Accumulazione delle distanze

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Sergio Cicconi L’accumulazione delle distanze In copertina: Sanitarium di Joel –Peter Witkin Edizioni Via della Pergola, 7 – 20159 Milano Gennaio 2007


Sergio Cicconi L' ACCUMULAZIONE DELLE DISTANZE



L'ACCUMULAZIONE DELLE DISTANZE



ESPERIMENTI D'AMORE IN UNA SERA DI LUGLIO

Quella sera di luglio faceva caldo, e io non avevo sonno.

E si palpava l’umiditĂ nell'aria. Intensa. Molto. Era una di quelle sere perfette e dolci in cui si preferisce star fuori, con la frescura che precede la notte, e il profumo dell'erba, e star soli è un peccato, veramente, una colpa. E infatti in quella sera di luglio non ero solo: passeggiavo con Sonia, in giro nel parco che circonda la clinica. Era abbastanza presto. Camminavamo con lentezza, senza una meta, per il solo piacere di far passare il tempo, in attesa del momento in cui Sonia, eccitata, stanca, svogliata, insonnolita, questo non potevo saperlo, avrebbe deciso che era giunta l'ora per riaccompagnarla in camera. Attorno, i grilli erano tanti, e chiassosi. Ero irrequieto, io, carico di aspettative. Avrei voluto dare una buona occhiata ai pensieri di Sonia. Cosa le passava in testa? Sonia. Sonia era una nostra paziente: gigantessa, ventisette anni, 7


occhi profondi, chiari e verdi, labbra di fuoco. I capelli biondi se li era lasciati crescere lunghi, lunghissimi, di certo per nascondere immensità di spalle; comunque, non c’erano capelli lunghi abbastanza da coprirla per intero. Sonia si trascinava dentro a un corpo costruito per contenere altre Sonie in formato normale. Due, tre forse. Però il suo viso conservava una dolcezza rara. Luminosissimo. In lei scoprivo le tracce di una bambina incartata dentro a troppi chili di carne. E il suo sorriso risplendeva, i denti come pietre lucide scolpite in bocca. Magra, sarebbe stata bella. Quella sera di luglio le tenni compagnia, come faccio anche con gli altri a volte, quando ho il turno di sorveglianza di notte, quando la malinconia mi prende, così che provo a scacciarla cercando un contatto con i pazienti della clinica. Li assisto, li aiuto se hanno bisogno. Parlo con loro, o li accompagno a dormire strappandoli da un sonno scomodo nel salottino con la tv. Intendiamoci, non mi piace fraternizzare troppo con i pazienti, anche con quelli più tranquilli, quelli che sembrano normali. Ė raro che ci siano parole vere tra noi; ci scambio un saluto con loro, un sorriso, o quattro chiacchiere sul nulla. Nient'altro. E quasi mai mi spingo così lontano al punto di toccarli. Mi fanno paura. Mi spaventa la loro distanza dal mio mondo. Siamo compressi dentro a questa clinica, vicini l'uno all'altro, ma incapaci di accostarci. Parliamo, pure non ci comprendiamo. Non li capisco quasi mai. E immagino che anche loro non capiscano me. Quindi non li tocco. Neanche le pazienti. Il più delle volte 8


almeno. E comunque, di frequentare le giovani signore che restano da noi per qualche tempo non ne ho mai fatto un’abitudine. Certo, capita che, se una mi piace, provo tecniche di seduzione: ci parlo, molto, la sfioro con gli occhi prima ancora di farlo con le mani, la seguo nel parco, la confondo con parole, parole. Ma succede di rado che la cosa funzioni, e anche quando una di loro mi accetta, alla fine il nostro incontro è solo un scambio di carni: la sua, la mia. Da quegli scambi non ho mai imparato molto. Semmai, dal contatto con quei corpi ho appreso meglio la distanza. Ho scoperto che col corpo si possono realizzare costruzioni e innesti di carne di cui la mente si accorge appena. Con Sonia però è stato diverso. Con lei è stato lo sbocciare di qualcosa di molto simile all’amore, con il sapore che è lo stesso dell’amore. Ė stata tre mesi da noi in clinica. Non molto. Ma in quel tempo breve è riuscita a scatenarmi contro un grumo di forze che poi mi si sono avviluppate addosso, alla base dello stomaco: sto parlando di leggerezza, di ansia, di pesantezza, capite? L’ardore, il bruciare di un desiderio, la necessità di azione irrazionale. Un fuoco. Una specie d’amore. Oltre al suo corpo smisurato nel quale sprofondare, mi incantava la sua passione per le parole, le parole, e per la poesia. La sua voce era nera come una notte senza luna. Certe sere mi regalava poesie dentro a sculture di carne. Le recitava con la bocca e col corpo. Apposta per me. E il vigore magnetico di quella sua voce costruiva ponti sulla distanza tra i nostri corpi. Non la toccavo subito. Spesso, prima, mi piaceva farmi re9


