Idee Uniche
5 Gennaio 2015
di Marco Marazza
Il jobs act del governo accende il conflitto generazionale La riforma del lavoro del Governo Renzi non è ancora valutabile. L’assenza di altri decreti attuativi rende infatti impossibile esprimere un giudizio sull’impatto delle nuove misure in materia di licenziamento in quanto l’efficacia della nuova flessibilità in uscita è inevitabilmente condizionata dagli interventi che verranno adottati in materia di mercato del lavoro. Se a questo primo decreto dovesse seguire l’eliminazione di tipologie contrattuali flessibili (partite iva, lavoro autonomo, collaborazioni coordinate e continuative, lavoro intermittente, contratto a termine, ecc…) l’organizzazione del lavoro risulterebbe più rigida rispetto al passato ed il costo del lavoro sarebbe comunque più elevato. Intanto, è però necessario mettere in evidenza alcune criticità affatto trascurabili. La nuova disciplina dei licenziamenti, come noto, è applicabile esclusivamente ai nuovi assunti. Una riforma così impostata non solo rischia di incrementare il conflitto intergenerazionale ma ha un impatto sulla competitività del sistema economico solo nel lungo periodo (non producendo alcun effetto per i lavoratori dipendenti già occupati) e rischia di bloccare la mobilità degli attuali occupati, che non sono incentivati a cambiare lavoro e datore di lavoro per il timore di perdere tutele di cui oggi beneficiano. Ancora una volta le riforme del lavoro contraddicono il processo di privatizzazione del pubblico impiego iniziato nel 1993, introducendo regimi differenziati per dipendenti pubblici e provati. Se è pur vero che nella pubblica amministrazione il licenziamento per motivi economici può essere considerato marginale, non vi è alcun motivo per tutelare diversamente dipendenti pubblici e privati in caso di licenziamenti disciplinari. Anzi, proprio nel pubblico impiego l’interesse generale richiede una maggiore responsabilizzazione del lavoratore. Il nuovo articolo 18 (per i nuovi assunti) è un passo avanti ma non è una rivoluzione copernicana. Una vera riforma dei licenziamenti, in coerenza con quanto accade negli ordinamenti europei piùevoluti, avrebbe richiesto un intervento semplice ed efficace: fatti salvi i licenziamenti discriminatori o comunque nulli, per i lavoratori giàoccupati e per i nuovi assunti in tutti i casi di licenziamento viziato dovrebbe trovare applicazione esclusivamente una tutela indennitaria. La scelta adottata, come noto, è molto lontana da questa impostazione. Nei licenziamenti economici viziati non è più prevista la reintegrazione ma già con la riforma Fornero del 2012 le ipotesi di reintegrazione risultavano sostanzialmente limitate a pochi casi. La novità è positiva ma di impatto relativo. L’indennizzo è compreso tra 4 e 24 mensilità e dipende dall’anzianità di servizio del lavoratore. Se da un lato viene limitato il potere discrezionale del giudice nella quantificazione dell’indennizzo dall’altro per i lavoratori con maggiore anzianità il risarcimento sarà sempre elevato, anche nel caso in cui il motivo di licenziamento –per quanto non pienamente legittimo – abbia comunque 2
una sua razionalità. E’ positiva l’estensione del nuovo regime sanzionatorio anche ai licenziamenti collettivi, ove però emergerà con ancora più evidenza l’irrazionalità di un impianto di riforma destinato esclusivamente ai nuovi assunti. Nei licenziamenti disciplinari sono più circoscritte le ipotesi in cui il giudice può disporre la reintegrazione del lavoratore ma la formulazione del decreto lascia prevedere incertezze giurisprudenziali e fa emergere il rischio di un’applicazione irrazionale del meccanismo sanzionatorio. Il giudice può infatti disporre la reintegrazione se il fatto materiale contestato al lavoratore non esiste. Ne deriva che se il datore di lavoro ha licenziato il lavoratore per un ritardo di pochi minuti realmente esistito (e provato in giudizio) la reintegrazione non potrà essere disposta ed il lavoratore illegittimamente licenziato avrà diritto ad un indennizzo proporzionato alla sua anzianità di servizio. Per offrire al mercato una regola più facile da comprendere e di applicazione più certa era necessario escludere del tutto l’ipotesi di reintegrazione in caso di licenziamento viziato e modulare l’indennizzo in una componente fissa legata all’anzianità di servizio del lavoratore ed in una componente variabile quantificata dal Giudice alla luce del caso concreto preso in considerazione. In questo modo i datori di lavoro avrebbero avuto la certezza di non dover reintegrare il lavoratore ed i lavoratori licenziati ingiustificatamente per futili motivo avrebbero avuto un indennizzo economico maggiormente consistente. La riforma della flessibilità in uscita non è sufficiente, da sola, a rilanciare la competitività del sistema produttivo. E’ grave la totale assenza di novità sui temi della produttività del lavoro (incentivazione della contrattazione di secondo livello sulla produttività; orari di lavoro effettivo; flessibilità delle mansioni; controlli sui lavoratori, ecc..), della semplificazione delle procedure di ristrutturazione aziendale (tempi più brevi e maggiori certezze applicative per le imprese) e della rappresentanza sindacale (previsione per legge delle regole di misurazione della rappresentanza sindacale, anche ai fini della estensione dell’efficacia dei contratti collettivi aziendali sottoscritti da sindacati più rappresentativi). Solo per i nuovi assunti nel 2015 con contratto a tempo indeterminato la legge di stabilità introduce uno sgravio contributivo per tre anni. Ogni sforzo per ridurre il costo del lavoro è positivo ma sono tante le cose che non convincono. La copertura è limitata alle assunzioni del 2015 (e non ha, quindi, una portata strutturale). Per come è congegnato, inoltre, l’incentivo è destinato ad alimentare start up di nuove attività che possono gravemente alterare la concorrenza tra imprese, in maniera eccessiva soprattutto nei settori labour intensive. La concentrazione del beneficio contributivo nell’arco di tre anni comporterà la nascita di nuove imprese con un breve ciclo di vita, in molti casi coincidente con la durata degli sgravi. Al termine del periodo incentivato emergerà in molti casi l’insostenibilità dell’incremento del costo del lavoro con rischio di disequilibrio economico dell’azienda e conseguente. E’ probabile che tutto ciò alimenti la spesa pubblica per ammortizzatori sociali. Per scongiurare queste gravi anomalie, già ampiamente emerse in tutte le precedenti analoghe esperienze di incentivazione, le risorse disponibili dovrebbero essere utilizzate per una generale ed indistinta riduzione del cuneo fiscale dei nuovi assunti e di coloro che sono già occupati. La misura adottata dal Governo Renzi segue evidentemente la logica elettorale di incrementare nel brevissimo periodo il numero delle nuove assunzioni senza curarsi dei rilevanti effetti collaterali che il meccanismo produrrà nell’arco del prossimo triennio. 3
11 Gennaio 2015
di Massimo Brambilla e Riccardo Puglisi
Euro debole, tassi bassi e petrolio giù: le tre occasioni da non sprecare In un inizio d’anno prodigo di pessime notizie, tre elementi danno qualche speranza alla nostra malandata economia: il riallineamento verso il basso dell’euro rispetto al dollaro, la tenuta dei tassi di interesse sui livelli minimi storici, ed il sostenuto calo del costo del petrolio. Partiamo dal primo fattore. Nel corso degli ultimi 8 mesi il tasso di cambio euro/dollaro è passato da 1,38 a 1,18. Un deprezzamento del 15% che ha riportato la valuta unica vicino al rapporto di cambio con il dollaro registrato al momento della sua nascita, nel lontano gennaio del 1999. Questo riallineamento del tasso di cambio verso valori che sono coerenti con le divergenti dinamiche dell’Eurozona rispetto all’economia statunitense è anche dovuto al “dividendo di credibilità”che in questi anni il Presidente della BCE, Mario Draghi, ha saputo accumulare sui mercati finanziari. La determinazione con cui Draghi ha affermato di volere utilizzare ogni strumento –convenzionale e non- di politica monetaria per contrastare rischi di dissoluzione e pericolose dinamiche deflazionistiche nell’Eurozona ha finalmente convinto gli investitori a vendere euro in cambio di dollari. A nessuno è sfuggito come questa impostazione di politica monetaria si sia fatta largo nonostante l’opposizione, che talora rasenta i margini dell’ottusità, da parte di una Bundesbank in preda a ossessioni anti-inflazionistiche che trovano scarsa giustificazione nel quadro macroeconomico attuale. Il secondo fattore è ugualmente positivo: nonostante il ritorno della volatilitàsui mercati a motivo delle imminenti elezioni in Grecia e del complesso quadro geopolitico a livello globale, e pur in assenza di vere riforme da parte del Governo Renzi, il rendimento del BTP decennale –benchmark di riferimento per misurare il premio per il rischio che i mercati richiedono per sottoscrivere il debito pubblico italiano- rimane fermo all’1,86%, valore in linea con i minimi storici. Èdifficile spiegare in maniera esauriente l’andamento dello spread, ma dobbiamo dire grazie alla protezione dell’ombrello del “whatever it takes”pronunciato da Draghi nel 2012 e agli interventi di emergenza messi in atto dal governo Monti, in particolare sul fronte delle pensioni. Si badi però che gli equilibri raggiunti possono velocemente incrinarsi: nella fattispecie, questa Legge di Stabilità confusionaria e debolissima sul fronte della riduzione della spesa corrente rischia di fare tornare nei prossimi mesi il nostro Paese sotto i radar della Commissione Europea. Il terzo fattore è fondamentale: dopo anni in cui il prezzo del barile di greggio è rimasto stabilmente al di sopra dei 100 dollari, da qualche mese a questa parte èiniziato un aggressivo trend al ribasso. Le tre probabili cause di questo andamento che ha portato il prezzo del barile al di sotto dei 50 dollari sono le seguenti: (i) la rivoluzione dello shale oil negli USA, (ii) il dumping messo in atto dai Paesi produttori dell’area del Golfo, Arabia Saudita in primis, esattamente per contrastare la maggiore produzione statunitense 4
abbassando drasticamente la profittabilità degli investimenti nelle nuove tecnologie estrattive, e infine (iii) il calo della domanda proveniente dalla Cina.
L’occasione da non sprecare I tre fattori macroeconomici discussi sopra sono un’ottima medicina per la nostra economia affaticata: per un Paese come il nostro, in cui la quota di export al di fuori dell’area UE 15 è cresciuta in maniera vigorosa passando dal 48,8% del totale nel 2007 al 55,9% (fonte: Rapporto Export SACE), e in presenza di uno scenario macro di stagnazione della domanda UE e di crescita della domanda extra-UE, un euro debole costituisce la migliore benzina per le nostre esportazioni. Il mantenimento di un basso costo del debito pubblico èancora piùrilevante. Bassi tassi, in considerazione del peso della spesa per interessi sul debito pubblico sul bilancio dello Stato, pari a circa 83 miliardi di Euro (equivalente al 4 percento del PIL), dovrebbero costituire -in presenza di un Governo capace tagliare le inefficienze e gli sprechi della spesa pubblica corrente- un formidabile serbatoio di risorse economiche da destinare ad investimenti produttivi sulle infrastrutture chiave per la competitività del Sistema Paese. Infine, in un Paese privo di risorse naturali e la cui economia nazionale si basa su una serie di industrie energivore (quali, per esempio, la ceramica e l’industria meccanica), il calo del costo dell’energia equivale di fatto ad un taglio della fiscalità sulle imprese. Tutto bene allora? Purtroppo no. L’inerzia in materia di riforme da parte del Governo -unita al continuo e crescente distacco tra classe politica e Paese reale- costituiscono un propellente naturale per tutti i populismi che agitano a meri fini elettorali il fantasma dell’uscita dall’Euro. In realtàl’uscita dalla moneta unica e l’assai probabile perdita di credibilità del Paese che ne risulterebbe comporterebbero l’immediata vanificazione degli effetti benefici sopra descritti. Intendiamoci: un ritorno alla Lira porterebbe senz’altro a un ulteriore deprezzamento della nostra valuta, ma l’economia è la scienza “delle coperte corte”: questo vantaggio di breve termine deve essere confrontato con il costo di probabili dazi doganali che penalizzerebbero il nostro export nella UE e con una piùonerosa bolletta energetica per le nostre imprese costrette ad approvvigionarsi di energia dall’estero. Non solo: i fautori dell’uscita dell’Italia dall’euro devono confrontarsi con il rischio altissimo di una corsa agli sportelli e –nella fase successiva all’eventuale uscita- con il difficile ammortamento del debito esistente, il quale rimarrebbe denominato in costosi euro per la parte relativa ai creditori esteri. La stabilità finanziaria del Paese sarebbe a rischio, e –quand’anche le istituzioni bancarie restassero in piedi- resta il problema del costo dei debiti futuri, sia pubblici che privati, in assenza dell’ombrello di credibilitàportato dalla BCE. Il problema è sintetizzabile così: un investitore che voglia prestare ancora soldi a soggetti italiani vorrà ottenere un tasso di interesse che lo compensa del rischio di svalutazione futura delle nuove lire. Qui entra in gioco la gestione dell’agognata e riagguantata sovranità monetaria: se essa venisse utilizzata per creare creare inflazione e abbattere il valore del debito pubblico esistente, il rischio estremamente fondato èche anche la politica monetaria 5
successiva da parte della nuovamente autonoma Banca d’Italia sia di tipo inflazionistico, cosicchéi futuri tassi di interesse saranno molto elevati per il fatto di incorporare questo tasso di inflazione piùelevato (che si porta dietro un’aspettativa elevata di svalutazione ulteriore della nuova lira). Il finale è ahinoi noto: i debitori italiani dovranno pagare tassi di interesse elevati a creditori sia stranieri che italiani. In sintesi, fermo restando che tanto ancora rimane da fare in Europa per abbattere il dogma dell’austerity, il quale va sostituito con una leva fiscale fortemente espansiva focalizzata su investimenti produttivi, e che una politica monetaria espansiva senza riforme strutturali serve a poco, chi oggi vende l’illusione di un ritorno alla lira come panacea di ogni male sta giocando con il fuoco. Per molti aspetti capiamo il forte pessimismo dei fautori di Eurexit rispetto ai pannicelli caldi proposti dal governo Renzi. Tuttavia crediamo che con l’uscita dall’euro il rischio per gli italiani di bruciarsi sia altissimo, in nome di benefici in larga parte illusori.
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14 Gennaio 2015
di Emanuela Farris
Tante slides, zero risultati. Da Strasburgo carniere vuoto per palazzo Chigi Con l’intervento del Premier Renzi davanti ad un’aula plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo molto vuota e più preoccupata per l’attentato di Parigi che per la cerimonia di chiusura del Semestre di presidenza si è chiuso oggi definitivamente la Presidenza italiana dell’Unione Europea: un evento importante per il paese ospitante, sia per la visibilità che ne ottiene, sia per la possibilità di indirizzare, con alcuni limiti, l’agenda dell’Unione. Fatto, quest’ultimo, particolarmente importante nel contesto di crisi in cui viviamo. Alla fine di questa esperienza dunque ci si domanda come valutare il bilancio dell’operato di Matteo Renzi in seno all’Europa, che significato dare alla nostra Presidenza dell’UE? Ebbene, il semestre di presidenza italiano del Consiglio dell’Unione europea è destinato a non lasciare tracce di particolare rilevanza ne’ nel Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio, ne’ nella memoria dei cittadini italiani ed europei. Tutto ormai è pronto per voltare pagina. Il prossimo paese presidente di turno, la Lettonia, ha inaugurato il suo semestre a Riga con una pièce del compositore Eriks Esenvalds intitolata “After the 7
Storm” (Dopo la tempesta). Ogni riferimento al predecessore italiano è ovviamente una libera associazione, ma in verità la bufera deve ancora venire. E questo soprattutto a causa delle promesse fatte ma non mantenute dal nostro Premier in Europa. Molti gli elementi di cui si deve tenere conto mentre si rileggono i mesi a ritroso, provando a stilare un bilancio delle cose non fatte e dei problemi rimasti irrisolti. “L’Europa cambia verso”. Con questo leitmotiv Renzi si era presentato agli italiani durante la campagna per le europee per misurare sul campo la propria potenza di fuoco elettorale. Le dichiarazioni del Premier erano state chiare, schiette e dirette sin dall’inizio: durante la Presidenza italiana dell’UE si sarebbe occupato di smussare il dogma del 3% del deficit, del Fiscal Compact e di flessibilità economica in genere; avrebbe lavorato a fondo per riuscire finalmente a costruire “un’Europa più democratica e sentita, vicina ai cittadini” e soprattutto si sarebbe dedicato ad una rinnovata e attenta politica sull’immigrazione solidale concentrandosi in maniera particolare sulla complessa e delicata zona del Mediterraneo che nell’ultimo anno ha visto innumerevoli vite spegnersi in mare. “Crescita” sarebbe dovuta essere la parola d’ordine; cambiamento, sviluppo e progresso le linee direttive su cui correre e costruire la nuova Europa. Forte della storica vittoria alle europee, la carica di speranza e di cambiamento che Renzi portava a Bruxelles, tutto questo dava l’avvio del semestre di presidenza italiana, che sarebbe iniziato di lì a poco più di un mese, e che si preannunciava dunque carico di promesse. Troppe promesse, con il senno di poi… A esperienza ormai conclusa la domanda infatti sorge spontanea: l’Europa ha davvero cambiato verso? Il grande problema del nostro Premier è stato – ancora una volta – quello di aver sognato troppo in grande compiendo voli pindarici che hanno influenzato in maniera errata le idee dei cittadini, soprattutto di quegli italiani che vedevano questa importante occasione come un toccasana per l’economia del Bel Paese. Se si dà uno sguardo a ritroso al programma per i sei mesi di Presidenza italiana si nota facilmente che ogni punto – dalle riforme fiscali alla necessità di ricostruire un pathos tipicamente europeista, dal turismo all’Expo2015, passando per l’occupazione giovanile – era trattato come una priorità ed una necessaria manovra a cui prestar particolare attenzione. Non serve una mente particolarmente aguzza per capire che laddove tutto è una priorità, nulla diventa una priorità! Aspettative troppo alte e poca concentrazione sugli obiettivi realmente raggiungibili e costantemente messi da parte per far spazio alle discussioni su moneta unica e recessione, hanno caratterizzato questo semestre: la ricostruzione di un sentimento realmente europeo e solidale, la rinascita di un vero sogno europeo ed una reale e corretta politica sull’immigrazione che poneva come primo interesse la tutela e la salvaguardia dei diritti dell’uomo, dovevano essere al centro di un’agenda italiana che si è invece dimostrata – 8
nel suo semestre di presidenza – troppo ambiziosa ed estremamente approssimativa. Matteo Renzi ha inoltre commesso altri due errori: aver più volte attaccato gli euroburocrati e l’aver snobbato la Commissione. Attacchi ingiustificati verso i primi perché si sono trovati ad appoggiare i voleri dell’Ue soltanto perché non hanno trovato l’appoggio del proprio governo nazionale (non si contano in Commissione i funzionari italiani bravi ma isolati che spesso hanno fatto carriera senza mai ricevere un appoggio da parte del proprio paese come invece accade sistematicamente per i loro colleghi di altri paesi UE). La poca attenzione verso la Commissione rischia invece di presentare un conto salato all’Italia: “Capotavola è dove mi siedo io”, teorizzava quando era in auge Massimo D’Alema. Coerente con questo imperativo, Renzi si è concentrato sulle dispute interne al Consiglio da lui presieduto: le schermaglie con la Merkel, il gioco delle alleanze con Hollande. Mentre ha riservato soltanto battutacce contro la vecchia Commissione Barroso e la nuova presieduta dall’eterno lussemburghese Juncker. Una predilezione che l’Italia rischia oggi di pagare cara (anche in vista del varco che ci aspetta a fine marzo sui conti pubblici italiani). Nel Consiglio infatti dominano i tedeschi, mentre la tela diplomatica degli interessi italiani si è sempre tessuta tra Commissione e Parlamento, due fronti ora lasciati sguarniti e senza figure di peso che sappiano rappresentare le nostre istanze (sulla sostanziale inutilità per l’Italia della nomina di Federica Mogherini a capo della diplomazia europea si è già scritto molto in questa sede e quindi non mi ripeterò). Erano in molti a non aspettarsi questa fine del semestre di presidenza Ue. L’inizio coincise infatti con la cavalcata trionfale del 40,8% alle elezioni europee del 25 maggio. Con il discorso di apertura il 2 luglio 2014 di fronte al Parlamento europeo in cui il Premier si paragonava a un eroe dell’Odissea: “La generazione nuova che abita oggi l’Europa ha il dovere di riscoprirsi Telemaco, di meritare l’eredità dei padri dell’Europa…”, recitava il Premier a Strasburgo. Oggi Renzi-Telemaco termina il viaggio con un magro bilancio e con una situazione sia interna che europea di imprevista difficoltà, confusione politica e instabilità economica. Tutto il semestre renziano, in realtà, è stato giocato sulle esigenze domestiche. L’Europa come vincolo per far passare le riforme in Italia: l’eliminazione del Senato elettivo, il Jobs Act sul mercato del lavoro, l’abolizione dell’articolo 18. In questo il governo Renzi ancora una volta non ha cambiato nulla rispetto ai suoi predecessori; “l’Europa ce lo chiede”, è stato il refrain di tutti i governanti italiani da Maastricht in poi. Il “Renzi style” si è visto poi soprattutto nell’approccio polemico verso le istituzioni europee. Da Bruxelles ci giungono oggi voci critiche che osservano che la nostra presidenza sembrava “la presidenza del Dott. Jekyl e di Mr. Hyde”. Ossia, da una parte la presidenza italiana intesa come macchina diplomatica, grigia e tradizionale, e dall’altra il presidente Renzi, aggressivo e spesso esuberante – come lo era stato Berlusconi prima di lui – contro la burocrazia europea. Chi conosce il felpato protocollo brussellese ha saputo cogliere in piu’ di un’occasione la nostra Rappresentanza Permanente a Bruxelles correre ai ripari per rimediare agli errori e alle esuberanze renziane.
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Infine, i dossier su cui si era impegnata la presidenza italiana. Un flop l’agenda digitale, su cui Renzi si era mobilitato personalmente con il vertice di Venezia: ancora indietro il progetto “Continente connesso”, l’Italia resta agli ultimi posti in classifica per uso di Internet, più di un terzo degli italiani non l’ha mai usato. E a parte un buon risultato sulle politiche ambientali e agricole, con la posizione unitaria dell’Europa sugli Ogm alla conferenza Onu di Lima costruita dall’Italia, sulla questione politicamente più calda, l’immigrazione, l’Italia ha portato a casa un magrissimo risultato. Entrato in vigore lo scorso 1 novembre, il programma comunitario Triton era stato pensato dall’Europa come “sostegno” all’impegno italiano, rappresentato dall’operazione Mare Nostrum, non come sostituzione totale. Se la richiesta di aiuto all’Europa evocata da Renzi e da Alfano era stata sbandierata come gran successo del governo, la potenza di Triton appare tuttavia assai dubbia. Considerato il numero degli arrivi, 270.000 persone soltanto nel 2014 (il 60% in piu’ rispetto al 2013), con appena 3€ milioni al mese – contro i 9€ milioni di Mare Nostrum – Triton rischia di rivelarsi non solo inutile ma anche la solita soluzione “a metà” che porterà più danni che benefici nel lungo termine. Sul dossier importantissimo per le nostre aziende del “Made In” è stato registrato un altro flop clamoroso per il nostro paese. E’ stato bloccato, come in passato, dal “nein” categorico della Germania. L’obbligo di indicare la provenienza dei prodotti non alimentari avrebbe dato una mano all’export italiano, ma il governo non è stato capace di trovare un accordo con altri Stati in modo da fare blocco contro la Germania. Infine, niente di memorabile sul piano culturale. Un anno fa, di questi tempi, un gruppo di lavoro messo in piedi a Palazzo Chigi era all’opera per organizzare un mega-convegno internazionale sull’identità europea, con i grandi nomi dell’intellettualità. All’epoca il premier era Enrico Letta, Renzi fece cadere l’idea. Più che il passato contava il futuro. Quello del Premier che poi tanto si sbraccia a dire che “si, in Italia con la cultura si mangia”. In conclusione, sei mesi che rispecchiano la figura dell’euro-populista Renzi, pochissimo interessato a un’azione pedagogica sull’opinione pubblica interna sulle radici dell’Europa. Il semestre italiano è passato, il premier lo archivia senza tanti rimpianti, gli effetti speciali sono mancati. E ora, nel giro di poche settimane, ci saranno le elezioni in Grecia, il voto sul Quirinale, e poi il possibile tentativo italiano di forzare i trattati dell’Unione in vista dell’esame – non scontato – dei nostri conti a fine marzo da parte dell’Unione europea. Il vero semestre di Renzi comincia ora. Quello dell’Europa è appena terminato con un brutto nulla di fatto e un’altra occasione persa per il nostro Paese.
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19 Gennaio 2015
di Francesco Micheli
Jobs Act o no jobs? Le contraddizioni di una riforma zoppa Leggendo i testi dei decreti viene da chiedersi come è possibile da parte del governo sostenere che si tratti di vera rivoluzione copernicana in materia di lavoro quando in realtà’ più’ che parlare di flessibilità in entrata si sta enfatizzando, anche esagerando, la flessibilità in uscita attraverso pur modeste modifiche dell’art 18. La promessa, più volte reiterata, era di dotare il Paese di una riforma/riordino del mercato del lavoro finalizzata allo sviluppo dell’occupazione in una prospettiva di crescita. Niente di tutto ciò , al momento. Il cosiddetto contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, applicabile solo ai futuri assunti, altro non è che il contratto a tempo indeterminato che conosciamo tutti al quale, appunto per i neo assunti, si applicheranno minori tutele “reali”: quindi nessuna novità che lasci intravedere sviluppi dell’occupazione coerenti con i bisogni dell’Italia e dei tanti cittadini, giovani e non. Anzi, ci troveremo difronte ad un mondo del lavoro spaccato in due tronconi, dove uno, quello dei giovani, risulterà ancora soccombente: diversi saranno i trattamenti in entrata così come diversi saranno i trattamenti loro riservati in uscita. Potrebbe adombrarsi l’ipotesi di discriminazione 11
vera e propria. E poi, quante aziende, sulla scorta dei benefici contributivi in capo alle nuove assunzioni – per il momento solo per il 2015 – nasceranno o abbandoneranno il mercato allo scadere dei benefici stessi? E quanto e come la concorrenza tra le imprese ne risentirà? Conseguenze sul piano sociale tutte da verificare. Ad ottobre erano state prospettate dal governo misure in materia di contratti, politiche attive del lavoro, assegno universale di disoccupazione, flessibilità , cambio di mansioni e riduzione dei contratti. A gennaio c’è ancora poco e il poco, che dobbiamo augurarci che divenga molto nel più breve tempo possibile, è confuso e molto probabilmente ininfluente per una crescita sostenibile dell’occupazione. Non si parla più di salario minimo e non sappiamo quale sarà la sorte dei contratti flessibili ancora in vigore ( partite IVA, co.co.pro, lavoro autonomo, intermittente e contratto a termine ). Quel che è certo che si sta danneggiando senza ragione il contratto di apprendistato, a differenza proprio di quel che si è verificato in Germania dove questo tipo di contratto rappresenta il punto di contatto forte tra scuola e mondo del lavoro. Si è parlato molto di modello tedesco come riferimento per un seria riforma del lavoro in Europa, soprattutto in Francia e in Italia: partendo dall’assunto che il merito del successo della Germania nella crescita di questi ultimi anni fosse da ascrivere proprio ai contenuti di detta riforma che, ricordo, prevedeva sussidi di disoccupazione universali, sussidi maggiorati per gli over 50, categoria da noi più a rischio e di cui non si parla volentieri, retribuzione per lavori socialmente utili, midjob ( lavori atipici a 400 euro al mese ), minijob ( lavori precari senza garanzie ), reddito di cittadinanza e finanziamenti alle micro imprese. Il successo di cui si parla però è stato soprattutto figlio di un modello di relazioni industriali che ha consentito alle parti sociali di gestire tutti i processi di riorganizzazione e di moderazione salariale con il consenso dei lavoratori attraverso una contrattazione decentrata che ha visto chiudersi migliaia di accordi in deroga. La chiave di volta nella crescita industriale e nell’abbattimento della disoccupazione è stata perciò il decentramento della contrattazione senza precedenti e la grande mole degli accordi aziendali che hanno comportato la riduzione del costo del lavoro ed una maggiore produttività. Una possibile lezione, questa, per tutte le parti sociali del nostro paese, a partire dal governo: riformare il lavoro in Italia significa porre anzitutto la questione del sistema di relazioni industriali per apportarvi i miglioramenti necessari e coerenti con le condizioni di scenario e l’andamento dell’economia: rafforzare la contrattazione di secondo livello, puntare sul salario di produttività sul quale concentrare tutti i possibili benefici di legge sia sul versante fiscale che contributivo, sono temi che non possono non entrare nell’elenco delle priorità del paese. Relazioni industriali e contrattazione salariale, per lo sviluppo dell’occupazione al di la di qualsivoglia equivoca riforma, sono temi difficili ma non impossibili da affrontare se c’è l’interesse delle parti sociali ad affrontarli nella consapevolezza della straordinarietà del momento.
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13 Gennaio 2015
di Riccardo Puglisi
Semestre Europeo, la scommessa perduta di Renzi C’è poco da dire: anche la gestione del Semestre Europeo è stata coerente con l’approccio politico/mediatico del presidente del consiglio Renzi, che consiste nell’enfatizzare le iniziative nella fase dell’annuncio (come per il timing delle riforme mese per mese, il pagamento integrale dei debiti della Pubblica Amministrazione entro l’estate, la Legge di Stabilità che taglia le tasse per 18 miliardi) per poi glissare nella fase della deludente esecuzione, in attesa dell’annuncio successivo. Nel caso del Semestre Italiano la fase del consuntivo viene gestita in maniera leggermente diversa, vendendo come eccezionali risultati ordinari, poco significativi. Come raccontato da Marco Damilano su l’Espresso, dal punto di vista politico Renzi poteva inizialmente contare sull’ottimo risultato ottenuto alle Elezioni Europee dal Partito Democratico, con un eclatante 40,8% sui voti totali, ma si è poi rivelato piuttosto inconcludente nella gestione operativa del Semestre stesso, puntando velleitariamente a spostare gli equilibri all’interno del Consiglio Europeo invece di badare maggiormente 13
a Commissione e Parlamento, e finendo invischiato in una gestione schizofrenica del rapporto con la burocrazia europea, bistrattata in pubblico nel suo complesso e trascurata dal lato del personale di provenienza italiana. Sono soprattutto i contenuti dell’azione politica durante il Semestre che lasciano molto a desiderare: l’idea di sostituire rapidamente l’Europa dell’austerità e dei vincoli con l’Europa della crescita e dell’occupazione può funzionare come slogan (forse), ma si scontra con la realtà di cambiamenti marginali: il piano di investimenti da 300 miliardi proposto da Juncker è largamente insufficiente rispetto alle dimensioni dell’economia europea, mentre non è ancora chiaro in che misura gli investimenti pubblici verranno scomputati dal calcolo del deficit ai fini del Patto di Stabilità. Forse l’Italia ha ottenuto esiti migliori dal lato della prevenzione e contrasto all’immigrazione clandestina, con la chiusura del programma Mare Nostrum a finanziamento interamente italiano, sostituito dal programma Triton, più piccolo ma a finanziamento comune. La distanza tra i proclami entusiastici di Renzi e la realtà delle cose fatte resta ampia anche a motivo del clima mediatico che si è instaurato in Italia: un clima che io chiamo “melassa renziana” e che si impernia sul ruolo cruciale giocato da Filippo Sensi, il bravo e potente spin doctor di Renzi, nei rapporti con i giornalisti nostrani. A proposito del Semestre Italiano, è molto interessante il racconto fatto da Stefano Feltri, giornalista de Il Fatto Quotidiano, al convegno dell’associazione A/Simmetrie (qui dal minuto 16:31): secondo Feltri i giornalisti italiani che seguono Renzi nei vertici europei e negli incontri a Bruxelles nella loro stragrande maggioranza aspettano che Sensi esca dalle riunioni per essere imbeccati sui magnifici risultati ottenuti da Renzi medesimo. Al contrario le buone regole vorrebbero che i giornalisti stessi “facciano i compiti”, cioè ottengano e raccolgano informazioni in maniera indipendente dal governo in carica, comportandosi da doverosi “cani da guardia” (watchdog). La verifica di questa artificiale sopravvalutazione dei risultati ottenuti in Europa da Renzi è presto fatta: basta dare un’occhiata ai principali giornali europei per constatare l’assenza di questi annunci – e risultati- roboanti. Tornando alle nostre faccende domestiche, attraverso un controllo piuttosto ferreo sui TG nazionali è probabile che per qualche tempo riesca ancora a Renzi il gioco di continuare a vendere promesse su promesse. Ma –come per un bolla speculativa su un mercato finanziario- questa gestione dei media può ritardare il momento in cui scoppia la bolla, ma non può in alcun modo impedirne lo scoppio. Anzi, una bolla tenuta artificialmente piena per più tempo rischia di scoppiare con maggiore fragore e danno nel momento in cui lo farà. Non voglio tuttavia essere troppo pessimista: sono dell’avviso che il Governo Renzi abbia ancora tempo per “tornare a quote più normali” dal punto di vista della differenza tra fatti e promesse. Tuttavia, il tempo disponibile per colmare questa differenza non è molto: a marzo si ricomincerà a parlare di economia e conti pubblici in un contesto difficile, con gli ultimi dati ISTAT che raccontano di una disoccupazione al 13,4% e di un deficit pubblico al 3,7%. Intanto il Semestre Italiano è finito in cantina come le decorazioni di Natale. Ma le decorazioni di Natale hanno il vantaggio di fare il loro dovere senza annunci eccessivi, e di restare in cantina per soli 11 mesi.
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31 Gennaio 2015
di Lelio Alfonso
È nata Italia Unica Amiche e amici di Italia Unica, benvenuti! Siamo arrivati a questa giornata con l’emozione di chi intende dedicare d’ora in avanti i propri sforzi alla politica. Un’emozione che si carica ancora di più di passione, vedendo quanti siamo qui oggi e già immaginando quanti saremo da domani. Questa mattina è nata Italia Unica. Un momento intenso, permettetemi di dire storico, condiviso con i fondatori giunti da ogni parte d’Italia e che rappresentano l’Assemblea Nazionale. A tutti loro va il nostro primo grazie. Salutiamo le autorità, delegazioni dei partiti, i rappresentanti delle ambasciate, delle associazioni, i tanti ospiti che hanno voluto accompagnare oggi questa giornata così importante. Non immaginavamo di essere così in tanti, qui, oggi. Siamo orgogliosi di essere parte di questo progetto. Siamo orgogliosi di aver fondato non un nuovo partito, ma un partito nuovo. E siamo davvero felici di aver acclamato come Presidente di Italia Unica una persona straordinaria come Corrado Passera! E’ una giornata di festa, una giornata speciale. Lo è per Italia Unica come lo è per le nostre istituzioni. Abbiamo un nuovo Capo dello Stato, chiamato a garante della Costituzione e 15
del Paese. Vi chiedo dunque un applauso per Sergio Mattarella Il suo ruolo è il più alto, il suo compito è il più difficile. Scelto solo da una parte dei Grandi Elettori deve essere invece il Presidente di tutti. E se il metodo che lo ha portato al Colle non è da noi condiviso, siamo e saremo rispettosi della sua figura. Un 31 gennaio davvero Unico, dunque, come Unica è la nostra sfida. Abbiamo iniziato con i saluti e gli applausi “ai due Presidenti”, ma la giornata speciale è per tutti coloro che hanno reso possibile un sogno neppure immaginabile un anno fa. Era il 23 febbraio – ricordate? – quando Corrado annunciò le proposte shock per rilanciare il Paese: 400 miliardi e più, una sferzata necessaria che il governo Renzi, appena insediatosi, ha testardamente snobbato e, quando ha copiato, ha copiato male. In giugno, il 14 giugno, ci siamo ritrovati sempre a Roma per l’apertura del cantiere. Oggi quel cantiere è un edificio solido, luminoso, ben disegnato. Le fondamenta sono i valori, il codice etico, il programma. Ma ad averlo costruito siete stati voi! In meno di un anno, dunque, un sogno è diventato realtà, una associazione si è fatta partito, un gruppo di persone è diventato una rete di oltre 150 Porte territoriali diffuse in tutte le regioni d’Italia. In una fase di diffidenza e rifiuto della politica, veder sorgere così tanti luoghi aperti di dialogo e proposta è stato fantastico. Grazie alle 100 tappe del tour per arricchire il programma e la presentazione di “Io Siamo”, siamo diventati tantissimi. Questo lungo percorso lo abbiamo fatto con entusiasmo, certo anche con fatica, ma con la crescente consapevolezza che ne valesse davvero la pena. Vedere stamani registrarsi i delegati di tutta Italia è stata più che una soddisfazione. L’Assemblea Nazionale, composta dai Fondatori e dai Delegati delle nostre magnifiche porte territoriali, ci ha regalato poche ore fa il calore e l’abbraccio che da oggi saranno l’energia per fare la differenza rispetto alla vecchia politica. Siamo in tanti, oggi, e siamo in tanti anche ad aver deciso – molti per la prima volta nella
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vita – di prendere una tessera di partito. Prima ancora che nascesse, e la cosa davvero emoziona, ben in tremila hanno chiesto la propria tessera, il proprio logo Unico. Non è solo una simbologia. La tessera personalizzata grazie all’algoritmo che realizza un logo non replicabile dà pienamente il senso della pluralità unica di chi fa parte di questa sfida. Queste tessere devono diventare decine di migliaia. E lo diventeranno. Ora che il Partito, scusate il bisticcio, è partito, ci aspetta la grande sfida di farci conoscere ancor di più, di spiegare le nostre proposte – oggi ascolterete le prime su cui ci mobiliteremo – di far capire quanto diversi siamo rispetto agli altri partiti. Dicono che fare politica sia un modo per avere potere, per farsi gli affari propri, per guadagnare soldi e consenso senza fatica. Luoghi comuni certo, che però i politici di professione hanno trasformato negli ultimi decenni in molto più che un sospetto. Scandali, comportamenti arroganti, disinteresse per la cosa pubblica. Come potersi attendere stima e fiducia da parte dei cittadini? Eppure la politica è una cosa straordinaria. Perché racchiude opportunità, valori, occasioni di dare e non pretendere. Per questo Corrado ha voluto che Italia Unica fosse un partito. Con uno Statuto e un Codice Etico che sono tanto rigorosi quanto innovativi, perché coniugano regole forti e una grande apertura verso la responsabilizzazione dei singoli. In molti hanno ironizzato sul partitino che cerca spazio per chissà quale scopo. Fino ad oggi abbiamo risposto con le parole, da oggi lo facciamo con i nostri volti. E’ questa platea la forza del nostro progetto, sono le nostre persone, le nostre idee. Chi oggi può permettersi di creare un partito plurale, senza capibastone o filtri intermedi, dove le Porte si autogestiscono, si autoorganizzano, scelgono le proposte da portare all’attenzione del territorio? Chi oggi può permettersi di affidare alle Porte l’individuazione dei propri coordinatori provinciali senza che ci sia una supervisione regionale, perché crediamo profondamente che il rapporto con il centro deve essere il più facile possibile? 17
Chi oggi può permettersi di affidare all’Assemblea Nazionale il 60% dei voti e inserire nello Statuto una norma che porterà questa maggioranza all’80 per cento nel giro di cinque anni, rafforzando ulteriormente il senso territoriale del partito? Chi, infine, oggi può dire alle proprie Porte: diteci dove ritenete che si possa essere vincenti e convincenti alle comunali, proponeteci idee e programmi, aiutateci a confrontarci con il civismo e con le persone protagoniste per merito e competenza? Noi vogliamo scommettere sul territorio, perché è il territorio che vive ogni giorno, concretamente, le necessità e i bisogni del cittadino e può produrre proposte e idee concrete per tutto il Paese. Il dirigismo centralista è una pagina della politica che non ci rappresenta. Per questo, negli ultimi mesi, abbiamo preso contatto con i sindaci italiani, avviando con oltre 200 di essi una fase di dialogo e confronto. Un grazie particolare va dunque a loro, e soprattutto ai quasi 100 che oggi sono qui a testimoniare questo dialogo. Ascolteremo le loro voci, le loro idee, in questo pomeriggio per noi tanto importante. Italia Unica non vuole essere un Partito oligarchico che sfrutta la base per costruire potere. Ma un Partito che vive e cresce nella base e per la base. Senza tutti voi, oggi, non potremmo essere qui a cominciare il nostro viaggio. Per questo intendiamo sviluppare il nostro Partito come una rete, virtuale e materiale, di idee, proposte e persone. Una rete attraverso la quale, con il web, con le porte e i gruppi tematici, coagulare le proposte in un modo realmente nuovo. Non ci sentiamo diversi, siamo diversi. Perché le nostre vite professionali non sono state vissute grazie alla politica, ma alla politica teniamo eccome. Perché, soprattutto, è giusto saper anche mettere a disposizione i propri talenti, saper restituire. La logica di questo partito, che Corrado vi spiegherà meglio al termine di questo intenso pomeriggio, è di apertura alle idee, alle collaborazioni, alle condivisioni. Ma è chiusa a
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compromessi, fusioni o alleanze con chi, semplicemente, deve cedere il passo. Non è arroganza – di quella ce ne è anche troppa in giro -, è ambizione. Ambizione di sapere cosa serve per cambiare realmente verso, per spazzare la paura attraverso la costruzione di un percorso nuovamente fiduciario tra cittadini e politica. Oggi si vive di selfie e di slide, si twitta invece di dialogare, si insulta invece di parlare. Ti metti una felpa e diventi un leader, mandi tutti a quel paese e ti credi un capopopolo. Ma non è solo questione di stile. E’ soprattutto una questione di sostanza. La sostanza sta nel progetto, nel programma, nella leadership di Corrado, in una squadra che non è divisa per correnti, ma per competenze e aree di interesse tematico e territoriale. Ed è soprattutto nel fatto che ognuno può concorrere. Molte delle persone che sono state invitate a far parte dei fondatori o della Direzione non se lo aspettavano. Ma il grande sforzo espresso in questi mesi, la disponibilità mostrata andavano premiate concretamente! Molte delle nostre Porte sono nate attraverso segnalazioni via mail, contatti spontanei, con la creazione di network tra persone che non si conoscevano. Oggi sono realtà vitali, compatte. Questa è la nostra più grande soddisfazione. Con lo Start Up Team, i 100 Unici, i co-moderatori dei gruppi tematici, le Porte, siamo dunque giunti a uno straordinario risultato. Per questo ci sentiamo pronti, anche se è solo l’inizio del nostro cammino, ad essere tra i protagonisti della politica. 25 secoli fa, Pericle così spiegava agli ateniesi il senso della politica: “Qui ad Atene noi facciamo così: qui il nostro governo favorisce i molti, invece dei pochi, e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così: quando un cittadino si distingue, allora esso sarà a preferenza di altri chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito… E ancora: Qui ad Atene noi facciamo così: un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile, e benché in pochi siano in grado di dar vita a una politica, beh, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore”. Anche dopo così tanto tempo, parole come queste ci emozionano e ci chiamano all’azione. Per questo siamo e saremo un partito politico.
Un partito nuovo. Un partito vero. Viva Italia Unica!
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8 Gennaio 2015
di Franco Frattini
I musulmani moderati facciano sentire ancora di più la loro ferma condanna “I terroristi che hanno ucciso a Parigi hanno colpito il nostro modo di essere, la nostra cultura, la nostra storia, la nostra democrazia. In primo luogo bisogna ricordare che per troppo tempo e in troppi casi ci sono state incertezze da parte occidentale, arrivando addirittura ad adombrare una sorta di giustificazionismo – del tipo: chi usa le armi reagisce a una violazione della democrazia – all’indomani delle missioni internazionali in Iraq e Afghanistan, oppure per gli attacchi contro lo Stato di Israele. Mi auguro che sia arrivato il momento per dire che mai l’atto terroristico può essere giustificato. E per questo bisogna mobilitare una reazione sempre più forte e corale dei milioni di musulmani moderati che, come in questi giorni sui social network, denuncino e si ribellino a chi professa di uccidere in nome di Allah e di Maometto. L’Occidente ha il dovere morale prima che istituzionale di dire con assoluta chiarezza che ci sono dei principi, e il primo tra questi è il rispetto della vita di ogni essere umano e della sua dignità, che non sono negoziabili e che non possono essere violati per nessuna ragione. E per questo dobbiamo riaffermare con forza l’appello di Papa Francesco affinché le religioni siano messaggi di vita e non di morte per evitare eventuali folli ritorsioni contro uomini e donne musulmane”.
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3 Febbraio 2015
Buon lavoro, presidente Mattarella. Ma la riforma elettorale e quella del Senato sono un pasticcio pericoloso Il discorso di insediamento del presidente della Repubblica dinanzi al Parlamento in seduta congiunta è stato accolto da generale consenso, salvo l’irriducibile Beppe Grillo (anche se non pochi tra i Cinquestelle hanno applaudito le parole del neo capo dello Stato) e lo sbrigativo Salvini che alla cerimonia non è andato perché “non ricordo se mi hanno invitato o no e comunque uno come Mattarella non mi rappresenta”. Tutti gli altri parlamentari, va rilevato, si sono spellati le mani punteggiando l’intervento presidenziale con oltre una quarantina di applausi. Buon segno. In un Paese così dilaniato e che ha alzato fino all’inverosimile i decibel del furore parolaio tutto demagogia e invettive, il tono pacato e le argomentazioni piane di Sergio Mattarella hanno l’effetto di un balsamo. In puro stile che potrebbe ricordare quello moroteo, aggiungerebbe qualcuno con un pizzico di malizia. Vero. Come è vero
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che lo statista pugliese è morto 35 anni fa e immaginare di riproporne la felpatezza come discrimine politico è inverosimile: quei tempi non torneranno più. Ciò non toglie che la pacatezza sia una dote apprezzabile; il low profile un’opzione lungimirante; il sussiego un’arma che se ben usata può spuntare tante asperità. E dio solo sa se ce n’è bisogno. È indubbio tuttavia che il compito che attende il nuovo inquilino del Colle è di quelli che non fanno dormire la notte. Intanto la sua elezione è avvenuta per la combinazione di due fattori: la spregiudicatezza che a tratti è sfociata in arroganza di Matteo Renzi; le macerie che ora dopo ora si sono accumulate sul centrodestra nelle sue varie articolazioni e che hanno portato a forti, e chissà quanto ricomponibili, divaricazioni sia dentro FI che nel partito di Alfano. Dunque è verosimile ritenere che i primi due compiti che Mattarella vorrà intestarsi, in certo senso metapolitici sotto il profilo dell’impronta che intende dare al settennato e dell’immagine con cui vuole presentarsi agli italiani, saranno da un lato garantire un’atteggiamento autonomo e una relativa distanza da palazzo Chigi, magari provando a frenare alcune delle spericolate accelerazioni che potrebbe avere in mente Renzi (per esempio attuando un controllo accurato sulla legittimità dei provvedimenti governativi e invitando a limitare i decreti); dall’altro mostrando attenzione istituzionale verso quelli che non l’hanno votato, Berlusconi in primis. L’invito alla cerimonia del giuramento è un primo segnale. Altri, più sostanziosi forse, seguiranno. Questa è la cornice. Poi arriva la sostanza. Che – lasciando per un momento sullo sfondo la crisi economica – si chiama riforma elettorale e del Senato. Proprio la debacle nella partita per il Colle segnala un problema decisivo per la politica: l’equilibrio tra schieramenti è diventato squilibrio nel senso che uno dei due, quello appunto di centrodestra, è incerto e irretito. Meglio: sbriciolato, se si rinuncia al galateo di Palazzo. Fatto che si sposa con l’altro assai più grave: un meccanismo elettorale sartorialmente disegnato sul profilo non tanto del Pd quanto direttamente di Renzi. In altre parole per ciò che ieri era considerata calcolata furbizia e adesso appare resa incondizionata, FI e Ncd si apprestano a dire sì ad un Italicum che lascerà briglie sciolte alla incursioni del premier, oggi e ancor più domani. Senza controbilanciamenti, senza meccanismi di salvaguardia, senza contrappesi istituzionali. Con il 40 per cento o anche meno dei voti – che in termini assoluti sono la metà considerato che alle urne si reca il 50 per cento degli italiani – il Pd, cioè Renzi visto che nessuno allo stato può fargli ombra e non si profila lista in grado di ottenere più consensi elettorali di lui, si annette la maggioranza in Parlamento e di conseguenza il governo, i giudici della Consulta eletti delle Camere (5 su 15); quelli del Csm (un terzo) di identica investitura, e l’elezione del presidente della Repubblica. Una minoranza priva di argini significativi trasformata diabolicamente in maggioranza pigliatutto. Uno strapotere che ben si adatta a quel partito della Nazione che tanto affascina (e comprensibilmente…) il presidente del Consiglio. Quanto poi sia breve o lungo il passo che dal Partito della Nazione conduce al Partito Unico lo lasciamo giudicare ai tanti aficionados del renzismo e del mai reso pubblico patto del Nazareno, e soprattutto ai tantissimi parlamentari della sedicente opposizione che invece di indignarsi e lavorare per un sistema davvero rispettoso dei diritti degli elettori si attaccano al carro di Renzi, forse sperando in qualche briciola di potere o di sottogoverno. 22
Quanto invece tutto questo sia confacente con i dettati della Costituzione ai quali, e giustamente, in tanti passaggi del suo discorso si è rifatto, lo lasciamo giudicare al capo dello Stato. Al quale, anche se sicuramente non ce n’è bisogno, ricordiamo che l’Italicum – guardacaso in barba alle sentenze della Consulta di cui Mattarella faceva parte e che ha bocciato il Porcellum giudicando incostituzionali le liste bloccate – mantiene un insopportabile potere di scelta per i parlamentari a favore dei capi partito, poiché assegna cento deputati bloccati sia alla maggioranza “premiata” che all’opposizione sconfitta. Tutto costituzionale, signor Presidente? Non erano forse assai più in linea con la Carta quei collegi uninominali in una cornice di sistema maggioritario con i quali si votò nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica? Sommessamente ma convintamente pensiamo di sì. Azzardando che in cuor suo anche lei dia la medesima risposta. Se non altro perché fu l’estensore della legge che infatti da lei prese il nome di Mattarellum. E che dire della riforma del Senato, che invece di abolire e basta palazzo Madama come sarebbe opportuno per esigenze di governabilità, trasparenza, risparmio, lascia intatta l’istituzione “semplicemente” mettendola nelle mani dei Consigli regionali (molti Pd, per pura coincidenza) e dei loro infiniti particolarismi? Anche qui sul serio nulla da eccepire per un insieme che fa pericolosamente sbandare il baricentro delle istituzioni a favore di un leaderismo dai tratti tanto indistinti quanto inquietanti, di fatto introducendo un premierato forte senza contrappesi? Sul fronte del rispetto del dettato costituzionale non possiamo che consegnare questi (e altri) interrogativi nelle mani di Mattarella, riconoscendoci nella sua volontà di essere custode della Carta e arbitro tra pulsioni di parte. Purtroppo sottolineando però fin d’ora la risposta assolutamente negativa alla richiesta avanzata al momento del giuramento: cioè che i giocatori lo aiutino comportandosi in maniera corretta. No, signor presidente, non è così. È scorretto il premier che, in virtù di una cultura approssimativa delle regole, mira a trarre il massimo vantaggio personale dalla riscrittura di delicatissimi meccanismi politici ed istituzionali. È scorrettissima l’opposizione di centrodestra compresi quelli che, innalzando le insegne dei moderati, da sponde governative e di maggioranza si accodano ai disegni populisti – ma si potrebbe dire anche peronisti – dell’inquilino di palazzo Chigi rinunciando al ruolo che hanno loro assegnato gli elettori. Noi, Italia Unica Unica appena costituita in partito ed il suo presidente Corrado Passera, non saremo tra questi. Con lealtà e senso della misura – ma anche con assoluta determinazione – svolgeremo il nostro ruolo di coscienza critica, di guardiani che si battono contro involuzioni di sapore autoritario. Faremo opposizione, cioè. Costruttiva, ragionevole, non urlata, ferma e intransigente. Vorremmo dire costituzionale, se ci è consentito.
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6 Febbraio 2015
di Lelio Alfonso
Scelta Civica, lo svincolo di mandato Sarebbe facile fare dell’ironia sulla improvvisa – solo nei modi, non certo nel travaglio – decisione dei parlamentari di Scelta Civica di trasferirsi in massa tra le accoglienti spire renziane, ma una riflessione più profonda è necessaria, specie in un momento storico in cui la filosofia del Partito Unico sta rapidamente facendosi strada tra chi confonde l’impegno con il pegno. Il costituzionale diritto a non avere un mandato obbligatorio è una conquista democratica che troppo spesso è stata confusa come passepartout per giri di giostra senza biglietto. Nella frenesia della politica è un vulnus che viene considerato inevitabile e quindi non ci scandalizzeremo neppure questa volta, salvo far notare che in passato si definiva questa pratica come “campagna acquisti” e oggi come “suggello al percorso riformatore”. Lo svincolo di mandato diventa quindi una agile scorciatoia per accasarsi, indipendentemente da quanto proclamato con la mano sul cuore fino a poco prima. Chiaramente, quando si prendono decisioni così sofferte, il pensiero va a tutelare la propria immagine, a spiegare, ragionare, confutare le prevedibili critiche. In questo caso, dagli otto “neodem”, non si sfugge alla regola. Comunicato ufficiale, dichiarazioni ai media e tanti sorrisi. No, questa volta un motivo per un fermo immagine c’è tutto. Scelta Civica era nata, due anni fa, per dare alle istanze liberali e riformiste una casa, per superare un bipartitismo malato e pervicacemente aggrappato al potere, per portare in politica metodi nuovi e volti nuovissimi. Una proposta che, nonostante molti errori di gioventù, era stata premiata da tre milioni di persone. Che non vedevano né nel Pd né nel Pdl una risposta ai problemi del Paese. Certo, poi è arrivato Renzi. Certo, poi Monti è stato il primo a non credere nel progetto e ad abbandonarlo. Certo, Berlusconi non ha saputo innovare il centrodestra come è successo invece nel centrosinistra. Anche considerando tutte queste cose, sembra un po’ pretestuoso dire che Scelta Civica muore perché ha già trovato le sue risposte nel Pd. Per me, che in Scelta Civica ho creduto, no. E immagino anche in molti di quei 3 milioni di cittadini. E’ solo un amaro dettaglio, purtroppo, che questa diaspora avvenga a pochi giorni dal Congresso nazionale che eleggerà il nuovo segretario. Altri addii, magari anche più pavidi, c’erano stati in passato. Quest’ultima è solo una stilettata senza stile per evitare un nuovo corso a un partito. E noi invece auguriamo a Scelta Civica di saper ritrovare con maggiore energia e trasparenza quel cammino liberale e riformatore che ne aveva segnato la nascita.
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11 Febbraio 2015
di Pierpaolo Groppoli
Prostituzione, nuove regole e più coraggio Nell’Italia del 2015, in ambito politico, Il tema della prostituzione è ancora rigorosamente da evitare. Perché divide, perché ha implicazioni etico-morali, perché si rischia di scontentare sempre qualcuno, così dicono gli esperti. Sarà forse per questo che la politica italiana ha perso molto del suo sex-appeal? Molto più attenta a non scontentare qualcuno, che a proporre soluzioni per i cittadini. Nessuno può ragionevolmente sostenere di avere la “soluzione” al fenomeno della prostituzione, che attraversa la storia dell’umanità dai suoi albori, non conosce confini geografici e culturali, si è fatto beffa di qualunque ordinamento politico-istituzionale tuttavia è evidente ignorare il problema appare il peggiore dei rimedi. Le considerazioni che seguono sul mutevole fenomeno della prostituzione hanno un taglio pratico, nessun giudizio morale od etico, ambito che appartiene alla coscienza di ognuno di noi. Una coscienza recalcitrante per almeno nove milioni di italiani, numero stimato di clienti delle “lucciole”. Bisogna partire dal fatto che la prostituzione è un fenomeno estremamente mutevole, comunque molto diverso da quello regolamentato dalla Legge Merlin. Basta solo pensare alle ragazze straniere reclutate dalla criminalità e costrette a prostituirsi. Oggi rappresentano la maggioranza, circostanza certo non prevedibile nel 1958. Cosa salvare dunque della Merlin? Un punto fondamentale: l’esercizio della prostituzione attiene alla sfera privata dei rapporti fra adulti consenzienti, non perseguibile né per chi la esercita, né per chi la utilizza. Ciò che invece va stroncato è lo sfruttamento economico delle 25
prostitute. Partendo però da un dato di realtà: possiamo abbandonare l’utopia che una legge dello Stato possa estinguere la prostituzione. Perciò il compito “razionale” di un ordinamento democratico è quello di contenere il fenomeno e regolamentarlo, tutelando per quanto possibile le donne. Senza per nulla trascurare quelle fasce di cittadini meno abbienti che con la prostituzione a cielo aperto ci devono convivere tutti i giorni. Non possiamo continuare a pensare di scaricare sulle periferie della città i problemi della prostituzione e dell’immigrazione. Il compito è chiaramente complesso, bisogna mediare tra interessi nettamente contrapposti: da una parte, la difesa della dignità della persona (quasi sempre donna) visto che la prostituzione conosce forme sempre più aggressive di riduzione in schiavitù e forme di sfruttamento. Dall’altra la tutela della sicurezza dei cittadini. Qualche dato sulle dimensioni del fenomeno prostituzione in Italia: Settantamila prostitute; 9 milioni di clienti ; un giro d’affari di 5 miliardi di euro. (Fonte: Commissione Affari Sociali della Camera nel 2010). Stima del fenomeno aleatoria e in continua mutazione. Un settore che sfugge a qualunque controllo sociale, sanitario e fiscale. Scontiamo un ritardo legislativo almeno trentennale ed oggi non possiamo accontentarci di rimedi tampone, dettati dall’emergenza e destinati a scarso successo. E’ di questi giorni l’eco mediatica del tentativo di realizzazione della “red zone”, nell’area EUR di Roma, soluzione che è vecchia, ancor prima di nascere. In pratica, si riduce a ghettizzare in un paio di strade di periferia centinaia di prostitute, prevedendo nuove spese a carico del bilancio della Capitale. Ogni commento appare superfluo. Un fenomeno di tale portata deve essere aggredito ponendosi una serie di priorità ed obiettivi strutturali: 1) sottrarre allo sfruttamento donne e uomini che per motivi di debolezza sono soggetti a rischio; 2) sottrarre la prostituzione alle regole del mercato clandestino e alla contiguità con il crimine organizzato; 3) ridare sicurezza e dignità ai cittadini che il fenomeno della prostituzione, lo subiscono. Ci si può prefissare dei nobili obiettivi, ma questi devono essere realizzabili dal punto di vista economico. I progetti di recupero e di reinserimento sociale hanno un costo, così come le campagne educative, quelle di controllo sanitario, la sicurezza, che non possono ricadere sul cittadino che paradossalmente rispetta le regole. L’approccio innovativo al problema è quello di creare un sistema che autofinanzi gli obiettivi sociali del reinserimento, della sicurezza e del recupero delle aree degradate delle nostre città, senza gravare sulla tassazione. In pratica: la copertura finanziaria per raggiungere gli obiettivi può essere trovata tassando la prostituzione, che ha un giro d’affari stimato in 5 miliardi di euro. I fondi così recuperati sono da destinare, in parte alle Politiche sociali per progetti di reinserimento, organizzati dal terzo settore e/o dagli Enti pubblici; in parte alle Campagne di formazione per operatori sociali, mediatori sociali e Forze di polizia; in ultimo, alle Campagne di educazione sessuale, mediante anche la distribuzione gratuita o a basso costo di preservativi, controlli sanitari (obbligatori). Dal punto di vista più strettamente legislativo, nel settore civile occorre prevedere l’esercizio della prostituzione come vera e propria attività in forma individuale od associata. 26
In materia penale: è necessario prevedere l’utilizzo di stabili adeguati all’esercizio della prostituzione, possibilmente quelli provenienti dai sequestri alla criminalità organizzata o mafiosa; occorre abolire il reato di favoreggiamento della prostituzione. Inoltre è necessario concentrare l’attività repressiva dello Stato sui reati di sfruttamento e costrizione violenta della prostituzione e del traffico internazionale di esseri umani, con particolare riguardo alle situazioni che coinvolgono minori. Infine, dovrebbero essere destinati fondi, provenienti dalla tassazione della prostituzione, per la lotta al degrado urbano. Recupero urbanistico e divieto della prostituzione su strada sono fattori indispensabili per migliorare la percezione della sicurezza da parte dei cittadini. La scelta è chiara: possiamo continuare a far finta di non vedere o avere il coraggio di nuove scelte di politica criminale.
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16 Febbraio 2015
di Fabrizio W. Luciolli
Libia, cinque priorità per affrontare la crisi Il tumultuoso avvicinamento delle milizie dell’Isis a poche miglia dalla nostra penisola ha avuto l’effetto di elevare lo stato d’allerta e l’attenzione delle istituzioni nazionali e internazionali sulla reale pericolosità della minaccia proveniente da Sud. Secondo un protocollo altrettanto tumultuoso, dapprima il ministro degli esteri, quindi il presidente del consiglio, e infine il ministro della difesa, hanno annunciato che “l’Italia è pronta a guidare in Libia una coalizione di paesi dell’area, europei e dell’Africa del Nord per fermare l’avanzata del Califfato che è arrivato a 350 chilometri dalle nostre coste”. Dichiarazioni, peraltro, effettuate agli organi di stampa senza passare il vaglio “preventivo” del Parlamento ma non quello della radio ufficiale del Califfato – l’emittente al-Bayan che trasmette via internet da Mosul – che ha prontamente risposto minacciando l’Italia “crociata”. La crisi libica è giunta all’attuale livello di criticità per cause e responsabilità che vanno ricercate per lo più nella nostra sponda del Mediterraneo. L’interventismo militare della Francia, le costanti divisioni dell’Unione Europea, la riluttanza degli Stati Uniti a svolgere il proprio ruolo nella regione, la cronica debolezza dei governi italiani, non hanno permesso di inquadrare l’intervento del 2011 in Libia in una prospettiva strategica di medio-lungo termine e di far seguire alle operazioni della NATO a protezione dei civili un robusto piano di stabilizzazione e ricostruzione necessario per rilanciare lo sviluppo democratico, economico e sociale del paese. Oggi l’Italia e la comunità euro-atlantica, sono chiamate ad affrontare in Libia una drammatica prova d’appello ed una minaccia che destabilizza non solo la regione ma mina la sicurezza internazionale e prefigura la distruzione degli stessi valori fondanti delle nostre società, libere e democratiche. A differenza del passato, affinché la risposta sia credibile ed efficace occorrerà definire 5 priorità unitamente a una strategia che andrà fondata su alcuni elementi fondamentali.
1. Prospettiva regionale. La rilevanza strategica di un intervento in Libia va ben oltre i permeabili confini geografici del paese e dovrà essere considerato con una prospettiva regionale. Attualmente, la Libia costituisce la chiave per la sicurezza del Mediterraneo e qualora dominata dal Califfato, minerebbe la stabilità dei governi dei paesi vicini, quali la Tunisia, l’Algeria, il Mali, così come dello stesso Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, che sostengono la lotta ai movimenti legati ai Fratelli Musulmani. Le milizie dell’Isis in Iraq e Siria acquisterebbero maggiore spazio, andando a delineare un arco di crisi che dal Mediterraneo si salderebbe pericolosamente con le instabilità del Caucaso, dell’Afghanistan e dell’Ucraina.
