Enzo R. Laforgia, La battaglia di Varese del 1859

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LABORATORIO DI STORIA

LA BATTAGLIA DI VARESE DEL 1859 Enzo R. Laforgia


Enzo R. Laforgia, La battaglia di Varese del 1859

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foglio settimanale,

Varese, 26 maggio 1883.

Anno scolastico 2014-2015


Enzo R. Laforgia, La battaglia di Varese del 1859

La battaglia di Varese e la guerra del 1859 Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del 1848 ed il ritorno dei vecchi sovrani, riprese, con nuovo vigore, l’azione dura e repressiva degli Stati reazionari, particolarmente feroce nel Lombardo-Veneto. Le misure punitive adottate dal generale Josef Radetsky, Governatore generale, civile e militare, del Lombardo-Veneto dal 1848, volte a colpire le élites aristocratiche e borghesi del movimento patriottico, non produssero, come era nelle intenzioni, una saldatura tra i ceti popolari e il governo austriaco. Come scrisse l’ambasciatore inglese Ralph Abercromby in un rapporto del 26 gennaio 1849, tutto ciò non fece che radicare un sentimento di «odio» nei confronti delle autorità austriache, che sembrò pervadere «la mente di ogni uomo, donna e bambino in tutta la Lombardia». Al contrario di quanto accadeva nel resto della penisola, il Piemonte sabaudo conservò il suo assetto costituzionale e

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proseguì nella sua azione riformatrice. A partire dal 1850 il conte Camillo Benso di Cavour, già parlamentare liberale e moderato, assunse incarichi ministeriali, avviando un profondo processo di rinnovamento economico e di modernizzazione del Regno di Sardegna, non senza difficoltà e resistenze. Fu egli stesso, in qualità di Capo del Governo, ad avvicinare il Regno piemontese alla Francia e all’Inghilterra, approfittando dell’iniziativa militare che le due monarchie europee avevano intrapreso in Crimea nei confronti della Russia, per indurla a ritirarsi dai territori dell’Impero ottomano (1853-1856). Quando, nel febbraio del 1856, fu riunito a Parigi il Congresso per stipulare i trattati di pace, Cavour, forte del ruolo che il Regno di Sardegna aveva avuto in quella guerra (il corpo di spedizione piemontese si era distinto nelle operazioni militari nell’agosto del 1855), riuscì a porre all’ordine del giorno la discussione sulla questione italiana, facendo diventare l’instabilità politica della penisola un problema di politica internazionale. Da queste premesse, maturerà la decisione dell’imperatore francese Napoleone III di affrontare con Cavour, nella forma riservata dell’incontro svoltosi a Plombières nel luglio del 1858, la questione italiana. Lo stesso sovrano francese, del resto, ne aveva verificato l’impatto e le imprevedibili conseguenze, quando, nel gennaio di quello 2


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stesso anno, era stato fatto oggetto di un attentato ad opera di italiani guidati da Felice Orsini, che aveva provocato otto morti e centocinquanta feriti. Napoleone III e Cavour convennero, così, che la Francia avrebbe sostenuto il Regno di Sardegna nell’iniziativa militare contro l’Austria, al fine di dare un assetto confederale alla penisola italiana sotto la guida del Papa. L’intervento della Francia, tuttavia, avrebbe dovuto avere un carattere difensivo: il Regno di Sardegna, cioè, avrebbe dovuto trovarsi nella condizione dell’aggredito e non dell’aggressore. Il trattato tra il Piemonte e la Francia fu siglato il 24 gennaio del 1859. Due settimane prima, il 10 gennaio, il re Vittorio Emanuele II aveva dichiarato, di fronte al suo Parlamento, di non essere insensibile «al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Al fine di provocare l’iniziativa austriaca, il Regno di Sardegna avviò il reclutamento ordinario e volontario, spostando le truppe verso il confine lombardo. L’affluenza di volontari dal Lombardo-Veneto fu straordinaria: si calcola che accorsero in Piemonte tra i 16.000 e i 24.000 uomini. Furono in prevalenza giovani tra i 21 e i 26 anni, per la maggior parte del ceto medio o di estrazione popolare (commercianti, operai, artigiani, studenti). Lo storico Alberto Mario Banti ha opportunamente

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osservato che «queste persone decidono [...] di andare a combattere contro il proprio stato di appartenenza, correndo rischi gravissimi nel caso di cattura da parte dei nemici o di sconfitta; in quella evenienza, difficilmente sarebbero potuti tornare a casa, rivedere i propri cari, i propri amici, i propri luoghi».1 Il nostro Risorgimento, del resto, come ogni esperienza Rivoluzionaria, fu opera di giovani, come ha sottolineato Lucio Villari.2 I volontari raggiungevano il Piemonte attraverso il Lago Maggiore o il Canton Ticino (accedendovi prevalentemente dalla zona tra Viggiù e Gaggiolo per poi dirigersi su Locarno). Attraverso la Svizzera, ad esempio, raggiunsero il Piemonte e Torino i fratelli Antonio e Giuseppe Bolchini, di Varese. Possiamo leggere la memoria di quel viaggio nel diario di Giuseppe, all’epoca diciottenne: G.[iorno] 31 marzo – Partito da Varese, pranzato a Ligornetto presso l’Andreazzi, e ritrovati dopo a Stabbio [sic] gli amici e compagni Ermolli Carlo e Rota e pernottato a Ligornetto presso l’amico Ruvioli. G. 1 aprile – Partiti da Ligornetto ci fermammo a Lugano a pranzare alla Corona ed arrivati a piedi a Magadino attraversando il Monte Cenere, e pernottato a Magadino. G. 2 – Partiti da Magadino, preso il vapore, ed arrivati ad Arona, e di là partiti per Borgomanero dove ci fermammo, e vedemmo per la prima volta lo zio e la cugina.3

Una buona parte di questi volontari (4.164) fu destinata alla 4


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brigata dei Cacciatori delle Alpi, posta al comando di Giuseppe Garibaldi. Questi era stato contattato da Cavour in febbraio, pur con tutte le cautele dettate dalla diplomazia. Il Generale ne fu consapevole e, benché amareggiato (la soluzione politica prospettata dagli accordi franco-piemontesi non era ovviamente quella da lui auspicata), accettò l’incarico: In febbraio 1859, io fui chiamato a Torino dal conte di Cavour, col mezzo di La Farina. Entrava nella politica del Gabinetto sardo, allora in trattative colla Francia e disposto a far la guerra all’Austria, di accarezzare il popolo italiano. [...] Dopo pochi giorni della mia permanenza a Torino, ove dovevo servire di richiamo ai volontari italiani, io m’accorsi subito con chi avevo da fare, e che cosa da me si voleva. Me ne addolorai, ma che fare? accettare il minore dei mali, e non potendo oprare tutto il bene, ottenerne il poco che si poteva per il nostro paese infelice. Garibaldi dovea far capolino, comparire e non comparire: sapessero i volontari ch’egli si trovava a Torino per riunirli, ma nello stesso tempo chiedendo a Garibaldi di nascondersi per non dare ombra alla diplomazia.4

