Vol 13 (1954 1956) pag 1 281

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POLITICA DI QUESTI ANNI CONSENSI E CRITICHE (Dal Gennaio 1954 al Dicembre 1956)


OPERA OMNIA DI

LUIGI STURZO SECONDA SERIE

SAGGI

. DISCORSI . ARTICOLI VOLUME XIII


LUIGI STURZO

POLITICA DI QUESTI ANNI CONSENSI E CRITICHE I -

(Dal Gennaio 1954 al Dicembre 1956)

PBIMA EDIZIONE ITALIANA RIVEDUTA

ZANICHELLI BOLOGNA


L'EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI ESERCITERÀ I DIRITl'I SAIVCITI DALLE LEGGI

Bologna

-

Tip. Luigi Parma S.p.A.

-

IV-1968


PIANO DELL'OPERA OMNIA DI LUIGI STURZO PUBBLICATA A CURA DELL'ISTITUTO LUIGI STURZO

PRIMA SERIE: OPERE

- L'Italia

v-VI VI1 VI11 IX X XI XII

e il fascismo (1926).

- La comunità internazionale e il diritto di guerra (1928). - La società: sua natura e leggi (1935). - Politica e morale (1936). - Coscienza e politica. - Note e suggerimenti di politica pratica (1952). - Chiesa e Stato (1939). - La Vera vita - Sociologia del soprannaturale (1943). - L'Italia e l'ordine internazionale (1944). - Problemi spirituali del nostro tempo (1945). - Nazionalismo e internazionalismo - La Regione nella Nazione (1949).

(1946).

- Del metodo sociologico (1950). - Studi e polemiche

di sociolo-

gia (1933-1958).

.DISCORSI - ARTICOLI Democrazia in Italia. - Unioni professionali -

SECONDA SERIE: SAGGI

- L' inizio

della

- Sintesi sociali (1900-1906). - Autonomie municipali e problemi amministrativi (1902-1915). - Scritti e discorsi durante la prima guerra (1915-1918). -- statale I1 partito popolare italiano: Dall'idea al fatto (1919). - Riforma e indirizzi politici (1920-1922). - Il partito popolare italiano: Popolarismo e fascismo (1924). - I1 partito popolare italiano: Pensiero antifascista (1924-1925). - La libertà in Italia (1925). - Scritti critici e bibliografici (19231926).

- Miscellanea londinese (1926-1940). - Miscellanea americana (1940-1945). - La mia battaglia da New York (1943-1946). - Politica di questi anni. - Consensi e critiche

(1946-1959).

TERZA SERIE: SCRITTI VARI I I1 I11 IV V

- I1 ciclo della creazione (poema drammatico in quattro azioni). Versi. - Scritti di letteratura e di arte. - Scritti religiosi e morali.

- Scritti giuridici. - Epistolano scelto. - Bibliogafia. - Indici.



AVVERTENZA

Presentiamo i n questo volume gli articoli pubblicati da Luigi Sturzo negli anni 1954, 1955 e 1956. La tematica d i tali scritti è, come al solito, molto varia. Tuttavia nel loro complesso è possibile rilevare alcune questioni su cui Sturzo in questi anni h a particolarmente insistito. Fra le altre: l'interventismo statale, la nomina dei giudici della corte costituzionale, precisazioni d i carattere storico circa il cosidetto veto a Giolitti n, la partitocrazia, e infine I'unificazione socialista e relativi discorsi d i «: apertura a sinistra n. Oltre agli articoli veri e propri, nel volume sono state riprodotte alcune lettere inviate da Sturzo a varie personalità in occasione d i congressi, convegni o incontri d i studio, anche se n o n tutte sono risultate pubblicate su quotidiani o periodici. Ma esse erano ricomprese nel materiale a suo tempo predisposto da Sturzo per la pubblicazione. Degli articoli, solo due n o n risultano pubblicati. La collazione degli scritti è stata curata dalla dott.ssa Maria Teresa Garutti Bellenzier.



LA CRISI NON SBOCCA NELLE ELEZIONI Fin dal primo giorno non sono mancati uomini politici e giornalisti accorti a prospettare la possibilità di elezioni imminenti, se l'attuale crisi non avesse uno sbocco. I o contesto l e due proposizioni, che la crisi possa non avere uno sbocco, e che siano possibili elezioni a breve scadenza. Comincio dalla seconda perchè, dimostrando la impossibilità dell'appello al paese, i responsabili della crisi e della sua soluzione si rendano conto di non poter più giocare con lo spettro delle elezioni. Si elimina così un fattore psicologico di notevole importanza, che da solo potrebbe dare alla crisi uno svolgimento piuttosto che un altro. L'appello al paese è condizionato a tre elementi decisivi: 1s situazione del paese; il conflitto parlamentare, sia fra le due camere sia fra parlamento e governo; la volontà sovrana del capo dello stato alla cui facoltà la costituzione rimette l'atto con un C( può abbastanza chiaro. I1 paese non è oggi in attesa di elezioni; il paese è rimasto sorpreso e poco convinto del caso Aldisio e della recedente C schermaglia » fra piazza Viminale e piazza del Gesù. Non sembra che ci sia nell'elettorato uno stato psicologico atto a ricostituire una maggioranza parlamentare, nè elettori già riorientati politicamente quando il disorientamento è tuttora nei capi di partiti, di gruppi e di tendenze. Per giunta, manca lo strumento di una legge elettorale che non sia quella del marzo 1953, ripudiata dagli oppositori e dagli stessi autori, che anche oggi ne scontano le conseguenze. Un corpo elettorale non può essere colto alla sprovvista per rio. rientarsi proprio durante una lotta, nella quale, per via delle


fatali preferenze, tutti i candidati (meno i comunisti) ripeterebbero gli errori del 7 giugno. A meno che D.C. e partitini non vogliano correre il rischio d i vedere ingrossate le sinistre ancora di più, non mi pare che altro possa essere lo stato d'animo dell'elettorato nelle cui mani verrebbe affidata l'incognita del futuro. Per correre simile alea si dovrebbe avere la prova provata della impossibilità di formare un governo. I1 maggior peso di ciò incombe sulla democrazia cristiana. L'appello dell'altro ieri, all'unione delle forze democristiane, è stato opportuno ; ma ciascuno di noi desidera conoscere il motivo per cui dal 15 agosto in poi la D.C. non sia arrivata a ricomporsi in unità di intenti; perché sia stato discusso e ridiscusso dai democristiani il primo governo d.c. monocolore che sia sorto nel decennio corrente; perchè si sia usato perfino un veto pubblico contro propri membri, bastando in questi, e simili casi, passi amichevoli e procedure rispettose. Ben venga oggi la riunificazione del partito: anziani e giovani, sindacalisti e politici, nord e sud, iniziativa democratica e centro studi lornino ad essere D.C. e niente altro che D.C.. Per fare ciò occorre senso di responsabilità, spirito d i abnegazione, ferrea volontà. La crisi può darne l'occasione. Ecco la prova che desidera il paese; non le elezioni affrettate con il pericolo di peggiorare la situazione. Avere una maggioranza prestabilita o una maggioranza occasionale, dipende anche dagli altri partiti, i quali non possono non riconoscere che oggi la D.C. ha la responsabilità principale delle sorti del paese. I risentimenti post-elettorali dei vari partiti di centro e d i destra sono oramai attenuati; è rientrato un senso di maggiore responsabilità. Dopo l'esperienza del governo Pella, con le sue luci e le sue ombre, il paese h a il diritto d i pretendere dai vari partiti quei piccoli o grandi sacrifici che saranno necessari per il buon funzionamento del parlamento e del governo. Nel caso contrario, chi dovrebbe valutare la situazione e decidere, sotto la propria responsabilità, lo scioglimento delle camere, è il presidente della repubblica. Ma, senza venir meno al rispetto dovuto, a far ciò non basta un solo esperimento, ne occorrono


parecchi con esito negativo; cosa per il momento non molto probabile. Se la D.C. non sarà più capace di mantenere in piedi un governo monocolore, non è detto che non si debbano prima tentare vecchie o nuove coalizioni, nè è esclusa l'ipotesi di presidenti di consiglio che non siano d.c. o che non siano parlamentari in atto. In sostanza, prima di credere che l'attuale parlamento voglia suicidarsi, occorre tentare la cura perchè guarisca di una pretesa mania suicida. A me sembra che tale mania non esista affatto; e che parlare di elezioni è proprio volere mettere il carro avanti i buoi. In conclusione : la strana crisi extraparlamentare, circoscritta nell'ambito della D. C., dovrà essere risolta dallo stesso partito ricomposto ad unità e con il voto di quanti in parlamento sono pensosi delle sorti del paese. Di elezioni generali si potrà riparlare, se piace, nel 1955 dopo la nomina del presidente della repubblica. 9 gennaio 1954. (Il Giornale d'Italia, 12 gennaio).

PROPORZIONALE E GOVERNO (*) Non sembra vero, ma è così: fra le condizioni fatte a Fanfani per una collaborazione, liberali e socialdemocratici hanno posto l'impegno del governo per una legge elettorale basata sulla proporzionale pura. Vorrei anzitutto fare osservare ai proponenti che la revisione della presente legge elettorale è già acquisita alla camera dei deputati i n base a varie proposte di iniziativa parlamentare; sarebbe contrario allo spirito delle nostre istituzioni che il governo bloccasse la procedura in corso con un impegno extra parlamentare fra i gruppi della futura maggioranza. (*) Pubblicato col titolo « I puritani della proporzionale n.


Di questo passo la partitocrazia dei gruppi doppiata con le contrattazioni pre-governative renderebbe impotente qualsiasi parlamento. Per giunta, le leggi elettorali sono materia squisitamente parlamentare. Non si deve ripetere l'errore della legge 31 marzo scorso che fu proposta e imposta dal governo fino al punto di porre su di essa la questione di fiducia. Le leggi elettorali hanno una propria figura e debbono ribpondere alle esigenze vitali del paese, in modo da evitare le possibili sopraffazioni sia del potere esecutivo sia di quei partiti che mirano a sovvertire la forma istituzionale e le 1ibert.à costituzionali. Non si sa bene quale mira abbiano avuto i proponenti della proporzionale pura nell'attuale torbido momento della politica italiana, al di fuori di un limitato vantaggio per i candidati dei rispettivi partiti. Due le conseguenze possibili di una legge simile: l a formazione da parte dell'estrema sinistra d i gruppi elettorali d i affiancamento per godere i vantaggi del sistema e avvicinarsi ancora d i più al traguardo del 50 per cento di voti; e la formazione di altri piccoli partiti di centro e d i destra (oltre gli esistenti) che aumenterebbero l'attuale disgregazione politico-parlamentare. Aumenterebbe così il pericolo di uno slittamento a sinistra; si renderebbe ancora più difficile, anzi impossibile, la formazione di un governo efficiente. Se tutto ciò gioverà al191talia come nazione, all'ordine nell'interno, al prestigio all'estero, alla saldezza della lira, allo sviluppo economico e sociale, alla fiducia in noi stessi, lo dicano i signori Saragat e Villabruna. I1 problema della legge elettorale è di quelli che vanno maturati attraverso studi tecnici e politici fatti con mente fredda e con la disposizione d'animo di superare la pretesa dei vantaggi di partito, per arrivare a vedere solo i vantaggi del paese. La mia attuale critica della proporzionale ha motivi notevoli che mi han portato a rivedere le antiche convinzioni; quali il fatto delle coalizioni dei partiti che altera il gioco del sistema; 1' abuso delle preferenze, che corrode i partiti e inquina il corpo elettorale; la facilità della creazione d i partiti che disfanno le maggioranze parlamentari e minano l'essenza stessa


della democrazia. Per giunta, l'istinto particolaristico che si sviluppa con la proporzionale, tende ad accentuare i difetti del sistema e ad eliminare i correttivi tecnici che gli accorti fautori del passato avevano introdotto fin dai primi esperimenti elettorali. Coloro che oggi parlano di proporzionale pura sono dei ritardatari impenitenti. I1 sistema detto del numero unico che « ad ogni seggio di tutto il territorio e di tutte le liste debba corrispondere un identico numero di voti validi fu giudicato un'utopia, perchè incompatibile con la territorialità delle circoscrizioni. 11 collegio unico nazionale ripugna ad ogni sana concezione elettorale. Da noi in Italia tale sistemazione, oltre che irrealizzabile, sarebbe tutta a vantaggio del nord e a danno del sud, variando il rapporto fra abitanti ed elettori dal 77 per cento ad Alessandria al 54 per cento a Foggia. Coloro che parlano contro i metodi della proporzionale corretta, perchè porta vantaggi ai partiti più grandi, ignorano che il metodo D'Hondt è applicato nel Belgio in tutte le elezioni, nella Danimarca per il Folketing, i n Germania per il Bundestag, in Svezia per la 2' camera; - il metodo del quoziente circoscrizionale (attuato in Italia) è applicato nell'Austria (consiglio nazionale), Nuova Zelanda (consiglio legislativo) e Svizzera (per tutte le elezioni); - il metodo della più aIta media su base circoscrizionale è applicato in Francia in tutte le elezioni; l a proporzionale Hare col voto singolo trasferibile è applicata in Danimarca per il Landisting, in Irlanda (Eire) per la camera e il senato, i n Australia per la camera e il senato, i n India per l'elezione del consiglio degli stati. Finalmente, il sistema uninominale a maggioranza relativa è ancora vigente in Inghilterra, negli Stati Uniti d'America e nel Canad,à, paesi questi ad alto livello democratico, dove non esiste pericolo comunista. I « puritani » italiani alla Saragat e Villabmna non si peritano di sostenere u n sistema che non trova attuazione nel mondo civile, e servirà a spalancare la porta a coloro che minano l e istituzioni libere del nostro paese; arrivando, ed è il colmo, ad affrontare l'incarico di costituire il nuovo gabinetto con la classica intima: cc o l a borsa (proporzionale) o la vita (del governo) n. 14 gennaio 1954.

( I l Giornale d'Italia, 16 gennaio).


LA PROPORZIONALE IERI E OGGI Non pochi si meravigliano della mia recente ( d a tre anni) opposizione alla proporzionale per le elezioni della camera, quando si può dire che nel 1919 ne sia stato io l'autore. Vero è che Torquato Tasso affermava: C che nel mondo volubile e leggero, saggezza è spesso cambiar pensiero D. Ma io non mi sento, nel caso, un saggio alla Tasso; in fondo non sono io che ho cambiato pensiero; sono le situazioni politiche del 1954 che sono diverse da quelle del 1919. Allora i liberali dei vari settori della camera che si classificavano indifferentemente democratici-liberali o Iiberali-democratici, e simili sfumature, erano di fatto raggruppati attorno al nome preferito: giolittiani, salandrini, nittiani, e così di seguito. Gli stessi gruppi avevano degli agglomerati speciali: Orlando i suoi, i suoi Amendola, i suoi Cesarò; ma era di tutti il comune denominatore del liberalismo tradizionale della borghesia italiana che andava dal conservatorismo fino al radicalismo. Di fronte c'era un partito socialista, allora collegato con la frazioncina comunista, che predicava la rivoluzione stando arroccato nella pregiudiziale antiborghese, per la quale non ammetteva la partecipazione al governo fino al giorno (auspicato) della dittatura del proletariato. Tutto ciò è dimenticato oggi, come è dimenticato il mio netto proposito, di creare il partito popolare (nato 35 anni fa, il 18 gennaio 1919) quale democrazia libera in difesa della libertà contro l'invadenza statale, della socialità cristiana contro il marxismo positivista; per arrivare a formare l'alternativa dei partiti costituzionali. Le crisi Nitti, Giolitti e Bonomi nei tre anni del 1920, 1921 e 1922 (quasi una all'anno) costrinsero (loro malgrado o mio malgrado) i parlamentari popolari alla collaborazione nei ministeri liberali; e se nel 1922 il re preferì Facta a Meda nell'incarico di formare il gabinetto, non fu mia colpa. I fatti non mi diedero ragione, cosa che capita nella vita politica. Ma lo scopo di costituire un partito dinamico, dare la possibilità dell'alternativa al.governo, era l'unico modo d i salvare il

i l


paese dal rivoluzionarismo dell'estrema socialista e dal nascente fascismo della Va1 Padana. Pertanto, servì bene allora la proporzionale, per il cui merito i popolari poterono fare entrare in parlamento nel novembre 1919 cento deputati, portati poi nel 1921 a centosette. Oggi la proporzionale ha spezzato la classe borghese (allora idealmente unita) e l'ha spezzata attraverso i l radicalismo del partito d'azione, il repubblicanesimo di sinistra dei repubblicani storici, il liberalismo destro, sinistro e centrista dei piccoli nuclei liberali, rimasti a galla dal naufragio. Quale gruppo borghese oggi può affermare l'alternativa di governo? La destra monarchica, con tale qualifica, ha creato lkquivoco istituzionale (equivoco da rimuovere anche per i molti monarchici esistenti in altri partiti); mentre la destra missina si è posta alla sinistra con le nostalgie passatiste e le rimasticature dei repubblicani di Salò. Manca così la possibilità di ricorrere alle destre per una alternativa d i governo legale e parlamentare D. Ed ecco l a D.C. inchiodata a l centro, senza potersi volgere ai piccoli partiti per formare una maggioranza, e senza potere cedere i l bastone del potere ad un partito che, nel rispetto della libertà e delle istituzioni democratiche, abbia una base elettorale sufficiente. La proporzionale, necessaria nel 1919 per ridare dinamismo alle istituzioni libere e fare entrare i cattolici nell'agone parlamentare con la loro personalità e fisionomia, oggi è dannosa perchè impedisce l a formazione di un terzo partito omogeneo e valido da presentarsi come opposizione legale e come alternativa della D.C. La proporzionale di oggi non è la stessa di quella del 1919, sia per l e varie disposizioni tecniche (allora collegi più stretti, preferenze più limitate, assenza del collegio nazionale, possibilità del voto aggiunto); sia per l a tendenza assai pronunziata al frazionamento del corpo elettorale, sia per la presenza del partito comunista, quale elemento perturbatore nel libero gioco dei partiti costituzionali. Oltre a tutte le difficoltà create dal sistema del T.U. della legge del 1948, oggi si a m v a al colmo con la proposta dei liberali e dei socialdemocratici, di adottare la proporzionale pura.


L'ori. Romita, proporzionalista del 1919 come me, afferma un'eresia in materia di leggi elettorali volendo la eguaglianza numerica di voti per tutti gli eletti. Sarebbe lo stesso che pretendere la eguaglianza dei cervelli, delle stature, dell'età per tutti gli uomini. Mi citi egli un solo esempio fra i sistemi vigenti nei paesi (C civili » (non parlo di quelli dove si vota per il sì e il no su lista unica) e non troverà un solo caso dove non ci siano voti non utilizzati, voti perduti, voti differenziati, come la natura dei sistemi elettorali esige a gloria della libertà umana anche in questo campo. Ma così è: l'on. De Gasperi, bon grè mal grè, fu indotto dai partitini a proporre e difendere fino all'estremo la legge elettorale del 31 mano, per avere un governo CC prefabbricato » e il 7 giugno non trovò attorno a sè l'ombra dei partitini. Fanfani ha voluto ritentare il gioco, e i partitini gli rispondono con la proposta della proporzionale pura, per rendere ancora più instabile la compagine parlamentare. Nelle varie elezioni amministrative dal 7 giugno ad oggi è quasi sempre sola la D.C. a far fronte ai socialcomunisti; gli altri scompaiono nel grigio; il corpo elettorale non li cerca anche quando li vede al seguito delle sinistre. Come sarà possibile formare il terzo partito, la terza forza, il raggruppamento dei laici con a base la proporzionale? E allora? Non c'è altra prospettiva in Italia, volere o no, che la lotta fra la D.C. da u n lato, e la rivoluzione dall'altro. I piccoli partiti potranno aiutare o disturbare il tremendo dialogo, ma non riusciranno, con la proporzionale, a farvi entrare un fattore diverso e risolutivo. A questo dilemma la tradizionale borghesia laica h a portato il paese per avere, dopo il 18 aprile 1948, aperto la irrequieta questione del laicismo tripartito e mai unito, facendo il saliscendi a l governo, meno i repubblicani, pattuglia fedele fino al 7 giugno. Ora per giunta, domandano un sistema atto a moltiplicare i partitini all'infinito, dando ai comunisti la possibilità d i formarsi la truppa degli utili idioti, e alla D.C. il bel vantaggio dei roditori della compagine cattolica. Ecco tutto. 22 gennaio 1954.

( I l Giornale d'Italia, 24 gennaio).


I L BENEFICIARIO DELLA CRISI Mentre scrivo sembra certo che la camera negherà la fiducia al gabinetto Fanfani; così, alla crisi Pella aggiunta la crisi Fanfani, il paese già domanda chi ne saaà il beneficiario. Saragat ha già preso posizione con una precisa indicazione: De Gasperi a capo del quadripartito con dentro anche i socialdemocratici. Se dal 7 giugno ad oggi Saragat con i suoi gesti impulsivi non avesse resa impossibile la formazione di un governo di centro; se la sua disgraziata apertura a sinistra non avesse reso il peggior servizio possibile alla democrazia italiana ; la sua odierna profferta a partecipare ad un governo a maggioranza D.C. sarebbe da tenersi in conto. Ma i sette mesi e mezzo di secessione, d i critiche, d i gesti, di veti, di oscillazioni, con l'ultima e non indifferente imposizione della proporzionale pura per tutte le elezioni, in modo da accentuare il caos politico giovevole solo al comunismo, hanno dimostrato che la sua profferta non può essere tenuta in conto. In sostanza, Saragat, dopo tutto quanto è successo, non può essere il vero beneficiario della crisi Fanfani. Stiamo ai termini della situazione. I1 gabinetto Fanfani verrebbe eliminato dal gioco governativo non per il programma esposto, che l a camera non ha voluto discutere e approfondire, per valutarne le possibilità di bilancio e la rispondenza con l'orientamento e le aspettative del paese; ma a priori, prima ancora di presentarsi per fine-di-non-ricevere. Non è stato il proposito dei partiti quello di abbattere la D.C. (oggi ineliminabile) ma solamente Fanfani, quale successore di Pella, presentatosi con un ministero tipo-Pella, non più in posizione transitoria fino alla chiarificazione parlamentare come fece Pella, ma in posizione definitiva, pur senza la chiarificazione parlamentare. I1 nodo del problema sta tutto qui. Ora Saragat affretta i tempi, e tenta una chiarificazione tutta sua, quando le acque sono ancora intorbidate, la destra ha la sua parola da dire, e quando l a D.C., riunificata attorno al gabinetto Fanfani, potrebbe essere di nuovo turbata dalle interne tendenze.


La posizione presa da Fanfani nel suo discorso-programma riguardo l e sinistre (che scatenavano « violente proteste « rei. terate interrogazioni e invettive 1) come dice i l resoconto del senato), è l a posizione di tutto il partito democratico cristiano; oggi non può essere affatto attenuata. Sul modo come ci giudicano all'estero nei riguardi del comunismo valgono bene le parole di Fanfani, anche dopo il voto della camera; giova ricordarle: (C Da queste strette, vere o immaginarie - ma comunque operanti e influenti - bisogna ad ogni costo liberare l'Italia, se vogliamo che gli italiani continuino a preferire la libera democrazia alla dittatura di classe n. È vero che Saragat è contrario al comunismo; ma egli, pur non illudendosi sulla autonomia di Nenni, non ha rinunciato all'apertura verso Nenni, se questi mostrerà un tantino di volersi, a suo tempo e problematicamente, sganciare da Togliatti.

Su questo vaniloquio si è costruita una politica atta a disgregare la D.C., se è vero che anche professori di teologia e professori di diritto romano vi hanno apportato i loro lumi e la loro attività. Ma ciò che ferisce la D.C. e la sua unità, ferisce oggi il nelle sue libere istituzioni, nella sua posizione europea ed tica, nella sua possibilità di ripresa economica e sociale suoi vitali interessi. La D.C. ha il dovere di essere unita e stare a l centro.

paese atlane nei di re-

Bisogna avere chiaro quel che è necessario fare. Dopo la caduta di Fanfani, che si era presentato con un ministero politicamente « tonificato o qualificato )) pur senza essere sicuro della maggioranza, oggi si è obbligati di ritornare alla posizione del ministero transitorio o di attesa o di affari o altra simile banale parola (perchè di fatto sarà sempre politico), pur con l'impegno da parte dei partiti di rivedere la possibilità di precostituire, fra pochi o molti mesi, una maggioranza governativa. La differenza fra la posizione di oggi e quella di ieri deve darla la D.C.: allora fu accettato i l ministero Pella come un ministero senza i crismi del partito, un tollerato (secondo la interpretazione d i Moro alla camera e di Ceschi al senato); oggi il nuovo ministero d.c. ( e non può essere che d.c. con o senza


tecnici) dovrà essere appoggiato dai deputati e senatori democristiani senza riserve nè sottintesi. Anzitutto vi sono i bilanci da discutere: non è possibile che la vita amministrativa si arresti e il parlamento si paralizzi con un nuovo e non facile prolungamento di crisi che esattamente data da metà dicembre. Per giunta, vi sono tanti disegni d i legge avanti le due camere ( e non poche proposte d'iniziativa parlamentare) che non basterebbero quattro o cinque mesi a discuterne e approvarne o rigettarne, non dico altro, la metà. A queste si aggiungono i disegni preparati dal ministero Fanfani in parte presentati e in parte in elaborazione, che il nuovo gabinetto potrà rivedere o £are propri. I1 lavoro non manca, nè mancano le direttive che p u r rivedute non possono non ricalcare, salvo qualche punto discutibile, quelle esposte da Fanfani. Non è stato il programma Fanfani, come non sono stati i disegni di legge Pella, a far cadere l'uno e l'altro gabinetto. È l'irrequietezza politica che h a preso i partiti, dividendone le vedute e i propositi. Se si esaminano i voti dei tre gruppi sui quali ricade la responsabilità della crisi, si vedr,à che i parlamentari socialdemocratici liberali e monarchici si sono divisi pro' e contro in modo da ottenere delle maggioranze m i d m e , credo quattro o cinque voti in tutto, per l a sfiducia. Ebbene, non potendo oggi affrontare le elezioni, nè potendo deludere le aspettative del paese circa il più coerente orientamento del parlamento, torniamo al metodo adottato da Pella, sia pure con maggiore impegno programmatico e legislativo e con i l proposito di uscire dall'equivoco nel più breve tempo possibile. L'incarico di fiducia alla D.C., senza vincoli d i partito ma con netta posizione di centro, risponde al responso elettorale del 7 giugno e alla esigenza di non aprire l a porta al socialcomunismo. Chi sarà pertanto il beneficiario della crisi? Non spetta a me indicarlo, spetta alla D.C., che dovrà scegliere ancora una volta uno dei suoi ( e non u n estraneo) che sia ben visto in parlamento e che sappia evitare di volere in pochi giorni crearsi una maggioranza precostituita, contrattando su leggi e su problemi generali (come è il caso della legge elettorale) con pre-


giudizio degli interessi del paese e della stessa dignità del parlamento. 28 gennaio 1934. (Il Giornale d'Italia, 30 gennaio).

PROPORZIONALE PURA, CORRETTA, MISTA Fino a ieri per le elezioni della camera, i liberali si erano ancorati al progetto dell'on. Martino basato sul collegio nazionale unico; i socialdemocratici fermi alla proporzionale pura di Romita; i democristiani divisi fra proporzionale corretta (testo unico 1948) e sistema misto; De Martino, legge senatoriale con il quorum del 50 per cento più 1 ; Foderaro, De Cocci, 500. seggi a sistema uninominale e 90 seggi con la proporzionale; solo Caronia sistema uninominale. I n questa posizione, la direzione della D.C., per arrivare al quadripartito nel suo comunicato del 3 1 gennaio riconfermava il principio proporzionalistico e demandava la riforma elettorale ad un comitato ministeriale nel quale siano rappresentati tutti i partiti corresponsabili del governo n. Questa ultima proposta è ricomparsa nel sunto del programma quadripartito (C nel senso più strettamente proporzionalistico ».Si ritornerebbe con tale proposta all'infelice prova del passato di dare al governo la responsabilità della riforma elettorale e d i affidarla a quel quadripartito che porta tutto i l carico della legge col premio, che h a avvelenato l'ambiente politico italiano. A parte questo rilievo, debbo riaffermare il mio convincimento che mettere la questione della legge elettorale a base del quadripartito che si vuol fare rinascere, e fissare la futura legge con la definizione d i strettamente proporzionalistica, è u n errore che come il primo e più del primo avrà le sue fatali conseguenze. Quando incombe il pericolo socialcomunista, i cui partiti sono ben saldi, non ostante gli inviti più allettanti all'on. Nenni, che ripaga Gronchi e Saragat con moneta falsa, è inconcepibile che


i quattro direttivi facciano un accordo per iniziare una discussione di disaccordo pari a quella che durò tutto il secondo semestre del 1952, con quel tira e molla fra Viminale e Piazza del Gesù e Sella di Valsugana che portò all'infausta legge del 31 marzo e indebolì il valore della battaglia elettorale. Questi signori non si rendono conto che il virus mortale della proporzionale è il voto preferenziale, che scinde i partiti, attenuando e mortificando lo slancio della lotta. Paolo Vittorelli, che è stato diligente ricercatore dei miei scritti del periodo popolare a favore della proporzionale, avrebbe dovuto fare lo stesso dei miei scritti dal 1951 in poi, per notare i motivi e le fasi del mio nuovo orientamento. Avrebbe così evitato il titolo del suo articolo: (C il partito della previdenza » e le sue affrettate e ingiuste conclusioni. Ma non sono io in causa ; nè il mio pensiero di ieri e di oggi, nella questione che si dibatte; e neppure il partito della D.C., che, come si vede, torna a sacrificarsi per la seconda volta sull'ara del quadripartito, buttando a mare il premio di maggioranza voluto dai quattro e accettando la proporzionale pura voluta dai due. Vittorelli mi dia atto che la proporzionale del 1919 era impura e si differenziava da quella del 1948 e da quella che ci imporrà il comitato interministeriale con la rappresentanza dei partiti di governo D. Mi dia anche atto della mia proposta di legge al senato che non distrugge la proporzionale, solo abolisce il ridicolo quorum del 65 per cento. Che i partiti piccoli, laici o non laici, siano incapaci a esprimere un'alternativa costituzionale alla D.C. è provato dalla esperienza di cinque anni, dal giorno che i socialdemocratici lasciarono nel 1949 la collaborazione governativa, per poi ripigliarla e per poi lasciarla; dal giorno che i liberali lasciarono la collaborazione governativa, senza sapere o volere fare una vera opposizione di sua maestà per poi finire con la coalizione per la legge elettorale del 31 marzo; dal giorno c h e v irepubblicani non vollero seguire i colleghi rinunciatari e rimasero al governo collaborando. Oggi i tre sono pronti a ricostituire il quadripartito, senza


avere mai provato una seria coalizione, senza avere mai trovato un motivo d'insieme per essere riconosciuti una terza forza. La mia tesi, che sia la proporzionale attuale (che verrebbe peggiorata con la ricerca della purezza e della strettezza annunziata dai compilatori del nuovo programma governativo) a impedire l a formazione di una alternativa costituzionale, deve essere intesa nella luce di otto anni passati inutilmente, senza trovare I'ubi comistam. I liberali avrebbero dovuto essi raccogliere l'eredità della libertà economica pur adattata alla situazione moderna, libertà oggi soffocata da un interventismo statale antieconomico e burocratizzato; essi che non avrebbero potuto associarsi a l socialismo di Saragat e di Romita, ambedue pianificatori e statalisti, eredi di quel passato prefascista del loro partito, basato sul socialismo d i stato 1). Oggi sono i liberali che sostengono la candidatura dell'on. Gronchi a nuovo capo del governo, quando è ben noto che Gronchi non solo è u n pianificatore, ma non ha mai avuto entusiasmo per la linea Pella, che i liberali dovrebbero volere intatta per non correre l'alea della inflazione e l'aumento dei deficit finanziari. Con quel che è stato messo nel programma concordato dai quattro, come possano starci dentro i liberali, è inconcepibile. Dovrebbe essere inconcepibile anche per molti democratici cristiani, ma costoro sono ormai costretti a tentare il quadripartito: bere o affogare. E tra le cose che la D.C. è costretta a bere c'è anche la legge elettorale in senso più strettamente proporzionalistico D, che perpetuerà l'attuale instabilità parlamentare impedendo sia la formazione di una vera maggioranza responsabile, sia l a formazione d i una vera opposizione costituzionale che possa dar luogo ad una futura alternativa di governo. La legge elettorale sarà il tormento del 1954: poi nel maggio 1955 si avrà l a elezione del presidente della repubblica; è probabile, data la instabilità parlamentare, che si dovrà arrivare alle elezioni nel novembre 1955. Allora avremo questi due fatti: l'indebolimento della lira per colpa dei pianificatori; l'indebolimento dei quattro partiti per colpa delle difficoltà pratiche di


governo. Basterà la legge elettorale purissima per dare all'Italia una situazione più caotica e più difficile di quella del febbraio 1954. 6 febbraio 1954.

(L'Italia, 9 febbraio).

6.

IL COMUNISMO IN ITALIA Taylor predice « l'ltalia sta diventando comunista ». Con questo titolo i l noto articolista' Henry J. Taylor, ha pubblicato sul This Week Magazine d i New York un articolo che h a avuto larga risonanza a i nostri danni. Gli ha risposto don Sturzo con un preciso articolo che pubblichiamo nel testo italiano e che è stato diffuso i n America dall'dssociated Press e riassunto, con carie citazioni, d a quotidiani quali The N. Y. Herald Tribune, d a l quale dipende This Week Magazine. Diamo il testo italiano dell'articolo d i don Sturzo, facendo notare che l'ottimismo è basato sia sulla volontà degli italiani a resistere e a lottare, sia sulla cooperazione alleata. Henry J. Taylor ha aggiunta un'altra alle sue predizioni politiche, affermando nel This Week Magazine che « Italy is going communist D. Anch'io ho varie predizioni politiche nella mia lunga vita di giornalista, per esempio che i giapponesi avrebbero aggredito gli Stati Uniti. Ne aggiungo un'altra, che l'Italia non sarà comunista. La storia non è nuova: nei primi mesi del 1948, quando tanto in Italia che all'estero (America compresa) si era diffuso i l panico per le elezioni dell'aprile, io scrissi al New York Times una lettera affermando che nessun pericolo comunista allora sovrastava l'Italia. I fatti mi diedero ragione. I social comunisti e partitini di sinistra, che nelle elezioni per la costituente nel giugno del 1946 avevano ottenuto il 41,8 per cento dei voti, nelle elezioni del 18 aprile 1948 ne ebbero il 31,3 per cento; per con17 2

- S T C R ? . ~. Politica

d i g i i r s f i anni.


tro, la democrazia cristiana, che nel 1946 ebbe il 35,2 per cento, nel 1948 arrivò al 48,5 per cento. Secondo l e statistiche elettorali, il pericolo comunista oggi sarebbe in Italia meno grave di quanto non fosse stato dal 1946 a l 1948. Se guardiamo tutte le elezioni che si sono svolte in Italia dal 1945 ad oggi, parlamentari, regionali, provinciali e municipali, troviamo una specie di normalizzazione d i forze, che vanno in media per i l quaranta per cento alla democrazia cristiana, per i l trentacinque per cento ai social comunisti, e per i l venticinque p e r cento a tutti gli altri partiti. I dati del 7 giugno 1953 confermano questa tesi: social-comunisti 35,4 per cento, democristiani 40,l per cento.

I vari spostamenti da queste cifre potranno essere indici di fatti politici e di stati d'animo del momento, atti a influenzare l e elezioni (come avviene in tutti i paesi); ma non potranno alterare di molto lo schieramento dei partiti, che hanno base nelle varie classi e interessi sociali, nella organizzazione dei gruppi e sindacati operai, industriali, agrari e commerciali. Dopo il 7 giugno scorso l'Italia, per la prima volta dalla rinascita democratica, soffre della instabilità governativa. Si cerca una maggioranza che è difficile ricomporre. Ma, non essendovi per ora in vista nuove elezioni, si sarà costretti a provvedervi con le intese tra la D.C. e i partiti minori. La necessità di ritrovare una maggioranza non solo per un governo più saldo, ma per fronteggiare i socialcomunisti, indurrà i partiti a prepararsi alle elezioni, che, per vari motivi, non potranno essere indette prima della fine del 1955. Sono d'accordo con M. Taylor che il ~ r o b l e m amigratorio va messo in primo piano sia dall'Italia, sia dall'Europa e dall'America. Se gli Stati Uniti aumenteranno la quota di immigrazione italiana, sarà un bene; ma se essi concorreranno con mezzi efficienti a favorire una larga emigrazione italiana nei paesi europei e transoceanici, sarà ancora meglio. L'assorbimento dei disoccupati, deve essere al centro della nostra politica, specialmente dei giovani che arrivano all'età d i lavoro senza avvenire. Non si tratta solo di lavoratori manuali, si tratta anche dei giovani delle classi medie, che attendono vari


anni per trovare occupazione ; costoro sono facilmente presi dalle correnti estremiste. Pochi dati elettorali chiariscono questo fatto: elettori della camera dei deputati sono i cittadini maggiorenni; elettori dei senatori sono i cittadini che hanno compiuto venticinque anni. Nelle elezioni del 1953 i votanti per la camera sono stati 418.451 in più di quelli del senato; e: questi sono stati di certo i giovani da 21 a 25 anni. I loro voti sono andati in maggior parte alle sinistre. Invero: l a D.C. dal 40,70 per cento di voti pel senato passò al 40,lO per la camera; i social comunisti insieme dal 34,70 pel senato passarono a l 35,38 per la camera; le destre dal 13,23 pel senato al 12,69 per la camera e i piccoli partiti dal 12,69 pel senato a11'11,83 per l a camera. Queste cifre debbono essere corrette dal fatto delle schede bianche e nulle che nelle votazioni per l a camera furono molto più numerose di quelle del senato. Però, è più facile che le schede nulle siano state di elettori che votarono per i partiti governativi, essendovi fra i comunisti una disciplina assai rigida. Comunque sia, è chiaro che i l problema dei disoccupati giovani è i l principale, e non può paragonarsi con quello dei sotto occupati, dei quali fa cenno Mr. Taylor, riunendo insieme i vari coefficienti e portando a quattro milioni la cifra del peso demografico senza lavoro. L'Italia per respirare ha bisogno di un maggiore assorbimento medio di almeno duecentomila unità per anno in più dei cento-centocinquanta mila che emigrano all'estero ogni anno. I1 comitato di Ginevra per le migrazioni europee, diretto da Mr. Hugh Gibson, potrebbe essere di notevole aiuto all'Italia a risolvere simile problema. Lo sforzo italiano di assorbimento all'interno, dal 1946 ad oggi, è stato notevole, solo che si pensi alle condizioni in cui si trovava il paese alla fine della guerra. È doveroso riconoscere all'America l'apporto dato, con i vari interventi finanziari e tecnici, per l a nostra ripresa. Allo stesso tempo la popolazione italiana è aumentata di tre milioni, e la gioventù arrivata ai venti anni è stata oltre i due milioni e mezzo. Se l a disoccupazione del dopo guerra è stata mano a mano ridotta alla cifra di un milione e 600 mila a fine 1953, nonostante l'apporto demo-


grafico annuale, bisogna riconoscere che lo sforzo non è stato indifferente. Ma questo deve continuare: ecco la necessità di sviluppo produttivo all'interno e d i emigrazione all'estero. L'Italia da sola non può compiere questo miracolo. Ma l'Italia nel quadro europeo e atlantico, aiutata largamente dall'America, lo potrà compiere e lo compirà. Non essendo pessimista, e credo che non lo sia Henry J. Taylor, posso fare il conto del costo per l'America nella ipotesi da lui prospettata che l'Italia divenga comunista. La perdita per l'occidente d i un popolo di 48 milioni di abitanti, con una larga attrezzatura industriale, in posizione strategica d i primo ordine ( l e guerre mondiali si vincono e si perdono nel Mediterraneo e sono sempre state vinte per la civiltà contro la barbarie), passando l'Italia oltre la cortina di ferro, porterebbe tali effetti morali politici ed economici per i paesi del patto atlantico, da non potersi assolutamente valutare. La Nato e la difesa della comunità europea salterebbero di un tratto. Che resterebbe della Francia e della Germania? La stessa Jugoslavia accerchiata dai satelliti potrebbe forse resistere? Che cosa farebbero allora Londra e Washington? Auguri al popolo americano che non è pessimista, ma ottimista come sono io, ottimista nel lavoro e nella lotta. Solo così le profezie di sventura potranno essere allontanate e vinte. 18 febbraio 1954.

( I l Giornale d i Brescia, 18 febbraio). (Diffuso dall'dssociated Press).

LETTERA AL PRESIDENTE DEL COMITATO LITUANO Signor presidente, Sono presente alla celebrazione anniversaria del 36" anno della dichiarazione d'indipendenza della Lituania, e SO0 della libertà della stampa, e, anche, dell'inizio del movimento demo-


cratico cristiano, che ebbe, nel periodo di governi liberi, notevole sviluppo. Ricordo la delegazione lituana che più volte partecipò ai congressi promossi dal segretariato internazionale dei partiti democratici d'ispirazioue cristiana, costituito a Parigi nel 1925 e poscia passato a Londra durante il periodo della guerra. Oggi gli echi della voce della Lituania libera e democratica, cristiana e cattolica, si sentono a Roma, a Parigi, a New York; ma nel cuore dei lituani non è spenta l a speranza e l a fiducia nell'avvenire della giustizia e della libertà. La mia adesione di oggi si riallaccia ad una mia presa di posizione con l'articolo del 5 giugno 1942 pubblicato negli Stati Uniti e nel Canadà e poi riprodotto nel volume La mia battaglia da New York, con il quale in piena guerra apertamente affermai Ici difesa dei diritti dei popoli baltici, e previdi i danni enormi dell'errore commesso dalle potenze occidentali. Oggi tutto ciò può sembrare un passato irreformabile; ma nulla è irreformabile nella vita dei popoli, perchè nessuna ingiustizia può essere consolidata sotto il pretesto della ragione di stato. I1 futuro è nelle mani della Provvidenza, ciascuno d i noi è chiamato a realizzarne i voleri con la preghiera, con l a retta intenzione, le opportune affermazioni e le concorrenti opere, anche quando non si scorge ancora l'alba del giorno desiderato. Augurando che l'attesa d i questi giorni sia la più breve possibile, mando un saluto di solidarietà a l popolo lituano. Distinti ossequi. 13 febbraio 1954.

LUIGI STURZO ( N o n appare pubblicata).

LETTERA A GIUSEPPE D'ANGELO Caro onorevole assessore, Non potendo intervenire alla inaugurazione della mostra del turismo siciliano, mando la mia cordiale adesione con l'augurio


più fervido per lo sviluppo sempre crescente del turismo della nostra isola. L'iniziativa della mostra e la istituzione in Roma dell'ufficio di informazioni turistiche della Sicilia dànno un'idea d i quanto in questo campo abbia fatto la regione siciliana, e quale apporto di consensi e di aiuti abbia ottenuto dal commissariato del turismo e dal suo commissario on. Romani, nonchè dal presidente del comitato interministeriale della cassa per il mezzogiorno, on. Campilli, e da quel consiglio di amministrazione. L'interesse turistico dell'isola è interesse nazionale; e la presenza a Roma, oltre a rispondere a giusta esigenza tecnica e finanziaria, h a l'impronta del legame indissolubile di « regionenazione ». Tale legame è vitale per noi siciliani come è doveroso per gli organi centrali dello stato; chiunque vi attenti mancherà al suo dovere d i cittadino e all'interesse del progresso nazionale. Una cordiale stretta di mano 19 febbraio 1954.

LUIGI STURZO (Sicilia del Popolo, 20 febbraio).

AMMINISTRAZIONE, NON POLITICA NEI COMUNI L'andamento della lotta elettorale di Castellammare di Stabia mi dà occasione di ritornare su temi vecchi e situazioni nuove. Prima del fascismo e prima del partito popolare, i venti anni dell'esperienza da me fatta e nel mio comune e nell'associazione dei comuni italiani, mi portarono sempre più a combattere l'ingerenza del ministero dell'interno e dei prefetti nelle elezioni e nella vita dei comuni, specie nel mezzogiorno e nelle isole; divenni così l'avversario più deciso di Giolitti e dei suoi metodi. Per combattere i quali, creato il partito popolare, affermai ancora di più il diritto dei comuni all'autonomia, per essere liberi da ogni ingerenza statale.


Dopo la caduta del fascismo, sia per le continue coalizioni dei partiti al governo: esarchia, tripartito, quadripartito democratico in atto o in tendenza, le ingerenze q oli ti che dell'antico Palazzo Braschi e poi di Palazzo Viminale, vennero ad attenuarsi, pur rimanendo in vita, nonostante l a costituzione, le ingerenze amministrative. Ma, per rimbalzo, divennero ancora più pretenziose e prepotenti le ingerenze dei partiti. La « politicizzazione ( i n lingua corretta si direbbe: la coloritura politica) delle lotte locali e della attività amministrativa, passando dal governo ai partiti organizzati, non solo è stata accentuata, ma non ha più ritegni: la Roma delle segreterie politiche e dei direttivi dei partiti comanda oggi più che non comandasse la Roma dei governi liberali. I1 fatto della disciplina caporalesca instaurata nei partiti, ad imitazione dei comunisti, ( p e r il solito complesso d'inferiorità), e l'istinto di uniformità (vecchio difetto che dal risorgimento in poi non è affatto diminuito) ci portano a questa specie di dittatura politica di Roma sulla provincia. Non è raro, che qualche comune cerchi, attraverso l'etichetta di liste locali, di sottrarsi alla tirannia dei partiti; si tratta d i piccoli comuni. I grossi, vissuti nel continuo attrito dei partiti e sotto la minaccia comunista, debbono per necessità far capo a Roma. Castellammare di Stabia ha goduto per circa un decennio del dominio socialcomunista; ora ne è stufa ed ha tentato, per l e elezioni del 28 marzo, i l fronte unico, con l'adesione di tutte l e sezioni locali di tutti i partiti. A darvi colore locale si è aggiunta una vertenza di interesse civico di primo ordine: la valorizzazione delle famose terme con i fondi della cassa per i l mezzogiorno, non potutasi ancora attuare per le tergiversazioni della amministrazione rossa. A parte i motivi contingenti, l e terme sono divenute uno slogan di battaglia. Mentre i direttivi romani dei partiti coalizzati o hanno aderito o non hanno opposto veti, uno dei minori si pronunziò contrario al fronte. Per una città di 60 mila abitanti, centro industriale notevole, con prospettive di ulteriore largo sviluppo turistico, il sacrificio alla dea politica sembrò a Roma necessario per mantenere la purezza di quel partito da ogni contaminazione.


Gli stabiesi della corrispondente sezione, pur accettando a metà l a disciplina, decisero di non presentare lista ufficiale e consentirono che due dei propri soci fossero portati come indipendenti nella lista di uno dei partiti collegati. Neppure questo ripiego piacque ai dirigenti di Roma, che ingiunsero la formazione di una lista propria ad ogni costo. Gli stabiesi, teste dure, non vollero aderirvi e dare i loro nomi alla lista, meno uno o due. Esito quindi negativo. Ma anche a Roma non mancano teste dure come quelle di Castellammare: il direttivo ordinò (questa volta a maggioranza) la formazione di una lista composta in gran parte di dirigenti della provincia di Napoli con a capo un deputato di una delle regioni dell'alta Italia. Così fu fatto: ma i l guaio fu di trovare le firme degli elettori che dovevano presentare la lista. Di stabiesi che pensano alle terme, non si offrì nessuno. Allora, narra i l Mattino, non si sa bene se a richiesta dei candidati napoletani o per offerta spontanea, la lista fu sottoscritta in gran parte da nenniani, proprio dagli avversari contro i quali la pretesa lista scendeva in lizza. Non è finita l a storia, perchè l a sfortuna era alle calcagna dei canclidati voluti dal direttorio di Roma: non si trovò a Castellammare e dintorni un notaio, che fosse legalmente in grado di autenticare firme non apposte alla sua presenza. 11 tempo urgeva; il sindaco comunista di Castellammare non si trovava in città, corri d i qua, corri di là, il sindaco arriva, tentenna anche l u i ; non li aveva visti firmare quei nenniani compiacenti. Alla fine pressato mette il suo bollo, la lista è pronta, ma l'ora era scoccata; la lista come documento, penso io, dovette essere inviata a l direttorio d i Roma. Drammatico, non è vero? ma anche farsesco, per via di quei nenniani firmatari di una lista avversaria e compiacente. Non sarebbe stato meglio che i signori di Roma, invece di spiegare tanto zelo, avessero lasciato fare la sezione locale, che aveva assunto una responsabilità in casa propria? Non solo si sarebbe dato prova di equilibrata prudenza, ma anche d i rispetto di quella minima libertà locale, che sviluppa il senso di dignità e responsabilità personale rendendo più effettiva l'adesione della provincia al centro, attenua il formarsi in seno a tutti i partiti


(meno i l rosso) di correnti e sottocorrenti che perpetuano (nel campo politico) la tradizione tutta italiana individualista e, allo stesso tempo, accentratrice. I n sostanza, i l virus che corrode la nostra vita politica è l a partitocrazia, no! nenon che i partiti (crgnui ncccssari di una vera democrazia) non conoscono i propri limiti. Nel campo nazionale i partiti invadono i poteri del parlamento e tentano di partecipare a i poteri e alle direttive di governo; nel campo locale, annullano le responsabilità delle loro stesse sezioni, s'ingeriscono (attraverso le sezioni) nella stessa attività comunale, e attraverso i centri dei capoluoghi, in quella dei vari uffici provinciali. La regione non sfugge alla tendenza di politicizzazione mentre, per la sua importanza, dovrebbe essere modello di indipendenza e di responsabilità amministrativa. La stessa legge elettorale, ammettendo nei comuni e nelle provincie le candidature di elettori non iscritti in quei comuni, dà spunto a politicizzare gli organi della vita locale. Così, nella lista non presentata a Castellammare, vi era a capo u n deputato dell'alta Italia; e non mancano, specie nelle grandi città, deputati e senatori presi in prestito da altri comuni e da altre regioni per rafforzare il colore politico dei rispettivi gruppi consiliari. Così han fatto i comunisti di Castellammare mettendo fra i candidati l'on. La Rocca, e i nenniani portando da Napoli il vice segretario della federazione provinciale. La politica, come sta divenendo il comune denominatore di tutte le attività economiche, così ha invaso il campo amministrativo e, perfino, quello culturale, con u n regresso spaventevole dello spirito di libertà liberatrice, che dovrebbe fortemente soffiare in Italia a purificarla di tutte le malsanità. 28 febbraio 1954.

( I l Giornale d'Italia, 4 marzo).


AL CONGRESSO NAZIONALE DI SILVICOLTURA (*) Ill.mo presidente, pensi con quale entusiasmo correrei a Firenze per partecipare al congresso nazionale di silvi'coltura. Ma da più di sette anni non mi muovo da Roma. Porti Lei il mio saluto ai convenuti, non per altro merito intervenendo che quello di essere stato, fin da giovane, amico della foresta ed avere, durante la mia lunga attività amministrativa e politica, affermato la importanza, la urgenza, la imprescindibilità di una politica forestale improntata a metodi tecnici ed economici aggiornati e verificati. È a deplorare che la politica forestale non sia popolare in Italia, perchè più o meno tutti si è avvelenati di demagogia. Qualsiasi politica che per affermarsi deve contare sopra successi effimeri, non considera utile la foresta che come declamazione nei convegni per gli immediati applausi; perché gli effetti politici delle sistemazioni forestali non si vedono che a distanza monto lontana, quando nessuno o quasi si ricorderà di quei ministri o di quei parlamentari che furono i promotori. E oggi, invece, ci si accontenta dei cantieri d i lavoro, la cui utilità è al d i fuori della tecnica e della economia forestale. Auguro, pertanto, che. si rendano popolari i problemi della foresta, e si abbia il coraggio di investire i necessari miliardi a salvaguardare le aspre e soleggiate montagne, a regolarizzare e utilizzare le sorgenti e i corsi d'acqua, a dare fertilità e pace alle nostre campagne. Ecco il mio augurio che è come un testamento di benessere per il nostro paese. Ringraziamenti ed ossequi a Lei e agli intervenuti. LUIGI STURZO 14 marzo 1954 (Non appare pubblicata).

(3 Lettera al prof. Generoso Patrone, presidente dell'accademia italiana di scienze forestali.


AUTONOMIA LOCALE NON « CONTRABBANDO POLITICO

'

1)

Alla Voce RepxbOltccnc, che, conimentalido il mio articolo sul caso di Castellammare, insinua i l dubbio che in esso possa contenersi un contrabbando politico, oppongo recisamente che l'autonomia locale, da me sostenuta da oltre mezzo secolo, non comporta alcun contrabbando politico. A parte tutta la mia vita senza mai sottintesi; a parte la mia posizione politica attuale senza legami e senza impegni di partito, di gruppo, di clientela; a parte l'atteggiamento assunto dal mio ritorno in patria, libero e critico verso amici e verso avversari, il sospetto di contrabbando cade per la logica intrinseca del sistema applicato alla vita locale: « amministrazione, non politica » e ciò senza ingerenza (politica, s'intende) nè del governo nè dei direttori dei partiti. Sfido chiunque a provare che tale sistema contenga il contrabbando del futuro blocco anticomunista, che vada dai saragattiani ai missini. Sono forse io i l portavoce di tutti questi signori? E come fare un blocco senza i tre partiti laici che reagiscono solo a parlare di elezioni collegate a Castellammare o Castellaneta o Castelfranco? La mia teoria è semplicemente amministrativa e locale, basata su quella libertà, unita a senso di responsabilità, che deve riconoscersi agli enti locali e all'elettorato delle rispettive circoscrizioni territoriali; l a conseguenza è netta: in ogni posto il problema elettorale e quello amministrativo saranno risolti secondo che i partiti locali e i l loro elettorato crederanno opportuno nell'interesse delle singole comunità. Se i partiti laici locali avranno il gusto di fare da sè, l a mia tesi rimane intatta. Non ostante la interpretazione data in un secondo articolo della Voce Repubblicana alla mia esposizione dei fatti d i Castellammare, la mia critica non toccava e non tocca il contegno di alcuna sezione locale per avere fatto questo o quello; ma di quel direttori0 di Roma che volle imporre una linea politica alla condotta dei propri iscritti in quel comune. Non h o i o detto che i l blocco stabiese sia di carattere


politico; ho detto che quegli stabiesi che erano stufi di dieci anni d i dominio rosso, volevano cambiare amministratori e VOlevano risolto il problema delle terme. Mi si domanda dai repubblicani se io arriverei ad approvare un blocco contro qualsiasi altro partito che abbia amministrato male. Rispondo di sì, anche se quel qualsiasi possa intenzionalmente indicare la D.C. locale, che in ipotesi, avesse amministrato male. . Ma la domanda, così formulata, contiene un altro elemento non chiaramente formulato; cioè: quali i compagni d i blocco anti-D.C.? L'antagonista più forte è il P.C. (partito comunista e C".). Ebbene, se i repubblicani di qualche comune, dove hanno gruppo elettorale proprio, crederanno, nel caso in ipotesi, che il partito comunista faccia una buona amministrazione e non faccia della politica, se essi crederanno di potere collaborare con i comunisti da paro a paro, anche dopo la prova fattane da Nenni, si accomodino pure. Sarà affar loro, come sarebbe affare degli altri laici minori e maggiori dei singoli comuni; io contesto solo che ciò possa essere imposto dal centro. I n sostanza, la loro libertà non potrebbe essere limitata che dalla loro stessa coerenza, intelligenza e coscienza; non dalla Roma del governo, nè dalla Roma dei direttori dei partiti. È chiara l a mia tesi? Siccome io non parlo a nome di alcun altro, sia associazione partito o gruppo, ma a nome mio, io ripeto oggi per i comunisti quel che dissi a chi mi esortava a collaborare con Mussolini: « l a collaborazione si fa in piedi, non in ginocchio N. Avrei così conchiusa la mia risposta sul contrabbando; ma desiderando eliminare ogni motivo di sospetto debbo aggiungere un corollario sul riferimento fatto dalla Voce Repubblicana a quell'aprile 1952 quando fu proposta una lista civica per l e elezioni amministrative di Roma. Allora l a mia posizione fu precisata con I'articolo per la ricorrenza del 21 aprile: « Destino di Roma ».Più caratteristica, più locale, più apolitica di quella impostazione non si poteva dare, perchè di Roma non ce n'è che una, e singolare era anche i l caso della lista bloccata capeggiata dall'on. Nitti. Sollecitato allora da amici, io che dal mio ritorno mi man-


tengo estraneo alle attività elettorali e organizzative di partito, accettai di consultare i capi dei partiti per esaminare l a possibilit,à di una lista civica apartitica. I primi colloqui furono con gli on. Pacciardi e Romita; in seguito vidi l'avv. Villabruna. La loro risposta negativa risollevò il prnhlema politico che io tentavo di eliminare; onde sollecitamente pubblicai i l comunicato del 23 aprile nel quale era detto: (C le consultazioni verbali e le comunicazioni scritte che ho potuto avere nei due ultimi giorni mi inducono a concludere che taluni partiti sono pregiudizialmente contrari a rinunziare alle proprie liste, altri tendono a interpretare la proposta nel senso di iniziare nuovi negoziati fra gli stessi partiti onde fissare i termini e le condizioni di un accordo inter-partitico. Questa procedura non corrisponde ne allo spirito nè a l tenore della mia iniziativa D. La verità è che tale iniziativa ( a parte la ristrettezza del tempo dovendosi a brevissima scadenza presentare le lisie) fu presentata dalla stampa come una mossa politica, una virata a destra della D.C., una prova per le future elezioni politiche del 1953. Nulla di tutto ciò non solo nella mia intenzione ma neppure in quella degli elementi responsabili della D.C.. Prego adesso gli inventori e i ripetitori della frase: « operazione Sturzo 1) nel senso attribuitomi, di rileggere il mio articolo «Destino d i Roma », per ripescarvi i l contrabbando politico, del quale oggi si torna a parlare a proposito delle elezioni di Castellammare. La Voce Repubblicana, in un secondo articolo, si lagna d i incomprensione della politica dei tre partiti minori da parte mia, che impartirei loro severe lezioni, tali da essere svalutatrici della politica e della loro posizione nel paese. Rilevo ciò, sia per rivendicare, non dico il diritto perchè nessuno me lo contesta, ma l'opportunità di una critica che io ritengo costmttiva e non negativa; critica che tocca sia i partiti minori, sia i partiti maggiori, senza eccezione; i miei amici lo sanno e benevolmente mi tollerano. Non nego l'utilità dei partiti minori, ognuno nel suo rango; nego la pretesa dei tre laici di vantare titoli di preminenza storica, democratica e politica, al punto da imporre, pena la cessazione del quadnpartito, una riforma elettorale tutta a vantaggio dei comunisti e degli utili idioti.


Data la nostra situazione, con un partito social-comunista (quanto inchiostro si è sprecato e si spreca per l'apertura neriniana?) il più grande che esista in tutti i paesi del patto atlantico, sarebbe necessario, per rifare l'equilibrio parlamentare, wi terzo partito o la coalizione di una terza forza che porterebbe anche verso l'alternativa di governo. Io non avrei paura, in tal caso, di una D.C. all'opposizione; anzi la troverei tonizzante per i l ritmo politico di una vera democrazia. Ma no; la D.C. è condannata ad avere l a maggiore responsabilità del potere senza poterlo lasciare, perchè ad essa compete l'obbligo della difesa della libertà riconquistata e minacciata di nuovo; ad essa il compito di equilibrare l e tendenze disgregatrici che si insinuano in tutti i partiti in atto o in potenza governativi. Non contesto ai tre partiti di credersi di fronte al comunismo « trincee avanzate come indica i l titolo dell'articolo che io qui commento ; ma debbo aggiungere che fin oggi ci manca l a prova che si tratti di trincee ben fatte, che possano da sè resistere agli attacchi avversari. E fo punto: son sicuro che non mancheranno l e occasioni per riprendere il tema; auguro che le prove che daranno i militi delle trincee avanzate saranno tali da meritare l'approvazione e l a fiducia del paese. I n tal caso, l a prima prova di coraggio dovrà essere data nella battaglia contro ( e non a favore) della proporzionale pura. 7 marzo 1954.

( I l Giormle d'Italia, 10 marzo).

DEMOCRAZIA E PARTITOCRAZIA Che ci siano cittadini italiani che non gustano la partitocrazia e pensino addirittura all'abolizione dei partiti, ricordando forse l'epoca del partito unico, non ho elementi per negarlo. Quel che non posso ammettere è che in un quotidiano assai diffuso si affermi che coloro che combattono la partitocrazia ( e


fra costoro uno dei più convinti e più insistenti è proprio il sottoscritto), vogliano per ciò stesso la eliminazione dei partiti, dandosi come dogma indiscusso essere la partitocrazia connessa intimamente con l a democrazia. Le cose stanno diversamente; f r a partiti e partitocrazia corre l a stessa differenza che fra parlamento e parlamentarismo, fra democrazia e democraticismo, cioè fra struttura sana e struttura ammalata; fra andamento esatto e andamento disordinato; fra funzionamento normale e disfunzione. Mentre si debbono non solo ammettere, ma bene organizzare i partiti nel sistema libero e rappresentativo dello stato, sia o no democratico: ricordare a riprova sia l'Italia unificata che fino all'allargamento del suffragio popolare si basò sulle classi censitarie, e non fu democrazia in atto, ma solo potenzialmente; sia la stessa Inghilterra che fino al 1935 non volle mai qualificarsi democrazia. Detto ciò, il lettore può domandarmi la diagnosi della malattia che va detta partitocrazia, e la relativa cura. Ogni sistema libero ( e la democrazia è tale) impone una disciplina auto-limitatrice, sia questa volontaria e di costume; sia volontariamente sancita da leggi o fissata da regolamenti; limiti di competenza, di rispetto, di cooperazione, di contrasto. I1 limite è l'elemento di ordine che serve alla convivenza umana nella sua naturale attività e nel suo, per quanto possibile, progressivo svolgimento. Se in un parlamento ciascun componente potesse intervenire più volte in una discussione, parlare a lungo, tornare sulle cose decise e così via, l'ordine ne sarebbe turbato, e porterebbe a tale confusione da paralizzarne le sedute; pertanto il regolamento parlamentare è legge per il procedimento ordinato della discussione, e l'attribuzione al presidente di poteri regolatori ne è una necessità intrinseca. Così è di tutti gli organismi: la democrazia è un organismo delicato e complicato che non può essere alterato, pena l a disfunzione o l'arresto. La prima accusa che si fa ai partiti è di non osservare i limiti della propria finalità e invadere il campo del parlamento e del governo. Prendiamo il caso di un governo di coalizione. I1 sistema italiano è basato sul governo di gabinetto con a capo


un presidente che « dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo; promuovendo e coordinando l'attività dei ministri (art. 95 della costituzione). Anche un gabinetto di coalizione, nel suo indirizzo di governo, è unitario e coordinato. Ma chi non ricorda il periodo del tripartito, quando ogni ministro faceva quel che voleva il proprio partito, al punto da escludere la collaborazione del sottosegretario se questo fosse d i partito diverso? E chi non sa che le discussioni del consiglio dei ministri venivano riportate ai direttori dei partiti, e i socialcomunisti tenevano due metodi, approvando in consiglio e sabotando nel paese, o viceversa? I1 tripartito fu tripartito in tutto: ministeri, burocrazia, magistratura, enti pubblici e semipubblici, e così via : fu l'esempio classico della partitocrazia; doveva cessare perché insostenibile. Ma rimasero nelle vene le tossine di tale malattia, che deriva dal quel partito unico, che aveva discriminato il popolo italiano in reprobi ed eletti. Questa stessa discriminazione si infiltrò con la democrazia, mettendo i comunisti fra gli eletti, mentre restarono fra i reprobi molti cittadini, che ebbero il torto, comune ai molti, ma discriminato per i pochi, di prendere una certa tessera non sempre volontariamente. Questo, il lato negativo della partitocrazia (che fa da controluce al lato positivo) che mina la compagine dello stato. Per essere di attualità, dovrei classificare come effetto di una mentalità partitocratica quanto scriveva l'agenzia u Italia >> il 5 marzo corrente u in merito alle riunioni dei ministri socialdemocratici » affermando che u negli ambienti della vice presidenza del consiglio si precisava che il coordinamento della attività della delegazione social-democratica al governo, è una esigenza logica ed insopprimibile sentita anche dagli altri partiti ». Non contesto l'esigenza di coordinamento e di intesa del gabinetto, e quindi fra i diversi componenti; contesto la parola « delegazione » che indica chiaramente non solo la provenienza da un partito, ma la figura del partito come entità autonoma nello stesso gabinetto; ciò è un errore dovuto proprio alla concezione della più esigente partitocrazia. La parola: delegazione è usata nei convegni interparlamentari o intergovernativi o interstatali, dove


non esiste un corpo omogeneo, ma una assemblea di corpi auto* nomi in rappresentanza di interessi diversi e spesso contrastanti. I1 gabinetto è omogeneo o non è governo. Spero che la parola delegazione sia sfuggita, e che non ritorni più nei comunicati e .. ne!!c natizie date da certi ijvrtavuct: d i a lunje uon conuscono il significato di uso politico di certe parole. Passando dalla partitocrazia governativa a quella parlamentare, trovo un esempio corrente nella difficile nomina dei giudici della corte costituzionale. Una prima imposizione di partitocrazia, subita supinamente dalla maggioranza delle due camere, portò al quorum dei tre quinti per tutte le votazioni fatte dall'assemblea riunita per la elezione dei giudici ; misura questa superiore ai due terzi previsti dalla costituzione per la nomina del presidente della repubblica. La partitocrazia non rispetta i limiti delle competenze. L'opposizione parlamentare consiglia, indica, suggerisce, contraddice ; ma è la maggioranza che decide. Nel caso presente l a maggioranza è obbligata a sottostare al volere della minoranza, e così. capovolgendo il sistema, non è più il parlamento che decide, ma i l partito a mezzo dei gruppi. Invero, da un anno che la legge è stata pubblicata, la corte costituzionale non può funzionare perchè « i partiti non si sono messi d'accordo, e l'assemblea delle due camere ne è paralizzata D. Chi vuole trovare altri esempi di partitocrazia, si dia la pena di cercare in qualche emeroteca i miei articoli da sette anni a questa parte, e ne sar.à soddisfatto. L'ultimo caso del quale ho parlato nei miei due articoli del 4 e del 10 di questo mese, riguarda la vita degli enti locali e l a organizzazione elettorale locale degli stessi partiti obbligati a subire la politicizzazione dei rispettivi direttori centrali. Non ho bisogno di ripetermi. Intendo così chiarire in che senso si può e si deve parlare di partitocrazia, affermando che i partiti centralizzati debbano rispettare i limiti degli altri organismi democratici e la stessa personalità del cittadino; per quello spirito di autolimitazione che è forma e sostanza del vivere in libertà. Si dirà: che cosa deve fare un partito se non si occupa degli affari del governo, del parlamento, delle amministrazioni locali,

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- S r r u z i ~-

Politica d i q l i r e f i anni.


delle nomine dei propri membri a posti di comando, e così d i seguito? Tutta la finezza e l'arte politica dei dirigenti dei partiti sta proprio in ciò: di occuparsi d i tutte le cose sopra elencate, e di molte altre ancora, senza invadere i l campo dei poteri e delle competenze del governo, del parlamento, delle amministrazioni locali e delle proprie sezioni e organismi periferici. I1 compito specifico dei partiti politici in democrazia è quello di organizzare il corpo elettorale; prepararlo ed educarlo alla vita pubblica; fare da intermediario fra gli organismi del potere e dell'amministrazione e il cittadino; aiutarlo nella difesa dei propri diritti, indurlo allo scmpoloso adempimento dei doveri pubblici : correggerne l'istinto demagogico e indirizzare a l servizio pubblico l a impulsiva passionalità delle masse. Per fare ciò ogni partito che si rispetti ha un sistema di principi e di idealità inderogabili, che fanno sostanza della propria attività, nella educazione dei propri iscritti e nella ispirazione delle campagne politiche, e non solamente elettorali. I1 cittadino e uomo di parte deve essere educato non con i favori ma con la giustizia; non con le pretese di privilegi e vantaggi individuali, ma con l'assistenza nel far valere i propri diritt i ; non con le raccomandazioni per ottenere quel che non è giusto, ma con l'equa valutazione dei bisogni e delle esigenze collettive. Un partito di governo cerca di far comprendere quel che è deciso nell'interesse dello stato e del paese, anche se ciò importi dei sacrifici; un partito di opposizione, spiega i l punto di vista e i motivi dell'atteggiamento assunto dai deputati e senatori della propria parte e cerca di prepararsi a divenire maggioranza. Se tutti si cercasse la verità e la valutazione degli interessi generali, si arriverebbe ad un dinamismo democratico degno di u n paese evoluto e moderno. L'autolimitazione è la caratteristica più elevata di coloro che sentono la libertà e l a praticano, perché l'essenza della libertà consiste nel rispetto alla libertà altrui e nella possibilità di tutela della propria libertà. I1 contrario nella vita pubblica si chiama, con parola coniata da poco : « partitocrazia n. 16 marzo 1954.

( I l Giornale d'Italia, 19 marzo).

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A1 direttore de « I1 Giornale d'Italia

D

Onorevole direttore, Una frase apparentemente inesatta, del mio articolo del 19 corrente mese: Democrazia e partitocrazia, circa i nietodi di votazione per la nomina del ?residente della rep~bh!inn e i &dici U C ~ UCO~:Z ~ ~ ~ ? i i i i ~ i u uGasiaia l e , nievata da un quotidiano (*). La mia risposta, che desidero riprodotta per i lettori del mio articolo di cotesto spettabile giornale è stata la seguente: « Chiaro: i due terzi sono superiori ai tre quinti; ma non i due terzi « della nomina del presidente della repubblica i n confronto a i tre quinti « della nomina dei cinque giudici della corte costituzionale eletti dal parla« mento; perchè dalla terza votazione in poi nel primo caso basta la mag« gioranza assoluta (metà più uno); nel secondo caso occorrono i tre quinti « dei presenti. K Avrei dovuto spiegare tutto ciò per coloro che non conoscono l a costi« tuzione; ma la frase dell'articolo: " portò al quorum dei tre quinti per tutte le votazioni fatte dall'assemblea riunita" dava la chiave del "rebus" aritmetico D. Ringraziamenti e distinti saluti 21 marzo 1954.