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Partenariati. Un intervento in Libia non può prescindere da un rinnovato e solido rapporto di partenariato con alcuni paesi della regione: quali l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti, 28
la Tunisia e altri. Sotto questo profilo, l’avanzata delle milizie dell’Isis hanno compattato gli interessi di diversi paesi della regione rendendone più agevole una loro cooperazione. Fra i paesi occidentali che prenderebbero parte alla coalizione figurano, oltre all’Italia, la Francia, la Germania, il Regno Unito, la Spagna, Malta. Gli Stati Uniti, saranno coinvolti nella strategia ed è verosimile ritenere che forniranno gli assetti essenziali per la conduzione delle operazioni (enablers).
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Interessi nazionali. L’Italia, ancor prima della formazione di una coalizione, dovrà aver ben chiari quali interessi nazionali perseguire. Oltre alla stabilità della Libia e della regione, l’Italia dovrà aver definito quali interessi vitali, strategici o contingenti andranno salvaguardati o conseguiti. Tale compito difficilmente avviene in Italia in maniera coerente per l’assenza di una Strategia di sicurezza nazionale e di un relativo processo che affini costantemente le strategie volte al perseguimento degli interessi nazionali. La decisione del ministro della Difesa Pinotti di redigere un Libro Bianco sulla sicurezza internazionale e la difesa, per quanto vada nella giusta direzione, appare tuttavia episodica e non in grado di soddisfare definitivamente questa esigenza. Inoltre, gli interessi energetici dell’Italia in una certa area del paese non devono, come in passato, andare a scapito di una visione strategica più ampia. L’Italia è il primo importatore di greggio libico. Fra gli interessi strategici figura certamente l’approvvigionamento energetico che, a causa dei frequenti blocchi dei terminali petroliferi, nel 2014 ha subito un calo del 64% per ciò che riguarda il greggio. A seguito del danneggiamento dell’impianto di liquefazione di Marsaal-Brega, il gasdotto Greenstream che collega Mellitah a Gela è rimasto l’unico canale di fornitura in funzione, sebbene a intermittenza, rendendo l’Italia il solo destinatario del gas libico
4. Nazioni Unite. L’Italia, oltre a sostenere il processo politico intentato in Libia dall’Inviato Speciale dell’ONU, Bernardino Leon, dovrà adoperarsi per ottenere dalle Nazioni Unite una risoluzione con un mandato particolarmente robusto e Regole d’ingaggio chiare. A tal fine, vanno ricordate le recenti Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 2098 (2013) e 2147 (2014) relative alla missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo e che hanno per la prima volta autorizzato la costituzione di una Brigata d’Intervento con compiti “offensivi” per la protezione dei civili e “impedire l’espansione di tutti i gruppi armati, neutralizzando e disarmando questi gruppi, al fine di contribuire a ridurre la minaccia rappresentata dai gruppi armati nei confronti dell’autorità statale e alla sicurezza dei civili … e fare spazio alle attività di stabilizzazione”. Attualmente, l’Italia figura al sesto posto in termini di contributi al bilancio delle Nazioni Unite. L’eventuale missione dovrà essere dotata di uno strumento credibile e robusto, ancorché flessibile. Per quanto le caratteristiche del paese consentano, in determinati casi, un agevole controllo del territorio, va ricordato che in Bosnia ed Erzegovina, la cui superficie è pari a un terzo di quella libica, la NATO entrò nel 1995 con 60.000 uomini. Trascorsi venti anni, 600 uomini permangono tuttora nell’ambito della missione Althea dell’Unione Europea.
5. NATO. L’Italia dovrebbe, richiedere con urgenza la convocazione del Consiglio Atlantico per consultazioni sullo scenario di sicurezza e la possibile adozione di provvedimenti quali il dispiegamento di batterie di missili Patriot a difesa delle coste italiane da eventuali 29
lanci di missili Scud. Tale procedura trova fondamento nell’art. 4 del Trattato Atlantico ed ha ricevuto applicazione per due volte in Turchia. Invece, nel caso di un attacco diretto contro l’Italia, scatterebbe automaticamente il meccanismo di solidarietà collettiva previsto dall’art. 5 del Trattato Atlantico Tali priorità potranno essere perseguite attraverso una strategia che dovrà fondarsi su alcuni elementi fondamentali. • DDR (Disarmament, Demobilization, Reintegration). Fra i compiti prioritari di un’eventuale missione dovrà figurare quello di Disarmo, Smobilitazione e Reintegrazione di tutti i gruppi armati, affiancato da un programma auspicabilmente guidato dai Carabinieri sul modello della NATO Training Mission in Afghanistan volto a ricostituire su base unitaria e democratica le Forze armate e di sicurezza del paese. • Ricostruzione. Affinché il processo di stabilizzazione divenga auto-sostenibile nel tempo occorre che questo sia accompagnato da un robusto piano di ricostruzione e sviluppo che in Libia è reso più agevole dalle ingenti risorse energetiche e finanziarie presenti in Libia. Si calcola che la Libia disponga attualmente di riserve in valuta straniera per 119 miliardi di dollari, mentre ulteriori 50 miliardi costituiscono il fondo sovrano. • Peacebuilding Commission. L’Italia dovrebbe considerare l’opportunità dell’assistenza della Peacebuilding Commission, organo consultivo intergovernativo delle Nazioni Unite che sostiene gli sforzi di pace in paesi che escono da un conflitto. • Mediterraneo. L’Operazione Active Endeavour di pattugliamento del Mediterraneo andrebbe rafforzata. Questa operazione marittima della NATO, varata all’indomani dell’11 settembre, dovrebbe continuare a rimanere inquadrata nell’ambito dell’art. 5 (difesa collettiva) e non andrebbe declassata a semplice operazione di sicurezza collettiva, come attualmente in discussione. • Immigrazione. Una missione in Libia dovrà, altresì, avere come compito quello di arginare il fenomeno della immigrazione clandestina incontrollata attraverso lo svolgimento di attività di monitoraggio e di eventuali procedure d’asilo in loco. • Cooperazione. La crisi libica offre, peraltro, l’opportunità di ripensare al sistema dei partenariati delle istituzioni euro-atlantiche su basi nuove. Lo scenario di crisi che circonda l’Europa a Est e a Sud, ha certificato, difatti, il fallimento delle diverse politiche di partenariato e di “vicinato” condotte dall’Unione Europea all’indomani dei processi d’allargamento voluti dalla Commissione Prodi. Oltre 15 milioni di euro sono stati spesi in questi anni in programmi di cooperazione dall’Unione Europea che dovranno in futuro essere indirizzati con logiche effettivamente cooperative e più settoriali. • Comprehensive Approach.Gli elementi sopra indicati andranno coniugati efficacemente secondo la decantata dottrina dell’Unione Europea e della NATO dell’Approccio Globale, che intende combinare gli strumenti civili e militari per dare risposte coerenti alle diverse dimensioni delle moderne sfide alla sicurezza. 30
• NATO-UE. La crisi libica potrebbe costituire una straordinaria opportunità di cooperazione tra la NATO e l’Unione Europea, che condividono 22 su 28 paesi ma non sono mai riuscite a trovare un terreno per una piena intesa. In tale prospettiva, l’Italia e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza possono svolgere un ruolo determinante. La crisi libica costituisce una minaccia imminente alla sicurezza nazionale e internazionale. Essa, peraltro, presenta numerosi fattori che se colti e efficacemente combinati, offrono un’opportunità unica per rinnovare i partenariati e il ruolo delle istituzioni euro-atlantiche nella regione mediterranea.
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19 Febbraio 2015
di Massimo Brambilla
Un anno di Renzi. L’arroganza delle promesse e il vuoto dell’opposizione Ed eccoci giunti al primo anniversario del Governo Renzi. Una ricorrenza per la quale c’è ben poco da festeggiare. Entrato in carica il 22 febbraio 2014 con la promessa di fare una riforma al mese, il Governo ha caratterizzato il suo primo anno di azione all’insegna di un’esclusiva focalizzazione sulle riforme volte alla conservazione del potere, a spese delle vere priorità del Paese. Dagli 80 Euro alla legge elettorale, passando per il semestre Italiano dedicato alla battaglia per l’inutile nomina di Federica Mogherini al ruolo di Alto Rappresentante per l’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, non un singolo provvedimento dell’Esecutivo ha avuto come priorità il contrasto al calo di produttività del nostro sistema economico, vero fattore alla base della strutturale incapacità della nostra economia di ritornare su un percorso di vera crescita. Certo, lo scenario macroeconomico è migliorato rispetto a qualche mese fa. La combinazione degli effetti della politica monetaria espansiva annunciata dalla Banca Centrale Europea in termini sia debolezza dell’Euro rispetto al Dollaro che di riduzione dei tassi di interesse e del prezzo del petrolio non può non avere benefici su un’economia manifatturiera ed orientata all’export come la nostra. Ma, a costo di essere tacciati come menagrami, vale la pena di rammentare che stiamo parlando di effetti congiunturali e non strutturali e che in assenza di vere riforme anche questi si tradurranno nell’ennesima occasione persa per il nostro Paese. In particolare l’Italia, come molte altre economie occidentali ed il Giappone, dopo decenni caratterizzati da un’eccezionale crescita economica, è intrappolata in uno scenario di bassa, se non nulla, crescita sul medio-lungo termine. Secondo il McKinsey Global Institute il nostro paese è destinato ad una riduzione del tasso di crescita del PIL nei prossimi 50 anni rispetto a quello registrato nel periodo 1964-2014 pari al 36%. Questo scenario è la conseguenza di una serie di fattori che reciprocamente si rafforzano: • L’invecchiamento della popolazione e la conseguente diminuzione della forza lavoro; • L’incremento del livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza (che nel medio termine deprime i consumi); • Il deterioramento delle qualità delle infrastrutture causato dall’abitudine dei Governi di tagliare le spese in conto capitale per non toccare quelle correnti;
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• La riduzione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo da parte delle nostre imprese e, di conseguenza, del livello di competitività; • Lo scollegamento tra l’offerta formativa proposta dal sistema scolastico ed i profili richiesti dal mercato. Italia Unica da oltre un anno propone, inascoltata da Governo e Parlamento, soluzioni per affrontare queste problematiche. In primo luogo il calo sia della natalità del nostro Paese (che proprio nel 2014 ha raggiunto il minimo storico di 509.000 nascite) sia della partecipazione delle donne al mondo del lavoro (con un tasso di occupazione ai minimi in Europa pari al 46,6%) sono le prime aree in cui è necessario un intervento. Aumentare le nascite è fondamentale per mantenere l’economia del Paese vitale. In questo senso vanno le nostre proposte di garantire 5.000 Euro all’anno di supporto finanziario per ogni bambino fino ai 5 anni d’età e di aumentare esponenzialmente gli asili nido per consentire alle donne di entrare nel mercato del lavoro senza dolorose scelte tra lavoro e famiglia. Inoltre va incentivata la partecipazione al mercato del lavoro delle persone più anziane e dei giovani, con una flessibilizzazione delle regole, la valorizzazione dell’apprendistato, la facilitazione della ricollocazione lavorativa e la valorizzazione del ruolo del Terzo Settore. Per combattere l’aumento della disuguaglianza non servono politiche redistributive in senso classico (che spesso penalizzano la produzione di ricchezza senza diminuire la disuguaglianza), ma una combinazione di misure fiscali che aumentino la No Tax Area per i nuclei familiari con reddito inferiore ai 100.000 Euro in funzione dei famigliari a carico, unita a politiche che riattivino l’ascensore sociale, dalla riforma del sistema dell’educazione superiore e professionale, alla semplificazione e il sostegno per le nuove imprese, a sistemi premianti per l’aumento della produttività (come la nostra proposta relativa alle due mensilità aggiuntive in busta paga). Il deterioramento della dotazione infrastrutturale va combattuto con un vero piano di investimenti nelle infrastrutture chiave sia a livello nazionale che pan-europeo (non certo il Piano Juncker, privo di ambizione ed insufficiente nell’ammontare). La liquidità immessa sul mercato dalla BCE andrebbe utilizzata per finanziare un piano di investimenti a livello UE di dimensione non inferiore a 1.000 miliardi finanziato da Bond emessi dalla Banca Europea per gli investimenti, uniti, nel nostro Paese, a 100-200 miliardi di nuovi investimenti pubblici e privati finanziati da Fondi Strutturali e valorizzazione degli attivi pubblici. La riduzione degli investimenti in Ricerca e Sviluppo da parte delle imprese e conseguentemente della loro livello di produttività va combattuta sia con stimoli fiscali che con interventi sistemici volti a contrastare il nanismo e l’arretratezza di parte del nostro settore manifatturiero e, soprattutto, dei servizi (che nelle economie più sviluppate tende ad essere il più importante motore in termini di creazione di nuova occupazione). Basterebbe che il nostro sistema economico (e la nostra Pubblica Amministrazione, incluso 33
il Servizio Sanitario Nazionale) adottasse alcune best practices a livello internazionale per fare un significativo tasso in termini di produttività di processi. Di equale importanza è la riforma del formazione professionale e universitaria. Un sistema in cui convive una disoccupazione giovanile al 42% con un terzo delle aziende che ha difficoltà a trovare profili professionali in linea con le esigenze del mercato è un sistema in cui il sistema scolastico necessità di una riforma radicale. L’Italia (e non solo) si trova a un bivio. Senza riforme radicali la nostra economia sarebbe condannata a decenni senza crescita e opportunità per le generazioni che seguiranno. In Italia Unica crediamo che la missione della politica non sia pensare alla prossima scadenza elettorale ma alla prossima generazione. E anche in questo consiste la nostra unicità.
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19 Febbraio 2015
di Alessandro Rimassa
Se 150.000 vi sembran pochi. Così Renzi brucia il futuro della scuola Matteo Renzi fa un passo avanti e 150.000 in senso contrario. Mercoledì è stato contestato al Politecnico di Torino perché ha detto che ci sono Università di serie A e di serie B. Inutile girarci attorno: ha ragione! E che il sistema scolastico nel suo complesso sia da rivedere Italia Unica ne è più che convinta, tanto che abbiamo proposto tempo pieno per tutti a materna ed elementari e obbligo scolastico fino al diploma superiore con un anno in meno di scuola, passando dagli attuali 13 a 12 anni. E sull’Università stiamo lavorando a diverse idee che presto si trasformeranno in proposte concrete. Ma, proprio per questi motivi, è assurdo che il premier dia il via a 150.000 assunzioni senza concorso di docenti nella scuola. Non ce l’abbiamo coi precari della scuola: al contrario. Ma non pensiamo che un’assunzione indifferenziata, ope legis, seguendo schemi vieti di assistenzialismo in usi negli anni ’70 e sia la strada giusta. Forse sana errori precedenti commettendone però uno ancor più grave: compromettere il futuro del Paese, che passa attraverso la formazione dei nostri bambini e ragazzi. Una ricerca della Fondazione Agnelli ha ben sottolineato come ci siano problemi di mismatch territoriale e disciplinare, di equità e di conoscenza del profilo professionale (tra i probabili assunti ci sarebbe chi non insegna da tempo e chi addirittura non ha mai 35
insegnato): “L’idea di assumere tutti i precari storici delle Graduatorie ad Esaurimento, se realizzata senza radicali correttivi, potrà avere effetti molto negativi, con il rischio di abbassare la qualità dell’offerta formativa e ostacolare nei prossimi anni il rinnovamento della scuola italiana e del corpo docente”. C’è da aggiungere qualcosa? Poco serve parlare di nuove materie, dalle lingue straniere al coding (il linguaggio di programmazione informatica) se si assume chi non sarà in grado di insegnarle e di fatto non si avranno poi più fondi per scegliere docenti preparati e competenti. La domanda quindi è una sola: la #Buonascuola proposta dal governo, che nel dossier redatto da esperti competenti ha sicuramente spunti interessanti e che grazie alle consultazioni condotte su tutto il territorio si è arricchito di idee valide, è un progetto serio per il Paese o un paravento dietro cui nascondere un’operazione di consenso, puramente elettoralistica? Sono 150.000 scommesse sul futuro o 150.000 segni sul simbolo del PD? Di certo sono 150.000 passi da gamberone. Di certo dimostra che Matteo Renzi non ha né un progetto concreto e di ampio respiro né le idee chiare, ma presta più attenzione a conquistare la scena mediatica. Di certo è un colpo al sistema formativo italiano, perché per rimediare ai tanti errori del passato si attenta al futuro dei nostri figli, che passa attraverso la qualità della scuola.
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20 Febbraio 2015
di Marco Marazza
L’illusione del lavoro creato per legge I decreti attuativi del Jobs Act così come annunciati dal Governo al termine di un complicato Consiglio dei Ministri sono destinati a non risolvere i problemi di disorganicità della tanto proclamata riforma del lavoro. Italia Unica è da sempre convinta che il Jobs Act abbia dei gravi problemi di impostazione, a partire dal fatto che le novità riguardano solo i nuovi assunti scaricando inutilmente sulle nuove generazioni una eccessiva dose di flessibilità che poteva e doveva essere distribuita con maggiore equilibrio. Ma ora ciò che emerge è il rischio di un inaccettabile arretramento nella flessibilità in entrata rispetto alla situazione attuale. Sul contratto a tutele crescenti sarebbe un grave errore insistere su ulteriori e artificiose differenziazioni. Contrariamente a quanto richiede una parte significativa del PD, il nuovo regime, già ingiustificatamente riservato ai soli nuovi assunti, dovrebbe non solo essere applicabile anche ai licenziamenti collettivi ma, soprattutto, a tutti i pubblici dipendenti. Sul riordino dei contratti di lavoro, invece, è solo un’illusione l’idea che il contratto a tutele crescenti sia lo strumento che possa accompagnare l’inserimento di tutti i lavoratori flessibili. Un contratto che rende il lavoratore più facilmente licenziabile ma che nulla di nuovo aggiunge sui temi della produttività, dell’orario di lavoro, delle nuove tecnologie. L’unica flessibilità che il Governo considera, quella delle mansioni, per come è congegnata è inevitabilmente destinata ad alimentare costosi contenziosi giudiziali. Pensare che nell’era della digitalizzazione e del terziario avanzato questo cosiddetto contratto a tutele crescenti – in tutto identico all’attuale contratto di lavoro subordinato, se non per la disciplina dei licenziamenti – possa accogliere tutti gli attuali lavoratori flessibili rievoca la suggestione errata che il lavoro si possa creare per legge, con una imposizione. Non è così. Se un’impresa ha esigenze produttive discontinue, servono strumenti in grado di assecondare queste specificità e non serve complicare le modalità di utilizzo del lavoro intermittente. Se un lavoratore vuole gestire liberamente la sua professionalità nel mercato, magari a fronte di maggiori prospettive di guadagno, deve poter utilizzare contratti adeguati a tale scopo. Ed è per questo che il lavoro autonomo, al contrario di quanto dichiara il Premier in queste ore, non può essere eliminato, ma deve essere più razionalmente regolamentato consentendo l’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative, quelle vere e non quelle usate per coprire il lavoro di chi in realtà è un dipendente, per tutti i lavoratori più professionalizzati che aspirano ad una gestione autonoma dei tempi di lavoro. Pensare che queste naturali esigenze del mercato possano essere anestetizzate dagli sgravi contributivi previsti esclusivamente per gli assunti nel 2015 con il contratto a 37
tutele crescenti, in una prospettiva di verifica dell’impatto della riforma che guarda solo al brevissimo termine, può essere una mossa politicamente scaltra ma certamente perdente nel medio-lungo periodo. La finalità meramente elettorale degli sgravi concessi dal governo finirà per scontrarsi con le conseguenze di una pericolosa alterazione della concorrenza tra imprese e con i costi dei trattamenti di disoccupazione che dovremo sostenere per i tanti che verranno licenziati al termine delle agevolazioni. La visione di Italia Unica è diversa, guarda più avanti. Molto meglio concentrare tutte le risorse disponibili, anche quelle del progetto Garanzia Giovani che ad oggi sono del tutto inutilmente impiegate, per defiscalizzare l’inserimento di giovani disoccupati e il reinserimento degli anziani con contratti a contenuto formativo di facile e pronto utilizzo. Ogni altra risorsa disponibile dovrebbe invece essere utilizzata per defiscalizzare il salario di produttiva riconosciuto dalla contrattazione collettiva aziendale a fronte di recuperi di efficienza organizzativa chiari ed oggettivi o semplicemente concorrere ad una riduzione lineare – per tutti, nuovi assunti e non – del cuneo fiscale. Nei decreti neanche una parola, poi, sugli strumenti che dovrebbero consentire il necessario raccordo tra scuola e lavoro, oggi bloccati da un contratto di apprendistato, che il Governo sembra orientato a confermare sostanzialmente così com’è, talmente complicato da risultare di fatto inutilizzato. E ciò mentre per il raccordo tra scuola e lavoro basterebbe valorizzare il lavoro accessorio per consentire agli studenti di integrare il loro percorso di studi con esperienze lavorative gestite dai datori di lavoro senza alcun appesantimento burocratico. E’ sbagliata, infine, anche l’idea di portare avanti una riforma del lavoro senza valorizzare il confronto tra le parti sociali e la contrattazione collettiva, che certamente merita una nuova cornice di regole certe ed esigibili. Anzi, il punto di partenza dovrebbe essere proprio questo, perché per una vera e duratura riforma del lavoro utile per il Paese prima del merito sarebbe bene avere le idee chiare sul metodo..
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23 Febbraio 2015
di Massimo Brambilla, Riccardo Puglisi
3,6%: il nuovo numero magico del renzismo Pensavate di avere un po’ di pace dopo i mesi passati a farvi rintronare le orecchie con il 40,8% di voti presi dal PD alle elezioni europee? (si badi bene, con il 44% tra schede bianche, nulle ed astensioni) Ci spiace deludervi, ma ecco spuntare il nuovo numero magico della propaganda renziana: 3,6%, che misurerebbe l’effetto totale delle riforme attuate o promesse dal governo sul PIL da qui al 2020. Prima che andiate a stappare una sequenza di bottiglie di champagne, vi invitiamo a riflettere su alcuni punti che la #MelassaRenziana sui media eviterà accuratamente di menzionare. Primo punto: non è una crescita annua ma cumulata (cioè non è il nuovo tasso di crescita della nostra economia ma la somma degli effetti sulla crescita nei prossimi cinque anni; un dato non solo non significativo ma anche poco verificabile): attenti al trucchetto di fornire un numero più grosso solo perché si sommano gli effetti di 5/6 anni, andando appunto a valutare di quanto sarebbe più alto il PIL nel 2020 grazie alle riforme ideate dall’attuale esecutivo rispetto all’andamento del PIL in assenza di tali riforme. La risposta a questo trucchetto consiste banalmente nel calcolare la somma degli effetti annui di queste riforme, che è pari circa allo 0,7%: niente di fantasmagorico, vero? Rimettiamo lo champagne in frigo.
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Secondo punto: spesso Renzi non c’entra nulla con le riforme che generano i suddetti effetti. A quale riforme si sta facendo riferimento? Nel nostro misto di pignoleria e gufaggine – in realtà stiamo facendo quello che banalmente tutti i partiti di opposizione, dovrebbero fare – abbiamo studiato con attenzione il documento dal ridondante titolo “2014: A turning point for Italy” (2014: Un punto di svolta per l’Italia) pubblicato nei giorni scorsi sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze . Il documento ha come oggetto l’impatto sulle prospettive dell’economia italiana delle mirabolanti riforme del Governo Renzi, distinguendo due scenari: il Trend Scenario, che include le riforme a oggi già tradotte in legge, e il Policy Scenario, che include quelle che Renzi ha promesso (disciplina in cui si è dimostrato sinora primatista mondiale). Partiamo dal Trend Scenario della Tabella 1 del documento (che riportiamo al termine dell’articolo), la quale ripartisce gli effetti aggiuntivi delle riforme in quattro categorie: • Public administration (la Legge Semplifica Italia del Governo Monti e il Decreto 90/2014 del Governo Renzi); • Competitiveness (le Leggi Semplifica Italia, Cresci Italia e Crescita del Governo Monti e il Decreto 91/2014 del Governo Renzi); • Labour Market (la legge 92/2012 del Governo Monti ed il Decreto Poletti del Governo Renzi); • Justice (la legge 155/2012 del Governo Monti, il Decreto del Fare del Governo Letta, ed il Decreto 90/2014 del Governo Renzi). Sorpresa: il Governo ammette che l’effetto di trascinamento delle riforme sino ad oggi tradotte in legge è, in grandissima parte, dovuto alle leggi prodotte dai due precedenti Governi. Inoltre, il Ministero sottolinea sempre nel medesimo documento che per le prime due categorie gli impatti previsti sono quelli quantificati nel DEF 2014 (redatto a inizio aprile 2014 e che neppure considerava i Decreti 90 e 91/2014), quindi escludendo che il Governo Renzi abbia alcun merito per l’eventuale impatto positivo delle riforme. Rimangono la categoria Labour Market e quella Justice per misurare l’impatto di quanto sinora prodotto da Renzi (anche se in verità anche qui c’è parecchio dei precedenti Governi): un impatto travolgente pari ad un incremento complessivo del nostro PIL dello 0,6% da qui al 2020 (ZERO PUNTO SEI PERCENTO), cioè poco più dello 0,1% all’anno (ZERO PUNTO UNO PER CENTO). E nel lungo termine (quando saremo tutti morti, diceva Keynes) un grasso 1,8% cumulato! Altro che champagne. Rimettiamo in frigo anche il chinotto. Le sorprese non sono finite qui: guardiamo il Policy Scenario (cioè prendiamo per buone le promesse di Renzi). E quali sono gli effetti aggiuntivi delle riforme promesse rispetto 40
alle precedenti riforme, prendendo come punto di riferimento la fatidica data del 2020? Sulla base della Tabella 1, il calcolo è semplice: si tratta del 2,5% (cioè il 3,9% meno l’1,4% che dipende dalle precedenti riforme), quindi almeno un punto in meno rispetto allo sbandieratissimo 3,6%. L’0,5% annuo. Detto in altri termini: con questo ritmo di “crescita” in assenza di altre riforme servirebbero 18 anni per tornare al PIL Italiano del 2007, e difficilmente si creerebbe occupazione stabile. Se invece in un afflato di buonismo vogliamo guardare al lungo termine (cioè oltre il 2020), gli effetti aggiuntivi delle riforme promesse da Renzi rispetto a quelle già implementate sono pari al 3,4%, cioè la differenza tra il 10,7% degli effetti rispetto a uno scenario senza riforme e gli effetti delle precedenti riforme –pari al 7,3%. Questo ben misero 3,4% di effetti aggiuntivi è in larga parte dovuto al capitolo di riforma dell’istruzione, cioè la cosiddetta #LaBuonaScuola, su cui ci si permetta di esprimere più di una perplessità, in quanto a oggi essa appare in larga parte come un’elettoralistica mega-assunzione di precari. Rimane a tutti un forte dubbio su questi numeri tanto sbandierati. Non è che si vuol far passare per effetti delle riforme una parte degli effetti automatici delle politiche di Draghi e degli Emiri del petrolio? Tassi di interesse a zero, cambio dell’Euro molto favorevole, costo del petrolio dimezzato: queste circostanze favorevoli rappresentano un triplo dividendo che nei prossimi cinque anni potrebbe portare, cumulativamente, una decina di punti percentuali di PIL in più. Se questa crescita non ci sarà vorrà dire che il nostro Governo tiene il freno a mano tirato. In sintesi questi sono i numeri con cui lo stesso Governo ammette l’irrilevanza della propria azione rispetto all’obiettivo di stimolare la crescita economica. Pertanto, quando Renzi si presenterà in TV come salvatore della Patria (leggi: tutti i giorni prossimi venturi) il migliore commento resta quello del caro e vecchio Totò: ma ci faccia il piacere.
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25 Febbraio 2015
di Luigi Massa
Responsabilità civile dei magistrati: cambiare non è riformare Ebbene, dopo decenni di tentativi e roventi polemiche non certo sopite, la Camera dei Deputati ha approvato definitivamente la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, con l’astensione di Lega, Fi, Sel, Fdi e gli ex M5S di “Alternativa Libera” ed il solo voto contrario del M5S, che ha modificato la propria posizione rispetto al voto favorevole espresso al Senato. In attesa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del testo normativo, non poteva, però, mancare il tweet festoso e giubilante del nostro Presidente del Consiglio dinanzi al fatto che fosse finalmente legge la responsabilità civile dei magistrati. Interessato dimentico che una legge già ci fosse, infatti, il nostro Premier non poteva certo lasciarsi sfuggire l’ennesima occasione per spacciare come riforma epocale ciò che, invece, a ben riflettere, altro non è che un cambiamento tutto sommato annacquato della legge Vassalli, con profili di criticità che non mancheranno di emergere nel prossimo futuro. Ad ogni buon conto, che un intervento teso a rendere più efficaci le norme in materia fosse necessario non v’è dubbio. Vale, perciò forse la pena di accogliere il provvedimento appena varato, se non come una svolta, quanto meno come un passettino in avanti, sebbene timido e un po’ claudicante. Ma come si è arrivati a questo passaggio, comunque, atteso? I meno giovani ricorderanno come corresse l’anno 1987, allorquando, sull’onda emotiva, e non solo, del caso Tortora, i cittadini italiani furono chiamati a pronunciarsi in merito alla responsabilità civile dei magistrati, con un referendum abrogativo della normativa esistente promosso dai Radicali di Pannella, i Socialisti di Craxi e i Liberali di Biondi, cui si aggiunsero solo a fine corsa i Comunisti di Natta, finalizzato ad ottenere che i magistrati potessero rispondere, non solo degli errori giudiziari ma, soprattutto, dei danni procurati ai cittadini per colpevole leggerezza, imperizia o negligenza. Come noto, il referendum fu vinto con oltre l’80 per cento di “si”. Tuttavia, come nella più costante prassi parlamentare, ci pensò la Legge 13 aprile 1988 n. 117, promossa dall’allora Guardasigilli del governo Craxi, Giuliano Vassalli, a sterilizzare nella sostanza gli effetti ben più incidenti del pronunciamento popolare. Le legge n.117/88, infatti, introdusse in via principale la responsabilità diretta dello Stato e solo in via residuale l’azione di rivalsa (artt. 7 e 8) nei confronti del magistrato, entrambe 43
rilevabili solo nella ricorrenza di “dolo” e “colpa grave” (artt. 2 e 3) nell’esercizio delle sue funzioni ovvero conseguente “a diniego di giustizia”, così escludendo ogni ipotesi di responsabilità piena e diretta del magistrato. Contestualmente, si escluse potesse essere fonte di responsabilità per il magistrato “l’attività di interpretazione di norme di diritto” oppure quella “valutazione del fatto e delle prove”. L’azione risarcitoria riconosciuta in capo al cittadino che avesse subito un danno ingiusto, poi, nel caso di danno non patrimoniale veniva ulteriormente condizionata alla sola ipotesi che esso fosse derivato “da privazione della libertà personale”. Si introdusse, altresì, un filtro preliminare di ammissibilità (art. 5), per consentire all’autorità giudicante, in composizione collegiale, di valutare il rispetto dei termini e dei presupposti dell’azione ovvero di rilevarne la manifesta infondatezza. Si stabilì, infine, che la misura della rivalsa (art. 8) verso il magistrato riconosciuto responsabile del danno non potesse superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio salva l’ipotesi del fatto commesso con dolo. Orbene, a distanza di più di 27 anni dall’introduzione delle legge Vassalli, i risultati del sistema creato dal legislatore del 1988 erano là a denunciare il sostanziale fallimento dell’impianto normativo e la grave derubricazione delle finalità sottese al pronunciamento referendario da cui prese le mosse: 406 cause avviate dai cittadini nei confronti dello Stato (non del magistrato) e solo 4 di queste arrivate ad una condanna. Il dato numerico sarebbe già stato di per sé sintomatico della necessità di rivedere la legge n.117 del 1988 e da sprono ad una riforma seria dell’Istituto, ma solo in tempi recenti la più forte spinta delle regole europee e della giurisprudenza delle corti sovrannazionali ha reso non eludibile un intervento riformatore. Infatti, solo sulla base di alcune pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-173/03 – Traghetti del Mediterraneo e causa C-224/01 – Köbler), esitate nella più recente sentenza 24 novembre 2011 resa nella causa C-379/10 “Commissione c. Italia”, in uno alla più cogente necessità di far fronte alla conseguente procedura di infrazione promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della norma italiana sulla responsabilità civile del magistrato, si sono moltiplicate le proposte legislative tese ad una riforma della Legge Vassalli. Peraltro, non senza scontare strumentali interpretazioni della posizione espressa dalla Corte di Giustizia UE che, lungi dall’esprimersi in merito alla responsabilità personale del magistrato, si era invece interessata esclusivamente della responsabilità dello Stato per danni arrecati a singoli individui a seguito della violazione del diritto dell’Unione (e non del diritto interno) operata da parte dell’organo giurisdizionale di ultimo grado.
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In sintesi, secondo la Corte, quando fosse accertata una violazione del diritto dell’Unione, il giudice italiano (nel caso di specie, la Cassazione) che fosse chiamato a decidere sulla base dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n.177 del 1988, avrebbe dovuto interpretare l’espressione “violazione di legge con colpa grave” di cui all’art. 2 citato, in modo equivalente a “violazione di legge in maniera manifesta”, poiché tale era ed è la nozione accolta dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia per casi di questo tipo. Secondo gli “eurogiudici”, dunque, nel caso di specie, l’interpretazione offerta dalla Cassazione, diversa da quella offerta dalla giurisprudenza europea, si palesava erroneamente più restrittiva, di fatto limitando i diritti del singolo, soprattutto a fronte della clausola di salvaguardia di cui all’art.2, co.2 (esclusione di responsabilità per “l’attività di interpretazione di norme di diritto” e “quella di valutazione del fatto e delle prove”), con ciò ponendosi in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell’Unione. Sebbene, dunque, la questione affrontata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ovverosia il principio del risarcimento dei danni per violazione del diritto comunitario, non investisse né involgesse la responsabilità personale del giudice, ma soltanto la responsabilità dello Stato, così salvaguardando i principi di autonomia e indipendenza del potere giudiziario, non sono stati pochi coloro che hanno, nel tempo, surrettiziamente brandito la spada di Damocle europea per sostenere la necessità di una responsabilità civile diretta in luogo di quella indiretta introdotta dalla Legge Vassalli. D’altra parte, sarebbe bastato uno sguardo comparato alle legislazioni degli altri Paesi europei per depotenziare e rendere poco spendibile l’argomento europeista a sostegno della tesi di responsabilità diretta del magistrato. In Francia, per esempio, è lo Stato a rispondere, in via prioritaria, degli eventuali danni (e interessi) determinati dall’amministrazione della giustizia nei confronti di coloro che sono ad essa sottoposti, sulla base di tre diversi regimi di responsabilità civile dei magistrati (Code de l’organisation judiciaire, artt. L 141-1 e ss.), tutti comunque fondati su un’azione diretta solo verso lo Stato, fatta salva la facoltà dello Stato stesso di rivalersi sul magistrato. Così, in sostanza, anche in Germania, dove la Legge fondamentale tedesca (Grundgesetz – GG), all’articolo 34, sancisce la responsabilità dello Stato (Federazione o Land) in caso di violazione dei doveri della funzione da parte di un giudice. Nel Regno Unito, addirittura, trova applicazione un generale principio di esonero da responsabilità civile del magistrato per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, radicato nel Common Law a presidio dell’indipendenza della magistratura (financo quella onoraria), salvo un temperamento determinato dall’incorporazione nel diritto interno della CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), rappresentato dallo Human Rights Act 1988, che, in attuazione dell’art. 5 della Convenzione, ha riconosciuto il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione.
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In Spagna, infine, dove la normativa in materia di responsabilità civile dei giudici e dei magistrati è contenuta in alcuni articoli della Ley Orgánica 6/1985 del Poder Judicial (LOPJ), con la previsione di una loro responsabilità civile per i danni e i pregiudizi causati quando, nello svolgimento delle loro funzioni, incorrano in “dolo” o “colpa” (art. 411). Accanto a questa responsabilità di tipo personale del magistrato o giudice, esiste poi anche una responsabilità patrimoniale dello Stato per gli errori giudiziari, per il funzionamento anomalo dell’amministrazione della giustizia e per l’ingiusta carcerazione preventiva. Nessuna sorpresa, dunque, che anche il Governo Renzi abbia inteso promuovere una modifica della Legge Vassalli, riproponendo la responsabilità indiretta dei magistrati, pur con alcuni aggiustamenti di evidente compromesso. Così, dunque, il provvedimento licenziato dalla Camera rivede le condizioni per chi ha subito un danno conseguente ad un comportamento o un atto di un giudice con dolo o colpa grave o per diniego di giustizia, prevedendo che egli possa agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, anche se i danni non derivino da privazione della libertàpersonale, come invece accade ora. Mentre la legge Vassalli, poi, prevedeva che non potesse mai dare luogo a responsabilitàl’attivitàdi interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove; con le nuove norme, invece, questa clausola di salvaguardia viene limitata, escludendola nei casi di dolo e colpa grave. Sulla spinta delle sentenze della Corte di Giustizia UE, inoltre, le fattispecie di colpa grave vengono ridefinite in: • violazione manifesta della legge o del diritto dell’Ue; • travisamento del fatto o delle prove; • affermazione di un fatto la cui esistenza è esclusa incontrastabilmente dagli atti del procedimento o negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; • emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge o senza motivazione. Per la determinazione dei casi in cui c’è violazione manifesta della legge, inoltre, si stabilisce si debba tener conto «del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilitàe gravitàdell’inosservanza» Si portano da due a tre anni i tempi per presentare domanda di risarcimento del danno. Viene del tutto abrogato il filtro di ammissibilità della domanda di risarcimento presentata dal cittadino. 46
Inoltre, risultano ampliati l’ambito ed i termini dell’azione di rivalsa dello Stato verso il magistrato, da esercitarsi entro due anni (oggi è un anno) dal risarcimento in tutti i casi di: – diniego di giustizia oppure quando la violazione manifesta della legge nazionale o europea oppure il travisamento del fatto o delle prove sono stati determinati «da dolo o negligenza inescusabile». La nuova legge, infine, ridisegna anche la misura della rivalsa, aumentandola fino a un massimo della metà di un anno di stipendio netto (fino ad oggi il tetto era fissato a un terzo). Nessuna riforma epocale, dunque, come nessuna ingegnosa novità sotto il sole, ma modesto cambiamento di un sistema già fallito e, comunque, demolito dalla giurisprudenza europea che, sebbene abbia offerto a Renzi l’occasione di intestarsi il provvedimento per evitare la scure della procedura d’infrazione europea, ha però lasciato sul tavolo diversi nodi da risolvere e sbilanciamenti alla lunga devastanti. In primis, non si fa fatica ad immaginare le conseguenze insidiose che possano venire dall’aver ridefinito la colpa grave anche nei termini di “travisamento del fatto e delle prove”, con ciò immettendoun elemento che potrebbe influire sulla libertà interpretativa del magistrato e indurlo ad opzioni meno perigliose per lui, ma forse anche meno evolutive per il diritto. Altra questione irrisolta sta nell’aver esautorato ogni filtro di ammissibilità a monte, senza però aver concepito un bilanciamento che, per esempio, sanzioni adeguatamente colui che eserciti un’azione di responsabilità a fini meramente intimidatori o ritorsivi, alla stregua della lite temeraria in sede civilistica. L’occasione, poi, poteva essere propizia anche per un’impostazione complessiva diversa che superasse il sospetto di un circuito auto-referenziale e corporativo, laddove siano magistrati a giudicare l’operato di altri magistrati. D’altra parte, non di rado la c.d. autodichia o giurisdizione domestica nel nostro Paese ha finito per risolversi in una sorta di giurisdizione “addomesticata”, dove gli appartenenti ad una specifica categoria professionale tendano a “preservare la specie”, con giudizi disciplinari o giurisdizionali dagli esiti quasi sempre abbastanza compassionevoli. Una riforma sì epocale e storica, dunque, avrebbe dovuto considerare la possibilità di ricalibrare anche questo aspetto su basi davvero nuove, magari con la configurazione di un’Autorità indipendente cui demandare certi delicati giudizi, ma, di certo, questo avrebbe significato anche una capacità di analisi strutturale e complessa poco funzionale alla corsa forsennata al cambiamento “purché sia”, cui Governo e Parlamento ci stano abituando. Il passetto avanti, perciò, resta. E se sia vera gloria o vanagloria renziana lo dirà la storia. Al momento, però, è la solita storia: cambiare non è riformare. 47
1 Marzo 2015
di Corrado Passera
Il caso Parma, un calcio da ripensare Premessa, amo lo sport ma non sono un tifoso di calcio. Mi piace l’idea della competizione sana, avvincente sul piano tecnico e scaldata da un tifo colorato e gioioso e – come il mio amico Giovanni Malagò – credo che con lo sport si possa unire il Paese, portando avanti politiche di integrazione, educazione, salute e vivibilità. Quanto però sta accadendo in queste settimane al Parma Calcio non può lasciare nessuno indifferente, in special modo chi – come me – ha scelto di impegnarsi in politica fondando un partito, Italia Unica, che al binomio sport-società dedica una parte importante del suo programma di rilancio del Paese. Che una squadra non possa giocare, che una tifoseria venga abbandonata, che una città sia frastornata e presa in giro da un tourbillon di presunti mecenati del pallone è semplicemente inaccettabile. E non stiamo parlando di una squadra di terza categoria, ma di un team di serie A, con atleti forti e un allenatore serio. Vanno introdotte regole chiare sulla proprietà delle squadre di calcio, non è che chiunque può comprarsi una squadra di calcio e il permanere delle condizioni va tenuto sotto controllo nel tempo. Esperti e addetti ai lavori si sono interrogati a lungo su come questo sia potuto accadere. Non aggiungo altro se non il pensiero di chi, per trent’anni impegnato a guidare aziende nel privato e nel pubblico, nel profit e nel no profit, non crede possibile che gli organismi preposti, la Lega Calcio in primis, ma anche la Figc non sapessero. Al di là del campionato falsato, delle umiliazioni subite dagli atleti, dai dipendenti della società e dei tanti tifosi, che forse andrebbero indennizzati attraverso una class action, mi colpisce che i vertici del calcio – lo sport nazionale! – si rimpallino le responsabilità. La questione Parma va affrontata con serietà, non con i riti stanchi delle corporazioni. In concreto, la Lega sostenga i costi essenziali per permettere al Parma di terminare dignitosamente il campionato, si faccia chiarezza al più presto nei conti societari del club, allontanando gli incapaci e punendo i responsabili di un default incomprensibile, e si apra un tavolo politico serio per evitare nuovi casi-Parma. La serietà di un Paese passa anche attraverso le sue espressioni sociali e collettive. Vedere che il calcio si fa autogol in questo modo è inaccettabile. Vogliamo ospitare le Olimpiadi nel 2024? Bene, cominciamo a sommare meriti, non errori, e potremo giocarci al meglio anche quella partita. E forza Parma! 48
4 Marzo 2015
di Massimo Brambilla
Governo, Telecom e rispetto degli azionisti Tanto tuonò che alla fine non piovve. Il documento relativo alla Strategia Italiana per la Banda Ultra Larga e la Crescita Digitale, presentato all’esito del Consiglio dei Ministri del 3 Marzo, pare non contenere (almeno per ora) l’editto di sapore vagamente venezuelano che avrebbe imposto a Telecom Italia (vale la pena di ricordare: società a capitale interamente privato) la rottamazione della propria rete in rame, iscritta a bilancio per un valore pari a circa 11 miliardi di Euro, la quale sarebbe stata conseguentemente oggetto di una pesante svalutazione contabile con ovvi effetti sugli equilibri economici e finanziari dell’ex monopolista. Per ora, appunto. Puntualizzazione obbligata in quanto, come nello stile della casa Renzi, al momento è stato presentato unicamente un documento di indirizzo e non un testo legislativo, con il rimando a successive non meglio specificate misure ad hoc, da includere in un ancora più vago provvedimento specifico. Detto questo rimane a chi ha osservato la vicenda il sapore amaro in bocca di un possibile provvedimento che avrebbe interferito con le strategie di un operatore privato, in totale dispregio dei legittimi interessi patrimoniali dell’azionariato dello stesso. Una totale mancanza di attenzione nei confronti di aziende, investitori e mercato in perfetta continuità con una serie di altre misure già partorite dal nostro Governo, dalla revoca con effetti retroattivi del previsto taglio dell’aliquota IRAP, al rinvio di 6 mesi rispetto alla scadenza di fine marzo per l’approvazione della legge delega fiscale (richiesta dall’Unione Europea al fine di semplificare il nostro bizantino sistema tributario), alla dieta imposta al disegno di legge annuale sulla concorrenza (a sua volta richiesto dall’Antitrust) che ne ha eliminato all’ultimo minuto gran parte dei provvedimenti volti a liberalizzare interi comparti del settore dei servizi, ai ritardi relativi alle riforme della pubblica amministrazione e della giustizia civile, alla poco trasparente cessione di una partecipazione di riferimento in CDP Reti ad una società controllata dal Governo Cinese fino all’ambiguità sinora dimostrata in 49
merito alla vicenda Mediaset/Rai Way (che induce anche l’osservatore più benevolente a pensare male). In sintesi, il Governo dimostra che il professato #cambiaverso non va a modificare l’abitudine dei nostri esecutivi di subordinare la tutela dei diritti degli investitori e la certezza del diritto all’opportunità politica del momento, abitudine che negli anni ha portato il nostro Paese al 56esimo posto della classifica redatta dalla Banca Mondiale relativa all’attitudine di un sistema economico in termini di semplicità di avviare e gestire un’impresa (terz’ultimi tra i Paesi classificati ad alto reddito dall’OECD, prima solo di Grecia e Lussemburgo). Con l’ovvia conseguenza di dissuadere investitori finanziari e strategici relativamente a impiegare risorse finanziarie e manageriali nel nostro Paese, come dimostrato dal dato che prova che, nonostante le tante eccellenza manifatturiere italiane, a fine 2013 lo stock di investimenti diretti esteri in rapporto al PIL Italiano era pari al 32% della media dell’Unione Europea. Il tutto mentre il QE avviato dalla Banca Centrale Europea immetterà nel mercato 60 miliardi di Euro al mese di nuova liquidità, la quale, per trasmettere i propri effetti all’economia reale e non limitarsi a gonfiare i valori degli strumenti finanziari rischiando di creare una nuova pericolosa bolla speculativa, richiede, come peraltro più volte ricordato anche dallo stesso Mario Draghi, riforme strutturali all’insegna della chiarezza del quadro offerto agli investitori. Riforme che devono essere attuate subito a non tra 1000 (che nel frattempo sono diventati molti meno) giorni. Questo perché a chiunque abbia abitudine a frequentare i mercati e non solo le segreteria dei partiti, non sfugge che l’elemento temporale di introduzione di un nuovo prodotto o servizio è uno degli elementi fondamentali ai fini di prevederne il relativo successo. In un mondo sempre più competitivo e caratterizzato da una tendenziale riduzione delle prospettive di crescita del PIL globale, la competitività di un sistema economico si gioca sulla capacità di attirare investimenti stranieri. Per farlo, un Governo deve innanzitutto dimostrare prevedibilità e coerenza nella propria azione, quella prevedibilità e quella coerenza che riducono il profilo di rischio percepito di un Paese e consentono ad un investitore di prevedere i ritorni dei propri investimenti. Chi scrive ritiene che, con l’unica eccezione delle infrastrutture strategiche, lo Stato debba essere arbitro e non giocatore in economia. Ma il buon arbitro è quello che applica con coerenza le regole, non quello che cambia l’interpretazione della regola del fuorigioco ad ogni azione. Se no, non c’è da stupirsi che prima o poi i giocatori smettano di giocare. Certo nell’epoca della politica spettacolo, del leader solo al comando, delle alleanze estemporanee e dei tweet, predicare la coerenza e la prevedibilità come principio ispiratore dell’azione di Governo può sembrare un po’ fuori moda. Ma in questo sta la differenza tra chi ha il profilo dello statista e chi ne è privo (con o senza elicottero): il sapere guardare al di là delle mode.
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6 Marzo 2015
di Andrea Catizone Folena , Roberto Cuccarini , Lorenzo Antonini
Così il Governo commissaria il terzo settore Il Governo dimostra di non avere fiducia nel Terzo Settore e di fatto lo commissaria. Questi sono gli effetti dell’emendamento all’art. 2 della normativa che riforma il Terzo settore che lascia i poteri di monitoraggio e controlli in capo al Ministero del Welfare. Il principio di in sé risponde ad una finalità corretta, soprattutto alla luce degli scandali di Mafia Capitale, ma applica un metodo sbagliato che mette sotto vigilanza e tutela forzata la moltitudine di realtà associative che operano nel terzo settore. Considerando il ruolo di supplenza, svolto dal mondo del volontariato e del no profit, alle inefficienze dello Stato e delle Amministrazioni locali di erogare servizi e di assistenza ci si sarebbe aspettati un atteggiamento, se non di gratitudine, quantomeno di rispetto. Invece di trasmettere fiducia, di rimboccarsi le maniche, di ampliare lo sviluppo del Terzo Settore, si svolta, ancora una volta, nella direzione opposta, quella dirigista. La soluzione più adeguata ed anche la più semplice sarebbe stata il ripristino con gli opportuni aggiustamenti, dell’Agenzia per il Terzo settore tagliata inspiegabilmente dal precedenti governo Monti per semplici motivazioni contabili, che nel suo ruolo di terzietà non solo avrebbe avuto la funzione di ricostruire un rapporto di fiducia tra i cittadini e questo mondo di prossimità, ma anche un luogo ideale per garantire la correttezza e la trasparenza del settore senza mettere sotto tutela un ambito così fondamentale e delicato. In seno all’Agenzia o all’Authority si sarebbero dovuti predisporre tutti gli strumenti per promuovere adeguati sistemi di auto-controllo degli enti capaci di rendere trasparenti e conoscibili le attività svolte dai vari enti. Un’altra occasione mancata che avrà delle ripercussioni sui servizi e sull’assistenza di cui usufruiscono milioni di cittadini italiani. Invece di guardare al futuro, di far crescere una nuova consapevolezza e una nuova responsabilità, si riabbracciano gli errori del passato, per non dire del trapassato. Ora aspettiamo solo i piani quinquennali.
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10 Marzo 2015
La scuola di Italia Unica. Un patto tra gli italiani di oggi per gli italiani di domani Merito e ideali per ridare al sapere il ruolo centrale della società Al centro del futuro dell’Italia c’è l’istruzione che diamo oggi ai nostri figli. Al centro della scuola ci sono le persone che la vivono: gli studenti, le loro famiglie, gli insegnanti, il personale non docente. Non è retorica. Nei paesi avanzati è la qualità del capitale umano la più importante delle leve per competere nel mondo. Sebbene la crisi economica abbia inferto un duro colpo alla fiducia degli Italiani negli “investimenti” a lungo termine, inclusi quelli formativi, come dimostra il costante calo delle immatricolazioni all’università, è ancora vero che chi studia ha più possibilità di farcela, di trovare il proprio posto nel mondo, migliorare la propria condizione sociale di partenza, trovare un buon lavoro. Con merito e soddisfazione propri e del Paese che lo ha garantito. Lo stato di salute del sistema di istruzione italiano è “a macchia di leopardo”. La scuola primaria è in generale di discreta qualità, ma assai limitata nei tempi e nelle strutture; 52
molti dei nostri licei sono fra i migliori al mondo, come sperimentano gli studenti italiani che trascorrono un semestre o un anno all’estero, o quelli che vengono ammessi nelle migliori università straniere. Molti altri dati, però, sono preoccupanti. Troppi studenti italiani “performano” male ai test comunitari/PISA e colpisce il divario tra Settentrione e Mezzogiorno: mentre il Nordest raccoglie risultati da primo della classe in Europa nelle competenze matematiche, il Sud arranca sotto la media in tutte le aree. Un altro grave problema del nostro sistema di istruzione è la dispersione scolastica, in Italia più alta che nel resto d’Europa (il 17,6% contro il 12,8%), la cui causa principale può esser fatta risalire allo scarso orientamento che viene dato ai giovani e alle loro famiglie. Il Paese perde così possibili talenti, con grave danno sia per gli individui coinvolti che per il sistema economico, sociale e civile. Il Governo attuale sta destinando 3 miliardi all’anno a una maxi-assunzione di precari, ope legis, senza passaggio da un vero concorso per la maggioranza dei 150.000. Si tratta di una scelta sbagliata: perché avvelena i pozzi e consegna per decenni i nostri ragazzi a 150.000 persone la cui bravura e competenza non è, in parte, passata attraverso il vaglio di un concorso. Tre miliardi di euro all’anno sono una cifra enorme, si tratta di 30 miliardi in un decennio (aggiuntivi rispetto a quelli già stanziati per l’edilizia scolastica), che potrebbero davvero fare la differenza per le nostre scuole, che, se ben investiti, le metterebbero al passo coi tempi e con i migliori standard internazionali. Noi diciamo di destinare questi 30 miliardi ai dieci obiettivi per la scuola di Italia Unica. Se, tuttavia, guardassimo solo agli aspetti “tecnici” ci limiteremmo a un miglioramento superficiale della nostra scuola, lo stesso errore che stanno commettendo tutti i Governi. Non basta. L’efficienza dei metodi d’insegnamento, l’apprendimento di materie moderne, l’inglese e l’economia sono solo un pezzo della grande trasformazione che serve. La scuola è soprattutto il campo in cui rifondare la civiltà italiana del ventunesimo secolo – quindi è il terreno più politico che ci sia – e non dobbiamo avere paura di ripensarla con ideali profondi e nobili. Questo significa reimpostare i programmi scolastici non soltanto per formare persone in grado di inserirsi nel mondo del lavoro e di rimanerci o in grado di affrontare gli studi universitari, ma cittadini dotati di senso critico e in grado di valutare ciò che succede intorno a loro sia dal punto di vista economico che sociale. L’educazione civica intesa cioè non solo come conoscenza del funzionamento delle istituzioni, ma come condivisione dei nostri valori costituzionali nella loro applicazione a un mondo in evoluzione sempre più rapida. Quelle che seguono sono le idee di Italia Unica per un grande patto tra gli italiani, che torni a fare della scuola un potente ascensore sociale in una società dinamica, capace di premiare i tanti diversi talenti senza lasciare nessuno indietro, valorizzando, sul serio!, gli insegnanti più capaci e più impegnati. Ma, soprattutto, queste nostre proposte hanno il coraggio di vedere nella scuola il principale investimento culturale e civile dell’Italia che verrà. Dopo decenni in cui l’istruzione è stata ridotta e svilita a basso pragmatismo e ad inutile nozionismo, oltre che a macchina assistenzialista e clientelare nei casi peggiori, noi vogliamo – invece, finalmente – collegarla ai grandi valori che ci possono rendere di nuovo pionieri nel mondo. 53
Innoviamo con coraggio e buon senso la scuola italiana, mettendola al passo coi tempi e rinnovando contenuti e cicli scolastici valorizzando quanto di buono c’è 1.
Far guadagnare un anno di vita a tutti portando da 13 a 12 gli anni di studio per arrivare al diploma di maturità. Come in buona parte del mondo. Portare l’obbligo scolastico da 10 a 12 anni e non lasciarsi più indietro le centinaia di migliaia di giovani che oggi si perdono per la strada. E’ necessario ripensare i cicli scolastici per guadagnare un anno di vita, allineandoci a modelli di successo internazionali: intendiamo passare dagli attuali 13 anni a soli 12 anni di scuola primaria e secondaria, ma portando tutti al diploma di scuola media superiore. Grazie al risparmio ottenuto dal taglio di un anno di scuola superiore, pari a circa 3,5 miliardi di euro annui, potremo finanziare la maggior parte del costo di asili nido, scuole materne ed elementari a tempo pieno per tutti.lavoro.
2. Assicurare maggiori pari opportunità di partenza garantendo a tutti scuola materna ed elementare a tempo pieno. Con possibilità di iniziare la prima elementare a cinque anni. Un paese civile deve garantire scuola materna e scuola elementare a tempo pieno per tutti. Sono anni quelli pre-elementari estremamente importanti per la formazione e in molti casi possono dare la possibilità di iniziare la prima elementare a cinque anni (portando a due gli anni di vita “guadagnabili” rispetto ad oggi). Si tratta di un obiettivo realizzabile anche attraverso iniziative di autorganizzazione, aziendali e in generale di Terzo Settore, per esempio con l’uso di voucher. Senza asili e scuole primarie a tempo pieno per tutti si impedisce il raggiungimento delle condizioni d’eguaglianza di partenza e si rende ancora più difficile l’inserimento delle madri nel mondo del lavoro.
3. Arricchire la scuola nei metodi di insegnamento e nelle materie (es. Arti, educazione civica, inglese). Sul serio, per tutti. Insegnare a imparare, fare e rischiare. In un mondo imprevedibile e in continuo cambiamento ciò che importa è imparare a imparare: le nozioni e le tecniche diventano subito vecchie. Serve sviluppare la curiosità e imparare un metodo di aggiornamento continuo che dovrà durare tutta la vita. In un mondo dove si vince di creatività, di imprenditorialità, di innovazione bisogna insegnare il gusto del rischio, la convivenza con l’errore, la bellezza della diversità, e serve mettere i giovani in contatto con l’arte – tutte le arti – e far loro apprezzare fin da giovanissimi la bellezza delle diversità. Nel contempo bisogna insegnare il gusto del rischio e la convivenza con l’errore. In un mondo di informazione infinita e disponibile bisogna insegnare lo spirito critico, la capacità di gerarchizzare, selezionare, collegare. In un mondo di interculturalità e di interdisciplinarità bisogna insegnare non solo l’inglese come l’italiano, ma il lavoro di gruppo, l’educazione civica, la buona condotta, le tecniche di collaborazione, la comunicazione e la gestione dei progetti, la disponibilità alla contaminazione tra saperi e capacità di visione sistemica. Bisogna 54
aumentare esponenzialmente il numero dei ragazzi e delle ragazze che riescono a passare un periodo significativo di studio all’estero durante la scuola secondaria. Tutti dovrebbero essere incoraggiati e messi in condizione di vivere una esperienza significativa di volontariato.
4. Rafforzare la formazione tecnica e professionale e assicurare maggiore integrazione tra la scuola e il mondo del lavoro. Uno dei principali problemi della scuola secondaria italiana è che gli istituti tecnici e professionali sono spesso scollegati dal mondo del lavoro, e non riescono a formare individui che siano pronti per entrarvi, al termine del ciclo di studi. Va riqualificata l’istruzione tecnica e professionale in collaborazione con il mondo delle imprese. Serve maggior collaborazione del mondo dell’impresa e del mondo della scuola nel programmare i fabbisogni; occorre valorizzare gli Istituti Tecnici e diffondere gli Istituti Tecnici Superiori per garantire educazione terziaria senza dover passare per l’università; vogliamo riqualificare la formazione professionale integrandola con quella tecnica e recuperando le enormi risorse oggi sprecate in questo settore. I campi di specializzazione delle scuole tecniche e professionali devono essere molto più numerosi di oggi, sulla scorta di quanto succede per esempio in Germania. Va aumentato esponenzialmente il numero di giovani che fanno una esperienza di vita in azienda durante la scuola secondaria.
Meritocrazia vera: promossi gli studenti e gli insegnanti migliori 5. Premiamo il merito degli studenti. Attuiamo pienamente l’art. 34 della Costituzione “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” Chi ha le capacità e mostra adeguato impegno deve poter arrivare fino al massimo della formazione anche se non in possesso dei mezzi per mantenersi agli studi: oggi non è così. Prevediamo un sistema di voucher per gli studenti meritevoli, da includere nel budget destinato al welfare famigliare, per evitare l’abbandono scolastico da parte di chi si trovi in condizioni di partenza meno fortunate.
6. Premiamo il merito degli insegnanti migliori. Carriera e riconoscimenti per i docenti che si aggiornano, si impegnano e ottengono i migliori risultati. Il ruolo e la professionalità degli insegnanti migliori meritano di essere adeguatamente riconosciuti. Rispettiamo la competenza e premiamo il merito: ci sono insegnanti capaci, che si aggiornano, che si impegnano e ce ne sono altri meno capaci, meno aggiornati e che si impegnano molto meno. Vogliamo premiare in termini di carriera, di stipendio e di graduatorie gli insegnanti con buoni risultati formativi, che fanno ricerca e aggiornamento, che si impegnano più degli altri. Pensiamo che a tal fine vada conferita maggiore autonomia alle scuole e maggiore responsabilità ai dirigenti scolastici (da formare e selezionare a loro volta). 55
Autonomia, parità alle paritarie e orientamento chiaro per scegliere bene il proprio futuro 7. Vera parità tra scuole statali e scuole paritarie: detrazioni/voucher per le famiglie, controlli di qualità rigorosi. Le scuole statali e le scuole paritarie vanno considerate come parti di un unico insieme: la scuola pubblica. Entrambe svolgono un servizio di inestimabile utilità pubblica, ed entrambe contribuiscono ad assicurare libertà, sapere e pluralismo nella società italiana. Dal livello di libertà dell’istruzione dipende il livello di libertà di un Paese, e per questo è un servizio che non può essere erogato in regime di monopolio, neppure statale. Anche nel settore dell’istruzione la competizione tra diversi istituti – statali e non – può esercitare, in un quadro di buone regole, la spinta verso un più alto livello di servizio, ottenuto con l’impiego dei migliori insegnanti, la definizione di programmi più efficaci e innovativi, l’attrazione di studenti motivati, l’offerta di servizi di orientamento in entrata e in uscita, l’utilizzo di strutture e attrezzature funzionali. Gli strumenti per assicurare a famiglie e studenti libertà di scelta ed equità sul piano contributivo possono essere diversi. Si può assegnare a ciascuno studente un voucher che incorpori il valore delle risorse efficienti destinate dallo Stato alla sua formazione, oppure un credito d’imposta alle famiglie con redditi capienti che decidano di istruire i propri figli in una scuola paritaria.
8. Maggiore autonomia alle scuole pubbliche: anche nel selezionare gli insegnanti. Vogliamo promuovere l’autonomia delle istituzioni scolastiche, sviluppando anche modelli di governance e organizzativi alternativi. Autonomia deve voler dire disporre di un minimo di risorse finanziarie, di know how e di strumenti di diritto privato per realizzare concretamente le sperimentazioni. Autonomia deve voler dire poter scegliere, almeno in parte, gli insegnanti che si considerano migliori, affidando una chiara responsabilità ai dirigenti scolastici e “debellando”, tra l’altro, la pratica degradante delle supplenze, oggi offerte a scadenze anche brevissime di settimana in settimana. Il problema delle supplenze si può superare, non con assunzioni massive ope legis, bensì garantendo l’opzione ai docenti abilitati – come accade in altri Paesi europei – di coprire le ore di supplenza in cambio di riconoscimenti e di una remunerazione ad hoc. Naturalmente, ogni dirigente scolastico dovrebbe poter selezionare con contratto diretto gli insegnanti che considera migliori per queste attività, senza alcun tipo di graduatoria burocratica. Un buon esempio di autonomia scolastica sono le Charter Schools. Si tratta di scuole finanziate dal bilancio pubblico ma gestite indipendentemente da privati e con precise regole e controlli. Il modello ha trovato diverse declinazioni a seconda del Paese di recepimento. Nell’America del Nord, in Canada, ad esempio, il sistema delle Charter Schools è diffuso con risultati formativi anche di grande interesse. Nella socialdemocratica Svezia, le Charter Schools sono addirittura gestite da società commerciali, che hanno possibilità di profitto; di recente, anche il Regno Unito ha 56
aperto il proprio sistema di istruzione alle Charter Schools, riservandolo però solo ad enti non-profit. In Italia, potremmo avviare una sperimentazione.attività, senza alcun tipo di graduatoria burocratica.