Una volta in guerra, i Cacciatori delle Alpi avrebbero dovuto penetrare in Lombardia per poi proseguire lungo la fascia pedemontana e sollecitare, durante il tragitto, l’insurrezione popolare. Le manovre militari del Regno sabaudo produssero l’effetto sperato: il 23 aprile del 1859 l’Austria trasmise il suo ultimatum, con il quale chiedeva che il Piemonte cessasse ogni

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forma di mobilitazione e disarmasse immediatamente i volontari. La guerra iniziò ufficialmente il 26 aprile. L’esercito austriaco attraversò il Ticino tre giorni dopo. Nel territorio di Varese erano stati registrati movimenti di truppe sin dal mese di gennaio. Il Governo li aveva giustificati con la necessità di impedire disordini o moti sediziosi. Nella stessa città, il numero dei militari continuò ad aumentare tra marzo e aprile. Per ospitare i soldati fu necessario requisire residenze private e edifici pubblici. Gli austriaci penetrarono in Piemonte rapidamente, cercando di impedire l’arrivo delle truppe francesi, ma il piano non riuscì (anche perché furono aperte le chiuse delle risaie del fiume Sesia, che provocarono l’allagamento della pianura vercellese, creando enormi difficoltà all’esercito invasore). Le truppe francesi e piemontesi, riunitesi il 12 maggio, si mossero lungo due direttrici: verso Milano e verso Piacenza. Tra il 20 ed il 31 dello stesso mese sconfissero gli austriaci al ponte di Buffalora, sul Ticino, a Palestro e a Montebello, presso Pavia. Il 20 maggio i Cacciatori delle Alpi erano partiti da Biella e la notte tra il 22 e il 23 attraversarono il Ticino a Castelletto Ticino per poi raggiungere Sesto Calende. Il grosso della brigata, guidato dallo stesso Garibaldi, si diresse quindi su Varese attraversando Corgeno, Varano, Bodio e Capolago.

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Sin dal mattino, la città aveva avuto notizia dello sbarco di Garibaldi a Sesto Calende e lo stesso podestà, l’ingegnere Carlo Carcano, convocò la Congregazione Municipale. Carcano dichiarò di voler «cooperare il più possibile alle operazioni militari del generale Garibaldi», pur consapevole dei «pericoli a cui si potrà andare incontro».5 L’assessore Cesare Picinelli si offrì di presentarsi a Garibaldi a nome della città. Tempestivamente si costituì un «Movimento patriottico» a sostegno dell’iniziativa del podestà e venne costituita una Guardia civica, che si dotò di fucili sottraendoli alle guardie di finanza. Alla sera, alle finestre e ai balconi del centro cittadino spuntarono i tricolori. Poco dopo le 21, sotto un violento temporale, giunsero in città le avanguardie dei Cacciatori delle Alpi. Il giorno successivo all’arrivo di Garibaldi fu aperto il reclutamento volontario nel Corpo dei Cacciatori delle Alpi: in serata già si registrarono cinquantuno adesioni. Una settantina, delle più diverse estrazioni sociali, furono coloro i quali si erano recati in Piemonte prima dello scoppio delle ostilità, come avevano fatto i fratelli Bolchini. Varese, all’epoca, contava 10.850 abitanti (castellanze comprese).6 I Cacciatori delle Alpi in pochi giorni raggiunsero le circa 12.000 unità, sconfiggendo ripetutamente gli austriaci a Varese

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come a Como, a Lecco come a Bergamo e a Brescia. I volontari garibaldini riuscirono a sconfiggere il Feldmaresciallo Luogotenente Karl von Urban, che pure si era distinto nella repressione dei moti ungheresi nel 1848 sino a conquistare, nel 1850, il grado di Maggior Generale e, l’anno successivo, il titolo di barone. Urban avrebbe poi preso parte anche alle battaglie di Magenta (4 giugno 1859) e di Solferino (24 giugno 1859). Dopo la sconfitta di Solferino abbandonò definitivamente l’esercito. Una ventina d’anni dopo, nel 1877, si sarebbe tolto la vita. La città di Varese, che da subito si era schierata con l’esercito di Vittorio Emanuele, fu in seguito severamente punita dall’esercito austriaco. Questo riprese il possesso della città il 31 maggio. La popolazione, nel frattempo, immaginando la reazione dell’esercito sconfitto, aveva abbandonato le proprie case. Lo stesso 31 maggio, fu diffuso un proclama, firmato dal tenente–maresciallo Urban, che, «per giusta punizione del [...] contegno politico» assunto da Varese verso l’esercito sabaudo, intimò ai varesini il pagamento di tre milioni di lire austriache, da versarsi entro le ventiquattro ore. Dieci possidenti della città sarebbero stati trattenuti dall’autorità militare sino all’avvenuto pagamento della somma pretesa. Tuttavia, l’enormità della

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richiesta non poté essere pienamente soddisfatta. Urban decise così di sottoporre la città a due massicci bombardamenti, i cui segni sono ancora evidenti nei monumenti e nelle residenze storiche sopravvissute. Il 3 giugno, infine, le truppe guidate da Urban dovettero lasciare la città, richiamate dal Comando supremo austriaco. Enzo R. Laforgia

Note 1

A.M. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 2009 [1a ed. 2004], pp. 107-108. 2 L. Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. VII. 3 Il diario di Giuseppe Bolchini, volontario dei Cacciatori delle Alpi 1859, a cura di L. Giampaolo, «Rivista storica varesina», fasc. VI, 1960, pp. 51-52. 4 G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze, G. Barbèra editore, 1888, pp. 276-278. 5 L. Giampaolo, Vicende varesine dal marzo 1849 alla proclamazione del Regno d’Italia e la seconda campagna di Garibaldi nel Varesotto, Tipografia «La Tecnografica», Varese, 1969, p. 121. 6 Cfr. L. Giampaolo, Vicende varesine dal marzo 1849 alla proclamazione del Regno d’Italia…, cit.

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DOCUMENTI


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La costituzione dei Cacciatori delle Alpi e la missione di Garibaldi

Da: Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute. 1847-1860, Milano, Tipografia Editrice L.F. Cogliati, 1904, pp. 466506.

[…] Si andavano disponendo i mezzi, seriamente e in grande, per mandare quanti più giovani si poteva ad arruolarsi in Piemonte. Le città e le borgate di Lombardia dovevano avviare questi giovani in Milano, e da Milano, per varie strade prestabilite, sarebbero stati poi diretti ai confini del Ticino, della Svizzera e del Po. Lungo tali strade ci sarebbero stati dei punti indicati, ove chi arrivava avrebbe trovato carrozze, alloggio all’occorrenza, e guide per proseguire il cammino in modo rapido e sicuro. Tutto ciò era pagato da una Cassa centrale in Milano. Chi partiva riceveva degli scontrini ch’erano carte da giuoco tagliate, bastoncini che