CASTELLAMMARE « POLITICIZZATA » ( " 8 ) È così; fino a che non capiti un'altra « Castellammare », non importa l'esito se favorevole o contrario ai comunisti, il 28 marzo stabiese sarà per gli uni il banco di prova, per gli altri la pietra di scartilalo. Perchè le elezioni di Castellammare, nella opinione dei più, anche d i amici miei come il senatore Savarino, hanno oramai lo stampo politico. Concordano in tale qualificazione, con valutazione assolutamente negativa, Luigi Salvatorelli e la Voce Repubblicana. Non nego le intenzionalità politiche dei partiti di destra collegati con la D.C. e con i liberali; concedo che i governativi del

(*) La Voce Repubblicano (**) Pubblicato col titolo « Politica e autonomie locali

D.


posto (D.C. e P.L.I.) non abbiano voluto dare altro significato al di fuori di una coalizione locale, amministrativa, con l'intento onesto, chiaro e legittimo di strappare Castellammare ai rossi e, s'intende, d'insediarsi in quel municipio. Ma poco importa indagare le intenzioni degli uni e degli altri; nell'attività umana le intenzioni sono molteplici, principali e secondarie; e si sa che intenzioni secondarie e inconfessate possono anche divenire le principali. Io ho invocato e torno ad invocare i l principio di autonomia negli affari locali; nego la ingerenza del governo nelle elezioni d i qualsiasi natura. Nego la ingerenza dei centri politici dei partiti nelle elezioni amministrative locali. Non nego nè i contatti, nè i consigli, nè i suggerimenti, nè la collaborazione fra i vari organi di ciascun partito per una condotta coerente in tutta l a gamma dell'attività e dell'autonomia degli organi in cui u n partito si articola. I1 limite è dato dalla specifica responsabilità. Nessuno può negare che u n comune, una provincia, una regione h a l e sue responsabilità organiche basate sulla propria autonomia. Non si può invadere il campo delle responsabilità dirette, senza con ciò alterare il sistema democratico basato proprio sui valori organici dei diversi corpi elettorali. Mi ha enormemente meravigliato leggere l'invocazione e l'appello a l presidente Scelba perchè intervenga a nome del governo a regolare partiti e blocchi. Intervenire nei partiti non è compito del governo; come intervenire nel governo non è compito dei partiti. Ritorneremo a Giolitti? alla sua politica di inframmettenza nell e amministrazioni comunali e provinciali specie del mezzogiorno? non sarebbe possibile; basta pensare che a i tempi di Giolitti di prima del 1912 (suffragio universale maschile) il corpo elettorale contava più o meno quattro milioni di elettori, e le elezioni davano una frequenza media alle urne del 55 per cento; oggi siamo 30 milioni di elettori e elettrici con una frequenza che attinge o supera secondo i casi il 90 per cento. Giolitti stesso ne fece l a prova nella prima attuazione amministrativa del suffragio universale maschile e nella seconda attuazione politica e appoggiò nei due casi l'alleanza dei liberali con i fascisti (1920 e 1921); ne uscì con un nulla di fatto perchè i popolari, con al governo


Micheli e Meda avversati dal ministero dell'interno e dai prefetti (meno pochi casi), furono all'opposizione e superarono l e precedenti posizioni nella prima e nella seconda elezione. Dal 1945, dal giorno che i comunisti strettamente affiancati ~ 9 dai socialisti di Nenni, h a n n n impnr!n 11 ~ P E Pi 1 ~ metodi politici; dal giorno che fu creata l'esarchia, e poi inventato il tripartito, per arrivare a quell'oscillante quadripartito (ridotto a tre o a due) e infine ai tentativi del ministero monocolore e poi al nuovo « quadripartito » dal 7 giugno ad oggi, si è cercato di uniformare le amministrazioni locali al tipo prevalente del governo. Così, di volta in volta, si sono avuti nei comuni esarchia, tripartito o quadripartito (con entrata e uscita libera), monocolore ,e infine quadripartito esclusivo. Che voleva Mussolini? I comuni fascistizzati. Ma la difficoltà di lasciare fare le elezioni locali con quel minimo di libertà che esigono fu per lui insuperabile: il caso di Palermo con il partito del soldino ( l a monarchia contro il fascismo) gli semi ad aprire gli occhi: niente elezioni, primo passo; abolizione dei consigli comunali e dei sindaci elettivi, secondo passo: si ebbero i podestà di nomina romana. Ecco tutto. La mia campagna per i l rispetto delle autonomie locali, non è legata alla fortuna di Castellammare rossa o di Castellammare quadripartitica; la mia campagna è al di sopra ( e l'ho provato) di qualsiasi combinazione politica di destra, di centro e di sinistra. E' il grido delle libertà locali contro la sopraffazione del centro, sia governo siano direttori dei partiti. Non posso negare ai miei contraddittori che un problema politico sia stato reso più evidente dalle elezioni di Castellammare; non è quello che si mette in vista dai più come problema di destra, problema monarchico, problema delle future elezioni politiche. È un altro, e si chiama problema meridionale. I1 mezzogiorno è diverso e sotto certi aspetti antitetico al nord, non per gelosia, ma per strutture e per mentalità. Dal risorgimento in poi, è stato questo il vero problema meridionale che ha tormentato la politica e gli uomini italiani di tutti i partiti. Anche oggi il problema è identico; mentre l'idea e il sentimento unitario è saldo, vivo, efficace e identico da Cuneo a


Siracusa; non sono identici i criteri, le simpatie e le aspirazioni politiche, nè sono identiche e coerenti le condizioni economiche e la struttura delle classi al nord e al sud. Se Milano, Genova e Torino i n maggioranza socialiste alla propria maniera, o democratiche d i sinistra, non poche delle quali intinte d i marxismo (non ne sono immuni i cattolici d i sinistra), pretendessero di dare il loro stampo alle formazioni politiche del mezzogiorno, eserciterebbero una prepotenza, che non si permettono New York nè Chicago in America, Londra o Edimburgo in Gran Bretagna. Neppure Parigi, che da secoli ha dominato non solo in Francia ma in Europa, e sotto certi aspetti nel mondo, può fare una politica sua contro Lilla, Lione, Marsiglia. I n Francia la provincia ha, in politica, una sua parola molte volte più forte di quella di Parigi. Non ostacolare ma favorire che il mezzogiorno si muova da sè, cerchi di adeguare la sua struttura a quella del resto del paese, combatta le sue battaglie ed elimini a suo modo le tossine bolsceviche, sarebbe politica sana, anzi l'unica politica da fare. Ciò esige rispetto alla libertà e alla responsabilità dei centri locali senza indebite ingerenze di governo e senza imposizioni d i partito. Questo fu il metodo adottato dal partito popolare nella politica locale, per eccitare le energie e le responsabilità delle rispettive sezioni. Basta ricordare il diverso modo d i comportarsi a Torino e a Milano nelle elezioni amministrative del 1920 ; a Torino: lista concordata; a Milano: lista propria ; a Torino vinse la coalizione libero-popolare; a Milano vinsero i socialisti. Si parlò d i due pesi e due misure; gli avversari non mi vollero dare credito del rispetto da me usato verso la posizione assunta dai popolari d i Milano, che non ostante le pressioni dell'ala conservatrice dei cattolici, non vollero allearsi con i fascisti. Chi ricorda la mia lotta per il rispetto delle libertà locali dal 1897 alla marcia su Roma, chi ricorda il mio discorso sul mezzogiorno a Napoli del gennaio 1923, comprenderà il mio atteggiamento. La politica che si condanna come infantile oggi non è politica di governo nè politica d i partito, nè politica nazionale, bensì attività locale. Ma la politica delle future elezioni nazionali po-


trebbe essere compromessa anche nel nord dalle posizioni rosse precostituite nel mezzogiorno, specie nelle grandi città e nelle regioni. Forse non si pensa quale ne sarebbe la reazione psicologica nel paese. De Gasperi e Fanfani non escludono le elezioni politiche nel presente anno cioè fino ai primi di novembre; ma tutte le probabilità sono contrarie a tale ipotesi, che dovrebbe contare sopra un atto del presidente delIa repubblica che nessuno può d i certo ipotecare. Tutto ciò affiora da Castellammare come un aspetto del problema meridionale che è stato ed è insieme il tallone di Achille e la riserva del futuro nella vita politica italiana. 3 aprile 1954.

( I l Giornale d'Italia, 6 aprile).

PER LA XXXII FIERA DI MILANO (e) Onorevole presidente, Graditissima mi è arrivata la tessera di onore per l a visita alla XXXII manifestazione che chiude il lo ciclo della fiera internazionale di Milano. La mia assenza è una ~ e r d i t aper me, non per l a fiera; non potendo avere il piacere e l a soddisfazione di notare i progressi che scienza e arte hanno accumulato costà in questo decennio; progressi che Milano sa esprimere nel modo tutto suo, nell'unire insieme iniziativa, inventiva e praticità, tutta ambrosiana e allo stesso tempo nazionale e internazionale. Nel periodo precedente al fascismo per un ventenni0 ebbi frequenti occasioni di venire e fermarmi a Milano notandone il sano municipalismo e lo slancio industriale e culturale. I1 confronto fra allora ed oggi lo fo con la mia mente, con la fantasia, col cuore. (*) Lettera all'on. Luigi Gasparotto, presidente della fiera di Milano.

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Auguro a Milano un sempre più prospero avvenire, che valga a concorrere alla migliore vita economica del paese e all'affermarsi dei nuovi istituti politici e sociali, nello spirito di unità nazionale e di varietà regionale. Accetti, on. presidente, le più sincere congratulazioni per il successo della fiera e gli omaggi cordiali di un vecchio amico. Distinti saluti

( N o n appare pubblicata).

SIGNIFICATO DEL VOTO SEGRETO Ora che è finita, ma può ricominciare, la denunzia pubblica contro i « franchi tiratori » di Montecitorio, mi sarà lecito fare una domanda ai giornalisti che se ne sono occupati, e ai lettori che ne sono stati interessati, se abbiano mai pensato al significato del voto segreto che si usa nell'approvazione delle leggi. È questo un istituto che è entrato nel sistema parlamentare italiano, sia in regime rappresentativo liberale a suffragio ristretto, sia in democrazia a suffragio universale, quale residuo extra organico del regime delle monarchie paternalistiche. In tale regime i ministeri erano espressione del potere regio e non del parlamento, il quale controllava le spese che gravavano sui ceti abbienti, gli unici rappresentati dall'una o dalle due camere del tempo. I n sostanza, quei parlamentari, e non i n tutti i paesi nè in tutti i casi, che non potevano rovesciare ministeri o far saltare ministri, si garantivano dalle rappresaglie delle monarchie e dei loro governi, nel caso di voto contrario, con il segreto nelapprovazione delle leggi, specie delle leggi fiscali. Che il sistema fosse una garanzia oppure un'apparenza, lo potranno dire gli storici ; perchè si sa che i monarchi o gli imperatori, e i direttori rivoluzionari alla francese, non ci mettevano molto a mandare un parlamentare a spasso. Comunque, il voto -


segreto nacque dalla paura, dalla insicurezza, dalla mancanza di coraggio, dallo scopo di evitare conflitti aperti con il potere regio; fu una difesa che poteva, bene o male, conciliarsi con quel tipo di regime. Ma nei regimi liberali esteri, dove qua e là il voto segreto rimase come eccezione - le Cortes del secolo scorso ammettevano i l voto segreto solo con l'autorizzazione della stessa assemblea data col voto aperto dei due terzi - e andò in desuetudine perchè nessuno osava chiederne l'applicazione. Perchè si sia, invece, insinuato il voto segreto nel parlamento subalpino, e in forma obbligatoria per l'approvazione finale delle leggi, non riesce esplicabile, tranne che per il fatto che ricopiando dalla Francia della restaurazione i regolamenti parlamentari, tale articolo fosse stato messo per garantire i nuovi deputati dalle ingerenze del re di Sardegna o dalle aspre critiche dei clericali. Non son sicuro che sia andata così. I1 regolamento parlamentare da Torino passò a Firenze e poi a Roma; dal piccolo parlamento subalpino al grande parlamento nazionale; fu ampliato il suffragio elettorale; si passò dal governo di destra a quello di sinistra; si ebbero i governi del trasformismo, della reazione, della democrazia del 1912 (prima applicazione del suffragio universale nazionale); vennero i governi della guerra e del dopo guerra; rinacque il parlamento a suffragio universale maschile e femminile in democrazia repubblicana e sociale; ma il voto segreto per le leggi rimase sacro ed immutato: dippiù il voto segreto passò al primo rango della gerarchia delle votazioni e fu applicato senza discrezione. Ci si domanda: a difesa di quale interesse o di quale minaccia di sopraffazione è stato mantenuto il voto segreto esteso a tutte le votazioni, sia nel parlamento di prima del fascismo, sia nell'assemblea costituente e nel parlamento del 1948 fino ad oggi? Benedetto Croce, biasimando il tentativo del 1948, fatto dalla D.C. per mia insistenza, d i sopprimere il voto segreto al senato, sostenne la tesi della difesa della libertà di coscienza di ciascun deputato coartata dal direttori0 del proprio gruppo o da quello più efficace del partito. Non ho presente l'articolo di Croce, al quale risposi controbbattendone la tesi.


Per chi ammette la regola del voto segreto ( e l'Italia è ancora l'unica fra i paesi civili di tutto il mondo ad avere questo cancro nel suo parlamento), la giustificazione di Croce deve essere valida e operante, sia che il voto segreto vada a favore sia che vada contro i1 governo preferito; non si può senza incoerenza, come sembra leggendo gli articoli di oggi e confrontandoli negli stessi giornali con gli articoli di ieri, biasimare oggi coloro che, secondo Croce, hanno rivendicato col voto segreto la propria libertà. I n sostanza, se il voto segreto anche per le leggi e perfino per le mozioni e gli ordini del giorno (si tentò di applicarlo a l voto di fiducia; il colmo!) deve avere valore e logicità, deve averlo in quanto segreto, in quanto un diritto del deputato o del senatore a usarlo senza disturbi e a tenerlo custodito senza intimidazioni. E allora, tutto il declamare contro i C( franchi tiratori n, che falsano l e regole del gioco ( o della battaglia), chiamandoli vili, vigliacchi, senza senso di responsabilità, non solo non attacca, ma è contro la regola e contro il significato della regola; a meno che ( e d è quel che io sostengo e vado dicendo da sette anni) sia tal segreto aberrante, antidemocratico, antiparlamentare, da essere condannato una volta per sempre ed essere eliminato dai regolamenti della camera e del senato. Ricordo che l'assemblea costituente fu tormentata dalle votazioni segrete per non pochi articoli della costituzione, dei quali non sarebbe possibile nè esatta l a ricerca della paternità se non ricorrendo ai nomi d i coloro che presero parte alla discussione. Ma sarebbe lecita tale ricerca di paternità? il segreto è per sè un diritto sacro che nessuno deve poter violare: anche l a supposizione sui nomi dei cosidetti ((franchi tiratori D sarebbe un tentativo d i violazione del diritto del segreto; le inchieste dei capi gruppo sui violatori della disciplina sarebbero una indebita ricerca da denunziarsi al magistrato penale come tentativo di violazione di un segreto. P u r sapendo che in molti casi si tratta d i segreti d i Pulcinella, il segreto di diritto pubblico (come quello sancito da un regolamento parlamentare) consacra l'atto con tutte le sue conseguenze.


Tali conseguenze nei rapporti del governo sono nulle proprio perchè segrete. È vero, una legge sarà bocciata; ma il governo avrà la facoltà di riproporla rispettando i termini del regolamento. Se il governo vorrà di sua iniziativa dar seguito a l voto segreto, provocando un voto aperto, lo potxà fare, ma con altra procedura e discussione, e con votazione pubblica. A tale procedura sarebbe forse ricorso il governo, se la seconda votazione sul bilancio delle finanze fosse risultata contraria. E che pensare se poi la votazione pubblica fosse stata favorevole? La camera avrebbe smentita se stessa e sarebbe stata obbligata a ridiscutere il bilancio delle finanze con una procedura ex novo. Tutto ciò falsifica l'atto del parlamento, proprio perchè il voto segreto per le leggi e per i bilanci è semplicemente un assurdo. L'abolizione, pertanto, del voto segreto dovrebbe essere totale, escludendo il diritto di richiesta di voto segreto e la preferenza datavi su tutti i modi di votazione. Che i nostri parlamentari, e le giunte del regolamento e gli uffici di presidenza della camera e del senato se ne rendano conto leggendo i regolamenti degli altri paesi. L'on. Meuccio Ruini ha reso un buon servizio pubblicando la I" serie dei regolamenti parlamentari: Italia, Francia, Germania occidentale, Gran Bretagna, Stati Uniti di America. Si accorgeranno della pessima figura che fa l'Italia col suo voto segreto. E quale educazione danno al popolo i nostri parlamentari con questi ripieghi e sotterfugi per non avere il coraggio di assumere alla luce del sole, come fa tutto i l mondo democratico, l a responsabilità dei propri atti? 19 aprile 1954.

(L'Italia, 23 aprile).

STATALISTA, LA PIRA? Così sembra a leggere certi periodi della sua ultima lettera al presidente della confindustria; la sua esposizione di criteri e di fatti è perentoria. Egli scrive: « Libera concorrenza ; inizia-


tiva privata; legge della domanda e dell'offerta e così via: in uno stato, come il nostro, nel quale la quasi totalità del sistema finanziario è statale e i cui 3/4 circa del sistema produttivo è, direttamente o indirettamente, statale! ».Egli aggiunge più sotto che sostenere la tesi opposta, come fa la confindustria, sarebbe un andare « contro l'economia moderna - che è economia essenzialmente di cc intervento statale » anche se diversamente graduata - mentre le aziende di stato e parastatali costituiscono, direttamente o indirettamente, la spina dorsale della sua organizzazione e i l coefficiente massimo del suo peso economico e politico e della sua forza sociale 1). Dopo di che, La Pira conchiude: « Ecco un problema serio; forse i l più serio della vita economica, sociale e politica del nostro paese D. Se mal non ne interpreto il pensiero, La Pira crede che il problema da risolvere sarebbe quello di arrivare alla totalità del sistema finanziario in mano allo stato, togliendo quel piccolo quasi che egli vi ha premesso; e di abolire il quarto del sistema produttivo che ancora sarebbe in mano ai privati per potere avere la fortuna ( o sfortuna) di un'economia tutta statale. I n sostanza, si tratterebbe di instaurare in Italia un socialismo di stato al cento per cento. Dagli accenni fatti, non sarebbe irrispettoso affermare che La Pira mette sotto la stessa classifica la situazione caotica e disgraziata della economia italiana (la quale però non è quella che egli dipinge col c( quasi totale » e « con i tre quarti circa D), e la situazione degli altri paesi dove esiste ancora un'economia che equilibra la libertà con l'intervento. A parte l'America, favorita da molti fattori che mancano in Europa, sono sopra altro piano che il nostro sia l'Inghilterra, non ostante le iniziative laburiste assai pesanti ; sia la stessa Francia, salassata dalla guerra indocinese. Su tutti i paesi vale l'esempio dell'olanda che pure ha subìto .danni di guerra e di dopo guerra superiori ai nostri; nulla dico del Belgio e della vicina Svizzera. La sicura affermazione d i La Pira che il mondo civile vada verso la soppressione di ogni libertà economica, per affidare tutto allo stato, deriva da una non esatta valutazione delle fasi monetarie, finanziarie ed economiche del dopo guerra sia in America che in Europa. Ma non è da pensare lontanamente che a


rimediare alle difficoltà di un assestamento internazionale politico ed economico, siano necessari una costruzione come il nostro I.R.I., che nacque prima dell'ultima guerra, ovvero come l'E.N.I. che è nato l'anno scorso. Manteniamo il problema nei limiti del nostro paese, delle nostre possibilità interne, dell'indirizzo da dare alla nostra economia, senza fare affermazioni così dogmatiche come quella dello stato moderno che deve assorbire in sè tutto, politica, economia, socialità. Mi pare di sentire l'eco del motto mussoliniano: « tutto per lo stato e nello stato; nulla sopra, fuori e contro lo stato D. Questo io chiamo statalismo, e contro questo dogma io voglio levare la mia voce senza stancarmi finchè il Signore mi darà fiato; perchè sono convinto che in questo fatto si annidi l'errore di fare dello stato l'idolo: Moloch o Leviathan che sia. Intanto, fissiamo bene l e idee: La Pira da buon cristiano non vuole altro dio fuori del vero Dio. Per lui, come per me, lo stato è un mezzo, non è un fine, neppure il fine. Egli è lo statalista della povera gente; ed è arrivato, attraverso la povera gente, a pensare che lo stato, tenendo in mano l'economia, possa assicurare a ciascun cittadino i l suo minimo vitale. L'errore degli statalisti, siano conservatori o democratici, paternalisti o totalitari, consiste proprio in tale credenza, mentre la storia non ci dà un solo esempio di benessere economico a base d i economia statale, sia questa la monarchica o imperiale dell'ancien régime, sia la dittatoriale di tempi recenti e sia la comunista dei nostri giorni. Chi vuole un esempio pratico, confronti la Cecoslovacchia del 1919-'39 (repubblica libera), con l a Cecoslovacchia del 1945-'47 (repubblica controllata) e l a Cecoslovacchia di oggi (paese satellite comunistizzato). Nessuno può mettere in dubbio che le gestioni statali o parastatali siano quasi tutte passive e nella migliore ipotesi, anche se attive, costino più delle gestioni private. Due le cause: mancanza di rischio economico che attenua il senso di responsabilità; interferenza politica che attenua o annulla, secondo i casi, l a caratteristica dell'impresa. Non nego che dirigenti, funzionari e lavoratori possano sentirsi legati alla impresa statizzata ed esercitarla come fosse propria; caso raro questo, determinato da fattori di eccezione che


qui sarebbe superfluo analizzare; neppure arrivo a negare che possa esservi una impresa statale prospera per cause occasionalmente favorevoli: una rondine non fa primavera. Gli effetti negativi della statizzazione sul piano sociale sono evidenti; se le gestioni statali costano di più e vanno in perdita, i maggiori costi e le continue ~ e r d i t esottraggono allo stato e alla generalità una non indifferente somma di risparmio trasferito allo stato che, impiegata utilmente, avrebbe dato lavoro agli operai e massa di beni prodotti al mercato interno O internazionale, ovvero avrebbe concorso a far diminuire il deficit della bilancia commerciale o a ridurre gli alti costi della nostra produzione. I vantaggi, non immediati, a breve o a lunga scadenza, sarebbero tali da assicurare u n maggiore benessere per tutti. Non nego la necessità di interventi statali di eccezione per casi eccezionali, interventi temporanei e adeguati; nego che lo stato debba annullare la libertà economica sotto il pretesto della socialità, non solo per il valore morale della libertà (alla quale La Pira, e non è il solo, non mostra interesse); ma anche perchè i conti non tornano, siano i conti del caso per caso, siano i conti generali del ciclo economico. Si dice che la economia libera (da non confondere con quella liberale d i cento anni fa) reca vantaggio ai cc borghesi » e non ai cc lavoratori D. Apro una parentesi: non mi piace il fraseggio socialista dal quale traspare una teoria che non è la nostra; la parola a borghese » usata per indicare' una specie di avversario o nemico del lavoratore, è un prodotto della lotta e dell'odio d i classe; il che non è cristiano nè civile. Chiudo la parentesi. Ad ovviare il pericolo che gli utili esagerati degli imprenditori. o degli azionisti vadano in spese voluttuarie o passino il confine a scopo di evasione e di tesoreggiamento, lo stato ha l'arma fiscale. Basta una legge che colpisca gli utili superiori ad un certo limite del reddito, quante volte non vengano tali utili impiegati in nuovi impianti industriali, in nuove aziende agrarie o commerciali, in miglioramenti e ampliamenti degli impianti e delle aziende esistenti. I1 provvedimento (che è stato adottato in America) produrrebbe due vantaggi alternati: maggiore gettito tributario, ovvero maggiore lavoro e maggiore produttività. Non sono io che disarmo lo stato di fronte al cittadino che


abusa delle sue ricchezze, prodotte dal lavoro della mente e delle braccia; sono gli statalisti che inaridiscono o attenuano le sorgenti del risparmio facendo passare l'economia privata nelle mani dello stato. A parte torti e ragioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, (lo stato di conflitto continuo si accentua dalle due parti) non si può continuare nel sistema di additare la categoria dei produttori liberi come classe sfruttatrice, eccitando gli odi, esaltando 1s conquista politica del proletariato come conquista della futura classe dominatrice o unica (secondo i vari atteggiamenti della demagogia oratoria degli uomini politici); e allo stesso tempo cercare di risolvere in armonia i conflitti e le divergenze fra stato e produttore o fra produttore e lavoratore. I1 disagio psicologico e lo smarrimento degli animi è un fattore negativo alla ripresa politica ed economica del nostro paese. Certi cattolici, dovrebbero finirla con il vagheggiare una specie di marxismo spurio, buttando via come ciarpame l'insegnamento cattolico-sociale della coesistenza e cooperazione fra l e classi, e invocando un socialismo nel quale i cattolici perderebbero l a loro personalità e la loro efficienza. Purtroppo, oggi si manca di chiarezza nelle idee e di univocità nell'uso dei vocaboli. Non riesco a comprendere quei cattolici che a completare la loro figura sociale arrivano alla eliminazione delle classi sociali, e per una socialità antieconomica trasformano il giusto e limitato intervento dello stato in vero e proprio statalismo non solo economico ma conseguentemente anche politico. 11 maggio 1954. ( I l Giornale d'Italia, 13 maggio). Lettera a Santi Saverino Onorevole direttore, Chi legge l'articolo di ieri di un giornale del mattino senza aver letto il mio pubblicato dal Giornale d'Italia con la stessa data, potrà credere che io abbia messo molta acqua (C statalista n nel mio generoso vino di libertà ». Tipi di commenti ad usum delphini mi sono capitati più volte; questo ultimo è stato il più insidiosamente deformante. Prego coloro che reputano utile conoscere il mio pensiero genuino sia per aderirvi sia per criticarlo, di leggere gli scritti che portano la mia firma: perchè non pochi commentatori ed interpreti dei miei scritti o mi leggono con le traveggole ovvero non mi leggono affatto; come sembra sia stato il caso, assai recente, di un


insigne studioso, il quale mi ha affibbiato un pessimismo antistatale, che egli qualifica di marca <I cattolica n, che poi sarebbe, invece, nella sua spiegazione, una specie di manicheismo, lontanissimo dal mio pensiero e da quello dei cattolici. Dove l'avrà pescato? L'articolista di ieri ha dimenticato il mio discorso al senato dove io avevo affermato quel che ho ripetuto nell'articolo dedicato al prof. La Pira, che la soppressione delia libertà economica importa presto o tardi la perdita delle altre libertà; dissi e ripeto che la libertà è totale o non è libertà. Tutto ciò è stato saltato a piè pari, e mi si fa passare come chi in sostanza dia un certificato di benemerenza a chi ha continuato sulla strada delio statalismo fascista, aumentando per giunta il numero degli enti statali e parastatali. La cassa per il mezzogiorno, citata dali'articolista, a giustificazione dell'intervento dello stato, ha compito statale, di opere pubbliche o di finanziamenti per iniziative private (industrie); non può esser messa sul piano delia federconsorzi o dellVENI,ai quali spesso la mia critica è diretta. Avrò presto occasione di ritornare sul tema. Ringraziamenti dell'ospitalità e distinti aaluti

14 maggio 1954.

( I l Giornale d'Italia, 15 maggio).

RISPOSTA ALLA LETTERA DEL SINDACO LA PIRA Poche note, per oggi, alla lettera del sindaco La Pira, che potrebbe essere la lettera di moltissimi sindaci non solo d'Italia ma della Europa libera di quekto dopoguerra; e perchè no? le lettere anche di molti sindaci dell'anteguerra e del periodo precedente al fascismo, quando chi scrive era anche lui sindaco di un comune della Sicilia. I fasci siciliani e le dittature di Morra di Lavriano e di Codronchi non erano serviti ad altro che ad accentuare la miseria del proletariato siciliano. E noi sindaci allora eravamo con più disoccupati, con meno risorse locali e con quasi nessun aiuto dal centro. Chi scrive, in quindici anni, dovette far fronte a tumulti di piazza, a interventi demagogici e a repressioni da parte della forza pubblica in comuni vicini ai quali egli si era interessato, quali Grammichele e Palagonia. Ma non è questo il punto controverso fra me e La Pira. Non nego l'interessamento per i disoccupati, gli operai, i contadini, gli artigiani, i piccoli oeti rurali e cittadini.


E neppure l a controversia fra me e La Pira verte sull'intervento di stato. Nel mio discorso al senato del 20 febbraio dissi: « non nego un misurato intervento nelle varie branche dell'attività privata, specialmente a scopo integrativo, e dove l'iniziativa privata non possa da sè corrispondere adeguatamente alle esigenze pubbliche ». I o contesto a La Pira la sua concezione dello stato moderno: egli scrisse l a frase da me citata, che (C la economia moderna è essenzialmente d i intervento statale D. Se l e parole valgono per quel che suonano, quell'essenzialmente toglie allo stato moderno la caratteristica d i stato di diritto e l o definisce stato totalitario. La Pira nega d i essere statalista e cita i precedenti antifascisti: gliene dò atto, ricordando con quanta ansia leggevo all'estero l a sua rivista che amici mi facevano arrivare dalla Svizzera. Egli però non avverte che un'economia di stato (egli cita d i nuovo i l non felice e troppo costoso sistema bancario italiano: il denaro costa in Italia più caro d i qualsiasi altro paese) se fosse perseguita sulla base di quell'essenzialmente, ci porterebbe a perdere la struttura di stato di diritto e infine le stesse libertà politiche, che diverrebbero solo libertà formali ed esteriori, senza sostanziale contenuto. Già siamo per la strada, per via dei monopoli statali e della partitocrazia connessa all'interventismo statale. L'intervento statale è vecchio quanto il mondo: basta leggere nella Bibbia quel che fece Giuseppe nell'Egitto. Quel che non è vecchio è lo statalismo moderno (l'ismo è per indicare l a degenerazione, la mancanza di limiti), che si risolve o in socialismo di stato o in comunismo. La mia difesa della libera iniziativa è basata sulla convinzione scientifica che l'economia di stato non solo è anti-economica, ma comprime la libertà e per giunta riesce meno utile, o più dannosa secondo i casi, al benessere sociale. La Pira nella sua replica parla di intervento statale C( in modo proporzionato e organico nella soluzione dei problemi economici e sociali n e cita fra parentesi: casa, assistenza, cultura; non è questo il punto di dissenso fra me e La Pira; no, i l punto d i dis-

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- Srcszo -

Politica d i questi anni.


senso è quando contesta la posizione preminente dell'iniziativa privata nella economia d i un paese moderno. Nel mio articolo ho detto molto chiaramente che nessuno può mettere in dubbio che le gestioni statali o parastatali siano quasi tutte passive e nella migliore delle ipotesi, anche se attive, costino più delle gestioni private. Due le cause: mancanza di rischio economico che attenua i l senso di reponsabilità; interferenza politica che attenua o annulla, secondo i casi, le caratteristiche dell'impresa D. Non si può cambiare la natura umana; i l mio punto di partenza oltre che morale è anche psicologico. Sfido tutti a provare il contrario. Gli esempi che porta La Pira del17ENI e dellYIRIprovano la mia, non la sua tesi; ne ho scritto più volte, ne tornerò a scrivere, visto che certi cattolici detti di sinistra preferiscono chiudere gli occhi e seguire le iniziative socialcomuniste o socialdemocratiche per creare enti su enti, corrodere o distruggere l'economia privata e ridurre il paese ad un livello economico inferiore a quello attuale. Prego La Pira di informarsi come la Germania abbia potuto dopo la guerra riprendersi al punto da presentare aspetti economici di concorrenza che cominciano a preoccupare i cosiddetti vincitori. E noi, che abbiamo avuto in confronto alla Germania meno danni di guerra, meno disoccupazione, più aiuti esteri, e abbiamo cominciato la ripresa tre anni prima, abbiamo invece bilanci in deficit, bilancia commerciale pesante, economia tuttora dissestata, e uno stato psicologico di agitazione per i l presente e di turbamento per l'avvenire. La mancanza di cooperazione fra i ceti economici, la campagna demagogica dei sindacati, la lotta politica fra i partiti democratici di centro e destra ha re-so assai difficile la nostra ripresa. Ma ripresa deve essere, ripresa morale, psicologica, politica e d economica; alla base sta q e l l a morale e psicologica; datori di lavoro e lavoratori debbono cooperare con rispetto della libertà, con senso umano e cristiano, con il proposito d i arrivare a risolvere i problemi della occupazione e della produzione; lo


stato, cioè governo e parlamento e partiti responsabili, debbono rendere più facile o meno difficile tale cooperazione. 21 maggio 1954.

( I l Giornale d'Italia, 23 maggio).

I PERICOLI PER L'UNITA' DEI CATTOLICI (*) L'Osservatore Romano ha ripubblicato, alcuni giorni addietro, l'appello del vescovo di Reggio Emilia del dicembre scorso, dandovi carattere di attualità per un'azione concorde dei cattolici atta a fronteggiare il pericolo comunista. L'appello suppone che manchi fra i cattolici quella concordia che rende efficace l'azione, sia destando gli indifferenti, sia eccitando i tiepidi, sia invitando i dissidenti e i critici a superare i motivi di contrasto. Da quel che posso desumere, non è in questione l'unità nella fede cattolica o nella fedeltà alla chiesa; e neppure è in discussione la finalità di difendere la religione dal pericolo comunista, come negazione globale dei valori cristiani. Le divergenze di vedute hanno un primo motivo sulla valutazione del comunismo, ed arrivano ad accentuarsi sul piano politico e sindacale dando luogo alle diversità pratiche di corrente e di azione che allo osservatore estraneo, anche se cattolico, possono sembrare incon. ciliabili. Non sono rare anche fra cattolici le seguenti affermazioni: i l comunismo contiene delle verità; ovvero, il comunismo non può non essere un grave avversario sul piano della difesa dell'operaio ; e quest'altra : i l comunismo sarà forse i l regime del futuro, conviene preparare un atteggiamento che renda possibile la coesistenza. Tre premesse queste, che buttate avanti, potrebbero attenuare il fervore della lotta e le forze della resistenza. Ma, a pensarci bene, tali affermazioni contengono tre sofismi. È

(*) Pubblicato col titolo « Cattolici e marxisti n.


esatto dire che ogni errore nascendo sulla verità ne contenga un lato pur deformandola; che il mondo sia materia è una verità: che il mondo sia tutto materia è un errore; l'elemento materia entra nelle due affermazioni; nella prima come verità nella seconda come errore. I1 secondo sofisma è simile al primo ; è vero che il comunismo difende l'operaio; ma la difesa è tale che ne comporta l'asservimento. A parte la evidenza teorica, è anche chiara la evidenza pratica sia nella Russia sia nei paesi satelliti. La dove manca la libertà, l'operaio è servo o schiavo. La difesa che ne fa il comunismo è inficiata in partenza. Terzo sofisma: avvenire. Questo sazà quel che vogliamo noi che sia, e quel che vorrà Dio che sia. Noi dobbiamo fare il nostro dovere oggi; faremo il nostro dovere anche domani, se un triste domani sarà la nostra sorte. Avremmo anche noi in tale ipotesi i nostri Mindszenty e in nostri Stepinac. Per fortuna questi sofismi valgono più per coloro che vogliono giustificare il loro filocomunismo o il loro contegno equivoco, anzichè per i cattolici organizzati. Questi in maggioranza sono fedeli alla consegna; anche se alquanto disorientati. Non tutti, nè tutti in egual modo: c'è un aspetto meno sensibile e direi più sottilmente insidioso negli strati d i avanzamento di azione sociale. Più volte ne ho fatto cenno. Si tratta d i una deformazione culturale marxista, che è penetrata, senza sufficiente ,abitudine critica, nella mente di parecchi. Non si spiegherebbe altrimenti il linguaggio K anti-borghese che si trova i n fogli e foglietti cattolici. L'antitesi: proletariato e borghesia è di marca marxista. Non era mai penetrata fra i cattolici; i quali dai tempi della enciclica Rerum novarum (anche prima s'intende) hanno sempre sostenuto la struttura interclassista della società, come teoria eminentemente cristiana, fondata sulla natura, l'unica teoria che può comportare l'esercizio delle libertà nella società civile e politica. Ricordo di averne scritto in un mio articolo K Classi medie D, e di avere avvertito il direttore di Per l'Azione dei gruppi giovanili d. C. con lettera del lo giugno del 1952, perchè « i democristiani di oggi rivedano la loro terminologia e non accettino senza critica la terminologia marxista n.


Per strada siamo arrivati alla seguente affermazione delle Acli di Milano del 25 luglio scorso: Educazione politica significa per noi porre problemi chiari come questo ad esempio: se continuare nel metodo interclassista coincida sempre con gli interessi della chiesa D. Al problema delle Acli, organizzazione di lavoratori, ha risposto l'autorità della chiesa che è quella che ne tutela i principi che coincidono con gli interessi; e non certo quegli interessi che non coincidono con i principi. Purtroppo, si va diffondendo in certe zone della sinistra (esiste allo stato fluido e penetra le organizzazioni), l'idea che la difesa dei lavoratori non possa essere fatta che da un partito di lavoratori, escludendone gli intrusi, che sarebbero i borghesi 1). Che cosa è per costoro la borghesia? i professionisti liberi sono lorghesi o lavoratori? e i piccoli e medi agricoltori, industriali e commercianti? i piccoli risparmiatori che comprano le azioni della Edison o della Montecatini sono dei borghesi o dei lavoratori? Senza capitale, cioè quel risparmio che si reimpiega, non si produce: sia il piccolo che il grande risparmio; sia il proprio, sia il mutuato. P e r potere arrivare al sistema mono-classista tutto i l risparmio da reimpiegare dovrebbe essere posto nelle mani dello stato o delle varie holdings statali o di quelle collettivizzate. Che cosa ci vuole per arrivare al comunismo economico e alla dittatura politica? Per abolire la differenza di classi o categorie economiche derivante dall'istinto naturale alla proprietà privata e a l risparmio, occorre togliere la libertà di possedere, di risparmiare e d i impiegare i l risparmio, che i moderni chiamano, a torto o a ragione, capitale. La tradizione e l'insegnamento cattolico sono dal lato della società interclassista e contro la concezione monoclassista. È vero che certi cattolici usano la parola borghesia n per indicare e combattere gli eccessi del capitalismo. Ma altri l'usano come struttura economico-sociale da combattere. Ho presente un testo (del quale forse mi occuperò altra volta) che accetta


questo secondo significato, tecnicamente inesatto, che presuppone la teoria marxista che non è la nostra. Gli eccessi del capitalismo sono da combattere come ogni altro eccesso, perchè in quanto eccesso è sempre dannoso. Alla base dell'attività umana sta i l senso e il dovere del limite. Non voglio tirare tutte l e conseguenze che la premessa della struttura monoclassista della economia e della politica porterebbe nella società, sicuro che gli aclisti di cui sopra non mirano così lontano. 11 termine più vicino è però segnato nella loro seguente Non è possibile infatti predicare sui tetti l'auaffermazione: (C tonomia del movimento operaio e farlo guidare ai vertici da deputati di un partito interclassista. Non è possibile, onestamente, adempiere con efficacia al duplice mandato parlamentare e di dirigente del movimento operaio, in questo delicato momento. Mentre C' è assoluto bisogno di chi, espresso dal movimento e ad esso legato in cementata unità di orientamenti e di metodi, con sul piano podedizione adempia a l N servizio parlamentare litico ». I1 discorso è chiaro: sono le Acli d i Milano orientate a formare esse u n partito N lavorista D ? ovvero vogliono portare il cavallo di Troia nel campo della D.C.? e anche in quello della Cisl? Vuole la Cisl con le sue Forze Nuove inserirsi nella D.C. per eliminarne il virus interclassista? E che cosa significano le affermazioni d i Gronchi e di Rumor circa l'inserimento nello stato delle forze del lavoro? Sono forse esse fuori dello stato? Certo no; e allora perché eccitare nei lavoratori cristiani il sentimento di inferiorità che non esiste di fronte allo stato e alla stessa vita del paese? La convivenza interclassista vuol dire cooperazione e con-governo, e comprende l'elevazione delle classi del lavoro ad un migliore livello economico ; non mai l'abbassamento delle altre. Gli esempi sono evidenti: negli Stati Uniti d'America esiste la collaborazione, non la lotta di classe, esiste la tendenza al maggior benessere. Non è lo stesso nei paesi dove sono soppresse teoricamente tutte le classi, meno l a classe lavoratrice; classi, il cui livello medio è tale che nessun italiano lo può desiderare o invidiare. Auguro un largo dibattito su questi appunti. Vorrei essere smentito dagli amici e anche da coloro che oramai si sono abituati

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a guardarmi più che come un critico ma amico, come un quasi avversario. Questo stato d'animo si rileva anche in provincia fra coloro della D.C. delle Acli e della Cisl che sono accusati di destrismo da parte di quanti si credono gli autentici e titolati difensori degli operai. La radice della disarmonia fra i cattolici sta proprio qui. Se ne avvantaggerà il comunismo se non si ascolta la voce ammonitrice che incita alla unione. 7 giugno 1954. (Il Giornale d'Italia, 10 giugno). Al rev.mo mons. ERNESTO PISONI Caro direttore, Non mi rendo conto del fatto che don Guzzetti, riassumendo il mio articolo: « I pericoli per l'unità dei cattolici n lo abbia presentato come un attacco diretto alle Acli, in quanto associazione, mentre io, dopo avere messo in luce i sofismi che, circa il comunismo, vanno in giro fra i cattolici, chiarivo trattarsi di persone e non di « cattolici organizzati »; specificando ancora, affermavo trattarsi di « deformazione marxista penetrata senza sufficiente abitudine critica, nella mente di parecchi D. Chiaro: si tratta di persone in singolo, nonostante siano « parecchi D. Dopo di che cercavo di darne qualche esempio: citavo un mio articolo, di due anni fa; e poi la mia lettera al direttore di Per Z'Azione dei gruppi giovanili della D. C. e infine dicevo che « per strada siamo arrivati alla seguente affermazione delle Acli di Milano ». Avrei dovuto per esattezza scrivere:« di uno dei collaboratori del bollettino delle Acli di Milano »; ma, dato lo stile rapido e la nessuna intenzionalità di accusare tutte l e Acli, O la direzione centrale delle Acli, o l'organizzazione Acli di Milano, la frase contratta non poteva essere fraintesa. Don Guzzetti crederà alla parola, perchè don Guzzetti è abbastanza colto per comprendere dove ci sia e dove non ci sia intenzionalità di accusare. Dall'altra parte: quell'interrogativo dell'articolista del Bollettino Acli era messo lì come un problema chiaro, venuto su dal desiderio di affermare una matura educazione politica: « continuare o no nel metodo interclassista? n. Don Guzzetti, escludendo la tendenza al monoclassismo, accenna a «circostanze di tempo e di luogo » che avrebbero maturato la richiesta di quella revisione nell'interesse della chiesa. Non desidero saperne di più; mi basta che egli affermi che l e Acli di Milano u sono ben lontane dal propugnare una società monoclassista D. Don Guzzetti, inoltre, in un inciso, traduce l'antitesi « proletariato-borghesia n da me rilevata come marxista, in antitesi « lavoratori-datori d i lailoro n, senza accorgersi di non essere affatto tali formule equivalenti. E dire che io, a chiarire il mio pensiero, aggiungevo nel mio articolo: « Che cosa è per costoro (costoro non sono le Acli o altre organizzazioni, ma sempre u i parecchi n di cui sopra) la borghesia? I professionisti liberi sono borghesi


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o lavoratori? E i piccoli e medi agricoltori, industriali e commercianti? I piccoli risparmiatori che comprano le azioni della Edison o della Montecatini sono dei borghesi o dei lavoratori? ». Purtroppo, una delle più gravi punizioni date da Dio all'orgoglio umano è la confusione delle lingue: non ci intendiamo sia perchè la lingua è limitata e usa la stessa parola per molteplici significati; sia perchè noi stessi diamo alle parole significati contrastanti secondo gli angoli visuali delle nostre idee e dei nostri sentimenti; sia perchè non si hanno idee chiare, ondeggiando tra la verità e l'errore, fra la mezza verità e la pseudo razionalità. Don Guzzetti giustifica certo frasario popolare, vivace e combattivo perchè diretto a lavoratori. Vada per lo stile, purchè si cerchi di non offuscare la verità, nè secondare le passioni e i pregiudizi del lettore. Spero che don Guzzetti, rileggendomi a mente fredda, troverà che il dialogo non fa male, se serve a chiarire le idee e a precisare le posizioni. Cordiali saluti

20 giugno 1954.

INDUSTRIALIZZAZIONE E FISCO L'ordine del giorno approvato il 9 di questo mese dal senato suona così: « I1 senato invita il governo a studiare la possibilità d i proporre adeguate agevolazioni fiscali per favorire l'impiego di somme che vengano accantonate per la costruzione di nuovi impianti, nonchè per l'ampliamento e la modernizzazione degli impianti esistenti, e riferirne avanti alla quinta commissione permanente N. La mia proposta originaria, presentata in aprile alla commissione di finanza e tesoro, in sede di esame del disegno di legge n. 359, affrontava il problema nel suo concreto, perchè, nella determinazione dell'utile imponibile ai fini della imposta di ricchezza mobile cat. B, venissero detratte le somme accantonate per la costruzione di nuovi impianti, nonchè per l'ampliamento e la modernizzazione di impianti esistenti, nella misura non superiore al quarto dell'utile che altrimenti sarebbe stato assoggettato alla imposta. Le somme come sopra non dovevano essere computate nella determinazione del reddito ai fini della imposta sulle società, per il periodo di tre anni, passato il quale

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senza effettuare l'investimento denunziato, si sarebbe dovuto versare al fisco l'importo esentato. Il ministro *Vanonifece osservare essere più opportuno che la mia proposta venisse discussa i n sede di esame del disegno di legge n. 462 sulla perequazione tributaria. Fu così che mi decisi a presentare in aula un ordine del giorno, con riserva di presentare la proposta più tardi. Se gli ordini del giorno hanno la vita di qualche mese, le raccomandazioni nascono morte. Rifiutando quindi una tale sorte alla mia proposta, per il mancato assenso del ministro Tremelloni, fui obbligato a modificare il testo riducendolo ad un invito al governo a « studiare la possibilità di proporre »; parole assai caute, che però Crono temperate dalla conclusione d i riferirne alla quinta commissione permanente ». Per bruciare le tappe, ho riproposto il mio articolo aggiuntivo, inserendolo nel testo del disegno di legge n. 462; avrò così fra giorni conoscenza del pensiero del ministro. Nella mia breve dichiarazione al senato, precisavo che la proposta mirava a favorire gli investimenti, tanto individuali che collettivi, per accelerare la industrializzazione del paese e il perfezionamento dell'attrezzatura produttiva, due scopi assosolutamente fondamentali per il progresso economico del paese e per l'incremento della' occupazione. Debbo aggiungere che la discussione del disegno di legge per la nuova imposta sulle società, mi ha dato una più decisa spinta a presentare la proposta, perchè il massivo prelievo fiscale di circa sessanta miliardi (secondo le previsioni del ministero) toglie una notevole quantità di risparmio da potere utilizzare per nuovi impianti. La mia risposta è limitata al campo delle nuove industrie e dell'ampliamento e ammodernamento degli impianti industriali, perchè il nostro paese, non ostante gli sforzi fatti per la ricostmzione postbellica, ha tuttora una industria non adeguata alle esigenze di mercato, al ritmo produttivo internazionale, alla pressione demografica che incalza. Uno dei più gravi ostacoli è il costo del denaro. I n Italia, il denaro costa caro; il risparmiatore vuole alti interessi perchè le banche vogliono alti interessi; lo stato mantiene alti gli in-

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teressi reali delle banche con un cartello fittiziamente volontario, ma realmente imposto. Lo stato fa di peggio: con la sua pressione fiscale sui consumi e sullo stesso processo produttivo, (vedi l'imposta generale sull'entrata) altera il costo dei beni prodotti, e rende più difficile sia l'attività trasformatrice delle industrie e sia la più rapida circolazione commerciale. Per principio, non sono stato contrario alla imposta sulle società per azioni, non solo per quel che di surrogatorio contiene in rapporto alle imposte che vengono eliminate, ma anche per quel che di perequativo se ne potrà ottenere. Come però accade quando i criteri di finanza sociale prendono atteggiamento fiscale, la finalità perequativa cede il posto alla finalità di trovare mezzi per fare fronte alle spese; senza guardare se gli effetti possano essere controproducenti e la capacitrà produttiva possa venire compromessa, si grava la mano e si fa il conto dei miliardi da incassare. Così è avvenuto, sia pure ~arzialmente, con il disegno di legge testè approvato dal senato. Donde la necessità di concedere esenzione alle industrie nascenti nel mezzogiorno e nelle zone industriali favorite da leggi- esistenti (emendamento Sturzo non approvato, per I'intiero decennio ; emendamento Riccio, approvato, per un quinquennio); per le industrie che non raggiungono il 6 per cento di utili, e per le piccole industrie d i un capitale inferiore a due milioni (emendamenti Sturzo non approvati); e donde anche la necessità di esentare una parte dell'utile annuale assoggettabile alla imposta se destinato a nuovi impianti o all'ampliamento e ammodernamento degli impianti esistenti (ordine del giorno Sturzo, approvato). Si tratta, in sostanza, di fissare, attraverso le esenzioni, un concorso dello stato per la industrializzazione del paese. Ogni esenzione, nel fatto, si traduce in un concorso dello stato. Dal punto di vista della sincerità del bilancio e della valutazione degli oneri che lo stato si assume, è preferibile il sistema dei concorsi diretti. Le esenzioni, non solo hanno vari lati criticabili, ma sono arrivate ad un numero così imponente da rendere assai complicata la gestione finanziaria, obbligando a una specializzazione di personale, a un sopra lavoro di uffici, con ritardi per


il contribuente, che in altri paesi non sarebbero concepibili. Come fare a cambiare sistema? è difficile procedervi di botto; si dovrebbe cambiare la mentalità nel cittadino, nel burocrate e nel legislatore. Ho avuto quasi rimorso, convinto come sono che non si dovrebbero più concedere esenzioni, ad essere proprio io a proporne delle altre. Avrei dovuto trasformare le proposte esenzioni in agevolazioni dirette, sia per i l concorso dello stato agli interessi di mutui destinati alla industrializzazione (sistema in vigore per il mezzogiorno); sia per premi sotto determinate condizioni. Se i ministri delle finanze e del tesoro convenissero su questa linea, io sarei disposto a correggere la mia proposta di articolo aggiuntivo a l disegno di legge n. 462; per il momento la mantengo per provocare una discussione avanti la quinta commissione permanente, alla quale il ministro delle finanze dovrebbe riferire in base alla decisione del senato. 15 giugno 1954. (Popolo Nuovo, 18 giugno).

DINAMISMO PRODUTTIVISTICO IN REGIME DI LIBERTA' L'articolo: « cattolici e marxisti mi ha procurato, era naturale, consensi e dissensi, compiacimenti e risentimenti, con l'aggiunta di lettere, spesso assai lunghe e di diverso genere e qualcuna di cattivo gusto. C'è molto da apprendere e da riflettere. Desidero mettere in rilievo la mancanza di valutazione di quel che sia l'interclassismo (se così può essere chiamato) dei paesi occidentali e democratici nella presente fase economica e politica. Le parole : classe, classismo, interclassismo oggi non hanno e non possono avere il significato del passato; non parlo del passato quando esistevano le barriere giuridiche e politiche dell'ancien régime, e neppure di quello successivo, durante i l quale, pur caduti i vincoli di classe, ne rimasero per lungo tempo gli


effetti e l a psicologia. Fu allora che venne fuori l'appello comunista del 1848. Passiamo ad epoca più recente, della quale ho larga esperienza: dalla fine del secolo scorso ad oggi l'incremento industriale e il sindacalismo, le guerre e le dittature, l'autarchia, i tentativi corporativisti, le nuove e sempre incalzanti invenzioni, guerre locali e crisi ~ost-belliche, hanno trasportato su piani ben diversi le antiche delimitazioni sociali e la oramai vecchia concezione della lotta di classe. L'uomo apprende a distanza, perciò vive di storia; oggi comprendiamo molto di più del passato di quel che non fu compreso da coloro che lo formarono e lo vissero. I fatti precorrono le idee ; l e idee precorrono le parole. Parlare oggi di classismo è un non senso ; va perdendo di significato reale e storico la frase « lotta di classe », intesa questa a definire u n conflitto economico permanente fra borghesia e proletariato per la cosiddetta K sopravvivenza del più forte D. Oggi prevale il principio della produttività sempre crescente e della più equa partecipazione di tutti a l benessere sociale. Questo non evita i conflitti e le lotte, così come il principio dell'unità domestica non evita i dissensi e le controversie (anche giudiziarie) per la tutela dei diritti e di interessi che potrebbero essere lesi; come l'unità politica e nazionale non impedisce l e lotte di partiti e i dissensi parlamentari. Nei paesi più progrediti, i l senso di solidarietà produttivistica si va sempre più sviluppando quanto più si introducono i mezzi tecnici che fanno diminuire il lavoro manuale per quello industriale, come a sua volta diminuisce l'impiego di mano di opera manuale nella industria che si aggiorna, allargandosi il campo dei servizi sociali. S'intende per « servizi sociali » tutta l'attività complessa di una civiltà evoluta: dall'amministrazione statale a quella privata ; dalla religione alla istruzione ; dall'esercizio delle professioni libere allo sviluppo della scienza e delle arti; dal commercio all'assistenza mutua privata e pubblica; tutto ciò che direttamente soddisfa i bisogni materiali e spirituali dell'uomo vivente .in società e progrediente in società. Questo processo è tanto più rapida, quanto più attive sono


le categorie addette ai servizi sociali e quanto maggior contributo scientifico, inventivo, assistenziale dànno allo sviluppo della tecnica lavorativa nei vari settori, sempre più specializzati, dell'agricoltura e della industria. La controprova di questa tendenza, nel quadro efficiente della produttività moderna, si ha dal rilievo statistico della prima metà di questo secolo. I n tutti i paesi civili è gradatamente diminuita la percentuale degli addetti all'agricoltura, che si sono riversati parte nell'industria e parte nei servizi sociali; gradatamente è diminuita la popolazione addetta alle industrie della stessa area ed è aumentata quella addetta, in tale area, ai servizi sociali. Parlo della stessa area, perchè con il fenomeno della industrializzazione di paesi o di regioni arretrate la percentuale dedita all'industria può aumentare in cifre assolute, mentre, col progresso tecnico e col maggiore rendimento, ne diminuisce l a percentuale relativa. I n questo continuo sviluppo di attività due cose occorrono per, un più largo adeguamento al ritmo produttivo: la specializzazione tecnica e professionale e la rispondenza sempre più efficiente dei servizi sociali; in modo che con minore impiego di lavoro manuale e con maggiore impiego di lavoro tecnico o intellettuale si arrivi alla maggiore produttività possibile, ad un benessere più generalizzato, e ad un livello del tenore d i vita sempre più elevato. I1 nemico di un tale processo (processo in atto, sia o no visto da coloro che si occupano di politica e di economia) è dato prin-. cipalmente dall'artificiosa formazione di uno stato di irrequietezza, di agitazioni a scopo politico (non -escludo affatto i contrasti economici e portati sopra un piano di civiltà evoluta, come è stato dalle due parti l'ultimo tentativo sindacale del conglobamento), resi possibili da sentimenti di inferiorità, di gelosia, d i scontentezza, di odio anche, che determinano sfiducia nella stessa società civile e distacco da quella religiosa. Certo vi contribuiscono la disoccupazione, piaga antica di paesi sovrappopolati e di economia a basso rendimento; ma i l problema della disoccupazione o si inserisce nel progresso produttivo ovvero è insolubile. Le imposizioni di impiego di mano d'opera, i blocchi di li-


cenziamenti, gli stessi cantieri di lavoro, sono palliativi, più o meno utili in fasi acute, ma a lungo andare diffondono sentimenti d i parassitismo, di disaffezione a l lavoro poco remunerato o poco soddisfacente, e infine, u n disfattismo inguaribile. Con tali metodi il contributo alla produttività può dirsi nullo. Lo stato deve spendere molto e deve spendere bene per i disoccupati per poterli fare entrare nel ritmo della produttività e d escluderli dalle zone del parassitismo. Prima di tutto dar loro un'arte, u n mestiere, una ~rofessione,in sostanza procedere alla qualificazione e specializzazione vera e non fittizia di quelli, specie i giovani, che ne sono suscettibili. Nessun operaio specializzato è i n Italia disoccupato se non per qualche fatto temporaneo e s u ~ e r a b i l e .L'operaio specializzato trova posto anche emigrando. I1 processo produttivo esige operai specializzati il cui rendimento sia il più largo possibile. Un altro passo: lo stato deve intervenire a limitare la disoccupazione, non mettendo ostacoli alla libera iniziativa e favorendo l'impiego di capitali nostrani ed esteri in imprese produttive. Con i lettori dei miei articoli non ho bisogno di insistere su questo punto; mi preme solo far notare che la campagna contro le imprese private, che piace tanto ai comunisti ed agli estremisti di vario colore, è contraria a i veri interessi del disoccupato; tutta la campagna che si va sviluppando sui giornali di sinistra contro le ditte estere che hanno avuto in Sicilia permessi di ricerche petrolifere (con buon successo, a quanto pare) è diretta a rendere difficile o ad impedire che si affermi quel processo industriale produttivo del quale ha bisogno l'Italia per superare l a disoccupazione che ci preoccupa e ci affligge. Fallace è il credere che tutto possa fare lo stato, aggravando il fiscalismo, sottraendo all'industria privata le risorse per ampliarsi e prosperare. I nemici della prosperità del paese tengono al processo d i statizzazione, alla esasperazione dei contrasti fra lavoratori e datori di lavoro ; vogliono tutto dallo stato, come se lo stato fosse il detentore di una ricchezza occulta, come se il passaggio del capitale privato nelle mani dello stato facesse aumentare il patrimonio e il reddito nazionale. Costoro invece sanno assai bene che uno stato, che monopolizza in sé i l capitale


nazionale, porterebbe alla contrazione della produttività, alla svalutazione della moneta, al funzionarismo generalizzato e alla dittatura. A questa prospettiva i partiti democratici (con o senza i l timbro) cominciano ora a reagire, e non tutti, sia per mentalità classista ovvero per esasperata sensibilità all'accusa di destrismo, o di collusione con gli industriali e gli agrari, ( i quali, del resto, non mancano di responsabilità); reagiscono anche le stesse categorie economiche, purtroppo senza concordia di intenti fra i diversi settori e con una visione particolaristica del problema. Ma il paese vuole e deve essere rassicurato del suo avvenire, che è l'avvenire della pr0sperit.à e non della miseria; l'avvenire della libertà e non della dittatura. 25 giugno 1954.

(Il Giornale d'Italia, 27 giugno).

IL PONTE CALABRO-SICULO (+) Rev.mo P. rettore, Per rispondere al quesito posto da cotesto forum internazionale )) se l'investimento privato italo-americano nel ponte calabro-siculo sia necessario per il progresso economico-sociale del mezzogiorno, occorre avere già ottenuto in antecedenza una chiara risposta ad altri quesiti: lose il ponte calabro-siculo sia tecnicamente possibile; 2" se il ponte calabro-siculo sia economicamente redditizio. Se la risposta tecnica fosse negativa solleverebbe dubbi seri, e la proposta resterebbe per molto tempo nel campo delle aspirazioni e del dibattito della scienza. Ha fatto bene la regione siciliana a stanziare un fondo per gli accertamenti più accurati possibili, da tutti i punti di vista; e fra un certo tempo avremo la fortuna di leggere una relazione tecnico-scientifica; l'esito degli studi, le ricerche e le esperienze fatte, sarà produttivo e avremo (*) Lettera al padre Felix A . Morlion, o.p., rettore magnifico dell'università internazionale di studi sociali.

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anche gli elementi definitivi per il progetto di esecuzione e per la previsione di spesa. Tre i casi: investimento utile, poco utile, niente utile: nel primo l'iniziativa privata è a posto ; nel secondo l'iniziativa privata dovrebbe essere sorretta dagli enti pubblici interessati ; nella terza ipotesi l'onere spetterebbe agli enti pubblici: solo su tali elementi potrà essere valutata C( la necessità dell'interessamento privato italo-americano D. Ma nulla di tutto ciò potrebbe essere fatto, se non vi fossero uomini che prevenendo gli avvenimenti e superando la materialità dei dati tecnici economici e finanziari, non sentissero la spinta a d agire e a proporsi mete che a prima vista sembrano irraggiungibili, e non ideassero piani che sembrano sogni, mossi non da sete di guadagni, ma da idealità e da sentimenti. Oggi per il ponte calabro-siculo siamo a questa fase di un'iniziativa di grande portata, ipotetica e creduta reale ; vista in sogno e ponderata economicamente; discutibile e concepita come vantaggiosa. Mentre si costruisce fra Reggio e Messina un ponte elettrico tanto avversato quanto favorito, sì da prevalere la volontà realizzatrice su obiezioni tecniche ed intrighi dilatori; l'idea di un ponte di ferro che congiunga la Sicilia al continente italiano si è fatta sempre più viva, sempre più vicina alla nostra immaginazione, sempre più avvicinata alla meta. Ora non si dice un non può farsi; oggi si dice potrebbe farsi: e se potrà farsi; il passo fra potrà farsi e dovrà farsi non sarebbe così lungo come sembra a prima vista. Nel presente forum si sentirà la voce dell'America, perchè i nostri amici degli Stati Uniti riconoscono la necessità di cooperare al progresso economico del mezzogiorno italiano, perchè il ponte sullo stretto di Messina acquista il significato ideale di collegamento d i fratellanza internazionale. A me, che ho passato negli Stati Uniti quasi sei anni nel periodo di guerra, quando l'Italia era legalmente nemica, ho sentito il palpito di angoscia degli italo-americani per una rottura innaturale, ed ho visto la loro larga cooperazione quando poterono essere presenti e attivi per la rinascita italiana.


Questa rinascita è in atto; la cooperazione americana non è mancata; ed è stata efficiente. Ora alla fase degli aiuti deve far seguito la fase degli investimenti. I n Sicilia abbiamo gi,à società americane che investono i loro capitali; ed è stata una ditta americana a trovare in Sicilia un primo giacimento petrolifero assai promettente. I precedenti tentativi non avevano dato la fiducia necessaria a tentare; ci voleva il capitale e la tecnica americana a rompere l'incanto delle supposizioni per arrivare ad una nuova fase, creando nel capitale privato italiano maggiore fiducia per altre ricerche nelle varie provincie siciliane. Affrettiamo, pertanto, gli studi preliminari e le esperienze scientifiche riguardo la possibilità tecnica di piantare nello stretto di Messina i piloni di tale ponte, che leghi l'isola alla terraferma e, intensificando le comunicazioni materiali, rinvigorisca quelle morali in una sempre più efficace vitalità della nostra patria e di colleganza con i nostri fratelli d'America. 6 luglio 1954.

(Popolo Nuovo, 7 luglio).

VANONI E « LE LEGGI ECONOMICHE

))

Vanoni, dopo avere prospettato al congresso d. C. u n piano decennale per assorbire in dieci anni quattro milioni di lavoratori, conchiudeva presso a poco con lo stesso avvertimento dato dal governatore della banca d'Italia, invitando il popolo italiano (cioè tutti gli italiani) ai sacrifici di ogni giorno per arrivare all'aumento minimo del reddito nazionale nella misura media del 5 per cento per ogni anno. Chi non ricorda il vecchio motto di Nitti: cc produrre di più e consumare di meno D ? Ma i motti possono essere fraintesi, come fu frainteso i l motto di Nitti: in complesso, formula Nitti, formula Menichella, formula Vanoni si riducono ad una sola: aumentare il risparmio per reimpiegarlo in opere produttive.

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- Srcnzo - Politica di

65 questi anni.


A ragione l'on. Vanoni ha ricordato al congresso di Napoli che il reddito nazionale pro capite, che nel 1918 (fine della prima guerra) era di 120 mila lire, e nel 1938 (vigilia della seconda guerra) di 169 mila lire (nel 1926 era salito a 177 mila lire), discese nel 1945 (immediato dopo guerra) a 85 mila lire, per poi rimontare, a sette anni di distanza, a 210 mila lire. Non c'è motivo a essere troppo ottimisti e a lasciarci andare allo sperpero. Gli aiuti americani, in dono o in prestito, hanno agevolato la ripresa. Per l'avvenire, a parte residui non utilizzati, gli americani ci assicurano comniesse nel quadro europeo e propongono investimenti privati sul piano della libera contrattazione. Ha fatto bene il ministro Vanoni a ricordare, specie agli estremisti del congresso, che il piano di assorbimento della manodopera va congiunto necessariamente con la salvaguardia della solidità monetaria (più o meno linea Pella), con il maggiore aiuto possibile allo sviluppo della iniziativa privata e con la prospettiva d i investimenti esteri K onde sanare (resoconto del Popolo) il maggiore squilibrio della bilancia dei pagamenti 1). I1 quadro d i Vanoni è ortodosso; spero che i consensi registrati al San Carlo siano andati non solo alla persona del ministro, che anche lui h a la sua base, ma nella egual misura alle varie condizioni con le quali egli ha circondato la sua proposta: « solidità monetaria, massimo di iniziativa privata, investimenti esteri ». A proposito di questi ultimi, non è senza effetti psicologici nel campo d.c. la campagna dei fogli socialcomunisti contro gli investimenti americani per la ricerca di idrocarburi i n Sicilia e la ostilità al disegno di legge nazionale sulla ricerca e coltivazione degli idrocarburi nel territorio continentale, eccettuata la Va1 Padana già in monopolio. I comunisti vorrebbero estendere il monopolio delI'ENI a tutte le regioni, proprio per impedire la iniziativa privata, sia nostrana che estera, nonchè la possibilità di società miste (italiane ed estere) che potrebbero avere notevole successo. L'interesse italiano porta a volere che la ricerca del petrolio sia quanto più estesa ed intensiva nello spazio indiziato quanto più contratta nel tempo, per potere avere risultati efficienti.


Ho accennato a questo punto che riunisce insieme iniziativa privata e investimenti di capitale straniero a lunga scadenza, perchè, se attuato, si risolve a favore della prima condizione Vanoni: - la solidità monetaria - e perchè renderebbe possibile quel che Vanoni mette come termine del suo piano: il risanamento dello squilibrio della bilancia dei pagamenti. Non mi importa che si dica che io sono d'accordo con Vanoni; si potrebbe anche dire che Vanoni è d'accordo con me: la verità è che io e Vanoni, partendo da concezioni e da posizioni diverse, non possiamo fare a meno di rispettare le più elementari leggi economiche. Certi amici a sentire parlare di leggi economiche si adombrano, credendo trattarsi di misteriose insegne con sopra: proibito transitare, che impedirebbero di dare corso ai loro generosi impulsi. Bisogna intenderci: le leggi economiche valgono come le leggi fisiche; sono tutte leggi che regolano l'agire umano. Se l'architetto ne vuol fare a meno, .la pagherà: cadrà la casa; cadrà il ponte, cadr,à il muro quando le leggi di costruzione non siano state osservate. Così nella economia: se non si tien conto del valore della moneta si pagherà con la svalutazione della moneta; - si mettono barriere alla iniziativa privata? aumenteranno i costi della produzione; - si metteranno barriere agli investimenti esteri? la produzione italiana sarà inferiore ai bisogni della crescente popolazione. Non dico che si tratta di leggi assolute che l'uomo non possa modificare; sono leggi relative tanto quelle fisiche che quelle economiche; l'uomo può con l'arte modificarne la portata, relativizzarle ancora d i più con lo sviluppo scientifico e tecnico, con la qualità delle invenzioni, con la spinta associativa, con la migliore educazione del corpo e dello spirito. Ma non si creda che superata una legge, si rimanga al di fuori della regola: un'altra subentra alla prima. Ogni legge, tutte le leggi, fisiche, economiche, sociali, condizionano l'agire umano che è perciò sempre limitato. I1 condizionamento, quale esso sia, allo stesso tempo che un impedimento è anche uno sprone; è perciò un limite che la volontà umana può superare a patto di accettare o subire un altro limite


e così di seguito. Tutto sta a vedere se il nuovo limite, liberando dal precedente, rende più o meno efficace l'agire umano. La Germania del secondo dopo guerra, vinta e umiliata, mutilata, occupata militarmente, non ostante il peggiore condizionamento possibile, ha agito e reagito trovando in tutti i campi il modo di evadere dai primi limiti e di formarsi una struttura più adatta alle sue energie. Che cosa ha reso ossib bile questo fatto? La volontà unitaria, la politica ferma, l'economia salda, i sacrifici collettivi; in sostanza quei dati psicologici e morali che rendono possibile, non distruggere i fatti e le leggi che ci condizionano, ma creare la forza interiore per modificarli per il migliore vantaggio collettivo. E qui tornano i motivi di Vanoni e di Menichella: ossib bile che un popolo che per la patria, cioè per la collettività, è disposto perfino a dare la vita, non sappia fare i piccoli sacrifici d i ogni giorno? È motto francese che il contadino dà volentieri il figlio alla patria, ma non il portafoglio 1). Ieri in Inghilterra si è festeggiata la fine del razionamento della carne, che è durata quindici anni; ultimo residuo di quell a austerity alla quale quel popolo è stato assoggettato; ma quel popolo, con i sacrifici di ogni giorno, ha potuto diminuire la pressione fiscale, ridurre ancora di più il saggio di interesse, finalmente abolire il razionamento. Leggi economiche? Sì, leggi economiche meglio rispettate in Germania e in Inghilterra che non in Francia e in Italia. Colpa del comunismo? parte sì parte no; colpa del poco coraggio di fronte alle agitazioni comuniste e di una certa gara demagogica con le posizioni comuniste; ma queste sono colpe marginali. La colpa principale è nella mancanza d i educazione all'autodisciplina in u n paese che oscilla fra la licenza e la dittatura; fra il voler fare tutto senza senso di responsabilità personale, e invocare che faccia tutto lo stato accettandone il soffocante interventismo. Quel che ne soffre è proprio il vantaggio collettivo ; quel vantaggio collettivo cui mira il piano Vanoni cercando l'impiego in dieci anni di quattro milioni di disoccupati; piano condizionato da leggi economiche : stabilità monetaria ; massimo sviluppo della iniziativa privata; investimenti esteri. Proprio questi


scopi non potranno ottenersi senza la forza morale che sorregga la volontà nel sopportare per dieci anni i piccoli sacrifici di ogni giorno. 7 luglio 1954.

(L'Eco di Bergamo, 9 luglio).

L'UOVO DI COLOMBO a Qualche anno addietro fu indetto u n concorso per circa diecimila posti di insegnanti di scuole medie; si presentarono settantacinquemila concorrenti per un totale di duecentomila richieste di posti, dato che ogni concorrente poteva concorrere a più posti. Quante siano state le casse di documenti inviate dai provveditorati al ministero; quale sia stato i l tempo impegnato nello spoglio preliminare fatto dagli uffici periferici e centrali per vedere se i documenti fossero al completo, se e quali non fossero stati inviati, se i candidati potessero essere ammessi o no al concorso, si può immaginare a prima vista. Si può anche pensare alla spesa e alla perdita di tempo dei settantacinquemila di cui sopra e di tutti quegli altri, e non sono pochi, che concorrono a posti governativi ( l o stesso è anche per i concorsi locali e di enti pubblici), per fornire certificati d i nascita in carta da bollo con la legalizzazione del presidente del tribunale o della pretura (si teme l a falsificazione?), di cittadinanza italiana (sempre in carta da bollo e sempre legalizzati), certificato del casellario giudiziario anch'esso su carta da bollo e legalizzato, e così di seguito, certificato di condotta morale e civile, certificato sanitario, titoli di studio richiesti per l'ammissione. Meno il primo e l'ultimo, gli altri certificati debbono avere una data non anteriore ai tre mesi (ed è naturale); ma è anche vero che da un anno all'altro vi sono molti che, pur risultati idonei e non fortunati, dovrebbero rinnovare i certificati per ulteriori concorsi.


E d ecco la novità. Su proposta del presidente Scelba è stato emanato il decreto presidenziale del 24 giugno scorso, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 6 di questo mese, con il quale viene stabilito che accedendo ai concorsi per le carriere civili di stato basta una dichiarazione del candidato stesso inserita nella domanda circa la data di nascita e gli altri requisiti da dimostrarsi esatti con i documenti di legge esibiti a suo tempo solo dai vincitori del concorso. Un vero uovo di Colombo. Dopo letta tale notizia, il cittadino si domanda: come è stato possibile non averci pensato prima? è tanto ovvio un simile provvedimento e tanto utile: evita spese, perdita di tempo ai concorrenti, agli uffici periferici che debbono ricevere, classificare e passare alle commissioni, meno lavoro per le commissioni e relative segreterie fino al ritiro dei documenti da parte degli interessati. È vero, la finanza riceverà qualche milione di meno per carta bollata e marche da bollo; gli impiegati di segreteria non riscuoteranno i diritti relativi; ma il vantaggio per il tempo guadagnato, le noie diminuite è tale, che induce a generalizzare il sistema a tutte le amministrazioni territoriali e a tutti gli enti pubblici locali e centrali. Quante uova di Colombo occorrerebbero per poter sveltire l'amministrazione pubblica? Ed ecco un'altra buona notizia: il consiglio dei ministri ha approvato u n disegno di legge per la disciplina giuridica delle autorizzazioni amministrative, con i seguenti criteri: abrogazione di ogni autorizzazione per tutti i casi nei quali manca un ~ u b b l i c ointeresse (pensare a tutto il sistema vincolistico del regime passato, per rendersi conto dell'importanza di tale fatto); - lo stesso è a dire per i limiti numerici fissati alle autorizzazioni, che verrebbero aboliti tranne quelli indispensabili a tutela della sanit.à, sicurezza e ordine pubblico. Quel che più importa sarà l'abolizione del sistema di discrezionalità da parte dell'autorità che concede le autorizzazioni, e la precisazione di criteri obiettivi da osservare per le relative concessioni. Siamo sulla buona via. Un'ultima notizia di questi giorni: l'abolizione delle raccomandazioni per il disbrigo delle pensioni di guerra. Non si può


comprendere l'importanza della disposizione, se non si ha conoscenza di quel che succedeva in quel dipartimento. Esisteva un ufficio raccomandazioni (proprio così), e venivano prelevate le pratiche raccomandate, per darvi corso. Le altre, quelle che non erano chiamate all'esame per un così strano sistema, aspettavano come le anime del purgatorio che non hanno nessuno che preghi per loro. Ma queste ultime hanno la chiesa che ci pensa con le preghiere per tutte e le messe del 2 novembre; qui, fino a ieri, il cumulo degli arretrati senza raccomandazioni restava in coda, e che coda. Ora basta: niente raccomandazioni e niente ufficio speciale per i privilegiati. Tutti in fila con la data di richiesta. Si farà più presto, perchè il lavoro di ricerca delle domande raccomandate impiegava gran numero di personale e lunghe ore di sfoglio. Non so se sia stato superato un altro incaglio che rendeva un tempo difficile il disbrigo delle pratiche delle pensioni: il così detto sistema delle <( pezze » (pezze d'appoggio!). I1 sistema sorse nel 1921 ed era il seguente: agli impiegati che esaminavano le domande di pensione veniva corrisposto un compenso per ogni documento acquisito alla pratica. Nel fatto, per istinto burocratico, la ricerca dei documenti si distribuiva nel tempo e serviva a migliorare in via normale la mensilità del povero travet. I1 lavoro di ricamo durava mesi e mesi, e assicurava una continuità non garantita dalle condizioni d i assunzione. Non so, esattamente, se il sistema delle « pezze D sia anche oggi in vigore. Se più o meno, è lo stesso del passato, sarebbe desiderabile cambiarlo addirittura. Io darei un compenso per ogni pensione liquidata, con un premio graduale: 10 per le liquidazioni in tre mesi; 8 in quattro mesi; 6 in cinque mesi; 5 i n sei mesi; niente se passa l'anno e il ritardo non è giustificato da eccezionalità constatabili obiettivamente. Con tale sistema son sicuro che comandi di carabinieri e distretti militari che tardano mesi e mesi a inviare i dati relativi sarebbero sollecitati con telegrammi settimanali o con l'invio d i ispettori sul posto; i sindaci che tardano a rispondere sarebbero denunziati al prefetto o deferiti all'autorità giudiziaria secondo i casi, e così di seguito. La maggior parte degli incagli vengono proprio dagli uffici periferici, oltre che dal vecchio metodo bu-


rocratico (pezze e non pezze) di fermarsi al primo intoppo e di rimettere la pratica agli archivi fino all'amvo della risposta. I1 sistema delle pezze va perciò sostituito con il sistema delle liquidazioni efettive. Un altro uovo di Colombo? speriamo di sì. La lista potrebbe continuare. C'è tanto da semplificare nella selva nella pubblica amministrazione. 16 luglio 1954.