galare parole, parole. Mi raccontava le sue storie di sesso e d’amore, le storie della sua carne che regalava con gioia. L’ascoltavo accoccolato nel suo letto. Nudo. Una storia me la raccontò più volte. Amava ripeterla. Una passione: lei diciassettenne e lui con il doppio dei suoi anni. Si erano incontrati una sera d’estate, su una spiaggia. Lui le aveva strusciato le dita sul viso e poi più in basso. Subito. Con gesti rapidi, quasi senza parole. Quella sera in spiaggia non c’era stata nessuna necessità di spiegarsi. Poi continuava a raccontare, Sonia, ma non mi parlava di sesso. Mai. L’uomo voleva la sua carne, ma non soltanto quella. Di Sonia cercava un altro corpo. Più intimo e nascosto. Era a caccia di un organismo da riprendere in mille scatti. La fotografava molto. Scattava, scattava, esplorandola da vicino con l’occhio della macchina fotografica. Poi sviluppava le foto: cento, duecento, molte. Quelle foto, quei frammenti di Sonia, l’uomo le appiccicava al muro l’una vicina all’altra, per ricomporre a parete l’immagine di una gigantesca figura improbabile. Studiava le foto come fossero i tasselli di un puzzle complesso; poi le spostava, modificandone la sequenza e l’ordine. Le spostava. In alto. In basso. Più a destra. Per giorni. Era così che costruiva molteplici varianti della sua donna gigante. Forse era quello il suo modo per dirle che la desiderava. Così le faceva capire che attraverso l’obiettivo, componendola sul muro, la voleva come preda, certo, ma per conoscerla meglio, e conservarla. Anche questo, forse, è un modo per parlare d’amore.

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Io riuscivo bene a immaginare quei cento frammenti del corpo di Sonia assemblati su una parete domestica, e mi domandavo anche come poteva essere finita quella storia. Ma non ho mai avuto la possibilità di saperlo. Sempre, a quel punto, Sonia interrompeva il racconto, poi piegava la testa di lato, appoggiandola sul collo. Mi fissava. E in quello sguardo i pensieri legati al suo fotografo scomparso svanivano presto. Aspettavo con eccitazione contenuta questo suo segno consueto, quel movimento della testa. Era un segnale, un dire: stai zitto, non parlare. E anche un dire: ecco, cominciamo, sei pronto? Certo che ero pronto, conoscevo bene la mia parte in questa rappresentazione, e così mi aprivo anch’io in un sorriso, la cercavo negli occhi. Dopo iniziava a spogliarsi, finalmente. Ma non sempre. A volte le piaceva rallentare ancora il ritmo. Frenava i suoi gesti per prolungare il gioco delle parole, allontanando di un po' i momenti in cui il desiderio avrebbe preso il sopravvento. Ancora vestita, ma già in procinto di non esserlo, mi lanciava i versi leggeri di Emily Dickinson, che amava e recitava a memoria in un inglese stentato e troppo riempito di vocali, ma lieve anche, e irresistibile: «She dealt her pretty words like blades. How glittering they shone. An every one unbared a nerve. Or wantoned with a bone. She never deemed, she hurt. That is not steel’s affair. A vulgar grimace in the flesh. How ill the creatures bear. To ache is human, not polite. The film upon the eye mortality’s old custom, just locking up, to die.» Ascoltarla era un piacere che poi non ho più provato. Intrecciava i versi di un poeta a quelli di altri, e scandiva le parole puntandomi un dito addosso, e ridendo, spalancando la bocca, perché sapeva che mi scioglievo alla vista dei suoi 11


denti. Bianchi. Infatti, il desiderio mi apriva. Se non ricordava a memoria, leggeva da un libretto che sottraeva al comodino: «Se solo potessimo rimpicciolire i corpi alla misura di teschi» mi recitava, «potremmo far tutta una pianura bianca di teschi al chiaro di luna! Se solo potessimo rimpicciolire i corpi» continuava, «forse potremmo far stare tutti gli uccisi di un anno davanti a noi sulla scrivania! Se solo potessimo rimpicciolire i corpi, potremmo farne montare uno su un anello, come ricordo, per sempre.» Cominciavo a toccarla. Le baciavo i seni, affondavo le mani dentro le sue carni mentre lei continuava con le poesie: «Je suis un gardien de troupeaux. Le troupeau c'est mes pensées. Et mes pensées sont tous des sensations. Je pense avec les yeux et avec les oreilles et avec les mains et avec les pieds et avec le nez et avec la bouche. Penser une fleur c'est la regarder et la sentir et manger un fruit c'est en connaître le sens...» La lingua la faceva rotolare oltre i denti. E mentre infilavo le dita in lei, lei, con le dita, si esplorava la vastità di pelle che la ricopriva: le guance, le spalle, i seni. I capezzoli grandi e duri come rose di roccia; i rotoli di carne di pancia, l’architettura complessa del pube, le cosce come tronchi flessibili, e i polpacci. L’occhio mi tornava spesso sui misteri del suo ventre vasto come un golfo, una pianura americana. Le cosce scorrevano tra le mie dita: grandi, solide, violabili. Più in alto era umida, pronta. Mi risucchiava dentro a infinite pieghe e incavi sudati e canyon di carne. Mi leccava, mi annusava, mi bagnava di saliva. Pensavo sempre al suo corpo come a una casa da abitare, 12