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combaciavano, noti a chi li doveva raccogliere ai punti di ritrovo. Con questi contrassegni, accompagnati da soccorsi in denaro quand’era opportuno, i giovani che partirono giunsero presso che tutti in Piemonte rapidamente e senza contrattempi. In tre mesi ve ne giunsero circa dieci mila. […] Non tutti i diecimila certamente andarono in Piemonte coi mezzi e coi soccorsi della cassa secreta, poiché chi lo poteva andava a proprie spese, ma ce n’andarono moltissimi. […] Torino in quei giorni presentava un’insolita animazione. Sotto i portici si udivano già tutti i dialetti d’Italia. I dialetti lombardi spiccavano chiassosamente, ed era un continuo rallegrarsi tra comitive di giovani, che incontrandosi si raccontavano le vicende delle loro fughe e del loro arrivo in Piemonte. Già si vedevano molti di questi giovani girare impettiti e gloriosi nella loro uniforme di soldato semplice. In poco più di una decina di giorni rividi quasi tutti i miei amici di Milano, e le persone più note della società milanese. Nelle vie di Torino si incontravano in quei giorni i rappresentanti delle più illustri famiglie di Lombardia e del Veneto, venuti a chiedere il loro posto d’onore nelle file

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dell’esercito piemontese. Quelli che vi avevano servito nel 1848 e nel 1849 riebbero facilmente i loro gradi; i nuovi entravano come semplici soldati nella cavalleria o nei corpi da essi indicati; altri erano arrolati nelle compagnie di volontari che venivano a mano a mano formate; le prime furono quelle chiamate i Cacciatori delle Alpi, di cui ebbe il comando Garibaldi. […] Della loro prima formazione fu incaricato il generale Cialdini, e Cosenz ebbe il comando, quale colonnello, del primo deposito che se ne fece a Cuneo. L’affluenza dei volontari aumentava ogni giorno: era un torrente; e nello spazio di poco più d’un mese ne accorsero in Piemonte circa dieci mila. Il Governo aveva istituita una Commissione di arrolamento, incaricata d’accogliere tutti questi giovani, vagliandoli e mandandoli, a seconda dei casi, nei corpi dell’esercito regolare, o nelle compagnie dei volontari. La Commissione era composta di militari, di qualche cittadino torinese e di qualche lombardo. Tra questi ci fui anch’io. Pei giovani laureati, o che avevano diplomi e titoli equivalenti, fu istituita a Ivrea una scuola preparatoria per farne in breve

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degli ufficiali. […] Il 17 marzo, un decreto istituiva il corpo dei volontari, chiamato i Cacciatori della Alpi. Dieci giorni dopo veniva formato in Savigliano un secondo deposito di volontari sotto il comando di Giacomo Medici col grado di tenente colonnello; e il 7 aprile se ne formava un terzo comandato dal tenente colonnello N. Arduino. Il 27 aprile, Garibaldi fu nominato maggior generale, e prese il comando dei Cacciatori delle Alpi. […] Garibaldi in Lombardia doveva assalire ai fianchi l’esercito austriaco e far sollevare i paesi alle spalle di questo. Cavour voleva […] che i Francesi entrassero in un paese già tutto insorto, e non apparissero essi i liberatori d’un paese sottomesso e tranquillo. Ma nel tempo stesso che voleva accendere la rivoluzione, Cavour voleva all’occorrenza dominarla e dirigerla: bisognava quindi mettere accanto a Garibaldi un uomo politico per dirigerne l’azione rivoluzionaria, e tenerla in quei confini politici che erano negli intendimenti del ministro; compito certamente non facile.

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[…] Cavour [tracciò a Emilio Visconti Venosta] rapidamente, a voce, le sue istruzioni. Voleva che il Commissario procurasse di far insorgere i paesi di Lombardia ovunque gli fosse possibile; che si intendesse con tutta la parte più viva e audace del paese, giovandosi degli antichi elementi rivoluzionari e mazziniani, riordinandoli con la nuova formula Italia e Vittorio Emanuele, e dando loro le più esplicite assicurazioni sui larghi intenti nazionali del Governo del Re. Gli disse di riordinare i Municipi chiamando a farne parte dei cittadini autorevoli per patriottismo e integrità. Parte importante e delicata del suo compito era poi quella di mantenere la sua azione nel maggior accordo con Garibaldi.

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Giovanni Visconti Venosta

(1831-1906) Costretto ad abbandonare Milano per motivi politici, raggiunse il Piemonte e prese parte alla guerra del 1859, durante la quale fu nominato Commissario regio per la Valtellina. Fu giornalista e scrittore (fu tra i fondatori del quotidiano «La Perseveranza») e svolse un’intensa attività pubblica e filantropica. Emilio Visconti Venosta

(1829-1914) Fratello di Giovanni, aderì giovanissimo alle idee mazziniane e nel 1848 prese parte alle Cinque giornate milanesi. Nel 1859 abbandonò Milano per motivi politici e si trasferì in Piemonte. Cavour lo nominò Commissario regio al seguito di Garibaldi. Fu deputato al Parlamento dal 1860 e poi senatore nel 1866. Rivestì la carica di ministro degli Esteri con i governi Minghetti (1863-1864), Ricasoli (1866-1867), Lanza e Minghetti (1869-1876), di Rudinì (1896-1898), Pelloux e Saracco (1899-1901).

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Arruolamento e armamento dei Cacciatori delle Alpi

Da: Agostino Bertani, I Cacciatori dell’Alpi nel 1859, i loro feriti, i loro morti; memorie del dottor Agostino Bertani già capo medico di quel corpo, «Il Politecnico», vol. VIII, fasc. 45, 1860, pp. 293-299.

Somma era l’incertezza intorno al comando che si sarebbe dato a Garibaldi. Dapprima parlossi della guardia nazionale mobile; poi di corpi speciali staccati dalla guardia stessa nella quale si sarebbero arrolati gli antichi emigrati e i nuovi profugi [sic]; poi di reggimenti volontarj, poi di battaglioni, infine di compagnie. E a questo, Garibaldi sorrideva, ripetendosi in modo fra interrogativo e ammirativo: compagnie! Senonché crescendo sempre più il numero degli emigrati, si aperse il primo deposito in Cuneo; e perciò si propose di battezzarlo col nome di Cacciatori della Stura, quando per sùbito ripiego si trovò per loro il nome di Cacciatori dell’Alpi.

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E si trovò bene il nome; ma né allora né poi si trovarono per loro le armi che corrispondessero al nome. Accorrevano in folla i volontarj. Eppure in Lombardia alcuni dei moderati, più amanti della mostra che della realtà, più avversi al popolo che allo straniero, andavano predicando non importar nulla che quelli che non erano soldati andassero a ingombrar l’esercito o i depositi; bastare che si mostrassero tra le file alcuni membri del patriziato lombardo. Ad onta di ciò il passaggio degli aspiranti venne regolarmente ordinandosi, dal fondo delle più lontane provincie fino alla frontiere di Piemonte. Nelle varie città i comitati offrivano indirizzi, guide, soccorsi; e di ciò debbesi sopra tutto lode a Giorgio Pallavicini Trvulzio, presidente allora della Società nazionale. Molti, ad onta degli spinosi regolamenti, vennero accettati nell’esercito, ma per l’intero termine di servizio; il tempo venne poi per altri limitato ai tre anni; e si addivenne poscia ad arrolare per un anno o anche solo per il tempo della guerra e sei mesi dopo. [...] Nei reggimenti, i volontarj erano immantinente vestiti ed esercitati; e poiché avevano il merito della buona volontà, in poche settimane furono soldati ed entrarono nelle file. Quei che andarono alla scola d’Ivrea, ne uscirono in poche settimane sottotenenti. Gli uni e gli altri riescirono ottimi per quel tempo