9. Valutazione e trasparenza per assicurare meritocrazia e orientamento. Autonomia, parità con le paritarie, meritocrazia, riduzione della dispersione scolastica attraverso miglior orientamento sono tutti obiettivi raggiungibili solo se saranno adeguati gli strumenti di valutazione degli istituti scolastici e se verranno trasparentemente messi a disposizione i risultati di tale valutazione. Perché i giovani e le rispettive famiglie siano in grado di scegliere il corso di studi più adatto e promettente è necessario che i dati sulla valutazione siano messi a disposizione unitamente a informazioni del tipo: che risultati hanno ottenuto gli studenti di ogni particolare scuola, che successivo curriculum di studi o di lavoro hanno successivamente scelto, con quali risultati. Non ha senso, come proposto dall’attuale Governo, ipotizzare autovalutazioni da parte dei singoli istituti scolastici, che dovrebbero valutare se stessi: la valutazione o è esterna e oggettiva, o non rappresenta un vero orientamento. Orientamento inoltre significa aiutare ogni singolo ragazzo e ragazza a capire le proprie attitudini e propensioni, e fornire loro elementi almeno di massima sul prevedibile andamento del mercato del lavoro (professioni/mestieri/specializzazioni in crescita, in calo, con offerta saturata o non coperta, ecc.).
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13 Marzo 2015
di Luca Bolognini
Quei 200 milioni di briciole Al netto dei non docenti, la spesa annuale per gli insegnanti ammonta a oltre 30 miliardi di euro senza calcolare i 3 miliardi stanziati per la maxi-assunzione. I 200 milioni declamati da Renzi per il “merito”, che peraltro sarebbero assegnati con criteri valutativi discutibili e incerti, sono le briciole delle briciole. I 3 miliardi per la maxiassunzione ope legis avrebbero si’ fatto la differenza se destinati a premiare i docenti più meritevoli: cosi’, invece, assistiamo ad un misero zero virgola percentuale che la dice lunga su quanto al Governo interessi introdurre vero merito a scuola e quanto, invece, sia spasmodica l’attenzione al consenso fine a se stesso. E il fatto di avere mantenuto gli scatti di anzianità per la carriera è eloquente in tal senso, purtroppo. “I presidi potranno finalmente scegliere i docenti da un albo”: che bello che sarebbe, peccato che l’innovazione si riferisca non ai docenti migliori, che dovrebbero essere contendibili sul mercato, ma solo ai 100.000 (in prospettiva 150.000) neo-assunti in blocco senza concorso. Anche con riferimento alle detrazioni fiscali per le paritarie assistiamo al solito gioco: 59
si introduce il nome, lo slogan, ma poi i fondi destinati e i paletti sono estremamente riduttivi. E ancora vaghi e fumosi, tanto la gente non va a tediarsi cercando le cifre (che infatti mancano nel comunicato ufficiale del Governo) e le basta il profumo, l’idea. Come con certi prodotti al tartufo, che di tartufo, dentro, non hanno neanche l’ombra e sono aromatizzati con speciali gas. La “Buona Scuola” proposta dal Governo Renzi è focalizzata sugli insegnanti, ai quali viene anche regalato un bonus di 500 euro annui per andare a teatro o cose simili, ma non nel senso che servirebbe (selettivo e meritocratico), solo nella direzione della captatio benevolentiae più smaccata. Degli studenti, che dovrebbero essere l’obiettivo di qualunque riforma dell’istruzione, il Governo non sembra appassionarsi più di tanto. Forse perché non votano oggi? E’ peraltro una “Buona Scuola” senza coraggio culturale, priva di slancio valoriale e di “visione di mondo e di Italia”. Resta appiattita sul terreno delle tecnicalità e del pragmatismo minimale. In generale, anche questa volta dobbiamo prendere atto della tattica camaleontica del rottamatore: impadronirsi in superficie di titoli e concetti giusti (autonomia scuole e presidi, detrazioni per paritarie, merito, ecc.), e in realtà dedicare alla sostanza – sotto l’apparenza – risorse minime, cambiamenti irrilevanti. Usa queste parole-chiave confondendo le idee a giornali e opinione pubblica, che leggono slides in cui il quasi niente è spacciato per tutto. Chissà cosa ne pensano gli insegnanti bravi, quelli che, di fronte a uno studente che risponde correttamente a una sola domanda su dieci, danno l’insufficienza e non gli riconoscono la lode. Confidiamo nel Parlamento, che possa trasformare il disegno di legge proposto, ribaltando le proporzioni tra sostanza e apparenza: e, magari, recependo le idee di Italia Unica per rivoluzionare davvero la scuola italiana.
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16 Marzo 2015
di Massimo Brambilla e Riccardo Puglisi
Il bazooka di Draghi è ok, ma senza investimenti pubblici la crescita resta un miraggio La prima settimana di Quantitive Easing può essere consegnata agli archivi. A partire dal 9 Marzo la Banca Centrale Europea ha avviato il cosiddetto Public Sector Purchase Program (PSPP). Si tratta di un massiccio programma di acquisti sul mercato secondario messo in atto in parte dalla stessa BCE e, in misura più significativa, dalle singole banche centrali nazionali, e riguardante una combinazione di titoli sovrani (per un ammontare pari a 44 miliardi di Euro al mese), di titoli emessi da istituzioni sovranazionali basate nell’Unione Europea – prevalentemente la Banca Europea degli Investimenti e il Fondo Europeo di Stabilità – (per 6 miliardi al mese), e di titoli più complessi come le assetbacked securities e i covered bond (per 10 miliardi al mese). L’obiettivo finale di questa ampia manovra è quello di riportare l’inflazione dell’area Euro in linea con l’obiettivo di medio termine del 2%. Gli effetti del PSPP si fanno già notare in questi primi giorni: il tasso di cambio Euro/ Dollaro ha toccato il valore di 1,05, ai minimi da 12 anni a questa parte e, per quanto 61
riguarda il nostro Paese, lo spread tra il BTP decennale ed il Bund ha toccato gli 85 punti, valore mai visto dal lontano 2010, così da portare il rendimento dei nostri titoli al minimo storico dell’1,04%. Sono tutte notizie positive, che però hanno un retrogusto preoccupante e fastidioso: che il Programma -oltre ad abbassare le tensioni sui mercati e a beneficiare le nostre esportazioni- stia anche allentando l’attenzione nei confronti delle riforme strutturali e della necessità di politiche fiscali espansive. Questa sarebbe la peggiore delle notizie. Certamente il nostro Paese è uno dei maggiori beneficiari del PSPP in ragione di due fattori. In primo luogo, essendo l’allocazione degli acquisti dei titoli sovrani basata sull’incidenza dei singoli paesi sul PIL e sulla popolazione dell’area Euro (e dunque pari al 17,5% per quanto riguarda l’Italia), nel corso del periodo di validità del Programma verranno acquisiti ben 146 miliardi di titoli di stato italiani (pari al 6,7% del nostro debito pubblico, giunto in questi giorni a toccare il valore massimo da sempre) e la conseguente riduzione dei rendimenti consentirà alle finanze dello Stato di risparmiare diversi miliardi di Euro a partire dalle prossime emissioni. In secondo luogo, data la vocazione all’export della nostra industria manifatturiera, il deprezzamento dell’Euro nei confronti delle altre valute equivale a una spinta della competitività delle nostre produzioni rispetto a quelle dei nostri concorrenti al di fuori dell’area Euro. Il brutto rovescio della medaglia è presto detto: il nostro Paese sarebbe tra quelli maggiormente svantaggiati da un calo di tensione sul fronte delle riforme e degli investimenti. Per capire questo punto basta una riflessione sulle determinanti della crisi nel nostro Paese. La crisi finanziaria del 2008 e quella dei debiti sovrani nel 2011 sono infatti virus che hanno colpito, nel nostro caso, un organismo già prostrato da oltre un decennio di incremento della spesa pubblica (cresciuta di 269 miliardi di Euro cioè del 50% dal 2000 al 2012), di conseguente incremento delle imposte (cresciute nel medesimo periodo di 228 miliardi, pari al 42,5%), di deterioramento della dotazione infrastrutturale (a causa della sostituzione della spesa in conto capitale con quella in conto corrente) e di stagnazione della produttività del nostro sistema manifatturiero. La storia economica insegna che le politiche di espansione della base monetaria sono, se prese singolarmente, utili stimoli economici solo nel breve termine, appunto per via dell’effetto di svalutazione valutaria e –sotto certe condizioni- dell’abbassamento del costo del denaro. In un orizzonte temporale più lungo la leva monetaria necessita però del contributo delle politiche fiscali e delle riforme strutturali, al fine di potere attivare quella catena di trasmissione che permetta alla nuova base monetaria di essere assorbita da un incremento dei finanziamenti a famiglie ed imprese, a loro volta determinati da un aumento della fiducia nelle prospettive future dell’economia. In assenza di questo meccanismo di trasmissione è sempre la storia a insegnarci che i QE finiscono per inflazionare i prezzi delle attività finanziarie: da questo processo inflattivo scaturiscono nuove bolle speculative, il cui inevitabile improvviso sgonfiamento tipicamente produce pesanti effetti recessivi sull’economia reale, a partire dai paesi, come il nostro, caratterizzati da maggiori squilibri strutturali. Che fare quindi? In primo luogo è necessario, come noi di Italia Unica sosteniamo da 62
tempo, un poderoso piano di investimenti pubblici, di pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione nei confronti delle imprese, di trasferimenti di fondi nelle tasche dei lavoratori a fronte di accordi di produttività a livello aziendale, il tutto finanziato dalla combinazione della valorizzazione degli attivi pubblici, dall’utilizzo dei Fondi Strutturali e dal rafforzamento della dotazione della Cassa Depositi e Prestiti. In secondo luogo è necessaria una poderosa riduzione di imposte sia a carico delle imprese (dimezzando l’IRES dal 27,5% al 13,75%) che delle famiglie (aumentando la no tax area in funzione dei figli a carico) nonchè una politica di incentivazione della natalità (fondamentale per rendere sostenibile il nostro sistema previdenziale a fronte di un apparentemente inarrestabile invecchiamento della popolazione) coperta da una vera spending review strutturale, la quale può liberare fino a 50 miliardi di Euro di risorse aggiuntive. Nel contempo va aumentata la partecipazione al mercato del lavoro di giovani, donne e disoccupati over 50 tramite una vera riforma all’insegna della flessibilità e dell’adeguamento dei modelli contrattuali alle esigenze delle imprese (e non riducendo tutti i modelli contrattuali ad un contratto a tempo indeterminato, poco flessibile per le aziende ad ancora meno tutelante per i lavoratori). Non solo: bisogna attivare nuove risorse grazie a robuste liberalizzazioni nel settore dei servizi, che di fatto è la vera locomotiva occupazionale nei Paesi più avanzati economicamente (e non con le finte riforme del DDL Concorrenza che servono solo a tutelare le lobby vicine al Governo). Per non dimenticare la madre di tutte le riforme: quella della Pubblica Amministrazione, all’insegna del merito e della responsabilità (al contrario di quanto sta facendo il Governo che non tocca l’articolo 18 per i dipendenti della PA e lascia il merito al di fuori della scuola). Il QE di Draghi è una grande occasione per il nostro Paese. Sta a noi, parafrasando Dante, cogliere l’opportunità ed uscire a rivedere le stelle, invece di adagiarsi su finti allori per poi ripiombare nel più cupo degli inferni.
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19 Marzo 2015
di Lelio Alfonso
Se Renzi balla con i Lupi, di certo non balla da solo L’ennesimo scandalo scoppiato intorno a gestione e controllo dei grandi appalti non può essere liquidato come una semplice questione di ruberie e malversazioni. Certo, riaffermata la presunzione d’innocenza, che deve valere per ciascuna delle figure convolte, occorre aspettare che la magistratura inquirente porti fino in fondo il lavoro di riscontro dei vari elementi, così come si dovrà attendere il giudizio delle varie corti. Tuttavia, il rilievo politico della vicenda è sotto gli occhi di tutti. E non soltanto perché vede coinvolto uno dei più importanti ministri (tra l’altro neppure indagato), ma perché offre ancora una volta lo spaccato di una commistione fra politica e affari. Un legame che pare impossibile spezzare e che, invece, è al centro della famosa questione morale che non ci fa fare una gran bella figura nelle classifiche delle grandi agenzie internazionali e che, spesso, porta a dire che gli italiani (da questo punto di vista) non sono poi molto affidabili, con conseguente freno anche agli investimenti come in ogni altra realtà di illegalità diffusa. Come Italia Unica, in questi mesi, abbiamo più volte ricordato una serie di proposte tese a contrastare i fenomeni corruttivi, a cominciare dalla riduzione del numero delle 64
partecipate pubbliche e degli oltre 35.000 (sì, trentacinquemila) centri di spesa pubblica diffusi su tutto il territorio nazionale. Oggi, però, s’impone anche un giudizio sul Governo e sull’atteggiamento dello stesso Matteo Renzi, il quale ogni volta che scoppia una qualche grana (basti pensare alle tangenti legate all’Expo o al Mose, per non parlare di Mafia Capitale) assume l’atteggiamento di uno che passa di lì per caso, come se fosse ancora il Sindaco di una bella città e nulla più. E, come parlasse con gli amici al Bar Sport, si limita ad invocare pene sempre più severe e a trincerarsi dietro la pur rassicurante figura di Raffaele Cantone, Alto Commissario Anticorruzione che si spende in molte dichiarazioni, fino a quella di rivedere la legge Severino. Così, anche nella vicenda che vede coinvolto Maurizio Lupi, lui che fa? Si defila, lascia che siano altri ad infarinarsi con le pastette di una trattativa con NCD, sperando che alla fine il ministro ‘spontaneamente’ rassegni le dimissioni (magari in cambio di una qualche contropartita politica) e gli risolva la grana e passare oltre. Ma non era lui che parlava di rottamare tutti i vecchi vizi della politica? Non era lui che diceva di voler smontare il “Sistema”? Di certo, a smontarlo, non aiutano le proposte e le bozze legislative circolate in queste ultime settimane. Non aiuta la sua proposta di un Senato dove siedono sindaci e consiglieri regionali, né tantomeno il suo “Italicum” congegnato per mettere tutto il potere nelle mani di un solo uomo. Non aiuta il controllo diretto del governo sulla Rai e la riduzione del potere mediatico al servizio del “pensiero unico”. Tra l’altro, per pura coincidenza, anche questa volta le indagini sono partite proprio alla sua città. Quella Firenze dove, da Sindaco, aveva già potuto sperimentare la abnorme lievitazione dei costi del Teatro dell’Opera, del sottoattraversamento dell’Alta Velocità, della Stazione Foster, della Scuola Marescialli, della Variante di Valico, per citare soltanto alcuni dei tanti investimenti mal riusciti. Questo “sistema”, quindi, non è soltanto un portato del passato, è una realtà del presente. E per sconfiggerlo non basterà un qualche aggiustamento normativo. Bisognerà mettere in campo un di più di disapprovazione sociale verso certe pratiche, ma soprattutto mettere ai margini coloro che si sono macchiati di reati contro la pubblica amministrazione. Un lavoro di lunga lena e di grande rigore morale. Noi siamo pronti a portare il nostro contributo di idee e di serietà comportamentale. Ma con una consapevolezza: se Renzi balla con i Lupi, di certo non balla da solo.
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20 Marzo 2015
di Corrado Passera
Lotta al terrorismo, il tempo è scaduto. Ecco come si può sconfiggere I fatti di Tunisi, le vittime anche italiane sul campo, ci dicono che il tempo è scaduto e che la sfida del terrorismo jihadista richiede una risposta immediata e all’altezza della situazione. Gli italiani hanno giustamente paura, il loro timore e la loro preoccupazione sono pienamente giustificati. Anche per questo ci riconosciamo nella saggezza del presidente Mattarella nell’intervista alla Cnn. Cos’altro deve succedere affinché scatti l’allarme delle cancellerie internazionali? Quante altre vittime devono essere sacrificate sull’altare del disinteresse e degli egoismi nazionali? Chi parla di scontro di civiltà e della necessità di evitarlo ormai devia colpevolmente dal problema. L’affondo dell’Isis non ha nulla di civile. Imbracciare un mitra e sparare contro turisti inermi; sgozzare gli ostaggi davanti agli schermi tv, bruciare vive persone chiuse in una gabbia, ingaggiare bambini e farli diventare boia è l’atteggiamento che contraddistingue i carnefici, non i martiri. La guerra proclamata unilateralmente dal fanatismo è rivolta contro ogni forma di civiltà, occidentale e orientale, europea o araba che sia. È contro ogni tipo di religione, cristiana o islamica. È un attacco globale, e globale deve essere la risposta. Guai a pensare che interventi singoli, che innalzano il vessillo di nazionalismi miopi, siano la strada giusta: al contrario sarebbero la catastrofe. 66
Quel che davvero occorre è mettere in campo una coalizione la più larga possibile, che veda l’Europa in prima fila ma coinvolga a pieno titolo anche gli USA, la Russia e gli Stati arabi moderati del nord dell’Africa. Quel che davvero serve è avviare una intensa e pressante iniziativa diplomatica che da un lato punti a colpire i Paesi che surrettiziamente o addirittura a viso aperto finanziano, proteggono e sono complici del terrorismo, e dall’altro abbia come fine non di scongiurare l’uso della forza bensì di prepararla al meglio. Non facciamoci illusioni. Non è mettendo sui balconi la bandiera arcobaleno dei pacifisti che fermeremo le stragi terroriste: la risposta all’attacco jihadista non potrà non avere una dimensione anche militare, sul campo. Ma deve essere una risposta non frutto dell’improvvisazione. L’esempio dei Mirage francesi contro Tripoli insegna: prima di bombardare bisogna sapere quale sarà il passo successivo. Deve invece essere il frutto di un coinvolgimento dell’ONU e degli Stati che vogliono essere in prima fila a difendere valori che sono alla base della convivenza e della libertà. L’Unione Europea esiste soprattutto per questo! Senza peraltro dimenticare che una strategia nella regione mediterranea non può prescindere da profonda revisione critica da parte dell’Unione Europea della propria politica di Vicinato che, tanto a Sud come a Est, ha dimostrato il suo fallimento e che dovrà essere concretamente indirizzata a un robusto piano di sviluppo sociale ed economico in chiave cooperativa. Anche l’Italia è chiamata a fare la sua parte. Che dovrà essere quella di lavorare e spendere le sue capacità per sollecitare la realizzazione di quel tipo di coalizione internazionale che abbia lo spessore ed il consenso necessario a intervenire in maniera efficace. Ridicolo sentir parlare di 5000 uomini pronti: per far che? Con chi ? Come parte di una forza militare di 10.000 o di 100.000 uomini? L’importante è che, vista la rilevanza e la drammaticità della sfida e del pericolo che tutti noi corriamo, quegli sforzi siano condivisi, coinvolgano il Parlamento, le forze politiche e sociali, la pubblica opinione, e le facciano sentire protagoniste. Il contrario di quanto finora avvenuto. Palazzo Chigi di queste cose non parla: grave essere stati irrilevanti in Ucraina, ma sulla Libia non possiamo proprio permettercelo. La politica estera e la guerra contro il terrorismo sono priorità per costruire il futuro e dobbiamo smetterla di comportarci in maniera dilettantesca.
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23 Marzo 2015
di Corrado Passera
Così si combatte la corruzione La corruzione è un cappio che stringe alla gola l’Italia e le toglie l’ossigeno delle risorse economiche (60 mld sottratti alle finanze pubbliche, secondo la Corte dei conti) e della coesione sociale. È un mostro. Ma non è invincibile. Con Italia Unica ci siamo sforzati di mettere nero su bianco proposte concrete e immediatamente realizzabili che già sintetizzammo, per primi, dopo “Mafia Capitale”. Fa da sfondo a questo decalogo una visione della politica diversa da quella attuale: molte delle cose che proponiamo non sono difficili ma non sono state mai fatte perché l’attuale politica vuole continuare a intermediare tutti i fondi pubblici possibili invece di utilizzarli per ridurre le tasse o per grandi progetti che tagliano fuori i clientelismi locali; mantenendo il controllo delle 10.000 partecipate pubbliche per fare i suoi interessi, non vuole rompere la complicità tra corrotti e corruttori. Ecco le dieci proposte anti-corruzione di Italia Unica. Le abbiamo individuate insieme ad altre da alcuni mesi, confrontandole in innumerevoli colloqui e dibattiti prima di selezionare proprio queste.
1.
Ridurre drasticamente, cioè dividere almeno per 100, il numero delle stazioni appaltanti per garantire un adeguato livello di professionalità e di controllo. Il numero di questi “rubinetti aperti” va portato dai 35.000 di oggi a 350 (ma si potrebbe 68
arrivare anche a numeri molto inferiori ), incrementandone gli obblighi di trasparenza e le possibilità di controllo diffuso.
2. Rendere più difficile l’infiltrazione della criminalità negli appalti pubblici. È urgente rivedere i criteri di valutazione economica e soprattutto quello di massimo ribasso delle offerte. Esso, infatti, è spesso sintomo della incapacità della PA di offrire il prezzo corretto a fronte della qualità richiesta. È causa di infiniti contenziosi e, infine, agevola le organizzazioni criminali che possono avvantaggiarsi di risorse umane, materiali e finanziarie non a prezzi di mercato.
3.
Semplificare la mostruosa normativa oggi vigente superando del tutto l’intricata normativa nazionale vigente sui contratti pubblici – anche per i contratti sotto-soglia – uniformando l’Italia al recepimento delle Direttive Europee, per essere finalmente allineati con i mercati di forniture pubbliche di tutti gli altri Paesi UE. Si può provocare una formidabile iniezione di trasparenza attraverso un’anagrafe pubblica degli incarichi, delle nomine e delle forniture – dirette o in subfornitura – tra la Pubblica amministrazione e ogni singolo cittadino o persona giuridica. Vogliamo un database alimentato obbligatoriamente da tutti gli enti pubblici e un sito internet snello, simile alla homepage di un motore di ricerca, in cui basti digitare il nome di un qualsiasi cittadino o società per verificare quali rapporti abbia e/o abbia avuto con lo Stato, sia a livello centrale che locale. Va inoltre introdotto il divieto assoluto di poter lavorare con la PA – né direttamente né in subappalto – per le società delle quali non sia chiaramente conosciuto il beneficiario finale in Italia o all’estero. Spingiamo perché a livello mondiale vengano rese illegali le transazioni con i Paesi che non danno trasparenza dei beneficiari ultimi.
4. Introdurre regole che assicurino la effettiva selezione meritocratica per gli incarichi pubblici apicali (concorsi veri basati su criteri trasparenti e pubblicazione dei nomi dei nominati e dei requisiti soddisfatti), e l’avvicendamento dei responsabili in tutte le posizioni di responsabilità entro un numero di anni massimo ben definito e non superiore a dieci.
5. Rendere completi, veritieri e comprensibili i bilanci di tutte le entità pubbliche: dai comuni alle ASL, dalle città metropolitane alle Regioni. Garantire ai cittadini la possibilità di valutare e confrontare i risultati dei loro amministratori. Perché ciò succeda i bilanci devono essere standardizzati (oggi sono compilati nei formati più diversi ), consolidati (oggi molto spesso costi impropri e debiti sono “nascosti” nelle società partecipate che non vengono consolidate nei bilanci ), certificati e disponibili on line in Open Data per poter essere elaborati da chiunque sia interessato.
6. Ridurre l’enorme mondo delle partecipate pubbliche dove spesso le Amministrazioni Centrali e Locali collocano attività che non possono svolgere come PA e dove si annidano molti rischi di corruzione. Il compito della politica e dell’Amministrazione è quello di fare buone regole e buoni controlli non di gestire attività che possono essere affidate al mercato o alle comunità ( principio di sussidiarietà ). Chiudere pertanto o reinserire 69
nella PA o privatizzare – a entità profit o non profit secondo i casi – tutte le partecipazioni attualmente detenute dalle Amministrazioni Centrali e Locali con la possibilità di mantenere quote rilevanti solo nelle reti essenziali (modello Terna e Snam) e impedire
7. Ridurre drasticamente l’enorme quantità di fondi gestiti in maniera discrezionale dalle Amministrazioni Locali con rischio di spreco e di corruzione. Ridisegnare completamente la destinazione dei Fondi Strutturali Europei riducendo drasticamente la miriade di piccoli e piccolissimi progetti a livello di singola amministrazione locale a vantaggio di pochi progetti strutturali strategici (es. ferrovie moderne per il Sud). Inoltre sostituire tutte le forme discrezionali di contributi a fondo perduto e altri incentivi alle attività economiche in meccanismi automatici come le riduzioni delle aliquote fiscali o i crediti di imposta.
8.
Facilitare il compito della magistratura nel combattere la corruzione. Al di là degli interventi generali per rendere la giustizia penale più efficace ed efficiente, è necessario recidere il cordone che unisce corrotti e corruttori in un perverso rapporto di complicità e convenienza, anche accogliendo le indicazioni del dottor Pignatone, Procuratore della Repubblica di Roma, e dunque estendendo ai reati di corruzione alcune delle norme premiali della legislazione sui pentiti e sui collaboratori di giustizia.
9.
Adattare al sistema giudiziario italiano il modello statunitense del False Claims Act. Il fulcro di questa legge del 2009 è quello di dare più potere e spazio ai così detti “whistleblowers” (“spifferatori”), ossia a persone che denunciano malfunzionamenti e illeciti che si verificano all’interno di un organismo pubblico o privato in cui lavorano o con cui comunque collaborano. I campi di azione sono stati svariati in USA con recuperi di decine di miliardi di dollari da parte dell’Amministrazione. La chiave del successo di questa normativa sta nel permettere al cittadino o lavoratore pubblico e privato di segnalare più facilmente alla magistratura le irregolarità di cui è stato testimone non solo ricevendo protezione, ma godendo anche di un incentivo economico significativo calcolato sui recuperi effettivamente realizzati.
10. Regolare l’attività di lobby con una opportuna normativa che dia, da un lato, assoluta trasparenza e visibilità ai cittadini su tutto quanto viene fatto e, dall’altro, garantisca certezza del diritto a chi fa questo mestiere e alla politica che dialoga, senza perdere autonomia, con i rappresentanti di interessi. L’area grigia in cui si muove adesso il settore del lobbying è intollerabile e foriera di malaffare, contro l’interesse dei professionisti del lobbying onesti per primi.
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23 Marzo 2015
di Corrado Passera
Toccare le pensioni fa male e crea incertezza, soprattutto se l’obiettivo è prepensionare. Italia Unica invita il Governo a sospendere lo stillicidio di proposte – più o meno abbozzate – di taglio alle pensioni. Si tratta di un approccio sbagliato, che crea incertezza, e che potrebbe mettere a rischio la ripresa dell’economia e dell’occupazione, che per ora è fragile e insufficiente. Il governo sembra colpevolmente dimenticare che negli ultimi anni si è già intervenuti sul sistema previdenziale, e che nel 2011 l’itinerario di riforme è stato completato con il passaggio al sistema contributivo (cioè con pensioni legate agli effettivi versamenti) e con l’innalzamento dell’età di pensionamento (per tener conto in maniera adeguata della crescente durata media della vita). Grazie a una larghissima maggioranza parlamentare e al sostegno delle parti sociali, il sistema è stato reso finanziariamente sostenibile, così da allontanare il rischio di commissariamento per il nostro Paese. Italia Unica è dunque contraria ad altri interventi riduttivi. Come su molti altri temi, anche sulle pensioni l’esecutivo si è caratterizzato per un 71
andamento ondivago, per non dire confuso. Da una parte –soprattutto nei documenti ufficiali come la Nota di Aggiornamento al DEF- palazzo Chigi si è espresso in termini elogiativi sulla Riforma Fornero lodandone il contributo cruciale all’equilibrio dei nostri conti pubblici. Dall’altra parte, esponenti del governo e della maggioranza hanno strizzato l’occhiolino alla demagogia prospettando smantellamenti parziali (o totali) della riforma attraverso insostenibili prepensionamenti, eufemisticamente catalogati come forme di “maggiore flessibilità” nella data di pensionamento. Infine -ed è ciò che qui stigmatizziamo in modo particolare – si sono succeduti annunci disordinati e inquietanti su possibili interventi di riduzioni delle pensioni già in essere. In sequenza si sono espressi in questo senso il ministro Poletti con un’intervista estiva, a cui è seguita in autunno una proposta di legge da parte dei deputati Baretta, Damiano e Lenzi. Sempre sulla stessa linea Yoram Gutgeld -il principale consigliere economico di Renzi- ha esplicitamente collegato i “contributi di solidarietà” sulle pensioni più elevate alla maggiore flessibilità sulla data di (pre)pensionamento, lasciando intendere che le nuove regole interpretative del Patto di Stabilità ora consentono di agire in questo senso. Infine è intervenuto il Presidente dell’INPS Boeri. In tutto ciò i mass media italiani non si preoccupano di agire come cani da guardia e di rimarcare il comportamento erratico e incoerente del governo. Italia Unica è contraria ad altri interventi di taglio sulle pensioni per molteplici ragioni. Il ceto medio sta soffrendo moltissimo dopo tanti anni di crisi, e di fatto i pensionati hanno contribuito al risanamento dei conti pubblici attraverso il blocco dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione. È importante smentire subito la volontà di tagliare le pensioni per evitare che il livello di incertezza aumenti ulteriormente, con esiti difficilmente prevedibili. Il pericolo è che questi elementi aggiuntivi di incertezza mettano a rischio la tenue ripresa economica che grazie a Draghi e agli Emiri del petrolio si sta faticosamente avviando. Anche in questo caso, l’approccio utilizzato dal governo è figlio di una cultura politica da racchiudere in 140 caratteri che privilegia l’impatto mediatico delle proposte rispetto alla volontà di analizzare in dettaglio e di risolvere i problemi in maniera decisa. La sostenibilità del nostro sistema previdenziale nel medio termine non può essere mantenuta e rafforzata aumentando ulteriormente il carico fiscale sulle erogazioni, ma con politiche volte da un lato a facilitare l’ingresso dei giovani e delle donne sul mercato del lavoro e il rientro di chi, a causa della crisi, ne è uscito; e dall’altro a focalizzate sull’incremento del rendimento delle gestioni pensionistiche collegando le gestioni stesse con il mondo delle imprese. Inoltre, invece di immaginare nuovi contributi sulle pensioni, bisogna avviare un processo sistematico di riduzione della spesa corrente, quel processo che il governo Renzi – come ampiamente dimostrato dal defenestramento del commissario Cottarelli – ha pochissima voglia di attuare, proseguendo piuttosto sulla strada perversa di finanziare aumenti di spesa di vasta portata ma dai contorni incerti (i prepensionamenti, le assunzioni generalizzate della scuola) attraverso risparmi di spesa solo simbolici e di dimensioni ridotte. Aree di spesa sostanziosa e politicamente gradevole come il cumulo di pensioni con le retribuzioni offerte dalle cariche pubbliche elettive, i trasferimenti inefficienti a imprese e partecipate locali (spesso funzionali unicamente alla distribuzione di favori 72
e prebende alle clientele dei partiti) e le miriadi di centri d’acquisto dentro la Pubblica Amministrazione restano placidamente indisturbate, mentre la mancanza di coraggio e competenza nel fare spending review non è gratis, ma viene di fatto pagata sia dai cittadini, i quali godono di minori servizi e di un carico fiscale da primato mondiale, sia dalle imprese, che nel 2014 si sono ad esempio viste scippare in autunno il taglio IRAP deciso in primavera. Non è questa la politica economica che noi vogliamo. Non è questa la politica di cui ha bisogno il nostro paese per creare le condizioni su cui fondare la crescita.
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27 Marzo 2015
Appello per la democrazia ai parlamentari e ai cittadini italiani Italia Unica rivolge un appello ai Senatori e ai Deputati, quali rappresentanti del popolo italiano, e lo estende a tutte le forze politiche, alle associazioni e ai cittadini, per arginare una pericolosa deriva che accompagna la nuova legge elettorale, il cosiddetto “Italicum”. Questa riforma, in combinazione con quella altrettanto sbagliata del Senato, rischia di produrre effetti deleteri per la democrazia italiana, assicurando una concentrazione di potere in mano di un’estrema minoranza, portando a una quasi totale esautorazione degli elettori dalla scelta dei loro rappresentanti in Parlamento e dando enorme potere ai Consigli Regionali. Onorevoli Senatori, Onorevoli Deputati, tra poche settimane sarete nuovamente chiamati a pronunciarvi, e in maniera definitiva, su quella che ad avviso di Italia Unica rappresenterebbe una grave lesione della democrazia nel nostro Paese. Una nuova legge elettorale che umilia la partecipazione e la rappresentanza attraverso l’adozione di meccanismi in grado di regalare a una minoranza partitica il controllo assoluto di tutto: Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica e, a cascata, tutte le altre posizioni istituzionali, a partire dalla Corte Costituzionale. Così come immaginato, l’ impianto della legge elettorale non risponde allo spirito della Costituzione e ai rilievi della Corte Costituzionale che hanno portato all’abrogazione del Porcellum. In particolare ci preoccupano due scelte strutturali molto pericolose: La prima scelta che riteniamo sbagliata e pericolosa riguarda il premio fino al 15% – equivale a molti milioni di voti – alla lista che raggiunga il 40% al primo turno senza che 74
venga previsto alcun tipo di contrappeso (per esempio maggioranze qualificate per la nomina del Presidente della Repubblica). Si tratta di una soluzione che non ha pari in nessun’altra democrazia matura. La seconda scelta che riteniamo sbagliata e pericolosa riguarda la sostanziale impossibilità per i cittadini di poter scegliere i propri rappresentanti in Parlamento: la stragrande maggioranza di Deputati e Senatori rimarrebbero dei “nominati”: il 100% dei Senatori sarebbero eletti in secondo grado, quasi tutti dai Consigli Regionali, e buona parte dei Deputati – grazie a liste bloccate e candidature multiple – sarebbe scelta dalle segreterie dei partiti.
Alla antidemocratica legge elettorale che sta per essere licenziata si unisce la pessima riforma del Senato della Repubblica. Il Senato non viene abolito, ma anzi – come si evince chiaramente dal nuovo articolo 55 della Costituzione – continua a rivestire un ruolo chiave nella formazione delle leggi. La legge di riforma, di fatto, offre al Senato il potere di intervenire su quasi tutte le tematiche (basti citare che esso resta competente sulle “decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea”). Pur non avendo l’ultima parola e non potendo dare la fiducia al Governo, il Senato finirà per imporre tempi comunque lunghi di approvazione praticamente su ogni legge. Insomma si trasforma il Senato in una specie di nuovo CNEL, ma solo fintamente consultivo perché la Camera dovrà rivotare con maggioranze qualificate ogni qualvolta Palazzo Madama esprimerà un parere negativo. Consideriamo infine sbagliato “affidare” il Senato ad amministratori locali che continueranno a ricevere i loro emolumenti dai Consigli Regionali e avranno l’inevitabile tendenza a favorire e ad occuparsi prioritariamente di interessi territoriali. Come pure consideriamo sbagliato far passare l’idea che si possa svolgere il compito di Senatore e di Consigliere Regionale part-time.
Si tratta di scelte pericolose fatte a colpi di maggioranza, senza aver costruito quell’ampio consenso parlamentare che dovrebbe caratterizzare qualsiasi riforma costituzionale. Entrambe le riforme sul tavolo non risolverebbero comunque nessuno dei grandi problemi che pretendono, in astratto, di affrontare: • Non favorirebbero la partecipazione dei cittadini perché una legge elettorale che costringe fin dal primo turno partiti e movimenti del tutto eterogenei in liste unicamente finalizzate alla conquista del premio e che impedisce di scegliere il proprio rappresentante in Parlamento allontana ulteriormente la gente dalla politica e favorisce l’astensionismo; • Non favorirebbero la governabilità: sappiamo tutti che si creeranno coalizioni camuffate da liste singole, con dentro tutto e il contrario di tutto, che il giorno dopo le elezioni comincerebbero a sfaldarsi; • Non si ridurrebbero i costi della politica perché l’apparato del Senato continuerebbe a costare praticamente come oggi. Il risparmio di emolumenti, al netto dei costi diretti e 75
indiretti derivanti dai Senatori part time e in continua trasferta, sarà del tutto irrilevante. E non si dica che non ci sono altri modi per ottenere più partecipazione, più governabilità, minori costi della politica! Basterebbe, per esempio, considerare le proposte di Italia Unica: sistema elettorale a doppio turno di coalizione, collegi uninominali che collegano realmente candidati ed elettori, riduzione netta del numero di parlamentari (non oltre 400) eventualmente anche con un’unica Camera. Per tutte queste ragioni diciamo NO all’Italicum e all’attuale riforma del Senato: la consideriamo un grave errore istituzionale, politico e legislativo, disegnato sulle esclusive esigenze di un singolo Partito che aspira in maniera esplicita a porsi come Partito Unico della Nazione. Si sta procedendo allo stravolgimento di cardini essenziali della nostra Carta Costituzionale, esautorando il Parlamento da qualsiasi ruolo rilevante e trasformando in modo surrettizio la nostra Repubblica parlamentare in “Repubblica del Premier” senza contrappesi democratici. Perciò facciamo appello alla sensibilità e all’indipendenza di ciascun Parlamentare, alle forze politiche, alle associazioni e ai cittadini italiani, affinché si possa correggere la rotta.
Onorevoli Senatori e Onorevoli Deputati, siete e siamo ancora in tempo. La difesa della Costituzione e delle istituzioni è un dovere morale e politico di tutti!
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4 Aprile 2015
di Massimo Brambilla
Istat e Giano Bifronte Non sappiamo se il Ministro Padoan sia appassionato di mitologia romana. In ogni caso le sue recenti dichiarazioni sul Documento di Economia e Finanza che verrà presentato al Parlamento entro il 10 Aprile ricordano il Giano Bifronte, la divinità dai due volti, capace di guardare sia il passato che il futuro. In effetti, l’annuncio di un DEF espansivo per lavoro ed investimenti dà l’impressione che anche il ministro dell’economia si ispiri al bifrontismo del Governo di cui fa parte, che contrappone la faccia espansiva degli annunci con quella dell’aumento della tassazione contenuta nei provvedimenti. Questo non lo diciamo noi, ma lo attesta l’Istat nelle rilevazioni sul “Conto Economico delle Amministrazioni Pubbliche alla fine del Quarto Trimestre 2014” in cui a fronte di un rapporto Deficit/PIL che, nonostante i significativi risparmi sugli interessi passivi, calati del 4,6% nel corso del 2014, danza pericolosamente sulla soglia del 3% (oltrepassata la quale scatterebbe il ritorno del nostro Paese nella procedura per deficit eccessivo), dimostra che “la più grande riduzione delle tasse di sempre” annunciata da Renzi qualche mese fa ha portato ad un ulteriore aumento della pressione fiscale al record storico del 43,5%. Il tutto a fronte di una spesa corrente che, nel corso dell’anno appena concluso, ha continuato a crescere dell’1,2% al netto, appunto, degli interessi passivi e di un ulteriore calo degli investimenti fissi lordi, che determinano la qualità della dotazione infrastrutturale del nostro Paese, al valore anch’esso minimo di 36 miliardi di Euro (-6% sul 2013).
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Non che la situazione sembri potere migliorare nel corso del 2015. A fronte dell’esclusione dalla base imponibile IRAP del costo del lavoro a tempo indeterminato, il Governo ha sinora dato mostra di fantasia invidiabile su come aumentare il peso del fisco sulle tartassate imprese Italiane spaziando dalla retromarcia sulla riduzione dell’aliquota IRAP prevista originariamente a partire dal 2014, alla combinazione del reverse charge e dello split payment che hanno aumentato la tensione finanziaria in capo alle Piccole e Medie Imprese con particolare accanimento su quelle fornitrici della Pubblica Amministrazione. A tutto ciò si sono aggiunte la traduzione in legge delle scellerata circolare dell’Agenzia del Territorio che ha reso imponibili ai fini IMU i beni strumentali “Imbullonati” e i ritardi relativi all’approvazione delle delega fiscale. In sintesi la mannaia del tassatore ha continuato a colpire con fredda precisione il sistema delle imprese. Per non parlare del rischio di ulteriore aumento degli acconti IRES e IRAP 2015 in caso di incapienza del gettito IVA introdotta nel Decreto Milleproroghe o dei ritardi sul fronte del pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione (dei 68 miliardi di debiti rimasti dopo il pagamento di 22 miliardi da parte dei Governi Monti e Renzi ne risultavano saldati dal Governo Renzi al 31 Gennaio 2015 solo 13,7, più che compensati dai nuovi debiti che nel frattempo si sono aggiunti a quelli pregressi). Se il DEF vorrà essere realmente espansivo per occupazione e investimenti, servirà una vera svolta rispetto alla continuità dimostrata dal Governo in termini di fare pagare ad imprese e famiglie il continuo aumento della spesa pubblica corrente. I primi numeri sull’impatto sull’occupazione derivante dalla decontribuzione ai fini IRAP del costo del lavoro a tempo indeterminato (che temiamo confermate dai prossimi dati relativi all’impatto del Jobs Act) mostrano, ancora una volta, che il lavoro non si crea per decreto ma ponendo in atto le condizioni, fiscali, amministrative e legali, necessarie per incentivare ed attirare gli investimenti. Il DEF che vorremmo si porrebbe degli obiettivi di crescita del PIL ben superiori rispetto dell’anemico 0,7% preannunciato da autorevoli esponenti del Governo, sommando alle previsioni per il 2015 contenute nei precedenti DEF (1,3% nel DEF di Aprile 2014 poi rivisto ad un modesto 0,6% nella nota di aggiornamento di Settembre) l’impatto del QE di Draghi e del calo del costo del petrolio, non previsti nei precedenti documenti e stimati complessivamente pari ad un +1,5% di PIL. Vorremmo anche vedere una riduzione della pressione fiscale finanziata da un vero intervento di ridimensionamento della spesa corrente ben superiore rispetto ai 10 miliardi preannunciati da Gutgeld, che parta dall’adozione delle raccomandazioni dell’ex Commissario Cottarelli e dei suoi gruppi di lavoro, i cui rapporti sono stati resi finalmente pubblici dopo una censura indegna di uno Stato di diritito. A fronte del taglio della spesa corrente, auspichiamo anche una vera ripresa degli investimenti fissi per trarre vantaggio della massa di liquidità immessa sui mercati dal QE di Mario Draghi e del, peraltro insufficiente, Piano Juncker per procedere a un ammodernamento delle nostre vetuste infrastrutture partendo dal Sud Italia, la cui posizione strategica al centro del Mediterraneo deve essere valorizzata con investimenti nelle ferrovie e nei porti, al Nord del Paese i cui distretti produttivi, tornati motore di crescita per meriti propri, scontano infrastrutture inadeguate. Il DEF che vorremmo stimerebbe l’impatto sul PIL di una vera riforma della Pubblica Amministrazione, all’insegna del 78
merito e delle misurazione dei risultati (e non della volontà di conservazione dello status quo dimostrata anche dalla non applicabilità al settore pubblico delle misure sulla licenziabilità) e di una semplificazione degli adempimenti burocratici gravanti sulle imprese (magari creando nel nostro Paese un meccanismo di tutela ispirato al Regulatory Flexibility Act che negli USA blocca ogni nuova legge che aumenta il peso della burocrazia sulle imprese). Il DEF e la politica economica del Governo che vorremmo avrebbe un’unica faccia. Sorridente nei confronti di chi, nonostante tutto, continua a produrre beni e servizi in Italia. E che ha bisogno di vere riforme e non dell’ennesimo annuncio trionfante.
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11 Aprile 2015
di Fabrizio W. Luciolli
L’Iran e la scommessa di Obama L’accordo La maratona negoziale che ha riunito in Svizzera l’Iran e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania (P5+1) e che questa volta ha visto la partecipazione dell’attuale Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, rappresenta un passaggio diplomatico di straordinaria rilevanza nelle trattative ultra decennali sul programma nucleare iraniano. L’accordo annunciato il 2 aprile impegna i contraenti per un periodo compreso fra i dieci e i quindici anni e prevede limitazioni allo sviluppo del programma nucleare iraniano da perseguirsi attraverso una serie di parametri e un meccanismo stringente d’ispezioni, tuttora da definirsi, che dovrebbe consentire all’Agenzia internazionale per l’energia 80
atomica (AIEA) di verificare la natura esclusivamente pacifica del programma nucleare iraniano. Una volta accertata da parte dell’AIEA l’ottemperanza iraniana all’accordo, gli Stati Uniti e l’Unione Europea revocheranno le sanzioni imposte all’Iran limitatamente al programma nucleare. Tale revoca non riguarda, pertanto, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti per il sostegno dell’Iran a gruppi terroristici o quelle relative alla violazione dei diritti umani. Le trattative di Losanna si sono, tuttavia, limitate al raggiungimento di un accordo-quadro i cui dettagli dovranno essere definiti in protocolli tecnici che le parti si sono impegnate a concordare entro il 30 giugno. L’accordo alimenta speranze ma legittima, altresì, diverse riserve e cautele sugli esiti del processo negoziale e le sue conseguenze sulle dinamiche geopolitiche della regione mediorientale e non solo. In effetti, un’attenta analisi dei parametri indicati nell’accordo-quadro permette di rilevare diverse criticità, e di sollevare dubbi e quesiti circa l’efficacia delle limitazioni al programma nucleare iraniano. Le differenze di linguaggio dei diversi comunicati ufficiali, l’indeterminatezza del meccanismo delle ispezioni, l’incertezza della tempistica prevista per la revoca delle sanzioni, la mancata previsione della distruzione delle centrifughe, la rinuncia allo spostamento fuori dal paese delle tonnellate di uranio in eccesso, la non inclusione nell’accordo della proliferazione di vettori missilistici atti a trasportare testate nucleari, appaiono tutti elementi che rischiano di minare l’efficacia dell’accordo e che caratterizzeranno l’impegnativo processo negoziale dei prossimi mesi.
La Dottrina Obama Il raggiungimento dell’accordo con l’Iran costituisce un’ indubbia affermazione della leadership del Presidente Obama. Dopo gli anni in cui gli Stati Uniti hanno manifestato la propria “riluttanza” ad agire se non “from behind”, Obama sembra aver intrapreso un diverso approccio volto a incidere significativamente sugli equilibri regionali in Medio Oriente e non solo. La dottrina Obama si inserisce, peraltro, in quell’Agenda per un mondo libero da armi nucleari annunciata nel 2009 a Praga e che è annoverata fra le priorità della nuova Strategia di sicurezza nazionale che il Presidente degli Stati Uniti ha rilasciato lo scorso febbraio. Il perseguimento della strategia avviata da Obama si rivela, tuttavia, non priva di rischi in quanto dovrà saper far fronte a diversi fattori avversi, di natura interna piuttosto che internazionale. Nonostante l’accordo sia di carattere tecnico e non preveda alcuna formale normalizzazione delle relazioni fra i rispettivi paesi, Obama come il Presidente iraniano Rohani, sono chiamati a confrontarsi in patria con una diffusa opposizione e fortissime resistenze. Negli Stati Uniti, quarantasette senatori repubblicani hanno inviato una lettera aperta alla Guida Suprema Ali Khamenei per invitarlo a non stringere accordi con gli Stati Uniti che non fossero approvati dal Congresso, testimoniando con ciò la spaccatura creatasi sulla questione tra il potere esecutivo e quello legislativo, e il conseguente rischio di una politica estera statunitense multipolare e indebolita. Al fine di comunicare meglio i contenuti dell’accordo ad una stampa statunitense che ne ha accolto con scetticismo l’annuncio, il 5 aprile Obama ha rilasciato una importante 81
intervista al New York Times. In essa il Presidente ribadisce che “non c’è alcuna formula, alcuna opzione per impedire che l’Iran ottenga un arma nucleare che sia più efficace dell’iniziativa diplomatica e dell’accordo quadro”. L’ipotesi di un attacco militare se da un lato fermerebbe temporaneamente il programma nucleare, dall’altro spingerebbe l’Iran a un suo rilancio segreto. Inoltre, il permanere del solo regime di sanzioni non accompagnato da altra azione, non farebbe altro che favorire il perseguimento del programma secondo le modalità attuate dall’Iran sino ad oggi. Secondo il Presidente Obama, solo l’iniziativa diplomatica, corroborata da una stringente attività ispettiva, permetterebbe se non di bloccare, di rallentare per almeno dieci anni il programma nucleare iraniano e, soprattutto, di monitorarne l’intera “catena”. Nel caso si verificasse una violazione degli accordi da parte dell’Iran, il breakout time, ovvero il periodo di tempo necessario per produrre il materiale per un ordigno, risulterebbe con l’accordo comunque triplicato, ovvero si allungherebbe dagli attuali due o tre mesi a un anno. Periodo sufficiente per imbastire un’adeguata risposta.
Le reazioni Le insidie che Obama deve affrontare nel Congresso sono, inoltre, connesse con la posizione fortemente critica di Israele. Il Premier Benjamin Netanyahu ha apertamente osteggiato l’accordo di fronte al Congresso e ha attaccato l’Amministrazione Obama perché non avrebbe fatto ricorso a tutte le leve negoziali con l’Iran. Israele interpreta l’accordo come un riconoscimento del crescente ruolo regionale di Teheran e del suo diritto di mantenere un programma nucleare, seppur civile. Ciò viene a minare l’esclusiva sul nucleare che Israele vanta nella regione e la sua posizione d’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Inoltre, Israele teme che la revoca del regime delle sanzioni possa favorire una ripresa da parte dell’Iran del finanziamento di movimenti terroristici in Libano, a Gaza e nella regione. L’accordo sul programma nucleare civile iraniano da parte dei P5+1 rischia di spingere l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia, a dotarsi di capacità simili. In tal caso, sarà difficile impedire a questi paesi ciò che è stato permesso all’Iran. L’Arabia Saudita, in particolare, è pronta a ricorrere “a qualsiasi misura necessaria”, inclusa la possibile costruzione di armi nucleari, per garantire la propria sicurezza nei confronti dell’Iran, ha dichiarato l’ambasciatore saudita a New York. Riyadh avrebbe a suo tempo finanziato lo sviluppo del programma nucleare pakistano sulla base di un accordo che prevedrebbe da parte di Islamabad la cessione di testate in caso di necessità. In tale quadro, personale pakistano opererebbe da tempo presso la base missilistica di al-Watan, a sud della capitale, dove presto giungeranno i moderni vettori cinesi DF-21 in grado di ospitare testate convenzionali e nucleari. Vi è, inoltre chi nel mondo arabo ritiene che l’accordo di Losanna, riconoscendo di fatto l’Iran quale potenza nucleare, renda necessaria la costituzione di una “NATO sunnita”, a difesa e garanzia dello status nucleare del Pakistan quale alleato nei confronti della “minaccia iraniana e israeliana” nella regione. Il rischio che l’accordo fra gli Stati Uniti e l’Iran possa alimentare processi di riarmo nel delicato quadrante mediorientale può essere affrontato, per il Presidente Obama, con 82
una più intensa cooperazione che rassicuri i paesi arabi sunniti e le monarchie del Golfo e ne rafforzi le rispettive capacità di difesa, anche missilistica.
La scommessa Tuttavia, è sulle potenzialità legate ad un ritorno dell’Iran nell’economia mondiale, attraverso la revoca delle sanzioni e lo sfruttamento non di materiali fissili ma delle straordinarie capacità imprenditoriali della popolazione iraniana e delle sue giovani generazioni, che si gioca la “scommessa” del Presidente Obama. Un “test” che non prevede appello ma che il Presidente Obama ritiene oggi vada intentato. “L’America, grazie alla sua potenza schiacciante, deve avere maggiore fiducia in se’ e deve essere consapevole di poter assumere qualche rischio calcolato per cogliere importanti nuove opportunità, come appunto il forgiare un accordo diplomatico con l’Iran.” Un “rischio calcolato” che andrà attentamente ponderato, tenendo in considerazione non solo gli effetti immediati e di breve periodo che l’accordo esplicherà per gli Stati Uniti e l’Iran ma, soprattutto, l’impatto che questo potrà avere sulle dinamiche geopolitiche in atto nella regione mediorientale. Rischi e valutazioni che richiedono da parte della comunità internazionale una strategia coerente ed una visione globale dello scenario di sicurezza di medio e lungo periodo che, così come per l’accordo di Losanna, rimangono ancora da definirsi.
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19 Aprile 2015
di Corrado Passera
Lettera di Passera ai direttori dei media sul pericolo dell’Italicum L’iniziativa politica di Italia Unica contro la riforma elettorale e del Senato si arricchisce di un nuovo capitolo. Corrado Passera ha inviato una lettera a tutti i direttori di quotidiani e televisioni per ribadire le ragioni della contrarietà e soprattutto sensibilizzare i media sui pericoli che l’Italicum contiene per le regole del gioco politico e l’equilibrio tra istituzioni e cittadini. La lettera ha ricevuto una importante eco e ringraziamo i direttori che l’hanno pubblicata integralmente o ne hanno dato conto. Caro direttore, Noi di Italia Unica fin dal gennaio 2014, ossia dal primo momento, ci siamo battuti contro l’Italicum e la riforma del Senato, quasi sempre in solitudine e scontando l’indifferenza o, peggio, l’ostracismo delle altre forze politiche. Oggi il nodo arriva al pettine e tutti possono vedere quante lacerazioni, scontri, divaricazioni dentro e fuori dai partiti quei provvedimenti stanno provocando. Le riforme costituzionali finiscono per arrivare al traguardo con l’imprimatur solitario – e peraltro non compatto – del Pd e con l’avallo soltanto di altre formazioni minori. Abbiamo ripetutamente illustrato i motivi della nostra fortissima contrarietà: l’abbiamo fatto con il Presidente della Repubblica che ancora ringraziamo per la disponibilità e sensibilità; con un appello indirizzato a tutti i parlamentari; con iniziative territoriali in tutta Italia. Ma i giochi si stanno chiudendo e lanciamo una ulteriore accorata, denuncia. Le cronache raccontano di un premier arroccato nei suoi no e di dissidenti interni al suo partito più o meno decisi a contrastarlo. Non è questo il punto. Le regole del gioco politico, che 84
riguardano milioni di italiani, non possono risultare dall’ennesimo episodio di regolamenti di conti dentro ad una forza politica, la replica seriale di una faida infinita a sinistra. Lo diciamo senza enfasi, ma con grande determinazione: qui è in gioco il sistema democratico nel suo complesso, inteso come sano equilibrio di poteri e giusti contrappesi. Il premio di maggioranza previsto dall’Italicum è abnorme e senza pari nel mondo, con il risultato che il partito che vince prende tutto, anche gli organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale; la stragrande maggioranza dei parlamentari resta sciaguratamente nominata dalle segreterie dei partiti in spregio ad un elementare diritto di scelta dei cittadini; il Senato in mano a consiglieri regionali in carica è il trionfo dei particolarismi. Già così ce ne sarebbe a sufficienza. Ma l’elemento più tossico sta nel colpo di maglio inferto al principio cardine di ogni democrazia: la possibilità di alternanza garantita dal bipolarismo. Renzi dice di voler difendere entrambi, ma mente: con l’Italicum si realizza invece il disegno opposto, e non più nascosto, del Partito della Nazione, cioè del Partito Unico di infausta memoria. Noi vogliamo che l’Italia vada avanti, Renzi vuole tornare indietro ad esperienze già fallite. L’Italicum e il nuovo Senato disegnano un sistema nel quale un potere enorme viene assegnato ad un solo partito, ad un solo leader. Con gli antagonisti ridotti al ruolo di comparse, e soprattutto senza contrappesi democratici. Non sono questi i principi che possono e devono ispirare una democrazia moderna, compiuta, liberale, popolare. Siamo i primi a voler sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e quindi governerà, ma tante democrazie mature ci mostrano che si puòottenere questo risultato anche senza rinunciare alle garanzie democratiche. Neppure è vero che ormai è troppo tardi per ripensare l’impianto della legge. Intanto, contro uno scempio il tempo non scade mai, e poi perché intestardirsi in una corsa affannata quando alla scadenza naturale della legislatura, termine che Renzi ha sempre detto di voler rispettare, mancano addirittura tre anni? Per questo, ancora una volta, rinnoviamo il nostro invito al Parlamento: correggete una legge sbagliata e foriera di storture e dissesti per le istituzioni. Agli italiani, oltre a ridare il potere di stabilire quale governo avere e quali rappresentanti designare, va soprattutto riconsegnata la voglia di tornare ad appassionarsi della politica: quella sana, quella che è impegno civile e competizione ideale sui valori e concreta sui programmi. Le riforme che servono sono queste, non altre.
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21 Aprile 2015
di Corrado Passera
Schiaffo al Parlamento, il renzismo che fa male all’Italia. Italia Unica sta costruendo l’alternativa che non c’è La sostituzione dei dieci dissidenti Pd in Commissione Affari costituzionali della Camera in vista dell’esame della riforma elettorale rappresenta uno schiaffo senza precedenti al Parlamento. Non ci stancheremo mai di dirlo e di segnalarlo alla pubblica opinione e a chi ha a cuore le istituzioni e su di esse, sul loro funzionamento, vigila: la riforma elettorale, come e più del nuovo Senato, non possono essere un affare interno al Pd; un modo per regolare conti tra componenti. Stiamo parlando delle regole fondamentali del gioco politico, che dunque riguardano e sono patrimonio di tutti. Il modo in cui procede il premier Matteo Renzi è inaccettabile. Da oltre un anno, per primi e praticamente da soli, abbiamo lanciato l’allarme contro un pacchetto di riforme pericolose e fuorvianti. Oggi siamo arrivati al dunque. L’epurazione – che’ di questo si tratta – dei dissidenti è un atto che mortifica il Parlamento e getta una luce equivoca sulle reali intenzioni del premier. Perché un leader vero, che aspira ad essere uno statista, non piega il funzionamento delle Camere ai suoi interessi personali, non usa la posizione dominante di cui pro tempore (e senza avallo degli elettori: guai a dimenticarlo) gode per incursioni sulle regole istituzionali. 86
E se l’Italicum venisse approvato nella veste attuale, le cose sarebbero ancora peggio visto che quella legge assegna un potere enorme e senza bilanciamenti ad un partito solo, ad un solo leader. L’ Italia ha molti problemi e certamente la mancanza diffusa di lavoro è il principale e il più urgente. Il Governo ha perso un anno per dedicarsi a sue priorità di puro potere e oggi siamo il paese d’Europa che meno si avvantaggia della ripresa ( con eccezione di Cipro ). Ora lo scenario si aggrava. Dando via libera all’Italicum corriamo il serio rischio dire sì al consolidamento di un potere pervasivo e senza rivali, con uno squilibrio dannoso per istituzioni e cittadini. La riforma elettorale arrivata all’ultimo miglio alla Camera, è deleteria perché innalza un muro verso la creazione dell’alternanza, che della democrazia è il sale. Non prevede i collegi uninominali dove la competizione tra candidati può svolgersi in modo sano e comprensibile per gli elettori. Impedisce apparentamenti al ballottaggio e dunque favorisce il partito unico. È questo il vero vulnus democratico, ciò che ci spinge a definirlo un modello autoritario. Di fatto il patrimonio più importante della cosiddetta Seconda repubblica ossia il bipolarismo, l’alternanza e la contendibilita’ della guida del Paese, rischia di evaporare a favore di tentativi equivoci e pericolosi di partito Unico o della Nazione che dir si voglia. Il panorama si fa più cupo se esaminiamo le misure adottate dal governo per fronteggiare la crisi economica. In realtà bisognerebbe parlare di “non misure”, visto che dopo un anno di renzismo tutti i principali indicatori economici continuano ad avere il segno meno, mentre crescita e sviluppo restano un binomio con la sostanza dei miraggi. Di riduzione vera della tassazione non se ne parla, anzi: il prelievo aumenta in maniera costante. Di tagli effettivi alla spesa neppure: la vicenda Cottarelli è emblematica. Di interventi veri di razionalizzazione della spesa e di lotta agli sprechi non c’è traccia, e le società partecipate sono ancora lì, pascolo per i partiti, allevamento di poltrone e prebende a spese dei contribuenti. Questo stato di cose si salda all’altro dato squilibrante: l’assenza di una opposizione credibile e capace di gareggiare per il governo del Paese. Non c’è dubbio che la responsabilità principale di questa situazione ricade sulle spalle di Silvio Berlusconi. Aver suscitato tante speranze ed averle poi lasciate marcire è imperdonabile. Il problema è sotto gli occhi di tutti. Forza Italia è nel caos preda di spinte centrifughe; il suo leader ha rotto l’intesa con Renzi e cerca adesso ammiccamenti elettorali a puri fini di potere con il lepenismo leghista o con il neo-centrismo, asservito alle logiche renziane, di Ncd. È evidente a tutti che così non si crea alcuna opposizione. Peggio: su questa strada si spingono milioni di elettori a rifiutare le urne, privandoli di un corretta rappresentanza sociale e parlamentare. Si spiega così il fatto che in tanti siano finiti sotto le bandiere di Renzi: non sono certo le grida di Salvini o le invettive di Grillo a poter coagulare il consenso necessario ad un’alternativa di tipo europeo. A noi di Italia Unica questo stato di cose appare chiarissimo. Ed è questa la motivazione che mi ha spinto ad impegnarmi personalmente nella creazione di un partito. Italia Unica, infatti, è nata sulla base di due ipotesi di lavoro. La prima: che Renzi non 87
sarebbe stato in grado di innovare abbastanza per rimettere in moto il Paese e purtroppo, come abbiamo detto, numeri alla mano la realtà si sta dimostrando peggio del previsto. La seconda: che nessuno degli altri partiti sarebbe stato in grado di essere vera alternativa al PD di Renzi. E purtroppo anche qui il risultato è stato peggio del previsto. Italia Unica crede nel bipolarismo ed è convinta che si possa realizzare anche in Italia. Siamo certi che nel nostro Paese ci sia una grande maggioranza silenziata con la quale costruire una forte alternativa al PD di Renzi; che vuole essere orgogliosa di sentirsi italiana; che vuole ritrovarsi in un progetto ambizioso di vera innovazione; che è disposta a guardare in faccia i problemi rifuggendo dalla demagogia e dalla propaganda populista. Le proposte per innovare profondamente l’Italia le abbiamo ( e altri contributi saranno ben accetti ), tanta gente in gamba si sta organizzando in tutta Italia ma bisogna accelerare cercando quel massimo comune divisore sul quale costruire l’alternativa politica di cui oggi l’Italia ha bisogno. Abbiamo l’ambizione di diventare l’opposizione che non c’è e che si candida a prendere il timone del governo. Senza paura del nuovo.
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9 Maggio 2015
Migrazioni straordinarie da Africa e Medio Oriente: le proposte di Italia Unica La Direzione Nazionale di Italia Unica, riunitasi sotto la presidenza di Corrado Passera, ha affrontato il tema del crescente e drammatico flusso migratorio proveniente da vari paesi dell’Africa e del Medio Oriente, che ha come suo obiettivo immediato le coste italiane, “porta” d’Europa di questa fuga da povertà e paura. Dopo aver ricordato che oggi cade la Festa dell’Europa, che ci vide fondatori e oggi ci relega troppo spesso ai margini dei processi decisionali che vogliamo al contrario rafforzare, perché in più Europa crediamo, la discussione si è aperta sottolineando che siamo in presenza di un epocale sconvolgimento geopolitico di enormi dimensioni: assurdo pensare che possa farsene carico un solo Paese. Le migliaia di vittime – spesso ignote – che il Mediterraneo ha inghiottito sono un monito ad agire rapidamente e con serietà per tutta la comunità internazionale, nessuno escluso. Non sono accettabili le lacrime di circostanza che si asciugano in fretta per poi voltarsi dall’altra parte. I governi hanno compiti e obiettivi da raggiungere per assicurare accoglienza, garantire la sicurezza, evitare un esodo che non è sostenibile.