(L'Eco di Bergamo, 20 luglio).

IL FUTURO DELLA CORTE COSTITUZIONALE (*) Anche prima del 29 luglio, dandosi per scontato l'esito negativo della votazione per l a scelta dei cinque giudici costituzionali d i competenza parlamentare, si metteva in dubbio la realizzazione del nuovo istituto. Dopo il 29 luglio, non mancano coloro che, interpretando le schede bianche della maggioranza come un disimpegno politico, ritengono che anche nella presente legislatura non si arriverà a costituire e far funzionare la corte costituzionale. Si aggiunge che mentre i socialisti sono favorevoli alla corte, i comunisti non hanno alcun interesse ad averla fra i piedi ; ma sarebbero felici di poter rigettare sulla D.C. la responsabilità del fallimento. A me sfugge tale machiavellismo d i corridoio, tanto più che le poche volte che vado in senato, non mi fermo a parlare o sentire parlare in quegli ambulacri e saloni ove non posso soffrire le permanenti correnti d'aria. Ma convinto come sono che la corte costituzionale debba farsi al più presto possibile, ritorno sopra u n tema già da me trattato altre volte; tanto più che la mia proposta di legge al riguardo (messa finalmente all'ordine del giorno del senato) dovrà trattarsi dopo le ferie. La mia convinzione favorevole è condivisa da molti e debbo escludere che la D.C. abbia il gusto di ritardarne la realizzazione con mezzucci che non le farebbero onore. (*) Pubblicato col titolo

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I giudici costituzionali Una legge impossibile n.


È vero che uno dei compiti principali di tale corte riguarda i conflitti di attribuzione fra i poteri dello stato e delle regioni e gli eventuali conflitti fra tali enti. I1 ritardo ad estendere il sistema regionale a tutto il territorio non ha reso inefficiente l a corte costituzionale, essendovi tre regioni, l a sarda, la trentinaalto atesina e la valdostana, che da sei anni si trovano con vertenze aperte, a risolvere le quali nessun organo competente esiste fin oggi. Nè possiamo essere soddisfatti della VII" disposizione transitoria riguardo l a competenza temporanea della magistratura per « l a decisione delle controversie indicate nell'art. 134 » limitatamente alle « norme preesistenti alla entrata in vigore della costituzione D, sia perchè non viene abbracciata tutta la materia di competenza della corte costituzionale, sia perchè non si hanno le garanzie che derivano dal nuovo istituto. Se ci fosse da parte dei parlamentari, pochi o molti, l'idea di non attuare la corte costituzionale, dovrebbe esserne assunta la responsabilità con l a proposta di nuove disposizioni atte a coprire la materia che la costituzione attribuisce a tale corte. Non nego che tale iniziativa possa in ipotesi aver seguito; nego che si rimanga ancora a lungo come l'asino di Buridano, senza prendere una strada che spunti. L'ostacolo vero alla realizzazione della corte è stato l a disposizione, fatta con legge ordinaria, che la nomina dei cinque giudici parlamentari debba essere vincolata, anche in terza votazione, al quorum dei tre quinti. Tale limite manca della logica interna di qualsiasi legge elettorale, e imprime all'atto parlamentare un significato che eccede la legittimità della scelta. La legge che regola una elezione deve arrivare, in base a l suo naturale svolgimento, all'atto elettivo. È perciò che di regola il processo delle votazioni si conclude con due forme: quella del ballottaggio fra i due primi ovvero quella del maggior numero di voti fra tutti i candidati. Nel caso che si voglia mantenere, per la validità, il vincolo della maggioranza dei presenti e l'intervento nella votazione della maggioranza degli aventi diritto, le votazioni si ripetono fino al raggiungimento dell'esito prescritto. La disposizione è esplicita nel regolamento della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti dove sta scritto: « I n


tutti i casi di scrutino è necessario per la elezione la maggioranza dei voti espressi; qiiando questa non sia raggiunta al primo scrutinio, lo scrutinio è ripetuto fino a che la maggioranza sia ottenuta ».Tale regola è implicita in ogni sistema elettorale che non preveda il ballottaggio o non ammetta la elezione col maggior numero di voti quale esso sia. Era pertanto questo il dovere del presidente Gronchi di obbligare l'assemblea delle due camere, convocata il 31 ottobre 1953, a votare fino al raggiungimento della nomina, a costo di farla sedere giorno e notte; avrebbero i parlamentari pagato il fio di una legge impossibile. I1 rimando a nuova convocazione fu da parte d i Gronchi un gesto umano verso novecento convocati; ma non fu un gesto legale. Vi furono le attenuanti sia per la assurdità della legge; sia per la tiepidezza generale nel volere realizzare la nuova corte. Nessuno, a dir vero, pensava di dover attendere nove mesi per un'altra cerimonia ancora più rapida (una sola votazione); ma l'astensione della maggioranza diede all'on. Gronchi nuovo motivo, non legale ma umano, per un secondo rinvio. Se si fosse trattato della nomina del presidente della repubblica, nonostante che nel caso di vacanza il posto non resterebbe vuoto ma sarebbe tenuto dal presidente del senato, con sicuro che le votazioni si sarebbero susseguite fino al più rapido raggiungimento della maggioranza assoluta richiesta dalla costituzione. Nel caso presente, il fatto che la corte non esiste ancora, diminuisce la spinta a colmare i l vuoto ; e consente le larghe interpretazioni regolamentari dell'on. Gronchi. Nella prima metà dell'ottobre scorso, avevo presentato al senato la mia proposta d i legge per correggere il metodo di votazione dei giudici costituzionali, anche quelli di nomina delle magistrature, le quali, al contrario del quorum jugulatorio del parlamento, sono state fatte senza nemmeno il rispetto della maggioranza dei votanti. Ora che la mia proposta è da quasi un mese all'ordine del giorno del senato, è stato diffuso un interessante articolo del prof. Serio Galeotti dellhniversità di Urbino, il quale sostiene la tesi che qualsiasi quorum che alteri il modo di votazione prescritto dall'art. 64 della costituzione sarebbe illegittimo; specie nel caso


presente, nel quale il rinvio alla legge ordinaria, per la costituzione e attuazione della corte costituzionale, non prevede norme speciali per la elezione. I n tal caso, anche la mia proposta cadrebbe sotto siffatta censura. La questione non è di quelle dette di lana caprina; è una questione che se fosse in vita la corte costituzionale cadrebbe sotto la propria competenza. Onde, pure ammesso che i l parlamento arrivi ad un accordo, le difficoltà di oggi a eleggere cinque giudici con i tre quinti dei votanti si potrà ripetere ogni volta che un giudice si dimette o lascia il posto vacante per incompatibilità sopravvenute, infermità e simili. Se non si provvede in tempo, ritornerà sempre il problema della modifica dell'assurda legge che ci impedisce di realizzare un istituto oramai necessario a completare il nostro sistema legislativo e giurisdizionale. 2 agosto 1954.

( L a Stampa, 5

agosto).

I L CITTADINO E L'AMMINISTRAZIONE È chiaro che l'Amministrazione (si intende la pubblica, con l'A maiuscola) è per il cittadino; e non il cittadino per l'amministrazione. Che qualche volta e in certi casi (purtroppo assai frequenti) si siano invertite le parti, non dà diritto a pensare che il fatto sia generalizzato. Ed ecco che u n soffio di novità sta penetrando in qualche settore dei nostri ministeri, e un piccolo seme di speranza sta germogliando nel cuore del cittadino, che comincia a pensare di non essere del tutto trascurato. L'annunzio che la validità dei passaporti sarà portata a cinque anni, e il relativo rinnovo sar,à fatto rapidamente, benchè ciò non tocchi l a generalità, interessa molti emigranti ed emigrati, commercianti e industriali, turisti e studiosi. Ha, inoltre, interessato un gran numero di persone la notizia della semplificazione delle modalità per il rinnovo delle li-


cenze e altri simili atti, ai quali l'amministrazione non può rinunziare, ma per i quali il cittadino non deve essere vessato oltre misura. I n sostanza, bisogna passare dal senso d i diffidenza reciproca fra amministrazione e cittadino, al senso d i fiducia, a patto però che chi abusa della fiducia la paghi sul serio. Uno dei rilievi fattimi, dopo il fortunato articolo di u n mese fa: L'uovo di Colombo, riguarda il ceto dei falsi intermediari che, abusando della tolleranza statale e della fiducia o dabbenaggine del cittadino, spillano compensi promettendo un sollecito disbrigo dei certificati e delle relative firme richieste, senza poi ottenere un sol giorno di anticipo sul normale tran tran burocratico. Fra le molte lettere ricevute, firmate e anonime (non ho capito il perchè dell'anonimo a meno che non si tratti d i qualche impiegato che teme venir meno allo spirito di corpo), ne scelgo alcune con utili suggerimenti. A proposito dei documenti da esibire nei concorsi m i si 0sserva: che bisogno vi è d i produrre il certificato di nascita quando nei titoli scolastici è indicata la data d i nascita, già copiata dal certificato esibito dall'alunno al momento della iscrizione? Non si tratta d i documento che dovrebbe essere aggiornato: si tratta, purtroppo, d i date e di notizie invariabili. Un altro, sempre a proposito dei concorsi, nota la superfluità del certificato di sana costituzione fisica per il quale si deve perdere tempo e denaro: visita medica, vidimazione del sindaco, controfirma del medico provinciale o del prefetto. Per chi abita in un lontano villaggio il disagio è veramente notevole, basterebbe far passare la visita di ufficio ai vincitori del concorso. E che dire della legalizzazione di firme? Ne feci u n cenno nel citato articolo; tosto d i rincalzo ricevo una lettera con la quale mi si fa notare che la legalizzazione delle firme sia da parte del tribunale che del prefetto o di altra autorità, è una formalità che costa troppa perdita di tempo, viaggio alla sede del capoluogo, mance di rito e altri imprevisti. Se lo scopo della vidimazione è puramente fiscale, basterebbe la prescrizione di u n foglio di carta da bollo più costoso ovvero della doppia marca e simili; se lo scopo è quello di un controllo, basta pre-


scrivere la doppia firma aggiungendovi quella del segretario. Pretendere la controfirma di un'autorit,à statale (prefetto, pretore, presidente del tribunale, intendente di finanza), senza un controllo di merito (che non farebbe al caso), è pura vessazione o mezzo per C( diritti casuali indebiti e ingiustificati. La finanza prescrivendo una più onerosa carta da bollo potrà compensare i diritti di segreteria. Un buon numero dei miei occasionali corrispondenti si OCcupa, e giustamente, della liquidazione delle pensioni: Ho già scritto di quelle di guerra, a proposito delle quali il sottosegretario on. Preti mi ha fatto conoscere che i l sistema delle pezze » non è rimasto in piedi, e dagli ultimi provvedimenti da lui adottati gli impiegati dei servizi CC nuova guerra » (si intende, l'ultima guerra) per le ore di lavoro straordinario vengono pagati in ragione di 150 lire per ogni progetto di pensione redatto, e i revisori in ragione di 50 lire per ogni progetto di pensione revisionato. Inoltre, per ovviare al ritardo dei distretti militari nel mandare i documenti, dicesi per scarsezza di personale, sono stati iniziati accordi fra i ministeri del tesoro e della difesa. Parliamo delle pensioni ordinarie : un funzionario, un impiegato d'ordine, un insegnante o maestro che va in pensione, riceve degli acconti inferiori al mensile dovuto e attende due o tre anni per la liquidazione. Ora, il fatto stesso del salto indietro dal giorno del collocamento a riposo, nella quantità mensile di biglietti di stato che ricever.& è per moltissimi una penosa avventura; se poi si aggiunge il ritardo della liquidazione, e non poche volte per questioni documentarie anche il ritardo nell'esigere gli acconti, non può negarsi che la situazione di molti pensionati diviene insostenibile. Più penoso è il ritardo nelle liquidazione di quote di riversibilità ai congiunti, ritardo non dico ingiustificato, ma purtroppo quasi normale. Certe lettere che mi hanno richiamato l'attenzione su tali fatti, sono veramente strazianti. Per ovviarvi occorrerebbe creare un sistema di documentazione preventiva sia per l'impiegato che per i familiari, e la generalizzazione della contabilità automatica, in modo che fin dal primo mese di collocamento a riposo possa l'interessato riscuotere la pensione; e così anche per i congiunti.


Vorrei domandare all'on. Lucifredi se il servizio di istruttoria delle pensioni d i stato non possa essere decentrato o presso le prefetture o presso l e intendenze di finanza. È un'idea che mi frulla da più tempo. A proposito, mi piace rilevare che i primi decreti di decentramento, sia gerarchico che autarchico, sono oramai in corso d i pubblicazione; altri ne verranno in seguito. Dopo u n primo periodo di adattamento (che darà luogo a qualche inconveniente, e non mancherà chi, al solito, esclamerà: si stava meglio quando si stava peggio) ne avranno beneficio i cittadini e l'amministrazione. Non tutto sarà perfetto; dopo la prova, quel che occorre dovrà essere emendato dentro i termini della proroga della delega data al governo. Finisco con una raccomandazione che non è mia ma di uno dei tanti cittadini, che a prova mi cita due casi avvenuti a due abitanti in un paese110 del mezzogiorno. I1 primo rivoltosi ad un ente pubblico del quale era contribuente per legge, esponendo u n caso assai pietoso, ebbe la risposta, e per giunta negativa, dopo u n anno, nel qual tempo l'interessato era morto e il figlio ammalato gravemente. L'altro, più o meno nelle stesse condizioni, non ricevette alcuna risposta. Purtroppo, il ritardo, anche enorme, nella corrispondenza O il diniego di risposta non sono fatti rari nella pubblica amministrazione. Riconosco la difficoltà di dar corso a tutte le richieste, parecchie delle quali improprie e senza chiaro riferimento, così che riesce impossibile la ricerca del fascicolo; ma quando la richiesta è legittima e la risposta possibile, sarà meglio darvi corso sollecitamente, anche se, purtroppo per molti casi, debba essere negativa. Tutto quanto ho scritto per l'amministrazione dello stato vale per gli enti parastatali, siano o no dichiarati di diritto pubblico; vale ancora di più per gli enti locali, regioni, province, comuni. Questi ultimi, i comuni, per essere a contatto con i relativi abitanti, dovrebbero essere i più organizzati per snellezza, sveltezza, puntualità; ci dovrebbe essere larga comprensione dei bisogni del cittadino. Occorre rinnovare il costume amministrativo in modo che si abbia il coraggio di domandare al cittadino i l pagamento delle imposte e tasse, imponendole fino ai limiti auto-


rizzati da legge; ma si corrisponda al cittadino in tutte le sue richieste con cura, esattezza, premura, puntualità e umanità. 18 agosto 1954.

(L'Italia, 21 agosto).

I N MORTE DI DE GASPERI (*) Caro Mario, da due giorni h o l'immagine di Alcide presente e non riesco a distrarmene: tutto il passato dal 1918 (data del primo incontro) mi è tornato in mente con tali colori, come una realtà vissuta. Non potrei, a parte le sofferenze quotidiane, partecipare ai funerali come il mio cuore mi detta. Tornerò lunedì ad applicare la Santa Messa per l'anima benedetta. Ti prego di rappresentarmi. Ho scelto te come anello fra il partito popolare italiano e la democrazia cristiana, fra la generazione che sparisce e quella che sorge. Desidero che all'omaggio del presente si associ quello del passato, unendo nel medesimo sentimento le due organizzazioni politiche e democratiche dei cattolici italiani. Alla amarezza dell'anima per tanta perdita, è conforto la fede cristiana che guidò il nostro amico anche nei più difficili momenti della vita politica e lo confortò nella morte serena. La partecipazione unanime degli italiani all'omaggio alla salma ed il riconoscimento dei servizi prestati da De Gasperi alla patria e all'Europa, e l'eco che ne arriva da tutti i paesi civili, sono per noi, suoi compagni ed amici, vigorosa spinta al servizio civile nel bene comune e negli ideali cristiani. Ringraziamenti ed affettuosi saluti. Luigi Sturzo 21 agosto 1954.

(L'Italia, 22 agosto). (*) Lettera all'on. Mario Scelba


EUROPA OGGI E DOMANI

I dittatori hanno, sulle democrazie, il vantaggio d i non dar conto della loro politica estera alle folle nè ai parlamentari; ma questa mancanza di limite spinge a non misurare gli effetti delle loro iniziative avventurose e vi cadono dentro. Così Napoleone Bonaparte, così Guglielmo 11, così Hitler e, nel suo ruolo minore, anche Mussolini. I1 male è che i dittatori, portando i propri paesi a l disastro, vi coinvolgono anche gli altri, avversari e neutrali. La novità del dittatore moscovita, di fronte ai predecessori tedeschi e francesi, è di grande importanza: sapere aspettare i l momento giusto, saperlo preparare di lunga mano nel silenzio e nel mistero; i l moscovita è abile giocatore d i scacchi più che giocatore d i azzardo. Di fronte stanno i governi democratici, costretti dal sistema a f a r sapere a tutto il mondo non solo quel che si fa, ma quel che si prepara e dove si vuole arrivare, con un gira gira di conferenze a tre, a quattro, a otto, a venti, a ventisette e così di seguito; per poi cadere nelle braccia dei gruppi e partiti parlamentari, come quello francese, dove i comunisti uniti ai naturali o interessati oppositori e agli utili idioti, formano l e occasionali maggioranze, sulle quali conta proprio il dittatore di cui sopra. Ciò non ostante, con buona volontà e sforzi erculei, si era arrivati a l patto atlantico, alla NATO, alla CECA; finalmente si credeva di poter mettere i l suggello alla faticosa costruzione internazionale con l a comunità europea di difesa, la famosa CED, nella quale riunire, politicamente e militarmente, questa disgraziata Europa occidentale e continentale in un organismo dove la Germania avrebbe trovato un posto adeguato senza urtare le, storicamente e psicologicamente giustificate, suscettibilità francesi. I n questo stesso periodo l'Inghilterra aveva saputo liquidare vecchie posizioni in India e in Egitto evitando guerre disastrose, superare l a vertenza iraniana, rafforzare i l proprio sistema economico e finanziario in modo da poter, pur con gravissimi sacrifici, mantenere, fino ad un certo punto, il suo ruolo in Europa


e altrove anche d i fronte all'ascesa internazionale dei cugini d i America. La Francia no: l a disgraziata questione indocinese che doveva essere liquidata con la stessa serenità e serietà come fu liquidata dagli inglesi quella indiana, fu portata nel vicolo chiuso da una guerra sfortunata, alla quale nessun governo ebbe il coraggio di porre fine; mentre le situazioni in Tunisia e in Marocco subivano le ripercussioni delle agitazioni del mondo arabo. Se la politica è prevedere e provvedere in tempo, 1'Inghilterra non h a saputo prevedere ( è il suo torto da un secolo a d oggi), ma h a saputo provvedere ai propri casi: la Francia non ha saputo prevedere nè provvedere, per la debolezza ingenita dei propri governi resi impotenti dal frazionamento dei partiti. A questo punto s'inserisce un nuovo elemento nella politica francese: Mendès-France. Questi non ha partito, non si sente legato alle procedure defatiganti delle consultazioni parlamentari, burocratiche e interpartitiche: ha l a forza d i chi non teme il voto di sfiducia perchè è pronto a lasciare il potere, a l quale non tiene o fa vista di non tenere. La figura del liquidatore di u n passato non suo è per lui la più adatta. Ha liquidato l a guerra in Indocina; è lì per liquidare il protettorato in Tunisia; h a liquidato l a CED; sembra anche disposto a liquidare l'idea europeista e a ripiegare sulle trattative diplomatiche a otto, a sei, a quattro, a tre, a due; anche a due, siano Parigi-Londra, ParigiWashington, siano anche Parigi-Mosca. Egli intanto ha riportato, per quanto è stato possibile, alle trattative con l'estero i l riserbo, se non il segreto che giova loro. Così ha potuto a Ginevra conchiudere in pochi giorni una resa, che nessun altro uomo politico francese avrebbe potuto accettare senza essere sbalzato di sella. Egli h a potuto affrontare a Bmxelles le critiche e le rampogne, anche acerbe, dei cinque stati «cedisti », senza fiatare, accettando tutto, aderendo alle affermazioni di principio le più impegnative, ma sbarazzandosi di tutti gli impegni senza sembrare di farlo, anzi assicurando di non farlo. Doppio giuoco? Si e no; piuttosto sicurezza del piano adottato, da attuare senza chiasso, senza declamazioni, tutto concedendo meno l a sostanza già prestabilita. Perchè l'assemblea nazionale francese gli ha dato l a maggioranza? a parte il centinaio di comunisti a servizio di Mosca 6 - Srr-azo

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Politico di questi anni.


(e non son dispiaciuti a Mendès-France), egli ha contato sul complesso di inferiorità che rende titubante il francese medio a consentire il riarmo tedesco. È perciò che Mendès-France non nega il riarmo tedesco, anzi dichiara di essere favorevole con le dovute limitazioni e in base ad accordi precisi. Egli sa che potrà contare sopra un'assemblea nazionale che voterà contro il riarmo tedesco, se egli si asterzà dal voto non perchè sia contrario al riarmo tedesco, ma perchè quello proposto non tiene conto delle condizioni da lui desiderate e volute. Times ed Economist insinuano dubbi e sospetti su MendèsFrance, la cui strada potrebbe portare a Mosca. Non è oggi il tempo di Poincaré e degli zar; e neppure quello di De Gaulle, quando Mosca non faceva paura ai vincitori della guerra, fra i quali aveva preso posto De Gaulle. Purtroppo la Francia del 1954 non è più la Francia di prima del 1914 e neppure quella della fine del 1918. La Francia non sarebbe in grado di prendere impegni da sola, neppure l'impegno della neutralizzazione, senza essere garantita dall'rnghilterra e dal17America. L'abile e astuto Mendès-France non può avere in tasca Londra e Washington nel recarsi pellegrino solitario a Mosca. Non si tratterebbe di viaggi semituristici e semi-informativi come quello di Attlee e Bevan, per raccogliere impressioni e dati, e bruciare qualche grano di incenso ai dittatori fingendo di ignorarne le vittime, no; si tratterebbe, invece, di viaggi alla Ribbentrop per i quali, credendo di ricevere, tutto si dà e, inconsciamente e a breve distanza, anche la pelle. Lo scopo della CED era quello di unire politicamente e militarmente l'Europa continentale libera, per potere così unita discutere con Mosca un'intesa possibile. La discussione del debole col forte novantanove su cento fallisce e fa cadere i l debole nella rete del più forte; la discussione dei due, messi sullo stesso piano, è possibile e può portare a qualche conclusione utile per entrambi. Si dice che Mendès-France, andando a Washington riprenderà la proposta di disarmo; Mendès-France sa bene che gli Stati Uniti non hanno mai potuto ottenere da Mosca il controllo reciproco degli armamenti, e neppure i l controllo reciproco delle armi atomiche.


Rifare l'iniziativa con Mosca quando l'Europa è disarmata e discorde non sarebbe buona politica. Prima creare l'Europa unita, mettervi dentro l a Germania occidentale: Solo questa è l a premessa al controllo reciproco delle armi. Altrimenti continueremo nella politica di liquidazione: la Francia per suo conto, l'Inghilterra per suo conto; immobilizzando gli altri stati dell'ex-CED, e lasciando indietro l'Italia con la piaga di Trieste nel suo fianco. Non nego l'utilità delle prospettate riunioni e discussioni, sia quella di Londra fra i nove (Canadà compreso), sia a New York, alla NATO. Sarà lecito domandare se Mendès-France vi si reca con la riserva fatta a Bruxelles di non essere sicuro della maggioranza dell'assemblea nazionale. In tale ipotesi, potrà rinnovarsi il grave spettacolo del 30 agosto, quando Mendès-France non ha votato, nè ha messo l a questione di fiducia, lasciando l a assemblea nazionale senza guida, e facendo decidere delle sorti dell'Europa ai cento deputati comunisti. 5 settembre 1954. (Popolo Nuovo, 8 settembre).

PASSATO DA TENER PRESENTE A PARIGI E A LONDRA Alla conferenza di Genova del maggio 1922, M. Poincaré, allora capo del govemo di Francia, rifiutò di intervenire non ostante la presenza del primo ministro inglese, Lloyd George ; proprio perchè non volle addivenire ad una chiara intesa con il cancelliere tedesco Wirth, che anche lui, e Cicerin da Mosca, erano accorsi a quella che si sperava fosse la conferenza decisiva. F u allora che Wirth e Cicerin si intesero e, auspice i l ministro Rathenau, firmarono l a prima convenzione del dopo guerra. Ricordo di avere avuto allora due abboccamenti con Lloyd George, il quale fra l'altro mi domandò a bruciapelo, perchè il papa non interveniva presso i l govemo francese a fare sì che M. Poincaré intervenisse alla conferenza. Fu difficile fargli comprendere che il papa faceva bene ad astenersi dall'interferire in


merito. Altri colloqui più comprensivi ebbi con il cancelliere Wirth e il ministro Rathenau, ma non potei dissuaderli dall'accordo che veniva ad essere firmato e che segnava una svolta per la storia dell'Europa. La negativa d i Poincaré per una politica più comprensiva f u il grande colpo alla nascente democrazia tedesca e alla volontà di riconciliazione affermata nel settembre 1921 da tutti i capi del centro e dei partiti che collaboravano col cancelliere Wirth, in occasione della visita fatta in Germania da me insieme a De Gasperi, Jacini, Ruffo e Bianco, quale delegazione del partito popolare italiano. Alla pacificazione franco-tedesca ed europea mi dedicai nel primo periodo del mio esilio e potei arrivare a costituire a Parigi, nel dicembre 1925, il segretariato internazionale dei partiti democratici di ispirazione cristiana, con l'intervento dei delegati francesi, tedeschi, belgi, olandesi, lussemburghesi. I o e Domenico Russo, rappresentavamo « l'Italia all'estero N. L'uccisione di Rathenau fu un grave danno per l'Europa; Rathenau a torto era sospetto perchè ebreo; egli era u n sincero europeista. Stresemann, che ne prese il posto, anche lui fu sospetto; la sua politica sembrò doppia come quella d i Rathenau; ma anche la politica franco-inglese non era chiara. Posso convenire che le nebbie non erano allora dissipate da ambo le parti; anche oggi non sono dissipate e non so da quale parte le nebbie siano più spesse. Finalmente si arrivò al patto di Locarno; purtroppo, i patti scritti senza la volontà decisa di rispettarli, non valgono. La democrazia tedesca traballava sotto i colpi del nazismo crescente (sarebbe bene per tutti, italiani compresi, studiare il periodo della politica europea che va dal 1926 al 1931); e la Francia, come vedeva andarsi indebolendo sotto i cancellieri Marx e Briining la repubblica tedesca, si faceva perciò rigida alle invocazioni d i Berlino. Intanto montava la marea nazista; e c'era in Francia chi godeva di avere un altro dittatore in Europa, più forte di quello di Roma, il quale ultimo in quel periodo incontrava a Parigi e a Londra non dissimulate simpat&. Così si arrivò al governo di Hitler : Londra cede ; Parigi cede ; quel che fu negato a Stresemann e a Briining fu permesso e con-


sentito o tollerato a Hitler. La politica di Lava1 e di Flandin è a favore dei dittatori; Chamberlain e Samuel Hoare sono per i dittatori; non si h a più la paura che aveva Poincaré verso i cancellieri cattolici Wirth e Marx. Quando Hitler nel 1936 occupa la zona demilitarizzata del Reno, - casus belli previsto nel patto di Locarno - Eden e Flandin si inchinano al dittatore con blande proteste e protocolli innocui, lasciando mano libera a chi doveva scatenare la guerra. I diplomatici, inglese e francese, a Berlino non compresero nulla, non seppero nulla? difficile dirlo: certo si è che se Francia e Inghilterra avessero subito mobilitato e inviato un ultimatum, Hitler avrebbe lasciato il campo dimettendosi e fuggendo; tutto era preparato per tale evenienza. Ma audaces fortuna iuvat ; Neville Chamberlain e M. Flandin non potevano essere classificati audaces, ed erano presi dal complesso di inferiorità, anzi di ammirazione, verso i dittatori. Non fu forse Flandin, ministro francese, a telegrafare a Hitler le sue congratulazioni e i suoi omaggi proprio alla previgilia della seconda grande guerra? Così cadde Locamo e, con Locarno, ogni costruzione giuridico-diplomatica internazionale; Daladier e Chamberlain consentirono invano gli accordi di Monaco, lo smembramento della Cecoslovacchia, la caduta di Danzica, inviando poi i loro plenipotenziari da Stalin a invocare un accordo antitedesco, dopo avere garantito l'integrità della Polonia, da salvaguardare proprio contro i due colossi che contavano dividersela per sempre. Passato lontano o presente? Per chi sa leggere, questo è presente: il governo francese, giustamente preoccupato di una rinascita tedesca, non ebbe fiducia, da Poincaré in poi, nella democrazia del Centro e dei socialisti tedeschi, e si inchinò alla dittatura nazista e ne subì la guerra e occupazione. La Francia in guerra e occupata dai tedeschi, non ebbe più fede negli alleati, non accettò la proposta di Churchill di unirsi allYInghilterra,non cercò di portare, come il Belgio e l'Olanda, l a sede del governo in Algeria o all'estero; accettò Petain; Darlan fece saltare la flotta pur di non darla agli alleati, perchè credette alla vittoria di Hitler. Ora siamo alla medesima fase: Mendés-France fa il forte con


la repubblica federale di Adenauer; non crede ai tedeschi democratici cristiani e liberali; non h a fiducia negli alleati; vuole assicurazioni e garanzie, carte scritte e sottoscritte; non teme di trattare con Malenkov prima di avere consolidata un'Europa occidentale nella solidarietà atlantica e con esercito proprio. Le richieste di Mendés-France potevano essere fatte da Poincaré all'indomani della vittoria, eppure errava grosso; oggi non contano, di fronte al pericolo moscovita. Voltiamo pagina: è tutta colpa francese? Lo stato psicologico della Francia dopo 1; prima guerra, vinta per poco e vinta per l'intervento degli Stati Uniti di America, era tale che solo la garanzia dellynghilterra a trovarsi al suo fianco nel pericolo la poteva indurre ad accettare una politica di conciliazione e anche di collaborazione con la Germania. La Francia esigeva anche la garanzia degli Stati Uniti, ed in ciò era fuori della realtà, perchè l'ondata isolazionista aveva preso l'America in pieno. L'Inghilterra rifiutò e fallì nelle sue previsioni. Aveva errato lord Grey nel non volere nel luglio-agosto 1914 fare un passo a Berlino, ricordando il patto di garanzia della neutralità belga e l'impegno di intervenire a difesa; il Kaiser era sicuro che Londra sarebbe rimasta lontana dal conflitto data la rapidità della invasione; il silenzio di Londra lo incoraggiò e così si arrivò alla guerra e all'intervento inglese. L'Inghilterra fallì nel 1922 nel non volere dichiarare di intervenire se la Francia fosse stata attaccata dalla Germania. Quando fu attaccata nel 1939 l'Inghilterra intervenne, ma fu troppo tardi. Oggi è lo stesso: se la Russia attaccasse, anche l'Inghilterra scenderebbe in campo; tutti ne sono certi; ma Londra non deve prendere impegni nella sua politica (no commitment). Così la Francia, che politicamente non può non essere sicura dell'intervento dell'rnghilterra, perchè i due interessi coincidono, non è stata mai e non sarà mai psicologicamente sicura di tale intervento, perchè quel popolo, dalla prima guerra mondiale in poi, soffre di insuperabile complesso di inferiorità. Mendés-France interpreta e rappresenta il medio francese, intelligente, egocentrico, storicamente viziato dai grandi ricordi e psicologicamente ossessionato da un futuro ipotetico pericolo


tedesco, ingigantito al punto da sembrare oggi, nel 1954, un pericolo più grande di quello moscovita. Con questo complesso bisogna fare i conti. Eden lo comprende e forse sarebbe disposto a impegnarsi. Churchill no, non si impegnerà; egli è rimasto il gigante del 1940, che salvò 1'Inghilterra ma ebbe dalla Francia boccheggiante il rifiuto della unione collaboratrice per la vita e per la morte. Anche oggi è così. 21 settembre 1954.

(L'Eco di Bergamo, 24 settembre).

L'ORDINE DEL GIORNO BOCCIATO (forma e sostanza) Non parlerei del fatto se agenzie e giornali non avessero dato dettagli di prima mano, e non tutti in tono, della mia proposta fatta alla commissione di finanza e tesoro del senato, all'inizio dell'esame degli articoli del disegno di legge n. 462: Norme integrative sulla perequazione tributaria ». Non avendo potuto partecipare alla discussione generale, credetti opportuno, all'inizio dell'esame del lo articolo, presentare il seguente ordine del giorno: (C La commissione, ritenendo che per attuare in pieno la riforma Vanoni si debba arrivare alla reciproca fiducia fra contribuente e fisco; riconoscendo che a tale scopo occorre anzitutto ridurre le aliquote di tassazione, passa all'ordine del giorno D. Fu rilevato dal presidente Bertone il senso drasticamente preclusivo della proposta; il ministro Tremelloni dichiarò non potere accettare l'impegno di immediata o contemporanea riduzione delle aliquote, che avrebbe compromesso il gettito normale delle imposte dirette; il sen. Trabucchi, relatore, vi si oppose per la forma e per la sostanza ; altri da diversi settori fecero riserve sia sulla proponibilità a discussione generale chiusa, COme anche sul merito. L'idea della riduzione delle aliquote era stata sostenuta in


precedenza dal sen. Mariotti; però questi ed altri delle sinistre non arrivavano alla sospensiva per l'esame degli articoli. Infine, proposto dal sen. Minio il rinvio per migliore esame ed esclusa dal presidente Bertone la improponibilità, la discussione sull'ordine del giorno Sturzo passò alla seduta successiva. Durante tale discussione ebbi a dichiarare più volte, che, a parte la forma, potevo accedere all'esame degli articoli del disegno di legge, purchè fosse accettato il fine di ottenere la fiducia reciproca tra fisco e contribuente come un orientamento ammesso da tutti. Modificai, pertanto, il testo dell'ordine del giorno nei termini seguenti: cc La commissione, ritenuto che l'indirizzo legislativo della riforma tributaria, iniziata con la legge 11 gennaio 1951 n. 25, tende a formare e sviluppare il senso di reciproca fiducia tra fisco e contribuente, e che a tale scopo non potranno dilazionarsi i provvedimenti riguardanti la revisione delle aliquote e la riforma del contenzioso tributario; ritenuto opportuno evitare che nel testo definitivo del disegno d i legge n. 462, da sottoporre al senato, vi siano disposizioni discordanti da tale indirizzo, passa all'esame degli articoli D. Speravo dai colleghi una maggiore comprensione della mia mossa, ma trovai il giorno seguente più netta opposizione, sia perchè la dichiarazione di non dilazionabilità, pur condivisa da parecchi, trovava ostacolo nel governo, sia perchè la parola revisione non precisava trattarsi di riduzione; (l'eufemismo era chiaro, perchè la revisione veniva motivata dalla volontà c( di formare e sviluppare il senso di reciproca fiducia tra fisco e contribuente cosa non facilmente ottenibile con l'inasprimento); sia infine perchè la commissione non voleva, nella discussione che veniva ad iniziarsi, essere costretta a mantenere il bilancio dell'ordine del giorno. La reazione fu tale che un solo di sinistra si astenne, tutti gli altri, centro sinistra e destra, votarono contro, meno il proponente : bocciatura i n pieno. Qualcuno h a voluto conoscere il motivo per il quale, vista l a bufera, non accettai l'invito del presidente ( e mio carissimo amico, il sen. Bertone) a ritirare l'ordine del giorno. Quelli che mi conoscono, pur non spiegandosi con quale gusto abbia io cercato di far constatare l'unanimità dell'opposizione, non pensano ad


una mia impuntatura; in ogni caso, questa sarebbe stata, in ipotesi, dalle due parti; ma neppure i miei contraddittori si erano impuntati e, qualcuno, condivideva ( a me sembrava così) le mie preoccupazioni. Ma a parte il pensiero degli altri, mi sembra doveroso dar ragione del mio contegno. Nessuno, credo io, potrà negare la ragionevolezza ~ ~ l i t i ce a finanziaria di arrivare a creare una distensione tra fisco e contribuente. I1 modo più adatto allo scopo è l'attuazione di criteri di giustizia, usando equità nel carico contributivo proporzionato al reddito ; rigore contro gli evasori che danneggiando l'erario, danneggiano altresì i l contribuente onesto. Salvo qualche disposizione marginale, il disegno di legge n. 462 non si interessa di proposito della equità del carico contributivo, ma aggrava la mano su tutti i contribuenti, gli onesti e gli evasori. Per quest'ultimi l'aggravamento delle pene sono giustificate, nel quadro dei principi dell'orientamento giuridico e costituzionale; non era per costoro i l mio ordine del giorno, non cercando di creare fiducia reciproca tra il fisco e l'evasore, ma tra il contribuente e i l fisco; i termini sono ben diversi. Non io solo, ma altri che ai criteri teorici aggiungono la pratica esperienza di ogni giorno, avevano rilevato nel disegno di legge in parola una specie di deviazione dal sistema delle dichiarazioni annuali, con l'accentuare la possibilità di accertamento delle imposte dirette non motivata o genericamente motivata o solo per elementi indiziari. Non bisogna illudersi: o la dichiarazione fa fede fino a prove in contrario, e le penalità anche personali per false o reticenti dichiarazioni debbono essere efficaci; ovvero l a dichiarazione non fa fede e si ritorna al sistema induttivo con tutti gli inconvenienti, le vessazioni e perfino i ricatti; in tal caso, niente giuramenti e niente prigionie. Questa logica d i sistema ammessa da molti come teoria, trova la resistenza dell'amministrazione finanziaria. Lo stesso ministro Tremelloni, pur ammettendo che sia utile la revisione delle aliquote in senso favorevole al contribuente, non reputa che ciò possa aver luogo subito e neppure fra due o tre anni. La maggioranza governativa teme di legarsi a impegni preventivi nell' esame del disegno di legge n. 462. L' opposizione, pur volendo approvare con modifiche forse sostanziali, il disegno di


legge i n parola, esclude che si possa ~ a r l a r edi riforma tributaria fino a che non sia data applicazione all'art. 53 della costituzione, informandola a criteri di progre~sivit~à. È evidente che per introdurre un sistema di progressività nelle imposte dirette, occorre rivedere a fondo tutto l'ordinamento contributivo attuale, compresivi i contributi previdenziali, le imposte e tasse degli enti locali e quelle gestite fuori bilancio, o senza controllo del ministero delle finanze, da enti statali e di diritto pubblico o comunque autorizzati. Non è stata mai fatta una esatta statistica ufficiale degli oneri di qualsiasi specie e categorie che gravano sul contribuente; nè risulta che esista rapporto di criteri e di valutazioni fra le molteplici imposizioni esistenti, siano gestite dal ministero delle finanze, siano vigilate da altri ministeri. I1 ministro .Tremelloni ha affermato che sono in corso studi e rilievi;. ebbene, che tali studi si estendano anche ai gravami che non dipendono dalle finanze, e che si appresti u n materiale sufficiente per lo studio di una riforma sostanziale. Ciò non deve impedire le approvazioni di leggi parziali che intanto rettificano quel che è possibile rettificare sia riguardo le aliquote delle imposte dirette sia riguardo il contenzioso tributario. Ecco il perchè della mia insistenza: rimettere in primo piano, di fronte ai parlamentari responsabili e di fronte al governo, lo scopo psicologico morale e costruttivo della dichiarazione annuale dei redditi voluta dalla legge Vanoni, (della quale il disegno di legge Tremelloni dovrebbe essere completivo) allo scopo di ottenere la sincerità fiduciosa del contribuente verso lo stato, perchè lo stato mostra fiducia verso il contribuente. L'iniziativa della dichiarazione annuale non può dirsi fallita, solo che si pensi alla difficoltà di acclimatazione d i tale sistema in ambiente individualista, impreparato, diffidente, abituato da secoli a cercare i modi più impensati per evadere dall'obbligo di pagare le imposte. Se l'amministrazione finanziaria fosse stata meglio attrezzata e più efficiente, non si sarebbe arrivati all'ingorgo attuale nell'esame delle dichiarazioni, con prospettive dannose per l'amministrazione e per il contribuente. Con i1 nuovo disegno di legge, che ha indubbi pregi e utili disposizioni, non si attenuerà ma si aggraverà l'attuale stato di disagio.


Spero che l a bocciatura del mio ordine del giorno riesca utile (ed è stata la mia finalità nel volerne la votazione) tanto ai senatori che si accingono ad esaminare il disegno di legge n. 462, quanto a l giornalismo quotidiano, che farebbe bene a chiarire ai lettori i problemi che tale disegno solleva. 10 ottobre 1954.

(L'Azione popolare, 21 ottobre).

DIFESA DELLE ISTITUZIONI È da tempo che se ne parla, fin dalla passata legislatura, quando fu presentato il disegno di legge della così detta « polivalente », (secondo me non necessaria nè efficiente), e poi si ripiegò sulla disgraziata legge elettorale. Dal 7 giugno in poi, con l'apertura a sinistra e la chiusura a destra, la democrazia fu messa nel letto di Procuste, passando per vari esperimenti, nella speranza, ora di un Nenni distaccato da ,Togliatti, ora della virtù del quadripartito, ora di un Fanfani dinamico, ora di una reincarnazione Pella. Al centro c'è il problema della difesa delle istituzioni (come si diceva un tempo) o della democrazia (come si dice oggi); difesa, della quale, oramai, parlano oratori e scrivono giornalisti quasi ogni giorno ; ma la cui definizione, precisazione, caratterizzazione ed attuazione si perde in un mare di parole con soprastante una densa nebbia di idee. Non C%bisogno di nuove leggi, non polivalenti nè univalenti. Ben detto: con le leggi vigenti si può ridare al paese quella tranquillità di cui ha bisogno. Basterebbe maggiore coesione fra i partiti di governo, presenza e tempestività in parlamento e nel governo, per superare la impressione diffusa della precarietà e della incoerenza. Intanto vari ministeri sono stati liberati dalla incomoda presenza di sindacati, che vi avevano ospitalità di ambienti, mezzi di comunicazione, personale pagato dallo stato a loro disposizione, per poi tramare contro la stessa amministrazione. La


cronaca giornalistica non ha sottolineato il fatto e il pubblico non se n'è accorto; chi l'ha saputo non ne ha notato l'importanza. Si trattava di una delle tante condiscendenze, per le quali viene svalutata la serietà dell'amministrazione pubblica e l'autorità dello stato. Sono stati fatti sgombrare, in seguito, anche gli edifici exfascisti occupati da comunisti che l'avevano ottenuti per diritto ereditario, visto che gli uni e gli altri credevano e credono nella dittatura rivoluzionaria o nella rivoluzione dittatoriale. Anche di tale sgombro pochi ai sono accorti e qualche giornalista, più saputo degli altri, h a rimproverato il governo d i oggi per i dieci anni di ritardo nel prendere simile provvedimento. Mesi fa fu messa sotto inchiesta l'amministrazione dell'istituto nazionale gestione imposte consumo, accusata di collusione con le amministrazioni comunali d i tutti i colori, specie comuniste. La denunzia dei fatti è in mano al magistrato. Si tratta di u n bubbone che scoppia; ce ne sono altri. Non si fa discriminazione fra sperpero di denaro a favore dei comunisti e sperpero d i denaro a favore dei democratici. I1 marcio viene colpito dove è; occorre continuare su questa strada, che è la migliore per combattere il comunismo. È vero che il reportage dei grandi giornali lascia indietro, con pochi accenni, i miliardi delle valute per il commercio estero e poco parla dell'INGIC, non essendovi finora di mezzo ragazze e stupefacenti; ma non farebbe male una certa maggiore sottolineatura della esigenza del risanamento morale che è alla base di una efficace difesa delle istituzioni. Anche l'applicazione dei provvedimenti disciplinari per quel personale statale che aveva scioperato è passata sotto silenzio. I1 personale avrà in cilor suo mormorato e protestato, ma h a incassato; i sindacati avranno protestato, ma i provvedimenti sono stati eseguiti; la legge h a avuto la sua sanzione, anche se giornali e pubblico non se ne siano accorti. Da questi accenni si può rilevare: primo la possibilità da parte dell'amministrazione pubblica di fare eseguire le leggi e gli ordini. Dai piccoli fatti già attuati a tutta la sfera dell'attività pratica il passo è segnato; secondo, la mancanza d i cooperazione effettiva della stampa, che non sa fare altro, con le sue recriminazioni, che aumentare il discontento, la sfiducia e l'al-


larme; anche qui occorre larga cooperazione alla volontà governativa di far rispettare le leggi esistenti e gli indirizzi politici affermati in parlamento. I1 problema centrale è psicologico; purtroppo pochi conoscono la psicologia politica e pochissimi sanno usarla. Anzitutto bisogna ridare al paese fiducia e senso di sicurezza. È stato controproducente continuare a parlare di difesa dal comunismo, creando l'attesa di provvedimenti eccezionali o di farmaci sana todos, mentre l a base di ogni difesa va posta nella sana amministrazione d i ogni giorno, usando fermezza e giustizia per tutti. Questa amministrazione di ogni giorno obbliga fra l'altro a far cessare quei favori statali eccezionali che, adottati nel periodo della contingenza post bellica, continuano anche oggi, come se nulla fosse cambiato. Ciò dovrebbe esser capito da tutti i ministeri, specialmente quelli dell' industria, dell'agricoltura e del commercio estero, dei trasporti e dei monopoli. La crescente influenza comunista presso i l popolo ( e non solo nel mezzogiorno) dipende dal fatto che di fronte al prepotere dei sindacati e dei gruppi di sinistra, il cittadino si sente indifeso. Quando il cittadino vede iiniti insieme CGIL, CISL e UIL per determinate lotte sindacali, non comprende tutti gli attacchi della CISL e dell'UIL a i comunisti. È facile la scusa che l'eventuale fronte unico sia in difesa del lavoratore; il lavoratore non si difende sul serio, quando si dànno armi a coloro che, se arrivassero al potere, ridurrebbero il lavoratore italiano come è oggi il lavoratore cecoslovacco, quello ungherese e quello polacco. 11 paese non comprende quando l a D.C. e i partitini laici, ora uniti ora i n ordine sparso, votano in parlamento con i comunisti, ovvero sottoscrivono con i comunisti proposte di legge di iniziativa parlamentare; e quando si formano commissioni miste locali (vedi Genova), per costringere il governo a cedere alle loro pretese. Che i comunisti possano fare proposte utili e disegni di legge seri non viene negato; ma lo spirito è diverso ; essi fanno e sanno fare del proselitismo antidemocratico anche facendo disegni di legge utili e proposte serie. È sempre lì il celebre verso virgiliano che dovrebbe trattenere i democratici dal fare passi falsi: « Timeo Danaos et dono ferentes ».Cosa che non ha tenuto pre-


sente l'on. Mattei quando ha fatto difendere le pretese dell'ENI, in sede regionale, dai comunisti siciliani; i quali, per fortuna, sono stati battuti. L'on. Mattei dirà che non ne ha colpa; ma purtroppo, nessuno gli presterà fede. Le leggi che si aspettano e che tonificherebbero il paese, sono quelle fissate dalla costituzione, fra le quali in primo luogo quel. le sul diritto di sciopero. Sarà capace il quadripartito di portarle avanti? darebbe una notevole prova d i forza, sia all'interno del governo per le note diversità di orientamento, sia all'interno degli stessi partiti, per le solite destre e sinistre che vi coesistono. Ma in periodo d i emergenza tali diversità, sia pure naturalissime, non debbono essere preclusive di un'azione concorde i n politica. I1 superamento dei dissensi per autodisciplina è dimostrativo di forza e concilia fiducia. Mentre queste e altre simili leggi andrebbero all'attivo della difesa delle istituzioni, andrebbe al passivo quel disegno d i legge elettorale che si dice sia preparato in base alla proporzionale quasi pura, o leggermente impura, al mantenimento delle preferenze e al ritorno al collegio nazionale. Quali i motivi che avrebbero indotto i promotori di tale legge a un passo così grave, che potrebbe definirsi il suicidio della democrazia, non si sa ancora. È a sperare nella loro finale resipiscenza, come quella dei peccatori in punto di morte, proprio in nome della difesa delle istituzioni. la novembre 1954. (IL Giornale d'Italia, 3 novembre).

31. PETROLIO IN SICILIA Indizi e fatti hanno messo la Sicilia al primo rango nelle prospettive della coltivazione e industrializzazione del petrolio, allo stato dei fatti, anche superiore alle prospettive della Va1 Padana. È naturale l'interessamento di uomini di affari e di uomini politici. I comunisti siciliani non rimangono indietro; essi, nella re-


cente discussione della legge sul bilancio regionale fecero presentare, da cinque dei loro deputati all'assemblea regionale, un ordine del giorno, dove fra l'altro si legge: « considerato che nell'ambito della nazione opera l'ente nazionale idrocarburi de. positario di un grande patrimonio finanziario, di attrezzature, di tecnica e di esperienza ; considerato che gli interessi dell'azienda pubblica nazionale (ENI) possono associarsi agli interessi siciliani, eccetera D. Con questa patente elogiativa, i comunisti siciliani proposero di affidare all'ENI lo sfruttamento degli idrocarburi siciliani. Possibile che i socialisti siciliani ignorino come il capo del1'ENI sia un fedele democristiano, che ha combattuto i comunisti fin dall'inizio, e come le maestranze dell'ENI siano iscritte alla CISL? Certo che no. È assai difficile avvicinare comunisti ed ENI, sol che si consideri che cosa rappresenti I'ENI nella nazione. Si tratta di una holding finanziaria di complessi quali l'ente metano, 1'Agip-gas e altre imprese assai redditizie, che hanno un largo giro di affari, con capitale circolante notevolissimo, e quindi con una sfera di influenza economica e politica tutta particolare. Basterebbe i l monopolio del metano, con prezzi non fissati dal CIP, ma lasciati al17apprezzamento dell'ente, a far saltare agli occhi di tutti quale influenza eserciti 1'ENI non l industriale solo nell'ambito commerciale, ma anche ~ u complesso libero, al punto da potersi considerare I'ENI « uno stato nello stato D. A questo complesso industriale-commerciale si rivolgono i comunisti siciliani dicendo : « venite qui a farla da padrone ; noi comunisti vi diamo l a patente di ente indispensabile e unico in Italia ».Non trattandosi di gente stupida, bisogna comprendere il significato di tale invito. A mio modo d i vedere, dietro questa mossa c'è l a speranza da parte dei comunisti, di arrivare (aiutati dagli utili idioti che non mancano dalle due parti dello stretto di Messina) a prendere il governo della regione le cui elezioni cadranno tra maggio e giugno 1955. Allora i nuovi veri padroni della Sicilia diranno a Mattei: grazie, ma non occorre più la vostra presenza; abbiamo il nostro Mattei rosso invece del democristiano. Per arrivare a questo termine occorre montare la pubblica


opinione siciliana contro l'invasione di ditte americane, fra le quali quella che ha trovato il petrolio a Ragusa. La ripresa della campagna antiamericana dei comunisti siciliani è coincisa con l'andata del ministro Vanoni a Washington per trattare, fra l'altro, di intese per investimenti di capitali in Italia, fra i quali, naturalmente, quelli per la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi. Per quest'ultimi i rappresentanti americani in Italia avevano già prospettato al ministro Vanoni e al sottosegretario Ferrari Aggradi vari provvedimenti: sollecitare la discussione del disegno di legge sulle ricerche petrolifere che si trova avanti la camera; permettere allYENIdi trattare con ditte americane per ricerche e coltivazioni petrolifere anche in certe zone della Va1 Padana; presentare un disegno di legge per facilitare gli investimenti di capitali esteri. E d ecco che durante le trattative d i Washington l'ufficio pubblicità dell'ENI fa ripubblicare a pagamento su quasi tutti i quotidiani dell'isola un articolo vivace (come il solito) del prof. Er. nesto Rossi che rifacendo la storia della ricerca dei ~ e t r o l inel mondo, con speciale riferimento agli Stati Uniti d'America, si pronuncia contro il disegno di legge in sede nazionale e contro la politica regionale. Ogni cittadino può esprimere le sue idee; come rivendico tale diritto per me, lo riconosco integro per gli altri. Ma che l'opinione pubblica sia fuorviata con riproduzioni pubblicitarie a pagamento per conto terzi di articolo indipendente, è u n abuso della buona fede del lettore e un intervento giornalisticamente squalificabile. Se poi questo intervento è fatto contro l'orientamento del governo regionale, e più ancora, in disaccordo con l'orientamento governativo e, peggio, durante l e trattative in corso fatte da quel ministro che è stato anche il creatore dell'ENI, e in poca coerenza con la stessa D.C., che al congresso di Napoli approvò l e linee del piano decennale Vanoni, del quale uno dei caposaldi si basava sugli investimenti esteri; bisogna dire che siffatta pubblicità dellVENI,protratta fino alla vigilia della discussione del suddetto ordine del giorno dei comunisti, non può avere un significato occasionale, nè essere stata fatta senza uno scopo pre-


ciso: quello di far cadere la giunta regionale e aprire una crisi, costi quel che costi. A vantaggio di chi? dell'ENI o dei comunisti? P e r fortuna all'assemblea prevalse il buon senso politico e i comunisti furono isolati: i l loro elogio all'ENI nazionale e a l futuro ENI regionale non ebbe successo. Ora si apre la campagna elettorale: verrà posta di nuovo la piattaforma: americani o ENZ? Torto per gli americani che hanno solo una concessione di idrocarburi e alcuni permessi di ricerche che non coprono il quarto del territorio assegnato; torto per I'ENI, ente di diritto pubblico, che si presenterebbe in veste politica a carattere equivoco, perchè gli unici ad avvantaggiarsene sarebbero i comunisti. A questo punto mi domando: perchè lYENIha tutta questa voglia di allargare la sua posizione in Sicilia? L'ENI h a già il 60 per cento di azioni nella società che opera nella zona metanifera di Catania; 1'ENI ha i l permesso di ricerca a San Leone (Agrigento); 1'ENI ha la concessione delle forze endogene dell'isola di Vulcano e di Sciacca, e lavora con gli anglo-iraniani in quel di Vittoria. Invece di andare a cercare altro petrolio O altre forze endogene in Sicilia (visto che le domande di privati in maggioranza italiani non mancano) vada nel mezzogiorno continentale, nelle zone simili e vicine alla Sicilia, Calabria e Puglie; non sarà i l ministro dell'industria a impedire tale utile ricerca e negare i relativi permessi. Avere il monopolio nella Nal Padana, e operare in Sicilia è più facile, che fare ricerche nel mezzogiorno o nella Sardegna; ma la giustificazione di u n ente così potente, così ben fornito di capitali (dato il monopolio del metano) sta proprio nella ricerca e nello sfruttamento di zone poco richieste dai privati, proprio correndo quel rischio che i l privato non potrebbe affrontare. Ecco i motivi per i quali l'azione di Mattei in Sicilia non mi sembra spiegabile nè giustificabile. Ed ecco ~ e r c h è ,fra le tante dannose intese e coincidenze, nella vita politica italiana, fra democratici e comunisti, ho segnalato anche questa dell'EN1, che non corrisponde alle esigenze di una reale ed effettiva difesa delle istituzioni. 7 novembre 1954.

( I l Giornale à'ltalia, 10 novembre).

97 i - S ~ c ~ z- oPolitica d i qursti anni.


INVESTIMENTI AMERICANI E PETROLIO La reazione socialcomunista al mio articolo : Petrolio in Sicilia era prevista: trattandosi dell'America tutto è da rimproverare; trattandosi della Russia tutto è da approvare: questa non è politica che interessi il paese, è politica di partito a senso unico. I1 presidente de1l'ENI anche lui ce l'ha con gli americani (vedi articolo di Rossi pubblicato contemporaneamente a pagamento su sei giornali siciliani) e in ciò concorda con la politica socialcomunista; ma non concorda con la politica del governo. Egli non h a smentito le affermazioni riguardo gli investimenti americani, anche nel settore petrolifero ; egli ha citato una smentita del ministro Vanoni (che voglio credere autentica) che « nel corso dei suoi incontri ( i n America) con gli esponenti del mondo economico si sia parlato d i concessioni petrolifere e di petrolio in genere ». Sia pure: yanoni è andato a trattare il suo piano decennale, che ha per pilastro o per condizione necesisaria, un maggiore afflusso d i investimenti esteri (leggi: americani); egli è andato, fra l'altro, a concordare le condizioni da tradursi in legge perché tali investimenti (privati) siano favoriti dal governo di Washington. Sono o non sono comprese le concessioni petrolifere fra gli investimenti desiderati dagli americani? Certo che ci sono. Prima che Vanoni partisse per 1'America, vi erano stati dei contatti fra esponenti ed esperti dell'ambasciata americana in Roma ed elementi della pubblica amministrazione e del governo, proprio per esaminare la ~ossibilità di accordi in materia e, particolarmente, sul disegno d i legge in corso di esame alla camera dei deputati circa i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione degli idrocarburi nel territorio nazionale, esclusa la Valle Padana; nonchè la possibilità d i contratti d i coltivazione (farming out) da parte di imprese private estere nella stessa Valle Padana. Per quest'ultima richiesta, il comitato interministeriale che vigila I'ENI aveva dato (prima della partenza di Vanoni per l'America) il consenso a che tali contratti potessero essere fatti, si intende, previa approvazione, caso per caso, dello stesso comitato.


I1 ministro Vanoni, che sapeva tutto ciò, avendo seguito le fasi delle trattative, anche con contatti con gli americani, sia pure generici, perchè non è più il ministro competente, non poteva andare a Washington per dire al governo americano: per il petrolio nulla da fare i n Italia perchè c'è il veto di Mattei. Chiaro? Egli parlò di investimenti; egli trattò le linee generali degli accordi. I1 disegno di legge relativo è ancora i n elaborazione; il piano Vanoni è ancora allo studio; ma per il petrolio si attende l'approvazione parlamentare del disegno di legge in corso di esame. Solo i contatti ENI con ditte americane potrebbero oggi avere corso; ma tali trattative non sono state ancora iniziate. Perchè? Mi è stato detto che l'amministrazione dell'ENI non sarebbe disposta a trattare con gli americani e avrebbe insistito presso il ministro dell'industria per sospendere il deliberato. Non sono sicuro di ciò; ma son certo che fino ad oggi di trattative per farming out non se ne son fatte. Se si pensa che l'ENI, dopo il ritrovamento del petrolio a Cortemaggiore, non ha fatto un passo in avanti di una certa importanza, limitandosi alla ricerca e sfruttamento del metano, l'apporto americano per le ricerche petrolifere in Va1 Padana sarebbe di notevole utilità. A me sembra che si tratti di metodo negativo: il cane dell'ortolano non mangia e non fa mangiare: è il suo compito; ma non è lo stesso per 1'ENI; e il suo metodo, non può negarsi, riuscirà a danno del paese, che pur avendo il petrolio sotterra (Dio sa se conservato o no) deve importare petrolio dall'estero con aggravi0 della nostra bilancia commerciale e con maggiore costo per l'uso dei prodotti in commercio. Anche se I'ENI avesse trovato il petrolio in altri cinque o dieci o venti pozzi della Va1 Padana, sarebbe da favorire la ricerca da parte di altre ditte nostrane o forestiere, non solo per il maggiore impiego di capitali, di mano d'opera, sia direttamente sia nelle industrie o nei commerci conseguenti, ma anche perchè il rimando di anno in anno di ricerche petrolifere è una perdita per noi e forse non sarà un guadagno per i nostri nipoti, che avranno a portata di mano l'energia nucleare necessaria agli accresciuti bisogni della umanità. Così è avvenuto per il carbone


che h a ceduto il primato al petrolio; così avverrà al petrolio e all'energia elettrica per via delle future invenzioni. Ecco i motivi per i quali la citazione della « smentita Vanoni » non riguarda le mie affermazioni contenute nell'articolo precedente e l e nuove precisazioni di questo articolo. Bisogna finirla con il complesso di inferiorità di fronte alle campagne comuniste. I1 silenzio di certa stampa agli attacchi socialcomunisti contro gli investimenti americani in Italia in genere, e per l e ricerche petrolifere e relative concessioni in ispe-, cie, e l'atteggiamento dell'EN1, non concorrono a creare quel clima d i reciproca fiducia fra americani e italiani per una efficace e utile collaborazione nel campo industriale. I1 capitale straniero non viene dove l'ambiente è turbato da sospetti, equivoci e dubbi, che generano la reciproca mancanza di fiducia. 11 fattore psicologico è il primo in tali affari. Occorre riportare serenità nelle trattative: ognuno cerchi di salvaguardare i propri diritti e i propri interessi: patti chiari e amicizia lunga. Così dicevano i nostri nonni. Ora, cosa si dice di diverso? A conclusione: che 1'ENI smentisca di avere preconcetti antiamericani, che affermi di non opporsi all'esecuzione del deliberato del comitato interministeriale per i contratti farming out con gli americani in Va1 Padana; con i fatti ( e solo con i fatti) Mattei mi smentirà; con le lettere non smentisce niente. Dove mettiamo la questione meridionale degli idrocarburi? Gli americani e le ditte italiane (quelle che si vanno attrezzando e che daranno una smentita a Mattei) potranno tentare i rischi nel mezzogiorno se sono coperti da minori rischi nella Va1 Padana o anche altrove. Ma pretendere che i privati corrano quei rischi che un ente di diritto pubblico, con u n capitale statale a l cento per cento, reputa di non dover correre, sarebbe un voler condannare il mezzogiorno alla inferiorità perpetua. A meno che non capiti il caso della Sicilia, dove 1'AGIP non ebbe fortuna e l a fortuna cadde sul capo di una ditta americana, la GULF. I n questo caso Mattei si affretterà a domandare nel mezzogiorno concessioni su concessioni, e pretenderà di avere la parte del leone senza aver corso il rischio d i aver fatto prima molti pozzi a vuoto. La vecchia teoria, sostenuta anche dalla scuola cattolica, re-


putava necessari o utili gli enti statali, in campo privatista, se vi si addossava l'onere di fare, nell'interesse del paese, quel che i privati non avrebbero potuto fare; non ammetteva, al contrario, di dover fare e strafare, quel che i privati potevano utilmente realizzare. Spero che il comitato interministeriale che vigila sul17ENI, persegua una politica meridionalista facendo fare seri e non superficiali studi e indagini per accertare lo stato del sottosuolo delle regioni del sud e della Sardegna, e favorisca in tutti i modi i permessi di ricerche, anche con concorsi a carico dello stato, se I'ENI si rifiuta. Questa politica può essere messa in ridicolo da Mattei, ma è l'unica politica rispondente all7interesse del paese. 15 novembre 1954.

( I l Giornale d'Italia, 17 novembre).

33. ALL'ACCADEMIA ITALIANA DI SCIENZE FORESTALI (*) Illustre presidente, l'onore che mi fa cotesta accademia di scienze forestali non è proporzionato ai miei meriti. Sono un appassionato della foresta; mi occupo ancora di sistemazioni montane e di rimboschimenti come se ne può occupare un uomo politico e un amministratore in partibus. Vorrei fare anche di più in un ambiente così difficile come il nostro che vive troppo del presente e poco del futuro - mentre i problemi forestali si debbono sempre prospettare nel futuro -; ma è ben poco la resa delle mie fatiche, da meritare così alta nomina e così larga attestazione di benemerenza. Vorrei venire a ringraziare di persona e sentirmi confortato nel sentire da voi i progressi fatti in Italia nel campo scientifico forestale, che è la premessa necessaria per ogni utile e vantaggiosa attività pubblica e privata.

($1 Lettera

al ~residente,prof. Generoso Patrone.


Non posso: non viaggio da otto anni, e con di5coltà esco d 1' casa. La prego di scusarmi presso il corpo accademico e di presentare i miei ringraziamenti ed omaggi e d i credermi 28 novembre 1954.

suo dev.mo Luigi Sturzo (Non appare pubblicata).

PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA E REGIONI (*) Tornano di attualità le regioni alla vigilia della elezione del presidente della repubblica, dato che l'articolo 83 della costituzione prevede l'intervento integrativo dell'assemblea parlamentare con cinquantacinque elettori regionali: uno per la Valle di Aosta e tre per le altre diciotto regioni. Per la prima elezione del maggio 1948, non essendo state costituite le regioni tranne la Sicilia, essendo le altre a statuto speciale ancora in attesa della relativa legge elettorale, l'assemblea costituente dispose, in via transitoria, che la elezione del presidente della repubblica fosse fatta solo dalle due camere riunite. La situazione oggi è diversa: esistono quattro regioni a statuto speciale: Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige e Valle di Aosta; una quinta è in corso di costituzione connessa alla sistemazione giuridico-amministrativa di Trieste. A proposito di questa, è da osservare che la costituzione prevede una regione unica e a statuto speciale del Friuli e Venezia Giulia. Tale statuto allora non fu approvato per motivi che oggi più non sussistono. Ma è sorto il dubbio se proprio convenga mantenere unita al Friuli la Venezia Giulia, quando questa ha problemi così diversi e così pressanti e di tale portata da consigliare la formulazione di uno statuto particolare sia dal punto d i vista dell'autonomia che da quello della politica generale. In (*) Pubblicato rol titolo u I consigli regionali e il capo dello stato n.

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tal caso, venendo anche meno i motivi che ne fecero sospendere nel 1948 l'approvazione, il Friuli dovrebbe avere anche esso il suo statuto speciale senza più attendere l'attuazione del sistema regionale ordinario. Quale che sia l a soluzione che verrà data a tale regione, non può negarsi alla rappresentanza della Venezia Giulia la partecipazione alla elezione del presidente della repubblica; nè è da escludere l a partecipazione delle regioni esistenti, il cui diritto, sancito dalla costituzione, non può essere riconosciuto per via di una disposizione transitoria la cui validità si esaurì con la prima elezione. se alla data delÈ vero che in tale disposizione sta scritto: l a elezione del presidente della repubblica non sono costituiti tutti i consigli regionali, partecipano.alle elezioni soltanto i componenti delle due camere ; però con la VI11 disposizione transitoria fu stabilito che (C le elezioni dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali sono indette entro l'anno dalla entrata in vigore della costituzione D. La I1 e la VI11 disposizione si completano e manifestano chiaramente la volontà del costituente. Le proroghe prima date per legge, poi per presunzione legislativa, non attenuano la volontà originaria e decisiva. I1 disposto costituzionale non può cancellarsi che con procedura costituzionale. Posta la ipotesi che le regioni a tipo ordinario non saranno costituite dentro i l maggio per mancanza di atti legislativi necessari (legge elettorale e legge finanziaria), non potrà negarsi l'esercizio del diritto elettorale derivante dall'art. 83 della costituzione alle regioni già esistenti, nè a Trieste che verrà fra poco a essere costituita (Venezia Giulia) e neppure (nella mia opinione) al Friuli se sarà diviso da Trieste, dovendosi i n tal caso approvare lo statuto speciale perchè decadrebbe la VI11 disposizione annessa alla costituzione. Qualcuno mi ha fatto rilevare che la partecipazione delle regioni all'assemblea che elegge il presidente della repubblica è condizionata alla costituzione di tutti i consigli regionali; mancandone uno verrebbe meno la condizione voluta per l'esercizio del diritto. Ho risposto che la condizione si riferisce alla prima elezione e non si può estendere alla seconda elezione per via


del termine d i un anno fissato per le elezioni regionali. La disposizione VI11 ha un valore transitorio ed è caduta come è caduta la 11. Trattandosi di disposizioni con carattere di legge ordinaria, occorre un'altra legge a regolare la materia ordinaria, non certo quella costituzionale. I1 problema di legittimità potrebbe essere risolto su ricorso alla corte costituzionale. A quanto detto si deve aggiungere una considerazione di ordine politico, quella della partecipazione della rappresentanza di Trieste alla elezione del presidente della repubblica: nessuno potrii negare il significato. La via è chiara, legittima e costituzionale. Ci sarebbe un'altra soluzione più aderente al testo e allo spirito della costituzione, quella di affrettare ( o meglio: non ritardare ancora di più) l'approvazione della legge per le elezioni regionali. Mi si risponderà: ci sono tante preoccupazioni in giro, e si vuole affrontare in pochi mesi una nuova chiamata di elettori, che superando il significato amministrativo renderebbe colore di elezioni politiche? 11 fatto della Va1 dYAostaci deve indurre a guardare le elezioni locali come strettamente amministrative e non politiche. Gli stessi partiti laici, così rigidi con la D.C. quando questa si avvicina a partiti locali qualificati di destra (vedi Castellammare) dovrebbero rendersi conto che la vita amministrativa h a esigenze tali da non potersi adagiare nel letto di Procuste della coalizione poliiico-parlamentare. La prova la hanno data varie volte gli stessi social-democratici. È di ieri l'atteggiamento al consiglio ~rovincialedi Roma, e non è lontano quello tenuto all'assemblea regionale siciliana; nei due casi, i voti degli eletti di tale partito, sia pure a titolo personale come si afferma, sono andati aile sinistre socialcomuniste. Una legge elettorale regionale che serva soprattutto a formare amministrazioni stabili, porterebbe vantaggi di chiarificazione assai notevoli anche per l'attuale coalizione governativa. Non si tratta di un salto nel buio; si tratta di una visione assai chiara dell'attuale situazione italiana. Se poi si vuole saltare il fosso senza alcun pericolo, si potrebbe accettare il disegno di legge presentato dal senatore Amadeo e altri ( e posto all'ordine del giorno del senato) che per


la prima costituzione delle regioni ordinarie prevede una elezione di secondo grado affidata ai consiglieri provinciali della regione rispettiva. Si arriverebbe presto ad avere così gli altri quattordici consigli regionali, oltre i cinque ( o sei) a statuto speciale. , Messe da parte le zone della cresta alpina e delle due grosse isole che oramai hanno le regioni, nonchè Trieste e il Friuli, gli italiani del resto del territorio non sentirebbero alcun desiderio di avere una quinta ruota del carro; basterebbero per essi le provincie a dare un impulso di attività decentrata e, in certi settori, anche autonoma. Vivaddio! che si dica una buona volta chiaramente quel che si vuole e si risolva di conseguenza un problema da lungo tempo trascinato fra zeli eccessivi e sottintesi di compromesso. La vita italiana, anche quella amministrativa, ha bisogno di chiarezza. Naturalmente l a rinunzia ad uno statuto sancito dalla costituzione andrebbe fatta in forma costituzionale, e non rinviando abusivamente la formazione delle leggi elettorale e finanziaria e ostruendo così la porta di ingresso. I n un mio vecchio articolo affacciai l'ipotesi che fossero autorizzati i consigli comunali e provinciali delle singole regioni dove non sono ancora costituiti gli organi regionali, a liberamente rinunziarvi. Mi dissero che non piaceva la difformità amministrativa che ne verrebbe con l a regione facoltativa. La fissazione dell'uniformità dal risorgimento in poi ci h a dato uno stato dove l'uniformità formale ha creato le difformità sostanziali, fra le quali, la più grave e la più continuativa da u n secolo ad oggi, quella f r a il nord e il sud. Piaccia o no l'idea, a qualche decisione si deve arrivare e a breve termine. I n conclusione: nel maggio 1955, per le elezioni del presidente della repubblica, si spera di avere fra gli elettori l a rappresentanza di Trieste, quella delle quattro regioni esistenti, e, se la politica lo consente, anche quella delle altre o di altre regioni legalmente costituite. 29 novembre 1954.

( L a Stampa, 2 dicembre).

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LO SCANDALO

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INGIC

Scandali ci sono stati e ci saranno; è nota la frase del Vangelo: « necesse est ut veniant scandala s l'importante è il modo e la efficacia di come si reagisce agli scandali. È nella natura del nostro corpo che sia soggetto a malattie; l'importante è come vi reagisce; così è dello spirito d i ciascun di noi per i mali spirituali; così è del corpo sociale per gli scandali pubblici. Quel che h a preoccupato moralisti, giuristi e politici del dopo guerra è stata l a insufficiente reazione istituzionale e collettiva allo sperpeio del denaro, al trafficantismo, alla decadenza e compiacenza amministrativa in tutti i settori. I bubboni che ne sono scoppiati: cooperative dell'alto commissariato alla sanità ; traffico valute; INA e simili, non hanno avuto larga eco nell'opinione pubblica, nè effetti tali fin'oggi da essere di esempio e di ammonimento. I1 processo sulle licenze per il commercio estero si trascina stanco senza rilievo sufficiente nella stampa, come cronaca usuale; e si tratta di una rete assai vasta di affari loschi. L'INGIC è salito al primo posto della cronaca (s'intende: dopo gli affari Montesi e Sotgiu) per il numero dei funzionari e amministratori di enti pubblici assicurati alla giustizia e per il riferimento, i n primis, ad amministrazioni municipali comuniste implicate nella vasta rete di affari illeciti. Le reazioni del corpo statale, ministeri dell'interno e delle finanze, amministrazione della giustizia, sono state rapide ed efficienti: è la prima volta che ciò si nota; il pubblico comincia ad interessarsene con un certo inizio di fiducia; e si dice: sarà vero che si fa sul serio? L'INGIC, istituto di diritto pubblico a tipo azionario, con capitale dato dalle banche (Banco di Napoli, Banco d i Sicilia, Banca del Lavoro, Banco S. Paolo di Torino) e dalla Cassa DD. e PP., è stato amministrato e controllato dai rappresentanti dei cinque istituti e da non pochi funzionari dell'interno, delle finanze e del tesoro.