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pel quale importa che sia buono il soldato, voglio dire, per tempo della guerra. [...] Gli alloggi in Cuneo furono tristi; nei due depositi di Savigliano, incomportabilmente affollati. Il luogo, preparato per sei battaglioni da seicento uomini ciascuno, in pochi giorni venne occupato. Ma le armi vennere date sì tardi che i militi del secondo deposito ebbero tempo a far solo due tiri al bersaglio. Pochi giorni prima della partenza, vennero dati i cappotti, alcuni soldati partirono senza giberna; tutti senza vestiario completo; molti arnesi necessarii all’uso dell’arme ci raggiunsero per via. Non vi furono mai gli abiti di tela per tutti; non ebbimo cappelli; non tende, non coperte. [...] Costituiti [...] i battaglioni, si vide la necessità di scartare quanti apparivano incapaci a sostenere le fatiche della milizia. Pur grande fu nelle visite mediche l’indulgenza; e perché facevasi conto del buon volere che tanto può: e perché le preghiere dei rejetti erano fervide, disperate, irresistibili. [...] I Cacciatori dell’Alpi, sebbene destinati ad operare in disparte dei due eserciti e a sostenersi da sé, vennero armati di fucili della linea, senza bersaglieri, né cavalleria, né artiglieria, né zappatori. Le prime istanze che si fecero perché si provvedesse, ebbero un dispettoso rifiuto. [...] Pei cannoni s’ebbe più lungo contrasto. I cacciatori entrarono in Lombardia primi e soli, vinsero a Varese e a San Fermo, senza cannoni. Fu

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necessario che il marchese Ala Ponzone di Milano donasse a Garibaldi gli otto eleganti cannoncini ch’erano nel suo giardino a Cornigliano, perché i governanti s’inducessero a farne baratto con quattro piccoli obici da montagna, destarono l’ilarità dei soldati, quando, nella contromarcia da Varese a Laveno, se li videro comparire inanzi su piccoli carretti, ciascuno dei quali tratto da uno degli alti e bruni cavalli requisiti a monsignor vescovo di Como.

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Agostino Bertani

(Milano, 1812 – Roma, 1886) Medico, diresse l’ospedale militare S. Ambrogio durante gli avvenimenti milanesi del 1848. L’anno successivo prese parte alla difesa di Roma. Nel 1859 diresse i servizi sanitari nel corpo dei Cacciatori delle Alpi. Svolse poi un ruolo importante nell’organizzazione della spedizione garibaldina del 1860. Fu esponente di spicco della sinistra radicale e fu eletto deputato per alcune legislature. Fu ancora al fianco di Garibaldi nella spedizione del 18661867. Molto amico di Carlo Cattaneo, lo vegliò sul letto di morte nel 1869 e tra il 1881 ed il 1892 ne curò la pubblicazione delle opere.

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La città di Varese nel 1859

Da: Francesco Carrano, Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra del 1859 in Italia. Racconto popolare, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1860, pp. 261-262.

Varese ha ottomila e trecento abitanti. È tutta circondata di ville con olezzanti giardini intorno, appartenenti per lo più a ricchi Milanesi, ed è detta la città dei fiori. Giace a piè di una delle colline, le quali digradando dal fianco meridionale del monte Campo-dei-fiori, vanno a finire nella pianura lombarda. Sul monte suddetto, che è parte del masso alpino secondario che separa il lago Maggiore dai laghi di Lugano e di Como, sono le sorgenti del fiume Olona e del torrente Vallone [sic]. Il Vallone scorrendo per Varese va a congiungersi presso Malnate all’Olona, e questo scendendo per Milano a CorteOlona, va quindi a scaricarsi nel Po. Mettono capo a Varese le seguenti strade. Nel lato meridionale della città mette capo la

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via che per due tronchi, l’uno per Gallarate, l’altro per Tradate e Saronno, viene da Milano; da Gallarate un altro tronco va per Somma a Sesto-Calende; nel lato occidentale mette capo la strada che viene da Laveno per Gavirate e Masnago, solcando le falde meridionali dei monti Sasso-di-ferro e Campo-deifiori; nel lato settentrionale pone capo la strada che viene da Induno, la quale si divide in due tronchi sotto il Sasso-dellecorna, uno dei quali va per Arcisate a Porto sul lago di Lugano, l’altro mette a Luino sul lago Maggiore; finalmente al lato orientale pone capo la strada che da Como viene per Camerlata, Olgiate e Malnate. Nel poggio più sporgente sul lato orientale di Varese segue continuo alla città un sobborgo che ha nome Biumo, e si distingue in superiore e inferiore, e qui appunto mettono capo le strade di Como e d’Induno suddette. Innanzi da Biumo, quasi a un chilometro e mezzo, sta Belforte, che è una cascina costruita sul poggio che costeggiando colla falda nord-est la riva destra dell’Olona, soprasta coll’altra alla strada di Como. Fuori dal lato meridionale della città, la strada che viene da Milano e da Sesto-Calende insieme, corre incassata tra due rami di collina; il ramo a destra, che scende per S. Pedrino, è più alto, e quello a sinistra passando per Giubiano converge in ondulate pieghe, una delle quali, coperta di boscaglia, prende il come di Boscaccio e sporge sulla strada di Como di faccia a Belforte.

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Per tal guisa queste due alture, Boscaccio e Belforte, ricingono il terreno innanzi al lato orientale di Varese quasi in forma di anfiteatro. I campi in mezzo sono solcati a coltura di biade con filiere d’alberi; li attraversa la strada di Como, la quale monta a Belforte e segue quindi piana, fiancheggiata da alberi, con fosso a sinistra, fino a Biumo inferiore.

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La cittĂ di Varese

Carta posta in appendice al volume di Francesco Carrano. La freccia indica il luogo dello scontro.

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Francesco Carrano

(Napoli, 1815–S. Fiorano, Milano, 1890) Studiò presso la Reale Accademia Militare «Nunziatella» di Napoli, dove ebbe come insegnante Francesco De Sanctis e compagno Carlo Pisacane. Nel 1841 fu arrestato con l’accusa di essersi associato alla Giovine Italia. UNIFORMES DE LA LÉGION DE GARIBALDI, da: V. Polin, GUERRE D'ITALIE EN 1859. TABLEAU HISTORIQUE, POLITIQUE ET MILITAIRE, Paris 1859.

Nel 1848 andò volontario a Ferrara per unirsi al corpo di spedizione del generale Durando. In seguito, disobbedendo all’ordine di ritirata dato da Ferdinando II, accorse alla difesa di Venezia. Nel 1859 partecipò alla nuova campagna militare con il corpo dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Alla fine della guerra entrò a far parte dell’esercito regolare piemontese e nel 1860 fu eletto deputato al Parlamento. Partecipò anche alle campagne militari contro il brigantaggio.

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Varese si prepara ad accogliere Garibaldi

Da: Giuseppe Della Valle, Varese Garibaldi ed Urban nel 1859 durante la guerra per l’indipendenza italiana. Notizie storiche e compilate su documenti, Varese, Tipografia di Gius. Carughi e C., 1863, pp. 30-32.