Uno scenario allarmante che tocca tutti da vicino. “Se osservassimo un minuto di silenzio per ogni scomparso in mare, nessuno dovrebbe parlare per 5 giorni e 8 ore”, ha dichiarato l’UNHCR, l’organismo dell’ONU che si batte 89
per i diritti dei rifugiati. Ricordiamo l’ecatombe in cui hanno perso la vita almeno 800 persone, il 18 aprile 2015, la più grande perdita di vite di rifugiati e migranti mai accaduta nel Mediterraneo. Più di 25.000 persone sono state soccorse in mare dal 2000 ad oggi e ci si aspetta un’altra ondata di circa 9.000 persone nelle prossime settimane. Queste persone sono bambini, donne, esseri umani. Anche dopo lo sbarco, i drammi continuano: in base ad un documento diffuso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali italiano, dall’inizio del 2014 i minori non accompagnati arrivati in Italia dal Nord Africa sono stati circa dodicimila: di essi, circa tremila – uno su quattro – sono scomparsi. L’Europa, assieme alla NATO ed agli Stati Uniti, fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, aveva considerato il Mediterraneo come un quadrante essenziale della difesa dell’Occidente; le sue acque erano presidiate dalla VI Flotta degli USA e dalla Marina Italiana, considerata una delle migliori del bacino. Fino ad allora, ancorché si fossero sviluppati eventi bellici di vasta portata (Crisi Libano-Israeliana, guerra dei 6 giorni, crisi Somala, crisi dei Paesi sub-sahariani ecc.) non vi erano stati significativi tentativi di migrazione di massa per sfuggire alla guerra o, se vi erano stati, venivano ben contenuti dagli accordi con i Paesi di origine o di transito, soprattutto con la Libia di Gheddafi. Con la caduta del muro di Berlino, l’Europa, la NATO e gli USA hanno destinato più energie e interessi strategici fuori del Mediterraneo, verso i Paesi dell’Est Europa. Il fenomeno migratorio presenta peculiarità che richiedono un ventaglio di misure: non tutti i migranti sono infatti dello stesso tipo o hanno esigenze identiche. I rifugiati sono per esempio persone bisognose di protezione, e per loro debbono valere le regole e le misure sancite nei trattati internazionali. Sono sempre più numerose le persone che provengono da Paesi che potenzialmente presentano caratteristiche per riconoscere il diritto alla protezione internazionale ma la realtà è che siamo di fronte a un flusso di ingressi non programmati che solo in parte (si stima il 55% sulla base delle domande di riconoscimento di protezione internazionale che hanno avuto esito positivo) sono riconducibili alla definizione di profughi: questa percentuale si riferisce a una parte minoritaria dei migranti – quella censita, appunto – mentre la stragrande maggioranza degli arrivi si compone di migranti non profughi. Il resto, persone provenienti dal Centro Africa sono legate a tratte organizzate per canalizzare a pagamento migranti in cerca di lavoro. Tale fenomeno si è incrementato nei centri di raccolta libici nel corso dell’operazione Mare Nostrum e questo flusso si sta attualmente riversando nelle traversate del mar Mediterraneo. Va considerato comunque che circa due terzi degli arrivati non risultano essere presenti in Italia (si calcola che, nel 2014, su circa 174000 arrivati, siano rimasti solo in circa 64000) e che pertanto tali soggetti non hanno presentato domanda di asilo: insomma quella dei profughi è una minoranza da non confondere con coloro che arrivano in cerca di lavoro per i quali servono interventi specifici e diversi; ci sono centinaia di migliaia, ma si parla addirittura di milioni, di esseri umani in attesa di trasferirsi in cerca di un mondo migliore, e la storia è dalla loro parte: gli uomini sono sempre stati, e lo sono ancora, in movimento. E poi esistono i delinquenti che vogliono venire in Europa, mescolati tra persone per 90
bene, che arrivano anche scommettendo sulle difficoltà del sistema-giustizia italiano, ingolfato e lentissimo. Su tutto questo si impianta la crescente attività criminale di tratta di migranti. Due cose devono essere chiare. Primo, la tratta dei migranti è un crimine odioso che va combattuto con tutti i mezzi: è peraltro evidente che il traffico dei migranti è opzione quasi esclusiva di gruppi criminali stranieri, i cui vertici rimangono nei paesi di origine o di transito e che, nel nostro Paese operano con figure di secondo piano che hanno solo il compito di gestire il “passaggio” in Italia verso l’estero, per cui noi possiamo perseguire solo l’ultimo anello della sporca catena, ma non gli organizzatori responsabili. La tratta va combattuta all’origine con un impegno che coinvolga le forze di polizia e di intelligence dei Paesi europei e dei principali extra-europei. Rispetto al passato, l’organizzazione di tali tratte presenta caratteristiche di elevata pericolosità legate agli espliciti collegamenti di molti gruppi criminali con i movimenti fondamentalisti islamici interessati a finanziare le loro operazioni militari e a destabilizzare gli stati occidentali. In secondo luogo, chi si mette in viaggio per mare e si trova in difficoltà va soccorso secondo i criteri fondamentali di umanità e le norme costituzionali e internazionali. Tuttavia, se è vero che lo Stato (qualunque esso sia) non può non tener conto degli Accordi Internazionali sui flussi migratori, sugli interventi di soccorso in mare, sull’accoglienza dei richiedenti asilo, allo stesso modo non può e non deve voltare le spalle al diritto dei suoi cittadini di pretendere una vita senza le incombenti minacce implicitamente connesse ad una “accoglienza” illimitata e non ben regolamentata. In questi anni, l’Italia ha assorbito oltre 5 milioni di immigrati (che quando si sono integrati hanno rappresentato anche una risorsa demografica ed economica positiva per il Paese), ma ora non è in grado di assorbirne altri fatto salvo l’impegno all’assistenza ai profughi.
Rivoluzionare il ruolo dell’Europa nel Mediterraneo. Italia Unica registra con sconcerto ed amarezza che le autorità italiane finora hanno operato poco e male sulla Libia, ed hanno lasciato colpevolmente incancrenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina e degli scafisti. I salvataggi in mare sono stati opera della Marina italiana i cui meriti vanno riconosciuti assieme a quelli della Guardia costiera (senza trascurare il fondamentale apporto di Protezione Civile, volontari e amministrazioni locali): si tratta di un’attività che però va maggiormente condivisa a livello comunitario. Serve subito un intervento adeguato che poggi sul concerto della UE, dell’ONU, degli Stati rivieraschi del Nord Africa. Non esiste una soluzione univoca o facile ad un problema di questa portata, né ci sono ricette semplificatorie da adottare. Occorre operare su vari livelli (diplomatico, di polizia internazionale, umanitario e se necessario anche militare) e l’Italia deve pretendere dagli altri Paesi della UE la condivisione degli oneri finanziari e assistenziali che interventi di tale portata richiedono. Mare nostrum è stata abbandonata a favore di Triton (un programma perfino meno 91
ambizioso del precedente): è cambiato il nome ma ciò non ha evitato al Mediterraneo di diventare lo stesso un immenso cimitero. Mentre il semestre italiano di guida dell’Unione si è rivelato una occasione sprecata, anche i recentissimi summit con i partner UE hanno prodotto risultati miseri, nonostante la grancassa che da Palazzo Chigi si è riversata sui media. L’Italia ha invece l’interesse primario a essere protagonista nel controllo integrato dei confini, per cui deve necessariamente muoversi per rivedere gli accordi di Dublino: la UE deve avere una politica più chiara e forte in termini di immigrazione sia in termini di meccanismi di selezione all’entrata sia in termini di integrazione. Non possono essere lasciati ai singoli Paesi – che costituiscono i confini stessi della UE – l’onere e la responsabilità di “difendere” tali confini e determinare la politica d’immigrazione comune. Per realizzare quanto sopra, Italia Unica si impegnerà in sede europea anche per promuovere le opportune modifiche ai Trattati della UE (TUE) e del Funzionamento della UE (TFUE). Bruxelles deve intessere rapporti di collaborazione con tutti i Paesi d’origine e di transito in Africa e in Europa e di destinazione del fenomeno migratorio, concordando aiuti economici e altre forme di cooperazione in cambio di impegni a trattenere i migranti o a riaverli indietro se rimpatriati.Con l’Egitto, la Tunisia e con il Marocco sono stati sottoscritti accordi internazionali appena sufficienti. I Paesi del centro Africa, invece, si rifiutano di accettare il rientro dei loro cittadini e le nostre Istituzioni non sono particolarmente solerti nel determinare le condizioni per vincolare questi Paesi a riprendere i loro cittadini emigrati illegalmente. Per le popolazioni che intendono lasciare il loro paese a seguito di conflitti ma che poi hanno intenzione di ritornarvi, è necessario stringere accordi con i Paesi rivieraschi che ospitano o potrebbero ospitare campi di raccolta di ogni tipo di migranti, perché la gestione di tutti i campi venga trasferita all’ONU e che a tali strutture possano essere riversati anche buona parte degli aiuti europei. Un capitolo a parte riguarda la Libia, principale porto di passaggio e ripartenza dei migranti e coacervo dell’azione dei trafficanti. È impossibile immaginare di tamponare i flussi senza pacificare e stabilizzare la Libia, che oggi è un Paese privo di istituzioni affidabili e dove si scontrano interessi di tribù, potentati locali, signori della guerra, infiltrazioni jihadiste. Occorre impegnarsi per un riassetto statuale della Libia e allo stesso tempo operare sul piano umanitario e militare. Resta fondamentale la stabilizzazione del Paese. La Libia deve ritrovare un equilibrio superando la guerra interna che la sta distruggendo. Per perseguire tale obiettivo, appare necessario cominciare a dare chiari segni di supporto al Parlamento e al Governo di Tobruk attraverso aiuti diretti e attraverso il ruolo sul campo che può svolgere il vicino Egitto. Appare invece del tutto irrealistico mettere intorno allo stesso tavolo e sullo stesso piano fazioni islamiche estremiste e movimenti addirittura di estrazione terroristica. Per quel che riguarda l’aspetto umanitario, la presa in carico dei campi profughi libici 92
non può che essere compito dell’ONU. Mentre la UE dovrebbe prendersi la responsabilità di pattugliare militarmente le coste libiche per individuare gli scafisti e bloccare i barconi in partenza con immigrati clandestini.
Razionalizzare la burocrazia italiana dell’immigrazione. Guardando al nostro interno, fortemente carenti restano sia le operazioni di registrazione degli sbarcati, sia la distribuzione equa dei carichi sui territori, sia i tempi burocratici per l’accoglimento o meno delle domande di asilo che spesso sforano i 12 mesi. Italia Unica propone di triplicare o più le Commissioni incaricate di svolgere il compito di valutazione delle domande di asilo. Il problema è aggravato dal fatto che le persone che hanno visto respinta la domanda continuano a permanere nei centri di accoglienza a spese dello Stato: sostanzialmente tutti attivano i ricorsi e permangono nei centri, rischiando anche degenerazioni “interessate” di alcune mele marce operanti nel pur essenziale e nobile settore dell’accoglienza e nel relativo indotto (es. alberghiero). A questo proposito, Italia Unica chiede al Governo di rappresentare in maniera compiuta gli oneri diretti e indiretti che il fenomeno migranti comporta per le amministrazioni centrali e locali del nostro Paese. In aggiunta a ciò, Italia Unica propone che tutte le persone che hanno ricevuto una risposta dalla Commissione preposta debbano fuoriuscire dai centri di accoglienza (o espulsi dall’Italia o accettati come profughi); oppure che la condizione della loro permanenza all’interno dei centri sia condizionata alla frequentazione obbligatoria di corsi di educazione civica e allo svolgimento di attività di pubblica utilità. Questo certamente non significa “fare lavorare gratis” i migranti, come improvvidamente proposto da alcune forze politiche e perfino da rappresentanti di governo, ma anzi valorizzare l’impegno richiesto ai migranti come corrispettivo degli oneri dalle Amministrazioni Pubbliche per il loro sostentamento. Il Governo, infine, anziché scaricare il problema della distribuzione dei profughi agli apparati amministrativi che sono impotenti nel gestire i rapporti con i territori (è del tutto evidente che l’accordo Stato-Regioni-Enti locali del 10 luglio 2014 non è più in grado di rispondere alle attuali esigenze), abbia il coraggio di assumersi la responsabilità di adottare gli interventi straordinari in grado di garantire una equa distribuzione dei carichi d’accoglienza interni, per esempio tra Regioni e Comuni, affinché non gravino solo su alcuni territori più esposti ai cui cittadini vanno anzi riconosciuti gli sforzi assicurati sinora.
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9 Maggio 2015
Italicum, una legge sbagliata e pericolosa. Continua la battaglia sulle riforme La Direzione nazionale di Italia Unica, riunitasi sotto la presidenza di Corrado Passera, ha esaminato la situazione politica alla luce dell’approvazione definitiva della riforma elettorale da parte della Camera. Italia Unica, fin da subito, per più di un anno e praticamente da sola, ha denunciato i limiti e le storture dell’Italicum, mettendo soprattutto in luce gli aspetti lesivi dei corretti equilibri politico-istituzionali che la legge contiene. Prima al Capo dello Stato, che ringraziamo ancora per l’incontro avuto e per l’attenzione data al nostro partito, poi in appelli rivolti a tutti i Parlamentari, a lettere al Presidente del Consiglio e al Ministro Boschi e per ultimo ai segretari dei vari partiti, abbiamo spiegato le ragioni della nostra fortissima contrarietà. Siamo anche scesi in piazza a Montecitorio con una manifestazione di protesta simbolica, proprio per testimoniare la volontà di non lasciare nulla di intentato. Tanta determinazione ha un motivo preciso. Con il nuovo meccanismo, infatti, un potere abnorme, che non ha pari nel resto delle democrazie evolute, viene assegnato ad un solo partito e ad un solo leader. Non è in discussione l’impianto maggioritario, sul quale da sempre ItaliaUnica concorda: chi vince le elezioni deve avere la maggioranza in Parlamento e dunque la possibilità di governare per tuta la legislatura. Ciò che consideriamo abnorme è che vengano dati molti milioni di voti in premio ad una minoranza trasformandola in maggioranza al primo turno, che non vengano permessi apparentamenti e coalizioni al secondo turno rischiando di dare la maggioranza dei seggi a un partito di estrema minoranza (che rappresenta magari il 15% degli italiani), che il partito che vince non solo ha i voti per gestire il Paese, ma anche – di fatto – quelli per determinare gli organi di garanzia: Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale. Senza dimenticare che, ancora una volta, i cittadini verranno sostanzialmente privati del potere di scegliere i loro Parlamentari visto che la stragrande maggioranza degli stessi verrà stabilita dalle segreterie dei partiti attraverso i capilista bloccati e le candidature multiple. L’Italicum non favorisce la partecipazione perché forza a liste eterogenee tenute insieme dalla voluttà del premio di maggioranza. Non favorisce nemmeno la governabilità: che tenuta ha un Governo basato su incomprimibili eterogeneità e che preferisce accordi di lista nascosti a trasparenti accordi di coalizione ? Né infine deve far velo la soglia di sbarramento per l’accesso alla Camera, ridotta al 3 per cento. Per noi potrebbe tranquillamente essere innalzata. Il punto è la coerenza e democraticità dell’intero meccanismo, non qualche seggio in più per accontentare forze minoritarie. L’Italicum è un meccanismo elettorale funzionale al progetto del Partito della Nazione, un 94
sistema dove si vorrebbe una grande “balenottera” al centro, inamovibile e onnipotente, circondata da forze politiche disorganizzate, estremiste o frammentate. Un disegno lucido – dove alcuni sono caduti, altri hanno trovato il loro interesse di breve periodo, altri ancora hanno avuto un rigurgito di dignità troppo tardi – di divide et impera che rischia di condannare l’Italia ad una nuova fase di consociativismo, di trasformismo e di corruzione. Certamente di declino.
La “scusa” della governabilità è il peggiore degli alibi. È stata fatta passare sui media e nell’opinione pubblica la considerazione che, a causa del tragico e colpevole immobilismo dei decenni scorsi, bisognava comunque fare qualcosa sulla legge elettorale, indipendentemente se quel qualcosa rappresentasse un giovamento o invece una torsione indebita delle regole del gioco. Un’immagine sbagliata e rischiosa. Contro la quale Italia Unica si è spesa proponendo, come è nel suo stile, precise e praticabili alternative: un sistema elettorale maggioritario con doppio turno di coalizione e apparentamenti al ballottaggio; collegi uninominali per far valutare e scegliere i deputati ai cittadini; monocameralismo con non più di 400 parlamentari. Anche a costo di forzare come mai in precedenza i regolamenti parlamentari e usando come un randello i voti di fiducia, Renzi ha condotto in porto una riforma ritagliata sulle sue esigenze ed i suoi interessi. Contraddicendo il principio da lui stesso solennemente annunciato per il quale provvedimenti delicatissimi sotto il profilo degli equilibri democratici come questo dovessero essere approvati dal più largo numero di forze politiche possibile. È accaduto invece che l’Italicum sia stato votato solo dallo schieramento di maggioranza e con il netto dissenso di una parte del PD.
L’obiettivo è il bipolarismo. Decisivo obiettivo politico di Italia Unica resta quello di coalizzare – nella salvaguardia di precisi e fondamentali principi costituzionali e di equilibrio istituzionale – una parte significativa del dissenso che in Parlamento e nel Paese, tra le forze politiche, le categorie sociali ed economiche, gli esperti e soprattutto tra i cittadini (uno su due, dicono le rilevazioni), si è manifestata contro l’Italicum. La battaglia per il bipolarismo vero, per la partecipazione e la rappresentanza può raccogliere un largo fronte di cittadini italiani che, come noi, non si danno per vinti. Coerentemente con uno sforzo che dura da oltre un anno, Italia Unica non intende adesso ripiegare. Ora la battaglia si sposta sulla riforma costituzionale: la nostra iniziativa si concentrerà sulla necessità di introdurre contrappesi e bilanciamenti allo strapotere del partito e del leader vincente. Per esempio mediante l’innalzamento significativo dei quorum per la nomina del Presidente della Repubblica. Ragionando poi se riprendere in considerazione anche la possibilità di un Senato elettivo al posto di quello immaginato nella formulazione attuale della riforma, prigioniero dei Consigli regionali e dei loro interessi. Quanto infine alla possibilità di un referendum, valuteremo con il massimo impegno la percorribilità di abrogazione di almeno le più evidenti storture della riforma. 95
12 Maggio 2015
di Corrado Passera
Immigrazione, Passera: Piano Juncker rischioso per l’Italia “Sull’immigrazione dal Nord Africa e sulla tratta dei migranti, Italia Unica si è già espressa in modo netto con il documento della Direzione nazionale di sabato scorso. Ma in vista del vertice UE domani, alla luce delle indiscrezioni riguardo il piano redatto dal Presidente Juncker, appaiono necessarie e urgenti alcune precisazioni, richiamando l’Unione Europea ad un ruolo più attivo e responsabile, come chiesto anche dal Presidente Mattarella, e che non prefigurino – come emerge chiaramente dalle bozze – una penalizzazione del nostro Paese. E’ molto importante che su questo tema la UE parli con una sola voce all’ONU. L’obiettivo finale è di ottenere l’appoggio delle Nazioni Unite per la necessaria cornice di legalità internazionale ai fini di interventi forti e coordinati contro la tratta degli esseri umani. Tuttavia bisogna stare molto attenti a quali sono le mosse da adottare in ambito comunitario. Sotto questo profilo, infatti, il cosiddetto piano Juncker appare molto pericoloso per il nostro Paese. Intanto perché, di fatto, “commissaria” l’Italia per quanto riguarda le procedure di accertamento dei migranti (identificazione, fotosegnalamento,
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ecc) e lascia trasparire l’intento della UE di tutelarsi rispetto alla intenzione di molti migranti di trasferirsi verso altri Paesi europei. In secondo luogo, conferma ciò che è sancito dall’Accordo di Dublino e dunque che la responsabilità ultima del trattamento e accoglienza dei migranti è del Paese europeo di arrivo. Inoltre l’idea di una task force ha senso se a valle del fotosegnalamento si definisce immediatamente il trasferimento dei richiedenti protezione in altri Paesi UE sulla base di quote predefinite e non per fossilizzarne la presenza in Italia a prescindere dalla vera volontà degli interessati . Non solo. Il piano Juncker parla di appena 20.000 rifugiati da suddividersi tra Paesi europei, tra cui ovviamente la stessa Italia. È appena il caso di rilevare la necessità di porre estrema attenzione a parametri che potrebbero essere penalizzanti per noi. La conseguenza di una simile impostazione – che ci auguriamo palazzo Chigi, la responsabile Pesc Mogherini ed il ministro Gentiloni non recepiscano – sarebbe che l’Italia, se non si interrompono gli sbarchi, diventerà un Paese con un numero imprecisato ma grandissimo di immigrati non programmati e conseguenti costi altissimi di gestione: già oggi non siamo lontani da 2 miliardi. Non dimentichiamo che sono già decine di migliaia i contenziosi instaurati da altri Paesi UE per rimandarci migranti clandestini secondo le norme di Dublino. In sostanza se l’atteggiamento del Governo non cambia siamo nei guai: il sospetto è che tanta acquiescenza sia da ricercare nella campagna elettorale in atto e nella volontà del governo di non affrontare temi così spinosi. A cominciare dalla responsabilità di una così grave emergenza troppo a lungo rimandata, e che ci sta scoppiando in mano. Italia Unica guarda con attenzione agli sviluppi di una questione così delicata, e come è nel suo stile è pronta a mettere sul tavolo proposte concrete di prima soluzione, oltre naturalmente a quelle già contenute nel documento approvato dalla Direzione nazionale e pubblicate qui. Innanzitutto dobbiamo drasticamente accelerare le nostre capacità di accertamento prevedendo anche un canale straordinario per la gestione delle cause di appello fino al giudizio della Cassazione riguardanti le richieste di asilo, ricordando che finché non si arriva al verdetto finale quel tipo di immigrazione resta a carico dell’Italia. Soprattutto è fondamentale ottenere da subito che gli altri Paesi europei si facciano carico di un numero di rifugiati (riconosciuti tali) ben maggiore dei 20.000 di cui si parla oggi. Oppure contribuiscano in modo sostanziale agli oneri sostenuti dal Paese di entrata nella UE. Dobbiamo inoltre cercare di ottenere una modifica dell’Accordo di Dublino (che passa per modifica della Costituzione UE) che porti la gestione dei migranti non programmati (almeno quelli con diritto di asilo) tra le responsabilità della UE, visto che oggi a livello comunitario si parla solo di armonizzazione e fondi per integrazione. Italia Unica ribadisce con forza, dunque, la necessità di un’azione seria della UE che coniughi diritti e sicurezza, condividendo tra i vari Paesi membri le responsabilità e l’impegno per risolvere un dramma di proporzioni enormi che non può e non deve vedere l’Italia unica frontiera davanti alla straordinaria migrazione di centinaia di migliaia di persone in fuga dalla paura e dalle guerre.
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21 Maggio 2015
di Riccardo Puglisi
Bonus Poletti, Malus Damiano Sulla base del dibattito che si è acceso, sono opportune alcune riflessioni sulla sentenza della Corte Costituzionale (la “sentenza Sciarra”) che ha dichiarato incostituzionale il blocco degli scatti per inflazione delle pensioni superiori a tre volte la minima, e sui provvedimenti presi e/o annunciati dal governo Renzi al proposito.
I costi Partiamo dai numeri. Sulla base di quelli forniti dall’INPS e dalla Ragioneria dello Stato, Renzi ha precisato che un rimborso totale degli scatti pensionistici per il quadriennio 2012-2015 costerebbe 18 miliardi di euro, cioè più di un punto di Pil: si tratterebbe di una mazzata gigantesca sull’equilibrio dei conti pubblici, anche perché a ciò devono essere aggiunti qualcosa come 5/6 miliardi di costo aggiuntivo per gli anni successivi (su questo punto il governo non ha ancora fornito cifre precise). La ragione di questo aggravioèsemplice: il monte pensioni aumenta a motivo della rivalutazione completa e questa rivalutazione si trasla in avanti negli anni successivi.
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Proprio su queste basi, si chiarisce che la tanto ingiustamente bistrattata riforma Fornero costituisce il principale intervento strutturale per rendere sostenibile il nostro sistema pensionistico di fronte alla sfida posta dall’invecchiamento della popolazione. Nel rendere sostenibile il sistema pensionistico, la riforma mette al sicuro i nostri conti pubblici nel medio/lungo termine. Non solo: la riforma delle pensioni è stato ed è uno straordinario provvedimento liberale di spending review, finalizzato a evitare nel breve termine un’esplosione insostenibile delle prestazioni pensionistiche che –non dimentichiamoloin un sistema a ripartizione come il nostro sono finanziate dai contributi e dalle imposte.
Gli effetti della sentenza della Consulta Riguardo al modo in cui il governo Renzi ha gestito la questione, bisogna come al solito distinguere il piano sostanziale da quello mediatico. Come è giusto che sia, partiamo dal piano sostanziale: dal momento che nel decreto legge appena emanato si prevede di restituire gli scatti per inflazione solo nel caso di pensioni di importo tra 3 e 6 volte la minima (per un costo totale di 2 miliardi circa, rispetto a un’ipotetica restituzione di 18 miliardi) il dato di fatto è che il governo sta sostanzialmente confermando la riforma Fornero delle pensioni, perlomeno nella sua parte relativa al breve termine. In realtà sta andando anche oltre perché, a quanto si capisce, paga il “bonus” nel 2016 e quindi prolunga ulteriormente il congelamento. Badate bene: la sta confermando, ma senza dirlo, perché parlare bene della riforma Fornero appare elegante e moralmente accettabile solo nei documenti ufficiali come il Documento di Economia e Finanza (DEF), quando si tratta di mostrare al mondo la sostenibilità dei nostri conti pubblici. Per quanto riguarda il futuro, si prevede un costo aggiuntivo di 500 milioni all’anno per gli anni successivi (si evince dal comunicato stampa di palazzo Chigi): la questione non è del tutto chiarita, ma molto probabilmente Renzi confermerà l’indicizzazione all’inflazione decisa dal Governo Letta con la Legge di Stabilità 2014, ovvero un’indicizzazione decrescente che si azzera per una pensione sei volte la minima. Il costo aggiuntivo (500 milioni) è dato dal fatto che il monte pensioni iniziale cresce a motivo dell’incremento una tantum di cui sopra.
La propaganda mediatica Passiamo all’aspetto mediatico della questione: qui Renzi agisce con la sua proverbiale furbizia da professionista della politica: la restituzione di una parte dell’indicizzazione viene venduta come un bonus graziosamente elargito dal governo (l’ormai famoso #BonusPoletti). Non solo: purtroppo Renzi presenta se stesso come colui che sistema gli errori compiuti dai governi passati, dolosamente dimenticandosi che dal punto di vista dei conti il suo governo attuale sta sostanzialmente confermando la riforma Fornero, perlomeno nei suoi effetti di breve termine. Giova anche ricordare –a vantaggio della numerosa e crescente turba degli smemorati- che la riforma Fornero fu votata alla Camera con una percentuale di sìpari all’80.6%, e con l’unanime appoggio dei deputati del PD presenti: 199 sì, 0 astenuti, 0 contrari.
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La restituzione una tantum Bisogna anche prestare molta attenzione al modo in cui il governo intende finanziare il pagamento di questa restituzione una tantum: ha perfettamente ragione Massimo Brambilla quando ragiona sul fatto che sia increscioso utilizzare per questo fine il fantomatico “tesoretto”(leggi: uno 0,1% di Pil aggiuntivo di spesa in deficit) contenuto nell’ultimo DEF: questi spazi di spesa aggiuntivi dovrebbero essere utilizzati per strumenti concreti di lotta alla povertà. Si provveda piuttosto a questa spesa straordinaria con privatizzazioni e dismissioni aggiuntive: dismissioni una tantum per pagare una restituzione una tantum. Non è ancora del tutto chiaro come verranno finanziati i 500 milioni annuali aggiuntivi per gli anni successivi: a nostro parere l’unica strada consiste nel rendere più profonda la revisione della spesa corrente.
Il bonus Damiano Veniamo ora alle vere dolenti note che si annidano nelle scelte del governo. L’astuta – e pericolosa – mossa politica, la quale persegue anche il fine di compattare ala renziana e ala sindacale del PD, consiste di fatto nel mettere insieme questo magico Bonus Poletti con un #BonusDamiano, cioè l’introduzione della cosiddetta “flessibilità in uscita”: un modo elegante per reintrodurre prepensionamenti nel sistema italiano. Ne conseguirebbe uno smantellamento della riforma Fornero nella sua parte principale, cioè nei suoi effetti benefici effetti sulla sostenibilità di medio-lungo termine del sistema, che dipendono dall’allungamento dell’età pensionabile e dal passaggio al metodo di calcolo contributivo per tutti. Attenzione dunque all’inganno che sta dentro il pacchetto proposto: il rischio è di farsi distrarre dall’involucro (il Bonus Poletti) dimenticandosi della sorpresa all’interno, cioè i prepensionamenti tanto amati dall’ala sinistra del PD (e non solo). Partiamo dalle basi: la riforma Fornero ha reso sostenibili le pensioni italiane e dunque le ha salvaguardate, adesso e per il futuro. Se riapriamo il tema dei prepensionamenti –cioè se mettiamo in discussione l’elemento fondante della riforma che consiste nell’innalzare dell’età di pensionamento- il rischio grave è che venga colpito in maniera irresponsabile l’intero impianto della riforma, così da creare un buco nei conti pubblici dell’ordine delle decine – se non centinaia – di miliardi. Questo rischio è tanto maggiore quanto più il PD in Parlamento si farà illudere dall’idea che il lavoro per i giovani si crea prepensionando i lavoratori anziani, invece che tagliando le tasse e lasciando lo spazio agli investimenti. Sotto questo profilo, affermare che tagliando di qualche decina di euro le pensioni sia possibile andare in pensione con anni di anticipo assomiglia a un imbroglio bello e buono: dal momento che il nostro è un sistema pensionistico a ripartizione (“senza tesoretto”), i mancati contributi di chi va in pensione in anticipo e l’aumento della spesa pensionistica si caricano entrambi sulle spalle di lavoratori e contribuenti attuali. Un breve accenno al modo in cui il Governo si è difeso davanti alla Consulta: l’Avvocato dello Stato Giustina Noviello -con cui ho avuto modo di interagire in questi giorni- è stato nominato come responsabile della difesa della Presidenza del Consiglio quando Renzi era già in carica. La memoria difensiva della Noviello rischia di rimanere nei cassetti di Consulta, Governo 100
e Avvocatura per un tempo che non vorremmo arrivasse all’anno, come già accaduto con i dossier del Commissario alla Spending Review Cottarelli. Lo stesso Cottarelli –durante l’ultima puntata del talk show Di Martedì- ha pacatamente espresso qualche dubbio intorno all’efficacia della difesa del decreto SalvaItalia da parte di Governo e Avvocatura, soprattutto dal punto di vista dell’effetto sui conti pubblici di una eventuale pronuncia di incostituzionalità. A questo punto vogliamo sapere come il governo Renzi ha difeso la riforma Fornero davanti alla Consulta attraverso l’Avvocatura dello Stato: come è stata impostata la causa? Quali dati contabili sono stati forniti dal Governo e dalla Ragioneria Generale dello Stato a supporto di tale difesa? Possiamo anche andare oltre: come suggerito dall’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli e dal costituzionalista Augusto Barbera, il governo potrebbe riproporre la stessa misura di blocco parziale delle indicizzazioni contenuta nella riforma Fornero affiancandola con una documentazione contabile di supporto più estesa e dettagliata (rispetto alla descrizione già contenuta nella relazione illustrativa al SalvaItalia, come spiegavo qui). In ogni caso, è giusto che i cittadini sappiano come è stata gestita la questione: dopo tutto non esistono soldi pubblici, ma solo soldi dei contribuenti (cit.). Ed è giusto che il governo ben difenda questi soldi.
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28 Maggio 2015
Togliamo la Rai ai partiti, restituendola ai cittadini Un decalogo per ritrovare democrazia, pluralismo e qualità nel servizio pubblico radiotelevisivo. Noi crediamo nel servizio pubblico radiotelevisivo perché ci sono attività fondamentali per l’economia, la cultura e la democrazia del Paese che il mercato, da solo, non potrebbe garantire: prima di tutto una informazione non di parte, uno spazio di dibattito politico aperto nel rispetto delle pari opportunità, la valorizzazione in tutto il mondo del “Made in Italy” sia culturale che economico. E infatti tutte le democrazie europee mantengono un servizio pubblico più o meno ampio (e dedicando risorse in alcuni casi anche molto superiori a quelle italiane). Crediamo che la RAI possa garantire tale servizio pubblico in modo efficace ed efficiente se saranno garantite buona gestione e autonomia dalla politica, due ingredienti fondamentali, che si tengono insieme: infatti, non vi può essere una gestione sostenibile e un vero servizio pubblico in presenza di commistioni malsane tra management e ingerenze politiche varie. La Rai va considerata prima di tutto una grande impresa editoriale e come tale focalizzata soprattutto sulla creazione di contenuti di qualità mondiale, sulla capacità di attrarre e valorizzare talenti in questo campo e sulla capacità di raggiungere con le migliori tecnologie i suoi pubblici di riferimento. La riforma proposta dal Governo Renzi è una pura operazione di potere che non chiarisce gli obiettivi del servizio pubblico, che non assicura una buona gestione ‐ si conferma la legislazione raffazzonata e inefficiente che ha portato la RAI alla situazione attuale ‐ e che non solo non garantisce autonomia dalla politica ma sancisce in maniera inequivocabile la dipendenza diretta della Rai dal Governo. Per quanto riguarda le nomine, infatti, si conferisce al Presidente del Consiglio, in sostanza e al di là dei tecnicismi, il diritto di occupazione totale: il Cda della RAI verrà eletto in parte dal Governo guidato da Matteo Renzi e in parte da Matteo Renzi Segretario del PD (mediante maggioranza parlamentare semplice e attraverso i Consigli Regionali controllati dal partito), mentre l’Amministratore Delegato sarà sua diretta espressione! La montagna sta partorendo un ratto pericoloso per la libertà d’informazione e il pluralismo democratico.
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Ecco i principali punti della riforma che Italia Unica propone:
1. Una RAI che sappia interpretare al meglio lo spirito del servizio pubblico, al passo coi tempi. E’ necessario rilegittimare il Servizio Pubblico assicurando:
a. Informazione internazionale, nazionale e locale approfondita e sopra le parti. b. Spazi di dibattito democratico. Vogliamo una RAI che riconosca spazi di confronto tra cittadini e rappresentanti delle forze politiche sia parlamentari sia espressione della società civile (movimenti, comitati referendari, terzo settore, ecc.).
c. Sviluppo di contenuti originali di qualità, contenendo la tendenza ad affidarsi sempre più frequentemente a format internazionali.
d. Sviluppo e promozione della cultura e della creatività italiana (cinema, musica, teatro e tutte le arti) in Italia e nel mondo.
e. Promozione dell’economia e delle imprese italiane nel mondo, con programmi multilingua e format internazionali.
f. Formazione diffusa per contribuire a superare il digital divide, per accelerare il superamento dell’enorme gap nella conoscenza della lingua inglese, per diffondere la cultura del rischio e dell’impresa e per far crescere la coscienza civica. Il servizio pubblico può fare la differenza per il livello di pluralismo, anche nel rispetto delle pari opportunità, e quindi di livello di democrazia nel nostro Paese. RAI dovrà assicurare un’offerta che favorisca pari accesso e rappresentazione di entrambi i generi, evitando di trasmettere immagini e ruoli stereotipati nonché di usare espressioni che possano essere discriminatorie e incitare alla violenza di genere. Allo stesso modo, occorre garantire l’adeguatezza dell’offerta per il pubblico dei minori, attraverso la trasmissione di programmi che tutelino la loro dignità e il loro sviluppo fisico, psichico ed etico.
2. Un’offerta completa ma non pleonastica e che permetta di concentrare le risorse. Nella nostra visione di Servizio Pubblico l’attuale offerta di canali RAI (14!) appare del tutto pleonastica e non in linea con alcuno standard europeo. In prima battuta apparirebbero sufficienti i tre canali generalisti ai quali aggiungere un canale all news, un canale culturale di grande qualità, un canale in inglese di promozione nel mondo di tutto ciò che è italiano (impresa, cultura, stili di vita, sport, ecc.). Si potrebbe eventualmente considerare un canale di qualità per bambini per evitare che questa offerta sia limitata a coloro che possono permettersi un abbonamento di pay TV. L’intero prodotto della RAI, oltre che attraverso la televisione e la radio ( dove fare di più ), in un’ottica di progressiva convergenza delle piattaforme tecnologiche, va inoltre distribuito su tutti i nuovi media e avvalendosi delle migliori tecnologie via via disponibili. La piattaforma BBC Partner può essere un interessante riferimento.
3. La RAI come motore dell’industria cinematografica e delle attività teatrali. La RAI può essere un formidabile motore di sviluppo dell’industria creativa italiana, con il giusto approccio. Nel cinema, per esempio, si deve passare da un rapporto di fornitura – cost plus – a un rapporto di partenariato tra RAI e produttori: oggi questi ultimi producono 103
per conto della RAI in un rapporto di “sudditanza” (ulteriormente esasperato quando il duopolio si era trasformato in un sostanziale monopolio televisivo) che andrà invece trasformato in un rapporto imprenditoriale che condivida maggiormente costi e ricavi. Ciò permetterebbe di valorizzare i migliori produttori e le migliori opere – film, serie TV, ecc. – selezionando invece più rigidamente le produzioni di minore qualità. Per quanto riguarda il teatro la RAI potrebbe, per esempio, selezionare ogni anno un certo numero di compagnie/produzioni alle quali assicurare un contributo iniziale a fronte dei diritti di ripresa – ad hoc per la televisione – e di trasmissione dalla fine della stagione. Sia in campo cinematografico sia in campo teatrale una quota dell’investimento RAI andrebbe destinato ad artisti esordienti
4.
Assicurare alla Rai indipendenza e autonomia dai partiti e dal Governo. Per garantire l’indipendenza dai partiti e dal Governo, la RAI dovrebbe essere una Fondazione autonoma affidata ad un Consiglio di Garanti composto di cinque/sette persone, assicurando la presenza di uomini e donne di comprovata competenza manageriale ed editoriale e senza conflitto di interesse alcuno, come dovrebbe essere una vera autorità indipendente. La nomina dei Garanti potrebbe essere affidata al Presidente della Repubblica e ad eventuali altri organi di Garanzia. Il Consiglio dei Garanti nominerebbe il vertice operativo (Amministratore Delegato, direttore editoriale, direttore amministrativo) al quale verrebbe garantita una forte autonomia nella gestione ordinaria.
5.
Sopprimere la Commissione Parlamentare di Vigilanza. Il Parlamento avrebbe la responsabilità di approvare in aula il Contratto Triennale del Servizio Pubblico (entro il settembre dell’ultimo anno di validità del precedente, diversamente si rinnoverebbe quest’ultimo automaticamente di anno in anno fino all’approvazione del nuovo) e di valutare il rendiconto annuale della gestione (con possibilità di togliere la fiducia ai Garanti solo in caso di particolari mancanze rispetto agli impegni contrattuali e solo con particolari maggioranze). Solo i Garanti, invece, avrebbero la facoltà di rimuovere, così come di nominare, il vertice operativo della RAI.
6. Assicurare alla RAI risorse economiche certe. Le attuali risorse di cui la RAI dispone sono in linea con quelle dei principali Paesi europei, in molti casi inferiori. Il servizio pubblico radiotelevisivo deve essere pagato con i proventi del canone, di importo certo (introducendo quindi meccanismi di esazione automatici), la cui destinazione deve essere garantita con una rendicontazione precisa e certificazioni rigorose. Il canone che deve rimanere ai livelli attuali , deve confluire direttamente nel bilancio della Fondazione e non può derivare ed essere corrisposto alla RAI ‐ in nessun modo, diretto o indiretto – dal Governo, altrimenti il controllo dell’esecutivo rientrerebbe sull’azienda per vie traverse. La RAI deve mantenere inoltre la possibilità di raccogliere pubblicità confermando regole e limiti attuali.
7.
Ristrutturare l’azienda, efficientando e tagliando i costi. Oltre 12.000 dipendenti e 8000 collaboratori sono dimensioni del tutto insostenibili: vanno pertanto ridotti i numeri assoluti prevedendo però la possibilità di fare assunzioni di particolare qualità 104
ed esperienza. Ci sono poi altri enormi costi non più sostenibili come per esempio quelli delle eccessive strutture territoriali.
8. Lanciare un grande piano di investimenti da finanziare anche con dismissioni. La RAI, per raggiungere i suoi obiettivi, deve realizzare importanti investimenti tecnologici, oltre che in competenze e inoltre deve procedere ad una profonda ristrutturazione interna. Per finanziare tutto ciò, RAI può valorizzare – almeno in parte – il patrimonio di partecipazioni, immobili, e altri attivi che nel tempo l’azienda ha accumulato. Appare a questo fine opportuno, per esempio, cedere Rai Way a Cassa Depositi e Prestiti secondo il modello Terna/SNAM. Non consideriamo necessario che la RAI possegga la rete dei ripetitori (che può essere considerata una rete essenziale per il Paese) nè pensiamo che sia opportuno cederla ad altri concorrenti.
9.
Una RAI sul mercato senza lacci burocratici. In funzione di tutto quanto detto nei punti precedenti, la RAI che proponiamo non è da considerarsi come una qualsiasi Pubblica Amministrazione con tutti i vincoli e le storture imprenditoriali che essere parte della PA comporta. Questo non significa assecondare capricci, privilegi o sprechi fuori controllo, ma assicurare margini di competitività: certamente vanno previsti codici deontologici per evitare abusi in tema, per esempio, di compensi, vanno previste precise rendicontazioni per l’uso delle risorse del canone, ma la RAI che abbiamo in mente deve essere fortemente sburocratizzata e in grado di ottenere risultati senza inutili ingessature procedimentali.
10.
Superiamo l’Auditel. Serve un sistema di misurazione dell’audience molto più efficace dell’attuale. Conoscere in maniera molto più precisa la quantità e la qualità dei propri ascoltatori è uno strumento fondamentale di sviluppo del settore anche per chi ha un compito – come la RAI – che va ben oltre la concorrenza sugli ascolti. Inseguire misurazioni imprecise ed eccessivamente sbilanciate sul piano quantitativo, a discapito del merito editoriale, rischia inoltre di avere effetti negativi sulla stessa qualità dell’offerta e quindi impatti socio-culturali dannosissimi per i cittadini.
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1 Giugno 2015
di Lelio Alfonso
Il golden goal e l’autogol Dicono che la miglior difesa sia l’attacco. Raramente era successo che un leader politico preferisse la fuga. Come giudicare diversamente la decisione di allestire in fretta e furia una missione in Afghanistan per evitare di commentare il voto delle regionali? Eppure Matteo Renzi l’ha fatto, tra l’altro non per annunciare alle truppe impegnate nella missione di peacekeeping che si torna a casa, ma che il loro lavoro ad Herat deve continuare ancora. A nulla valgono le accuse avvelenate lanciate contro la Bindi e i dissidenti liguri dai semivertici del Pd o il refrain del 5-2. Altro che golden goal: la stampa internazionale e gli osservatori indipendenti, come l’Istituto Cattaneo, spiegano come dai tempi del 40,8% i renziani abbiano perso due milioni di voti nelle sette regioni chiamate al voto, un default che supera perfino quello di Forza Italia, che ha comunque lasciato per strada un altro milione di consensi. Il partito del non voto – purtroppo autentico trionfatore di questa tornata, ma certo aiutato in questo dalla totale assenza di programmi e di credibilità degli attuali partiti – contagia oltre metà degli aventi diritto e continua ad ingrossare le proprie fila, in attesa di quella proposta concreta e seria che da oggi ci impegniamo ad interpretare con tutte le persone e le realtà che vogliono davvero rilanciare il Paese e innovarne i valori. I populismi di Salvini e Grillo, paladini del “no”, sono ancora una volta protagonisti perché manca la capacità di trasformare la protesta in proposta. Guai a sottovalutarne il ruolo e ancor di più guai a non comprendere le ragioni di chi si rifugia in questa grande dimostrazione di sfiducia che non scade però nel rifiuto totale alla partecipazione. Sono istanze che vanno ascoltate, guidate, sicuramente affrontate. Senza che si pensi solo di cavalcarle. Infine i gregari di lusso della politica, quelli che comunque si dichiarano soddisfatti anche di fronte a “sventole” memorabili. Complici di lotta e di governo, pronti ad alzare il prezzo un secondo dopo il termine dello spoglio per la paura di essere spogliati dell’unica cosa a cui tengono, la livrea di servizio. Loro colpa grave, da Area Popolare a Scelta Civica, è quella di ragionare non per un elettorato o un progetto ma per una sopravvivenza. E i risultati si vedono. Ha dunque perso, e sonoramente, il Pd. Ma ha perso il modello del Partito della Nazione, la logica della propaganda, il tesorettismo elettorale, la mascella volitiva del possovoglio-comando. L’elettore ha risposto chiaramente a questa narrazione e chiede altro, cercando dove può un’alternativa, fino ad arrivare a rifiutarsi di cercarne più una. E spetta a Italia Unica fare in modo che questa domanda abbia una risposta vera, liberale, popolare e riformista. 107
3 Giugno 2015
di Corrado Passera
La vera alternativa al renzismo Sono tutti lì a dire che hanno vinto. O che comunque non hanno perso. O ancora che la sconfitta “vera” è degli altri. Come accadeva nelle peggiori liturgie della Prima Repubblica una volta chiuse le urne. Il fatto che metà degli elettori a quelle urne e a ciò che rappresentano abbiano voltato le spalle; il dato agghiacciante che il 50 per cento (ma computando le schede bianche e nulle quel limite viene senz’altro superato) degli italiani ancora una volta abbia esclamato “se lo spettacolo è questo, noi ce ne andiamo” sembra scivolare via come acqua sulla pietra dell’indifferenza. Invece no. Invece se continuiamo così imbocchiamo la strada senza ritorno del disastro. Un elettore su due che diserta i seggi minaccia di far suonare la campana dell’ultimo giro per una democrazia che invece di calamitare espelle con un’alzata di spalle i suoi protagonisti: le persone in carne ed ossa con i loro bisogni ed i loro desideri; i tantissimi italiani che dalla politica invocano risposte e al contrario si ritrovano solo slogan. Alcuni anche truculenti. La disaffezione elettorale, diventata stabilmente il primo partito italiano, rappresenta un pericolosissimo segnale d’allarme che Italia Unica rilancia ad ogni tornata, praticamente da sola. È anche questo lascia esterrefatti. 108
Segnale che peraltro si aggiunge ad altri, ugualmente inquietanti. Se infatti sommiamo i voti conquistati domenica scorsa dalla Lega di Salvini e dai Cinquestelle otteniamo il secondo partito italiano. Il primo è la diserzione dai seggi; il secondo la protesta estremista e a tratti anti-sistema. Anche questa è campana di pericolo grave. Lo so. Nelle orecchie sento l’affannata indignazione di chi si riempie le narici di indignazione: e il Pd? È l’invidia che vi spinge a scolorire il 5 a 2 del bottino renziano dei presidenti di regione, che addirittura diventa 10 a 2 se consideriamo tutte le consultazioni amministrative da un anno a questa parte? È o non è questa una vittoria che porta Renzi nell’Olimpo dei leader europei? La nostra risposta è no. Perché quel risultato va, come si dice, politicamente pesato. E allora ci si rende conto non solo che il Pd ha perso due milioni di voti rispetto alle Europee e mezzo milione persino rispetto alle regionali del 2010; che il 40 per cento tanto sbandierato si è sgonfiato in pochi mesi (vedi risultati in Veneto, per esempio); che il partito della Nazione per stessa ammissione dei dirigenti piddini è morto nella culla. La realtà è che gli italiani – non votando, votando la protesta o penalizzando il maggior partito italiano – hanno espresso una sostanziale sfiducia nella politica nel suo insieme e nella narrazione che il renzismo ha sciorinato a piene mani in quest’anno e mezzo. Riforme annunciate e mai fatte oppure fatte molto male, di problemi non risolti e rimandati, di mancanza di coraggio nel dire la verità agli Italiani, di ricerca a tutti i costi del potere come con la legge elettorale tipo l’Italicum. Misure economiche che invece di avviare crescita strutturale e aiutare i più bisognosi hanno lasciato in bocca un amaro sapore elettoralistico: gli 80 euro. Incredibili sottovalutazioni di vere e proprie emergenze epocali, come l’immigrazione dal nord Africa che oggi ci scoppia in mano. Entrambi temi che avrebbero dovuto qualificare il nostro semestre europeo che, al contrario, si è svolto in modo del tutto inconcludente. L’elenco è lungo: gli italiani lo conoscono a perfezione. Al dunque il voto regionale ha messo in fila uno dietro l’altro le ragioni per cui Italia Unica è nata ed è assolutamente fondamentale: la necessità di colmare un vuoto sempre più evidente, il vuoto determinato dall’assenza di una offerta politica seria e credibile che aggreghi il ceto medio e in generale tutto quel grandissimo segmento della popolazione che per pigrizia mentale si continua a definire “i moderati”. E poiché Italia Unica nasce per una complessiva operazione verità: sulla politica, sull’economia, sulla società intera, allora bisogna essere chiari. E dunque chiaramente affermare che se il destino dell’alternativa al renzismo viene lasciato nelle mani dell’estremismo di Salvini o dell’ antagonismo di Grillo vuol dire che non c’è scampo: è una alternativa che nasce perdente in partenza. Grillo si autoisola nell’oceano del web. Salvini semplicemente con il centrodestra non c’entra nulla: è estremismo allo stato puro che mai (e fortunatamente) potrà diventare il mastice di una alleanza vincente. Qualcuno mi ha chiesto se sono interessato a primarie per scegliere il leader anti-Renzi. Primarie sulle idee e sui programmi certamente. Tuttavia per parlare di primarie e di alleanze bisogna avere valori condivisi e condivisa visione di Paese. Per intenderci: a nessuno in Francia viene in mente di fare primarie tra Marine Le Pen e Sarkozy. Il leader leghista primarie oggi, con il programma che presenta, può farle 109
con Fratelli d’Italia o con Casapound: nient’altro. E questo vale anche per Forza Italia. Se Berlusconi infatti, dopo essere stato a rimorchio di Renzi ora volesse mettersi alla coda di Salvini, faccia. Ma sono sicuro che non lo farà perché sa che si tratta di un errore catastrofico. Se lo scenario è questo, quali gli obiettivi ed i prossimi passi di una formazione completamente nuova come siamo? Abbiamo detto che gli elettori non di sinistra che avevano firmato una cambiale di fiducia al premier hanno compreso che gli annunci del presidente del Consiglio non si trasformano in riforme vere e decisive. E altrettanto chiaro risulta che né la Lega né i Cinquestelle possono costituire un’alternativa efficace: sono serbatoi di protesta e disincanto da considerare e rispettare ma che vanno trasformati in energia positiva senza essere confuse con proposte di governo. Quel che occorre ora è organizzare e dare gambe e voce politica a quel pezzo d’Italia, tendenzialmente maggioritario, che rifugge sia dai bluff di Renzi che dall’estremismo di Salvini e Grillo. Italia Unica è nata ed opera in questa direzione. L’obiettivo non può che essere quello di riunire gli elettorati liberali, popolari e riformisti intorno ad un grande e profondo piano di risanamento e rilancio ambizioso del Paese. Partendo da valori quali l’onestà e la correttezza perchè non è vero che la politica è solo interesse e potere per il potere, i diritti umani e quelli civili, la libertà individuale e quella d’impresa, la competenza, il merito, la trasparenza e la solidarietà. Immaginando un’Europa meno lontana dai bisogni dei cittadini e che, anzi, li aiuti nel rilancio dello sviluppo economico, rispetto al quale oggi ci sono condizioni che potrebbero diventare irripetibili (basso prezzo del petrolio, parità euro-dollaro che favorisce le nostre esportazioni, tassi d’interesse prossimi allo zero grazie al ruolo di Mario Draghi a capo della Bce). In questa prospettiva, occorre cominciare a pensare e preparare al meglio le amministrative della prossima primavera, quella del 2016 quando si andrà alle urne per il rinnovo di 1.193 Comuni, fra le quali importanti centri come Milano, Torino, Bologna, Trieste, Napoli e Cagliari. Il tutto con un obiettivo ambizioso perché il voto di domenica scorsa ci svela che il Pd di Renzi è tutt’altro che un Moloch imbattibile. Anzi, potrebbe presto rivelarsi un gigante dai piedi d’argilla. Da oggi, dunque, Italia Unica è pienamente in campo, dopo questi primi mesi di doveroso e incoraggiante rodaggio che ci hanno visti anche protagonisti a fianco di tanti sindaci eletti in tutta Italia. L’anno prossimo le nostre liste e il nostro simbolo saranno presenti sulle schede elettorali di tanti comuni importanti chiamati al voto. Con il fine di costituire l’alternativa vera e praticabile al renzismo e all’inconcludenza estremistica”.
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6 Giugno 2015
di Fabio Giuseppe Angelini
Direzione nazionale: presenti alle amministrative 2016 e Passera candidato a Milano L’analisi delle ultime elezioni regionali e amministrative La Direzione Nazionale di Italia Unica, riunitasi in data 6 giugno 2015 a Milano per l’analisi del voto delle recenti elezioni regionali e amministrative e le conseguenti prospettive politiche, ha discusso e approvato un documento presentato da Lelio Alfonso, coordinatore del movimento, in cui si rimarca che l’area del non voto (con le schede bianche e le nulle) supera ormai il 50 per cento dell’elettorato ed è stabilmente il primo partito. Un dato che dovrebbe preoccupare tutti, perché sottolinea una volta di più il distacco e il disgusto che le donne e gli uomini di questo Paese hanno verso un sistema dei partiti incapace di vera progettualità e di comportamenti improntanti a etica e correttezza. La riprova è di queste ultime ore. La seconda tranche dell’inchiesta su Mafia Capitale che ha portato in carcere altri 44 fra esponenti di partito e funzionari pubblici è soltanto l’ultimo 111
e clamoroso episodio di una lunga saga di malaffare e di cattiva politica che poi alimenta quella che è stata definite l’antipolitica. E’ anche per questo, dunque, che – dopo il partito del non voto – il secondo vincitore della tornata elettorale di domenica scorsa è il partito della protesta (Lega e Cinquestelle sommati) che supera abbondantemente il partito della Nazione di Renzi, tornato al livello di consensi del Pd di Bersani.
La bocciatura del Governo da parte degli italiani Su questo punto, Italia Unica vede anche una bocciatura dell’azione di governo di questo ultimo anno e mezzo. Una bocciatura che riguarda le cose fatte e quelle non fatte o fatte male (pasticcio delle Province, riforma della scuola, provvedimenti anti corruzione, semestre europeo, sicurezza sociale), ma anche l’insipienza di chi non ha saputo cogliere le favorevoli condizioni internazionali (calo del prezzo del petrolio, parità euro dollaro e tassi europei prossimi allo zero) per far ripartire il mercato del lavoro. Un’insipienza coniugata con l’arroganza di chi non ha esitato a piegare le istituzioni ai propri interessi di bottega (vedi Italicum e riforma del Senato). In questo scenario – Non Voto, Protesta e Partito della Nazione – l’area popolare e liberaldemocratica non trova più i suoi riferimenti politici e una sua convincente rappresentanza.
Italia Unica grande alternativa a incompetenza e vuoti populismi Italia Unica ha lanciato il suo progetto politico aperto proprio per dare voce e prospettive a questa larga parte dell’elettorato messa ai margini o rifugiata nell’astensione, e che rifugge sia dai bluff di Renzi che dalla vuota protesta di Salvini e Grillo. Vogliamo riunire gli elettorati liberali, popolari e riformisti intorno ad un grande e ambizioso piano di risanamento e rilancio del Paese. Partiamo da valori quali la libertà individuale e quella d’impresa, la competenza, il merito, la trasparenza, la solidarietà, l’integrità e lo spirito di servizio, i diritti umani e quelli civili. Immaginiamo un’Europa meno lontana dai bisogni dei cittadini e che, anzi, si impegni con forza nel rilancio dello sviluppo economico, rispetto al quale oggi ci sono condizioni che potrebbero diventare irripetibili.
Dal programma al territorio: proposte, Porte, coordinamenti provinciali I primi mesi di attività politica di Italia Unica sono serviti a mettere a punto una prima serie di proposte di soluzione ai principali problemi del Paese, e a radicare la presenza nelle varie realtà territoriali (oltre 150 “Porte” operative sul territorio). Abbiamo consolidato i buoni rapporti instaurati con le centinaia di sindaci e amministratori locali che dal 31 gennaio hanno iniziato a interloquire con noi. Buoni sono stati anche i risultati di quei candidati sindaci cui in questa primavera 2015 abbiamo offerto il nostro supporto. Un sostegno che rinnoviamo per coloro che andranno al ballottaggio domenica 14 giugno. Dopo l’analisi del voto, la Direzione nazionale di IU ha anche affrontato il tema della sua organizzazione interna, in vista delle Assemblee che – tra la fine di giugno e la prima settimana di luglio – porteranno all’elezione dei vari coordinatori provinciali, come da indicazioni statutarie. Si è deciso di far presiedere ognuna di tali assemblee da un garante, e si ricorda che il termine dell’iscrizione per aver diritto di voto attivo e passive per questo 112
appuntamento organizzativo è fissato al 15 giugno prossimo.
Il futuro di Italia Unica La Direzione conferma con forza il debutto ufficiale delle liste di Italia Unica: la primavera del 2016, quando saranno chiamate al rinnovo le amministrazioni di ben 1.193 comuni in tutta Italia. Di cui 119 superiori ai 15.000 abitanti e, tra questi, 21 capoluoghi: Varese, Novara, Milano, Torino, Bologna, Trieste, Cagliari, Napoli, Olbia, Carbonia, Villacidro, Crotone, Cosenza, Salerno, Caserta, Benevento, Latina, Grosseto, Rimini, Savona, Pordenone. L’impegno richiesto a tutti i dirigenti e militanti di Italia Unica è quello di attivarsi da subito per mettere in campo idee e proposte per rispondere al meglio alle esigenze delle comunità da amministrare, ma anche quello di compiere un rigoroso lavoro di selezione per proporre candidature di competenza e integrità.
Corrado Passera candidato a sindaco di Milano 2016 Un invito unanime è stato rivolto al presidente Corrado Passera affinché si assuma in prima persona l’impegno di candidarsi a sindaco di Milano. Il modo migliore per dimostrare che Italia Unica mette a disposizione del Paese le sue migliori risorse umane ed intellettive. Corrado Passera ha confermato la disponibilità ad aprire una fase di confronto e ascolto sul territorio per poter interpretare al meglio, con la propria candidatura, il ruolo aggregante del civismo solidale e intraprendente, delle competenze e dei valori liberali, popolari e riformisti che possono dare alla città il ruolo che le compete nel panorama economico, sociale, culturale europeo attraverso un progetto realmente innovatore.
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21 Giugno 2015
di Fabio Giuseppe Angelini
La lezione della Laudato Sì: ecologia umana e inclusione La pubblicazione dell’enciclica di Papa Francesco, dedicata ai problemi ambientali, offre in realtà l’occasione per riflettere sulle conseguenze dell’agire umano in campo economico e sociale, nel contesto di un mondo che appare sempre più come una complessa rete di relazioni dove tutto si tiene e nulla ha senso se non in rapporto con l’altro. Nel passare in rassegna i grandi temi connessi al degrado ambientale globale (inquinamento, rifiuti, surriscaldamento globale, perdita della biodiversità, accesso all’acqua, ecc…), la Laudato Si’ evidenzia l’insufficienza di un approccio incentrato su visioni parziali della realtà, incapaci di coglierne la complessità in relazione agli effetti delle scelte umane sulla natura e sulle future generazioni future, invitandoci a cogliere l’errore antropologico su cui si basa il nostro modello di sviluppo. Il degrado ambientale, ci ricorda il Pontefice, è strettamente connesso al degrado sociale, a sua volta figlio legittimo di una certa visione dell’uomo incapace di coglierne la sua dimensione di missione (non esistiamo per noi stessi) e relazionale. 114
Sussiste, infatti, un’intima relazione tra le cose del mondo, poiché la natura è sempre in rapporto a Dio e all’uomo. Di fronte ad essa quest’ultimo non si pone come dominatore assoluto ma come “amministratore responsabile” (LS, 116), perché la natura è per l’uomo e l’uomo è per Dio. È in questa relazione che la libertà umana deve sapersi coniugare con la responsabilità di ogni uomo davanti al genere umano, comprese le generazioni future, e dinanzi a Dio. La “casa comune” è, dunque, una ricchezza posta nelle mani prudenti e responsabili dell’uomo su cui questo è chiamato ad esercitare un mandato di conservazione e non un diritto assoluto. La critica di Papa Francesco si rivolge, in particolare, verso l’assunzione del “paradigma tecnocratico” (LS, 106) – secondo cui l’uomo crede che la realtà sia totalmente disponibile alla sua manipolazione – quale leva (estrattiva) del progresso e dello sviluppo, poichè “l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza” (LS, 105). La risposta ai problemi del nostro tempo e, in particolare, alle esternalità negative dell’attività economica globale che impattano sulla ambiente e, con esso, sui poveri e sugli esclusi, deve essere pertanto di natura antropologica, connessa alla necessità di riaffermare la necessità di riferimenti etici e morali in tutti i campi dell’agire umano, a partire dall’economia e dalla finanza. Papa Francesco, riprendendo l’insegnamento di Giovanni Paolo II e della Dottrina Sociale della Chiesa, propone perciò un’ecologia umana integrale, intendendo con tale espressione la necessità di porre quale paradigma del nostro modello di sviluppo un’autentica concezione della persona, capace di coglierla nella sua integralità (non solo, quindi, nella sua dimensione di homo oeconomicus), libera dal mito secondo cui al progresso tecnologico corrisponderebbe sempre un vero sviluppo umano inclusivo. Una ricetta antropologica che ci invita a riflettere sul senso della nostra esistenza e sull’uso che facciamo degli strumenti (quali sono l’economia e la finanza) a nostra disposizione, invitandoci a costruire istituzioni economiche e politiche (in ambito internazionale, nazionale e locale) inclusive, a promuovere nuovi stili di vita, a rispettare l’integrità e i ritmi della natura, guardando al progresso secondo un’ecologia integrale che sappia riorientare i comportamenti umani uscendo dalla logica individualistica e relativistica del consumo e dello scarto. La lezione della Laudato Si’ offre però anche spunti interessanti per il nostro dibattito politico, che vanno ben oltre i temi ambientali. Essa da forza alla prospettiva programmatica di Italia Unica che si basa proprio sulla considerazione che, in un sistema complesso come il nostro, tutto si tiene e che una vera trasformazione del Paese può avvenire solo attraverso interventi sistematici e di grande portata, incidenti tanto sul quadro normativo esistente, quanto sui comportamenti individuali e finanche sulla nostra cultura. È la sfida che Italia Unica ha raccolto sin dalla sua fondazione e su cui saranno costruiti, attraverso l’ascolto e la partecipazione, anche i programmi locali in vista delle prossime elezioni amministrative, a partire da Milano. L’enciclica ci invita poi ad un’azione politica più decisa, tesa a proporre soluzioni in grado di trasformare le nostre istituzioni estrattive, inclini al malaffare ed alla corruzione, dove la burocrazia appare sempre più strumento di difesa delle rendite di posizione e di accrescimento del potere nelle mani di pochi, in istituzioni inclusive capaci di promuovere un esercizio più responsabile del potere politico ed economico, di elevare i più bisognosi e coloro che sono esclusi dalle dinamiche dello sviluppo attraverso la 115
creazione di nuove opportunità e di un sistema economico e sociale più meritocratico, in cui contino le capacità e le competenze più che le relazioni personali o familiari. In questa prospettiva, perciò, la sfida di Italia Unica e di Corrado Passera è dunque quella di offrire al Paese una proposta politica che sappia puntare su una maggiore libertà in campo economico e sociale e, nello stesso tempo, sulla definizione di una cornice istituzionale (giuridica, sociale e culturale) inclusiva in grado di indirizzare la libertà individuale verso il bene comune favorendo, nel contempo, una maggiore consapevolezza sulle conseguenze delle scelte individuali e favorire una più diffusa solidarietà rispetto alle sorti di chi ci è accanto. Il Paese ha infatti bisogno di uno straordinario sforzo corale e della partecipazione di tutti, nonché, di una piena assunzione di responsabilità da parte di chi ha sin qui avuto di più, tesa a tendere la mano verso chi è invece rimasto ai margini, vittima di un sistema poco incline a favorire l’inclusione sociale. È questo lo spirito con cui Corrado ha deciso di mettersi al servizio del Paese ed è questo l’orientamento ideale di fondo che deve guidare l’azione politica di Italia Unica al servizio del Paese.
