che non sa organizzarsi, non


ha pazienza di seguire la valanga di leggi nazionali che piovono da Roma, e di leggi regionali, anche queste abbastanza frequenti. Ma anche colpa del sistema (oggi aggravato dalla formula della immediata esecutorietà); mentre sarebbe necessario rendere facile l a conoscenza di quelle leggi che interessano l a generalità. È vero che i sindaci potrebbero o dovrebbero (secondo i casi) rendere edotti i cittadini di quel che più interessa da vicino. T r a i ricordi della mia infanzia c'è il tipo del « bandezzatore che girava con il tamburo fatto rullare di gran forza per avvisare l a gente; e a ogni crocevia gridava': « si vende all'asta il fondo tale dei tali per mancato pagamento di imposta » ; ovvero : dal giorno tale comincia la visita militare per la leva D ; ovvero: « è pubblicato il piano regolatore, starà all'albo pretori0 per un mese; chi ha interesse ne prenda visione ». Sistema primitivo, di un paese allora di 30 mila abitanti, abolito con la diffusione dell'insegnamento elementare. Ma sono pochissimi coloro che vanno a leggere le carte agli affissi municipali ovvero all'albo del municipio; per lo più quelli del mestiere che leggono e corrono ad avvertire i clienti. A proposito di avvisi nell'albo mi è stato riferito che in un certo comune del centro d'Italia i l consiglio comunale, e in un altro la giunta municipale in via di urgenza, approvarono delle varianti al piano regolatore; l'avviso nell'albo fu messo, dicesi, in un angolo con a lato e sopra altri fogli, sì da renderlo pressochè invisibile. Trascorso i l termine, nessun reclamo fu avanzato dagli interessati. Tutto fatto a tamburo battente in prefettura e al ministero dei LL.PP., con qualche pizzico di intervento politico. I n conclusione i cittadini, i cui interessi venivano lesi, si accorsero tardi che non avevano altro da fare che subire la mezza soverchieria ( e forse soverchieria intiera) e ringraziare i l deputato per non aver fatto di peggio. Questa è cosa che è capitata anche a Roma. I n tre o quattro mesi hanno modificato l e condizioni del piano regolatore per certe località; approvazione del consiglio, approvazione dell'autorità tutona, approvazione del consiglio superiore dei LL.PP., il decreto presidenziale; una corsa. I1 cittadino se n'è accorto quando ha visto elevarsi certe fabbriche che riteneva fossero contro le regole; si trattava di regole oggi sparite.


Ho accennato a questi piccoli inconvenienti per il cittadino comune, come indice di tutta la vita tormentata di questo povero essere che nell'arricchimento crescente di leggi, decreti, deliberazioni degli enti locali, provvedimenti urgenti, si trova accerchiato, intontito, sperduto e non riesce più a raccapezzarsi. Ho letto che il ministro Fanfani ha istituito a pian terreno del suo ministero un ufficio di « informazioni e reclami 1). Spero che funzioni bene e auguro che tutti i ministri facciano lo stesso, al doppio scopo di evitare l'affollamento negli uffici e di servire i l prossimo sollecitamente senza la selezione del « passo per i preferiti ( o i petulanti). Si dovrebbe fare lo stesso per gli uffici provinciali delle prefetture, le tesorerie, le intendenze, i provveditorati, i municipi delle grandi città allo scopo di avvicinare i l cittadino, tenerne conto, servirlo con premura, dare chiarimenti utili e indirizzarlo nei meandri legislativi e regolamentari nazionali e locali. Debbo riconoscere che vi sono funzionari veramente umani, che cercano di aiutare tutti; ma altri e non pochi, sia perchè oppressi di lavoro, sia per una certa ritenutezza, sia perchè infastiditi, o non ricevono, o non dànno le informazioni chieste O le dànno con una certa sommaria tecnicità che resta incompresa dal comune mortale. Nella mia qualità di presidente del comitato permanente per il mezzogiorno non sono riuscito a diffondere, a mezzo degli uffici periferici, le informazioni riguardanti le operazioni affidate alla « seconda giunta per le ricostruzioni delle case di abitazione privata danneggiate da eventi bellici. Basta considerare che a Padova nel 1950 sono stati concessi 436 mutui ed a Napoli 15, per rendersi conto non solo della difficoltà di diffondere certe ,notizie in una grande città meridionale come Napoli, ma di creare un minimo di cooperazione fra interessati e uffici pubblici.

A questo punto debbo rilevare un fatto che è tutto italiano, ( e u n po' anche francese) e che inficia gran parte della nostra


vita pubblica: la mancanza di fiducia reciproca fra i cittadini e organismi pubblici; meglio: fra popolo e stato ; i n sostanza fra il privato e il funzionario. Una società qualsiasi è tale quando fra i membri vi è conoscenza e fiducia; se manca la effettiva conoscenza fra i componenti e, peggio, se manca la fiducia, allora la società è inficiata, disgregata; non è neppure società nel senso morale della parola. Ci può essere società fra la polizia e il ladro? o fra l'agente del fisco e l'evasore? certo no; se per caso si forma una società fra questi due antitetici elementi, si tratta di società a delinquere: il ladro fugge e I'evasore non paga. Breve: le leggi italiane sono ispirate ad una costante diffidenza per il cittadino; i controlli sono tali e tanti che si sente di lontano il preconcetto che tutti coloro che in una maniera o in un'altra hanno da fare con lo stato non meritano fiducia. È sembrata un'audacia quella del ministro Vanoni a tentare di portare il senso d i fiducia tra il contribuente e il fisco. Se la prova riesce, e lo vedremo in seguito, il fisco si riabilita; il cittadino medio h a fatto il primo passo, pur dubitando dell'esito, ma bene o male l'ha fatto. Gli esonerati, per paura o per imitazione, avrebbero fatto più o meno lo stesso; non quegli altri che non hanno voluto rispondere all'appello. Lo vedremo ; come vedremo cosa si farà per tutte le ditte che pagano su bilancio, compresi fra queste anche gli enti pubblici, gli enti parastatali e gli enti « irizzati D, i quali, strano ma è così, non hanno avuto e non hanno ancora fiducia nello stato: una volta corre la lepre e un'altra volta il cane. Mentre negli altri paesi civili si parte dal principio della fiducia del cittadino verso lo stato e dello stato verso il cittadino, in Italia al contrario si parte dalla sfiducia che tiene lontano il cittadino e lo si circonda di filo spinato, sicchè il cittadino si difende ripagando lo stato della medesima sfiducia. E quando un bel tipo la può fare al comune, al fisco, alla burocrazia, alla giustizia, è tenuto in maggiore considerazione perchè: « a me non la fanno! ».Costui diventa il cittadino privilegiato e le porte gli si aprono. Non voglio generalizzare: ma tutti i politicanti, gli affaristi, perfino i camorristi di Napoli e i mafiosi di Palermo, e i

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loro cugini delle ghenghe affini di Milano e di Genova, sanno bene trovare le strade, non sempre diritte, per aver fatta ragione anche quando ragione non hanno.

Ricordiamoci del povero cittadino pedone investito dagli automezzi; se muore, chi per lui, e se non muore lui stesso, non riuscirà che dopo lunghe pratiche ad ottenere un indennizzo insufficiente: conosco dei casi veramente pietosi. I1 povero cittadino imprigionato per equivoco, per errore, su semplici indizi o per dubbi valevoli, starà lunghi mesi, anni anche, in prigione per via della lentezza dei nostri giudizi penali, che sono veramente esasperanti e contrari ai metodi moderni di indagine legale e scientifica. Che dire del cittadino povero che non può pagarsi l'avvocato e non trova modo di adire il magistrato per avere giustizia? È vero: l'organizzazione sociale libera è deficiente; ma anche i provvedimenti statali integrativi (non domando altro) sono insufficienti.

Per finire, ricordo la condizione disperata di un gran numero di piccoli agricoltori obbligati a pagare i contributi unificati, che superano di gran lunga le imposizioni e sovraimposizioni fiscali. Costoro sono addirittura indifesi per colpa di un congegno esoso di imposizione e di riscossione che definirei di carattere privatistico e feudale. Tutti ne parlano male, deputati, senatori, ministri, sindacalisti, funzionari piccoli e grandi ma non si riesce a far altro che a escogitare provvedimenti che aggravano il male. « Fate delle proposte concrete N, mi diceva un amico. I1 cittadino italiano è radicale, non vuole pagare nulla, non vuole essere seccato, non vuole essere disturbato. Errore; la società impone la tassa, i l servizio, il disturbo: si tratta di contenere tasse, servizi e disturbi nei limiti dell'equilibrio. I1 cittadino aiuti il funzionario, aiuti anche l'uomo politico con le sue proposte oneste e serie; l'uomo politico e il funzionario

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aiutino il cittadino con leggi e regolamenti adatti allo scopo e senza sperperi di denaro. Cooperazione civica e fiducia reciproca, ecco quello che ci vuole. Se si parla di cittadino indifeso, si deve parlare anche di cittadino che non sa difendersi. Bisogna rifare l'educazione dell'italiano: fo perciò appello ai maestri elementari per i primi, a tutti gli insegnanti in seguito e anche al prete. 24 dicembre 1951.

(Realtà Politica, 29 dicembre).

NORME PER L'ELEZIONE DEL SENATO Essendo già stato fatto i l nuovo censimento della popolazione, è prescritta per legge la revisione delle attuali circoscrizioni dei collegi senatoriali da farsi nella « sessione » successiva alla pubblicazione ufficiale. La parola « sessione » usata nella legge sulle norme della elezione del senato è impropria, non essendovi nell'attuale parlamento la divisione per sessioni 1). Si deve pertanto riferire alle (C riunioni di diritto »; cioè il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre di cui parla l'articolo 62 della costituzione. Ciò non esclude che l a presidenza del senato possa mettere l'argomento all'ordine del giorno delle convocazioni straordinarie, visto che i rituali 1" febbraio e 1" ottobre non hanno rilievo nel calendario parlamentare. Sta di fatto che il sistema usuale per la revisione delle circoscrizioni elettorali è quello di delegarne i poteri al governo affiancato da commissioni nominate a questo fine. È da sperare che sia questa la buona occasione per rivedere anche le « norme per la elezione del senato », tenendo conto della esperienza del 1948. I1 sistema del collegio uninominale per il senato in unico turno e con un quorum qualificato mi sembra possa essere mantenuto. Solo, secondo me, dovrebbe essere corretto quel « non inferiore al 65 per cento dei votanti n dell'articolo l 7 che rende


esagerata la percentuale richiesta per la proclamazione degli eletti da parte dell'ufficio elettorale circoscrizionale. Basterebbe una discreta diminuzione, portando la percentuale al 60 o anche al 55 per cento. Così verrebbe meglio precisata la caratteristica uninominale del collegio, evitando una inopportuna inflazione delle minoranze regionali, fra le quali ripartire i voti dei collegi, dove nessun candidato avrà raggiunto il limite di validità. Anche sul sistema di ripartizione proporzionale fra le liste dei collegi senza proclamazione di eletti sarà bene evitare una grossa incongruenza, quella della maggiore cifra individuale che è classificata all'art. 19 delle norme come relativa e non assoluta, cioè maggiore in rapporto all'esito del collegio e non in rapporto all'esito complessivo nella regione. I1 che ha dato risultati strani, di collegi con più senatori e di collegi senza alcun senatore. È vero che anche togliendo la relatività della cifra individuale non mancheranno altri inconvenienti, ma sarebbero poco sensibili, a meno che non si ritorni al vecchio metodo della votazione d i ballottaggio, cosa da evitarsi senza fallo per via della mobilitazione elettorale e delle combinazioni di partiti, a parte anche il fatto che sparirebbe così dal sistema elettorale senatoriale l'unica traccia del disposto costituzionale che il senato è eletto a base regionale. Un'altra modifica da apportare alla legge elettorale senatoriale dovrebbe riguardare i casi di incompatibilità, per i quali, nelle norme vigenti, si fa riferimento al testo unico delle leggi per la elezione della camera dei deputati (art. 5). Saturalmente anche queste ultime disposizioni sono da rivedere in base alle proposte d i legge Petrone, Bellavista e Vigorelli coordinate in unico testo; ma per il senato si dovrebbe essere anche più rigorosi per il carattere dato a quel consesso dalla costituzione elevando l'età degli elettori e l'età dei candidati. Una prima limitazione dovrebbe essere quella degli impiegati dello stato e degli enti statali o dipendenti dallo stato, il cui numero non dovrebbe superare il decimo dei senatori elettivi assegnati in base ai risultati del censimento. Perciò il senato, ad elezioni avvenute, dovrebbe procedere alla scelta degli impiegati eletti, qualora fosse superiore al limite d i legge, me-


diante sorteggio e proclamando eletti coloro che nella lista vincitrice vengono immediatamente dopo. Altra norma sarebbe da introdurre circa la ineleggibilità dei rappresentanti, amministratori e dirigenti d i enti, aziende e società la cui nomina è fatta dal consiglio dei ministri ovvero dai ministri competenti, o, comunque, approvata o ratificata da organi governativi ; nonchè i commissari, liquidatori, presidenti o componenti di consigli di amministrazione o di collegi sindacali di enti pubblici o privati soggetti a vigilanza statale. Tutti oggi invocano il risanamento morale della vita pubblica. Sta bene. Si cominci con il senato, il cui compito principale dovrebbe essere quello della vigilanza sulle gestioni statali ed enti pubblici dipendenti o vigilati dallo stato. Occorre avere il coraggio della netta separazione tra controllati e controllori, tra funzionari o amministratori statali e legislatori. Si dice: è questione di costume questa e non di leggi. È così; ma quando il costume da un quarto di secolo è andato scadendo, si reclamano leggi che correggano i l malcostume. Meglio sbarrare la porta del senato agli incompatibili, che lasciarla socchiusa e averceli dentro, sia coprendo tali cariche prima della elezione, sia coprendole per nomina avvenuta dopo essere stati eletti senatori. Ultima proposta: quella della busta di stato. Ammessa (oramai è nella coscienza di tutti) la contemporaneità delle elezioni del senato e della camera, il miglior sistema, il più semplice, il più sicuro, il più rispettoso della libertà individuale dell'elettore, è quello della busta di stato. Ogni elettore metterà nella busta il foglio col contrassegno prescelto. Trattandosi di collegio uninominale, non occorre neppure il nome del candidato. I partiti forse non saranno lieti della sostituzione della scheda di stato al posto della lista d i stato, ~ e r c h èdovranno affrontare la spesa delle liste o dei cartoncini con proprio contrassegno. Poco male; risparmieranno sui manifesti con i quali, gli italiani hanno i l gusto di sporcare i muri delle case e perfino dei monumenti e di sprecare denaro senza serio risultato; risparmieranno anche denaro per una minore durata della campagna elettorale, specialmente se viene introdotto i l sistema


della tessera elettorale permanente, invece dei certificati rilasciati alla vigilia delle elezioni con gli inconvenienti ed i brogli a tutti noti. La legge elettorale fissa a non meno di 70 giorni il periodo della campagna elettorale; i l che è un tempo assai lungo con sciupio d i energie e di denaro e dissipazione generale della vita normale. I n Inghilterra bastano 25 giorni; in Francia 40. Quel non meno d i 70 giorni del testo unico delle leggi elettorali per l a elezione dei deputati è semplicemente un errore di compilazione', perchè la costituzione parla di elezioni entro 70 giorni; i l che è diverso dal non meno d i 70 giorni. H a ragione Orazio con quel suo: aliquando dormitat Homerus; anche i l parlamento qualche volta dormicchia! Risparmiando i partiti le loro spese e per i manifesti e per la durata della campagna, potranno inondare le piazze di cartoncini elettorali con proprio contrassegno che l'elettore (finalmente libero nella cabina) introdurrà nella busta di stato. È ora, adunque, che il governo da parte sua o i senatori più diligenti con proposta di iniziativa parlamentare, portino alla discussione del senato, sia quella di carattere costituzionale per stabilire la contemporaneità della elezione delle due camere, sia quella elettorale, sperando che siano tenuti presenti i ritocchi da me proposti. 7 gennaio 1952.

(La Stampa, 16 gennaio).

PROBLEMI DI AGRICOLTURA SICILIANA La Sicilia ha la più scarsa percentuale di terreni boschivi, mentre, data la posizione mediterranea con lunghe stagioni secche e insufficienti d i pioggie periodiche, dovrebbe avere una zona boschiva assai superiore a quella delle altre regioni d'Italia. Mi è stato riferito che uno studioso straniero, del quale mi sfugge i l nome, ha calcolato che nell'ultimo cinquantennio i


fiumi e i torrenti han buttato a mare tanta terra quanta è l'attuale suolo coltivabile siciliano. I1 bel guadagno! Per vincere l'istinto distruttivo del coltivatore di cereali contro l'albero non bastano le leggi (che del resto si osservano poco), nè le multe insufficienti che infliggono le autorità forestali; e neppure gli articoli dei giornali (questo compreso) nè le conferenze fatte spesso alla gente convinta: occorre la molla dell'interesse. Onde l'orientamento forestale deve essere rivolto verso la industrializzazione del legno e degli altri prodotti della foresta, sì da includere nello stesso interesse larghe zone di proprietari e di lavoratori. Mi piace constatare che la iniziativa presa dalla regione siciliana, d'accordo con la SAICI, per coprire di eucalipti quattordicimila ettari e favorire così la installazione di un impianto industriale per la cellulosa, sia già in corso di attuazione: sembra che la cassa per il mezzogiorno ne favorirà i l finanziamento. Ma quel che più si avvicina al mio modo di sentire, è che si va abbandonando l'idea di esproprio su larga scala, sia per costituire demani regionali, sia favorendo gli acquisti di terreni da parte della SAICI; e si tende a concordare, con i piccoli e medi proprietari, dei contratti a lunga scadenza per gli impianti, la coltivazione e i tagli degli eucalipti, così da interessarli alle fortune della nuova industria che si va a costituire. Si spera che i proprietari da parte loro sappiano apprezzare i vantaggi offerti, senza volerci speculare sopra, a l d i là della giusta misura. Se all'iniziativa della fabbricazione della cellulosa si uniranno altre iniziative adatte all'utilizzazione delle produzioni boschive, i l problema del rimboschimento siciliano potrebbe dirsi potenzialmente sulla buona strada e parzialmente risolto. Dico parzialmente perchè oltre alle zone esclusivamente boschive, si deve aver cura di creare zone agrarie alternate con alberi d'alto fusto per quelle altre zone più o meno collinose che sono soggette a continue erosioni. Un altro esperimento si sta facendo in Sicilia con la sistemazione del monte San Giorgio in Caltagirone, una zona argillosa quanto altra mai, che dal lato di levante presenta una formidabile formazione di calanche che arrivano fino all'inizio


della valle per più di trecento metri e dagli altri è coperto da povero strato di terra arabile, che produce stentatamente orzi e frumenti, e circondato da valli assai ubertose, periodicamente danneggiate dalle forti pioggie. Un progetto studiato da1 prof. Aldo Pavari è già in esecuzione, per sistemarne la configurazione montana, regolare i l deflusso delle acque, correggere le argille coltivabili e renderle produttive, con ripiani ed argini adatti a l declino delle coste, e con protezioni arboree e zone di rimboschimento adatte ai luoghi, a l clima e all'utilizzo locale. I mezzi moderni meccanici e chimici a questo scopo rendono possibile ed economicamente meno costoso quel che tempo addietro non si sognava nemmeno. L'esempio di quel che si va facendo in Toscana, forse senza un'immediata visione industriale, è servito alle iniziative siciliane. Ho accennato a questi primi passi, che credo decisivi per un orientamento nuovo ed economicamente importante di quel che può dirsi il problema principale dell'agricoltura siciliana. Se con questi criteri si affronterà il problema dell'alto Simeto Salso, unitamente all'utilizzo idro-elettrico in corso (occorreranno almeno sei miliardi), la Sicilia si mette all'avanguardia della sistemazione montana razionale e industrializzata.

Un altro aspetto della industrializzazione siciliana è connesso con l'orientamento della produzione agraria. La Sicilia è povera di acqua, ma la Sicilia non ha mai utilizzato tutte le acque che ha, nè mai ricercato tutte l e acque che possiede nel sottosuolo. Le ricerche di acque nella zona etnea sono di un interesse eccezionale. Non mancano società che vi si dedicano; mancano attrezzature suilicienti e capitali adeguati. L'ente per il latifondo siciliano (oggi appellato ente per la riforma agraria) ne fece richiesta a l CIR, che la passò alla missione americana ECA. Questa rifiutò di dare i fondi, considerati necessari da una proposta fatta da una casa americana, perchè credeva meglio estendere il programma a tutto il mezzogiorno. L'ottimo è nemico del bene. Breve; ora lo stesso ente (ERAS) prepara


un programma per la ricerca nella zona etnea che presenterà alla cassa per i l mezzogiorno. Spero che non abbia la medesima sorte del primo. Fra le industrializzazioni che sono andato prospettando da quando ero ancora negli Stati Uniti, c'è quella di impianti per l'utilizzazione completa degli agrumi e sottoprodotti, specie delle arancie. Le iniziative esistenti in Sicilia sono inadeguate ed economicamente pesanti, certo non rispondenti al ritmo industriale moderno da imprimere alla produzione siciliana. Non sono mancate tra il 1946 e il 1950 visite di tecnici e industriali americani; pareva che si arrivasse al concreto: poi la guerra d i Corea, l'orientamento incerto dei produttori locali, i quali non riflettono che l'aumento delle bonifiche irrigue porterà ad aumento di agrumeti e che l'esportazione di agrumi può subire serie oscillazioni, che il consumo d i frutta fresche deve essere sostenuto con le riserve di succhi e d i marmellate, e infine, che l e polpe, le scorze e le essenze sono utilizzabili in quanto si utilizzano i succhi. La cassa del mezzogiorno ancora non ha fatto studiare tale problema che va strettamente connesso con l'aumento della produzione agrumaria per lo sviluppo della bonifica e della proprietà contadina in tali zone. Fra le iniziative per nuovi sviluppi industriali dell'agricoltura siciliana rilevo con piacere quella della SCIA (società catanese industrie agricole) nell'agro d i Lentini, non solo per coltivazioni specializzate per la utilizzazione delle fibre del ramiè e del ricino, ma anche per i moderni impianti che vi stanno sorgendo e i criteri tecnici e di produttività ai quali si ispirano. Una nuova iniziativa mi sta fissa in mente che non dovrebbe sfumare perchè di una utilità evidente. La Sicilia coltiva il cotone, ma per avere un prodotto utilizzabile per i nostri cotonifici, deve importare il seme dall'dmerica. Arrivare a formare semi siciliani selezionati sì da ridurre sempre più l'importazione e tipizzare i nostri prodotti, sarebbe d i notevole vantaggio, Occorre avere a disposizione una sufficiente estensione di terreni per congrui processi tecnici; è possibile arrivarci superando pregiudizi e difìicoltà. Non è nel mio stile invocare ad ogni piè sospinto l'iniziativa dello stato e della regione; i privati ne siano i realizzatori; l'ente pubblico l i fa-

D - ~ T C R Z O - Politica di qureti anni.


vorisca col togliere le difficoltà legali se ne esistono e, se occorre, con provvedimenti integrativi. Deve bastare I'interesse a rendere intraprendente l'agricoltura; e per la iniziativa testè accennata l'interesse a breve e a media scadenza è d i una evidenza senza discussione.

Le prospettive dell'agricoltura siciliana sono varie e molte; quel che ha reso difficile nel passato lo sviluppo delle zone latifondistiche è stata la mancanza di strade e di opere d i bonifica idraulica e forestale, e la corrosione del suolo. A questo si deve aggiungere la insufficienza dei mezzi nella lotta fito-sanitaria e d i adeguati metodi di diffusione; le ricorrenti crisi agrumarie e vito-vinicole e i l poco sviluppo dell'industria zootecnica nei suoi vari aspetti. La istituzione dei consorzi di bonifica è stata un primo inizio di risveglio; ma finchè erano privi d i mezzi, vivacchiavano alla men peggio. Con le immissioni di capitali del fondo E R P e della cassa per il mezzogiorno, con l'organizzazione regionale e programmi organici, è superato (come sembra) il periodo caotico delle occupazioni di terre. I piani di culture intensive, se uniti a quelli delle sistemazioni idraulico-forestali, segneranno una vera rinascita agraria siciliana. Bisogna confessare che le leggi di riforma agraria con discussioni trascinatesi per un paio d'anni, hanno causato una forte sosta nell'impiego di capitali privati sia per l'incertezza del periodo precedente e di prima attuazione, sia per i malcontenti che ha suscitato. Non è il caso d i ritornare sul passato e sugli errori evitabili ed inevitabili d i una così complessa rivoluzione nel campo dell'agricoltura. Ma se si cercherà di far rinascere la fiducia sia nella stabilità del nuovo diritto costituito e del possesso degli interessati alla terra, vecchi e nuovi; sia nella possibilità di collaborazione in libere associazioni, consorzi e cooperative (dico « libere » e so bene quel che dico); sia infine nel ritmo di nuove attività produttive verso la più sviluppata industrializzazione agraria, allora potremo arrivare, attraverso le difficoltà


e gli attriti di oggi, verso u n crescente benessere che la Sicilia non avrà avuto nel passato di u n secolo, tranne in brevi periodi di eccezionale prosperità per congiunture rapidamente svanite. 29 dicembre 1951. (L'Auvenire d'Italia, 19 gennaio 1952).

LO STATO FORTE Questa dello « stato forte 1) è un'aspirazione e potrà essere anche una realtà purchè gli uomini che rappresentano e dirigono lo stato sappiano bene cosa sia lo stato e abbiano le qualità personali e le opportunità politiche per renderlo e mantenerlo forte. Dico: sappiano bene cosa sia lo stato, perchè questo « ente è poco definibile, vagante fra il mito e la realtà. Lo stato non è la nazione, ma rappresenta e organizza la nazione; lo stato non è il popolo, ma ne è la espressione politica; lo stato non è l'autorità, ma è rappresentato dagli uomini investiti di autorità ; l o stato non è la legge, ma si articola per via di leggi, decreti e regolamenti; lo stato non è la giustizia, l'ordine, l'equità, ma è basato sulla giustizia, si fortifica nell'ordine e procura di adeguare la sua azione all'equità dei rapporti sociali; lo stato non è la libert,à, ma garantisce le libertà civili, politiche e religiose. Sotto tutti gli aspetti lo stato è la forma politica della socialità, senza la quale, sia embrionale in società primitive, sia sviluppatissima nel mondo moderno, sarebbero impossibili la convivenza civile, l a tutela dell'ordine, l a difesa interna ed esterna, lo sviluppo della personalità umana. Ma lo stato non è un ente astratto e non è neppure un'entità concreta e a sè stante, alla quale possiamo riferirci come a qualche cosa fuori di noi: lo stato nel suo concreto sono gli organi del potere: elettorato, parlamento, governo, ordine giudiziario, ordinamenti amministrativi, organismi militari, di polizia e finanza. Ognuno ha una particella dello stato perchè l o rap-


presenta e ne esegue la volontà, in quanto questa volontà è espressione della razionaliti umana, nella quale si manifesta sulla terra la verità; e in quanto questa razionalità è diretta al bene, nella concretezza dei rapporti sociali, che è amore. Non è usuale riportare la funzione politica dello stato ai due elementi fondamentali della esistenza umana: la verità e l'amore. Ma gira gira, ci si va a finire. L'immanentista, che è un monista, l i trova nell'uomo; e, non riconoscendo un'origine extra-umana di questi elementi, cade, volere o no, nel panteismo. I1 dualista che va dall'immanenza alla trascendenza, trova che verità e amore sono nel creato un riflesso del divino, e riconoscendone l'origine ne trova il finalismo nell'essere assoluto e infinito, Dio, che vivifica la verità e l'amore dei quali è impregnato tutto i l creato, come realtà e vita. Lasciamo le speculazioni ; ma conveniamo che lo stato, il quale non è altro che la società nei suoi valori politici, non sarebbe cosa seria e forte, umana e razionale, se non fosse basata sulla verità e sull'amore, cioè sulla realtà razionale dell'uomo, che ne è l'autore, l'organizzatore e l'espressione vivente, dal quale lo stato deriva e al quale è ordinato. Lo stato « etico », cioè che crea la sua morale; lo stato « fonte d i diritto », cioè che crea la sua giustizia; lo stato u dittatoriale », cioè che impone la sua volontà; lo stato « collettività finalistica » quale lo stato « totalitario D, sono concezioni false, mostruose, contrarie alla natura umana, da combattersi come eresie della razionalità e della socialità.

Lo stato o è forte o non è vero stato si bene un agglomerato sociale dove il contrasto delle forze rende inefficace l'autorità, viola la libertà, turba l'ordine, corrompe la giustizia e l'amministrazione. P e r essere forte occorre che lo stato sia basato sulla legge; la legge sia uguale per tutti; l'autorità stessa sia soggetta alla legge, e così ogni ordine civico e ogni organismo amministrativo. Nella concezione moderna dello u stato di diritto » venne


eliminata la teoria, prevalente nello stato assoliito, che il monarca fosse al disopra delle leggi positive. Lo stato di diritto si basa, invece, sul principio che le leggi positive legano il legislatore stesso e tutti gli organi dello stato, come legano tutti i cittadini. 13 stata questa una conquista di legalità e di ordine, che però è stata attenuata dalla prevalente concezione laicista che, sganciatasi dalla teoria del diritto naturale, ha cercato di basare la legge o sulla volontà popolare o sull'ente-stato come fonte di diritto. Nel fatto, però, è prevalsa la moralità della tradizione cristiana e del diritto romano come struttura privatistica della società civile, con nuovi orientamenti sociali, in gran parte acquisiti allo stato moderno, ma anche con non poche deviazioni a danno specialmente della personalità umana e della morale familiare. I1 quadro dello stato di diritto sarebbe incompleto se mancasse il dinamismo creato dalle libertà politiche, che rendono possibile e doveroso allo stesso tempo l'intervento popolare nella formazione delle leggi e nell'orientamento dello spirito pubblico. Questo intervento animato da libertà non è puramente utilitario, come è uso sostenere ; è sostanzialmente etico, p u r avendo per finalità immediata l'utile, e pur sbagliando molte volte nei mezzi adatti a conseguire l'utilità immediata e la finalità etica. Si dirà: forse lo stato non democratico e non popolare (cioè senza libert,à politiche) non aveva nella sua attività legislativa i due termini dell'utilità e della eticità? Certo che li aveva, altrimenti non sarebbe stato espressione e organo politico della socialità; ma il dinamismo su cui si basava era ristretto alla casa o ai ceti dominanti, la partecipazione all'utile sociale (bene comune) si muoveva su motivi chiusi, e la finalità etica era associata alla chiesa, con la quale lo stato condivideva autorità e interessi. I1 discorso mi ha portato lontano, e temo che dovrò rimandare ad altro articolo parecchio di quel che volevo dire. Forse ciò non dispiacerà al lettore interessato a tali problemi; e non è detto che tutti i lettori di Libertas debbano leggere il mio articolo. Ma era interessante mettere la premessa teorica dello stato


forte sulle due basi delle leggi intrinsecamente morali e delle leggi obbligatorie per tutti, essendo impossibile la coesistenza dell'una condizione senza dell'altra. Uno stato dove le leggi non si osservano e dell'inosservanza dànno triste esempio gli stessi legislatori, le autorità chiamate a farle osservare, gli stessi impiegati e gli agenti che ne sono il braccio esecutivo, è già uno stato spiritualmente ammalato e giuridicamente indebolito. Parlare di stato forte senza la condizione fondamentale dell'osservanza della legge e di leggi morali, è semplicemente un non senso. Chi si immagina che lo stato forte sia quello del sic volo, sic jubeo sit pro ratione voluntas, non fa altro che mettere a base dello stato (società politica razionale organizzata) l'arbitrio dell'uno o dei pochi sostenuti dalla forza. 10 gennaio 1952. (Libertas, 20 gennaio).

SINDACALISMO OPERAIO IN CRISI b

L'esperienza dell'unità sindacale dopo la seconda guerra mondiale, servì a farne cadere il mito: l'unità sindacale in regime libero non può esistere che per libera volontà degli associati (gli operai); i quali, per il numero, per le ideologie, per gli interessi contrastanti (anche se non vi fosse il u virus s comunista inoculato nelle masse dell'Europa continentale), non potranno mai durarla a convivere a lungo e volontariamente in unico organismo. Infatti, se l'unità sindacale, pur divisa in tre tendenze e tre segretari, ma effettiva, fu rotta per colpa del totalitarismo e fanatismo comunista, il tentativo di una confederazione libera di tutte le tendenze con esclusione della comunista, non si è mai realizzato appieno, non ostante la fede e gli sforzi dell'on. Pastore, e non ostante le spinte e gli aiuti degli amici esteri, specie americani: le sigle si sono succedute e i congressi anche, e in un paio di anni si è arrivati ad averne tre: la CZSL, libera sì, ma in maggioranza, volere o no, cristiana; la UIL, libera sì,


ma completamente laicista; la CZSNAL, libera sì, ma missina o quasi. Si predicherà quanto si voglia un sindacalismo apolitico e apartitico; anche in Italia ci troviamo di fronte a due miti infranti: quello dell'unità e quello dell'apoliticità. I1 sindacato libero, perchè libero, non è unico; e ogni sindacato, perchè sindacato, è sostanzialmente politico. La storia di cento anni di sindacalismo operaio non ci dà vere esperienze d i sindacalismo libero, a-politico e a-partitico (anche, se vuolsi, a-confessionale, essendo il marxismo e il laicismo una confessione). Si cita il laburismo inglese che nacque come sindacalismo puro. Infatti per quella mentalità analitica e sperimentale tutta anglosassone, le prime « unioni » del secolo scorso si limitarono alla organizzazione e difesa operaia senza essere agganciate a teorie politiche, religiose o economiche che ne regolassero a priori l'azione e ne limitassero l'espansione. Protestanti e cattolici vi convennero sotto l'insegna della difesa dell'operaio, che era la loro politica. I conservatori, per combattere i liberali, favorirono le trade-unions specie nelle circoscrizioni rurali; i liberali ne sostennero le candidature in particolari collegi contro gli stessi conservatori. Casi sporadici questi, perchè le unioni operaie appoggiavano i candidati amici dei due partiti dell'alternanza inglese, finchè, fatte robuste, decisero, tra la fine del secolo scorso e l'inizio del presente, di creare il partito laburista, che in mezzo secolo doveva soppiantare il partito liberale e sperimentare le fortune di partito di governo. Da mezzo secolo sindacato e partito sono due faccie dello stesso movimento operaio economico e politico. Questa la vera e reale esperienza inglese. E se il laburismo è unico ed è rimasto unico non ostante le tendenze a sinistra e le simpatie filo-comuniste, e unico anche con i cattolici apostolici romani d'Inghilterra (che per ortodossia non la cedono agli italiani), ciò è accaduto perchè le ideologie, compresa la marxista, non fanno nelle masse inglesi nè caldo nè freddo. Beati loro! L'altro sindacalismo importante e tradizionale, quello nordamericano, ha tenuto strada diversa da quella dei cugini d'Inghilterra. Lasciando da parte le varie fasi di lotta su terreno sindacale, politicamente si sono avuti due metodi: quello di la-


sciar liberi i soci di aderire al partito di propria preferenza, p u r appoggiando al momento delle elezioni i candidati che accettano i punti pratici di rivendicazione sindacale ( p e r intenderci, una specie di patto Gentiloni collegio per collegio), - metodo questo seguito ancor oggi dall'dmerican Federation of Labor; - e quello ultimamente introdotto dall'altra potente confederazione operaia, la C.I.O., di un comitato politico che patteggia con uno dei partiti (per il momento il democratico); il che h a dato la vittoria prima a Roosevelt nel 1944 e poi a Truman nel 1948. Niente partito proprio, quindi, ma pratica politica per influenzare i partiti esistenti e tenersi i n rapporto con il congresso (parlamento) e con il governo (Casa Bianca). Questi due metodi e l'esperienza laburista inglese (estesa ai dominii : Australia, Canadà, Nuova Zelanda), presuppongono due elementi fondamentali: l'economia libera o privatistica e la lealtà istituzionale politica. Tutto ciò è impossibile, o almeno è stato impossibile nell'Europa continentale, nella quale il sindacalismo nacque marxista, basato sulla lotta di classe, con finalità rivoluzionarie da sboccare nella dittatura del proletariato; sindacalismo, quindi, antiborghese, statalista, dittatoriale. Vi è stato un altro sindacalismo, che ebbe notevoli vampate e attirò l'attenzione di molti anche studiosi dei fenomeni sociali: il sindacalismo puro; fu allo stesso tempo antipolitico, antistatale, libertario, anarchico, e ianatizzò le punte estreme delle masse lavoratrici; in sostanza: agitatorio, non costruttivo, almeno fino a che non fosse distrutto l'attuale ordinamento per costruirne un altro naturalmente si sboccava nella dittatura. Quasi contemporaneo al mazzinianismo e al marxismo, e in opposizione ideologica con i due, apparve qua e là in Europa, con timidità e audacie che ne svelavano la immaturità, un' sindacalismo cristiano oscillante fra la lega e la corporazione d'arte e mestieri, con ricordi medievali che si conciliavano con lo spirito religioso. Ma si entrò decisamente nell'organizzazione e nel metodo sindacalista prima in Germania e nel Belgio, Olanda e poi in Italia verso il 1898 (ricordare don Albertario a Finalborgo) con organizzazione confederale propria verso la fine della prima guerra (1918) nel qual tempo fu stabilita una con-

...


federazione internazionale (europea) a Utrecht con un piede a Ginevra nel bureau international du travail. Sostanzialmente il sindacalismo europeo fino alle avventure fasciste e corporativiste, pur aderendo ai partiti socialisti e cattolici (cristiano sociale o popolare) restava ai margini della vita politica agitando da un lato la lotta di classe (marxismo) e dall'altro la collaborazione di classe (cristianesimo) ; invocando uno statalismo socialista (varie gradazioni di socialismo di stato) e libertà economica con integrazione statale (teorie cristiano-sociali) ; finchè arrivò trionfante il corporativismo statale di Mussolini imitato in altri paesi di dittatura o semi-dittatura. Dove si trova nella storia d i cento anni, un sindacalismo a-politico e a-partitico che per l'on. Pastore è divenuto un chiodo fisso? Si tratta piuttosto di espediente sia pure rispettabile, o meglio di un atto di sincerità polemica da parte sua per difendersi dall'accusa di aver rotto l'unità sindacale per asservire gli operai al partito dominante.La colpa più che di Pastore è della mentalità anarcoide dell'italiano, operaio o no; il quale non sa concepire un partito d i maggioranza, che governi sul serio, senza essere guardato come una specie di usurpatore del potere; mentre si tollererebbe di nuovo il partito-unico o il partito-dittatura. Oggi che il partito «in coagulazione dei socialisti democratici ha optato apertamente per I'UZL, e che la destra nazionale socialisteggiante dei missini ha la sua CZSNAL, Pastore, volere o no, dovrà decidersi per il sindacato politico, sia che faccia una politica propria, sia che accetti ( p u r con la propria autonomia) la politica democristiana. I1 diversivo sindacale di dare colpi di governo De Gasperi non è certo a vantaggio della CISL e neppure dei socialisti democratici dell'UZL e neppure, credo, del movimento italiano sociale della CZSNAL. 14 gennaio 1952.

(hVia, 19 gennaio).