piena di stanze da esplorare, farcita di nicchie e anfratti e rotondità. Stanze di carne. Ė per questo che quella sera di luglio l’accompagnai in camera. Volevo visitarla ancora nella sua casa di carne e parole. Non conoscevo le sue intenzioni per quella sera di luglio. Non mi parlò. Non le parlai. Camminavamo con lentezza su quel prato che la notte rendeva più grande. A un tratto si fermò e si girò verso di me. Ė in quel momento, guardandola bene negli occhi, che compresi che non ci sarebbero state poesie. Poi continuammo a camminare percorrendo una sorta di cerchio invisibile sul prato, fin quando ritornammo all'ingresso della clinica, e poi su, una rampa di scale, e infine la sua stanza. Ero ancora sulla porta quando mi tirò dentro con prontezza disperata. La luce era poca, solo la lampada sul comodino: gialla e tenue. Mi aveva abituato a spogliarla con lentezza, tra le parole. Invece quella sera di luglio mi prese subito. Senza grazia, senza preliminari. Era nuda prima ancora che io entrassi nel suo letto. Spense la luce non appena anch’io fui tra le lenzuola. Non la vedevo. La toccai. Era molta ed era calda, e l’odore del suo corpo innegabile. Quella volta più che mai, stringendo la sua pelle tra le dita, la percepii come incartata, come fosse un grasso regalo impacchettato che mi si offriva. Scartarla, quello era il mio compito. Lo feci. Pasteggiai con lei, molto e a lungo. Anche lei si prese la sua parte di piacere, ma tanta era la forza che metteva nello stringermi contro il suo corpo umido, che a un certo punto mi spaventai. Intrecciato tra strati di pelle frusciante, sudato, mentre l’orgasmo già mi cercava, mi percepii 13


avvinghiato in un abbraccio innaturale. Immaginai di essere preso da una macchina molle di carne non umana. Mi trovai precipitato dentro uno dei sogni che infestavano la mia adolescenza, quando temevo che esplorando l'apertura tra le cosce di una donna avrei raggiunto con le dita un altro corpo sotterraneo e alieno, vivo dentro all’involucro visibile di donna. Il pensiero mi riempì. Il pensiero mi terrorizzò. Ma era troppo tardi per trattenermi. Così, incapace di frenarmi colpii quel corpo che mi stringeva come potevo: inondandolo, senza più capire chi o cosa stavo colpendo. Sentii quel corpo mugolare mentre mi incrociava di più le braccia sulla schiena, in alto tra le spalle, e le gambe me le intrecciava addosso, strette tra le anche, e tirava, tirava. Ero preso in quella morsa implacabile. Dita mi frugavano la schiena, unghie mi scavavano le spalle. Ero avvinghiato sempre più. La carne di quel corpo bagnato si spalancava per inghiottirmi e nascondermi. Percepii contro il collo il contatto di labbra aperte, poi l'umido di saliva che mi si spalmava sulla pelle. Denti mi esplorarono il collo, e provai il dolore del morso. Gambe e braccia continuavano a trattenermi e tirarmi. La testa mi affondava in matasse di capelli. L’odore di quei capelli era indefinibile: come il pelo bagnato di un cane, forse. Sentii mormorare questo una volta: «Vieni con me!» ma era poco più di un bisbiglio, e non ero sicuro di aver capito bene. Ma lo sentii di nuovo: «Vieni con me!» Ebbi la certezza di essere prigioniero. Allora afferrai con entrambe le mani quella faccia che mi stava addosso nel buio e la spinsi via. Con i pollici raggiunsi gli occhi molli e feci pressione. Spinsi con forza. 14


Funzionò. Sentii un borbottio che assomigliava a un lamento. Poteva essere di piacere interrotto, o di dolore. Non me ne curai. Funzionò. Presto le braccia e le gambe che mi serravano allentarono la presa. Un silenzio immenso mi circondò. Sgusciai di lato, poi lontano dal letto. Mentre me ne andavo, un suono rauco che poteva essere una risata uscì dalla bocca di quel corpo ora immobile tra le lenzuola. Quella sera di luglio mi spaventai. Fu la fine di un incanto. La distruzione di una specie d'amore. Fuggii dalla stanza semivestito. Scesi una rampa di scale, e presto ero nel parco e sull'erba. Lì c’era un’aria profumata di terra che saliva dall'erba, e io in quell'aria cercai conforto. Cantavano i grilli. Mi inseguiva una sensazione forte, nitida: solo per caso ero uscito vivo da quella stanza. Poi c'è stata l'azione del tempo. Il tempo cancella ogni spavento, tutte le sensazioni. Restano ricordi che non fanno più paura. Ė passato del tempo da quella sera di luglio. Ora Sonia è lontana, è un corpo assente. Di lei non so più nulla. Milano 2006