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29 Giugno 2015
di Lelio Alfonso
Delega fiscale, ennesimo bluff. Un’altra occasione persa Il punto di forza del Renzismo è che sai sempre cosa aspettarti. Un misto tra propaganda da piazzista, qualche furbata, mancanza di visione ed occasioni perse. I decreti collegati alla delega fiscale purtroppo non possono essere annoverati tra le eccezioni rispetto alle consuetudini della casa. Un minimo di storia: la c.d. delega fiscale trova origine nel ddl AC 4566 presentato dal Governo Berlusconi il 29 Luglio 2011 avente ad oggetto una delega legislativa per la riforma fiscale e assistenziale volto a razionalizzare e semplificare il quadro normativo vigente. Il disegno di legge è stato successivamente ripreso dal Governo Monti con il ddl di delega per la revisione del sistema fiscale presentato del 18 giugno 2012 (A.C. 5291) che fu approvato in prima lettura dalla Camera. Il ddl del Governo Monti riguardava la revisione del catasto dei fabbricati nonché le norme in materia di evasione ed erosione fiscale, la disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale, le norme in 117
materia di tutoraggio, semplificazione fiscale e revisione del sistema sanzionatorio, la razionalizzazione organizzativa dell’Amministrazione finanziaria, nonché la revisione del contenzioso e della riscossione degli enti locali e la revisione dell’imposizione sui redditi di impresa e la previsione di regimi forfettari per i contribuenti di minori dimensioni, nonché la razionalizzazione della imposte indirette e del sistema dei giochi. La storia infinita ha poi conosciuto un nuovo capitolo durante il Governo Letta con l’approvazione da parte della Camera del ddl 1058 avente ad oggetto “Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita”. La delega fiscale è poi diventata legge agli albori del Governo Renzi, l’11 marzo 2014 con la L. 23/2014 con la quale il Parlamento delegava il Governo ad adottare entro il 27 marzo 2015 decreti legislativi recanti la revisione del sistema fiscale per un sistema più equo, trasparente ed orientato alla crescita, Nel frattempo la Commissione Europea ha emanato le raccomandazioni indirizzate al Governo Italiano del 2 Giugno 2014 relative alla richiesta di “attuare la legge delega di riforma fiscale entro marzo 2015, in particolare approvando i decreti che riformano il sistema catastale onde garantire l’efficacia della riforma sulla tassazione dei beni immobili; sviluppare ulteriormente il rispetto degli obblighi tributari, rafforzando la prevedibilità del fisco, semplificando le procedure, migliorando il recupero dei debiti fiscali e modernizzando l’amministrazione fiscale; perseverare nella lotta all’evasione fiscale e adottare misure aggiuntive per contrastare l’economia sommersa e il lavoro irregolare”. Entrati nell’era del Renzismo, la scadenza della delega fiscale viene prorogata con un emendamento al DL 4/2015 (Misure urgenti in materia di esenzione IMU) al 27 Giugno 2015. Un percorso lungo ed accidentato per giungere alle 21.30 del 26 Giugno 2015 (2h e 30 minuri prima dell’ultima scadenza) quando il Consiglio dei Ministri ha licenziato i cinque decreti attuativi del lungo percorso partito nel 2011. Tanta attesa sarebbe stata giustificata dalla rilevanza del provvedimento: in fondo la competività di un sistema economico è anche funzione dell’equità, prevedibilità e certezza del proprio sistema fiscale. Purtroppo non è stato così, nonostante il nuovo hashtag #tantaroba coniato, in perfetto stile Wanna Marchi, dal Premier in piena conferenza stampa con il ministro Padoan, un tempo tecnico ed oggi ballerina di fila. Le regole del Renzismo sono rigorose e non conoscono eccezioni neppure per quanto riguarda la delega fiscale. In primo luogo prevale un’assenza di visione unitaria. La delega fiscale era stata pensata fin dagli inizi per immaginare una riforma organica del nostro sistema tributario. Il Governo Renzi l’ha parcellizzata in una serie di provvedimenti a macchia di leopardo in cui si fa fatica a scorgere una visione unitaria, a discapito dell’intellegibilità ed unitarietà del sistema. A questo si aggiunge il silenzio (o l’ennesima proroga) sulla revisione del catasto, sui regimi forfettari per i contribuenti di minori dimensioni (figli di un dio minore per questo 118
Governo che ha già tentato di penalizzarli con l’ultima legge di stabiità nonchè con il goffo tentativo di ribaltare su di loro la copertura del buco dei contributi previdenziali generato dal Jobs Act) e sulla razionalizzazione delle imposte indirette e del sistema dei giochi., priorità della delega fiscale fin dal lontano 2012. Nulla sulla limitazione dell’onnipotenza dell’Agenzia delle Entrate, che oggi controlla, in palese contraddizione con i principi di un qualsiasi stato di diritto, l’interpretazione delle norme, l’accertamento e la riscossione (anzi la razionalizzazione del sistema delle Agenzie sembra essere prodromica all’ulteriore rafforzamento dell’Agenzia condotta da Rossella Orlandi). Niente per difendere il principio di non retroattività delle norme fiscali (presente nello Statuto del Contribuente e violentato dal Governo nell’ultima legge di stabilità con la retromarcia sul fronte del taglio del 10% dell’aliquota IRAP). Bene sull’interpello, ma nulla sulla riqualificazione professionale delle commissioni tributarie (un tema fondamentale in quanto le multinazionali investono nelle giurisdizioni in cui la giustizia fiscale è più prevedibile grazie alla maggiore competenza dei giudici). Nulla sulla terzietà degli organi giudicanti e sull’introduzione del giudice monocratico per i contenziosi di minore entità. Nulla sulla limitazione della discrezionalità del giudice sulle compensazioni delle spese. Debole sul fronte della semplifiicazione del sistema fiscale e non una parola per combattere gli affollamenti di scadenze fiscali come quello che i contribuenti stanno provando sulla propria pelle durante queste settimane. E poi la furbata sulle tax expenditures, il cui taglio va ad alimentare il fondo “taglia tasse” solo a partire dal 2017 (per lasciare libero il campo ad un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2016 per coprire le timidezze della prossima spending review e la bocciatura della UE relativa al reverse charge). In sintesi, la delega fiscale avrebbe potuto essere un provvedimento su cui basare l’attrazione di investitori ed imprese internazionali e per creare occupazione. Si è tradotta in un’occasione persa. E, purtroppo, non è una novità.
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5 Luglio 2015
di Lelio Alfonso
Una vittoria larga che profuma di sconfitta Una vittoria larga che profuma di sconfitta. Per l’Europa, che ostinatamente ha pensato al tavolo delle trattative come al bancone degli imputati e per la stessa Grecia, che prova da subito a rilanciare il negoziato dopo averlo bruscamente e unilateralmente interrotto, dimenticando che non basta la volontà di un popolo a giustificare la scellerata gestione finanziaria e sociale del proprio Paese. Il referendum è strumento democratico importante. Peccato Tsipras lo abbia indetto in modo strumentale, agendo sulla leva della rabbia e della paura prima che dell’orgoglio nazionale. Hanno votato due greci su tre, un voto storico che va al di là del caso specifico. Per la prima volta l’Europa esce sconfitta politicamente. Un “no” bruciante che in troppi si affrettano a indirizzare alla Merkel, ma che invece è da suddividere tra molti. Cosa accadrà domani, alla riapertura dei mercati? Cosa si diranno la cancelliera e Hollande, l’asse di ferro europeo che appare ora indebolito, ma non per questo deciso 120
a cedere? Quali mosse Draghi si inventerà, ancora una volta, per evitare il default di un Paese e di un sistema? Quale sarà la reazione di Obama, azionista di peso del Fondo Monetario, preoccupato che la Russia sia pronta a sostenere la ribellione del governo di Syriza? Sono tutte domande importanti, ma forse manca quella decisiva: in questa settimana di stallo la situazione della Grecia è ulteriormente peggiorata, le banche rischiano seriamente di non riaprire e la popolazione non potrà cibarsi di orgoglio. Fino a che punto è giusto mettere in ginocchio una comunità che si è ribellata, ma che non potrà avere all’infinito altre decine di miliardi di euro dei cittadini europei per colmare un pozzo senza fondo? Le misere speculazioni personalistiche dei politici di casa nostra, da Grillo a Salvini, da Fassina a Brunetta non sono ciò che l’Italia dovrebbe mostrare in momenti come questi. Purtroppo non è con i tweet o le gite con bandiera che si affrontano questioni di tale portata. Così come non ci è piaciuto il “distacco” con cui il Governo ha seguito la vicenda, a partire dal semestre di presidenza. Se siamo usciti dal tavolo decisionale è anche e soprattutto per colpa nostra. Ma al di là delle polemiche interne resta l’amarezza e la preoccupazione per la sconfitta pesante che in un certo senso l’Europa si è autoinflitta, sottovalutando l’iniziale crisi greca, non suggerendo in modo esplicito la strada maestra del rigore abbinato allo sviluppo, come accaduto in Irlanda, Portogallo e Spagna. La Grecia sembrava troppo piccola, con il suo 2% di peso di Pil, per preoccupare la grande Europa, ma così non è stato. Adesso non bisogna perdere occasione per rilanciare il dialogo e dare alla Grecia una altrettanto forte lezione di democrazia europea. Nuovi aiuti potranno essere stanziati solo di fronte alla volontà reale di far parte della UE da parte dei greci, del suo governo e del suo leader. Se Tsipras, Varoufakis e i loro sodali populisti pensano di aver vinto, con questa battaglia, la guerra contro il “mostro” di Bruxelles, anche questo referendum sarà stato inutile.
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9 Luglio 2015
di Massimo Brambilla
Jobs Act e Boeri, l’insostenibile inconsistenza della propaganda Mentre la Grecia è sempre più un laboratorio per l’osservazione degli effetti di lungo termine dell’irresponsabilità della politica economica di un paese sui destini di un popolo, la relazione annuale dell’INPS presentata (ma non resa pubblica, una delle tante anomalie di questo Paese) da Tito Boeri è la migliore dimostrazione che il monopolio dell’irresponsabilità non appartiene a Tsipras & Co. Primo fatto: Boeri ha graziosamente informato il Paese che la decontribuzione triennale per i nuovi rapporti a tempo indeterminato attivati nel corso del 2015 e prevista nella Legge di Stabilità 2015 non è semplicemente sostenibile. Altro che le previsioni di minori entrate per le casse dello Stato contenute nella nota tecnico-illustrativa alla Legge di Stabilità pari a 1.9 miliardi nel 2015 ed a circa 5 miliardi nel 2016. Il vero buco per il nostro sistema previdenziale ammonterebbe, secondo Boeri, a 5 miliardi nel 2015 ed a 10 miliardi nel 2016 e nel 2017 e sarebbe generato dal, peraltro largamente prevedibile sulla base della razionalità degli attori di un sistema economico, arbitraggio da parte dei datori di lavoro relativamente alle diverse forme contrattuali. Arbitraggio che, si badi bene, non va, se non marginalmente, a produrre nuova occupazione in quanto, come peraltro evidenziato dall’ultimo rapporto ISTAT sullo stato dell’economia Italiana, la domanda di nuova occupazione rimane debole in ragione dell’incertezza in merito alle dinamiche dei consumi e degli investimenti nazionali. L’occupazione che non si crea per decreto, un principio di buon senso e, appunto, ignorato dagli esecutivi e dall’alta burocrazia del Paese. 122
Non che questa si possa definire una breaking news. In fondo lo stesso Boeri , quando era uno stimato tecnico libero di potere esprimere la propria valutazione sull’inettitudine del Governo Renzi, aveva evidenziato, come peraltro anche noi di Italia Unica, che le stime dei maggiori oneri derivanti dalla decontribuzione per i nuovi assunti fornite dal Governo fossero perlomeno fantasiose. Il tutto salvo peccare di ottimismo nel momento in cui andava a stimare l’onere per lo Stato per quanto riguarda il 2015 in misura pari a 3 miliardi ed a solo 5,3 miliardi nel 2016. La domanda sorge spontanea. Come è possibile che il Governo in primo luogo (o meglio il Ministero dell’Economia e Finanze guidato da Padoan, la cui trasformazione da tecnico eminente a politico irresponsabile farebbe invidia a Gregor Samsa, il personaggio nato dalla penna di Kafka) e, successivamente, la Ragioneria Generale dello Stato, a cui compete la vigilanza della norma costituzionale secondo la quale ogni provvedimento deve prevedere un’adeguata copertura tramite la cosiddetta “bollinatura”, non si siano accorti dell’evidente sottostima del buco che si andava a creare nelle casse dello Stato in ragione del provvedimento di decontribuzione? In realtà molto più probabilmente se ne sono accorti ma hanno semplicemente preferito tacere. In fondo la brusca retromarcia posta in atto qualche mese fa dal Governo (nella persona del Ministro Poletti) relativamente all’ipotesi di un contributo straordinario su imprese e partite IVA per coprire i maggiori oneri derivanti dal suddetto provvedimento è indicativa di un certo grado di consapevolezza del problema. Ma le elezioni amministrative si avvicinavano e non era il caso, in piena campagna elettorale, di togliere argomentazioni alla vuota retorica del Renzismo. E mostrare che la parte produttiva del Paese era destinata, ancora ed ancora, a coprire i costi dell’irresponsabilità della politica non era il miglior modo per avvicinarsi alla scadenza elettorale e pertanto, con buona probabilità, si decise che era meglio tenere la proposta nel cassetto fino alla prossima legge di stabilità. Secondo fatto: le irresponsabilità sono come le ciliegie ed una tira l’altra. Mentre Boeri, pacatamente, denuncia l’insostenibilità della decontribuzione dei nuovi contratti a tempo indeterminato, lo stesso continua a portare avanti la sciagurata idea del ritorno alla pratica dei pre-pensionamenti (leggasi pensioni baby, quelle che oggi stiamo additando come una delle cause dell’implosione dell’economia greca) a fronte di una maggiore tassazione sulle c.d. pensioni d’oro. Attenzione che dietro alla definizione di pensioni d’oro ci sono le pensioni della classe media, la stessa classe media che storicamente, e non solo in Italia, è il principale motore dei consumi interni e, conseguentemente, la fascia di popolazione che determina l’andamento dell’economia nazionale (soprattutto in un momento in cui le tensioni finanziarie in Cina rischiano di avere un impatto significativo sul nostro export). Quindi si cerca di riesumare un istituto (i pre-pensionamenti) facendo pagare il relativo prezzo a chi è alla base della nostra fragile ripresa economica, soprattutto in un contesto in cui gli indicatori esogeni volgono al peggio. In poche parole si pongono le basi per un ulteriore provvedimento i cui effetti sul bilancio dello Stato sono difficilmente stimabili ma che rischiano di aprire ulteriori voragini nel bilancio dello Stato da colmare alle spese della fiscalità generale. Atene dista da Roma meno di due ore di volo. Non abbiamo bisogno di politiche economiche che accorcino la distanza.
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4 Agosto 2015
di Marco Marazza
La sfida persa del Jobs Act per l’occupazione Il Jobs Act ad oggi non produce nuova occupazione e le stesse previsioni del Governo per l’intero 2015 non sono così rassicuranti. Ammesso che a fine anno il saldo degli occupati (che per ora è negativo) sia positivo di qualche migliaia di unità il risultato sarebbe, comunque, molto negativo per via dell’ingente spesa pubblica destinata agli incentivi per le assunzioni del 2015. La situazione non può non fare riflettere. C’è da capire come mai gli incentivi alle assunzioni e le nuove regole del lavoro (in primis, licenziamenti e controlli) non producono i risultati attesi dal Governo, ed i motivi sono essenzialmente due. Il primo, ovvio, è che l’occupazione non deriva dalle regole del lavoro ma dallo sviluppo del sistema economico. I dati che rappresentano un’occupazione stagnante ci raccontano, soprattutto, che il Paese non ha ancora individuato le giuste leve per il suo corretto sviluppo industriale. Insomma, latita un progetto Paese che selezioni e sostenga i settori produttivi sui quali costruire il futuro. Un progetto che andrebbe prima condiviso a livello europeo e, poi, reso effettivo in Italia. Manca una visione. Si continua, purtroppo, a gestire l’emergenza. Il secondo motivo è da ricercare tutto nelle pieghe del Jobs Act. Perché se è vero che il lavoro non si crea per legge è anche vero che le regole del lavoro sono efficaci se strutturate per sostenere e accompagnare il progresso del sistema produttivo: anche il Jobs Act ne tiene conto, ma invece di guardare alla situazione attuale considera il sistema produttivo che ci sarà tra circa 10/15 anni. Apparentemente potrebbe sembrare 124
un disegno di lungo periodo, ma il punto è capire se tutto questo tempo ce lo possiamo realmente permettere. Il dubbio è così consistente che per accorciare i tempi del ricambio occupazione il Governo è costretto a ragionare anche su onerosi percorsi di prepensionamento, che però possono ulteriormente aggravare la situazione dei conti pubblici. E’ l’inevitabile conseguenza di un impianto di riforma irrazionalmente destinato, come più volte abbiamo sottolineato, solo ai nuovi assunti. Per loro è una riforma dura, per certi versi pure eccessiva. Un datore di lavoro potrà controllare i minuti che il dipendente dedica su internet al suo passatempo preferito e per 10 minuti di svago il licenziamento, per quanto illegittimo, verrà sanzionato solo un indennizzo economico rigidamente proporzionato alla anzianità di servizio del lavoratore. Ma gli altri? I milioni di lavoratori già occupati, la cui produttività è condizione essenziale per la competitività di imprese che si confrontano, da anni, nel mercato nazionale e internazionale? Per loro continua a trovare applicazione l’art. 18 e, all’opposto di quanto accade per i nuovi assunti, la sanzione del licenziamento è esposta ad un’irragionevole discrezionalità dei giudici (non era meglio una regime sanzionatorio più equilibrato, ma uguale per tutti?). Per loro non ci sono interventi sul cuneo fiscale e, anzi, è venuta meno la possibilità di abbattere il cuneo fiscale con lo strumento della defiscalizzazione del salario di produttività (non era meglio ridurre il cuneo fiscale e contributivo per tutti, senza distinzione tra vecchi e nuovi assunti?). Per loro il recupero di produttività resta affidato alla auspicabile evoluzione della contrattazione collettiva, ma se da un lato il Governo ha eliminato gli incentivi fiscali destinati alla contrattazione di secondo livello per altro verso resta ancora bloccato l’indispensabile progetto di legge sulla rappresentanza sindacale e contrattazione collettiva.
Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti. Le imprese stanno sistematicamente cercando ogni soluzione, al limite della legalità, per sostituire i vecchi assunti con nuova occupazione incentivata. C’è da credere che a partire dal 2016, anche tenuto conto delle ristrette disponibilità economiche, questi processi di riorganizzazione saranno oggetto di un rilevante contenzioso con gli enti previdenziali che contesteranno la natura elusiva di molti processi di riorganizzazione e la sussistenza dei presupposti di attivazione degli incentivi. Le imprese che non vorranno o potranno dare vita a questi (talvolta innaturali) percorsi forzati sostituzione della forza lavoro si troveranno, anzitutto, a competere con imprese neo costituite che potranno avvalersi un costo del lavoro sensibilmente più basso. Non solo. E’ forse ancora più grave il fatto che queste imprese non potranno disporre di strumenti per rendere più competitiva la loro preesistente organizzazione del lavoro per l’assenza di adeguate certezze sul sistema di relazioni industriali, sulle procedure di riorganizzazione aziendale e sui costi del licenziamento disciplinare del dipendente 125
inadempiente. Il punto è che per creare nuova occupazione le riforme avrebbero dovuto, in primo luogo, preoccuparsi di garantire la competitività delle organizzazioni del lavoro già esistenti. Per renderle più produttive e incentivarle a crescere e, quindi, anche ad ingrandirsi. Il Jobs Act, tutto concentrato sui nuovi assunti, presuppone che i datori di lavoro assumano solo perchè il costo del neo assunto è più basso. I dati sull’occupazione dicono che non è così. Le imprese, come ovvio, assumono solo se hanno bisogno di assumere. Se la loro efficienza e produttività cresce e richiede, di conseguenza, l’inserimento nuovi lavoratori. Anche le regole sul lavoro possono contribuire a questo incremento di produttività e efficienza, ma a condizione che riguardino tutti, senza distinguere tra nuovi e vecchi assunti.
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7 Agosto 2015
di Corrado Passera
Care amiche, cari amici, esattamente due mesi fa la Direzione nazionale mi chiedeva ufficialmente di proporre la mia candidatura a sindaco di Milano. Ho accolto con grande entusiasmo la richiesta e, infatti, da quel 6 giugno sono impegnato in un compito che mi appassiona e inorgoglisce. Milano è la mia città, è il condensato di alcune delle migliori energie del Paese ma anche di opportunità non valorizzate da una amministrazione incapace di dare a Milano l’ambizione che la città può permettersi di avere. Soprattutto la sfida di Milano è la voglia di testimoniare che Italia Unica è un partito vero, radicato sul territorio, con tanta gente perbene che vuole impegnarsi per il futuro del Paese. Che non ci fa paura, bensì al contrario ci sprona, misurarci con il consenso dei cittadini; che io sono pronto ad assumermi le mie responsabilità, a metterci la faccia come si dice, in una competizione virtuosa – che tale io intendo la mia candidatura: fuori da ogni convenienza personale o interesse privato – per dare a Milano un primo cittadino all’altezza dei problemi che deve affrontare e risolvere per diventare una delle più dinamiche città del mondo. Aggregando idee e persone in modo nuovo. È per questo che in queste settimane, nonostante il periodo estivo e anzi proprio per questo, mi sono messo a girare anche quelle parti della città – vecchie e nuove – che conosco meno 127
per sondarne gli umori, approfondirne le problematiche, avviare un vero ascolto di tutti i cittadini. Voglio dare alla mia candidatura questo specifico senso intendo rivolgermi direttamente a tutti i milanesi, con un programma forte di sviluppo delle imprese, di sostegno delle famiglie, di tutela della legalità, di valorizzazione della cultura, della creatività e delle università di Milano. Lavoro, qualità della vita, solidarietà, con grande pragmatismo. Per costruire ambizione sull’orgoglio dei milanesi per la loro città e per la forte area metropolitana che è parte integrante dell’identità milanese. Parleremo naturalmente con i partiti, ma non intendiamo partire da cartelli elettorali posticci e inutilmente limitanti. Il “progetto Milano” è parte chiaramente importante del nostro impegno per le amministrative 2016. Stiamo lavorando sodo per radicarci ancora più sul territorio, con nuove Porte e tante iniziative, in modo da far sentire la nostra presenza anche in altre città che l’anno prossimo cambieranno i loro sindaci, dal Nord al Sud del Paese. Qualche giorno fa è stato il caso di Trieste dove Roberto Di Piazza è un candidato fortissimo. E’ bellissimo vedere quanto entusiasmo e disponibilità c’è nel proporre programmi, nell’aggregare energie. Perché per noi di Italia Unica la politica è servizio, non pretesa. E per me, in particolare, è un impegno totale. La mia candidatura a Milano, come le altre in tutte le parti d’Italia, vogliono essere acceleratore del progetto politico nazionale di Italia Unica. Serve sempre di più un approccio economico, sociale e istituzionale come il nostro. In questi due mesi, infatti, molte cose sono accadute e la gran parte porta il segno negativo. Abbiamo visto l’euro barcollare sotto i colpi della crisi greca; leader improvvisati giocare ai dadi con i destini del proprio Paese; istituzioni europee incapaci di elaborare progetti seri e duraturi, dai migranti, all’Ucraina, al terrorismo. In particolare abbiamo dovuto assistere al disarmante spettacolo del balbettio del governo italiano, capace di mutare posizione a seconda del vento del momento, dopo aver sprecato in malo modo l’opportunità offerta dal semestre di presidenza della UE. Non è così che deve comportarsi un grande Paese. Non è così che deve operare un presidente del Consiglio. Non è così che deve agire uno statista. Non basta. Sul fronte interno abbiamo visto cadere una dopo l’altra le illusioni sparse con sconcertante irresponsabilità da Matteo Renzi. Autorevoli organismi internazionali hanno recentemente spiegato che con l’andamento attuale per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi l’Italia dovrà attendere vent’anni. Vent’anni, capite? Significa bruciare le speranze di una e più generazioni: un disastro. E in questo quadro il Mezzogiorno occupa una posizione particolarmente inquietante. È dei giorni scorsi la rilevazione dalla Svimez secondo cui il Sud è cresciuto la metà della Grecia (!), mentre la disoccupazione supera l’agghiacciante quota del 40 per cento della forza lavoro. Potrei andare avanti, ricordando come le tasse siano aumentate, la spesa pubblica cresciuta, gli investimenti tagliati. Ma non è il caso, almeno in questa sede. Quel che mi interessa rilevare è la progressiva incapacità di Renzi di affrontare i nodi strutturali del 128
Paese, cui fa da supporto la pervicace volontà di assicurarsi tutto il potere possibile, con leggi elettorali, riforme costituzionali, occupazione della Rai, asservimento ope legis dei livelli dirigenziali della Pubblica amministrazione. Un’operazione condotta con disinvoltura e spregiudicatezza, con compagni di strada improbabili, supini o voltagabbana. In vari casi, entrambi. Io, Italia Unica, tutti voi lavoriamo per un’Italia diversa. Dove vincano il merito e la responsabilità, dove a tutti siano garantite pari opportunità ma poi i capaci ed i meritevoli trovino il giusto riconoscimento. Auguro a tutti una buona estate, un’estate di relax, ma anche di lavoro. Perché non dobbiamo perdere neanche un minuto per rendere possibile l’alternativa, per dare all’Italia un bipolarismo corretto ed efficace, per garantire ai nostri giovani un futuro degno di loro. Ce la possiamo fare. Io ne sono sicuro.
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10 Agosto 2015
di Corrado Passera
Il mezzogiorno ha perso l’anima, ma è lo specchio di tutto il Paese Il rapporto Svimez sul Sud ha, ancora una volta, sollevato polemiche e attenzioni da parte della politica, dei commentatori e in generale dei cittadini che tengono al bene nazionale. Stando all’affresco Svimez, dovremmo tradurre Sud, come acronimo, in “Senza un domani”, ma sarebbe sbagliato almeno quanto liquidare la nostra secolare questione meridionale al livello del mero piagnisteo (che errore, Renzi, negare i problemi reali con sarcasmo caricaturale…). Vorrei concentrarmi su aspetti culturali e, direi, umanistici dell’attuale Sud italiano o almeno di quel Sud che ho imparato a conoscere (pur sempre parzialmente e da “profano”) in questi ultimi anni, e quindi arrivare a una riflessione sull’Italia intera, inscindibile dal suo meridione. Galli della Loggia, sul Corriere del 9 agosto, lamenta una mancanza di afflato statuale e legalista tra la gente del Sud. Contesta inoltre al Premier di non avere capito che con il solo sviluppo economico e infrastrutturale il Mezzogiorno non si salverà, mentre servirebbero un ritorno all’educazione civile con rinnovato ruolo forte dello Stato e valori e disegni alti per rifondare una buona coscienza nei cittadini meridionali e nei loro rappresentanti. O almeno così ho personalmente interpretato l’editoriale di GdL. E credo abbia in buona parte valide ragioni, di primo acchito, salvo che – ma forse sbaglio lettura e penso male – laddove il professore appare nostalgico dell’approccio alla questioneSud avuto nel ‘900 fino al crollo della Prima Repubblica (peraltro, va a mio avviso pur sempre ricordato che grandi colpe nell’impoverimento industriale del Sud risiedono 130
nelle politiche di svuotamento e delocalizzazione adottate post-unità d’Italia e nelle parassitosi assistenzialistiche della seconda metà del novecento). Proprio in questi giorni mi è capitato di percorrere nuovamente la costa “da Maratea a Pizzo”, citata da GdL nel suo articolo come esempio simbolico di concretizzazione della cattiva coscienza collettiva (abusivismo diffuso che rovina luoghi altrimenti bellissimi), e ho anche girovagato per la Sila, montagna tanto amata da calabresi, lucani e pugliesi. Ebbene (anzi, emmale), ogni volta quei cementi mostruosi che violentano il paesaggio senza soluzione di continuità, con le loro corna di ferro arrugginito e incompiuto, mi stringono il cuore. Come d’altronde avvelenano l’anima le immondizie sparse ai bordi delle strade o gli incendi dolosi o le fogne svuotate a mare senza depuratori: autolesionismi di un intero popolo, rassegnato o inconsapevole o anestetizzato, che fanno gridare vendetta. Ma c’è qualcosa di più, oltre al deficit di legalismo e senso dello Stato, qualcosa di maggiormente “domestico” e particolare. C’è quello che io definisco un “funzionalismo brutto e amorale” che fa abbrutire il cittadino in ogni microcosmo piccolo o grande che sia: si tende ad adottare soluzioni (infrastrutturali, edilizie, accessorie, d’arredamento, di mobilità, ecc.), in ambito pubblico come privato, che servono a uno scopo pratico a prescindere dal fatto che siano soluzioni accettabili esteticamente (letteralmente, percepibili, respirabili), armoniche e compatibili con l’ambiente, la storia e la cultura circostanti. Devi piantare una rosa ed esporla sul davanzale? Mettila in una bottiglia di plastica vuota e tagliata a metà. Devi creare il parapetto di un molo al porticciolo? Prendi qualche blocco di cemento da guard rail autostradale e il gioco è fatto. Vuoi scacciare le talpe dal giardino? Spargi sacchetti di plastica attaccati a bastoni mozzati di scope e i roditori scavatori fuggiranno impauriti (a dire il vero le talpe dimostrano maggiore buon senso degli umani, a volte). Devi costruire con fondi UE una stazione meteorologica sperimentale sulle cime sopra Camigliatello? Appoggiala su un ammasso di mattonacci di cemento prefabbricato armato, tanto l’importante è che regga. Da cosa deriva questo funzionalismo brutto? Probabilmente da carenza diffusa di “cultura del bello” – e in questo la scuola è stata il primo e principale fallimento delle politiche meridionali degli ultimi decenni: ma non basta e non si può semplificare individuando una sola causa in una sedimentazione complessa di cattive pratiche in corso dall’800, interconnesse alla pervasiva criminalità organizzata che inquina pure le istituzioni e divora le radici dell’etica civile. Tuttavia, questo è poco e parziale ma sicuro: intossicato dal “primum vivere”, qualcuno ha perso il senso umanistico e organico dell’armonia. Altri indicatori allarmanti sono le chincaglierie in vendita in molti negozi nei centri dei paesini turistici e anche il tipo di sagre e celebrazioni organizzate nel periodo estivo: “cineserie” e cibi-spazzatura a non finire nelle botteghe (quasi zero librerie, quasi zero gastronomia di qualità), sagre della birra (prodotto che, come noto, contraddistingue le tradizioni calabresi) e pressoché mai rassegne letterarie o artistiche, per non parlare dell’immancabile karaoke di canzoni anni sessanta e settanta del secolo scorso. Che tipo di turismo si attirerà mai, con cotanta offerta? Sembra che un incantesimo abbia fermato al 1982 molti bar e negozi di località meridionali. Perfino i tavoli e le sedie dei caffè nelle piazze risalgono a quell’epoca, in tanti casi, con i nastri tubolari di plastica colorata che si 131
usavano quando l’Italia vinceva i mondiali in Spagna. Ma sono davvero, quelli del ridotto afflato legalistico collettivo che suggerisce GdL, del funzionalismo amorale e della scadente/decadente offerta commerciale-culturale nei paesi, problemi solo meridionali? Basta la maggiore ricchezza economica a far considerare salvo o addirittura indenne da queste derive il resto della nazione? In Piemonte, Emilia-Romagna o Lombardia non abbiamo criminalità organizzata a rodere i cavi delle istituzioni e dell’etica civile e a permeare amministrazioni? C’è totale dedizione alla legalità lassù? O il rischio – pur in tono minore nell’immediato e con “debiti arretrati” più blandi – riguarda tutta la Penisola, progressivamente, drammaticamente? L’Italia è per di più, tutta intera, il Sud d’Europa: è porta necessaria d’accoglienza di persone appartenenti a culture lontanissime dalla nostra che faticano ad adeguarsi alle consuetudini, alle regole etiche e agli ideali occidentali, prese come sono dallo sforzo di sopravvivere e di trascinare con sé pezzi di identità inconciliabili coi nostri: ci rifugeremo nel funzionalismo pragmatico e senz’anima, nella diluizione di tradizioni e ambizioni ideali, per assorbirne l’impatto? Non c’è forse un funzionalismo disumano in alcune periferie, in certi campi (non solo nomadi) in cui lasciamo vivere famiglie con bambini in miseria e degrado, senza servizi essenziali e spesso oltre ogni diritto fondamentale? Non è funzionalismo brutto il passaggio di navi giganti davanti a San Marco a Venezia in nome del mero business? E il cubo di cemento bianco sul Canal Grande che cos’è? Armonie, estetica e bellezza non sono cose futili, perché salvaguardano la libertà, fatta di rispetto reciproco e rispettive originalità. Sono fondamenta, architravi e portici, strade con una direzione, premesse e conseguenze dell’evoluzione civile. L’amore per ciò che è bello, curato e armonico corrisponde alla cautela per i valori fondanti di una civiltà amica dell’essere umano e dell’ambiente, della dignità e del decoro, della cultura e della legalità, dell’ordine e della qualità, della ricerca e della creatività, della salute e del benessere. Esistono ancora, comunque, baluardi paesani di senso scollegati dalla mera utilitarietà. Viaggiando in auto attraverso i disordinati agglomerati calabresi o per le colline deturpate da lottizzazioni selvagge del triveneto o dell’Emilia, io che critico sempre le cattedrali nel deserto e certe opere o eventi apparentemente inutili costati tanti soldi ai cittadini, ammiro con sollievo e consolazione certe chiesette erette in mezzo al “nulla”. Il mio ragionamento non ha alcunché di religioso. Credenti e non credenti, tutti dovremmo ringraziare che un bambino immerso nel non-sense inanimato e circondato da abusi e funzionalismi brutti, da chincaglierie e souvenir – senza contare il quotidiano bombardamento televisivo – possa almeno aggrapparsi all’armonia profonda di una piccola chiesa storica nel centro del suo paese. Che si creda o meno, lì non è morto – parafrasando Guccini – un Dio bello e civile, insieme sacro e laico, ricco di tradizioni passate e fiducioso nel futuro, rispettoso dell’umanità e del suo sviluppo dignitoso. Il “campanilismo”, così inteso in modo positivo e nobile, è un ri-appiglio estremo, provvidenziale, alle unicità profonde che ogni nostro luogo conserva. Al Sud come al Nord, e forse dopotutto nell’intera Europa. 132
6 Agosto 2015
di Fabio Giuseppe Angelini
Un ricettario senza ricette: la (non) Riforma della Pubblica Amministrazione/1 Il Parlamento ha approvato la legge Madia sulla riforma della Pubblica Amministrazione. Un provvedimento complesso che contiene qualche luce e tantissime ombre. Italia Unica considera la PA fondamentale, sia per i riflessi economici sia soprattutto per il rapporto con i cittadini. Per questo ne proponiamo una disamina approfondita in due capitoli. Questo è il primo, mentre qui si può leggere la seconda parte. La legge delega approvata nei giorni scorsi dal Parlamento – enfaticamente (e dolosamente) spacciata per riforma della Pubblica Amministrazione – altro non se non una lunga lista della spesa (peraltro pure incompleta ed in alcuni punti contraddittoria) composta per larga parte da desiderata, auspici e frasi ad effetto miste a ad alcuni (limitatissimi) interventi di dettaglio riguardanti strumenti di azione della PA che, più volte rimaneggiati in più di vent’anni di continue riforme e controriforme amministrative, hanno 133
già dimostrato di aver ben poco a che fare con i nodi critici nel nostro sistema pubblico. A ben guardare, la legge Madia assomiglia più ad un libro di ricette infarcito di titoli e fotografie allettanti, al punto da far venire la voglia a chiunque di cimentarsi ai fornelli, che ad un illuminato disegno di riforma organico della Pubblica Amministrazione. Essa, infatti, si riduce ad un ricettario privo di qualsivoglia indicazione in ordine agli ingredienti necessari ed alle modalità di preparazione di ciascuna ricetta. In definitiva, un grande spot elettorale in perfetto stile renziano in cui sono indicati alcuni ambiti di intervento, senza però rispondere alla domanda fondamentale: come? facendo cosa? e secondo quale disegno complessivo? Per rendersene conto è sufficiente guardare la struttura del provvedimento legislativo. Esso si concentra su quatto aspetti: semplificazioni amministrative, organizzazione, personale e semplificazione normativa, riducendosi però ad un’elencazione di deleghe (più di venti) in favore del Governo e di principi e obiettivi ambiziosi che spetterà a quest’ultimo raggiungere proponendo soluzioni adeguate. Il problema, dunque, sta proprio in questo: nell’assenza di un filo conduttore in grado di delineare i tratti salienti del nuovo sistema amministrativo e, pertanto, di delineare in concreto le soluzioni che il Governo dovrà adottare in sede delegata al fine di perseguire il modello indicato dal legislatore. Per comprendere meglio il senso di tale affermazione ci soffermeremo di seguito, seppure a grandi linee, sulle singole previsioni della legge delega al fine di mostrarne il limitatissimo impatto immediato e, di contro, l’elevatissimo grado di aleatorietà connesso all’assenza di qualsivoglia indicazione di merito in ordine alle modalità attraverso cui il Governo, specie in materia di semplificazioni amministrative, organizzazione e semplificazione normativa, eserciterà le proprie deleghe legislative. Il primo capo è dedicato alle semplificazioni amministrative, ovvero, per la quasi totalità, al conferimento di ampie deleghe al Governo affinché: (i) intervenga sul Codice dell’Amministrazione Digitale al fine di favorire la digitalizzazione delle procedure amministrative, dei rapporti tra cittadino e PA e tra soggetti pubblici e degli strumenti di gestione della PA, nonchè, di ridefinire criteri e standard tecnici necessari al raggiungimento di tali obiettivi; (ii) intervenga sulla Legge generale sul procedimento amministrativo (la nota l. 241/1990) modificando la disciplina della Conferenza di Servizi nell’ottica di una riduzione dei casi in cui l’indizione della stessa è obbligatoria, di favorire l’uso di strumenti informatici, di una riduzione dei tempi di chiusura della stessa e della previsione di meccanismi di silenzio assenso tali da evitare situazioni di blocco del procedimento in caso di inerzia di una o più delle amministrazioni partecipanti e, infine, di contenere il più possibile le ipotesi in cui le amministrazioni possono chiedere una revisione in autotutela delle decisioni assunte; (iii) adotti norme concernenti misure di semplificazione e accelerazione dei procedimenti amministrativi concernenti insediamenti produttivi, opere di interesse generale e l’avvio di attività imprenditoriali, prevedendo poteri sostitutivi in capo al Presidente del Consiglio dei Ministri; (iv) adotti norme per la precisa individuazione dei procedimenti per i quali trovano applicazione 134
la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio di Attività), il Silenzio assenso, l’Autorizzazione espressa e quelli per i quali è sufficiente una comunicazione preventiva, nonché, dei termini di conclusione di tali procedimenti ove sia previsto il rilascio di un provvedimento espresso; (v) intervenga sul decreto recentemente approvato in materia di pubblicità, trasparenza e diffusione delle informazioni da parte delle amministrazioni (d.lgs. 33/2013) al fine di semplificarne il contenuto; (vi) adotti misure tese a promuovere la ristrutturazione e la razionalizzazione delle spese di giustizia. A fronte di tale imponente concentrazione di potere governante affidato dal Parlamento al Governo Renzi, risultano essere solo due i reali interventi di riforma: (i) l’introduzione della disciplina del Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni e gestori di beni e servizi pubblici, mediante l’introduzione dell’art. 17 bis alla l. 241/1990 e (ii) il restyling delle norme concernenti l’esercizio dei poteri di autotutela (revoca e annullamento d’ufficio) da parte della PA, nel tentativo di contenere il più possibile le possibilità di ricorso a tali strumenti. Interventi questi ultimi certamente utili ma decisamente marginali rispetto agli obiettivi dichiarati dalla riforma Madia. Su questo fronte specifico, non si può però non evidenziare come ancora una volta si cerchi di incidere sulle procedure, inseguendo l’ennesima semplificazione complicante, senza però affrontare il punto nevralgico del problema, rappresentato dalla necessità di operare a monte una semplificazione degli interessi in gioco sulla base di un chiaro disegno politico in grado di delineare una strategia di intervento slegata da logiche elettorali. Di tutto questo nella legge Madia non v’è traccia se non sotto forma di delega al Governo il quale, tuttavia, difficilmente avrà modo di incidere in modo sostanziale modificando l’assetto degli interessi in gioco senza coinvolgere il Parlamento. Allo stesso modo, nessuna attenzione è rivolta al tema del contenimento, entro i labili confini della legalità, della discrezionalità amministrativa e della predeterminazione a monte dei requisiti e delle condizioni per l’esercizio da parte dei cittadini delle proprie libertà, nel pieno rispetto degli interessi pubblici, nel caso questi ultimi risultino suscettibili di entrare in contrasto con quelli privati. Il secondo capo è, invece, dedicato all’organizzazione. Anche in questo caso si tratta di un’ampia serie di deleghe estremamente fumose affinché il Governo: (i) promuova una riorganizzazione dell’amministrazione statale riducendo gli uffici dedicati ad attività strumentali e rafforzando quelli incaricati dell’erogazione dei servizi ai cittadini, favorendo accorpamenti e soppressioni di uffici ed enti al fine di eliminare duplicazioni o sovrapposizioni di strutture o funzioni (è in questo contesto che si prevede la soppressione del Corpo Forestale dello Stato) e (ii) provveda al riordino delle funzioni e del finanziamento delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura. Anche su questo fronte la legge delega si limita ad indicare alcune linee guida (alcune di queste in palese sintonia con il programma di Italia Unica e con le riflessioni della nostra Squadra Programmatica) e degli obiettivi da raggiungere, rimettendo però ogni scelta concreta al Governo.
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11 Agosto 2015
di Fabio Giuseppe Angelini
Un ricettario senza ricette: la (non) Riforma della Pubblica Amministrazione/2 Il Parlamento ha approvato la legge Madia sulla riforma della Pubblica Amministrazione. Un provvedimento complesso che contiene qualche luce e tantissime ombre. Italia Unica considera la PA fondamentale, sia per i riflessi economici sia soprattutto per il rapporto con i cittadini. Per questo ne proponiamo una disamina approfondita in due capitoli. Questa è la seconda e ultima parte. Il terzo capo è dedicato al personale e, in particolare, alla delega al Governo a promuovere una riforma della dirigenza pubblica incentrata sull’istituzione di un sistema articolato in ruoli unificati e coordinati, caratterizzato dalla piena mobilità tra i ruoli, uno per i dirigenti dello Stato, uno per i dirigenti delle Regioni e uno per i dirigenti degli Enti Locali, dalla revisione delle modalità di reclutamento e affidamento degli incarichi e della durata degli stessi, nonché, dall’introduzione di un più stretto collegamento tra valutazione, 136
conferimento e rinnovo degli incarichi e permanenza negli stessi. Infine, il quarto capo è invece dedicato alle deleghe per la semplificazione normativa. In questo campo, il Governo è chiamato ad intervenire al fine di semplificare le norme in materia di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, di partecipazioni societarie delle amministrazioni pubbliche e di servizi pubblici locali di interesse generale. In particolare, con riferimento al pubblico impiego, la legge delega affida al Governo il compito di definire nuove regole per i concorsi (tra cui l’eliminazione del voto minimo di laurea per la partecipazione ai concorsi), per il lavoro flessibile e per la valutazione dei pubblici dipendenti, nonché, di rafforzare il principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione (ma solo nell’ottica di chiarire che la responsabilità amministrativo-contabile è imputabile solo ai dirigenti e non agli organi di vertice politico!). Con riferimento alle società partecipate da pubbliche amministrazioni, la legge Madia delega il Governo ad adottare un decreto legislativo teso ad assicurare la chiarezza della disciplina, la semplificazione normativa, la tutela e la promozione della concorrenza, operando una distinzione tra tipi di società in relazione alle attività svolte, agli interessi pubblici tutelati e alla tipologia di partecipazione societaria, individuando quale condizione per l’assunzione ed il mantenimento della stessa il perimetro dei compiti istituzionali o di ambiti strategici. Infine, con riferimento alla disciplina dei servizi pubblici locali di interesse economico generale la legge delega affida al Governo il compito di riordinare la disciplina sopprimendo i regimi di esclusiva, di definire i compiti di regolazione e organizzazione in capo alla PA, di individuare i criteri per la definizione dei regimi tariffari e le modalità di tutela degli utenti. Si tratta, dunque, di un programma di riforma (più che di una riforma della PA) fortemente aleatorio, privo di qualsiasi indicazione concreta sugli ingredienti fondamentali e sulle modalità di combinazione degli stessi. Proprio in virtù di queste caratteristiche, risulta persino difficile essere in disaccordo con l’elencazione degli ambiti di intervento individuati dalla maggioranza. Tuttavia sarà in sede di attuazione delle deleghe che Renzi dovrà smentire la sua fama di affabulatore dimostrando, da un lato, di saper resistere alle sabbie mobili dei decreti delegati e attuativi e, dall’altro, di avere una specifica idea su quale PA serva per il rilancio del Paese. Sin qui il Governo ha dimostrato di avere molte idee, tutte ben confuse, prive di un disegno unitario, salvo su un aspetto: il rafforzamento del potere nelle mani della politica e, in particolare, del Premier – Segretario del PD. È certo, dunque, che in virtù dell’ampiezza delle deleghe conferite dalla legge Madia, la palla passa pienamente nelle mani del Governo al punto tale che qualsiasi forma di insuccesso non potrà essere imputato ad altri se non al Governo. Per il bene del Paese si spera perciò che quest’ultimo si concentri più nell’affrontare i veri nodi della PA che nel restaurare poteri feudali al fine di concentrarlo nelle mani di un numero sempre più ristretto di istituzioni, organi e uffici. In verità, un chiaro segnale in tal senso, davvero poco tranquillizzante, si rintraccia anche nella legge Madia laddove si delinea un chiaro rafforzamento del ruolo della Presidenza del Consiglio dei Ministri 137
e, in particolare, del Premier, tanto in relazione ai poteri sostitutivi previsti nell’ambito delle procedure amministrative concernenti attività di interesse strategico quanto nella nomina dei dirigenti. Un simile accentramento di potere, in un contesto istituzionale già fortemente compromesso da una legge elettorale come l’Italicum e dal crescente indebolimento del ruolo delle istituzioni di garanzia, rischia di accrescere piuttosto che ridurre i profili fortemente estrattivi della nostra cornice istituzionale che vedono proprio nell’apparato burocratico lo strumento essenziale per la difesa e la protezione degli interessi delle oligarchie. La proposta di Italia Unica sul fronte della Riforma della PA, a cui in Governo si spera saprà attingere (come peraltro sembra aver già fatto in relazione a vari punti della legge delega) in sede delegata, si basa al contrario su un chiaro disegno politico che vede nel cambiamento della pubblica amministrazione il vero e proprio fattore di svolta dell’economia e della società italiana. Essa si articola in tre cambi di passo. Il primo è quello concernente la rifocalizzazione della pubblica amministrazione sulla propria ragion d’essere, soverchiando quelle regole non scritte di funzionamento della stessa che, in quanto tali, non sono riformabili per legge ma solo mediante nuove pratiche e prassi amministrative. Lungo questa via occorre accentuare la separazione tra politica e amministrazione, facendo in modo che l’unica cinghia di trasmissione tra queste due sfere di competenza sia il merito, attraverso l’individuazione di nuovi metodi di valutazione delle performance per chi è già all’interno dell’amministrazione e di selezione per chi, invece, ambisca ad entrarci (dal metodo della raccomandazione e dell’anzianità a quello valorizzazione dell’impegno e della capacità di raggiungere gli obiettivi). Nello stesso tempo, occorre investire in capitale umano, formazione e tecnologia, promuovendo un complessivo ripensamento degli ambiti di intervento dei pubblici poteri e delle modalità di azione ritenute più efficaci ed efficienti – alla luce delle risorse disponibili e del grado di capacità della società civile di rispondere autonomamente ai propri bisogni – per il perseguimento degli interessi pubblici identificati come tali dal legislatore. Le riforme istituzionali dovrebbero accompagnare tale rifocalizzazione ridefinendo i ruoli del Parlamento, del Governo, delle autonomie territoriali e dell’amministrazione. Occorre superare il modello di amministrazione previsto nell’art. 95 della Costituzione (quello che la vede servente rispetto alla politica) valorizzando maggiormente quello previsto dall’art. 97 della Costituzione (quello che la vede indipendente rispetto al potere politico, sottoposta soltanto alla legge e retta dal principio di imparzialità e buon andamento). In questo senso, il legislatore deve saper indentificare gli interessi ritenuti meritevoli di tutela e definire le diverse possibili modalità di intervento per il loro soddisfacimento. A loro volta, il Governo e gli organi esecutivi delle autonomie territoriali devono farsi sempre più promotori di tali interventi legislativi, nonché, esercitare il proprio indirizzo politico-amministrativo basato principalmente sulla nomina, in base a criteri trasparenti e meritocratici, dei dirigenti di vertice delle amministrazioni, sulla definizione di obiettivi puntuali, sull’allocazione delle risorse e sulla verifica del raggiungimento degli stessi. All’amministrazione deve spettare, invece, la gestione responsabile, sulla base dei principi di imparzialità e buon andamento, delle risorse assegnate per il raggiungimento 138
degli obiettivi di interesse pubblico definiti in astratto dal legislatore e dettagliati dagli organi esecutivi, nonché, la scelta di quelle modalità di intervento pubblico ritenute più idonee al raggiungimento degli stessi. Il secondo attiene al superamento della logica dei tagli indiscriminati, funzionali alla ricerca di soluzioni di contenimento della spesa a brevissimo termine, puntando su una riorganizzazione volta a creare valore. Sul fronte organizzativo è ora di superare quella visione secondo cui a ciascun ente territoriale debba necessariamente corrispondere un apparato burocratico servente rispetto ai suoi organi politici. Non ha più senso prevedere, per esempio, che ciascun ente locale abbia un proprio ufficio tecnico o un proprio ufficio anagrafe, quando al contrario tali servizi possono essere gestiti su basi territoriali più vaste rispondendo, quindi, all’indirizzo di più organi politici secondo un disegno di poliarchia istituzionale capace di coniugare efficienza, sussidiarietà e autogoverno. Per fare questo, valorizzando le eccellenze interne, occorre formare dei team di lavoro a cui affidare la gestione, ai vari livelli di governo, dei processi di riorganizzazione all’interno del settore pubblico, che sappiano coinvolgere tutto il mondo del pubblico impiego facendo sentire ciascun dipendente in grado di far parte di un’unica grande organizzazione che persegue uno scopo comune. I sacrifici e i benefici della riorganizzazione dovranno essere concordati con i sindacati ed essere ripartiti equamente, facendo ricorso a strumenti come la cassa integrazione, la mobilità e i piani di riqualificazione finanziati mediante la cessione di asset pubblici, appositamente destinati a tale scopo dal legislatore. Inoltre, dovranno essere introdotte nuove regole interne e prassi in grado di ridurre le ipotesi di esercizio della discrezionalità da parte della dirigenza pubblica al fine di promuovere la certezza del diritto ed evitare ingiustificate disparità di trattamento. In tal senso, deve essere promossa una maggiore centralizzazione delle decisioni di spesa per una maggiore efficienza ed un maggiore controllo della stessa. Dovranno, altresì, essere rafforzati i controlli e le verifiche interne al fine di creare una nuova cultura del rispetto delle regole ed una nuova focalizzazione sul risultato piuttosto che sulla procedura. Il terzo riguarda, invece, il ripensamento complessivo sia degli ambiti di azione della pubblica amministrazione, sia delle modalità di intervento. Occorre chiedersi, infatti, procedura per procedura, settore per settore, se ha ancora senso l’intervento pubblico e se le modalità di con cui lo stesso viene realizzato siano compatibili con il grado di maturità del mercato e della società civile. Si scoprirà, in molti casi, che la risposta più efficace non è quella di promuovere semplificazioni complicanti come si è fatto negli ultimi decenni, bensì, di lasciare la libera iniziativa ai privati, ovvero, di supportarne l’azione finanziando i servizi alla collettività piuttosto che erogandoli direttamente. In altri, si scoprirà che piuttosto che imporre l’acquisizione in via preventiva di autorizzazioni, nulla osta o altri analoghi strumenti come la SCIA, la DIA o il silenzio assenso, sia invece preferibile riallocare il personale delle amministrazioni su funzioni di controllo ex post, in grado di verificare in concreto, senza mortificare la libera iniziativa, la compatibilità delle attività dei privati con gli interessi pubblici. Infine, occorre prendere coscienza del fatto che la pubblica amministrazione rappresenta 139
la nostra più grande rete informativa e che, se posta al servizio dell’economia e della società civile, essa può rappresentare uno straordinario strumento di rilancio economico oltre che di efficientamento dell’apparato burocratico del Paese. IU suggerisce tre livelli di intervento per una riforma strutturale della pubblica amministrazione in grado di trasformarla nella sostanza, restituendole la propria ragion d’essere: quella dimensione di servizio al Paese che le è propria. Si tratta di riforme che richiedono al tempo stesso interventi legislativi accompagnati da competenze gestionali e da politiche aziendali tese a promuovere una leadership diffusa all’interno del settore pubblico, affiancate da una regia politica forte ed autorevole (capace più di affrontare nel merito i problemi che di comunicare scambiando programmi elettorali per soluzioni concrete), capace di porre le condizioni affinché il nostro sistema istituzionale diventi realmente inclusivo, liberandolo dal groviglio di interessi particolari che ne bloccano ogni tentativo di modernizzazione. Un progetto di riforma complessiva che sappia abbracciare, nello stesso tempo, la dimensione giuridica e quella aziendale, coniugare quella legislativa con quella attuativa, per portare la nostra pubblica amministrazione a livelli in grado di competere con i Paesi più avanzati del mondo. Tutto quello che la legge Madia non è e non può essere.
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23 Agosto 2015
di Luca Bolognini
Quando la decadenza e incertezza della legge genera mostri Non mi interessa entrare nel groviglio di noiosi dettagli burocratici su chi sapesse o chi dovesse fare o vietare cosa fra le plurime istituzioni preposte alla salvaguardia dell’ordine e della legalità nella Capitale – la magistratura farà gli approfondimenti del caso, se necessario; invece, a mio avviso, c’è spazio e bisogno di una breve riflessione liberalgiuridica di fondo, sulla decadenza dei diritti e dei doveri. C’è qualcosa di storto che accomuna il caso del funerale di pessimo gusto, consumatosi a Roma sotto gli occhi indignati (e anche un po’ ipocriti e appena svegli) di molti, con altri dati e fatti ben noti: per esempio, qualcosa che c’entra con gli attentati terroristici avvenuti di recente in Francia, anche nelle ultime ore con l’arresto eroico del nordafricano armato di kalashnikov sul treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi (si è sempre trattato di personaggi già schedati dai servizi di sicurezza come pericolosi terroristi integralisti); o, ancora, con la miriade di libri scritti da magistrati, giornalisti e osservatori vari su Cosa Nostra, sulla ‘ndrangheta, sulla camorra ecc. – nei quali si indicano con nomi e cognomi e dovizia di particolari le famiglie mafiose che comandano in ciascun paesino di ogni territorio al Sud come al Nord d’Italia. Il “qualcosa di storto” è: se tutti sanno – e soprattutto le autorità competenti sanno – che questa gente è criminale, perché pascola a piede libero? Per usare un gergo da film, intonato con gli eventi stucchevoli all’ordine del giorno, “le chiacchiere stanno a zero” e i casi sono due, si direbbe che tertium non datur: o alcuni di questi non sono criminali, 141
e allora si critichi pure il gusto di una celebrazione in pubblico ma senza offendere le “diverse culture” né pretendendo di spingersi oltre i divieti di apologia di reato e oltraggi vari (visto che siamo in democrazie liberali e non in dittature eticiste), oppure alcuni di questi sono criminali certificati e allora dovrebbero essere nelle patrie galere e non in giro alla luce del sole, a bordo di treni o censiti stabilmente su libri, su articoli di cronaca e perfino su Wikipedia (provare per credere). Purtroppo, la sensazione è che, invece, spesso tertium datur eccome: la decadenza dei nostri sistemi giuridici iper-civilizzati (la via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, fatte di leggi e di procedure giurisdizionali così diabolicamente arzigogolate e sottili da rivelarsi inutili nel contrasto alla criminalità a tutti i livelli) ci ha reso molli, lenti e facili prede di chiunque voglia fare il duro fuorilegge, nelle piccole come nelle grandi cose, dal non pagare il biglietto sul tram, al taglieggiare, al corrompere, allo spacciare, allo sparare per le ragioni più assurde. Eppure, in Europa e nel resto del mondo civilizzato, teniamo tutto e tutti sotto controllo, intercettiamo, schediamo, archiviamo, profiliamo, le forze dell’ordine e i giudici possono conoscere ogni dettaglio di chiunque: ma non fermiamo chi va fermato, lo lasciamo circolare. E in Italia rincariamo la dose, aggiungendo anche ingredienti di irrazionalità legale crudele, quasi a volerci far perdonare l’inefficienza di fondo del sistema, con un uso smodato di custodie cautelari e presunzioni di colpevolezza senza reale pericolosità, o con invenzioni giuridiche sbagliate e illiberali come il “concorso esterno in associazione mafiosa” (reato vaghissimo, magari a volte utile ma che può portare ad inquisire malcapitati inconsapevoli perché si trovavano a cene con cinquanta persone una delle quali mafiosa) o l’accertamento esecutivo fiscale, solve et repete, che vessa i contribuenti costringendoli a pagare cartelle esattoriali subito, a discapito del loro diritto di difesa. Tutto ciò ha un nome: incertezza del diritto. Ecco la stortura. Nell’incertezza del diritto, i criminali e i terroristi prosperano. E il potere pubblico se la prende con individui regolari e qualsiasi, più semplici da identificare e da sanzionare con meno sforzi. I cittadini normali sono tra l’incudine e il martello, e hanno paura: paura dei criminali, dai quali il potere pubblico fatica a difenderli; paura del potere pubblico, quando pretende troppo dalle persone per bene e assai poco dai veri delinquenti. La decadenza della legge genera una giustizia dura coi deboli, debolissima con i duri.
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27 Agosto 2015
di Marco Marazza
Lavoro, quando la realtà smaschera la propaganda Una delle citazioni più abusate -e di più difficile attribuzione- della storia è quella relativa all’utilizzo delle statistiche da parte di un politico assimilabile a quello di un lampione da parte di un ubriaco; non per cercare luce ma sostegno. Non importa se l’autore del detto fosse stato l’ex premier britannico Benjamin Disraeli, lo scrittore Mark Twain o il poeta A. E. Housman, ma fatto sta che sicuramente il Governo Renzi rimarrà nella storia come un caso di scuola relativamente alla sua veridicità. La vicenda di questi giorni relativa ai dati sulle nuove attivazioni ne è l’ennesima dimostrazione. Nella nota flash del 25 agosto il Ministero del Lavoro annuncia trionfalmente che il numero dei nuovi contratti a tempo indeterminato nei primi 7 mesi dell’anno ammonta a 630 mila unità con un saldo tra contratti attivati e cessati positivo per 2,3 milioni. Neanche il tempo per un twitt euforico da parte del Premier ed il dato viene sbugiardato da Marta Fana del Manifesto che ha ricostruito il dato dei primi 7 mesi dell’anno sulla base delle singole note mensili facendo emergere non solo un significativo rallentamento del ritmo di stabilizzazione dei contratti di lavoro negli ultimi mesi (con un saldo tra nuovi contratti a tempo indeterminato e cessazioni pari a Luglio a solo 47 unità dopo le 271 di Maggio ed il calo di 9.768 di Giugno) ma soprattutto un inspiegabile errore nei dati presentati dal ministero. Il vero saldo dei nuovi contratti a tempo indeterminato e delle trasformazioni di precedenti contratti a tempo determinato in tempo indeterminato ammonta infatti nei primi 7 mesi a ben 303 mila unità (il 48%) in meno rispetto a quanto comunicato dal ministero mentre il saldo complessivo tra attivazioni e cessazioni delle diverse forme contrattuali (non solo tempo determinato, ma anche indeterminato, apprendistato, collaborazione ed altre forme contrattuali) ammonta a 1,1 milioni, 1,2 143
milioni (il 52%) in meno rispetto alle stime ministeriali. Un errore macroscopico da parte del ministero che si è limitato a sostituire sul sito la tabella incriminata senza alcuna spiegazione o nota di scuse. Una vicenda paradossale che porta a due considerazioni. Le prima è che il Jobs Act, nonostante la propaganda governativa, non solo è inefficace per quanto riguarda la creazione di occupazione (il numero degli occupati è calato in Italia di 125mila unità nel corso del 2015) ma anche il celebrato trend di stabilizzazione dei contratti di lavoro ha perso vigore dopo l’andamento positivo dei primi mesi dell’anno, essenzialmente per la perdita di fiducia del sistema produttivo rispetto alla capacità del Governo di rilanciare l’economia. La seconda considerazione è che il costante -e sempre più improbo- sforzo da parte del Governo di trovare sostegno statistico in merito all’efficacia sull’andamento dell’economia della propria presunta agenda di riforme sta, progressivamente, deteriorando l’affidabilità dei dati prodotti dagli uffici ministeriali (e minando ulteriormente la credibilità dell’Esecutivo sia in Italia che all’estero). È, a questo riguardo, di poche settimane fa la polemica del Presidente dell’ISTAT Giorgio Alleva in merito i dati utilizzati dal ministro del lavoro Giuliano Poletti utilizzati a fini propagandistici da Matteo Renzi, polemica che non può che acquisire nuovo vigore alla luce della gaffe del Ministero del Lavoro. Il punto è che un buon governo è un governo credibile. Ogni giorno che passa risulta più evidente il fallimento delle politiche poste sinora in atto dal premier, nonostante la loro onerosità per le finanze pubbliche che ha distolto risorse da impeghi ben più utili o urgenti. A partire dal bonus degli 80 Euro, che costa 10 miliardi di Euro all’anno alle casse dello Stato e che è stato venduto come un motore per la ripresa dei consumi interni (che, per contro, sono calati nel corso del 2014 e sono stazionari nel 2015), passando dal Jobs Act, troppo oneroso per gli equilibri del nostro sistema previdenziale (con un buco contributivo che potrebbe arrivare, secondo le stime dell’INPS, a 10 miliardi di Euro, eguagliando pertanto il costo degli 80 Euro) rispetto all’inefficacia sinora dimostrata come veicolo di creazione e di stabilizzazione dell’occupazione, fino alla ripresa degli investimenti pubblici e privati, pietra angolare del Documento di Economia e Finanza 2015 e calati, per quanto riguarda la componente pubblica, del 9% nel corso del primo trimestre 2015. Prova ne è la difficoltà di raggiungere il-peraltro modesto- obiettivo di conseguire una crescita del PIL nel corso del 2015 pari allo 0,7% a meno di un’accelerazione nel corso del secondo trimestre dell’anno (accelerazione che sembra, dato dopo dato, sempre meno probabile) nonostante la combinazione positiva di petrolio, tassi di interesse e cambio euro/dollaro che consente a tutti gli stati dell’Unione Europea (Cipro e Grecia incluse e con la sola esclusione della Finlandia legata all’economia russa) di registrare una performance migliore rispetto al nostro Paese. Nel frattempo Matteo Renzi, in calo di consensi e credibilità, dispensa, da tutti i palchi possibili ed immaginabili, promesse fiscali degne del miglior Cetto La Qualunque, 144
finanziate non da tagli degli sprechi dalla pubblica amministrazione ma, facendo leva sui propri successi in politica estera, dallo spumante fatto bere a Hollande alle barzellette raccontate al marito della Merkel, da presunte flessibilita che l’Unione Europea ci concederebbe relativamente al rapporto deficit/PIL 2015. Promesse estive, destinate purtroppo a dissolversi con i primi freddi, rivelandosi una ricetta per il disastro. Un disastro sulla pelle sia di chi in Italia lavora e fa impresa sia di chi un lavoro lo vorrebbe trovare ma non riesce. Il tutto mentre il Governo vede spegnersi, uno dopo l’altro, i lampioni statistici a cui aggrapparsi.