SALUTO AI LETTORI DI

(C

DIVAGANDO » (*)

Caro Novasio, T i sono grato dell'occasione che mi dai di rivolgere un saluto agli amici e lettori di Divagando d i New York, per il decimo anniversario d i pubblicazione. Noi italiani siamo sensibili ad ogni manifestazione di italianità all'estero, non per orgoglio o sentimenti di dominio, ma per coscienza intima d i solidarietà e fratellanza uniti nella missione cristiana che fa dell'Italia un centro di orientamenti e di convergenze. Modesta o importante, qualsiasi iniziativa che ci ricordi all'estero l'Italia nella sua lingua, storia, arte, cultura, religione h a valore significativo e ci mantiene nella comunione di idee e di affetti che non morranno. Oggi che i rapporti fra gli Stati Uniti di America e l'Italia si sono rinsaldati nella difesa della civiltà occidentale (che è civiltà cristiana ed ha avuto la culla nel nostro Mediterraneo e nella nostra Roma), abbiamo i l dovere d i alimentare tale amicizia con sempre più elevato contributo di attività scientifica e culturale, con mutua comprensione e inalterata fedeltà reciproca, partecipando ai rischi e a i sacrifici che ogni amicizia impone. L'avvenire è dei fiduciosi, dei volonterosi, dei forti. Cordiali saluti

15 gennaio 1952. (Divagando, Neiv York 18' gennaio).

(e) Lettera a Pietro Novasio, direttore di Divagando, giornale in lingua italiana pubblicato a New York.

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LINEE E TARIFFE ELETTRICHE

Comincio con una buona notizia: finalmente saranno iniziati dentro il mese i lavori dell'attraversamento elettrico dello stretto di Messina. Se ne parlava da un decennio e più; la guerra ne allontanò l'attuazione; poi vennero le difficoltà del dopo guerra, l e tergiversazioni della Coniel, le obiezioni del consiglio superiore dei LL.PP., il ritardo della progettazione definitiva; pareva che tutto congiurasse contro, quando la notizia, aspettata tra notevoli diffidenze, è arrivata. A chi scrive piace più la posa dell'ultima pietra anzichè della prima; ma dacchè è in uso solennizzare l a prima, mi piace assai che sia un ministro siciliano e democristiano che ci vada a sanzionare la volontà governativa a favore del mezzogiorno. Tanto più che non erano e non sono mancati rilievi fatti da gente che abita dalla linea gotica in su, che u n tale attraversamento non gioverebbe alle due parti, perchè l a Sicilia può mandare al continente ben poca energia e per conto suo ne riceverebbe i n misura assai limitata e, in sostanza senza seria necessità, dato che ESE e SGES basteranno per molti anni alle poco sviluppate esigenze dell'isola. Chi parla così, e l i ho sentiti con le mie orecchie, ha una concezione assai lontana di quel che possa essere lo sviluppo idro-elettrico del mezzogiorno continentale e della Sicilia, e nessuna idea esatta d i quel che possa e debba essere lo sviluppo industriale di tutto il mezzogiorno, isole grandi e piccole comprese. La risposta sarà evidente fra cinque anni, se si seguirà una politica agraria e industriale nel mezzogiorno franca, libera e aperta, e se gli stessi meridionali prenderanno coscienza delle loro possibilità. I o sono stato sempre ottimista, e l o dimostrai quando nel 1923 tenni a Napoli i1 mio ben noto discorso sul mezzogiorno. L'on. Giustino Fortunato, il patriarca dei meridionalisti ma con visuale limitata, l o giudicò troppo ottimista; io oggi lo giudico troppo poco ottimista. Spetta ai meridionali e a tutti gli italiani


meridionalisti ( e ce ne sono non pochi anche in alta Italia) dimostrare la giustezza del mio asserto. Questa volta, uno dei casi assai rari, l'attraversamento elettrico dello stretto d i Messina si fa senza sussidi statali, da società private dell'alta e bassa Italia insieme. Nulla vieta che in seguito ci possa essere un secondo o anche un terzo attraversamento, sempre senza sussidi statali (cosa rara ma importante), proprio nell'interesse della libera concorrenza, se lo sviluppo economico industriale e le potenzialità della energia prodotta nelle due Sicilie (vecchia denominazione di una realtà vivente calabro-sicula) non ne giustifichi la spesa, al di fuori d i qualsiasi ingerenza politica di sapore elettorale. Le linee elettriche, libere, in concorrenza, sono quelle che mancano in Italia; e mancano anche linee statali aperte a tutti i produttori di energia elettrica di qualsiasi natura, là dove la iniziativa privata o non potrebbe averne interesse ovvero verrebbe a creare u n monopolio insopportabile. I o sono contrario alla nazionalizzazione degli impianti elettrici, ma sono anche contrario al monopolio elettrico, aperto o larvato, che assoggetti il pubblico a tariffe esose e a disservizi continuati. Per questo fine la commissione tecnica del comitato permanente per il mezzogiorno, che h o l'onore di presiedere, nel dicembre scorso fece voti perchè « siano sviluppate le reti d i trasporto e distribuzione di energia elettrica e siano fissate norme esatte per i contributi degli utenti alle spese d i allacciamento n; voto che è bene sia rinnovato in tempo ora che il governo, a mezzo del comitato prezzi, sta ultimando gli studi sulle tariffe elettriche. A proposito sarà bene soddisfare subito la richiesta ormai unanime delle tariffe uniche nazionali per le utenze domestiche d i luce ed energia industriale che non superino i 30 KW, sia pure sbloccando tutte le altre utenze private ( a parte il regime di illuminazione cittadina) che potranno liberamente contrattare con le società elettriche o addirittura provvedere direttamente ai propri servizi con impianti propri. Quando si dice tariffe uniche per le utenze non superiori ai 30 KW, si intende che da Bolzano a Pachino si applicano le


stesse tariffe, e che queste debbano avere per base l e tariffe minime attuali. Gli elettrici non sono d'accordo su questa base, ed hanno prodotto conti su conti per dimostrare che l'attuale maggiorazione di 24 volte il 1942 debba essere portata a 32 volte. Si arriva ad affermare che ci sia stata nel 1948 una deliberazione promissoria del CIR; ma dai verbali del CIR non risultano impegni, del resto nulli in confronto ai poteri del parlamento. Sta di fatto che dal 1948 ad oggi gli stessi elettrici che protestano hanno trovato modi di impiegare una parte dei loro utili (anche quelli che il fisco non ha bene accertato perchè i bilanci di tutte l e società italiane, le parastatali comprese, sono poco chiari) in varie imprese niente elettriche: magazzini generali, impianti di azoto e simili, quando non li hanno investiti all'estero. Perciò la commissione centrale del comitato per il mezzogiorno, nell'ordine del giorno del dicembre scorso, inviato a tutti i ministri e a molti parlamentari meridionali, proponeva che « i provvedimenti atti a favorire l'aumento della produzione elettrica, fra i quali quello d i un concorso statale agli interessi per mutui a medio e lungo termine, non vengano a ripercuotersi sulle utenze inferiori a 30 KW 1). Un altro provvedimento integrativo è stato chiesto: queIlo di favorire con esenzioni fiscali l'impianto e l'esercizio di gruppi elettrogeni. Così verrebbe rotto quel certo monopolio che potrebbe intensificarsi dopo l o sblocco delle utenze superiori a 30 KW; sblocco necessario, d'altro lato, a mettere nel giusto equilibrio vecchi e nuovi contratti di utenze. Questo mio articolo saprà ad alcuni di « forte agrume » (direbbe Dante), ma mette i punti sugl'i, cosa necessaria per chi non h a interessi da tutelare o da far tutelare e p a r d a i problemi solamente nell'interesse del pubblico. A coloro che diranno che così non si favoriscono i nuovi impianti, e si avrà un arresto alla produzione di energia elettrica, credo di potere rispondere con franchezza che si esagera su questo punto; e che le proposte surriferite dalla commissione tecnica del comitato per il mezzogiorno di un concorso statale per gli interessi d i mutui e dei favori fiscali per gli


impianti d i gruppi elettrogeni, a parte gli effetti anche psicologici dello sblocco per la utenze superiori ai 30 KW, inciterebbero ad aumentare la produzione d i energia elettrica. I1 programma a lungo termine per costruzioni da completarsi dentro i l 1952 che l'Italia presentò all'OECE comprendeva una potenza complessiva da installare di 2.053.877 KW. A tutto agosto 1951 risultano impianti idroelettrici per 1.509.198 KW, dei quali 922.212 nel programma dell'OECE, e 584.986 non previsti in tale programma; impianti termoelettrici per 259.203 milioni di KW dei quali 218.900 previsti nel programma dell'OECE e 40.303 non previsti. A queste cifre si debbono aggiungere gli impianti distrutti o danneggiati dalla guerra che sono stati ricostruiti: idroelettrici 957.259; termoelettrici 275.490. I1 mezzogiorno e le isole sono indietro in tale sforzo ricostruttivo; ma il discorso qui andrebbe per le lunghe e mi riserbo di parlarne altra volta. E darò anche altre notizie che usualmente non sono alla portata del pubblico, ma giustificano, anche nel confronto delle industrie idroelettriche meridionali, la richiesta della tariffa unica nazionale senza ulteriori aumenti e sulla media dell'alta Italia. 16 gennaio 1952.

( I l Popolo, 20 gennaio).

LA LEGGINA « FORTUNATI OVVERO « LA BEFFA DELLA BUROCRAZIA I1 senatore Fortunati ha dato i l nome ad una piccola legge d i quattro articoli, che ha per retroscena una commediola che io ho intitolato la beffa della burocrazia)). Spero che non mi venga cambiato il titolo, perchè non saprei trovare altro che caratterizzi i fatti che han dato motivo all'onorevole senatore d i emendare l'art. 13 della legge 2 aprile 1951 n. 291 sul censimento, allo scopo d i autorizzare l'istituto centrale di statistica ad avvalersi, con la procedura ivi indicata, dell'opera d i personale avventizio diurnista in difetto del personale di-


pendente dallo stato. Questo doveva essere già distaccato fin dall'ottobre scorso; ma nè il presidente del consiglio, nè il ministro del tesoro, nè gli altri ministri sono riusciti a raccogliere circa 1500 impiegati da essere destinati alle operazioni di censimento. Da qui la proposta assunzione di personale estraneo. E poichè il lavoro durerà almeno un anno, e si arriverà alla fine in periodo pre-elettorale, nessuno avrà il coraggio di rendere disoccupati quegli avventizi dell'istituto d i statistica, e si inventerà qualche altro provvedimento tipo Unsea per una nuova immissione di avventizi nel calderone statale. Ma non è per questo fatto che i l caso si presenta degno di rilievo; ma per altro aspetto, che lo fa di botto passare a caso tipico nella storia della burocrazia italiana; e precisamente i l fatto della mancata esecuzione dell'art. 13 della legge n. 291; per cui la leggina Fortunati, passata rapidamente alla commissione 5a del senato in sede legislativa, si trova alla corrispondente commissione della camera con l'intervento della la commissione, che però ha avanzato serie obiezioni. Quale sarà per essere la sorte di tale leggina, una cosa è certa, che al momento fissato i ministeri non poterono C( distaccare » un complesso d i 1500 impiegati. Gli stessi ordini della presidenza del consiglio rimasero inefficaci tranne per un decimo (150 unità presso a poco); tutti i ministeri fecero sapere che non avevano personale esuberante perchè tutti gli impiegati e le impiegate erano necessari a l servizio normale; anzi capitò proprio negli stessi giorni che certi ministri avanzassero richiesta di nuovo personale stabile con aumento di numero di divisioni e di direzioni generali e nuovi ampliamenti di locali e nuovi palazzoni ministeriali. Fino ad oggi si era detto e ripetuto che i l personale fosse esuberante; in passato erano stati presi provvedimenti di sfollamento, premii di uscita, leggi di sgombro, ripetendo che il fenomeno burocratico era divenuto preoccupante per un'elefantiasi incoercibile. A mio modo di vedere sono concorsi vari fattori a creare un vero stato d'animo (C di difesa >> da parte della burocrazia di ogni singolo ministero. Nessuno ha voluto accusare un esubero; non i capi sezione, non i capi divisione, non i direttori


generali; e (perchè non dirlo?) neppure i sottosegretari e i ministri. Metto subito fuori combattimento sottosegretari e ministri che sono da parecchio tempo in condizione di non potere mettersi in urto con la propria burocrazia, rappresentata sia dagli alti papaveri sia dalle organizzazioni sindacali interne, ciascun partito la sua. Ma i direttori generali del personale? Quelli sì, sono i primi responsabili del fatto inaudito. Avrebbero dovuto racimolare quel centinaio di propri dipendenti, adatti alla bisogna, divisi per categorie, segnalando nominalmente i comandati all'istituto di statistica. Niente. Han creduto loro dovere la difesa del corpo. Tutti necessari i loro impiegati, tutti dediti al lavoro, quello ordinario e quello straordinario, con tavoli pieni di carte, senza tempo da respirare, nè per accendere una sigaretta, nè per andare alla buvette. La prova d i quanto dico è stata data di recente, quando nella elaborazione del provvedimento di passaggio del personale del ministero dell'Africa italiana, in liquidazione forzata, da parte dei ministeri favoriti del nuovo afflusso si pretendeva che i l proporzionale aumento di posti d i ruolo fosse non temporaneo (come ha ordinato il governo), ma addirittura permanente. Era ovvio che un certo numero di tale personale potesse essere cc distaccato » ai lavori del censimento fin dal 4 ottobre (data della circolare del presidente del consiglio); solo ora ve ne andranno trecento. Lo stesso può dirsi dei servizi dell'alimentazione, già ridotti da quelli del periodo immediato alla guerra; dei servizi degli enti che dovrebbero esser stati posti in liquidazione (e non l o sono) ENDIMEA, GRA ed EAM. La burocrazia resiste a questo provvedimento, piccolo, insignificante, temporaneo, come resiste a tutti i provvedimenti che ne toccano l'autonomia, acquisita e reale, a dispetto di tutte le leggi, di tutti i regolamenti e le circolari; resiste perchè sa di vincere; resiste perchè non vuole cedere un lembo anche piccolissimo del suo dominio, e dominio assoluto. È un fatto poco noto che i funzionari statali distaccati alle regioni autonome vanno subendo colpi mancini circa l a car-


riera, venendo quasi sempre saltati nelle promozioni. Tali disgraziati, servendo la regione, vengono sospettati di tiepidezza verso la burocrazia centrale, che sente di perdere u n tantino della propria autorità, quando è costretta a discutere d i interpretazioni legali e d i diritti di competenze con i propri funzionari distaccati che non sono più alla propria dipendenza. Per giunta, non si ammette neppure il sospetto che i l personale ministeriale sia troppo numeroso; non si ammette che venga sottratto alla dipendenza gerarchica; nè che sia dimostrata la poca efficienza di una moltitudine impiegatizia mal selezionata. Gli stessi funzionari distaccabili si rifiutano non tanto per la prospettiva di un lavoro più serio e senza interruzioni (anche se si percepiscono compensi extra), quanto per quel vago sospetto di incertezza che dà l'idea di una revisione di ruoli, e di una mancata promozione. Tutto ciò è psicologicamente comprensibile, ma dimostra una volta di più la gravità del problema burocratico e l a quasi impossibilità di risolverlo senza prendere il coraggio a due mani e chiedere a l parlamento una delega, ben precisa nei termini e anticipatamente fortificata nei suoi poteri; delega che dovrebbe arrivare alla eliminazione degli enti inutili, superflui, costosi e perfino dannosi, eliminazione che un parlamento burocratico come il nostro e alla vigilia delle elezioni non avrà mai il coraggio di fare. Altrimenti, sazà meglio non parlare più di riforma burocratica e abdicare tutto nelle mani dei funzionari. 21 gennaio 1952.

(Lo Stampo, 23 gennaio).

10

- S r r i ~ z o-

Politica di questi anni.


MESSAGGIO AL CIRCOLO PARLAMENTARE DI CULTURA POLITICA (*)

Caro onorevole ed amico,

A te e agli amici che avete pensato a un circolo parlamentare di cultura politica mando un plauso cordiale con fervidi auguri di successo, non già perchè promotori o soci, deputati o senatori, non siate per definizione e per quotidiano impegno immersi nella politica del paese; ma perchè cercando di portarla al livello di una cultura orientativa e per quanto possibile organica e scientifica, ne avrete notevole vantaggio per i lavori del vostro mandato e per intonare quanto meglio è possibile la vita stessa del paese. Aver voluto aggiungere il mio nome è stato vostro gentile pensiero e mi fa piacere perchè mi avvicina spiritualmente non solo a quanti tra voi militarono nelle file del partito popolare italiano, ma anche alle giovani schiere politiche della democrazia cristiana, che hanno fatto ben altre esperienze e sentono in modo più vivace i problemi dell'ora. Vedo che l'amico Piccioni inaugura il circolo parlando della mia concezione politica. Sarò lieto di apprendere da lui, che partecipò al consiglio nazionale e alla direzione del partito popolare, quella parte di esperienza politica quando io, lontano dalla patria, ne guardavo l'avvenire con l'ansia e i presentimenti del figlio lontano. A qualche cosa giova l'esperienza del passato; specialmente per renderci edotti che senza la libertà non si può avere serio progresso politico; ma senza la volontaria adesione dei cittadini sopra una concezione e un programma politico, fortemente sentito, e costantemente seguito, non si potrà mai formare u n vero stato democratico che risponda in ogni momento alle crescenti esigenze del paese nel suo divenire.

(*) Lettera all'on. Giovanni Carignani.


La risposta sta a voi darla, perchè il paese ha i l diritto di contare sulla democrazia cristiana, per il suo presente e per il suo avvenire. Cordiali saluti a tutti vostro

LUIGISTURZO 24 gennaio 1952.

(Non risulta pubblicato)

K

STATO FORTE

IN DEMOCRAZIA

I n ogni sistema, lo stato per essere forte ha bisogno di una salda struttura organica e d i una precisa caratterizzazione d i responsabilità. Ma quel che è necessario per tutti i tipi di stato, è necessarissimo per lo stato democratico: organicità e responsabilità. Ogni organizzazione porta con sè una unificazione d i fini e d i mezzi pur nella specifica autonomia di organi e nel pieno coordinamento di funzioni. Lo stato democratico deve raggiungere tale unificazione nella libera e autonoma attività d i fattori diversi, e spesso contrastanti, che per un interno dinamismo finalistico arrivano a darci le risultanti organiche e decisive. I1 popolo è volontà suprema in democrazia; è organizzato nell'elettorato e si esprime in forma decisiva per via di elezioni e di referendum; ma è presente sempre, come strumento sensibile dell'opinione pubblica, nei liberi partiti, nelle libere associazioni, nella libera stampa, nelle libere riunioni. I1 parlamento è rappresentante della nazione; p u r essendo emanazione dell'elettorato diviso in collegi locali e p u r essendo organizzato in due camere e suddiviso internamente in gruppi di partito, è pertanto unico organo legislativo della volontà collettiva. I1 presidente della repubblica è i l capo dello stato e rappresenta l'unità nazionale; anch'esso è organo supremo e nel suo campo indipendente dagli altri organi dello stato democratico.


Così indipendenti nella loro competenza il consiglio dei ministri, la magistratura, l'esercito, l'amministrazione. Come nel corpo umano se gli organi, nell'alternanza dei ritmi e nel dinamismo delle attività, non mantengono l'equilibrio delle loro funzioni, ne conseguono disturbi, sofferenze, crisi, malattie, paralisi; così in ogni società grande e piccola e ancora di più, per la delicatezza e complicatezza della organizzazione, così avverrà dello stato. Non si creda che basti uno schema teorico di organizzazione statale per raggiungere l'equilibrio; nè valgono gli esempi degli altri stati che han già sperimentato il sistema democratico; nè basta l'esperienza fatta nello stesso paese ma in altri tempi. Come la libertà si conquista ogni giorno perchè ogni giorno si deve difendere; come la virtù si conquista ogni giorno perchè ogni giorno è tentata; così l'organizzazione statale si mantiene in equilibrio, si migliora, si perfeziona ogni giorno, altrimenti si corre il rischio di vederla andare a pezzi. Dacchè l'Italia ha ripreso il suo cammino, grandi passi si 'son fatti nella ricostituzione dell'organismo statale. Non ci lamentiamo; io posso anche essere u n critico impenitente, critico per amore s'intende; ma convengo anch'io che dopo venti anni d i dittatura fascista, dopo una guerra perduta, dopo due occupazioni, un trattato di pace capestro, la spina d i Trieste a i fianchi, i veti della Russia, e per giunta, non indifferente, l a compagnia di un partito comunista rivoluzionario nei mezzi e dittatoriale nei fini, aver rimesso in piedi l o stato italiano a carattere democratico può dirsi sia stato uno sforzo di eccezionale portata.

Non si arriverà mai all'equilibrio organico dello stato democratico, se non si rimette a posto l'amministrazione, sulla quale è basata la vita d i ogni giorno. Bisogna convenire che l a nostra struttura amministrativa è difettosa per tre capi: mancanza di preciso limite delle competenze e insufficiente individuazione delle responsabilità; - moltiplicazione d i enti con accaparramento di funzioni -; centralizzazione statale sempre


crescente con invasione della pubblica amministrazione nei campi più delicati della personalità umana e degli enti autarchici per diritto proprio. Nell'affollarsi dei problemi di ricostruzione, la inserzione nella vita dello stato di organi estranei ed eterogenei quali quelli derivanti dal trattato di pace, nonchè l a stessa pur benefica missione Eca, e poi quelli derivanti dal patto atlantico, non poteva evitarsi la creazione volta per volta di nuovi organismi più o meno temporanei, in gran parte con u n minimo di potere e un massimo di ingerenze. Per giunta o rimasero o ripresero a funzionare tutti quegli enti cui il fascismo diede vita, moto e impronta. Quanto tutto ciò abbia disturbato e perfino paralizzata la macchina di uno stato centralizzato risulta più dai fatti che dalle previsioni. Per diminuire la quasi paralisi funzionale si sono aggiunti rimedi atti solo ad aumentare intralci e complicazioni. Conseguenza principale la mancanza di limiti nelle competenze, incertezze, discussioni all'infinito, e quel che è il peggiore dei mali, la difficile individuazione delle responsabilità. A tagliar corto, tutti ricorrono ai capi più alti, presidenti e ministri, e si pretende che fossero non solo onniscienti, ma in condizione di aver tempo e resistenza fisica per tutti e per tutto. I capi, messi alle strette, decidono senza aver tempo di studiare, si debbono affidare a consulenti insufficienti e improvvisati, tendono a trovar compromessi lì per lì, vivendo alla giornata e impegnando la parola o la firma. Strano lo spirito di non pochi democratici: vogliono consigli e comitati, commissioni e giunte che discutano su tutto; lunghe conferenze e perdita di tempo. E poi, per disperazione d i trovare una via di uscita, si rimettono a l capo, non perchè sia onnisciente, ma per togliere a sè e agli altri la responsabilità che loro spetta. I capi anch'essi sono uomini; pur addossandosi l e noie degli altri cercano di cavarsela, e ricorrono anche essi ai comitati interministeriali deliberanti. Comitato dei prezzi, del credito, della ricostruzione, della cassa per il mezzogiorno, e chi più ne ha più ne metta. I o comprendo i comitati o commissioni interministeriali consultivi, che illuminino il ministro, mai delibe-


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rativi che lo vincolino. Su due cardini poggia la responsabilità di governo: sul ministro competente e sul consiglio dei ministri; ogni altro organismo deliberante a carattere intermedio annulla le due responsabilità fondamentali d i governo. Così tutti se ne lavano le mani perchè c'è un terzo ente collettivo, del quale nessuno può arrivare ad assumersi la responsabilità, CIR, CIP, CDC, CIM e così di seguito, che sottrae e non assomma la vera responsabilità.. Lo stesso accade nella burocrazia: le responsabilità sono e debbono essere dei direttori generali o dei capi divisione o del funzionario capo del servizio, quale i l ragioniere generale, o l'avvocato generale, fino ai gradi bassi della gerarchia. Invece si inventano consigli interni deliberativi, che vincolino persino i ministri; grave errore; dovrebbero essere sostanzialmente consultivi, lasciando libera la responsabilità dei direttori generali o altri capi servizio, nonchè dei ministri e sottosegretari, secondo le rispettive competenze. Quando poi le leggi esigono i concerti, le intese, fra quegli « stati sovrani » che sono i singoli ministeri nei rapporti reciproci ( e anche fra le direzioni generali di uno stesso ministero), allora la responsabilità decisiva sfugge dalla finestra e tutti se ne lavano le mani come Pilato. Certe volte ci capitano d i mezzo certi poveri cristi che non sanno come arrivare ad ottenere quel che loro spetterebbe. I n uno stato forte, in sostanza, si debbono sempre individuare tre responsabilità: quella politica di fronte a l parlamento; quella amministrativa di fronte ai capi gerarchici di ogni singolo ministero; quella contabile di fronte alla corte dei conti. Non parlo della responsabilità penale di fronte al magistrato, perchè in tal caso dovrei supporre un colpevole e un denunciatore, due figure che oggi non vengono a galla tanto facilmente, per i motivi che avrò occasione di mettere in evidenza altra volta.

Il secondo capo: la moltiplicazione d i enti accaparratori, inutili, e dannosi (in aggiunta a quelli esistenti e agli altri


creati per necessità o per imposizione del trattato di pace, o per patti internazionali), ha una storia che 'cominciò prima del fascismo, ingigantì sotto i l fascismo, e si trascina per strana mentalità politica e per intrighi burocratici e parassitari, dal fascismo in poi. Non basta dire esservi mille enti statali, parastatali e pseudo-statali; non basta deplorare lo sperpero del denaro, occorre aggiungere: facciamo punto e liquidiamo il liquidabile. Niente: è di ieri (29 gennaio 1952) il decreto del ministro Fanfani che sostituisce il commissario liquidatore dell'ente economico delle fibre tessili ancora in piedi dopo essere stato con decreto luogotenenziale del 17 settembre 1944 messo in liquidazione. Sette anni, quattro mesi e dodici giorni non sono affatto bastati per rilevarne i l patrimonio e proporne la « definitiva attribuzione ». Mi fermo perchè so di aver toccato un tasto che mette a nudo una delle piaghe purulente del nostro ordinamento amministrativo e passo al terzo punto: il centralismo statale e la invadenza dell'amministrazione pubblica in campi extra-statali, anche quelli delicati riguardanti i diritti della personalità. Il tema merita u n esame particolare. I dissensi fra i partiti e la diversità di vedute anche fra gli stessi iscritti alla democrazia cristiana, impongono una impostazione di principio alla quale io desidero dare solo un contributo, augurando che altri continuino il dibattito sul terreno teorico e su quello pratico. 30 gennaio 1952. (Libertas, 3 febbraio).

SINDACALISMO POLITICO E POLITICA DEL SINDACALISMO Ero certo di avere messi chiaramente i termini della crisi del sindacalismo operaio, ma l'articolo di Giovanni Spadolini mi obbliga a ritornare sul tema. La mia è insieme una valutazione teorica e una constatazione


storica. I1 sindacalismo, anche se nato fuori dello stato o contro lo stato ( l e due forme originarie) è in sostanza (C politico inserito nello stato; ovvero non è sindacalismo. La stessa negazione dello stato è una politica; lo stesso rivoluzionarismo operaio è una politica ; la lotta di classe è una politica. Inutile ricordare (C les bourses du travail » o u le camere del lavoro 1) dell'ottocento. Se queste cercarono di far solo della economia nei rapporti con i datori di lavoro, ebbero risultati insignificanti, parziali, e quasi nulli. Questo volevo ricordare a Pastore, che ripete spesso che i l suo è u n sindacalismo a-politico; per fargli capire che è politico in se stesso, quale che sia la strada che egli scelga, ovvero non sarà affatto sindacalismo. E veniamo a quell'altro barbaro termine di moda: CC a-partitico D. I miei esempi dimostrano che quando un sindacalismo non esprime u n partito determinato, - sia questo i l caso del laburismo in Inghilterra ovvero anche il caso del sindacalismo socialista dell'Europa occidentale del secolo scorso; come pure il caso dei sindacati cristiani nella Germania di Bismarck e più tardi il caso di quelli del Belgio-Olanda-Lussemburgo - cerca appoggio nei partiti più affini e nei parlamentari simpatizzanti. Prassi, quest'ultima, che fu delle trade unions 1) inglesi prima della costituzione del labour party, e che è stata la prassi delle unions americane. L'una e l'altra istanza: la creazione di un partito proprio O l'appoggio ai partiti esistenti, indicano il lavorio di inserimento dei sindacati nella vita politica dei propri paesi e quindi anche nella stessa vita dei partiti, quale ne sia la configurazione e la programmatica politica. Volere negare questo, e venirci a raccontare della C( a-partiticità 1) dei sindacati, che non si contaminano della politica del paese e neppure della politica (cosa sporca!) dei partiti, è volere non comprendere l a storia dello stato moderno che ha dato colore politico a tutte l e attività dove arriva l'ingerenza dello stato. Figurarsi se non è così oggi che lo stato vuole dire ad ogni costo la sua parola in ogni e qualsiasi affare, anche privato! Il prof. Spadolini non può contestare tutto ciò, nè potrà mai far passare per a-politico e a-partitico qualsiasi sindacato oggi


esistente nel mondo. Nè di ciò può farsene unica colpa a l comunismo se oggi tutti i sindacati sono sul piede di guerra politica; la colpa del comunismo è quella stessa del fascismo, l'avere cioè asservito i sindacati al partito, cosa assai diversa. Qui sta i l punto : la tesi che i l sindacato sia politico e quindi volendo o no si inserisca nella vita dello stato e in quella dei partiti è cosa ben diversa dalla prassi comunista che i l sindacato debba servire ai fini del partito. Non ho mai sostenuto un simile assurdo; nel mio articolo vi sono in proposito chiare affermazioni, dove ho scritto che « Pastore, volere o no, dovrà decidersi per i l sindacato politico, sia che faccia una politica propria, sia che accetti ( p u r con la propria autonomia) la politica democristiana ».Non si tratta di asservimento, ma di « politica propria » del sindacato e di politica del partito che rispetti l'autonomia sindacale. I n tutto ciò nulla c'è di « confessionale », tranne il fatto che l'accettazione di principi (marxismo-comunismo-socialismo democratico-scuola sociale-cristiana o cattolica) dà l a qualificazione alla politica dei sindacati come l a dà alla politica dei partiti. Spadolini, che conosce la storia non solo del marxismo italiano ma anche del cristianesimo sociale italiano, sa bene che, non ostante la Rerum Novarum e i congressi cattolici, i cattolici non crearono propri veri sindacati nè propria confederazione fino al settembre 1918. Può darsi che egli non abbia presente che perfino l'uso della parola sindacato fu contestata ai cattolici. Per comprendere l'aria del tempo, dovrebbe ricordare tutta la polemica tedesca fra sindacati cattolici e sindacati misti, cattolici e protestanti; vi erano infatti sindacati protestanti che con i cattolici fronteggiavano i sindacati socialisti. Tornando all'Italia, la confederazione bianca fu promossa da chi scrive insieme a pochi amici, proprio nello stesso periodo in cui veniva promosso il partito che poi si appellò popolare. Lo sviluppo delle due organizzazioni: la politica e l a sindacale, ambedue autonome l'una dall'altra, fu contemporaneo e interinfluenzato. Non vi fu nessun asservimento della confederazione al partito, vi furon anche diversità di vedute, contrasti e intese, secondo le fasi della politica, e la sorte finale fu comune quando


il fascismo sciolse prima il partito popolare, poi la confederazione bianca. Se l'on. Pastore con i suoi collaboratori fosse riuscito a contenere la classe operaia non comunista in unica confederazione, non a-politica nè a-partitica, ma politica e nell'intesa e l'appoggio con i partiti della coalizione del 18 aprile, avrebbe potuto presentarsi al paese come il vero riformatore politico. Colpa non sua, colpa della mentalità italiana che mette ad ogni passo pregiudiziali alle collaborazioni politiche e a quelle sindacali, abbiamo oggi ( a parte la comunista) tre confederazioni: la CISL, la UZL e la CISNAL; volere o no con ideologie, preconcetti e metodi politici, mascherati di sindacalismo ; o viceversa con ideologie, preconcetti e metodi sindacali mascherati di politicismo. Nè si dica che sono i cattolici a rovinare il sindacalismo italiano ; Gonella e altri hanno tirato le conseguenze politiche dello stato di fatto, perchè sentono che solo Pastore posa a puritano di un sindacalismo inesistente, definito apolitico e apartitico. A mio credere, nè Gonella, nè Ravajoli, nè altri di piazza del Gesù vogliono un sindacalismo confessionale N nel significato che d.ànno alla parola i laicisti di oggi; e neppure (vivaddio!) un sindacalismo « democristiano », cioè inquadrato nel partito politico; sì bene un sindacalismo autonomo con il quale liberamente si fa strada insieme nei campi della politica. Se questa strada non piace, non c'è altro sbocco che Pastore se ne assuma la responsabilità e faccia il suo partito « sindacalista », sia pure con la tragica prospettiva di preparare il terreno alla vittoria del comunismo. I1 1953 è alle porte. 29 gennaio 1952.

(La Via, 2 febbraio).

VOTO SEGRETO E COSTITUZIONE È probabile che la vertenza C Gronchi » (la chiamo così) sarà risolta prima che il presente articolo cada sotto gli occhi dei lettori. Ma ciò non h a rilevanza perchè il problema è ben


più importante che non sia stata alla camera la diversità d i vedute fra i l presidente Gronchi e il vice presidente Leone. I1 voto segreto nelle deliberazioni non personali e nell'approvazione finale delle leggi fu adottato dal parlamento subalpino, poi travasato nel parlamento del regno d'Italia; così per abitudine se ne usò e se ne abusò (cosa inaudita) nella costituente e finalmente è stato reintrodotto nel parlamento della repubblica. Ha quindi un secolo di vita, i l che vuol dire che è duro a morire. Fin dal i947 ho fatto rilevare più volte, in articoli diffusi e discussi, che non c'è parlamento che si rispetti che ammetta l'uso del voto segreto per l'approvazione di leggi, di mozioni e di ordini del giorno; che la storia del voto segreto i n altri paesi in tempi lontani indicò sempre diffidenza del potere regio O dittatoriale; non è conosciuto in Inghilterra che tiene il record della tradizione parlamentare; le antiche cortes spagnole lo ammettevano solo per eccezione quando l'assemblea lo avesse chiesto a voto palese di due terzi dei componenti. I1 modesto tentativo fatto al senato nel 1948, in sede di regolamento, trovò perfino i liberali contrari, sotto la speciosa scusa di difendersi, col voto segreto, dalle sopraffazioni della maggioranza. Altri disse che si trattava di difendersi dai comunisti. Ma questi, più furbi, sanno che nel voto segreto si incontrano - e si danno la mano con i borghesi, quando il votar palese l i dispaierebbe. Ma quale partito non ha sollecitato i voti comunisti, o almeno se n'è compiaciuto, per fare passare l a propria tesi o per vederla uscire trionfante dalle urne? Si ripete che il voto segreto è la difesa del parlamentare dalla disciplina di partito, dati i metodi di reggimentazione. 1 comunisti esigono la reggimentazione e sanno farla valere; nessun liberale o social-democratico si preoccuperebbe della disciplina comunista. Quella democristiana, in sette anni di costituente e di parlamento, si è vista quanto sia malferma (vedere le ultime votazioni alla camera). Nè di ciò mi dolgo, perchè io ammetto l'auto-disciplina e non la disciplina nel senso deteriore formalistico e caporalesco della parola. La verità è che il voto segreto è i l rifugio dei deboli, dei senza carattere, degli indisciplinati interiori che al di fuori


fanno i conformisti senza dignità. Se a costoro si sbarrasse la via del ritorno a Montecitorio o a Palazzo Madama sarebbe un gran vantaggio per il paese. La insistenza con la quale alla camera l'opposizione comunista richiese la votazione segreta perfino in un voto sul quale il governo aveva posto la fiducia, dimostrava la manovra alla quale serve un sistema così discutibile. Ed è deplorevole che nessun gruppo di deputati o senatori dei vari settori, abbia mai preso l'iniziativa di far modificare il proprio regolamento, per adeguarsi alla regola generale in democrazia, che esige sempre il voto palese (tranne i casi personali), perchè l'elettorato conosca e apprezzi la condotta dei propri eletti, e perchè ciascuno assuma pubblicamente la responsabilità dei propri atti. I1 caso del lo febbraio a Montecitorio merita un esame particolare, perchè per la prima volta è stato messo in dubbio se il governo possa richiedere la fiducia sopra un articolo d i legge, e chiestala, possa essere data a scrutinio palese. I1 presidente Gronchi, escludendo l'appello al regolamento fatto dal deputato Leone e insistendo per una discussione interpretativa, poneva apertamente la questione con queste assai gravi parole: se si ammette che il governo possa in qualsiasi momento porre la questione di fiducia e determinare, quindi, la votazione nominale, si arriva all'assurdo che è in potere dell'esecutivo di annullare una delle forme di voto concesse dal regolamento, cioè il voto segreto. )) (resoconto sommario). Giustamente il costituzionalista Ambrosini gli rispose che (C il governo avendo bisogno della fiducia del parlamento, ha sempre la facoltà di provocarne la manifestazione di volontà, e che anche in questo caso il voto del parlamento deve essere espresso in maniera palese 1). Che il presidente abbia cercato di mostrarsi obiettivo fra maggioranza e minoranze, può essere anche giustificativo del tono, delle insistenze e del seguito risentimento. Ma che l'on. Covelli arrivi a credere che la mancata votazione a scrutinio segreto faccia u crollare il fondamento del regime parlamentare >I dimostra che egli non sa neppure dove stia di casa il regime parlamentare. Poichè proprio il regime parlamentare viene offeso dal voto


segreto in genere; dalla preferenza data al voto segreto sul voto palese per appello nominale, in ispecie; dal voto segreto voluto pertino nell'affermare o negare la fiducia ad un governo, nel caso presente. E come, in tale caso, potere individuare le persone e i gruppi che avrebbero votato contro la fiducia per essere poi chiamati ad assumere la responsabilità di costituire il governo del paese? E quale controllo eserciterebbe sul parlamento il paese intiero se non riuscisse a sapere come e perchè un governo vada e un altro venga, chi lo mandi e chi debba surrogarlo? Non c'è parlamento nel mondo civile dove un governo venga mandato via con votazione segreta; come non c'è parlamento dove sia negato ad un governo il diritto di porre la questione di fiducia anche sopra l'emendamento di un articolo e specie sulla entità della spesa. In Inghilterra si propone la sfiducia diminuendo il bilancio o la spesa proposta di una sterlina, perchè si suppone che il governo senza quella sterlina, come segno tangibile di dissenso, non possa governare. In America, in regime presidenziale, non ci sono voti di fiducia; ma è il presidente, cioè il governo che chiede i fondi, o il parlamento che li dà o li nega o li decurta. Ma di rimbalzo, il presidente può mettere il veto ad una legge del parlamento, O rimandarla con un messaggio. Tutto all'aperto, niente voti segreti: benedetta democrazia! Ma in quella democrazia si ha il coraggio di negare perfino il voto attivo e passivo agli impiegati della capitale, mentre in Italia gli impiegati della capitale non solo hanno il voto attivo, ma possono sedere in parlamento e votare i propri aumenti di stipendio, senza sentire il dovere di assentarsi, nè di astenersi, come è fatto. obbligo a tutti i consiglieri comunali anche del più piccolo comune110 se venissero a beneficiare essi o i loro stretti parenti per un deliberato emesso dal consiglio stesso. Ed è perciò che nella nostra democrazia si arriva ad elevare a simbolo di tutela dei diritti del parlamento la mostruosità del voto segreto D. 4 febbraio 1952.