Era il giorno 22 Maggio, quando già correva per Varese la grata novella essersi il generale Garibaldi avvicinato colla sua Legione di volontarj al confine Lombardo, dalla parte del Lago Maggiore. Quindi la mattina del 23 fu narrato siccome certo il di lui passaggio del Ticino a Sesto Calende. Desideroso ed impaziente allora più che mai il Municipio d’avere istruzioni sul modo di contenersi, ed accettando ben volentieri l’offerta generosa ed ardita dell’Ing. Cesare Picinelli di recarsi in persona direttamente da Garibaldi per averne gli ordini, lo muniva della seguente dichiarazione, la quale gli servisse come di Mandato ufficiale presso lo stesso Garibaldi:

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«S’incarica il sig. Ing. Picinelli per mandato particolare di speciale confidenza, di tosto recarsi a sesto Calende, od in qualunque altro paese abbia fermato il proprio quartiere generale la Colonna dell’Esercito Italiano che ha stamattina varcato il Ticino, di presentarsi al Comandante della Colonna stessa onde porgergli in nome di questi Cittadini un benvenuto di cuore, e chiedergli e ricevere istruzioni sul contegno del Municipio di Varese per le occorrenze del momento.» Il Podestà, Ing. Carlo Carcano Il Seg. Dr. Ezechiele Zanzi.

Il sig. Ing. Picinelli adempiva felicemente la propria missione, e di ritorno, dopo poche ore, a Varese, recava al Municipio questa risposta. Sesto Calende, 23 Maggio 1859. «Qualunque cosa facciate contro il nemico comune in pro della Santa Causa Italiana, sarà da me approvata, e vi sosterrò validamente.» Il generale Comandante G. Garibaldi.

Queste parole d’eccitamento, questa chiamata all’azione, questa promessa di soccorso e di sostegno che dal balcone del Civico Palazzo vennero comunicate agli adunati Cittadini, destò subito l’ardore, fino allora represso, della rivolta, e la sommossa incominciò.

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Giuseppe Della Valle

(Varese, 1823–ivi, 1877) Divenuto sacerdote nel 1844, organista come il padre, fu nominato Maestro di Cappella in San Vittore, a Varese, nel 1858. Collaborò al periodico varesino «Libertà», fondato nel 1863, e contribuì alla nascita del foglio democratico «La Cronaca Varesina» nel 1866. Nel maggio del 1863, dalle pagine della «Libertà», il Della Valle annunciò la pubblicazione della cronaca dedicata alla battaglia di Varese, il cui ricavato sarebbe stato destinato alla realizzazione di un monumento commemorativo (il monumento al Cacciatore delle Alpi, oggi collocato in piazza del Podestà).

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L’arrivo a Varese nel ricordo di Giuseppe Garibaldi

Da: Giuseppe Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze, G. Barbèra editore, 1888, pp. 284-286.

Da Sesto Calende marciai colla brigata a Varese. Nella notte Bixio col suo battaglione prese la sponda del Lago Maggiore verso Laveno, con ordine di fermarsi sullo stradale che da quel punto mette a Varese. De Cristoforis rimase a Sesto colla sua compagnia per tenerci aperte le comunicazioni col Piemonte. Questo valoroso ufficiale fu il primo, come lo era stato Casale, ad impegnarsi col nemico. Gli Austriaci, sapendoci a Sesto Calende, mandarono una forte ricognizione, e vi trovarono De Cristoforis colla sola sua compagnia. Quel prode non contò il nemico, si batté

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risolutamente, e dopo una onorevole pugna ripiegò sul distaccamento di Bixio. Tale era stato concerto, perché io trabee persuaso di non poter con sì poca forza tenere l’importantissimo punto di Sesto Calende. Gli Austriaci però, con quella loro caratteristica prudenza, non lo tennero nemmeno essi, e si ritirarono su Milano. Frattanto le popolazioni lombarde si animavano. Non v’era da sperare da questo buon popolo una di quelle insurrezioni decisive, determinanti. I disinganni erano stati molti, e molti i patimenti: la gioventù più animosa trovavasi, per la maggior parte, nell’esercito austriaco, nel nostro, in esiglio,o con noi. Ciononostante io era ben contento della loro cara accoglienza, della premura usata per provvedere ai nostri bisogni e quella di darci notizie delle mosse dei nemici e servirci di guida ove abbisognava, soprattutto poi per le cure ai nostri feriti prodigate da quelle care donne lombarde. L’accoglienza ricevuta a Varese nella notte che seguì quella del nostro passaggio è’ qualche cosa di ben difficile a descriversi. Pioveva dirottamente, eppure io sono sicuro che non mancava un solo cittadino, uomo, donna, o ragazzo, al nostro ricevimento: era spettacolo commovente il vedere popolo e militi confusi in abbracciamenti di delirio. Le donne, le vergini, lasciando da parte il naturale ritegno, si

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lanciavano al collo de’ rozzi militi con effervescenza febbrile. Non eran però tutti rozzi i miei compagni, poiché molti appartenevano a distinte famiglie della Lombardia e di altre provincie italiane. Ma italiani tutti, legati al patto santo dell’emancipazione patria, come a Pontida. […] Varese avea rovesciato lo stemma imperiale sostituendovi il nazionale vessillo prima del nostro arrivo, ed avea disarmato alcuni gendarmi e preposti imperiali. Noi eravamo in una città amica, piena d’entusiasmo, e che, compromessa com’era, eravamo in obbligo di difendere; ma con tremila uomini al cospetto dell’immenso esercito austriaco si poteva difendere ben poco. Di più, dovendo stare alla difesa d’una città, si perdeva quella mobilità indeterminata, occulta, che costituiva la parte più preziosa della nostra esistenza su d’un fianco del nemico.

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Garibaldi predispone la difesa della città

Da: Francesco Carrano, Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Garibaldi nella guerra del 1859 in Italia. Racconto popolare, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1860, pp. 262-266.

[…] Il generale Garibaldi ordinò la difesa di Varese in due scompartimenti, esterno ed interno, con dietro buona riserva. Lo scompartimento esterno comprendeva il terreno che corre dal capo della strada di Varese-Gallarate-Milano a quello della strada di Varese-Como, cioè da S. Pedrino a Biumo. Sotto S. Pedrino sulla strada milanese, che qui è incassata, fu costrutta una barricata a piè delle ville De Cristoforis a destra, e Piccinino o Pero a sinistra. Sulla strada di Varese-Como fu a Biumo inferiore costrutta una barricata, che appoggiava la destra alla casa Merini, la sinistra alla chiesetta S. Cristoforo; e a manca di questa barricata ne fu costrutta un’altra a capo del sentiero che corre trasversale solcando la falda nord-est della