Fermiamoci qui: in tanti anni, un quinquiennio a quanto si .dice, (chi scrive ebbe quattro anni fa informazioni di fatti, oggi venuti a galla) come è stato possibile che insospettabili amministratori di quell'istituto non si siano accorti di nulla? non abbiano avuto motivo di sospetto che vi fossero delle irregolarità? non abbiano avuto i l pensiero di far fare delle verifiche contabili e di cassa? abbiano (sapendo p a l c h e cosa) tenuto all'oscuro gli azionisti e l'amministrazione statale che essi hanno rappresentato ? Avanzo delle ipotesi per quel che posso arguire da informazioni attinte in campi affini. Pare che gli amministratori di enti pubblici ( e spesso anche di aziende private) contino ben poco, tranne il caso che abbiano avuto affidata la direzione di qualche ramo di servizio, come si fa con gli assessori municipali. I n genere intervengono alle sedute del consiglio, in gran parte formali, per approvare atti più O meno già disposti, ed anche eseguiti, dalla presidenza e dalla direzione generale. I n quegli enti, poi, che hanno, come spesso avviene, un consiglio di amministrazione pletorico e un cornitato esecutivo ristretto, i membri del primo restano spesso dei figuranti, come l e comparse nei teatri d'opera; solo gli altri, e non tutti, sono al corrente degli affari. Uno dei più deplorevoli sistemi, generalizzato sotto il regime fascista e ripreso i n pieno nel dopo guerra, è stato quello di moltiplicare, nei consigli degli enti, le rappresentanze ministeriali, in modo da attenuare la responsabilità diretta del ministero competente. Finanze e tesoro sono entrati dappertutto; i l ministero del tesoro più volte si è sdoppiato, mettendovi un secondo rappresentante per conto della ragioneria. Si è arrivati fino al ridicolo: nell'IRI il ragioniere generale è amministratore di diritto; e un funzionario della ragioneria fa parte di diritto del collegio dei sindaci; sicchè un dipendente controlla il superiore; i l colmo dei controllati-controllori che si traduce in controllori-controllati. In sostanza, nessun ministero partecipa con efficienza nella vita degli enti, sia perchè nessun rappresentante ministeriale ne ha una completa responsabilità, che viene diluita per tre o quattro o cinque ministeri; sia perchè i consigli pletorici non


riescono ad altro che a sentire le relazioni annuali e ad approvarle con i soliti plausi ed elogi a presidenti, direttori e funzionari; e anche perchè i comitati direttivi o esecutivi si risolvono nel potere più o meno dittatoriale, secondo i temperamenti, di uno o due che fanno tutto. I1 sistema della interministerialità nei consigli degli enti, sviluppato sotto il fascismo e divenuto normale nel dopoguerra, ha invaso lo stesso governo, alterando la forma di governo di gabinetto ed accentuando i « concerti interministeriali - buoni ad intralciare gli affari e ad attenuare le responsabi1it.à; - e peggio, a trasferire i poteri di governo dal consiglio dei ministri a i comitati interministeriali ingombrati da funzionari e da capi d i corpi tecnici ( a d esempio, il governatore della Banca d'Italia). Se ne contano parecchi: il comitato per l a ricostruzione (CIR), quello dei prezzi (CIP), quello del credito, quello della cassa p e r i l mezzogiorno, quello dell'ENI e simili. Dove è andata la responsabilità collegiale del governo e quella singola dei ministri? Così è anche per gli enti statali o parastatali; quei funzionari rappresentanti di quattro o cinque ministeri, effettivamente non rappresentano nulla e non valgono nulla, siano anche persone competenti ( i l che è raro) e abili ( i l che è normale). Non parliamo poi di coloro che hanno il privilegio di sedere i n cinque, sei, sette, dieci consigli di amministrazione, oltre a essere direttori generali, ispettori generali, ragionieri generali e così di seguito. Tornando a l punto di partenza: nell'INGIC, come i n moltissimi enti parastatali di diritto pubblico o no, l'amministrazione collettiva e rappresentativa non funziona e non ha efficienza. I veri responsabili sono il presidente se ha delle funzioni amministrative oltre quella di presiedere i l consiglio, o il consigliere' delegato e dove esiste questo posto, il direttore generale, specie se è nominato dal consiglio dei ministri o dal ministro competente (con o senza i l concerto) e partecipa di diritto al consiglio di amministrazione. Così può capitare quel che è avvenuto all'INA, quel che è avvenuto all'INGIC, quel che è avvenuto alla GRA, che aveva per giunta quale presidente il ministro stesso; e quel che sarà avvenuto ad altri enti, le cui falle non saranno solamente quelle


dette di contigenza o per esuberanza di personale, spesso assunto durante la guerra o nel primo dopoguerra. I n tutti gli enti di diritto pubblico non manca i l controllo di u n rappresentante della corte dei conti. Non abbiamo notizie del come si sia giustificato il magistrato della corte che partecipò al sindacato del171NA degli anni scorsi; non sappiamo come si giustifichi il magistrato che ha partecipato al controllo dell'INGIC specie nell'ultimo quinquennio. Sta di fatto che tale controllo non ha impedito, e forse non poteva impedire, l e malefatte, probabilmente non accertate e non denunziate. Circa la tenuta della contabilità, ho sentito affermare che, ad evadere il fisco, privati ed enti pubblici usano il sistema d i tenere due o anche tre libri diversi. Mi è stato anche riferito che certi enti pubblici non contabilizzano nel loro decorso speciali operazioni di dare ed avere, contentandosi di contabilizzarne e registrarne i l residuo effettivo. Esempio: se una banca dà ( o dava) u n interesse per depositi superiori ai tassi del cartello, il ricavato veniva incassato e speso senza annotazioni, mettendo solo all'entrata i l residuo attivo (se ve ne fosse stato e se fosse stato conveniente farne memoria). È così: passata la prima volta la porta del peccato, si ritorna a passarla più di frequente e per cose più grosse. I peccati per la evasione fiscale (che si credono ormai d'uso e scontati) facilitano psicologicamente gli altri. La connivenza col personale impiegato per le prime menzogne, facilita le altre e più grosse menzogne. Le occasioni della guerra e del dopoguerra nel nascondere e mentire, abituano normalmente a ripetere gli atti precedenti. L'assalto alla fedeltà del personale impiegato viene reso tanto più insistente quanto meno questo personale è stabile (avventizio) ed ha minori responsabilità; e se resta impunito, si facilita e si normalizza il passaggio dalla legalità alla illegalità. Un altro fattore,-che non è stato messo in luce, è quello della svalutazione della moneta, non per il suo effettivo valore di acquisto, ma per gli effetti psicologici che ne derivano. Anzitutto, l'apparente arricchimento che si risolve in delusione: i milioni che passano per le mani non sono milioni; ma prima che l'individuo si abitui ad avere la sensazione della insufficienza del mezzo, ha l'impressione opposta, quella della sufficienza


e dell'arricchimento ; la delusione parziale o totale acuisce il desiderio ed eccita la libidine del denaro. Nell'alternativa dei due stati d'animo: desiderio eccitato e delusione effettiva, si inserisce lo spirito di avventura, la ricerca illegittima, il superamento delle barriere legali. I1 maneggio di milioni e miliardi, dei quali ci riempiamo la bocca ogni giorno, è psicologicamente dannoso come dannosi sono i colpi improvvisi dei milioni che si guadagnano nei giochi (( di stato D. Non giustifico gli uomini dell'INGIC e dell'INA, n è gli implicati nello scandalo delle valute, nè quelli delle cooperative dell'alto commissariato alla sanità, nè altri, che potranno essere individuati in seguito. Dico che il clima dell'inflazione rende propizio lo sviluppo di malattie psichiche che agevolano le azioni tiuffaldine e concorrono alla corruzione anche di personale investito di uffici pubblici. Qui si inserisce il fatale sviluppo della partitocrazia: sotto il fascismo un solo partito di dominatori: nel dopofascismo, i comitati d i liberazione che si divisero la eredità giacente. La partitocrazia è andata invadendo il campo del parlamento e del governo. I1 comunismo batte tutti nel campo organizzativo e nella raccolta dei mezzi; gli altri partiti, impegnati a combatterlo, credono che siano necessari eserciti di impiegati, di propagandisti, di commissari, aumentando le spese con un continuo crescendo. I1 finanziamento dei partiti è stato pretesto dellYINGIC a saltare il fosso della legalità e della correttezza; l a collusione con l e amministrazioni comuniste si è mostrata fin oggi la più diffusa i n Toscana ed Emilia, e il fatto non è senza significato. La mascheratura d i tanto sperpero è stata inventata: spese di produzione. Da oggi in poi, i collegi sindacali e i funzionari della corte dei conti presso gli enti pubblici sapranno che cosa nascondono o possono eventualmente nascondere le magiche parole di « spese di produzione 1). Sono questi i veri, i più realistici presupposti da combattere per tenere a posto il comunismo. I1 comunicato governativo del 4 dicembre è un buon inizio e contribuirà efficacemente alla moralizzazione della vita pubblica italiana. 9 dicembre 1954.

(Sicilia del Popolo, 11 dicembre).


PROBLEMI DELL'ORGANIZZAZIONE INTERNAZIONALE (*) Illustre professore, la prego di portare la mia adesione all'assemblea di venerdì prossimo 17 corrente, dolente di non poter essere presente alla conferenza' del prof. avvocato Giorgio Balladore Pallieri, sul tema : problemi attuali dell'organizzazione internazionale n. Per quanto il tema possa sembrare alieno dagli studi giuridici e politici sulla regione (scopo precipuo di codesto istituto), i n fondo vi è intima relazione fra autonomia regionale nello stato unitario, autonomia nazionale nell'organizzazione continentale e intercontinentale e autonomia degli stati nella comunità interstatale. Sta alla base della costruzione societaria, l'autonomia dell'individuo per il valore della sua personalità spirituale e libera, valore che informa ogni società veramente umana, nobilitata dall'ideale cristiano; ed è l'individuo, persona, che si attua con armonico sviluppo in tutte le forme sociali del vivere civile, nel raggio di influsso che potrà arrivare alla completa organizzazione mondiale. È vero; come fra individui non possono evitarsi i contrasti senza sopprimere il dinamismo della libertà, così non possono fra gli enti territoriali sopprimersi le differenze senza fermarne gli sviluppi; nè evitarsi fra gli stati le diversità dei tipi ed i conflitti di interessi senza arrestare il divenire della civiltà. Ed ecco la necessità organizzativa civile i n tutti i campi della vita; un'organizzazione stabile che da un lato tempera l'iniziativa individuale perchè non divenga individualista e dall'altro impedisce che la sintesi organica divenga accentratrice e paralizzante. Al prof. Balladore Pallieri, che onora la cultura italiana,

(*) Lettera al prof. Carlo Bozzi, presidente dell'istituto di studi giuridici e politici sulla regione.

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vadano i miei ringraziamenti per la sua seconda visita in Sicilia, portando il lume della sua dottrina; i miei omaggi agli autorevoli componenti dell'istituto e al suo illustre presidente ; alla Sicilia gli auguri filiali. 15 dicembre 1954. (Sicilia del Popolo, 17 dicembre).

MEZZOGIORNO E INDUSTRIALIZZAZIONE I1 decennio dicembre 1944-'54 segna, nella storia del mezzogiorno, la più marcata tendenza verso la industrializzazione. Non sono mancate i n precedenza qua e là industrie nel mezzogiorno e nelle isole, e, nel tipo del tempo, anche sotto i Borboni; neppure sono mancate iniziative a largo respiro e di importanza notevole; i nomi di pionieri quali Florio in Sicilia e Capuano a Napoli non vanno dimenticati; ma una vera politica diretta alla industrializzazione del mezzogiorno non vi è stata mai. La guerra seminò rovine dappertutto; i danni nel mezzogiorno, specie nel settore industriale, furono relativamente maggiori di quelli del settentrione. I primi provvedimenti della ricostruzione industriale del 1943 e 1944 furono diretti principalmente al mezzogiorno, perchè dalla linea Sigfrido prima e dalla linea gotica in seguito, il resto del territorio era occupato da tedeschi e dipendente dalla, ~ i où meno nominale, repubblica di Salò. La industrializzazione cominciò in Sicilia con la creazione della sezione industriale del Banco d i Sicilia (28 dicembre 1944). Seguì a distanza di quasi un anno e mezzo la sezione industriale del Banco di Napoli (maggio 1946) che operò anche per la Sardegna fino alla costituzione d i un Banco proprio per quell'isola. Le varie leggi susseguitesi aumentarono i fondi, ampliarono le agevolazioni fiscali, costituirono gestioni speciali per le piccole e medie industrie, fino a che, sul fondo-lire dell'ERP furono attribuiti altri miliardi sia direttamente sia a mezzo di obbligazioni.


I n totale, nel decennio il Banco di Napoli direttamente e a mezzo dell'Isveimer prima della trasformazione, ha impiegato nel mezzogiorno continentale 60 miliardi e 700 milioni; il Banco di Sicilia nell'isola 22 miliardi e 500 milioni; il Banco della Sardegna direttamente o a mezzo del Banco di Napoli 6 miliardi e 753 milioni. I n totale oltre 90 miliardi. Con la creazione della cassa del mezzogiorno, si temette ( e chi scrive ne fece speciali rilievi sulla stampa) un arresto alla industrializzazione, perchè nella legge del 1950 si volle limitare l'intervento della cassa solo agli impianti di utilizzazione dei prodotti agrari, utilizzazione che nella pratica è stata anch'essa scarsa, non ritenendo che le centrali del latte e le centrali ortofrutticole realizzate in quattro anni possano dirsi un apporto efficiente nel campo della industrializzazione. Però con la legge del luglio 1952 fu fondato l'Istituto del medio credito, fu resa possibile la trasformazione dell'istituto per lo sviluppo economico del171talia meridionale (ISVEIMER) e la creazione dell' Istituto regionale per il finanziamento delle medie e piccole imprese in Sicilia (IRFIS) e del Credito industriale sardo (CIS) con l'apporto di capitali e la partecipazione amministrativa della cassa del mezzogiorno. I1 contributo della cassa alla industrializzazione non si è fermato qui, perchè si è fatta intermediaria d i prestiti esteri (Banca internazionale d i Washington) sia a scopo industriale (vedi Akragas in Sicilia) sia per impianti idro-elettrici collegati con la bonifica agraria. Anche le strade, le bonifiche integrali, gli acquedotti e le sistemazioni montane, scopi principali della cassa, servono a creare nel mezzogiorno il clima per la industrializzazione. La sistemazione delle ferrovie meridionali, alla quale per la legge del luglio 1952 sono stati destinati 80 miliardi, è n&saria allo sviluppo dei trasporti senza i quali la industrializzazione resterebbe paralizzata. Ciò nonostante, vi sono tuttora pregiudizi da vincere, sia a l sud che al nord di Roma, nonchè nella stessa Roma della burocrazia e della politica. I n primo luogo, il pregiudizio di una presunta concorrenza che, i n un futuro imprecisabile, le imprese industriali meridionali farebbero a quelle del nord; pregiudizio che in un primo tempo ritardò e limitò i provvedimenti adot113 8-

SII-RZO

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Politico di quorti nnni.


tati dal governo e poi fece ripiegare sul tema delle piccole e medie industrie da agevolare e sviluppare nel sud, con esclusione delle altre (ci volle del bello e del buono a far mettere nella legge del 1950 un prevalentemente n avanti a piccole e medie industrie D). C i troviamo ancora su questa linea, cominciata da leggi e ripetuta nell'ultimo provvedimento per il quale sono stati destinati a un fondo d i rotazione per crediti di favore alle industrie del mezzogiorno undici miliardi presi dal fondo-lire. Nel fatto varie industrie superiori alle medie sono sorte senza alcuna opposizione. La vera industrializzazione di determinati territori crea una rete di grandi, medie e piccole industrie, che vivono e si sviluppano nella reciproca cooperazione, diretta o indiretta, e nell'urto dinamico di interessi che & la spinta alla naturale selezione e porta ad una efficiente saturazione. Senza la grande industria, intisichisce la media ( a meno che non divenga essa stessa grande per propizie contingenze), e vivacchia la iiccola. È da notare che a piccola media e grande » sono qualifiche relative: potrà dirsi grande una industria di Calabria o di Sicilia, che sarà detta media in Piemonte o Lombardia; e sarà qualificata per media industria in America quella che in Italia si ritiene sia una grande industria.

I comunisti lianno fatto tale propaganda contro i grandi complessi italiani, presentati come sfruttatori del paese e del popolo, che a molti fa un certo senso tutte le volte che nei centri meridionali sorge una industria di non usuale dimensione. Perdippiù, si ha una specie di xenofobia non solo verso gli investimenti esteri, in prevalenza americani, ma perfino verso l e imprese del nord che, si dice, calano per sfruttare il sud; e non si avverte che non si attua mai una vera industrializzazione in zone ancora agricole e artigiane, senza l'apporto di industrie di altre zone e di altri paesi; senza i pionien estranei che ambientano i pionien locali, senza i coraggiosi, gli intraprendenti, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che comportano (nessuno rischia senza speranza di guadagnare). Così fu industrializzata l'alta Italia con apporti e con uomini venuti dalla Germania, dal Belgio, dalla Francia, dalla Svizzera; così deve


avvenire per il mezzogiorno; e non vi è nulla di anormale, nulla di dannoso, nei limiti s'intende di quella politica vigilante e seria che non deve mancare, specie nei rapporti con l'estero. Vi è un altro pregiudizio assai diffuso: il mancato concorso del capitale privato meridionale. Non illudiamoci che il mezzogiorno abbia larghi risparmi da impiegare nelle industrie. L'agricoltura non solo è ancora arretrata, ma esige molti capitali, come del resto ne esige anche quella progredita; e l'agricoltura non dà usualmente larghi profitti. La piccola industria locale ha pochi margini, che servono all'ammodernamento, alla rinnovazione, all'ampliamento degli impianti. È vero; parecchio del denaro liquido del mezzogiorno va a titoli di stato, ma non si tratta in tale settore di cifre superiori al normale afflusso di altre regioni. Ciò nonostante, vi è una quota di risparmio che va timidamente alle industrie perchè il meridionale h a timore del rischio industriale. Trasformare la psicologia del risparmiatore è opera di decenni; solo da poco l'uomo medio del sud ha conoscenza d i industrie grandi, medie e piccole che vivono e prosperano. Di fronte ha anche prova di piccole industrie che avendo utilizzato i prestiti di favore delle ultime leggi per ampliamento o per nuovi impianti si son trovate senza sufficiente circolante per portarli avanti. Fra vita prospera e vita stentata di imprese sotto occhio pochi si decidono a impegnarsi a fondo; ciò nonostante, il risparmiatore meridionale oggi rischia nella industria più di prima; è un passo. Se si risolvesse, con legge apposita (pare che debba venire) il problema del credito di esercizio industriale, estendendo il timido inizio della legge n. 135 di quest'anno (detta «legge Sturzo D), si farebbero ancora dei passi in avanti. E se si accettasse la mia proposta sulle esenzioni delle imposte di ricchezza mobile e sulle società per una quota di utili annuali da reimpiegare in impianti nuovi, (specie nel mezzogiorno), si svilupperebbe ancora di più l'attesa industrializzazione. E se il piano decennale Vanoni si realizzerà per l'apporto di investimenti esteri, nonostante la carica comunista e loro alleati (compresi gli immancabili utili idioti di Roma e fuori), se ne vedranno i vantaggi non solo per il mezzogiorno ma per tutto il paese. Bisogna avere il coraggio di risolvere anche il problema della


energia elettrica; e a ciò contribuisce la cassa per il mezzogiorno con i prestiti internazionali; ma non basta. Anche il mezzogiorno continentale e (se possibile) la Sardegna devono poter contare sul metano e sul petrolio come oggi vi conta la Sicilia e come domani sembra ci conterà l'Abruzzo, che già attende l'esito dei primi pozzi i n corso di trivellazione. Tutto ciò è merito del nuovo clima sviluppatosi nel dopo guerra e favorito dai democratici cristiani, da soli o insieme ai partiti coalizzati, decisi da un decennio a realizzare una politica meridionale nuova e confidente dell'avvenire, fatta attraverso difficoltà, opposizioni, malintesi, che si vanno superando, anche quando la propaganda avversa vi getta contro il discredito e fa leva sulla ignoranza e sui pregiudizi. 17 dicembre 1954.

( I l Popolo, 19 dicembre).

ALLARME PER L'ENI Con tutto il rispetto per i deputati del gruppo socialista democratico italiano, debbo dire che il comunicato del 17 corrente mese sull'EN1 e gli idrocarburi mi è apparso infondato e allarmistico. Non de avrei parlato, se i socialdemocratici della commissione decima della camera, votando contro il passaggio agli articoli del disegno di legge sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi, non avessero preso una direttiva politica sbagliata, e, per giunta, collegata alla campagna comunista. I1 punto di partenza è stato quello della più strenua difesa dellYENI;ma chi l'attacca? chi vuole togliere all'ENI il monopolio di diritto nella Va1 Padana e i quasi monopoli d i fatto in altri settori della economia italiana? I1 gruppo socialdemocratico ha visto i nemici dell'ENI (( negli ambienti della destra economica e in quelli petroliferi internazionali ».Ma d i fronte a questi imprecisati spauracchi il gruppo sa bene che stanno a difesa dell'ENI il parlamento al novanta per cento favorevole, con in prima fila quei socialdemocratici che da mesi e mesi


fanno una nutrita campagna quasi quotidiana contro i s o ~ r a d e signati nemici dell'EN1, e anche il governo che mai h a preso iniziative sgradevoli per i dirigenti dell'ENI. I1 disegno di legge in corso, già elaborato d'accordo con il ministro Vanoni ( i l creatore e sostenitore dell'ENI) è largo, anzi larghissimo, verso tale ente. L'opinione pubblica, infine, è stata stordita dalla propaganda giornalistica, al punto che, meno sparute eccezioni, tutti giurano sulla indispensabilità e necessità dell'ENI e dei vantaggi che esso procura al paese. È vero: chi scrive ha parlato male di Garibaldi, ed è stato aggredito dai comunisti e da altri giornalisti, noti ed ignoti. Poco male! Tra le proposte riguardo l'indirizzo del17ENI, due sono state rimesse in giro dai miei articoli, non con l'intenzione di dare la scalata all'ENI (che sarebbe stata assurda) ma per integrarne l'attività. La prima proposta, gi,à approvata e poi sospesa dal comitato interministeriale di vigilanza dell'ENI, avrebbe dato facolt,à ai dirigenti dell'ente, con il consenso, caso per caso, dello stesso comitato interministeriale, ad effettuare contratti per ricerche e coltivazione di petroli nella Valle Padana con ditte private nazionali ed estere. Si trattava e si tratta di accelerare la pro- . duzione petrolifera, con ricerche simultanee e con più larghi mezzi che, dal punto di vista finanziario e da quello tecnico, 1'ENI da solo non potrà avere, impegnato come è in altri importanti settori. L'opposizione fatta a tale proposta (che i comunisti han presentato in maniera tragica) è ingiustificata. Si tratta di una facoltà che all'ENI gioverebbe molto, e perciò avrebbe dovuto attuare senza indulgere all'orgoglio d i volere fare tutto da sè, ritardando così le ricerche e le coltivazioni petrolifere in zona tanto vasta e, a quanto si crede, tanto ricca quale quella avuta in esclusiva. L'altra proposta riguarda la ricerca di idrocarburi nel mezzogiorno continentale. I o sono convinto che quel sottosuolo h a riserve degne di ricerca, pur ammettendo che gli studi fatti fin oggi non abbiano fornito elementi decisivi. Tenteranno i privati, ma è più legittimo che i tentativi siano fatti dall'ente statale, che del resto ha condotto avanti studi e indagini preliminari in alcune zone meridionali. Nonostante che l'on. Mattei


abbia chiamata strana la mia teoria della funzione degli enti statali integrativa dell'attività privata, e perfino sostitutiva anche se deficitaria (vedi le ferrovie), l'on. Vanoni alla decima commissione della camera h a accennato a maggiori impegni governativi per le ricerche nel mezzogiorno. Sotto tale aspetto, e a incitare la iniziativa privata nostrana e straniera a intervenire nel mezzogiorno, la mia proposta accoppia permessi di ricerca nel mezzogiorno con permessi di ricerca nella Va1 Padana, attenuando così i maggiori rischi che si incontrerebbero in zone presumibilmente meno dotate con i minori rischi anche in zone che si credono meglio dotate. Tanto la prima che la seconda proposta toccano il diritto di esclusiva dell'EN1, la prima indirettamente, trattandosi di coltivazione di pozzi a contratto con I'ENI stesso; l'altra direttamente, trattandosi di zone da rendere autonome per il proposto abbinamento nord-sud. L'opposizione a tali proposte è venuta dal presupposto che le ditte straniere (specificatamente americane), dopo avere sfruttato il nostro sottosuolo, ~orterebberovia il petrolio e imporrebbero prezzi di monopolio, facendo così perdere agli italiani il beneficio delle proprie ricchezze. Già risposi all'obiezione con una frase: patti chiari, amicizia lunga. Nel primo caso sarebbe I'ENI il contraente, nel secondo caso sarebbe il ministero dell'industria il concessionario. Non mancano all'uno e all'altro tecnici e giuristi per non essere messi nel sacco da speculatori privati. Chi vuole trova la via; chi non vuole, aumenta le difficoltà. A coloro che in buona fede vedono verde quando si parla di concessioni a ditte straniere, debbo far presente che paesi niente affatto coloniali come la Francia, il Canadà, l'Olanda e la Germania, non hanno avuto difficoltà ad utilizzare ditte straniere, anche quelle americane di ben nota importanza e legate al cosiddetto cartello internazionale, con quelle clausole di garanzia che han creduto di dover adottare. La Francia (più simile a noi nella diffidenza verso lo straniero) permetteva la ricerca solo a ditte nazionali private, associate o no a capitale statale; ma dal 1951 in poi si è decisa a dare concessioni a ditte estere. La più fortunata è stata una compagnia


americana formata col capitale del 63,3 per cento dalla Standard e per il 18,3 per cento dalla Gulf e il resto da ditte francesi; la ricerca nella zona di Parentis-en-Born ha dato risultati insperati. I n Olanda le concessioni sono state date alla Neetherlands Aardolio Maatschappy N. Y. il cui capitale è metà della Shell e metà della Standard. I n Germania le ditte straniere hanno il quinto delle concessioni; i quattro quinti sono dati ad aziende nazionali gestite da privati e ad aziende statali a gestione privata. Nel Canadà le società estere debbono costituire proprie società nel territorio confederale, ed hanno circa la metà delle concessioni. Nessun ente o società statale gestisce imprese per ricerche petrolifere. Si sono mai domandati i miei contraddittori per quale motivo paesi assai più ricchi del nostro, con maggiori possibilità d i creare enti pubblici come l'ENI, abbiano lasciato la maggior parte delle iniziative in mano privata e abbiano ammesso ditte estere e capitale estero alla ricerca e alla coltivazione degli idrocarburi? E noi che non abbiamo sufficiente risparmio da dedicare alla ricerca e allo sfruttamento delle miniere, preferiamo tenere serrata la nostra ricchezza d i petrolio nel sottosuolo, e intanto spendiamo dollari e sterline a comprare grezzo all'estero, per utilizzarne il raffinato in casa con un passivo insanabile della nostra bilancia commerciale? L'on. La Malfa, che di queste cose è esperto, vorrebbe, a quel che si dice, introdurre nel disegno di legge i n discussione limitazioni tali da imbrigliare l'amministrazione dello stato nella sua potestà esecutiva specie circa le concessioni a società estere. Crede egli che fissando con leggi vincoli, si amministrerà meglio? Egli, che è stato ministro, sa bene quale errore sia fare leggi-regolamenti (oramai in uso) e passare al parlamento le funzioni di governo, creando quel parlamentarismo che ferisce a morte la democrazia. Simile sistema, mentre impaccia e ritarda il funzionamento dell'amministrazione e ne attenua le responsabilità, non ne impedisce gli scantonamenti. I1 fatto serio, nella presente campagna politica e non tecnica, faziosa e non amministrativa, è che alla propaganda martellante


dei comunisti, non si è opposta una chiara e serena visione dei problemi dibattuti, sia per un complesso di inferiorità dell'attuale classe dirigente; sia per la complicazione portatavi dai dirigenti dellYENIgelosi dei privilegi acquisiti e desiderosi di estendere ancora di più la propria sfera di azione, per quella megalomania che nasce spontanea quando il fornitore dei capitali è lo stato verso il quale le responsabilità di amministrazione economica sono attenuate da considerazioni e amplificazioni politiche. Io non domando altro che in Italia si faccia quel che si fa nei paesi sopraindicati, e che il petrolio venga fuori quanto più presto possibile e nella più larga quantità possibile. Ciò porterà lavoro, equilibrerà la bilancia commerciale, renderà più stabile la nostra moneta. 27 dicembre 1954.

(Il Giornale d'Italia, 30 dicembre).

PARLAMENTO E OPINIONE PUBBLICA L'opposizione generale alle pensioni parlamentari è stata così rapida ed unanime, evitando per giunta demagogie ed esuberanze, da rendere moralmente inefficiente un deliberato della camera dei deputati e, per ripercussione, anche un deliberato del senato già da nove mesi in esecuzione. A vivificare un'opinione pubblica assopita, è bastato un gesto, le dimissioni del deputato Veronesi sindaco di Rovereto, che, senza volerlo, è divenuto una specie di Balilla. La richiesta del Veronesi a discutere in seduta pubblica la proposta della cassa pensione per i deputati, era più che legittima. Non si può far torto all'on. Gronchi di mancare di sensibilità politica anche come presidente della camera; direi che egli ne abbia troppa; ma con la sua negativa egli non ebbe altra mira che di far rispettare una tradizione che (salvo errore) può dirsi ininterrotta, quella di trattare gli affari interni della camera senza la presenza del pubblico, quasi a farne marcare la diversità dalla legislazione statale.


Non è stata mai avvertita quanta differenza corra fra i l passato remoto (fino al 1914) e il presente (dal 1948 in poi): oggi deputati e senatori regolano a porte chiuse anche le proprie indennità, le proprie cooperative, le proprie pensioni, mentre i ~ a r l a m e n t a r idel risorgimento e del post-risorgimento non avevano compensi e indennità nè cercavano di procurarsi appartamenti e case per buona parte a spese dello stato, nè sognavano di divenire, dopo una legislatura, pensionati statali, ottenendo un premio di assicurazione sull'infortunio elettorale. È vero: si sarebbe dovuto fare distinzione fra la legge di bilancio che mette un fondo a disposizione della camera e i deliberati interni che aumentano automaticamente tale stanziamento per scopi determinati. I1 non avervi badato ha portato camera e senato ad applicare alla proposta di pensionamento la regola tradizionale delle deliberazioni a porte chiuse. Parlo di (C regola tradizionale D perchè nel regolamento della camera (art. 92) sta scritto: C( il bilancio della camera è discusso i n seduta pubblica. È discusso in seduta segreta quando la presidenza o dieci deputati l a domandino o quando si tratti d i questioni riguardanti singole persone D. Identico è il regolamento del senato, salvo che il numero dei richiedenti è elevato a 20. Purtroppo, la eccezione del capoverso è divenuta la regola, e l a tradizione è stata ritenuta prevalente anche se l'oggetto innovativo riguardava proprio un maggiore onere a carico dello stato, cioè del contribuente. Perciò è bastato uno di quelli che imponderabili della storia» ad annullare mosi chiamano ralmente un deliberato parlamentare, obbligando senatori e deputati a provvedere alle proprie pensioni senza concorso dello stato e in seduta pubblica. Non è la questione della spesa che interessa; si tratta di costume che va rispettato. I partiti, infatti, notarono subito i l disagio che ne veniva di fronte alla opinione pubblica ; e la democrazia cristiana, saltando il fosso, ha indicato alle due camere la linea correttiva. Senza dubbio, l'intervento drastico della D.C. ha recato un certo turbamento tra coloro che vogliono salva, nella sostanza e nella forma, l'autonomia del parlamento; mentre il comunicato di piazza del Gesù prende la figura di un atto di effettiva par-


titocrazia. Ma, nel caso presente, avendo la D.C. risposto in pieno al sentimento pubblico, merita non solo le attenuanti della colpa di intrusione nell'attività del parlamento, ma anche l'assoluzione perchè nella fattispecie manca la figura del reato; la D.C. è stata solo una voce i n « terza maggiore » e perciò più marcata, nel « corale all'unisono di tutto il paese. A proposito del gesto Veronesi ho parlato di « imponderabile storico D; si tratterebbe, nel caso, della celebre « goccia 1) che basta a fare traboccare il vaso. Per produrre tale effetto occorre che il vaso sia pieno fino all'orlo. È proprio vero che anche nel caso presente i l vaso antiparlamentare fosse gi,àpieno prima che arrivasse la goccia? Imponderabili non storici sono frequenti nella vita privata: a torto o a ragione, l'ultimo fatto insignificante spesse volte decide perfino della vita umana. Non così degli im~onderabili storici che si rilevano di tanto in tanto. In Italia, non da ora, ma fin dal risorgimento, fermenta nell'anima del popolo un fondo antiparlamentare. È vero che a consolarci ripetiamo il motto di Giorgio Arcoleo: u vale meglio una camera che una anticamera ».Si tratta di una verità più antica del noto statista siciliano che forse ripeteva u n motto venuto dalla Francia. P u r riaffermando la necessità di un parlamento a garanzia della libertà, si deve riconoscere anche la necessità di mantenere il tipo del parlamentare, anche moderno e quindi più sciolto e disinvolto, che risponda all'ideale di vero rappresentante del popolo e tutore degli interessi della collettività. Oggi si tende a sostenere assai meno gli interessi comuni e assai più gli interessi di categoria, Fra le categorie tenute presenti a Palazzo Madama e a Montecitorio, quali quelle degli impiegati, dei pensionati, dei cooperatori e sindacalisti, dei commercialisti, dei medici e odontojatri, dei coltivatori e dei dirigenti, e cosi d i seguito, si è forse inserita la categoria dei parlamentari, quasi una professione, cui dare possibilità di vita, assicurazioni contro i rischi elettorali, pensionabilità e cosi via? Questa sarebbe una concezione che contraddice all'idea di rappresentante del popolo per l'atto elettorale periodicamente espresso e senza impegni preventivi di conferma. I1 popolo non ammette che quella del deputato e del sena-


tore divenga una professione; ciascuno eletto avrà la sua anche prima del mandato. È giusto che l'impiegato eletto dal popolo non perda i l posto e l'operaio conservi l'impiego e il professionista continui a fare il medico o l'avvocato, per quel che gli sar,à possibile, e così per tutti i settori dell'attività personale. Ma non è tollerabile che il parlamentare profitti del mandato a vantaggio proprio modificando, non per merito suo ma per la nuova posizione, la propria professione, i mezzi di vita e il rango sociale. I1 mandato parlamentare non è ~rofessione,ma attività pubblica per atto di fiducia politica. Ecco i l significato fondamentale del risentimento del paese per l'assegnazione di una pensione a deputati e senatori, come se si fosse trattato di particolare categoria economico-sociale, in contrasto alla comune concezione e allo spirito d i una sana democrazia. Non possiamo prevedere le evoluzioni della democrazia moderna e le ripercussioni che potrebbero avere tali evoluzioni nella struttura dello stato. Un parlamento quale i l nostro, che impiega più della metà del tempo in provvedimenti di categoria e in aggiustamenti economici, con discutibile senso giuridico e con facili debordamenti dalla linea di equità, dà molto a pensare sul suo avvenire. I1 peggio è che le camere nella loro composizione si vanno caratterizzando per categorie, con la specificazione di funzionari statali, sindacalisti, cooperativisti, coltivatori diretti e indiretti e così via, alterandone la fisionomia di assemblea politica che deve essere l a prevalente. Forse è questo il baco che ha fatto germinare il progetto della cassa pensioni per i parlamentari. 7 gennaio 1955.

( I l Giornale d'Italia, 9 gennaio).

AMMINISTRAZIONE E IDROCARBURI D È questo il titolo dell'articolo con il quale l'on. La Malfa

risponde al mio appunto che per la chiarezza qui riproduco:


u L'on. La Malfa, che d i queste cose è esperto, vorrebbe, a quel che si dice, introdurre nel disegno di legge in discussione limitazioni tali da imbrigliare l'amministrazione dello stato nella sua potestà esecutiva specie circa le concessioni a società estere )). Volli di proposito mettere l'inciso « a quel che si dice )) non essendo per regola verbalizzate le discussioni di commissioni parlamentari in sede referente. Egli precisa trattarsi di norme legislative riguardanti il trapasso dal permesso di ricerca alla concessione; per cui « la legge petrolifera deve essere di un rigore e di una precisione estrema di norme. E non deve lasciare alla libera determinazione amministrativa questioni che hanno fondamentale interesse pubbl ~' C ON.

Non avendo ancora il testo delle modifiche e aggiunte da apportare a l disegno di legge sulla ricerca e coltivazione degli idrocarburi, non mi è possibile accertare come l'on. La Malfa possa arrivare al lodevole intento, precisato nell'articolo in parola, che lo sfruttamento delle altre zone (escluse quelle della Valle Padana) « s i a veramente una gara di private iniziative n. Nell'attesa pertanto, giova esaminare la premessa dalla quale parte l'onorevole contraddittore, premessa pessimistica per l'amministrazione in genere e per gli stessi ministri, dei quali per non pochi anni e in diversi dicasteri egli è stato collega e collaboratore. Cioè che nell'esercizio del potere esecutivo non SOIO non si osservano i molti limiti costituzionali e giuridici di che è intessuta la vita pubblica italiana, ma si evita la norma obiettiva, anche quella fissata da regolamenti e circolari, per dare luogo all'arbitrio personale. Con siffatto pessimismo, non voglio dire se intieramente o parzialmente giustificato, nulla regge neppure le così dette norme « rigorose e di una estrema precisione D. E quale affidamento, in tale clima, può dare il parlamento? quante sono state le leggi e le leggine approvate dalle commissioni in sede deliberante che sotto l'aspetto di norma generale nascondono il favoritismo personale e la volontà di evadere qualche troppo incomoda norma esistente? E non solo leggi


approvate da commissioni ma anche quelle portate in aula e discusse a lungo e in largo contengono segrete intenzioni personali, a molti note e mai rivelate. Ancora di più: il parlamento ha più volte violato norme costituzionali assai chiare e precise senza pensarci due volte. Proprio in questi giorni i l governo sta concordando i l testo del disegno di legge sui patti agrari, dimenticando che l'art. 44 della costituzione prescrive che i vincoli alla proprietà terriera privata e i limiti alla sua estensione sono imposti e fissati per legge a secondo le regioni e le zone agrarie ». Invece si vuole legiferare con norme uniformi dal Veneto alla Calabria. Ci sono dei veneti in posti di comando nei partiti che vorrebbero fissati certi limiti forse adatti a quella regione ovvero richiesti da quei mezzadri e fittuari, ma inadatti o dannosi alle Marche, alla Toscana e al mezzogiorno. Mi è stato risposto che mancano le regioni per fare leggi speciali, senza awertire che la costituzione all'art. 44 parla di regioni e zone agrarie n con la r » minuscola, e non si riferisce alle regioni del titolo V con la R maiuscola. Ho voluto di proposito citare questo fatto a mo' di esempio per venire al punto centrale: cioè che il nostro sistema politico soffre ancora degli effetti del ventenni0 dittatoriale, e l a classe politica di oggi che visse durante il fascismo non h a sviluppato in tempo i l senso del limite nella pubblica attività e quindi neanche i partiti e sindacati e le associazioni sentono il senso del limite della loro specifica funzione; anche i singoli cittadini che intervengono nella vita del paese come opinione pubblica (vedi i l giornalismo) sentono poco i limiti della loro caratteristica attività. Sarà forse crisi di ideologie, ovvero crisi di adattamento e di crescenza; non sono pessimista come La Malfa e riconosco che i dieci anni del dopoguerra non sono passati invano: come è ritornato l'ordine nella vita materiale (nonostan-% te deficienze, scarti e ingiustizie), così anche nella vita morale (nonostante gli sbandamenti), così nella vita politica e amministrativa. Non è merito delle leggi più o meno rigorose e precise (sarebbe troppo per un paese latino come il nostro dove è corrente il motto: fatta la legge trovato l'inganno D); è merito del dinamismo naturale e volitivo della vita umana che rinasce


dopo il disastro e che si riadatta, pur con difficolt,à notevoli, alle nuove esigenze di ambiente e di istituti. La principale norma di vita è quella del senso di responsabilità personale, sia privata che pubblica; senso di responsabilità che le dittature tentano di eliminare e le democrazie libere sviluppano e incrementano. La responsabilità si basa sul valore del limite e sull'impero della coscienza. Ci saranno coloro che vengono meno all'uno e all'altro. Per i funzionari ci sono le leggi disciplinari e l e responsabilità contabili; per i ministeri ci sono le responsabilità politiche e parlamentari. Se la macchina non funziona, non valgono l e leggi ; se la macchina funziona bastano non solo le leggi e i regolamenti, ma le norme tradizionali e il rispetto della propria personalità. Intanto sar.à bene fissare il minimo di accordo reciproco fra me e La Malfa: egli conviene sul mio punto di vista che bisogna evitare le leggi-regolamenti; io aderisco alla sua affermazione che le leggi debbano essere obiettive, con l'aggiunta che l'obiettività debba essere non solo effettiva ma anche intenzionale, cioè che l e leggi non nascondano sotto l a forma oggettiva scopi soggettivi. P e r il .resto, il metodo si diversifica: i o mi appoggio sul senso di responsabilità, fallito il quale cade tutto (la mia data d i nascita è del 1871); La Malfa si appoggia sulle norme rigorose e precise ( l a sua data di nascita è del 1903). Tornando al tema degli idrocarburi e proprio alle condizioni oggettive, delle concessioni d i coltivazione, occorre fare distinzione fra le condizioni giuridiche formali che possono applicarsi a tutti i casi e dei quali occorre che abbiano conoscenza le ditte che iniziano le ricerche (dato che la fase delle ricerche impone gravi spese non ripetibili in caso di fallimento), e le condizioni tecniche ed economiche che possono variare per zona e per regione. Se è vero quel che si dice che forse i giacimenti dei petroli della Valle Padana sarebbero a seimila e più metri, mentre quelli dell'Abruzzo sarebbero da tre a quattro mila metri, non si può ai concessionari imporre identiche norme; forse che per gli appalti non si fanno differenti disciplinari fra la costruzione di u n porto e quella di un'autostrada? Perciò le pubbliche amministrazioni sono assistite da consigli superiori (nel caso presente i l consiglio delle miniere), da u 5 c i tecnici,


e secondo i casi, debbono sentire i l consiglio di stato, e così di seguito. Procedure, anche eccessive e superflue, non mancano nella nostra amministrazione e a controllare reciprocamente i ministri e i ministeri è previsto il sistema del cc concerto interministeriale che a me non piace perchè attenua le responsabilità del ministro competente. Se nonostante tutto questo apparato, sussiste ancora il pessimismo dell'on. La Malfa, non mi rendo conto come egli possa avere fiducia nell'ENI, che può agire nei campi più disparati della economia nazionale, che può amministrare centinaia di miliardi senza un serio controllo, che può determinare perfino lo orientamento politico del paese con la più vasta rete di influenze giornalistiche che esista. Scrive La Malfa: (c I repubblicani hanno accettato il principio dell'esclusiva dell'ENI nella Valle Padana D. L'accettazione è politica o anche economica? riguarda solo l a ricerca e l a coltivazione degli idrocarburi ovvero tutta l'impalcatura industriale e commerciale delle società collegate con l'ENI, nonchè tutte l e partecipazioni che 1'ENI ha preso e va prendendo attraverso l a generazione spontanea di enti e sotto-enti dei quali ha la maggioranza o la totalità delle azioni? Si dice: esiste un comitato interministeriale che vigila I'ENI. È bene precisare che, a confessione del ministro Malvestiti, fino al dicembre 1953 tale comitato non era stato mai convocato, nè ebbe occasione di funzionare sollecitamente ( a mia conoscenza) fino al giugno-luglio 1954 quando emise due pareri: quello favorevole all'impianto di Ravenna (46 miliardi di preventivo di spesa e con a base i l prezzo del metano a L. 2,50), e quello dei contratti di sfruttamento fra I'ENI e ditte private, anche straniere, nella Valle Padana; deliberato quest'ultimo che fin oggi non ha avuto esecuzione, mentre il primo andrà avanti se l a Banca del lavoro o altro istituto concederà il richiesto finanziamento. Purtroppo, la tendenza diffusa nei settori della maggioranza, è quella di non parlare dell'ENI che per elogiarne i successi, e di impedire che ditte private italiane partecipino alle ricerche petrolifere e si attrezzino adeguatamente e che ditte straniere partecipino anch'esse alle ricerche sul piano della fiducia reciproca.


La campagna social-comunista in proposito produce quel complesso di inferiorità da me più volte denunziato ; è per questo che le ricerche e le successive concessioni non faranno un passo avanti e il petrolio, che 1'AGIP senza 1'ENI e poi 1'AGIP con I'ENI non ha finora trovato nella sua riserva di caccia )), non sarà neppure trovato nelle zone libere del centro e del mezzogiorno. 10 gennaio 1955.

(Il Giornale d'Italia, 15 gennaio)

LA NOMINA DEI GIUDICI ELETTIVI DELLA CORTE COSTITUZIONALE La falsa rotta presa per la elezione dei giudici della corte costituzionale ebbe inizio con il disegno d i legge proposto dal guardasigilli Grassi, che mentre lasciò senza norme la elezione dei giudici nominati dalle supreme magistrature, applicò la norma dell'art. 8 del regolamento della camera alla elezione dei giudici di nomina parlamentare. Per tale articolo, l'assemblea delle due camere avrebbe dovuto votare tre nomi invece di cinque, dividendo il risultato in due rappresentanze: quella della maggioranza (tre posti), e quella della minoranza (due posti). Simile sistema, usato per la nomina di commissioni interne della camera e del senato, tende a rispecchiare la composizione politica del corpo; ma non potrebbe essere applicato a nomine di cariche non rappresentative del parlamento stesso e per uffici cui sono legati poteri che non derivano dal parlamento. La scelta parlamentare, come la scelta presidenziale o quella delle magistrature, nel caso presente, concorrono a comporre un corpo assolutamente indipendente e nel suo rango supremo. I n questo, come in tutti i casi di nomine parlamentari per funzioni extraparlamentari e non controllate dal parlamento, nelle votazioni si deve osservare la norma costituzionale della votazione a carattere legislativo, per il cui risultato positivo OCcorrono la presenza della maggioranza dei componenti e il suffragio della maggioranza dei votanti (art. 64).

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Di ciò si accorse la commissione competente della camera nell'ultimo rinvio dal senato del testo del disegno di legge: norme sulla costituzione e sul funzionamento della corte costituzionale »; ma, di fronte alla netta opposizione delle sinistre, su proposta dell'on. Gaetano Martino si concordò il testo vigente che fissa, per la validità delle nomine dei giudici, il quorum dei tre quinti. Si trattava di un cappio che legando la maggioranza, l a obbligava, nella scelta dei nomi, a contrattare con l'opposizione, pena la paralisi dell'istituenda corte. Difatti, alla paralisi si è arrivati; e dall'aprile 1953, data dei termini legali per la nomina dei giudici, si cerca invano la formula risolutiva. Mentre l'errore della prima formulazione della norma elettorale feriva la volontà unitaria e protestativa del parlamento, la norma della legge vigente ferisce la natura intrinseca di una elezione, che, quale ne siano le condizioni limitative, deve arrivare alla conclusione pratica della nomina, non potendosi ammettere che gli organi elettivi di uno stato siano resi inoperanti per la inefficenza di procedure elettorali. Per tutelare questa esigenza istituzionale si seguono due metodi che la tradizione di tutti i paesi ha reso legittimi: quello di fissare la maggioranza relativa come titolo di elettività, sia o no preceduta da votazioni fatte per raggiungere la maggioranza assoluta, anche con quorum più elevato; ovvero il sistema del ballottaggio finale fra i due più favoriti nella precedente O nelle precedenti votazioni a maggioranza cpalificata. Lo sbocco finale deve essere decisivo perchè gli organi elettivi di u n istituto possano funzionare senza ingiustificato od ostruzionistico ritardo. Nel caso in esame fu omessa tale valvola di sicurezza, e l'ostruzione creata dalla difficoltà di trovare uno sbocco ha funzionato in pieno. La costituzione ha messo l o stesso incaglio per la nomina del presidente della repubblica, esigendo per la elezione la maggioranza assoluta dalla terza votazione in poi (art. 83). Trattandosi della nomina di un solo, e proprio del capo dello stato, le diffico1t.à di intesa fra i partiti sono minori di quel che è capitato per i cinque giudici della corte costituzionale, pur non essendo del tutto sicuri che non possa capitare che anche la elezione del

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- STCEZO -

Politica di questi anni.


presidente non si protragga per mesi. A parte ciò, in nessun paese, tranne in Italia, è dato per definitivo il quorum di tre quinti che costituisce una barriera insuperabile e pertanto ostruzionistica. Ad ovviare all'attuale situazione, fin dall'ottobre 1953 credetti opportuno presentare un disegno di legge che attenuasse la disposizione vigente dei tre quinti, applicando al caso le stesse disposizioni che sono in vigore per la elezione del presidente della repubblica. Anche la mia proposta è viziata da un quorum insuperabile ( l a maggioranza assoluta); credetti renderne più facile l'adozione per il richiamo alla costituzione, applicando alla nomina dei cinque giudici il disposto vigente per il capo dello stato. Nelle more della discussione della proposta, due professori di diritto, Caristia e Giardina, hanno fatto un passo avanti, presentando al senato il seguente emendamento : « L'elezione dei cinque giudici della corte costituzionale di nomina del parlamento ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza assoluta dei componenti dell'assemblea. Dopo i l terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza prevista dall'art. 64 della costituzione 1). {Veniamo finalmente al metodo razionale. I1 prof. Serio Galeotti dell'iiniversità di Urbino, h a pubblicato uno studio che merita d i essere tenuto presente (W. Rassegna di Diritto Pubblico 1954, fasc. 1). Egli in sostanza sostiene che nel caso presente non possa adottarsi altro metodo elettorale che quello indicato dall'art. 64 della costituzione, metodo che i senatori Caristia e Giardina insinuano come subordinato nel caso che per tre votazioni non si sia raggiunta la maggioranza assoluta. L'art. 64 è proprio quello che si usa in tutte le votazioni palesi o segrete delle due camere, esigendo la presenza della maggioranza dei componenti e il voto della maggioranza dei votanti. I casi per i quali la costituzione prescrive un quorum diverso sono precisati e quindi eccettuati dall'articolo 64. Fra tali casi non è compreso quello della nomina dei giudici costituzionali. Potevasi per legge ordinaria fissare un quorum modificativo del precetto costituzionale? ecco il problema: il prof. Galeotti è per la negativa; altri pensa ( m a non lo ha scritto) che il par-


lamento possa prescrivere in leggi particolari un quorum superiore a quello indicato dalla costituzione, non mai u n quorum inferiore. Non h o tale autorità nel campo costituzionale da esprimere un mio parere al riguardo; accedo alla tesi del prof. Galeotti, perchè mi sembra logica. Aggiungo che nella elaborazione delle leggi non si ha spesso l'agio di studiare e di riflettere. Son sicuro che i proponenti delle varie formulazioni dell'articolo in esame, non tennero presente l'art. 64 della costituzione e non si posero i l problema sollevato dal Galeotti. Lo stesso, al rovescio, è avvenuto con le nomine dei cinque giudici costituzionali fatte dalle magistrature. Dall'assemblea della magistratura ordinaria (tre posti), la votazione è stata fatta in unica scheda e sono stati proclamati eletti i tre primi, senza alcun riferimento alla maggioranza dei votanti, che nessuno dei tre eletti raggiunse. Anche il giudice scelto dai consiglieri di stato nel loro seno ebbe voti inferiori alla metà più uno, mentre nella prima nomina del giudice della corte dei conti, il compianto presidente Ortona ebbe la maggioranza assoluta, maggioranza non raggiunta dal consigliere che, ne ha preso il posto. Tutto ciò è, secondo me, irregolare; p u r non essendo obbligate le assemblee dei magistrati ad adottare la disposizione dell'art. 6 4 della costituzione, sono certo obbligate a distinguere la elezione di u n proprio membro nell'interno del corpo che può essere, anche in prima votazione, effettuata con il maggior numero dei voti senza riferimento a i votanti, dalla elezione a posti fuori del proprio corpo per ufficio che non h a alcuna dipendenza nè rappresentanza del collegio che lo h a eletto. La votazione deve esprimere l a volontà elettiva del corpo, cioè la maggioranza dei votanti ( e i votanti debbono costituire la maggioranza del corpo elettorale), essendo che essi in quel momento rappresentano il corpo deliberante nella sua integrità e nella sua organicità. I1 sistema della maggioranza relativa a primo scrutinio è adottato solo nei paesi anglo-sassoni per le elezioni popolari dei deputati, senatori o anche dei rappresentanti delle assemblee locali (stato, contee, municipalità), con u n quorum alla base ( i tre decimi), sia perchè il corpo elettorale non può considerarsi


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simile a unico corpo deliberante che potrebbe facilmente ripetere le votazioni nella stessa seduta o in sedute successive a poca distanza di tempo; sia perchè la seconda convocazione del corpo elettorale di una nazione (come era un tempo in Francia e in Italia nel caso di ballottaggio) riesce non solo incomoda ma anche poco coerente con la volontà unica e contemporanea del corpo elettorale. Ciò ho voluto far notare, per dissipare l'equivoco corrente, che si ripete da coloro che non tengono presente il carattere e l e finalità dell'atto elettorale nella propria specifica individualità; e, nel caso in esame, hanno confuso le nomine dell'interna corporis con quelle di partecipazione istituzionale alla formazione d i u n corpo indipendente e supremo (votazione dei consessi delle magistrature e applicazione dell'art. 8 del regolamento della camera alla nomina parlamentare di cinque giudici) ; ovvero hanno violato il principio della effettualità dell'iter elettorale fino alla nomina (quorum di tre quinti dei presenti anche nelle successive votazioni). A questo punto ci si domanda come sia possibile uscire d'impaccio. Niente altro che con una nuova legge (la mia proposta al senato e quella dell'on. Agrimi alla camera dovrebbero essere adeguate all'art. 64 della costituzione). Le votazioni fatte dovrebbero dall'assemblea delle due camere essere annullate in tutti i casi; sia che l e proposte di legge avanti i l parlamento abbiano esito positivo, sia che abbiano esito negativo, sia che stiano ancora nel limbo dei disegni d i legge non discussi, quel che si è fatto fin oggi non ha più valore. I1 motivo è semplice: manca la continuità temporale che dia la caratteristica della persistente volontà nel corpo elettorale ad arrivare alla nomina. I1 rinvio a nuova convocazione, sia fatto dal presidente, sia deliberato dall'assemblea in corso di votazione, inficia gli atti avvenuti. Sarà rigida questa opinione, ma in materia elettorale la esattezza delle forme è intrinsecamente necessaria: qui cadit a forma cadit a toto. 31 gennaio 1955. (Non appare pubblicato).


MEZZOGIORNO E PETROLIO Dalla recente relazione dell'on. La Malfa ai membri della direzione del PRI, rilevo i l seguente passo: « I1 sen. Sturzo invitò I'ENI a non occuparsi della Sicilia e a svolgere le sue ricerche nel mezzogiorno continentale scrivendo: ' la giustificazione di un ente cosi potente (E.N.I.), cosi ben fornito di capitali (dato il monopolio del metano), sta proprio nella ricerca e nello sfruttamento di zone poco richieste dai privati, proprio correndo quel rischio che il privato non potrebbe affrontare', e proponendo, inoltre, - per incitare l'iniziativa privata, italiana e straniera, a intervenire nel sud, - di accoppiare permessi di ricerca nel mezzogiorno, con permessi di ricerca nella Valle Padana onde compensare i maggiori rischi della ricerca in zone meno indiziate. La tesi di Sturzo apparve molto strana e fu messa in evidenza la contraddizione tra l'esigenza di una sana gestione economica da parte di una azienda di stato e la proposta di trascurare le zone più interessanti per una ricerca in zone dove l'alea è maggiore. È quasi impossibile seguire la polemica nei suoi particolari. Oltretutto ci allontaneremmo troppo dal compito che ci siamo proposti di fornire gli elementi necessari per una utile discussione D. È chiaro che La Malfa condivide l'opinione di Mattei circa la stranezza della mia tesi, al punto da credere che « fosse stata messa in evidenza la contraddizione tra l'esigenza di una sana gestione economica da parte di un'azienda di stato e la proposta di trascurare le zone più interessanti per la ricerca in zone dove l'alea è maggiore »; ed è anche chiaro che La Malfa ritiene giustificato i l rifiuto di Mattei a che 1'ENI dia il suo contributo alle ricerche di petrolio nel mezzogiorno, essendo evidentemente strana (!) la tesi da me sostenuta. La condanna del mezzogiorno a non sperare nell'intervento dello stato a mezzo di un suo organo finanziario e tecnico sarebbe perentoria, se, a pochi giorni di distanza dalle suddette affermazioni, non fosse avvenuta la scoperta del petrolio in quel di Pescara, scoperta che, a quanto si afferma, supera quella di Ragusa per qualità, per quantità e per economicità di estrazione.


La mia proposta, come ebbi a scrivere, partiva dalla convinzione che anche pel mezzogiorno continentale vi fossero indizi non trascurabili di giacimenti di petrolio. L'Abruzzo è stato da tempo indicato come la zona di maggiori probabilità; anche nelle Puglie e nelle Calabrie non mancano gli elementi che spingono ad affrontare le ricerche. La stessa AGIP ha fatto vari .studi nel mezzogiorno. È da ritenersi che gli elementi di tali studi non fossero molto conclusivi; altrimenti non si comprenderebbe il modo sarcastico usato da Mattei per respingere l a mia proposta d i dedicarsi al mezzogiorno continentale, invece che alla Sicilia, chiamandola « strana », ed affermando che un'azienda statale non dovrebbe correre simili rischi. Infatti, per non correre simili rischi I'AGIP abbandonò la zona di Pescara, dopo aver fatto un pozzo (mi dicono) di circa mille e cinquecento metri, lasciando la zona alla fortunata Montecatini, oggi Petrosud. Chi poteva prevedere tanto? Secondo me, poteva prevedersi; nqn accadde forse lo stesso all'AGIP nelle zone del ragusano e del siracusano? Esclusa Ragusa perchè l à il petrolio non poteva più esistere; nelle zone limitrofe I'AGIP fece vari pozzi e con buoni indizi, ma abbandonò tutto. Venne la Gulf e proprio nella zona di Ragusa ha trovato il petrolio: cinque pozzi, cinque ritrovamenti, uno dopo l'altro. Per giunta alla derrata : I'AGIP associatosi al signor Leonardi, che aveva già trovato metano nella piana di Catania, ha continuato a trovare metano; ma petrolio niente: i pozzi scavati sono più o meno sui mille metri, e niente petrolio. Anche a San Leone in quel di Agrigento I'AGIP si è fermato a mille metri, e niente petrolio. Con questo sistema, si possono contare i chilometri di pozzi dell'AGIP, ma non le tonnellate di petrolio. Tutto sommato, l'on. La Malfa che nella sua ben lunga relazione si è limitato, sulla questione del mezzogiorno, a constatare la stranezza della mia proposta, avrebbe dovuto arrivare a l fondo della questione, che io pongo nei seguenti termini: conviene, per un paese come i1 nostro, affrontare la ricerca petrolifera contemporaneamente e con i più larghi mezzi possibili, privati e pubblici, ovvero limitarsi alle zone accertate e sicure, sfruttando per ora il metano e rimandando a miglior tempo le ricerche del petrolio?


Con il primo metodo, nel caso fortunato di petrolio al nord, al centro, al sud, e nelle isole (dove più dove meno), si arriverebbe mano a mano a diminuire la importazione del grezzo per i l consumo interno, e anche si diminuirebbe l'impiego di carbone importato da fuori, con un forte alleggerimento della bilancia commerciale, un notevole rassodamento della moneta e con più larghi mezzi per la industrializzazione del paese e la contrazione del numero dei disoccupati. Col secondo metodo (l'attuale), si ottiene del metano (cosa conciliabile con i l primo metodo); ma si rimanda a migliore avvenire la ricerca petrolifera e i vantaggi che ne derivano. La Malfa ci f a sapere che il Canad,à, che oggi tiene il metodo da me sostenuto, ebbe le prime manifestazioni petrolifere nel 1936 e l a scoperta in quantità si realizzò solo nel 1942; ma a parte la guerra dal 1939 in poi, sei anni da Cortemaggiore ad oggi sono quasi trascorsi, e I'ENI è rimasta, in fatto di petroli, a Cortemaggiore; nella Valle Padana nessuna nuova scoperta e nel mezzogiorno la stranezza » della proposta Sturzo. Comunque sia andato i l passato, oggi non vi può essere dubbio che il petrolio esiste anche in Abruzzo e in Sicilia, e che quello della Valle Padana, per quanto si debba tener conto (come scrive La Malfa) della eterogeneità dei terreni, il petrolio esiste di sicuro, se le domande delle ditte americane sono da anni rivolte ad ottenere concessioni proprio nella Valle » che si è creduta e si crede (C privilegiata »; tanto privilegiata, che il governo (auspice Vanoni) si affrettò a chiuderla a chiave con il catenaccio della esclusività dell'ENI. Se non c'è petrolio nella Va1 Padana, perchè negare agli americani di fare trivellazioni a vuoto, spendendo dollari e impiegando mano d'opera? E se C' è, nonostante la eterogeneità dei terreni, perchè I'ENI si limita a cercare solo del metano? È chiaro che se 1'ENI dovesse fare sul serio la ricerca petrolifera, dovrebbe concentrare in questa le sue energie e i mezzi che aHuiscono alle proprie casse per la vendita del metano e per gli utili nellYAGIP-GAS,sia pure detratte le perdite di certe società affiliate. La politica del17ENI, lo voglia o non lo voglia i l ministro competente, è volta a ben altro: non solo alla espansione al-


l'estero (Somalia compresa), ma anche alla ricerca e sfruttamento delle forze endogene, alla fabbrica della gomma sintetica, alla partecipazione azionaria in varie imprese, con una filiazione d i società, enti e ditte che sciupano energie, capitali e pubblicità. La ricerca del petrolio, nord, centro, sud, è relegata ad u n posto secondario, tanto il petrolio per 1'ENI è ben chiuso, se non ben conservato. La più discussa questione è quella delle concessioni a ditte private estere. L'on. La Malfa ha chiarito il suo pensiero nei seguenti termini: a) il monopolio dellYENInella Va1 Padana è intangibile; b) nel resto del paese è ammessa la industria privata, anche estera, con disposizioni chiare e rigorose; C) nella nuova legge si devono introdurre disposizioni che tolgano la discrezionalità amministrativa del ministro competente. Circa il monopolio dell'ENI i l mio pensiero è abbastanza noto; ammettere la possibilità di permessi di ricerche nel mezzogiorno associati 'a quelli di alcune zone della Va1 Padana e consentire che I'ENI o si associ a ditte private, anche estere, ovvero stipuli con ditte private, anche estere, convenzioni per affrettare ricerche e coltivazione di petroli. Lo, stesso Mattei torna dall'America con i l contratto in tasca, stipulato con l a Union Carbide and Carbon Corporation per la partecipazione a l 50 per cento nell'impianto di Ravenna; se i dollari e la tecnica americana non sono disdegnati per la gomma sintetica, lo sarebbero forse per la ricerca dei petroli? A parte le mie riserve sulla utilità di spendere quarantasei miliardi nell'impianto di Ravenna invece di impiegarli in metanodotti, non sono per nulla contrario all'associazione dell'ENI con società americane, e lo dico chiaramente e non sottovoce, come coloro che hanno paura delle critiche dei comunisti. Per quanto riguarda le catene contrattuali con le quali La Malfa vorrebbe imbrigliare a priori la industria privata per le' ricerche nell'Italia centrale e meridionale e nella Sardegna, riserbandosi di esaminare le singole proposte d i emendamenti al disegno di legge in corso di esame, non ho preconcetti; solo rilevo che anche nel caso della ricerca di petroli gioca l a regola della domanda e della offerta. La scelta di La Malfa deve arrivare alla conclusione: se le sue norme vincolative scoraggeranno


privati italiani e privati stranieri a fare ricerca nelle zone non vincolate al monopolio ENI, il mezzogiorno avrà diritto di dire al governo: o venga il privato o venga lo stato; ma il sud non può restare ad aspettare che le proprie sorgenti di energia restino paralizzate dalla politica dellTNI, nè da quella di La Malfa e C. 8 febbraio 1955.

( I l Giornale d'Italia, 11 febbraio).

43. DISCIPLINA PARLAMENTARE La democrazia è basata sulla libertà o non è democrazia. Ma la libertà, perchè sia messa in atto nei suoi vari aspetti civili e politici, esige norme di convivenza e di realizzazione, norme di esercizio e di difesa. Si tratta di norme che gli uomini liberi si dànno nella eguaglianza di ciascuno e di tutti di fronte alla legge; di norme che l a tradizione introduce nel costume, con i l tacito consenso dei molti; di norme che ciascun uomo impone a se stesso in forza dell'autodisciplina. Tre tipi : la legge, l a tradizione, il costume ; tutti e tre ispirati al senso del dovere e al rispetto reciproco del diritto che ciascuno ha nei rapporti interumani a godere della libertà. Ciò premesso, si pone il problema a quale categoria e di quale valore siano le norme da applicare agli appartenenti ai gruppi parlamentari, in confronto all'attività e responsabilità personale nell'espletamento del mandato ricevuto. La legge costituzionale sta alla base; qualsiasi disposizione che ne offenda lo spirito e la lettera non può aver alcuna efficacia. Lo stesso si dica dei regolamenti parlamentari e delle leggi che direttamente o indirettamente prescrivono norme e procedure all'attivit,à parlamentare. Bene inteso, che se costituzione, leggi, regolamenti contenessero elementi tali da offendere lo spirito della libertà e disposizioni incompatibili con la funzione parlamentare, non po-


trebbero essere applicati e dovrebbero essere emendati, non essendo mai la legge scritta superiore all'ideale ed alla razionalità del finalismo umano. Dentro questo quadro si deve muovere la disciplina di partito; disciplina coordinata a quella del parlamento e rispettosa della personalità del parlamentare. È perciò, sia detto fra parentesi, che la partitocrazia debba riguardarsi come antitetica al parlamento, e ogni tentativo di partitocrazia essere tenuto in sospetto, come sintomo antiparlamentare. Il processo della formazione e funzionalità di un partito è volontaristico: s'inizia dal corpo elettorale che si organizza sull'affinità di ideali, interessi e scopi; si svolge nel ~ a r l a m e n t o costituendo gruppi di eletti in base ad affinità di programmi e di vedute; si attua nella discussione di proposte e di indirizzi sui quali si forma una maggioranza di intenti che, attraverso l'atto parlamentare, diviene volontà legislativa e politica. Introdurre in tale processo una norma di partito precostituita e rigida, sarebbe negare i l parlamento in radice; la regola del partito deve essere polarizzatrice di volontà libere sotto il doppio aspetto della convinzione personale e dell'autodisciplina. Solo così potrà dirsi che i partiti cooperano efficacemente, dai banchi della maggioranza e da quelli dell'opposizione, a formare la volontà parlamentare che, nel pieno rispetto di proce. dure regolamentari, diviene volontà popolare giuridicamente vincolante.

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Fissata così la natura del partito e della sua funzione in regime democratico parlamentare, resta da esaminare i l quesito: come il gruppo dovrà ridurre a disciplina il parlamentare che manca ai propri doveri in confronto al suo gruppo, e come i1 parlamento dovrà risolvere l'intimo conflitto di coscienza fra il rappresentante della nazione e l'uomo di parte. È detto sopra che i regolamenti dei gruppi parlamentari in tanto sono vincolanti per gli aderenti in quanto non contengano disposizioni antidemocratiche e siano in armonia .con i regolamenti parlamentari. Con lo stesso criterio si debbono valutare gli ordini dati dagli organi dirigenti e le deliberazioni prese dalle assemblee dei gruppi; non potendosi ammettere che di-


rettori e assemblee possano sovrapporsi al parlamento stesso e alle sue regole. Nel clima della passionalità politica, è lecito supporre che l'ipotetico conflitto di coscienza fra il rappresentante della nazione e l'uomo di parte possa essere sia negli uni che negli altri, sia nei singoli parlamentari che nei componenti gli organi direttivi. Dire che in tale conflitto debba prevalere il rappresentante della nazione sull'uomo di parte, è troppo facile, rispondendo a retta ragione. Ma, si è sicuri che al rappresentante della nazione non prenda la mano l'uomo di parte o che non vi si introducano elementi di contrasto per particolari interessi che offuscano la visione degli interessi generali? Non potendo entrare nella coscienza individuale, non resta che affidarsi a regole esterne che garantiscano la responsabilità di ciascuno e la dignità della persona. Non si ha motivo di credere una finzione l'affermazione del deputato che per motivi di coscienza dichiara non potere assoggettarsi alla norma adottata dalla maggioranza (gli organi esecutivi debbono sempre in democrazia potere fare appello alla maggioranza degli iscritti). Si potrà credere che si tratti di equivoco, di esagerata valutazione del proprio parere, di incompleta conoscenza del problema; si cerche& quindi, di convincerlo della bontà della decisione; non sarebbe il caso di esercitare un potere gerarchico con intimazioni disciplinari. Coartare la volontà del parlamentare e attenuarne la libertà necessaria all'esercizio del mandato parlamentare sarebbe un eccedere i limiti della disciplina di gruppo. L'uso delle pene disciplinari è giustificabile solo nelle mancanze procedurali e nelle offese personali; non mai per l'esercizio del mandato che tocchi la libertà d i parola e di voto, sia questo palese o segreto. Purtroppo questa distinzione non è tenuta in conto; si adotta spesso e se ne dà notizia sulla stampa, i l metodo di coercizione offendendo l a libertà parlamentare; cosa, a mio parere, che pu6 toccare perfino il codice penale. Due sono le vie da adottare in casi estremi: o la tolleranza, nella fiducia che lo studio e la discussione dei problemi concorrano a formare un'opinione comune sempre più valida e


vigorosa; ovvero, nel caso di dissensi sui principi o di turbamento della unità associativa, l'invito al collega dissidente a dare le dimissioni dal gruppo. All'espulsione preferisco l'invito alle dimissioni; ma se la prima serve a dare all'opinione pubblica un'impressione politica, che sia richiesta da circostanze eccezionali, anche la espulsione, servatis servandis come dicono i canonisti, sarebbe legittima. Al tempo del collegio uninominale i dissensi di partito potevano dar luogo, per i deputati più sensibili o per quelli più sicuri, alle dimissioni dal mandato e all'appello agli elettori. Col sistema proporzionale, ciò non è più possibile; le dimissioni da deputato portano la surroga automatica. Certo, chi è stato eletto sotto il segno di un partito, nel caso di dimissioni dal gruppo o di espulsione, dovrebbe lasciare il mandato, nei casi, s'intende, nei quali il motivo di dissenso riguarda il programma elettorale del partito o i principi cui il partito si ispira. Fuori di tali casi, basterebbe la dimissione dal gruppo e la iscrizione al gruppo misto o a un gruppo affine. Conclusione: la democrazia esige il rispetto della libertà individuale; questa, nei rapporti di nuclei e gruppi liberamente formati, esige soprattutto reciproca comprensione e autodisciplina. La vera democrazia è frutto di convinzione e di educazione; il tempo matura i frutti; le sforzature non gravano a creare l'ambiente adatto alle realizzazioni democratiche, sì bene alle deviazioni autoritarie e demagogiche. Si domanda: come potrà un governo, specie un governo di coalizione con brevi margini di maggioranza nelle due camere, reggersi a lungo senza una rigida disciplina dei gruppi? Infatti, parlamenti con una molteplicità di partiti e governi sui trampoli dei gruppi, come quelli della Francia di ieri e d i oggi, e come quelli dell'Italia dell'altroieri (periodo prefascista) e di oggi (periodo post-fascista), non si reggono a lungo, anche se i capi di governo si chiamino Giolitti e De Gasperi. Le crisi d i governo non dipendono dai conflitti di coscienza, nè dai voti singoli: dipendono dall'istinto individualista latino a creare partiti e partitini, a frazionarli in tendenze e sottogruppi in polemica fra destre o sinistre; daila formazione di rappresentanze di categorie sociali e dal ricatto che tanti fra-


zionamenti fanno alla maggioranza governativa. Questo non è problema di mancanza di disciplina individuale, ma dispersione di forze e crisi di parlamento. 13 febbraio 1955.

(La Discussione, 6 marzo).