( I l Messaggero, 6 febbraio).


FARMACI E DEMAGOGIA AL SENATO Nella tradizione italiana la demagogia non stava di casa al senato come non sta di casa, normalmente, nel senato o « camera alta » degli altri paesi civili. Ma nell'Italia di oggi non manca di affacciarsi in forma insistente anche a palazzo Madama. Nell'affare dei « casuali », la demagogia trovò compiacente quella commissione senatoriale di finanza e tesoro che ha fama di rigidità, consentendo perfino il prelievo del 4 per mille sui mandati dello stato, delle regioni e delle aziende autonome a favore del personale del tesoro e della corte dei conti. Ora, più o meno, la stessa demagogia è tornata a interessarsi dell'affare dei farmaci di stato. Invero, i senatori proponenti sapevano bene che il governo aveva già presentato un suo disegno di legge in merito al regime farmaceutico, che è già all'esame della competente commissione senatoriale; ma intestati come sono, hanno voluto bruciare l e tappe per approvare di salto la proposta di legge di iniziativa parlamentare che prevede perfino la fabbricazione farmaceutica di stato. Regola costante e logica elementare imponeva il rinvio, per vagliare e confrontare le proposte governative con quelle di iniziativa parlamentare sulla base delle relazioni commissariali, per decidere con piena cognizione di causa. Se ciò avesse portato a qualche mese di ritardo, non sarebbe caduto il mondo, e si sarebbe anche evitato quel colpo di maggioranza che ferisce l'istituto parlamentare col proposito di imporre una soluzione di carattere tecnico-finanziario, che implica anche direttive e responsabilità governative ben precise. Quando poi si è arrivati alla copertura delle spese (mancando addirittura u n piano finanziario, a nulla dire del piano economico), non pochi senatori si mostrarono restii a sentire l a commissione di finanza e tesoro, e sol per poco prevalse la parola di buon senso dell'ex ministro Bertone, sulla richiesta del ministro Vanoni. L'alto commissario, avv. Migliori, si trovò in difficili condi-


zioni. Egli non fa parte del consiglio dei ministri, e quindi a rigore non poteva assumere a nome del governo la responsabilità di opporsi alla discussione immediata degli articoli del disegno di legge Pieraccini e C. Dal resoconto sommario del senato risulta solo che egli dichiarò di rimettersi al senato. Troppo poco secondo me, ma forse dato il clima, il meglio che poteva fare. Dallo stesso resoconto si rileva che il ministro Vanoni non fu molto efficace e può essere giustificato per avere egli cessato quel giorno dall'interim del tesoro. In sostanza, di fronte ad una presa di posizione dei proponenti, la resistenza della maggioranza (divisa) e del governo (convinto ma debole) ha portato all'ultima trincea, quella della copertura in base all'articolo 81 della costituzione. La previsione che si f a è che il tesoro, pur masticando amaro, sarà indotto a capitolare se la commissione di finanza e tesoro non prende netta posizione contro. Lo farà? La cosa è grave non solo per sè come indirizzo economico e politico deplorevole, ma principalmente per lo strano rovesciamento di posizioni tra governo e parlamento, che ne alterano in parte le. funzioni specifiche e il delicato equilibrio strutturale. I1 parlamento sorse per proteggere il contribuente dalle richieste di denaro delle monarchie dell'ancien ~égime.Questa funzione caratteristica è stata mantenuta sempre dai parlamenti di ogni paese fino alla prima guerra mondiale. I primi a scivolare nella demagogia della spesa furono i parlamenti europei continentali formati dopo la caduta degli imperi centrali; seguirono l'Italia e la Francia e la pagarono assai cara. Dopo la seconda guerra seguì l'Inghilterra. Oggi è questa la posizione: i governi sono costretti a preoccuparsi della stabilità della moneta assai più che i parlamenti, dove deputati e senatori fanno finanza allegrissima e fanno a gara a insistere per nuove spese, domandare nuovi stanziamenti, proporre nuovi enti costosissimi e relativi castelli in aria. Le proposte di legge di iniziativa parlamentare sono di già arrivate al migliaio, con una spesa così imponente, da non bastare tutta la « ricchezza 11, (come dire?) u il magro reddito » del popolo italiano a potervi fare fronte. Se poi ci si mettono i sindacati, i miliardi di spesa piovono a migliaia.


Quali i freni a tanta demagogia? Si doveva aver fiducia nelle commissioni d i finanza, quando al senato vi è un presidente-cerber0 che risponde al nome di Giuseppe Paratore, e vi è anche u n equilibrato ex-ministro delle finanze e del tesoro, quale l'on. Bertone; e in quella della camera dove si trova residente un fine esperto di finanza e per giunta avvocato generale dello stato, l'on. Scoca. Quelle commissioni fanno certo il loro mestiere, ma non sempre il loro dovere. Ora cedono perchè pressate dal governo, il quale capitola prima di combattere e poi combatte dopo aver capitolato (vedi affare degli statali); ora cedono perchè pressate dagli interessati che hanno avvocati fortissimi in seno alle stesse commissioni (affare dei « casuali I), affare dell'EAM e fra giorni anche affare dell'ente degli idrocarburi). I n simili casi, l e commissioni di finanza e tesoro vanno in cerca di formule equivoche per mascherare il crescente deficit dei bilanci statali. A proposito dei quali, sarebbe buona regola che il parlamento (che ha mille altre cose da fare) approvasse nell'anno in corso il resoconto dell'esercizio dell'anno precedente e caricasse il deficit netto accertato nello stato di previsione dell'anno seguente, come debito da pagarsi o da ratearsi secondo i casi; così di seguito anno per anno. Allora, quale che sia la linea Pella o linea Vanoni, i nostri parlamentari generosi col denaro del contribuente troveranno il freddo muro del deficit netto dei passati esercizi (che credo arrivi a tremila miliardi) reso evidente dai resoconti; sì da essere costretti a ripiegare nelle loro fantasiose iniziative di leggi e leggine tutte gravide di spese ma vuote di piani economici, veri giochi di società fatti per divertire il pubblico grosso e far godere i pochi interessati che plaudono (essi che conoscono l a verità) a nome del popolo (che viene ingannato). Al partito comunista non interessano le sorti del contribuente, la saldezza della lira e relativa capacità d i acquisto, il benessere del paese e l a solidità dello stato che ne derivano; ma è quello il partito che meglio sa toccare le corde demagogiche. Quale altro partito sarà di meno? Gli stessi liberali e cosiddetti indipendenti, che si credono i tutelatori dello stato, cedono agli istinti demagogici per guadagnare (essi credono) qualche voto

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a destra e qualche voto a sinistra: si è visto nell'affare degli statali ed è chiara la loro condotta nell'affare dei medicinali d i stato. Per strana aberrazione, non pochi parlamentari anche di esperienza e buon senso, dopo avere visto e constatato che quasi tutte le imprese statali e statizzate costano troppo, tengono alti i prezzi e sono assai male amministrate, cedono alle proposte di nuovi enti, come attratti da un influsso magico, nella speranza che proprio quello nuovo andrà bene. Ancora più strana cosa, il parlamento decide (come nei casi dell'ente idrocarburi o dei medicinali di stato) senza piani finanziari, senza piani economici, senza statistiche confortanti, senza esame di quel che si fa all'estero, senza nulla di serio che possa indurre l'uomo sensato a dare il suo voto con il minimo di convinzione. Si fa così a casa propria? Non esagero: basta leggere le striminzite e superficialissime relazioni messe avanti a simili disegni di legge. E si fa credere ai gonzi che tali enti si auto-finanziano (parola messa in circolazione a proposito degli idrocarburi e dei medicinali) e che saranno sorgente di ingenti guadagni, sottratti agl'ingordi capitalisti, e fatti incamminare (campa cavallo) verso le ampie casse dello stato. Naturalmente l'ultimo a crederci, chiunque esso sia, sarà il ministro del tesoro. 10 febbraio 1952.

(24 Ore, 13 febbraio).

CONTRIBUTI AGRICOLI UNIFICATI Si tratta di uno dei più grossi problemi della nostra agricoltura, per il quale non si è trovata fin oggi una soluzione adeguata, non ostante i voti, i reclami degli interessati e le molte discussioni in privato e in pubblico. Attualmente il carico annuo del contributo ascende a circa quaranta miliardi con l'aggiunta di quasi due miliardi di spesa per accertamenti e riscossione, oltre la spesa di riscossioni tar-

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- STcnzo

- Polifica di qtieaii anni.


dive fatte a mezzo degli esattori. I1 carico non è su tutta l'agricoltura italiana, data la esenzione dei coltivatori diretti. Non vi è chi possa negare che l'onere sia grave e tutto f a prevedere che dentro l'anno o nell'anno prossimo vi sarà u n ulteriore aggravio, in dipendenza delle esigenze degli istituti di previdenza e d i un migliore adeguamento delle relative pensioni, indennità, assegni familiari, servizi sanitari e così di seguito. Ammesso come punto di partenza che i servizi previdenziali sono necessari e non possono essere soppressi nè ridotti, occorre orientare i l problema su due finalità nettamente distinte: il riordinamento degli attuali enti su basi tecnico-amministrative più economiche nella spesa e più redditizie nell'impiego; e la divisione del carico contributivo sul produttore, sul lavoratore e sulla generalità. F u un atto improvvido e demagogico quello di volere esentare i l lavoratore da un contributo proporzionale al salario; l'interessato al beneficio deve, anche lui, contribuire a formare il gettito necessario all'assistenza sociale. La percentuale di contributo inciderà sul salario per quel poco che non potrà essere economicamente riversato sulla produzione. . I1 terzo a concorrere a tali spese deve essere l a comunità d i tutti i contribuenti a mezzo dello stato, perchè il servizio di assistenza h a carattere sociale di interesse pubblico, non essendo lecito che il lavoratore e la sua famiglia non abbiano mezzi adatti di vita quando sono divenuti inabili al lavoro per malattie, infortuni e vecchiaia. A completare il quadro assistenziale deve ammettersi la libera esistenza di enti previdenziali, che possano fare concorrenza ai mastodontici enti statali, i quali saranno così costretti a mettersi sul piede della razionalità amministrativa e tecnica facendo a gara a migliorare i servizi. Ma questa è un'altra questione che riguarda tutto l'orientamento della nostra economia e della politica statale. Ne fo cenno, come si fa nei bilanci dello stato d i certi articoli di previsione d i spesa: « per memoria », sperando che non si tratti di un « per memoria » di qualche defunto. Queste le basi di una riforma razionale a lungo respiro. Oggi però premono l e richieste immediate perchè siano corrette le


patenti ingiustizie del regime attuale, che dànno motivo a continui reclami, lamentele ed agitazioni. A questo tende un disegno di legge che il ministro Rubinacci ha in elaborazione, dove si introducono disposizioni degne di nota. La prima riguarda la commisurazione dei contributi ai salari medi per regione o per zone, mentre oggi il contributo è commisurato a una media nazionale fissata per decreto. L'altezza del salario è indice di un maggiore reddito produttivo della azienda. Non è possibile, in agricoltura, tenere unico metro per le produzioni ricche quali le saccarifere e le agrumarie, e produzioni povere o in crisi quali quelle granifere di certi terreni aridi del mezzogiorno. La differenziazione, come è data per i salari, che rispondono a certo tenore di vita locale, è data anche per i redditi agricoli, quali risultano dalla classifica del terreno e del reddito catastale. Questo secondo criterio è stato accettato dal ministro proponente a correzione del primo che riguarda i salari, potendo avvenire che lo scarto fra salari e redditi produttivi sia notevole, ed è giusto combinare i due criteri per fissare la media regionale o di zona agraria. Un terzo provvedimento, richiesto dalla politica montana del governo, è stato molto opportunamente previsto, riducendo i contributi agricoli unificati del 50 per cento nei territori dei comuni dichiarati zona montana. Naturalmente anche qui occorrono delle correzioni fra le diverse zone agrarie; la decurtazione a metà quindi viene fatta sulle medie dei salari e del relativo reddito catastale per regione o per zone. A queste tre provvidenze « rubinacciane », la commissione tecnica centrale del comitato per il mezzogiorno h a aggiunto una quarta così formulata: « che siano esentati dal pagamento dei contributi i piccoli proprietari conduttori diretti di terreni estesi sotto i tre ettari e il cui reddito catastale non superi una certa quota da stabilirsi in tabelle da rivedersi ogni triennio, tenendo conto del tipo di cultura e del reddito medio di zona D. Solo il lettore che non conosce il tipo dei piccoli proprietari-conduttori, specie nel mezzogiorno e nelle isole ma anche nella media e alta Italia, può rimanere ~ e r ~ l e s s oSi. tratta, invero, di piccoli artigiani, di operai, di impiegati privati e


d i enti locali, d i maestri elementari e scuole medie, piccoli pensionati, i n genere coloro che hanno salari, assegni e redditi ben inferiori alle paghe degli stessi operai. Tutti costoro avranno ereditato, avuto in dote o acquistato con risparmi strappatisi di bocca, il campicello di uno o due ettari, dove han messo ~ o c h ialberi da £rutta, riserbando ~ i c c o l ezone alla coltivazione del grano o dell'uva, così da avere i prodotti necessari alla famiglia. Ebbene, costoro sono aggravati dei contributi agricoli per il fatto di mandare di tanto in tanto qualche operaio a fare lavori stagionali, pagando un aggravi0 annuo da tre a quattro volte la imposta e sovrimposta fondiaria. Costoro debbono essere esonerati come lo sono i coltivatori diretti, con un sistema di accertamento che escluda le culture redditizie. Si deve aggiungere che in molti casi, gli stessi proprietari, specie artigiani e pensionati, fanno da sè quei lavori meno pesanti che possono dilazionarsi nel tempo senza danno nel ritardo; sì che la mano d'opera pagata è ridotta a dati momenti stagionali indilazionabili. La giustezza della richiesta parla da sè, e risponde alla politica della piccola proprietà. È vero che nell'uso comune si parla di piccola proprietà a contadina D; ma poichè non siamo più in regime di servitù della gleba D, quel contadina non può indicare una discriminazione fra coltivatori diretti e conduttori diretti d i piccole proprietà ed esentare le prime aggravando le seconde, come è il metodo presente. Resta un problema: come provvedere a colmare il vuoto degli incassi derivante dalla differenza dei contributi per zone, dalle riduzioni al 50 per cento delle zone montane e dalle esenzioni proposte? Si tratta, a occhio e croce, di quasi cinque miliardi. Tre le strade: l a prima è la più difficile: riduzione nelle spese di amministrazione degli enti assistenziali per riduzione d i paghe e di personale e per migliore politica di investimento; - la seconda, distribu-ire per medie di salari le percentuali di carico per quella parte che dipende dallo spostamento di rapporto salariale medio; - la terza che riguarda le esenzioni del 50 per cento delle zone montane e della totalità dei piccoli proprietari conduttori diretti, gravare il deficit sullo stato, come


contributo della comunità al complesso previdenziale. Si tratterà di qualche miliardo. Così verrebbe iniziata la revisione del sistema che deve portare ad associare insieme nel carico previdenziale produttori, lavoratori e stato. 12 febbraio 1952.

(La Via, 16 febbraio).

VOTI DI FIDUCIA E VOTI SEGRETI Che Franco Bozzini abbia potuto scrivere che « la camera può manifestare la sua volontà anche, e principalmente, col voto segreto » mostra tale stato d'animo negli ambienti liberali da sperare ben poco, da questo lato, per l'avvenire della democrazia italiana. Egli non ignora di certo ( e come poterlo ignorare?) che la votazione segreta applicata alle leggi, alle mozioni e agli ordini del giorno, non esiste in alcun parlamento che si rispetti, C non è affatto di tradizione nel parlamento inglese che ha una storia, nè del congresso americano che ha una storia, e neppure nei parlamenti europei, sia quelli che hanno una storia, sia quelli che non ne hanno affatto. I n Italia questa infezione venne dalla Francia della restaurazione. Prego Franco Bozzini di fare ricerca se dal 1848 al 1924, la camera subalpina e la italiana abbiano mai dato un voto di fiducia a scrutinio segreto. Io non lo ricordo, ma io ho 80 anni e posso avere dimenticato quel caso speciale nel quale un governo si sia dimesso in seguito ad una votazione segreta; ma ben ricordo che C( posta la fiducia » la votazione, anche nel parlamento italiano, è stata sempre palese e per appello nominale. Bozzini mi risponderà: « questione di costume non di regolamento n, perchè il regolamento non esclude la possibilità dell'esercizio del diritto del deputato a chiedere la votazione segreta anche per la questione di fiducia. Appunto: « questione di costume parlamentare n; costume di dignità per il deputato


che non cerca nelle pieghe del regolamento il modo di evadere dalle sue responsabilità verso il corpo elettorale; e costume di setta interpretazione del regolamento che non è fatto per coprire le debolezze dei parlamentari. E veniamo alla interpretazione del regolamento della camera, che ha dato al voto segreto la prevalenza sul voto palese per appello nominale. Per quanto io deplori una tale disposizione che fu in parte corretta nell'altro ramo del parlamento, non posso negare che il presidente della camera sia obbligato a farla osservare; mai però nelle votazioni sulle quali venga dal governo posta la questione di fiducia. Le affermazioni di Bozzini in proposito non hanno peso. Egli suppone anzitutto che i casi di voto di fiducia siano solo quelli previsti nell' art. 94 della costituzione. Con quell' articolo i costituenti vollero circondare il voto di fiducia con garanzie procedurali, tali da evitare, some disse l'on. Ruini, u gli assalti alla diligenza o « le bucce di limone » usate dai crisaioli per far cadere i ministeri. Onde furono poste tre condizioni: che il voto contrario su una proposta del governo non importi obbligo di dimissioni; che la mozione di sfiducia debba essere firmata da almeno un decimo di componenti della camera; che tale mozione non possa essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione. Nel caso che sia il governo a chiedere il voto di fiducia, non si può parlare d i bwce di limone o di assalti alla diligenza; questo credo che sia chiaro anche ai non parlamentari; e non occorreranno nè la firma del decimo nè i tre giorni d i attesa, e si potrà arrivare al voto seduta stante. Non è ammissibile l'ipotesi che ci possano essere deputati che chiedano, in tal caso, il voto segreto in base all'art. 93 del regolamento; non solo per via del « costume parlamentare » di cui sopra; ma anche per via della retta applicazione del regolamento, che non può essere interpretato con criteri farisaici « lettera e non spirito D, ma con criteri logici (che sono anche evangelici) « spirito sopra la lettera >i;implicando il voto di fiducia la decisione del governo di dimettersi nel caso d i voto contrario e quindi indicando una designazione implicita per la soluzione della crisi. In sostanza voto segreto e fiducia non


sono combinabili « per la contraddizion che no1 consente direbbe Dante. Bozzini, per evadere le strette della logica, arriva a pensare che il vero voto di fiducia sia quello promosso dal parlamento o chiesto dal governo sull'indirizzo politico, e non mai quello posto dal governo su questioni particolari. Da quale prassi parlamentare italiana o straniera Bozzini tiri questa conseguenza non riesco ad indovinare. Basterebbe leggere i giornali francesi di questo dopo guerra ed esaminare tutti i voti di fiducia chiesti dai ministeri francesi in sette anni, per rendersi conto che la distinzione non regge. E se il nostro De Gasperi in quattro anni ha chiesto due sole volte il voto di fiducia, non si può far passare, come vuole Bozzini, quale coartatore della volontà libera della camera dei deputati, quasi avesse fatto un colpo di stato. In fondo, questi difensori del voto segreto e della libertà del parlamento hanno altro nella testa; non vogliono il regime di maggioranza quando la maggioranza non è nelle loro mani; e credendo di difendere la democrazia, ne minano le basi. Bozzini ha però buon gioco, quando mette in corrispondenza la pretesa violazione del regolamento da parte dei democristiani per far piacere al governo, con le deplorazioni del direttori0 del gruppo ai propri deputati che votarono contro o si astennero. I lettori dei miei articoli sanno ciò che io penso della disciplina di gruppo in parlamento. Ma Bozzini, che ha tanto rispetto del regolamento, dovrebbe ricordarsi che da questo dipende la formazione parlamentare dei gruppi che sono l a causa della partitocrazia. I1 sistema di richiamo alla disciplina non è solo italiano; Bozzini può informarsi di quale autorità godano i « whips » nel parlamento inglese, così da essere definiti nel vocabolario di Oxford (che non è del 1952): « whip: persona che h a responsabilità, o che vi partecipa, per la disciplina e tattica dei partiti politici quali le disposizioni scritte per la presenza e le votazioni )I. Ma non sono io a difendere gli eccessi del metodo, nè a invocare i « whips » per la disciplina delle maggioranze. 15 febbraio 1952.

(il Popolo, 19 febbiaio).


ELEZIONI 1952 E 1953 Preoccupazioni e previsioni Non so se oggi capiti lo stesso, ma poco meno di settant'anni addietro, quando io ero scolaretto di prima ginnasio, leggevo nei manuali d i storia che a Bisanzio nell'imminente pericolo dell'invasione della Mezzaluna, si discuteva di teologia. Tale notizia non entrava nella mia testa nè in quella dei miei colleghi ».Nè il maestro (allora non si chiamava insegnante e nemmeno professore) ci dava maggiori lumi; tutti a dire che erano cose che accadevano nel paese dove (C si bizantineggiava D. Spero che così non diranno i nostri posteri, specie gli scolari di prima ginnasio, se dopo una vittoria elettorale dei. comunisti, gli italiani di oggi avranno perduto la libertà, saranno passati al di là della cortina di ferro e non avranno modo di ritornare a essere italiani e liberi per colpa di quel u laicismo n e d i quel pericolo clericale D, che non fece loro capire l'approssimarsi del nemico. Mezzaluna del secolo decimo quinto a Bisanzio o Falce e Martello del secolo ventesimo a Roma, le situazioni sono le stesse. Si discuteva l à e si discute qua ; non ci si intendeva là, e non ci si intende qua, per via di questioni teologiche. Proprio così: questioni teologiche, che però nascondono ideologie e sentimenti contrastanti; preoccupazioni e pregiudizi terra terra, interessi elettorali e desiderio di potere, e anche puntigli di primato e nobiltà politica (liberali) e di fiducia e tradizioni al classismo operaio (socialisti democratici) che li spinge a sollevare problemi teologici (proprio teologici) e bizantineggiare anche oggi sullo stato laico o sul laicismo di stato, sul partito confessionale e sulla possibile clericalizzazione della democrazia cristiana ; sull'interferenza elettorale dei comitati civici e sul significato della presidenza Gedda. La stampa più squisitamente sensibile agli interventi papali h a messo fuori causa i l papa, anzi ha sottolineato con rispetto il suo recente intervento. Ma (cedendo all'istinto laicista) h a manifestato un certo malessere per l e deprecabili conseguenze

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di un intervento dell'azione cattolica nella politica di partito. Opportunamente, la stessa stampa, pur mettendo le mani avanti, conchiude per un'intesa fra i partiti democratici. Ci sono quelli che arrivano a includere, fra tali partiti, anche quello monarchico; altri vanno più in là e non escluderebbero il MSI o almeno l'ala costituzionale dei missini. I liberali da parte loro han gettato il grido di allarme: (C il pericolo clericale incombe! 1). Benedetti loro: sono un manipolo di capitani con qualche colonnello di contesa auto-investitura, con soldati in ordine sparso, e si compiacciono di gettare il panico alla vigilia delle amministrative. Agli allarmati e agli allarmisti vorrei dire alcune verità di fatto che dovrebbero farli ricredere o almeno dar loro motivo di riflettere prima di accendere il fuoco della discordia. I cattolici italiani, dopo lungo periodo astensionista più o meno generale, entrarono pian pianino nella vita pubblica parlamentare fin dal 1904, quando vennero alla camera i primi due deputati: Cameroni e Paolo Bonomi di Bergamo. Altri vennero nel 1909 fra i quali Mauri, Meda, Micheli e Rodinò. Altri fece entrare Giolitti col partito Gentiloni. Nel 1915 i cattolici parlamentari votarono per la guerra all'Austria, relatore Meda. Gli storici del tempo potranno cercare l'appello dell'azione cattolica, presidente Dalla Torre e segretario generale chi scrive questo articolo e vedranno la perfetta lealt-à dei cattolici al paese. I1 resto è conosciuto. Creato il partito popolare nel 1919 nella piena lealtà istituzionale, i cattolici hanno sempre sostenuto le libertà politiche come base della democrazia costituzionale e del sistema parlamentare. Essi posero le premesse psicologiche e politiche per la soluzione della questione romana senza mai farne una rivendicazione di partito. Nella difficile avventura fascista seppero rivendicare al congresso di Tonno (1923) i principi di libertà; furono solidali con i partiti antifascisti dell'Aventino (presieduto da De Gasperi); subirono lo scioglimento del partito e, nella grande maggioranza, mantennero fede ai loro principi. È un decennio che la democrazia cristiana è sugli spalti per il benessere del paese, cercando sempre una collaborazione (non necessaria dal 1948 in poi) senza mettere condizioni «con-

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fessionali agli altri partiti democratici cosidetti « l a i c i » . Linea sempre uguale, sempre tenuta per convinzione di capi e di masse dal 1904 al 1952 (quasi mezzo secolo). Cosa pretendono i laicisti per convincersi che non ci sono iii Italia pericoli di (C clericalismo 1) (nel senso dato alla parola dai laicisti d i ieri e di oggi); e che ogni polemica in merito è pretto bizantinismo 11, che per quelli in mala fede nasconde merce di contrabbando; e per gli altri in buona fede, rivela vecchi pregiudizi, sentimentalismo incontrollato, ignoranza di quel che sono e di quel che vogliono i cattolici italiani. Se dall'Italia passiamo ai paesi europei a noi noti: Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Francia, Germania e Austria, dove i cattolici dall'ottocento ad oggi, militano in partiti detti sociali cristiani o sociali cattolici, e democratici cristiani e addirittura cattolici (Belgio e Olanda fino alla seconda guerra mondiale), troviamo la stessa lealtà alle istituzioni parlamentari, lo stesso rispetto alle libertà politiche, la stessa cura a evitare motivi di attrito sul terreno delicato dei rapporti fra chiesa e stato. Ma allo stesso tempo volontà a non essere sopraffatti nelle questioni di principi e di programmi. I1 punto che giustifica un certo risentimento da parte nostra, è questo: noi non vogliamo essere sempre sospettati e sorvegliati dai partiti con i quali collaboriamo. Questi dovrebbero comprendere che senza l'apporto dei democratici cristiani l'Europa occidentale oggi sarebbe più o meno dominio comunista. Nè c'è possibi1it.à oggi che gli altri partiti possano in Europa fare a meno dell'apporto della democrazia cristiana. E allora? Abbasso i bizantiniani; o meglio, rimandiamo le questioni bizantine o no, quando abbiamo chiuso la porta alla dittatura. Intanto bisognava aver fiducia che i l papato, e l'azione cattolica che ne dipende, non ha certo alcuna intenzione di indebolire il fronte anticomunista che deve rinnovarsi e consolidarsi non solo per le elezioni politiche del 1953, ma anche per quelle amministrative, sia pure di minore importanza ma certo di grande sensibilità per la capitale e per i l mezzogiorno, e quindi anche per l'avvenire dell'Italia. 18 febbraio 1952.

(Realtà Politico, 23 febbraio).


RINNOVO DEL PARLAMENTO : 1953 o 1954? Da quando fu lanciata l'idea (agosto 1951) di rendere contemporanee le elezioni per la camera e per il senato, nessun passo pratico si è fatto in avanti, non ostante la rapida formazione di un'opinione pubblica a favore della proposta. Dico nessun passo perchè fin oggi non si è arrivati ad alcun accordo sul disegno di legge per la modifica dell'articolo 60 della costituzione dove è scritto: La camera dei deputati è eletta per cinque anni, il senato della repubblica per sei D. Una legge modificata di tale disposizione dovrebbe seguire la procedura dell'art. 138 della costituzione: due letture per ciascuna camera a distanza di tre mesi l'una dall'altra; seconda lettura approvata da non meno della metà più uno dei componenti di ciascuna camera; diritto di referendum fra tre mesi se in una delle due camere non siano stati raggiunti, nella seconda votazione, i due terzi dei componenti. A rendere meno spedita la modifica dell'art. 60 è venuta fuori la proposta di immettere nel senato un certo numero di senatori di diritto, proposta fin oggi non avallata dai gruppi senatoriali, ma fatta passare sotto il nome autorevolissimo del presidente del senato. Questi ( a mia conoscenza) non ha avallato alcuna proposta concreta e non l'avallerebbe finchè non fosse sicuro del successo con l'adesione preventiva non solo del più numeroso gruppo del senato, il democristiano, ma anche del governo e degli indipendenti, nonchè con la benevola considerazione del gruppo comunista. Comunque sia, il fatto è che da parecchio tempo è allo studio una proposta di riforma del senato, sulla quale avrò agio a ritornare ribadendo quanto ho già scritto in proposito, anche per il fatto che su questo punto dovrebbero cercarsi accordi con il partito comunista. È mia convinzione (potrò sbagliare) che simili trattative, se fatte alla vigilia delle elezioni che dovranno risolversi in una lotta a fondo contro il comunismo,


squalificano i promotori, i gruppi e i partiti, disorientando, per giunta, gli stessi elettori. Ciò posto, è assai dubbio che dentro il presente anno si possa arrivare all'approvazione di una tale legge; e se per caso se ne otterrà in tempo l'approvazione, non sarà ossib bile ottenere i due terzi di voti tanto a Montecitorio che a Palazzo Madama. Se 50 deputati lo domanderanno, ovvero 500 mila elettori (più facile la prima ipotesi), si andrà difilato al referendum, che sarebbe una specie di manovra generale in attesa delle elezioni, mobilitando due volte a breve distanza il corpo elettorale; cosa fatta apposta per facilitare i risultati del partito comunista. È chiaro che per qualsiasi iniziativa di legge costituzionale il pericolo prospettato è immanente per via di quei 105 senatori d i diritto che i costituenti, con evidente abuso di potere, fecero entrare a Palazzo Madama per la prima legislatura, regalo questo che certi senatori, senza vero senso di responsabilità, vorrebbero ripetere non solo per la seconda legislatura, ma per sempre, data la proposta dei senatori a vita di diritto. E allora? Ecco circolare sottovoce una proposta nuova, pari alla simpatica leggenda di Maometto, il quale, visto che la montagna non andava a lui si decise di andare egli stesso verso la montagna. Elezioni abbinate si; ma non potendo o non volendo l'attuale senato finire i suoi giorni nel 1953, si ricorrerebbe all'espediente di dare alla camera dei deputati un altro anno di vita, fino alle elezioni senatoriali dell'aprile 1954. I senatori farebbero volentieri e alla unanimità un tal dono ai colleghi di Montecitorio; e i deputati, abbassando gli occhi come novella sposa, l'accetterebbero anch'essi alla unanimità, e non ci sarebbe il pericolo di referendum per la mancanza dei due terzi. Forse si opporrebbero i monarchici e i missini delle due camere per il ritardato aumento dei loro gruppi, come sperano; ma forse anche per loro: meglio oggi l'uovo che domani la gallina. La proposta, se accettata, comporterebbe degli obblighi assai importanti verso il terzo incomodo che è il paese, il quale assi. sterebbe alla scena tra sorpreso, incuriosito e disorientato. Si tratta, nella ipotesi che stiamo esaminando, di un forte cambiamento psicologico negli atteggiamenti del parlamento e


del governo. Oggi la camera si sente moritura ed affretta la discussione di quelle leggi che non possono dilazionarsi, che hanno riflessi elettorali, o alle quali, per buono o cattivo volere, si dànno riflessi elettorali. Non è questo un privilegio italiano: tutto il mondo è paese. Negli Stati Uniti d'America avviene lo stesso ogni due anni e in forma più intensa ogni quattro anni, quando cadono le elezioni del presidente. Se passa la proposta di proroga al 1954, la psicosi elettorale sarà di botto smorzata e nei due anni dovrebbero affrontarsi problemi legislativi di reale interesse costruttivo. Sorge la necessità di portare fuor del pelago alla riva i disegni d i legge sulla corte costituzionale, il referendum, l'ordinamento sindacale, quello del consiglio dell'economia, la riforma dell'amministrazione e della scuola, la fissazione delle incompatibilità parlamentari, la revisione degli organi speciali di giurisdizione di cui alla disposizione VI e la revisione e il coordinamento previsto dalla disposizione XVI della costituzione, nonchè quanto è prescritto alle disposizioni VI11 e IX. Sarebbe assurdo lasciar passare l'attuale legislatura ampliata di un anno senza eseguire tutti gli impegni costituzionali, all'esame dei quali, meno la materia della VI, si sarebbe già dovuto procedere da tempo. Le leggi elettorali comportano una revisione tecnica e un aggiornamento politico. Io sono ancora dell'opinione che se non si ha i l coraggio di mantenere la proporzionale, si debba ritornare al sistema uninominale. Gl' ibridismi, i premi di maggioranza o simili, sono equivoci e andrebbero scartati. Evidentemente in tal campo la scelta è schiettamente politica e per ciò stesso non si può fare sotto la psicosi elettorale, ma a distanza di tempo dalle elezioni. Purtroppo si ritarda per quelle intese di partito al di fuori del parlamento che sogliono creare l'antitesi fra « camera » e « camerini N. Per i compiti suddetti e per mantenere fiducioso il paese per altri due anni, occorre un gabinetto formato a questo scopo. Purtroppo dall'estate del 1949 ad oggi il governo ( a parte i raggiustamenti che non sono stati nè vere crisi nè veri rimpasti) ha avuto una diminuzione di consistenza non tanto per via dell'uscita dei socialdemocratici e dei liberali, ma per via della


permanente discussione di tali partiti (ammessa anche dalla democrazia cristiana) di un possibile ritorno e di un negato ritorno al governo. Se passasse l a legge di proroga della camera ci dovrebbe essere una vera crisi e la formazione di un governo saldo con posizioni nette nel seno del partito di maggioranza e senza tenere aperto l'uscio a metà; liberali e socialdemocratici dentro o fuori: collaborazione e fiducia ovvero critica e opposizione costituzionale. Un governo ringiovanito in un parlamento di ripresa per altri due anni fino all'aprile del 1954. Ecco tutto. È possibile ciò? Se non sarà possibile, bisogna tentare le elezioni contemporanee dei deputati e dei senatori nell'aprile 1953; e se ciò non sarà possibile si dovrebbe arrivare allo scioglimento contemporaneo delle due camere e ad un appello al paese, dentro il presente anno. Sarà meglio il nuovo parlamento che ci manderà i l paese, e non più l'attuale con i l suo essere e non essere, fare e non fare, con permanente discussione fra i partiti se entrare o non entrare nel governo, se collaborare o non collaborare, con tentativi di unificazione o riunificazione, di tendenze e di sbandamenti, di critiche e di preoccupazioni sempre crescenti in un clima di dubbi, di attese, di ansie, tanto più pericoloso quanto gli avversari si mostrano sicuri e lavorano sodo a minare la compagine del paese. A loro giova l'attuale diffidenza reciproca fra i partiti, l a levata di scudi dei laicisti contro il pericolo clericale, i dissensi fra i cattolici, l'indebolimento della democrazia cristiana, le difficoltà pratiche di governo quasi unicolore che sciupa e stanca, il disorientamento alla base. I n sostanza: mentre gli avversari sanno quel che vogliono e lavorano di conseguenza, i partiti democratici, tutti, non sanno quel che vogliono, per le imminenti lotte elettorali e quindi per l'azione complessa e ardita che deve precedere per una e&cace difesa dell'Italia dal pericolo comunista. 25 febbraio 1952.

(La Via, 1 mano).