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collina di Belforte, e che passando l’Olona va a Cazzone [ora Cantello, ndr.]. Queste due barricate formavano un angolo ottuso, l’apertura rivolta all’assalitore, in guisa che i fuochi dei difensori vi si potevano bene incrociare. Dietro più a manca, sullo sbocco della strada d’Induno, fu anche eretta una barricata, la quale appoggiava il lato sinistro al miro della villa Litta-Modigliani, e nel muro fu fatta un’apertura, onde si poteva comunicare brevemente colla villa Ponte in Biumo superiore. A collegare queste due ultime barricate fu posta in istato di difesa una piega di terreno che sta in mezzo fra la chiesetta S. Cristoforo e lo sbocco della strada d’Induno. A destra della barricata a casa Merini furono fatte feritoie nel muro del giardino, che continua in giro fino alla chiesetta della Madonnina. Il secondo scompartimento, ossia l’interno, comprendeva la parte della città che si stende da Biumo superiore fino alla caserma di gendarmeria che sta all’uscita della città sulla via di Gallarate-Milano. Qui innanzi fu costrutta sulla strada una barricata, che appoggiava la destra alla caserma, la sinistra al muricciolo di un giardino di rimpetto, e questa barricata veniva ad essere in seconda linea dietro quella che stava innanzi presso alla villa De Cristoforis: un’altra barricata fu fatta allo sbocco della strada dell’ospedale di faccia alla chiesa della Madonnina, e un’altra ancora fu costrutta all’ingresso di Biumo superiore presso casa Mina,

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dietro la scuola comunale: queste tre barricate erano nel secondo scompartimento della difesa. Così tutta la difesa era ordinata in forma concava, la destra a S. Pedrino e alla caserma di gendarmeria, la sinistra ai due Biumo, il centro alle case sul lato orientale della città fino a Madonnina. […] In Biumo superiore è la villa Ponte, la quale ha un giardino che si stende per la falda ai cui piedi è la villa Litta-Modigliani allo sbocco delle vie d’Induno e di Como, e il giardino è cinto da muro. In villa Ponte fu perciò concentrata la difesa di Biumo superiore, che bene il generale Garibaldi considerò come chiave della difesa di Varese nella condizione in cui egli era. Furono i difensori così disposti. Il secondo battaglione del primo mezzo-reggimento fu collocato fra le ville De Cristoforis, Dandolo e Piccinini o Pero, sulle due alture a destra e a manca soprastanti alla strada Varese-Milano, a difesa delle due barricate che erano quivi in prima e in seconda linea. Il secondo mezzo-reggimento occupò Biumo inferiore, dove difendeva le tre barricate sopra descritte in prima linea, e teneva due compagnie poco dietro in riserva, pronte a irrompere colle baionette calate ove mai il nemico avesse superato le barricate. Il primo battaglione del terzo mezzoreggimento occupava Boscaccio, difendeva la barricata alla chiesa della Madonnina, e le case adiacenti a destra, e la

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barricata all’ingresso di Biumo superiore presso casa Mina accanto alla scuola comunale. Il primo battaglione del primo mezzo-reggimento occupava villa Ponte in Biumo superiore.*

* Per informazioni sull'Autore, vedi supra, p. 26.

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26 maggio 1859: la battaglia di Varese

Da: Giovanni Cadolini, I Cacciatori delle Alpi. Ricordi del 1859, estratto dalla «Nuova Antologia», 1° luglio 1907, Roma, Nuova Antologia, 1907, pp. 20-23.

Erano le undici [di sera] quando si entrò in Varese e, tosto designati gli accantonamenti, tutti i volontari furono ricoverati. Il nostro reggimento fu ospitato nella villa Litta in Biumo Superiore; e colà pure si raccolsero tutti gli ufficiali, per essere pronti in casi d’urgenza. Il dì seguente, 24 maggio, fu giorno di riposo consacrato alla pulizia delle armi e alle riparazioni dei danni subiti. Il 25 maggio si entrava in un nuovo periodo della campagna. Poco prima delle tre del mattino il nostro reggimento è chiamato sotto le armi ed è condotto a stabilire una linea di posti avanzati al principio della strada che da Varese conduce a Como. 37


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Il colonnello mi incaricò di dirigere la costruzione di opere di difesa. Si costruì una forte barricata sullo stradone all’uscita della città, si aprirono delle feritoie lungo il muro di recinto di un giardino posto sulla destra, più tardi il capitano di stato maggiore mi ordinò di costruire un regolare parapetto nella campagna a sinistra dal quale si potesse dirigere il fuoco contro la strada d’onde si attendeva il nemico. Più innanzi una riva molto elevata, e di difficile accesso per il nemico, dominava le campagne depresse, nelle quali esso poteva iniziare l’attacco. Lungo quella riva ponemmo i nostri avamposti. A un tiro di fucile la campagna era traversata dal Vallone [sic], torrentello di poca importanza, costituente tuttavia un ostacolo che gli Austriaci avevano dinanzi a sé. Si fecero altri parapetti fronteggiati da abbattute d’alberi, impiegando uomini mandati dal Municipio, sgombrando in pari tempo la campagna da piante che avrebbero potuto coprire i soldati nemici. Al di là della riva era un campo di frumento, del quale io aveva ordinata la falciatura, e che feci sospendere allorché il maggiore Sacchi venne a parlarmi a nome del Generale, per dirmi che questo era tenero per il grano. [...] Dalle informazioni avute risultava che il generale Urban, a capo di un numeroso corpo, si dirigeva verso Varese. Al fine di sgomentarlo al primo momento, la quinta compagnia,

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comandata dal capitano Susini, fu mandata a prendere posizione a Belforte (un fabbricato a circa mille metri dalle nostre opere di difesa) con incarico di prepararvi un’imboscata, per assalire, tosto che fossero apparse, le schiere nemiche. Poco prima delle 4 antimeridiane del 26 maggio, mentre il parapetto era ultimato, il colonnello mi ordinò di costruire altre opere di difesa; nuovo lavoro al quale mi accingeva con quei trenta operai, allorché si udirono i primi colpi di fucile che gli Austriaci scambiavano con la compagnia posta in agguato a Belforte. Questa s’era appiattata nel frumento, ma scoperta innanzi tempo dagli ufficiali nemici, dovette ritirarsi. Essi, com’era loro costume, attaccarono alle 4 del mattino, così anche questa volta non mancarono alla regola; e mentre mi accingeva a por mano al nuovo lavoro, essi appostarono i cannoni sulla strada presso Belforte e cominciarono a lanciare qualche granata, preceduta da pochi innocenti razzi à la congrève [proiettili incendiari e detonanti, scagliati per mezzo di razzi]. Pareva che con questi proiettili intendessero sgomentare i nostri volontari, ma non riuscirono nell’intento. Ogni scarica dell’artiglieria era salutata con grida generali di esultanza, con acclamazioni risolute e clamorose di viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele, viva Garibaldi. Allorché le divise bianche, cominciarono, avanzando, un 39


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vivace fuoco di moschetteria, la nostra seconda compagnia era schierata sulla sinistra della strada, di guisa che formava l’ala sinistra. Il primo pelottone [voce non più in uso che sta per: plotone] comandato dal Migliavacca, il secondo in parte occupante il parapetto, era comandato da me. Il nostro capitano Alfieri dirigeva il combattimento da questa parte, mentre il fuoco era con vivacità sostenuto sulla destra della strada dalle altre compagnie e dall’intero primo reggimento, egregiamente guidato dal colonnello Cosenz a investire l’ala sinistra del nemico, che dovette ripiegare verso Malnate. Gli Austriaci avanzavano tra il frumento, nascondendosi in esso nel momento di caricare le armi; e allora m’avvidi che sarebbe stato meglio falciarlo tutto. Mentre ferveva la battaglia, giunse una squadra del primo reggimento, comandata dal tenente Pilade Bronzetti, in rinforzo della nostra compagnia. Fu allora che il bravo capitano Alfieri, forte di questo aiuto, ci ordinò un rapido movimento di avanzata: e cioè una carica alla baionetta, colla quale respingemmo la fanteria nemica. Il contemporaneo avanzarsi delle compagnie, formanti l’ala destra della nostra fronte di battaglia, diede risultati decisivi. In seguito all’impetuoso attacco delle nostre schiere irrompenti con entusiastiche grida, le artiglierie nemiche s’erano rapidamente ritirate, facendo uso della prolunga sino a