I L PETROLIO E L'INTERESSE DEL PAESE L'on. Mattei, nella sua lettera al Giornale d'ltalia del 13 corrente mese, fa una specie di alternativa, se non antitesi, fra petrolio e metano, accusandomi di non avere occhi che per i l petrolio. Egli salta a piè pari la mia impostazione di metodo, e la mia aggiunta che con tale metodo si ottiene petrolio e metano, (( mentre con quello dell'ENI si ottiene il metano ma si rimanda a migliore avvenire la ricerca petrolifera e i vantaggi che ne derivano D. I1 mio interesse per il petrolio nasce dal fatto che I'ENI lo trascura nella Va1 Padana dove ne tiene i l monopolio, e il mio disinteresse (nella polemica sulle ricerche) per il metano deriva dal fatto che 1'ENI lo coltiva. Se poi tale ente di diritto pubblico lo coltivi bene o mediocremente o male, se lo utilizzi con criteri economici e con criteri politici, se lo voglia industrializzare con criteri di maggiore o di minore utilità, è altro affare; su questo punto vo facendo degli appunti, riservandomi a suo tempo e nei modi migliori di parlarne e di scriverne. Resta, pertanto, chiaro che i l petrolio non esclude i l metano, a meno che non avvenga quel che è stato più volte accennato da tecnici e da scienziati che dalla utilizzazione indiscriminata del metano ne derivi un danno agli strati petroliferi. Del problema si occupò l'accademia dei lincei, ai cui atti mi riferisco. Solo in tali casi bisogna scegliere: o petrolio o metano. La scelta non dipende dalla simpatia verso il metano o dalla antipatia verso il petrolio; dipende dai maggiori o minori vantaggi economici per il paese. Ciò detto per la chiarezza, anzi la limpidezza, della mia po-


sizione, tomo a fissare il problema negli stessi termini del mio articolo dell'll corrente: conviene per il paese aflrontare la ricerca petrolifera contemporaneamente con i più larghi mezzi possibili, privati e pubblici, ovvero limitarsi alle zone accertate e sicure, sfruttando per ora i l metano e rimandando a miglior tempo le ricerche del petrolio? 1). Siffatto problema non è stato affrontato fin oggi dai miei contraddittori, nè ( a quanto mi risulta) dal comitato interministeriale dell'ENI, nè dal CIR (che dovrebbe occuparsene, se d i ricostruzione si occupa i n qualche modo e se si occupa, perfino, di moltiplicare le raffinerie di petrolio, senza il petrolio nostrano e forse con petrolio di contrabbando); neppure dallo stesso ministro e relativa direzione generale dell'industria e commercio. La Sicilia è fuori discussione, perchè per fortuna è regolata dalla legge regionale del 1950 che ha dato la spinta alla ricerca, rendendone possibili le realizzazioni iniziali ma promettenti di petrolio e di metano. Mattei dice che ciò è merito dell'AGIP. A me interessa poco l'attribuzione dei meriti; se fosse così, 1'AGIP avrebbe agito (meglio agipito) troppo leggermente a lasciare la Sicilia agli altri; ma è tanto poco così che il prof. Gortani (oggi dell'ENI) ebbe a scrivere nel 1952 che nel ragusano non vi era speranza di petrolio. Del resto, anche il tecnico della Standard era stato della stessa opinione sia per l a zona di Ragusa che per quella di Siracusa. Non sarò io a svalutare i tecnici italiani (come insinua i l Mattei), tecnici anche valorizzati da ditte straniere. Dove Mattei manca di misura è nel pretendere che in Italia, la quale arriva tardi nella competizione petrolifera, si possa avere l'esperienza e l'attrezzatura delle grandi ditte internazionali. I1 suo stesso capo geologo, Giancarlo Facca, ha pubblicato su The Petroleum Times di Londra ( 4 febbraio 1955) un articolo fatto con competenza, serietà e modestia, ed è più vicino alle mie posizioni che a quelle di Mattei circa i fatti e i criteri delle ricerche in Sicilia. Chiudo la parentesi siciliana, che diede l'inizio a questa serie di articoli, per ritornarvi più in là a proposito di certe affermazioni correnti rilevate dall'on. La Malfa, e riprendo il tema d i questo articolo: è interesse del paese la simultanea ed efficiente ricerca di petrolio ( e anche quindi di metano con la


prudenza che scienza e arte suggeriscono) in tutte le zone in qualche modo indiziate e indiziabili non escluso il mezzogiorno continentale? ». Se la risposta è affermativa, come io credo, occorre che il disegno di legge Malvestiti n. 346, già da tempo alla camera dei deputati, venga sollecitamente discusso e approvato, e passi al senato per lo stesso motivo (ed io aggiungo: con procedura d'urgenza), per avere finalmente una legge sulla ricerca degli idrocarburi adatta alla nuova situazione. Governo e parlamento debbono sentire l'obbligo di non dilazionare ancora di più la soluzione di un problema che si trascina da molti anni e che va messo al primo piano della ricostruzione e della industrializzazione del paese. L'attenzione dell'on. La Malfa e d i altri non è stata attratta da questo problema, primo e fondamentale, ma da un altro, anch'esso interessante ma subordinato al primo. Egli sostiene che il disegno di legge Malvestiti non sia da adottarsi tale e quale e debba emendarsi. Non vi sono disegni d i legge perfetti, nè purtroppo, vi sono leggi perfette. Se il desiderio della perfezione dovesse fare arrestare la macchina della produzione, non avremmo pane, n è pasta, nè vino, n è farmaci e neppure leggi. Se la regione siciliana si fosse fermata al dubbio amletico: essere o non essere perfetta la legge del 20 marzo 1950 sugli idrocarburi, non avrebbe oggi quel complesso di permessi, ricerche e ritrovamenti che hanno messo la Sicilia sopra un piano d i industrializzazione che sarebbe stato impensabile prima di tale legge. Ciò non toglie l'obbligo degli amministratori a migliorare le posizioni iniziali, nè il diritto della critica seria e oggettiva che spinga a migliorare tali posizioni. La Malfa e altri biasimano, senza attenuazioni, il governo regionale su due punti: mancanza di garanzie e limite della percentuale regionale delle royalties: due accuse senza base. Le garanzie risultano da un disciplinare-tipo approvato dall'assessorato dell'industria sentito il consiglio regionale delle miniere del quale fanno parte giuristi e tecnici rispettabilissimi. Prima di tale disciplinare-tipo i contratti venivano regolati singolarmente su parere del consiglio delle miniere e quello del consiglio di giustizia amministrativa. A parte ogni altro motivo, il metodo


fu adottato (con le dovute garanzie) per il fatto che nell'inizio da u n lato doveva formarsi una esperienza pratico-amministrativa che non si improvvisa nè si fissa a priori; dall'altro si doveva dare una spinta a invogliare privati a fare ricerche in Sicilia, cosa non facile per la convinzione generalizzata che gli idrocarburi fossero solo nella Va1 Padana e in qualche zona delle Marche e degli Abruzzi, e per gli stessi precedenti negativi delle ricerche AGIP. La richiesta di ricerca in Sicilia fu accelerata ( e in ciò Vanoni e Mattei ne sono gli indiretti benemeriti) dal fatto che furono sospesi dal ministero dell'industria i permessi in alta Italia prima ancora della legge istitutiva dell'ENI. Chiuso a chiave il petrolio del nord si cercò il petrolio nel sud; mancando una legge di ricerche adatta nel resto del continente italiano, si andò alla disperata in Sicilia, invogliati dalla legge del marzo 1950 e per giunta, il che non guasta, dalla legge che abolì la nominatività dei titoli. La Malfa conosce tutto ciò, conosce anche il disciplinare-tipo pubblicato sul fascicolo di documenti del settembre 1954 dal titolo : « Petrolio in Sicilia )) ; non è comprensibile la sua aspra critica all'esperimento della Sicilia. La principale preoccupazione di La Malfa è quella di fissare per legge certe clausole del disciplinare in modo da togliere ai ministri ( e agli assessori regionali) quella discrezionalità amministrativa, e ai corpi consultivi (consiglio delle miniere e consiglio di stato e in Sicilia gli organi relativi) ogni adattabilità della legge alle condizioni di fatto. Su questo punto risposi a La Malfa con il mio articolo: « Amministrazione e idrocarburi D; quanto egli ha scritto dopo non attenua di una linea la mia posizione sia sotto il punto di vista della distinzione dei poteri: il Iegislativo e l'esecutivo; sia sotto quello della responsabilità amministrativa dei ministri ( e assessori). L'allarme di La Malfa e d i altri su questo punto è, secondo me, un falso allarme. Percentuale delle « royalties» della regione siciliana sugli idrocarburi estratti: il conteggio di La Malfa porta la percentuale netta che paga la Gulf (Ragusa) al 48 per cento, mentre la regione afferma trattarsi del 56 per cento. La differenza in meno viene dal fatto che La Malfa ha calcolato le royalties al 10,50

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sul ricavato lordo; mentre nel fatto la prima ~ e r c e n t u a l efu del 7 per cento; dopo un anno fu portata ( p e r accordo fra le parti) al 10,50; e dopo due anni al 12,50. Calcolando al 12,50 il ricavo effettivo, la regione arriva al 56 per cento. Da aggiungere ( e La Malfa non se n'è accorto), che le nuove concessioni sono state date con la percentuale del 20 per cento. 12 ovvio che trovato il petrolio la ricerca sia più richiesta e le percentuali si elevino.

Si deve anche aggiungere, a tranquillizzare tutti i La Malfa d'Italia, che le più elevate percentuali nei vari paesi petroliferi sono: il 16.2/3 in Canadà per la produzione di pozzi che dànno 4.000 e più barili a l giorno; nel Venezuela il 16.2/3 con la clausola 50-50; negli Stati Arabi il 17% (anche qua con l a clausola del 50-50); negli Stati Uniti i l 12,50 per cento per i terreni privati; dal 12,50 al 25 per cento nei terreni demaniali in rapporto alla produzione. I n Europa : Spagna, il 5 per cento, misura fissa; Germania, dal 5 al 12,50 per cento secondo la produzione. La preoccupazione delle concessioni fatte a ditte straniere (concessioni molto limitate in rapporto all'area siciliana e a quella statale) è u n motivo nazionalista, sfruttato dai comunisti; il pubblico sentimentale ci crede perché viene toccato u n tasto che fa effetto, tanto più effetto quanto meno si conosce il problema. Se a ciò si aggiungono tutte le questioni tecniche, finanziarie, amministrative e giuridiche agitate da La Malfa e da altri dentro e fuori del parlamento, nonchè la propaganda dellYENI su quasi tutti i giornali italiani e su giornalini e riviste di provincia, è facile arrivare alla conclusione: niente ricerche, niente concessioni, niente petrolio; il nichilismo. Leggi rimandate; capitali nostrani impiegati in altri settori; capitali stranieri molto di 1.à da venire. I n sostanza: il peggio che ci potrebbe capitare; compreso il monopolio dell'EN1, il cui presidente afferma, nella citata lettera del 13 di questo mese: « Allo stato attuale della tecnica, i l fatto che nella Valle Padana si estraggano quantitativi ingenti (sic) di metano e relativamente (agli ingenti?) modesti di petrolio, deve pertanto imputarsi a fattori naturali 145 IO - Sicnzo

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Politica di questi anni.


e non a decisioni di politica aziendale. I1 sen. Sturzo è però convintissimo che il petrolio abbondi nel nord n. Non sono convintissimo che abbondi; sono convinto che, nonostante i fattori naturali di cui parla Mattei (che corrispondono alla « eterogeneità dei terreni » di cui parla La Malfa) ditte italiane e straniere hanno chiesto e tornano a chiedere permessi di ricerca in Va1 Padana. È per questo che ripeto il dilemma (al quale nessuno fin oggi ha risposto): cc Se non c'è petrolio nella Valle Padana, perchè negare agli americano di fare trivellazioni a vuoto spendendo dollari e impiegando mano d'opera? E se c'è, nonostante la eterogeneità dei terreni, perchè lYENIsi limita a cercare solo metano? N. Attendo finalmente da qualcuno dei miei contraddittori una risposta precisa a questo dilemma. 20 febbraio 1955.

( I l Giornale d'ltalia, 24 febbraio).

PETROLIO E METANO (*) Onorevole direttore, Se l'on. Mattei avesse fatto attenzione al mio accenno alla discussione avvenuta all'accademia dei lincei sui rapporti fra metano e petrolio, non avrebbe scritto di essere (c curioso di sapere dal sen. Sturzo come giustifica l'insinuazione che 1'ENI possa danneggiare gli strati petroliferi con la utilizzazione indiscriminata del metano ». Non è per Mattei, ma per il pubblico dei lettori che può credere abbia io fatto insinuazioni polemiche senza base, che mi affretto a dare una risposta con termini che rilevo dalla lettera di un tecnico. c< Nella maggioranza dei casi, è proprio vero che metano, petrolio ed acqua, sono presenti in unico giacimento. E pre(*) Lettera al direttore de Il Giornale d'ltalia.

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cisamente l'acqua è in basso, in mezzo il petrolio, e sopra il gas. I1 metano è appunto quello che dà la spinta al petrolio per salire nel pozzo. Quando non c'è metano, il petrolio non sale e bisogna pomparlo. In molti pozzi americani quando è diminuita la spinta, anzichè pompare si preferisce immettere nel giacimento altro metano (estratto da giacimenti prossimi che ne hanno in esuberanza) per dare nuova spinta al petrolio. È vero che talvolta per volere estrarre il metano si compromette l'estrazione del petrolio: nel senso che poi, trovato il petrolio, questo deve essere pompato ed il suo costo aumenta notevolmente. Non solo, ma il petrolio può invadere lo strato sabbioso che era occupato dal metano, ed allora è definitivamente perduta quella quantità di petrolio che bagna i granelli di sabbia e che occupa gli interstizi. Si h a dunque una perdita netta per il petrolio che resta sotterra e non può essere estratto; a meno che non si disponga di metano a pressione proveniente da altrove, da insufflare entro il giacimento mediante apposito pozzo. Dichiarazioni in tal senso furono fatte dal dr. Miller, della Standard Oil e capo delle ricerche della Soc. Petrolifera Italiana (S.P.I. di Fomovo Taro) al convegno tenuto presso l'accademia de lincei. Tale verità del resto fu detta anche ai congressi di Padova (1948) e poi di Milano, sui problemi degli idrocarburi in Italia; e si trova consacrata in molti trattati n. Potrei riportare anche una lettera a me diretta parecchi anni fa dal sen. Gortani; ma non avendone chiesto il permesso di pubblicazione, me ne astengo. Questo scrivo per la verità e anche per la mia dignità. Spero, on. direttore, di non abusare della sua cortesia; la prego di credere che non avrei scritto la presente, se non fossi mosso da motivi superiori, nei quali non entra affatto alcun risentimento personale, conoscendo bene quale sia i l dovere cristiano anche verso chi offende. Distinti saluti Luigi Sturzo 28 febbraio 1955.

( I l Giornale d'Italia. 2 marzo).


ANCORA SULLE RICERCHE DI PETROLIO (*) Onorevole direttore, Desiderando dare una risposta chiaritiva all'on. La Malfa, mi permetto dirigere a Lei la presente lettera, anzitutto per giustificarmi dell'uso fatto della relazione sul problema degli idrocarburi, distribuita su fogli ciclostilati. Non ho avuto il sospetto che si trattasse di relazione riservata, non avendo la lontana idea che sopra problemi di interesse generale vi fossero due modi di vedere, uno per uso dei dirigenti del partito e l'altro per uso del pubblico dei lettori. Ero sicuro che la relazione pubblicata su La Voce Repubblicana, salvo tagli per ragioni di spazio, fosse la stessa di quella del fascicolo ciclostilato; e preferendo, per ragioni visive, ai resoconti su fogli d i giornale quelli su fogli a quaderno, anche se ciclostilati, ho finito per usare quest'ultimi nelle mie citazioni. Debbo del resto ritenere che l'on. La Malfa non abbia, nelle varie sue manifestazioni, tradito il suo pensiero; ma che 10 abbia adattato alle fasi della polemica e a dati in suo possesso al momento di manifestarlo. Ciò posto, prendo atto di quanto egli scrive avere, cioè, la regione siciliana  fatta un'ottima e moderna pubblicazione (Petrolio i n Sicilia), e avere emanato una legge anche migliore sotto certi punti di vista, del disegno di legge che si trova dinnanzi al parlamento e che proprio la formulazione di un disciplinare-tipo rappresenta un notevole progresso rispetto a precedenti criteri amministrativi n. Correggo di conseguenza le impressioni recatemi da certe affrettate affermazioni della relazione, pur mantenendo per mio conto le giustificazioni al metodo seguito dalla regione nel primo periodo dell'attuazione della legge sugli idrocarburi, che in concreto non ha dato, a mia conoscenza, inconvenienti degni di rilievo. (*) Lettera al direttore de h Voce Repubblicana

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Lo stesso debbo dire delle affermazioni di La Malfa su La Voce Repubblicana a favore delle ricerche degli idrocarburi nel mezzogiorno. La mia critica era rivolta al fatto che La Malfa fece sua la qualifica di strana data da Mattei alla teoria che l'ente statale debba, se necessario nell'interesse della collettività, correre maggiori rischi che non i privati; teoria questa tradizionale e sana, che oggi è forse reputata passatista. Per la sincerità della polemica debbo aggiungere che mantengo il mio punto di vista sulla differenza fra sistema legislativo e sistema amministrativo; e di conseguenza, reputo che certi emendamenti di La Malfa al disegno di legge sugli idrocarburi potranno essere controproducenti rendendo più difficile la richiesta di ricerca petrolifera nel mezzogiorno. Spero di ingannarmi. Per giunta, lo stesso La Malfa, coerente alla posizione già presa, ha voluto che fosse riconfermato e rinsaldato il monopolio dellYENI nella Va1 Padana chiudendo la porta aprioristicamente a qualsiasi proposta che avesse collegato le ricerche nel mezzogiorno con quelle della Va1 Padana. Questo è per me grave sbaglio nell'interesse del mezzogiorno e anche nell'interesse generale. Se, a quel che si afferma, non si ha speranza, allo stato attuale, di trovare petrolio in alta Italia, e le stesse dichiarazioni di Mattei non sono confortanti, cosa risponderà La Malfa al mio dilemma: (< Se nel nord non c'è petrolio, perchè impedire alle ditte private italiane ed estere a farne ricerca a loro rischio e spese? e se c'è, perchè impedire che venga coltivato? D. Accetti, egregio direttore, i miei ringraziamenti per l'ospitalità accordatemi. Luigi Sturzo lo marzo 1955.

(La Voce Repubblicana, 4 marzo).

47. SINISTRISMO POLITICO Sono bastati una stretta di mano tra Nenni e Saragat, una frase di dubbio significato di Dugoni, un periodetto dell'dvanti!,


perchè i l virus del sinistnsmo, latente i n certe zone del quadripartito, venisse sensibilizzato e ridestasse non dubbi fenomeni al centro e alla periferia. Si d'a l a colpa alla instabilità dei partiti minori detti laici; ma non sarebbe in causa il laicismo, sarebbero in causa Saragat del novembre, Malagodi del gennaio, Pacciardi-La Malfa, sia pure all'esterno della coalizione, del corrente marzo. Non esageriamo: la pretesa della concordia assoluta in un governo quadripartito non si confà al mondo d'oggi quando vi sono notevoli e pubblici dissensi fra Washington e Londra, fra Londra e Parigi, fra Parigi e Bonn e così di seguito. Nel caso in esame, non è i l dissenso che conta, è la velleità (non dico: minaccia o ricatto) di abbandonare la barca del governo alla deriva e riprendere l a propria libertà. Libertà di che? di passare all'opposizione insieme a i socialcomunisti e, se del caso, insieme ai missini? Buttare tutto in aria? andare verso lo scioglimento delle due camere e le elezioni generali? Chi fa della politica seria deve pur prevedere le conseguenze dei propri atti e stabilire in tempo il modo di affrontare i pericoli che ne derivano. Uno di questi è il sinistrismo latente che riappare con l'attesa di quell'apertura nenniana, che avvelenò i mesi estivi del 1953. A due anni di distanza, nei quali Nenni h a sempre mantenuto effettivi ed efficienti i legami con i comunisti e ne h a seguito fedelmente l a linea politica sia nella opposizione antieuropea, sia nella lotta alle più elementari esigenze dello stato democratico italiano, non si sa come si possa prevedere che Nenni cambi politica per addivenire ad un'intesa con i partiti democratici, anche se questi buttano a mare Malagodi e soci. Ammettiamo pure tale ipotesi; i nostri democratici sinistroidi abbiano la bontà di dirci quale il prezzo e quali i rischi dell'operazione. Dal punto di vista internazionale si tratta di un'operazione senza base: che Nenni, dopo sette anni di lotta possa essere sincero nel rinfoderare il suo passato e collaborare con i democratici del patto atlantico e dell'U.E.O., non è da mettere in conto; che i democratici possano attenuare o non eseguire i patti scritti e gli impegni presi, in senso difensivo, è vero, ma con politica decisa e chiara, non è da potersi discutere. Anche


noi auspichiamo una distensione internazionale e il controllo degli armamenti, ma non ammettiamo che ciò possa essere avviato sul binario bolscevico, sì bene su quello della franca cooperazione dell'occidente, America compresa. Siamo ancora alle premesse che si chiamano NATO e UEO, e niente affatto alla neutralità e al disarmo unilaterale. Da questa linea, i democratici non possono deflettere; dovrebbero Nenni e i suoi avvicinarsi al traguardo occidentale, non viceversa. Si dice: l'apertura a sinistra non significa collaborazione sul piano internazionale e quindi neppure sul piano governativo; in un primo tempo basterebbe una benevola attesa sul piano parlamentare che permetta l'astensione del P.S.I. differenziata dall'opposizione del P.C.I. La politica è unitaria, o non è politica: l'astensione del partito socialista italiano nei voti parlamentari non potrà essere una semplice tattica, alla quale sarebbero indifferenti i comunisti, ma dovrebbe avere un contenuto politico. L'ipotesi di accordi col governo per determinate riforme economico-sociali senza mire politiche, elettorali o governative che siano, manca di base. Se l'astensione servirà a dare al governo la maggioranza che non ha, il governo resterebbe prigioniero di Nenni, e ricattato ad ogni passo; se invece servirà a rafforzare la tenue maggioranza che il governo avrà per conto suo, il dono resterà gratuito e l'utile reciproco del servizio potrà sfumare alla prima occasione. Troppo poco per Nenni, troppo costoso per il governo. Manca quindi qualsiasi carattere strettamente politico che possa derivare da una posizione di sinistra che la nebbia delle parole non ha chiarita. Ma gli effetti negativi che derivano dalla semplice ipotesi di tale apertura a sinistra, sia pure circondata da riserve, sono così gravi che i dirigenti dei partiti democratici hanno il dovere di correggere subito, evitando i l diffondersi di speranze vane e di amplificazioni fantastiche. I1 nostro pubblico, reso dalla stampa ipersensibile ai continui incontri dei quattro per chiarire e rettificare, rivedere e aggiornare la collaborazione governativa, è incline a svalutare ancora di più l'attuale quadripartito, e prevede la crisi come un capitombolo senza rimedi. Tutto ciò quando i partiti hanno l'abitudine di esporre in


cifre e in schemi tutto quel che si è fatto e si sta facendo da un anno a vantaggio del paese. Non parliamo delle proposte a getto continuo e dei disegni di legge approvati e da approvare; ci limitiamo alle realizzazioni ottenute in questo anno di quadripartito non solo nel settore degli affari esteri (Trieste, UEO), ma anche all'interno: imposta sulle società, perequazione tributaria, legge delega, decentramento amministrativo, fitti urbani, consiglio dell'economia e del lavoro, e così di seguito, da sembrare incredibile che un governo a maggioranza limitata abbia potuto sgombrare dal campo dei rinvii e delle postergazioni e delle incertezze un così largo numero di problemi che erano rimasti insoluti nella legislatura precedente; allora la D.C. aveva per sè sola una discreta maggioranza, e i piccoli partiti (che giocavano all'altalena) erano, salvo certe parentesi, in sostanza governativi. Ora l'altalena continua e la D.C. è in minoranza. Ironia delle cose. Qualche mese fa si parlò di lotta al comunismo; ora tace anche questa, non certo per Nenni. Da parte mia piace ripetere che a base di tale lotta deve esservi i l risanamento dell'amministrazione, colpendo coloro che scantonano, siano di sinistra, di centro o di destra senza distinzione di colore, curando il ristaà e dell'autorità dello stato. bilimento della m ~ r a l i t ~pubblica A far ciò occorre anche che le preoccupazioni di crisi govemative e di appello al paese siano allontanate, dando a i ministri la possibilità e i l tempo di rendersi padroni della barca. I n tutta la faccenda della stabilità governativa che ha dato luogo alle velleità dei sinistroidi, bisogna avere presente che la situazione di oggi è conseguenza dell'esito delle elezioni del 1953, quando furono ridotti i margini della democrazia, rendendo difficile la formazione e la durata del governo. I1 difetto non viene dalla limitatezza della maggioranza, difetto che la storia registra in non pochi casi del sistema parlamentare di tutti i paesi. I1 difetto attuale italiano proviene dal sinistrismo, che diffuso nel paese crea l'aspettativa della riforma incantatrice, della rivoluzione a colpi di leggi, della prosperità repentina senza sacrifici; trasformando il sinistrismo politico in sinistrismo economico. Ma di questo in un prossimo articolo. 20 marzo 1955

( I l Giornale d'ltalia, 23 marzo).


SINISTRISMO ECONOMICO L'apertura a sinistra, motto magico per non pochi della politica militante, parte dalla convinzione che solo a sinistra si trovi la soluzione dei mali sociali. Da qui gli altri motti: - immobilismo del centro, reazione della destra, superamento della borghesia Simile concezione del bene e del male nei rapporti sociali, così semplificata e così radicata nella mente e nel portamento politico dei socialisti tradizionali e del sindacalismo di sinistra, trova adesione in gran parte delle organizzazioni operaie a qualsiasi settore politico appartengano e in non pochi settori di quella classe politica che usa fare appello alla base »; a parte coloro che, scrutando il vento che spira e non desiderando diminuire di popolarità, si orientano a sinistra, più a sinistra che è possibile, anche all'interno del proprio partito, per timore di essere scavalcati nel gioco delle preferenze elettorali. Comunque sia, i centristi dell'epoca del partito popolare e i difensori convinti delle posizioni di destra nella vita pubblica italiana di questo dopoguerra, sono ridotti al lumicino: oggi la corsa è a sinistra. Ecco perchè l'apertura a sinistra è per molti una frase di inusitate attrattive, mentre il centrismo non desta simpatia. La D.C., per definizione partito di centro, è stata più volte accusata di immobilismo e l'accusa è partita dagli stessi democristiani che, per convinzione e per occasione, sventolano la bandiera di sinistra. Non sarò io a fare l'elenco di quel che in dieci anni si è fatto in Italia sia nel campo della ricostruzione post-bellica come in quello dei rapporti sociali e dell'assistenza. Le mie critiche sono state mosse dagli sbagli che il sinistrismo ha fatto fare ai governi, non dalle iniziative coraggiose dal dicembre 1945 in poi. Non sono mancate giustificazioni alla collaborazione politica con il socialcomunismo per i due anni 1945-'47 (la precedente collaborazione fu imposta dagli alleati); neppure sono man-

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cate giustificazioni all'interventismo statale in settori che potevano essere facilmente lasciati all'iniziativa privata. L'errore, che si è andato sviluppando, e al cui dilagare sembra non si possa opporre una diga efficace, è la cieca fede nello statalismo economico e la ostilità crescente all'iniziativa privata, ogni qualvolta tale alternativa venga presentata ai partiti e alle camere. Ne consegue che lo stato ha sempre bisogno di maggiori mezzi per fare fronte alle continue richieste di intervento; maggiori mezzi che vengono sottratti all'investimento privato. E mentre viene scoraggiata l'attività dei cittadini, viene inflazionata quella degli enti creati nel passato e moltiplicati nel presente. Tale processo segna curve di maggiore o minore efficienza secondo l e oscillazioni prodotte da interventi di eccezionale portata: piano Marshall, prestiti interni ed esteri, cassa mezzogiorno, enti agrari di riforma, ENI. Nel complesso, l'aumento della spesa pubblica non si arresta; l'interventismo statale rafferma l'iniziale statalismo delle democrazie moderne, e conduce, per vie equivoche, al socialismo di stato. Credono gli amici della sinistra D.C. che sia questa la via per i l benessere del nostro paese? e che ciò risponda ai più sani criteri di politica democratica e agli ideali stessi del loro partito? L'errore fondamentale dello statalismo è quello d i affidare allo stato attività a scopo produttivo, connesse ad un vincolismo economico che soffoca la libertà dell'iniziativa privata. Se nel mondo c'è stato effettivo incremento di produttività che ha superato i livelli delle epoche precedenti ed ha fatto fronte all'incremento demografico, lo troviamo nei periodi e nei paesi a regime economico libero basato sull'attività privata singola o associata. Non si riscontra simile prosperità, diffusa i n tutta l a popolazione, sotto i regimi vincolistici delle monarchie assolute dell'ancien régime, nè sotto le dittature militari e popolari del secolo scorso e del presente. E se la prima industrializzazione, teorizzata dal liberalismo economico, ci si presentò in termini di libertà spregiudicata e sfruttatrice, bisogna tener conto sia della reazione al vincolismo che s'andava scuotendo (statale e corporativo), sia del-


l'euforia della produzione capitalista. Fu allora che si sostenne la teoria dello stato indifferente ai problemi etici e sociali e la più completa fiducia nel gioco economico. Periodo superato questo in tutti i paesi civili, sia con le leggi sociali che gli stessi liberali laici, insieme alle rappresentanze dei partiti cattolici di allora, adottarono sotto la doppia spinta ~ r o l e t a r i a ed etico-religiosa; sia con la formazione contrastata prima, vittoriosa dopo, dei sindacati socialisti e cristiani. I n questo processo, si passò dall'accentramento e dalla sterilit-à della ricchezza nelle mani delle classi nobili e delle manomorte alla distribuzione e produttività delle classi medie; la proprietà individuale e cooperativa si diffuse e si diffuse l'artigianato, il livello della vita economica si andò elevando, anche per le classi operaie, come mai nel passato vincolistico, sia il medievale e il rinascimentale sia il moderno fino alla prima metà del secolo scorso. L'accesso delle classi lavoratrici alla piccola proprietà non è da oggi: ma oggi viene accelerato in forme più adatte alla struttura moderna, anche se questo fatto attenua in certa guisa lo slancio produttivo della grande azienda. Quel che preoccupa, nel rinnovamento sociale presente accelerato e pur deformato dagli effetti delle due grandi guerre, è l'esagerato interventismo statale, fino a rifare una nuova manomorta di beni urbani e rurali, a creare un capitalismo statale di partecipazioni dirette e indirette alle aziende produttive, e a tentare un'industria di stato privilegiata e garantita. L'Italia ha provato nel passato regime il dirigismo, l'autarchia e la creazione dell'IRI a titolo provvisorio di liquidazione. Ma nulla è più duraturo del provvisorio; nulla è fuori della liquidazione che quella fatta dallo stato a scopi politici. Quella parte della nostra industria, inflazionatasi per gli affari mal condotti nella prima guerra mondiale, doveva ridimemionarsi e liquidarsi; lo stato poteva, dal di fuori, favorire l'una o l'altra operazione con meno scosse possibili. L'operazione IRI sembrò saggia, salvò buone e cattive imprese; inflazionò le partecipazioni statali e creò un cattivo esempio per l'avvenire. Trasferire il capitale privato allo stato, e farlo operare nei


larghi settori dell'industria, agendo come azienda ~rivatistica nei contratti con i terzi: clienti, fornitori e operai; ma amministrando con la sicurezza che l'azionista unico o maggioritario ingoierà tutti i rospi e finirà per saldare tutti i deficit, porta danno al paese, alla sua economia e alla stessa classe operaia. Continuare nel sistema, credendo che lo stato, cioè la pubblica amministrazione, possa correggersi, è follia; proprio quella follia che comunisti e socialisti di marca portano come soluzione del problema economico moderno; ma della cui soluzione non abbiamo un solo esempio che sia probante, neppure nella felicissima Russia >I, neppure nei paesi satelliti, fra i quali la Cecoslovacchia che, come paese libero, conobbe i progressi agrari e industriali del primo dopo guerra; la Polonia e ancora più i paesi baltici, che dopo la liberazione dal giogo degli zar di Pietroburgo, si avviarono, in clima di libertà, verso una prosperità mai prima conosciuta. Del resto, gli esempi di paesi come l'Olanda, il Belgio, la Svizzera, il Lussemburgo, a non parlare dei maggiori: Stati Uniti d'America, Canadà, Australia, Nuova Zelanda, e aggiungo anche l'Inghilterra e la Francia, pur tormentati come sono dal dirigismo del dopo guerra, e meglio ancora la Germania occidentale che in cinque :anni h a ripreso vigore e forza, dànno la prova d i che cosa sia, nella prevalente economia privatistica, il benessere e lo sviluppo della classe lavoratrice, in collaborazione da pari a pari con i datori di lavoro. Non manca l'intervento dello stato in tali paesi, intervento razionale nel campo fiscale, opportuno in quello creditizio, e anche, sotto forma dirigista, in certi settori di particolare difficoltà. Ma quando si arriva alle statizzazioni o nazionalizzazioni industriali (miniere di carbone in Inghilterra, elettricità in Francia e simili) se ne lamentano gli effetti deleteri, anche se possono registrarsi certi vantaggi immediati che si scontano strada facendo. Ma altro è il tentativo di risolvere un dato problema con la statizzazione (noi abbiamo le ferrovie di stato e la statizzazione o demanializzazione del sottosuolo); altro è andare soffocando le attività dell'economia privata attraverso l'infla-


zione degli enti sorretti da finanziamenti di stato, da partecip z i o n i azionarie di stato, da privilegi e monopoli di stato. Tali enti sono in balia delle fluttuazioni politiche. Non è il governo che gestisce: il governo influisce politicamente; non sono i partiti che gestiscono: i partiti influiscono politicament e ; sono, è vero, i funzionari che gestiscono ma senza effettiva responsabilit.à, perchè dietro di loro c'è i l ministero competente per definizione ma spesso incompetente; non sono i privati chiamati alla gestione di tali enti ad assumerne le responsabilità, perchè ad ogni momento possono ricevere ordini palesi o segreti, dei quali nessuno risponde. Così si crea u n capitalismo irresponsabile, poco e niente redditizio, che oggi va assurgendo a dirigente effettivo della vita economica del paese. I vantaggi dello stato? nulli; anche nel settore fiscale lo stato riceve meno di quanto dovrebbe, perchè gli enti pubblici sono, fino a l momento in cui scrivo, o privilegiati o evasori, e sempre evasori per la parte non privilegiata. Nessuna entrata attiva va allo stato, tranne qualche briciola per ubbidire a certe percentuali fissate da leggi; in compenso le passività sono coperte al 100 per 100; e più passività si fanno (anche illegalmente e perfino dolosamente) e più lo stato interviene. Non ho visto un solo amministratore portato avanti la corte dei conti a l redde rationem. Quale maggior contributo politico della democrazia alla realizzazione del socialismo di stato? e quale più efficace mezzo per lo slittamento verso il comunismo? Ci pensino i sinistroidi della D.C. a tale prospettiva. Quando sento i Pella, i Campilli, i Fanfani e perfino i Vanoni parlare a favore dell'iniziativa privata, mi domando se le loro parole sono ancora valide, e se essi si rendono conto della rotta che si è andata prendendo in Italia attraverso lo statalismo economico sempre più invadente e alla fine irrefrenabile. 24 marzo 1955.

( I 1 Giornale d'ltalia, 27 marzo).


RAPPORTI CON GIOLITTI (*) Esimio direttore, Segnalatomi da un amico, leggo con qualche giorno di ritardo l'articolo di a.f. su La Nuova Stampa del 25 marzo, nel quale si fa allusione alla mia persona, quale segretario politico del partito popolare italiano, attribuendomi intenzioni e frasi destituite di fondamento. Debbo escludere recisamente che io abbia, in qualsiasi mio scritto e discorso, non solo durante il mio segretariato (18 gennaio 1919 10 luglio 1923), ma neppure prima e dopo di tale periodo, affermato il principio: « partito forte governo debole 1). Inoltre, è del tutto arbitraria la ricostruzione che fa a.f. dell'unico colloquio avuto con Giolitti durante il suo ultimo ministero (giugno 1920-luglio 1921). Questo avvenne per iniziativa dell'on. Gronchi, allora deputato e segretario generale della confederazione italiana dei lavoratori; egli desiderò essere accompagnato dall'on. Tovini, segretario del gruppo dei deputati popolari, e da me in veste di segretario del partito. Lo scopo, esposto dall'on. Gronchi, fu quello di indurre il presidente ad accettare la proposta di quella confederazione a favore dell'azionariato operaio in occasione del disegno di legge sulle commissioni operaie nelle fabbriche, che era stato richiesto dalla confederazione socialista. L'on. Giolitti non accolse la proposta della confederazione bianca (come allora si chiamava), dicendo che ciò era fatto nell'interesse di un partito ; al che io risposi essere la proposta nell'interesse generale nonostante che fosse caldeggiata dai rappresentanti di un partito; come, del resto, era anche l'altra delle commissioni delle fabbriche, richiesta e caldeggiata. dai socialisti. A questo punto, Giolitti si risentì dicendo che egli rappresentava il paese e non i partiti. Ma, dopo le insistenze d i To-

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(*) Lettera al direttore de La Nuova Stampa

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vini e Gronchi, egli consentì che la proposta dell'azionariato operaio fosse allegata alla proposta governativa. Di questa vertenza feci u n cenno sommario nelle pagine 99 e 1'00 nel mio libro: Ztaly and Fascismo, pubblicato a Londra nel 1926. La prego, signor direttore, di consentire che questa mia precisazione venga pubblicata come è l'uso giornalistico. Ringraziamenti e distinti saluti Luigi Sturzo 30 marzo 1955.

( L a Stampa, 2 aprile)

SEGRETARIO POLITICO GOVERNO E PARLAMENTO Laudator del Globo, riprendendo il tema di Frassati sulla Stampa, conchiude per la ineluttabilità della partitocrazia, derivante più dalla estensione dell'elettorato e dal sistema proporzionale, che dalla volontà dei capi, sia pure investiti di funzioni così imponenti quali quelle di un moderno segretario politico. I ricordi di Frassati del periodo giolittiano sarebbero, più che altro, malinconie di u n periodo sorpassato. Essendo stato tirato in causa da Frassati e ricordato da Laudator, - a parte la rettifica già fatta con mia lettera alle affermazioni a me attribuite a proposito di un episodio che Giolitti non ricordò nelle sue memorie, - mi sembra doveroso interloquire in merito, essendo stato in Italia i l primo segretario politico che per quattro anni e mezzo seguì una sua linea ed ebbe u n rilievo nella vita del paese da nessun altro segretario politico raggiunto prima o contemporaneamente, nella competizione fra partiti. Si noti anzitutto che il partito popolare italiano non ebbe mai un presidente: chi doveva presiedere ai congressi e alle sessioni del consiglio nazionale veniva di volta in volta nominato alla funzione regolatrice dei dibattiti. Anche i parlamentari popolari non ebbero presidenti, fino a quando, eletto dopo le elezioni del 1921 l'on. Cavazzoni a segretario del gruppo, si


credette opportuno conferire l a presidenza del direttori0 all'on. De Gasperi. Un'altra nota singolare fu quella di un segretario politico non parlamentare. A parte l a mia posizione di prete in periodo d i conflitto potenziale fra chiesa e stato vigente ancora un non expedit moralmente caduto ma non ufficialmente ritirato (l'abolizione venne nel novembre successivo alla fondazione del partito), l a distinzione di carica tra i l leader del partito e il parlamentare piacque allora per due motivi: anzitutto per segnare u n distacco dalla politica di compromessi alla quale erano stati abituati i cattolici, parlamentari o no, nella loro attività sia alla camera sia nelle amministrazioni locali; in secondo luogo, per influire con maggiore efficacia sull'indirizzo politico del paese, anche ipotizzando il passaggio del partito alla opposizione governativa. Così l a figura del segretario ~ o l i t i c odel partito popolare ebbe u n contenuto diverso da simili cariche già in uso nell'organizzazione dei vari partiti negli stati costituzionali europei. In Italia, i partiti costituzionali (liberali o radicali dalle varie sfumature) erano piuttosto degli aggruppamenti parlamentari con clientele personali e con un minimo di organizzazione locale. Giolitti, Salandra, Nitti, Amendola erano a capo dei rispettivi gruppi di Montecitorio. I socialisti avevano u n parlamentare come segretario politico; ricordo l'on. Serrati, i l quale, autorevole nel partito, non ebbe figura di primo piano nella politica nazionale, e nello stesso partito faceva maggiore presa, nell'ultirno periodo, il vice segretario Arturo Vella. I1 vero capo dei socialisti, o meglio, leader parlamentare, era Filippo Turati, nonostante la tendenza riformatrice ch'egli rappresentatava, e che finì col distacco. I n Inghilterra e negli altri paesi anglosassoni, era ed è regola che i l capo del governo sia allo stesso tempo capo del partito di maggioranza e viceversa; e i l capo dell'opposizione di S.M., che ha u n posto a sè in parlamento e presso la corona e riceve speciale indennità (salary), sia il capo del partito di minoranza e viceversa; gli altri partiti se esistono, hanno sempre u n deputato tanto come leader alla camera dei comuni che come capo del partito. I1 dualismo italiano fra governo e se-


greteria politica dei partiti (non importa se il segretario appartenga o no al parlamento), non è mai esistito nè esiste nei paesi anglosassoni, a l punto che negli Stati Uniti il presidente, eletto dal corpo elettorale di tutti gli stati, è allo stesso tempo rappresentante della federazione, capo del governo e capo del partito di maggioranza. Negli altri paesi europei l a figura del segretario politico del partito o non esiste, ovvero si confonde con i l leader parlamentare, ovvero si avvicina a l sistema italiano. Nel periodo del partito popolare, la funzione del segretario politico, all'interno dei gruppi parlamentari (camera e poi anche senato), fu quella di limitarsi a intervenire alle riunioni esprimendo il proprio parere; nei casi di partecipazione ai gabinetti - Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta, - veniva sentita l a direzione del partito. Mai si ebbe u n conflitto fra segretario politico e gruppo, tranne i l caso del primo ministero Facta, conflitto che non ebbe seguito perchè la direzione si riserbò d i portare il caso aI congresso. Gli avvenimenti successivi: - conferenza internazionale di Genova, crisi Facta in luglio e marcia su Roma, - fecero passare l'attualità del ~ 0 ~ f l i t et 0rinviare il congresso fino all'aprile del 1923. Per il resto, la segreteria serviva di propulsione al gruppo p e r l'attuazione dei punti programmatici fissati dal congresso: proporzionale, colonizzazione e patti agrari, esame d i stato, autonomie municipali e regionali, azionariato operaio, parità delle confederazioni sindacali e simili. La cosiddetta preponderanza dell'attività del segretario politico su i gruppi parlamentari fu una fiaba nata col veto a Giolitti e ingrandita dalla figura eccezionale di un prete a capo d i u n partito, i cui discorsi e articoli destavano interesse o risentimento in molti settori della pubblica opinione. Ciò nonostante, debbo riconoscere che, pur nei limiti di una attività contenuta e rispettosa delle competenze del gruppo e dell'autorità del parlamento, un segretario politico extra-parlamentare ed extra-governativo può riuscire disturbante in quanto assurge a figura autonoma nell'attività politica. I1 metodo anglosassone è il più conforme al sistema parlamentare anche in democrazia. I1 De Gasperi della ripresa dal 1945 al 1953 ebbe l a fortuna di essere capo del governo e allo stesso tempo capo della maggioranza e presidente del partito. I segretari politici:

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Politira di questi axni.


Piccioni, Cappa, Taviani, Gonella, pur avendo, chi più chi meno, propria personalità, evitarono sempre qualsiasi conflitto con De Gasperi presidente del consiglio nazionale o con De Gasperi capo del governo. I dissensi e le diversità di vedute venivano corrette o col rimando o col compromesso o con la condiscendenza di uno dei due. La superiorità morale d i De Gasperi era sentita dai suoi collaboratori, e anche la dualità non divenne mai dualismo. Ma il dualismo era nelle cose e venne fuori con il ministero Pella e finì con la prevalenza del partito sul governo, al punto da eliminare il naturale giudice del conflitto, quale 6 il parlamento, col creare una crisi extra-parlamentare. Oggi la situazione governo-partito è normalizzata, non così che non spunti sui giornali una specie di dualità (non dico dualismo) Scelba-Fanfani, o Fanfani-Scelba, per la personalità marcata sia del capo del partito che del capo del governo. La buona volontà dei due fa superare le difficoltà che spuntano sul cammino. Altra esperienza è quella che van facendo i liberali dal giorno che l'on. Malagodi ha portato il suo partito fuori del limbo, ed h a voluto darvi un'impronta garibaldina (Cavour non c'entra e neppure Giolitti). I n sostanza: il conflitto fra partito liberale e governo è latente e viene più o meno fuori al momento che le esigenze del partito, ingrandito dalla personalità dinamica del segretario politico, si fanno prevalenti. L'on. Saragat essendo, alla inglese, capo del partito socialdemocratico e capo dei ministri di tale colore, è costretto a sentirne il conflitto nella sua propria persona, che quindi oscilla spesso fra il dovere di vice presidente e quello di uomo di parte. Lo stesso avverrebbe se Pacciardi o La Malfa avessero dei portafogli ministeriali; non avendone, sono più liberi nella via da seguire.

Nessuno che studi la storia tormentata della trasformazione in democrazia dello stato moderno rappresentativo costituzionale, può prescindere dall'analisi accurata dell'apporto datovi dalla creazione e dallo sviluppo dei partiti politici, specie dove


il partito si sia potuto creare propria tradizione, responsabilità e senso del limite. I1 difetto tradizionale nelle democrazie improvvisate ed oscillanti non può essere corretto che col tempo e con l'auto-disciplina. L'Italia democratica ebbe la sua data di nascita nel 1913 con la prima attuazione del suffragio universale maschile; i partiti dal 1913-1919 ( l a parentesi di guerra conta assai) non ebbero seguito. Quelli del 1946-1955 sono ben altro. La D.C. non è nata dallo sviluppo naturale del partito ~ o p o l a r e ,disciolto come fu dal decreto reale del novembre 1926; nè i l PSI può dirsi il seguito di quello di Turati e neppure del gruppo massimalista. I pochi superstiti dei due partiti han fatto posto alle reclute cresciute in clima fascista adattatesi poi alla nuova democrazia dai comitati di liberazione. I n tale clima, la libertà, base di ogni democrazia, è soverchiata dall'ingerenza simultanea dello stato e dei partiti, ora in conflitto; la stessa libertà fa paura se si deve applicare a situazioni consolidate e a pretese di categoria. Gli interessi economici, che il fascismo faceva mediare dalle corporazioni, nell'attuale regime di democrazia in cerca di se stessa, sono mediati ora dai partiti ora dai sindacati ora dagli enti parastatali. I partiti di oggi non sono gli stessi d i quelli del passato, nè i sindacati nè gli enti di oggi sono gli stessi dei sindacati e degli enti prefascisti. Gli attuali sono organismi con burocrazie numerose e improvvisate, centralizzatori e centralizzati, che ingoiano milioni e miliardi, anche quando si tratta di piccoli partiti e di modesti sindacati ed enti, che si dilatano senza fini nei nuclei provinciali e comunali finanziati dal centro. Roma è ingrossata di funzionari di tutte l e specie, i quali, a differenza di quelli della democrazia americana (dove a Washington non si h a diritto a voto) non solo votano, ma vanno invadendo consigli comunali, provinciali, assemblee regionali, camera e senato. Le esigenze dei partiti mastodontici sono tali da penetrare nella struttura statale e corrodere come tarme ministeri ed enti di ogni sorta. Quello che si dice dei partiti politici, si deve dire dei sindacati e si deve dire di conseguenza dei grossi enti parastatali, al punto da chiederci se veramente si tratti più di democrazia


e se sia possibile continuare a lasciare che partiti, sindacati, enti ( e le relative burocrazie) continuino a indebolire la compagine politica e finanziaria dello stato e ad alterare i l regime parlamentare sul quale ogni democrazia moderna è ancorata. Questa è la crisi di oggi, crisi che si chiama partitocrazia, e che impone una revisione dello stesso sistema parlamentare e un rafforzamento delle responsabilità governative. 5 aprile 1955. (L'Eco di Bergamo, 7 aprile).

AL CONGRESSO DELL'UNIONE DEMOCRATICA CRISTIANA DELL'EUROPA CENTRALE (*) Caro segretario generale, È per me segnalato onore partecipare in ispirito a l secondo

congresso internazionale dell'unione democratica cristiana dell'Europa centrale e potere inviare la mia adesione, come uno dei pochi superstiti dell'inizio del movimento democratico cristiano in Europa verso l a fine del secolo scorso. L'impulso che la democrazia cristiana ricevette durante gli ultimi dodici anni del pontificato del grande Leone XIII, impegnò molti ad un movimento che attraverso alterne vicende, è arrivato a imporsi nel mondo della politica e della socialità. a Se la democrazia sarà cristiana farà gran bene a l mondo N ; questa frase fatidica di Leone XIII si può ripetere oggi, a circa sessant'anni di distanza, con la fiducia che ci viene da fatiche, lotte, persecuzioni e affermazioni che formano la nostra storia. I n questa storia si sono inseriti i paesi dell'Europa centrale fin dai primi passi e a questa storia sono stati fedeli nella buona e nella cattiva fortuna. La D.C. è oggi l a bandiera più sicura p e r la difesa della civiltà cristiana nelle zone di oltre cortina, dove prega e soffre la «chiesa del silenzio 1); dove l e libertà (*) Lettera a Konrad Sieniewcz, segretario generale della Christian Democratic Union o£ Centra1 Europe.

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civili e politiche più non esistono; dove tutte le classi sociali risentono del progressivo inaridirsi della sana economia, e le classi operaie sono ridotte a subire una nuova e peggiore servitù della gleba e dell'officina. I1 comunismo, oltre che un'eresia anticristiana, è la negazione della libertà individuale e del diritto dei popoli liberi; tra D.C. e comunismo non vi può essere comunione di principi e di fede. I n nome, pertanto, dei principi cristiani, in nome dei diritti umani, in nome delle libertà personali e collettive, chiediamo che i popoli dellYEuropa centrale abbiano riconosciuto l'inalienabile diritto all'autonomia nazionale e statale, e possano partecipare al libero consorzio dei popoli civili. Nell'invocare, sopra di tutti, perseguitati e persecutori, lo aiuto del salvatore, vero Dio e vero Uomo, nel giorno che ne ricorda la Risurrezione, mando a voi il saluto di pace e di solidarietà cristiana e l'augurio di ogni bene. 9 aprile 1955.

LUIGI STURZO ( N o n appare pubblicata).

I L SECONDO SETTENNATO L'Italia, nel dare corpo alle istituzioni repubblicane, non aveva altro esempio da tener presente che la Francia. Le due più solide e antiche repubbliche esistenti, Svizzera e Stati Uniti di America, sono federali; in esse il presidente è allo stesso tempo capo dello stato e capo del governo; mentre l a tradizione costituzionale dello stato italiano portava un re che regna e non governa )) e un governo di S. Maestà (tipo inglese) sostenuto dalla fiducia del parlamento. Questo tipo di stato, dopo la parentesi fascista, è risorto in regime repubblicano, nel quale sono stati accentuati i poteri del parlamento ed attenuati quelli del capo dello stato fino al limite estremo, oltre il quale nessun regime resterebbe in piedi. Per questo fatto, la elezione del presidente della repubblica


è uno degli atti più gravi della nostra vita costituzionale, perchè la persona messa a quel posto per la sua statura morale, obiettività politica, senso di responsabilità, doti d i mente e d i cuore, sia tale da onorare e, allo stesso tempo, da rendere efficiente il posto più elevato dello stato. La repubblica nascente ha avuto alla cima del regime uomini come De Nicola, capo provvisorio dello stato, ed Einaudi, presidente della repubblica, i quali hanno coperto con onore posti così delicati; ad essi va la nostra gratitudine, per avere agevolato il passaggio dalla monarchia alla repubblica, senza turbamenti, scosse, rivolgimenti. Non credo che il periodo delicato della nascente repubblica sia superato al punto da potere fare a meno di uomini vissuti a lungo nel periodo prefascista, come i due sopra indicati, i quali, nel mantenere la tradizione dello stato italiano, interrotta e alterata dal fascismo, hanno conferito spirito di continuità alle nuove istituzioni. Tanto piìi è giovato questo apparto, quanto più difficile è stata l'amalgama della « classe politica D (nel senso sociologico della parola) per l'immissione di giovani reclute senza tradizione democratica e senza efficiente legame con un passato mal conosciuto e in molti casi male apprezzato. Per giunta, non sono stati ancora attuati tutti gli istituti previsti dalla costituzione, mentre vanno scomparendo dalla scena politica, e qualcuno anche dalla vita naturale, parecchi di coloro che ne prepararono la tela e ne discussero i principi e formularono le norme. I costituenti, nel fissare la figura del presidente della repubblica, ebbero tali e tante preoccupazioni del recente passato monarchico e fascista, da ridurne i contorni: poteri limitati e spesso formali, resi poco efficienti da cautele giuridiche. Ciò non ostante, non potevano non essere attribuite al capo dello stato poteri decisivi, quale quello dello scioglimento delle camere; poteri regolatori quale quello di presiedere il consiglio di difesa e il consiglio superiore della magistratura e, nel campo politico, il diritto di valutazione e scelta nelle crisi di governo. Non ostante tutto, il presidente della repubblica, rivestendo la rappresentanza dello stato, ne è la più alta magistratura,


e deve essere sostenuto dalla fiducia del paese, in modo che nel fluttuare di partiti, di opinioni e di passioni politiche, resti la salda colonna della unità, costituzionalità, legalità e stabilità dello stato. Altre considerazioni rendono oggi pensosi i parlamentari sulla scelta del capo dello stato. Non c'è dubbio che in un paese frazionato in molti partiti, e i partiti stessi sbattuti da venti continui a destra e a sinistra; con un parlamento dove la maggioranza governativa di stretta misura è continuamente discussa e ridiscussa all'interno e all'esterno dalla coalizione, il presidente dovrebbe essere non l'espressione di una fazione ma l a figura sulla quale converge la maggioranza stessa del paese. Sotto questo punto di vista, è stata una mossa molto discutibile quella dei liberali di venirci a parlare di presidente laico con esclusione di un presidente democristiano. La Voce Repubblicana ha messo fuori combattimento il nome di De Gasperi, in omaggio alla memoria di un uomo del quale lo stesso on. Pacciardi ebbe sempre un'alta opinione., Ha fatto bene la D.C. a non mostrarsene risentita: ii menuge dei quattro è difficile per sè; non conviene irritarsi ad ogni battuta sbagliata; perciò neppure io mi attardo a rilevare certi accenni di diffidenza religiosa che sono fuori della realfà. I1 problema della elezione del presidente della repubblica va posto in altri termini. Devono o no i quattro partiti della coalizione (vi metto anche i repubblicani, partecipino o no a l possibile rimpasto), presentare un candidato della maggioranza, e su tale nome affermarsi? ovvero debbono lasciare liberi i parlamentari ad orientarsi come credono di fronte a una rosa d i candidati che spunteranno nelle non poche votazioni, prima di raggiungere la maggioranza legale? I1 primo metodo si avvicina a quello della nomina dei presidenti a suffragio diretto e si richiama al senso di responsabilità elettorale nella scelta del presidente. I1 secondo metodo lascia alla volontà dei singoli l'accostamento occasionale, sopra la valutazione di candidati favoriti. Nel primo, l'elettorato parlamentare esprime la presunta volontà popolare; nel secondo l'elettorato parlamentare si sostituisce all'elettorato di primo grado. I n sostanza, l'accettazione dell'uno o dell'altro metodo


è subordinata alle condizioni di fatto dell'assemblea che in un dato momento è chiamata ad eleggere il presidente. Oggi l'assemblea elettorale delle due camere ha da un lato la massa compatta dei socialcomunisti, e, nella ipotesi del secondo metodo (ipotesi non improbabile), avrebbe una maggioranza divisa in tre o quattro tendenze con propri candidati: A B C e D ; - non faccio nomi anche perchè potranno variare e perchè, dalle informazioni giornalistiche, la D.C. risulta niente affatto unanime sia sopra un proprio candidato che sopra u n candidato estraneo. Neppure sarebbero unanimi i gruppi di destra; i quali, sia per il numero dei voti che per la diversità delle tendenze, non potrebbero arrivare a neutralizzare i voti della sinistra. Ecco il quadro esatto dello stato d'animo degli elettori; realtà questa che dovrebbe indurre i capi responsabili ad eliminare il metodo che chiamerei individualistico, e a promuovere l'intesa fra i gruppi della maggioranza governativa per un proprio candidato sul quale fare convergere i voti dei Anche questa soluzione non sarebbe priva di inconvenienti; il più grave, quello della mancanza di unanimità per la defezione, nel segreto delle urne, di coloro che non accetterebbero la disciplina della solidarietà. Nel caso in esame l'appello sarebbe all'autodisciplina, escludendo l'idea di ridurre un atto di cosi alta responsabilità ad una formalità disciplinare. Gli effetti di un dissenso fra gli elementi di maggioranza potrebbero essere due: il ritardo nella nomina del presidente per non avere raggiunta la maggioranza assoluta, ritardo che gioverebbe alle manovre eliminatorie di candidature reputate incomode e perciò da troncare, ovvero la elezione del candidato appoggiato dai socialcomunisti, come un preludio alla cosi detta « apertura a sinistra », mettendo, forse solo apparentemente, un'ipoteca sul Quirinale. E sarebbe il peggio che possa capitare al momento presente. 16 aprile 1955. ( I l Giornale cl'ltalia, 20 aprile).


ALLA VIGILIA DELLA ELEZIONE DEL PRESIDENTE Sono d'accordo con 1'011. Pacciardi nell'invitare la D.C. ad assumersi la responsabi1it.à di proporre il nome del candidato alla presidenza della repubblica, essendo la D.C. il primo partito di maggioranza nel parlamento e il maggior partito della coalizione governativa. Mi rifiuto credere alla notizia, divulgata dall'API di venerdì scorso, di certe linee fissate dalla direzione del partito democristiano ai due capi gruppo, on. Ceschi e Moro: prima votazione, affermarsi sopra un nome d.c.; seconda votazione, far convergere i voti sopra un indipendente; terza votazione, sostenere un secondo nome d.c.; ultima votazione, in caso estremo votare il savio di Dogliani. Non ho riprodotti i nomi indicati dall'AP1, per rispetto a me stesso e agli altri. È evidente la tendenziosità e la complicatezza della procedura suindicata; se la notizia fosse vera, non farebbe onore ai proponenti. Ne parlo, anzitutto, per mettere in evidenza il cattivo sistema invalso in Italia di servirsi di certe agenzie d i stampa per dare corpo alle velleità delle correnti e delle frazioni di correnti politiche e alle aspirazioni personali che corrodono la vita pubblica, in secondo luogo per mettere a nudo la fatuità della manovra. Che significato avrebbe per la D.C. la semplice affermazione sopra un nome di partito destinato ad essere ben tosto abbandonato? Se la D.C. crede alla opportunità di un proprio candidato, che lo proponga e lo sostenga. Se teme di non potervi riuscire, non è necessario dare evidenza ai dissensi sia all'interno del partito sia fra i gruppi della coalizione. Se, al contrario, si arriva alla concorde designazione, logica vuole che si inizino le votazioni sul candidato comune, senza andare a pescare nomi-paravento per le votazioni con il quorum dei due terzi. Dalle ultime notizie si ha che i gruppi d.c. si riuniranno per esaminare la situazione; quanto sopra ho scritto affiora di nuovo dalle indiscrezioni di stampa; spero che prevalga il buon senso.


A questo punto credo opportuno riprendere l'esame della eccezione sollevata dai repubblicani storici e continuata dai democratici: se, cioè, sia nello spirito delle istituzioni la riconferma del mandato in seconda elezione. Non mi riferisco alla persona del presidente uscente, verso il quale il paese ha mostrato quella alta stima che egli si è meritata in sette anni di permanenza al Quirinale; mi riferisco solo al problema, che reputo sia stato mal posto e inopportunamente discusso. La nostra costituzione ha appena sette anni e non è stata ancora completamente attuata, mentre non sono mancate critiche d i giuristi, di uomini politici e, perfino, degli stessi partiti che la votarono. È naturale che sia così; ma, prima di rivederla, è necessario che se ne faccia l'esperienza; il che esige anche il completamento degli istituti e la relativa attuazione senza l'ostacolo di volute dilazioni e di obiezioni preclusive. Purtroppo, è avvenuto il contrario: la corte costituzionale è stata bloccata dal parlamento; la regione ( a parte le quattro regioni a statuto speciale), è ancora da venire, mentre ritarda alla camera la discussione dell'ultima proposta d i legge votata dal senato; il contenzioso tributario non è attuato, mentre il cittadino viene sottoposto a sistemi fiscali molto onerosi senza le dovute garanzie. La sortita di opporsi ad esercitare la facoltà di conferma del presidente uscente sotto il profilo costituzionale, in questo clima, suona falso: un pretesto malcelato. Nella citata agenzia si prevede di « ritornare, come extrema ratio nell'ultimo definitivo scrutinio, sul nome del presidente Einaudi ». La stessa idea è stata accennata lunedì da un giornale del mattino, « che a parere della maggioranza dei due direttivi e della direzione del partito la conferma del mandato settennale al momento attuale non si pone se non come un'alternativa all'eventuale fallimento di altre soluzioni ». È evidente che, così facendo, la pregiudiziale costituzionale diviene bolla di sapone .e l'altra preoccupazione di mostrare di non possedere ~ersonalità degne del Quirinale, verrebbe confermata. A vantaggio di chi? e a quale fine? Nel mio articolo: Secondo settennato parlavo di tentativo di mettere un' ipoteca sul Quirinale. Temo che 1' equivoco della proposta ~ r o c e d u r a possa agevolarne l'evento. Non temo

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e non rifiuto i voti delle sinistre qualora il quadripartito si mantenga saldo e unito; ma nell'ipotesi di dissensi, la elezione del presidente verrebbe non solo con i voti ma per i voti dei socialisti nenniani e forse anche dei comunisti. Con simile operazione, si sposterebbe l'asse dell'attuale maggioranza; si aprirebbe subito una crisi governativa senza possibilità di sbocco immediato; il che preludierebbe lo scioglimento delle due camere e le elezioni generali; a parte gli effetti non molto favorevoli nel campo internazionale. Non ho nessuna intenzione di calcare le tinte; solo desidero mettere avanti gli occhi le conseguenze di un atteggiamento oggi incerto ed equivoco, domani pericoloso. I1 mio primo rilievo circa l'ipoteca sul Quirinale passò inosservato; può darsi che anche questo mio secondo rilievo della vigilia passi inosservato. Sarà ciò perchè le mie preoccupazioni non hanno consistenza ovvero perchè spiace parlarne apertamente? Per conto mio, sento di aver fatto il mio dovere, nella speranza che i parlamentari democratici escano in tempo dal dubbio amletico : essere o non essere più zcna maggioranza n. 25 aprile 1955. ( I l Giornale d'Italia, 27 aprile).

DIFESA DELLA LIBERTA' ECONOMICA (*) Esimio presidente,

Se non vengo, date le mie condizioni di salute, la prego di ritenermi presente alla seduta inaugurale dell'assemblea annuale di cotesta confederazione generale del commercio. E nell'inviare i miei più vivi auguri di sempre maggiori adesioni e attività, per la tutela degli interessi legittimi della categoria, mi permetto di aggiungere il voto che, nel perseguire gli scopi particolari dei consociati, si tenga fermo il principio (*) Lettera a G. Maria Solari, presidente della confederazione generale del commercio.


della libertà economica, elemento necessario in regime democratico, cardine di prosperità e spinta al progresso. Più volte si è confusa la libertà in democrazia con la licenza individuzlistica e l'egoismo di classe o d i categoria; licenza e d egoismo sono difatti i vizi di tutti i tempi e di tutti i regimi; la libertà non rifiuta la legge e la regola, perchè la libertà prospera nell'ordine; l'ordine è regola; la regola è sancita da legge; e la legge garantisce e deve garantire la libertà. Oggi si ha paura della libertà, sia da parte del legislatore, che accumula leggi su leggi interferendo nell'attività privata assai più che non fosse necessario e utile; sia da parte del cittadino, che tutto esige dallo stato per evitare i rischi inevitabili della vita o per consolidare i privilegi acquisiti o per conseguire privilegi ambiti. Di questo passo si arriverà ad attuare uno statalismo soffocatore di ogni iniziativa e di ogni energia; e a far divenire ogni cittadino, un dipendente o pensionato statale. Difendere l a libertà economica come si difende l a 1ibert.à politica, perchè l'una non può esistere senza l'altra; fare per la libertà economica anche il sacrificio dei propri privilegi; riconquistare la libertà economica nello spirito del vantaggio comune di tutte le categorie produttive; non avere paura della libertà, se questa comporta rischi ed obbliga ad assumere responsabilità; sono questi i doveri dell'ora. Si dice che la mia sia oramai purtroppo voce isolata, sorpassata dagli avvenimenti; quali avvenimenti? I1 nuovo da registrare si basa sulla tendenza a superare i gretti nazionalismi anche nel campo economico, creando liberi mercati intemazionali sia pure attraverso organismi pluri-statali come quello del carbone e &lE'acciaio o come, si spera, il cosiddetto pool verde. I n contrasto con questa tendenza stanno i paesi chiusi politicamente e socchiusi economicamente, dove il livello della vita è tanto più basso quanto i vincoli alla libertà sono più stretti e vi trionfa il despotismo sotto l'etichetta di regimi popolari. Che Dio preservi l'Italia da tanto male. Rinnovati auguri e distinti saluti.

LUIGISTURZO 3 maggio 1955.

(Non appare pubblicata).


CRISI DEL QUADRIPARTITO O CRISI DEI PARTITI? Secondo il vecchio vocabolario Hoepli, crisi sarebbe il subitaneo migliorare o peggiorare di una malattia )) e per estensione: crisi ninisteriale (C lo scomporsi di un ministero in seguito a dimissioni »; crisi monetaria « il subitaneo peggioramento del mercato monetario ». Quel che un tempo era un fenomeno subitaneo, ora può anche essere un fatto protratto e diluito nel tempo o anche divenuto cronico, sì da non essere più una vera crisi, ma il processo che precede e segue una crisi. Dal giorno che fu costituito il quadripartito fu trovata una parola: (C delegazione » che ne definiva la crisi interna; il quadripartito era formato dalle « delegazioni )) di due partiti, il socialdemocratico e il liberale, al governo in maggioranza della D. C. con l'adesione, senza (( delegazione », di un terzo partito, il repubblicano. Debbo confessare che quella parola: « delegazione » mi diede ai nervi fin dal primo momento che Malagodi, più di Saragat, la usò continuamente nei suoi comunicati come per farla entrare nella testa dei giornalisti. Non ne scrissi per non gettare olio sul fuoco; e non ne parlerei in questo articolo se non avessi letto in u n giornale del mattino che: (C L'on. Saragat e il dott. Tanassi sosterranno l'inevitabilità della crisi e in conseguenza l'immediato ritiro della delegazione socialdemocratica al governo ». Nei consessi internazionali si usa la parola (C delegazione 1) per indicare le persone autorizzate dagli stati a parteciparvi sia a voto singolo sia a voto plurimo. Si tratta di assemblee che deliberano sotto la condizione dell'approvazione sovrana dello stato che ne dovrà assumere gli obblighi. (C 11 ritiro della delegazione D sarebbe di per si: un fatto unilaterale, dal quale gli altri possono o no trarre le conseguenze. Questo congegno internazionale non si adatta di sicuro al governo di uno stato, essendo questo organo dirigente ed esecutivo, responsabile e solidale. La configurazione che dà del


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governo la costituzione è all'opposto di quella definita con la parola « delegazione D, cioè « consiglio delle delegazioni 1) che governerebbe per conto dei deleganti. Chi sono questi deleganti? niente altro che i partiti: infatti l'onorevole Malagodi quando levò la bandiera della rivolta, a proposito dei patti agrari, minacciando il ritiro della « delegazione » parlò a nome del partito. Anche a nome del partito l'on. Fanfani chiese la chiarificazione dei rapporti « inter-delegazionali » nel governo (l'aggettivo è mio e l'ho inventato per stare in linea); a nome del partito Saragat da parecchio tempo minaccia il ritiro della « delegazione » del partito del quale egli è segretario politico. Ciò non ostante, il governo quadripartito ha potuto portare in porto parecchio nel campo della politica interna ed estera, perchè il parlamento gli ha mantenuto la sua fiducia in una serie di voti (credo dieci) che mai altro governo ebbe; anzi direi che i voti si sono moltiplicati come sono aumentate le iniziative dei partiti a volere lasciare la barca. Ora siamo arrivati alla crisi, nel senso lessicale, quale stadio risolutivo in meglio o in peggio: o rimpasto senza dimissioni, owero dimissioni collettive, senza attendere il ritiro dell'una o dell'altra C( delegazione N. Non è mio compito fare previsioni sullo svolgimento della crisi: rilevo le ipotesi che corrono: o rinnovo del quadripartito (questa volta con quattro delegazioni), sul presupposto che il governo sia la risultante di quattro delegazioni autonome, che prendono il verbo governativo dei partiti, installando così al Viminale il governo dei partiti e non il governo del paese rappresentato nel parlamento. La debolezza dei governi post-bellici, non ostante la continuità direttiva di uomini della D.C., è stata proprio la concezione della partitocrazia che si impose nel periodo bellico e dell'occupazione attraverso i comitati di liberazione. In quel periodo la collaborazione dei partiti, di tutti i partiti della resistenza, era necessaria sia nei confronti dell'occupazione militare, sia nei riguardi degli esponenti del regime fascista. Le elezioni popolari per i consigli comunali e per l'assemblea costituente servirono alla formazione e valorizzazione dei par-


titi (non ostante un governo di pieni poteri) e prepararono la formazione del parlamento del 1948. Da quel giorno i poteri del governo furono quelli ben delineati dalla costituzione, mentre il parlamento divenne l'organo supremo della volontà popolare e l'organo unico dell'indirizzo politico del paese. L'ingerenza dei partiti nel governo e nell'amministrazione, sul piano del processo istituzionale dovrebbe essere oggi un fatto superato; mentre per la chiarezza della politica nazionale è tuttora un residuo non eliminato. Ho detto intenzionalmente « non eliminato »; avrei dovuto dire che è un residuo in aumento » al punto da creare il fenomeno della partitocrazia come mai prima in qualsiasi regime democratico. Nel fascismo-dittatura vi era il partito unico e il gran consiglio; nella democrazia repubblicana vi sono l e « delegazioni » al governo e i vari consigli nazionali. P e r giunta, il fenomeno della moltiplicazione dei partiti è una specialità europea e specialmente nei paesi latini, sia per l'ampliarsi dell'elettorato, sia per l'introduzione della proporzionale che favorisce la formazione di partiti anche minuscoli che servono a soddisfare il prevalente istinto individualista. La facilit,à, tutta moderna, di ottenere da varie fonti, pure e impure, finanziamenti per qualsiasi iniziativa politica, contribuisce non solo a frazionare i partiti, ma a mantenere nei partiti lo spirito di fazione, dividendoli in destra, centro e sinistra. Nel citato giornale del mattino si legge che la sinistra socialdemocratica ha approvato a maggioranza ( t r e contro uno) un ordine del giorno per il quale non solo si rivendica il merito della previsione della crisi, ma si afferma la necessità dell'apertura a sinistra, mentre l a maggioranza è per la crisi e per la ricostituzione del quadripartito. Non è solo l a socialdemocrazia così frazionata; la stessa democrazia cristiana è divisa fra i sostenitori del quadripartito e quelli del monocolore; e fra i monocoloristi ( l a parola è coniata da me) vi sono quelli per l'intesa ( o sottintesa) a destra e altri per l'intesa ( o sottintesa) a sinistra, e certuni per nessuna intesa, ideando una maggioranza occasionale, gratis data e gratis ricevuta.