RIFORMA DEL SENATO Non si tratta di una vera « riforma » del senato; si tratta di un'altra « immissione di senatori di diritto, come fu una cc immissione » quella del 1948 decisa ( o meglio auto-decisa) dagli onorevoli costituenti interessati con il benevolo voto degli onorevoli costituenti semi o quasi-semi interessati. Perchè il pateracchio » della disposizione transitoria 111" fu deciso e votato anche dagli stessi 107 beneficiati, i quali non si astennero, come avrebbero dovuto fare, e passando automaticamente al senato fecero posto ad altrettanti 107 futuri deputati che rafforzarono notevolmente le loro probabilità di nomina: vermicelli fatti in casa a duplice scopo attivo e passivo! Ora si vuole ripetere qualche cosa di simile che metta a l sicuro, se non tutti gli attuali 93 senatori di diritto nella presente legislatura, due buoni terzi di sicuro, secondo il progetto studiato, anzi studiatissimo, con delle ipotesi che possono portare ( e perchè no?) ai quattro quinti. Poiché interessa ai partiti sapere il conto di dare e avere, ecco quale sarebbe, nella ipotesi dei due terzi, il colore dei futuri senatori di diritto: democristiani 18 che scenderebbero a 16 perchè due dei contemplati, De Gasperi e Gronchi, ripeterebbero il gesto di restare a Montecitorio; social-democratici 14 che scenderebbero a 13, perchè Saragat imiterebbe De Gasperi; gruppo misto 14; socialisti nenniani 6 ; comunisti 4, da ridurre a 3 perchè Togliatti resterebbe deputato; repubblicani, clemocratici d i sinistra e liberali 2 ciascuno. Nella seconda ipotesi avvantaggerebbero principalmente comunisti e nenniani. Primo problema: nomina a vita o nomina solo per l a 2" legislatura ? La prima ipotesi è la più desiderata da molti degli interessati, che dicono di disinteressarsi dell'affare mentre si agitano amici e compari; la seconda ipotesi ripresenterebbe a sei anni di distanza l'angoscioso problema ( p e r i superstiti di allora) di un'altra « riforma 1) (sicuro: riforma) del senato, per dare modo di tenere ancora per un altro sessennio i l rispettivo seg-


gio senatoriale; e dare anche ai « vinti » di Montecitorio la possibilità di sedere a Palazzo Madama. E qui sorge un secondo problema: numero chiuso o numero illimitato? I1 primo farà affollare alla porta del senato tutti gli u aventi diritto » in attesa d i un libero posticino. I1 secondo altererebbe il numero dei senatori elettivi con un continuo flusso di coloro che arrivati al traguardo delle tre o quattro legislature (quelle vere e quelle a titolo colorato, come vedremo più avanti), a poco a poco renderebbero il senato una succursale di Montecitorio, non so se albergo di 1' o di 2" classe. Quale la ragione, mi si domanda, che una tale riforma auspicata da tante persone e giornali autorevoli, mi trova così ostile, anzi ostilissimo? La ragione è molto semplice: una immissione d i senatori di diritto a numero illimitato alletta i deputati che vogliono evitare l'alea delle elezioni; aumenta l'ingerenza dei partiti che interverrebbero premendo sui proprii deputati uscenti a optare per il senato col fine di fare posto ad altri candidati per la camera; priva la camera della esperienza dei deputati anziani, mantenendo una maggioranza di giovani inesperti spesso timidi o presuntuosi; altera l'equilibrio dei gruppi politici e deforma la maggioranza governativa togliendo o riducendone i margini necessari, e così mettendo il governo alla mercè dei piccoli gruppi che divengono arbitri dell'assemblea. Quale è stata la u tabe » dell'attuale senato? Proprio il fatto di una mancata maggioranza governativa, e la necessità di giocare fra i gruppi e i gruppettini, concedendo, transigendo, tollerando. I1 governo di coalizione è sempre un governo debole; ma quando neppure la coalizione varrà ad ottenere una maggioranza stabile e solida, si arriverà all'assurdo che il governo diventa prigioniero dei gruppettini che fanno da perno, oppure, in date circostanze, prigioniero della stessa opposizione. E se l'opposizione si chiama comunismo, i ricatti saranno frequenti e gli effetti nel paese assolutamente deleteri. Ha potuto la maggioranza senatoriale di questi anni affrontare un solo problema di interesse nazionale e sociale i n opposizione al comunismo e farlo passare? La legge sui sindacati è ancora là e non passa; quella di ritocco di alcuni articoli del


codice penale per la difesa del paese è ancora 1,à e non passa. I piccoli gruppi non sono disposti a far la lotta al comunismo con i fatti. Si è visto più volte nelle votazioni aperte e assai più i n quelle segrete; il gruppo democratico cristiano. h a avuto diverse volte sulla coscienza l o stesso peccato. Anche la « riforma s del senato che si vuol portare avanti bisogna contrattarla. Ed ecco la proposta «cavallo di Troia pronta oggi, come fu pronta al 1947. Allora si introdusse alla 111" disposizione l'aggiunta a favore d i coloro che avevano « scontato l a pena della reclusione non inferiore a cinque anni in seguito a condanna del tribunale speciale fascista per l a difesa dello stato » ; certi « ingenui » costituenti credettero alla voce fatta correre che si trattava di sei o sette futuri senatori (sei o sette comunisti valeva, nella testa di parecchi, l a contropartita d i una sessantina di liberali, socialisti e democristiani). Oggi si propone di mettervi coloro che furono membri del comitato di liberazione nazionale dell'alta Italia. Ho paura che i senatori che desiderano rimanere incollati ai loro seggi, ingoieranno i l rospo dei comitati di liberazione (dell'alta Italia, s'intende) per avere i voti dei comunisti e far passare la « riforma D. Per potere dire basta! a simili intrighi, bisogna dire No a coloro che vogliono far contare per una legislatura l'appartenenza ai ministeri dal 1944 al 1946, sotto il pretesto che quei ministeri avevano « potere legislativo »; dire No a coloro che vorrebbero far contare per una legislatura la consulta fatta su designazione del C.L.N. facendola passare come espressione di sovranità popolare; dire No anche a coloro che vogliono dare i l diritto del permanente » al senato a tutti i deputati eletti per tre legislature compresavi la costituente. Quando si arriva alle « inflazioni » parlamentari ; alle « finzioni » elettive ; al « parassitismo » politico di coloro che non vogliono correre l'alea elettorale, in questo fortunato paese dove nessuno oggi vuole incontrare rischi siano economici che politici, non resta che protestare con tutta la forza del proprio animo e insorgere fortemente contro simili iniziative. Io fo appello ai miei amici del f u partito popolare: Merlin, Tupini, Cingolani, Aldisio, Baracco, Bertone, Bosco-Lucarelli, Braschi, Bubbio, Cappa, Fanfani, Jacini, Uberti, pregandoli di non appoggiare

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- S-

- Politico di questi anni.


simile iniziativa; d i non votare il relativo disegno di legge; di non approfittare della riforma, se sarà votata, preferendo o l'alea elettorale o anche un nobile rifiuto alla tentazione di tale dono dannoso per la democrazia italiana. Infatti, è la democrazia in repentaglio. Inutile dire che così si assicurano al senato persone esperte che possano guidare le nuove reclute; di parlamentari che disimpegnati dalla pressione elettoralistica assicurino all'assemblea obiettività e serenità. Anzitutto, non si esclude che i sessantaquattro possano affrontare la lotta elettorale e vincerla, dato che la percentuale di coloro che ritornano alle camere dopo una, due o tre legislature, è sempre alta, e forma con gli anni il fondo tradizionale ed esperimentato di tutti i parlamenti del mondo. Circa il vantaggio dell'obiettività di tutti i senatori a vita non mi sento di giurare, perchè essendo uomini ambirebbero anch'essi avere nomine e incarichi, entrare nei gabinetti e restarvi, non ostante le crisi e gli avvicendamenti e ritornarvi se avranno subito il dispiacere di essere stati lasciati qualche volta a piedi. Sommato tutto, vale più un atto di dignità e di coraggio anche con la perdita del laticlavio, che cedere, avvilendo con autonomine e con riforme fatte su misura, la propria dignità e quella del senato stesso. 3 marzo 1952.

(L'Italia, 7 marzo).

L'IGIENE E LO STATO Non sono mancati giornalisti che nel riportare la recente discussione del senato sulla proposta di legge Monaldi ( e il suo gesto a b irato), hanno avuto parole d i rammarico per il fatto che non sia stata approvata l'obbligatorietà della visita medica prematrimoniale, senza pensare che non è affatto sicura l'infallibilità medica che vorrebbe imporre all'uomo libero il verdetto ultimo della scienza in materia di infettività e trasmissione ereditaria delle malattie; ( l a discussione sulla teoria della Fonti Jolles


sul cancro è ancora aperta). Ma nel caso che ci interessa si tratterebbe di verdetti niente affatto infallibili di qualsiasi medico, sia un professore di facoltà di Bologna o di Napoli, sia un modesto medico condotto, ospedaliero o previdenziale di Presenzano o di Sant70reste; verdetto che avrebbe dovuto pesare per ordine dello Stato (con l'esse maiuscola) sulla sorte di ogni coppia di fidanzati. Chi ha mai il diritto di condannare per legge un uomo o una donna al celibato? e quale stato potrebbe impedire le unioni extra-matrimoniali dopo avere impedito un legittimo matrimonio? Se al di là di un verdetto scientifico sempre dubbio e sempre evolventesi esiste un ordine etico che si impone per se stesso, questo fa principale appello alla coscienza di ciascuno, coscienza che per noi cristiani è illuminata di luce soprannaturale. È vero che i proponenti dicono di non volere impedire i matrimoni, ma solo di rendere obbligatoriamente edotti i futuri sposi del loro stato di salute. Ma il loro errore non sta nel desiderio di rendere edotti gli sposi, ma nel renderli edotti obbligatoriamente per intervento dello stato, per un diktat del parlamento, per una legge che a ciò li costringa. I1 compito dello stato ( d i uno stato moderno e libero) è quello di facilitare una tale conoscenza, anzitutto organizzando bene gli strumenti adatti allo scopo, quali i mezzi di cura preventiva, l'assistenza igienica delle popolazioni, moltiplicando e bene attrezzando i laboratori sanitari, gli ospedali, gli ambulatori, i centri di consultazione e simili. I n un paese dove ancora molte delle abitazioni della povera gente sono specie di caverne, catodii fetidi e senza aria, baracche piene di insetti, case ed alloggi dove manca l'acqua e dove le malattie infettive si sviluppano rapidamente, dove la promiscuità coattiva è vergognosa, andare ad imporre di colpo un certificato prematrimoniale, dimostra tanto poco buon senso e tanta ignoranza della realtà, che sembra aver a che fare con gente che abiti nella luna. Citare, come fa qualche giornale, certi paesi dove il certificato prenuziale sarebbe obbligatorio, mostra un'incomprensione dei fatti sociali irrimediabile. In tali paesi le opere di igiene e di sanità hanno raggiunto ben alto livello; le facilità assisten-


ziali vi sono sviluppatissime; ma purtroppo vi è tale licenza di costumi che sarebbe intollerabile presso d i noi anche ai nostri giorni. P e r giunta vi esiste il divorzio a portata di mano, con alta percentuale di famiglie distrutte; di figli, legittimi e illegittimi, a cura altrui o senza cura; con continuo incremento di disquilibri mentali, di malattie psico-nervose che portano diritto al manicomio. Tutto è legato, ci sia o non ci sia il certificato prematrimoniale, che del resto non impedisce i legami extramatrimoniali. Faccia lo stato il suo dovere nel campo dell'igiene e della sanità, cominciando con cambiare le leggi della contabilità dello stato, in nome delle quali fu fermato per circa un anno il disegno di legge Cotellessa (quello che il senato ha testè approvato) per non volere assegnarvi i fondi necessari, ridotti infine ai 350 milioni di spesa per la lotta antiluetica. 350 milioni! una somma irrisoria pari a quattro o cinque milioni di venti anni fa. A fare che cosa? Non si arriver.à a dare un po' d i presentazione decente ad una cinquantina di quegli ambulatori celtici nelle città di porto e nei centri più battuti da viaggiatori e da stranieri; centri tanto sporchi quanto lo sono le preture e i commissariati. Sulla cifra dovevano battersi i medici zelanti della commissione senatoriale, non sulla tesi di una obbligatorietà che da un lato sa di statalismo, e dall'altro di interesse professionale. È vero che il certificato anche non obbligatorio dovrà essere gratuito; ma è anche vero che potrà essere pagato, quando si chiama il medico di fiducia, perchè non a tutti (anche ai più umili che spesso sono i più gelosi, molti anche fra i contadini del mezzogiorno) piacerebbe andare all'ospedale o dal medico dei poveri per simile bisogna. Se per far delle nozze convenienti si devono spendere le economie fatte soldo a soldo, si spenderà per il medico di fiducia come si spende per il macellaio, per il vettunno o l'autista. I sostenitori dicono che il certificato non ha conseguenze; è un pezzo di carta dove si dichiara che il tale e la tale si sono sottoposti a visita prenuziale; niente altro. Nessuno ha diritto a conoscere l'esito della visita; nessun impedimento si creerà a l matrimonio, tutto andrà liscio come l'acqua.

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Una delle due: o in seguito alla visita il matrimonio si fa in barba alle ammonizioni mediche, in tal caso rimane =ei coniugi e nei parenti una situazione psicologica e morale che contribuirà a turbare una pace e un avvenire che invano si sono cercati. Se invece le notizie del medico, anche problematiche, anche non scientifiche, fanno rompere il fidanzamento, le conseguenze psicologiche e morali potranno essere ancora più gravi. Invece, se la visita è stata voluta spontaneamente dalle parti e spontaneamente cercata, tenuta nel segreto della vita familiare, senza sanzioni, le conseguenze saranno psicologicamente e moralmente rese accettabili dalla propria iniziativa. Perciò i parenti, i preti, i maestri, dovranno cercare di preparare l'ambiente a che il costume liberamente si introduca e l'idea di una visita prematrimoniale venga come utile e consigliabile. Lo stato la favorirà solo con la gratuità dei suoi istituti e con l'attrezzatura dei mezzi tecnico-sanitari. Più che altro occorre dare al popolo case ad evitare promiscuità e contagi; fognature e condotte d'acqua sufficienti, scuole bene areate e pulite, e anche preture e commissariati e luoghi pubblici puliti e disinfettati. . A questo obbligo lo stato non si sottrae di sicuro; ma mentre cerca di incrementare l'edilizia popolare e le condotte d'acqua, dà poco per l'edilizia igienica, limita i fondi per l'assistenza sanitaria dell'infanzia, non dà mezzi per la lotta anti-luetica, limitandosi, è tutto dire, ai risibili 350 milioni del disegno di legge testè approvato dal senato. Altro che certificati obbligatori e pezzi di carta con il bollo statale! 10 marzo 1952.

( L a Via, 15 marzo).

55.

USURA DELLE BANCHE Fra i prezzi dei beni che nella economia di un paese hanno importanza determinante sono certamente il prezzo del pane, il prezzo dell'acciaio e quello del denaro; quest'ultimo è il più difficile a manovrare.


I n Italia, si sa, il costo del denaro è intollerabile; abbiamo il primato mondiale del più alto costo. Non parlo dell'usura privata, esosa, scandalosa, tollerata ; parlo dell'usura (come chiamarla diversamente?) delle banche, le quali sono nella grandissima maggioranza banche di stato, istituti di diritto pubblico, casse di risparmio, con nomine governative di presidenti, consigli di amministrazione, sindaci, direttori generali. Non manca il controllo della vigilanza, il fu ispettorato del credito, che per iniziativa del ministro Campilli, quando era al tesoro, f u passato alla Banca d'Italia. C'è anche un comitato interminisleriale del credito, che sta al disopra della vigilanza e, come tutti i « comitati » del genere, non serve ad altro che ad attenuare le responsabilità del ministro e del governatore e ad introdurre nel campo delicato del credito elementi non del tutto competenti e per dippiù con un certo cattivo odore di politica. Conseguenza: dalla fine della seconda guerra ad oggi nulla si è fatto per abbassare il costo del denaro e credo molto si sia fatto per tenerlo alto. I1 cartello bancario fu stabilito allo scopo di evitare la corsa al rialzo, specie dei tassi passivi; ma è ben noto che nessun ente si sente obbligato a rispettarlo. Non ha tre mesi una certa riunione di banchieri dove uno dei tanti ebbe il coraggio di dire essere fuori luogo le esortazioni a rispettare un vincolo (quello del cartello) che nessuno oramai osserva integralmente. Infatti, è a mia conoscenza che neppure è osservato dalle banche in rapporto con organi governativi e perfino parlamentari. Non ha un anno il provvedimento del tesoro riguardo i depositi e i prestiti della federhnsorzi per i servizi statali e relativi tassi bancari extra-cartello. Le banche, del resto, si regolano con i clienti secondo la loro importanza, e solo per i piccoli e per la poveraglia osservano le prescrizioni del cartello. I1 movente di tutto ciò è la concorrenza fra le banche; e, dato lo spirito tutto italiano di farla in barba alla legge, specie se è irrazionale, i freni inibitori sono inoperanti. A prima vista sembra strano che banche di diritto pubblico, istituti di stato o comunque statizzati, nei quali manca la gura dell'azionista privato e del banchiere che fa i propri inte-


ressi, debbano farsi una siffatta concorrenza al punto di far rialzare i costi del denaro. Mentre non c'è un motivo psicologico giustificabile (ve n'è uno ingiustificabile, e lo vedremo), alla base di tutto sta l'incomoda posizione di un complesso bancario eccessivo per l a massa di operazioni necessarie alla economia italiana ; per giunta senza coordinazione e senza specificazioni adatte agli scopi. I1 motivo ingiiistificabile della concorrenza è dato dal fatto che le banche sono lasciate in mano ai funzionari, che ormai ne sono i padroni. I1 numero del personale è eccessivo, come in tutte le pubbliche amministrazioni italiane, e non tutti i funzionari sono di qualità; la spesa è sproporzionata alla massa degli affari p e r il fatto che lo stato assorbe una eccessiva quantità di risparmio. Ciò non ostante, le spese per nuove sedi, nuovi sportelli, per nuovi enti formati con partecipazioni bancarie, non si contano più. È una catena di organismi parte fittizi o senza consistenza, parte affaristici e politici, la cui spesa, novanta volte su cento improduttiva, si aggiunge a mantenere alto il costo del denaro. I1 personale bancario è il meglio pagato in Italia; ma nessuno pone un limite ai miglioramenti; così si è arrivati a concedere la quattordicesima, la quindicesima, la sedicesima mensilità ; si corre verso la diciassettesima ; molti degli istituti hanno ridotto a 35 anni il periodo per il massimo della pensione comprendendovi perfino le mensilità-extra. Ora il governo, per conto suo, propone l'aggiunta del 4 per cento di tassa sul personale impiegato, aumento che naturalmente rimbalzerà sul costo del denaro. E non siamo ancora alla fine. Ci sono banche che fanno discriminazione tra operazioni normali di credito e operazioni d i compartecipazione ; per queste ultime la banca preferisce condividere con il cliente l'affare. Tra parentesi, non è sempre certo che sia la banca a parteciparvi o non sia invece qualche impiegato a titolo personale, quando si tratta di un affare sicuro. A completare i l quadro debbo aggiungere tutte le spese superflue dei nostri istituti per palazzi, sedi locali, case degli impiegati a costi elevati, non sempre necessari n9 sempre opportunamente smobilizzabili. Dopo questa analisi alquanto deprimente della organizza-


zione creditizia, farà meraviglia sentire che la maggior parte dei grandi istituti realizzi utili netti molto elevati. È vero che i loro bilanci non lo dimostrano per paura del fisco e per altri motivi; ma chi sa leggervi dentro riesce a farsene un'idea. Noto en passant, che non c'è banca che non segni agli utili netti una qualsiasi cifra, anche se utili netti effettivamente non ce ne siano stati, perchè altrimenti perderebbe credito. Per l'uno e per l'altro motivo, i bilanci bancari ( e quasi tutti i bilanci aziendali che vengono pubblicati) sono discutibili. I1 fisco lo sa, e tace; 1'IRI lo sa, e tace; il tesoro e il demanio lo sanno, e tacciono ; la vigilanza lo sa, e tace. È ovvio che tranne tentativi lodevoli da potersi contare sulle dita, nessun istituto, pur avendo margini sugli utili, abbassa i tassi attivi delle operazioni, la cui media si mantiene a11' 11-12 per cento, con punte basse fino al 9 e punte fino al 18 per cento; onde tutti invocano l'intervento dello stato. Non mancano leggi per servizi speciali, caricando al tesoro parte degli interessi e garantendo le operazioni; così per il credito agrario, il credito industriale, il credito alberghiero, il credito edilizio. I1 più esoso e il meno assistito è il credito fondiario. I1 sistema degli interventi statali, a getto continuo e senza piani economici bene studiati, è un altro dei segni del nostro disordine creditizio; una prova di più che la situazione va riveduta. Se le banche son troppe, se i risparmi liberi che lo stato lascia, bontà sua, a disposizione del produttore privato non bastano ad alimentarle, sì che i costi salgono alle stelle, perchè non si pensa a coordinarne la funzione, a ridurne le proporzioni, a renderli più efficienti di quel che non sono? Al contrario, lo stato italiano è largo e generoso: crea nuovi enti. Dal giorno che ha preso la malattia dellyentite, non s i ferma più. Naturalmente, una banca non si improvvisa. L'anno scorso i1 ministro Pella promosse le cosidette banche regionali per il credito a piccolo e medio termine. I1 denaro doveva essere offerto dagli istituti esistenti. A che tasso? così in partenza si aveva un denaro costoso; un personale nuovo e quindi impreparato ;ovvero un personale tolto ad altre aziende e quindi più costoso. Fin oggi si è fatto solo l'ente regionale del Piemonte. La inutilità è evidente quando si tien conto che gli isti-


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tuti che esercitano il credito a piccolo e medio termine, la Banca del lavoro che ha un'attrezzatura capillare in tutto il paese e la Medio banca che usufruisce degli sportelli delle tre banche nazionali ( a parte le sezioni degli istituti meridionali), potrebbero con minori oneri, con più competenza e con maggior volume di affari, compiere quanto la legge domanda a tali istituti regionali. Ultimo a nascere (ma sarà l'ultimo?) è il nuovo istituto a medio termine per le piccole e medie industrie, contenuto nel disegno di legge n. 2511: « Provvedimenti per lo sviluppo dell'economia » che si trova allo studio della commissione speciale della camera dei deputati. Ma è proprio necessario? A me non sembra. Da notare che mentre per i provvedimenti di credito agrario, contenuti nello stesso disegno di legge e per una cifra molto maggiore (supera i cento miliardi) si utilizzano gli enti esistenti, invece per il credito industriale si sente il bisogno di avere nuovi palazzi e attrezzature, nuovo personale, nuovo fondo di previdenza, e così di seguito, impegnando in partenza forse una diecina di miliardi dei sessanta concessi. Naturalmente, i nuovi amministratori e impiegati sentiranno subito il bisogno di espandersi; daranno vita agli enti regionali del ministro Pella, cercheranno di ampliarne le funzioni, anzi tenteranno (cosa usuale in Italia) di ottenere il monopolio di tale servizio. Stiano attenti i legislatori tanto inclini a creare enti, di non rendere impossibile in Italia la diminuzione del costo del denaro, rendendo così impossibile la diminuzione del costo della vita. 19 marzo 1952.

(Lo Stampa, 27

marzo).

SINDACATI E POLITICA Giulio Pastore, nel suo articolo « Sindacati e partiti » h a voluto « rammentare ai novelli calorosi fautori della disunione


sindacale che se i bastioni democratici del 1922 si rivelarono, non ostante l'eroismo di molti, insufficienti a resistere al totalitarismo fascista, causa non ultima fu proprio la lotta intestina che allora, in regime di sindacato di colore, straziava i l mondo sindacale italiano, e la lotta c'era perchè allora al comune denominatore della duplice difesa del pane C della libertà, si era sostituito nel sindacato la visione ideologica che null'altro scorgeva che l'avvento di un dottrinale schema di parte N. Tale interpretazione di quel che avvenne fra i l 1918 e il 1922 nel campo sindacale italiano è inesatta e antistorica. Mentre l e due confederazioni operaie (la 'rossa e la bianca, come si diceva) nel campo delle rispettive politiche (socialismo e popolarismo) dissentivano in molti punti, nel campo della difesa operaia (dopo il grave conflitto sugli scioperi politici del primo semestre del 1919 e delle occupazioni delle fabbriche del 1920), operavano con una maggiore comprensione reciproca nel 1921 e 1922 fronteggiando le prepotenze fasciste. L'errore dello sciopero politico del luglio 1922 (istigato dai comunisti e da agenti provocatori) fece precipitare gli eventi. Ma questa è storia non ancora scritta nè ancora chiarita. Gli accenni del mio libro « Italy and Fascismo » del 1926 non hanno mai avuto l'approfondimento che meritavano. Comunque, storicamente, lo sbocco alla resistenza rivoluzionaria operaia non ci fu e non ci poteva essere perchè mancava tale convinzione, tale clima e tale organizzazione. E lo sciopero di fine luglio finì nella lotta deUYoltretorrente d i Parma come un episodio senza coordinazione e senza seguito. Quel che Pastore non vuol capire è che il sindacalismo europeo sorse nella seconda metà dell'ottocento sotto i l segno del marxismo per la lotta di classe; un sindacalismo ideologico, monopolista della causa operaia; e sorse dalla dipendenza morale e politica del partito socialista. Allo stesso tempo in Germania sorsero le unioni confessionali operaie, cattoliche e protestanti allo scopo di promuovere gli interessi degli operai e d i tutelarne la fede; e di evitare che la difesa operaia degenerasse nella lotta di classe. Tutto ciò è noto. Ma non ricordano i nostri amici e gli italiani anche colti che le leghe operaie democratiche cristiane ap-


parvero alla fine del secolo scorso in Italia per la difesa operaia e con la tendenza di possibili intese con i socialisti moderati. I1 1898 ci trovò sulla breccia, e don Albertario fu coinvolto con i socialisti per aver difeso una lega agricola cattolica in isciopero. Purtroppo, gli atteggiamenti vivaci della democrazia cristiana di allora diedero luogo a provvedimenti sempre più restrittivi nel campo dell'azione cattolica sociale ; mentre si cercava dai promotori ( e chi scrive ne fu uno dei protagonisti) di sganciare il movimento operaio dai quadri disciplinari dell'azione cattolica per darvi un carattere più sindacale. Ma dato l'influsso marxista nei sindacati socialisti, non solo di aperta lotta di classe e di rivoluzionarismo più verbale che reale, ma di vero anticristianesimo (allora in molti luoghi non si facevano più battezzare i bambini, si vietavano i matrimoni religiosi e così di seguito), la chiesa prese posizione diffidente verso i sindacati liberi al punto di sconsigliarne l'uso della parola. Dall'altro lato, le leghe operaie dei cattolici non avevano nessuna rappresentanza negli organismi di lavoro che lo stato andava creando, mentre si dava ai socialisti una rappresentanza totale della classe operaia. La visione ideologica, della quale parla Giulio Pastore, addebitandola al 1922, era nello spirito che accompagnò i l sorgere dei sindacati in tutta l'Europa continentale, di qua marxista e anti-religiosa, di là il sindacato prima confessionale (cattolico o protestante) e poi mano mano autonomo con idealità cristiana. La confederazione internazionale dei sindacati cristiani fu fondata nel 1919 ed ebbe i l riconoscimento dell'uficio internazionale del lavoro a Ginevra, proprio per la esigenza storica di cui si parla e che è ancora viva in tutti i paesi del continente europeo. L'unico paese che ha voluto saltare il fosso e tentare l'unificazione operaia per quella che ,Giulio Pastore riassume (C nella difesa del pane e della libertà 1) è stata l'Italia, tentando la unificazione anche con i comunisti. L'errore fu scontato subito, perchè si vide come ai comunisti, anche in sede sindacale, interessa più l a rivoluzione per conto di Mosca che il pane e l a libertà per conto degli operai. Oggi l'unità sindacale in Italia non esiste, come del resto


non esisteva nella realtà anche quando si era combinato il tripartitismo direttivo nella confederazione, sull'esempio del tripartitismo nel governo. E come il tripartito governativo fu rotto per iniziativa dei democristiani, che non potevano più tollerare i1 controllo comunista, così furono l'on. Pastore e i suoi colleghi democristiani della confederazione a rompere l'innaturale collegamento. A completare la storia debbo dire che come non saranno oggi i sindacati a fermare la marcia del comunismo, così non furono nè poterono essere i sindacati del '1922 a fermare la marcia del fascismo; perchè per fare così dovrebbero oggi avere in mano, e avrebbero dovuto avere in mano al 1922, le leve di comando politico, trasformando il sindacato in partito, in regime di libertà; ovvero il sindacato in dittatura, in regime totalitario. I1 che vuol dire, in parole semplici, che il sindacato operaio o sopprime le altre classi, o le rappresenta nella unica istanza del lavoro. E d eccoci al punto di discrepanza sia democratica che cristiana o se vuol dirsi più esattamente cattolica. La soppressione delle altre classi per essere eseguita e per essere mantenuta esige la dittatura e porta al totalitarismo. Si arriverebbe al livellamento economico; alla abolizione della proprietà privata; allo stato unico detentore del capitale. La libertà verrebbe meno, rompendo così il binomio di Pastore « pane e libertà ». Resterebbe il pane, si dice: contesto anche questo punto: senza libertà, lo stato quale unico possessore dei beni, unico capitalista, non potrebbe dare pane sufficiente; ne darebbe certo assai meno di quel che oggi si ha in regime di libertà. A prova d i ciò non mi riferisco solo alla Russia di oggi; mi riferisco a tutti i regimi politici assoluti che la storia ci fa conoscere nei quali mancasse quel minimo di libertà economica e d i iniziativa privata necessaria a farli prosperare, per cui non potevano essere altro che regimi di miseria e di schiavitù. Non dico che ci fosse negli altri regimi la libertà che noi godiamo; la libertà si esprime e si articola secondo i tempi: così abbiamo libertà limitata in regimi dove il lavoro pesante veniva fatto da schiavi (Grecia-Roma); owero nei quali la


libertà era negata ai servi della gleba (comuni e città medievali); o dove la libertà politica era negata ma erano riconosciuti i diritti organizzativi del lavoro (regime corporativo dell'ancien régime); ovvero dove la libertà politica dava l a possibilità a l libero sindacato (regimi costituzionali). Oggi, il dilemma posto particolarmente agli italiani e ai francesi per via dei sindacati comunisti o comunisteggianti, è proprio questo: perdere la libertà e mangiare il pane dello stato, unico capitalista (dittatura bolscevica); ovvero essere in libertà e procurarci ii pane nelia lotta quotidiana subendo un dirigismo statale che lascia vivere ( o vivacchiare) la libera iniziativa. La libertà impone necessariamente una certa solidarietà di classi pur nei contrasti sindacali e politici. È l'ideologia (direbbe Pastore) del solidarismo, contro l'ideologia (dico io) del marxismo comunista. Mantenere l'autonomia dei sindacati escludendo l'ingerenza dei partiti, come tali, è un affare assai diverso da quello di avere in comune, tanto i partiti che i sindacati, con diversi mezzi e diversa articolazione, gli stessi scopi in corrispondenza agli interessi generali del paese. L'on. Pastore h a un sacro orrore dei sindacati confessionali; gliene dò atto: però le poche leghe democristiane del periodo murriano del 1895, e la confederazione bianca fondata nel 1918, non avevano vincoli confessionali e si muovevano sindacalmente come si muove oggi la CISL. Ma egli dovrà convenire che fra un sindacalismo che difende solo demagogicamente il pane degli operai ( e per me non l o difende) in nome di Marx e di Lenin; quell'altro (CISL compresa) che difende i l pane insieme alla libertà; e quel sindacalismo che difende pane e libertà per tutti (operai e non operai) o meglio che difende i propri iscritti e idealmente la classe operaia nei quadro della solidarietà umana, io preferisco quest'ultimo; chi mai può farmene una colpa? I1 miraggio dell'unità sindacale operaia non può sedurre un uomo realistico come Pastore, il quale sa in partenza che i comunisti della CGIL non andranno mai sotto la bandiera dei sindacati liberi; e sa anche che solo sul terreno politico di. libertà può e potrà esistere una confederazione come la sua e che i n


un deprecato avvento del partito comunista al potere, la CISL sarebbe spazzata via assai più sollecitamente della confederazione bianca che solo nel 1927, cioè dopo cinque anni dalla marcia su Roma, fu soppressa dal fascismo. 25 marzo 1952.

(La Via, 29 marzo).

ELEZIONI NEL SUD Non capita spesso che i problemi del mezzogiorno interessino seriamente l'opinione pubblica italiana; anzi capita assai raramente; a meno che la ripercussione sia in parlamento O nella stampa (non per il mezzogiorno in se stesso, ma per conseguenze generali o per rimbalzi particolari) in modo da far superare la cerchia localistica e provinciale nella quale si svolge la vita al di sotto del parallelo di Roma. Non è questa una costatazione amara, è una costatazione semplice, direi quasi geografica di tutte le regioni meridionali: così in Francia e in Germania, così negli Stati Uniti; così perfino in Inghilterra, dove il parlamento e il governo risiedono a l sud, ma dove, per l'opinione pubblica, Manchester, Liverpool, Birmingham, la Scozia intiera, e ~ e r f i n oBelfast, valgono più di Londra. Un recente caso mi dà altra occasione a questo rilievo: la durata dello sciopero dei lavoratori nelle zolfare siciliane per quasi due mesi, con gravi conseguenze per l'industria e i l commercio degli zolfi, e per l'estrema penuria nelle famiglie di quei lavoratori. Due mesi di sciopero senza serii incidenti, un « record D; sciopero composto dal presidente regionale non ostante l'opposizione dei rossi, caso addirittura eccezionale. Se uno sciopero simile fosse capitato nel triangolo Torino-MilanoGenova le ripercussioni sarebbero state larghe e immediate; lo sciopero sarebbe stato composto in più breve tempo e forse con migliore fortuna. Torno a dire, non c'è critica nelle mie parole; è una costa-


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tazione geografica. Ma quale è mai il motivo che delle elezioni nel sud si parla da quattro mesi? Forse l'interesse di quel che sta per succedere al disotto della linea « Sigfrido »,significativo primo taglio di guerra della nostra penisola? Da quattro mesi giornali, radio, agenzie di informazioni non fanno altro che darci notizie delle riunioni a due a tre a quattro dei partiti « democratici » e dei partiti « non-democratici 1) o pseudo-democratici s; è una specie di bollettino di guerra, per segnalare quali picchi siano stati conquistati, e quanti passi siano stati fatti avanti o indietro dai belligeranti elettorali. I1 sud, in questa faccenda, dà veramente fastidio: elezioni con monarchici e missini a destra, comunisti a sinistra; gli uni e gli altri, si dice, in progresso. Che guastafeste della vita nazionale questo meridione. Che ci siano comunisti al nord, è naturale; e anche altri partiti, monarchici e missini compresi, è naturale. Ma che comunisti, monarchici e missini e quella rogna di democristiani debbano dal sud dare impronta fin da ora alle elezioni dell'anno venturo, sembra oltre che strano intollerabile. Ha ragione i l prof. Spadolini sulla Gazzetta del Popolo a dire di non drammatizzare e dichiarare senz'altro che le elezioni amministrative del sud sono un episodio, sia pure importante, ma un episodio. E Filippo Sacchi su La Stampa anche lui ha ragione a dichiarare che (C noi classi borghesi e dirigenti del nord non conosciamo nulla del mezzogiorno, e non soltanto non ci pensiamo mai, ma non sappiamo nulla o quasi nulla di quello che pensa e vuole 1). Faceva bene Giolitti, dicono molti, a tenere il mezzogiorno politicamente sotto l'egida del ministro dell'interno (che era lui) usando prefetti a sostenere gli amici e le amministrazioni amiche; a sciogliere consigli comunali legati ai deputati indocili, dando poco al mezzogiorno, ma favorendo « gli ascari 1) con tutti i mezzi della piccola corruzione allora in uso: sali e tabacchi, cavalierati, trasferimenti di guardie di pubblica sicurezza e protezione, sovrattutto protezione prefettizia. La borghesia meridionale, quella affezionata ai metodi giolittiani, compiange tuttora quel tempo aureo; e nota che oggi, non ostante tutti i provvedimenti a favore del mezzogiorno -

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molti reali, parecchi sulla carta - l e masse operaie vanno verso i rossi, meno quelle che per tradizione, religiosità e organizzazione, mantengono fede ai democristiani e ai collaboranti comitati civici. Fatto sta, che le elezioni del mezzogiorno han preso questa volta un'andatura (come dire?) nazionale; sono divenute un rompicapo per i partiti che vogliono apparentarsi e per quelli che non vogliono apparentarsi. Villabruna, che è un piemontese, non comprende i napoletani, e teme che una volta parenti, saran sempre parenti; così come gli antichi dicevano degli abbati: seme.! abbas, semper abbas, cioè restava il titolo anche quando cessava l'ufficio. Non si usa forse chiamare presidente anche il fortunato mortale che non è più presidente del consiglio dei ministri? I napoletani, o meglio tutti i parenti poveri del sud (straccioni, se vi piace) non saranno al postutto u n incomodo per i partitini; ma essi di apparentarsi con i partitini non sentono alcun interesse perchè di simili a cercarli con il lumicino laggiù non se ne trovano molti. E se un certo numero di napoletani si son messi in testa di votare monarchia, - quella dei Savoi'a, s'intende, non quella dei Borboni, - tutto ciò è per loro sentimento e protesta, non tornaconto, nè rivoluzione. Credere che i meridionali siano diventati anticostituzionali e rivoluzionari, cioè gente che vuole buttare in aria dopo quattro anni la repubblica per i Savoia di Cascais o per i rossi d i Mosca, sarebbe un errore. Nè l'uno nè l'altro: i meridionali voteranno secondo i gusti, le opinioni e le passioni del momento. Ma non hanno mai rinunziato a essere italiani, integralmente italiani, anche quando sono spinti dai comunisti ad accettare « falce e martello o « Garibaldi )) o « monarchia e falce e martello » insieme (dernier cri); ovvero sono spinti a reclamare l a monarchia per « mettere un po' di ordine », dimenticando che il re, quale esso sia, u regna ma non governa N. Se poi fosse in pericolo la nazione, sia sul terreno politico che in quello militare, sia per rivoluzione interna che per guerra esterna, il mezzogiorno, tutto il mezzogiorno, manterrebbe fede alle istituzioni, non cederebbe alle istigazioni r i v o l u z i o n a r i e , ~ ~ o ~ rerebbe sotto l a bandiera nazionale e come avvenne durante le


fasi della guerra passata - occupazione straniera e alleata, governo provvisorio, - darebbe prova di quella sensibilità e umanità innate che fece evitare prepotenze e vendette faziose, orrendi massacri e divisioni insanabili. Questo spirito nazionale e umano del sud ci fa guardare con occhio di benevola comprensione quella specie di provincialismo chiuso e di individualismo diffidente, con spunti anche di rivolta anarcoide contro qualsiasi ingiustizia vera o presunta, che mantiene il meridione come distaccato dal resto del paese, geograficamente e psicologicamente lontano dalla classe politica e dalle prevalenti consorterie economico-politiche nazionali. È perciò che nei consigli centrali dei partiti e dei sindacati, dei consorzi e delle confederazioni, il sud costituisce una minoranza non assimilata e spesso lasciata in disparte. Ebbene, le elezioni avverranno come vogliono i meridionali, i quali pur accettando con cortesia le visite e i discorsi dei propagandisti del nord e del centro, seguiranno la loro strada. Che i consigli comunali di Cerignola o di Barletta, di Castelvetrano o di Palmi, di Torre Annunziata o di Caserta risultino colorati in bianco o rosso o verde, o dei tre colori insieme, non farà cadere l'Italia in uno stato catalettico, come crederanno i corrispondenti americani che amano il sensazionale; neppure se si tratterà di Bari, Palermo e Napoli presi d'assalto da monarchici o da comunisti. Forse che Torino, Venezia, Genova, Firenze e anche Milano non sono state rosse e alcune rossissime per cinque anni? e ora si fa tanto chiasso perchè in certi comuni del mezzogiorno ritorneranno i rossi o vi piglieranno piazza i monarchici ? Ma il mezzogiorno è tranquillo: sceglierà i suoi consiglieri comunali e provinciali senza preoccuparsi delle elezioni politiche. Quando poi suonerà l'ora delle elezioni politiche il mezzogiorno si regolerà di conseguenza nell'interesse della nazione. Ogni giorno il suo male. -

31 marzo 1952. (Realtà Politica, 5 aprile).

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- STERZO - Politica

di questi a n n i .


UNA DICHIARAZIONE E MOLTE RIFLESSIONI La dichiarazione dei cinque della K sinistra cristiana » dì aver lasciato il partito comunista « per l'impossibilità per un cattolico d i appartenervi o di appoggiarlo, conformemente a quanto è affermato dalla chiesa ha dato ai fedeli cattolici la gioia del ritorno del figlio prodigo alla casa del Padre. Tale gioia non può essere provata che dai fratelli ed è gioia tutta spirituale che non ammette mescolanze di sorta, nè interpretazioni o illazioni che escano fuori dell'ambito religioso. Se m i permetto di scrivere questo articolo è certo per partecipare alla letizia comune, ma anche per ragionarvi sopra come un'occasione felice di insegnamenti e di riflessioni per quel poco O molto d i manchevolezze nostre nei riguardi della teoria e della pratica comunista. Non si può mettere in dubbio il carattere avveniristico del comunismo, che, nella visione di u n ordine di giustizia e di eguaglianza per tutti, attira le menti non solo degli incauti ed inesperti, ma anche di coloro che sono pieni di zelo contro le ingiustizie umane e desiderano mettere riparo alle miserie dei molti. I1 fondo anticristiano di questo atteggiamento non sta certo nell'amore dei poveri e dei derelitti, ma nella concezione tutta terrena di un totale e stabile benessere umano sulla base della eguaglianza materiale. La condanna di Dio ad Adamo ed Eva che la terra mettesse triboli e spine e che si generasse nel dolore e che di ogni sorta di dolore è intessuta la vita di tutti, non è stata cancellata ma confermata da Gesù Cristo. I1 paradiso in terra non è trovabile per nessuno; nessun ordinamento per quanto basato sulla giustizia potrà realizzarlo. Ogni progresso crea nuovi motivi di regresso ; ogni gioia nasconde il dolore nel suo interno; ogni conquista segna una perdita; e al momento che tutto sembra procedere bene, sembra ma non è: una guerra, un'epidemia, una rivolta, un terremoto toglie quanto si era conquistato con la fatica e con l'ordine. Pertanto, i valori morali, che rimangono tali attraverso tutte


le vicissitudini terrene, sono quelli che possono definirsi conquiste, valori che risiedono solo nella nostra anima e nel nostro cuore, se saremo distaccati, per quanto è possibile, dal condizionamento terreno, anche da quello che ci siamo formati da noi stessi per il nostro bene: famiglia, impiego, casa, mezzi di sussistenza, amicizie, parentele; e che formano il filo conduttore della nostra esistenza che ha avuto il suo principio e avrà la sua fine. Non perciò non faremo più nulla o fuggiremo il mondo come gli eremiti della Tebaide; continueremo a lavorare, a produrre, a organizzarci come se fossimo qui eterni, noi e coloro che da noi avranno l'esistenza, per continuare il processo umano nelle sue conquiste morali e nella sua storia; ma anche perchè ciascuno di noi abbia la possibilità di attingere ad una felicità che non si troverà mai sulla terra. Questa è la rivelazione che ci conferma ogni anno la Pasqua di resurrezione, che il primogenito dei morti, Gesù, ha conquistato con la sua morte, e morte di croce, pur avendo sentito l'angoscia del calice amaro che doveva bere intiero per adempiere alla volontà del Padre. Ogni uomo beve il suo calice amaro, anche se si trova nell'ahbondanza dei beni terreni ed è creduto felice ma non lo è; lo beve sì, ma se non fa anche lui la volontà del Padre, che è amore, non arriver,à alla risurrezione di vita, ma a quella di condanna. Sopra una visione diversa si ritorna a guardare la vita terrena, la visione dell'amore, nel quale incentrare tutti i sacrifici che Dio domanda a ciascuno di noi, e tutti gli atti di giustizia, di equità e di benevolenza che Dio ci ha imposto e ci ingiunge, giorno per giorno, al bene del prossimo, che è il bene della società. Rettificata così la visione del mondo terreno e messa nel quadro realistico di quel che è possibile e di quel che è dato sperare a noi in questa e nell'altra vita, tutti i programmi d i riforme, anche quelle credute rivoluzionarie ( e gli uomini ne han fatte molte di riforme dacchè sono su questo pianeta), pigliano la misura umana, si contraggono nelle linee della realtà, mostrano che si è fatto ben poco e che si ritorna a rifare il disfatto, in un ciclo perenne di sogni e realtà, di gioie (che


son sogni) e dolori (che sono realtà), finchè i dolori cesseranno e la gioia, se Dio vuole, sarG perenne.