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IL CANTO DELL’ULTIMA VOCE

Il mare è la prima cosa che vedo quando mi sfilano la benda dagli occhi: l’acqua dall’alto, e più in distanza un sole grande che tramonta. Ma sono troppo stanco per apprezzare i colori, la lontananza dell’orizzonte. E le vibrazioni da viaggio sono riuscite a massacrarmi la schiena: prima l’auto da San Vittore verso l’aeroporto, poi il volo lungo sul Learjet fino a un aeroporto ancora, e l’elicottero ora, whoof, whoof, whoof, il frullare frenetico delle pale sopra la testa da più di mezz’ora, vibrazioni forti attorno, dentro. Troppo stanco anche per protestare. E bendato, come nei film di spionaggio. Sorrido. Stupidi! È un gesto così inutile quello di ridarmi la vista ora d’improvviso, come inutile è stato togliermela prima, all’inizio del volo, per cercare a tutti i costi di tenermi nascosta la rotta. Come se la verità non fosse chiara a tutti: che questo per me è un viaggio di sola andata. Quasi si fa notte. In alto, sopra la superficie d’acqua mobile, spuntano le luci di una piattaforma: punti chiari vibranti nell’umidità che evapora dal mare, appiccicati addosso alla struttura di questa 16


larga blatta nera che ci si fa contro, col culo che immagino appoggiato sotto l’oceano e il collo massiccio e spinoso che spunta in alto, come a voler respirare aria di mare, con la testa tozza e piatta che si allarga in cima. È lì che ci avviciniamo e proviamo a scendere. Rallentiamo. Il motore smette di urlare, e d’improvviso la musica sale più chiara dal retro dell’abitacolo: right! now ha, ha, I am an antichrist, I am an anarchist, don't know what I want, but I know how to get it, I wanna destroy the passerby, 'cause, I wanna be anarchy, no dogs body... Vado incontro agli insetti, è questo che penso mentre avanziamo. L’ho pensato per tutto il tempo del volo. E ancor di più adesso che scorgo la destinazione finale. Stiamo sbarcando sopra la corazza di un gigantesco insetto meccanico. Mi salgono rapide in testa le cose che ho letto in carcere prima di partire, e mi figuro complessi chip miniaturizzati mescolati assieme a neuroni di insetto per formare dispositivi di computazione. Penso a micro-macchine da guerra che attaccheranno il mio corpo, sanguisughe mutanti potenziate nell’arte del succhiamento, scarafaggi bio-meccanici che mi strisceranno addosso a esplorarmi il cervello. Vado incontro agli insetti sto pensando, ma il pensiero è spezzato dal gesto di uno dei miei guardiani. Jeff, si chiama, me l’ha borbottato lui ore fa, alla partenza, mentre mi invitava ad infilarmi nella cabina del jet. E non ha aggiunto altro per tutto il viaggio. È sua la musica che ci arriva a ondate da dietro, anche adesso, don't know what I want, but I know how to get it, ... È con un cenno di mano che Jeff mi avverte dell’arrivo imminente, poi mi controlla la cintura. Preparati all’atterraggio, mi segnala agitando le braccia. Neppure ades17


so apre bocca. Ci pieghiamo in avanti, lo stomaco se ne accorge subito, whoof, whoof, whoof, borbottano sopra di noi le pale frenetiche, sotto vedo grande e luminosa l’H cerchiata che segnala lo spazio d’atterraggio, che ci viene incontro e si allarga. Poi ci appoggiamo perfettamente al centro della piattaforma, docili, con una manovra impeccabile. Scendo dall’elicottero spinto leggermente dalle dita dei miei accompagnatori. Apprezzo il fatto che abbiano deciso di non tenermi ammanettato. A terra mi immaginavo una piccola folla in attesa, e invece c’è solo una donna molto alta, forse un metro e ottanta, ferma, con una mano impegnata a sostenersi i capelli in agitazione per via del vento artificiale delle pale. «Ben arrivato» mi dice sopra al ronfare d’elicottero che si spegne e io in risposta balbetto un ‘Salve’ indeciso e troppo fiacco, e lei subito continua: «Spero abbia fatto un buon viaggio» dice. La sento appena. È bionda, troppo bionda per essere naturale. La mano che mi stringe è umida, la presa molle. Ma lo sguardo che mi lancia è piuttosto duro, penetrante, praticamente il filo di una lama: occhi azzurri lontanissimi. Poi subito riprende: «Sono la dottoressa De Sanka. Sarò la sua accompagnatrice durante la sua permanenza da noi. La prego di seguirmi.» Ed è tutto. Vorrei replicare, ma il brusio invasivo delle pale in moto ancora mi confonde i pensieri, e la schiena protesta per il ritorno improvviso alla posizione eretta. Così la seguo subito quando si volta e si muove. Obbediente come un cane. Infiliamo una scala di metallo arrugginita dal vento salato, sospesa sotto al piano d’atterraggio. Dietro risuonano i passi 18