Questa mia critica della partitocrazia non è nuova; è vecchia di sette anni. I n contrapposto, mi si ripete: vuoi, dunque, che i partiti non si impiccino del governo? a che servono allora i partiti? Infine, alla camera e al senato i voti sono dati dai gruppi che si distinguono col nome e cognome del proprio partito. Nessuna soppressione di partiti, nessuna soppressione di gruppi; solo il senso del limite da parte di ciascun organismo che opera nel campo della politica secondo la propria funzione. L'individuo essendo un essere sociale fa parte di molte società sia naturali che volontarie, e in ciascuna h a u n posto che comporta diritti e doveri, attività e responsabilità. Occorre ben definirne i campi e trovarne i limiti. La famiglia non invade lo stato e viceversa; il parlamento non invade il governo e viceversa; la presidenza della repubblica non si appropria di poteri del governo e del parlamento e viceversa. È così del partito; questo non deve invadere i poteri del parlamento o del governo o del presidente della repubblica; deve stare nei limiti di un'associazione volontaria a scopo politico formata da una frazione dell'elettorato. Quelle persone che allo stesso tempo sono dirigenti del partito, deputati e senatori, ministri o presidenti, debbono, in ciascuno dei relativi organismi, operare secondo le regole, i poteri e le responsabilità e i limiti che tali appartenenze comportano. Altrimenti all'ordine costituzionale, giuridico, politico, si sovrappone l'arbitrio politico e individuale, manomettendo quel che la regola, la legge, l a logica, la tradizione hanno stabilito, affinchè la convivenza umana sia ordinata e vantaggiosa alla società. Un partito rappresenta una frazione, spesso assai limitata, di elettori ; a quale titolo potrebbe soverchiare il parlamento, i cui rappresentanti sono stati nominati da un elettorato molto maggiore? E i deputati o senatori così nominati, nel dare il voto ad u n governo non sono essi mandatari del partito, sì bene rappresentanti della nazione; com'è possibile invertire i termini e creare una vera oligarchia quale quella dei direttivi dei partiti di fronte a tutto il corpo elettorale? Senso del limite, senso di responsabilità, rispetto alla costituzione, alla legge, alla norma; così un parlamento e un go-


verno possono essere sul serio gli organi autorevoli e investiti di potere nella vita ~ o l i t i c a legislativa e amministrativa del paese. Mi si risponde: tutto ciò è esatto, ma se i partiti vogliono la crisi, la faranno di sicuro; la faranno anche le frazioni di partiti; sia; ma nè i partiti nè le frazioni potranno mai formare u n governo stabile, responsabile, che risponda alle esigenze del paese. Fra l'Italia e l a Francia che ogni anno sciupano molti mesi discutendo sulle crisi presenti e preparando le crisi future, e l'Inghilterra ( e sotto certi aspetti la Germania) che mantengono fermi i propri governi non ostante le più gravi difficoltà, son da preferire queste ultime, che hanno maggiore agio e possibilità ad affrontare e risolvere i problemi dell'ora e preparare le soluzioni del futuro. 9 maggio 1955.

( I l Giornale d'Italia, 11 maggio).

MESSAGGIO AI SICILIANI Scossa dai tumulti dei fasci e privata di libertà, la Sicilia della fine del secolo scorso, reclamando il ripristino della costituzione riprese coscienza della sua personalità isolana e della esigenza di riforme*sociali rispondenti alle difficili condizioni di allora. Chi vi parla ha vissuto tutto il periodo dal 1890 in poi, con il sentimento, sempre crescente, della insopprimibile personalità storica della Sicilia, da realizzarsi in u n tempo più o meno lontano. Tale sentimento vibrò fortemente nei congressi cattolici di quel periodo iniziale; mai però come distacco dalla nazione, mai come frattura dell'Italia u n a ; sì bene come regione autonoma nel quadro della unità statale. Prima e durante la guerra del 1915-18, nei vari congressi regionali apparve ancora più chiara tale tendenza; al congresso 17'7 l? - S ~ c ~ z- oPoiitica d i questi anni.


di Caltanissetta dei democratici cristiani amministratori dei COmuni e delle provincie fu precisato il programma delle autonomie locali; nei congressi dei sindaci siciliani tenuti a Catania, Agrigento e Palermo si innestarono i problemi isolani alle esigenze autonomistiche. I1 tema delle autonomie comunali e provinciali (agitato allora dalle due grandi associazioni nazionali delle provincie e dei comuni) era più fortemente sentito in Sicilia, quando veniva prospettato nel quadro della regione come ente territoriale. Su questo punto i cattolici democratici erano quasi i soli a mantenersi aperti e coerenti nei dibatti congressuali. I1 richiamo alle idee regionaliste del risorgimento ci sorreggeva nella lotta contro l'accentramento statale e contro la burocratizzazione della vita pubblica. I problemi del mezzogiorno, allora incompresi o trascurati, venivano in Sicilia prospettati nel quadro della rinascita regionale. Chi tenne fede a questo ideale? chi incontrò incomprensioni e diffidenze? Resistemmo a lungo e fummo accusati di volere disintegrare lo stato. Questa accusa fu ripetuta e accentuata quando nel gennaio 1919 da chi vi parla, con l'adesione di molti in Sicilia, fu costituito il partito popolare, nel cui programma fu posta la rivendicazione dell'istituto regionale. Al 3" congresso del partito popolare tenuto a Venezia nell'ottobre 1921, l'istituto della regione, affrontato nella sua specifica realtà, ebbe la più ampia discussione e la più aperta approvazione. I1 ventenni0 fu ostile all'idea della regione e non fu propizio alla Sicilia: la guerra e I'occupazione diedero la spinta al movimento separatista; fra i siculi-americani di New York ansiosi delle sorti dell'isola di origine, fu ripetuto il motto dei democratici cristiani di Sicilia u autonomia si, separatismo no D. A fronteggiare il separatismo e a realizzare l'autonomia fu preparato lo statuto del 15 maggio 1946 che oggi festeggiamo. Questi precedenti richiamo alla vostra mente, cari e amati siciliani, io che ho sognato sempre la rinascita della nostra isola e vi ho creduto contro ogni scetticismo, felice di constatare oggi che il sogno della mia prima giovinezza è realtà, indistruttibile realtà, come fatto politico, come risultato morale, econo-


mico, sociale, come espressione libera e democratica del nostro popolo. La Sicilia, parte integrante della nazione, non è più il peso morto di un tempo, zona depressa senza speranza; oggi la Sicilia, anche se tuttora zona depressa per un passato che non può cancellarsi d'un tratto, è regione organizzata con la sua personalità, le sue realizzazioni, il suo avvenire. E se la Sicilia di ieri, non ostante le condizioni in cui si trovava, e per giunta poco conosciuta e poco apprezzata, potè dare i l contributo di uomini di alto valore, personalità rappresentative nella politica, nella cultura, nell'arte, e la loro memoria non verrà mai meno; oggi i l contributo dell'isola nostra alla vita nazionale sarà anche quello che viene dalla regione organizzata, che tende con tutte le sue energie a gareggiare con le più progredite regioni del continente. Non può disconoscersi i l merito della democrazia cristiana di avere saputo tenere da otto anni, con prudente fermezza non priva di opportuni accorgimenti, il timone regionale, coadiuvata e sostenuta in concordia di propositi da uomini di altri partiti, superando difficoltà notevoli, dovute in gran parte ad incomprensione e a diffidenze naturali p e r un'esperienza senza precedenti. Da un certo tempo ad oggi, sono arrivati alla Sicilia consensi e lodi sia pure miste a riserve. A coloro, specie del mezzogiorno, che ci invidiano la nostra autonomia, si può rispondere che abbiano anch'essi il coraggio di attuare l'ordinamento regionale che la costituzione ha riconosciuto e sanzionato, superando quel complesso di inferiorità di fronte al mito di uniformità e al centralismo burocratico, che si vogliono far passare come requisiti dell'unità nazionale. Noi siciliani siamo italiani ed unitari quanto ( e forse più) quelli delle altre regioni e sappiamo compiere come gli altri i doveri verso la patria. La nostra rinascita siciliana, rende a l buon nome d'Italia un contributo assai più valevole delle vuote declamazioni retoriche di un tempo. E d è speciale gloria dei cattolici siciliani, avere voluto da lungo tempo ed aver decisamente concorso a realizzare l'autonomia regionale nel quadro della nazione libera e democratica,


dopo una prima dittatura. Ed è anche nostro speciale dovere concorrere in prima fila a preservare regione e nazione dalla minaccia di una nuova dittatura. La lotta elettorale per la 3" assemblea regionale è combattuta con la finalità di mantenere e sviluppare, nel progresso delle opere, l'autonomia conquistata nel 1946 ed iniziata nel 1947; difendere l'autonomia e la libertà regionale dai partiti totalitari, specialmente dal partito comunista; riaffermare, vivificati dal pensiero cristiano, i diritti e i doveri che ci vengono dall'autonomia e dalla libertà, nella rivalutazione della personalità umana e nello sviluppo della convivenza sociale. Se la lotta è dura, il successo sarà ancora più meritato. È perciò che fo appello a tutti, perchè, eliminando gli egoismi delle preferenze, i risentimenti delle tendenze, gli scetticismi e le incomprensioni delle disillusioni, le critiche sia pure giustificate, si affrontino le elezioni col sacrificio di se stessi e con la fiducia nel bene che si è fatto e nel bene che con l'aiuto di Dio si farà nella prossima legislatura. Viva la Sicilia! Viva l'Italia! LUIGI STURZO 15 maggio 1955.

( I l Popolo, 16 maggio).

ATTENTI AI MALI PASSI

I ministri giolittiani, quando, nel gennaio 1922, decisero i n segreto di provocare la crisi del gabinetto Bonomi, erano sicuri della successione, e credo ne fosse sicuro lo stesso Giolitti. Quella crisi extraparlamentare e da congiurati non portò fortuna. La colpa fu attribuita al veto a Giolitti »; l'accusa è dive. nuta storica, non ostante l'evidenza dei fatti: aspetterò nella tomba lo storico che mi rivendicherà. Ma colpa mia o colpa d i altri, chi non sa re vedere i vari e diversi effetti dei propri atti, specie se investito di responsa-


bilità parlamentari e governative, deve portarne la pena. Una crisi extraparlamentare, quale ne siano i motivi, danneggia il sistema e subisce l'imprevisto degli intrighi. La crisi del febbraio 1922 portò, per ripicco e per imprudenza, a un governo Facta che nessuno voleva. I1 primo governo Facta, caduto per un voto di sorpresa alla camera, ritornò in sella per gli intrighi giolittiani che non vollero appoggiare un governo Orlando. Si disse che agenti provocatori avessero spinto il comitato segreto di Genova, fatto da comunisti, allo sciopero generale, al quale per mimetismo si unirono i socialisti. I1 pretesto servì a far cadere nel vuoto l'invito a Orlando a costituire il nuovo governo e a richiamare Facta, che ritirò le dimissioni. La resistenza allo sciopero fu presa in mano dai fascisti i quali, uniti alla forza pubblica, forzarono l a situazione che degenerò nei conflitti di piazza. I1 lo agosto preparò e condizionò il 28 ottobre. Storia passata, si dice, non applicabile ai nostri affari; ebbene, passiamo alla storia recente: ministero Pella. I1 destino ne f u segnato quando i due capi gruppo d.c. del senato e della camera, Ceschi e Moro, dichiararono di votare a favore obtorto collo^ perchè mancavano a quel governo monocolore i crismi del partito di maggioranza. Pella stesso aveva definito il ministero da lui presieduto come temporaneo per discutere i bilanci e dare il tempo alla chiarificazione. Ma in seguito, il favore dell'opinione pubblica suggerì l'idea di un rimpasto. Incautamente Pella iniziò una specie di consultazione: sentì i capi gruppo, si abboccò con De Gasperi. La D.C. fu dura, provocando una crisi extraparlamentare senza pubblici dibattiti nè chiarificazioni i n aula; una piccola congiura anche questa, che portò solo per pochi giorni Fanfani, primo collaboratore di Pella, alla presidenza del consiglio. La soluzione quadripartita di Scelba ebbe, come catena al piede, gli equivoci e gli intrighi delle due crisi, Pella e Fanfani; non è stato possibile in quindici mesi dissiparne le ombre, anche perchè è mancata la fermezza dei partiti associati con le loro caratteristiche (C delegazioni D. È perciò che da quattro o cinque mesi si parla, anche per i l governo Scelba, di chiarificazione e di rimpasto, come si par-


lava di chiarificazione e di rimpasto negli ultimi mesi del governo Pella.

I1 fatto nuovo è la presa d i posizione della u concentrazione », la quale, biasimando apertamente il modo come sono state presentate le dimissioni a l neo presidente della repubblica, h a mostrato l a falla aperta e nel partito e nei gruppi parlamentari della D.C. Qui, il titolo del mio articolo è a posto: Attenti ai mali passi. Non nego che i l parlamento, a un momento dato, possa provocare una crisi, sia nelle forme prescritte dalla costituzione, sia per dissensi sopra un disegno di legge. Escludo l e crisi per congiure di partiti o per combinazioni extra~arlamentari,che violano le norme del sistema parlamentare, consolidano l a partitocrazia e le consorterie politiche, e pregiudicano i l corso degli avvenimenti.

I dissidenti democristiani, abbiano o no ragione nel campo interno del proprio partito, per potere superare l'impasse, dovrebbero poter contare sulla sinistra nenniana; s i è arrivati a leggerne sui giornali i l prezzo del compromesso: Nenni parla addirittura di sottoprezzo. Che Fanfani possa ricorrere alle sanzioni disciplinari contro i dissidenti conta poco: i l quadripartito, con la sospensione d i 20 o 25 deputati della concentrazione, cadrebbe lo stesso per mancata maggioranza; e i partiti laici avrebbero u n motivo di più a ritirare le relative (nome fatale) delegazioni.

I bene informati' della concentrazione ripetono che nessuna intesa esiste con Nenni; tutti hanno affermato che non si tende affatto ad una apertura a sinistra. Tanto per capirci: che cosa comporta il prezzo che Nenni esige, e offre sulla stampa? forse i l tradimento (verso Togliatti e C.)?! e il prezzo che pagherebbe Pella sarebbe forse un prezzo di tradimento (verso la D.C., verso i patti internazionali, verso la chiesa)? Si insinua sottovoce che potrebbe esservi un contatto senza impegno; ovvero u n impegno senza pagamento ; o u n pagamento di parole senza sborso di moneta. Eh! no: il parlamento italiano non può sanzionare u n equivoco (troppi ve ne sono stati)


diretto a tenere in piedi un governo, che non si reggerebbe da sè, senza una specie di benestare negativo di Nenni. La ipotesi Nenni, sia che dia il voto sia che si astenga dal voto, ci mette a contatto lo stesso Nenni legato a Togliatti, lo stesso Nenni del premio Mosca, lo stesso Nenni anti patto atlantico e anti unione europea, lo stesso Nenni degli scioperi politici della C.G.I.L.; e Nenni, con il consenso dei comunisti, terrebbe in piedi un ministero'monocolore d.c. Ma quale D.C.? Una D.C. divisa in due tronconi non sarà più D.C. I1 paese non avrà più vitale e forte quel partito che ha fronteggiato da dieci anni la situazione e che lo ha guidato dalla crisi della guerra alle notevoli realizzazioni della ricostruzione; dal dictat di Parigi alla caduta morale e politica d i tutte le restrizioni del trattato di pace; dall'isolamento alla partecipazione da pari a pari sul terreno internazionale. Si dice che vi sono problemi sociali che non si potranno risolvere senza l'appoggio socialista. Mi dispiace contraddire chi lo afferma, anche se sia molto autorevole e molto considerato. T,a D.C. pub realizzare, senza bisogno di Nenni, quanto è necessario al progresso sociale del paese, evitando capitomboli economici e non indulgendo alle teorie e alla prassi marxista. Che si voglia da certi cattolici di sinistra arrivare al socialismo di stato, può darsi; non ne sono certo. Ma l a D.C. ha il dovere di opporsi a simile aberrazione, tenendo fermi i principi della morale e della dottrina sociale cristiana. Attenti ai mali passi, che non mancherebbero se non sarà rifatta l'unità del partito prima di risolvere il problema del governo; prima di precipitare le cose verso le elezioni generali. Ecco: Finirla con le tendenze : iniziativa democratica I), (C forze sociali D, (C concentrazione 11, K base I), tutte debolezze ed errori per un partito responsabile del presente e dell'awenire del paese. Finirla con i ministeri nati da crisi extraparlamentari e combinazioni interpartitiche. Finirla con dissidenti che lasciano l'aula e con franchi tiratori che vi si esercitano nelle votazioni segrete; ma allo stesso


tempo finirla con i sistemi di disciplina caporalesca che provocano siffatte reazioni. Tre punti si debbono riaffermare come capisaldi di una ripresa democratica della D.C.: unità del partito - eliminazione delle tendenze organizzate - rifiuto alle crisi extraparlamentari. E se il parlamento, oggi e domani, non potrà ricostituire una maggioranza governativa e sarà costretto allo scioglimento, che ben vengano l e elezioni generali. Allora la D.C. per potersi ripresentare al paese senza tradirne gli interessi e senza abdicare alla sua funzione storica, dovrà essere unita, salda e concorde. 16 maggio 1955.

( I l Giornale d'Italia, 18 maggio).

LETTERA A PAOLO CAPPA. Caro Cappa, I1 tuo u Guardare al Paese » è coinciso con il mio u Attenti ai mali passi che avrai letto sul Cittadino di Genova. Ho il presentimento che la D.C. non riesca a riprendere quota, perchè divisa in «tendenze organizzate ». Tali organizzazioni non possono essere tollerate in un partito serio e responsabile quale la D.C.. Ricorderai la tendenza di destra, organizzata da Sassoli dei Bianchi al tempo del partito popolare, e sciolta per decisione del consiglio nazionale ( i componenti si sottomisero); l'altra di sinistra, organizzata da Speranzini sciolta dalla direzione del partito ( i capi non si sottomisero e Speranzini creò in seguito il partito del proletariato cristiano). La D.C. invece ha consentito che u iniziativa democratica » si organizzasse al punto da ottenere la maggioranza nel consiglio nazionale e nella direzione del partito, e da tentare, con gravi effetti disgregatori, la iniziativizzazione del partito. D'altra parte i sindacalisti possono liberamente organizzare « forze sociali »; u la base », pur privata del proprio organo, non manca di tenersi organizzata e trovarne i mezzi. La reazione di u concentrazione » è solo sul piano parlamentare e deriva, secondo me, dal timore che gli esponenti hanno di dover subire una manovra eliminatoria, che, preparata durante la presente legislatura, potrebbe realizzarsi nel13ipotizzabiG scioglimento delle due camere. Non ho elementi per &iudicare se sia Fondata o no tale preoccupazione; ma ho abbastanza esperienza per potere affermare che se tale stato d'animo non sarà superato in tempo, non solo farà cadere il quadripartito, ma porterà fatalmente ad un governo monocolore, contando in partenza sull'astensione del gnippo nenniano. I1 danno alla D.C., e più che alla D.C. al paese, non è visto da chi


LO SCIOPERO DEI PARASTATALI L'errore fondamentale dei parastatali è quello di considerare gli istituti previdenziali come se fossero, più che autonomi, indipendenti, anche oggi quando le disposizioni legislative ne limitano o ne controllano i poteri, che essi ritengono sovrastrutture quasi abusive e, comunque, interpretate abusivamente. Gli istituti previdenziali sono basati sopra u n atto legislativo di imperio, per il quale i cittadini appartenenti a determinate categorie sono stati obbligati a versare delle contribuzioni per ottenere servizi, indennità, assegni e pensioni. Se i cittadini fossero liberi d i servirsi di tali istituti, O di non servirsene affatto, e se lo stato non ne avesse la responsabilità della retta gestione verso gli assicurati e gli assistiti, nè dovesse preoccuparsi di gestioni economicamente onerose per i contribuenti (pensare che I'INAM sta per toccare il deficit di 60 miliardi), i1 personale parastatale avrebbe motivo sufficiente a invocare la piena autonomia. Ci penserebbero i consociati a curarne la buona amministrazione. Quando gli istituti furono fondati con propria e completa autonomia, gli impiegati venivano assunti a contratto privato. L'assestamento del personale con regolare stato giuridico h a perfezionato la posizione degli enti, che giustamente sono classificati come parastatali: si tratta di gestioni statali (come quelle

non vuol vederlo, ma è purtroppo immanente, e solo evitabile se la D,.C. si riunificherà. Ebbene? hai tu ipotizzato il caso che da una frazione di « iniziativa » si possa pensare ad un governo Segni o Vanoni proprio con l'astensione di Nenni? credi tu che stiano solo a vedere? « Gli accorgimenti e le coperte vie n, dei quali parla Dante nel XXVII dell'Inferno, non sono solo di un Guido da Montefeltro. Chi arriverà primo? Pella, Segni o Vanoni? Cordiali saluti

22 maggio 1955. ( N o n appare pubblicata).


delle casse di previdenza tuttora dipendenti dal tesoro), affidate ad organi amministrativi e sindacali autonomi, sotto la vigilanza e il controllo dei ministeri del lavoro e previdenza e del tesoro. Tale impostazione giuridica e amministrativa degli enti previdenziali è indiscutibile, non ostante i l dissenso dei sindacati di categoria i quali, in subordinata, non ammettono il collegamento che si è voluto stabilire fra gli emolumenti spettanti agli statali e i propri emolumenti, sia dal punto di vista di principio, sia nell'interpretazione data all'articolo 14 del decreto legislativo luogotenenziale del 21 novembre 1945 n. 722 che fissa al 20 per cento il massimo della eventuale maggiorazione. 'I1 sistema adottato da tale norma deriva dal carattere sostanzialmente statale degli istituti previdenziali e dal fatto di aver dato al relativo personale lo stato giuridico; invero, una differenziazione fra statali e parastatali superiore al quinto non sarebbe giustificata dal tipo di servizio prestato e darebbe luogo a seri risentimenti da parte degli statali. Da parecchio tempo si lamenta il rincorrersi delle varie categorie impiegatizie, dipendenti dello stato e degli enti parastatali, per ottenere i vantaggi economici differenziati, portandoli a l livello piÚ alto. Ad ogni legge o provvedimento a favore di una determinata categoria si crea forte malcontento negli altri, siano dipendenti dallo stato, siano dipendenti degli enti locali e di enti parastatali. Ottennero i magistrati lo sganciamento dagli statali e stipendi autonomi; e fu un giusto provvedimento per tenere distinto il personale che rappresenta uno dei poteri fondamentali della società civile. Ma quando gli statali, nel luglio scorso, ottennero la nuova mensilità , i magistrati fecero notare che non potevano essere trascurati e s i trovò una formula legislativa che li accontentasse. Ora che si va attuando il conglobamento degli statali, è venuta fuori una proposta di legge di iniziativa parlamentare per attribuire ai magistrati l'aumento automatico in tutti i casi che vi fosse aumento per gli statali. Allo stesso modo, i parastatali negano che i propri emolumenti possano essere in qualsiasi modo collegati con quelli degli statali; ma se questi ultimi, che hanno stipendi inferiori,


ottengono qualche miglioramento, i parastatali esigono la revisione (s'intende autonoma e sganciata) del proprio trattamento. Ragioni di equità fra le varie categorie del personale impiegatizio e misura di precauzione contro l'impotenza dei consigli di amministrazione degli enti previdenziali a resistere alle pressioni del proprio personale, fecero stabilire un limite legislativo agli emolumenti dei parastatali in rapporto a quelli del personale statale. I funzionari e i tecnici degli istituti in parola affermano che non vi può essere paragone fra i compiti loro attribuiti e relativi servizi e quelli dei ministeri. L'affermazione non ha base; a parte che il personale della Cassa DD. e PP. e degli istituti previdenziali dipendenti dal tesoro ha gli stessi compiti d i quello degli istituti previdenziali; vi sono categorie di funzionari e di tecnici statali, quali quelli del tesoro, del commercio estero, degli esteri, delle finanze, delle miniere, del genio civile, degli ispettorati agrari, la cui preparazione tecnica e i cui compiti non possono dirsi meno importanti di quelli previdenziali; in molti casi sono ben superiori. L'esame di questo punto potrebbe sembrare superfluo di fronte al vigente articolo 1.4 sopra citato, se non si fosse tentato da tempo d i evaderne la esecuzione, con sistemi tollerati ma deplorevoli: quello di creare titoli di indennità solo in apparenza non aventi carattere d i generalità e temporanei; e quello di ottenere l'autorizzazione provvisoria dal ministero del lavoro, salvo a risolvere in seguito ( u n seguito sempre di là da venire) le eccezioni del ministero del tesoro. Venuti i nodi al pettine, il tesoro ha resistito più efficacemente che nel passato; nel dissenso fra ministeri ed enti previdenziali si è richiesto il parere al consiglio di stato che i n questi giorni ha messo il punto alle controversie. Nel suddetto parere si riafferma la validità normativa del citato art. 14, validità ammessa da ben quattro decisioni della sesta sezione (giurisdizionale) riferentesi al problema in parola. Una rima del 22 febbraio 1955 n. 74 stabiliva che ogni indennità che abbia acquistato anche in linea di fatto carattere generale e continuativo sì da assurgere a periodica ed abituale integrazione dello stipendio, anche se la denominazione la f a


apparire occasionale, deve essere considerata come inclusa nel calcolo della maggiorazione del 20 per cento dell'art. 14 del citato decreto ».Pertanto l a stessa decisione del 22 febbraio attribuiva la natura di continuità come sopra alla ((indennità invernale e di riscaldamento o caro inverno o mensa o caro viveri )I. Anche i l compenso per prestazioni fino a 40 ore settimanali (altro tipo di fraseggio di comodo) fu classificato, con decisione del 31 marzo 1953 n. 141, come compenso continuativo, perchè in sostanza si trattava di un maggiore compenso per il servizio fatto nei limiti dell'orario regolamentare. La stessa sezione VI, nelle decisioni del 27 agosto 1952 n. 62 e n. 629, affermò che i compensi in base al cosiddetto « premio in deroga per prestazioni ad orario spezzato od indennità di doppio accesso » presentano anche questi carattere integrativo dello stipendio. Quando l a sesta sezione del consiglio d i stato diede tali decisioni, nessuno fiatò; ora che il consiglio di stato, forte di tali decisioni, emette un parere complessivo che richiama la giurisprudenza di quel consesso in sede giurisdizionale, si è preteso che i ministeri competenti non lo dovessero tenere in conto. Non ho visto ricordato quanto si legge nel rapporto a l parlamento sugli enti sovvenzionati dallo stato (parte speciale), presentato dalla corte dei conti alla presidenza della camera dei deputati i l 4 giugno 1953; ivi, a pagine 185-186, si afferma chiaramente la portata normativa e permanente dell'art. 14 del decreto luogotenenziale del 21 novembre 1945 n. 722; e il carattere di limitata autonomia degli enti previdenziali in base a l presente ordinamento. Come i sindacati possono chiedere che i ministri non osservino la legge, quando la legge esiste e la sua portata è stata autorevolmente riaffermata sia dal consiglio di stato ( i l consulente costituzionale del potere esecutivo), sia dal magistrato (sezione IV) che applica le leggi nelle vertenze fra stato e cittadini, sia dalla corte dei conti, organo supremo che controlla l'applicazione delle leggi nella gestione pubblica e ne dà conto al parlamento? Si parla d i vertenza sindacale fra ministri e impiegati: as-


surdo; il rapporto giuridico è fra impiegati e i propri consigli di amministrazione; i quali non avendo ottenuto l'approvazione governativa, non possono dare corso agli aumenti proposti. I ministri, nel caso, presiedono gli organi di vigilanza e di controllo e ne rispondono. Manca il rapporto che determina i caratteri di vertenza. Per giunta, neppure vi è rapporto sindacale fra il consiglio di amministrazione e i relativi impiegati, ostandovi lo stato giuridico acquisito dal personale e sanzionato da legge. Manca, pertanto, qualsiasi base sindacale allo sciopero proclamato dai parastatali. L'atto di forza che essi vogliono esercitare in confronto al governo è una ribellione al potere esecutivo, è u n atto intrinsecamente illegittimo. Sarà bene ricordare sia agli scioperanti sia all'opinione pubblica che tuttora vige l'articolo 330 del codice penale, non ad altro scopo che quello di indurre tutti al senso del dovere civico e professionale, specialmente i medici, i quali, in confronto agli ammalati assistiti dagli enti previdenziali, oltre che un dovere di impiego, hanno un dovere professionale e morale, al quale non possono sottrarsi sotto nessun pretesto, nemmeno queilo della solidarietà sindacale. 22 maggio 1955.

(L'Avvenire cl'ltalia,, 25 maggio).

ANCORA SULLA LIBERTA' ECONOMICA (*) Non discuto l'esattezza dell'apprezzamento di Luigi Salvatorelli ( L a Stampa del 23 giugno) che l'on. Malagodi, con la sua presa di posizione nella questione dei patti agrari abbia mirato « a fare del P.L.I. il rappresentante degl'interessi capitalistici industriali ed agrari ».Rilevo solo che a questa affermazione così drastica segue un periodo dove, con una diver-

(*) Lettera al direttore de La Nuoca Stampa


sione extra-stile, io sono tirato in ballo. Salvatorelli scrive: « a tale avviamento non ci sembra che il presidente Scelba reagisca con tutta la dovuta energia, sia che in ciò fossero determinanti solo ragioni tattiche, o vi influissero tendenze e riserve teoriche apprese alla scuola di don Sturzo 1). È strano che Salvatorelli presenti in forma così semplicista il caso complesso e gravido di conseguenze come quello dei patti agrari. Comunque sia, di quale scuola egli intenda parlare io non so; non ebbi mai come alunno di filosofia e di sociologia il giovane Scelba. Questi, venuto a Roma per gli studi universitari, fu, per due anni circa, nella mia segreteria particolare; nelle ore libere, mi soleva accompagnare nelle mie passeggiate lungotevere. Che tale avvicinamento, in periodo così passionale per l'affermazione dei cattolici nella vita pubblica e per la lotta antifascista, abbiano influito sull'animo di un giovane come Scelba, nessuna meraviglia; ma la insinuazione, non toccando la dirittura politica del presidente del consiglio, va di là di u n episodio di oltre trent'anni addietro; va alla mia posizione in materia di libertà economica, che è stato uno dei capisaldi della mia concezione politica e sociologica, sia come insegnante sia come uomo di azione. Sembra strano che Luigi Salvatorelli, che come storico non può non ricordare i siciliani Francesco Ferrara e Napoleone COlajanni (che influirono molto sui miei primi orientamenti liberisti), tratti i problemi economici in maniera troppo spiccia, senza tener presente che la libertà economica è garanzia della libertà politica; e che sotto il punto di vista dell'equità sociale vale meglio un regime libero che aumenti la produzione e tenda a diminuire i costi; anzichè un sistema vincolistico, che per la stessa sua natura altera l'intimo dinamismo economico diminuendo la produzione e aumentando i costi. Ringraziando dell'ospitalità, accetti, esimio direttore, i miei più distinti saluti. LUIGISTUBZO 30 giugno 1955. ( L a Stampa, 5 luglio).


GOVERNI DI MINORANZA (*) Non sono stato entusiasta nè lo sono dei governi tri-quadripartito; ma di fronte a l « monocolorismo » incosciente, opto anche per il quadripartito al completo. Strano': governo monocolore in altri tempi e in tutti i paesi significa governo di maggioranza di un solo partito: conservatore o laburista (anticamente liberale) in Inghilterra; repubblicano o democratico negli Stati Uniti di America, e così via. Oggi, in Italia, governo monocolore vuol dire governo di minoranza, che si regge con i voti degli altri partiti sia con intese più o meno palesi, sia con voti di fortuna o di ricatto. Ebbene; anche oggi presso certe zone d.c., presso altre zone dei partiti di coalizione o di quelli di opposizione, si lamenta la soluzione Segni, optando per un monocolore Pella con la ricerca di voti a destra, o un monocolore Zoli con l'apertura a sinistra. Non mancano segni di soddisfazione a sinistra e di preoccupazione a destra nel vedere delinearsi i « monocoloristi regionali)) a Palermo e a Cagliari: «faciamus experimentum in corpore vili D. I1 governo di minoranza ( d i un solo o di più partiti, non importa) prima che in termini politici, va guardato in termini di tecnica parlamentare, per esaminare se le finalità del tentativo di un governo non usuale possano, o no, essere raggiunte. Di governi di minoranza, nel primo dopo-guerra, il più noto e i l più interessante in Europa fu costituito in Inghilterra nel 1924 e presieduto da Ramsey MacDonald, quando venuta meno per intimo disfacimento la coalizione di guerra presieduta da Lloyd George, a dar ragione alle agitazioni operaie si credette opportuno tentare un governo laburista di transizione con l'appoggio aperto del partito conservatore. La lealtà inglese fra partiti avversari, (lealtà neppure sognabile in Italia fra gli stessi partiti coalizzati) portò a far fare le elezioni dell'ottobre 1924 al governo laburista pur essendo di minoranza; questo, a (*) Pubblicato col titolo «Governi per conto terzi

D.


battaglia perduta, cedette il posto ai conservatori con a capo Mr. Baldwin. In Italia si classificò di minoranza il IV ministero De Gasperi, data l'uscita dei socialcomunisti; ma non essendovi allora parlamento dal quale ripetere la fiducia, ed avendo il governo i pieni poteri (salvo su affari riserbati all'assemblea costituente), non potè dirsi di minoranza nè di maggioranza. I1 primo ministero della repubblica effettivamente d i minoranza fu quello dell'on. Pella, nato sotto l'insegna di governo temporaneo, quasi d i stagione, per dare modo ai gruppi, formatisi dopo le elezioni del 7 giugno, di rivedere le loro posizioni per un governo definitivo. Pella durò fino a dicembre; quando pensò di presentarsi alle camere rafforzato con un programma a largo respiro, fu costretto a dimettersi; i primi ( e forse gli unici) a non accettare tale rafforzamento furono i dirigenti della D.C. La tecnica parlamentare impone, nel fatto, ai governi di minoranza due soluzioni: o la temporaneità fino che si arriva a formare una maggioranza di governo, costituita questa da elementi di un solo partito o di una coalizione di partiti; ovvero l'appello al paese. Tertium non datur, dicevano gli antichi. Vi potrebbe essere un, tertium, ma non degno del regime parlamentare: un governo prigioniero di una frazione, piccola o grande che sia, che ne permetta il funzionamento, sempre temporaneo o sempre contestato, attraverso tentativi di ricatto e risultati di compromesso. La mia piccola esperienza di giovane capo gruppo di una minoranza d.c. al consiglio comunale di Caltagirone dal 1899 al 1904, fu brillante: incuneando il mio gruppo fra maggioranza e minoranza, resi dura la vita dell'amministrazione comunale ; ebbi successo nelle elezioni parziali; obbligai la giunta monocolore a dimettersi; si dimisero anche i consiglieri liberali; sciolto il consiglio, la vittoria fu della D.C. vecchio tipo, che restò per quindici anni al potere: 1905-1920. Potrei citare i governi di dopoguerra del residente Poullet (lega operaia d.c.) nel Belgio, e altri simili brevi tentativi; ne £o a meno, parliamo dell'oggi in Italia. I nostri u monocoloristi n si possono classificare in due cate-


gorie: quelli che seguono l'apertura a sinistra, l'intesa con Nenni senza impegni, con piena fiducia di successo; certi d.c. di sinistra chiuderebbero un occhio anche per i comunisti, pur di arrivare non si sa a quale rivoluzione sociale (hanno scritto di non aver paura della parola « rivoluzione D). Per costoro, legare mani e piedi della D.C. alla sinistra socialcomunista è fare gli interessi dell'Italia, del popolo, della D.C. stessa e quasi quasi anche della chiesa, non saprei se con la C minuscola o con la C maiuscola. Cosa rispondere? Governo di minoranza questo o governo per conto terzi? io dico governo per conto terzi, cioè a maggioranza precostituita : sinistra d.c. e socialcomunisti ; si andrebbe diritti alla rottura della D.C. in due o più tronconi ovvero ad un governo Vanoni (Kerenski?) di pieno favore socialcomunista. Ma l'Italia non è il paese delle catastrofi a freddo, anche se d i caldo vi possa essere il petrolio; l'Italia è però un paese dove si può scivolare, a poco a poco, per certi movimenti contraddittori e controproducenti, verso situazioni impensabili. Chi credeva nel 1921 al successo del iascismo? Proprio nel momento del maggiore ribasso della C.G.I.L., sia nelle fabbriche che nel paese; dopo vari fallimenti d i scioperi politici comunisti (anche se mascherati, come quello di Genova); nell'attesa di un largo movimento internazionale per una chiarificazione fra oriente e occidente, che dovrebbe portare (se vi si arriva) ad uno svuotamento dei partiti comunisti europei occidentali - si badi che un partito comunista serio e preoccupante esiste solo in Francia (ripudiato dai socialisti) e in Italia (collegato con il P.S.I.) - dobbiamo sentire certi cattolici, di poca fede soprannaturale e di molta speranza terrena, volere un governo, che con la mediazione di Nenni, renderebbe il miglior servizio a Togliatti. Dal punto di vista della tecnica parlamentare (indipendentemente dalla qualifica politica di sinistra o di destra) si tratterebbe di un governo di maggioranza mascherato di monocolore minoritario. Un uomo politico serio, quale ne sia il partito, non lo potrebbe costituire, ~ e r c h ètutto sarebbe meno un governo di nazione libera. L'altro tipo di governo di minoranza, segnato da alcuni « con193 13 - STCFZO - Politica d i questi otini.


centrazionisti~ sotto la qualifica « delle mezze ali », sarebbe u n governo colpito da paralisi; infatti, con le mezze ali non si vola; si saltella per cadere. Un simile governo, che sembra non sia discaro alla D.C. per le regioni isolane, dovrebbe essere basato sopra un programma a lunga scadenza, possibilmente per la intiera legislatura, buono per le destre e per le sinistre, che resterebbero fuori ad attendere gli eventi. La maggioranza governativa si formerebbe di volta in volta sui punti programmatici, tradotti in disegni d i legge. Semplice, è vero, anzi semplicista; perchè si andrebbe dai compromessi dietro le quinte al capitombolo sul palcoscenico. La verità è una sola: il governo di minoranza è sempre un ripiego temporaneo che sbocca o in un governo d i maggioranza o nell'appello al paese. Per i governi regionali è lo stesso; la tecnica parlamentare non presenta soluzioni diverse; pretendere di superare il gioco delle forze ~ a r l a m e n t a r icon funambulismi mascherati, ovvero portando un governo e il suo partito allo sbaraglio, è mancanza di senso comune. Quanto sopra, se vale per Roma al cento per cento, vale anche, con la stessa percentuale, per Cagliari e per Palermo. 13 luglio 1955.

( I l Giornale d'Italia, 16 luglio).

LIBERTA E AUTOLIMITAZIONE Nel dialogo La Pira-Andreotti si è interzato l'on. Fanfani, nella sua qualità d i segretario politico della D.C., proponendo la ridestinazione degli stabili demaniali, per escludere quelli che, per abuso o per disuso, sono demaniali di nome e privati di fatto. Il primo ad aderirvi sono io che più volte ho lamentato la formazione illimitata sia di una manomorta statale di diritto, sia di una manomorta statale di fatto, combinando vecchie carcasse e nuovi stabili di lusso. Non è d i questo che intendo ~ a r l a r e ,ma del significato che


siffatto ultroneo intervento 'può assumere in questo e in altri casi consimili. Col mio modo, forse u n po' sorpassato (come si dice), di guardare i problemi di vita politica, la ricerca del significato ha la sua ragion d'essere. Non si tratta, di sicuro, del caso della mosca cocchiera; mi guardo bene dall'attribuire al segretario politico del partito-guida così piccola vanità; neppure quello del terzo incomodo, visto che tanto La Pira quanto Andreotti sono dello stesso partito, benchè ciascuno dei due abbia posizione e responsabilità diverse. Sarà allora l'intervento di un capo? del padrone del vapore? Ecco un dubbio che va dissipato. Non è la prima volta che l'on. Fanfani interviene pubblicamente, e quasi di autorità, negli affari che spettano al governo; e a me, bigotto del parlamento, al quale per via di interrogazioni, interpellanze, mozioni e voti di fiducia spetta il controllo politico del governo, fa una non gradevole impressione. Vero è che l'amico Zoli, pigliando spunto dal mio discorso del 20 luglio al senato, avanzò la teoria che, con la proporzionale (che tra parentesi non è nuova per l'Italia, ed è adottata nei paesi liberi dell'Europa continentale) sono scomparsi gli individui e sono venuti in auge i partiti, teoria questa che nè in . Svizzera nè in Olanda e nel Belgio avrebbe cittadinanza e neppure nella Francia individualista per conformazione storica e culturale. La verità per me è un'altra: Fanfani segretario politico, valorizza piazza del Gesù; Fanfani presidente del consiglio, sarà custode geloso del palazzo del Viminale. Le teorie le adatterà ai due casi l'amico Zoli, valente avvocato difensore sia in corte che in senato. Intanto mi si assicura che nei corsi di addestramento d.c., la teoria dell'onnipotenza del partito h a preso uno sviluppo mai prima sognato; De Gasperi, che iniziativa democratica cerca ad ogni modo di far suo, non l'avrebbe mai avallata. Le fasi della crisi siciliana hanno dato occasione ad affermazioni addirittura incredibili sull'ingerenza direttiva e ordinativa del partito nella formazione del governo regionale; il tentativo del governo monocolore, imposto da Roma, cadde nel ridicolo; la presenza a Palermo dell'on. Magrì, segretario am-


ministrativo e membro della direzione centrale della D.C., durante l'ultima fase della costituzione della giunta Alessi, è stata molto inquietante. Mai, prima di oggi, era comparsa la direzione del partito in simili fasi politiche, assumendo responsabilità e impegni che nè lo statuto del partito prevede, nè la posizione di un'assemblea eletta dal popolo e un governo che rappresenta l'intiera regione potrebbero tollerare. Si tratta di limiti invalicabili fra partito e governo, fra partito e parlamento, fra partito e amministrazioni pubbliche, fra partito ed enti statali, parastatali e simili. Non può concepirsi una pubblica amministrazione come l'opera dei pupi, dove ci siano i paladini che combattono contro i saraceni tenuti e tirati con i fili da sopra le quinte; e neppure come u n convitto di corrigendi, messi in fila o messi in castigo dai prefettini, secondo gli ordini di un direttore. La malattia non è da oggi; la malattia, come dissi a l senato, rimonta a i comitati di liberazione, i quali avevano il compito, i n mancanza di organi parlamentari, di rappresentare, politicamente, il corpo elettorale. Ma data la composizione eteroclita di quei comitati, invece di creare governi organici, crearono rappresentanze (delegazioni) di partito a cominciare dal governo centrale e finire alle più piccole amministrazioni locali. Ciò doveva cessare appena costituite l e rappresentanze popolari, e per i primi, i consigli e le giunte comunali. Ma quale la mia sorpresa, e il mio disappunto, quando al ritorno in patria, u n giovane d.c. svelto e intelligente, nell'espormi le manchevolezze dell'amministrazione comunale del suo paese ( u n grosso comune), aggiunse che quel sindaco non ubbidiva alle ingiunzioni della direzione della sezione comunale della D.C. Non mi fu possibile ~ e r s u a d e r l oche quel che egli chiedeva non era legittimo, nè serio, nè onesto. Quel giovane non era stato mai fascista, neppure la sua famiglia era stata fascista; ma il virus fascista era penetrato nelle ossa anche della fresca gioventù italiana del 1946. Che dire degli altri? Non c'era più i l partito unico; vi erano i comitati ciellenisti; oggi vi sono i partiti collegati, domani vi saranno l e aperture perchè altri partiti partecipino al comando (non lo chiamo potere, perchè il potere le-


gislativo e direttivo è del parlamento; il potere esecutivo ed attivo è del governo); lo chiamo ((comando », l'intrusione nel potere, quello che si riferisce ai partiti, che fanno di volta in volta da mosca cocchiera, da terzo incomodo e da padrone del vapore. Naturalmente, dietro i partiti, tutti i partiti, ci sono gruppi di pressione e interessi personali. Ve ne sono anche dietro ai governi, a tutti i governi; ma con la differenza che il governo è u n potere responsabile, e risponde al paese e anzitutto a l parlamento; il partito è un potere non responsabile; non risponde nemmeno agli elettori che gli dànno i l voto, nè ai sostenitori che gli dànno i mezzi; u n partito, per definizione, non ha mezzi propri. E allora? C'è il rimedio: il dirigente del partito, ( d i tutti i partiti, nessuno escluso) godendo della libertà democratica la più illimitata, al punto da poter sfiorare i l codice (vedi: INGIC) deve sapersi autolimitare. L'autolimitazione è la contropartita della l i b e r 6 illimitata. L'autolimitazione in regime di libertà è la regola generale per tutti gli organi della vita pubblica e per tutte le associazioni private che si occupano di pubbliche attività ( i partiti sono, fin oggi, associazioni private anzi privatissime: nessuno ne conosce i segreti e ne esamina i conti). Per uno stato di diritto, per un regime libero e per una democrazia basata sul popolo, non c'è di peggio che oltrepassare i limiti che legge, tradizione, costume esigono, e che ciascuno deve sapere imporre a sè stesso. Che dire se il parlamento invade i poteri dell'amministrazione attiva? e se il governo invade il parlamento? se la magistratura si sente superiore alla legge o se il ~ a r l a m e n t orende inoperanti le sentenze del magistrato? se il capo dello stato tende a sostituire il governo o se il governo tende a ingerirsi nelle funzioni del capo dello stato? Quale Babilonia! Di simili fatti in questo decennio se ne registrano parecchi; qualcuno anche clamoroso (ricordo il mio articolo: Applausi a l senato); ora è in corso una proposta di legge che renderebbe nulla la sentenza del magistrato in una questione dell'Ente cellulosa e carta. Piccoli o grandi giochi di mano ( i n francese:


escamotages) servono a dimostrare che il senso del limite non è ancora forte nella nostra giovane democrazia post-bellica. Ma questi sarebbero u peccadillos in confronto alla mancanza d i senso del limite dei partiti tale da far qualificare come delegazione la partecipazione ai governi di coalizione Due sono le soluzioni: o le direzioni dei partiti si rendono conto di dover lasciare ai propri deputati e senatori la responsabilità parlamentare e governativa che loro spetta, e si limitano a intervenire con opportuno senso di misura a ricordare loro i vincoli di partito e i deliberati dei congressi ( d i tutti i congressi, on. Fanfani, e non solo del congresso di Napoli); ovvero si promuove una legge che attribuisca ai partiti personalità giuridica e politica e responsabilità governativa. I1 problema dell'apertura a sinistra è anch'esso un problema posto da quei partiti e da quelle correnti che vogliono soppiantare governo e parlamento. Chi non se ne rende conto è fuori della realtà. È perciò che io, e con me gli italiani pensosi delle sorti del paese, vogliamo riaffermato e rafforzato lo stato di diritto in democrazia parlamentare, e non vogliamo affatto u lo stato della partitocrazia ». 6 agosto 1955.

(IL Giornale d'Italia, 9 agosto).

cc PARTITI 1955 »

I l Mondo, in polemica col mio discorso al senato nell'articolo di prima pagina del 9 agosto, sostiene la stessa tesi dell'on. Malagodi circa le u delegazioni )) dei partiti al governo di coalizione, e ne attribuisce il merito alla proporzionale e perfino alla costituzione che, secondo lui, h a riconosciuto la funzione democratica dei partiti. L'autore di quell'articolo mi sembra un po' spaesato; la funzione dei partiti e la loro esistenza nell'ambito costituzionale


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rimonta per noi all'unificazione italiana o meglio allo statuto albertino, quando fu riconosciuta ai cittadini la libertà di associazione, di stampa e di voto e nessun ostacolo fu messo alla formazione dei partiti, non ostante che il suffragio non fosse universale. Questo fu introdotto nel 1912; la proporzionale nel 1919. Ciò per l'Italia; per gli altri paesi l'autore dell'articolo può partire dal primo parlamento inglese o dalle democrazie cantonali svizzere, (siamo in pieno medioevo); per l'America del Nord, dal 1775; per la Francia, dal 1789 e così via per il resto dell'occidente a regime libero costituzionale. Mai nel passato, e neppure oggi, in tali paesi si è parlato di affidare i governi a delegazioni di partiti; mai è stata formulata simile teoria dai costituzionalisti di tutto il mondo; nulla esiste di ciò nella nostra costituzione repubblicana; se I l Mondo vuole avvallare la invenzione malagodiana, si accomodi pure. La D.C. per conto suo, sul suo organo settimanale, ha fatto macchina indietro: a onnipotenza dei partiti D? mai sentita nominare; - « monocolore in Sicilia »? mai imposto dal centro; - «intervento inopportuno di Fanfani in una vertenza ciil governo D ? mai pensato; si tratta di opinione libera di un privato cittadino; - « ingerenza dei partiti nell'attività parlamentare e governativa » ? niente affatto: il partito partecipa alla formulazione delle basi programmatiche e degli orientamenti generali. Più ortodosso di così non si può essere. La mia denunzia, fatta a1 senato, della invadente partitocrazia, per quanto riguarda la D.C. del 1955, non ha base; io avrei sognato ad occhi aperti. Giudichi il pubblico, giudichino gli stessi affiliati alla D.C. se si tratta di u n mio sogno, ovvero dello sforzo di Fanfani, o di chi per lui, a minimizzare quel che è successo; i fatti parlano da sè; parlano da sè gli stessi partiti, tutti i partiti, sia per la loro struttura che per la loro attività. L'articolo 49 della costituzione riconosce la libera associazione in partiti « per concorrere con metodo democratico a determinare Ia politica nazionale D. Vi concorre il cittadino da sè, vi concorre associato come meglio crede; vi concorrono i partiti: il metodo deve essere quello democratico; anche per i sindacati è la stessa regola; la costituzione esige che i sindacati -


sanciscano un ordinamento interno a base democratica (articolo 39). Ma si può affermare che i partiti del 1955 usino metodo democratico? Molti elementi strutturali e molti fatti ben noti a1 pubblico mostrano che anche quei partiti che affermano di essere democratici, trascurano più o meno completamente i l metodo democratico. E non si tratta solo del partito comunista, che ha concezione e pratica che nulla ha a che vedere con la democrazia occidentale quale si è andata svolgendo in Europa e in America dalla fine del secolo decimottavo ad oggi; si tratta anche dei partiti che credono in una democrazia. Prima condizione di vera libertà e democrazia dei partiti è la indipendenza. I democratici italiani ( e ci metto anche quelle destre che operano nell'ambito della costituzione) non possono dirsi indipendenti, perchè non hanno la capacità di creare partiti le cui spese siano sopportate dai propri affiliati. I1 metodo più facile ed usuale, ma non certo democratico, è il ricorso a grossi capitalisti, ad enti statali e parastatali e aventi rapporti con lo stato, ad associazioni o centri esteri. I n Inghilterra sono i sindacati che finanziano il partito laburista; si contesta se le cifre siano reali e si crede che quelle denunziate siano inferiori alla spesa; ma certamente sono i sindacati che pagano le spese del partito. In Italia, al contrario, i sindacati vengono finanziati da sorgenti non sindacali. I1 partito comunista finanzia la CGIL e non viceversa; la CISL, 1'UIL sono sostenuti, attraverso centri internazionali, con risorse non sindacali. I n Italia i l cittadino paga le imposte ( a malincuore, s'intende, e quanto meno è possibile); paga anche i consorzi obbligatori e i contributi unificati, quando vi è l'esattore che invia l a bolletta. Spontaneamente non paga mai; le tessere dei partiti forse non valgono due o tre pacchetti di sigarette o biglietti di cinema e parecchie volte si nota una mano interessata che si sostituisce ai titolari, esistenti o inesistenti. Se si applicasse in Italia la legge americana, ci sarebbe un limite massimo alle contribuzioni del di dentro e del di fuori a favore dei partiti, e si saprebbe quanto ogni cittadino da solo O associato avrebbe versato al partito. Da noi non si sa nulla,


neppure il direttori0 del partito ne conosce i segreti amministrativi. Ci può essere un'impresa e perfino un ente statale che abbia contribuito così largamente da reputarsi i l padrone della barca al centro o alla periferia, secondo i casi, e nessuno ne sa niente. I n America, lo stesso candidato deve dichiarare quanto ha speso per le elezioni; e se passa un certo limite, può essere processato; qui il candidato può fare incetta di preferenze a suon di quattrini, e nessuno dice niente. I l Mondo attacca l'on. Malagodi perchè legato alla Confindustria, all'Assolombarda e simili gruppi di imprese, ma, a parte i rilievi personali, quali altri enti hanno nel passato finanziato i liberali? I n Italia gli industriali, sia in singolo che associati, dànno a tutti i partiti, qualcuno anche sottomano alle sinistre. Essi pagano i l premio di assicurazione politica sia contro un sinistrismo sovvertitore; sia per i l quieto vivere sotto un eventuale governo di sinistra; pagano un contributo per favori di categoria ( non sempre realizzabili o realizzati); pagano, perchè come cittadini debbono contribuire alla vita politica quando nessun altro paga; e se la spesa è eccessiva troverà la contropartita. Tutto i l mondo è paese. Lo strano è che coloro che ricevono i fondi, mostrano di mantenersi alteri e sdegnosi verso i finanziatori; lasciano che la sinistra del partito e la « base » (quale ne sia i l nome) facciano della demagogia, cerchino l e aperture inopportune e rimescolino vecchi motivi antiborghesi e teorie sociali « rivoluzionarie ». Sono ragazzi, poveri figliuoli, e bisogna che si lasci loro la possibilità di fare u n po' di chiasso, da balilla o da goliardo. I n America sono più semplici e più realisti; ammettono che tutti possano dare ai partiti, ma a viso aperto e dentro certi limiti; e nessuno crede che sia una vergogna pigliarli dai capitalisti e dai borghesi, perchè non c'è quel complesso d'inferiorit.à come se avere a che fare con costoro sia una colpa grave da tenere nascosta. I n Inghilterra i laburisti hanno più volte tentato di fare della demagogia, su questo tema, contro il partito conservatore. Ma fin dal 1926 gli stessi conservatori cominciarono a ~ a r l a r epubblicamente e in cifre di bilancio del fabbisogno del partito; e in seguito i l Maxwell-Fife Committee diede parere favorevole alla pubblicazione dei conti elettorali; fin oggi non vi è stata una decisione, benchè l'opinione generale sia


matura per la pubblicazione dei conti dei partiti e della legittimità, entro certi limiti, delle contribuzioni dei sostenitori ( bachers). Da noi c'è di peggio; i partiti sono scissi per tendenze ideologiche che mascherano personalismi, e per personalismi che cercano una veste ideologica. È stato sempre così anche prima della proporzionale; il fenomeno è proporzionalmente in continuo aumento. I1 male è che gli stessi enti e industriali, i veri detentori del denaro anonimo privato e pubblico, dànno finanziamenti anche alle correnti dissidenti, alle basi senza base, ai gruppi e agli aggruppamenti occasionali, alle stesse amministrazioni locali (vedi Ingic); così i partiti perdono consistenza e franano. Quel che si nota al centro, si nota alla periferia. Chi paga, comanda. I dissidenti locali procurano anch'essi i propri finanziamenti (industriali ed enti, deputati interessati e futuri candidati); qualche gruppo hp avuto l'audacia di fare arrivare i propri desideri anche in alto. Ebbene, queste oligarchie e oligarchiette centrali e locali che senza mezzi propri hanno a disposizione cifre notevoli, e ne esigono ancora di più, sono quelli che affermano non solo d i saper concorrere C( a determinare la politica nazionale » e di fare « le basi programmatiche e gli orientamenti generali I), ma addirittura d i volersi imporre alle amministrazioni comunali, provinciali e regionali, ingerirsi nei ministeri, dare norme e sostituirsi anche al governo e al parlamento. Discussione mi avverte di « n o n ingenerare sfiducia nell'azione dei partiti; perchè su questa via non è lo stato che s i potenzia, è la democrazia che si svilisce, che perde credito e finisce con l'ingenerare (sic) ondate di qualunquismo D. Lo stesso mi fu detto per la mia campagna dei controllaticontrollori; lo stesso per la mia campagna contro la moltiplicazione degli enti parastatali, veri parassiti della pubblica amministrazione; lo stesso per la mia campagna contro I'ENI; ma una democrazia che si adombra delle critiche, non sarebbe vera democrazia. Tanto più che la mia non è critica demolitrice della democrazia, alla quale io credo; è critica per l a rettifica degli sbagli dei democratici che ci credono, ed è, allo stesso


tempo, denunzia della poca sincerità dei cosiddetti democratici che non ci credono. I1 ~ r o b l e m ada me posto oggi, dei finanziamenti dei partiti, è un problema fondamentale per la democrazia. Ci vuole coraggio a stabilire che i partiti debbono pubblicare i loro bilanci e che i cittadini, le aziende, gli enti debbono onestamente dire a chi e quanto e come hanno pagato il servizio politico dei partiti. Ecco una proposta che serve a creare il senso di responsabilità e mettere ordine nel caos dei finanziamenti dei partiti. Questa non è concezione ottocentista, (leggere qualche giornale d.c.), ma moderna, anzi di attualità. I1 resto un'altra volta. agosto 1955.

( I l Giornale d'Italia, 19 agosto).

ANCORA SUL

VETO A GIOLITTI » (*)

Esimio direttore, Nel febbraio 1922, cinque o sei ministri democratici liberali (detti giolittiani) si dimisero, a camera chiusa, dal gabinetto Bonomi. Invitato dal re a formare il nuovo gabinetto, l'on. Giolitti, come d'uso, si riserbò di dare risposta dopo consultati gli esponenti dei gruppi parlamentari. I popolari risposero con un rifiuto e per quanto pregati, anche da altri colleghi, persistettero nella decisione fino a che Giolitti rinunziò all'incarico. Questo i l fatto schematico noto come « il veto a Giolitti D, al quale nel recente articolo Testamento di De Gasperi », Luigi Salvatorelli fa cenno come un atto, a dir poco, (C di uno dei più robusti egoismi di partito di cui si abbia il ricordo in questo

(*) Lettera al direttore de La Stampa.


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paese » (parole di Amendola del 29 marzo 1920, applicate al caso). Non è di mio gusto polemizzare con chi ci ha lasciato da tempo e del quale ho alto e caro ricordo (egli nel 1922, ministro nel secondo ministero Facta, mantenne con me contatti continui e sinceri nella tremenda visione della imminente catastrofe). Ma ho i l diritto di chiedere a Luigi Salvatorelli, perchè attribuisca egli i l significato d i egoismo di partito all'atto dei popolari che non vollero entrare in un gabinetto Giolitti, e non a quello dei giolittiani che abbandonarono i l gabinetto Bonomi. E vero che nell'azione umana sono quasi sempre mescolati fini nobili e motivi egoistici (nessuno si salva); ma i l dovere di uno storico, anche se in veste di polemista, è quello di vagliare i motivi di un'azione e tener conto della correttezza morale, oltre che della osservanza delle regole, da parte delle persone cui si fa riferimento; gli attori principali eravamo De Gasperi presidente, Cavazzoni segretario del gruppo parlamentare e chi scrive, segretario politico del partito. Si può, forse, contestare ad u n partito il diritto di valutare i motivi pro e contro la partecipazione ad un governo? Ebbene, i popolari allora avevano fresco i l ricordo del governo di Giolitti, il quale, nelle elezioni amministrative del 1920, aveva favorito l e alleanze con i fascisti contro le liste popolari, e nelle elezioni del 1921 aveva, sciolta la camera, sostenute le candidature di fascisti come correttivo a i gruppi popolare e socialista. Egli riuscì nell'intento di portare 35 fascisti alla camera, ma non ottenne la diminuizione dei popolari che tornarono in 108. A parte altri motivi di dissenso con Giolitti, questi erano già importanti per u n giustificato rifiuto. Debbo inoltre negare recisamente che nella concezione e nella pratica popolare lo stato, anche lo stato attuato dai liberali del post-risorgimento, venisse posto «sullo stesso piano del partito, se non addirittura in un piano inferiore », come afferma Salvatorelli nel citato articolo. È questa una deformazione che non ha base in nessuno atto e in nessuno scritto, sia del partito, sia degli esponenti responsabili, sia del sottoscritto. Nell'appello è chiaramente affermato che « ad uno stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere orga-


nico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale (sottolineo per farlo notare) sostituire uno stato veramente popolare n. Questa la base riformistica del partito. Nella costituzione attuale non è stato affermato che « l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro » ? E non potevamo allora affermare di volere uno stato popolare, invece di uno stato liberale, prima di arrivare ad uno stato socialista o ad uno stato fascista? Gradisca, esimio direttore, i miei ringraziamenti e i più distinti saluti. 24 agosto 1955.

LUIGISTURZO (La Stampa, 26 agosto)

PARTITOCRAZIA E PIANO VANONI Non pensavo di mettere in correlazione il piano Vanoni con la partitocrazia, ma è stato lo stesso ideatore del piano a darmene lo spunto. Egli, nel suo intervento al consiglio nazionale della D.C. tenuto a La Mendola, ebbe a dichiarare il suo dissenso dalla « impostazione data dal senatore Sturzo » circa la partitocrazia, perchè, « a suo awiso non vi può e non vi deve essere pericolo di discrasia fra il governo e il partito che porta le maggiori responsabilità del governo. Questa è la visione esatta di quella che deve essere la democrazia moderna. Adottare la tesi del sen. Sturzo può voler dire creare uno stato di ineluttabile contrapposizione fra partito e governo, i quali sul piano della responsabilità non possono essere la stessa cosa D. (vedi Discussione del 28 agosto) Più chiaro o meno criptico, è il riassunto del discorso dell'on. Vanoni dato dal Corriere della sera (22-23 agosto), dove si legge che l'on. Vanoni conchiuse « invitando il partito ad assumere l'intera responsabilità di governo con le sue maggiori gerarchie; e in quanto al suo schema di sviluppo per l'econo-


mia nazionale, ha chiesto che il partito assuma la piena responsabilità della realizzazione d i esso 1). Fanfani, nella sua tacitiana risposta, non h a assunto l a piena responsabilità della realizzazione del piano Vanoni ( o meglio dello schema Vanoni), ma ha fatto suo l'auspicio che « venga l a necessaria derivazione concreta » del piano, « assicurando di proposito tutto l'appoggio della direzione a. E così, ne1 caso in esame, il vero partitocratico è stato Vanoni, membro del governo; e i l vero governativo è stato Fanfani, capo del partito. Non essendo io stato presente, non posso dire se l a risposta di Fanfani possa tradursi nel popolaresco: Grazie, non bevo! ovvero in un complimento a denti stretti per un non prevedibile avvenire. E neppure posso dire se Vanoni abbia fatto la proposta per amore sviscerato della partitocrazia, ovvero per sgravarsi di u n fardello, che comincia a divenire assai pesante. La mia impressione ( e se è erronea, prego correggerla) è che Fanfani capisce bene che non può addossare al partito il carico della formulazione del piano d i realizzazione; e che Vanoni teme di esporsi, non dico al fallimento, ma ad un differimento tale da dare l'impressione della mancanza di preparazione realistica. Ha ragione Vanoni nell'affermare che per realizzare lo schema del piano da lui ideato, occorrono non solo i consensi ma l'effettiva collaborazione di tutti i cittadini: parlamento, governo, burocrazia, confindustria, confagricoltura, confcommercio, confederazioni dei sindacati operai, partiti, nonchè, lo metto in fine pur essendo integrante come u n « sine qua non », l'aiuto estero, che, al novanta per cento, ci verrebbe dagli Stati Uniti d'America. Ebbene? quali di queste forze sono state finora mobilitate? nessuna. I1 governo ha preso atto dello schema Vanoni, invitandolo a proporre il vero piano d i realizzazione, che, tra parentesi, non dovrebbe essere piano di Vanoni ma piano d e l governo, come la cassa per i1 mezzogiorno non fu K la cassa di De Gasper i », ma l a cassa voluta dal governo con regolare disegno d i legge. A questo punto si dovrà arrivare; ma quando? Varie ne sono l e condizioni indispensabili, di alcune delle


quali feci breve cenno nel mio discorso al senato de11'8 giugno di quest'anno. Qui ne parlo al fine di accertare se possa il partito D.C., secondo le richieste di Vanoni, « assumere la piena responsabilità della realizzazione del piano D. Comincio dal governo sul quale dovrebbe cadere la responsabilità dell'iniziativa. Mettiamo fuori conto tutto ciò che è normale compito di governo; da dieci anni ogni gabinetto ha dedicato cure e fissato stanziamenti per la ricostruzione del paese e l'incremento dei lavori pubblici e le opere di bonifica. Fra le tante iniziative straordinarie dei governi di questi anni mettiamo, oltre la ricostruzione delle ferrovie e dei porti e delle strade, i lavori per l'attuazione dell'incremento edilizio, del piano Marshall, le molte opere in corso, sia degli enti di riforma agraria e della cassa per il mezzogiorno e delle zone centro-settentrionale, sia quelle straordinarie nel Polesine, nella Calabria. Per non parlare delle opere ordinariamente finanziate dai vari ministeri e dai molti enti statali e locali che costituiscono una massa rilevante di impiego di mano d'opera e una cospicua romma di investimenti. I1 piano decennale presuppone tutta questa attività, non la crea, non la inventa; potxà servire a darvi un migliore coordinamento, a stabilire delle utili priorità; ma se non ci sono maggiori fondi, non ci sarà possibilità di maggiori impegni in tutti i settori delle opere pubbliche e delle sovvenzioni per opere private. Lo stesso ragionamento vale per l'attività corrente degli enti statali, degli enti locali e per quella futura in base a possibili incrementi produttivi nell'agricoltura, nell'industria, nel commercio. Gira, gira, si arriva al nodo: sono necessari, in numero piuttosto elevato, migliaia di miliardi per i dieci anni del piano, in aggiunta a quanto è oggi risparmiato e reimpiegato in aumenti produttivi sia degli enti pubblici sia dei privati. P u r ammettendo le cifre ipotetiche dello schema Vanoni, e riducendole se vuolsi di qualche unità, si deve pure arrivare ad averli quei miliardi in maniera costante e crescente di anno in anno, fino a potere assorbire nel 1965 ( o più in là) tutta la mano d'opera disoccupata in base ad una sempre crescente produttività.


I1 primo e maggiore sforzo deve essere fatto dall'interno, evitando anzitutto l'enorme attuale sperpero del denaro, sperpero che dagli enti pubblici va fino ai privati. Dunque austerità. Anche l'operaio deve concorrervi, sulla base delle possibilità umane, nel correlativo contenimento dei prezzi e dei salari. Lo stato deve darne l'esempio, tagliando le spese superflue; altro che commissione della scure che reperì allora appena trenta miliardi; oggi se ne reperirebbero molti ma molti miliardi di più, solo che vi fosse una ragioneria generale più oculata, più coraggiosa e più drastica, e dei ministri pronti a dire di no, più che a dire di sì. Dall'altro lato, è imprescindibile (pena il fallimento del piano) aumentare la produttività. Miglioramenti tecnici e collaborazione fra datore di lavoro e operaio sono alla base di qualsiasi aumento di produzione; il datore di lavoro deve superare certo complesso tradizionale che lo distacca dall'operaio; l'operaio deve superare quella diffidenza istintiva (indipendente anche dagli stessi moventi politico-sindacali) per arrivare alla vera coooperazione produttiva, in base alle cosidette relazioni umane. Proseguendo nell'esame delle condizioni indispensabili, arriviamo alla constatazione, già fatta, che ci mancano i capitali necessari per ammodernare le attrezzature delle imprese (agricole, industriali e commerciali), per ampliare gl'impianti e crearne dei nuovi. I capitali vengono e dal risparmio (aumentato di anno in anno e non incamerato dal governo a scopi non produttivi o a scopi produttivi non necessariamente gestiti dallo stato), nonchè dagli investimenti esteri. Dall'annunzio del piano Vanoni fatto al congresso di Napoli (giugno 1954) ad oggi, nulla si è fatto da parte dello stato sia per contenere le spese improduttive, che di giorno i n giorno aumentano la rigidità dei bilanci, sia per attenuare le spese degli enti pubblici, improduttivi o pseudo-produttivi. Per giunta, è in preparazione u n disegno di legge che darebbe allo stato non solo il controllo delle energie nucleari (cosa legittima e doverosa), ma addirittura il più rigido monopolio. Se da questo punto ci sarebbe da sperare in una ripresa produttiva, l'orien-


tamento governativo è addirittura negativo e disfattista; altro che monopolio ENI! Oltre le commesse e altri aiuti già in corso da parte dell'America, e i prestiti americani alla cassa per il mezzogiorno e quelli svizzeri alla tesoreria dello stato, non ci sono prospettive concrete per concorsi esteri. I1 disegno di legge sugli investimenti esteri è atteso da più di u n anno; solo oggi è al senato per la discussione; quello sugli idrocarburi ha avuto da cinque o sei anni le disgraziate fasi a tutti note, compresa la sospensione della concessione di coltivazione della zona di Alanno allo scopritore, per indulgere alla democrazia sinistrorsa, con u n evidente danno (quale ne sia) per la impresa interessata e per l'economia generale. L'ambiente parlamentare per gli investimenti esteri non è il meglio orientato. Se i due disegni suddetti di legge, con tutti i difetti e i sottintesi che contengono, arriveranno i n porto fra sei mcsi, sarà un miracolo. E allora? Riparleremo fra sei mesi dello schema Vanoni e della sua pratica realizzazione, avvertendo che tutti i problemi su accennati, da quaisiasi partito, anche dalla D.C., saranno risolti solo sulla carta, con interessanti disquisizioni e dando di sicuro un colpo al cerchio e uno alla botte, ma non faranno mai un passo avanti. I1 governo, a cui spetta la responsabilità dell'iniziativa e della sua realizzazione, sa bene che ha le mani legate dai partiti e dai sindacati; sa bene che il piano Vanoni è stato fin oggi una bella esercitazione di cultori di scienze economiche e statistiche e un bel gioco politico, per le discussioni dei partiti e le relative aperture. Ma se si vuole sul serio arrivare al concreto, occorre cominciare dal1'A.B.C. insegnando agl'italiani di oggi, in basso e in alto, più in alto che in basso, non la teoria e la pratica della partitocrazia, ma un po' di economia applicata alla politica. 30 agosto 19.55.

(L'Italia, 3 settembre).

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- STCRZO - Politica

d i queati anni.