Non solo la visione complessiva della realtà che ci distacca infinitamente da quella comunista ( e anche da tutto il positivismo, l'idealismo hegeliano e l'agnosticismo imperanti nelIa cultura e nella concezione della vita); sì bene l'esperienza del passato e del presente obbligano a rivedere il piano delle conquiste umane, nel quadro dello svolgimento storico della civiltà cristiana. L'uomo vorrebbe ottenere insieme libertà ed eguaglianza; ma la coesistenza è solo possibile imponendo all'una i limiti richiesti dall'altra, per arrivare, con enorme difficoltà e con continui sconfinamenti, a quell'equilibrio che le rende operative. Ogni sforzo a sopprimere i limiti dell'una rende impossibili le realizzazioni dell'altra. L'eguaglianza assoluta porta alla soppressione della libertà, come la 1ibert.à senza freni porta alla soppressione degli elementi fondamentali della eguaglianza, che sono quelli morali e giuridici del cristianesimo e dello stato di diritto. I1 comunismo, per ottenere la eguaglianza economica concentra tutta l'economia nelle mani dello stato sopprimendo la proprietà e l'iniziativa privata, e per conseguenza anche la libertà giuridica e politica. Ciò non ostante, neppure i1 comunismo può arrivare ad una eguaglianza economica. Lo stato capitalista è importante ad amministrare tutti i beni accentrati in esso; è obbligato ad affidarli alle gestioni statali e parastatali organizzate in una serie di ingranaggi dove tutti sono obbligati a sottostare come ad una nuova servitù. Ne deriva la creazione di nuovi baronaggi, nuove classi superiori, nuovi parassiti, nuovi profittatori, perchè l'uomo è sempre lo stesso. Come reagisce al caldo e al freddo e si acclirnatizza, così l'uomo si acclimatizza alle forme politiche, sociali ed economiche; siano quelle delle tribù o dei grandi imperi asiatici; delle società migratorie o delle civiltà stabili pre-cristiane, greca e romana, con i loro eserciti di schiavi; o


delle civiltà cristiane orientali e occidentali, e così di seguito fino ai nostri giorni, nei quali si è inserita l'esperienza bolscevica della Russia, come un miraggio di eguaglianza inesistente, dove 1ibert.à ed eguaglianza sono soppresse per la creazione di un immenso impero euro-asiatico basato sulla dittatura e sullo schiavismo. Di fronte a simili esperienze nelle quali, anche quelle dei regni, imperi e repubbliche cristiane dei sedici secoli da Costantino -ad oggi, hanno dato risultati politicamente e socialmente limitati, pur nella elevazione morale e spirituale della legge evangelica; come si può pensare ad arrivare a quell'equilibrio di libertà ed eguaglianza che fa sperare il regno di Saturno sulla terra ? Se è così, per quale ragione molti cattolici e molti uomini liberi oggi subiscono non tanto il fascino quanto l'imposizione del comunismo nella concezione sociale? Costoro cadono in u n complesso di inferiorità sia quando, pur rigettando il comunismo, ammettono la possibilità di attuarne i postulati pratici, o cercano di gareggiare in demagogia; sia quando non sanno resistere alla improntitudine di coloro che pretendono avere essi il monopolio delle riforme sociali; sia quando portano avanti progetti ispirati a concezioni comunistoidi per dimostrare di non temerne il confronto, o peggio quando stendono la mano in una solidarietà politica o economica che si rivela dannosa ai fini concreti del benessere e della libertà del paese. Uomini di poca fede, ignorano che solo la verità ci fa liberi; e che solo l'amore porta la pace e i l bene. Tutto il resto è vano suono di parole sperdute dal vento ; edificio sull'arena che le acque distruggono ; torre di Babele costruita dai superbi che lo sguardo di Dio disperde nella confusione delle lingue: si parla di libertà e sono catene; si parla di eguaglianza e sono prepotenze; si parla di vita ed è morte. 11 Risorto è il solo che trionfa della morte e vive in eterno, e noi con Lui risorgeremo e vivremo. 8 aprile 1952.

(La Via, 12 aprile).


INCOMPATIBILITA PARLAMENTARI A MONTECITORIO Le tre proposte di legge sulle incompatibilità parlamentari, unificate dalla commissione, hanno ottenuto nella votazione finale della camera 313 voti favorevoli e 55 contrari. Fra giorni l a proposta passerà al senato. Dopo quattro anni di campagna serrata che ho avuto il privilegio di avere iniziata per il primo contro i «controIlati-controllori)), - slogan fortunato che ha passato le Alpi, - ho bene il diritto di compiacermi dell'esito ottenuto, pieno e sereno, che io stesso non avevo sperato. I1 testo approvato può sembrare rigoroso, ma data la rilassatezza del costume vigente e i capziosi motivi di giustificazione, una forte tirata di briglia serve bene a rimettere i l cavallo in carreggiata. La prima a fare una legge simile fu l'assemblea siciliana i n occasione delle elezioni regionali del 1951. Pochi mesi fa il consiglio comunale di Roma si pronunciò per la esclusione d i consiglieri e d assessori comunali dalla amministrazione degli enti municipali e para-municipali. La camera è arrivata buon terzo in ordine di tempo, ma al primo posto in ordine di importanza. È desiderio comune (meno di pochi interessati) che la legge venga varata dal senato prima delle vacanze estive. Non avrei altro da dire, se l'andamento della discussione a Montecitorio non avesse dato motivi di esame per alcuni atteggiamenti in certo modo inquietanti. Non sarò io, democratico di convinzione e democraticissimo nel metodo, a biasimare gli oppositori delle varie proposte ( e i n fondo del disegno di legge) sulle incompatibilità parlamentari. Aggiungo che una discussione aperta e franca ( e in più punti questa non è mancata), ma anche senza mascherare l'adesione a l principio con riserve contraddittorie, avrebbe assai rialzato il tono dell'assemblea e dato maggiore rilievo all'importanza della legge che va a realizzarsi. Disgrazia volle che si fosse inserita, tra l a presentazione delle prime proposte d i Petrone e Bellavista, e la terza di Vigorelli,


Calamandrei e altri, un episodio personale a tipo scandalistico (affare Viola), che fece perdere in certi settori la serenità necessaria, confondendo un principio sano e un sistema rispettabile (quello delle incompatibilità) con accuse personali al di l à dei limiti del sistema. Naturalmente, gli oppositori politici ne han fatto motivo di propaganda, e alcuni dei dirigenti democristiani han reagito pigliandosela contro le proposte di legge e i relativi promotori e sostenitori. Si cercò di ottenere che l a commissione parlamentare rallentasse i suoi lavori; si arrivò a l punto di chiedere di togliere la proposta di legge dall'ordine del giorno dei lavori della commissione; si sperò che i l disegno di legge fosse insabbiato ( a d esempio - scandaloso esempio - di quel che è avvenuto al senato per il disegno di legge Gonella, governativo questo, sulle facoltà di scienze politiche e sociali). Ma finalmente prevalse il buon senso, e anche i l rispetto verso il presidente De Gasperi, che davanti al senato aveva preso impegno di presentare un proprio disegno d i legge su tali incompatibilità; disegno che, seguendo il parere del consiglio dei ministri, non fu formulato per rispetto a quelli già presentati alla camera. Purtroppo son passati in commissione tre anni di studio e di « sciopero a singhiozzo D; ma tutto venne superato quando il nuovo disegno di legge, nel complesso più rigoroso e più organico delle proposte originarie, venne messo all'ordine del giorno dell'assemblea. Si aveva buon motivo a sperare che, data l'approvazione della commissione dove i democristiani sono in maggioranza, e la relazione affidata ad un democristiano, dato l'atteggiamento governativo espresso dal sottosegretario Lucifredi rispettoso dell'assemblea e in massima favorevole, anche il direttorio democristiano avrebbe lasciati liberi i deputati in affare che non poteva essere guardato come politica di gruppo.. Non fu così: un emendamento all'articolo primo, atto a svuotare la legge, fu presentato da due meridionali dei quali ho molta stima: Jervolino e Codacci-Pisanelli. I1 direttorio si affrettò a farlo passare come emendamento ufficiale sul quale impegnò i l gruppo. Si voleva attribuire al governo, per le nomine d i sua competenza, la facoltà di chiedere a l parIamento il consenso ad personam nel caso di un deputato o senatore

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proposto a cariche per l e quali veniva sancita la incompatibilità. Si poteva essere più illogici di così? una incompatibilità oggettiva si faceva divenire incompatibilità soggettiva e ad libitum della maggioranza, della quale il governo è emanazione; inaugurando il sistema di far partecipare il parlamento ai poteri dell'esecutivo per coprire le responsabilità di scelta di determinati amministratori di enti pubblici. Non avrei rilevato tale iniziativa, che doveva essere seppellita nel ridicolo, se non fossero avvenuti due fatti: - che per u n voto ne fu evitata l'approvazione, e che il direttori0 del gruppo a maggioranza colpì di sanzione immediata i trasgressori, senza avvertire l a sconvenienza di un suo intervento quando ancora continuava alla camera la discussione sulle incompatibiIità. Fortunatamente, ed è questo che preme, la maggioranza del gruppo democratico cristiano seppe trovare il suo posto nelle successive votazioni su emendamenti diretti a svuotare i l contenuto 'della legge, superò il tentativo di far mancare il numero legale, si oppose a chi ingenuamente accennò alla proposta di rinviare alla nuova legislatura l'applicazione della legge in base a non so quali diritti quesiti. Così furono riscattate le incertezze del passato e fu implicitamente superata una malintesa disciplina di gruppo su materie di valore morale e di costume parlamentare, dove nè i l governo nè il partito erano impegnati diversamente degli altri partiti, premendo a tutti una maggiore elevatezza morale del parlamento. Non abbia a male l'on. Bettiol queste considerazioni, egli che forse per troppa condiscendenza a elementi interessati, h a condotto il gruppo allo sbaraglio. Perchè, strano a dirsi: sia che il gruppo avesse vinto, sia che avesse perduto nella battaglia diretta a svuotare l a legge, sarebbe rimasto di fronte al paese dal lato del torto, assumendosi la responsabilità del fallimento della legge nel primo caso; del fallimento della tattica del gruppo nel secondo caso. Per fortuna, i pochi che mancarono alla disciplina nel primo giorno e i molti che l i seguirono a sanzioni applicate, e i moltissimi che votarono bianco nello scrutinio finale (è a supporre che fra 55 palle nere ci fosse un


buon numero di interessati dei vari settori di Montecitorio) hanno riscattato l'onore del gruppo e portato in porto una legge che i l paese attendeva da tre anni. 12 aprile 1952.

(24 Ore, 28 aprile).

SAPER AMMINISTRARE Nessuno ha diritto a meravigliarsi che nei paesi democratici, e per di più in un periodo di lotta serrata contro il comunismo, le elezioni amministrative si « politicizzino n. Anche ai miei tempi, era così; e quando per la prima volta mi presentai agli elettori sotto la bandiera della « democrazia cristiana (1899), la cosa fece scandalo; ma il sostrato politico dava la spinta alla battaglia. Fin da quel giorno feci un patto: niente privilegi di classi alte o basse; buona amministrazione. Che insieme a i miei amici fedeli abbia io mantenuto i l patto da consigliere, da commissario, da sindaco, è cosa nota. Che abbia trasportato lo stesso metodo al consiglio provinciale rimanendo per quindici anni all'opposizione più vivace e dura, anche ciò è noto. Che abbia sostenuto per venti anni, nei congressi e nel consiglio dell'associazione nazionale dei comuni italiani, i postulati dell'autonomia locale insieme alla più efficiente e personale responsabilità amministrativa, appartiene alla storia. Ho così un certo diritto di parlare oggi di buona amministrazione ai consiglieri, assessori e sindaci in carica e a i candidati a tali posti nelle prossime battaglie elettorali. La politica (dacchè l a lotta è fatta da e in nome dei partiti) servirà a fare 'ottenere i l numero di seggi relativi ai partiti in competizione; ma entrando per il portone del municipio o della provincia, l a cosidetta politica (quella di basso rango e di color mal fido) deve rimanerne fuori; l'altra, quella dei principi nel loro riferimento al carattere degli enti locali, entri pure e sia tenuta presente solo al fine pratico della buona amministrazione. Perchè, quali che siano gli orientamenti politici, i provve-


dimenti legislativi, le discussioni di parlamenti, assemblee, congressi, consigli direttivi, giunte, commissioni e simili, sono tutti ordinati ad unico fine: la buona amministrazione. Tutte le teorie, i discorsi, i dibattiti o sono ordinati all'esecuzione pratica; o non valgono un fico secco. Non dico che per sè siano inutili; dico che spesso sono superflui, ingombranti, fan perdere tempo, o peggio, fan perdere la bussola, portando a compromessi dannosi. Gli eletti, dopo avere sciupato le proprie forze in riunioni, che prendono lunghe ore, molti giorni, mesi anche, anni anche, sono incapaci a provvedere all'azione pratica, che manca, o ritarda, o è inadeguata. Si ha così il massimo sforzo e il minimo risultato ; l'inverso della legge che dovrebbe regolare la vita pratica come regola la buona economia. L'amministrazione dei comuni e delle provincie è certo hasata su principi, leggi, criteri, orientamenti che formano una tradizione notevole in Italia; però raccomanderei ai legislatori d i fare meno leggi e meno regolamenti e dare più libertà ai comuni e alle provincie, con una più netta e chiara responsabilità, anche contabile e penale, agli amministratori che violano la legge e che dissipano i denari del pubblico. Ho dovuto constatare che non pochi comuni, specie del mezzogiorno e delle isole, non hanno applicato tutte le imposte, tasse, sovracontribuzioni che le leggi autorizzano ; per cui tirano avanti senza sufficienti entrate, sono oberati di debiti; il personale non è regolarmente pagato; non si hanno mezzi adeguati per strade, fognature, edifici scolastici, servizi igienici. Tali comuni sono in partenza male amministrati. I consigli comunali che non hanno il coraggio di mettere tasse, è meglio che vengano sciolti. È vero che i prefetti possono inviare commissari a fare quel che i consigli e la giunta non fanno. Ma qui entra la politica, quella cattiva, quella della peggiore tradizione italiana, quando i prefetti intervenivano se deputati o ministri lo richiedevano, e dovevano chiudere u n occhio, o anche due, verso gli amici e vedere il contrario se erano u al potere » (si diceva: u al potere ») gli antiministeriali. I comuni debbono avere entrate adeguate: è deplorevole che la camera non abbia varato la legge sulle finanze locali già


approvata dal senato: legge incompleta e insufficiente, sia pure, ma tale da recare una prima sistemazione alle finanze locali dissestate dalle crisi della guerra e del dopo guerra, dai carichi statali e dalle spese accresciute per il personale, quasi dappertutto esuberante e perciò a costo sproporzionato. Fino a che non sono sistemate le finanze locali, l'intervento statale per spese nuove o per i deficit diventa normale; s'impone: ma è un rimedio questo del tutto passeggero e per sua natura controproducente. Gli amministratori si abituano a chiedere; non hanno più il senso di responsabilità diretta verso i contribuenti e verso gli amministrati; chiedono ed eccitano le popolazioni a chiedere, e i deputati a chiedere, e i senatori a chiedere; e protestano se lo stato non dà, o d.à poco, o tarda a pagare, e perfino se controlla le spese e rende difficile la stessa vita locale. Per amministrare bene occorrono diverse virtù negli amministratori. Non farsi pigliar la mano dalla burocrazia locale; rispettarla, ma fare rispettare gli orari, il servizio e il pubblico. Nulla domandare loro che non sia secondo legge; non servirsene per fare un favoritismo o per evadere le disposizioni legislative o regolamentari; mantenere con loro l a regolarità e l'equità per le scelte e le promozioni. I1 contatto con i cittadini, specie i meno favoriti e più bisognosi, deve essere costante, premuroso, giusto. Per i l sindaco e gli assessori, i cittadini debbono essere tutti eguali nel rispetto dei diritti, tutti eguali nel far loro osservare i doveri civici. I1 denaro pubblico sia sacro: è invalso l'uso di amministrare con una certa larghezza, direi, con molta larghezza, senza avere il coraggio di mettere fuori della porta i parassiti, i ricattatori, i mediatori, i trafficanti. Ciò può darsi che crei risentimenti personali, ma crea anche l a soddisfazione del pubblico. Se i cittadini che vi han dato i voti non sono liberati dalla genia dei profittatori, a che giova avervi mandati al palazzo comunale? Se l'appaltatore dello spazzamento non tiene pulite le strade, o se quello della manutenzione degli acquedotti vi f a mancare l'acqua, forse chiudete un occhio? e se le strade sono trascurate forse non sentite i reclami del pubblico? È pesante l'amministrazione di un comune, se ciascuno deve


fare il proprio dovere: curare opere di assistenza sociale e farne di nuove; costruire case, rinnovare strade, coordinare servizi, tenere testa a tutti coloro che s'intrufolano per avvantaggiarsene personalmente, a tutti coloro che pretendono posti ampliando i ruoli impiegatizi con l'idea che tanto due milioni o dieci milioni o cento milioni di maggiore deficit nei bilanci non è poi un gran male! La cura d i amministrare il denaro altrui, che è denaro di tutti, deve essere superiore a quella di amministrare i l denaro proprio; per quanto anche l'amministrazione del denaro proprio imponga dei doveri verso se stessi e verso la famiglia e anche verso l a società, e vi sia maggiore libertà e minore responsabilità nel disporne di quanto non richieda l'amministrazione di un ente pubblico che esige rispetto delle leggi e dei regolamenti, accuratezza e senso di misura. Solo con la buona amministrazione i l popolo potrà ricevere tutti i vantaggi di una sana politica, di una intelligente legislazione e anche della stessa attività dei partiti, quando non sono demagogici e rivoluzionari; invece per la cattiva amministrazione o per la trascurata o poco intelligente amministrazione, la società va alla malora, anche quando avrebbe per dirigenti statisti di altissimo valore, politici abilissimi, quando il parlamento avesse fatto leggi progressive e impeccabili, quando i partiti avessero programmi e piani modernissimi, e le casse fossero piene di miliardi. Tutta la vita umana è diretta all'azione; tutte le teorie si risolvono nella pratica; tutte le leggi sono fatte per l a esecuzione; tutti i regolamenti (troppi, troppi), sono per la realtà immediata; l a società si articola nei comuni, perchè nei comuni, nelle frazioni e borgate viviamo noi uomini, che poi formiamo il complesso delle provincie e regioni e dello stato, forme organiche e giuridiche queste, che sarebbero vane e inutili senza gli agglomerati comunali dove circola la vita simboleggiata nella torre civica con accanto il campanile. 17 aprile 1952.

(Torre Civica, n. 3/4 marzo-apriIe).


21 APRILE 1952 DESTINO D I ROMA

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Che Roma abbia avuto un destino unico nella storia non può esservi dubbio. Le capitali di ogni altro impero antico delle civiltà mediterranee e medio orientali sono oggi ruderi. Le citt,à sante restano limitate a speciale devozione dei vari popoli senza altra storia, rinomanza, funzione. Le capitali occidentali sono legate alla vita dei relativi stati moderni, seguendone l e sorti: Madrid e Londra, Bruxelles e Amsterdam, Washington e Buenos Aires. Anche Parigi, città di cultura e di fascino che h a una storia medievale tutta propria, come capitale di una Francia unificata, monarchica, imperiale e repubblicana, è anch'essa moderna. Roma sola supera i destini particolari e i secoli e si aderge a caput mundi. Da ottantadue anni Roma è anche capitale di un grande stato; P e r i partiti estremisti del risorgimento, o meglio per gli esaltati e i fanatici, la terza Roma avrebbe dovuto soppiantare la capitale della cattolicità; Pio IX sarebbe stato l'ultimo papa; il trionfo del laicismo massonico e dell'anticlericalismo ateo doveva dare a Roma l'impronta del progresso. Altri, più realisti e più umani, e non del tutto alieni dal pensare ad una Provvidenza divina anche per l'Italia e per Roma, auspicalono la coesistenza delle due autorità; i l papato e la monarchia costituzionale e allo stesso tempo la trasformazione di una città sacra, ma anchilosata, in una città anche politica e rifatta a nuovo. Si attese mezzo secolo per ridare l a pace religiosa all'Italia confermando Roma nella duplice fiinzinna di capitale del mondo cattolico e di capitale dello stato italiano. Purtroppo, ogni città capitale deve risentire, più delle altre, l e vicende politiche; mentre la città sacra amerebbe u n ritmo sereno, l a tranquillità fatta di studi e di liturgie. Non così Roma, che mai ebbe esistenza tranquilla, anche sotto il papato, divenuto centro dell'Europa in fermento di crescenza e in urto d i fedi e di interessi di tutto il mondo. Perchè se l a chiesa cattolica non è del mondo, essa è nel mondo; la Roma dei papi


è capitale del mondo e deve riflettere un destino superiore al mondo. Roma ha sempre imitato e simboleggiato la vita del cristiano nel suo pellegrinaggio terreno fatto d i lotte interne e d esterne con se stesso e col mondo. I simboli di queste due vite d i Roma sacra e profana, spirituale e temporale, caput mundi e capitale d'Italia, sono da allora indicati con i nomi d i Vaticano e Quirinale; ma Roma ha il suo simbolo proprio che indica il suo carattere civico e rappresentativo delle due vite affidate al popolo di Roma, ed è il Campidoglio: Senatus Populusque Romanus. Non sarebbe umano pretendere che in ogni giorno o in ogni ora il popolo di Roma, come collettività, e i cittadini romani i n singolo, pensassero a tale onorifica rappresentanza morale e politica. Come ogni italiano si sente tale senza rifletterci e meditarci ogni giorno, perchè l'essere uomo e l'essere italiano, cioè nato in questa terra benedetta, sono connaturali, e chi ripudiasse l'appartenenza e la figliolanza dalla propria patria non avrebbe sentimenti umani; così è per il romano nella sua partecipazione alla vitalità e allo sviluppo della sede del papato cattolico e dello stato italiano. Sotto questo aspetto, il Campidoglio non è solo un'amministrazione che cura strade, fognature, servizi idrici, illuminazione, anagrafe e ogni altra attività municipale ; il Campidoglio è il simbolo del popolo romano nella sua tradizione civica e nella sua partecipazione speciale alle attività politiche dello stato e a quelle religiose del papato. Un controaltare al Vaticano o al Quirinale, o ai due insieme, non può essere elevato in Campidoglio. Certo che il popolo di Roma è libero di mandarvi i rappresentanti che egli vuole per amministrare la città; ma al di là del servizio municipale esiste la ragione e la forza di una missione che Roma non può rinnegare senza rinnegare lo stato o il papato o i due insieme. Conflitti particolari e temporanei, come in tutte le umane convivenze, non potranno mancare, con lo stato assai più facilmente che col papato, sia per quel malaugurato accentramento, che tiene la città capitale soggetta ad un regime umiliante di controlli burocratici e di interventi politici, e che purtroppo manca di quella finanza che le è necessaria ad adempiere alla


sua funzione; ma anche religiosamente, non come organo col quale direttamente il papato possa entrare in conflitto di competenze, bensì come rappresentante della collettività dei « sette colli D. Purtroppo, Roma, come tutte le città che si ingrandiscono rapidamente, h a una inflazione demografica non assimilata n è facilmente assimilabile i n poco tempo. Dal 1870 alla fine dell'ottocento l'invasione burocratica, parlamentare e affaristica della nuova capitale f u indicata con la parola buzzurri data ai nuovi venuti, ai parvenus fatti romani. Dopo una prima assimilazione, ci fu la invasione fascista, anch'essi veri parvenus che vollero con una marcia prendere simbolicamente il possesso di Roma. I primi crearono l'architettura della Roma umbertina del palazzo delle finanze, della Banca d'Italia, di Via Nazionale, e Via Vittorio Emanuele, i Prati e i Quartieri Ludovisi; e f u allora che gran parte della Roma medievale scomparve. I secondi poi ci diedero la Roma imperiale, con sventramenti e sistemazioni ancora più radicali, non tutti malfatti, ma certo fuori delle proporzioni e prospettive artistiche della Roma storica. La guerra e l'occupazione straniera sarebbe potuta riuscire fatale per Roma, se fosse mancata la protezione e l'assistenza del papato, attorno al quale si strinse la popolazione. E Roma nella ripresa delle funzioni di capitale dello stato e sede del governo, già rifugiato a Brindisi e a Salerno, mediò di nuovo, come dopo il 1870, le posizioni del nord e del sud alterate per la frattura territoriale e psicologica avvenuta per la guerra. I1 Vaticano ha avuto inserito nella costituzione i patti lateranensi; il Quirinale ha lasciato la corona ed ha preso il berretto frigio; il Campidoglio ha mandato via il govematorato ed ha richiamato in vita il suo consiglio comunale e il suo sindaco. Ma il Campidoglio manca di quel prestigio e di quella posizione che rende storicamente importante la partecipazione civica alle sorti della capitale dello stato. Parigi h a propria struttura municipale con organizzazione decentrata che garentisce da sorprese politicamente deprecabili; Londra mantiene la tipica tradizione medievale della City, libera e fiera anche di fronte ai re, ma allo stesso tempo sicuro presidio degli isti-


tuti politici e ben distinta dagli altri quartieri e dai nuovi borghi che formano la grande Londra. Berlino era la città militare degli Hohenzollern; Bruxelles è la città mediatrice delle due provincie belghe dei valloni e dei fiamminghi, con statuti tradizionali e garanzie moderne atte a fare d i una città libera una vera capitale. Non parliamo di Washington sorta come sede di un governo federale, lontana dall'influsso e dai contrasti dei partiti e degli stati, dove non si h a diritto di voto. Questo estremo sistema mostra controluce, e in un paese veramente democratico, la delicatezza del problema. Solo Roma nel suo accrescere di popolazioni estranee, nell'aumento delle esigenze dei suoi servizi e nella sua struttura, è rimasta assimilata a tutti i municipi italiani, soggetta ai burocrati dei ministeri; senza pensare che di punto in bianco può divenire l'antagonista dello stato o l'avversario del papato sol che l e borgate mal tenute, aumentate di popolazioni estranee a Roma, che non ne conoscono e non ne apprezzano le delicate posizioni, vogliano mandare in Campidoglio quei tipi di uomini come quelli che nel 1870 sognavano la fine del papato e la instaurazione di uno stato laico-massonico, o altri più rivoluzionari, che vorrebbero oggi instaurare in Italia una seconda e peggiore dittatura. Se un augurio è da dare in questo 2705" anniversario, sia proprio questo: che Roma, per spirito cittadino e per ordinamento legale, venga rimessa al suo posto di dignità storica e di alta funzione politica ed etica, capitale d'Italia e sede del papato. 20 aprile 1952.

( I l Popolo, 22 aprile).

APPELLO PER LE ELEZIONI DI ROMA

Agli amici d i ogni partito Cinque mesi or sono, al di fuori di ogni visione d i parte, vi siete uniti in Campidoglio in occasione del mio 80°, dando


rilievo al mio amore e devozione per la patria nelle varie e travagliate vicissitudini della mia vita. I1 ricordo di siffatto onore, assai al di sopra di quanto abbia potuto meritare presso di voi, mi incoraggia a rivolgervi un appello riguardo le presenti elezioni municipali. Non è concepibile che a Roma, capitale d'Italia e sede del papato, possa mettersi in eric colo l'esito elettorale per il fatto d i avere politicizzato al di là del consueto la competizione elettorale amministrativa; e che la effettiva maggioranza dei romani possa lasciare libero il passo del Campidoglio ai comunisti. Sarebbe, pertanto, desiderabile che venga formata al di fuori dei partiti una lista unica che raccolga le migliori competenze amministrative, dia motivo ai partiti di rinunziare a presentare le proprie liste, e faccia convergere su di essa i voti degli elettori che sentono di essere veramente romani. Se questo mio appello sarà accolto, la popolazione di Roma sentirà viva quella fiducia nelle istituzioni democratiche e libere nell'esercizio del diritto elettorale (che è anche un alto dovere morale), che è stata alquanto attenuata e intiepidita da mesi di discussioni e da dissensi difficili a comporre. Non credano gli amici democratici cristiani, non credano gli amici degli altri partiti, che io presuma troppo, o che abbia volontà di ingerirmi negli affari delle rispettive direzioni. Non desidero altro che non venga compromessa la posizione unica di Roma e che allo stesso tempo non venga compromesso, con ingiustificata vittoria di una minoranza audace e ben organizzata, il naturale svolgimento della vita pubblica del paese a pochi mesi dalle elezioni politiche. Oso troppo? Se il mio è un osare giustificatelo voi; resterà quanto meno l'augurio che io formulo di cuore per le sorti della nostra Italia nella dura lotta contro ogni insidia di dittatura e ogni sovvertimento del regime di democrazia e libertà. 22 aprile 1952.

( I l Popolo, 26 aprile).

1.4

- S T T R Z ~- Politica di querti

anni.


PRECISAZIONI E RILIEVI SULLE INCOMPATIBILITÀ PARLAMENTARI Non è per difendere la priorità d'una invenzione o il diritto d i u n brevetto, ma per precisare il significato della battaglia da me ingaggiata fin dal novembre del 1946 sulla moralità nella vita pubblica, che scrivo il presente articolo. A giustificare la propria opposizione alla proposta di legge sulle incompatibilità parlamentari, si è voluto da alcuni legarla all'episodio Yiola, ben posteriore d i tempo a quanto io ebbi a scrivere negli anni 1947, 1948 e 1949 sul tema della moralità in genere, sul cumulo delle cariche in ispecie, sulla partecipazione d i parlamentari e di burocrati nelle amministrazioni degli enti statali e parastatali. Anche le proposte di legge Petrone e Bellavista, dalle quali trae origine il testo di recente approvato dalla camera, furono antecedenti alle denunzie d i [Viola, datate la prima dal gennaio 1949 e l'altra dalle dimissioni di Bellavista da sottosegretario al demanio, dove ebbe a constatare gli inconvenienti da me deplorati. La posizione presa dall'on. Viola per occasione del tutto estranea, cioè dal dissenso fra i parlamentari abruzzesi e loro seguaci circa la città sede della regione, L'Aquila o Pescara, venne dopo. L'on. Bettiol nella sua nota sulle incompatibilità parlamentari, pubblicata su Libertas scrive: a è noto come l'occasione per discutere sulle incompatibilità sia stata a suo tempo determinata dall'infondato lancio di accuse fatto dall'on. Viola D. L'affermazione è inesatta storicamente, a meno che l'on. Betti01 non abbia inteso insinuare che l e proposte Petrone e Bellavista sarebbero state insabbiate se non fosse intervenuto il u lancio d i Viola 1); il che avrebbe violato un diritto costituzionale che nessun partito e nessuna commissione parlamentare avrebbe potuto sopprimere. Egli certo non ha inteso dire ciò; ma solo che la questione delle incompatibilità fu sensibilizzata, non nell'opinione pub-


blica già favorevole alla mia campagna contro i controllati-controllori, ma nell'ambiente di Montecitorio, il che è cosa assai diversa. Infatti, fu dopo le accuse di Viola che i deputati Vigorelli, Calamandrei ed altri presentarono la loro proposta d i legge; fu allora che a Palazzo Madama il presidente De Gasperi promise un disegno di legge governativo; fu allora che il consiglio dei ministri, visto che già esistevano varie proposte di legge avanti la camera e che sulle incompatibilità dei propri membri è meglio che provveda di sua iniziativa il parlamento, decise di non presentare il promesso disegno di legge, lasciando libero corso alle proposte già formulate. Anzi, se mal non ricordo, fu anche detto o fatto capire che il governo non avrebbe più usato del suo diritto di scelta di parlamentari a posti di amministrazione in enti pubblici; ma se questa fu una promessa, non può dirsi che sia stata mantenuta. Nessuno che passeggia per le aule e i corridoi d i Montecitorio ignora l'ostinata ostilità a portare il problema alla pubblica discussione, il tentativo di insabbiatura, gli sforzi erculei dei promotori a portare in porto il testo finalmente concordato. Quel che non riesco a comprendere è come possa essere fatta una questione di partito, dopo che la commissione, dove la democrazia cristiana era in maggioranza, aveva approvato il testo presentato alla camera affidando la relazione ad uno delle proprie file, peggio ancora come si sia arrivati a tentarne il sabotaggio, con emendamenti atti a svuotare la portata e la finalità stessa del disegno in discussione. Lascio da parte il fatto che la commissione abbia impiegato tre anni dalla presentazione delle prime due proposte e quasi due anni dalla terza proposta e dalle assicurazioni date dal presidente De Gasperi al senato. Non voglio insistere sulla scarsa sensibilità politica ad un problema di carattere morale che, comunque posto, sarebbe stato meglio risolvere subito. Solo desidero chiarire che la mia campagna per la eliminazione della figura del controllato-controllore non ha avuto di mira solamente il parlamentare amministratore di denaro pubblico o in enti sottoposti a vigilanza governativa, ma anche i funzionari statali, che sotto il pretesto d i essere i più adatti rappresentanti dei ministri relativi, sono divenuti amministratori, sindaci, di-


rettori generali, vice direttori e così di seguito, delle centinaia e centinaia di enti finanziati, controllati o diretti dal governo. La mia accusa è chiara: si crea così non solo il cumulo dei posti, ma l a premessa fatale a mantenere in vita tutti gli enti statali inutili, superflui, dannosi, creati dal fascismo, creati per bisogni d i guerra, che dovrebbero essere o ridotti o soppressi nell'interesse della economia del paese. L'intervento d i deputati e senatori serve ad assicurarne la vita parassitaria, a pro. muovere una legislazione di privilegi e di favori della quale i parlamentari, spesso con piena convinzione e in buona fede d i servire così il paese, si fanno promotori e garanti. Ed ecco la figura del controllato (l'amministratore e il gestore di tali enti) che diviene controllore, cioè deputato, senatore, ministro anche; essendo nell'uso che un ministro possa essere presidente di casse di credito come quella per la proprietà contadina, con bilanci controllati dai sindaci e sotto i l controllo della vigilanza. Non ho l e preoccupazioni dell'on. Bettiol (preoccupazioni mai affacciate nella discussione fatta sulla stampa da cinque anni ad oggi) che per via delle incompatibilità la categoria dei deputati possa essere trasformata i n u casta professionale. ».Questo fatto sta avvenendo in tutti i paesi (ci siano o no le incompatibilità in discussione), solo per quei deputati o senatori che, arrivati in parlamento senza professione, posto o mestiere che dia loro i mezzi d i vita, si attaccano alle indennità per vivere, cercando una casa nelle cooperative (per esempio quelle d i Montecitorio »), intrigando i n tutti i modi nel partito o fuori per mantenersi il posto, e se perduto, contando d i ottenerne subito u n altro nelle svariatissime sinecure retribuite degli enti statali, parastatali, pseudostatali e così via. Che poi ci sia in Italia scarsezza di uomini, da continuare a cumulare i posti disponibili fra un centinaio di parlamentari e meno d i duecento funzionari privilegiati, è semplicemente assurdo. Quale poi il movente per re tendere che i parlamentari dedicati ad enti importanti e quasi monopolistici debbano mantenere i due o più posti contemporaneamente (un posto tira l'altro) e non debbano optare per l'ente lasciando i l mandato, o per il mandato lasciando l'ente, il medio cittadino non l'ar-


riva a comprendere, mentre sospetta chissà quali intrighi e quali formazioni d i interessi illegittimi. Per tutto ciò, io sono orgoglioso d i aver fatto una campagna lunga, noiosa, disturbante anche per la incomprensione di parecchi amici miei e amici di Libertas, ma rispondente alla necessità impellente di moralizzare la vita pubblica. Non cesserò finchè non avrò raggiunto la meta sia per i parlamentari sia per i funzionari. E se questa sarà la mia ultima battaglia, spero di trovare chi la riprenda in mio nome. 18 aprile 1952.

( L i b e r t u , lo maggio).