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3 Settembre 2015
di Luca Bolognini
Quel bambino parla al cuore duro dell’Europa Stamattina in un hotel londinese guardavo Sky News in diretta dalla stazione di Budapest. Quanti bambini disperati tra i migranti all’assalto dei treni, per terra o in braccio a genitori esausti. Senza cibo né giochi né colori. Spaesati, sradicati. Il portavoce del Governo ungherese dichiarava al giornalista che non sono tutti profughi, quelli arrivati a migliaia in questi giorni in Ungheria, e che potrebbero esserci infiltrazioni: ha ragione. Il problema è terribilmente complesso e non si risolve a colpi di indignazione buonista o di semplificazione becera. Molte le azioni da intraprendere a livello internazionale e di singoli Stati. Però il mio pensiero torna a quei bambini – a quelli ancora vivi, per i morti vale solo una profonda pietà – che arrivano, innocenti, e stanno soffrendo le pene dell’inferno: dobbiamo salvarli. Se l’Europa da qualche decennio è la culla dei diritti umani, gli europei devono dimostrare che è vero e trasformare lo sconcerto personale e i principi astratti in azioni umanitarie concrete. Nessuno di noi, da solo, può ragionevolmente farsi carico del “dolore complessivo del mondo”, ma le nostre istituzioni collettive (non solo UE e Stati, anche organizzazioni non governative e terzo settore in genere) possono fare molto per il pronto soccorso dei bambini in fuga. Loro sono la priorità assoluta, senza se e senza ma, mentre parallelamente va avanti il duro, articolato e difficile impegno per cercare di fronteggiare le cause, a monte, di questa tragedia epocale che sta cambiando la storia di tre continenti. 146
12 Settembre 2015 Il nostro Paese vive una fase di smarrimento senza eguali dal dopoguerra. Pur dotato di energie, intelligenze, capacità, creatività concorrenziali rispetto agli altri Paesi, è guidato da leader attenti al giorno per giorno, troppo spesso privi di una visione complessiva dei problemi e lungimirante nel cercare le soluzioni. Leader – politici e non solo – per i quali la comunicazione vale più del merito. Il risultato è che il sistema italiano oscilla paurosamente: è stata scavata una voragine sotto la possibilità di creare vere e credibili possibilità di alternanza al potere. Il risultato è che la democrazia italiana è zoppa perché priva delle condizioni per determinare maggioranze alternative in una sana e corretta competizione all’interno di regole condivise e funzionanti. Giorno dopo giorno si è imposto una sorta di pensiero unico che sfocia nelle velleità di costituire un cosiddetto Partito della Nazione imperniato sulla figura dell’attuale premier. Matteo Renzi, presidente del Consiglio e segretario del Pd, governa l’Italia da oltre un anno e mezzo. È arrivato a Palazzo Chigi in seguito ad un regolamento di conti interno al Partito Democratico e alla maggioranza, all’insegna delle parole d’ordine del ricambio generazionale e della rottamazione della vecchia nomenklatura del partito e della politica. Sfide che hanno attratto una parte importante di consensi moderati, come mai 147
era successo a un leader di sinistra. Dal giuramento al Quirinale del 22 febbraio 2014, sono stati 18 mesi di fuochi d’artificio verbali, slides accattivanti, narrazione ipertrofica. I risultati concreti latitano, acuendo le difficoltà del Paese. Le riforme istituzionali ed elettorali, quelle del lavoro e della scuola non solo non hanno provocato quel balzo in avanti tanto necessario quanto insistentemente promesso: al contrario, hanno approfondito gli squilibri del sistema italiano. E il consenso, dapprima lentamente poi in modo sempre più evidente, ha iniziato ad erodersi. Italia Unica per prima, più di tutti e quasi sempre da sola, ha compreso i rischi che il Renzismo stava insinuando e i danni che avrebbe provocato. Avevamo ragione nel denunciare i limiti e i pericoli dell’azione di governo, come pure la sostanziale acquiescenza, se non dichiarata subordinazione, delle cosiddette forze di opposizione: non per questo possiamo dirci soddisfatti. Non siamo mai stati né mai saremo per il tanto peggio tanto meglio: siamo infatti nemici dichiarati della demagogia e del populismo. Ci sforziamo, piuttosto, di far riacquisire alla politica quella dimensione di confronto ideale, di progettualità, di capacità di andare oltre l’ordinario che decenni di battibecchi con l’occhio rivolto solo ai sondaggi o al consenso immediato le hanno sottratto. In sei mesi di vita Italia Unica, che si è costituita ufficialmente in partito il 31 gennaio scorso, è cresciuta in autorevolezza e consenso, perché ha proposto una alternativa ragionata e sul merito, non urlata o drogata dal populismo. Per questo possiamo affermare senza remore che abbiamo le carte in regola per costruire una nuova guida del Paese. Abbiamo stabilito di farlo partendo dal livello più vicino ai bisogni dei cittadini: dalle amministrazioni locali, dai comuni. Dopo aver contribuito al successo di decine e decine di amministratori alle ultime comunali, saremo ufficialmente presenti alle elezioni amministrative della prossima primavera che coinvolgeranno alcune delle principali città italiane e tanti altri centri del territorio. Il nostro non vuole limitarsi ad essere l’ennesimo tentativo, più o meno levigato, di rianimare la partecipazione politica. Ci muove la consapevolezza che l’asticella dei problemi del Paese ha superato il limite di guardia e non c’è più tempo da perdere. L’ambizione è di riunire sotto uno stesso tetto, e per percorrere il medesimo tratto di strada, alcune delle migliori energie italiane, fuori da preconcetti schemi ideologici o asfittici legami di appartenenze. Il tempo delle divisioni e del piccolo cabotaggio, dell’attenzione agli interessi particolari, della cura del proprio orticello di convenienze è definitivamente scaduto. Per tutti. Occorre uno sforzo che coniughi spirito di servizio e competenze, capacità e dedizione, talento e abnegazione. È necessario che attorno alle proposte vere, concrete, praticabili di soluzione dei tanti e annosi problemi che affliggono l’Italia si assiepino tutte le persone di buona volontà, che hanno a cuore il futuro delle generazioni che verranno, che sono convinte che il declino non è un sentiero ineluttabile. Tante, troppe volte ci siamo detti e soprattutto ci siamo sentiti dire: le vostre idee sono belle ma non si potranno mai realizzare. Non è vero. Si può cambiare, e in meglio. Molto 148
meglio. L’Italia e gli italiani possiedono le precondizioni: umane, sociali, economiche – sì anche economiche se gli sprechi vengono definitivamente debellati – per giocarsela al meglio nella globalizzazione in atto. Ci vuole la generosità di chi non si tira indietro e si spende in prima persona. Milioni e milioni di cittadini che ridanno alla politica la sua dimensione più vera e nobile. Non è un’utopia. Al contrario è un bisogno che sale dal profondo del corpo stesso del Paese. Corrado Passera ha deciso fin da giugno di candidarsi alla guida di Milano. Un gesto di generosità, lontano dai giochi tattici delle segreterie partitiche, che racchiude in sé anche una precisa valenza politica: testimoniare concretamente che l’Italia può essere modello in Europa, che una politica “alta” è possibile. Siamo convinti che ci siano le condizioni per costruire un largo consenso trasversale partendo da posizioni liberaldemocratiche, popolari e riformiste, offrendo agli italiani soluzioni ambiziose e concrete attraverso persone competenti, oneste e capaci di vero spirito di servizio.
Dopo il default evitato, tre anni di non risposte E’ bene ricordare che solo quattro anni fa, nell’agosto del 2011, l’Italia era ad un passo dal commissariamento e nessuno voleva più sottoscrivere i titoli di Stato. Come in Grecia oggi, si cominciava a intravedere il rischio di non avere i soldi per pagare stipendi pubblici e pensioni. Parallelamente e di conseguenza, l’incubo del default prendeva consistenza. L’attività di governo, sia di centrodestra che di centrosinistra, aveva portato nei precedenti 10-15 anni a una situazione disastrosa: basti pensare che in pochi anni erano aumentate di oltre 200 miliardi sia le tasse che la spesa pubblica corrente. Né furono sufficienti le tre “Finanziarie” a raffica del ministro Tremonti per riportare un minimo di fiducia nel nostro Paese. Il risultato paradossale fu che tali interventi pesantissimi furono poi messi in conto al governo successivo. La politica aveva fallito, e segnali di logoramento istituzionale ed insofferenza sociale avanzavano in maniera preoccupante. L’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, scelse la strada di un esecutivo di emergenza – di cui anche Corrado Passera fu chiamato a far parte – che in pochi mesi evitò l’intervento della troika, rimise in binario i conti pubblici, rese sostenibile il sistema pensionistico, fece alcune riforme importanti col voto praticamente unanime del Parlamento e con il pieno supporto di molte forze politiche che oggi ne criticano l’operato. Ma, bisogna riconoscerlo, quell’esecutivo ebbe anche un grave limite: dopo il salvataggio non riavviò la crescita dell’economia e dell’occupazione che mancava ormai da 15 anni. In parte ciò avvenne per mancanza di coraggio, in parte perché la politica vecchio stampo, una volta messi a posto i conti dell’emergenza, riportò il Paese in una situazione di stallo preelettorale. La parentesi del governo Letta, fragile esecutivo nato dal voto non convinto degli italiani, non cambiò senso di direzione: al contrario rese sempre più esplosiva la competizione 149
interna al Pd, scaricando sul Paese l’eterna lotta tra correnti e fazioni di quel partito. È su queste macerie interne, e su quelle ancora più vistose di Forza Italia e di Ncd-Udc, che è nato il governo di Matteo Renzi. Il consenso per il neo premier alle successive elezioni europee superò quota 40 per cento (anche se con meno voti di quelli raggiunti da Veltroni quando perse a vantaggio del Pdl), godendo del fatto che una quota consistente di cittadini si rivolse a lui non volendo cadere nelle braccia di Grillo o di Salvini, mentre l’astensione raggiunse percentuali da record. Su quel voto – alimentato dalla mancia elettorale degli 80 euro che sottrae 10 miliardi all’anno a ben più efficaci politiche di rilancio economico e sociale – l’ex sindaco di Firenze ha costruito la sua narrazione.
Sacrifici sprecati, occasioni perdute: la ricetta per il disastro Il governo Renzi sta sprecando i sacrifici degli italiani e una situazione macroeconomica vantaggiosissima che ci viene garantita dai giusti interventi di Draghi – che hanno portato i tassi di interesse ai minimi storici – e a una insperata svalutazione dell’Euro, oltre che a prezzi dell’energia bassi come non mai. Nonostante tutto questo, sta inanellando e insistendo in una serie di errori gravi dal punto di vista della politica di sviluppo. Del resto, quale sia la china sulla quale stiamo scivolando ce lo conferma trimestre dopo trimestre l’andamento del PIL, sia in assoluto che rispetto a quello dei Paesi dell’eurozona e i nostri concorrenti sui mercati internazionali. Che poi si cresca dello 0.2, 0.3 o 0.4 (peraltro corrispondente all’effetto dell’azione di Draghi, che sia benedetto!) non fa differenza: con questi livelli impalpabili di crescita non si rimette in moto seriamente l’occupazione. Ed è impressionante come questa triste realtà sia confermata dai dati dell’occupazione, malgrado le dosi massicce di doping che il governo sta malamente somministrando. Senza una discontinuità radicale nella politica economica, gli Italiani rischiano un futuro di povertà. Tra disoccupati, inoccupati, cassaintegrati e sottoccupati, siamo un Paese con dieci milioni di persone – erano la metà all’inizio della crisi – che non hanno un lavoro o ne hanno uno non sufficiente per consentire di viverci. Significa che quasi la metà delle famiglie vive una condizione di precarietà personale e sociale ed ha paura del futuro. Tutto ciò produce un mix di rabbia, depressione, voglia di lasciare l’Italia. Una miscela micidiale, in particolare per le giovani generazioni.
Il Renzismo e il Partito della Nazione: due risposte sbagliate Spiace vedere che il presidente del Consiglio/Segretario del Pd, invece di arginare la deriva populista l’ha di fatto esasperata, occupandosi di superficiali restyling negando i problemi invece di affrontarli e inducendo la gente a credergli. Dispiace dover parlare così del capo del governo, ma è tale il rischio che stiamo correndo che i mezzi giudizi e le timidezze diventano complicità. E siccome le politiche fin qui attuate peggioreranno la situazione sia economica che sociale, consideriamo dovere di Italia Unica denunciarlo 150
con chiarezza. Il Renzismo è una sindrome terminale della Prima e della Seconda Repubblica, una caricatura della politica liquida. Il Renzismo è figlio della politica politicante, angusta e strumentale, di chi non conosce né la geopolitica né l’impresa. Non a caso il premier da quando ha i calzoni corti non ha fatto altro che politica: potremmo dire che è il più “vecchio” di tutti i leader politici attuali. Ed è legittimo anche sostenere che Renzi si trova dov’è non solo per la bravura comunicativa e la mancanza di avversari credibili, ma anche grazie a due suicidi politici: quello di Forza Italia e quello della vecchia classe dirigente Pd, che non ha saputo rigenerarsi nelle troppe sconfitte. Renzi interpreta al meglio la visione che fa corrispondere la politica alla comunicazione in cui la narrativa prevale sul fare, e che quindi inevitabilmente conduce alla demagogia di brevissimo periodo. Anche se molti considerano oggi inevitabile questo modo di intendere la politica, noi continueremo a considerarla una pericolosa degenerazione per la democrazia. Per questo ora più che mai occorre parlare chiaro agli italiani. Fare cioè un’operazione verità vasta, continua ed approfondita che riguardi principalmente l’economia e la società. L’obiettivo di Italia Unica è rilanciare la nostra democrazia malata. Siamo e saremo oppositori durissimi a ogni populismo e quindi alternativi anche al Renzismo che sta facendo tanto male all’Italia. Il Renzismo è fatto di ossessione per il potere, vedi l’Italicum, e occupazione di tutte le posizioni che questo garantisce: Rai, Pubblica amministrazione, holding di Stato, partecipazioni statali e locali. È insomma la perpetuazione sotto mentite spoglie della vecchia politica, che odia il merito e avversa l’indipendenza della società civile; che manca di visione e difetta di coraggio, che interviene per proteggere e non per liberare. Tipico l’esempio della riforma della scuola: alla fine tutto si è ridotto all’assunzione praticamente ope legis di centomila precari, con migliaia di cattedre vacanti perché non sono stati inseriti i docenti con le competenze di cui effettivamente c’era bisogno e non sono stati sufficientemente motivati quelli che già oggi mandano avanti tra mille difficoltà la nostra scuola. Come prima cosa, è necessario sgretolare il pilastro principale su cui si regge questa narrazione. Cioè che per troppo tempo la politica non ha fatto le riforme necessarie e che quelle realizzate o ipotizzate da questo Governo siano finalmente quelle giuste per rimettere in sesto l’Italia e consentirle di correre alla stessa velocità dei partner europei. Fosse così! Purtroppo non lo è e abbiamo spiegato in più occasioni e nel merito perché si tratta di riforme in gran parte sbagliate. Quando non sono sbagliate sono del tutto insufficienti e spesso le riforme micro sono peggio di nessuna riforma perché danno la sensazione di aver affrontato i problemi rinviandoli, di fatto, sine die. Ma, come è nel nostro modo di concepire la politica, quando presentiamo una critica sempre proponiamo soluzioni alternative che consideriamo migliori. Lo abbiamo fatto fin dal 23 febbraio 2014, quando Passera ha presentato il progetto di Italia Unica e ogni giorno da allora, come testimonia il nostro sito.
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C’è chi accusa Italia Unica ed il suo leader di essere preconcettualmente contrari a Renzi, di fargli opposizione di tipo ideologico. Non è così: siamo liberali e consideriamo il rispetto dell’avversario un valore assoluto, da coltivare e difendere. Per cui non abbiamo difficoltà quando si tratta di riconoscere la bontà di talune iniziative legislative. Tuttavia rifiutiamo l’accusa di essere benaltristi, di voler vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto. Se un malato ha la broncopolmonite pretendere di curarlo con l’aspirina è semplicemente sbagliato e in taluni casi molto pericoloso. Da mesi insistiamo nel fornire un quadro oggettivo della situazione, dei rischi economici, politici e sociali, delle manchevolezze che restano, dei ritardi che azzoppano. Si stanno operando scelte profondamente sbagliate, che non modificano la situazione, non eliminano le zavorre, non incidono in profondità sulle storture di decenni. I fan del premier, variamente collocati, ri-collocati e disseminati, sostengono con fierezza di essere l’unico antidoto, politicamente parlando, alle orde “barbariche” e antisistema dei Cinquestelle e di Salvini. Che sono loro, le legioni del premier, a fare argine e a rappresentare il baluardo migliore contro la dissoluzione del sistema. Purtroppo è vero esattamente il contrario. Proprio l’azione sbagliata ed inefficace di governo, l’occupazione sistematica di ogni angolo e angolino di potere, l’annuncio roboante di riforme che non riformano e non risolvono, sono il terreno di coltura migliore e più produttivo per l’insofferenza, la delusione, la rabbia e il disorientamento dei cittadini. In altri termini, con la loro azione, Renzi ed il Renzismo spianano la strada alla demagogia ed ai populisti: altro che fare da barriera! La conferma più convincente arriva dalla disaffezione ormai endemica dei cittadini verso le urne. Proprio in questi ultimi 18 mesi – non a caso – nelle due tornate elettorali si sono raggiunti i minimi storici di partecipazione al voto. Un dato impressionante che invece di provocare insonnia nella classe dirigente viene accettata come un fenomeno intrinseco ai sistemi democratici. Per Italia Unica è esattamente l’opposto.
La sindrome del populismo soffoca l’Italia Una situazione del genere – sfiducia, disoccupazione, crescente impoverimento, dilapidazione di speranze e risorse – come ci insegna la storia è ideale per favorire il propagarsi dei populismi della peggior specie. E infatti oggi l’Italia è devastata da 4 populismi che si inseguono e cercano di superarsi a vicenda. I populismi sono un fenomeno ben conosciuto nella storia anche dell’ultimo secolo e prendono forme diverse combinando in varia misura le seguenti caratteristiche: I populisti cavalcano e fomentano il malcontento che la gente ha per le difficoltà e le delusioni accumulate. Usano la paura come arma di penetrazione di massa. • Ai populisti non interessa risolvere i problemi, a loro basta denunciarli, illudendo che ci siano soluzioni facili e indolori: a loro non interessa andare a comprendere le radici profonde dei problemi o le soluzioni strutturali perché per loro esiste solo l’effetto 152
immediato da raggiungere nei sondaggi. • Politica e comunicazione per i populisti tendono a coincidere e quindi se le politiche non funzionano, invece di cambiare politica cambiano narrazione. Considerano i cittadini dei superficiali che ragionano solo con la pancia e quindi bisognosi di dosi sempre più massicce di demagogia e di slogan autoconsolatori. Chi cerca di entrare nel merito dei contenuti, viene subito tacciato di gufismo. • I populisti cercano sempre un nemico esterno sul quale concentrare le colpe per ridurre le proprie responsabilità (molti degli attuali leader sono esponenti di partiti che hanno governato per decenni creando i problemi che ora denunciano istericamente): un tempo i colpevoli di tutto erano i “terroni” ora gli immigrati; un tempo era “Roma ladrona” ora Bruxelles o Francoforte. • I leader populisti non vogliono intralci nei loro rapporti con i singoli cittadini o i singoli operatori economici: ma quali rappresentanze! Ma quali sindacati! Tutta roba vecchia per loro. Lanciano slogan in tv o su Twitter, non accettano nessun vero confronto, vivono di sondaggi e di annunci. E se un annuncio non funziona o si dimostra una fregatura per la gente, lo si copre con un annuncio ancora più roboante. Qualcuno si vanta addirittura di essere populista scambiando populista per popolare. I quattro attuali padroni della politica sono tutti a loro modo populisti con dosi e aggravanti di vario genere: due leader antisistema e antieuropei (Grillo e Salvini); un leader che dovrebbe essere di alternativa governativa (Berlusconi) ma che sta invece disperdendo un capitale politico immenso e continua a vacillare tra improbabili velleità di rivincita e smottamenti di consenso verso Renzi ed il Renzismo, per non parlare della deriva pro-Salvini che porterebbe i moderati fuori dal contesto del Partito Popolare Europeo. Esemplare di come populismo e demagogia, fondendosi, provochino distorsioni e guasti drammatici è la questione dell’immigrazione e di come viene affrontata nel dibattito politico interno. Dopo averla colpevolmente e sciaguratamente trascurata, magari immaginando che qualcuno la potesse risolvere al posto nostro, ora la tragedia di centinaia di migliaia di persone, tra cui moltissimi bambini, che fuggono da un destino di morte per magari finire affogati o asfissiati nei barconi degli scafisti, viene usata per raccattare qualche consenso in più o in meno vellicando le coscienze o gli egoismi, a seconda dei casi. Così mentre in Germania la Merkel mostra leadership concreta e di stampo continentale decidendo di affrontare e gestire il fenomeno con l’occhio rivolto anche agli interessi nazionali attraverso la “scelta” di chi accogliere, dalle nostre parti volano insulti (“verme”, “animale”, e via dicendo), emergono fenomeni di corruzione agghiaccianti e la macchina amministrativo-burocratica dell’accoglienza, con buona pace del ministro Alfano, mostra lacune e crepe non degne di un Paese civile. Quella che si sta delineando tra Berlino e Roma è la linea di demarcazione che passa tra statisti e politicanti.
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Dalla propaganda alla trasparenza Il bilancio dei primi 18 mesi di governo di Matteo Renzi è al tempo stesso deludente e preoccupante: molte delle riforme non sono sufficienti perché – come già detto – se si dà un’aspirina a chi necessita di un antibiotico non si può poi sostenere che è un passo nella direzione della guarigione. Altre sono del tutto sbagliate come quella della scuola, di fatto ridotta ad una gigantesca operazione di sapore assistenzialistico. Altre ancora invece risultano addirittura pericolose, come l’Italicum, legge iperpresidenzialista senza eguali al mondo. La realtà è che abbiamo perso quasi due anni su priorità sbagliate. Invece di affrontare l’emergenza occupazionale, il Governo ha costretto il Parlamento ad occuparsi di brutte riforme istituzionali. Alzando la bandiera del “la sera delle elezioni bisogna sapere chi comanda” si è dato all’Italia una legge elettorale che – in abbinata con la riforma del Senato – consegna un potere enorme e privo di quei bilanciamenti – che tutte le democrazie prevedono – nelle mani di una persona sola. Un premio in seggi smisurato senza stabilire maggioranze veramente qualificate per gli organi di garanzia e con l’impossibilità per i cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Sul Senato, all’insegna del “superiamo il bicameralismo perfetto” si è fatto un gran pasticcio, con un meccanismo disegnato su misura per gli interessi del Pd. Per non parlare della “non” eliminazione delle Province. Abbiamo denunciato per primi la pericolosa devianza democratica dell’Italicum, siamo scesi in piazza, abbiamo spiegato come il combinato disposto della nuova legge elettorale – peggiore perfino del Porcellum – con la riforma antifederalista del Senato messo in mano a consiglieri regionali in trasferta pagata, rovinerebbe il Paese. Fino ad ora gli interessi di pochi hanno prevalso, ma la battaglia non è affatto conclusa! Una politica economica dilettantesca ed autolesionistica fa sì che l’Italia non cresca malgrado grandi sacrifici e condizioni macroeconomiche molto favorevoli e probabilmente irripetibili. La formula esiziale che sta consumando il Paese è facile da sintetizzare: nessun freno (bensì aumento!) alla spesa pubblica corrente e zero spending review strutturale; tasse altissime e in crescita; investimenti bassi e in diminuzione. La pratica degli incentivi a pioggia (dopo gli 80€ è stata la volta degli sconti previdenziali del Jobs Act) non risolvono i problemi e impegnano risorse allo stato non disponibili. Il risultato di questi interventi è palese: bassissima crescita, debito pubblico alle stelle, che azzoppano in particolare le nuove generazioni che Renzi dice di voler rappresentare ipotecandone, in realtà, il domani. L’attesissima riforma della scuola è stata tutta concentrata su 100.000 assunzioni ope legis senza tener conto delle effettive esigenze in termini di competenze e togliendo risorse che potevano essere destinate agli insegnanti meritevoli. Nessun passo rilevante per portare la scuola italiana nel XXI secolo (materie, metodi di insegnamento, 154
disegno dei cicli); passi impercettibili verso la vera autonomia e nessun vero passo verso il riconoscimento del ruolo pubblico delle scuole paritarie. Riforma del mercato del lavoro in nessun modo legata alle esigenze del XXI secolo: una visione novecentesca dell’impiego, nessuna attenzione alle nuove professioni e alla crescente “autonomizzazione del lavoro”, incentivi a pioggia non legati a effettiva nuova occupazione né ad aumento della produttività che creeranno un buco potenzialmente enorme nei conti pubblici o un innalzamento dei contributi sociali; illusoria sensazione di stabilizzazione per la stragrande maggioranza degli assunti e mercato del lavoro ancora più dualistico a favore di chi godeva di “vecchi” diritti e posizioni di rendita; nessuna attenzione alle nuove professioni. Riforma del Terzo Settore e dell’Impresa Sociale rinunciataria e illusoria: basta considerare che non sono previsti fondi. Una grande occasione sprecata per allargare il campo d’azione dell’impresa sociale, per darle gli strumenti di rafforzamento patrimoniale, per mettere ordine nelle forme giuridiche e nella regolamentazione fiscale. Riforma della RAI che non risolve nessun problema né aggiorna il senso del servizio pubblico. Governance rinnovata secondo le famigerate regole della Gasparri nonostante un esplicito impegno in senso contrario del premier, e nessuna iniziativa di effettiva modernizzazione dell’azienda. Ci si limita a riproporre il vetusto schema della lottizzazione in barba ai tanto sventolati propositi di rinnovamento; nessun riferimento alla necessaria ristrutturazione, al necessario rilancio editoriale, al necessario piano di investimenti. Riforma fiscale incompleta, che non tocca i temi della modernizzazione della giustizia tributaria, senza la quale è illusorio immaginare un ritorno degli investimenti nel nostro Paese e che limita la possibilità di accedere all’adempimento collaborativo ad una manciata di mega facoltosi con un giro d’affari superiore a dieci miliardi di Euro. Riforma della Pubblica Amministrazione dispersa in un’elencazione infinita di deleghe priva di un filo conduttore e senza alcuna certezza sulle modalità e le tempistiche con cui le deleghe si trasformeranno in interventi di modernizzazione della burocrazia. Migranti, corruzione, Mezzogiorno, salvaguardia ambientale rimandati sine die: temi scottanti sui quali il capo del governo preferisce non sporcarsi le mani perché comporterebbero coraggio e misure impopolari. Con il risultato che quelle stesse questioni peggiorano e marciscono, avvitando sempre più l’Italia sul perno delle proprie insufficienze. Privatizzazioni dilettantesche, e addirittura controproducenti come quella delle Poste. Un vero controsenso quella dell’ENAV. In compenso della dismissione o chiusura delle 10.000 partecipate pubbliche soprattutto locali, nemmeno l’ombra! Ruolo dell’Italia nella politica europea e internazionale sostanzialmente nullo. Il semestre di presidenza UE era un’occasione irripetibile. È stata gettata alle ortiche 155
invece di rappresentare l’opportunità per costruire grandi alleanze su un macro-piano di investimenti per lo sviluppo e una vera politica comune per l’immigrazione. Di internazionale questi ultimi 18 mesi si portano dietro il crescente numero di gruppi italiani che emigrano fiscalmente e operativamente e di imprese italiane che gettano la spugna e si fanno acquisire da gruppi internazionali. La lista delle imprese in vendita o potenzialmente in vendita è lunghissima e non si contano le famiglie imprenditoriali che hanno da tempo i loro figli e i loro interessi prevalenti fuori d’Italia. Restiamo in attesa di una Legge di Stabilità che, dopo le precedenti due fortemente deludenti, chiarisca punti importanti per evitare di mantenere l’Italia in questa situazione di non crescita e di rimettere i conti pubblici a grave rischio: cresceranno finalmente gli investimenti pubblici? Smetterà di salire il già insostenibile carico fiscale? In particolare: le clausole di salvaguardia scatteranno creando nuove tasse? • come si copriranno i promessi tagli fiscali? Con altre tasse come si fece per gli 80€ ? • come si copriranno gli incentivi del Jobs Act in questo e nei prossimi anni: pagherà lo Stato o pagheranno le imprese con aumento dei contributi sociali? • come si copriranno le nuove pensioni anticipate delle quali si parla da mesi? Si taglieranno altre pensioni e si manterrà l’attuale incertezza che logora soprattutto il ceto medio ? • ci sarà o no una effettiva spending review oppure l’aumento della spesa continuerà ad essere scaricata su Comuni e Regioni e dunque sulla riduzione dei servizi ai cittadini? • si proseguirà a tagliare gli investimenti per far quadrare i conti distruggendo così il nostro futuro ? Non si tratta di domande provocatorie o irridenti. Sono quesiti fondamentali per capire se la barra del Governo è salda o affidata a mani inesperte se non addirittura incapaci. Purtroppo a molte di queste domande temiamo di non avere risposta, come avvenne quando Renzi promise il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione in pochi mesi, scommettendo di andare a piedi a un Santuario. Il pellegrinaggio lo hanno fatto i creditori, finora, per evitare il fallimento in attesa di ricevere i soldi dovuti.
L’opposizione che non c’è, l’opinione pubblica narcotizzata La “classe intellettuale” – in gran parte – dopo essersi innamorata di tutte le mode, si è innamorata di Renzi e stenta ad ammettere che tale innamoramento era basato su 156
criteri che nessuno di noi applicherebbe alla scelta né del medico o dell’avvocato o dell’architetto di fiducia, né dell’insegnante dei propri figli, né del manager a cui affidare la propria impresa: è giovane! è nuovo! ha grande vitalità! comunica bene! ha cacciato i vecchi capi del Pd! E comunque la litania è sempre la stessa: gli Italiani ragionano e votano solo con la pancia e quindi la politica deve essere di pancia, e Renzi sa parlare alla pancia. Gli Italiani fortunatamente sono meglio e la dinamica innamoramento-delusione è stata ancora più veloce di quella di tutti i Premier precedenti anche se la capacità di propaganda di questo Governo non ha veramente pari nella storia recente del nostro Paese ed è sicuramente facilitata da precisi accordi con alcuni grandi gruppi economici. Ma la maggiore responsabilità sta in quelle forze politiche che si sono rivolte all’elettorato assicurando di voler svolgere il compito di opposizione che le urne avevano loro assegnato. Forza Italia si è disgregata in mille centri di potere locali e fazioni in lotta tra loro, mentre Berlusconi coltiva improbabili e ingannevoli disegni di rivincita. La Lega, sotto impulso di Matteo Salvini, ha scelto una deriva sempre più estremistica, lepenista, che mai e poi mai può appartenere ad un Paese di antica e radicata tradizione moderata come il nostro. Grillo ha operato per anni come forza antisistema senza portare a casa alcun risultato di rilievo e anzi scontando la delusione di molti suoi militanti. Ora cerca di cambiare registro e implementare una classe dirigente imposta dall’alto. Ma un partito e i suoi leader non si improvvisano, sono qualcosa di molto diverso dallo sfogatoio nullista ed anarcoide della Rete. Il punto più significativo dello scenario italiano rimane sempre lo stesso: chi rappresenta, chi dà voce a quei milioni di italiani che non sono renziani, hanno capito il bluff dell’ex sindaco di Firenze, sono profondamente delusi dalle promesse irrealizzate di Berlusconi e non accettano di essere ammassati e salire sulle ruspe salviniane? Si tratta di una fetta enorme di elettori, potenzialmente maggioritaria. Sono innanzi tutto coloro che credono ancora nel nostro Paese e lo mandano avanti ogni giorno nell’impresa, nelle professioni, nella Pubblica Amministrazione, nell’economia sociale. E poi, i tartassati ceti medi ormai finiti dentro la soglia di povertà, i professionisti depauperati di clienti, ma aggrediti da un fisco vorace, gli insegnanti sfiancati dal sabba delle riforme della scuola una accatastata sull’altra e tutte ugualmente ed inesorabilmente inefficaci, i lavoratori specializzati che non sanno più dove riversare le loro competenze e guardano gli orari dei treni e degli aerei per capire quando partire per l’estero, il popolo gonfiato e ormai informe delle partite Iva, gli anziani lasciati soli senza assistenza, l’esercito di ragazzi che chiudono a chiave la porta delle loro stanze perché fuori per loro non c’è lavoro né futuro: l’elenco è lunghissimo. Questa massa tanto consistente di italiani, vera spina dorsale del Paese, oggi non trova sbocco politico alle sue necessità. E se per gli uomini la situazione è difficile, per le donne è addirittura drammatica perché nulla questo governo realmente ha fatto per agevolare il loro ruolo nella società tutelandone la centralità nel sistema familiare.
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Dopo aver perso su tutta la linea alle consultazioni europee, politiche e regionali, i partiti che rappresentano il grande mondo moderato rischiano ora di commettere l’errore finale e confluire da una parte nel Partito della Nazione e dall’altra confondersi nell’estremismo lepeniste di Salvini (ve lo immaginate Sarkozy che si mette nelle mani della Le Pen?).
Italia Unica, il partito che “risolve” Come è noto, Italia Unica si è trasformata da associazione in partito il 31 gennaio 2015. Perché un partito quando ce ne sono così tanti e gli italiani mostrano scarsissima fiducia verso di loro? Semplice. Perché ci riconosciamo nella Costituzione che proprio nei partiti individua i collettori del consenso popolare. Ma una scelta così impegnativa si fonda anche su solide basi politiche e sociali. Il dato da cui siamo partiti è che il 97% degli italiani manifesta una sfiducia profonda nelle attuali forze politiche. Il risultato più clamoroso e inquietante di questo stato di cose sta nel fatto che oltre la metà degli elettori diserta le urne e non si reca a votare. Il che impatta in modo negativo sulla legittimità e rappresentatività dei partiti nel loro complesso. È dunque più che mai necessario, anzi indispensabile, contribuire a delineare un’offerta politica tale per cui gli italiani si sentano di nuovo rappresentati e invogliati alla partecipazione e al voto. Italia Unica nasce con questo obiettivo e questa ambizione. Vogliamo dare voce anche a quella parte di società che oggi non si sente rappresentata e dunque si rifugia nell’astensione oppure defluisce sotto il tetto di Renzi per non finire preda delle spinte demagogiche e populiste di Grillo da un lato e Salvini dall’altro. Un pezzo di società “silenziato” che non è un bene per nessuno. Ma Italia Unica è soprattutto il partito della proposta, di chi è pronto a sfidarsi sulle soluzioni per superare i mali del Paese. Abbiamo messo a punto un programma robusto e credibile, che il libro di Passera “Io Siamo” condensa e approfondisce. Abbiamo idee molto chiare Cosa servirebbe all’Italia dal punto di vista economico e sociale? • Un fortissimo stimolo all’economia con una operazione da 400 miliardi (mediante spending review e valorizzazione barra cessione del patrimonio pubblico non storicoartistico né strategico) comprensiva del dimezzamento dell’Ires, del pagamento • finalmente – di tutti i debiti scaduti della PA, di 200 miliardi di garanzie di credito a PMI e famiglie, di un forte credito di imposta per investimenti in ricerca, innovazione e internazionalizzazione. • Una scossa concreta e strutturale all’occupazione: gli incentivi del Job Act – oggi sparsi a pioggia – andrebbero concentrati sui nuovi contratti di apprendistato (liberandoli dalla formazione regionale) e di produttività, offrendo alle imprese la possibilità di pagare un salario di produttività fino a due mensilità nette. Al contempo, il cuneo contributivo previdenziale delle Partite Iva va ridotto di almeno un terzo per venire incontro al popolo 158
dei nuovi lavoratori autonomi. • Interventi veri a favore della famiglia e delle donne in particolare: ad esempio i fondi attualmente destinati agli € 80 andrebbero concentrati sulle famiglie con figli sotto un certo reddito (è nostra la proposta dirompente di un bonus di 5000€ annui per ogni bambino fino a 5 anni di età), asili nido scuole materne ed elementari a tempo pieno per tutti, assistenza certa agli anziani, ecc. • Riforme profonde a favore del Terzo Settore, della Scuola e dell’Università, della Giustizia. Cosa servirebbe all’Italia dal punto di vista istituzionale? • Una formidabile semplificazione dei livelli istituzionali: il Comune e un solo altro livello amministrativo intermedio tra Comune e Stato (secondo i casi: aree metropolitane, grandi province storiche, piccole regioni). • Una vera ed efficace riforma della pubblica amministrazione che premi merito e competenza e cambi le regole del gioco oggi vessatorie dando certezze ai cittadini e alle imprese ( da autorizzazioni ex ante a controlli ex post, accertamenti fiscali che devono diventare esecutivi solo dopo la condanna, inversione dell’onere della prova, ecc.) • Un’efficace lotta alla corruzione attraverso interventi decisi per ridurre drasticamente il numero delle partecipate pubbliche, delle stazioni appaltanti e dei centri di acquisto ; per correggere le storture degli appalti pubblici; per premiare chi collabora con la Giustizia; per rendere trasparenti i conti pubblici sia al centro che in periferia. • Una legge elettorale maggioritaria e democratica (doppio turno di coalizione, collegi uninominali) e un effettivo monocameralismo salvaguardando il ruolo della conferenza Stato-Regioni. Agli italiani, ne siamo convinti, non servirebbe il Partito della Nazione, architettato per il mantenimento e la gestione del potere. Agli italiani non servirebbero ammassi politici tra “forzati” e del tutto eterogenei come quelli che l’Italicum porterebbe a creare per puri fini di vittoria elettorale ma conseguente incapacità di governare. Non sono certo né Grillo né Salvini la soluzione. Al contrario sono nient’altro che manifestazioni del disagio, non certo ingiustificato, di una larga parte dell’opinione pubblica. Questi, appena elencati in estrema sintesi, sono solo alcuni dei pilastri su cui basiamo il nostro Programma che resta sempre aperto, consultabile e da arricchire entrando nel merito di ogni singola soluzione (dalle politiche europee ed internazionali a quelle culturali ed educative, dal turismo al welfare, dall’infanzia all’immigrazione, dalla sicurezza alla giustizia fino ai diritti civili, dalla salute all’ambiente e all’energia). Perché un partito vuole proporre intende farlo sempre al meglio.
Costruire l’alternativa Alla democrazia italiana serve un vero, moderno bipolarismo. Bipolarismo significa la possibilità di scegliere tra due praticabili alternative di Governo. Oggi non è così. Ciò che manca è un moderno raggruppamento liberal-popolare che si contenda il consenso con un moderno raggruppamento socialdemocratico. Tali definizioni tendono a perdere parte del loro significato ideologico ma fanno riferimento a valori 159
che, checché se ne dica sono ancora distinguenti e identificano modi diversi di intendere la vita, il bene comune, le dinamiche economiche, le reazioni sociali e civili. Senza voler costruire un pantheon di personaggi ai quali pure ci ispiriamo, non possiamo continuare a considerare la politica solo uno slogan: ci sono tradizioni, valori, principi che non possono essere considerati un optional. E intorno ai quali possiamo ritrovarci in molti, in moltissimi. Per questo è stata fondata Italia Unica: perché anche in Italia si crei la moderna forza politica che oggi non c’è. Abbiamo fatto veramente tanto in pochissimi mesi e ne siamo orgogliosi. Senza un euro di finanziamento pubblico abbiamo organizzato un viaggio in cento città per presentare e arricchire il programma, confrontandoci con i cittadini, le associazioni, il tessuto sociale di ogni comunità. Da questa esaltante avventura ha preso forma “Io siamo”, il libro di Corrado che racchiude non solo il programma di rilancio del Paese, ma il manifesto e i valori dell’impegno di un gruppo di uomini e donne determinati a ridare orgoglio e speranza alla nostra straordinaria Italia. In migliaia e migliaia ci hanno dato fiducia, creando le Porte, che è il nostro modo di intendere l’ingresso in politica, attraverso l’impegno sui territori. Oggi sono 160, attive in ogni regione e entro fine anno ogni provincia avrà la sua realtà di Italia Unica. La nascita del partito a Roma è stato un momento di intensa emozione. Oltre tremila persone sono convenute a Roma il 31 gennaio per dire sì a un partito nuovo, non ad un nuovo partito. Un partito con un codice etico stringente, regole di accesso rigorose e una rete territoriale che conta e non è orpello per la burocrazia interna. E’ questa rete che, in giugno, ha eletto i propri coordinatori provinciali: nessuna imposizione dall’alto, un’autonomia che ben spiega il processo e il progetto democratico di Italia Unica. Insomma, in pochi mesi e con le nostre risorse e la nostra energia abbiamo fatto ciò che gli altri partiti hanno costruito – si fa per dire – in molti anni, utilizzando denaro pubblico e una concezione della politica non di servizio ma di gestione. Siamo contenti di quanto abbiamo fatto, ma non ci basta. Per questo è partita la nostra scuola di formazione, per questo stiamo costruendo una rete di dirigenti e amministratori locali che possa confrontarsi e crescere per numero e competenza, per questo la nostra rete diventerà modello di condivisione e proposta. Non sono promesse, sono passi concreti, come tutte le fasi che hanno accompagnato ad oggi la giovane vita di Italia Unica, rispettati senza un ritardo. Sappiamo tutti che sarà un lavoro lungo: tutti i partiti maggiori oggi presenti hanno impiegato lustri se non decenni ad emergere a livello nazionale: noi ci stiamo mettendo molto meno tempo. Sappiamo tutti che sarà un lavoro difficile, ma pensiamo di avere le caratteristiche per farcela perché puntiamo a risvegliare la voglia degli italiani di interessarsi alla politica rigettando ogni forma di demagogia e di populismo e puntando invece all’offerta di soluzioni concrete per debellare i mali del Paese e ridare fiducia e speranza a chi l’ha persa. L’obbiettivo di riferimento per Italia Unica erano e rimangono le elezioni politiche del 2018 (o prima se la situazione dovesse precipitare). 160
Le elezioni amministrative del 2016 saranno un acceleratore formidabile per il nostro progetto politico a partire dalla candidatura a sindaco di Corrado Passera, perché Milano può costituire il punto di svolta nel Paese. La decisione di Corrado Passera di candidarsi a sindaco di Milano, infatti, vuole dimostrare ai cittadini che Italia Unica è pronta a misurarsi con il consenso dei cittadini, credendo profondamente nel proprio leader e nel suo programma. Quella di Milano è una sfida fondamentale per dimostrare a tutti – ma in particolare a chi nutre scetticismo e delusione verso la politica – che l’alternativa è vera e possibile, che le nostre idee non sono tanto belle quanto irrealizzabili bensì al contrario sono opportunità concrete e solide, verificabili e misurabili, frutto di merito e dell’unione di competenze, da cogliere e impiantare nel vivo della realtà italiana.
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15 Settembre 2015
di Corrado Passera
Senato, lettera di Passera ai senatori: una riforma così non serve On.li Senatori, Italia Unica fin dal primo momento, e troppo spesso da sola, ha messo in guardia dai pericoli che Italicum e Riforma del Senato dall’altro, avrebbero portato all’edificio istituzionale italiano. Siamo arrivati addirittura ad imbavagliarci davanti Montecitorio per sensibilizzare al massimo Parlamento e opinione pubblica sui quei pericoli. Ora siamo ad un passaggio cruciale e molti si rendono conto della fondatezza delle nostre preoccupazioni. Il combinato disposto di riforma elettorale e meccanismo elettivo di secondo grado dei Senatori consegna un potere abnorme ad una sola forza politica e, di fatto, ad un solo leader, senza stabilire gli indispensabili contrappesi – tra cui quello fondamentale di consentire ai cittadini di sceglierei i loro rappresentanti in Parlamento – che fanno del sistema democratico il meccanismo migliore per impedire abusi e rischi di derive autoritarie. È indispensabile che le regole del gioco vengano scritte con un consenso il più largo possibile, mentre oggi il tema delle riforme appare, volenti o nolenti, soprattutto un modo per risolvere i rapporti di forza interni ad un solo partito. Né può valere il discorso che siamo ormai troppo avanti e tornare indietro equivarrebbe a bloccare il processo di revisione elettorale e costituzionale. La durata della legislatura dà ancora il tempo per elaborare ed approvare una legislazione migliore di quella oggi all’esame del Senato.
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Nessuno più di me è consapevole che all’Italia servono riforme coraggiose e innovative per rimetterla al passo con i Paesi più avanzati. Ma cattive riforme (e in questo caso addirittura pericolose!) sono il contrario di quel che è utile al Paese ed ai cittadini. Senza dimenticare che nella loro saggezza i padri costituenti stabilirono un iter molto articolato per i cambiamenti della Carta proprio perché riflessione e ponderazione prevalessero su possibili colpi di mano o eccessi di frettolosità. Non è troppo tardi per cambiare direzione: anzi, questo è il momento giusto: sull’architettura istituzionale servono interventi condivisi e di largo respiro, non accordicchi di potere. Sulla carta ci sono ancora due letture, a Palazzo Madama e a Montecitorio, per mettere riparo almeno alle più vistose incongruenze. A patto che modifiche così delicate siano strappate alle beghe e agli equilibri interni di maggioranza e opposizioni. È per questo che Le chiedo un supplemento di riflessione per riaprire la discussione su questo tema così importante e delicato. Anche perché se sciaguratamente dovesse arrivare il via libera, chi si è assunto quella responsabilità dovrà motivarla di fonte ai cittadini al momento del voto sul referendum confermativo. È già successo che importanti forze politiche o segmenti di esse si siano espresse in un modo in prima lettura e si accingono a cambiare atteggiamento adesso. Non è questa una ragione già sufficiente per chiedere un supplemento di cautela? Siamo al punto di non ritorno. Io e Italia Unica restiamo disponibili a qualunque confronto ed in qualunque sede, anche perché portatori di proposte alternative perfettamente applicabili: nessuno può perciò accusarci di voler creare deleteri vulnus istituzionali. Si può dare all’Italia una riforma elettorale e del Senato in grado di esprimere chiare maggioranze, di restituire ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti, di superare il bicameralismo riducendo anche drasticamente i costi del sistema. Non lasciamo arrivare al traguardo una riforma che sarebbe tra le peggiori di tutti i paesi democratici! Rimango a disposizione per qualsiasi approfondimento e la saluto molto cordialmente.
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20 Settembre 2015
di Massimo Brambilla
Def, Renzi e il suo doppio. La propaganda vince sulla realtà Lo ha ammesso anche il premier: esistono un Renzi 1 ed un Renzi 2. Non un fenomeno di sdoppiamento della personalità non infrequente negli uomini di potere ma uno sdoppiamento di comunicazione che consiste nella coesistenza del Renzi delle parole e del Renzi dei numeri. Il Renzi delle parole è quello che quotidianamente dispensa una narrativa di un’Italia che cresce grazie alle prodigiose riforme del suo Governo arrivando addirittura nel gruppo di testa di chi cresce di più in Europa, in cui si è in procinto di assistere alla più grande riduzione di tasse della storia dell’umanità finanziato da un’ancora più ambiziosa azione di taglio degli sprechi nascosti nella spesa pubblica. Un’Italia in cui gli investimenti pubblici riprendono, in cui ridurre il debito è un dovere verso le prossime generazioni, in cui la spesa pubblica viene tagliata e le partecipazioni dello Stato e degli enti locali privatizzate. Il Renzi che ripara gli errori della legge Fornero, che se ci fosse stato lui non sarebbe mai stata votata, ma purtroppo era impegnato a riparare le buche nelle strade di Firenze e che comunque bisogna ritornare ai pre-pensionamenti, perchè le nonne è giusto che curino i bambini.
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Poi arriva la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza e spunta il Renzi dei numeri. E si scopre una realtà un po’ diversa da quella che Renzi dispensa dai palchi o nelle interviste fatte da cronisti così compiacenti da fare sembrare la TV di stato Nord Coreana un esempio di giornalismo di inchiesta. Una realtà che smentisce tutte le promesse di Renzi 1. Una realtà in cui la pressione fiscale cresce – sulla base delle leggi vigenti – dal 43,7% previsto nel 2015 al 44,2% nel 2016 e al 44,3% nel 2017 (al netto delle fantasiose riclassificazioni degli 80 Euro che smentiscono le direttive UE in materia di bilanci pubblici), che, a volere fare i gufi, risulta in crescita pure rispetto alle percentuali del DEF di Aprile (43,5%, 44,1% e 44,1%) il che, a rigore di logica, vuole dire che nel frattempo la legislazione si è modificata nella direzione dall’aumento del carico fiscale. Ma non preoccupatevi, ci spiega Renzi 1, che si intrufola anche nella nota di aggiornamento del DEF, che a livello programmatico (cioè quello etereo delle promesse) la pressione fiscale calerà nel 2016 non in ragione del calo della spesa corrente al netto degli interessi promesso dal Governo (che anzi prevede di aumentare in rapporto al PIL come provato dal confronto tra la previsione tendenziale 2016 del 41,9% del DEF di Aprile con quella del 42% della Nota di Aggiornamento mentre ogni riduzione rispetto agli anni precedenti è dovuta, come da ammissione del Governo, all’azione dei precedenti esecutivi) ma perchè l’Europa ci consentirà di aumentare il deficit rispetto al previsto perché l’economia va male. Basta vedere il confronto a pagina 2 della Nota di Aggiornamento tra debito a fine 2016 nello scenario programmatico (quello che comporterebbe un calo della pressione fiscale) e quello tendenziale (in cui le tasse aumentano). Ecco spuntare un 1,1% di maggior debito in rapporto al PIL vale a dire 18 miliardi di buco aggiuntivo nelle casse dello Stato che prima o poi qualcuno dovrà pagare (leggasi le nuove generazioni così in cima ai pensieri di Renzi 1). Un buco che nel DEF di Aprile ammontava allo 0,5% in meno in rapporto al PIL. Anche qui a rigor di logica c’è una sola spiegazione: Renzi 2 ha rinunciato a tagliare le spese ma finanzia le promesse di taglio delle tasse con nuovo deficit. A proposito della concessione dell’Europa a causa del poco entusiasmante andamento dell’economia una domanda sorge spontanea: Renzi 1 non magnificava l’aumento delle previsioni di crescita del PIL per il 2015 dal 0,7% allo 0,9% (non per merito del Governo ma di Draghi e emiri)? Peccato che Renzi 2 ci spieghi a pagina 21 della Nota di Aggiornamento che “tuttavia le previsioni di crescita contenute nel DEF erano estremamente prudenziali e non incorporavano pienamente gli stimoli alla crescita provenienti da un tasso di cambio e da una domanda estera particolarmente favorevoli”. Lo dicevamo pure noi qualche mese fa (http://www.italiaunica.it/istat-giano-bifronte/) che il Governo giocava al ribasso non incorporando nelle previsioni l’impatto del QE di Draghi e quello del basso costo del petrolio ed ora il Governo candidamente lo confessa. E che dire del 2016, dove il Governo aumenta le previsioni di crescita dall’1,3% all’1,6% (andando in controtendenza rispetto all’OCSE che solo un settimana fa le ha diminuite all’1,3% dall’1,5% di Giugno peraltro confermando la posizione di retroguardia del nostro Paese in Europa, anche qui smentendo Renzi e le sue pretese di maglia rosa)? Sarà forse l’effetto delle fantasmagoriche riforme di Renzi 1? Non illudetevi, Renzi 2 a pagina 24 della Nota di Aggiornamento fa coming out: l’azione di Governo pesa solo per lo 0,1% mentre il 165
restante 0,2% è dovuto all’auspicata disattivazione della clausole di salvaguardia che il Governo delega alla famosa benevolenza della Commissione UE in termini di deviazione dal sentiero verso l’Obiettivo di Medio Termine. Per quanto riguarda la grande campagna di privatizzazioni si scopre poi che porterà introiti pari a solo lo 0,4% del PIL nel 2014 e lo 0,5% del 2015. Come dire, volere impedire l’affondamento del Titanic con un secchiello. Che dire degli investimenti pubblici, che sono l’unica componente che dovrebbe crescere molto, ma così non è? Un aumento dal 2,2% del PIL nel 2014, al 2,3% nel 2015, 2017 e 2018, per ritornare al 2,2% a partire dal 2019. Il tutto a fronte di un calo del 9% nel primo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014. La chicca finale è riservata alla Legge Fornero, che Renzi 1 mai avrebbe votato e Renzi 2 a pagina 51 della Nota di Aggiornamento elogia con queste parole “Le nuove regole introdotte dalla riforma adottata con la L. n.214/2011 hanno modificato in modo significativo il sistema pensionistico migliorandone la sostenibilità nel medio-lungo periodo e garantendo una maggiore equità tra le generazioni.”. Quindi Renzi 2 plaude alla Legge Fornero: ma allora perchè continuare a prendere in giro gli Italiani promettendo il ritorno ai pre-pensionamenti? Siete confusi con tutto questo Renzi 1 e Renzi 2? Pure noi, oltre che preoccupati. L’amara sintesi della Nota di Aggiornamento è che la grande innovazione della politica economica di Renzi si riduce in una ricetta vecchia come il mondo: fare nuovo deficit per finanziare le promesse, con l’auspicata benedizione della Commissione UE. Il tutto a scapito della chiarezza. Non si possono prendere in giro gli Italiani: si dica chiaramente che o aumenta la pressione fiscale o aumentano deficit e debito e che non ci possiamo permettere i prepensionamenti e si smetta di creare una gran confusione tra promesse e numeri che non può non avere un impatto sulla fiducia di famiglie, investitori ed imprese. Il punto è che nulla inibisce la fiducia più della confusione. Non lo diciamo noi, ma il ministro Padoan nella premessa della Nota di Aggiornamento “La fiducia è una componente decisiva delle prospettive di crescita e le istituzioni hanno il dovere di sostenere al meglio gli sforzi dei protagonisti della vita economica del paese: le famiglie e le imprese italiane.”
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3 Ottobre 2015
di Fabrizio Luciolli
Siria, la UE in ordine sparso. L’Italia non sprechi le sue chances Malgrado la stretta di mano tra Barack Obama e Vladimir Putin al termine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la strada per il ritorno di Stati Uniti e Russia dal confronto alla cooperazione resta in salita e disseminata di potenziali motivi di tensione. Dall’Ucraina passando per l’Europa, la conflittualità che attraversa le relazioni tra Mosca e Washington sembra ora guadagnare la superficie anche nel Mediterraneo, dove la crisi in Siria si trova a un punto di svolta. Nell’attuale scenario di sicurezza l’Italia potrebbe e dovrebbe, assumere un ruolo primario nella composizione diplomatica dei diversi interessi in campo, facendo leva sulle buone relazioni tanto con gli Stati Uniti che con la Federazione Russa e sulla particolare attenzione e sensibilità nei confronti dei problemi e delle dinamiche del Mediterraneo e del Medio Oriente. L’Italia dovrebbe, pertanto, svolgere un ruolo più incisivo nel promuovere quella “transizione politica” auspicata dal Ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, a margine del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, “a conclusione della quale Bashar al-Assad dovrà uscire 167
di scena”, ricercando un punto di compromesso di medio periodo attorno al quale tutti gli attori coinvolti, a livello regionale e internazionale, possano coalizzarsi per far fronte al nemico comune del terrorismo e, più in particolare, all’ISIS. Un’operazione di mediazione si rende quanto mai necessaria alla luce delle criticità emergenti dal compromesso raggiunto fra Mosca e Washington, che non trova fondamento su di una visione strategica condivisa, bensì sul timore che l’ISIS destabilizzi i paesi limitrofi – soprattutto Libano e Giordania – forte del controllo che esercita su di un’ampia regione fra Siria ed Iraq e della sua crescente capacità di reclutamento di militanti a livello globale. Il disaccordo tra Stati Uniti e Federazione Russa appare evidente soprattutto con riferimento ai tempi della transizione. Mentre Putin difende una soluzione di lungo periodo, Obama mira a una transizione più rapida che tenga conto anche dell’opposizione di alcuni partner europei forti, quali la Francia, che si oppone a qualsiasi accordo con il regime di Bashar al-Assad. L’andamento del tavolo negoziale e del conflitto sul terreno sono, peraltro, interdipendenti. Pertanto, all’accettazione del protrarsi dell’era Assad dovrà corrispondere un effettivo coordinamento in ambito militare e di sicurezza da parte russa. L’avvio di una transizione politica rischia, difatti, di essere compromesso dai recenti sviluppi militari della crisi. I primi bombardamenti compiuti da Mosca non sono apparsi essere diretti contro l’ISIS, ma piuttosto contro altri gruppi di ribelli prossimi ad al-Qaida, che per gli Stati Uniti non sono attualmente considerati una priorità. Se Russia e Stati Uniti non riusciranno a combattere la stessa battaglia sul campo, allora verrà meno anche la disponibilità accennata dalla Turchia e la possibilità d’indurre gradualmente l’Arabia Saudita a stringere un’intesa, allontanando così qualsiasi prospettiva di mettere fine ad un conflitto che perdura da oltre quattro anni, che ha causato più di 200.000 vittime e di cui l’emergenza rifugiati che ha travolto l’Europa ne costituisce una piccola appendice. Il coinvolgimento diretto della Federazione Russa ha indubbiamente contribuito al superamento di una fase di stallo e a far ripartire il processo politico, compensando la sterilità mostrata sinora dall’impegno statunitense ed europeo in Siria e Iraq e oltre, come testimoniato dal radicamento dell’ISIS in Libia. Le intenzioni di Mosca vanno però effettivamente verificate sul campo. Se le azioni della Federazione Russa non risulteranno finalizzate a promuovere una reale transizione – come Putin e il suo Ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, hanno inteso assicurare – i termini del confronto con Washington e gli europei diverranno più evidenti anche nel Mediterraneo. In tal caso sarebbe auspicabile che l’Unione Europea, attraverso l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini, fosse in grado di esprimere una posizione coesa e credibile, evitando l’insorgere di instabilità e minacce alla sicurezza nel Mediterraneo tali da richiedere successivamente l’intervento della NATO. 168
Nell’attuale situazione di crisi, tuttavia, l’irrilevanza dell’Europa è da considerarsi un dato consolidato. Tra i cosiddetti EU-3 non vige, difatti, alcuna unità di vedute sul futuro di Assad. Contrariamente a Gran Bretagna e Germania, che hanno abbracciato la linea di compromesso statunitense, la Francia mantiene un approccio intransigente e insiste nel richiedere le sue immediate dimissioni. Parigi, inoltre, non ha mancato di marcare la sua presenza sui cieli siriani con raid aerei contro un campo di addestramento dell’ISIS, riaffermando le sue ambizioni di leadership. Malgrado il recente vertice trilaterale nella capitale francese, a cui l’Alto Rappresentante dell’UE Federica Mogherini, è stata invitata a partecipare, la trojka continua a procedere sulla Siria in ordine sparso, mancando quel minimo di coesione necessaria affinché l’UE possa esprimere una linea comune. Sullo sfondo di una simile inconsistenza, specchio della grave crisi esistenziale europea, all’Italia si offre oggi la straordinaria opportunità di tornare a ricoprire una posizione di centralità nel Mediterraneo, attraverso la realizzazione di una grande iniziativa diplomatica sulla Siria che consenta il raggiungimento di una soluzione politica per la stabilizzazione del paese, seguendo le indicazioni già scaturite nella prima conferenza di pace sulla Siria tenutasi a Ginevra nel giugno 2012. In tale prospettiva, facendo leva sulle relazioni privilegiate con Stati Uniti e Federazione Russa, l’Italia è chiamata a incoraggiare il consolidamento dell’intesa raggiunta sulla Siria, affinché possa evolversi in un’autentica cooperazione capace di dar vita a politiche e strategie di pace e stabilità condivise che dalla Siria si estendano anche alle altre aree di crisi del Mediterraneo e del Medio Oriente, favorendo una distensione in grado di pervadere anche il Caucaso e l’Ucraina.
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13 Ottobre 2015
di Massimo Brambilla
Legge di Stabilità: i trucchi del governo, le necessità del Paese Il circo torna in città. L’ultima volta che è passato era un anno fa e ha tentato di stupirci con gli effetti speciali degli illusionisti. Diciotto (18!) miliardi di tasse in meno. Una spending review da 15 miliardi. Quasi 4 miliardi in più dalla lotta all’evasione. Vagonate di denari dalle cessione delle frequenze della banda larga. E poi le mazzate sulle partite IVA e sui risparmi, travestiti da tagli di tasse. E una gran lenzuolata sui crediti dei Comuni per rendere più sostenibili i tagli dei trasferimenti da Roma. Peccato che i trucchi non fossero un granché. I primi ad accorgersene furono quelli di Bruxelles. Non erano passati pochi giorni dopo lo show del mago Matteo che dai Paesi Bassi perveniva una recensione negativa sullo spettacolo di arte varia messo in scena a Palazzo Chigi. I trucchi dello spettacolo circense non erano piaciuti all’impresario europeo ed era necessario modificarli. Non si è fatta attendere la risposta dell’apprendista stregone Pier Carlo: non vi piacciono i nostri trucchi? Eccone altri: facciamo un pochino più di deficit (300 milioni), diminuiamo la quota di co-finanziamento dei fondi dell’Unione 170
Europea (500 milioni a cui corrisponde un danno più che doppio in termini di risorse disponibili per gli investimenti del Paese) ed estendiamo il reverse charge sulla grande distribuzione (730 milioni, anche questi qualche mese dopo respinti al mittente da Bruxelles in quanto in ovvia violazione degli accordi a livello UE). Peccato che anche gli altri trucchi fossero, appunto, solo trucchi. Nonostante il mitico taglio di tasse di 18 miliardi di Euro, la pressione fiscale è rimasta invariata (41,1% era alla fine del secondo trimestre 2014 e 41,1% è un anno dopo), i 4 miliardi in più rispetto al 2014 derivanti dalla lotta all’evasione sono diventati 150 milioni. I ritorni dalla cessione delle frequenze della banda larga sono stati il 23% in meno rispetto al preventivato (462 milioni vs 600 milioni). Per quanto riguarda la spending review, siamo al non pervenuto. Anzi la spesa corrente al netto degli interessi è cresciuta dell’1,1% nei primi sei mesi del 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014. Se poi si guarda agli effetti sulla crescita, è lecito alzare più di un sopracciglio. Certo è vero che il Pil è tornato a segnare un segno positivo. Peccato che meno di noi in Europa cresca solo la Finlandia, la cui economia va a braccetto con quella russa che ha ben altri problemi. Lo stesso per quello che riguarda la creazione di nuovi posti di lavoro, dove il resto dell’Europa cresce dello 0,9% (che non autorizza comunque fuochi d’artificio) e noi dello 0,3%. In poche parole, abbiamo saputo trarre vantaggio meno degli altri paesi europei delle favorevoli condizioni create dal Quantitative Easing della Banca Centrale Europea e dal calo del prezzo del petrolio. Se poi si pensa alla cosiddetta stabilizzazione dei contratti di lavoro, gli ultimi dati ISTAT che riportano una forte crescita di quelli a tempo determinato, sono la migliore certificazione di un oneroso (per le casse dello Stato) fallimento. È una magra consolazione che la mazzata sulle partite IVA sia stata rimandata (giusto per aggiungere incertezza a un mondo che – appunto – di incertezza sta morendo) mentre invece l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (attenzione che il diavolo si nasconde nei dettagli, stiamo parlando della tassazione sui fondi pensione e della rivalutazione del TFR, ergo dei risparmi dei lavoratori dipendenti) abbia confermato il suo aumento. Poi per quanto riguarda il tentativo di estorsione sull’anticipo del TFR in busta paga, gli italiani non sono caduti in trappola. Un capitolo a parte merita la lenzuolata sul bilancio degli enti locali. Un comma malandrino (il 509 per la precisione) consente l’accantonamento per i crediti non esigibili in misura compresa tra i 36% ed il 55% rispetto a quanto imposto per legge. Leggasi la legalizzazione del falso in bilancio degli enti locali per coprire il calo dei trasferimenti da Roma. Della serie nascondo la polvere sotto il tappeto fino a che qualcuno non se ne accorge. Tanto poi il conto dell’impresa di pulizie lo pagano gli ignari italiani. Il circo torna in città. Entro giovedì il Governo è tenuto a presentare alla Camere la legge di Stabilità. Non è una legge qualsiasi ma quella che determina come vengono spesi i soldi dello Stato. Che, parafrasando la signora Thatcher, sono i soldi non di un’entità astratta e metafisica ma quelli di tutti gli italiani. È pertanto lecito attendersi che invece 171
dei trucchi degli illusionisti ci sia serietà e, soprattutto, focalizzazione su come recuperare il gap di produttività della nostra economia rispetto a quelle dei nostri partner europei. Che poi è la vera determinante dei motivi sottostanti all’incapacità della nostra economia di creare occupazione nel corso dei cicli economici positivi e della maggiore sensibilità a quelli negativi. Per abitudine non commentiamo le indiscrezioni (anche se quello che leggiamo non ci piace) ma potete essere certi che continueremo a svolgere il nostro ruolo di gufi criticoni se le proposte del Governo non saranno in linea con quello che serve al Paese. Non perché ci piace essere i pierini della situazione ma perché ci piacerebbe che, nonostante quanto scriveva Flaiano, quando la situazione nel Paese è grave, il Governo dia mostra di serietà.