GIOLITTI OTTOBRE 1922

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Alfredo Frassati, nel suo articolo CC I1 veto a Giolitti nel 1922 1) mi assolve dal cosiddetto « veto » del febbraio di quell'anno ( a d assolvermi sarebbe il primo dei liberali di quel periodo), ma mi condanna per il « veto dell'ottobre D. Siccome la condanna è inaudita parte, perchè Alfredo Frassati non avrà letto o avrà dimenticato quanto io scrissi in proposito, mi permetto di riassumerne i dati principali. Dalla crisi Facta del luglio, risolta con il ritiro delle dimissioni, instante lo sciopero generale socialcomunista e la conseguente repressione della polizia unita alle squadre fasciste, la campagna antifascista fu tenuta ( a parte le sinistre) solo dal partito popolare. Intanto i senatori popolari avevano fatto un pronunciamento contro la politica del partito; a quel documento il gruppo della camera rispose con una dichiarazione, scritta dall'on. Meda, che voleva essere di chiarimento e di pacificazione. Dopo un breve riposo, ritornai a Roma ai primi di settembre e andai dal ministro Taddei a manifestargli le mie preoccupazioni. Egli mi rispose non volere finire avanti l'alta corte: avrebbe resistito anche con la forza ed era contrario a permettere il congresso fascista. Non soddisfatto, andai dall'on. Facta al quale feci cenno che correva a Milano la voce di un possibile ritorno di Giolitti al potere. Egli dichiarò di non avere notizie in proposito; comunque, egli non avrebbe provocato una crisi a camera chiusa. Dopo pochi giorni, il 4 o il 5 ottobre, interpellato dall'avv. Scavonetti, accettai un incontro in casa di lui con l'on. Camillo Corradini. Questi, dopo un lungo discorso e una serie di chiarimenti, mi chiese se i popolari fossero disposti a collaborare con Giolitti nel caso di un gabinetto di concentrazione. Alla mia domanda, se tale concentrazione arrivasse fino ai fascisti, ammise essere questo lo scopo dell'iniziativa. Insistetti per sapere se, caduta tale ipotesi, Giolitti pensasse ad un ministero senza fascisti. Egli rispose esserne dubbia la possibilità; e conchiuse non essere in vista la costituzione di un governo che aves-


se i fascisti come avversari. La conversazione durò un paio d'ore, e benchè ogni risposta impegnativa fosse rimandata per conferire, se del caso, con i membri della direzione del partito, non gli nascosi la mia convinzione che con tale piano Giolitti non avrebbe combinato nessun gabinetto. Nel volume Ztaly and Fascismo, edito a Londra nel 1926 (*) si trova un cenno sommario di tale conversazione, ovviamente senza i nomi di Scavonetti e di Corradini. In quel periodo Mussolini, attraverso intermediari, manteneva contatti contemporaneamente con Salandra, con Nitti e con Giolitti, fingendo o tentando (non si sa bene) di voler combinare un ministero, nel quale i fascisti avessero le leve di comando. A Roma i nazionalisti puntavano su Salandra, al punto che quando Facta invitò i ministri a dimettersi, Salandra si ritenne sicuro di esserne il successore. Ma avendo consentito di iniziare le trattative, ne fu data notizia telefonica a Mussolini, il quale rispose chiaro e netto che egli voleva essere il presidente e non intendeva partecipare a gabinetti non presieduti da lui. Ciò seppi dall'on. Federzoni, che incontrai in quei giorni in casa di un amico. È noto che intermediario fra Mussolini e Giolitti era in quell'ottobre il prefetto di Milano, avv. Lusignoli, che si recò fino a Cavour. Se di ciò fosse edotto i n antecedenza il presidente Facta, non mi risulta. Comunque Giolitti era convinto, e non dall'ottobre o dal febbraio '22, che i fascisti dovevano arrivare al governo. Io ero invece convinto che la collusione delle forze dell'ordine con i fascisti andava creando il caos di una pseudorivoluzione, attribuendo a metodi di forza un valore politico ed etico, che non potevano avere. Avevo, perciò, detto a Corradini: se Giolitti si presentasse con un gabinetto liberale-popolare allo scopo di riportare l'ordine e la normalità nel paese, disposto, quindi, a usare con i fascisti, secondo i casi, il metodo blando e quello rigido, potrebbe riuscire. Ma era impossibile combinare un gabinetto com-

(*) Edizione italiana, Bologna, ZanieheIli, 1965.


posto d i fascisti e di popolari, fra i quali egli avrebbe fatto da arbitro. Dopo di che, e nonostante l'offerta di Scavonetti per un secondo colloquio, I'on. Corradini non solo non si fece più vivo con me, ma non avvicinò De Gasperi, nè Cavazzoni, allora rispettivamente presidente e segretario del gruppo popolare dell a camera, nè gli amici personali di Giolitti ed ex ministri, gli on. Meda e Micheli. Giolitti sapeva bene che nonostante il mio voto contrario i deputati popolari avevano per due volte decisa la collaborazione con Facta; il che stava a significare che il mio era un parere )) non u n CC ordine D. Del resto lo stesso avvenne per la partecipazione dei popolari al primo gabinetto Mussolini. Se Giolitti avesse avuto l'idea di prendere la posizione di salvatore del paese ritenendo, pertanto, essere il paese all'orlo del disastro, il primo passo l'avrebbe dovuto fare con Facta, e il secondo con il re del quale era cugino mauriziano. Egli aveva l a possibilità di raccogliere l a maggioranza della camera ( p e r non parlare della sicura maggioranza del senato, che del resto politicamente allora aveva un ruolo secondario), e se del caso, mettere apertamente i popolari di fronte alla loro responsabilità. Egli non fece un passo avanti, o perchè credeva di potere arrivare (com'era sua prima idea) alla convocazione della camera; o perchè convinto che i conversari tra Mussolini e Lusignoli erano manovre senza base, com'erano quelle con Salandra e Nitti, e quindi da far cadere senz'altro. Ma se Giolitti si acquetò alle informazioni di Corradini sul mio incontro, non mostrò di avere compreso nè la situazione nè gli uomini. I1 Giolitti del 1920-'22 non era certo il Giolitti del 19i1, cui Alfredo Frassati attribuisce il benessere del primo decennio del secolo (storicamente, è troppo facile panegirico); Giolitti nel 1920 sostenne le alleanze con i fascisti nelle elezioni amministrative; Giolitti nel 1921 sciolse l a camera per immettere i fascisti in parlamento; Giolitti nel 1922 voleva i fascisti nel governo. Non dico che avesse fatto ciò perchè filofascista; egli credeva poter manipolare la vita politica del dopoguerra come aveva fatto (fino a un certo punto) nell'anteguerra. Alfredo Frassati dirà: che Giolitti, nel trattare così i fascisti,


era antiveggente, volendo non la lotta ma la normalizzazione; e i l domatore era proprio Giolitti a 80 anni, con le sue debolezze verso il fascismo, che avrebbe dovuto fare i l miracolo di assimilare il fascismo alle istituzioni liberali. La verità è che Giolitti si era illuso di potere attenuare, fino ad eliderle, l e forze del partito popolare, del quale non aveva compreso l a portata e la capacità politica. Vi era in lui, e in molti suoi amici, del risentimento e, forse anche, l'inconscio presentimento di un'avventura diretta contro la classe dirigente che teneva il potere come per diritto storico. L'atteggiamento dei cattolici indipendenti (dopo sessant'anni di un ruolo assai secondario ovvero da avversari estraniatisi dalla vita politica) più che turbarlo, lo infastidiva. Preferiva i fascisti, da domare, ai popolari, che gli scappavano dalle mani. Con questo complesso di vecchi0 liberale in fondo scettico e anticlericale, si comprendono l e sue impazienze contro don Sturzo, al quale, anche nell'opinione pubblica, si attribuiva tutto il bene e tutto i l male ( p i ù il male che il bene) del partito popolare. Di questo complesso sono ancora tipici rappresentanti Frassati e Salvatorelli. Dopo trentatre anni, dei quali ventidue in esilio, a me fa una certa strana impressione che tali esimie persone conservino ancora contro di me, come se fosse di ieri, il rancore dell'avversario inacerbito, addossandomi la colpa di avere contrastato in Giolitti i l preteso salvatore dal fascismo. Dov'era Giolitti alla vigilia delle dimissioni del governo Facta, invocate e poi intimate dai fascisti? E quale ausilio diede al re in quei di5cili momenti? Quando Facta propose il decreto dello stato d'assedio, io fui interpellato e gli feci assicurare la fedeltà e l'appoggio del partito popolare, a condizione che egli avesse ritirato le dimissioni. Ma i l re, che consentì allo stato d'assedio proclamato in tutto il regno, dopo la visita di Diaz, Del Vecchio e altri, negò a Facta la firma, consolandolo con il ricordo che quello non era il primo esempio di una siffatta negativa di firma; anche un'altra volta, dopo pubblicato l'avviso della chiamata alle armi di una data classe, non volle firmare il decreto. E così finì la monarchia costituzionale; ma Giolitti era assente in quel momento, perchè non aveva potuto realizzare il suo piano, avendo fattogli ostacolo il 5 ottobre 1922, una


conversazione di sondaggio, privata e segreta, avuta dal suo Corradini con l'indomabile don Sturzo. Quando si dice: gli imponderabili della storia! 12 settembre 1955.

(La Stampa, 16 settembre)

LETTERA AL DIRETTORE DELLA STAMPA. Egregio signor direttore,

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A nuove accuse di af. lei non può negarmi una breve replica. Ho dato pareri, da segretario ~olitico, s'intende, non da privato, nè da dittatore. Secondo la prassi del partito popolare, sulla attività parlamentare e governativa, spettava al gruppo dei deputati decidere, sentita la direzione del partito o il segretario politico. L'attuale sistema della partitocrazia, da me criticato, allora non era di moda. Venne col fascismo. Del resto, che cosa fu il u parecchio di Giolitti, con la sua lettera a Peano del 1915, se non un parere? Trecento deputati lasciarono i propri biglietti da visita a casa Giolitti, ma poco dopo a Montecitorio votarono per la dichiarazione di guerra. Non mi fo piccolo io, se i miei punti di vista furono ora accolti (veto a Giolitti, febbraio 1922) ora disattesi (partecipazione ai ministeri Facta e a quello di Mussolini); e neppure si fa grande Giolitti se i suoi punti di vista non ebbero seguito (maggio 1915 e febbraio-ottobre 1922). Tornando all'ottobre 1922, a.f. non può essere sicuro che Giolitti volesse fare un ministero con i popolari, perehè non basta ad affermarlo il semplice incontro segreto ed esplorativo dell'on. Corradini con me i n casa Scavonetti, quando poi non fu fatto altro passo con i capi del gruppo parlamentare popolare e neppure con me, mentre continuavano i contatti del prefetto Lusignoli con Mussolini per un governo Giolitti. I1 mio contraddittore si scandalizza che io oso affermare che Giolitti avesse favorito i fascisti; ma era proprio questo il punto del maggiore dissenso tra lui e i popolari. Legga l'intervista dell'on. Gronchi del febbraio 1922 sulla Tribuna, riprodotta dal Giornale del Mattino di Firenze del 6 settembre corrente, e se ne persuaderà. Circa l'intervento di Mussolini presso il Vaticano, io non ho le notizie di a.f.; solo gli fo notare che dall'ottobre 1922 all'ottobre 1924 (data della mia partenza per Londra) passarono due anni giusti. È vero che non avevo mai cessato di battagliare con discorsi, riunioni e congressi; - sono di quegli anni i miei volumi: Indirizzi politici e riforma statale (Vallecchi, 1923); Popolarismo e Fascismo (Gobetti, 1924) e Pensiero antifascista (Gobetti, 1925) in corso di stampa alla mia partenza; ma è anche vero che dal luglio 1923 avevo lasciato la segreteria politica, pur restando membro della direzione del partito. La situazione, nel 1924, era divenuta grave per l'assassinio di Matteotti,


data anche la nota campagna del Popolo, il giornale del partito, diretto da Donati. Nel luglio, un quotidiano della sera di Roma L'Impero aveva pubblicato che Sturzo e Albertini (con quest'ordine) dovevano far la fine di Matteotti. I1 foglio fu sequestrato, dopo che mezza Roma lo aveva acquistato ed io ne presi una copia alla stazione Termini, al momento di salire in treno. In quel periodo si intensificarono verso di me minacce e offese, e non dico altro. Passai due mesi prima in una casa religiosa e poi presso un amico. Durante le dimostrazioni del settembre fu tentata l'invasione del mio appartamento. Era naturale che il Vaticano ne fosse preoccupato, e più che umano che avesse consigliato l'allontanamento per qualche mese in Svizzera o altrove. Preferii andare a Londra e restarvi, terra libera, a continuare la mia battaglia. Mai ho fatto cenno di questi dettagli, ma non posso lasciar passare delle insinuazioni polemiche del tutto ingiustificate. Ringraziamenti per l'ospitalità e distinti saluti. LUIGISTURZO

18 settembre 1955. (La Stampa, 23 settembre)

POLEMICA CON LA PIRA Come tutte le polemiche, nelle quali gli antagonisti non hanno in comune neppure la terminologia della materia in discussione, quella di Fanfani con La Pira può continuare all'infinito, senza che nessuna delle due parti rimanga persuasa delle ragioni dell'altra. Questo fatto è normalissimo ; direi congenito all'umanità : è il fatto della Torre di Babele. Anche per una discussione, senza preconcetti e senza passionalità, occorre che si parta da un termine accettato da ambo le parti nel suo significato univoco. Esempio: il significato di chiesa per un cattolico h a un contenuto che non è lo stesso di quello di un protestante; per potere costoro discutere sulla chiesa occorre trovare un elemento costitutivo, un fatto evangelico sul quale essere d'accordo, altrimenti la discussione sarà confusa ed inutile. Questo complesso babelico è accresciuto nel mondo, come sono accresciuti i mezzi di comunicazione e la libera manifestazione del proprio pensiero; al punto che quel che si credeva


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da tutti acquisito, per esempio: i l significato univoco del senso del pudore, della moralità pubblica, dello abuso di potere, dell a correttezza amministrativa, portati nella polemica quotidiana prendono significati imprevisti, fino a sfumare il tradizionale valore del vocabolo stesso. La Pira e gli avversari parlano di economia; il primo per auspicarne una nuova; gli altri per appellarsi alle leggi fondamentali, delle quali La Pira e gli amici suoi non riconoscono o l a esistenza o la portata vincolativa. Ma è tanto difficile definire un'economia quanto crearla; si dirà: economia libera (l'attuale in occidente) ed è vincolata; si dirà economia comunista (quella bolscevica) ed è statalista; si parlerà contro i capitalisti (privati) e si cerca un capitalismo di stato; si par1er.à di stabilità della moneta, e si va verso l'inflazione; e così di seguito: Babele in pieno impiego. Pure qualche legge economica esiste, che nessun La Pira potr,à negare: anzitutto quella della quantità di beni in rapporto ai soggetti da soddisfare. La Pira si appella spesso al Vangelo: ricorderà che le due volte che il Figlio dell'uomo volle dare da mangiare alle folle, prima moltiplicò i pani e i pesci e poi li fece distribuire. Noi, che non siamo taumaturghi, dobbiamo mangiare il pane nel sudore della fronte D, in esecuzione della condanna divina ad Adamo. Quindi coltivare, seminare, raccogliere e distribuire. E qui cade bene un'altra citazione biblica, quella di Giuseppe il giusto, i l quale, fatto provveditore generale dell'Egitto, all'inizio della profetata carestia vendette il grano accumulato nei granai del re e incassò il denaro. Nell'anno seguente, non avendo il popolo altro denaro, Giuseppe (non potendo allora battere moneta) cedette il frumento in cambio del bestiame; nel successivo, non avendo il popolo nè denaro nè bestiame, egli acquistò tutte le terre, che divennero proprietà regia, tranne quelle dei sacerdoti. I n tal modo, gli Egizi divennero coloni e servi del re; a d essi fu assegnato da Giuseppe come canone il versamento ai granai del re di un quinto del raccolto, restandone i quattro quinti per semente e alimentazione. Come si vede, un'economia deve sempre esistere; ma quella che si dice legge economica, è niente altro che il condizionamento dei dati economici, sui quali, bene o male (spesso piii


male che bene) lavora l'uomo, in singolo e collettivamente. Se imbocca una strada, ne avrà le conseguenze che da quella strada derivano; se ne imbocca un'altra ne avsà quelle altre conseguenze e così di seguito; le leggi di quantità e di rapporto in qualsiasi sistema, si voglia o non si voglia, sono sempre operanti. Ma c'è una legge ancora più forte, l a legge del limite ; l'uomo può fare molto per trasformare il condizionamento naturale fisico, storico e sociale alla sua attività, ma ha i limiti insuperabili del tempo e dello spazio. Chi osserva le coste impenrie del17Amalfitanotutte piene di alberi fruttiferi, di verde perenne e di feconda ubertà, non tiene conto che la lotta è stata fra lo spazio (piccolo) e il tempo ( p i ù lungo delle impellenti necessità dei lavoratori) che h a creato questo miracolo umano; l o stesso è a dirsi della lontana progrediente trasformazione delle lave etnee o vesuviane in zone di eccezionale feracità. Condizionamento o leggi economiche? per il sociologo si tratta di condizionamento all'attività umana ; per l'economista sono leggi di quantità e di rapporto. Un esempio della rivincita del condizionamento sul valore umano, è dato dal fenomeno d'inflazione: l'aumento di stipendio o di salario non contenuto nel rapporto con i prezzi, porta quel gioco della palla di neve, per cui aumentando i salari aumentano i prezzi e il rapporto rimane identico al precedente, con un lato di peggioramento, la corsa verso l'inflazione. L'ammonimento di questi giorni dei capi sindacalisti inglesi serve a far notare i l pericolo della situazione odierna anche in paesi ad economia più stabile di quella nostra. E c'è ancora un altro aspetto delle leggi economiche che conviene mettere in rilievo; l'inquadramento del sistema, che non si crea dalla mattina alla sera, ma che è il prodotto di tutta una lunga serie concatenata di premesse e conseguenze. Un paese industrializzato non ha che un'alternativa: o è basato sulla libera iniziativa e l'economia di mercato; ovvero è statizzato al tipo estremo di socialismo di stato. Nel primo caso, deve avere un mercato internazionale e subire il gioco dei prezzi internazionali, pena la decadenza e la crisi; nel secondo caso deve contare sul consumo interno, e gravare su questo la eventuale cessione all'estero dei prodotti nazionalisti. Nel pri-


mo sistema l'operaio entra nel ciclo produttivo sia come competitore sia come cooperatore dell'impresa; nel secondo caso, l'operaio è o si finge che sia un impiegato statale ( o dell'ente statizzato) e può divenire anche uno schiavo, non potendo nè competere nè cooperare con ;'impresa. Si tratta di conseguenze obbligate, siano o no volute dai responsabili e realizzatori dei due sistemi, perchè ogni fatto politico o economico, (come ogni altra attività umana) ne condiziona gli effetti. Se un agricoltore semina un buon seme d i grano, ne avrà il prodotto di buon grano; e se semina grano e loglio, ne avrà grano e loglio mescolati insieme. Nessun La Pira potrà dire diversamente; solo ( e qui entra Babele ad avere la sua parte) potrà affermarsi che le conseguenze potevano essere evitate e non sono il prodotto del sistema statalista. Lo stesso oggi si dice per tutti gli ENI e gli IRI d'Italia dei quali gli statalisti portano al cielo i vantaggi e i liberisti criticano metodi e attività. Per evitare di discutere a parole occorre appellarsi ai fatti: portino gli statalisti l'esempio di un solo stato civile, altamente industrializzato, con un'economia, anche dopo la guerra, in prosperità, che abbia adottato l'economia statalizzata che essi desiderano. I o non ne ho conoscenza; so bene che gli Stati Uniti d'America fanno una politica libera, pur con opportuni interventi statali; lo stesso fanno la Svizzera, l'Olanda e il Belgio, i più prosperi paesi dell'occidente; subito dopo vengono la Germania, che si è ripresa sul piano della maggiore libertà possibile, e l'Inghilterra, che ha smontato una parte della bardatura laburistica del dopoguerra e tra l'austerity e le leggi antinflazioniste, va riprendendo quota. La Francia e l'Italia, purtroppo, si trovano K fra lo stil dei moderni e il sermon prisco P, avendo complessi economici in perdita, l'una per le sue colonie (dalla fine della guerra a d oggi in continue guerre ed agitazioni); l'altra, l'Italia, per un eccesso di popolazione che non è stata assorbita con la normale emigrazione, nè con l'attuale livello di produzione. Sono grandi crisi, che non si superano con accentuare lo sta-

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talismo economico, con compromettere la stabilità della moneta e inceppare l'iniziativa privata. La lezione dataci in questi giorni dal capo dei sindacati operai industriali di America, Walter Reuther, lezione interessante gli industriali, gli operai e gli stessi uomini politici, dovrebbe essere tenuta in conto, ripensata ed attuata. Per conchiudere torniamo alla Bibbia; un aspirante novatore d.c. ha citato il versetto del Magnificat: K Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles n. La citazione ( a mire profane) ha un precedente: certi monaci .austriaci ai tempi delle lotte giurisdizionaliste fra monarchi e cleri, nel cantare il Magnificat, arrivando a quel versetto, lo sottolineava con un forte crescendo di voce. Annoiato di ciò, Giuseppe I1 (che non aveva spirito D, quel che gli inglesi dicono: sense of humour), emise u n decreto che proibiva quel canto. I1 fatto è che se la rivoluzione francese e Napoleone deposero molti monarchi, non esaltarono, certo, monaci e frati. E così, dal canto della Vergine (tutto spirituale e profetico del regno di Dio) ad oggi, i potentes ci sono stati sempre e ci sono ancora, e gli humiles pure, anche in Russia: i primi, potentes sul serio a Mosca, e gli altri dappertutto, specie in Siberia. Nessuno crederà che la profezia della Vergine, portata sul terreno economico ( i o direi, profanata), si attuerà solo oggi in Italia e per merito di Fanfani e La Pira. settembre 1955. (L'Azione Popolare, Reggio Calabria, 26 settembre).

I PARTITI E LE ELEZIONI DEL 1956 Secessioni, frazionamenti, dimissioni - potenziali ed effettive - sono all'ordine del giorno dei partiti minori. Quale attrattiva essi possono esercitare sul gran pubblico se vanno divenendo più discussi e più sottili? È un problema che molti non si pongono, credendo fermamente nella proporzionale, pura


o impura che sia, per potere mantenere una fetta, anzi una fettina, d i potere e di influenza nella pubblica amministrazione; una voce in capitolo, anzi una vocina, alla camera e a l senato e anche nelle assemblee e nei consigli regionali: hic manebimus optime. Un partito serio, in tanto potrà avere u n avvenire in quanto può aspirare a divenire vera e larga espressione della volont,à elettorale; se rimane sempre ai margini della rappresentanza nazionale, sarà più o meno un'agenzia di affari o i l simbolo di ideologie tramontate; non sarà mai i l punto di convergenza di molti per arrivare dall'opposizione al potere; o per mantenere salda la posizione di governo già acquisita. Noi in Italia non abbiamo, per ora, quella che si dice l'alternativa a l potere; il partito che potrebbe aspirarvi ( i l socialcomunista) non formerà mai un'alternativa, perchè segnerebbe la fine della democrazia e l'avvento di una dittatura, come lo fu il fascismo nel 1922. Gli altri partiti fuori della D.C. sono tutti « minori D ; nessuno di questi è quel minorenne che abbia la prospettiva di divenire, presto o tardi, maggiorenne. L'essere minori » per insito destino, toglie la fede nell'avvenire. I teorici del lato democratico di tali partiti cercano nella comune « laicità 1) la bandiera della loro fede. Ma la laicità non è una fede, è una negazione polemica in confronto alla D.C., con la quale i partiti minori sono costretti dagli eventi a collaborare. Per giunta fra di loro non sono d'accordo sulla libertà dei liberali (una specie di vecchia divisa fuori misura); non sono d'accordo sulla socialità dei socialdemocratici d i origine marxista e di carattere classista; non sono d'accordo sul mazzinianismo dei repubblicani storici, perchè non fermatisi alla Repubblica romana. E che dire delle varie concezioni marginali e collaterali dei partiti minori, che vanno dal radicalismo di Villabruna, al marxismo di Faravelli, all'azionismo di La Malfa? A destra stanno i monarchici, i quali han dato prova lampante, nei pochi anni di organizzazione sotto la insegna dei Savoia, che neppure la fede nella monarchia è valsa a tenerli uniti. Per giunta, l'esito elettorale dimostra fin oggi che l'idea monarchica non è tale da destare movimenti di masse per un futuro avvenire da contrapporre alla D.C. e al socialcomunismo;


nè ha tale efficacia presso la piccola borghesia da fare breccia nelle riserve dei partiti laici di cui sopra. I missini fanno la ~ r o p a g a n d asociale riportando alla discussione del parlamento l a socializzazione delle fabbriche del fu governo di Salò. Concorrenza con i comunisti per la ipotetica dittatura rossa? Ma i ricordi del passato non hanno mai creato i movimenti dell'avvenire; i ricordi del passato servono solo ai vincitori, per farsene belli, se utili, e per rigettarli sugli altri, se odiosi. Forse che i grandi nomi di Cavour e Giolitti giovano in qualche modo ai liberali del 1955? Quel che occorre al popolo è un nuovo sole dell'avvenire. I socialisti, avendolo profetizzato da circa un secolo, si trovano in ritardo nel farlo spuntare ; quel sole non si è mai visto in nessun paese del mondo; oggi esiste, per molti, i l sole d i Mosca, tanto più promettente quanto più lontano, fatto intravvedere come una specie di comunismo, pur non essendo vero comunismo, con del calore che non gli viene dal finto marxismo, ma solo dalla vastità del territorio, dal numero degli abitanti e dal peso nella politica internazionale. Ed eccoci al punto: coloro che vorrebbero evitato il duello democrazia-comunismo (che in termini correnti si traduce nel duello della democrazia cristiana, affiancata o no, con la socialdemocrazia) debbono dirci quale possa essere l'alternativa di una terza forza autonoma, che sul serio venga ad incunearsi fra i due, polarizzando verso di sè una parte dell'elettorato italiano, specie quello disperso verso i partiti minori e le relative frazioni. Tale terza forza non esiste oggi e non è ancora in prospettiva. È per questo che tutti i partiti minori: laici o destra, alleati o avversari, hanno l'interesse comune di assediare la democrazia cristiana sì da impedire che essa raggiunga di nuovo la maggioranza assoluta, per obbligarla a piatire i voti dai minori o dalle destre, ovvero ridiscutere (come si fa dal 7 giugno in poi) sulla possibilità, o impossibilità, dell'apertura a sinistra, come alternativa interna di partito, e come indiscutibile cavallo di Troia del comunismo. I1 circolo vizioso della nostra democrazia e del nostro regime costituzionale è proprio questo; e non c'è finora un uomo, nè un nucleo di uomini, che abbia la possibilità di disincantare


la fatalità d i tale circolo, ridestando, così, il senso d i fiducia nell'avvenire delle istituzioni parlamentari e delle sorti del paese. La D.C. da dieci anni è stata, ed è ancora oggi, il partitoguida, pur non avendo conservato la maggioranza assoluta nei due rami del ~ a r l a m e n t o ,perchè è ritenuta ancora oggi l'unico partito atto a impedire l'avvento del comunismo. A favore della D.C. è prevalso, fin da principio, il complesso della paura e insieme il senso della difesa religiosa. La paura anticomunista è principalmente sentita dalle classi medie e dalla borghesia economica; la difesa religiosa è sentita di più dalle popolazioni cattoliche che vivono attorno alle ~arrocchie.La D.C. non può trascurare questo largo apporto di voti al suo milione e mezzo di iscritti (che, del resto, sono della stessa stoffa, piccoli borghesi e fedeli cattolici), senza vedersi retrocessa di rango e diminuita di voti. Purtroppo, dal fatale 7 giugno in poi, attorno alla D.C. è stata tesa la rete dell'apertura a sinistra; e vi sono caduti molti fra gli uccellini meno accorti, tutti « socialità » di poco senno; e non hanno mancato di cadere nella rete anche certi finanziatori, non si sa bene se interessati o fanatici. La discussione sull'apertura a sinistra, oramai troppo prolungata, ha creato due impressioni errate: quella che i democristiani fossero per sè inabili ad attuare riforme sociali senza l'apporto socialista; l'altra che esista un'ala notevole della D.C. favorevole al socialismo di stato mascherato da interventismo sociale, da mettere in contrasto con l'iniziativa privata. Certo si è che, allo stato attuale, la D.C. reagisce fiaccamente alla accusa di socialismo di stato, non sa dimostrare con evidenza una salda e unanime convinzione che alle riforme sociali, quelle serie e possibili, essa basta anche da sola; meglio se a5ancata; e che le altre, impossibili per sè ovvero impossibili per le circostanze, non debbono essere tentate da un governo democratico e responsabile. Purtroppo, l'atteggiamento socialcomunista mostratosi favorevole in pieno alla nomina del presidente della repubblica, on. Gronchi; e poi favorevole a mezza voce al governo Segni; e infine favorevole con l'aria di protezione verso la giunta re-


gionale presieduta da Alessi, ha creato una nebbia che avvolge il piano politico italiano, nebbia che tutti i discorsi e i comunicati di Fanfani e collaboratori non sono valsi fin oggi a dissipare. Ed eccoci al punto: la legge elettorale amministrativa, in corso di compilazione, sembra che venga rifatta per uso e consumo dei partiti democratici minori, nonchè delle destre, delle liste di comodo e delle liste-disturbo, manovrate queste ultime con accortezza dei socialcomunisti ; i quali, inoltre, avranno la cura di fare liste separate ed avere così i vantaggi elettorali e quelli politici. L'esito per molti consigli comunali e provinciali sarà assai confuso; per costituire le nuove giunte la D.C. sarà costretta a subire i ricatti dei gruppi e gruppettini dei partiti minori, nonchè i richiami delle sirene di sinistra e le proposte di aperture « locali », utili per gli avversari. Nel maggio 1956 si raccoglierà quel che oggi seminano governo e partiti; la raccolta si presenta problematica per la D.C. e lascia perplessi coloro che sono pensosi delle sorti del paese. 26 settembre 1955.

( I l Giornale d'ltalia, 29 settembre).

UNO O DUE « VETI A GIOLITTI » ? (*) Egregio direttore, Chiamato in causa, la prego di accordarmi lo spazio necessario per alcune precisazioni, doverose da parte mia. Fino al recentissimo attacco di Frassati per la mia « opposizione » ad un ritorno di Giolitti alla vigilia della marcia su Roma, si è sempre parlato di un solo e famoso « veto a Giolitti D, quello del febbraio 1922. Ora Nino Valeri d.à per acquisiti « due veti D: febbraio e ottobre 1922.

(*) Lettera inviata al Resto del Carlino di Bologna e a La Nazione di Firenze.


Si sa che la qualifica di N veto D, come certe definizioni polemico-giornalistiche a sensazione, colpì il pubblico e restò nella storia. a Veto è l'uso di un diritto che impedisce l'esercizio di un potere; il mio veto, nella ipotesi, non sarebbe stato diretto a Giolitti, ma al gruppo parlamentare popolare, i l quale avrebbe subito una mia soverchieria, con l'aggiunta che io avrei impedito l'esercizio d i diritti parlamentari, incappando, così, nel codice penale. Nessun diritto d i veto dava lo statuto del partito a l segretario politico; il gruppo, cui spettava la definitiva decisione, fu, a maggioranza, consenziente con il mio atteggiamento approvato all'unanimità dalla direzione del partito. Chi rilegge, a trentatre anni di distanza, l'intervista d i Gronchi alla Tribuna, se ne rende conto. Nessuno storico onesto può variare i termini del conflitto e parlare sul serio di CC veto a Giolitti 1) o d i CC veto al gruppo parlamentare popolare ». I n quel momento nessuno di noi popolari aveva l a convinzione che Gioliiti fosse l'uomo che avrebbe preso di fronte i l fascismo; egli, invece, per combattere i popolari, voleva, more suo, rafforzare i fascisti. Questa fu la mia accusa di allora; basta leggere il mio libro Italia e fascismo )I scritto nel 1925 e pubblicato nel 1926 a Londra, nel 1927 a New York e a Colonia, nel 1928 a Parigi, nel 1930 a Madrid. La edizione francese penetrò in Italia come pure, in minore numero, la inglese. (**) Debbo aggiungere, che il pericolo fascista non era incombente nel febbraio 1922, ma esisteva. Riprese forza con la crisi Facta del luglio successivo, quando Giolitti avversò una soluzione Orlando, e quando agenti provocatori, a fine luglio, eccitarono i comunisti allo sciopero generale (nella cui rete caddero i dirigenti del partito socialista: Serrati e Vella), dando ai fascisti, uniti con le forze dell'ordine, la possibilità di prevalere nei tumulti e sollevazioni popolari in varie città del Nord, ma specialmente a Parma. E veniamo all'ottobre 1922: se piace vedere riassunto in tre linee i l mio colloquio con Corradini, riporto quanto allora scrissi in forma d i dialogo (vedi pag, 104 di CC Italia e fascismo 1)).

...

(**) L'edizione italiana (Bologna, Zanichelli) è del 1965.


« - Giolitti è disposto a comporre il gabinetto con i fascisti? - Si, mi rispose. - E senza i fascisti? - È molto dubbio. - E contro i fascisti? - Oh no! È impossibile! - Allora, conchiusi io, Giolitti non farà il ministero; e quindi è inutile che io risponda alla richiesta di quale sarà l'atteggiamento dei popolari verso di lui D. Per il pubblico al quale era diretto il libro sarebbe stata superflua qualsiasi altra aggiunta; ma è evidente che una lunga conversazione, credo, di un paio d'ore, non si esaurì nelle poche battute essenziali sopra riportate; essa servì a chiarire molte cose, meno quel che poteva essere l'atteggiamento dei popolari i n un ministero così strano, quale quello che Giolitti pensava, mettendo insieme fascisti e popolari. A precisare quale fosse l'atteggiamento di Giolitti in quell'ottobre, basta tener presente il seguente episodio, che credo sia tuttora inedito. L'on. Facta, dopo aver autorizzato il congresso fascista a Napoli (mentre l'on. Taddei aveva a me assicurato che non sarebbe stato consentito), mandò dall'on. Giolitti il ministro Bertone (siamo alla metà di ottobre) per pregarlo di venire a Roma, perchè egli, l'on. Facta, credeva opportuno dimettersi. Giolitti rispose all'ambasciata che egli non sarebbe venuto a Roma immediatamente, ma dopo il congresso fascista, la cui sospensione (della quale l'on. Bertone aveva fatto cenno) non reputava opportuna. Che il senatore Carlo Santucci (non Renato) e il dr. Giuseppe Vicentini, allora rispettivamente presidente e consigliere delegato del Banco di Roma, fossero favorevoli ad un governo Giolitti-popolari-fascisti, non mi fa meraviglia; il primo aveva aderito, fin dall'agosto precedente, ad una specie di pronunciamento dei senatori popolari in contrasto con la linea politica della direzione del partito e del gruppo della camera; a tale pronunciamento avevano risposto i deputati popolari con un sereno documento redatto da Filippo Meda. Lo stesso Bertone, amico di Giolitti, gli aveva detto, come sua idea personale, che i popolari lo avrebbero appoggiato. I1

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- STERZO- Politica di

quzrti anni.


prefetto Lusignoli non ebbe allora alcun contatto con me; l'on. Corradini non era più venuto a ~ a r l a r m dopo i il noto colloquio, credendo più utile parlare con altri popolari, forse per mettermi di fronte al fatto compiuto. Nè la direzione del partito popolare n è quella del gruppo furono mai sollecitate da una proposta concreta alla quale rispondere. Che molte chiacchiere di corridoio e di salotto fossero fatte non lo escludo; non era mia abitudine parteciparvi; nè amavo confidarmi a giornalisti per diffondere voci di sondaggio. La verità è che nessuno, Giolitti compreso, ebbe in quei giorni di ottobre la sensazione che Mussolini, tenendo a bada i tre possibili presidenti: Giolitti, Salandra e Saverio Nitti, e trattando contemporaneamente i tre a mezzo di intermediari, - Lucignoli con Giolitti, Federzoni con Salandra, e un ignoto con Nitti ( m i si assicurò che fosse stato lo stesso Nitti a dire essere in contatto con Mussolini a mezzo di terza persona) - e offrendo loro la presidenza, potè bruciare i tempi e organizzare la marcia su Roma. Gran parte dell'attuale polemica anti-« veto » ( o anti-Sturzo) deriva dalla supposizione che Giolitti avrebbe salvato il paese, anche in extremis. Secondo me, non esisteva un Giolitti-salvatore nè nel febbraio nè nell'ottobre 1922. Badoglio opinava ( e lo disse subito) che con un po' di fermezza si sarebbe impedita l'insurrezione armata. Cesare Rossi afferma che dietro Mussolini c'era il vuoto e che egli era preparato a fuggire in Svizzera. Proprio lo stesso sarebbe avvenuto, in più vaste proporzioni, a Hitler, se i governi di Francia e d'Inghilterra si fossero opposti con un chiaro ultimatum e conseguente mobilitazione, alla occupazione armata della zona demilitarizzata della Renania. Hitler stesso lo confessò. Che cosa sarebbe successo se il re avesse firmato il decreto di stato di assedio? Ebbene, come la storia non si può fare ipotizzando uno Sturzo pronto a collaborare, auspice Giolitti, con i fascisti, così non si può fare ipotizzando la firma del re (ed era suo dovere) al decreto di stato d'assedio. Con i se non si fa la storia. Tanto piu che i fatti complessi come quelli avvenuti tra il febbraio e l'ottobre 1922 non si risolvono, semplicisticamente, con un Gio-


litti che tiene nel suo ministero prigionieri i popolari a vantaggio dei fascisti. Frassati h a osservato, anche la seconda volta senza voler tenere conto della mia risposta, che mentre io fui fermo a non voler collaborare con i fascisti sotto la presidenza Giolitti, diedi il consenso alla entrata di due ministri e tre sottosegretari popolari al primo ministero Mussolini. Dissi e scrissi allora che io fui contrario a tale partecipazione di popolari, anche a titolo personale, come dichiarò lo stesso Mussolini per i popolari e per gli altri. Se avessi fatto un atto di debolezza nell'ottobre 1922 lo avrei scontato subito con i miei discorsi di Torino (20 dicembre 1922), Napoli (18 gennaio 1923), Torino ( l 4 aprile 1923), definito quest'ultimo dallo stesso Mussolini: il discorso d i un nemico (Popolo d'Italia, aprile 1923). Affermare da parte mia che quell'atto di debolezza non vi fu, non è superbia, è la pura verit,à. Un redattore della Civiltà Cattolica (che sulla referenza di un giornalista scrisse il contrario) mi h a dato atto, nel luglio scorso, della smentita. Tardiva, è vero, la smentita, ma la notizia mi è arrivata attraverso un attacco sul Borghese del giugno scorso. Ho sempre risposto dei miei atti e pagato di persona; perchè dovrei nascondere la verità? Lo storico h a il dovere di valutare gli elementi sui quali si appoggia la mia smentita; non ha il diritto di scartarla senza discussione, dandomi implicitamente del mentitore. La polemica postuma sul « veto » o sui « veti a Giolitti non m i sembra dettata dalla ricerca della verità (assumerebbe, i n tal caso, ben altro tono, come ha cercato di fare Nino Valeri); ma è divenuta arma politica. La mia persona che cosa conta oggi, politicamente? Si vuole da qualcuno fare il processo al partito popolare? non avrebbe effetti pratici nella polemica dei partiti di oggi. Si vuole forse cancellare o minimizzare l'apporto del partito popolare alla vita del paese? Strano: la polemica antipopolare sulla proporzionale cessò d'incanto al momento che i piccoli partiti divennero accesi proporzionalisti; la polemica antipopolare sul regionalismo dura ancora, con il rispetto e la riserva dei fatti compiuti: le quattro regioni a statuto speciale. Restano ancora gli sprazzi polemici sulla lotta al fascismo e il veto a Giolitti: della prima nessun merito ai popolari; del


secondo tutto il demerito a don Sturzo, perchè Sturzo antifascista si oppose a Giolitti che favoriva i fascisti. Perdoni se h o abusato dello spazio, esimio direttore, ed accetti i miei ringraziamenti.

LUIGISTURZO 10 ottobre 1955.

( I l Resto &l Carlino, 15 ottobre)

« L'ALTERNATIVA

E I PARTITI LAICI

Su due punti siamo d'accordo La Malfa ed io: primo, che da dieci anni non si dà in Italia alternativa democratica, mentre l'alternativa con la sinistra socialcomunista sarebbe la fine del regime libero; secondo, che i partiti laici non han costituito ne1 passato e non costituiscono ancor oggi una possibile alternativa. La divergenza comincia sulle tesi che i partiti laici possono costituire una futura alternativa e che « la laicità », in quanto tradizione risorgimentale dello stato italiano, possa dare vita ad una coalizione d i ricambio dell'attuale quadripartito. Non ho motivo di ritornare sulle mie affermazioni di politica obiettiva; La Malfa sa bene che non parlo a nome della D.C. e che i miei apprezzamenti sono al di fuori d i qualsiasi propaganda d i partito. Le affermazioni che i tre partiti laici )) non offrano possibilità di alternativa democratica e che la loro unione sotto la bandiera della laicità non dipenda da volontà d i uomini, ma da condizioni obiettive insuperabili, sono per me incontestabili. Profezia? no; constatazione fatta da me prima e dopo il 1948. Quella del 1955 ne è solo una conferma. La Malfa mi rimprovera un atto di orgoglio, perchè io non tengo conto dell'apporto dei piccoli partiti alla lotta anticomunista. Chi h a detto che io non ne tenga conto? Lo presuppongo, come lo presuppongo anche da parte delle destre. Non ho mai pensato che i capi di tali partiti, laici o destre, possano assumere il ruolo d i utili idioti e, per fare dispetto alla D.C.,


dare il paese in mano ai comunisti. I1 danno sarebbe di tutti, non esclusi i traditori, anzi, com'è uso delle dittature vincenti, primi i traditori. Perchè La Malfa formula tale ipotesi? non lo credo capace su questo terreno, neppure di un peccato di pensiero. Perchè La Malfa fa tale supposizione? Anche se la D.C., per ideale o per orgoglio volesse ottenere nelle elezioni la maggioranza assoluta, non sarebbe questa una colpa; nè una colpa da fare scontare al paese. Aveva essa la maggioranza e l'ha perduta; può ritrovarla e può perderla di nuovo; io da vero democratico auguro alla D.C. che possa avere di fronte a sè un partito di alternativa democratica, quale ne sia l'apporto; perchè solo in tal caso la D.C. saprà fare, meglio di come non fa oggi, la lotta al comunismo, ,per ridurlo di proporzioni. Non è stato forse ridotto in Francia? e in Germania? e nel Belgio? I n quei paesi non si ha più alcuna paura che possa arrivarsi a combinare insieme comunismo, più socialismo, più utili idioti con dietro certi capitalisti, i quali, per assicurarsi le retrovie, non mancherebbero di aiutare il nemico, e così in un sol giorno far cadere democrazia cristiana, democrazia laica, destre monarchiche e missine, e dar posto alla dittatura rossa. La mia parola è rivolta anche alle ali della sinistra democristiana: credendo di dover fare dei tentativi di « socialità 1) economica, con l'estromissione del capitale libero, o di capitalisti liberi, auspicano un'apertura a sinistra a mezza strada, con un Nenni che tesse la tela comunista, andando da Pechino a Mosca, e ricordandosi nello stesso tempo che vi è un'ala cattolica, che aspetterebbe i l verbo « del marxismo denicotinizzato n, per tentare un'avventura (C distensiva » anche in Italia, come è stata in Cecoslovacchia o in Polonia, paesi felici con operai prosperi e con molti risultati di piena socialità! A proposito della socialità, il deputato La Malfa mette all'attivo dei partiti laici (con eccezione dei malagodiani, s'intende) i patti agrari, la riforma dellYIRIe la politica del petrolio, designandole quali conquiste democratiche. Strano! i patti agrari che vuole La Malfa sono, più o meno, quelli che vogliono i comunisti: fissare sul podere l'attuale « beato possidente n. Per I'IRI La Malfa vuole quel che vuole Pastore e quel che vogliono i comunisti. Per il petrolio, La


Malfa ha seguito la politica dei comunisti, che è la politica di Mattei. Quando io accusai Mattei di collusione con i comunisti siciliani, non mancarono le proteste. Ora il fatto è acquisito in tutta l'Italia. La campagna martellante dei comunisti e quella insinuante d i Mattei combaciano perfettamente ed hanno persuaso mezza Italia, ministri liberali compresi, che il monopolio statale salva l'Italia dall'ingordigia americana; (quella inglese non conta). Mi dirà La Malfa: forse perchè i comunisti votano con noi dovremmo noi cambiare opinione? Non domando affatto tanta illogicità; solo desidero che tali « operazioni non siano classificate come « esperienze sociali moderne » da sbandierare per il programma sul quale possa costituirsi l'alleanza dei partitini per un'alternativa laica alla D.C. La quale, poveretta, tenta di far passare, in mezzo a tanta demagogia, qualche temperamento utile non solo economicamente, ma anche socialmente, e a vantaggio di quella benedetta « socialità moderna » di La Malfa, che p u r dovrà avere, per reggersi in piedi, qualche base economica. Dove La Malfa tace è sul problema delle leggi elettorali che era i l punto di arrivo del mio articolo da lui incriminato come atto di brutale franchezza. Dopo essere io stato dai laici italiani accusato per trent'anni di avere rovinato l'Italia con l a proporzionale del 1919, i laici di oggi sono divenuti proporzionalisti ad oltranza, mentre io sono andato piegando verso la proporzionale corretta e, perfino, verso l'uninominalismo. Le leggi elettorali volute, anzi imposte, dai tre partiti laici hanno u n sol fine, quello di dar loro qualche posto di più nelle amministrative come nelle politiche. Se con ciò sarà resa difficile la composizione delle amministrative locali, non importa; se saranno esposte le maggioranze locali ai piccoli ricatti degli eletti, siano laici o di destra o della D.C. stessa nei comuni dove questa resterà in minoranza, poco importa; se dai socialcomunisti saranno formate liste d i disturbo ottenendone notevoli vantaggi, poco importa; quel che importa, proprio l'unico scopo è avere posti, pochissimi posti, uno o due, nei comuni, e potere così tessere la rete demagogica dei favori di partito per quei pochi elettori che avranno fatto spuntare nei propri comuni dei


partiti fin oggi addirittura inesistenti. Con questo enorme egoismo di partito; che cosa si può pretendere in tema di efficienza civica, di serietà politica, di correttezza amministrativa? Passando alla legge elettorale per la elezione dei deputati, anche qui abbiamo proporzionale pura imposta con la minaccia di lasciare il quadripartito, senza interessarsi se la D.C. possa cadere nelle braccia della siniktra nenniana, nel caso della nota apertura, ovvero delle destre, cui dovrà pagarsi il prezzo dell'appoggio anche stando al di fuori del governo, se si arriva al monocolore. Non potendosi fare l'una o l'altra « operazione », non resterebbero che le elezioni generali. Sono cpest?e oggi opportune? saranno chiarificatrici della situazione? Ecco quello su cui dovrebbero riflettere i capi partito e gli uomini di governo. 18 ottobre 1955.

(Il Giornale d'Italia, 20 ottobre).

VECCHIE E NUOVE « APERTURE A SINISTRA n L'Osservatore Romano della Domenica, nel citare certe possibilità di collaborazione al governo, ha ricordato la collaborazione ciellenista e poi tripartitica con i socialcomunisti dal 1944 al 1947. Come commento, mi permetto aggiungere che ne1 1944 l'Italia era sotto l'occupazione alleata in tempo di guerra; che fra le potenze alleate si trovava la Russia; che quest'ultima aveva voce i n capitolo anche per l'Italia, nonostante che, per nostra fortuna, non fosse fra le potenze occupanti. È ovvio che il nostro governo, messo su con poteri limitatissimi e con indirizzo politico prestabilito, non aveva libertà d i scelta: Badoglio consentì che si chiamasse Togliatti dalla Russia perchè lo vollero gli alleati, e così di seguito. Si dovette attendere il ritorno del governo nella capitale, la fine della guerra, la riunione dei due tronconi del territorio nazionale, la conclusione del trattato di pace: tre anni lunghis-


simi, nei quali la presenza dei socialcomunisti al governo, voluta da poteri extranazionali, ebbe come conseguenza u n notevole suffragio elettorale indiretto (elezioni della costituente), e pur con tutto il male psicologico e morale che portò, si evitarono turbamenti pubblici durante la conferenza di Parigi fino alla firma del dilctat. Si trattò di collaborazione o di coesistenza a l governo? ecco il punto che vale la pena chiarire sia per il caso in esame e sia per altri casi, forse diversi politicamente e identici strutturalmente. Secondo me si trattò di coesistenza positiva e di collaborazione negativa. Mi spiego: i ministeri ciellenisti (1944-1946) espressero la necessità politica del passaggio dal fascismo alla democrazia. Mancando il parlamento, il re prima e il luogotenente dopo, come simbolo della nazione e unico potere tradizionale, che suo malgrado collaborava con le autorità di occupazione, doveva pur basare i l governo da lui nominato, sopra un presunto consenso popolare, che in quel momento era rappresentato dalla resistenza all'invasore tedesco e dalla opposizione a l regime caduto. Tale rappresentanza fu riconosciuta a i comitati di liberazione i quali nominarono le proprie rappresentanze a l governo : oggi, alla Malagodi, si chiamerebbero « delegazion i 1). E pertanto, sia i comitati di liberazione, sia il secondo e terzo governo Bonomi, i l governo Parri e il primo De Gasperi, e in seguito il secondo e terzo governo De Gasperi del tripartito, tutti ebbero l'impronta della coesistenza dei partiti con il minimo di collaborazione. I1 terzo De Gasperi fu un ministero di passaggio, attraverso il quale si dovevano sbarcare i socialcomunisti. Ciò avvenne d'accordo con il governo di Washington, perchè, firmato il trattato d i pace di Parigi, i nostri amici di oltre oceano cominciarono a comprendere in quale terribile stato si trovasse l'Europa, facile preda dell'orso bianco. Perchè nego che ci fosse stata con i socialcomunisti vera collaborazione, mentre nel fatto l'intesa fra comunisti e democristiani alla costituente fu quasi normale? P e r un fatto molto semplice: i democristiani d i sinistra, i partigiani del nord, i rappresentanti delle zone rosse di Emilia e Romagna, tormentati allora da vendette politiche, da assassinii impuniti, da con-


quiste rosse del proletariato con nette perdite dei bianchi, seguirono l a politica della intesa sindacale a base tripartita con la convinzione di una vera distensione e possibilità di convivenza, e portarono tale intesa nella costituente, credendo di consolidarla, nella carta statutaria, per dare vita ad una nuova democrazia del lavoro. Quando si dice che le frasi soppiantano le idee! I n sostanza, per un certo tempo, specie nell'assemblea costituente, vi fu la collaborazione da parte democratica e la coesistenza, con lo sbor. so di qualche piccolo prezzo, da parte socialcomunista. Si trattò di episodi extragovernativi, nel chiuso cenacolo di Montecitorio. Non voglio svalutare la costituzione; dopo tutto, se è equivoca in vari punti, se è teorica nella sua struttura, contiene quanto di meglio si poteva fare in quelle circostanze. Nel gabinetto, che oltre all'amministrazione assommava poteri legislativi e indirizzo politico, niente di tutto questo: ogni partito prese il suo ministero e cercò di servirsene; prese l a sua fetta di enti parastatali e di eredità fascista e cercò di servirsene; con l a differenza che i socialcomunisti prepararono il proprio avvenire; gli altri partiti con una serie di compromessi furono condiscendenti e cedevoli verso i colleghi rossi, che si credevano i futuri padroni d'Italia. Ci volle un anno di esperienza (giugno 1946-maggio 1947) per persuadere tutti (compreso chi scrive) a farla finita con il tripartito e istaurare un governo sulle basi della democrazia occidentale. La lotta al comunismo dal giugno 1947 all'aprile 1948 servì a creare l'atmosfera per il nuovo parlamento e a far rinculare l e estreme sinistre. Purtroppo, con il metodo del compromesso, erano stati inviati a Palazzo Madama 107 senatori « di diritto D e la maggioranza democratica ne fu alterata in partenza. Storia del passato? o storia che ancora dura? I1 progetto in elaborazione per l'aumento del numero dei senatori, senza consenso dell'elettorato, ce ne dà una prova. L'Osservatore Romano della Domenica (cioè, per i l pubblico che cerca un giornale di varietà senza incontrare racconti lubrici e illustrazioni impertinenti) teorizza la collaborazione con i socialisti marxisti distaccati dal comunismo. Infatti Saragat, Romita, Rossi e Vigorelli sono marxisti e


sono distaccati dal comunismo e collaborano con i cattolici della D.C. Durante la prima guerra Bonomi e Bissolati, ambedue marxisti e il secondo con tinta anticlericale più marcata, distaccandosi dal partito socialista, collaborarono con il governo del 1917, al quale partecipò Meda, non ancora deputato popolare, ma cattolico-deputato di marca. Nell'un caso e nell'altro si trattò di collaborazione, nonostante che in quello attuale Saragat e gli altri formano una « delegazione » al governo, che per essere tale potrebbe anche scantonare e fare da sè. Le frazioni di partiti distaccate dalla matrice, per tale fatto, perdono la caratteristica del partito dal quale provengono: saranno scismatici o eretici o convertiti; non sono più di tinta ortodossa: han perduto la vis o il virus del partito di origine. Non è forse così per i Melloni e i Bartesaghi? Lo stesso che per i Saragat, Romita, Rossi e Vigorelli. Con il partito socialista da solo, distaccato cioè dal comunismo, non c'è stata mai in Italia alcuna collaborazione al governo. Quando se ne parlò, nel lontano luglio 1922, l'on. Turati arrivò fino al Quirinale, ma la possibile collaborazione fu negata da Serrati (segretario) e da Vella (vice-segretario) del partito. Fu allora che il partito socialista riprese i contatti con il partito comunista, proprio nel comitato segreto di agitazione che risiedeva a Genova e che lo sciopero generale (l0 agosto 1922). Nel successivo settembre si riparlò d i collaborazione con i socialisti.non da parte dei popolari, ma dai soliti frequentatori di Montecitorio, del Caffè Aragno e della sala stampa. I n quel periodo il prefetto d i Milano, Lusignoli, tesseva la rete per u n ritorno di Giolitti non con i socialisti, ma con i fascisti, nella speranza di incapsulare i popolari. Dopo il delitto Matteotti si sperò in un rovesciamento della situazione, e da alcuni si prospettò la collaborazione di tutti gli antifascisti, compresivi popolari e socialisti, collaborazione negativa che sboccò nell'Aventino. Il governo antifascista era un'ipotesi inconsistente, diffusa da centri di cattolici filofascisti. Fu allora che S.S. Pio XI, parlando a studenti cattolici, ebbe occasione di far rilevare, con riferimento alla collaborazione all'estero fra cattolici e socialisti, che: « A parte la differenza &gli ambienti e delle loro condizioni storiche, politiche e reli-


giose, altro è trovarsi d i fronte a d un. partito arrivato al potere e altro è a questo partito ( i l socialista) aprire la strada e dare la possibilità dell'avvento; la cosa è essenzialmente diversa)). Ed eccoci al 1953, dopo il fatale 7 giugno: presa di cappello di Saragat, serenate di Nenni, visite di Crossman e così di seguito, si fece un bel chiasso, e ne furono presi anche i sinistroidi della D.C., per l'apertura a sinistra. Le risposte ufficiali furono il monocolore Pella prima, il quadripartito Scelba in seguito. Ma la ripresa di Nenni al congresso di Torino (1954) diede la stura ad una nuova apertura a sinistra e se ne parla da quasi un anno. Ora siamo arrivati, finalmente, al discorso Togliatti di domenica scorsa. Chiaro: distensione sì, apertura a sinistra, benissimo; collaborazione certo, anche senza bisogno di arrivare al governo. Quei signori non romperanno il binomio Togliatti-Nenni e intanto vogliono nella loro rete i cattolici, per arrivare al possesso dell'Italia e inserirla nella sfera di influenza di Mosca. E allora? Finiamola con l'equivoco; non parliamo di collaborazione, nè di coesistenza; parliamo chiaramente d i dittatura rossa. 25 ottobre 1955. ( I l Giornale d'Italia, 28 aprile).

COSTITUZIONE E COSTUME Sui quotidiani e nelle riviste di cultura non è mai cessato il dibattito sui problemi costituzionali. È buon segno che la classe politica italiana avverta qualche cosa di manchevole, di incoerente, di surrettizio nella struttura della nostra democrazia parlamentare. I1 più usuale rilievo è quello della mancata attuazione di vari istituti previsti dalla costituzione. A quasi sette anni e mezzo dall'insediamento del parlamento della repubblica, non sono


state ancora approvate tutte le leggi di attuazione, nè è stata compiuta l a revisione delle leggi, per adeguarle alla lettera e allo spirito costituzionale. Fu da me rilevata in senato, durante l a discussione del disegno di legge Tremelloni, la grave mancanza di una legge che regoli i l contenzioso tributario. Ora, a proposito di certe procedure, legittime secondo la legge. vigente, iniziate dall'auton t à militare, si nota che anche la revisione del codice militare non è stata fatta. Non parliamo della corte costituzionale, ferma per. un errore legislativo, emendabile ma non emendato. I1 disegno di legge sul consiglio superiore della magistratura è da discutersi; i l consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, già approvato da una delle camere, attende i l voto dell'altra e così la legge elettorale regionale, mentre la legge che regoli l o sciopero è ancora da venire. I n questo quadro di carenza costituzionale, non mancano strane proposte sulla cosidetta integrazione del senato. Da alcuni mesi in qua si parla anche di una più impegnativa funzione del presidente della repubblica, e perfino di una funzione (( istituzionale dei partiti. Dal completamento della costituzione si va così verso una revisione della democrazia parlamentare, messa a base della repubblica. Revisione o trasformazione di istituti? per legge costituzionale o per intimo sviluppo e per costumario adattamento? Ci siamo dimenticati, a pochi anni di distanza, dello spirito e della lettera della costituzione e delle preoccupazioni, non ingiustificate, dei costituenti e della stessa opinione pubblica, all'indomani della caduta del fascismo e della fine della guerra. Gl'italiani hanno voluto una costituzione rigida e l'hanno circondata di due colonne d'Ercole: la corte costituzionale e una speciale e non facile procedura per la revisione, proprio per mantenere fermo i l tipo scelto di democrazia parlamentare, e quello degl'istituti connessi. Per evitare l e facili interpretazioni deformanti, si escluse che con legge ordinaria si potesse attenuare o modificare la disciplina costituzionale; e ad evitare deviazioni furono fissati principi generali da attuarsi con l a normale legislazione, regolando, nei casi di legge violatrice della costituzione, il diritto di ricorso anche per i cittadini in cause private, sollevando incidentalmente i1 motivo di incostituzionalità.


Ciò nonostante, è sempre vero che il costume ha una sola parola da dire, h a un posto, sia pure secondario, per fare funzionare gl'ingranaggi istituzionali; è come l'olio che è necessario per togliere la ruggine, per fare agire i meccanismi con la maggiore agilità possibile. Ma quale costume? C'è quello tradizionale nei paesi dove le costituzioni hanno una storia di secoli ed hanno informato gl'istituti attivi della nazione, penetrando nella coscienza popolare, creando il rispetto della continuit,à, l'attenta difesa dei diritti acquisiti, i mezzi di tutela nelle subdole o surrettizie infiltrazioni di poteri personali, limitanti le libertà fondamentali. Noi abbiamo la tradizione risorgimentale, con tutti i suoi difetti e tutte le passionalità che comportava una costituzione, oltre che storicamente tardiva, elargita dai sovrani locali (che poi la ritirarono) e mantenuta solo in Piemonte e, con la conquista alle altre regioni, estesa a mezzo di plebisciti cui parteciparono ben poche categorie di cittadini, dato il sistema elettorale censitario che costituì inizialmente l'oligarchia borghese, rappresentante solo idealmente la nazione. Si sviluppò, pertanto, un sistema accentratore, atto a imporre il nuovo regime, non mai a formare una tradizione popolare e un costume di pieno rispetto alle libertà fondamentali. L'Italia doveva passare attraverso le rivolte del mezzogiorno, del centro e della Sicilia, i dittatori militari, gli stati d'assedio, il regicidio, le leggi Pelloux, per poter conquistare un sistema costituzionale quasi democratico, modificando insensibilmente lo statuto e rendendolo popoIare. La prima guerra diede alla nazione le provincie irredente di Trento e Trieste, e all'attività politica e parlamentare l'intervento aperto dei cattolici nella vita pubblica (gennaio 1919) e la successiva abolizione del non expedit (novembre 1919). Ma poco dopo lo statuto albertino fu vioiato da chi aveva il dovere, confermato da giuramento, di osservarlo e farlo osservare; la camera fu insultata dal nuovo capo del governo nel silenzio degli eletti; il paese non reagì e la dittatura soppiantò il sistema costituzionale. Ho ricordato queste fasi, per avvertire che i sette anni, nei quali la costituzione è in vigore, non bastano a creare una tra-


dizione, e a fare entrare in funzione un costume e più che altro farlo entrare nella coscienza popolare. Tutti siamo facitori della tradizione e del costume; ma sono l e generazioni venture che ne usufruiranno, se « i rivoluzionari » e « gli aperturisti » non manderanno per aria quel che si sta costmendo e non faranno come i fascisti del 1922, i quali credettero di fissare in quella infausta data l'anno I della nuova era. Quando, dopo il discorso alle due camere riunite del nuovo capo dello stato, (che non era un messaggio nel senso costituzionale della parola), e dopo altri discorsi al pubblico, a carattere indubbiamente politico, ho letto certe interpretazioni non solo di cambiamento di stile (che è ammissibile fra l'attuale presidente e i l suo predecessore), ma di significato costituzionale; e quando, insieme a tale interpretazione, ho rilevato apertamente o tra le righe, la delineazione di una diversa configurazione presidenziale, ne sono rimasto sorpreso e turbato, non per il gran pubblico al quale piace sempre sia u n Giolitti manovriero, sia u n Mussolini demagogo, ma per via di certe firme di autorevoli costituzionalisti o di non insignificanti uomini politici. E quando sul giornale della D.C. (non so se ufficiale o di semplice propaganda) leggo certi articoli (con lo pseudonimo, è vero) sulla legittima e felice inserzione dei partiti nel sistema parlamentare e governativo, affermando come sorpassate certe disposizioni costituzionali; ovvero leggo anche certi consensi di giuristi alla tesi che fa dei ministri u i delegati al governo n, debbo pensare che non solo non esiste per costoro la cosiddetta costituzione rigida, ma che basti i l discorso inaugurale del presidente o la mossa della D.C. a far dimettere Pella o Scelba e l a frase di Malagodi sulle delegazioni per creare quel u costume » che annulli i presupposti giuridici e i disposti positivi della costituzione. Qui siamo sulle sabbie mobili, che possono da un momento all'altro inghiottire parecchio del nostro sistema costituzionale. Non è questo il costume che vale e che è degno di essere chiamato « costume n ; sì bene quello che deriva, anzitutto, da una elaborazione spontanea, sia giuridica che ~ o l i t i c a ,che dia luogo -


a discussioni pubbliche, a studi approfonditi, a giurisprudenze di magistrati, tramandando da una legislatura all'altra, da una generazione all'altra, il meglio e il fiore di quanto viene elaborandosi, correggendosi e realizzandosi nel campo delle attività istituzionali. Tutto ciò, senza violentare le disposizioni di legge, senza abbandonare le forme, senza turbare il senso del più convinto rispetto verso la carta fondamentale della nazione, che è insieme patto reciproco e atto di autorità popolare. Se gli antichi dicevano: qui cadit a forma cadit a toto, e ne avevano ragione, trattandosi di diritto privato, perchè anche il diritto pubblico veniva riguardato come contrattuale; noi, pur riconoscendo al diritto pubblico una sua speciale formazione politica, oltre che giuridica, riteniamo sostanziale la forma prescritta al cambiamento costituzionale, senza la. quale cade ogni possibilità d i modifica. Le interpretazioni derivanti dalla pratica attuazione della costituzione non possono violarne la struttura e lo spirito, nè alterarne il significato letterale. La corte costituzionale è nata a questo scopo, è nata per dare sicurezza alla nazione di una costante tutela del diritto popolare. Anche il capo dello stato ha funzioni di tutela della forma costituzionale in tutti gli atti ai quali egli deve apporre la sua firma e deve, nella sua alta e pur limitata funzionalità, farla valere a tempo e luogo. I presidenti delle camere sono garanti della funzionalità e quindi del costume e della tradizione parlamentare. I1 presidente del consiglio dei ministri lo è della regolarità e del costume dell'amministrazione. In tutto si riflette lo spirito della costituzione, che dovrebbe essere ritenuta la più alta espressione della vita nazionale; e come tale insegnata in tutte le scuole secondarie e universitarie e fatta apprendere, in sunti ed estratti, nelle scuole elementari come la carta dei diritti del popolo italiano. Con questo spirito, ben vengano le modifiche e le riforme costituzionali, ma non prima che ne sia stata fatta l'integrale e organica attuazione. 30 ottobre 1955.

( I l Giornale d'Italia, 4 novembre).


I CINQUE GIUDICI (*) Per coloro che l'han dimenticato e per quegli altri che non ne hanno conoscenza, sarà bene esporre come e perchè siamo arrivati al punto che il parlamento sia stato fino oggi impotente a procedere alla nomina dei cinque giudici della corte costituzionale. L'allora guardasigilli on. Grassi, o chi per lui, nel disegno d i legge ordinario, previsto dall'articolo 137 della costituzione C per le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della corte n, dispose che per la nomina dei giudici di competenza parlamentare, venisse applicato il regolamento dell a camera dei deputati, mentre nulla prescrisse circa l e nomine dei corpi delle magistrature. Nè lui, nè altri si accorsero di avere legiferato in materia già regolata dalla costituzione con l'articolo 64, nel quale è fatto esplicito riferimento alle deliberazioni (( del parlamento )) a camere riunite. Altro errore fu quell o di riferirsi a l regolamento della camera dei deputati, non avvertendo ( e chi scrive lo rilevò a voce, con lettere e sulla stampa), che i regolamenti delle camere fissano norme di votazione per le nomine dell'interna corporis, non mai per l e nomine di corpi estranei al parlamento, che hanno propria autonomia e propria responsabilità. I cinque giudici di nomina parlamentare non rappresentano, di sicuro, i l parlamento in seno alla corte, ma formano unico corpo con gli altri dieci, come i dieci non rappresentano le rispettive magistrature, nè il presidente della repubblica, ma formano unico corpo con gli altri cinque. Cose elementari queste, elementarissime, ma ci vollero quasi tre anni a far eliminare quello sgorbio, che, fra l'altro, ne generava un secondo, contro l'espresso disposto del citato articolo 64, dando efficacia di deliberazione elettiva a nomine avvenute con voti inferiori alla « maggioranza dei presenti 1). (*) Pubblicato col titolo

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I giudici sono già eletti n.


I1 testo Grassi, gi,à approvato dal senato nel marzo 1949, fu modificato dalla camera nel marzo 1951; ma questa, di fronte alla vivace opposizione delle sinistre, scartò la proposta della commissione che rispettava il disposto costituzionale e approvò l'emendamento dell'on. Martino, che portò a tre quinti il quorum per la validità della elezione dei cinque giudici. A parte l a violazione dell'articolo 64 della costituzione, l'errore politico contenuto nella legge 11 marzo 1953 è stato così grave, da rendere impossibile l'elezione dei giudici senza l'accordo preventivo con le sinistre. Dall'aprile 1953 (data fissata dalla legge) si è stati fermi per due anni e sette mesi; a quanto dicono i giornali, non si vede neppure adesso la possibilità di superare le difficoltà politiche che si frappongono a tale votazione. Credetti, nella mia ingenuità, che con una legge correttiva dei famosi tre quinti, si potessero affrettare i tempi, e presentai la mia proposta del 14 ottobre 1953. Mi fu fatto osservare che per l'approvazione di tale proposta sarebbero stati necessari non meno di sei mesi e forse più. Nel fatto, la prima seduta del parlamento a camere riunite tenuta il 31 ottobre 1953 andò a vuoto. Insistetti allora perchè la mia proposta di legge venisse sollecitamente esaminata. Dopo non pochi mesi la 2" commissione parlamentare, diede, a maggioranza, il voto favorevole, e la proposta a fine luglio 1954 fu passata per la discussione in aula con una relazione di maggioranza e una di minoranza. Proprio in quel mese si tentò una nuova seduta del parlamento che andò a vuoto. Ciò nonostante, la mia proposta da un anno e più si trascina all'ordine del giorno del senato, forse in attesa di una solenne bocciatura. Anche alla camera fu presentata dall'on. Agrimi (17 novembre 1953) una proposta di legge per l a modifica del sistema di elezione dei cinque giudici della corte; proposta che, per giunta, f u dichiarata urgente. Da allora si trova presso la I" commissione senza avere avuto, in due anni oramai, l'onore dell'esame e di una relazione affidata all'on. Segni. Caro Marazza, com'è che non hai pensato a darvi corso gareggiando con i l senato nell'insabbiamento, nonostante quella dichiarazione di urgenza che l a camera riconobbe con voto unanime?

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Politico d i qursti anni.


A questo punto, debbo rilevare che nè la mia proposta, nè quella dell'on. Agrimi rispettano l'articolo 64 della costituzione. È stato un errore nel quale siamo caduti; ce ne h a fatto avvertiti il prof. Serio Galeotti con uno studio pubblicato nella Rassegna d i diritto pubblico (1954, fasc. I) diretta dall'on. Tesauro, proprio il relatore della legge che ci ha dato tanti grattacapi. La tesi del Galeotti è chiara: la costituzione, con l'articolo 64, ha precluso alle camere di adottare metodi di votazione diversi da quelli prescritti per le deliberazioni di ciascuna delle due camere, e per quelle del parlamento in seduta comune. Si è obiettato che l'articolo, esprimendosi i n forma negativa nel senso che le deliberazioni non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti e se non sono adottate a maggioranza dei presenti non precluderebbe il diritto a sancire, con la legge ordinaria, un numero maggiore di interventi e un quorum superiore alla maggioranza dei presenti. I1 che non è esatto perchè si deve tener conto, in primo luogo di tutto il comma, che continua, senza interruzione con un cc salvo che la costituzione prescriva una maggioranza speciale n. I1 che significa che la maggioranza speciale debba, in ogni caso, essere prescritta dalla costituzione. E con ragione, perchè u n quorum superiore alla metà più uno sarebbe contrario al sistema maggioritario su cui è basato ogni parlamento democratico. Occorre quindi una volontà superiore qual'è quella della legge costituzionale. La riprova, controluce, della volontà del costituente, se non altro per quel che riguarda le sedute del parlamento a camere riunite è molto facile. Tali sedute sono previste dalla costituzione solo per due casi: per la nomina del presidente della repubblica, per la quale occorre la maggioranza dei due terzi in la e 2a votazione e la maggioranza assoluta per le successive; e per la nomina dei cinque giudici, per la quale non è prescritta maggioranza speciale, ricadendo di diritto nella regola dell'art. 64. Altra convocazione delle due camere in comune seduta non è prevista dalla costituzione; salvo che per la nomina d i tre membri effettivi e uno supplente dell'alta corte per la regione siciliana, in forza dell'art. 24 dello statuto. A questa non può applicarsi di diritto l'art. 64 della costituzione. Se fosse


esatta l'opinione dei contraddittori, non avrebbe l'art. 64 alcuna applicazione alle sedute del parlamento in riunione comune e il disposto dovrebbe essere ritenuto come u n errore legislativo contenuto nella costituzione. Per me è punto assodato: la legge attuaIe è in contrasto con la costituzione, quindi va emendata. Queste tesi ho sostenuto da tempo non solo sulla stampa, ma con lettere dirette al presidente della camera, che di diritto presiede « la seduta del parlamento D, dandone conoscenza al presidente del senato. A rigore legislativo, per eliminare l'ostacolo frapposto dalla legge 11 marzo 1953 all'applicazione dell'art. 64 suddetto basterebbe una leggina così concepita : « il disposto : e con maggioranza d i tre quinti dell'assemblea del primo capoverso, e i capoversi secondo e terzo dell'art. 3 della legge 11 marzo 1953 n. 87, sono abrogati ». Sollevato i1 dubbio fondato ( a non dire altro) sulla illegittimità del disposto legislativo dei tre quinti, sarebbe stato dovere del guardasigilli far riesaminare la fondatezza del rilievo. Ma una volta investite le camere ( e da due anni) di proposte di legge modificative dell'articolo 3 della suddetta legge, non può essere rimandato più oltre l'esame della costituzionalità o meno di un disposto, la cui applicazione è di competenza parlamentare e sotto molti punti di vista. è urgente! anzi urgentissimo. Non avendo ottenuto di portare in tempo la questione al senato, nè potendo sollevare nella seduta comune la eccezione di incostituzionalità della legge, ostandovi una interpretazione del regolamento cui il presidente della camera, da me interpellato, ha fatto richiamo, non mi resta che denunziare al pubblico l'eventuale violazione dell'articolo 64 della costituzione, se il parlamento vorrà, ad ogni costo e senza un preventivo esame della eccezione suddetta, ~ r o c e d e r e alla nomina dei cinque giudici. Si assuma la responsabilità chi ne ha il dovere. 5 novembre 1935.

( I l Giornale d'Italia, 9 novembre).