ANCHE A ROMA LA SCELTA E3 FRA DEMOCRAZIA E DITTATURA I1 mio articolo Destino di Roma è stato preso come giustificazione di un appello che non fu lanciato. In verità, l'articolo non ebbe con l'appello rapporti di causa nè effetto; fu scritto per il natale di Roma e pubblicato il 22 sol perchè il 21 era lunedì. Due mesi fa avevo parlato di una legge su Roma più o meno come quella di Parigi, con vari amici del comune e del ministero dell'interno. I1 punto di partenza era stato da me accennato nel messaggio ai romani del 21 aprile 1949, pubblicato allora sul Popolo e su fogli volanti. Scrivo ciò perchè Luigi Salvatorelli mi attribuisce « una emozione » nello scrivere l'articolo, « da non farmi vedere la contraddizione tra il lamento perchè il municipio romano sia come tutti gli altri municipi soggetto ai burocrati dei ministeri 1) e il mio « angoscioso timore che esso municipio possa divenire di punto in bianco l'antagonista dello stato e l'avversario del papato D. Nessuna emozione: quale autonomista da oltre mezzo secolo, sostengo che i comuni siano svincolati dalla soggezione tutoria di merito ( e in ciò la costituzione mi ha dato ragione); quale contrario all'uniformismo legislativo ho sostenuto sempre che le differenziazioni derivanti dal carattere e l'importanza degli

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enti locali sono legittime e doverose. Se per Roma, capitale dello stato italiano, propongo allo stesso tempo autonomia amministrativa e coordinamento politico, non fo una contraddizione; mi sono del resto riferito ai sistemi analoghi di altri stati democratici. Si tratta di materia pensata e sistematizzata nella mia mente e nella mia esperienza; non nata di botto in uno stato di « emozione N. So bene che la tradizione italiana, centralizzatrice e uniformista, è ben diversa; ma speravo che la nuova Italia, come aveva affrontato il problema delle regioni (mezzo paralizzate per un'opposizione preconcetta che non è stata ancora smontata dalle realizzazioni delle quattro regioni a statuto speciale), portasse avanti la riforma degli enti locali, che ancora è al primo gradino della legge finanziaria così aspramente contrastata. Chiarito questo punto, mi preme affermare senza equivoci che la Roma eterna è la Roma dei papi. Che questa, dopo i patti lateranensi con i quali il papa rinunziò ad ogni diritto sovrano sull'ex-stato pontificio, sia ancora Roma dei papi allo stesso tempo che capitale d'Italia, non può mettersi in dubbio. Non si tratta di condominio politico, espresso in forme giuridiche o sfere d'influenza, nè di diritto di ingerenza del papa nella amministrazione dello stato o della città; si tratta di un fatto indelebile nella storia del Cristianesimo e della umanità, che deriva dal martirio di Pietro nella città di Roma, « di quella Roma onde Cristo è romano n. Che Roma sia città sacra è convinzione generale; per l'Italia concordataria importa il rispetto a tale carattere; rispetto ( a parte il dovere del governo) senza aggiunta, senza contropartite, senza specificazioni; si tratta soprattutto di sensibilità che diviene costume e tradizione, basata sui valori morali e sul senso cristiano della nostra civiltà. Non comprendo, pertanto, perchè Luigi Salvatorelli metta le mani avanti ricordando che la sovranità territoriale del papa è circoscritta alla città del Vaticano. Mai ho pensato nè detto di estenderla al di là dei confini attuali, perchè tanta apprensione? Mario Missiroli rincara la dose nel suo articolo: Bisogna scegliere. Egli scrive che la storia ci ammonisce: « che l'Italia h a due tradizioni costanti e parallele: quella cattolica e quella anti-


chiesastica. s i tratta di sapere se il nuovo stato italiano lo si vuole fondare sulla prima o sulla seconda. Bisogna scegliere D. Son sicuro che Missiroli non metterà fra gli italiani della se. conda tradizione i comunisti, i quali non hanno tradizione italiana, ma solo tradizione moscovita. Da loro si può aspettare il ritorno alla politica della mano tesa verso i cattolici ( i n Francia prima e in Italia dopo) quando sono minoranza; e l a politica della persecuzione legata alla dittatura, quando o sono al governo o sono degli occupanti (Cecoslovacchia o Ungheria). Non appartiene affatto ai comunisti una tradizione storica che l i ricolleghi al risorgimento, alla rinascenza e al medio evo. Gli altri, i laici, sarebbero degli sciocchi o degli inaciditi se riprendessero motivi antichiesastici oggi che non esiste più l a questione romana; oggi che lo stato è libero e democratico, tanto più che sulla base di libertà e di democrazia si sono svolte l a prima e la seconda esperienza politica dei cattolici italiani dal 1919 col partito popolare al 1943 con la democrazia cristiana. Sette anni e più (gennaio 1919-novembre 1926) il primo; nove anni quasi il secondo, sono bastevoli a creare una tradizione, che del resto nel campo sociale e nelle premesse politiche, si riallaccia al movimento della democrazia cristiana di fine ottocento. Per i cattolici la scelta dello stato democratico è stata fatta; che lo stato italiano non sia antichiesastico dipende dalla loro compattezza a resistere alle insidie e dalla loro abilità a non prestarsi a motivi di attrito fra stato e chiesa. Non si creda d'altro lato che affermare i valori cristiani di fronte al materialismo comunista e al laicismo agnostico sia fare del chiesasticismo o del clericalismo; è già passata molta acqua sotto i ponti per poter ridare corpo a motivi che non esistono più, quali il potere temporale, la manomorta ecclesiastica o i privilegi del foro ai tempi del risorgimento. Luigi Salvatorelli scrive che « nessun Lutero è alle porte d i Roma. Nessuna apocalissi è in vista ».Chiaro: per l a chiesa i l pericolo è sempre relativo: non praevalebunt. 11 eric colo comunista è assai maggiore per l'Italia e gli italiani. Basta pensare a quel che successe in Germania fra il 1927 e i l 1931; per l e mie frequenti visite ne seguii tutte le fasi, quando Hitler


a d ogni elezione guadagnava quota, non importa se fossero elezioni locali o generali, amministrative, parlamentari o presidenziali, attraendo nella sua orbita liberali, uomini di pensiero, vecchi tromboni della politica, masse operaie, cattolici di destra, socialdemocratici, e in fine anche elementi del centro, fino a che l'ultimo cancelliere, il dr. Bruning, venne sbalzato d i sella. I1 fatto dei comunisti in Campidoglio nel 1952 avrebbe altra portata che quello dei comunisti nel 1946 a Torino, Venezia, Genova, Firenze, con la proporzionale e i C.L.N. del tempo; ben altra portata, anche per le ripercussioni internazionali nel campo politico e in quello religioso. Si tratta di fatti psicologici che hanno valore non trascurabile, sol che si pensi che la storia in molti eventi è dominata da stati d'animo, da ripercussioni psicologiche, da fattori imponderabili che sfuggono alla valutazione normale. Nè si dica che Hitler avanzava perchè puntava su sentimenti elementari e fanatizzanti: la ripresa, il riarmo, la rivincita, la supremazia della Germania. Anche il comunismo affascina con il suo avvenirismo, la eguaglianza economica, la dottrina materialista, e più ancora con la potenza di Mosca. Vi gioca anche, come nelle guerre, la paura del futuro che si va avvicinando. Perchè i miei critici trascurano tutto ciò, pensando ad una mia visione apocalittica, sol perchè il mio collega d'esilio capeggia una lista da cavallo di Troia? Le presenti elezioni possono avere (come speriamo) un esito favorevole; ma può anche avvenire il contrario per via della insensibilità di quanti invece di unirsi si son dispersi in varie liste indipendenti o per il disinteresse degli astensionisti. Ma il timore di una sconfitta oggi può servire come eccitante e come avvertimento ai partiti democratici. Dopo le amministrative verranno le politiche per Montecitorio, e l'anno appresso quelle per Palazzo Madama. Si sveglino dall'incanto coloro che si preoccupano oggi della scelta fra stato cattolico e stato antichiesastico, perchè la loro e nostra scelta sta, invece, fra Roma e Mosca; fra democrazia e dittatura. 27 aprile 1952.

(Realtà Politico, 3 maggio).


LE ELEZIONI DI ROMA (per un punto Martin perdè la cappa) La legge elettorale che regola le elezioni presenti è la stessa di quella, tagliata su misura, delle elezioni 1951 del nord e centro-nord, con l'aggiunta del talloncino pugliese. È ben noto che con tale sistema prende il pallio chi va avanti agli altri anche per un punto. Può capitare che corrano dieci liste non collegate e che l'elettorato si frazioni per dieci; basta un voto e la più fortunata lista con il decimo più 1 dei voti (mettiamo voti 100.001) arriva al traguardo e prende due terzi dei seggi (53); le altre nove liste, che sommeranno nove decimi meno 1 (899.999 voti) si divideranno proporzionalmente il terzo dei posti (27). Ho voluto mettere in luce il caso-limite per far comprendere il rischio che tale sistema comporta e con il quale occorre fare i conti se non vogliamo che entri in Campidoglio il cavallo di Troia. Naturalmente la posizione delle liste romane, raggruppate o no, è ben diversa dalla formula semplicistica messa avanti per ipotizzare il caso-limite. È da escludere a priori che ci sia u n gruppo di liste che possa ottenere la metà più uno dei voti validi. Se questa ipotesi potesse farsi, ogni discussione i n merito sarebbe inutile; la lotta si ridurrebbe solo per la distribuzione dei seggi di minoranza fra tutte le altre liste. La situazione è diversa; il gruppo più favorito potrà prendere un 30 per cento dei voti, poco più poco meno, lasciando il 70 per cento agli altri gruppi e liste. Le previsioni più favorevoli possono andare al logruppo di centro (democrazia cristiana, socialdemocratici, liberali, repubblicani, fronte economico) in concorrenza con il 20 gruppo di estrema sinistra (NittiFaro e comunisti). Segue vivace il 3O gruppo (democrazia nazionale, MSI, unione romana, partito e movimento monarchici). Le tre liste isolate (lavoratori indipendenti, uomo qualunque e lavoratori socialisti) arriveranno in coda.


I1 problema è uno solo: se il primo gruppo, verso il quale vanno le più favorevoli previsioni, arriva ad avere il 30 per cento meno uno, e le liste Nitti il 30 per cento esattamente, proprio il voto d i un elettore qualsiasi che quel giorno, per essere raffreddato, non si sentirà di andare alle urne, avrà deciso le elezioni di Roma. Lo stesso potrebbe dirsi del secondo gruppo se per caso ottenesse più voti della coalizione democristiana e un solo voto d i meno del gruppo Nitti. Le altre tre liste concorrenti non possono aspirare ad altro che ad ottenere qualche seggio di più nella minoranza, perchè non essendo apparentate, sono di per sè fuori concorso. Ecco, pertanto, il gioco delle ipotesi: I. Maggioranza: democrazia cristiana e apparentati 30 per cento più 1 = 53 seggi Minoranza : Nitti, monarchico-missini e liste minori 70 per cento meno 1 = 27 seggi 11. Maggioranza: monarchico-missini 30 per cento più 1 = 53 seggi Minoranza : Nitti, democrazia cristiana e liste minori 70 per cento meno 1 = 27 seggi 111. Maggioranza: Nitti-comunisti 30 per cento più 1 = 53 seggi Minoranza : monarchico-missini, democrazia cristiana e liste minori 70 per cento meno 1 = 27 seggi Dato il sistema, che i 27 seggi d i minoranza siano conquistati, 20 da un gruppo e sette dall'altro gruppo e liste isolate, o al contrario 7 da un gruppo e 20 dall'altro gruppo e liste isolate, h a un valore assai relativo, dato che le minoranze valgono più per gli uomini che per il numero. Ma che la maggioranza tocchi all'uno o all'altro, questo, e solo questo, è quel che conta. Pertanto, nell'opinione comune tre sono i gruppi i n gara: Nitti-comunisti e fiancheggiatori; D.C. e parenti monarchicomissini 'e consoci ; ma è anche opinione comune che la lotta finale è fra i primi due, amvando buon terzo corona-fiamma. Se ogni contrassegno pigliasse i posti proporzionalmente ai voti ot-


tenuti, quell'uno più uno meno non conterebbe; ma dato il premio di maggioranza del sistema attuale, quell'un voto è decisivo. Non ci sarà giustificazione che valga per tutti gli elettori delle altre tredici liste a regalare i l Campidoglio ai comunisti sol per prendere il posticino al freddo nella minoranza e stare a vedere quel che faranno i parvenus di Mosca. Si sa: faranno anche loro lunghi discorsi e cercheranno d i dire la loro parola nell'aula consiliare i 27 della minoranza; cercheranno, anche, di affrontare situazioni difficili anzi difficilissime. Non sarò io a diminuirne le responsabilità e a svalutarne i compiti. Ma non è comprensibile, che in una situazione così stretta e decisiva nella quale sono in gioco interessi superiori ai piccoli interessi di persone e di partiti, si vada, non solo in ordine sparso, ma addirittura in lotta, per guadagnare i posti di minoranza, sottraendo i voti al gruppo che solo o quasi può fronteggiare i comunisti. Un buon giocatore punta sul cavallo più valido che gli dia quasi sicurezza di vittoria. Qui non si tratta di puntare sull'abilità di un altro; qui si tratta di puntare sulla responsabilità propria, perchè con quell'uno di più o quell'uno di meno si decide della vittoria. I1 ragionamento è elementare: se voto per una lista che non ha probabilità alcuna di arrivare in testa e che h a quasi tutte le probabilità di restare in coda, ho aumentato d i u n voto le probabilità di vittoria d i Nitti e compagni. Ciascuno, nel votare si deve domandare se questa possa dirsi condotta ragionevole per coloro i quali sono convinti che sarà me. gli0 che quei signori capeggiati da Nitti vadano a sedere nella minoranza con quei 10 o 12 posti che gli elettori proprio loro regaleranno. Ma che siano gli elettori delle altre liste a fare loro i l grosso regalo della maggioranza, è cosa che deve essere tenuta in conto. Si dice: noi faremo un'affermazione che vale per il 1953. Noi chi? i sostenitori delle liste isolate e senza probabilità? L'affermazione potrà essere fatta al 1953 sia che rimanga la proporzionale ( e allora ogni lista gioca la sua carta), sia che venga approvato il ritorno al collegio uninominale ( e .allora ogni candidato assume la propria responsabilità). Ma con un

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sistema elettorale come l'attuale non è serio parlare d i affermazione senza prospettive tranne quella d i guadagnare quei pochi seggi di consigliere di minoranza che farà piacere agli eletti, ma non gioverà ai romani ed a Roma. Si dice: monarchici e missini hanno ragioni politiche per contrastare il terreno ai democristiani e partiti collegati e viceversa: anche le elezioni di Roma sono, volere o no, a carattere politico. Arrivato a questo punto non ho altro da rispondere che se le probabilità d i vittoria sono maggiori per il primo gruppo (democristiani e apparentati) non c'è altra soluzione, stante le cose come sono, che votare una delle cinque liste del centro secondo le proprie affinità e simpatie. 4 maggio 1952.

(L'Italia, 9 maggio).

IL 61" DELLA « RERUM NOVARUM Roma celebra questa ricorrenza oggi, riunendo tutti i cattolici militanti a piazza del Popolo per l'affermazione di unità di convinzione e di azione sotto la guida del papato. Leone XIII aprì la ininterrotta serie dei papi sociali e moderni; da lui partì nel 1900 la celebre frase: « se la democrazia sarà cristiana farà gran bene al mondo ».Fu lui a sanzionare i n Francia nel 1892 il disimpegno della vita delle nazioni e dell'attività politica dei cattolici dai legami del legittimismo. Leone, nel 1891, richiamò governanti e classi politiche ed economiche al dovere d i intervenire per mettere su basi organiche di giustizia e di libertà i problemi della condizione degli operai nella nuova struttura economica moderna. Se noi ci rifacciamo principalmente alla Rerum Novarum per datare il movimento sociale cattolico, non intendiamo disconoscere i pionieri del campo sociale che dai primi del secolo decimonono indirizzarono il pensiero e l'azione dei cattolici di ogni parte del mondo alla soluzione dei problemi creati dalle


rivoluzioni politiche ed economiche dell'epoca nei rapporti del lavoro. Ma per l'autorità che promana da un così alto documento e per il contenuto di dottrina e di orientamenti, facendo punto alle precedenti controversie e dando la base agli ulteriori svolgimenti teorici e pratici, abbiamo il dovere di mettere al posto centrale l'enciclica che si commemora. Tre punti meritano il maggiore rilievo. Anzitutto la proclamata necessità della riorganizzazione della società per classi ( o categorie) economiche di fronte all'individualismo della società liberale. Questo punto può sembrare superato per lo sviluppo del sindacalismo, ma non è così: l'inorganicità della società attuale non è stata superata, il sindacalismo è ancora un movimento, non un'organizzazione. Lo stato accentratore ha avuto affidati compiti eccessivi che ne turbano la funzionalità, creando una dittatura economica che arriva ad una dittatura politica (palese o larvata), sopprimendo o rendendo inefficiente (secondo i casi) la iniziativa privata e quindi la personalità umana che è alla base della produttività economica come è alla base della libertà politica. L'altro punto dell'insegnamento leoniano è la collaborazione delle classi di fronte alla teoria marxista della lotta di classe. Che questa collaborazione possa attuarsi in organizzazioni miste o indipendenti, in forme dirette o intermedie, sopra un terreno di intese economiche o di istanze politiche, appartiene alla esperienza problematica del vivere civile; ma che sia un sano principio di etica cristiana e di equilibrio sociologico non può mettersi in dubbio. Secondo i tempi, tale collaborazione può essere intesa come punto di partenza o come punto di arrivo; non può mai mancare senza ridurre la società ad un perenne insanabile conflitto. Terzo punto fondamentale dell'insegnamento di Leone XIII è la libertà organizzativa degli operai. Non sarebbe lecito obbligare gli operai a reggimentarsi in unica organizzazione di lavoro come non è lecito obbligare i datori di lavoro a stringersi in unico sindacato: sindacati liberi in sistema di libertà; sindacati democratici in regime democratico; sindacati limitati dalle proprie caratteristiche e funzioni nello stato di diritto anch'esso limitato nei suoi poteri, perchè alla base di ogni or-


ganismo sta i l valore immanente e fondamentale della personalità umana, il cui rispetto, sviluppo e completamento è anche il fine ultimo di ogni società. La specifica prevalenza di fine a vantaggio dei lavoratori è l a contropartita della condizione operaia del secolo scorso; questa balza fuori chiara e vitale dalle pagine luminose della enciclica leoniana; essa è la chiave non solo de117attività dei cattolici nella vita pubblica ma dell'avvenire della stessa società. Sessantuno anni non sono passati invano: la elaborazione teorica e le esperienze pratiche nel campo sociale in tutto il mondo, compresavi la nostra patria, non sono passati invano. Non potevano mancare difficoltà, incomprensioni, resistenze, crisi, come in tutte le cose che s'inseriscono nel processo storico, come anche le più sublimi di tutte le inserzioni, i l cristianesimo. Ogni verità illuminante penetra, si afferma e feconda prima nel cuore, poi all'esterno. Oggi masse di lavoratori sono organizzate sotto l'insegna cristiana, la gioventù sente le esigenze sociali dei tempi moderni e nella sua esuberanza vorrebbe attuati senza attenuazioni tutti i postulati del17etica e della economia cristiana. Ma la vita dell'uomo sulla terra è una milizia » per. chè è lotta; lotta contro i l male, lotta per i l bene, lotta per vincerne le difficoltà, lotta per superare gli ostacoli e potere trasformare noi stessi e i fratelli nel soffio dello Spirito Santo. I cattolici di Roma sono uniti oggi, dopo che si sparse voce di una frattura che non poteva aver fondamento; uniti nella concezione sociale della organizzazione pubblica e dei rapporti privati, riaffermando i principi di giustizia base della società, - di libertà, anima di ogni attività, - di democrazia, carattere della organizzazione moderna del governo « del popolo, dal popolo e per i l popolo D. I n piedi oggi, inneggiando a Leone XIII il papa dei lavoratori, e -ai successori, a Pio XII padre e salvatore di Roma, a nome dell'Italia cattolica, a nome della città eterna sede del papato e capitale d'Italia; Roma, il simbolo umano più alto nella storia della civiltà. 10 maggio 1952.

( I l Popolo, 11 maggio).


15 MAGGIO 1946 L'ANNIVERSARIO DELLA REGIONE SICILIANA Guardando i l passato c'è da rallegrarsi: i progressi sono indiscutibili; guardando il presente c'è da esserne pensosi: i bisogni sono immensi; guardando l'avvenire c'è da rinfrancare le nostre speranze: il rinnovamento della Sicilia è nelle nostre mani ed è indiscutibile. Non va1 la pena soffermarci ai piagnoni del « si stava meglio quando si stava peggio D; costoro nulla hanno appreso dalla storia e nulla apprenderanno dalla realtà della vita. Nè ci preoccupano gli antiregionalisti di Roma e altrove, che, chiudendo gli occhi alla realtà, affermano, anche nel maggio 1952, che « l'esperienza regionale fin qui compiuta è stata s d c i e n t e m e n t e disastrosa e deve essere a l più presto cancellata nell'interesse generale ». Costoro non hanno visto nulla, non vedono nulla e nulla vedranno del nuovo fermento creato nelle regioni a statuto speciale. Sicilia compresa e Sicilia all'avanguardia di tempo, di tipo di statuto e di realizzazioni concrete. Questi adoratori del passato che non vedono altro dio che lo stato uniforme e accentratore, scambiato per stato unitario e nazionale, non saranno mai coloro che potranno cancellare le regioni autonome nè dalla carta geografica nè dalla carta politica nè da quella costituzionale deIla nostra patria. Perchè, è qui il punto centrale, noi regionalisti e noi regionalisti siciliani, siamo patrioti assai più dei liberali ultimo modello; e sentendo la istanza regionale come istanza nazionale, la realizziamo nel quadro della nazione senza preoccupazioni di scosse unitarie e di terremoti statali. Non è il caso d i fare l'elenco delle conquiste siciliane; ce ne sono anzitutto nel campo legislativo, quali le leggi elettorali per la regione e per i !comuni, la legge mineraria, la legge per l a riforma agraria, le leggi per la industrializzazione, la cooperazione, la scuola, i lavori pubblici. Sono leggi perfette? chi parla d i leggi perfette i n questo mondo è uno sciocco; tutte le leggi


sono radicalmente imperfette perchè non è possibile adeguare giuridicamente la realtà sempre in processo: sono leggi tendenzialmente buone, da modificare secondo lo svolgersi dei tempi e delle esigenze. Io auguro a l legislatore siciliano che faccia oche leggi fondamentali senza pretendere alla perfezione, che tendano a risolvere i problemi più interessanti la vita regionale, fra i quali i n prima linea l a riforma amministrativa, l a sistemazione delle attuali provincie, la industrializzazione agraria, e lo sviluppo d i quelle industrie che riducano i costi dei prodotti. Programma denso e in certi punti audace; e per realizzarlo occorre un'efficace cooperazione dei partiti di governo e possibilmente la benevola tolleranza, meglio ancora la collaborazione fiduciosa delle minoranze. Lotte sì, ce ne saranno; chi potrà credere ad un progresso senza lotte? La storia non ce ne dà un solo esempio. La mancanza di lotta porterebbe al ristagno delle attività umane o darebbe la base alla dittatura degna di un gregge incapace d i riscossa. D'altra parte, nessuno comprenderebbe l a regione in permanente conflitto con lo stato; sono naturali le divergenze e l e vedute diverse; è legittima l a rivendicazione dei rispettivi diritti hinc et in& in forma legale; ma i rapporti normali si svolgono sulla collaborazione fattiva e sistematica della regione con lo stato sulla base della seciproca fiducia. È dovere riconoscere che in sostanza questa cooperazione c'è stata, non ostante certi ricorsi all'alta corte, che si sarebbero potuti evitare se il regolamento del passaggio dei servizi e del personale fosse stato compiuto sollecitamente. A parte i problemi n o q ancora risoluti, i5 da auspicare una maggiore collaborazione sul piano delle realizzazioni concrete che son poi quelle che contano. Avanti, amici siciliani: correggete 'quel che non va; migliorate l a organizzazione e l'attrezzatura regionale; appoggiate con i consensi e cooperate con le critiche obiettive alla attività legislativa e governativa di coloro che vi rappresentano. I1 sistema regionale, i diritti e doveri che derivano dallo statuto debbono aiutarvi a sviluppare il senso di responsabilità regionale e na-


zionale che eleva e nobilita ogni attività di vita associata e d i valori rappresentativi. Indietro non si torna; ma la nostra autonomia deve essere sempre più valorizzata con la rispondenza delle nostre azioni a l fine per il quale l'autonomia fu ottenuta. La Sicilia nel proprio campo regionale fa da sè; nella vita nazionale è solidale con tutti i fratelli italiani. Ecco i l significato del nostro « quindici maggio D. 14 maggio 1952.

(Sicilia del Popolo, 15 maggio).

INCOMPATIBILITÀ PARLAMENTARI E INCOMPATIBILITÀ MUNICIPALI Debbo registrare un primo successo della legge (non ancora definitivamente legge, perchè si attende i l voto del senato) sulle incompatibi1it.à parlamentari: gli onorevoli Marazza e Tremelloni han bruciato le tappe e si sono dimessi dai posti che tenevano a Milano in enti municipali. L'inizio di una resipiscenza morale e di un ritorno al costume, al buon costume, è già in atto: la sensibilità dei due parlamentari di diversi partiti: un democristiano e un socialdemocratico, è stata corrispondente alla sensibilità del pubblico: occorre prenderne atto; tanto più che tale gesto convalida l'opportunità della legge in corso di approvazione e fa sperare nella rapida discussione al senato prima delle vacanze parlamentari. Un altro raggio di luce è venuto dal sud, con l'adesione di un gruppo di deputati e senatori democristiani alla mia campagna e i l loro proposito di estendere tali incompatibilità alle nomine di carattere municipale. La prima e autorevole affermazione di tali incompatibilità è partita dal consiglio comunale di Roma e sostenuta da tutti i partiti con i democristiani in testa. I1 gesto degli on. Marazza e Tremelloni riguarda posti municipali ai quali erano stati chiamati dei parlamentari; il deliberato di Roma mira ad impedire

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15 - S T c ~ z o Politica d i queati anni.


che consiglieri e assessori comunali partecipino a consigli d i amministrazione di enti municipalizzati o in qualsiasi modo dipendenti o vigilati dal comune, più o meno secondo le linee del disegno di legge sulle incompatibilità parlamentari. Tale disposto potrebbe venire per legge speciale, da non confondersi con il ,disposto degli articoli 15, 16, e 17 del testo unico del 5 aprile 1951 sulle ineleggibilità dei consiglieri comunali. A me, municipalista impenitente, piace di più che l e incompatibilità vengano stabilite per spontanea deliberazione dei singoli consigli comunali, riaffermando un vecchio costume di correttezza amministrativa. I vantaggi che ne verranno alla vita pubblica italiana sono assai maggiori del preteso svantaggio di non potere più utilizzare « specialisti »,« competenti », « abilissimi » amministratori che per caso hanno la disgrazia di essere stati nominati deputati, senatori, e anche semplici consiglieri comunali. Ma, di grazia, chi impedisce loro di optare per il servizio pubblico più importante lasciando il servizio ~ u b b l i c omeno importante? La carica di consigliere comunale, come in campo nazionale i l mandato di deputato o senatore, è un servizio sociale che onora solo chi Io adempie, non mai coloro che ne approfittano, o se ne disinteressano, o lo trasmutano in istrumento di demagogia. Servizio sociale sarà anche amministrare l'azienda municipalizzata, come è servizio sociale amministrare I' INA o 1'AGIP: la scelta deve essere libera, ma occorre scegliere e non mai consolidare posizioni intangibili accumulando posti, i cui impegni non possono essere convenientemente adempiuti da una sola persona. Giorni fa ero intento a leggere (meglio, rileggere) un elenco di incarichi affidati a quel centinaio o più di persone che passano la giornata a correre a destra e a sinistra per potere partecipare alle continue riunioni di commissioni, sottocommissioni, comitati, giunte, nelle quali distribuire le ore della giornata; e pensavo le difficoltà in cui si trovano le sullodate persone a potere adempiere al loro mandato o ufficio ~ o l i t i c oo burocratico di carattere continuativo con siffatte dislocazioni in Roma e in altre parti della penisola. Pensavo dall'altro lato alle tante altre persone capaci, abili,


preparate, che non intrigano nei partiti e nelle anticamere dei vari ministeri, nonchè di palazzo Madama o di Montecitorio, e potrebbero essere utilizzate, alle quali il gettone di presenza o un discreto emolumento potrebbe giovare ad arrotondare le magre entrate. non c'è abbondanza di cc Non ci sono uomini capaci D ; o uomini capaci è la risposta che mi si dà comunemente. Debbo credere che i relativi ministeri ( e gli uffici locali) non tengano schedari aggiornati, ignorino tanti giovani che vengono su con studi freschi e con balde speranze. Io sono convintissimo che in ogni ramo del pubblico servizio ci siano uomini ( e donne anche, proprio donne adatte e preparate e non presuntuose, senza alterigia, nè spirito di trafficantismo) che potrebbero essere bene utilizzati nel campo nazionale come nel campo locale. Un aforisma, da tener presente sempre, serve a fare abbassare la cervice degli uomini che si credono indispensabili: (C nessuno è necessario in questo mondo D. Ad u n re succede altro re ( o regina come in Olanda e in Inghilterra); a un presidente succede altro presidente che potrà anche essere migliore del precedente; e così in tutta la vita umana. Che proprio dove ci siano onori e compensi uniti insieme, non si trovino altri uomini adatti che quei pochi che ne fanno un continuo cumulo monopolistico, sotto l'insegna della indispensabilità? Io ho sempre guardato con sospetto i buoni-a-far-tutto, gli abili per tutte le situazioni, i maneggioni di tutte le amministrazioni. Che nella vita pubblica sia messo il fermo non solo alla incompatibilità dei controllati-controllori, ma al cumulo delle cariche pubbliche anche senza compenso, e peggio al cumulo delle cariche e dei compensi e dei vantaggi monetizzabili (quali appartamenti, automobili e servizi gratuiti), è proprio questo il momento; con le elezioni municipali di oggi e le parlamentari di domani si ha il diritto di chiedere agli uomini responsabili un rinnovamento del costume democratico. 13 maggio 1952.

(Realtà Politica, 17 maggio).


AI CONGRESSISTI DELLE CASSE RURALI E ARTIGIANE DI SICILIA Cari amici, Voglio essere presente in mezzo a voi e ritornare giovane quando fra il 1895 e il 1900 mi occupai della fondazione delle casse rurali in Sicilia assistendone i primi esperimenti e i promettenti progressi. Desidero ricordare il periodo florido della collaborazione delle nostre casse con il Banco di Sicilia per lo sviluppo del credito agrario, al quale per provvide leggi fu dato incremento nel primo quindicennio d i questo secolo. Le nostre casse rurali furono spinte ad assumere imprese di coltivazione diretta delle terre prese in affitto o acquistate. Ci furono successi impensati e risultati negativi; si vide essere meglio distinguere i compiti e creare a parte le cooperative d i affittanza, acquisto, coltivazione e distribuzione d i terre. Poi vennero le crisi politiche e quelle economiche; e la raffica danneggiò molte delle tante casse cosi fiorenti. È storia vissuta, dolorosa, crudele, per molti di voi. Oggi siamo in un periodo di ripresa per le casse rurali siciliane; ne ringraziamo Dio. Occorre essere oculati nella scelta dei soci e degli amministratori; rigidi nell'amministrazione del credito; intenti a non fare infiltrare interessi particolari nell'attuazione dei fini di tali istituti basati sulla moralità e responsabilità dei soci e sulla fiducia del pubblico. Uno dei fini da cercare di conseguire deve essere la diminuzione del costo del denaro, che in Italia è molto alto, superando d i gran lunga i costi degli altri paesi civili, arrivando ad essere perfino usuraio. Comprendo le gravi difficoltà ad ottenere tale risultato, per piccoli istituti locali che si basano sulla raccolta dei risparmi e sui risconti presso le banche. I margini sono limitati per le spese ordinarie; ma pur dentro tali margini, è necessario con.


tenere per quanto sarà possibile, i tassi attivi dei prestiti, educando allo stesso tempo la clientela al rigido uso del denaro e alla puntualità dei pagamenti. È questa una delle più alte funzioni educative in un periodo nel quale la moneta non solo ha perduto i l suo valore intrinseco, ma viene spesa con facilità al di là delle proprie risorse, con sempre crescenti esigenze, che vanno a danno delle economie familiari e della retta ridistribuzione sociale. Agli amici siciliani, convenuti a Palermo, il mio saluto fiducioso, i l mio vivo augurio per il bene delle classi agricole e artigiane nell'ideale della solidarietà cristiana.

LUIGISTURZO 15 maggio 1952.

( I l Popolo, 16 maggio).

AGLI INDECISI, AI TITUBANTI, AI MEZZO-DISINTERESSATI Scrivere o parlare per i convinti è una gran bella soddisfazione; si prende un merito che non si h a ; tale quale la mosca cocchiera che crede d i tirare il carro sol perchè sta posata sulla groppa del cavallo. Scrivere o parlare per chi non legge o non ascolta per partito preso o per impossibilità, è un disappunto, che si supera con un altro surrogato, anch'esso umano e pieno di vanità, quello di dire: io lo fo per me; sento l a mia voce, rileggo i miei scritti e mi basta. Questa volta, scrivo per categorie di persone che se mi leggeranno (ci metto i l se, chiaro!), ne potranno trarre motivo ad agire; gli indecisi che avranno sentito parecchi oratori, letto molti manifesti (non tutti, dato il numero enorme e la rapidità con l a quale sono stati sostituiti), ma non avranno preso una decisione; i titubanti che avranno la loro idea, ma non sono certi di seguirla; i mezzo-disinteressati, che non hanno avuto tempo, gusto, passione a occuparsi delle elezioni e ora, all'ultimo momento, vorrebbero piantarla, e andare a passare qualche mezza giornata fuori della circolazione.


Se proprio il mio scritto capiterà loro in mano e creerà un certo interesse a leggerlo, interesse psicologico, proprio perchè dedicato a loro fin dal titolo, spero che non ne urti i nervi, e che invece li colga nel momento giusto. La cosa, lo riconosco, non è facile; perchè, se dirò che per un sol voto la lista dei comunisti può dare la scalata al Campidoglio, il voto del primo lettore indeciso fra democrazia del centro e nazionalisti di destra, proprio quello che ce l'ha con la democrazia cristiana, ma non vorrebbe il ritorno al fascismo, ecco seccarsi e dire: ma in fin dei conti, si può provare anche la terza lista (quella di Nitti); non cade il mondo. Sicuro: han detto parecchi che non cade il mondo; infatti non si tratta d i prendere Montecitorio o Palazzo Madama; si tratta di cosa di assai minore importanza: illcampidoglio, dove infine ci stanno le oche a dare l'allarme. È vero che il Campidoglio potrebbe valere come la porta di servizio o il corridoio sotterraneo per più valide imprese, sì che tutti gli incerti, gli indecisi, i titubanti, i mezzo-disinteressati, convinti che quei signori saranno i più forti, si uniranno al coro di via delle Botteghe Oscure. I1 mio lettore dice d i no e forse potrà avere ragione, ma forse potrà avere torto. Proprio'lui no; ma un altro, un terzo, un quarto, ci saranno fra i mezzo-disinteressati che il 25 maggio saranno andati fuori Roma a prendere un po' di sole, a visitare la campagna romana senza aver prima pagato il debito d i cittadino alle urne elettorali; ce ne saranno anche fra i titubanti che alla fine vorranno vedere cosa succede; o fra gli indecisi, che si decidono per il peggio .... Lasciamo là il discorso; parliamo ai romani di Roma, quelli che hanno sempre nel cuore questa città piena di monumenti, affollata d i pellegrini e visitatori, che vive tra San Pietro e piazza Venezia, tra piazza del Popolo e il Colosseo, e non può dimenticare di essere la città dei papi, con duemila anni di storia oltre i settecento e più di storia, quella che si impara nelle scuole a partire da Romolo e Remo e la lupa fino a Cesare Augusto ; e la storia di Roma capitale d'Italia ; la Roma così grande che dovrebbe poi veder i seguaci d i Stalin salire il Campidoglio come padroni. Andiamo, via, che è troppo grossa!

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Capisco: non è questo un motivo decisivo per chi è arrivato a Roma pochi mesi fa o pochi anni fa in cerca di u n bel posto e ne avrà trovato uno piccolo e in via provvisoria; ovvero per vendere cianfrusaglie per strada e si trova senza il certificato in regola. Diamogli atto del disappunto anche se nato in Abruzzo o nella Ciociaria; forse ricorderà che la guerra è passata sopra il suolo italiano come un castigo di Dio; e che ora ne siamo fuori e viviamo alla meglio, rifacendoci le ossa; non tutti; ma si lavora per tutti. E se ci fossero stati meno scioperi, meno agitazioni, meno disordini e maggiore cooperazione, tanti poveri sofferenti oggi vivrebbero meglio. Per questo chiediamo di non imbrogliare le carte mandando falce e martello in Campidoglio e altrove, sia pure sotto la protezione di Nitti. Non è questo il caso di darci in bocca al lupo e incoraggiare i comunisti con l a vittoria nelle amministrative di Roma per un'altra più forte battaglia politica nel 1953, dando uno scossone agli incerti, titubanti, assenteisti, che fin da ora non vogliono unirsi a coloro che fanno argine alla marea comunista perchè l'Italia non passi al di là della cortina di ferro, nel paradiso dei sovieti. Mi dirà il lettore: ecco i l tono serio; l'abbiamo sentito i n tanti comizi. Grazie; perchè non vi siete uniti? e ora volete dare la colpa agli astensionisti? Chiaro: diamo l a colpa agli astensionisti, non perchè vogliamo scusare le colpe nostre (quelle vere), ma perchè il cittadino astensionista fa due mali: priva la società del suo voto e con. tribuisce indirettamente alla vittoria bolscevica. Quanto meno astensionisti ci saranno, tanto più aumenterà la probabilità della vittoria degli amici della libertà e dell'ordine. Oramai nessun'altra via è data a noi dalla legge elettorale e dalle circostanze della battaglia: le liste sono là, le urne stanno per essere aperte; i partiti in lotta hanno messo le loro carte in tavola. La decisione è agli elettori; mettendo fuori conto i comunisti e i favoreggiatori dei comunisti, restano gli altri. Facciano appello alla loro coscienza incerta fra dare il voto alle liste centro-democratiche e dare il voto alle altre liste, ovvero astenersi. Se, come sembra evidente, l'unica coalizione che può fronteggiare l'eventualità di una vittoria bolscevica è quella della coalizione del centro-democratico, proprio ad una delle cinque


liste d i centro, nonostante i risentimenti, le antipatie per gli uni e le simpatie per gli altri, dovrebbe andare il voto libero dei romani. Questo, io ho ferma fiducia, sarà il verdetto di Roma italiana e cattolica. 18 maggio 1952.

(Realtà Politica, 19 maggio).