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Malnate, ove finalmente trovarono la calma per attaccare i pezzi agli avantreni. La fanteria pure si ritirò di corsa. Adunati sulla strada – mentre il capitano Alfieri era trasportato a Varese, ferito in una coscia – avanzammo fin presso Belforte, per liberare il terreno dai pochi nemici che, meno precipitosi nella ritirata, potemmo far prigionieri. Durante la battaglia Garibaldi, portato da un vivace destriero, appariva dovunque a impartire ordini, e la sola sua presenza destava il fuoco negli animi, e ispirava i più brillanti ardimenti fra i volontari che entusiasti lo acclamavano. Erano le sei allorché, dopo circa due ore di combattimenti, i tre reggimenti furono radunati sulla strada di Como, al fine d’inseguire il nemico. Il cammino fra la barricata e Belforte era seminato di morti e di feriti, la maggior parte austriaci. A un certo punto udii pronunciare il nome di Cairoli, additando un cadavere sul margine della strada. Accorsi e riconobbi in lui il caro Ernesto Cairoli, nobile amico, modello d’ogni virtù.

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Giovanni Cadolini

(Cremona, 1830-Roma, 1917) Patriota e uomo politico, prese parte a tutte le vicende militari del nostro Risorgimento. Partecipò come volontario alla prima guerra d’indipendenza, militò poi in Toscana a sostegno del triumvirato MontanelliGuerrazzi-Mazzoni e accorse a difendere Roma, dove venne ferito nel 1849. A Genova, dove si era rifugiato, si laureò in architettura civile e ingegneria idraulica. Nel 1859 si arruolò tra i Cacciatori delle Alpi. Nel 1860 partecipò alla spedizione garibaldina in Sicilia, combattendo a Milazzo, a Messina e al Volturno. Prese parte anche alla terza guerra d’indipendenza. Esponente delle Sinistra storica, passò alla Destra nel 1869. Fu eletto più volte deputato e nominato senatore nel 1905.

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Una cronaca dell’epoca

Da: «Gazzetta di Milano», giovedì 9 giugno 1859. Il giornale ripropone la cronaca dei fatti di Varese già pubblicata dalla «Gazzetta del Lario».

Giunti, la mattina del 23 maggio, a Varese i prodi soldati di Garibaldi, dopo una pugna sostenuta vittoriosamente a Sesto [Calende], furono da quei cittadini accolti con indicibile entusiasmo. Il prode capitano però non adagiò sugli allori della vittoria le membra affaticate, ma imprimendo nei Varesini quella energia e quello slancio che egli sa magicamente trasmettere in tutti che lo circondano, dié opera perché fossero erette le opportune barricate di difesa. Si istituì poscia l’arruolamento dei Cacciatori delle Alpi, al quale si accalcavano ardenti giovani, desiosi di combattere per

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la causa dell’Indipendenza italiana, sotto il comando di uno dei principali ed intrepidi suoi sostenitori. Si procedeva contemporaneamente all’organizzazione della guardia nazionale sì mobile che stabile, alla quale presero parte tutti coloro che erano atti a portare le armi. In questi utili apprestamenti trascorsero tre dì, finché al 26 spuntava quel giorno che dovea segnare una gloriosa pagina per l’esercito di Garibaldi, sotto le cui bandiere sta raccolto il fiore della gioventù italiana, la quale, mentre porge la mano all’Esercito alleato che le promette soccorso, pugna valorosa contro il nemico della nostra nazionalità, mostrandosi degna così della simpatia che solo il valore sa meritarsi. Erano le 4 del mattino, i Tedeschi, forti di 4000 uomini di fanteria, di 200 cavalieri e di quattro pezzi d’artiglieria, assalivano le barricate, spingendosi dentro alla chiesa di Biumo Inferiore. Volava ad incontrarli il valente Medici col 2° reggimento ed un battaglione del 3° guidato dal bravo maggiore Quintini. La vittoria non potea restare lungamente indecisa, che essa è costretta a piegare dinanzi alla prepotenza dell’eroismo. Il tedesco era ben presto vòlto a precipitosa fuga ed abbandonava, fuggendo, una cassa di racchette. Molti morti e 44


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abbandonava, fuggendo, una cassa di racchette. Molti morti e feriti morsero il terreno. Soltanto in una casuccia a mano dritta di Varese, dove i militi d’Urban s’eran appiattati per colpire più sicuri i nostri, furono trovati 5 morti e 9 feriti. Ma i fuggenti, giunti sull’altura di Belforte, si organizzavano di bel nuovo a battaglia, e, profittando della propria posizione, vomitavano contro i militi d’Italia il fuoco delle loro artiglierie. Senonché, come colpiti dal folgore, essi furono nuovamente sopraffatti dai nostri. Dio protegge chi combatte per la propria Indipendenza. Cristo lo proclamò. Il Vangelo vuol dir libertà. Due soli morti rimasero sul campo dei nostri e sei feriti. Ma quando la vittoria ci arride duopo è tenerla stretta al nostro carro. Né Garibaldi è tale da lasciarsi fuggire le occasioni. Alle 4 ore era principiato il combattimento al limitare di Varese, e già alle 8 un nuovo e più accanito combattimento avveniva sul margine dell’Olona. Malnate e S. Salvatore erano teatro di eroiche gesta. Aveva il nemico occupato anche una volta favorevoli posizioni e parve per un momento fidente in questo suo vantaggio. Intrepidi però s’avanzavano alla bajonetta due battaglioni di

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militi di Garibaldi contro il fuoco, e, non curando le perdite che necessariamente dovevano soffrire, presero d’assalto le alture e se ne impadronirono. Mentre ciò avveniva, un altro battaglione di Cacciatori, spingendosi in catena lungo i cespugli, molestava con scariche continuate i soldati di Urban, i quali cadevano, e non vedendo i feritori, erano quasi in dubbio che le piante istesse facesser fuoco contro di loro. Lasciato quindi ancora seminato di cadaveri il campo, fuggì il nemico fin sopra Lucino. Lo inseguirono per lungo tratto i nostri, i quali nella foga e nell’entusiasmo sarebbero di certo giunti in quel giorno istesso a Como trionfanti, se Garibaldi, avendo avuto notizia di un’altra colonna di Tedeschi che s’avanzava per la strada di Casanuova verso Varese, non li avesse chiamati a raccolta per difendere quella città. E fu provvido consiglio, poiché quella colonna appena intese gli evviva a Garibaldi, come al solito, retrocesse e fuggì spaventata. La perdita sofferta dai Cacciatori delle Alpi in tutto quel giorno si fa ascendere a 7 morti, 55 feriti, e 2 prigionieri. Quella del nemico fu molto maggiore, dacché, non contando i tanti abbandonati nelle vicinanze del combattimento, noi, qui alla Camerlata, in un solo dei tre convogli che vedemmo partire verso Milano, contammo più di 200 feriti, la maggior parte a bajonetta.