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IL PARLAMENTO IN UN VICOLO CIECO

Nel marzo 1953 si cominciò a discutere come poter nominare i giudici della corte costituzionale sulla base del quorum dei tre quinti, senza che la maggioranza governativa fosse obbligata a votare il nome di una delle due estreme. Si era alla vigilia delle elezioni politiche e, nella fiducia di una vittoria che avrebbe ridotto gli avversari, fu deciso, nonostante il termine di legge di quarantacinque. giorni, d i non convocare il parlamento in seduta comune. È di5cile far comprendere agli uomini politici che il rinvio di una lotta che potrebbe vincersi con qualche difficoltà, nel più dei casi, è calcolo sbagliato. Fabius Cunctator non rinvia, ma persevera in una tattica che sbocca in una battaglia, quella buona. I1 7 giugno 1953 diede ragione ai pessimisti, creando per il parlamento condizioni più difficili di quelle della prima 1eg,islatura; per i gruppi e i relativi partiti situazioni fluide ed equivoche. I tre quinti non si ebbero nell'ottobre 1953; non si ebbero nel luglio 1954; si sono avuti il 15 di questo mese per i primi due giudici, a mezzo d i una schermaglia mal riuscita, mettendo in panne l'elezione degli altri tre. La soluzione prospettata dai gruppi di maggioranza, nel comunicato pubblicato sabato scorso, fermi restando i candidati Cappi e Cassandro, sarebbe a favore di un quinto candidato al di fuori dei gruppi politici. Si son fatti pedino i nomi dell'on. De Nicola e del presidente Eula. Con rispetto di così eminenti personaggi al di fuori e a l d i sopra di ogni discussione, mi sembra che si tratti di conti fatti senza l'oste. Se le sinistre e le destre insistono per un proprio candidato, nessuno si può azzardare a ripetere con siffatti nomi quanto accadde all'on. Merzagora, candidato ufficiale della D. C. al posto di presidente della repubblica. Per giunta, tali nomi creerebbero d i per sè un'ipoteca al posto di presidente della corte costitu-


zionale; anche questo punto dovrebbe rendere assai perplessi nell'insistere. E allora? Si dice in siciliano: meglio una volta diventar rosso (russicari) che cento volte diventar verde (uirdicari); la soluzione di una vertenza raggiunta con la lotta, per quanto contrastata e costosa, tronca le questioni; mentre il continuo contrattare a base di compromessi, di amarezze e di viltà, è assai più penoso, assai più costoso e conduce a non risolvere nulla o a risolvere male. Ho atteso le prime votazioni, (visto che non avrei potuto parlare a Montecitorio) per ritornare a scrivere sul tema della incostituzionalità del quorum fissato dalla legge 11 marzo 1953, nella speranza, per quanto tenue, di persuadere i direttivi dei gruppi di maggioranza a pigliare la via maestra, lasciando il vicolo cieco da loro imboccato. Nè mi fermerei, anche se, per caso, la maggioranza arrivasse a varare i tre nomi di giudici per i posti finora non coperti, essendo identico il problema per l'avvenire, sia dal punto di vista costituzionale, sia dal punto di vista politico. Allo stato delle cose si può andare incontro ad una vertenza legale di quelle che si dicono eleganti. Secondo l'art. 64 della costituzione nessun candidato nelle votazioni del 1953 e 1954 ottenne la metà più uno dei votanti, mentre nella votaxiuue del l5 di quesio mese- i, canciiciari Ambrosini, Cappi e Cassandro, e nella seconda votazione dello stesso giorno il candidato Bracci, hanno superato la metà più uno dei voti; nella prima votazione del giorno successivo anche il candidato Condorelli ha superato la metà più uno. I cinque giudici di nomina parlamentare, in base alla costituzione, possono affermare di essere stati eletti, benchè tre di essi non siano stati proclamati. Secondo la mia modesta opinione, e, implicitamente, secondo la tesi sostenuta dal prof. Maranini, non occorre altro per la validità che il presidente dell'assemblea, riconoscendo non obbligante la prescrizione della legge 11 marzo 1953 sul quorum, proclami eletti i tre giudici lasciati in sospeso. I1 noto professore dell'università di Firenze h a scritto di recente: A questo punto è arrivato il momento di ricordarsi che quella legge non esiste: la costituzione può essere modifi-


cata solo con legge costituzionale, e quella legge non fu votata con la procedura delle leggi costituzionali. È una legge ordinaria. Non vale contro la costituzione. Che una legge non valida abbia potuto paralizzare per anni tutta la vita costituzionale della Repubblica Italiana è veramente cosa degna d i meditazione ». Io penso che molti costituzionalisti sottoscriverebbero siffatta tesi per quanto possano restare perplessi sulla soluzione da me proposta della proclamazione da parte del presidente dell'assemblea. E poichè io ho l'impressione che l'on. Leone, o non sia convinto della tesi o non voglia incontrare una vivace opposizione che lo accusi di arbitrio, non avrei difficoltà a ripiegare sulla proposta contenuta nel mio articolo del 9 novembre, di una legge abrogativa della suddetta disposizione sul quorum perchè illegittima, dichiarando eletti sia i giudici Ambrosini e Bracci, sia i giudici Cappi, Cassandro e Condorelli. Qualche giurista ancora più formalista, riterrebbe non valide le votazioni fatte con riferimento al quorum dei tre quinti, e vorrebbe che fossero per legge annullate le elezioni avvenute, ripetendo la nomina in base all'articolo 64 della costituzione. Ma in tal caso, il cambiamento di uno o più giudici, secondo me già eletti, potrebbe dar luogo ad un eventuale ricorso da parte dei giudici che non verrebbero confermati. I1 ricorso dovrebbe essere deciso dalla stessa corte costituzionale con l'intervento di non meno di undici dei propri membri. Fuori dalla stretta linea giuridica suesposta, si prospettano tre soluzioni politiche. La prima, quella del quinto nome superiore ad ogni partito; nel quale caso si dovrebbe contare sul consenso della maggioranza governativa, sia pure non compatta, più i socialcomunisti; ovvero sul consenso della stessa maggioranza, ma compatta, più la destra comprensivi i missini. Poichè si deve tener conto, di qua e di là, di terzi oppositori, questa non sarebbe una soluzione che possa essere liberamente presa, ma dovrebbe essere subordinata a condizioni contrastanti. Doppiamente condizionata sarebbe la proposta di Nenni, quella di far dimettere i due eletti, Ambrosini e Bracci, con l'intesa che il capo dello stato metta i due dimissionari fra i cinque di nomina presidenziale, impegnando i socialcomunisti e la mag-


gioranza governativa a concordare cinque nomi non politici, che però, senza essere iscritti ai partiti siano rispettivamente dei simpatizzanti. Per far ciò, in primo luogo si dovrebbe avere l'adesione dei primi due eletti, il che manca di buon senso; in secondo luogo, occorrerebbe il consenso di tutta la maggioranza governativa, il che è abbastanza ingenuo; in terzo luogo si dovrebbe chiedere la promessa del capo dello stato, il che è irriverente; e infine si dovrebbe contare sulla buona volontà dell'on. Condorelli a rinunziare ad un eventuale ricorso per la sua elezione già avvenuta. Andiamo avanti: si è parlato e si torna a parlare di scioglimento delle camere nel caso di mancato accordo. Qualche giornalista sostenne tale ipotesi, sul presupposto che per modificare il quorum dei tre quinti fosse necessaria una legge costituzionale. I1 che non è esatto: allo stato degli atti basta perfino non tener conto del disposto del quorum. Attribuire, pertanto, al presidente della repubblica l'intenzione di un atto che non risolverebbe il problema, rimettendolo per di più alle passioni elettorali del paese, è cosa assai deplorevole. I n conclusione: se il 30 novembre non avremo la nomina dei tre giudici, che a rigore di interpretazione di leggi, sono già eletti nelle persone di Cappi, Cassandro e Condorelli (volendo ripetere la votazione non potrebbero più essere sostituiti senza una dichiarazione a tutti gii eiferri iegaii di Gnunzia af pvnìù da parte degli interessati), bisogna arrivare alla mia proposta, sia essa la principale, sia la subordinata. Per coloro che dubiteranno della mia affermazione che una disposizione costituzionale possa fare stato senza la legge di esecuzione, e ~ e r f ì n ononostante una legge ordinaria in contrario, desidero ricordare che la legge ordinaria vieta lo sciopero e la costituzione ne subordina l'esercizio ad una legge che ancora non è stata emanata; ciò nonostante lo sciopero si reputa legittimo. Si è chiesta ultimamente la sospensione di certi processi avanti i tribunali militari, nonostante la legge scritta e pur mancandone l'abrogazione, e ciò a nome della disposizione costituzionale; così per altri casi dal 1948 ad oggi. Non facciano i formalisti coloro che oggi vogliono opporsi ad una soluzione chiara, legittima, urgente, che è l'unica soluzione da


potersi dare all'intricato problema dei cinque giudici di nomina parlamentare. 21 novembre 1955.

( I l Giormle d'Italia, 23 novembre).

È LA CORTE COSTITUZIONALE

I N PERICOLO?

No certo: se le successive votazioni non raggiungeranno i tre quinti dei presenti, le due camere potranno, finalmente, modificare l a legge e renderla normale. Chi vi si opporrebbe? La minoranza di sinistra e forse anche quella d i destra; ma la maggioranza parlamentare potrà deliberare anche senza l e minoranze, proprio in forza dell'articolo 64 della costituzione, la quale, sarà bene tenerlo presente, fissa la base del sistema parlamentare maggioritario che, legislativamente, si esprime nelle deliberazioni valide e operative. Nella logica del sistema non vi sono motivi sufficienti per i quali il legislatore ordinario possa cambiare, nel caso di nomine, il principio maggioritario. Dico i l legislatore ordinario, perchè il costituente ( e quindi anche il parlamento con procedura costituzionale) avrebbe potuto adottare un sistema non maggioritario diverso dal parlamentare democratico, come sarebbe il sistema del veto indiretto affidato alle minoranze: quorum di due terzi, di tre quinti, di tre quarti e quattro quinti a piacere. Tanto è vero che la nostra costituzione, come tutte l e costituzioni dei singoli paesi di questo mondo, (fa eccezione I'ONU che non è un paese ma una associazione di stati che cammina sui trampoli per il veto dei cinque grandi) è basata esclusivamente sul principio maggioritario. Le poche volte che l a nostra costituzione h a introdotto una limitazione alla maggioranza dei votanti (con la presenza della maggioranza dei componenti) ha stabilito come risolutiva la maggioranza assoluta. I n tali casi il principio maggioritario è sempre salvo e operante; sia nelle votazioni per l e modifiche o aggiunte alla costituzione - la


condizione dei due terzi dei componenti delle due camere è solamente liberativa dell'obbligo del referendum e non è obbligatoria per l'approvazione della legge (art. 138); - sia per l a dichiarazione d'urgenza di un disegno di legge (art. 73); sia anche per l'approvazione del regolamento di ciascuna camera (art. 64); sia per gli statuti regionali da parte dei rispettivi con-. sigli delle regioni (art. 123). Ma anche per la nomina del presidente della repubblica può dirsi salvo il principio maggioritario, perchè dopo due votazioni a vuoto con il quorum dei due terzi, si ripiega sulla maggioranza assoluta quale decisiva (articolo 83). I1 dr. Franco Bozzini, che io tanto apprezzo, distingue le votazioni di nomina dalle votazioni di leggi, affermando (se mal non ho compreso) che il disposto dell'articolo 64 si applica alle seconde non alle prime. Non trovo motivi interni a che il sistema maggioritario valga solo per le leggi ( i l valore di efficacia deliberativa è lo stesso nonostante l a diversa entità giuridica N); anche le nomine sono C( deliberazioni come dice l'articolo 64: atti d i volontà della maggioranza deliberante. La mia interpretazione è avvalorata dal fatto che il disposto costituzionale mette sullo stesso piano le deliberazioni del parlamento i n seduta comune con le deliberazioni di ciascuna camera; si sa bene che il parlamento (C siede )) esclusivamente per J,7:1,,,,, --- -. o u Y v A u v ; i: p l i i ~ ; d ~ ~UC: i t;S: Z ~ ~ U1U1 U1.I I C S i, giuUici della corte costituzionale, i quattro membri dell'alta corte per la regione siciliana. P e r giunta, qualsiasi sistema elettorale non ammette, nè può ammettere, che le votazioni non abbiano una conclusione positiva ed una soluzione immediata, essendo al di fuori di ogni legalità la vacanza prolungata di posti di u 5 c i pubblici; a maggior ragione quelli voluti dalla costituzione. Qualsiasi sistema elettorale, anche il più rigido, finisce in tre modi: o col ballottaggio fra i primi due candidati; o con l a validità della maggioranza senza qualifica, fra due o più candidati; ovvero con l a maggioranza assoluta per prescrizione tassativa di legge. Una votazione efficace, cioè elettiva, a l disopra della maggioranza non si dà senza costringere l a volontà della maggioranza a cedere al diritto di veto della minoranza. -YYV,.


Come si può allora sostenere la tesi opposta? Forse con la riprova dei regolamenti interni delle due camere che, in apparente contrasto all'articolo 64, consentono l'elezione a lista limitata, per fare posto alle minoranze sia negli uffici d i presidenza dell'assemblea e delle commissioni, sia nelle nomine delle commissioni? Si tratta di norme per interna corporis e di una prassi che lia una sua tradizione nel parlamento italiano di prima del fascismo; ma tale tradizione non potrebbe invocarsi per le nomine a corpi autonomi e a consigli non rappresentativi del parlamento; e neppure se non esistesse affatto l'art. 64. I1 quale articolo, se bene interpretata la clausola conclusiva : « salvo che la costituzione prescriva una maggioranza speciale N, non permette a legge non costituzionale sancire una maggioranza speciale. È tale clausola che esclude la discriminazione di Franco Bozzini fra deliberazioni di leggi e deliberazioni di nomine, perchè, vedi caso, alla prescrizione del quorum d i due terzi per la nomina del residente della repubblica, per le due prime votazioni si riferirebbe alla disposizione limitativa dello stesa so articolo 64. I1 mio contraddittore appoggia la sua tesi sull'articolo 137 della costituzione, dove è scritto che con legge ordinaria sono stabilite le altre norme necessarie per la costituzione e il funzionamento della corte n. La risposta è facile: il comma suddetto non si riferisce al modo di nomina dei giudici, altrimenti il fraseggio sarebbe stato diverso, cioè: « p e r la nomina dei giudici, per la costituzione e il funzionamento della corte »; ma dato e non concesso che nella parola funzionamento e COstituzione vi fosse compreso il modo di nomina dei giudici, mai la nomina avrebbe potuto essere in contrasto con I'art 64; a parte poi che la legge 1953 non fa cenno come debbano essere nominati i giudici delle magistrature; - e si sa bene quel che è avvenuto: alcuni giudici sono stati da due delle tre assemblee dichiarati eletti, con un numero di voti inferiore alla metà più uno dei votanti e inferiore alla metà più uno dei componenti il collegio. Se si vuol sofisticare lo si può fare all'infinito, ma la chiarezza dei termini legislativi non sopporta sofisticazioni. Non lo


tollera il sistema costituzionale basato sul principio maggioritario; nè lo ammette la logica elettorale nella sua fase conclusiva, maggioranza assoluta o relativa; nè lo permette l'ermeneutica degli articoli 64 e 137 della costituzione. Ecco perchè io sento il dovere di insistere nell'affermare che i l disposto d i legge sul quorum dei tre quinti è incostituzionale. Se tale è, e tale è stato denunziato, - lettera di un senatore diretta a l presidente della camera che presiede il parlamento in seduta comune; appello pubblico; disegni di legge modificativi presentati a l senato e alla camera da due anni - non si può, non solo moralmente e politicamente, ma giuridicamente, procedere all'elezione dei giudici senza aver chiarito la pregiudiziale di incostituzionalità. E poichè nel caso attuale manca l'organo che possa giudicare la incostituziona1it.à della legge che si vuole applicare, è il parlamento, unica volontà deliberante del suo regolamento, a stabilire la procedura da seguire. Ecco perchè ho esposto nel precedente articolo le vie procedurali possibili, per risolvere la intricata situazione venutasi a creare con le votazioni precedenti, per arrivare ad uno sbocco decisivo. Ho escluso ed escludo come non decisivo, il continuare, a quasi tre anni di distanza dalla legge 11 marzo 1953, a votazioni inconclusive e a intermediazioni che svalutano il parlamento. o paggio ancora, aiio sciogiimenro Cieiie camere che non risoiverebbe il problema e aggraverebbe la situazione politica. 26 novembre 1955.

( I l Giornale d'Italia, 30 novembre).


DEMOCRAZIA E SCIOPERO u Già altre volte, alle lezioni di u educazione civica » che dedicammo loro per illustrare i l nostro sciopero come atto di democrazia operante, gli studenti corrisposero con una intelligente valutazione del nostro apporto di educatori, che sapevano conformare la loro condotta di cittadini alle esigenze della loro professione ». PROF.PAGELLA.

Facciamo l'ipotesi che un bel giorno (si dice così?) tutti i medici di una provincia decidano di scioperare; mettiamo che capiti a qualcuno degl'insegnanti convinti dello sciopero C( come atto d i democrazia operante n, di avere urgente bisogno, per l a figlia o l a madre, di un atto operatorio: Dio potrà salvarla; i medici no, essi scioperano. Lo stesso potrà capitare per lo sciopero delle ostetriche, delle infermiere, dei farmacisti. Di fronte a così gravi conseguenze, forse i sindacalisti interessati troveranno il temperamento che si usa per l'apertura delle farmacie nelle domeniche; può anche darsi che non manchino i sindacalisti inflessibili : niente eccezioni. Anche uno sciopero di vigili del fuoco potrà accadere; data l'organizzazione statale unica (C dalle Alpi al Lilibeo I), lo sciopero sarà battezzato nazionale. Incendi ne capiteranno parecchi; mozziconi di sigarette e scoppi di gas non mancano mai. Penso all'incendio di un paesino di montagna, dove le case sono di legno e i tetti di paglia, e dove la tramontana soffia con violenza. Niente pompieri locali, niente dei paesi vicini o del capoluogo : i l diritto di sciopero prevale. E che dire del caso di una subitanea innondazione, tipo Salerno, se quei paria degl'ingegneri, geometri, periti, assistenti del genio civile (che in confronto alle paghe date ai colleghi degli enti parastatali fanno la figura di uscieri), si mettono in isciopero? I1 governo chiamerà il genio militare; p0tr.à anche militarizzare lo stesso personale scioperante; un'assistenza come quella avuta nel Polesine, non potrà mai aversi, e ciò con


danno delle popolazioni colpite. Non facciamo ipotesi fantastiche, mi si dirà; lo sciopero « atto di democrazia operante » avrà i suoi limiti. Infatti, ogni diritto, anche se classificato diritto politico, ha i suoi limiti; non esistono diritti senza limiti, sia intrinseci dati dalla natura stessa del diritto cui corrisponde sempre un dovere ; sia estrinseci, imposti da norme di legge a difesa della convivenza sociale. La nostra democrazia h a sul diritto di sciopero il disposto costituzionale che dice: « I1 diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano » (art. 40). La carenza d i leggi posteriori alla costituzione e in esecuzione del precetto ivi contenuto, ha fatto sì che lo sciopero si svolga senza limitazioni di leggi operanti, non essendo applicabile al caso il precedente divieto allo sciopero. Carenza del governo; carenza del parlamento. I1 primo propose un disegno di legge che non andò in porto per l'opposizione dei sindacati operai; il parlamento non ne ha preso l'iniziativa perchè i partiti non amano affrontare certi problemi assai ardui. I1 governo, è vero, ha ritenuto illegittimo lo sciopero dei funzionari dello stato e degli enti di diritto pubblico, e ciò in base a pareri del consiglio di stato e all'interpretazione data dalla corte dei conti. Ma i sindacati impiegatizi e le confederazioni sindacali scstengono che qualsiasi rapporto con lo stato debba essere assimilato a quello contrattuale di lavoro, per il quale è incontestabile il diritto di sciopero, sia pure da regolarsi con leggi. Esiste un altro limite, quello derivante dal diritto naturale, il diritto dei cittadini ad avere garantita la vita e l'esistenza individuale e collettiva, da pericoli immediati (malattie individuali, epidemie, incendi, alluvioni e simili), diritto che deve prevalere sul diritto allo sciopero e quindi trovare nelle norme che lo disciplinano i l correttivo e la garanzia. Riguardo i servizi annonari essenziali, trasporti di alimenti, forniture d'acqua, di luce e simili, l a legge dovrà precisare le norme giuridiche atte alla difesa del diritto degl'interessati, evitando che la generalit,à dei cittadini sia affamata, assetata, paralizzata. Non so se gli insegnanti, che ai propri alunni hanno presentato lo sciopero come « atto di democrazia operante n, ab-


biano loro prospettato tali punti di vista, per evitare che la democrazia si trasformi in demagogia.

Non esageriamo, mi si dice; quello degl'insegnanti statali. è stato uno sciopero di tre giorni, sciopero di protesta, per fare meglio comprendere al governo essere la cc classe 1) o « categoria )) insoddisfatta delle proposte di miglioramento. Invero, due sono i tipi di sciopero: uno, che chiamerei pseudosciopero, sia questo lo sciopero-avvisaglia che si esaurisce lasciando possibile la ripresa di trattative fra « datori di lavoro e lavoratori n; sia sciopero-preludio, che ne sviluppa u n secondo O u n terzo, secondo le alterne fasi della vertenza. Gl'insegnanti hanno compiuto lo sciopero-avvisaglia ; tre giorni di vacanze per gli alunni non sono un gran che ;vacanze simili possono capitare per la coincidenza di due feste una prima e l'altra dopo la domenica. Si afferma che nuovi scioperi saranno indetti con più deciso orientamento di resistenza. Si tratterà forse di sciopero sindacale, il vero sciopero che può finire con la vittoria o con la sconfitta ; ma l'una o l'altra realizzata durante e per mezzo dello sciopero che pertanto non ha mai un limite prestabilito, ma può durare fin che l'una delle due parti capitola. Ed ecco i l punto cruciale: è proprio ammissibile un conflitto sindacale f r a una categoria di impiegati statali e il governo? Due le ipotesi: che il governo sia sostenuto dal parlamento o che non lo sia e cada; nel primo caso, governo e parlamento rappresentano lo stato democratico, cioè l a nazione organizzata, i cittadini nel complesso istituzionale. La categoria che protesta e sciopera deve cedere; non si può ammettere una ribellione (sia pure sindacale) al potere costituito. Nel secondo caso il nuovo governo, avuta la fiducia, dovrà seguire l'indirizzo dato dal parlamento; se questo è per la resistenza, un conflitto sindacale fra la categoria impiegatizia e 10 stato non è ipotizzabile; la legge non può consacrarlo. La tolleranza di oggi per gli p s e u d o ~ c i o ~ e r(sciopero-protei sta, sciopero-avvisaglia, sciopero-intimidazione, in sostanza scioperi politici), potrà far concepire la possibilità di resistenza ad


oltranza; in tal caso tanto i cittadini quanto gli interessati dovranno riflettere che il conflitto porterà a conseguenze molto gravi, delle quali solo i sovversivi potranno compiacersi. Da un lato si afferma che il contribuente non può essere ancora di più aggravato di tasse, e molte sono le categorie che domandano alleggerimenti ed esenzioni ; dall'altro lato aumentano gli enti statali e parastatali che dànno compensi ai propri impiegati molto superiori di quelli assegnati agli impiegati statali e in certi casi anche di quelli degli impiegati di grandi aziende private. Lo stato non ha saputo fare altro che aumentare il personale impiegatizio, sistemarlo anche senza i richiesti titoli di legge, mantenere un orario ridotto in contrasto a quanto avviene nelle altre aziende, e, legiferando caso per caso per gruppi categorie e sottocategorie, dare luogo ad una insanabile sperequazione fra tutto il proprio personale. I1 malcontento è reale e in parte giustificato: ma se si continua a giocare a l rimbalzo e al rialzo fra le varie categorie degli statali, si avrà un bilancio cristallizzato e isterilito; mancherà allo stato la possibilità d i contribuire alle iniziative produttive (altro che schema Vanoni); e sarà obbligato a frenare le spese per non correre verso la svalutazione della moneta, e l a conseguente sproporzione fra salari e costi; effetti reali di siffatta politica, anche con compensi apparentemente più alti: il livellamento economico con un più basso tenore di vita per tutto i l paese. Principiis obsta: se non si fa punto alle spese degli enti pubblici, stato compreso, l'avvenire si presenta assai oscuro! I nostri ragazzi non potranno crescere in un ambiente sereno e con fiducia dell'avvenire se gli insegnanti si avventureranno in uno sciopero sindacale, contribuendo così allo scardimento morale e politico dello stato. L'avvertimento va anche al governo: se può, deve fare; se non può, deve resistere. Soprattutto, deve evitare le tergiversazioni, le lungaggini e i rinvii, che avviliscono, irritano e creano le premesse di una gravissima crisi morale. 5 dicembre 1955. (L'Italia, 7 dicembre)


LA MIA LETTERA A MALAGODI Apro i giornali: L'impegno politico dei cattolici è quello di salvaguardare la libertà D; è questo un titolo al messaggio della D.C. al congresso dei socialdemocratici del Belgio portato dall'on. Mariano Rumor ( I l Popolo, 11 dicembre 1955). Mi viene in mano il foglio (edizione italiana) del notiziario internazionale del movimento sindacale libero, dove ad una dichiarazione del consiglio esecutivo dell'dmerican Federation of Labor (cui aderisce la CISL) è messo per titolo: « la via della pace è la libertà » (n. 12, dicembre 1955). Dall'altro lato i giornali riportano, a proposito della mia lettera a Malagodi (*), il commento dell'on. De Caro, il quale, dopo un mio discorso al senato (quello del marzo 1954 sulle comunicazioni del ministero presentato da Scelba), nello stringermi la mano mi disse, sorridendo, che avrebbe dovuto offrirmi la tessera del partito liberale. Dovrebbe offrirla anche a Rumor e a Giulio Pastore? Nella mia lettera, fatte le scuse per l'assenza all'inaugurazione del congresso, continuo: ((Formulo l'augurio che, al migliore orientamento politico del paese e senza indulgere i n atteggiamenti negativi, che prendono apparente consistenza dalla polemica occasionale, siano da cotesto congresso riaffermati i valori inseparabili delle libertà politiche e di quelle economiche, libertà che giorno per giorno sono insidiate e colpite, sotto lo specioso pretesto di servire meglio il popolo lavoratore e rispondere agli interessi del paese )I. I1 punto di vista della stretta connessione fra libertà politiche e libertà economiche non è una mia quasi recente conversione al liberismo economico nè al liberalismo politico; rimonta ai primi passi della mia vita politica, fin da quando apertamente difendevo la tesi di Napoleone Colajanni per l'aboli(*) Lettera inviata il 7 dicembre, in risposta all'invito a presenziare l'inaugurazione e le sedute del congresso liberale. I1 testo è riprodotto nel corso del presente articolo.


zione del dazio sul grano. Coloro che allo Sturzo del 1894-1918, e a quello del 1919-1924 oppongono un nuovo Sturzo del 19461955, non hanno letto mai i miei scritti, non conoscono il mio passato. A costoro ( e vi è qualcuno che storce il muso) la lettera a Malagodi fa l'impressione di una affermazione quasi reazionaria; non manca fra i critici certa gente, fascista sotto il fascismo, ( d i quel fascismo che passava sopra il cadavere della libertà), che oggi si aderge a banditrice di una libertà politica che va a braccetto con i l vincolismo economico e con la lotta, ora subdola ora aperta, all'iniziativa privata. « La libertà o è totale o non è libertà dissi nel mio discorso al senato, quello ricordato dall'on. De Caro. Invero, quando la libert,à economica è ridotta al lumicino, con un continuo e opprimente interventismo statale, come si può credere che esista più una libert,à reale, garantita dalla costituzione sopra i due cardini fondamentali; lo stato di diritto e la sicurezza del diritto? Potrei fare u n lungo elenco di scantonature in materia giuridica, ma il più frequente e il meno valutato degli interventi statali riguarda la creazione e il rafforzamento di enti economici privilegiati, che p u r operando come enti privati nel campo della libera competizione, hanno in partenza sull'attività privata il vantaggio di un fondo patrimoniale che nulla costa e nulla deve, nonchè finanziamenti garantiti dallo stato, notevoli favori fiscali e, per colmo, una presunta garanzia sui rischi dell'impresa. I1 fatto che un ente statale economico sia sicuro di non potere andare male, perchè i l tesoro può intervenire a sanarne l e piaghe, attenua, volere o no, i l senso di responsabilità degli amministratori, toglie la spinta a regolare le spese, crea la facile clientela politica. Si sa che, nel clima attuale, non manca lo sperpero a scopi partitocratici ed elettoralistici. Basterebbe a provarlo l'esempio dell'lngic; ma vi è stato solo l'lngic? e vi sarà solo l'lngic? Se si leggessero bene i bilanci degli enti economici a carattere statale, o pseudo-statale, si vedrebbe palese la mancata denunzia di quanto essi debbano al fisco; quanto sia larga l'inflazione impiegatizia; quanti funzionari e impiegati facciano tutt'altro che il lavoro per l'ente dal quale ricevono paghe di mol-

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Politica d i gueati anni.


to superiori a quelle degli impiegati statali e perfino degli stessi impiegati privati. Questi enti costosissimi, deficitari la più parte, producono quattro effetti nel campo economico: sottraggono molto risparmio all'attività privata; non contribuiscono al fisco secondo la loro attività; sono messi in condizione di privilegio nella competizione economica; tendono a creare monopoli di fatto. La tendenza al monopolio non è solo degli enti pubblici; è anche delle imprese private e deriva da un'eredità ( l a corporativistica) che pesa nella vita politica italiana; strano, tutti tendono a impedire la libera concorrenza. Lo stato, a mezzo del CIP, interviene a fissare i prezzi della vendita di molte imprese' e di molte attività; siamo al punto che un farmacista che vende meno del listino del CIP viene minacciato dal prefetto (vedere il caso di Genova) del ritiro della licenza. I n sostanza, invece di portare avanti una legge anti-monopolio e lasciare libera la concorrenza, lo stato fissa tariffe (che non sono le più basse) e obbliga venditori e compratori a passare sotto forche caudine, con il pretesto che i prezzi, senza il CIP, andrebbero alle stelle. Che dire poi dello stato stesso, quando gli capita di vendere attraverso i suoi enti iodio e bromo, sostenuti da una protezione altissima per impedire ogni concorrenza interna ed estera; e far pagare all'italiano i deficit delle sue esemplari amministrazioni? I n sostanza, i monopoli di fatto degli enti statali sono protetti ; quelli privati sono coperti da dazi protettivi, da prezzi fissati d'imperi0 e da cartelli promossi da organi statali, come è avvenuto con il cartello delle banche, che è stato, i n apparenza, proposto e voluto dalle banche stesse, in realtà imposto dalla vigilanza. L'on. Pella, nel discorso di questi giorni, ha richiesto che gli enti economici dello stato siano posti allo stesso livello delle aziende private. Mi permetterà l'amico due osservazioni: primo che l'ente pubblico economico sta per se stesso sopra un diverso livello, perchè, come ho detto, ha u n capitale che non gli costa ed h a la sicurezza di non perdere. Secondo, che lo stesso Pella, come ministro del tesoro, pur non favorevole non

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ebbe la possibilità di resistere alle pressioni del collega Vanoni, nel firmare il disegno di legge sull'ENI. Forse ebbe allora il merito del silenzio; spero che oggi egli abbia il merito di intervenire nella discussione del disegno di legge Cortese. C'è gente che non vede chiaro lo stretto rapporto fra dittatura economica e dittatura politica; e dire che la storia è tutta imperniata su questo punto, dal giorno (ed è assai lontano) che gli uomini assoggettarono i loro simili, fino a privarli di ogni libertà e farli schiavi. Quando si manda via un dittatore ( è il caso nostro), si crea una oligarchia: i comitati di liberazione furono una oligarchia; gli esclusi furono in quel momento i paria, salvo a passare sotto la bandiera dei nuovi partiti. Poi venne la normalizzazione; ma restarono gli enti, e se ne crearono di nuovi da affidare ai rappresentanti dell'esarchia, del tripartito, del quadripartito, secondo le fasi della politica. Socialisti e comunisti tengono ancora qualche particella di potere, sia pure a titolo personale. A parte tutto ciò, con l'elefantiasi degli enti e delle relative burocrazie si crea una « classe dirigente non più libera, ma legata al parassitismo statale (politico, partitico, economico, fino a toccare o superare i margini del profitto illecito e della malversazione); parassitismo che inficia non solo la pubblica amministrazione, ma le libertà civili e politiche. Non per nulla gli americani privarono del diritto di voto gli impiegati federali residenti nella capitale. L'alleanza della burocrazia con i partiti ( o con i sindacati anche essi politicizzati), crea un potere superiore a quello costituzionale basato sui liberi cittadini, e sottopone gli stessi cittadini ad u n dominio (quello oligarchico di cui sopra) insopportabile e non eliminabile. I1 cittadino non è più libero; lo stato di diritto non conta più; all'uno e all'altro si sovrappone una volontà anonima e irresponsabile, che si esplica negli ambulacri delle camere e dei ministeri, dove la combinazione, la collusione per interessi individuali e di categoria, si consumano attraverso articoli di legge e prassi amministrativa. Ma tutto ciò non sarebbe ancora abbastanza, di fronte al iatto che le fonti di energia, sulle quali si basa tutta la vitalità


e l'attività economica di u a paese, si trovano monopolizzate sia direttamente da enti statali (l'ENI è il più importante), sia indirettamente con i prezzi CIP; sia consentendo che l e società private partecipino allo stesso tempo a formazioni monopolistiche ed a holdings parastatali. Se questa non è la premessa di una dittatura economica di stato, quale ne sarà mai una? L'on. Vanoni, nell'inaugurare il centro studi della città del metano, parlò dell'avvento di una nuova classe politica; proprio quella (dico io) che assumerà la dittatura economica del paese. La perdita della libertà reale ne è implicita; resterà certo la libertà dei rotocalchi, delle riviste teatrali, dei films cinematografici, delle associazioni sportive; si faranno le elezioni con leggi fatte su misura, con liste combinate dai nuovi oligarchi e finanziate dai monopolisti di stato. Attendo con interesse l'intervento dell'on. Malagodi, nella discussione del disegno d i legge Cortese, che, tanto per cominciare, raddoppia di diritto e di fatto il monopolio dell'ENI su quasi tutto il territorio italiano. 13 dicembre 1955.

(L'Italia, 16 dicembre).

EQUIVOCO MORALE E CIVILE (*) Caro don Spada, La ringrazio della cortese lettera del 15 c.m. e intanto l e ricambio i più fervidi auguri natalizi. Per quanto riguarda i miei articoli debbo dirle che sono convinto che la franca discussione, anche fra cattolici, produce molto bene; primo quello della ricerca della verità che libera; secondo quello della eliminazione della paura dell'awersario; terzo il superamento dell'infingimento e della simulazione.

(*) Lettera a don Andrea Spada, direttore de L'Eco di Bergamo.

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Riguardo le idee che sostengo, ammetto la opinabilità di alcune, ma anche la certezza di molte altre. « Sassi in piccionaia? D no, certo; sono impressioni di coloro che preferiscono credere che nessuno sappia quel che si denunzia. Così non si ottiene fiducia e non si supera l'equivoco morale e civile in cui viviamo. I1 fatto gravissimo di non avere avuto il coraggio di dir chiaro agli insegnanti la teoria etico-giuridica dello sciope;o e la posizione anti-educativa presa, porta i cattolici alla tragedia dell'attuale conflitto con lo stato. Ecco perchè ho creduto domandarle i l perchè della mancata pubblicazione del mio articolo al riguardo; domanda che mi ha dato il piacere di ricevere la sua lettera e l'amarezza di non essere d'accordo. Che lo Spirito di verità ci assista. Cordialissimi saluti. 17 dicembre 1955.

( N o n pubblicata).

RICORDI La mia amicizia con Giulio Rodinò ebbe inizio dal maggio 1902, quando mi recai a Napoli a tenere una conferenza su Chiesa e stato sotto i Borboni. Me lo fece conoscere Domenico Russo, con il quale ero in rapporti fin dall'agosto 1900. Allora Napoli aveva una gioventù cattolica franca, aperta, coraggiosa, entusiasta. I1 circolo universitario, presieduto da Russo, mostrava una vitalità fresca ed esuberante. I n quel periodo la mia attività gi,à impegnata in leghe e cooperative artigiane P, contadine, si orientava verso l'amministrazione comunale e l'associazione dei comuni italiani della quale già facevo parte. L'anno appresso il congresso nazionale di tale associazione fu tenuto a Napoli: ci trovammo sul posto con il notaio Giuseppe Micheli e l'avv. Giulio.Rodinò (ambe-

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due poscia deputati al ~ a r l a m e n t o )e tentammo di conquistare qualche posto nel consiglio dei comuni: la nostra fu la prima affermazione che nel 1904 doveva assicurarci per venti anni una partecipazione assidua ed autorevole, (chi scrive ne fu prima consigliere poi vice presidente ed ebbe per colleghi Micheli, Meda, Rodinò, Mauri ed altri) sia che la maggioranza fosse tenuta dai radical-socialisti, sia dai democratici, sia dai democratici e liberali. Ho voluto ricordare questo episodio, ricollegato ai due congressi dell'associazione dei comuni italiani tenuti a Napoli nel 1903 e nel 1904, (nei quali la figura di Giulio Rodinò campeggiò come quella di un leader e di uno dei più apprezzati municipalisti), perchè molti sconoscono le battaglie fatte per l'autonomia comunale e la fattiva e convinta partecipazione dei cattolici italiani, che allora tenevano alta la bandiera delle libertà locali come simbolo di una delle più gloriose tradizioni italiane. Giulio Rodinò portò nella vita pubblica, amministrativa e politica, e nelle attività d i partito, un senso di equilibrio e d i sanità (nel senso migliore della parola) che raramente potrà essere superato. Le sue battaglie, chiare e coraggiose, non furono mai dure ed aspre. La sua fermezza fu condita da gentilezza anche nei momenti di maggiore effervescenza e vivacità di lotta. Seppe sempre distinguere i doveri di amicizia dai doveri verso il paese e verso lo stato. E quando l'avvento fascista rese impossibile ogni libera attività politica, e limitò perfino l'attività professionale, egli mantenne il contegno dell'avversario al regime, con serena nobiltà, senza debolezza e senza iattanza. Giulio Rodinò fu al mio fianco quando venni a Napoli il 18 gennaio 1923 a tenere nella Galleria Principe d i Napoli il discorso: Il mezzogiorno e la politica italiana che fu la più vivace e polemica affermazione meridionalista nel momento in cui il nuovo regime iniziava una politica che avrebbe ancora di piU mortificato le speranze di migliore avvenire delle regioni meridionali. Poco ancora dovevo restare in Italia; la via dell'esilio mi era segnata; e mi piace chiudere questi ricordi con un tratto


di amicizia del carissimo Giulio, che è bene che sia conosciuto. Nel luglio 1925 era venuta a visitarmi in Francia la mia buona e cara sorella Nelina. Da certi segni ero preoccupato per il viaggio di ritorno di lei, e desideravo trovare un amico che l'accompagnasse. Pensai a Rodinò e gli feci arrivare con la dovuta prudenza il mio desiderio. Ed ecco che ai primi di settembre egli arriva a Parigi. Non mi aveva avvisato, aveva tutto compreso ed aveva fatto in modo da potermi rendere quel segnalato favore con la semplicità di chi non si accorge e non fa accorgere di farlo. F u quella l'ultima volta che lo vidi. Ebbi sue lettere a New York nel 1945; speravo trovarlo ancora sulla breccia La sua memoria è oggi in benedizione.

...,

31 gennaio 1956.

( N o n appare pubblicato).

NENNI, LE ELEZIONI E «L'APERTURA A SINISTRA )) La prima e l'unica volta che Nenni ebbe l'occasione d i svincolarsi dai comunisti fu nel maggio 1947, nel momento in cui De Gasperi sciolse il tripartito, sbarcando i socialcomunisti e tentando l'avventura che a un anno di distanza gli fmttò il 18 aprile. Allora Nenni era convinto che, prima o poi, la sorte avrebbe favorito le sinistre; l'avvenire sarebbe stato per l'unità del proletariato sotto la guida ( o la bacchetta) del comunismo. Stalin era al suo auge e l'America ancora incerta sulla via da seguire, nonostante che verso l'ex alleata di guerra avesse già aperto gli occhi. I1 passaggio agli esteri come ministro dei cento giorni (esattamente 105)' servì a Nenni per confermarsi sulle deficienze degli Stati Uniti di America e per comprendere la Russia e la supremazia del metodo staliniano verso l'occidente europeo. Da allora, egli fu tetragono a tutte le sollecitazioni dei partiti socialisti europei continentali e del laburismo inglese; non volle mai prendere in considerazione la possibi1it.à di allinearsi con


l a internazionale socialista; ha preferito un socialismo spurio sempre più legato al comunismo così da non accentuare, nè in politica interna nè in quella estera, qualsiasi differenza fra PSI e PCI. Per giunta, Nenni era allora come oggi un vero staliniano; non avrebbe mai distaccato sè e i suoi seguaci dalla politica russa. È con questo spirito che Nenni, in seguito al 7 giugno 1953, trattò l'apertura a sinistra senza allontanarsi di una linea dai comunisti e negando, così, la possibilità di un suo passaggio sul piano democratico. Per giunta, egli accettò i l premio Stalin, e andò a prenderselo dalle mani del dittatore di Mosca. Questi precedenti non contano per coloro, e non sono pochi, che hanno avuto ed hanno ancora in Italia la fissazione dell'apertura a sinistra con Nenni, come uno sbocco « democratico » delle forze del lavoro, la realizzazione del socialismo di stato » o, più esattamente, dello « statalismo sociale N. L'apertura a sinistra per gli ingenui significherebbe il distacco dai comunisti, ma non per Nenni; i l quale, non solo non ha fatto un passo o detto una sola frase in tale senso, ma ha detto e fatto in modo da far comprendere essere i comunisti parte integrante di un movimento di sinistra, del quale egli mai diverrebbe il primo responsabile. I n piena crisi Stalin, quando gli incauti sinistrorsi dei vari partiti si affrettano a invitare Nenni a dare il calcio dell'asino a i comunisti rinunziando a dodici anni di collaborazione, Nenni preferisce minimizzare la crisi staliniana, come di roba che non riguarda l'Italia; egli si preoccupa della politica italiana, politica che finge credere si faccia a Roma e non a Mosca; egli pensa di poter riprendere la politica del dialogo del PSI con social-democratici e radicali; con cattolici di sinistra e con la stessa D.C. e, se possibile, anche con l'azione cattolica e i l prof. Gedda; essendo reale interesse dell'Italia occuparsi della politica dei fronti, delle aperture, delle elezioni; non mai delle dittature moscovite passate presenti e future. Infatti Nenni, premio Stalin, è un semplicista; oggi contano in Italia le elezioni amministrative. Interessiamocene più che di Stalin; occupiamoci del come amministrare comuni e provincie; scegliamo buoni amministratori; assicuriamo la possibilità di riprendere


la vita locale. Se poi le statistiche elettorali daranno al PSI un progresso, Nenni, lo ha detto chiaramente, riprenderà la campagna del giugno 1953 per « l'apertura a sinistra D. Se, invece, l'esito sarà ancora per l'immobilismo centrista, Nenni ne è sicuro del fallimento; e ne attenderà l'esito, perchè sa di potere contare sugli utili idioti, e crede che molti siano tali. La sua improntitudine arriva a voler fare i l buon compare anche di quei cattolici sociali che sanno bene come valutare i l buon Pietruccio. Non si è forse proprio in questi giorni procurato egli una visita in alto loco? e sarebbe disposto a cercare di essere ricevuto da qualche monsignore o cardinale dei più noti nel campo sociale? Tutto serve allo scopo. Però, il marchio staliniano ( e Nenni c'è l'ha e non può cancellarlo) resta; e resta macchiato di sangue, non per le rivelazioni sovietiche del marzo 1956, ma per la conoscenza avutane durante il periodo dell'apoteosi, prima e dopo la guerra del 1939-1945 e l e conferenze di Teheran e Yalta. Chi scrive ricordò a suo tempo, in uno scritto londinese, le vittime del celebre canale Stalin. Ma non è solo Stalin a macchiarsi di sangue in Russia e fuori. I delitti gratuiti durante la resistenza in Francia e in Italia, furono voluti e compiuti da comunisti. Si pose un velo sui primi e sui secondi, perchè non si ebbe la possibilità o il coraggio di impedirli, nè di punirli, nè di sconfessarli. Certo, aver comprata la libertà per noi a prezzo della servitù dei paesi satelliti, è stato un procedimento che non sarà mai privo di rimorsi. L'occidente, l'America per la prima han visto i l pericolo di essere trascinati nell'abisso, ed han pensato ai casi propri, p u r rilevando di tanto in tanto (come a far tacere i l rimorso che martella) la necessità di ricordarsi dei fratelli oppressi del Baltico e dell'Europa centrale Primum vivere... è così; perciò il patto atlantico (tutto intiero, l'onorevole presidente Gronchi ha ragione), tutto intiero ma senza Nenni; senza, cioè, scivolare sui fronti popolari; senza credere che la politica interna di ogni singolo stato possa essere fatta in disaccordo dalla politica internazionale degli stati associati nel patto Atlantico. Salus publica suprema lex esto, deve essere il motto che unisca tutti nell'ora di un pericolo immanente,

...


che i sovieti accrescono ( e non attenuano) con la politica antistaliniana. Chi non lo vede, è cieco. La sciocca motivazione dell'antistalinismo per sostituirvi un governo impersonale, ed evitare il ripetersi dei delitti della dittatura personale, è roba che non ha senso. Dal direttori0 e dal consolato la Francia passò alla dittatura imperiale di Napoleone; e Hitler da cancelliere passò a Fuhrer. Si è letto che Nenni sia stato vivamente criticato da alcuni dei suoi colleghi del PSI. Posso ammetterlo; ma in Italia un Farinata, quello d i Dante, oggi è una figura fuori corso ; non ce ne sta in nessun partito; sarei lieto di trovarlo proprio in quel PSI, che ha inghiottito il premio Stalin, il viaggio in Cina, l'incontro mancato con Krusciov e altre avventure del proprio capo. Conclusione? nessuna, nonostante i quattro punti della direzione della DC. Purtroppo, continueremo a sentire parlare di esito elettorale come quello del 7 giugno (distanza d i undici giorni) di certe « basi 1) specie dell'alta Italia, che si preparano ad intese con Nenni nelle giunte municipali; di attese di apertura che i sinistrorsi dei vari partiti di qualifica democratica rimetteranno in discussione, nel prossimo giugno, con quel calore spensierato e incosciente che ebbero nel giugno di tre anni addietro. E i comunisti? senza preoccuparsi di Stalin, continueranno la loro politica, votando per il governo quadripartito, ovvero astenendosi o assentandosi, secondo i casi, per potere più facilmente dare a intendere al pubblico italiano che sono essi gli indispensabili guidatori della politica italiana, per esserne domani i padroni per conto di Mosca. 3 aprile 1956. ( I l Giornale d'Italia, 5 aprile).


I L DECENNALE DELL'AUTONOMIA REGIONALE SICILIANA (*) Partecipo in spirito al decennale dell'autonomia regionale siciliana, ottenuta dopo un secolo di aspirazioni e di rivendicazioni, ricordando venerati maestri, amici fedeli, compagni generosi nelle battaglie combattute fra incomprensioni, diffidenze e sconforti. A te per due volte l'onore e il peso di rappresentare la regione, attuare lo statuto, organizzare i servizi, dare impulso alle iniziative pubbliche e private, affermare e difendere il nuovo diritto costituzionale da insidie, avversioni, incomprensioni. Nulla si realizza senza lotta; nulla si attua senza difficoltà; nessuna attesa è degna dell'uomo se non si ha la pazienza del sacrificio e la subordinazione dell'interesse individuale alla causa comune. Così la Sicilia è risorta; così la Sicilia prenderà il posto che le spetta. Auguri cordiali, a te caro amico, alle autorità regionali, a tutti i siciliani. Ringraziamenti per l'affettuoso telegramma. LUIGI STURZO 14 maggio 1956.

( S X l i a del Popolo, 14 maggio).

AUTONOMIE E REGIONE

I partiti del centro governativo, specialmente la democrazia cristiana e i repubblicani, hanno accentuato per le elezioni am-

(*) Lettera a Giuseppe Alessi, presidente della regione siciliana.


ministrative in corso, il carattere autonomistico degli enti locali: comuni, provincie ed enti minori. La costituzione ha collegato tali autonomie con la funzione della regione al punto da aver passato a questa il controllo di legittimità sugli atti di tali enti, compreso, per casi determinati da legge, il controllo di merito nella forma di richiesta motivata per u n riesame della presa deliberazione (art. 130). Così è stata sottratta la materia all'ingerenza statale, lasciando allo stato la riorganizzazione, in sede contenziosa, della giunta provinciale amministrativa e del consiglio di prefettura, nel quadro e nello spirito della costituzione. Son passati otto anni e mesi dalla promulgazione della costituzione e dieci anni dall'approvazione dello statuto della regione siciliana per attuare, per la prima volta in Sicilia, i l disposto costituzionale del controllo. E proprio nel decennale della regione, va in vigore la legge delegata approvata con decreto presidenziale del 29 ottobre 1955 sull'ordinamento degli enti locali, che lo statuto fissava dover essere approvata nella prima legislatura dell'assemblea (art. 16). Rilevo il fatto, non per un motivo di censura sia al governo regionale, sia all'assemblea; potrei ricordare i vari tentativi di disegni di legge ed una legge annullata dall'alta corte, mettendo in vista le difficoltà della materia, e anche, perchè non dirlo, l'orientamento della pubblica opinione del paese più incline a trattare problemi di categoria e di interessi economici, invadendo anche, non sempre con senso di misura, il campo privatistico, anzichè approfondire i problemi dell'attività pubblica degli enti e degli organi amministrativi. Questo è stato uno dei meno apprezzabili lati dell'attività del parlamento italiano dal 1948 ad oggi, nel rattoppare solo e di tanto in tanto le vecchie leggi del periodo prefascista, con disposizioni fasciste ovvero con altre nuove quasi sempre intinte di statalismo. Naturalmente la regione a statuto speciale dell a Venezia Giulia e le regioni a carattere ordinario sono rimaste tuttora senza il completamento delle leggi necessarie a renderle funzionanti. Trieste attende i l suo assetto nel quadro regionale. E d ecco oggi rinverdite le speranze di noi impenitenti au-


tonomisti, nel vedere portata avanti la lotta elettorale per il rinnovamento degli organi elettivi delle provincie e dei comuni, sotto l'insegna costituzionale dell'autonomia locale e, necessariamente, delle regioni, sempre reclamate dagli uni e contestate dagli altri. Dopo dieci anni di esistenza della regione siciliana, e più o meno con quasi contemporaneità e sotto commissari, delle altre tre a statuto speciale, è confortevole leggere articoli discorsi e affermazioni di persone autorevoli, che riconoscono e l'utilità dell'istituto e la prova data, contro i pessimismi degli antiregionalisti e dei disfattisti. Ma questi ultimi esistono ancora, sia perchè non si rassegnano alla diversità di legislazione e di istituti fra regioni, (ci sarebbero ancora dei misoneisti pronti a cancellare i dialetti e perfino la cucina regionale!); e che agitano lo spauracchio antiunitario in periodo di organizzazione europea e di attività sindacali e politiche sul piano internazionale. Niente paura: l'Italia una, l'Italia nazione, l'Italia patria nostra, non perde nè perderà la sua fisionomia, sia che venga associata più intimamente ad una Europa rifatta a nuovo, sia che attui nel suo seno l a costituzione regionalista che ci siamo data. L'unità del nostro paese è solo minata da coloro che vogliono toglierci libertà e indipendenza e legarci al carro delle dittature interne ed estere. La Sicilia ha dato l'esempio di saper esserne franca e vivente regione nella nazione, e per dippiù libera in politica dai partiti che voglion le aperture per passarvi le catene della dittatura; la Sicilia che ha chiesto per sè e voluto per gli altri i l rispetto della costituzione, 6 lieta di mettere una prima pietra al suo decennale cammino in ricordo del passato e come punto di partenza per l'avvenire. 2 maggio 1956.

(L'Azione Popolare, 14 maggio).


APERTURA POST-ELETTORALE I1 caso Gonella h a dato occasione a Fanfani, Taviani, Andreotti e parecchi altri autorevoli democristiani a riaffermare in comizi pubblici che non vi sono, prima nè dopo le elezioni, sottintesi per aperture. Tutto è chiaro e sincero. Le manovre di Nenni non hanno base. Non ho elementi per accertare la verità circa la smentita data da Gonella allYARI,e la successiva smentita alla smentita, fatta dallo stesso Gonella, nonchè la riaffermazione dellYARI sulla veridicità della prima smentita. Sono cose che capitano, specie in periodi elettorali, date anche certe situazioni personali non molto chiare. Non è da ora che Gonella ha degli scarti significativi. Ma anche a restare alla dichiarazione riportata dal Popolo di giovedì, con gli « allargamenti del fronte democratico per portare nella cittadella della democrazia i maggiori suffragi possibili », e il ben inteso successivo, « che questo deve avvenire da parte di quei partiti che avessero chiaramente e con estremo rigore dimostrato la loro attitudine alla democrazia rinunciando a qualsiasi riserva D, siamo sempre nell'equivoco circa i rapporti post-elettorali con le sinistre. Non interesserebbero, invero, i casi Lauro e Covelli, se mancassero di dare, con l'estremo rigore degli esaminatori, la prova di « avere attitudine alla democrazia » e di avere rinunciato « a qualsiasi riserva D (s'intende anti-democratica), e neppure il caso di Marsanich, anche perchè non mi sembra che i suddetti signori abbiano dimostrato desiderio di entrare nella cittadella democratica. E neppure interessano i radicali d i Villabruna, che entrando nella suddetta cittadella farebbero, per naturale reazione, uscire dalla stessa porta i liberali di Malagodi. Neanche interessano quei gruppettini che han trovato rifugio nelle varie liste elettorali di sinistra; avendo, perciò stesso, fatto la loro scelta, che non è democratica e non è senza le riserve di cui sopra. Breve: mi interessa Nenni, se non altro con pari misura e contrastante interesse come ( a sentire certi giornali) può Nenni


interessare il Gonella e i baldi giovanotti d.c. di Venezia; cioè sul significato che si potrà dare all'atteggiamento locale dei nenniani nell'attesa post-elettorale, di costituire maggioranze consiliari e di formare giunte municipali e provinciali. Fanfani e gli altri escludono a priori il caso; Gonella sembra non escluderlo, nonostante che il PSI sia rimasto legato a l partito comunista, non abbia rinunciato a qualsiasi riserva antidemocratica, e non abbia mostrato (non con l'estremo rigore richiesto ma neppure di lontano) la propria attitudine alla democrazia. A me sembra impossibile che l'indomani del 27 corrente maggio, a tre anni di distanza dal 7 giugno 1953, si possa rimettere in discussione con Nenni il ~ r o b l e m adell'apertura a sinistra, per due ostacoli insuperabili da chiunque abbia un po' di buon senso elettorale e un certo istinto politico, che gli impediscono di perdere la bussola. A pochi giorni dal voto, nessuna concessione è possibile per gli avversari; nessuna tregua ideologica o tattica, nè generale o locale. Coloro che cedono, (vedi alleanze di comunisti e socialisti con le destre, inserimenti di frazioni elettorali nelle liste di sinistra, lotte fra doppie liste dello stesso partito, mascheramenti di contrassegni) hanno già compromesso la loro posizione anche se riescono a spuntarla elettoralmente. Ad elezioni avvenute, è saggia politica prendere atto del voto elettorale e tirarne l e conseguenze. La polemica dell'apertura a sinistra del giugno-luglio 1953 avvelenò la politica italiana, al punto da mantenerla tuttora in una fase di strana incertezza. A dissipare la quale non valgono tutte le dichiarazioni che da tre anni partono dai democratici della cittadella; nè I'esegesi più o meno chiara ai motti e agli slogans, inventati successivamente: la cosiddetta apertura sociale della DC., come se in passato la DC. avesse chiuso le finestre alla socia1it.à; l'allargamento d i base, come se la DC. avesse rifiutato di accogliere i « profughi » degli altri partiti e i sindacalisti delle varie federazioni e confederazioni social-comuniste; e così di seguito : coesistenza competitiva e convergenza nella diversità. Si dirà: cosa faranno i democratici se il PSI guadagna, specie a danno del PCI, e se la D.C. e gli altri subiscono una fles-


sione? Dato il nuovo sistema elettorale, e data anche una abbastanza larga astensione - sia perchè si tratta di elezioni amministrative, sia per un certo disinteresse psicologico nell'elettorato cittadino - non possono prevedersi i presunti guadagni del PSI nè le perdite dei democratici; forse in complesso una probabile dispersione di voti. Non cadrà i l mondo, di sicuro; nè l'Italia metterà i l lutto, nè i democratici perderanno le staffe, come nel giugno 1953. Ed è sperabile che se Nenni facà il ringalluzzito per eventi, e fra due o tre settimane lo potremo giudicare, non verrà nessuno a dirci che egli e il suo partito abbiano superato gli esami in attitudine democratica e rinunziato alle riserve antidemocratiche; perchè Nenni e collaboratori sono legati all'antidemocrazia moscovita non solo politicamente (ed è quel che conta) ma psicologicamente e moralmente; per cui si trovano nella impossibilità di una rottura che faccia rinnegare i l loro passato, che l i orienti verso una politica internazionale diversa da quella di Mosca, verso una posizione indipendente e in linea con quella del socialismo europeo; verso una coesistenza eticosociale, con quella D.C. che per molto tempo ancora avrà la principale responsabilità della politica italiana. E d ora basta fino al 27 maggio: la lotta si combatte a chiare note e su punti fermi. Per quanto si tratti di elezioni amministrative, di buon governo municipale e provinciale, d i riaffermazione politica della democrazia, si tratta anche dell'avvenire dellYItaliae degli orientamenti di politica nazionale e internazionale. Pertanto, quali possano essere le risultanze elettorali del 27 maggio, per i veri italiani niente aperture post-elettorali. 10 maggio 1956.

( I l Giornale d'Italia, 15 maggio).

LETTERA A SILVIO MILAZZO Caro Silvio, P e r chi ebbe l'onore di essere in Caltagirone per quindici anni t( prosindaco (nel senso pieno della parola, anche se i l


caso strano, per me personale, ebbe inizio più di mezzo secolo addietro) è facile il ritorno dei ricordi durante una campagna elettorale, forse combattuta dalle due parti con non dissimile impegno di allora. Quindici anni di ininterrotta attività, con le difficoltà del tempo, quando mancavano seri aiuti dallo stato, nè esistevano la regione e la cassa per il mezzogiorno, e le finanze comunali erano, come sempre, in serio e costante deficit; amministrare il comune di Caltagirone non era impresa facile. Pure molto si fece; molto anche si propose di fare che il periodo bellico e post-bellico (1914-20) troncò di botto. Si sognò anche; e col sogno si posero le premesse dell'avvenire. Chi era prosindaco sognò il campanile della cattedrale e il campanile è oggi realtà; sognò il rimboschimento e la sistemazione delle calanche di S. Giorgio e delle zone vallive attorno alla città; sognò la sistemazione di Santopietro che oggi sono in corso di realizzazione. Sognò il piano regolatore, la esecuzione del progetto Basile dell'entrata del giardino pubblico, e quella del poggio Fanales, ed oggi se ne vedono i lavori in corso, come si vedono il nuovo acquedotto, il santuario del Soccorso a nuovo, il museo della ceramica, il rifacimento della Scala ex matrice, e si annunzia come approvata dalla cassa per il mezzogiorno quella sistemazione della montagna di Ganzaria, mia lontanissima proposta, che non solo a San Michele ma a Caltagirone produrrà non pochi vantaggi, nonchè la ferrovia Gela-Caltagirone che mezzo secolo fa ebbe la sua prima affermazione concreta e ottenne la legge che rimase per lunghi anni ineseguita. Tanto fervore di opere pubbliche, di case popolari, di lavoro di risanamento non è un fatto isolato; le antiche opere assistenziali sono state migliorate; altre nuove sono sorte per iniziativa privata e con larghi concorsi statali e regionali: basta citare il preventorio di Santopietro, la città dei ragazzi, e vari orfanatrofi e asili infantili. Dall'istituto Gerbino ad oggi la fioritura è stata direi quasi spontanea e notevole. Fra le iniziative culturali, oltre l'istituto tecnico commerciale e quello agrario (che esigono cure e attenzioni), metto quella scuola di ceramica, che a poco a poco ha esteso la sua rinomanza fuori dell'isola e anche all'estero, ridando alla tra-

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l 8 - Sr-cezo

- Politica

d i qura:i anni.


dizionale arte calatina il posto che la storia le aveva assegnato. Questi e molti altri ricordi affollano il mio cuore di caltagironese, lontano ma presente in ogni evenienza, perchè in tutti i campi, dal religioso al culturale, dal civico all'economico, dall'urbanistico all'agricolo o forestale, Caltagirone si affermi e si sviluppi, migliorando le possibilità di vita di ogni ceto e categoria dei suoi cittadini. Un'affermazione mi è lecita fare: dal giorno che apparve a Caltagirone per la prima volta la democrazia cristiana (Croce d i Costantino 1897, prima campagna elettorale 1899)' qualsiasi seria e duratura iniziativa, qualsiasi opera, ogni realizzazione concreta porta l'impronta religiosa cattolica e quella politica dei democratici cristiani, sia dell'epoca leoniana (basta citare la cassa S. Giacomo), sia del periodo popolare ( i quindici anni), sia dell'attuale D.C. dal 1944. Gli spazi vuoti non ci dànno elementi degni di rilievo. L'affermazione non è fatta per spirito di vanagloria ma per giusta rivendicazione, nonostante deficienze e manchevolezze che sono i l contrappeso di nostra umanità, di quel vigore che a quanti lavorano e combattono dà un alto ideale quale il democratico unito al cristianesimo, ideale vissuto come un dovere civico e come un impegno di coscienza. Auguro a te, caro Silvio, e ai tuoi futuri collaboratori, che possiate continuare nell'attuale ritmo delle realizzazioni pratiche in tutti i campi dell'attività civica comunale, per il benessere morale ed economico dei caltagironesi e il migliore avvenire della nostra storica e amata città.

LUIGI STURZO 18 maggio 1956. ( N o n appare pubblicata).

ASSUMERE LE PROPRIE RESPONSABILITA' I n una delle ultime elezioni politiche dell'Inghilterra, nel capocronaca d i un giornale si leggeva che il maggior successo


si doveva attribuire al partito comunista, il quale aveva ottenuto, in percentuale, l'aumento del cento per cento; infatti nella legislatura precedente era rappresentato da un deputato; nella nuova da due deputati. Simile conto si potrà fare ad ogni elezione; così possiamo leggere conteggi fatti da disparati punti di vista, con la più apparente serietà, e senza cadere nel ridicolo, notizie e apprezzamenti lontani, lontanissimi, dalla realtà elettorale, Parliamo di cose serie: c'è stato un impegno pubblico, ripetuto fino all'ultima ora, annunziato in tutti i modi da parte della D.C. e, con essa, dai partiti governativi, che le elezioni si facevano sulla base dell'attaule coalizione politica, senza aperture a sinistra o a destra. Questa linea politica non si può cambiare, avendovi l'elettorato corrisposto in pieno col dare ai partiti governativi ben 12 milioni 623 mila voti, che rappresentano la maggioranza del 53 per cento. È vero: i comuni e le provincie sono singole comunità e i rapporti vanno fra cittadini e rispettivi partiti. Ma dal momento che sulle elezioni generali amministrative si è impostato un problema politico, è questo che prevale. Potrà essere discutibile, come è stato discutibile i l cambiamento di legge elettorale e tutta la impostazione di un proporzionalismo accentuato; ma factum infectum fieri nequit, dicevano gli antichi: non si può disfare il già fatto; si può solo fare un altro fatto diverso o anche opposto; ma quel che è fatto, è fatto. I n Inghilterra, dove il rispetto della volontà elettorale è stato tradizionalmente cosa sacra, se u n problema ha avuto nella contesa elettorale un dato orientamento, ovvero se un problema non è stato elettoralmente discusso, il parlamento non può provvedervi in senso diverso o provvedervi di suo arbitrio ; deve ricorrere a nuove elezioni. In Italia, invece, sembra un ostacolo insormontabile il solo fatto che si debba ricorrere ai commissari, e quindi a nuove ele zioni nel caso che non sarà possibile nominare giunte municipali o provinciali in un certo numero di comuni, specie fra i più importanti per popolazione e per posizione politica. E si vorrebbero le più impensate coalizioni (chi a sinistra e chi a


destra) per salvare il comune o la provincia dal commissario. Si tratterebbe al peggio di tre mesi di vacanza (anticamente i sei mesi erano eccezione), dopo i quali gli elettori locali sarebbero chiamati a pronunziarsi d i nuovo per formare la maggioranza necessaria al buon governo del comune e della provincia. Si oppone anzitutto il fatto che si tratterebbe di mezza Ital i a ; il che è una esagerazione senza base. Pigliar tempo e f a r cadere i bollori elettorali è buona igiene. Provare l e prime e le seconde votazioni e quelle di ballottaggio per le giunte è la regola del gioco. Vedremo come si orienteranno localmente i gruppi consiliari, e poi ne tireremo le somme. Quando si sa che senza giunte si va allo scioglimento, i neoeletti ci penseranno due volte a ostacolare qualsiasi nomina di amministratori. Non cadrà i l mondo a Firenze o a Roma o a Venezia se ciò accadesse: anzi, darebbe modo di riflettere ad un migliore assetto di tali comuni. Altra opposizione viene da coloro che non solo hanno contribuito a politicizzare tutta la vita italiana, ma continuano a guardarne i problemi dallo stretto punto di vista dei singoli partiti e relativa posizione governativa (centro) o antigovernativa (sinistre e destre). Essi dicono: noi abbiamo voluto l a proporzionale nelle amministrative, perchè ciascun partito vi pesi per quel che vale. I n un ben noto quotidiano del nord-Italia si pone il problema degli enti locali nei seguenti termini: « Se sia preferibile l a fedeltà della rappresentanza o la funzionalità dell'amministrazione D ; e si precisa che « la nuova legge impone certi problemi di scelta politica che non possono venire elusi». La scelta politica per l'articolista è, s'intende, a sinistra; perchè la scelta non è che per i grandi centri del nord che sono quelli che politicamente contano e non gli altri, grandi o no, politicamente « non qualificati ». Egli non dice così, ma chi legge ha il diritto di farne l'applicazione. In sostanza, per coloro che sono dello stesso parere, il mezzo (legge elettorale) è superiore al fine (scelta di amministratori). Tanto è vero che l'articolo citato conchiude col volere


applicato il sistema proporzionale in sede politica, non solo al parlamento, ma perfino al governo, proprio tale e quale come si vuole che oggi venga fatto per le giunte municipali e provinciali. Di simili aberrazioni è farcito il pensiero politico degli pseudo-democratici nostrani, dimenticando che il sistema parlamentare è sistema di maggioranze per quanto possibile stabili. I1 difetto delle democrazie latine è quello del frazionamento dell'elettorato in partiti quanto più minuscoli possibile, in modo che basta un piccolo gruppo a poter ricattare e tenere in iscacco le maggioranze deboli o non coerenti, e l e coalizioni di partiti fatte come i matrimoni male assortiti. Lo scopo della nuova legge elettorale che, come strumento di manifestazione della volontà popolare generale e della volontà locale deve essere intesa nella duplice finalit,à politica e amministrativa, fu quello di consentire ai piccoli partiti, sia coalizzati nel governo ( i proponenti), sia raggruppati nella opposizione, di spiegare la maggiore efficienza anche a danno dei partiti di massa; in sostanza un mezzo di rendere più efficienti i gruppi politici minori. Ma questi hanno i l dovere di non ostacolare la formazione delle amministrazioni da parte dei gruppi che in ogni singolo comune hanno ottenuto il maggior numero di voti, anche nel caso che non raggiungessero la maggioranza assoluta. O che si formino coalizioni locali in base ad affinità politiche già elettoralmente dichiarate, o che si formino amministrazioni monocolori minontarie nell'attesa di ulteriori sviluppi, sarebbe dovere dei gruppi locali minori di non affrettare la nomina del commissario governativo. Ma se ciò non sarà possibile, per quello spirito di parte che fa spesso ignorare i doveri civici, che venga il commissario; non cadrà il mondo; f r a tre mesi ( a l più) dovrebbero essere indette nuove elezioni locali, su basi vecchie o nuove, in modo da persuadere il corpo elettorale alla scelta di amministratori fatta nell'interesse di tutti. Sarebbe questa una maniera assai efficace di educare il popolo, molto superiore a quel che si fa con le solite combinazioni


fra i partiti e i gruppi, con il dare ed avere di posti e il traffico di prebende. 31 maggio 1956. ( I l Giornale d'Italia, 2 giugno).

NENNI NON PUO

... I L PAESE

NON VUOLE

...

Non è facile comprendere il continuo minuzioso interessamento della grande stampa attorno al gioco nenniano, anche se giustificato in qualche modo dal contegno delle frazioni irrequiete dei socialdemocratici e dei democristiani di sinistra. Può darsi che per molti giornali ciò sia dovuto al gonfiamento di fatti di cronaca che colpiscono la curiosità del lettore, gonfiamento protratto fino all'estremo di sopportabilità. I n qualche altro giornale ci sarà i l sottinteso politico, che giova a mantenere in evidenza l e possibilità della cosidetta apertura a sinistra. Nei due casi, il lettore ne fa le spese con un certo fastidio, quale procura sempre la cosa già finita e logora, ripresentata come nuova e fresca: in italiano tradizionale si traduce come minestra riscaldata. I n sostanza di che si tratta? Giunte o non giunte, commissar i o non commissari, Nenni non può staccarsi dai comunisti, ma vuole far la finta di essere o di poter divenire padrone della sua volontà politica. I partiti del centro non debbono correre l'avventura di una intesa con Nenni, neppure caso per caso, anche se ristretta ad un solo caso di certa importanza, perchè il paese non intende scivolare a sinistra. Se Nenni non può, perchè gioca? proprio per intaccare la democrazia costituzionale. Se i partiti del centro non debbono, perchè si fa tanto parlare di intese eventuali e di incontri patetici? proprio perchè non si ha il coraggio di vincere l'equivoco per colpa di una specie di sinistrismo operaio, del quale l e ali estreme della D.C. e della social-democrazia sono infette. Se i l tentativo non riesce, gli uni e gli altri avranno buon gioco, di fronte alle loro masse, nell'accusare Nenni come il solo re-


sponsabile della mancata « unificazione operaia », e della impossibilità di creare in Italia « una repubblica democratica fondata sul lavoro n secondo l'interpretazione marxista. Nenni di sicuro non può; che cosa avverrebbe del PSI, senza l'appoggio comunista? La CGIL resterebbe in mano comunista, non c'è dubbio; e nessuno pensa che l'ala socialista si staccherebbe dalla CGIL per creare una quinta confederazione o per andare a fondersi con I'UIL, ovvero rafforzare i 40 mila socialisti della CISL. Le cooperative della lega, anche quelle ancora dirette da socialisti, resterebbero legate alle cooperative comuniste, perchè sarebbe difficile per loro costituire un'altra lega autonoma; in questi campi nessuna frattura. I1 problema più difficile per Nenni sarebbe il modo come finanziare il partito socialista il giorno che effettivamente si distaccasse dal partito comunista: Botteghe Oscure no; Mosca no ; America no ; confindustria no ; confintesa no ; industriali singoli, qualcuno si, molti no. Ci saranno fonti segrete per tutti i partiti di destra, centro e sinistra; ma nessuno penserà che si tratti dell'EN1, dell'IRI, dell'ARAR, dei consorzi agrari. Tocco un problema che non riguarda solamente il futuro di Nenni; ne ho parlato altre volte, e forse tornerò a parlarne, perchè resti nella storia o nella cronaca italiana, la voce di una protesta contro l'attuale « simonia politica n. Ma Nenni ci pensa due volte a fare il salto nel buio. Nenni sta fermo all'attuale gancio non tanto perchè oggi abbia sull'avvenire del comunismo in Europa, e specialmente in Italia, la stessa fede che aveva nel 1946; ma perchè non può nè potrà sganciarsi da una situazione per lui senza uscita. Il suicidio non si consiglia, nè si chiede. Tutta l'arte di Nenni consiste nel far credere che egli sia O possa essere padrone dei suoi atti; che possa sganciarsi prima o dopo l'agganciamento con i socialdemocratici e possibilmente con la sinistra d.c.; che, intanto, possa fare i servizi più vari: dare i voti O astenersi in parlamento e nei consigli regionali, provinciali e comunali; partecipare alle rispettive giunte e anche, al momento buono, al governo centrale, a condizione che (almeno per ora) Malagodi e i suoi siano messi al bando. In questo palese equivoco, quale l'interesse degli altri par-


titi a fingere di proseguire in un'operazione Nenni, che manca d i base e che creerebbe una confusione politica ad esclusivo vantaggio delle sinistre? A me sembra nessuno. Lascio da parte i piccoli partitini di disturbo che stanno a sinistra disposti a fiancheggiare Nenni e Togliatti. La D.C. certamente non ha alcun interesse a d alimentare, nella sua ala sinistra, un'aspettativa che non p0tr.à essere soddisfatta senza provocare una divisione profonda nel campo cattolico ( è bene dire le cose come stanno); divisione che, allo stato della politica italiana, farebbe rifare immediatamente il blocco social-comunista con i laici di sinistra oltre i partitini personali e di disturbo, isolerebbe i liberali e metterebbe in sacco gli stessi social-democratici. Nè le destre potrebbero sperare vantaggio da una concentrazione a sinistra, che presenterebbe un fronte sia pure di maggioranza relativa, per l a mancata unità dei cattolici sul fronte elettorale e parlamentare, con un socialcomunismo passato al rango di partito-leader e di governo di concentrazione di sinistra laica. Mi è stato risposto che tale ipotesi potrà verificarsi in Italia fra u n paio di elezioni, sia perchè il potere logora, sia perchè le destre non hanno avvenire per il progressivo sviluppo delle forze del lavoro che preferiscono stare a sinistra, sia per i l fatale cedimento della social-democrazia attratta dal vecchio socialismo italiano. Niente di tutto ciò se i partiti di centro, mettendo una buona volta via le velleità di intese con la sinistra nenniana, penseranno sul serio ad attuare una politica forte, fattiva e decisa di fronte alle remore socialcomuniste, a ridare il suo vero significato alla teoria dello « stato di diritto >) e alla « legalità e correttezza amministrativa 1); se proporrano riforme attuabili e piani realizzabili a breve, anzi brevissima scadenza, superando con decisione gli ostacoli frapposti dalle minoranze parlamentari e dagli impacci burocratici dei ministeri e degli enti politici. Soprattutto, governo e partiti coalizzati, si debbono rendere conto che discutere e ridiscutere le ragioni e i dati della loro coesistenza, mostrando continuamente reciproca diffidenza, dan-


do motivi alla stampa di mettere in evidenza contrasti fra gli stessi ministeri, per questo O per quel disegno di legge o decreto ministeriale, è opera di svalutazione che al di là di certi limiti, si sconta a caro prezzo. Nel caso presente, che cosa è mai accaduto di nuovo con le elezioni amministrative, da dare motivo a una scossa al governo e allo schieramento dei partiti? Col sistema proporzionale, i conti elettorali tornano per tutti perchè ogni partito viene a prendersi la sua propria fetta. Che poche o molte giunte municipali o provinciali potrebbero non essere costituite, era previsto e scontato fin dal giorno che liberali, socialdemocratici e repubblicani fecero della proporzionale una conditi0 sine qua non della continuità di governo, e da quando la stessa D.C. diede la sua adesione; ora bisogna pagarne lo scotto. È da sciocchi fare l a voce grossa contro l e eventuali gestioni commissariali. Purtroppo, nessuno ha il coraggio di dire che tali gestioni in via normale, non debbono durare più di tre mesi; e che le nuove elezioni di alcuni consigli comunali o provinciali, pur avvenendo con la stessa legge, dovranno rendere più sensibili e più accorti i corpi elettorali. Rifiutare tale procedura, non ammettere l'appello a l corpo elettorale, proprio per una situazione senza uscita, sarebbe negare il carati tere democratico del sistema elettorale adottato. Tra u n equivoco politico, cui può portare l'apertura a sinistra a Milano o Firenze o Genova o Roma, e un nuovo appello elettorale fra tre mesi, è da preferire il secondo e attendere i l nuovo responso elettorale. Non sono contrario agli esperimenti di giunte di minoranza senza impegni nè compromissioni: l'esperimento per due volte in nove anni, fatto dalla regione siciliana, è riuscito valido. Ma si deve trattare di esperimento chiaro, fatto in buona fede, senza mene segrete e impegni sottintesi, senza mettere fuori campo nessuno dei partiti governativi. Lealtà politica primo requisito. I1 resto, va da sè: chi vuole speculare sull'equivoco ed h a vie coperte, sia questi eliminato perchè inganna I'opinione pubblica e conta sopra sistemi deplorevoli e falsi. 10 giugno 1956.

(11 Giornale d'Italia, 13 giugno).


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