RIORGANIZZARE I L CREDITO L'attesa a rispondere ai critici del mio articolo di fine marzo ( a parte ogni altro motivo occasionale) è stata utile per l'intervento nella discussione, diretto o indiretto, di persone cate dalle cui osservazioni ho tratto ragione di conforto o motivo di revisione ai miei apprezzamenti. La conclusione complessiva che posso trarre dalla mia e dall'altrui esperienza ,è segnata nel titolo di questo articolo: « Riorganizzare il credito 1). È giunto i l momento di guardare il problema in faccia e senza veli pietosi per risolverlo con coraggio. Tutti convengono che il costo del denaro in Italia è troppo alto; e in confronto agli altri paesi civili veramente altissimo. Le cause d i siffatto fenomeno sono molteplici, ma la principale è quella della sproporzione fra il numero di banche, di sportelli, di personale, e la massa di denaro effettiva e potenziale che si amministra. I1 dr. Coda nella sua comunicazione a1 Rotary Club di Torino del 15 maggio 1952 ((Polemica cortese con don Sturzo N, nota che in Italia vi è un bancario per ogni 33 milioni di depositi, mentre negli Stati Uniti un impiegato amministra 230 milioni, in Inghilterra 140, in Svizzera 103 ».Giuseppe Alpino sul Globo d e l l ' l l aprile, dopo aver rilevato che tra il 1938 e il 1940 gli sportelli bancari in Italia erano scesi da 7384 a 6879 per rimontare nel 194,8 a 7403 e nel 1950 a 7773, aggiunge: « Si noti che tale numero è circa doppio di quello degli sportelli d i Francia (superficie doppia dell'Italia) e quasi metà di


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quello degli Stati Uniti (superficie 25 volte) r. L'on. Corbino sulla Gazzetta del Popolo del .24 maggio afferma : « Le ragioni dell'alto costo relativo dei nostri servizi bancari sono molteplici; ma la principale è quella relativa al personale che, sulle spese vive di gestione, al netto degli interessi passivi, assorbe una frazione molto elevata ».E più sotto: « Le banche da noi sono troppe, e nel complesso perciò l'organizzazione bancaria impone un costo economico molto elevato D. Per addebitare i rimedi occorre partire dal sistema che si crede più adatto: vincolismo o libertà? Alpino è per la libertà, che è il sistema che corregge automaticamente i propri errori; ma egli deve conchiudere che essendo purtroppo in regime vincolista se ne debbono ottenere tutti i vantaggi possibili. Corbino dichiara: « I n nessun altro paese questo problema potrebbe risolversi meglio che in Italia dove le grandi banche di credito commerciale o sono quasi interamente controllate dallo stato attraverso I'IRI, o sono istituti di diritto pubblico amministrati indirettamente dallo stato ».Opportunamente il dr. Coda aggiunge di suo: « Alla più razionale politica di nuove concessioni di sportelli bancari che si richiede agli organi centrali, dovrebbe corrispondere una più consapevole parsimonia da parte delle banche postulanti, che da molto tempo profondono somme ingenti nell'impianto di nuove agenzie e si creano presupposti di altrettante gestioni poco o punto economiche D. Ho fatto parlare gli esperti; senza credermi un esperto, pur essendo uno studioso di fenomeni economici, posso dire la mia parola deplorando che si sia lasciata libera la corda alle tre banche dette « nazionali » (quelle del gruppo IRI) a farsi la concorrenza fra di loro, e che oggi la concorrenza si accentua fra Banca commerciale e Banca del lavoro, come se tali istituti appartenessero a privati e fossero spinti da interessi particolari. Nè si capisce come la stessa IMI nel collocare le sue obbligazioni cerchi di stimolare le gare fra le banche di stato provocandone l'offerta al più alto interesse. Se non ci fosse un cartello bancario, le banche di stato e di interesse pubblico dovrebbero arrivare spontaneamente a sottoscrivere una convenzione per regolare i tassi attivi e passivi (con certi margini di libertà) per evitare un artificioso


rialzo del costo del denaro. Oggi il cartello non si osserva, perchè, si dice, non può essere osservato; ma la esistenza di una legge costantemente violata, e la violazione che per se stessa porta a sotterfugi niente affatto limpidi, a parte l'offesa alla morale, rendono più dannoso il sistema e più difficili i rimedi. Sembra opportuno che il depositante abbia un interesse più equo di quel che il cartello consente, e che il depositante di somme limitate abbia una percentuale maggiore che il depositante di cifre grosse. Per mio conto escluderei dal consentire qualsiasi interesse al depositante che supera un certo numero d i miliardi, essendo di sua natura i1 depositante più incomodo, specialmente quando richiede certi favori (per sè o per i terzi non importa) sotto la minaccia di ritirare i depositi. La concorrenza fra le banche deve essere ammessa per la diminuzione dei tassi attivi, benchè urti contro un mal concepito uniformismo che si risolve a danno del pubblico. È un fatto che alcune banche e casse di risparmio sono in grado di opeù inferiori alla media attuale, che il rare con tassi ~ i moderati dr. Coda fa arrivare a11'8,27 per cento; a far ciò dovrebbero essere incoraggiate e portate ad esempio. Ma, se le mie informazioni non sono errate, in alto e in basso nell'ambiente chiuso delle relative associazioni di banche e di bancari, tentativi in tale senso sono guardati con sospetto per non dire con risentimento. Invece di far ciò, con gli utili di esercizio non denunziati le banche tendono a creare riserve attraverso la svalutazione di titoli o d i crediti, l'ammortamento anticipato di stabili e di impianti, cosa che può essere cautelativa, ma, a parte la evasione fiscale, impedisce di assegnare parte degli utili alla diminuzione dei tassi attivi, doverosa per enti a carattere statale e pubblico. Perciò il ministero del tesoro e la vigilanza, organi superiori dello stato in materia, dovrebbero intervenire sia presso I'IRI, sia attraverso i propri rappresentanti nelle amministrazioni e nei collegi sindacali delle banche e degli istituti d i credito, in forma generale o in via particolare e individuata, allo scopo d i rendere il sistema e la pratica bancaria più aderente alle esigenze della economia generale. Nè mi si dica che i pretesi maggiori utili superiori a quelli


scritti in bilancio non esistono; che le banche non Iianno margini sufficienti per ottenere utili così cospicui da diminuire solo del 0,50 per cento i tassi bancari. I1 conteggio della media de11'8,27% è fatto per le operazioni commerciali nel rapporto fra costo dei servizi e massa di depositi. Si tratta di media che prescinde dal fatto che i costi della banca A siano inferiori o superiori a quelli della banca B o della banca C ; media che prescinde anche dalle condizioni diverse nelle quali ciascuna banca si trovò nel periodo di guerra e in quello posteriore; prescinde anche dalle altre operazioni bancarie, commesse, fidejussioni, servizi di esattorie, circolazione di assegni, partecipazioni azionarie e compartecipazione agli affari e a certi affari, che rendono possibili utili cospicui. Tutto ciò scrivo non per biasimare questa o quella banca che arriva a utili per miliardi ( a l plurale); ma per affermare che la finalità del servizio pubblico deve indirizzare gli amministratori verso una sempre crescente comprensione che il primo scopo deve essere quello di rendere il denaro meno costoso, per contribuire così allo sviluppo della economia del paese nei tre settori dell'agricoltura, dell'industria e del commercio. Quello che oggi prevale è l'indirizzo opposto; sia da parte delle banche sia da parte della vigilanza del governo. Comprendo che i rimedi veri (non i ~ a n n i c e l l icaldi), sono molto ardui, sia per il risentimento politico dei parlamentari che si affaticano a creare nuove banche, nuovi istituti, e a d ottenere nuovi sportelli, aumentando l e spese improduttive e quindi i l costo del denaro; sia per quello dei sindacati, che tendono ad ottenere i maggiori vantaggi per l a categoria, forse senza troppo interessarsi del pubblico; sia da parte anche dei beati possidentes delle amministrazioni che non desiderano avere rischi, noie e dubbi sulle loro posizioni acquisite. Dovrei dare una risposta ai bancari che si sono risentiti per certe mie affermazioni. Ma preferisco tacere durante l a vertenza in corso. Non evito la risposta, solo la rimando. 2 giugno 1952. (Realtà Politica, 5


GIOLITTI E I L FASCISMO Si domanda Gaetano Natale in un articolo sul « Messaggero 1) del 21 maggio: « Poteva Giolitti evitare il fascismo? » e risponde: « A distanza di trent'anni può non riuscire chiara la sua condotta D. Che Giolitti nel 1920-21 abbia voluto utilizzare il fascismo per mortificare popolari e socialisti non è possibile mettere in dubbio; nelle elezioni municipali dell'autunno 1920, egli favorì dove fu possibile la intesa dei liberali-democratici con i fascisti; egli sciolse la camera nel marzo 1921 prevedendo e scontando l'entrata dei fascisti a Montecitorio. Chi non tiene questi due punti fermi, non può spiegare le dimissioni di Giolitti nel luglio 1921 dopo una votazione sulla politica estera di stretta misura, nella quale i popolari votarono a favore e i fascisti contro, ma il cuore era diverso. I1 cosidetto « veto a Giolitti » nel febbraio successivo ne fu naturale conseguenza. Ma non sono bastati trent'anni a eliminare la polemica e a farvi entrare la storia. I giolittiani del ministero Bonomi aprono una crisi extraparlamentare durante le vacanze natalizie (gennaio 1922); Bonomi si dimette e il r e lo rimanda alla camera, dove egli si presenta dimissionario. Si apre così la crisi, e Giolitti ritorna alla ribalta come i l naturale successore. La direzione del partito popolare, su mia proposta, e il gruppo parlamentare, deliberano di non partecipare ad un gabinetto Giolitti. Era naturale che il gruppo più forte della camera avesse la sua parola da dire intorno ad un Giolitti che undici mesi prima aveva provocato lo scioglimento della camera senza alcuna intesa nel partito con il quale collaborava, per arrivare a l risultato elettorale del maggio '21. Si disse che la mia mossa era diretta a far dar il mandato d i comporre il governo ad un popolare: è vero fino ad un certo punto. Conoscevo le titubanze d i Meda; conoscevo l'opinione dei dirigenti popolari che ritenevano prematura la presidenza del governo. Quel che volevo senza esitazione era che i fascisti non entrassero nel governo; e che Giolitti, anche senza i fa-


scisti, non fosse più a capo del governo. Altra volta ho scritto su questo tema e non mi dilungo. La soluzione Facta fu da me avversata, ma il gruppo popolare l'accettò, come il minor male. Secondo lo statuto del partito, la decisione spettava al gruppo, non alla direzione; a me restava il diritto di appello a l congresso. Nella crisi del luglio 1922 il nome di Giolitti non ritornò in campo; ma quello di Orlando. Come e perchè Orlando non arrivò a portare avanti il gabinetto è fuori tema; rimase Facta e tutti ebbero la sensazione che si trattava d i un ministero per le vacanze estive; e si attendeva una crisi a novembre. I n quelle vacanze si parlò sempre di un governo con i fascisti: i nomi che correvano erano quelli di Salandra, Nitti e Giolitti. Fra i sostenitori di quest'ultimo era il prefetto Lusignoli; si affermò con sicurezza che egli fosse tramite d i contatti continui con i portavoce di Mussolini. Siamo in settembre; io sollecito un colloquio con il presidente Facta, l'ultimo mio colloquio a l Viminale, allo scopo di appurarne le intenzioni circa una eventuale crisi d i gabinetto, per far posto a Giolitti. Egli negò di avere tale idea o di avervi consentito; egli intendeva opporsi ad un tentativo rivoluzionario dei fascisti, e mi disse che non avrebbe permesso i l congresso fascista a Napoli (come si ripete la storia!). Dubitando della fermezza di Facta riguardo il congresso, andai a parlarne al ministro dell'interno, sen. Taddei, il quale mi rispose (parole testuali) non essere disposto a passare all'alta corte come traditore; egli si sarebbe opposto con tutte le forze ai tentativi rivoltosi dei fascisti. Pochi giorni dopo, il mio conterraneo e amico, avv. Gaetano Scavonetti, già capo gabinetto di Bonomi, mi propose u n incontro con Camillo Corradini; che avvenne ai primi d i ottobre in casa dello stesso Scavonetti. Dopo l'esame della situazione, Corradini mi domandò se io tenessi fermo il veto per Giolitti nel caso che alla ripresa parlamentare fosse sorta una crisi che egli reputava inevitabile. La mia risposta fu che a situazioni diverse si impongono soluzioni diverse; ma per dare una risposta sicura desideravo conoscere se Giolitti ci teneva a collaborare con i fascisti. La


risposta fu affermativa; non sarebbe stata possibile altra soluzione. A me sembrava più opportuno che i popolari ne fossero rimasti fuori, impegnandosi ad appoggiare il governo sotto due condizioni, che cessassero gli atti di violenza e fossero disarmate le squadre fasciste. L'opinione di Corradini era che a questo fine era più seducente una collaborazione nel nuovo governo anzichè un appoggio condizionato. Riassunsi così il mio pensiero: i ~ o p o l a r ipotranno partecipare a d un governo Giolitti senza i fascisti; sarà difficile che vi partecipino con i fascisti. Però se Giolitti vuol riuscire non deve attendere il novembre; deve provocare subito la crisi con l a disposizione d'animo di fare il governo con i fascisti, senza i fascisti, contro i fascisti, secondo che Mussolini voglia lealmente collaborare, restare all'opposizione, ovvero tentare la rivolta. Così ci lasciammo: i l colloquio non ebbe altro seguito; si disse che Mussolini continuò a far trattare con i tre fino al congresso di Napoli. Dopo fece capire che sarebbe entrato in un gabinetto Salandra. Quanto però a Salandra, già stato invitato dal re a tentare un governo liberale- nazionale-fascista, Mussolini negò il suo appoggio, insistendo ad avere lui stesso l'incarico, come avvenne con le circostanze già note. I1 fallimento d i Salandra mi fu comunicato dall'on. Federzoni in persona in un colloquio avuto i n casa del comm. Vicentini la mattina del 29 ottobre 1922. Di quanto sopra si trovano chiari accenni (senza fare nomi) nel mio volume « Ztaly a d Fascismo pubblicato a Londra nel 1926 (Faber); nel 1927 a New York (Smith); a Parigi (Felix Alcan); a Colonia (IM Gilde Verlag-G.M.B.H.) e nel 1931 a Madrid (Reuss). Che nessuna copia esista i n Italia delle cinque edizioni può darsi; non mi sembra probabile. Credo che i l mio libro si sia voluto ignorare da fascisti e da antifascisti; così Gaetano Natale può affermare, candidamente, che per andare Giolitti nell'ottobre 1922 al governo, ci sarebbe dovuto essere qualcuno a designarlo e qualche altro (il re) a dargliene l'incarico. Bastava semplicemente che Giolitti avesse fatto un lieve cenno ai giolittiani del gabinetto Facta d i dimettersi, come fece con i giolittiani del gabinetto Bonomi; o che avesse preso


alla camera ~osizionedivergente da quella di Facta, come fece quando sbancò Luzzatti sulla questione elettorale; e come aveva fatto sempre quando credeva giunta la sua ora; e come, io penso, avrebbe fatto se Mussolini non avesse bruciato le tappe, o se il re non avesse rifiutato la firma al decreto sullo stato d'assedio. Quel rifiuto fu un po' misterioso: il contegno di Facta f u assai equivoco, e nel mio libro succitato metto in chiaro alcuni punti che gli « storici non hanno mai rilevato, nè confutato. Certo che il ritorno di Giolitti dipendeva dai popolari; ma non poteva Giolitti contare sui popolari e allo stesso tempo sui fascisti. Egli era handicappato dal suo atteggiamento « contrario » ai popolari, ai quali non riconosceva il diritto di darsi u n partito e di seguire una propria politica. Disgrazia volle che fossero troppi » i popolari alla camera; io stesso non nascosi il mio disappunto alle elezioni del 1919. Io ne desideravo solo « sessanta » ; l'inserimento sarebbe stato meno difficoltoso e la manovra più libera. Non desidero che si creda che io mi stimi infallibile, ma neppure bisogna credere infallibile Giolitti. Se c'era in me il risentimento del meridionale per una politica giolittiana di asservimento politico e d i completa sconoscenza dei problemi economici del sud, c'era in Giolitti la svalutazione del nuovo partito creato su basi diverse da quelle dei gentiloniani del 1913. Dippiù: anche oggi si crede ad un Giolitti che avrebbe assorbito o dominato il fascismo o che avrebbe governato equilibrando fascisti, popolari e socialisti. È l'errore dei liberali postumi (gli attuali) che vedono in Giolitti un liberalismo che egli mai ebbe, specie tra il 1920 e il 1925. E dacchè sono in vena di ricordi, mi piace, in occasione della prossima riforma elettorale, ricordare che la commissione d i riforma della legge elettorale fascista del 1923 (quella del (C premio di maggioranza n) fu presieduta da Giolitti. È vero: ne fecero parte per ironia i due popolari più proporzionalisti: Micheli e Meda (che tentarono di attenuare il veleno delle proposte, e che poi ... cedettero, come cedettero gli altri, sul così detto meno male). Fu allora che la mia ferma opposizione a quella legge, portò alle mie dimissioni da segretario ~ o l i t i c odel par-


...

tito. Oggi siamo di nuovo al premio d i maggioranza, e (ironia della sorte!) sarà forse il più antifascista dei ministri a doverne proporre il disegno di legge. Dopo quasi trent'anni dal luglio 1923, io sarò costretto a ripetere la mia opposizione. Tornando a Giolitti e il fascismo, l'ultima sua personale responsabilità f u quella di avere dato al re il mal consiglio, dopo l'assassinio di Matteotti, di lasciare Mussolini a capo del governo, perchè, altrimenti, avrebbe dovuto chiamare popolari e socialisti. Questo fu l'ultimo atto di Giolitti non tanto illuso dal fascismo quanto pieno di risentimento contro il popolarismo. Poi venne il 1925; la sua dichiarazione alla camera lo riscattò di cinque anni di debolezza e di illusione; ma fu troppo tardi. 9 giugno 1952. (La Via, 14 giugno).

LA DEMOCRAZIA FORTE E L'ALTRA Ogni buon democratico, anche italiano, dovrebbe seguire attentamente le fasi del contrasto tra il presidente Truman e i corpi giudiziari e legislativi federali riguardo la vertenza dell'acciaio, tanto ne è il rilievo nel campo dei valori politici. L'intervento di Truman rapido e decisivo per evitare la sospensione della produzione sia agli effetti bellici che industriali, potè sembrare la soluzione del nodo gordiano. Ma l'autorit,à giudiziaria statunitense riscontrò violazione di legge ed eccesso di potere e annullò rapidamente (com'è il sistema di là dell'oceano) l'atto presidenziale. I1 paese non reagì, nè reagì il presidente: in America, come in Inghilterra, il rispetto dell'autorità giudiziaria non solo è, come da per tutto, teoricamente basilare, ma per convinzione generale e per costume morale è stato sempre ed è anche oggi fuori discussione. Ogni atto contrario al giudicato sarebbe un contemptum cortis. I sindacati han ripreso lo sciopero, con una temperanza notevole, pur continuando la produzione per commesse belliche.


Truman, da parte sua, si rivolse al senato, non certo per interpretare una legge che il magistrato avesse dichiarata inapplicabile, nè per far rivivere il suo atto d'imperio, ma per avere nuovi poteri destinati alla requisizione degli stabilimenti in modo da non dover subire un secondo annullamento. Ma i l senato, senza peider tempo e senza eludere la, richiesta, ha rifiutato con 68 voti contro 12 l a concessione dei poteri necessari, nel caso che il super-emergency board non fosse riuscito a comporre la controversia fra 120 giorni; ha anche respinto con 52 voti contro 28 un emendamento diretto a consentire la requisizione dopo sette giorni dall'annunzio pubblico; e con 47 voti contro 32, ha negato di àutorizzare la requisizione suddetta per il periodo che sarebbe intercorso fino alla soluzione diretta fra l e parti della vertenza sindacale, pur limitata alle fabbriche ritenute necessarie alla difesa militare. I l senato è stato duro perchè essendo in vigore la legge Taft-Hartley, ha reputato doversi osservare da Truman, piaccia o non piaccia ai sindacati. Nel conflitto Truman-senato pur essendovi un fondo di politica personale e d i presupposti filo-e-anti-sindacali, emerge il rispetto ai principi democratici dell'America; emerge anche il coraggio dei senatori di u n partito ( i l democratico) che potrà perdere dei voti, quelli dei sindacati operai, per restare ancorato alla tradizione americana del rispetto della legge e della sentenza del magistrato. Voltiamo pagina, per rilevare quel che è avvenuto e sta avvenendo in Italia in occasione della decisione del consiglio di stato sulla legge « stralcio ». A parte le lungaggini giudiziarie che in Italia sono di rito, e le indiscrezioni giornalistiche per quasi un mese, la decisione predetta non fu accolta serenamente: gli uni gridarono alla vittoria contro i l governo per poterlo umiliare ; gli altri cercarono di minimizzarne la portata; poscia, turbati che u n atto del governo fosse stato discusso e invalidato, han cercato di rendere la decisione inoperante con la proposta (Salomone) di una legge interpretativa. La procedura seguita in proposito ha dei lati che è bene mettere in luce. Una proposta di legge di iniziativa parlamentare in regime di gruppi (partitocrazia) se è un caso puramente personale cade da sè, va ad insabbiarsi facilmente. Salomone,

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- S m z o - Politica

di questi anni.


per quanto non spinto dal presidente del gruppo cui appartiene, nè ( a quanto mi risulta) da uomini di governo, è andato col vento in poppa; in poco tempo parere favorevole della commissione di giustizia, non ostante la opposizione del relatore ; parere favorevole della commissione dell'agricoltura ; consenso del ministro dell'agricoltura, consenso del presidente del gruppo d.c.; tutto pronto per andare alla discussione dell'assemblea nei prossimi giorni. Avrà il senato italiano il coraggio di quello americano e dire al governo che rispetti il giudicato del consiglio di stato e che esegua la legge vigente così come è? ovvero che presenti, il governo, e non un senatore che non ha la responsabilità del potere esecutivo, un disegno di legge innovativa (come del resto h a già deciso il 14 di questo mese per alcune correzioni alla legge stralcio), per regolare quel che il consiglio di stato h a messo in luce adattando la materia alle esigenze della riforma'! La veri& è che si vuole dare alla nuova legge (Salomone) effetto retroattivo, saltando così la decisione del consiglio di stato ritenuta ingombrante e sorpassata. I senatori della commissione di giustizia han tutti convenuto che il parlamento ha il potere di emanare leggi interpretative. Chi lo contesta? Ma anche la legge detta interpretativa è soggetta al controllo della corte costituzionale ed è anche soggetta alla valutazione della stessa autorità giudiziaria che può decidere se sia realmente interpretativa ed avere oppure no effetto retroattivo. Questo è il punto principale della questione che si agiterà al senato; se dare o negare alla futura legge Salomone (ci vorrebbe un po' di sapienza dell'antico re d'Israele!) effetto retroattivo. Nel caso negativo; se convenga insistere nel privare il cittadino del diritto di ricorso. I n questo caso sembra debba applicarsi il vecchio motto: summum jus, summa iniuria. La conclusione che se ne tira è che gli Stati Uniti di America pur in una di5cile condizione di guerra, evitano l'abuso del potere sia amministrativo sia legislativo; e si dimostrano una democrazia forte. In Italia, dove la esperienza democratica è breve e si risentono ancora gli effetti dell'esperienza della dittatura, il cui spirito si rileva ancora in molti dei nostri uomini


politici ( p e r i quali non vale alcuna legge, neppure la legge Scelba) si segue la via contraria. Con una leggina di iniziativa « personale » fatta passare senza le barriere dei disegni di legge ministeriali, si tenta cancellare gli effetti del giudicato del più alto consesso amministrativo della repubblica. 16 giugno 1952.

( L a Stampa, 21 giugno).

RICORDANDO MARIA MONTESSORI

1907: ero da due anni sindaco di Caltagirone. La scuola mi interessava più di ogni altro ramo dell'amministrazione; non invano avevo insegnato per dodici anni a l seminario vescovile, ed avevo già fatte le prime battaglie per la libertà della scuola. Le mie gite a Roma erano frequenti allora, sia per l'associazione nazionale dei comuni, della quale ero consigliere; sia per gli affari del mio comune ; così mi capitò di incontrare presso amici la dottoressa Montessori che mi invitò a visitare l a sua scuola nel quartiere S. Lorenzo. Sapevo che sospetti di naturalismo avevano ostacolato l'iniziativa; dopo un lungo colloquio decisi di visitare le scuole e rendermi conto del tipo di scuola e delle ragioni del metodo. Andai più volte a S. Lorenzo; il mio interessamento si accrebbe di volta in volta; e Maria Montessori non dimenticò mai il piccolo prete che per il primo aveva preso diretto interesse alla sua iniziativa, l'aveva incoraggiata, ed aveva affermato che nessuna pregiudiziale anticristiana fosse alla base di quell'insegnamento; cosa che poteva essere introdotta in questo e in altri metodi da maestri non credenti. Da quel periodo iniziale non ebbi occasione di rivedere la Montessori che più tardi, in qualche sua sosta a Roma, dopo la fine della prima guerra mondiale, con rapidi incontri per conoscere i progressi delle sue molteplici iniziative. Poscia a Londra, il giorno di S. Luigi 21 giugno del 1925, in una casa religiosa di Fulham Road, mi vedo portare nella


mia stanzetta, un bel mazzo di garofani bianchi: erano della Montessori ed io ignoravo ch'ella fosse nella stessa città. Mi si fece viva in un giorno a me caro; i n un'ora di forte nostalgia, quando lontano dalla sorella e dagli amici, mi venivano i n mente le care feste dell'onomastico, in un paese dove l'onomastico non si ricorda e di amici a Londra non ne segnavo allora che pochi, anzi pochissimi. Così ci rivedemmo ;e si parlò dell'Italia, soprattutto dell'Italia, e delle vicende nostre e dello sviluppo del metodo Montessori nel mondo, e dei piani del futuro e ricordammo la visita del prete caltagironese alla scoletta di S. Lorenzo. L'alone di simpatia e di fiducia che circondarono le varie iniziative all'estero della Montessori e la diffusione del suo metodo, il premio Nobel, tutto servi a far mettere in prima linea nel mondo la figura di questa italiana. La confrontavo con un'altra italiana, maestrina, fondatrice di ordine religioso, allora beata e poscia santa Francesca Saverio Cabrini, che l'America del nord stima sua concittadina, e che ha fama anche presso il mondo protestante. L'avevo conosciuta anch'essa personalmente, dieci anni prima di aver conosciuto la Montessori, proprio per il mio interessamento alle scuole infantili ed elementari, nel desiderio di avere a Caltagirone una casa delle figlie missionarie del S. Cuore da lei fondate; così come avevo desiderato aprirvi una scuola Montessori, Le mie' iniziative fallirono allora, l'una e l'altra per mancanza di soggetti. Mi son più volte domandato perchè da quarantacinque anni ad oggi, il metodo Montessori non sia stato diffuso nelle scuole italiane. Allora come oggi, debbo dare la stessa risposta: si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà; si vuole l'uniformità; quella imposta da burocrati e sanzionata da politici. Manca anche l'interessamento pubblico ai problemi scolastici; alla loro tecnica, all'adeguamento dei metodi alle moderne esigenze. Forse c'è di più: una diffidenza verso lo spirito d i libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori. Si parla tanto di libertà e di difesa della libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni


attività associata dove mette la mano lo stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica, che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo stato e di conseguenza burocratizzata. 17 giugno 1952.

( L a Via, 28 giugno).

DEL

PREMIO DI MAGGIORANZA »

A proposito di nuovi sistemi eettorali da applicare per le prossime elezioni politiche, si parla da circa un mese del premio di maggioranza, che (salvo i dettagli tecnici) dovrebbe favorire d i un certo numero di seggi gratuiti il partito nazionalmente più forte, o i partiti nazionalmente collegati e più forti. La parola « premio D è semplicemente impropria; perchè i n regime rappresentativo, qual è quello della democrazia monè deputati attribuiti derna, non vi sono partiti « premiati quale « premio »; ma semplicemente cittadini elettorali e cittadini eletti, cioè investiti di un mandato. Base tradizionale, storica e umana nel senso pieno della parola, è che l'eletto da un'assemblea, un corpo, un popolo di uguali, deve riportare i l maggiore numero di voti; il principio di maggioranza ne è fondamentale. Su questo principio si sono fabbricati tutti i sistemi possibili: elezioni dirette, elezioni di secondo grado, elezioni eliminatorie, con maggioranze qualificate, con votazioni di ballottaggio e così via. La proporzionale è venuta ultima e da poco tempo a modificare i l sistema uninominale maggioritario. F u introdotta nei paesi europei dopo l'altra guerra, con finalità rivoluzionaria: si trattava di inserire nel corpo politico degli stati europei e relativi governi i cosidetti C< partiti di massa D : socialisti e democristiani. Questo « attentato » rivoluzionario (del quale chi scrive quest'articolo è stato magna pars) era giustificato in sè


'

come in sè giustificate tutte le rivoluzioni intese ad ottenere, con mezzi morali, un rivolgimento politico. I1 duello Sturzo-Giolitti è tutto qui: Giolitti nel maggio 1921 volle vincere con l'arma di Sturzo (la proporzionale) e perdette; ma Giolitti avvelenò l'arma di Sturzo introducendo nella camera i fascisti e lasciando i l potere (giugno 1921). I1 resto ne f u logica conseguenza. Oggi la situazione è capovolta; la proporzionale serve a i comunisti e ai neo-fascisti (e relativi alleati) contro i partiti di governo: democrazia cristiana e partiti di centro. L'arma rivoluzionaria del 1919 serve ai rivoluzionari del 1952. Ed ecco l'opportunità (non dico necessità) d i ritornare al sistema uninominale maggioritario per ristabilire l'equilibrio delle forze. Apro una parentesi: il sistema proporzionale può funzionare da sistema maggioritario e averne tutti i vantaggi in due casi. I1 primo quando i partiti in contrasto sono due senza contare o uno o due piccoli gruppi d i poca importanza. La così detta stretta misura d i maggioranza può essere effetto di qualsiasi sistema elettorale, non è u n privilegio della proporzionale. In Inghilterra il caso si è dato più volte pur in' sistema uninominale; più volte anche nel Belgio prima con sistema uninominale e ora con sistema proporzionale. Se la maggioranza non regge, non c'è altra uscita che l'appello al paese. I1 secondo caso è quello italiano ( e anche francese) dei governi di coalizione, siano state le camere elette col collegio uninominale ovvero con il sistema proporzionale. Chiusa la parentesi torniamo alla presente situazione elettorale: questa sembra differente da quella del 1948 perchè le elezioni amministrative del 1951 e quelle del maggio scorso hanno mostrato un'alterazione nelle percentuali di voti ottenuti dai singoli partiti in rapporto a i voti ottenuti nelle elezioni politiche; e per l'entrata in gioco aperto d i un neo-fascismo vivace benchè tuttora mal definito, sviluppando nel paese la preoccupazione di u difesa » su due fronti. Così è nato il pericoloso mito del premio d i maggioranza, che scalzerebbe psicologicamente e in partenza le stesse basi della maggioranza; e trasformerebbe la battaglia elettorale, che è tipicamente d i conquista, conquista della maggioranza, in bat-


taglia di difesa dei partiti di governo (o di centro), quali assediati nelle proprie posizioni. A differenza delle democrazie anglosassoni, dove continua da secoli ad applicarsi il sistema uninominale maggioritario puro e in unica votazione, quelle europee e latine introdussero la maggioranza assoluta in prima votazione e i1 ballottaggio in seconda, perchè il regime rappresentativo fu effetto d i una rivoluzione politica e istituzionale; occorreva impedire che il partito del regime vinto, divenuto incostituzionale, avesse potuto alzare la testa, riprendere il potere e annullare le conquiste fatte. Quel che fu per i partiti d i massa la proporzionale dopo la prima guerra, fu per la Francia, l'Italia e il Belgio nelle rispettive fasi politiche del secolo scorso i l sistema uninominale con maggioranza assoluta ed eventuale seconda votazione di ballottaggio. Nei paesi latini così individualisti e con un continuo pullulare di partiti, il ballottaggio costringeva alle coalizioni elettorali per arrivare ad esprimere la volontà popolare in forma dualistica di maggioranza e di minoranza. P e r dippiù: dovendosi fare i conti con il partito o i partiti al governo ( d i qui l'ingerenza diretta dei governi nelle elezioni), la coalizione di ballottaggio rendeva impossibile il ritorno per via parlamentare degli uomini dei regimi soppiantati, anche se tuttora popolarmente vivi, come furono per molti decenni il monarchismo e il bonapartismo in Francia. I1 vantaggio fra il sistema uninominale maggioritario nell'ottocento, e quello misto di proporzionalismo e d i premi di maggioranza, che si vuole introdurre, è che il primo esprime una volontà democratica genuina, mantiene il concetto fondamentale di ogni regime rappresentativo cioè il governo di maggioranza e i l controllo o l'opposizione di minoranza. Al contrario, l a immissione in una camera di persone non elette » direttamente dal corpo elettorale ma reputate elette per fictio legis, violerebbe in partenza il carattere del regime rappresentativo. Se gli attuali partiti di maggioranza credono di contare sulla fiducia del paese, e vogliono evitare che i l gioco della proporzionale favorisca le minoranze (è infatti questa la natura della proporzionale), ritornino al sistema uninominale maggioritario


con ballottaggio ovvero propongano un sistema misto tra proporzionale e uninominale (come è oggi con molti difetti la legge elettorale del senato), ma evitino in ogni caso quel premio di maggioranza, che il fascismo volle come suo primo atto elettorale a cui fece seguito la soppressione, prima parziale poi completa, del regime rappresentativo. 23 giugno 1952. ( I l Popolo, 29 giugno).

MESSAGGIO AL CONGRESSO REGIONALE DELLA COOPERAZIONE Caro Schillirò, t*) Sono stato incerto a rispondere al tuo invito a manifestarvi il mio pensiero in occasione del congresso regionale della cooperazione che si terrà a Palermo dal 25 al 28 di questo mese, mancandomi i contatti con un settore della economia popolare, che un tempo prese i miei giovani anni e il mio entusiasmo. A me sembra ( e desidero ingannarmi) che oggi la cooperazione italiana viva in clima di serra, curata come fiore esotico, ma manchi della libertà dei campi, non resista alle intemperie, eviti il cambiar di stagione. Per uscire d i metafora, la cooperazione è oggi un settore economico soggetto agli enti pubblici e all'ingerenza statale, protetto da leggi, favorito da provvedimenti speciali, da privilegi direi; e manca fra i cooperatori il senso della libertà che fortifica e del rischio che dà il senso delle responsabilità personali e collettive, e mantiene la individualità e la vitalità dell'istituzione. M'inganno? cari amici, ditemi che mi inganno, dimostratemi che mi inganno, ed io sarà felice. Quando leggo sulla Gazzetta uficiale dello stato o della (*) Vincenzo Schillirò, presidente dell'unione regionale siciliana della cooperazione.


regione che è stato inviato un commissario a questa o quella cooperativa, sia di credito che di lavoro o di consumo, sento venirmi un tuffo al cuore. Un tempo i rapporti legali erano con le autorità giudiziarie e si doveva rispondere solo ai soci. In nessun paese dove la cooperazione è in onore e si sviluppa largamente, esiste questa ingerenza statale (la regione qui rappresenta lo stato), ingerenza di natura burocratica e politica. E mi fermo qui. Se la cooperazione nel campo del commercio doveva servire da calmiere dei prezzi, oggi non è così; se la cooperazione nel campo del credito doveva combattere l'usura, oggi, meno casi felici, non è così; l'usura (horresco referens) è fatta anche dalle banche di stato; se la cooperazione nel campo delle imprese agricole ed edilizie doveva servire a rendere meno costosa l'impresa e più remunerata la mano d'opera, in Italia non è così. Mi inganno? cari amici ditemi che mi inganno e sarò felice. Ma a me, i legami statali burocratici e politici, anche se legami con fili d'oro fatti di privilegi e di sussidi, non piacciono; non mi son piaciuti mai; preferisco la libertà con tutti i suoi rischi. E ve l'auguro il ritorno alla libertà per il bene del paese e lo sviluppo di una cooperazione sana, che arrivi alla base della struttura sociale e contenda ad un sindacalismo marxista che predomina con la demagogia, l'organizzazione delle classi lavoratrici. Auguri e cordiali saluti da un ex-cooperatore.

LUIGI STURZO 23 giugno 1952. (Sicilia del Popolo, 23 giugno).

RICORDI SU STEFANO JACINI I1 mio primo incontro con Stefano Jacini fu a Milano qualche mese avanti o all'inizio della prima guerra mondiale, interessandomi in quel periodo ai problemi dell'emigrazione, dei


quali egli era già esperto come membro, e poscia presidente dell'opera Bonomelli. Da parte mia e d'altri amici di Roma si cercava di promuovere quello che nel 1916 fu chiamato consorzio nazionale di emigrazione e lavoro, che poi nel 1919 ebbe il riconoscimento legale. I1 problema dell'assistenza agli emigranti e agli emigrati era allora assai sentito dai cattolici italiani; le varie iniziative, degli Scalabriniani, della Bonomelli, della Italica Gens e infine del suddetto consorzio, servirono a sviluppare la più larga opera d i assistenza emigratoria e a fronteggiare le tendenze anticattoliche, massoniche e socialiste, infiltratesi nei vari organismi governativi del tempo. A guerra finita (egli l'aveva fatta con convinzione e valore) rividi di sfuggita Jacini a Milano. Nulla gli dissi del futuro partito per i l quale mi preparavo al cimento; sperando di averlo fra i primi. Egli venne e con lui una bella schiera di amici lombardi e fu eletto deputato nel novembre 1919 fra i cento popolari, e poi nel maggio 1921 e finalmente nell'aprile 1924. Serio, colto, conoscitore pratico di agricoltura e di problemi di politica estera po. tò nel gruppo parlamentare competenza ed equilibrio. F u creduto un conservatore di destra, ma sentì i problemi sociali senza demagogie e con temperata arditezza. Ne diede prova nelle vertenze agricole della Va1 Padana (dove aveva larghe proprietà tenute modernamente) e nei lavori di varie commissioni d i partito e parlamentari allo studio della riforma agraria preparata dal ministro Micheli e poi riadattata dagli altri ministri popolari, Mauri e Bertini. Ebbi buona occasione di apprezzare l e qualità di Stefano Jacini nel mio viaggio in Germania fatto con lui nel settembre 1921 insieme ad Alcide De Gasperi, al principe Ruffo e al giornalista Francesco Bianco, morto di recente in Brasile. Fu quello u n viaggio di studio politico ed economico di notevole importanza, che agevolò il ravvicinamento dell'Italia alla Germania. Allora era a capo del governo federale il cancelliere Wirth, a capo dei sindacati cattolici il dr. Bruning, che h poi cancelliere, e i migliori nomi del centro emersi dopo l a prima sconfitta così come sono emersi dopo la seconda sconfitta Ade:

P


nauer (allora borgomastro d i Colonia) e gli altri democratici cristiani che tengono il governo. Le situazioni si ripetono. È da augurare che non si ripetano gli errori. Se l a iniziale cooperazione tedesco-italiana del 1921, che avrebbe dovuto cementarsi con gli altri alleati durante la conferenza di Genova del 1922, non fosse stata turbata dalla intesa della Germania con l a Russia, dovuta in parte al disgraziato atteggiamento di Poincaré e alla equivoca politica di Lloyd George, l'andamento degli affari europei non sarebbe stato affrettato verso la revanche fascista e hitleriana del 1923. Jacini fu uno dei pochi che comprese la gravità del fallimento della conferenza di Genova, cui seguirono a breve distanza la crisi Facta (luglio) e l a marcia su Roma (ottobre). La ripercussione dell'avvento fascista nella politica estera se illuse molti non illuse Jacini, che ne vedeva i lati manchevoli e quelli pericolosi. La politica aventiniana non fu del tutto condivisa da Jacini e non a torto; anch'io prima di partire per Londra avevo manifestato le mie riserve e avanzata proposta di un ritorno dei gruppi alla camera. Ma Jacini propendeva per una politica di attesa; io ero per una decisa e aperta opposizione. Quando egli venne a trovarmi a Londra ( e fu più volte), eravamo già in regime di dittatura; egli preparava le sue pubplicazioni storiche in un ritiro dignitoso e di disimpegno dal regime sia prima che dopo la conciliazione e i trattati Iateranensi. Le nostre conversazioni di Londra riattivarono l'amicizia che del resto mai venne meno. I o prevedevo la guerra ; egli contava sulla monarchia. Parevano discorsi campati in aria, fatti in casa di amici comuni e ripetuti a distanza di vari anni, come se fossero stati di ieri o dell'altro ieri. Ma le previsioni si avverarono, con precisa puntualità; ed io avevo avuto il coraggio di parlarne nell'agosto 1938 in una riunione internazionale cattolica tenuta all'Aja. Poi, io in America; Jacini in Svizzera rifugiato anche lui. Mi scrisse e mi interessai a che gli alleati gli facilitassero il ritorno in Italia. I1 mio ritorno fu nel settembre 1946 quando egli, nel rifatto partito democratico cristiano, aveva posti di responsabilità alla costituente e al governo. Poi senatore, rappresentante dell'Ita-


lia a Strasburgo, presidente del comitato esecutivo deIl'Unesco; dando alla democrazia cristiana quanto era nelle sue capacit,à per la rinascita del nostro paese. In quel tempo scrisse la storia del partito popolare, che mi fece leggere, accettando certe mie precisazioni di fatto, pur nella libertà dei suoi apprezzamenti e i rilievi di storico e di critico. Volle, con insistenza, che ne scrivessi la prefazione; e mi parve di adempiere ad un dovere di amicizia e di gratitu. dine. Non avrei pensato, allora, di doverlo ricordare oggi, a un mese dalla sua dipartita, amico caro e fedele. 24 giugno 1952.