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17 Ottobre 2015
di Massimo Brambilla
Legge di Stabilità, il respiro corto fatto di più debiti e tasse
La Legge di Stabilità dovrebbe essere l’atto principe dell’azione del potere esecutivo e di quello legislativo. In fondo dispone delle (per definizione scarse) risorse dello Stato per raggiungere gli obiettivi di crescita economica e sociale del Paese. Tutto questo in ragione del fatto che, parafrasando la Signora Thatcher, lo Stato in quanto tale non possiede nulla e le sue risorse sono quelle dei suoi cittadini che, in rapporto alla loro capacità contributiva, funzione dei redditi ricavati dal lavoro o dai frutti dell’ingegno, contribuiscono al bene comune. In questo consiste l’alchimia su cui si basa la res publica, ovvero la saggia amministrazione di un complesso di beni che sono originati da una moltitudine di privazioni individuali in favore del bene comune. Sarebbe lecito aspettarsi serietà da una Legge di Stabilità. Da parte dell’Esecutivo che la prepara, ispirandosi alla propria visione del futuro del Paese ed all’ideale della massimizzazione dell’utilità collettiva (che poi è una sommatoria di felicità individuali) nel rispetto delle prerogative di ogni componente della collettività. E da parte del Parlamento che la discute e modifica, rappresentando, anche conflittualmente quando necessario, gli 173
interessi delle varie componenti del Paese, al fine di produrre, al termine di un processo democratico figlio della dialettica politica, un provvedimento legislativo armonioso, in cui risorse ed impegni si compendino realizzando la proporzione tra i diversi interessi di chi contribuisce con il proprio lavoro e le proprie risorse al benessere collettivo. Fin qui la teoria. La pratica di questa repubblica, che non abbiamo capito se sia seconda, terza o un’appendice della prima ma che di certo non è res publica, è purtroppo molto diversa. A partire dall’esecutivo che trasforma la presentazione delle proprie proposte di allocazione della risorse della collettività in una televendita in cui l’unica utilità che viene massimizzata è quella dei soggetti che ne fanno parte alla spasmodica ricerca di un consenso di breve termine fine a se stesso, riducendo l’attività di governo in una campagna elettorale permanente e senza fine. Pensiamo alla mitica evocazione della clausole di flessibilità. La flessibilità non è un fuoco donato da un benevolente Prometeo, ma semplicemente debito aggiuntivo. Poco conta che ce la conceda o meno l’Europa, che non è un’entità astratta ma un ideale politico di cui noi Italiani siamo fondatori non solo in ragione dei trattati che abbiamo firmato (non da questo o da quel Governo, ma da noi Italiani che dai Governi da noi eletti dovremmo essere rappresentati) ma del contributo della nostra storia alla costruzione dell’identità europea. Sempre di debito si tratta. Debito che qualcuno prima o poi dovrà pagare. Può essere la generazione dopo la nostra (i figli che noi Italiani facciamo sempre di meno perchè in fondo siamo i primi ad avere paura del futuro) o forse noi stessi tra un anno, quando la Cina, la Russia, la Federal Reserve o gli alieni determineranno un nuovo rallentamento dell’economia ed ormai la clausola di flessibilità ce la saremo giocata e non ce ne sarà un’altra. Oddio, c’è debito e debito. Le famiglie si indebitano per comprarsi una casa o per fare studiare i figli. Ci si indebita per il futuro, per porre le basi di un qualcosa che ha un’utilità di lungo termine. Peccato che questo governo crei debito per fare spesa corrente. Zero investimenti per il Sud, a parte 150 milioni per la Terra dei Fuochi (che nelle slide -di una politica fatta di grafica senza contenuti- vengono furbescamente presentati come 450 senza specificare che si fa riferimento al triennio). 150 milioni come uno schiaffo di fronte ai bisogni del Sud del nostro Paese, quel Sud che ha nutrito l’identità europea e che soffre la disillussione dell’ennesima promessa mancata, il masterplan che Renzi ha promesso ad Agosto di fronte ai dati del Censis. E zero investimenti sulla banda ultra larga e per le infrastrutture che frenano la competitività delle nostre imprese (a meno che non giunga in aiuto l’anemico Piano Juncker) . Quasi zero per l’edilizia popolare, dimenticando lo stato delle nostre periferie, in cui la privazione materiale alimenta il disagio ed uccide la speranza. Ed un altro zero per il potenziamento del credito d’imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo. Zero, zero, zero, lo stupefacente di una politica che vuole inebriare gli Italiani con la rappresentazione di un segno più che non esiste. Mentre gli frega il futuro. Intanto aumenta la spesa corrente. 50 miliardi in più tra il 2014 ed il 2019. E 100 miliardi in più di tasse. Lo dice il Governo a pagina 60 del Documento ANALISI E TENDENZE DELLA 174
FINANZA PUBBLICA dell’Aprile 2015. Come nel gioco delle tre carte si mostra all’inizio la carta vincente (il taglio delle tasse sulla prima casa e quello dell’IRES, se l’Europa ce lo concede e se no, colpa dei burocrati e noi ci abbiamo provato) ma poi si perde, non si sa come mai. Intanto nella Legge di Stabilità (o perlomeno in una delle bozze fatte trapelare come se fossero brioche per sfamare un popolo affamato) di certo a pagare sono Regioni e Comuni (art. 46-47), a cui viene richiesto un contributo alla finanza pubblica pari a 2,1 miliardi per il 2016 (che vanno a crescere negli anni successivi). Intanto si accumulano le incertezze. Sulle clausole di salvaguardia che non vengono cancellate ma prorogate al 2017 (art. 3), sulle tax expenditures che per il momento rimangono ma chissà fino a quando, su come colmare gli ammanchi contributivi generati dagli incentivi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato (oltretutto prorogati anche se con ammontari più ridotti) e sulle coperture per i provvedimenti della Corte dei Conti, dai contratti pubblici al blocco delle pensioni. E poi c’è il marketing. Il sostegno per le pensioni più basse aumentando la detrazione fiscale di 250 euro all’anno. “Grandi” cifre comunque soggette alla benevolenza europea. Oppure la lotta alla povertà. 700 milioni quando gli 80 Euro, la madre di ogni marchetta elettorale sono costati 9,5 miliardi. Oppure le idee che pure sarebbero buone se non fossero posti limiti quantitativi che le riducono a mera sperimentazione. Dai maxi ammortamenti (art. 8) che avranno un effetto finanziario per le imprese in gran parte prorogato al 2017, dato il divieto di tenerne conto in sede di determinazione dell’acconto 2015 e 2016 (che in tutta sostanza torna ad essere un maxi acconto), al regime fiscale dei premi di produttività (art. 14) alle misure in materia pensionistica e di invecchiamento attivo (art. 24). E cosa dire del pasticcio sul canone Rai in bolletta che sposta il presupposto contributivo dal possesso di un apparecchio all’allacciamento alla rete elettrica, aprendo il fronte ad una serie di ricorsi senza fine? Ed infine i grandi assenti, dalla spending review (ridotta del 50% rispetto ai proclami di sei mesi fa) alle modalità per la riduzione delle partecipate degli enti locali fino al pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione con il venire meno delle sanzioni per i dirigenti della PA responsabili dei ritardi nella certificazione del credito (art. 51) e al continuo occhieggiare ai fini di recupero di gettito nei confronti del gioco d’azzardo, senza misure per combatterne le patologie che ad esso sono connesse (art. 69). Ma non preoccupatevi. Per quanto deludenti possano essere le bozze di Legge di Stabilità prodotte dal Governo, il Parlamento riuscità nell’impresa di peggiorarle. Questo perchè l’unica opposizione che si intravede nei palazzi romani è quella agli interessi degli Italiani. Il percorso di una Legge di Stabilità è una maratona che inizia a metà Ottobre e termina a Natale. Il nostro impegno sarà quello di monitorare ogni singolo articolo, ogni relazione tecnica ed illustrativa e la coerenza delle coperture ad ogni provvedimento. Per fare, anche se al di fuori delle aule parlamentari, quell’attività di opposizione che chi siede in Parlamento non sa o vuole fare e che è alla base di una democrazia sana e dello stato liberale. Perchè si passi dalla repubblica alla res publica.
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27 Ottobre 2015
di Massimo Brambilla
Le forbici impazzite del governo sulla digitalizzazione della PA La storia dell’economia è fatta da rivoluzioni industriali che si succedono una dopo l’altra, dall’introduzione della macchina a vapore, alla produzione di massa, alla automazione e digitalizzazione dei processi di produzione di beni e servizi. Rivoluzioni che prima o poi pervadono ogni componente del tessuto economico fino ad arrivare a toccare i processi della Pubblica Amministrazione. Per quanto riguarda l’Italia tutto vero, almeno fino a quando non abbiamo letto il Disegno di Legge Stabilità che, all’art. 29 riporta misure relative alla razionalizzazione dei processi di approvvigionamento di beni e servizi relativi all’information e communication technology delle pubbliche amministrazioni. Nulla da dire sulla modalità indentificata (l’accentramento degli acquisti presso i soggetti aggregatori, vale a dire il CONSIP e una centrale di acquisti per ciascuna regione), ma lascia sconcertati l’obiettivo di risparmi identificato dal Governo, pari al 50%. Il 50%??? Le famose slide di Cottarelli identificavano a pagina 7 un obiettivo di risparmio derivante dalla centralizzazione delle procedure di 176
acquisto in misura pari al 24%. Come è possibile che l’obiettivo di risparmio derivante dagli acquisti di materiale informatico sia superiore al doppio di quello delle altre categorie di spesa? Delle due l’una. O sul materiale informatico le pubbliche amministrazioni fanno una cresta di proporzioni epocali (ed allora ci si domanda come mai la Corte dei Conti non abbia sollevato il tema e come la magistratura non stia perseguendo i responsabili) oppure l’esecutivo vuole imporre un taglio al programma di digitalizzazione della PA . Taglio che sarebbe in aperta contraddizione non solo con le indicazioni della stessa Corte dei Conti, che ha più volte identificato nella digitalizzazione della Pubblica Ammnistrazione una leva fondamentale per conseguire obiettivi di risparmio per i Bilanci dello Stato, ma anche con lo stesso Cottarelli che, a pagina 25 delle sopra citate slide, identificava risparmi potenziali derivanti appunto dalla digitalizzazione in misura pari a 2,5 miliardi. E che dire dell’accorato appello della Ministra Madia che, nell’estate del 2014, denunciava con parole forti l’inaccettabile ritardo sulla digitalizzazione? Non sarà che il Governo, incapace di tagliare i veri sprechi della Pubblica Amministrazione, e alla ricerca di coperture di breve respiro per le proprie manovre elettoralistiche vada a colpire un comparto come quello dell’IT che, come nessun altro, è foriero di risparmi di spesa nel lungo termine? In attesa che qualche autorevole membro delle opposizioni in Parlamento sollevi il tema e che il Governo fornisca una risposta esauriente, il dubbio rimane.
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4 Novembre 2015
di Massimo Brambilla
Legge Stabilità, uno scrigno di sorprese amare. Anche per l’IVA. Il tempo fugge e il Governo continua a rimandare il mantenimento delle promesse. Anche quelle fatte al popolo delle Partite IVA, che continua ad essere figlio di un dio minore. Sembra ieri quando Renzi si cospargeva, tardivamente, il capo di cenere per le disposizioni contenute nella Legge di Stabilità 2015, che elevavano l’aliquota dell’imposta sostitutiva IRPEF per il cosiddetto “regime dei minimi” dal 5% al 15%. Un provvedimento che è andato a colpire pesantemente la platea dei lavoratori autonomi e dei professionisti e che, a fronte di un’ondata di proteste, ha dato avvio ad una serie di scaricabarile all’interno dell’Esecutivo con annesse promesse di correre ai ripari nella prima occasione disponibile. È passato meno di un anno dal mea culpa del premier e il regime fiscale dei professionisti e delle imprese di piccole dimensioni è, con la Legge di Stabilità 2016, oggetto di nuovi correttivi. Correttivi solo apparentemente favorevoli alla platea delle Partite IVA, con il ritorno all’aliquota del 5%, soglie più elevate per accedere alla tassazione forfettaria 178
nonchè una serie di misure di tutela raggruppate sotto la definizione di Jobs Act degli Autonomi, contenute in un collegato alla legge di Stabilità. Si può pertanto concludere che tutto è bene quello che finisce bene? Pare di no. In primo luogo gli incerti tempi di approvazione del collegato rischiano di consegnare le tutele a favore dei lavoratori autonomi ad un futuro indeterminato. Ancora più sorprendente è quanto si scopre leggendo con attenzione la Relazione Tecnica alla Legge di Stabilità secondo la quale le agevolazioni fiscali, tanto magnificate dal Governo, incominciano ad avere effetto solo a partire dal 2017 (si veda l’immagine seguente che riporta il passaggio delle Relazione Tecnica relativo all’articolo relativo ai provvedimenti fiscali dei professionisti).
Per contro nel 2016 la Legge di Stabilità drena ulteriori 282 milioni di Euro dalle già martoriate partite IVA in ragione della reintroduzione dei minimi contributivi (seppur con una riduzione pari al 35% rispetto alla precedente normativa). In poche parole, il Governo promette ai lavoratori autonomi futuri ed eventuali benefici fiscali a fronte di un immediato sacrificio in termini di contributi previdenziali. La famosa prima occasione disponibile per riparare i danni della prima Legge di Stabilità del Governo 179
Renzi si è tradotta nell’ennesima occasione per fare delle Partite IVA un Bancomat con cui coprire gli esborsi derivati da altri provvedimenti. Esborsi che più opportunamente avrebbero potuto trovare copertura con un rigoroso sforzo di spending review. Il Governo si comporta nei confronti dei professionisti come un dottore che aspetta a prescrivere i farmaci necessari a curare una grave malattia correndo il rischio che il peggioramento delle condizioni del paziente determino il decesso dello stesso prima dell’avvio della cura. I lavoratori autonomi, che spesso sono tali loro malgrado, non hanno bisogno di tardivi mea culpa ma di provvedimenti seri ed immediatamente efficaci. Provvedimenti dovuti sia per ragioni di equità fiscale che di memoria storica nei confronti delle continue penalizzazioni di cui i professionisti sono stati oggetto in questi anni. Il mantra governativo recita Italia con il segno più? Sì, ma con calma. Prima un po’ di segno meno.Autonomi, contenute in un collegato alla legge di Stabilità. Si può pertanto concludere che tutto è bene quello che finisce bene? Pare di no. In primo luogo gli incerti tempi di approvazione del collegato rischiano di consegnare le tutele a favore dei lavoratori autonomi ad un futuro indeterminato. Ancora più sorprendente è quanto si scopre leggendo con attenzione la Relazione Tecnica alla Legge di Stabilità secondo la quale le agevolazioni fiscali, tanto magnificate dal Governo, incominciano ad avere effetto solo a partire dal 2017 (si veda l’immagine seguente che riporta il passaggio delle Relazione Tecnica relativo all’articolo relativo ai provvedimenti fiscali dei professionisti).
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7 Novembre 2015
di Massimo Brambilla
L’Italia riparte, ma nella propaganda renziana. La Ue dice il contrario È proprio vero: il diavolo si sta nasconde nei dettagli. Un detto antico che ha trovato l’ennesima conferma nelle “European Economic Forecast – Autumn 2015”, pubblicate dalla Commissione Europea il 5 Novembre 2015. Un freddo documento redatto da quegli euroburocrati così disprezzati nei proclami di Matteo Renzi ma che, nonostante i suoi deprecabili autori, ha saputo suscitare esultanze che non sfigurerebbero in una curva di uno stadio nel corso di un derby. Dal sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze, un tempo austero ed istituzionale ed oggi piegato alla propaganda al pari del suo massimo rappresentante, ai tweet ed alle dichiarazioni pubbliche della claque parlamentare ex dalemiana oppure ex bersaniana oppure ex centrista, oppure addirittura ex berlusconiana ed ora renziana, la 181
cui incompetenza in materia di economia è spesso pari unicamente alla propensione al trasformismo, è stata tutta un’esultanza a suon di hashtag per cifre, che a loro dire, confermano che nell’anno due dell’era renziana l’Italia, finalmente, riparte. Al di là del fatto che il documento della Commissione, a distanza di solo un mese e mezzo dalla Nota di Aggiornamento al DEF, peggiora tutte le stime contenute nel quadro programmatico del Governo, dal tasso di crescita del PIL (+1,6% sia nel 2016 che nel 2017 nella Nota del Governo vs +1,5% e +1,4% in quello della Commissione), a quello di disoccupazione (rispettivamente 11,9% e 11,3% vs 11,8% e 11,6%) al rapporto debito/PIL (131,4% e 127,9% vs 132,2% e 130,0%), il punto che, forse per incompetenza, forse per tifo, forse per opportunità politica, il MEF e la corte renziana fingono di non vedere è relativo ai dati che dimostrano l’incapacità della politica economica del Governo di incidere sui punti di debolezza della nostra economia. Partiamo dalla storica incapacità del nostro Paese di crescere nelle fasi espansive in rapporto agli altri Paesi dell’Eurozona. Al di là degli entusiasmi del Governo, secondo la Tavola 1 del Documento della Commissione (pag. 1) l’Italia è prevista crescere meno della media dell’Eurozona sia nel 2015, che nel 2016 e nel 2017. Nel 2015 peggio di noi fanno solo la Finlandia (per ovvie motivazioni legate alla dipendenza dall’economia Russa), Austria e Grecia, nel 2016 Belgio, Grecia, Finlandia, Francia e Cipro e nel 2017 solo la Finlandia. In termini di tasso di disoccupazione, peggio di noi nel 2016 solo Grecia, Spagna, Cipro e Portogallo mentre nel 2017 il Portogallo è previsto superarci. Oppure la scarsa propensione nei confronti degli investimenti in infrastrutture strategiche. Secondo la Tavola 12 (pag. 159) gli investimenti pubblici sono previsti costanti nel 2015 e nel 2016 (2,2%) ed addirittura in calo nel 2017 (2,1%). Siamo costantemente sotto la media Ue (che in termini di macroeconomie e quella che investe meno, nonostante il Piano Juncker, che è un brodino che pretende di curare un malato terminale) e siamo tra i paesi che investono meno (con la Germania, e questo è il principale motivo di critica alla Cancelliera Merkel). O la scarsa produttività del nostro sistema manifatturiero e dei servizi. Secondo la Tavola 27 (pag. 167) l’andamento della produttività del lavoro è addirittura negativo nel 2015 (-0,2% vs 0,7% della media dell’Eurozona) e sempre sotto l’andamento medio dell’Eurozona nel 2016 e nel 2017. Ennesima triste conferma, la pervasività dello Stato nell’economia. Secondo la Tavola 34 (pag. 170) siamo sopra la media Ue come spesa pubblica in rapporto al Pil (50,8% vs 47,4%) così come (Tavola 35) lo siamo come entrate dello Stato (48,2% vs 44,9%). Oppure la propensione al risparmio. Secondo la Tavola 44 (Pag. 175): non siamo più un paese di risparmiatori. I risparmi privati in rapporto al Pil sono inferiori alla media Ue (18,2% vs 20,8%) ed il dato delle famiglie è calato dal 16,4% di fine anni 90 all’11% del 2015 (Tavola 45). O, infine, ma potremmo andare avanti, anche l’andamento dell’export (che dovrebbe essere un fiore all’occhiello) che, secondo la Tavola 47 (pag. 177) cresce in termini percentuali meno della media dell’Eurozona. Quindi stiamo approfittando meno dello scenario dei tassi di cambio rispetto ai nostri partner. In estrema sintesi il Documento della Commissione ci racconta una scomoda verità. Più di un anno e mezzo di proclami del Governo Renzi non hanno scalfito neppure in superficie i fattori su cui si basa il declino della nostra economia. Le proclamate, ma non 182
attuate, riforme del Governo non hanno accresciuto la competitività del nostro sistema economico e non hanno aumentato la propensione alla crescita dell’economia nel suo complesso. Lo Stato continua ad essere pervasivo senza però investire risorse nelle infrastrutture strategiche (altro che ponte sullo stretto) mentre le famiglie risparmiano sempre meno (anzi consumano i risparmi passati per fare fronte alle esigenze della quotidianità) e le nostre imprese esportatrici fanno sempre più fatica, nonostante le irripetibili condizioni esogene. Condizioni esogene, tasso di cambio con il dollaro, bassi tassi di interesse e basso costo del petrolio, che ii Governo non sta sfruttando mentre consuma per fare spesa corrente i margini di flessibilità che la Commissione UE concede in termini di maggiore deficit. Il tempo passa e le opportunità se ne vanno. Il diavolo sta nei dettagli. Ed i dettagli ci dicono che l’eredità che lascerà Renzi è un’Italia ancora meno pronta ad affrontare la prossima crisi economica globale, a prescindere di quando si verificherà. Mentre la claque esulta.
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14 Novembre 2015
di Corrado Passera
“Esprimo la mia più profonda solidarietà a tutta la comunità francese delle nostra città e al Console a Milano, Olivier Broche, ai quali mi stringo angosciato per quanto accaduto a Parigi”. Così Corrado Passera, candidato Sindaco di Milano, commenta l’attacco terroristico nella capitale francese e aggiunge: “dopo il vile agguato all’ebreo milanese, ora lo sgomento per questi terribili attacchi che colpiscono tutti noi. Dobbiamo rimanere uniti e agire con determinazione e fermezza contro tutti coloro che intendono minare l’esistenza stessa della nostra civiltà”.
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15 Novembre 2015
di Massimo Brambilla e Riccardo Puglisi
Oltre il G-20. La nuova sfida turca alla Ue Il meeting del G20, in corso in queste ore, ha all’ordine del giorno la crisi siriana e la questione dei rifugiati e dei profughi e si tiene ad Antalya, in Turchia, dove poche settimane fa, il 1° novembre, le lezioni anticipate hanno riportato il Presidente Recep Tayyip Erdoğan, ed il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), saldamente al comando. Tuttavia, la crescente instabilità interna e l’aggravarsi dei conflitti regionali, a cui Ankara è strettamente connessa, rende ineludibile da parte del nuovo governo del Primo Ministro Ahmet Davutoglu l’adozione di scelte politiche con rilevanti effetti tanto sul piano interno che in politica estera. Ma sebbene il 49,4% dei voti consenta Erdoğan di dare forza e continuità alla propria politica, non sarà sufficiente per realizzare la sua ambiziosa riforma costituzionale presidenzialista per cui si renderà necessario ricercare un accordo con altre forze politiche e, in particolare, con il Partito Democratico del Popolo del leader curdo, Selahattin Demirtas.
La questione curda Il difficile rapporto con i curdi, all’interno come all’esterno dei confini nazionali, è la questione centrale che il Presidente e il nuovo esecutivo turco dovranno affrontare. 185
Un’eventuale trattativa sulla riforma costituzionale acquista, pertanto, una rilevanza che travalica i confini nazionali per assumere una dimensione regionale. Essa, difatti, verrebbe a coinvolgere non solo il Partito dei Laoratori Curdi (PKK) in Turchia che in Iraq, ma anche il suo corrispettivo siriano, il Partito dell’Unità Democratica (PYD), entrambi considerati da Ankara organizzazioni terroristiche. Inoltre, tale questione viene a toccare direttamente gli interessi regionali di Stati Uniti e Russia, poiché i combattenti dell’Unità di Protezione Popolare (YPG), braccio armato del PYD, si sono rivelati gli alleati più efficaci degli Stati Uniti in chiave anti-ISIS e sono considerati potenziali partner dalla stessa Federazione Russa. Tuttavia, ad Ankara permane un atteggiamento ostile nei confronti dell’YPG: il timore è che un’eventuale saldatura delle due aree controllate dai combattenti curdi al confine meridionale con la Siria possa far nascere un’entità autonoma. Nei piani di Erdoğan e Davutoglu quest’area, attualmente controllata dall’Isis, una volta liberata, verrebbe destinata ad accogliere i rifugiati e posta sotto l’ombrello protettivo di una no-fly zone, impedendo di fatto la formazione di un’entità curda autonoma. Ma tale progetto non ha mai ottenuto l’avallo degli alleati della NATO, preoccupati che la presenza di truppe turche in Siria possa provocare uno scontro diretto con l’YPG o con l’esercito di Bashar al-Assad. Inoltre, l’intervento militare russo e l’incremento di forze di terra iraniane a sostegno di al-Assad hanno allontanato ulteriormente la prospettiva di una no-fly zone, sebbene Erdoğan ne abbia richiesto nuovamente l’attuazione in corrispondenza delle trattative con l’Unione Europea sull’emergenza migranti e rifugiati. Nel frattempo, Ankara ha ripreso i bombardamenti aerei contro le posizioni del PKK in Iraq, all’interno del territorio del Governo Regionale Curdo, mentre restano piuttosto sporadici gli attacchi alle posizioni del sedicente Stato Islamico in Siria.
Le relazioni con la Nato Al fine di riaffermare le credenziali di appartenenza alla NATO e riequilibrare scelte di politica nazionale, che non sempre sono apparse coerenti con le direttrici strategiche degli Alleati, il Primo ministro turco ha offerto la disponibilità a ospitare il vertice dei Capi di Stato e di Governo dell’Alleanza successivo a quello in programma a Varsavia nel prossimo luglio, e ad assumere nel 2021 la guida della Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), la forza avanzata d’intervento rapido della NATO. Tuttavia, in una prospettiva di approfondimento della cooperazione con la NATO e l’Unione Europea, la Turchia è chiamata a definire con chiarezza il proprio ruolo nello scenario internazionale e ad assumere maggiori responsabilità, in particolare nella regione mediterranea e mediorientale, dimostrando una reale apertura verso l’Occidente e i suoi valori di libertà, sicurezza e rispetto delle regole del diritto.
Il ruolo nel Mediterraneo e Medio Oriente In Siria, oltre a svolgere un ruolo costruttivo nelle dinamiche militari del conflitto, Ankara potrebbe e dovrebbe favorire il raggiungimento di un accordo per l’avvio della transizione politica che conduca al dopo-Assad, facendo leva sugli stretti legami con i principali 186
gruppi d’opposizione riuniti nel Consiglio Nazionale Siriano, di cui Erdoğan è stato sin dall’inizio il principale sostenitore. In Libia, Ankara è chiamata a favorire il processo di stabilizzazione che passa per l’accettazione da parte di Tripoli dell’accordo promosso dalle Nazioni Unite per la formazione di un governo di unità nazionale. I numeri scaturiti dalle elezioni conferiscono, inoltre, al governo turco la credibilità necessaria per ricercare la cooperazione e un nuovo partenariato strategico anche con l’Egitto del Presidente Abdel Fattah al-Sisi, così come di riprendere il filo del dialogo con Israele finalizzato al rilancio del processo di pace con i palestinesi.
Le relazioni con la Cina Peraltro, la prospettiva di una maggiore apertura della Porta d’Oriente verso una direttrice strategica euro-atlantica, impone alla Turchia di chiarire con gli Alleati la natura delle relazioni avviate con la Cina nel settore della difesa. In particolare, a dissipare i dubbi sollevati dalla gara per l’acquisto da parte turca di un sistema di difesa missilistica di fabbricazione cinese. Tale sistema non potrà ovviamente essere integrato nella struttura militare della NATO e appare in contraddizione con la solidarietà manifestata dalla stessa Alleanza atlantica che per ben tre volte ha risposto alle richieste formulate dal governo turco – sulla base dell’art. 4 del Trattato atlantico – di proteggere i confini del paese per mezzo del dispiegamento di batterie di missili Patriot. Inoltre, Ankara ha siglato un’intesa che fa della Turchia un Dialogue Partner della Shangai Cooperation Organization.
Le relazioni con l’Unione Europea Infine, è con l’Unione Europea che l’attuale crisi relativa alla gestione dei flussi di migranti e rifugiati siriani, offre alla Turchia una nuova opportunità per rilanciare e approfondire le relazioni di partenariato. In tale prospettiva, tuttavia, ad Ankara si richiede di compiere importanti riforme che assicurino una netta discontinuità nella gestione del potere giudiziario e dei rapporti con i media. Pilastro fondamentale della NATO dal 1952, anche in funzione della sua posizione strategica, la Turchia è chiamata ad affrontare rilevanti responsabilità e altrettante sfide, sia nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, che nei Balcani, nel Caucaso e in Asia Centrale. ebbene spetti ancora a Erdogan indicare la direzione della politica estera della Turchia e il suo livello di apertura verso l’Occidente, sarà compito dell’Unione Europea e della NATO saper favorire la cooperazione con Ankara e essere comunque pronti a saper gestire le scelte che compirà.
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18 Novembre 2015
di Massimo Brambilla e Riccardo Puglisi
Legge di Stabilità, per la UE il deficit è nudo Il rischio principale insito nella propaganda -per chi la fa- consiste nel dimenticarsi della realtà sottostante e credere alla propaganda stessa. Tuttavia, prima o poi la realtà delle cose riemerge squarciando il velo degli eufemismi e delle omissioni. Nel caso dei nostri conti pubblici, il pesante richiamo alla realtà prende la forma dell’opinione espressa dalla Commissione UE, secondo cui vengono avanzate parecchie riserve a proposito del Disegno di Legge di Stabilità per il 2016. Legge di Stabilità che viene di fatto rimandata a un successivo esame nella primavera del prossimo anno. L’impressione che abbiamo è che in questi frangenti il presidente del consiglio Renzi si sia esattamente comportato secondo questo pericoloso canovaccio, fingendo di credere alla sua stessa propaganda, generosamente amplificata dai mass media amici. Tutto iniziò con le famigerate slide di presentazione della Legge di Stabilità, in cui campeggiava una rassicurante “flessibilità UE” per 14,6 miliardi di euro, cioè quasi un punto di Pil. Chiamiamo le cose con il loro nome: “flessibilità UE” è un fastidioso eufemismo per nascondere il fatto che la seconda Legge di Stabilità renziana è in larghissima parte finanziata dal 188
deficit, cioè da un divario tra le spese totali e le entrate totali dello stato. Detto in altri termini: non è vero che l’Unione Europea graziosamente ci dona quasi 15 miliardi di euro, come ha fatto intendere il premier davanti alla stampa italiana. Semplicemente ci concede di deviare rispetto a un programma di riduzione della montagna del nostro debito pubblico qualora questa deviazione sia legata a riforme strutturali o investimenti in grado di influenzare positivamente sul tasso di crescita del PIL. Al contrario il governo Renzi ha deciso di rallentare decisamente il raggiungimento del pareggio di bilancio, in quanto la Legge di Stabilità 2016 prevede per l’appunto un deficit aggiuntivo pari allo 0.9% del Pil senza vere riforme strutturali ed ancora meno investimenti. Il punto cruciale è appunto questo, ed è il punto su cui si sofferma la Commissione UE nella sua opinione: la Legge di Stabilità è finanziata da deficit aggiuntivo, e la flessibilità richiesta dall’Italia a proposito di un avvicinamento più lento al pareggio di bilancio necessita di una verifica ulteriore, in quanto tale richiesta è basata sulle cosiddette clausole “degli investimenti” e “delle riforme strutturali” (qui i chiarimenti formulati dalla Commissione stessa), i due grandi assenti della politica economica del Governo Renzi. Sotto questo profilo la Commissione UE (punto 17 dell’opinione) si riserva di verificare se:
1.
il deficit aggiuntivo sarà utilizzato per aumentare gli investimenti pubblici;
2. l’implementazione delle riforme strutturali farà progressi; 3. vi saranno programmi credibili per riprendere la strada verso il pareggio di bilancio. Si tratta dunque di una serie di riserve sulla credibilità dei proclami della coppia RenziPadoan. Riserve particolarmente pesanti in quanto non fanno soltanto riferimento allo squilibrio complessivo tra uscite ed entrate, ma vanno a toccare altri temi strutturali (punto 16 dell’opinione) tra cui:
1.
la riforma di un catasto iniquo -fatto di valori alti nelle periferie delle città e comparativamente bassi in centro- è stata rimandata; lo stesso vale per la riforma delle agevolazioni fiscali (a cui lavorava Roberto Perotti, secondo commissario alla spending review sostanzialmente defenestrato da Renzi) e per la razionalizzazione delle tasse ambientali;
2. l’abolizione della tassazione sulla prima casa è in contrasto con il progetto a lungo termine di abbassare le imposte sui fattori produttivi (in primis: il lavoro) finanziando tale sgravio con l’aumento di tassazione su altre basi imponibili (tra cui le attività inquinanti)
3.
il processo di revisione della spesa pubblica (spending review) dovrebbe essere integrato con le procedure standard di formazione del bilancio pubblico: un modo diplomatico per suggerire che la spending review bisogna farla, oltre che annunciarla? 189
Da lungo tempo abbiamo fatto notare i pericoli esistenti in questa Legge di Stabilità da Prima Repubblica, solo in apparenza generosa grazie al deficit aggiuntivo ma che è in realtà completamente priva di una visione in termini di politica economica, andando a creare nuovo debito non per fare nuovi investimenti ma semplicemente per manifesta incapacità -o poca volontà- di andare a tagliare la spesa pubblica improduttiva che alimenta i peggiori vizi della politica del nostro Paese. Non ci stupisce il fatto che anche la Commissione UE condivida molte delle nostre perplessità. Mentre aspettiamo la versione finale della Legge di Stabilità votata dai due rami del Parlamento siamo parecchio curiosi di vedere in quanto tempo i mass media italiani racconteranno ai cittadini che il deficit è nudo.
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23 Novembre 2015
di Pietro Ferrara
Nessun bambino è un bambino qualunque. Lotta totale agli abusi sui minori Il maltrattamento nell’infanzia e nell’adolescenza rappresenta una delle principali emergenze del nostro tempo, sia dal punto di vista sanitario che sociale. In particolare, l’abuso sessuale ai danni di minori è la forma di maltrattamento che crea maggiori difficoltà interpretative al medico e che si ripete quasi sempre per mesi, per anni, tra le mura domestiche, tra silenzi e omertà. Secondo la definizione dell’OMS, per violenza sessuale sul minore si intende il coinvolgimento di un/una bambino/a in attività sessuali che non può pienamente comprendere e per le quali non è in grado di dare un consenso informato. Non si intende quindi solamente la costrizione di bambini/e ad impegnarsi in qualsiasi attività sessuale, ma anche lo sfruttamento dei fanciulli alla produzione di materiali o di spettacoli pornografici e tanto altro.
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La Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1989, recita in diversi dei suoi 54 articoli la necessità da parte degli Stati membri di adottare ogni misura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamenti o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale. Le Convenzioni sono però insufficienti se non supportate dall’impegno concreto dei Governi che, i recenti allarmanti dati dell’OMS, ci dicono non essere ancora abbastanza: è stato stimato che in Europa nel 2013, quasi 20 milioni di bambini e bambine sono stati vittima di violenza sessuale. Sempre da una ricerca della European Union Agency for Fundamental Rights, l’11% delle donne in Italia ha subito qualche forma di abuso sessuale prima di compiere 15 anni e il 33% di violenza in generale. Una su tre. Percentuali simili si ritrovano in Spagna, Germania, Finlandia e, leggermente più elevate, in Francia, Inghilterra e Olanda. I dati sono impressionanti e rappresentano solo la punta dell’iceberg perché nella stragrande maggioranza dei casi le bambine molestate tendono a non rivelare “il proprio segreto” perché provano vergogna, paura, senso di colpa. Gli effetti dell’abuso sessuale sulle piccole vittime possono essere devastanti, con conseguenze sulla psiche ma anche, come conferma la più recente letteratura scientifica, sull’organismo con riduzioni sensibili di aree ben precise a livello cerebrale, manifestarsi di obesità e aumento di incidenza di alcuni tumori. I disordini psichici e comportamentali quali depressione, disturbo post-traumatico da stress, ansia, disturbi del sonno e del comportamento alimentare, si associano a tendenze suicide, abuso di sostanze stupefacenti, condotte violente e comportamenti delinquenziali. Di frequente riscontro sono inoltre l’aumento dell’incidenza di patologie gastrointestinali, articolari e urogenitali. Non è più possibile chiudere gli occhi dinanzi ad uno scenario di violenze ai danni dei più piccoli che si verificano quotidianamente anche nei nostri “civilissimi” Paesi. Il tempo è oramai maturo di abbandonare quella troppo frequente latitanza e farci protagonisti di un impegno in difesa dell’infanzia perché nessun bambino è un bambino qualunque. La prima Giornata europea per proteggere i minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, celebrata nei giorni scorsi, ci fornisce la possibilità di ricordare la responsabilità e l’impegno che i Governi dell’Unione Europea si assumono nel sostenere i bambini e le bambine vittime di violenza attraverso la comunicazione ai minori, ai genitori e all’intera collettività di quanto importante sia la prevenzione di questo diffuso fenomeno dandoci inoltre la possibilità di riflettere seriamente su cosa significhi essere un Unione di Paesi “Sviluppati”, perché il grado di civiltà di un Paese non può far riferimento al solo sviluppo economico e finanziario dello stesso, ma deve necessariamente esplicarsi (a partire da questa Giornata) anche nell’individuazione e nella predisposizione di politiche per l’infanzia e per l’adolescenza: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra 192
personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico…. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, nè i successi del Paese sulla base del P I L [.…]”, ebbe a dire Robert Kennedy all’Università di Kansas nell’ormai lontano, ma oggi più attuale che mai, 1968. Italia Unica da sempre pone al centro delle sue scelte politiche e sociali la persona e i suoi diritti essenziali ed in particolare si è sempre rivolta con sensibilità e attenzione ad ascoltare la voce dei più piccoli che hanno bisogno di aiuto, cercando di favorire la presa di coscienza di questa vera e propria emergenza sanitaria e sociale sempre più impressionante e sensibilizzare l’opinione pubblica ad intervenire con proposte concrete quali: promuovere una banca dati per poter conoscere realmente l’entità del fenomeno e monitorarlo, strumento che attualmente non esiste ancora ma che sarebbe indispensabile per poter poi intervenire; promuovere iniziative concrete di prevenzione e contrasto al fenomeno in ambito istituzionale, medico, scolastico, territoriale con incontri, campagne informative e corsi; permettere alle Amministrazioni competenti di poter mettere in atto tutte le misure possibili per conoscere e far emergere i reali casi di maltrattamento e abuso, stanziando risorse che potenzino i servizi e i “professionisti dell’infanzia” e intercettando il prima possibile i segnali di disagio minorile.
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27 Novembre 2015
di Flavio Andreoli Bonazzi
Cop21, Origini e necessità della Conferenza delle Nazioni sul clima Quali sono le origini e le necessità alle quali deve assolvere la Cop21?
“There are multiple mitigation pathways that are likely to limit warming to below 2°C relative to pre-industrial levels. These pathways would require substantial emissions reductions over the next few decades and near zero emissions of CO2 and other longlived greenhouse gases by the end of the century. Implementing such reductions poses substantial technological, economic, social and institutional challenges, which increase with delays in additional mitigation and if key technologies are not available. Limiting warming to lower or higher levels involves similar challenges but on different timescales.” IPCC – Climate Change 2014, Synthesis Report.
L’ affermazione dell’IPCC è la ragione dei negoziati internazionali sul clima: lo scopo della conferenza è la firma di un accordo tra le Nazioni avente ad oggetto il contenimento del riscaldamento terreste causato da fattori antropici sotto i 2°C entro la fine del secolo in corso. L’evento rappresenta, di certo, il più importante appuntamento internazionale della nostra era; ad esso parteciperanno 154 Paesi che condivideranno l’obiettivo comune di diminuire l’inquinamento del pianeta. Ogni Paese partecipante ha consegnato, entro il 30 Ottobre, una proposta contenente le 194
misure di riduzione delle emissioni nocive e le misure di mitigazione per contrastare la vulnerabilità del territorio e della società agli effetti dei cambiamenti climatici. Gli evidenti effetti dell’inquinamento, dovuto alla industrializzazione del XX secolo, hanno spinto la comunità internazionale a prendere atto dei danni ambientali causati. Durante il secolo scorso, le nazioni più ricche hanno basato il loro sviluppo sull’utilizzo massiccio di risorse naturali, spesso provenienti da aree meno sviluppate del mondo. L’utilizzo indiscriminato di risorse ha generato evidenti danni ai territori e alle comunità facendo, di fatto, sorgere una crescente attenzione verso la salvaguardia dell’ambiente. La comunità internazionale ha preso atto, inoltre, che lo sviluppo del XX secolo è avvenuto in modo asimmetrico; i Paesi meno sviluppati non hanno giovato del beneficio della modernità ma, al contrario, sono stati serbatoio di risorse naturali per i Paesi più ricchi. In questo contesto, alla fine degli anni ’70, sono iniziati i negoziati internazionali sul clima nell’ambito della prima Conferenza sui Cambiamenti Climatici tenutasi a Ginevra nel 1979. Per poter affrontare in modo sistematico e scientifico l’impatto dell’inquinamento, vi era la necessità di dotarsi di uno strumento ad alta valenza scientifica e indipendente. Fu così creato nel 1988, dalle Nazioni Unite, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, (IPCC). L’IPCC è l’anima scientifica delle Nazioni Unite. Esso ha lo scopo di raccogliere e analizzare tutti i dati disponibili a livello globale sui cambiamenti climatici ed elaborare una posizione sullo stato del clima mediata e neutrale. Nel 1990, nel suo Primo Report, l’IPCC riconosce ufficialmente l’effetto clima alterante delle emissioni in atmosfera dei gas derivanti dai processi industriali quali l’anidride carbonica CO2, il metano CH4, gli ossidi di azoto NOx e altri gas presenti in minore concentrazione. Nel 2007 venne assegnato il Premio Nobel per la Pace, congiuntamente, all’ IPCC e ad Albert Arnold (Al) Gore per “gli sforzi profusi a creare e disseminare maggiore conoscenza in merito ai cambiamenti climatici di origine antropica e per aver gettato le basi per le azioni necessarie a combattere tali cambiamenti”. Nel 1992, durante la conferenza di Rio de Janeiro, venne creata la United Nation Framework Convention of Cimate Change (UNFCCC) il cui obiettivo fu la determinazione di misure per limitare le emissioni di gas nocivi. La Convenzione è entrata in vigore nel 1994 ed è stata sottoscritta da 195 Paesi. Da quell’anno, venne istituito un incontro annuo tra i membri aderenti al UNFCC, chiamato Conference of the Parties (COP) Il ruolo della Convenzione UNFCCC fu determinate per la adozione del Protocollo di Kyoto, approvato nel 1997 durante la COP 3 , appunto a Kyoto, ed entrato in vigore ufficialmente nel 2005 durante la COP 11. Il protocollo di Kyoto fu un accordo internazionale di enorme rilevanza, secondo il quale non meno di 55 Paesi industrializzati, rappresentanti almeno il 55% delle emissioni dei Paesi aderenti alla UNFCCC, si sono obbligati, per un primo periodo 2008-2012, a ridurre del 5% le loro emissioni rispetto ai livelli del 1990, e del 18% per il periodo 2013-2020. Il Protocollo si basa sul concetto secondo il quale solo i Paesi che hanno avuto un sviluppo industriale durante il xx secolo sono obbligati a ridurre le emissioni. 195
Attualmente i Paesi aderenti sono 192. Per cogliere gli obiettivi del Protocollo di Kyoto, i Paesi dovettero, anzitutto, implementare politiche nazionali di riduzione. Tuttavia, in aggiunta, furono creati meccanismi di mercato di scambio di permessi di emissione tra i membri del Protocollo. Il mercato dei titoli di emissione si basa sul concetto della irrilevanza del luogo ove vengono abbattute le emissioni; ciò che conta è la diminuzione netta a livello globale dei gas inquinanti. E’ importante sottolineare che al protocollo di Kyoto non aderirono gli Stati Uniti, nel 1998 principale potenza industriale e Paese con primaria incidenza sulle emissioni globali. La Cina e l’India aderirono al Protocollo, ma non furono ritenuti soggetti a vincoli onerosi di riduzione di emissioni perché si imposero come Paesi emergenti e, di conseguenza, non direttamente responsabili delle emissioni avvenute durante il periodo della industrializzazione del secolo scorso. Dopo l’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, la comunità internazionale si è posta il problema di stabilire un nuovo contesto di azione per la riduzione delle emissioni successivo alla fine del primo periodo di validità del Protocollo. Durante la COP 15 tenutasi a Copenhagen, venne stabilito, a seguito di quanto presentato dallo studio della IPCC, che l’aumento massimo della temperatura media terreste dovesse essere contenuto sotto i 2°C entro la fine del secolo in corso, ma non venne raggiunto alcun accordo vincolante sull’estensione del Protocollo di Kyoto. La COP 16 a Cancun, la COP 17 a Durban, la COP 18 a Doha e la COP 19 a Varsavia nel 2013 sono stati le tappe di una progressiva condivisione delle politiche climatiche da parte della comunità internazionale. I punti su cui si è concentrato il dibattito sono stati la prosecuzione del Protocollo di Kyoto fino al 2020, la determinazione di meccanismi di supporto alle politiche di mitigazione ambientale da parte delle nazioni industrializzate alle nazioni in via di sviluppo, la determinazione di azioni di riduzione e mitigazione, a partire dal 2020, per contenere l’aumento del riscaldamento globale entro i 2°C. Il momento di convergenza del percorso complesso e pluriennale fino ad ora svoltosi è la COP 21 di Parigi, dove gli stati aderenti alla UNFCCC potrebbero siglare uno storico accordo. Con lo scopo di consolidare l’obiettivo del contenimento dei 2°C entro la fine del secolo, durante la COP15 e la COP16, le nazioni più sviluppate si impegnarono a mettere a disposizione fondi a favore dei Paesi emergenti per un importo pari a 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020. Come detto, in vista della COP21 di Parigi, tutti i paesi sono stati invitati a presentare un documento con gli impegni assunti per contribuire al contenimento dell’aumento climatico (Intended Nationally-Determined Contributions – INDC), supportato da informazioni sulla misurabilità degli stessi. I Paesi in via di sviluppo hanno elaborato le loro proposte anche in funzione della capacità di finanziare le proprie politiche climatiche nazionali con il fondo annuale messo 196
a disposizione dai Paesi sviluppati.
Stato dei negoziati Profonde divergenze sussistono tra i principali “Gruppi d’interesse” (UE, G7, Alleanza delle piccole isole, USA, Cina, India). Tali divergenze riguardano, in particolare, le modalità concrete di attuazione e applicazione pratica dei dettami che verranno recepiti nel documento. La precedente riunione svoltasi in Perù, alla COP 20, terminò con un testo di compromesso, composto da un preambolo (Lima call for climate action) e da un corposo (più di 40 pagine) documento annesso. In questo periodo, il testo base per il nuovo accordo si è ulteriormente dilatato (più di 80 pagine) a causa dell’inserimento di nuove ‘proposte di linguaggio’. Nella versione attuale, quindi, per ognuna delle sei aree principali del futuro documento (mitigazione, adattamento, finanza, trasferimento di tecnologia, capacity building e trasparenza), sono inserite tutte le ‘proposte di linguaggio’, spesso di segno opposto, presentate dai citati “Gruppi di interesse”.
Posizione europea L’UE ha già inviato al Segretariato UNFCCC il proprio contributo che consiste essenzialmente nella riduzione, entro il 2030, di almeno il 40% delle emissioni di gas serra rispetto al 1990. E’ previsto che tale obiettivo, facente parte del pacchetto 2030 approvato nell’ottobre scorso, sia raggiunto attraverso un utilizzo più efficiente dell’energia e un maggior ricorso alle rinnovabili. Tale obiettivo è stato richiamato anche nella Comunicazione della Commissione Europea con riferimento all’Unione Energetica dello scorso 25 febbraio.
Il pacchetto 2030 per le politiche dell’energia e del clima fissa tre obiettivi: riduzione delle emissioni di gas serra di almeno il 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Tali riduzioni dovranno essere realizzate nel solo territorio europeo; aumento della quota di rinnovabili almeno fino al 27%. Tale obiettivo non preclude traguardi nazionali maggiormente ambiziosi; raggiungimento del target del 27% per l’efficienza energetica al 2030, riservando comunque la possibilità di rivederlo al rialzo nel 2020, tendenzialmente al 30%. Il documento fornisce la posizione comune europea degli obiettivi del “Protocollo di Parigi” e, allo stesso tempo, invita le economie più avanzate ad assumere un ruolo guida nel processo UNFCCC. L’auspicio della Commissione Europea è che l’accordo di Parigi assuma la forma giuridica del protocollo, abbia quale obiettivo la riduzione delle emissioni globali nel 2050 del 60% rispetto ai livelli del 2010, sia legalmente vincolante per tutte le Parti e coerente con i principi della Convenzione Quadro nel contesto delle c.d. evolving responsibilities. In vista di Parigi, i Ministri europei degli Affari Esteri hanno adottato una Climate Diplomacy Action Plan con l’obiettivo di rendere prioritario, nelle agende dei forum di dialogo politico 197
(G7, G20 e Assemblea Generale ONU), il tema dei cambiamenti climatici.
La posizione degli Stati Uniti Gli Stati Uniti e la Cina, congiuntamente, rappresentano il 45% delle emissioni globali e sono le due economie più importanti. Nel 2008 la Cina ha superato gli stati Uniti per quantità di emissioni in atmosfera. Entrambi i Paesi hanno intrapreso politiche climatiche nazionali e, nel novembre 2014, hanno sottoscritto un reciproco accordo per il contenimento dell’inquinamento atmosferico. Le politiche nazionali e l’accordo tra i due Paesi possono contribuire in modo sostanziale alla firma di un documento di vasta portata e stabilità durante la COP 21. Gli Stati Uniti non hanno mai aderito alla sottoscrizione di accordi vincolanti per la riduzione delle emissioni. Le amministrazioni repubblicane del passato, in particolare quella di George W. Bush, ritenevano il protocollo di Kyoto una minaccia alla competitività del Paese. Nel corso degli anni, anche grazie alla crescente divulgazione mediatica, l’opinione pubblica americana ha rivolto maggiore attenzione al tema dei cambiamenti climatici tanto che, lo scorso agosto, Barack Obama e la US Environmental Protection Agency (EPA) hanno annunciato il Clean Power Plan, un piano il cui il Paese si obbliga alla riduzione delle emissioni di CO2 del 32% rispetto ai livelli di emissione del 2005. Il Piano rappresenta un atto storico per un Paese che, da sempre caratterizzato dal timore di perdere competitività e di deprimere il consumo interno, ha ingenerato nella comunità internazionale un aumentato ottimismo in vista della COP21 di Parigi. Come una doccia fredda è calata però la recente dichiarazione del Segretario di Stato, John Kerry, il quale ha affermato che gli Stati Uniti non firmeranno accordi vincolanti a Parigi. Tale inaspettata posizione viene interpretata come una interferenza delle elezioni presidenziali del 2016. La debolezza in senato dei democratici fa loro propendere per una posizione di estrema prudenza per non andare alla scontro diretto con i repubblicani, la cui politica è da sempre contraria a vincoli economici imposte da restrizioni climatiche.
La posizione della Cina La Cina è il principale Paese in via di sviluppo e maggior contribuente mondiale alle emissioni di gas clima alteranti. Durante la fine degli anni 90 e i primi anni 2000, la Cina ha intrapreso un processo di sviluppo economico espansionista responsabile di una crescita industriale, massicciamente dipendente dall’utilizzo di risorse naturali. Il 68% dell’energia primaria consumata è generata dalla combustione del carbone di cui la Cina è il primo consumatore, produttore e importatore mondiale. Il carbone è anche responsabile della maggior quota delle emissioni in atmosfera. Combattere l’inquinamento significa per la Cina modificare il proprio modello industriale dipendente fortemente dalle risorse naturali, ma questo comporterà necessariamente 198
un rallentamento dell’economia. D’altra parte, il Governo Centrale si trova pressato dall’opinione pubblica che, negli ultimi dieci anni, si è dimostrata sempre più sensibile ai dati dell’inquinamento. Il governo ha concesso la pubblicazione su internet dei dati sulla qualità dell’aria a partire dal 2011, quando, per la prima volta, vennero resi noti i dati della centrale situata all’interno dell’Ambasciata Americana. Da allora, la qualità dell’aria ha assunto per i cinesi una grande importanza. Di enorme impatto sull’opinione pubblica fu la cosiddetta “airpocalypse” del 2013-2014 , in cui i livelli rilevati di PM2,5 furono in misura di 56 volte superiori a quelli raccomandati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità. Ad agosto 2015, l’opinione pubblica cinese è stata ulteriormente scossa dall’incidente di Tianjin in cui sono morte 100 persone nell’esplosione di un deposito di materiale chimico, mettendo a nudo la fragilità del sistema industriale cinese dal punto di vista ambientale e della sicurezza sul lavoro. Il Presidente Xi Jinping ha promosso la riforma del settore energetico. Nel 2014 è entrato in vigore l’Energy Development Strategic Action Plan per il periodo 2014-2020, il quale stabilisce l’obiettivo di contenere per il 2020 il consumo di energia primaria entro 4.8 miliardi di tonnellate di carbone equivalente. Sempre nel 2014, la National Development and Reform Commission (NDRC), equivalente ad un super ministero dello sviluppo, ha emanato il National Plan on Climate Change contenente misure in grado di modificare il sistema produttivo cinese e traghettarlo verso un modello meno dipendente dal carbone. Inoltre, nel 2014, sono stati investiti in Cina circa 90 miliardi di dollari per l’istallazione di nuova energia rinnovabile, principalmente eolica e fotovoltaica, e tale valore tende a essere confermato nel 2015. Con queste premesse, la Cina si presenta alla COP 21 con misure che prevedono entro il 2030 la copertura del 20% dei consumi con energia rinnovabili e un abbattimento del 6065 % di emissioni rispetto ai livelli del 2005. Entro il 2020 il 10% dei consumi sarà coperto da gas naturale e il 2030 viene indicato come anno in cui, “approssimativamente”, verrà raggiunto il picco di emissioni di CO2. I target cinesi destano non poche perplessità da parte dei commentatori internazionali, ritenendo che i target siano troppo ambiziosi per poter costringere la Cina a un patto vincolante. Recentemente, sul ruolo della Cina alla COP21, è calata una tegola: l’istituto nazionale di statistica ha pubblicato dati che dimostrano come il consumo del carbone sia stato, fin dal 2000, superiore di quantità tra il 10 e il 15 % rispetto a quanto fino ad oggi previsto, con un aumento delle emissioni stimato dal 6 al 10%. Ciò sembrerebbe corroborare le posizioni che vedono le misure cinesi come non realistiche.
L’accordo congiunto sul clima tra Stati Uniti e Cina Nel novembre del 2014, i presidenti di Cina e Stati Uniti hanno siglato un accordo congiunto sui cambiamenti climatici. L’accordo prevede che i due Paesi si diano “responsabilità comuni, ma differenziate” secondo le “rispettive capacità”. Se, quindi, da una parte l’accordo tra i due principali paesi inquinanti è senza dubbio un segno della volontà politica di modificare propri 199
modelli industriali, dall’altra il linguaggio del trattato mette in evidenza la labilità degli obiettivi. I due Paesi si sono, infatti, dati obiettivi non vincolanti e differenziati: gli Stati Uniti dichiarano di abbattere le emissioni entro il 2020 e la Cina entro “approssimativamente” il 2030 in quantità tra loro diverse. In questo sembrerebbe che la Cina abbia riportato una piccola vittoria diplomatica perché è riuscita a passare nuovamente il concetto che il suo stato di sviluppo è arretrato rispetto a quello degli Stati Uniti, giustificando, quindi, riduzioni alle emissioni inferiori a quelle degli Stati Uniti. La stessa motivazione, si ricorda, fu addotta per non subire vincoli onerosi alle riduzioni in sede di approvazione del Protocollo di Kyoto. Nonostante l’accordo tra i due Paesi presenti evidenti limiti, la comunità internazionale ha accolto con positività l’evento, ritenendo che si siano gettate le basi per un dialogo più puntuale sui temi dei cambiamenti climatici. Non solo. La comunità internazionale ritiene, inoltre, che l’accordo darà maggiore impeto alle forze concorrenti alla firma di un nuovo Protocollo vincolante tra le Nazioni.
La posizione di Papa Francesco A maggio del 2015, quindi dopo la sigla degli accordi tra Cina e Usa e in seguito alla pubblicazione del Report dell’ IPCC, irrompe sul tema dei cambiamenti climatici la Enciclica “Laudato Si’ ” di Papa Francesco. L’adozione di politiche climatiche globali porta a una epocale modifica dell’economia mondiale, dove, se da una parte è vero che ci si muoverà verso un complessivo miglioramento dell’ambiente, dall’altra non vi è alcuna garanzia che non si creino processi asimmetrici e speculativi. A tal proposito, le economie in cui i meccanismi di mercato sono più aggressivi, in primis gli Stati Uniti, hanno salutato il nuovo corso economico con entusiasmo, ben consci della enorme quantità di denaro che verrà investita per concorrere alla mitigazione dell’inquinamento. Il World Economic Forum stima che, solo nel settore elettrico, verranno investiti fino al 2040 nei Paesi OCSE circa 280 miliardi di dollari ogni anno per la riduzione delle emissioni. Capitali che, male utilizzati, creerebbero ulteriori future disuguaglianze tra paesi e tra strati sociali. Il Papa, con la sua enciclica, ha compiuto un atto necessario per bilanciare la straripante forza dei meccanismi di libero mercato attraverso un messaggio che pone sullo stesso piano il rispetto dell’ambiente e il rispetto dell’uomo. L’enciclica “ Laudato Si“, scritta in italiano con linguaggio semplice e di immediata comprensione, si oppone perentoriamente a un utilizzo acritico delle tecnologia, mosso da una visione antropocentrica del mondo. Il Papa esorta a confluire verso un modello circolare di economia basato su riciclo e sul riutilizzo, limitando al massimo l’uso delle risorse non rinnovabili, perché il degrado ambientale genera il degrado umano colpendo i più deboli, togliendo loro la possibilità di sostentamento derivato dalle risorse naturali e dalla disponibilità di acqua. Ne consegue che un approccio ecologico allo sviluppo diviene, secondo questa visione, un approccio sociale. Il Papa esorta a non sottomettere la politica alla finanza, la quale, avulsa dall’economia reale sottostante, ingenera meccanismi speculativi le cui conseguenze sono il degrado sociale e ambientale. 200
Un’economia di mercato senza regole si basa sull’idea di crescita infinita e ciò suppone una disponibilità infinita di risorse naturali, cosa che è, con ogni evidenza, falsa. I meccanismi di mercato non sono in grado di includere i costi ambientali a sociali nei propri modelli. L’orizzonte temporale che si pongono è, infatti, di breve tempo e l’obiettivo è la sola massimizzazione dei profitti. Il Papa, quindi, propone un modello economico che contemperi un approccio integrale socio-ambientale, in grado di combattere la povertà e prendersi cura della natura. Per questo occorrerà un rinnovato umanesimo composto dai diversi saperi, incluso quello economico. Un nuovo approccio integrato dovrà poi non solo risolvere il problema delle solidarietà sociale, ma anche quello della solidarietà tra le generazioni. L’ambiente è giunto alla generazione vivente sotto forma di prestito e questa dovrà restituirlo integro alla generazione successiva. Il Papa interviene, inoltre, a proposito della internazionalizzazione dei costi ambientali, elemento di grande criticità nei negoziati avvenuto fino ad oggi. Francesco si schiera a sostegno dei paesi in via di sviluppo il cui processo di crescita non deve essere rallentato dagli oneri ambientali derivanti dallo sviluppo avvenuto, negli scorsi decenni, dei paesi industrializzati; questi dunque, secondo il Papa, dovranno sostenere maggiori oneri di mitigazione ambientale rispetto ai paesi più poveri.
La posizione di Italia Unica Principio fondante di Italia Unica è la considerazione dell’ambiente come bene assoluto da rispettare, migliorare e tramandare alle future generazioni. Italia Unica propone uno sviluppo fondato sulla economia di mercato, ritenendo però profondamente errato il modello della crescita infinita, intesa come crescita insaziabile ed erosiva. Occorre, al contrario, perseguire crescita e sviluppo non a discapito delle risorse naturali, ma adottando criteri di riciclo e riuso delle risorse naturali secondo modelli circolari. Senza limitazione, dovrà essere perseguita l’armonia sociale ed ambientale. Il corretto ciclo della economia circolare contempla e utilizza gli strumenti finanziari per sostenere la crescita; la finanza è intesa come servizio alla economia reale, non come strumento avulso dalla economia sottostante e utilizzato per creare sacche speculative. Il modello economico di Italia Unica contempla, naturalmente, il perseguimento dell’utile di impresa, la cui massimizzazione non dovrà mai indurre a evadere costi ambientali e sociali. Note queste premesse, la posizione di Italia Unica sui cambiamenti climatici, in particolare rispetto alla prossima COP 21 di Parigi, è la convinta adesione a un patto intergovernativo vincolante per la riduzione delle emissioni. Italia Unica concorda sul principio secondo il quale i Paesi che maggiormente hanno utilizzato le risorse naturali per perseguire il proprio sviluppo debbano concorrere alla crescita dei Paesi in via di sviluppo attraverso meccanismi di perequazione dei costi ambientali. Inoltre, riconosce pienamente quanto espresso dal Papa secondo cui la giustizia ambientale e la giustizia sociale sono due facce della stessa medaglia.
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28 Novembre 2015
di Flavio Andreoli Bonazzi
Cop 21, in cerca di un accordo. E che sia vincolante
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La migliore risposta agli attacchi perpetrati pochi giorni fa al cuore dell’Europa può venire dalla firma di un accordo ampiamente condiviso alla Conferenza globale sui cambiamenti climatici, che sta per aprirsi a Parigi. Incidere sulla stabilizzazione delle aree geopolitiche più instabili mettendo in atto efficaci e condivise politiche di miglioramento ambientale – che è uno degli obiettivi principali di questo appuntamento delle Nazioni Unite – significa guardare a un traguardo ben più ampio, come il maggiore equilibrio dei flussi economici e una minore disparità tra popoli e strati sociali. Per un partito come Italia Unica, che ha come principio fondante la considerazione dell’ambiente come bene assoluto da rispettare, migliorare e tramandare alle future generazioni, la 21esima Conference of the Parties to the United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) rappresenta una tappa cruciale verso questo orizzonte. Anche se il terribile attacco mosso da Daesh getta inevitabilmente un’ombra cupa sulla conferenza, questa rappresenta una straordinaria opportunità di dialogo attorno al tema comune della salvaguardia ambientale e assume maggiore importanza nella ricerca di un accordo vincolante tra le nazioni, per abbattere le emissioni climalteranti ed elaborare efficaci e condivise politiche di miglioramento, appunto, dell’ambiente. Sarà anche l’occasione per offrire a una vasta rappresentanza della comunità internazionale la possibilità di incontrarsi e ragionare su misure che guardino anche alla prevenzione del terrorismo, che è l’espressione più violenta di una instabilità economica e politica sottostante: dunque la eradicazione dei movimenti fondamentalisti potrà avvenire, nel medio termine, con scelte politiche ed economiche, più che con scelte militari. Italia Unica concorda sul principio secondo cui le nazioni che più hanno utilizzato le risorse naturali debbano ora concorrere alla crescita dei paesi in via di sviluppo attraverso meccanismi di perequazione dei costi ambientali e riconosce pienamente anche quanto esposto da papa Francesco: la giustizia ambientale e la giustizia sociale sono due facce della stessa medaglia. E un fallimento del summit alimenterebbe la instabilità politica e la disparità economica tra popoli con conseguenze che potrebbero rilevarsi catastrofiche.