pesanti dei miei custodi. Proseguiamo in silenzio giù per un’altra rampa di scale più ripida che ci trascina in basso, dentro alla piattaforma. Contagiato dai silenzi, anch’io stento a trovare parole. Neppure dopo parlo, quando entriamo in una stanza tutta di metallo. Vedo pareti bianche, una finestra e mobili crudi, un letto, un comodino, un tavolo con due sedie, la porta del bagno. La luce appesa al muro deposita attorno ombre gialle molto lunghe. Sopra al letto c’è una macchia rossa di un insetto schiacciato ed esploso. Quando finalmente la dottoressa ricomincia a parlarmi, non la ascolto veramente. Sono stanco e le sue parole vagano e spariscono tra noi. Colgo solo frammenti: ...domani, ...riposi, ...spiegherò meglio, ...situazione... E continua con altre cose ancora, ma non la ascolto, fin quando si accorge della mia assenza, e allora smette di parlare. Infine se ne vanno. Chiudo la porta, e la serratura scatta, e il suono del metallo mi spaventa, e per un momento sono proiettato indietro nel tempo, mio malgrado. Due giorni fa e migliaia di chilometri da qui. In prigione, naturalmente. Le stanze sono tutte uguali: spazi che rinchiudono e proteggono e che vogliono stringerti come in un abbraccio. Ma non potrei mai confondere la stretta di questo spazio con i metri chiusi che mi hanno rubato gli ultimi anni di vita. Si vede il mare da qui, lo so anche se ora è notte e il mare è soltanto un’idea lontana dispersa nel buio. Lo sento. È l’odore che mi dice che l’acqua è vicina. Quest’odore amaro trascinato dal vento. E ciò mi basta per sapermi lontano, libero dalla cattività forzata. Libero di morire in libertà. L’aspiro quest’odore di mare, l’aspiro forte e mi piace molto. 19


Mangio poco, pochissimo. Come un uccello sazio spizzico brandelli di cibo depositati per me su un vassoio appoggiato sul tavolo. Più tardi mi dedico con attenzione alla cura del mio dolore. Le pillole. Sopra al tavolo. Ne tiro fuori due dal flacone, cerco il bagno e il rubinetto per l’acqua. Le inghiotto, mi chino per bere. L’altro nello specchio, quello che mi assomiglia, indifferente, mi guarda impegnato nel gesto d’inghiottimento. «Buonanotte» dico all’immagine riflessa. «Sogni felicissimi.» Mi sorride con poca convinzione. Poi torno in stanza. Da oltre la finestra, dall’alto, da altre stanze sopra alla mia, arrivano suoni e voci, musica e parole rese incomprensibili dalla distanza, trascinate dal vento e infilate dentro a questa mia prima notte da essere libero. Mi addormento quasi subito e quasi subito sogno. Come altre volte sogno un essere di luce nera che mi vuole. Sogno un demone sottile e lungo che vive con la mia carne. Nel sogno il mostro è denso, e vorace, e assolutamente immortale. Sogno una morte dolce che si genera tra le sue labbra, come un bacio. Con i denti riesce ad afferrarmi una mano. Mi mordicchia, poi mi stringe, mi fa male. Poi mi fa più male, molto male, prende a mangiarmi. Avidamente. Mastica bocconi di mano. Guardo impotente la mia carne sparire tra le sue fauci, strappo indietro il braccio nell’inutile tentativo di oppormi al pasto e vedo ossa spezzate e carne ridotta a poltiglia lucida. Ma subito il demone riprende, l’appetito accresciuto dall’assaggio del mio corpo. Mi finisce con voracità, mentre una voce di donna mi accompagna dentro a quella morte. Perché ti fai mangiare così? Mi domanda. Perché? 20


Mi sveglio con i bagliori dell’alba, con un grido acido di gabbiani, con un sapore di metallo in bocca, con dolori che mi masticano il corpo intero. Apro gli occhi, subito un pensiero si stampa lucido sul soffitto: le pillole! Allora mi alzo e d’istinto cerco il flacone; sul tavolo, in valigia, in gabinetto. Ma poi lo rintraccio sul comodino, pronto per le emergenze. Ce l’ho messo io lì, anche se non ricordo d’averlo fatto. L’afferro e lo apro. Butto giù una delle capsule rosa senza pensarci, poi un’altra. Senza acqua. La mia quotidiana dose di vita. Durante il gesto l’occhio mi cade oltre la finestra della stanza, in basso: sul mare quieto. È lì veramente, visibile ora: una lastra di luce opaca e lontana e indifferente che mi strappa un sorriso. Dopo, qualcuno bussa piano alla porta mentre sono ancora svestito, poi apre senza aspettare una mia parola. È la dottoressa. Mi guarda restando immobile sulla porta spalancata. È sola, senza guardiani. «Buongiorno» saluta. La saluto con un gesto goffo, chinando la testa. «Dove sono i miei angeli custodi?» le chiedo mentre cerco i vestiti con calma. «Bene» dice. «Vedo che oggi ha ritrovato la parola. È riuscito a dormire?» Rispondo con un’alzata di spalle. Allora lei dice: «I suoi angeli custodi non servono più.» Sorride appena mentre lo dice. «Ho pensato che un po' di libertà non le sarebbe dispiaciuta.» Annuisco, ringrazio a gesti. «E la farsa della benda durante il viaggio? E il sentirmi il loro fiato sul collo?» Ripenso a Jeff, 21