(Realtà Politica, 28 giugno).

UNA STORIA EDIFICANTE L'articolo 7 del disegno di legge n. 1786 del 12 luglio 1951 a soppressione della gestione raggruppamenti autocarri (G.R.A.) » contiene una breve ma significativa disposizione: (C Il relativo onere residuo è posto a carico dello stato D. Come prassi e come avvertimento al migliaio di enti statali e parastatali, è di una efficacia senza pari: tutti lo sapevano, da qui a poco sarà consacrato in una legge dello stato che varrà per i contemporanei e per i posteri. Nel detto disegno di legge invano si cerca una riserva di responsabilità e una disposizione cautelativa; si presume che ci saranno delle attività; infatti sta scritto che: (C qualora invece le attività non siano sufficienti ad estinguere le passività, i1 relativo onere residuo è posto a carico dello stato (art. 7). S'iamo intesi. 11 ministro proponente, allora l'on. Campilli, accertava nel luglio 1951 la passività a tutto il 1949 d i circa 1.680 milioni di lire, ai quali erano da aggiungere circa 600 milioni previsti per l'esercizio 1950. Un anno dopo la 7" commissione senatoriale accerta a tutto il 1951 la passività di lire 3.911.678.132, oltre 311 milioni per deficit di cassa fino ad aprile 1952. Siamo dun-


que a quattro miliardi e 300 milioni. Per arrivare al fausto giorno in cui la legge in parola sarà inserita nella Gazzetta ufficiale, mettiamo altri sei mesi; così (calcolando sulla base del 1951 cento milioni al mese di deficit), arriveremo a circa cinque miliardi e mezzo di hfìcit. Tra parentesi: il disegno di legge Campilli, presentato al senato il 12 luglio 1951, non è di quelli che vanno a gonfie vele (come fu per i casuali e il 4 per mille sui mandati del luglio 1951, e come sta capitando alla proposta Salomone per annullare la decisione del consiglio di stato sulle leggi Sila e stralcio); il disegno di legge Campilli è di quelli che restano per strada, nonostante che il ritardo di approvazione costi tre milioni al giorno (secondo il conto della commissione) e dia evidenza della incuria della pubblica amministrazione a eliminare una gestione scandalosa. Intanto c'è u n personale che attende una sistemazione e naturalmente l'avrà aumentando l'onere statale; vi è del materiale inutilizzato (si dice 400 automezzi su 1100) meno quelli che si vanno vendendo per realizzare qualche entrata e far fronte ai creditori; ci sono cause e causette in pretura o in tribunale, e gli avvocati dello stato devono correre a difendere un cattivo pagatore anzi un'azienda i n isfacelo che sventuratamente porta le insegne dello stato italiano. Perchè la G.R.A. non è stata messa i n liquidazione? A far ciò non occorreva una legge dello stato; questa è necessaria ai fini di accollare il deficit al tesoro e di far passare un certo numero di impiegati ( a contratto privato) nei ruoli statali. Ma per sospendere le funzioni e metterla in liquidazione sarebbe bastata una deliberazione commissariale (attualmente è retta da un commissario) con l'approvazione dei ministri dei trasporti e del tesoro; perchè la G.R.A., per l'articolo lodel decreto legislativo del 13 aprile 1948 n. 321, non è altro che « la gestione di fatto GRA gestione raggruppamenti autocarri - » la quale opera quale azienda autonoma dipendente dal ministero dei trasporti >) ed è (C sottoposta alla vigilanza e controllo del ministero del tesoro ». Niente altro. Tutto il decreto non fissa che norme di amministrazione: il personale (fuori quello comandato, distaccato o con funzioni -

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abbinate) è preso a contratto privato. « L'azienda d i fatto D come è definita nel decreto citato, non ha altri obblighi che quello di presentare il bilancio consuntivo ai due ministri dei trasporti e del tesoro corredato da una relazione dei revisori. I1 fatto strano, che toglie qualsiasi autonomia alla gestione, è che il ministro dei trasporti ne è i l presidente, e presiede di diritto i l comitato di gestione (che funge da consiglio d i amministrazione); il ministro nomina con proprio decreto i membri del comitato d i gestione e il collegio dei revisori (siano o no proposti da altre amministrazioni), nomina il direttore generale (questo d'intesa con il ministro del tesoro), destina per comando il personale che deve prestare servizio nell'azienda, compreso i l segretario del comitato di gestione, e, cosa ancora più strana, approva il bilancio d i gestione (resoconto) di un'azienda della quale egli stesso è il principale gestore e responsabile della spesa. Questo pasticcio non si può chiamare ente di diritto riconosciuto da legge, è una gestione di fatto, distaccata, dello stesso ministero dei trasporti. Tutto qui. I1 bello viene di conseguenza: dal giorno fatale che ci ha messo gli occhi il tesoro come uigilante e controllante si sono avuti i seguenti deficit: 1948: 591 milioni e rotti; 1949: 945 milioni e rotti; 1950: 865 milioni e rotti; 1951: (provvisorio) 1.229 e rotti; mentre nel 1947 (prima della vigilanza) si era avuto solo il deficit di 279 milioni e rotti e nel 1946 perfino 8 milioni e rotti di attivo. Perchè ciò? proprio perchè essendo la gestione passata sotto la vigilanza del tesoro i gestori sapevano a priori che dovevano arrivare ad ottenere la sanatoria del deficit con il famoso inciso che i l relativo onere è posto a carico dello stato D. Debbo dare pubblicamente atto che i l ministro Pella aveva fin dal 1949 invitato il ministro Corbellini (autore con lui del decreto legislativo 1948) a procedere alla liquidazione della G.R.A.. Corbellini fu tentennante: video meliora proboque, deteriora sequor; e non se ne fece niente; tanto più che ci fu di mezzo l'episodio del parco automezzi di Pomigliano d'Arco, che il ministro Porzio, come napoletano, difese quale grande avvocato penale che egli è; infatti, in quell'affare, c'entrava anche i l codice penale. A quel che si dice ci sarebbe entrato, il codice penale, an-


che nella costruzione di una pista da ballo fatta dalla G.R.A. a favore del proprio personale in una sede toscana. Ma la cosa fu messa a tacere (da chi? e come? un mistero). Venne il ministro DYAragona,il quale non volle dare ascolto alle insistenze del tesoro per la liquidazione della G.R.A.. Convinto, però, che il ministro non poteva continuare ad avallare direttamente e come presidente una gestione fallimentare, sciolse il comitato d i gestione e nominò l'ingegnere Aliotti come commissario. (Oggi il commissario è l'ing. Casò). Ma cosa possono fare i commissari se non la volontà del ministro? Una piccola nota allegra: il 2 giugno 1946, giorno delle elezioni per la costituente, fu firmato dal luogotenente un regio decreto legislativo con il quale si autorizzava il governo a porre in vendita, mediante aggiudicazioni al migliore offerente, senza le formalità di legge, i centri automezzi e i depositi automobilistici ceduti dagli alleati, proprio quelli della G.R.A.. Ebbene, nel decreto del 13 aprile 1948, che regolarizzava tale gestione, è detto in ultimo che nulla è innovato circa le norme del decreto legislativo luogotenenziale 2 giugno 1946 n. 502 D. Infatti, gli automezzi si vendono per turare i buchi di tutti i giorni, in attesa che il tesoro paghi il deficit finale. Deficit d i gestione accertato e da accertare a tutto dicembre 1952, a occhio e croce u n sette miliardi, con un'attività presunta che non supera il mezzo miliardo. Mi sbaglierò, anzi, spero di sbagliarmi. A carico dello stato andrà il personale da inserire nel ministero dei trasporti e perfino in quello delle poste (secondo la proposta della commissione senatoriale); quasi un migliaio, con la media di un miliardo all'anno d i spesa senza limiti di anni. Se si dava corso alla liquidazione autorizzata col decreto luogotenenziale del 2 giugno 1946 ( e allora c'era qualche margine per indennizzare il personale) non si sarebbe arrivati a far cadere sullo stato un onere che arriverà tra deficit di gestione e assunzione di personale ad una ventina di miliardi. Ma quando mai la burocrazia smonta una sola delle impalcature create? I1 centro tessile è i n corso di liquidazione da sette anni e opera anche oggi come se mai dovesse morire; cosi l'Endimea, cosi l'Eam, così tutti, nessuno escluso. E vediamo sempre gli stessi nomi di burocrati d i grado quarto, quinto,


sesto e settimo: un duecento e poco più, che si trovano in tutti i consigli e commissariati e collegi sindacali, padroni dei ministeri e degli enti. Chi vuole accertarsene legga ogni giorno la Gazzetta uficiale, e sarà sicuro di riscontrare quasi sempre gli stessi nomi. È il caso, adesso, di fare una proposta: che nel disegno di legge che mette a carico dello stato il saldo del deficit della G.R.A., venga aggiunto che si fa diritto alla rivalsa sul patrimonio dei gestori e revisori responsabili del deficit, dopo un accertamento rigoroso da farsi dalla corte dei conti; e se vi sono responsabilità penali, che i gestori siano denunziati al magistrato. E i ministri dei trasporti dal 1947 al 1952? Se hanno delle responsabilità, niente di male e molto di bene che siano personalmente colpiti; così vedranno che cosa importi fare allo stesso tempo da controllati (gestori e presidenti della G.R.A.) e da controllori (ministro dei trasporti). Questo valga per ammonimento agli amici della regione siciliana che hanno laggiù una piccola G.R.A., I'AST. Ci pensino i n tempo, tanto più che si tratta d i materiale sgangherato e di servizi problematici. 7 luglio 1952.

(La Stampa, 10 luglio).

ANCORA cc GIOLITTI E I L FASCISMO s (note per Gaetano Natale) L'essere stato sempre deciso avversario di Giolitti non mi h a mai impedito di valutare le azioni; e in ogni caso non mi ha mai indotto ad alterare dati e fatti, essendo io stato sempre scrupoloso nel dire la verità. Questo sembra che il prof. Natale voglia mettere in dubbio nella premessa alla sua cc replica a Sturzo su Giolitti e il fascismo D, facendo una specie di riserva d i massima sulla attendibilità e veridicità delle mie affermazioni. Avrò potuto sbagliare parecchie volte nella vita; ma assi-


curo i l prof. Natale di non avere detto o scritto una menzogna. Egli mi concede che Giolitti con le elezioni del 1921 volle far entrare in parlamento i fascisti, ma nega che abbia voluto mortificare socialisti e popolari. Questa mia seconda affermazione non è del 1952; si trova a pagina 103 del mio Libro L'ltolie e t le Fascismo (scritto nel 1925 e pubblicato in Francia nel 1927). I o che fui magna pars di quelle elezioni, che ne guidai l a campagna come segretario politico del partito popolare, sono certo un testimone storico qualificato per rilevare dai fatti l e intenzioni di Giolitti, senza pretendere che Giolitti me le avesse confidate in un orecchio. Avevo del resto buoni amici nel gabinetto e fuori e conoscevo i l cattivo umore di Giolitti verso di me e il mio partito. Che tutto ciò sia ignorato dal prof. Natale, ( i l quale può rileggere a conferma la lettera da Vichy di un anno dopo) non è un argomento probante. Nè è probante i l fatto che con la proporzionale poteva Giolitti ottenere ben poco dalle sue manovre, come pensa il mio esimio contraddittore. Infatti i socialisti perdettero quasi trenta seggi, mentre i popolari ne acquistarono appena sette per l'aumento dei seggi della camera da 508 a 535 per l'avvenuta annessione dei territori di Trento e Trieste. I1 sistema di Giolitti nel gioco elettorale funzionò limitatamente, ma funzionò; questa volta egli era per la destra, e sapeva bene quel che faceva. I1 prof. Natale riconosce che l'esperimento di inserire i fascisti fallì, ma egli aggiunge che Giolitti fu (( costretto a dimettersi ». Costretto da chi? Giolitti seguì il suo metodo; pensò di lasciare il governo per alcuni mesi, salvo a ritornarci. A pensarla così nel 1921 non ero solo; molti con me anche amici di Giolitti erano dello stesso parere. Nessuno costrinse Giolitti a dimettersi; gli attacchi sull'andamento delle elezioni furono presto superati; ed egli ottenne una maggioranza limitata (se mal non ricordo di 17) sopra un voto di politica estera. I1 prof. Natali avrà la bontà di riscontrare i resoconti parlamentari. Giolitti, volendo, poteva restare, nessuno gli era alle calcagna. Preferì andar via, spontaneamente, calcolatamente; l'ambiente creato dalle elezioni volute da lui non era quello che egli sperava. Ecco tutto. Anche per la caduta del ministero Bonomi nel gennaio 1922,

17

- STL-RZO - Polifica di

questi anni.


il prof. Natale mi contesta esserne stato Giolitti il vero autore. Possibile che i giolittiani si fossero dimessi a camera chiusa, dando una stilettata alla schiena al presidente Bonomi, proprio senza che « la volpe di Dronero » (la qualifica non è mia) fosse stata interpellata? Così alla chetichella? Le mie informazioni e quelle del presidente Bonomi erano diverse da quanto pensa il prof. Natale. Le dimissioni a camera chiusa, di alcuni ministri e proprio i giolittiani, furono così interpretate dal pubblico del tempo. Giolitti venne subito a galla non certo chiamato dai popolari o dai socialisti, e neppure dai gruppettini di Bonomi, Amendola e Nitti; non certo dai salandriani o dai fascisti; ma proprio dai giolittiani e loro amici, specie la turba fluttuante fra destra e sinistra. Finalmente, arrivato al fatale « veto », il prof. Natale, - citando Meda che affermò essere stati i popolari avversi alle leggi finanziarie del 1920, - mi attribuisce il recondito motivo di aver messo il veto per tali leggi, confondendo in ciò la mia critica « iiberista » con le mie direttive di politica di partito. I o dopo trent'anni dal 1920, continuo a scrivere e a parlare contro la nominatività obbligatoria dei titoli come ne scrivevo allora. Giolitti oggi non c'entra; c'entra il democristiano Vanoni. I miei discorsi del 1920-21 (recentemente ripubblicati) come i miei articoli di oggi, non sono che per dar luce alle mie idee politiche ed economiche nel quadro della contingenza quotidiana. Nessuno che mi conosce ci vede altro: si tratta di una concezione sistematica, e sotto certi punti personale; un senso di libertà maturo e più largo di quello degli stessi liberali (specie nel campo scolastico e in quello economico); un senso d i responsabilità ancora più urgente di quel che sia in uso nei periodi dei dopo guerra; un'organizzazione decentrata, stahilizzata nelle autonomie locali, che controbatta la tendenza statalista, accentratrice e livellatrice. Gli amici di allora come gli amici di oggi, pur sentendo il fascino di tali idee, di fronte alle difficoltà della realizzazione hanno sempre trovato, e trovano anche oggi, l'ambiente ostile della burocrazia, del parassitismo affaristico e della tradizione delle classi laiche di media cultura. E questo è il mondo dal quale è nata la recente esaltazione di Giolitti, che rappresentò


per anni la burocrazia invadente, la politica accentratrice e manovriera, e la mediocrità provinciale delle classi dirigenti di allora. Tornando all'affare del « veto », vale la pena ripetere per la ennesima volta che tale parola fu inventata dagli avversari per colpire il 'proponente; il quale, nella veste di segretario politico del partito popolare, aveva i l diritto di dare in materia la sua direttiva al gruppo parlamentare, ma non aveva potere di imporla. La mia direttiva fu netta, che il gruppo rifiutasse di collaborare con Giolitti, qualora questi avesse avuto l'incarico di comporre il nuovo governo. Che questa direttiva sia passata alla storia come u n veto, è cosa che non mi riguarda affatto. Fin da allora scrissi e dissi i l mio pensiero sui motivi del mio atto. Se i l prof. Natale e altri con lui amano trovare altri motivi, eserciteranno i l loro mestiere di interpreti ma non potranno contestarmi che io non sia stato sincero nel dire, allora come oggi, il mio pensiero ( i l mio non quello del gruppo) cioè: avversione ai metodi giolittiani; - concezione diversa della politica meridionale; - risentimento per avere egli favorito i fascisti nelle elezioni amministrative del 1920 e nelle politiche del 1921, inopportunamente affrettate. Natale nega che Giolitti nel febbraio 1922 avesse avuto VOglia di ritornare al potere. Ma l a crisi Bonomi si trascinò per varie settimane proprio sul dilemma Giolitti sì e Giolitti no; ed io stesso arrivai a pronunziarmi a favore di un ministero Giolitti senza i popolari, tentativo che ( a quanto mi fu riferito) Giolitti ebbe a prospettare a due eminenti colleghi: V. E. Orlando ed Enrico De Nicola; e ne fu sconsigliato. Comunque; a me non interessa sapere se proprio Giolitti avesse avuto o no il desiderio di ritornare al governo. I fatti sono l à : uscita dei giolittiani dal gabinetto Bonomi a camera chiusa; tre settimane.di discussioni sul nome di Giolitti; soluzione sul nome di Facta, uno dei luogotenenti di Giolitti. Che Giolitti abbia fatto capire agli amici di allora e di oggi essersene lui lavate le mani come Pilato, è affare che non mi interessa e non credo che possa interessare sul serio anche gli storici. Passiamo all'ottobre 1922. Che Giolitti sia stato incerto a


riprendere il potere può darsi; che uomini come il prefetto Lusignoli fossero tramite tra Giolitti e Mussolini, non c'è alcun dubbio, anche se ciò non risulti dalle memorie giolittiane; che Corradini sia venuto da me senza aver preso accordi con Giolitti, può darsi; io mi guardai bene da domandargli le credenziali. Ma il contegno di Corradini con me era quello di un uomo sicuro di quel che faceva e di quel che diceva. Ancora, che abbia digerito un rospo con la legge Acerbo ne sono convinto; che egli si sia prestato troppo facilmente a presiedere tale commissione, è un altro affare. 11 premio di maggioranza non fa molta impressione al palato guasto dei politici di oggi dopo venti anni di fascismo; ma allora sembrava ed era un'eresia costituzionale. Altro che rospo. Finalmente, il prof. Natale opina che la mia buona fede sia stata sorpresa nel ritenere che Giolitti abbia dato al re il malconsiglio di lasciare Mussolini al governo dopo l'assassinio d i Matteotti. Tale notizia è rimasta ferma nella mia memoria fin da allora; non ricordo come l'abbia avuta. In quel periodo agitato e infuocato, quando tutto era segreto e conosciuto, e si sperava nel re contro ogni speranza (Amendola puntava sul gen. Giardino per arrivare al re), può darsi che voci incontrollate mi abbiano portato tale notizia. Oggi non ho chiaro nella memoria se per il rimpasto che fece Mussolini del suo ministero, mettendo all'istruzione Casati e Federzoni all'interno, ci fossero state delle consultazioni reali. Non è a mia conoscenza che quel periodo oscuro tra il giugno '24 e il gennaio '25 sia stato bene illustrato da storici postumi. Conclusione: i miei ricordi su Giolitti e il fascismo sono esatti e mostrano senza tema di contraddizione la parte che il vecchio statista e il suo partito (meglio, i suoi amici) ebbero i n quel fatale periodo 'nel favorire l'avvento del fascismo e nel lasciarlo consolidare. I1 resto, fatto di ipotesi e di induzioni, nulla ha a che vedere con i dati incontestabili di quella cronaca che diviene storia. 8 luglio 1952.

(La Via, 12 luglio).


NIVISSIMI APPLAUSI » AL SENATO A pagina 14 colonna 2" del resoconto sommario della seduta senatoriale dell' 8 luglio corrente (proposta di legge Salomone), votato l'unico articolo risultante dopo la soppressione dell'articolo 2 »: è segnato in corsivo tra parentesi: « (È approvato). (Vivissimi applausi) n. I vivissimi applausi senza indicazione di settore, com'è uso nei resoconti parlamentari, indicano chiaramente che tranne il piccolo gruppo liberale a nome bel quale parlò contro il sen. Sanna Randaccio, tranne tre oratori democristiani contrari: Romano Antonio, Merlin Umberto e Carrara Giovanni, nonchè il relatore di minoranza, G. B. Rizzo del gruppo misto e qualche altro non identificato, tutti gli altri dei vari settori del senato parteciparono ai vivissimi applausi come se si fosse vinta una battaglia. Si tratta di un sintomo che fa pensare, la cui diagnosi è necessaria trattandosi di uno dei più delicati ed autorevoli organi dello stato. Debbo premettere che nella discussione della proposta Salomone non era in causa la riforma agraria; nè era in causa il merito della interpretazione legislativa; l'opposizione alla legge veniva da preoccupazioni costituzionali, giuridiche e politiche che nulla avevano a vedere con la riforma stessa e neppure con la maggiore sollecitudine ad attuarla. Gli applausi vivissimi, senza volere entrare nelle intenzioni d i ciascun senatore, erano diretti contro i proprietari ricorrenti al consiglio di stato rei di aver voluto attaccare la interpretazione governativa data alle leggi Sila e stralcio; erano diretti (volere o no) contro la decisione del consiglio di stato del marzo scorso; erano diretti contro la stampa detta indipendente che aveva sollevato pregiudiziali giuridiche e politiche nei riguardi della proposta Salomone; erano anche diretti verso i pochi colleghi dissidenti, i quali con dignità e fermezza avevano cercato d i persuadere l'assemblea a negare l'approvazione. L'assemblea approvò e sottolineò la sua ((vittoria » con gli osanna. +


A nome del governo parlò il ministro Fanfani, i l quale (secondo il resoconto) ringraziò i l senato u per aver preso l'iniziativa d i una proposta interpretativa », e aggiunse anche un apprezzamento d i convenienza: « tanto più che il senato della repubblica h a avuto ogni cura nell'evitare la benchè minima menomazione della dignità e. delle funzioni di altri organi dello stato ».Un omaggio di parole a l consiglio di stato è sempre un omaggio, anche se accompagnato da soddisfazione per l'iniziativa del senato. Gli applausi sono là, ad indicare, non u n atto sereno legislativo, ma un atto passionale. Anche nella legislazione c'è la passione, ma usualmente si sviluppa fra i gruppi dell'assemblea (legittime passionalità fra il si e il no, nella necessaria dualizzazione fra maggioranza e minoranza). Questa volta l'assemblea fu quasi unanime, ma la dualizzazione passionale si sviluppò verso i cittadini i cui diritti debbono essere salvaguardati dal parlamento con equanimità; nei riguardi della stampa la cui funzione è quella della libera critica, non importa se esatta o preconcetta; nei riguardi dei corpi costituiti, specie le magistrature, la cui funzione deve essere tenuta alta e indiscussa anche quando si accerta un dissenso fra potere esecutivo e potere giudiziario non importa se sia l'uno più che l'altro a deviare. Non è esatto affermare che nel caso Salomone ci sia di mezzo una riforma promessa da trent'anni da non potersi ritardare neppure di u n giorno per causa di una decisione sia pure del più alto consesso amministrativo. La riforma già procede con ritmo accelerato, forse troppo accelerato dal punto d i vista strettamente tecnico ed economico. .Ma questo è altro affare; la riforma agraria non entra nella polemica senatoriale; il punto di dissenso era e resta altro ben più alto e importante. La decisione del consiglio di stato fu presa, dai favorevoli e dai contrari, come un'affermazione politica e non lo era; l'avere dato un minimo di ragione ai proprietari di terre fu appreso come una negazione della riforma; come se il governo fosse stato messo in mora. L'iniziativa Salomone cadde in questo clima già eccitato, e tosto diede la spinta a larghi attacchi della stampa: (chi scrive manifestò il proprio dissenso in nome della democrazia forte). I1 dialogo a palazzo Madama non fu fra


i vari settori, ma fra una maggioranza decisa e un mondo estraneo, ostile, nella fantasia passionale, quasi turba assediante, contro la quale i votanti proruppero in applausi d i vittoria. I n quell'attimo, solo in quell'attimo, lo sanno bene gli studiosi di psicologia collettiva, i plaudenti, uomini serii e abituati a controllarsi, istintivamente cedettero. Non tutti: al senato ci sono uomini di partito che sanno quello che fanno, il cui autocontrollo è affinato da una ferrea disciplina: sono i comunisti. Molto probabilmente furono essi i primi a batter le mani volutamente, destando la scintilla imitativa dei vivissimi applausi. Meglio dei governativi, essi hanno saputo farsi passare nelle campagne come i soli che hanno voluto sul serio la riforma agraria; non l'attuale timida e 4( insufficiente )) e ostacolata dal consiglio di stato n, ma la vera che sarà attuata quando essi arriveranno al potere. Gli altri sono vittime di una demagogia estremista, colla quale non si può gareggiare senza abbandonare i limiti etici delle proprie convinzioni e quelli fisici delle possibilità economiche. So bene come la mia aperta opposizione alla iniziativa Salomone non sia stata compresa da molti democristiani (a parte altri settori che non mi interessano); e penso che desterà meraviglia questo mio articolo di rincalzo. Perfino i l prof. Mortati non ha compreso i l valore del paragone fra il caso americano e quello italiano. Non glielo ripeto, perchè son sicuro che ripensandovi egli si accorgerà della sua gaffe. Quelle democrazie, dove i1 rispetto della legge vigente non impedisce una nuova legge più adatta e comprensiva, ma evita l'applicazione stiracchiata .di leggi di dubbia efficacia o la ricerca di ripieghi giuridici o la improvvisazione di leggi per evadere tambour battant e in ogni modo dalla decisione del magistrato, sono davvero democrazie forti; non le altre. Aggiungo essere vero che ogni organo statale ha qualche cosa dello spirito e dei poteri degli altri, perchè l'atto umano definitivo e concreto non è analiticamente scindibile essendo sinteticamente creativo. Ci sono però i limiti giuridico-formali che caratterizzano gli atti del potere e valgono a mantenerne la distinzione di autorità. Nel caso speciale, pur ammettendo che il parlamento abbia


pieno potere di emanare leggi interpretative, è sempre un errore dare alle leggi una tale classifica, come a limitare la competenza dell'autorità giudiziaria, la quale potrà anche ritenere che la legge detta interpretativa sia obiettivamente innovativa e non abbia quindi effetto retroattivo. I1 fine del legislatore non si traduce nella legge come una volontà impostavi dal di fuori; una volta la legge emanata acquista la propria autonomia e si attua per la volontà successiva d i coloro che l'applicano, di coloro che la interpretano e perfino di coloro che la violano. Così si spiega l'antica norma del diritto canonico che, pur dichiarando la compatibilità dei primi violatori di una legge positiva, se la violazione continua e diviene tradizione, cessa la colpa e cade la legge. I1 carattere vitale e creativo della legge nel suo ciclo di realizzazione e nel suo decadere ed estinguersi, è atto umano, collettivo, oggettivato nel costume, nella tradizione, nel sentimento, come ogni altro atto umano reso collettivo: - l'opera d'arte, la poesia, la lingua, la scienza purchè la legge (per arrivare a tale autonomia vitale) risponda a necessità collettive e si evolva per energia propria contenuta in essa fino dalla sua formazione. Quando ( i l caso Salomone è uno) l a legge lascia strascichi sulla legittimità, sulla opportunità politica, e sembra una sforzatura, u n abuso di potere (anche se non lo è); allora lo sviluppo vitale della legge è alterato in partenza. I1 rispetto delle cose giudicate, come il rispetto delle leggi, è fondamentale in una democrazia forte. La tradizione si forma poco a poco ad ogni occasione piccola o grande. Non sono'le sottigliezze giuridiche che valgono, nè i colpi di forza che giovano; è la prova, ad ogni occasione, che venga data dagli organi poIitici, dalle magistrature, dalla pubblica amministrazione, che i diritti riconosciuti sono garantiti e rispettati, che la giustizia è eguale per tutti, e che la sovrapposizione di u n organo sull'altro (anche solo formale ed esteriore come nel caso Salomone) non riscuote applausi vivissimi dei senatori votanti. A coloro che dopo quanto ho scritto mi diranno di non po: ter comprendere questa mia presa di posizione, debbo francamente rispondere: Qui potest capere capiat.

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13 luglio 1952.

(Libertas, 24 luglio).


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G.R.A. I.N.T. . A.S.T. ( p e r continuare) Il nostro illustre collaboratore prof. Luigi Sturzo ci ha fatto pervenire l'articolo che pubblichiamo volentieri, anche per dargli atto della sua costante e rettilinea campagna per l o smontaggio delle bardature d i enti e gestioni statali e parastatali. C i permettiamo però d i far presente che l'entità del deficit della G.R.A. n o n si allontanerà molto nell'avvenire dagli attuali quattro miliardi, perchèi si sta mettendo fine alla gestione. Il decreto del 1948 era assolutamente necessario per controllare una gestione che fino allora aveva operato solo d i fatto. T a l e controllo servi anche a liquidare più della metà del personale, che aveva raggiunto il numero d i 4000 unità. La liquidazione dell'ente per decreto del ministero sarebbe stata certamente più sollecita e preferibile se la legge lo avesse consentito. È bene tener presente altresì che il dissesto dell'ente è i m putabile principalmente a fattori politici e contingenti e n o n a cattiva amministrazione. I n quanto poi al mettere ministri e burocrati sul banco degli accusati è questione d i ordine costituzionale l a cui trattazione esorbita d a i l'imiti d i questa polemica, che consideriamo chiusa, m a n o n certo inutile. Le lettere e l e visite d i alcuni interessati alla mia edificante istoria della G R A » mi obbligano a ritornare sull'affare della G R A e su quello dell'AST, con riferimento all'INT del quale n o n feci alcun cenno. 1. Mi si contesta di n o n aver tenuto conto nei riguardi della G R A della situazione politica dal 1946 al 1948, o anche d i quella del 1949. S i tratta di punti di vista contestabili. Ricordai che al 1949 il ministro Pella aveva chiesto una rapida liquidazione della G R A il cui deficit di bilancio nel 1948 era arrivato a circa 600 milioni, aggiungendo ai quali quelli del 1947, si arrivava quasi al miliardo. I motivi politico-economici del 1947 e


forse del 1946 erano ben superati e i servizi privati si sviluppavano con rapido incremento; si chiedeva già lo smobilizzo della bardatura di guerra. 2. La mia critica al decreto dell'aprile 1948, riguarda proprio l'idea di avere stabilizzato un servizio che doveva essere presto o tardi soppresso. I1 decreto del 1948, simile a molti altri decreti degni di essere cancellati dalla collezione delle leggi della repubblica italiana e per la forma e per il merito, fu fatto per dare alla GRA una sistemazione della quale non c'era affatto necessità. I1 decreto si fece perchè era apparso lo spettro del deficit del 1947 e non volendo la liquidazione, si diede alla GRA forma permanente. Tale errore politico e amministrativo si sconta assai caro. 3. Mi si dice che la liquidazione anticipata al '48 o '49 sarebbe stata più costosa. Più costosa perchè? I deficit si sono accumulati di anno in anno, e nessuno mi ha contraddetto le cifre presuntive di sette miliardi per gestione, 13 miliardi per onere personale addossati allo stato, oltre le mancate entrate per tasse e imposte non pagate, per sciupio di materiale, per personale statale impegnato nella GRA con danno del servizio proprio; è chiaro che tre o quattro anni di meno sarebbero stati d i vantaggio al tesoro e non di danno. Tanto più, e ciò non è considerato, che le imprese private subentrando nei servizi utili della GRA, avrebbero preso quel personale abile che veniva ad essere licenziato e quel materiale ancora in discrete condizioni, come è avvenuto con le tramvie napoletane per i servizi autotrasporti, con soddisfazione del pubblico, del personale e della cassa municipale. Cose semplici che non piacciono alla burocrazia statale. 4. Si dice che i centri autocarri GRA son serviti anche nel 1950, 1951 e 1952 in occasione di scioperi a Genova o a Napoli, o d i elezioni amministrative e così di seguito. Ma la risposta è pronta: in caso di emergenza il governo può requisire quanto occorre; può militarizzare i servizi; può chiamare i cittadini a cooperare con lo stato. Se i cittadini sopportano gli scioperi degli operai del gas o quelli dei ferro-tranvieri e dei burocrati con pazienza da santi (gli statali a diritto o a torto possono fare sciopero) e il cittadino attende paziente alle porte degli uffici


pubblici anche quando non c'è sciopero, sarà lo stesso anche per i servizi cui dovrebbe provvedere la GRA se gli autisti faranno sciopero. Pensano forse i miei contraddittori che lo stato debba tenere pronti gruppi di impiegati statali da surrogare quelli che faranno sciopero? o gruppi di ferrovieri in disponibilità per il giorno in cui i ferrovieri faranno 24 ore di sciopero? Si faccia la legge sullo sciopero e si regolarizzi questo diritto costituzionale; ma non si creino mille enti statali da provvedere per mille tipi di sciopero che gli italiani si dànno il lusso di promuovere, come se vivessero in un paese ricco e prospero; non aggiungano la piaga degli enti anti-sciopero, che diverrebbero da un lato parassiti dello stato e dall'altro (nella definizione scioperistica) dei krumiri organizzati dallo stato. 5. Un amico che io ho toccato con i miei strali mi scrive: Perchè solo la GRA dimenticando 1' INT? e la CIAT? Se avessi tempo di informarmi di tutti gli enti esistenti, compresi l' INT, e la CIAT, ne scriverei a lungo come ho fatto con la GRA e come ho fatto con parecchi altri enti dei quali mi è capitato occuparmi. La mia campagna giornalistica è piena di critiche verso la creazione e la conservazione (sotto aceto) di enti statali, parastatali, pseudo statali di diritto, di fatto, anche quelli in liquidazione da sette o otto anni, che succhiano a miliardi il tesoro italiano, parassiti e monopolistici a danno dell'economia del paese. 6. Che colpa ne ha il ministro dei trasporti ( m i è stato scritto) se il senato ha tardato un anno a fare approvare il disegno di legge Campilli che mette in liquidazione la GRA? Risposta: la colpa del ritardo sarà degli organi del senato; ma i ministri dei trasporti e del tesoro, potevano nel passato e possono oggi e potranno ad ogni momento mettere la GRA in liquidazione (come ho gi,à scritto) di propria autorità, salvo a regolare i l deficit e a provvedere al personale con la legge in corso di discussione. Se si fosse seguito questo metodo, il disegno di legge Campilli sarebbe stato approvato con la stessa fretta con la quale è stata approvata la famosa legge Salomone, che dal senato alla camera ci ha messo appena otto giorni e già si trova bella e Veni, vidi, vici! D. nuova sulla Gazzetta uficiale:


7. Mi si contesta l'opportunità di inserire nel disegno di legge la clausola di recupero del deficit di gestione dai responsabili contabili. Siamo a questo: lo stato, nella opinione comune, deve oramai pagare tutti i deficit di gestione dei mille enti statali che, come la GRA, vanno alla malora. Che dico: enti? anche le società private se fallimentari sono beneficiate dalla pioggia di biglietti di banca del tesoro italiano: esempio insigne la Breda, ma ce ne sono ben altre. Oggi la Breda riordinata, rimessa a posto, con tanta spesa di miliardi su miliardi, h a chiuso l'esercizio 1951 con un altro deficit di più di un miliardo. E così vedremo cosa succederà alla Savigliano, alla Nebiolo, alle Reggiane, alla Dueati. Tutta roba del nord, è vero; come erano del nord gli industriali e i banchieri per i quali lo stato fascista accorse paternamente quando creò 1' IRI, il quale, nella intenzione dei promotori, doveva durare il tempo necessario per mettere in sesto l e aziende fallimentari; ed invece dura anche oggi, h a fatto le ossa, cresce a vista d'occhio, nessuno lo smonterà mai più: vero stato nello stato. Se è così, mi si dice, perchè fare il niffolo per sette miliardi che si caricheranno allo stato e per un migliaio di personale che aumenterà la burocrazia della capitale? Anzi, dobbiamo ringraziare tutti i capi servizio dei trasporti, che ci hanno conservato la GRA fino al 1952, e con l'aiuto del senato prima e della camera dopo arriveremo al 1953. Intanto ci saranno le elezioni; e cinque giorni prima spunter.à un altro decreto pari a quello del 13 aprile 1948. Coraggio! 8. Debbo una risposta all'Ast di Palermo. Questa è nata per la decisione della regione siciliana di liquidare 1'INT. È bene sapere che gli alleati diedero all' INT in Sicilia una propria organizzazione, che passò all'alto commissariato. Costituita la regione, questa poteva ( e secondo me doveva) pensarci due volte a prendersi I'INT in casa senza beneficio di inventario. Tardi si accorse del deficit di una gestione improvvisata e pletorica e ne ordinò la liquidazione accollandosi (come fa lo stato) il deficit eventuale e sborsando intanto 600 milioni. Dall'altro lato, non potendo sopprimere i servizi di linea e subendo la demagogia delle sinistre, invece di darle all'industria privata creò I'AST al quale passò l'eredità dell'INT.


Oggi si è al punto che I'AST h a rinnovato il suo materiale e quello sgangherato, del quale il mio accenno, si trova in magazzino nella massa da liquidare. Ma a parte il deficit non colmato dell' INT, 1'AST accusa un proprio deficit mensile che si pensa di far diminuire con denaro fresco chiesto alla regione. I1 metodo è lo stesso a Palermo come a Roma. Non trovo motivo perchè la regione non debba imitare il comune di Napoli e cedere le linee dell'AST ad una società privata. Se le linee sono attive il concessionario dovrebbe pagare alla regione un canone; se sono passive, la regione dovrebbe dare un concorso forfetario al concessionario. Ma continuare con gestioni che aprono disavanzi che annualmente si accumulano è un'aberrazione amministrativa che bisogna correggere al più presto e ad ogni costo. I1 miglior modo di reagire all'andazzo attuale è il seguente: primo, proibire che impiegati statali ( o regionali) e uomini politici facciano parte dei consigli di amministrazione e dei collegi di sindaci di tali enti; - secondo, stabilire che ai deficit di bilancio sia provveduto entro i primi tre mesi dell'anno successivo dai responsabili della gestione e loro dante causa; terzo, autorizzare lo scioglimento di tali enti, se deficitari, con decreti ministeriali. 9. Non si meraviglino i miei amici se ho sollevato e insisto nel sollevare la questione delle responsabilità dei ministri ( e quindi degli assessori regionali) oltre che politiche anche amministrative e contabili. Non si sono essi autonominati presidenti di certi consigli di amministrazione o comitati d i gestione? Questa promozione da controllori a controllati determina la loro responsabilità di gestori; e se non sanno amministrare gli enti che presiedono ne portino la pena dovuta e ne rispondano. Una repubblica veramente democratica e forte è quella che non ha paura di chiamare i propri ministri ( e la regione i propri assessori) sul banco degli accusati, quante volte non abbiano saputo fare il proprio dovere di buoni amministratori. 21 luglio 1952.

( I 1 Popolo, 24 luglio).


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