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La morte di Ernesto Cairoli

Da: Giuseppe Garibaldi, Memorie autobiografiche, Firenze, G. Barbèra editore, 1888, p. 292.

Tra i morti v’era pure un figlio, il primo ch’ella perdette, di quella donna, per cui la posterità confonderà questo periodo di miserie coi giorni più gloriosi di Sparta e Roma! Un figlio dell’incomparabile madre dei Cairoli, la matrona pavese. Ernesto, il più giovane dei tre, ch’essa aveva mandati, cadeva combattendo, rotto il petto da piombo austriaco, sul cadavere d’un tamburino nemico ch’egli aveva ucciso di baionetta. Mi passò per la mente tutta l’afflizione di quella madre sì buona, sì affettuosa per i suoi figli e per chi aveva la fortuna di avvicinarla! Il mio sguardo s’incontrò lo stesso giorno collo sguardo del maggior fratello, Benedetto, valoroso e modesto ufficiale, caro come tutta quella cara famiglia. I suoi occhi si

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fissaron nei miei, ma una sola parola non uscì da ambedue. Solo io lessi in quel malinconico sguardo «Mia madre!» e pensai io pure a tutta la somma di dolori che si preparavano a quella generosa! E quanti altri, di cui non conoscevo le madri, giacevano su quel campo di strage, o mutilati o morenti col desiderio di vedere ancora una volta la desolata genitrice. Poveri giovani! O piuttosto felici giovani! il cui sangue riscattava l’Italia da lungo servaggio, e per sempre!

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Ernesto Cairoli

(Pavia, 1832-Varese, 1859) Figlio di Carlo (1776-1849), medico, e di Adelaide Bono (1807-1871). Sospettato dalle autorità di polizia, nel 1852 fu espulso dall’ateneo pavese. Ernesto dovette così allontanarsi da Pavia con il fratello maggiore Benedetto, mazziniano (fu riammesso all’Università di Pavia l’anno successivo e qui si laureò in Giurisprudenza). Nel 1859 accorse volontario tra i Cacciatori delle Alpi e perse poi la vita nello scontro di Varese. Altri tre fratelli morirono nel corso delle guerre risorgimentali: Luigi (1838-1860), Enrico (1840-1867) e Giovanni (1841-1869).

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Il bombardamento di Varese

Da: Marco Formentini, Le cinque giornate di prigionia nelle mani del tenente-maresciallo Urban o il bombardamento di Varese, Milano, Tipografia Wilmant, 1859, pp. 22-23.

Alle ore sei precise [Urban era giunto a Varese nelle prime ore del pomeriggio del 31 maggio con 15.000 uomini, ndr] cominciò il bombardamento della città. Sessanta e più furono i colpi di cannone scaricati nello spazio di circa dieci minuti. Alle nove circa fu ripetuta la scarica a doppia dose coll’intervallo di circa un quarto d’ora. Per maggior colmo di barbarie, e perché avesse a farci maggiore impressione l’orrendo spettacolo, ci si aprivano le finestre. Ogni colpo era una stilettata al cuore per gli astanti che si immaginavano il pericolo dei loro più cari. Si cominciava colle artiglierie del quartiere generale alla Villa del Pero di Casa Piccinini, per quanto mi si disse, comandata personalmente dal valoroso

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Tenente-Maresciallo Urban; poco dopo vi rispondevano quelle situate sulle alture di Giubbiano [sic], sulla spianata di Montalbano, di S. Michele di Bosto, e da ultimo quelle di S. Pedrino ove ci trovavamo noi stessi. In quel momento il suolo ci ballava sotto i piedi, e non pochi vetri cadevano spezzati: generale era la costernazione, e pareva il finimondo. Seppi successivamente che non si era avuto la precauzione di risparmiare l’ospitale ove pure si trovavano i feriti austriaci, e nemmeno le prigioni.

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Marco Formentini

(Bosco Valtravaglia, 1811 - Milano, 1883) Ottenuta la patente di ragioniere nel 1833, Formentini fu ammesso tra i «computisti dell’Imperial Regia Contabilità di Stato». Nel 1848 prese parte agli avvenimenti milanesi e si occupò dell’organizzazione del corpo di volontari che corse in aiuto alla Repubblica Veneta. Perso l’impiego per la sua attività antiaustriaca, si dedicò alla libera professione. Nel 1859, dopo le prime vittorie ottenute da Garibaldi in territorio lombardo, raggiunse Varese per ricongiungersi con la sua famiglia. Sospettato di essere una spia, fu arrestato dal tenente maresciallo Karl von Urban e trattenuto per cinque giorni insieme agli ostaggi usati come garanzia per il pagamento della somma di 3 milioni di lire imposto alla cittadina lombarda. Nei giorni della sua prigionia assistette al bombardamento di Varese. Fu autore di numerose opere dedicate a temi amministrativi e di carattere storico.

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IMMAGINI


Enzo R. Laforgia, La battaglia di Varese del 1859

Il luogo della battaglia in due stampe coeve

Da: Antonio Balbiani, Storia illustrata della vita di Garibaldi, Milano, Inversini e Pagani, 1861.

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Il luogo della battaglia in due stampe coeve

Battaglia di Varese 26 maggio 1859, litografia del 1860.

Qui, come nell’immagine precedente, si riconosce l’obelisco votivo (ora collocato presso la Chiesa del Lazzaretto, che si affaccia su viale Belforte) e la chiesa di San Cristoforo, successivamente demolita.

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Villa del Pero, poi Villa Tamagno

Da: Le Cento Città d’Italia. Varese, supplemento mensile illustrato del «Secolo», 30 giugno 1897.

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I segni della Storia

Lapide marmorea collocata in via San Martino in Varese.

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I segni della Storia

I segni delle cannonate austriache ancora visibili sul campanile del Bernascone adiacente alla basilica di San Vittore in Varese.

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I segni della Storia

Particolare del tiburio sormontante la basilica di San Vittore in Varese, con una palla di cannone austriaco e la lapide che ricorda l'evento.

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I segni della Storia

Palla di cannone austriaco ancora visibile sul lato destro del palazzo Litta-Modignani, in piazza XXVI Maggio, Biumo Inferiore, Varese.

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Sommario La battaglia di Varese e la guerra del 1859……………. p. 1

Documenti: La costituzione dei Cacciatori delle Alpi e la missione di Garibaldi …………………………….. p. 11 Arruolamento e armamento dei Cacciatori delle Alpi .. p. 17 La città di Varese di Varese nel 1859 ………………… p. 22 Varese si prepara ad accogliere Garibaldi ……………. p. 27 L’arrivo a Varese nel ricordo di Giuseppe Garibaldi … p. 30 Garibaldi predispone la difesa della città ……………... p. 33 26 maggio 1859: la battaglia di Varese ……………….. p. 37 Una cronaca dell’epoca ……………………………….. p. 43 La morte di Ernesto Cairoli …………………………… p. 47 Il bombardamento di Varese ………………………….. p. 50

Immagini ……………………………………………... p. 53

Anno scolastico 2014-2015



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