alla sua presenza silenziosa ma insistente al mio fianco. «E il seguirmi passo passo anche qua dentro, come se potessi fuggire volando sopra al mare?» Mi immagino come un gabbiano. Scivolare sopra l’acqua. Lei sorride. «Fedeltà alle regole militari. Ordini da seguire. La piattaforma è militare e noi lavoriamo per loro. E loro lavorano per proteggerci. E hanno bisogno di tempo per adattarsi alle novità. Lei, per esempio. Arriva qua d’improvviso come un intruso e la cosa li scombussola un po'. Ma li ho convinti che lei non rappresenta quel pericolo che vogliono credere...» Di nuovo annuisco mentre mi infilo un maglione. «Apprezzo la fiducia» le rispondo. «Cercherò di non farle del male.» Anch’io le concedo un sorriso. «Promesso...» Dopo usciamo dalla stanza e vaghiamo a lungo per il piano della piattaforma. È un intreccio duro di cabine e scale e corridoi e tubature e ringhiere e griglie. Tutto metallo. Un labirinto di metallo che attraversiamo: corridoi, porte, cabine, corridoi. Ogni tanto incontriamo un militare in divisa. Qualcuno saluta la dottoressa con un cenno del capo. Scendiamo scale di metallo e altre scale di metallo. Due piani sotto finalmente entriamo in una grande stanza esagonale attrezzata a laboratorio. Un uomo calvo con gli occhiali ci viene incontro; sembra un vecchio attore di un film in bianco e nero. Prima che possiamo parlare con lui si volta e ci evita. Due donne in camice bianco lì vicino fingono di non vederci pur mostrando con gesti leggeri di averci notati. Una di loro si limita a squadrarmi di lato mentre parlotta con l’altra. Piega la testa verso di noi. «Forse le hanno già spiegato cosa stiamo sperimentando su questa piattaforma» mi dice la dottoressa De Sanka. 22


Scuoto la testa. «Non esattamente» dico. «In prigione mi hanno...» «Computer biologici» riprende subito, ignorandomi. «Quello» continua, indicandomi col braccio un cubo di vetro spesso e pieno di un liquido bluastro semi-trasparente che sembra acqua sporca «è un computer biologico.» «L’acquario?» chiedo, cercando intanto dietro alla superficie di vetro qualche apparecchiatura complessa: scatole metalliche, schede, processori, circuiteria elettronica, dispositivi meccanici. Ma invano; c’è solo il contenitore di liquido e un grosso cavo che guizza fuori dal lato superiore, dal coperchio del cubo, e finisce per nascondersi a terra. «L’acquario, esattamente.» Le rispondo sorpreso: «E dov’è il processore, l’unità di elaborazione, i dispositivi di acquisizione dati?» «Quello è il computer, quello che lei chiama l’acquario; o almeno, quello è il cuore del computer, il processore. È tutto lì. In un contenitore come questo ci sono 100 milioni di volte le informazioni che potrebbe codificare in un hard-disk da 1 terabite. È costituito da un insieme di molecole di DNA. Ognuna di tali molecole si comporta come un processore sub-cellulare ben distinto e questi processori, tutti assieme, contribuiscono alla realizzazione di un mega-processore massicciamente parallelo. E stiamo parlando di miliardi di microprocessori biologici in grado di interagire con i componenti di una cellula. Tutte le loro istruzioni sono derivate da processi cellulari. Abbiamo imparato a progettare molecole capaci di seguire delle regole molecolari che noi abbiamo predeterminato e così siamo in grado di realizzare dispositivi computazionali delle dimensioni di aggregati molecolari. L’elaborazione di una molecola modifica una o più 23


molecole contigue in modo stabilito, basandosi su una o più regole molecolari, e...» Capisco poco, la interrompo: «E le informazioni?» chiedo. «Come fa ad acquisire...» «...Quei cavi che vede sono il collegamento tra il computer e il mondo» mi interrompe anche lei. «È attraverso quei cavi connessi a dispositivi di input-output che il computer acquisisce informazioni.» «E le sanguisughe?» domando. «Mi avevano detto che questi computer funzionano con i cervelli di sanguisuga.» È a questo punto che lei prende a ridere d’improvviso spalancando la bocca, esponendo denti lucidi. Così abbandona quell’espressione tirata da prima della classe che ha avuto piantata addosso fin dall’inizio, e allora diventa più giovane, ed è bella, d’improvviso. La sua risata chiassosa concentra l’attenzione delle due donne. Ci fissano per istanti. «Sono leggende dell’era tecnologica quelle...» parla continuando a sorridere. Poi guarda in alto, pare riflettere cercando aiuto dal soffitto. E dice alla fine: «No, no, lei ha ragione, è vero, prima usavano le sanguisughe. I neuroni delle sanguisughe. Utilizzavano l’attività elettrica dei neuroni di sanguisughe pilotandola perché compisse semplici computazioni mirate. Ma stiamo parlando di una decina di anni fa... Erano computer molto semplici e lenti e anche poco affidabili. Niente a che vedere con questi. Ora stiamo sfruttando un’altra tecnologia, niente più dispositivi bio-elettronici, ora costruiamo i computer direttamente da soluzioni molecolari...» «E così alla fine io sarò il pesce di quest’acquario?» dico cambiando argomento. Di colpo ritorna seria. Di colpo è dura, pietra. E con più 24