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29 Novembre 2015
di Massimo Brambilla
Il novembre delle occasioni perdute. E Renzi fa finta di niente Sarà che è il mese di Halloween, ma Matteo Renzi ricorderà questo Novembre per l’affollarsi di gufi che hanno alzato il velo sui mediocri risultati della politica economica del suo governo, ormai in carica da quasi due anni. Tanto mediocri da aumentare la nostra preoccupazione per l’andamento del Paese e da rendere ancora più urgente l’appello, che andiamo ripetendo da oltre un anno, per una vera politica economica orientata allo sviluppo. Ha aperto le danze il Fondo Monetario Internazionale a inizio mese, rivendendo al ribasso tutte le previsioni di crescita del PIL contenute nella nota di aggiornamento al DEF 204
che data a solo due mesi fa. La palla è poi passata alla Commissione Europea, che ha condizionato il via libera alla richiesta di maggiore benevolenza in termini di deviazione rispetto al sentiero di diminuzione del rapporto deficit/PIL alla verifica che questa serva a fare investimenti e non per continuare ad alimentare la spesa pubblica. È seguita Confindustria, che pare avere finalmente dismesso l’abito del plauso incondizionato nei confronti dei proclami del premier, accorgendosi dell’irrilevanza della tanto declamata ripresa renziana. E poi l’OCSE, che ha rammentato che l’Italia è, tra le 34 economie mondiali più sviluppate, quella che ha il più basso tasso di occupazione dei laureati e tra le poche (con Grecia, Turchia e Spagna) in cui più del 30% dei giovani tra i 20 e i 24 anni non studiano nè lavorano. Si è aggiunta l’ISTAT con i dati relativi ai minimi storici di natalità nel Paese, portato dell’incertezza in cui versano le famiglie in merito alle prospettive economiche. Infine ha chiuso le danze ancora la UE con l’Italia unico Paese in cui la disoccupazione giovanile è peggiorata nel 2014 ed in cui la bassa produttività mette a rischio la sostenibilità delle finanze pubbliche Niente male per un Governo che ha presentato la propria manovra economica con l’hashtag #Italiacolsegnopiù. Purtroppo a questo segno più, apprezzabile solo dagli entomologi in ragione delle microscopiche dimensioni, pare che ormai ci credano solo i ministri del Governo Renzi, o forse neppure loro. Il punto è che in questi 21 mesi di Governo, Matteo Renzi ha vissuto di rendita su condizioni esogene straordinariamente favorevoli e non ha fatto assolutamente nulla per incidere realmente su quelli che sono i fattori che fanno si che il nostro Paese cresca meno di ogni altro nelle fasi di espansione economica e decresca molto più degli altri durante le recessioni. Nulla sul fronte delle inadeguate dotazioni infrastrutturali fisiche e digitali del Paese, con un costante calo degli investimenti pubblici per finanziare spesa pubblica improduttiva e regalie elettorali (di cui i 500 Euro ai 18 enni sono l’ultimo, insultante, esempio). Nulla per colmare la forbice di produttività accumulato negli ultimi 15 anni tra il nostro sistema produttivo e quello degli altri Paesi dell’Eurozona (Germania in primis) che determina un costante calo della quota di mercato del nostro export a livello globale e che frena gli investimenti esteri nel nostro Paese. Nulla per riformare il nostro sistema scolastico per renderlo in linea con le esigenze formative delle aziende. Nulla sul fronte della liberalizzazione del mercato dei servizi e sulla semplificazione della burocrazia e nulla sul fronte della tassazione sulle imprese. 21 mesi di occasioni perdute che rischiamo di rimpiangere quando le condizioni esogene favorevoli non ci saranno più (ed il rallentamento dei paesi emergenti, l’ormai sempre più probabile rialzo dei tassi di interesse USA e le tensioni geopolitiche rischiano di avvicinare quel momento) e quando il calo del PIL riporterà l’allarme sulla sostenibilità del nostro debito pubblico. Una totale inazione che alimenta le proposte dei populismi alternativi a quello del Partito della Nazione di Renzi, dall’uscita dall’Euro alla decrescita felice, capaci solo di rendere la malattia della nostra economia ancora più grave ed il probabile decesso del paziente. 205
Il tutto all’insegna di sprechi di risorse che avrebbero potuto essere impiegate per davvero per invertire la parabola discendente della nostra economia. Dai 10 e passa miliardi che ci costa ogni anno l’inutile Jobs Act, con cui si sarebbe potuta tagliare la tassazione sulle imprese per riportare gli investimenti nel Paese e creare vera e sostenibile occupazione e non obbligare i nostri giovani ad andare all’estero alla ricerca di una prospettiva di lavoro. Oppure gli altri 10 miliardi all’anno degli 80 Euro, con cui sarebbe stata possibile una reale azione di contrasto alla crescente povertà (un fenomeno che l’ISTAT ci ha ricordato questa settimana riguardare un Italiano su quattro) e si sarebbero potuti porre in essere strumenti a sostegno delle famiglie per incrementare le nascite. O i tanti miliardi spesi per le lenzuolate di assunzioni nelle scuole a cui si sono aggiunti i fondi per la mancetta destinata ai diciottenni con cui si sarebbe potuta modernizzare la didattica delle nostre scuole. O i ritardi accumulati relativamente alla strategia del dopo EXPO, che potrebbe essere il volano per la modernizzazione del Paese e rischia invece di diventare una cattedrale nel deserto. O i ritardi sulla spesa dei fondi strutturali in scadenza a fine anno, il che determinerebbe una minore allocazione per il futuro (tant’è che, del Piano Juncker, in Italia arriveranno solo le briciole), allargando ulteriormente la voragine tra il nostro meridione, che di questi fondi ha disperato bisogno, ed il resto d’Europa. Ritardi, sprechi ed occasioni perdute che urlano vendetta. E che noi di Italia Unica denunciamo da sempre e continueremo a farlo non per il gusto della polemica ma in quanto tacere vuole dire essere complici. E noi non vogliamo esserlo perché abbiamo un unico interesse, che è quello di garantire un futuro all’Italia ed agli Italiani.
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3 Dicembre 2015
di Massimo Brambilla
Il governo non ama i professionisti, addio ai fondi UE C’è un fantasma che si aggira tra i palazzi romani. Ed è un fantasma che c’è l’ha con i professionisti e le partite IVA. Un fantasma che si nasconde negli anfratti più nascosti del Governo e del Parlamento e che spunta fuori, puntuale e preciso, ogni volta che c’è da penalizzare il mondo di chi lavora in proprio. Non è chiaro perché questo fantasma ce l’abbia così tanto con i professionisti. Magari è un po’ sadico, visto che di tiri mancini alle sue vittime predilette ne ha tirati davvero molti in questi anni. O forse perché è convinto che tra i professionisti si annidino sediziosi evasori fiscali. O perché da sempre il mondo dei professionisti non è creatore di tessere sindacali ed è lontano dalla politica e, ancor di più, dai partiti. O, più probabilmente, perché i professionisti sono troppo impegnati a lavorare e non hanno tempo per protestare. Fatto sta che lo spettro è implacabile. L’avevamo già segnalato lo scorso 4 novembre quando avevamo scoperto nelle pieghe delle relazione tecnica alla Legge di Stabilità
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che il tanto declamato taglio dell’aliquota applicabile alla tassazione forfettaria avrebbe avuto effetti solo dal 2017, mentre nel 2016 il Governo continua a drenare risorse finanziarie con l’aumento della pressione contributiva. È passato meno di un mese e il fantasma si è inventato un nuovo scherzo. A una settimana dall’approvazione da parte del Senato del maxi-emendamento alla Legge di Stabilità che, in un comma, equiparava i professionisti alle PMI relativamente all’accesso ai piani operativi regionali e nazionali dei fondi sociali europei (FSE) e del fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), ecco comparire una serie di emendamenti alla Camera che mirano a subordinare questa equiparazione al possesso di requisiti non richiesti ai colleghi europei. Una svolta assolutamente inspiegabile. In primo luogo in quanto l’estensione ai professionisti delle possibilità di accesso ai fondi strutturali andava ad accogliere la raccomandazione della Commissione europea 2003/361/CE che al punto (3) estendeva la definizione di micro imprese e PMI a “qualsiasi entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che svolga un’attività economica, incluse in particolare le entità che svolgono un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che svolgono regolarmente un’attività economica”. Un’estensione fondamentale in quanto appunto consentirebbe ai professionisti, in forma singola o associata, di accedere ai suddetti fondi strutturali. E poi perché, a fronte del mediocre andamento del mercato del lavoro e nonostante l’onerosissimo e inutile doping costituito dagli incentivi del Jobs Act, i professionisti sono uno dei principali serbatoi di creazione di nuova occupazione in Italia. E infine perché in un Paese che, come il nostro, ha difficoltà di spendere i fondi strutturali (tant’è che se non avverrà un miracolo nelle prossime settimane relativamente all’allocazione dei fondi che vanno in scadenza a fine anno, la UE ci taglierà le future assegnazioni) tutto bisognerebbe fare tranne limitare il numero delle categorie che appunto a questi fondi strutturali possono avere accesso. Fatto sta che i professionisti rischiano di essere penalizzati per l’ennesima volta, in modo iniquo e irragionevole. E non rimane che invocare l’intervento di ghostbuster che, una volta per tutte, neutralizzi questo fantasma dispettoso. Nell’interesse del mondo delle professioni e di tutta l’economia Italiana.
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10 Dicembre 2015
di Lelio Alfonso
I fasti della Leopolda, le occasioni mancate del Paese Il Partito della Nazione ha una sede vera, iscritti entusiasti (come accade per ogni carro temporaneamente vincente) e finanziatori neppure tanto occulti disseminati tra gli amati/odiati poteri forti. La sede è alla Leopolda, e dove è andata in onda l’Assemblea numero 6, anche se sarebbe meglio definirlo Club Meeting, data la cura quasi maniacale dei dettagli per assicurare al leader maximo dalla credibilità minima l’auspicata visibilità. Già, il secondo anno dell’era renziana si va a completare cancellando la politica vera dal Paese e sostituendola con l’accrocchio di interessi, poteri e convenienze (molto sconvenienti) individuali. Un copione già visto in altre epoche ma che qui viene “narrato” come il nuovo, il #cambiaverso, la “visione”. Agli italiani servirebbe ben altro che una kermesse autocelebrativa, ma tant’è, questa è oggi la priorità del Renzismo: apparire. L’operazione verità che Italia Unica quotidianamente propone al Paese dice però ben altro e ha come filo rosso promesse mancate, impegni non realizzati e rimandi a tempi
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migliori. Dalla giustizia alla pubblica amministrazione al digitale, dall’equità fiscale a una vera politica di sviluppo, il Renzismo Leopoldiano ci ha “regalato” (si fa per dire) solo slides e spizzichi di speranza. Certezze, nessuna. Non si tratta di un bilancio da gufi o rosiconi. Non è nello stile di chi mette sotto ogni proposta modi, cifre e tempi per realizzarla. In questo patchwork affaristico che si chiama Leopolda, vanno a braccetto le idee comuniste di Gennaro Migliore e i lobbismi di Denis Verdini, il galleggiamento di Angelino Alfano e la zattera di Scelta Civica. Per non parlare del Nuovo Centro Democratico (pardon, Destra), dei “responsabili con le Ali” e via andare. Non è con il collante del potere che si governa un Paese e non è neppure con il Leopoldismo, fatto di comparsate, musica ambient e “visioni”, che si innova la politica. Il socialismo renziano è molto più che reale, va oltre le dimensioni dell’irrealtà, semplicemente perché non ha contezza di cosa serve al Paese. E quando lo sa, ne stravolge il senso per puro opportunismo, come accade con le finte privatizzazioni o una gestione spavalda della CDP. Cosa dovrebbe celebrare in questo weekend la Leopolda numero 6? Forse una riforma della scuola partita con tante speranze e naufragata tra le proteste nonostante la più colossale assunzione di massa della storia? Oppure un Jobs Act che è solo un insieme di agevolazioni fiscali e non crea lavoro in modo strutturale? O ancora il nostro ruolo sullo scenario europeo e mondiale, ridotto a quello di comparse, quando va bene? Certo, le capacità comunicative di Matteo Renzi sono indubbie e lo vedremo saltellare gioiosamente sul palco, ma anche lui sa bene che la verità non è mai quella che ci si vuole raccontare. Nonostante le misure di Draghi, siamo agganciati – a fatica – all’ultimo vagone della locomotiva europea, i dati su disoccupazione, criminalità, pressione fiscale, spending review e via andare segnano solo desolanti record negativi. Se tutto questo a Renzi non interessa – e non interessa – allora assisteremo a una Leopolda col botto, fatta di nuove promesse, e con la voglia matta di archiviare definitivamente il Pd e le regole democratiche (leggasi Italicum e Senato, ma anche Province e Corte Costituzionale) perché questi riti della politica sono così fuori moda… Eh no, mister Leopolda! Festeggia pure con il tuo club esclusivo a Firenze. L’Italia, quella vera, è un’altra. E lo dimostrerà presto.periferie
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11 Dicembre 2015
di Fabio Giuseppe Angelini
Guardare al mondo con gli occhi degli ultimi: il Giubileo di Francesco In un periodo in cui l’incertezza, la conflittualità sociale e la sfiducia regnano incontrastate nelle nostre vite, l’anno santo appena inaugurato da Papa Francesco rappresenta – per credenti e non credenti – un’occasione di rinnovamento in due direzione: quella interiore, intima e personale, che ci spinge ad interrogarci sul senso della nostra esistenza; e quella sociale, comunitaria che, invece, ci spinge a riflettere su come sia ancora possibile usare parola come misericordia, perdono, amore con riferimento al nostro stile di vita. Interrogativi potenti che, se presi sul serio, possono rappresentare l’occasione per riscoprire il senso del nostro stare insieme, come italiani, come europei e come cittadini di un grande Paese destinato a giocare ancora un ruolo importante sullo scacchiere globale. Dal giorno della sua elezione, in ogni suo intervento, Papa Francesco non ha mai smesso di parlarci di inclusione sociale e di periferie. Si tratta della cifra del pontificato di Francesco, 211
in piena continuità con i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Tra questi pontefici cambia lo stile e il carisma ma non il messaggio, ovvero, il contributo che il magistero intende offrire sul fronte sociale, politico ed economico. Inclusione e periferie non rappresentano per Papa Francesco le priorità di un programma politico, bensì due complementari chiavi di lettura della realtà che il Pontefice offre al mondo intero: un invito a guardare la nostra società, con tutti i suoi pregi e in suoi difetti, attraverso gli occhi degli ultimi, degli esclusi, di coloro i quali si trovano in stato di bisogno. È certamente questa la prospettiva da cui quel bambinello nato in una stalla guardò i suoi contemporanei ed è sempre da questa prospettiva che quello stesso bambino, divenuto adulto, sconfisse la morte offrendo all’intera umanità un nuovo inizio, un’occasione di riconciliazione che solo nella misericordia di Dio può essere compresa fino in fondo. In questa vicenda umana, come tale comprensibile sia da chi crede che da chi non crede, si coglie tutta la profondità del legame tra l’appello all’inclusione sociale e il Giubileo dedicato alla Misericordia. Anche il nostro Paese ha un grande bisogno iniziare di guardare se stesso con occhi nuovi. Tornare alla radici del nostro stare insieme significa avere la capacità di riscoprire quel senso di comunità e di regole condivise su cui si reggono le nostre istituzioni e in cui, solo in nome del quale, trovano la propria ragion d’essere le tante limitazioni alla nostra libertà, la stessa burocrazia e il prelievo fiscale. Dal dopoguerra in poi abbiamo via via perso l’abitudine di guardare la nostra società con gli occhi di chi, indipendentemente dalla propria condizione sociale, sentiva di voler offrire qualcosa al Paese. Nello stesso tempo, però, abbiamo iniziato a costruire barriere, a difenderci dall’altro piuttosto che a favorire la cooperazione, a guardarci con sospetto piuttosto che a riconoscere i meriti dell’altro. In molti casi, politiche pubbliche nate per sostenere i più bisognosi si sono rivelate, da un lato, trappole incapaci di liberare dal bisogno ampie fasce della popolazione, innescando quella mobilità sociale che nel nostro Paese è largamente assente, e dall’altro, strumenti a servizio delle classi dirigenti piuttosto che degli ultimi. Una storia di assistenzialismo di destra e di sinistra che, purtroppo, è ancor oggi il mantra delle politiche del Governo Renzi e dei vari populismi che occupano la scena politica italiana. Per Italia Unica raccogliere, in quest’anno giubilare, l’invito di Papa Francesco significa contrapporre lo stile di una politica intesa come servizio e non come strumento di potere di cui servirsi. Questo spirito che caratterizza il nostro impegno politico rappresenta l’anima stessa delle nostre proposte programmatiche le quali vedono proprio nell’inclusione sociale la leva essenziale per lo sviluppo e la crescita economica del Paese. Declinare i temi della difesa della libertà economica e della promozione della concorrenza secondo la prospettiva indicata da Papa Francesco significa proporre soluzioni che guardino prioritariamente all’inclusione sociale quale strumento per favorire una 212
maggiore competitività, assicurando nel contempo quella dose di sicurezza e di mobilità sociale in grado di rimettere in moto il Paese. Sicurezza e lavoro, dunque, esattamente uno dei punti chiave su cui si poggia il nostro progetto per Milano. Non solo. Per Italia Unica, guardare la realtà con gli occhi degli ultimi significa trasformare la nostra cornice istituzionale, rompendo il patto delle oligarchie che operano nel pubblico e nel privato e che rendono fortemente estrattivi i caratteri delle nostre istituzioni. Significa promuovere la mobilità sociale attraverso più concorrenza e contendibilità delle opportunità, più libertà e autogoverno, controbilanciata da una maggiore azione pubblica in chiave sussidiaria, tesa a promuovere l’uguaglianza nei punti di partenza. In altri termini, spezzare le catene delle oligarchie che, impedendo anziché favorendo l’inclusione sociale, impoveriscono il Paese. Questa è l’anima del nostro programma. Per questo, in quest’anno giubilare dedicato alla Misericordia, offriremo ai cittadini chiamati alle urne una cultura governo capace di promuovere lo sviluppo attraverso l’inclusione sociale di coloro che oggi sono esclusi dal mondo del lavoro, dell’impresa e della rappresentanza, rimettendo le nostre città al loro servizio e mai viceversa.
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26 Dicembre 2015
di Massimiliano Brambilla
Un passo indietro per i comuni e due per i cittadini: la Stabilità è un gambero C’era una volta un giovane sindaco che diceva che il futuro sarebbe ripartito dalle città. Che diceva che i Comuni fossero “l’unico punto di partenza oggi per tornare a far credere agli italiani che il futuro possa non essere una minaccia. ….. e che l’autonomia ai comuni non sia un fatto semplicemente tecnico [1]”. E che l’Italia dei sindaci sarebbe dovuta diventare un nuovo modello di governance a livello nazionale, simbolo di un rapporto diretto tra elettori ed eletti fatto di controlli e responsabilità. Quel giovane sindaco ha fatto carriera velocemente. Ha saputo bruciare le tappe ed oggi siede a Palazzo Chigi. E sembra avere cambiato idea sull’importanza dell’autonomia delle città. Lo ha dimostrato con la sua prima Legge di Stabilità, all’insegna dei tagli agli Enti Locali, 8,1 miliardi di cui 1,2 miliardi a carico dei Comuni e un 1 miliardo (che diventeranno 2 nel 2016 e 3 nel 2017) a carico di Città Metropolitane e Province a cui si sommano i contributi di 375 milioni di Euro richiesti nel 2014 ai Comuni con uno dei primi atti del suo Governo (il DL 66/2014), che diventano 563 milioni per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017. Lo hanno confermato i continui slittamenti dell’emanazione del Decreto Enti Locali che hanno messo in forte difficoltà i Comuni che, a causa dell’incertezza sulle risorse finanziarie disponibili a valere sul fondo di solidarietà comunale 2015, sono 214
stati costretti a prolungare a dismisura l’esercizio provvisorio di bilancio, con impatti sulla capacità dei sindaci di operare una corretta programmazione dei flussi finanziari determinando un pesante ritardo nella determinazione delle aliquote dei tributi locali e delle tariffe dei servizi pubblici. La ciliegina sulla torta è venuta con la Legge di Stabilità 2016. Salutata da Fassino, presidente di un’ANCI schiacciata sulle posizioni dell’esecutivo come mai successo nel passato, come la prima che non opera tagli a carico dei Comuni, la seconda Legge di Stabilità dell’era di Renzi costituisce un salto indietro senza pari in merito all’autonomia finanziaria dei Comuni. A partire dall’abolizione dell’IMU e della TASI sulla prima casa che, tramite il meccanismo di compensazione del mancato gettito per i Comuni sulla base di un Fondo di Solidarietà Comunale, non fa altro che cristallizzare la situazione attuale a beneficio dei Comuni meno virtuosi che, invece di aumentare la pressione fiscale sui propri cittadini, hanno lavorato sul contenimento della spesa corrente, al congelamento delle aliquote dei tributi comunali per il 2016 che rischia di porre le basi per un aumento dell’imposizione sulle seconde case, a discapito di contribuenti che, non essendo residenti, non dispongono dello strumento elettorale per sanzionare chi aumenta la pressione fiscale per coprire scarsa disciplina gestionale, la Legge di Stabilita 2016 fa venire meno il principio dell’autonomia impositiva degli enti locali, che data al lontano 1865 con la Legge Minghetti. Per non parlare del blocco del turnover del personale limitato al 25% dei risparmi ottenuti l’anno precedente, dell’irragionevole obiettivo di risparmio del 50% della spesa informatica, vera e propra pietra tombale su ogni progetto di digitalizzazione degli enti locali (ma che però non vale per l’Inps, l’Agenzia delle entrate, la Sogei, la Consip e l’amministrazione della Giustizia, perchè la legge non è uguale per tutti), dello stop agli aumenti delle aliquote IMU-TASI adottate dai Comuni dopo il 30 Luglio 2015, che colpisce i Comuni penalizzati dal ritardo del Decreto Enti Locali. E l’assenza di soluzioni per sbloccare i crediti che i Comuni vantano nei confronti degli uffici giudiziari che ammontano a oltre 700 milioni di Euro e, nonostante gli entusiasmi del ministro Galletti sugli accordi di COP21, l’amnesia sul tema delle risorse necessarie per la mobilità sostenibile e per l’introduzione di tecnologie a basso impatto ambientale per la mobilità urbana. Noi ci sentiamo d’accordo con quello che diceva quel rampante sindaco di Firenze. Il futuro passa dalle città e, noi di Italia Unica, ne siamo così convinti che è dalle città – Milano in primis con la candidatura di Corrado Passera – ma anche dagli altri Comuni grandi e piccoli del nostro Paese, che intendiamo applicare la diversità del nostro modo di fare politica, fatto di pochi proclami e di tanta concretezza. La strada però non è di limitare l’autonomia dei Comuni, ma al contrario di responsabilizzare i rappresentanti dei cittadini a livello locale per quanto riguarda la razionale gestione delle risorse pubbliche e l’efficace erogazione di servizi. Ed il passo indietro imposto ai Comuni da questa Legge di Stabilità non ci piace perchè fa venire meno il ruolo dei cittadini come primi controllori di come gli amministratori locali spendono i soldi dei contribuenti. Alimentando il circolo vizioso dell’irresponsabilità. 215
30 Dicembre 2015
di Massimo Brambilla
2015, le cinque grandi occasioni perse da Renzi
Fine anno e tempo di bilanci. Ecco il punto sul 2015 per analizzare e spiegare quante e quali occasioni sono state perse nel secondo anno di governo
I tassi scendono, gli investimenti non crescono Un anno fa ricordavamo come i tassi d’interesse, il cambio dollaro/euro ed il prezzo del petrolio fossero tre occasioni da non sprecare per riportare l’economia su un sentiero di crescita sostenibile per mezzo di un programma di investimenti produttivi sulle infrastrutture chiave per la competitività del Sistema Paese. Una misura doverosa non solo in ragione dell’urgenza di colmare il disavanzo di produttività del nostro sistema manifatturiero e dei servizi, che fa si che il nostro Paese cresca meno degli altri nelle fasi di espansione dell’economia (come per esempio appunto nel corso del 2015 in cui a fronte di una crescita prevista del PIL nella UE pari all’1,9% e nell’Eurozona dell’1,6%, l’Italia si fermerà allo 0,8%) e decresca di più nelle fasi recessive, ma anche per trasmettere 216
all’economia reale gli effetti finanziari del quantitative easing della Banca Centrale Europea. I fatti hanno dimostrato che il nostro auspicio è caduto nel vuoto: la nota di aggiornamento al DEF ha confermato che l’incidenza degli investimenti fissi sul PIL è prevista rimanere agganciata al 2,3%, in linea con gli anni precedenti con addirittura la previsione di un ulteriore decremento a partire dal 2018 con il ritorno al minimo storico del 2,2%. La timidezza sul fronte degli investimenti pubblici ha di fatto inibito anche la componente privata, prevista in crescita di un modesto 1,2% nel 2015, dopo il calo del 3,3% nel 2014. A questo riguardo la Legge di Stabilità 2016 si muove nella perfetta continuità di una politica fatta di spesa corrente a base di erogazioni elettoralistiche a pioggia finanziate da deficit, senza alcuna focalizzazione sugli investimenti o sforzo sul fronte del taglio della spesa pubblica improduttiva o per disinnescare le clausole di salvaguardia che rischiano, tra poco più di dodici mesi, di porre una definitiva pietra tombale sui consumi interni
La chimera della liberalizzazioni Un’altra occasione persa è quella relativa alla liberalizzazione del settore dei servizi. Nel Febbraio del 2015 lamentavamo l’inadeguatezza del DDL sulla concorrenza, figlio di un esecutivo prigioniero delle lobby e privo di coraggio. Ebbene, sono passati 10 mesi e quel DDL non è stato ancora convertito in legge ed le liberalizzazioni sono ancora una lontana chimera.
L’occupazione perduta E che dire della terza grande occasione persa, vale a dire il taglio della tassazione sulle imprese come leva per attirare investitori nel nostro Paese e stimolare l’occupazione, da finanziare con i tanti miliardi all’anno (quasi 10) che costa l’inutile Jobs Act che ha creato solo 84.000 posti di lavoro nel periodo tra Dicembre 2014 ed Ottobre 2015 (un misero + 0,3%) senza scalfire la massa degli inattivi (che anzi sono aumentati nello stesso periodo di 39.000 unità)? La conseguenza è che il calo del tasso di disoccupazione, che il nostro premier non mancherà di celebrare come un grande successo, è unicamente figlio dell’aumento degli scoraggiati e dei pensionati, tant’è che il tasso di inattività dei giovani dai 15 ai 24 anni è cresciuto dal 73,9% al 74,1%. Anche la presunta stabilizzazione dei lavoratori rientra purtroppo nella categoria dei fallimenti epici, con i posti di lavoro permanenti passati da 14,525 milioni a 14,527 con un incremento di sole 2.000 unità (a fronte di un aumento di 178.000 unità dei contratti a termine).
Le povertà ignorate La quarta grande occasione persa è relativa alla lotta alla povertà con quasi il 30% di connazionali a rischio povertà o di esclusione sociale a cui il Governo non ha saputo fare fronte, salvo l’insufficiente stanziamento di 700 milioni di Euro all’anno contenuto nella Legge di Stabilità 2016, che impallidisce di fronte ai 10 miliardi all’anno che costano gli 80 Euro. 217
Le amnesie sulle banche Ed infine la quinta amnesia è quella relativa alle banche. Serve a poco accusare la Germania di avere aiutato nel passato le proprie banche se si è, per convenienza o indifferenza, ignorata troppo a lungo la situazione in cui versavano i quattro istituti oggetto del Decreto Salva Banche (nonchè quella di Veneto Banca e della Popolare di Vicenza che non è certamente migliore). Il tempo per intervenire c’è stato e se alla fine si è fatto pagare il salvataggio ai risparmiatori ed alle banche sane, gli unici colpevoli vanno cercati in quei rapporti tra politica e credito che l’esecutivo non ha combattuto ma anzi favorito. Il 2015 passerà alla storia come un anno di straordinarie condizioni esogene positive. Condizioni che il Governo Renzi non ha saputo sfruttare e che difficilmente si ripeteranno. E che il Paese rischia di rimpiangere a lungo.
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19 Gennaio 2016
di Lelio Alfonso
CyberCarrai, l’insostenibile leggerezza del governo La sicurezza è uno dei temi più delicati che i governi si trovano ad affrontare in questa fase nuova della convivenza globale. I ripetuti attacchi terroristici dei fondamentalisti islamici, tanto feroci quanto abili nell’utilizzo delle tecnologie, allarmano per imprevedibilità e network digitale in grado di infiltrarsi anche negli angoli più sicuri delle nostre città. Parallelamente le attività degli hacker, i crimini informatici in continuo aumento, la tutela dei dati sensibili e la necessità di integrare e far dialogare i linguaggi binari delle varie polizie, richiede una sempre maggiore specializzazione e sangue freddo nella gestione di profilazioni e notizie di grande delicatezza, in grado di sconvolgere l’assetto democratico di intere nazioni. Non è dunque affatto sbagliato che anche il nostro Governo si attivi su questo fronte e, sia pure in ritardo, approvi – come ha fatto il premier Renzi nei mesi scorsi – una direttiva nella quale si stabiliscono impegni e percorsi di queste attività di tutela e informazione. Altrettanto naturale che vi sia anche una sorta di “riservatezza doppia” su questo fronte, con la nascita di una sorta di “controspionaggio informatico” dipendente da palazzo Chigi, tradizionale cabina di regìa delle attività di informazione. E fin qui tutto bene, anche se di fronte alle decantate voci di accorpamentodelle forze di polizia un più saggio equilibrio tra chiusure e aperture andrebbe considerato. Ciò che invece sconcerta e preoccupa 219
è la leggerezza con cui, a seguire queste attività di cybersecurity verrebbe chiamata, con un incarico ancora non chiarito, ma comunque non smentito, una figura di stretta osservanza renziana come Marco Carrai. Non è la mancanza di laurea o il curriculum assolutamente inadeguato per una responsabilità così delicata e dalla quale passano appunto le sorti di un Paese, ma la leggerezza che evidentemente è diventata tratto caratteristico dell’agire governativo, con la superficiale convinzione che si possa nominare chiunque, foss’anche un vigile urbano a capo del legislativo presidenziale, per seguire i dossier più riservati e imbarazzanti. Nulla di personale contro Marco Carrai. Non siamo tra coloro che – a proposito di spionaggio – frugano tra i ricordi personali o le amicizie da tenere strette. Ma nessuno può difendere una possibile nomina come questa da un giudizio fortemente critico, specie quando si parla di servizi informativi e di uffici che in altri Paesi sono stati affidati – e giustamente – ad autentiche autorità in materia. Il ricordo personale va ad Enrico Micheli, un signore della politica, quando ammoniva – proprio dalla sua sedia di Sottosegretario ai Servizi – verso il fascino del potere, soprattutto laddove si hanno responsabilità che possono incidere sulle vitedegli altri. Tempi passati? Forse, ma forse anche no.
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26 Gennaio 2016
di Massimo Brambilla
Sulle banche la nave affonda e il comandante twitta Ci sarebbe da stupirsi della leggerezza delle prese di posizione da parte di Renzi e Padoan relativamente ai continui e prolungati crolli dei prezzi delle azioni delle banche italiane. Se l’ineffabile duo che regge nelle proprie mani il futuro dell’economia nazionale non avesse già dato prova in molteplici occasioni di una totale disconnessione dalla realtà, sarebbe naturale essere sconcertati da come il Governo Italiano dimostri una sostanziale indifferenza nei confronti della valutazione da parte degli investitori in merito alla solidità del nostro sistema creditizio. Uno stupore che sarebbe ben più che giustificato da una serie di considerazioni che dimostrano quanto il nostro Esecutivo si dovrebbe sentire chiamato in causa da quanto sta avvenendo quotidianamente sui mercati:
1.
Una delle principali motivazioni sottostanti al calo dei prezzi è relativa alla preoccupazione sull’ammontare di crediti in sofferenza in carico alle nostre banche. Una montagna pari a circa 200 miliardi di Euro (più o meno il 10% del PIL) che frena la capacità delle banche di finanziare il nostro sistema imprenditoriale. 200 miliardi che, al netto degli accantonamenti già appostati nel bilancio delle nostre banche, ammontano a circa 80 miliardi, una cifra che, miliardo più, miliardo meno, equivale all’indebitamento della Pubblica Amministrazione nei confronti delle imprese. La domanda sorge spontanea: se la Pubblica Amministrazione avesse sbloccato i pagamenti nei confronti dei propri fornitori (magari seguendo le raccomandazioni di Italia Unica basate su quanto fatto con successo in Spagna) forse le imprese italiane sarebbero state in grado di ripagare i propri debito nei confronti delle banche, riducendo le sofferenze e rendendo queste ultime meno vulnerabili nei confronti della speculazione?
2.
La situazione delle banche è ulteriormente aggravata dal sempre più probabile scenario di aumento dello spread tra BTP e Bund e dal conseguente calo dei prezzi di titoli di stato italiani, di cui i bilanci delle nostre banche sono carichi. A questo riguardo, vale la pena di imbarcarsi ora in una polemica con la Commissione Europea sui margini di flessibilità da concedere al nostro Paese? Non perché Bruxelles sia senza colpe, anzi l’ostinata ed ottusa difesa della dottrina dell’austerità di bilancio nel corso degli ultimi anni ha certamente reso più acuto l’impatto della crisi finanziaria sull’economia degli stati membri, ma perché il nostro Paese è reduce da una Legge di Stabilità fatta di nuovo deficit e nessun taglio di spesa pubblica improduttiva, non per finanziare investimenti fissi ma spesa pubblica improduttiva e regalie elettorali (dai famosi 80 Euro alla mancia ai diciottenni), aggravata da continui proclami su possibili provvedimenti sul nostro sistema pensionistico, anch’essi con un impatto esiziale sulla sostenibilità delle finanze pubbliche. I mercati se ne sono accorti ed ogni volta che il nostro Governo chiede flessibilità, questo viene tradotto in nuovi sprechi in arrivo. Aumentando la preoccupazione sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, il che si traduce in un aumento dei rendimenti e in una riduzione del prezzo dei titoli di stato. Con diminuzione della redditività attesa 221
delle nsotre banche e conseguente pressione sui loro valori di Borsa.
3. Certamente lo scenario macro-economico globale è meno roseo di quanto appariva un anno fa. Il rallentamento della crescita cinese, il calo dei prezzi delle materie prime che pesa sulle economie emergenti (dalla Russia al Brasile), il graduale rialzo dei tassi d’interesse USA fanno presagire un rallentamento della crescita globale. E storicamente il nostro Paese soffre di più i rallentamenti del quadro economico globale, in ragione del grave gap in termini di produttività dei fattori della produzione rispetto ai nostri partner. E questo i mercati lo sanno, e pesa sulle aspettative dell’andamento delle nostre imprese, che a loro volta impattano sulla valutazione della banche. Invece di perdere 12 mesi twittando #italiariparte, non sarebbe stato più sensato trarre vantaggio delle straordinarie ed irripetibili condizioni esogene per fare quegli investimenti necessari a colmare, almeno in parte, questo gap e rendere la nave della nostra economia più resistente rispetto alle tempeste provenienti da fuori?
4. Casualmente le banche più punite dal mercato sono quelle in cui il rapporto tra politica e finanza locale era più incestuoso. Da MPS a Carige, per troppo tempo la sinistra italiana ha fatto finta di niente, approvando nel contempo la normativa europea sul bail-in (forse senza capirla fino in fondo) con il risultato di lasciare il cerino nelle mani dei correntisti. Tutto questo, insieme con il pasticcio del Decreto Salva Banche e la difficile situazione della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, non fa altro che aumentare la percezione di rischio sistemico relativamente al sistema creditizio italiano. Non sarebbe stato sensato rescindere i suddetti legami fino a che si era in tempo? Ci sarebbe da stupirsi nei confronti delle amnesie di Renzi e Padoan sulle gravi responsabilità del Governo sulla crisi del nostro sistema bancario. Ma purtroppo 2 anni di irresponsabilità in termini di politica economica dimostrano che non ci si deve stupire di nulla. La nave affonda e il comandante twitta. E i risparmiatori rimangono senza scialuppe.
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26 Gennaio 2016
di Riccardo Puglisi e Massimo Brambilla
Il chiaroscuro dei nostri conti pubblici Bassi rischi nel breve e nel lungo termine, problemi nel medio Dopo la pubblicazione del Fiscal Sustainability Report da parte della Commissione Europea il presidente del Consiglio Matteo Renzi dovrebbe innanzi tutto ringraziare le passate riforme del nostro sistema pensionistico per avere messo in sicurezza i nostri conti pubblici nel lungo termine. Questo è il messaggio principale che si può ricavare dalla lettura della parte del rapporto dedicata all’Italia (qui da pagina 126): la Commissione reputa bassi i rischi di tenuta dei nostri conti pubblici nel lungo termine, cioè dal 2026 in avanti, e formula un giudizio simile per il breve termine, cioè per l’anno in scorso. Tuttavia, l’analisi sull’Italia è fatta di chiaroscuri, in quanto i rischi nel medio termine -cioè dal 2017 al 2026- sono ritenuti elevati. Come in tutte le questioni economiche siamo nel regno dell’incertezza, ma è comunque possibile formulare delle previsioni probabilistiche sull’andamento del nostro debito pubblico in rapporto al PIL andando ad analizzare gli effetti su di esso di variabili cruciali come il tasso di crescita del reddito reale, il tasso di inflazione e i tassi di interesse. In termini semplici, è questa la logica dell’esercizio compiuto dalla Direzione per gli Affari Economici e Sociali presso la Commissione: il nostro principale elemento di debolezza sta nell’elevato livello di debito pubblico, insieme con un tasso di crescita striminzito: è tanto più difficile ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL quanto più lenta –o assente- la crescita di quest’ultimo, cioè del denominatore. Dal lato dei conti pubblici per se stessi (il numeratore) un avanzo primario sostenuto -cioè una differenza ampia tra entrate e uscite diverse dal pagamento degli interessi- è ritenuto cruciale per ottenere 223
un abbassamento sensibile del rapporto debito/PIL. Questo peraltro va a influenzare la capacità di porre in atto politiche fiscali espansive, ancora più urgenti di fronte ad uno scenario di rallentamento della crescita economica globale. I nostri conti pubblici nel lungo termine beneficiano di un profilo di sostenibilità elevato esattamente a motivo delle due riforme delle pensioni principali, cioè la cosiddetta riforma Dini del 1995 e la riforma Monti-Fornero del 2011, le quali hanno allungato l’età pensionabile in proporzione all’aumento della speranza di vita e sostituendo l’insostenibile calcolo retributivo delle pensioni con il calcolo contributivo, pur mantenendo un sistema “senza tesoretto”, cioè con pensioni annualmente pagate dai contributi dei lavoratori attivi. Sotto questo profilo rinnoviamo il nostro sospiro di sollievo per il fatto che il governo Renzi non abbia preso la strada dei prepensionamenti all’interno dell’ultima Legge di Stabilità: contemporaneamente restiamo preoccupati per le spinte –provenienti sia dall’ala sindacale del PD (niente di strano) che dal presidente dell’INPS (qui un po’ ci stupiamo)- finalizzate a reintrodurre forme insostenibili di prepensionamenti durante l’anno in corso. Ancora: troviamo piuttosto sgradevole la “doppiezza renziana” per cui si loda la riforma Monti-Fornero nei documenti ufficiali (ad esempio il DEF) e nel contempo la si tratta con sufficienza o disprezzo nelle apparizioni televisive. Tuttavia, il governo Renzi non dovrebbe dimenticare che la rendita a favore dei conti pubblici che deriva dalle passate riforme agisce soprattutto nel lungo termine, mentre nel medio termine i rischi restano elevati, soprattutto se il processo di efficientamento e riduzione della spesa pubblica verrà ancora rimandato, così come ampiamente dimostrato dalle infelici dipartite dei commissari alla spending review Cottarelli e Perotti. Ed ancora di più se il Governo continua a limitare la propria politica economica su interventi di sapore elettoralistico, a base di spesa corrente, trascurando da un lato gli investimenti fissi, fondamentali per contrastare l’apparantemente inesorabile declino della competitività del nostro sistema economico, che mina alle basi la capacità della nostra economia di approfittare delle fasi economiche espansive e di fare fronte a quelle recessive e, dall’altro, l’urgenza di veri interventi a contrasto delle povertà, vecchie e nuove, che mettono a repentaglio il senso di coesione della società italiana. In questo senso l’incapacità di approfittare delle straordinarie opportunità offerte dall’eccesso di liquidità sui mercati rende ancora più colpevole l’attuale esecutivo. Infine, le ultime uscite del presidente del Consiglio durante questo nuovo anno – dettate da motivi politici interni, ad esempio l’esigenza di distrarre l’opinione pubblica dalle amnesie e dalle ambiguità in merito alla gestione delle crisi bancarie- lasciano presagire un approccio anche peggiore, all’insegna di un antieuropeismo autolesionista: non badare per nulla ai moniti della Commissione Europea perché “loro” sono amici dell’austerità e nostri nemici. Dimenticando che ogni Paese è in larga parte il fabbro della propria sostenibilità economica, cioè della propria fortuna.
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2 Febbraio 2016
di Marco Marazza
Le riforme del lavoro inefficienti per la crescita dell’occupazione Il 2015 è passato e si possono tirare le somme sull’andamento dell’occupazione: le riforme del lavoro sono state inefficienti. A fronte di un impegno di spesa di oltre 15 miliardi di euro destinati allo sgravio contributivo di 36 mesi per i nuovi assunti nell’anno appena passato (di cui sono ancora bene da individuare le coperture) abbiamo un incremento di occupazione rispetto al dicembre 2014 di sole 109.000 unità. In sostanza per lo Stato, cioè per noi tutti, ogni occupato in più rispetto al dicembre 2014 è costato la non trascurabile somma di euro 137.614,67 (in 36 comode rate). Una somma esorbitante. Destinata ad una giusta causa, ma spesa male. Un mercato del lavoro che non decolla nonostante un intervento di spesa pubblica senza precedenti dovrebbe (oltre che allarmare i più liberali) fare riflettere tutti. In primo luogo i tanti cittadini che, pur dovendo contribuire con le loro tasse a questa spesa, non ne hanno avuto alcun vantaggio. Penso non solo ai lavoratori già occupati o a coloro che sono rimasti disoccupati, ma anche agli imprenditori che nel 2015 già erano in attività ed hanno dovuto difendere le loro aziende (e i loro lavoratori) dalla concorrenza di nuove imprese nate (quasi esclusivamente) sulla scia degli sgravi contributivi del governo Renzi e della flessibilità del lavoro che le riforme hanno destinato solo ai nuovi assunti. Poi, è naturale che riflettano anche coloro che grazie agli incentivi sono stati assunti a tempo indeterminato ma sono giustamente molto preoccupati della sorte che li toccherà quando, finiti i tre anni di incentivi, potranno essere licenziati ad un costo inferiore ai benefici dello sgravio. Infine, è giusto che riflettano tutti coloro (penso in primo luogo agli imprenditori) che temono di dover mettere mano al portafoglio per coprire la mostruosa cifra di 15 miliardi necessaria a finanziare tutto questo se, come pare, le coperture non sono ancora certe. 225
9 Febbraio 2016
di Massimo Brambilla
Non possiamo permetterci una nuova recessione, governo e UE si muovano “Chi non conosce la storia è destinato a ripeterla” scriveva George Santayana nel suo “la Vita della ragione”. Una massima applicabile a molti contesti, inclusa la politica economica. Da più di un anno ammoniamo il Governo Renzi e gli altri Governi Europei a non sedersi sugli allori delle politiche monetarie espansive poste in atto dalla BCE per non trovarsi a rivivere le tensioni dei mercati già viste nel 2007 e nel 2011. Un ammonimento che non nasce da capacità di preveggenza ma semplicemente osservando le dinamiche della storia. Le grandi crisi finanziare del passato hanno tratto le proprie origini in fasi, più o meno lunghe, di espansione monetaria, che hanno generato fenomeni di “esuberanza irrazionale” dei mercati. Questo avviene perchè le politiche monetarie espansive devono essere sempre accompagnate da piani di investimenti pubblici sulle infrastrutture strategiche, in grado non solo di porre le basi per una crescita economica di lungo termine ma di fare sentire gli effetti della leva monetaria sull’economie reale. In caso contrario, l’eccesso di moneta va a gonfiare il prezzo degli asset, finanziari o immobiliari, generando pericolose bolle speculative che richiano di esplodere da un momento all’altro, qualora fattori esogeni creino crisi di fiducia negli investitori. Esattamente quanto sta succedendo in queste settimane in cui il rallentamento delle economie emergenti e la continua stagnazione dell’economia europea unite al brusco calo dei prezzi delle materie prime, figlio anche delle dinamiche geopolitiche globali con la fine dell’imbargo sull’Iran e delle modifiche strutturali intervenute nelle dinamiche 226
produttive del settore energetico, hanno riportato sui mercati finanziari tensioni che non si vedevano dal 2011. Questo è ancora più pericoloso per un paese come il nostro, fiaccato da una quindicinale stagnazione che trova le motivazioni più profonde nel deterioramento della produttività dei fattori produttivi della nostra economia e particolarmente soggetto alle fluttuazioni sui mercati non solo in ragione del massiccio stock di debito pubblico, che moltiplica esponenzialmente gli effetti sulle finanze statali delle fluttuazioni sui tassi d’interesse, ma anche perchè, appunto a causa delle problematiche strutturali del nostro sistema economico, non riesce a tradurre il basso costo dell’energia in un vantaggio competitivo. Questo avviene perchè, a causa della forte incidenza della componente fiscale sull’energia, paradossalmente:
a.
il calo del barile può spingere la delocalizzazione produttiva verso contesti in cui l’onere della tassazione è meno forte ed in cui si ha il beneficio pieno derivante da un probabile scenario di prezzi bassi sul medio termine.;
b.
per quanto riguarda l’impatto sui consumi anche questo si trova ad essere limitato dalla componente fiscale;
c. relativamente all’export uno scenario prolungato di bassi costi del petrolio rischia di frenare le nostre esportazioni verso i paesi produttori;
d. tutto questo viene reso più grave dalla permanenza di fenomeni deflattivi che rendono più pesante il servizio del debito rispetto a quanto potrebbe avvenire in presenza di un tasso di inflazione allineato agli obiettivi della BCE che, espandendo la crescita del PIL nominale, genererebbe maggiori introiti con cui ripagare il debito pubblico, utile anche per alleggerire lo stock di non performing loans che pesano sui bilanci delle banche. Il nostro paese in primis, e l’Unione Europea nel suo complesso, non si può permettere una nuova recessione. In primo luogo perchè avverrebbe nel momento in cui la BCE sta per esaurire le munizioni possibili per porre in atto politiche anti-cicliche ma anche perchè si accompagnerebbe con la crisi di credibilità delle istituzioni europee, generata anche dall’incapacità di porre freno all’emergenza migranti. Ci sentiamo pertanto di fare un nuovo e definitivo appello affinchè:
1. L’Unione Europea ponga in essere fin da subito un grande progetto di investimenti su scala continentale da finanziare tramite emissioni di obbligazioni da parte della BEI, le quali, in ragione dell’elevato rating, consentono di finanziarsi sul mercato a rendimenti ancora molto contenuti (dinamica che sembra rafforzarsi in ragione degli investitori che abbandonano in questi giorni gli asset più rischiosi in favore di quelli che sono percepiti più stabili)
2.
Si trovi un’immediata risoluzione all’emergenza migranti tramite rafforzamento del presidio dei confini esterni dell’Unione ed una combinazione di interventi umanitari, diplomatici e militari nei paesi di provenienenza che evitino la chiusura delle frontiere interne in violazione degli accordi di Schengen che, aumentando il costo della logistica, .determinerebbe un calo del PIL continentale in misura stimata pari allo 0,5%. Si accelerino i negoziati relativi al TTIP per compensare le minori esportazioni verso i Paesi emergenti con un aumento dei flussi verso il Nord America. 227
Il nostro governo proceda ad un immediato taglio della tassazione sulle imprese da finanziarsi tramite un taglio delle spesa corrente non pensionistica ed il progressivo abbandonamento degli inefficaci provvedimenti del Jobs Act, evitando però effetti retroattivi che aumenterebbero il livello di incertezza per gli investitori internazionali.
3. Si accelerino i negoziati relativi al TTIP per compensare le minori esportazioni verso i Paesi emergenti con un aumento dei flussi verso il Nord America.
4.
Il nostro governo proceda ad un immediato taglio della tassazione sulle imprese da finanziarsi tramite un taglio delle spesa corrente non pensionistica ed il progressivo abbandonamento degli inefficaci provvedimenti del Jobs Act, evitando però effetti retroattivi che aumenterebbero il livello di incertezza per gli investitori internazionali.
5.
Si proceda ad un taglio delle accise sui carburanti, per ribaltare il minore costo dell’energia sui consumi, finanziando il provvedimento con i risparmi per il bilancio dello stato derivanti dai minori costi di approvvigionamento di materie prime
6.
Si avvii un programma di investimenti fissi nazionali sia sulle infrastrutture digitali che sulla sostenibilità ambientale dei modelli di trasporto e riscaldamento in ambiente urbano, sia utilizzando le dotazioni dei fondi strutturali europei che valorizzando gli attivi pubblici potenziando la Cassa Depositi e Prestiti.
7. Si proceda con un immediato programma di liberalizzazioni dei servizi. È inaccettabile che il disegno di legge concorrenza sieda in Parlamento da quasi un anno, prigioniero delle lobby. Quanto sta avvenendo sui mercati rischia di essere l’inizio di una nuova tempesta e le motivazioni sono nell’inerzia del nostro Governo e dell’Europa. È il momento di agire perché il tempo sta per scadere.
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12 Febbraio 2016
di Massimo Brambilla e Riccardo Puglisi
Renzi esca dalle slide e guardi in faccia la realtà Egregio Presidente Matteo Renzi, il nostro sospetto è che Lei abbia sottovalutato le difficoltà che sono inerenti al ruolo di Presidente del Consiglio: nelle Sue scelte di politica economica e finanza pubblica ci sembra che abbia creduto troppo –ingannando se stesso e soprattutto i cittadini italianiche bastino gli annunci entusiastici e le riforme appena abbozzate perché il Paese ricominci a crescere in maniera sostenuta. “Non si ferma il vento con le mani”: citando con enfasi Seneca questo fu il Suo slogan durante la Leopolda del 2011. Ci spiace ma la versione giusta per descrivere la Sua esperienza alla Presidenza del Consiglio è un’altra: “non si ferma la realtà con le slide”. La realtà che le slide da Lei tanto amate non possono fermare è quella raccontata oggi dall’ISTAT, secondo cui il tasso di crescita del PIL per il 2015 è dello 0,6% e non dello 0,9% come scritto nella Nota d’Aggiornamento al DEF nel settembre dello scorso anno, 229
rivedendo al rialzo dello 0,2% il dato –molto più realistico, con il senno di poi- dello 0,7% che era stato previsto a primavera all’interno del DEF. Egregio Presidente, non si scherza con i conti pubblici e con le previsioni sull’economia, soprattutto se le revisioni al rialzo della crescita del PIL servono all’unico scopo di migliorare la stima del deficit per il 2015 e il 2016 (prima della Legge di Stabilità) e dunque rivendicare lo spazio per fare una manovra che questo deficit lo aumenta: per il 2016 dallo 1,4% al 2,2% con lo scopo di perseguire con una politica fatta di spesa corrente che finanzia erogazioni elettoralistiche Non si ferma la realtà con le slide: il pericolo di raccontare e raccontarsi una storia irrealistica per lasciare ancora lo spazio a politiche della Prima Repubblica basate sul deficit è che prima o poi la realtà bussa alla porta nella forma dei dati ufficiali e aumenta ulteriormente l’incertezza di cittadini e imprese, che hanno sempre meno voglia di fidarsi degli annunci del governo, e di quelle “sorti magnifiche e progressive” che purtroppo non vediamo. L’Italia continua ad essere un Paese con un grave gap di produttività rispetto al resto dell’Europa che si traduce in una incapacità strutturale di crescere al ritmo degli altri Paesi durante le fasi congiunturali positive (e la sotto-performance nel corso del 2015 tristemente lo dimostra) e che soffre più degli altri le recessioni (ancora di più se accompagnate da una deflazione che rende ancora più oneroso il servizio dell’elevato livello del nostro indebitamento pubblico). Ed il Suo Governo non ha fatto nulla per combattere questo pesante vincolo alla nostra economia, se, come anche la suddetta Nota di Aggiornamento sottolinea a pagina 24, l’impatto programmatico complessivo delle Sue riforme sul PIL è stimato pari ad un anemico +0,1% nel corso del 2016. Il tutto prima che si attivino gli aumenti di IVA ed accise di cui alle clausole di salvaguardia che il Suo Governo ha saputo solo posticipare, con probabili ulteriori effetti gravemente deleteri sull’incertezza che soffrono da troppo tempo gli Italiani. Egregio Presidente, purtroppo il quadro fosco non finisce qui: il Suo capitale politico a livello europeo è stato a nostro parere sprecato per ottenere margini di flessibilità sulla creazione di deficit aggiuntivo e, soprattutto, per distrarre l’opinione pubblica dal fallimento evidente della politica economica del Suo esecutivo. Con lo scontro che ha ingaggiato con il presidente della Commissione EU negli ultimi giorni Lei ha colpevolmente deciso di barattare un potenziale asse diplomatico con l’unico interlocutore istituzionale pronto ad essere un importante alleato del nostro Paese per l’esclusione delle spese legate all’emergenza migranti dal patto di Stabilità in cambio di qualche punto in più di gradimento nei sondaggi nazionali. Grazie a questo Suo azzardo Lei ha annullato anche i possibili margini di trattativa del nostro Paese sul tema scottante dei crediti incagliati e delle banche in dissesto. Ora gli spazi si restringono ancora di più, perché l’economia va peggio di quanto previsto nei documenti di bilancio del Governo. A nostro parere la strada giusta è un’altra, e si basa sulla revisione decisa della spesa pubblica corrente per lasciare spazio a investimenti pubblici sulle infrastrutture strategiche e privati e per combattere l’emergenza ecologica che vivono i grandi centri urbani e su una riduzione robusta e permanente della tassazione sulle imprese e a vantaggio delle famiglie che hanno e vogliono fare bambini. Italia Unica 230
da sempre propone investimenti di almeno 15 miliardi di euro in credito imposta per la ricerca e l’innovazione e investimenti in in infrastrutture tradizionali che innovative, come la banda larga mentre il governo ha addirittura ridotto la spesa in informatica della PA. Qualche giorno fa, su questo sito, abbiamo lanciato un appello in 7 punti su quello che servirebbe per evitare che l’Italia si ritrovi tra qualche mese in una recessione che non possiamo permetterci. Da ormai due anni Italia Unica e Corrado Passera invocano e propongono un grande e coraggioso piano di investimenti per tornare a crescere come l’Italia merita. Di fronte ai dati macro-economici di oggi ci sentiamo di ribadirle quegli appelli e queste proposte con forza e convinzione. Egregio Presidente, esca dalle slide e guardi in faccia la realtà.
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23 Febbraio 2016
di Massimo Brambilla
Le spese nascoste del governo
Mai sprecare un anniversario. È un’occasione per guardarsi indietro e fare un bilancio onesto su come è stato messo a frutto il tempo che ci è stato concesso. Nella vita come in politica. Nel giorno del secondo anniversario del governo Renzi, il premier, invece di perdersi in autocelebrazioni, dovrebbe domandarsi onestamente se il suo esecutivo, sesto per durata nella storia repubblicana, abbia ben utilizzato il tempo che gli è stato concesso per realmente incidere sulla capacità del nostro Paese di affrontare le sfide dei prossimi anni. A partire dall’economia. Due anni caratterizzati da un’irripetibile coincidenza di fattori esterni positivi – tassi d’interesse, costo del petrolio e cambio euro/dollaro – avrebbero dovuto essere caratterizzati da una serie di riforme volte ad incidere sulla produttività della nostra economia. Gli ultimi venti anni sono stati caratterizzati da un costante calo della produttività totale dei fattori produttivi, intesa come rapporto tra la produzione di beni e servizi da parte della nostra economia e i fattori della produzione utilizzati 232
(lavoro e capitale), calato dello 0,3% annuo tra il 1995 ed il 2014 (fonte: ISTAT – Misure di produttività – 3 agosto 2015). In sintesi, le nostre imprese, a parità di fattori della produzione, producono ogni anno un po’ meno rispetto all’anno precedente e pertanto perdono in termini di competitività rispetto a quelle di altri paesi. Per invertire questo trend, particolarmente pericoloso per un paese esportatore come il nostro, sarebbe necessario intervenire su quattro dimensioni: la formazione professionale, la dotazione infrastrutturale, i meccanismi di negoziazione contrattuale e il trasferimento delle competenze dalla ricerca universitaria alle imprese. Per quanto riguarda la prima dimensione serve un’immediata riforma della scuola secondaria, per allinearla alle richieste delle imprese, accompagnando questa riforma con misure di stimolo dell’apprendistato. La Buona Scuola è, a questo riguardo, il perfetto esempio dell’incapacità di questo governo di leggere la realtà: nessun intervento sul fronte della riforma della formazione professionale e misure sul fronte dell’alternanza scuola – lavoro totalmente inefficaci e ben lontane dall’incentivare l’istituto dell’apprendistato (tant’è che il ricorso a questa tipologia contrattuale è calata del 20% nel corso del 2015). Apprendistato che, vale la pena di ricordare, è la tipologia privilegiata di ingresso nel mondo del lavoro nei paesi caratterizzati da un sistema della formazione professionale forte ed allineato ai bisogni delle imprese. Che dire della seconda dimensione, vale a dire gli investimenti sulla dotazione infrastrutturale? Anche qui il nulla assoluto. A fronte di un aumento della spesa corrente pari a 52 miliardi di euro nel corso del solo 2015 (+10%, come certificato dallo studio di Unimpresa, basato sui dati disponibili sul sito di Bankitalia), la spesa in conto capitale è calata di 11 miliardi di euro nel corso dell’anno (-20%), dimostrando la propensione dell’esecutivo di privilegiare obiettivi elettoralistici di breve termine (con provvedimenti dagli 80 euro alle lenzuolate di assunzioni nella pubblica amministrazione) ai fattori sui cui si basa la competitività del sistema Paese. Anche per quanto riguarda la negoziazione contrattuale, da spostare dal livello centralizzato a quello aziendale, più legato alla produttività, siamo quasi al nulla di fatto. È totalmente insufficiente quanto contenuto nella Legge di Stabilità in rapporto all’imposizione separata dei premi di produttività fino ad un massimo di 2.000 euro mentre per quanto riguarda la riforma della contrattazione, dietro i proclami di Poletti c’è il nulla. Il nulla è anche la cifra degli interventi sul fronte del trasferimento tecnologico. Nove anni non sono bastati per immaginare un dopo EXPO che, appunto sul tema del trasferimento tecnologico potrebbe trovare uno dei principali fili conduttori. Il tutto mentre gli altri paesi, dal Regno Unito, al Portogallo, dall’Austria alla Svezia adottano il modello Fraunhofer per importare il modello di dialogo tra ricerca universitaria ed impresa che costituisce uno dei fattori di successo dell’economia tedesca. 730 giorni di governo e una serie irripetibile di circostanze favorevoli propizie per invertire la dinamica dell’economia italiana sprecati in un fiume di slide, proclami e promesse non mantenute. Tempo che passa inesorabile, trascinando al ribasso la capacità delle nostre imprese di competere sui mercati globali e frenando gli investimenti produttivi nel Paese. Mentre Renzi festeggia.
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9 Marzo 2016
di Massimo Brambilla
A tutti sarĂ capitato di sentire il proprio nome scandito dagli altoparlanti di un aeroporto con un volo pronto a partire senza aspettarci. ChissĂ se il ministro Padoan prova la stessa sensazione di tempo che scorre inesorabile di fronte alla lettera ricevuta dal vice presidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis e dal Commissario agli Affari Monetari Pierre Moscovici. Dietro il solito linguaggio tecnocratico, la missiva contiene un semplice messaggio: la pazienza con il nostro Paese sta per finire e la prospettiva di finire sotto il giogo della procedura per deficit eccessivo si avvicina pericolosamente. Una prospettiva, che vorrebbe dire vanificare i sacrifici degli ultimi anni, e che condividiamo con la sola Bulgaria, come evidenziato dalla tavola successiva pubblicata sul sito della Commissione Europea.
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I fattori di preoccupazione della Commissione Europea sono quelli che denunciamo da mesi: eccessivo debito pubblico con una Legge di Stabilità che non ha fatto altro che creare nuovo deficit per finanziare interventi elettoralistici, bassa produttività dei fattori della produzione (che continua a calare ogni anno fin dal lontano 2000 nonostante la stagnazione dei redditi che pesa sulla dinamica dei consumi interni), lentezza nel trovare soluzioni sulla problematica delle sofferenze bancarie ed un elevato tasso di disoccupazione di lungo termine. E poi pochi progressi sul fronte delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, sul fronte della riforma degli strumenti di contrattazione collettiva, sulla spending review, sulla riforma fiscale e sulla lotta alla corruzione. In sintesi un quadro sconfortante per un Paese incatenato in un circolo vizioso fatto di alto debito, che non consente politiche fiscali espansive e bassa crescita che non consente di ottenere quella riduzione del rapporto debito/PIL che appunto costituirebbe il presupposto base per le suddette politiche. Il tutto reso più grave da uno scenario di deflazione persistente (basta vedere l’indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali, calato del 2,5% nel corso degli utlimi 12 mesi) che rende più oneroso il servizio dello stock di debito privato e da un rallentamento della domanda globale. Un quadro che, al di la dei tweet propandistici di Renzi, richiederebbe un’immediata svolta delle politiche economiche del governo nella direzione di un immediato taglio della spesa corrente non pensionistica per porre in essere un piano di investimenti infrastrutturali in grado di incidere sul livello di produttività delle nostre imprese. E liberalizzazioni che colpiscano le troppe corporazioni che questo Paese non si può più permettere, una vera riforma fiscale all’insegna della semplificazione e della certezza del diritto ed una rivoluzione della contrattazione che la sposti sul livello aziendale, per premiare la produttività. Continuare a sperare unicamente nella portata taumaturgica degli interventi della Banca Centrale Europea ed entusiasmarsi per trimestri di crescita da entemologoche ci costringono alle ultime posizioni in Europa per poi non porre in atto vere riforme strutturali non fa altro che rendere più vulnerabile nei confronti dei rallentamenti dell’economia mondiale il nostro Paese, con tutte le sue debolezze. Se non si provvede subito a rafforzare lo scafo della nostra economia, il prossimo vento contrario rischia di trasformarsi in un uragano. Facendo finire sugli scogli tutti gli italiani, sapendo che la prossima scialuppa di salvataggio monterà la bandiera della troika.
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