anni addosso. «No, non di questo» dice. Dall’alto mi pianta addosso quei suoi occhi freddi e azzurri. È come se mi leccasse con lo sguardo cercando di scoprirmi i pensieri. «Questo è il primo modello che abbiamo sviluppato, ma anche questo è troppo piccolo e lento e con poca capacità di calcolo. Ma ne abbiamo un altro più grande e infinitamente più potente. Avrà occasione di vederlo...» «Non ne dubito» dico. «Oggi vorrei soltanto che lei familiarizzasse un po' con il sistema. Così le sarà più facile...» «...Morire?» la interrompo e di nuovo lei mi spara quel suo sguardo azzurro, ma questa volta è carico di disagio anche. «...Così le sarà più facile capire di quale progetto farà parte e anche cogliere il senso del perché lo sta facendo.» «Di questo può esserne certa» dico. «Lo capisco benissimo anche senza tante altre informazioni. Devo morirci lì dentro, no? È di questo che stiamo parlando, no?» «La sua vita è in gioco comunque, e lei questo lo sa bene» replica con irruenza. «Lei deve andarsene comunque, è inutile girarci attorno, lo sappiamo entrambi, quindi è inutile che...» ma poi si arresta. Intuisce ciò che aleggia nell’aria tra noi, nascosto tra le pieghe amare e ciniche di quella sua frase spezzata. «Mi scusi» dice alla fine. «Io... io so che servirà. Anche se è ovvio che la mia prospettiva non può essere la sua... Certo, è la sua vita ad essere in gioco e...ma vorrei... vorrei che lei capisse anche il senso del suo morire a questo modo. Vorrei che lei...» «...No, ha ragione, è inutile girarci attorno. Lei è consapevole. E anch’io lo sono, certo. E non è certo per causa sua o del suo esperimento che il mio corpo marcisce. È che non so bene come né quando; so solo che accadrà lì dentro e 25


mi...» Indico il cubo di vetro. «...mi resta difficile pensare di andarmene così... Consegnarmi a questa macchina liquida, sapendo che comunque vada io non...» Anch’io lascio la frase aperta, a scavare spazi tra noi. Potrei dirle la verità: che ho paura di morire. Ogni altra cosa posso essermi raccontato, qualsiasi altra cosa posso aver creduto e detto, la verità è una sola: ho paura, una fottuta paura. Semplice. Ma non è un suo problema. A che servirebbe parlarle? Però dai suoi occhi intuisco che dentro trattiene una domanda. Se lei potesse parlare, se lei trovasse la forza di formularla, la domanda, ne sono certo, sarebbe questa: perché lo faccio? So che è lì, un filo di saliva dietro alle labbra. La curiosità sfacciata, sfrontata, irrazionale, pretende il sopravvento sulla sua corazza sillogistica. Vorrebbe sapere, morbosamente. Perché sono venuto qua a farmi ammazzare in anticipo sul mio tempo mentre potevo restarmene in prigione, a morire come tutti gli altri, di una morte inevitabile e indifferente? Questa è la domanda che a stento stringe tra le labbra. Ma resiste. Tiene duro, non parla. Infine la sua impavidità scientifica ha la meglio. Così restiamo sospesi nel silenzio. Mi fissa un punto sul collo con un’occhiata laterale ripiena di un disagio melmoso. È chiaro che farebbe a meno di questo, di me. Di certo incarno l’aspetto più penoso del suo esperimento. Sono la sua cattiva coscienza, la cavia senziente. La mia presenza la costringe a lanciarsi in un tuffo indesiderato dentro all’indeterminazione del fattore umano, dentro a uno spazio lontanissimo da quello asettico e ben rifinito della scienza. Uno spazio di dolore ed emozione e paura. Paura soprattutto. Sono la cavia che sa di essere cavia. 26


Sono la cavia che ha paura. Sono la cavia anomala che è consapevole della propria mortalità e della propria morte imminente. Sono la cavia che accetta di essere cavia per il semplice fatto che non può fare altrimenti. Sono il prezzo da pagare per nutrire la sua curiosità. Un prezzo che lei è disposta a pagare, naturalmente, ma che al momento, questo è chiarissimo da come mi guarda, non sarà così facile da pagare. «Non ha importanza» dico dopo uno scambio di sguardi troppo lungo. Cerco di toglierla d’impiccio. «Saranno comunque momenti del suo futuro, ma non del mio. Quindi preferirei non parlarne.» «Come vuole» risponde subito. È sollevata. Però continua a fissarmi senza mirare agli occhi, e la domanda è ancora lì, lo so, la sento, vorrebbe salire, sbucare fuori dalle sue labbra di ricercatrice curiosa come una bianca lumaca a caccia di luce, pressante e imbarazzante come l’esposizione dei genitali in pubblico. Ma resiste. Si difende bene. Tace. Ora vorrei rinchiudere le parole in altre stanze lontane, e lasciare che si nascondano, che siano dimenticate. Vorrei affidare le parole di questo incontro ad altri momenti. Ma so che quei momenti non ci saranno. Non per me, almeno. Poi torniamo indietro. Per oggi, la visita all’acquario è finita. Perché? Perché? Mirna invece la domanda me l’ha rivolta. Perché lo fai? È l’immagine di lei che mi si affaccia addosso ora, violenta come sanno essere quelle immagini che conservano lucida27


mente la memoria di un’emozione. Me lo ha chiesto la mia donna, la donna che ho lasciato. È il timbro della sua ultima voce che ricordo: lei sudata, stanca, la pelle del viso umida e arrossata; lei attraverso strati di vetro, con le cuffie piantate storte in testa, il microfono in mano, tra noi il vetro spesso, pesante. Un muro. Dietro di me due guardie, a sbirciarmi le parole, a catturami gli ultimi pensieri con lei. Si nutrono dei nostri pensieri. Perché? Mi ha chiesto. Perché hai accettato? Non sapevo cosa rispondere. Addosso mi montavano parole come animali pelosi e neri, parole che non volevo scandire: Perché è inutile, perché è lo stesso, perché non serve comunque. Perché fra un mese sarà finita comunque. Questo volevo dirle. Perché... perché... cercavo altri perché da raccontarle, cos’altro potevo dirle? «Per continuare a vivere in qualche altra forma» le ho mormorato alla fine attraverso il microfono. «Perché così si ricorderanno di me, per sempre. Perché voglio tornare di notte nei loro sogni, moltiplicarmi e crescere nei loro ricordi. Sarò storia, una storia più grande di loro, una storia che non riusciranno a dimenticare...» Le ho detto questo! Poi subito ho pensato: stronzate! L’ultimo incontro con lei e le recito stronzate! Invece la verità è questa: perché vorrei essere fuori di qua e non posso più. Perché vorrei baciarti, e scoparti, e regalarti un pomeriggio tranquillo, seduti davanti a un paesaggio di mare, con la sabbia, e un cielo troppo azzurro, e vento forte. Baciarti. E la verità è ancora questa: perché avrei voluto invecchiare con te e invece mi è negato. Perché questa è la sola forma di fuga che mi è rimasta. L’ultima. Una manciata di giorni. Perché così potrai ricordarti di me in un modo che trascende il 28


ricordo. Così sarò vivo in una memoria che riuscirai a possedere per un po', e poi ti resisterà, e vagherà oltre, nel tempo, oltre la tua stessa memoria. Oltre la tua vita. Perché così potrai ricordarti di me... Ma non gliel’ho detto questo. Non ho aggiunto altro. Non avrebbe capito. O forse avrebbe capito, e allora sarebbe stato peggio. Già una volta l’avevo abbandonata finendo in prigione per star dietro ai miei progetti, per inseguire sogni sbagliati dentro ai quali c’era stato ben poco spazio per lei. Pure, ancora mi era rimasta vicina e fedele. Mi aveva nutrito con un suo speciale affetto disperato, costruito con la distanza e l’attesa e la pazienza, riuscendo persino a scavalcare lo spessore di questo muro di vetro perennemente piantato tra di noi. Ora però le dicevo del mio secondo e definitivo abbandono e questa volta, era chiaro, lei non sarebbe stata capace di perdonarmelo. Ho provato a parlarle con gli occhi: l’ho guardata cercando uno spazio oltre gli occhi. Per dirle telepaticamente ciò che non riuscivo a dirle con la voce. E lei ha ricambiato il mio sguardo, ma al di là di quegli occhi ho letto sentimenti concentrati e ostili capaci di annullare ogni mio tentativo di comunicazione silenziosa: odio, disprezzo, lontananza, amore, una specie d’amore, paura, odio ancora e soprattutto, odio per me che la lasciavo così, inesorabilmente sola, senza alcuna possibilità per tornare indietro, per ripetere azioni tra noi, e parole, per scambiarsi tutto ciò che si fa senza dire, e ciò che non si fa pur dicendo di volerlo fare, e tutto ciò che si vorrebbe fare e non si riuscirà mai a fare. Mi odiava perché la privavo in maniera assoluta dello spazio per qualsiasi ripensamento. Il fatto che tutto ciò accadesse senza il mio 29


volere, senza di me, contro di me, in quel momento non riusciva a considerarlo. Le strappavo qualcosa dalla sua vita e non avevo il diritto di farlo. Solo questo vedeva, sentiva, manifestava. Dopo l’implicita dichiarazione d’odio scritta dentro ai suoi occhi ci sono altre immagini che ricordo. Quelle finali, quelle definitive, quelle di chiusura: lei che si alza, lei che si gira, un ciuffo di capelli che le scende sugli occhi, lei che mi saluta appena non dicendo addio, labbra che si muovono appena, bisbigli lontani dal microfono, occhi che ruotano appena, una mano che percorre veloce lo spazio davanti alla spalla destra, a coprire stoffa. Mirna. E poi i miei carcerieri che mi riportano indietro, spingendomi piano con le dita appoggiate sulle spalle, suggerendomi la strada verso la cella. Questo mi ricordo di lei. Non c’è molto tempo, tutto scorre veloce, velocissimo. Non c’è tempo, lo so, altrimenti non sarei qui. L’orologio biologico dentro scandisce rapido un conto alla rovescia. È un ticchettio sordo. Provo dolori sottopelle: mi ricordano che ho un corpo in disfatta. Il corpo mi canta la fine imminente. Ulula. Lo sento gemere silenziosamente anche mentre la dottoressa De Sanka mi trascina a visitare il fondo della piattaforma, a familiarizzare con l’acquario più grande. Mi trascina verso la mia futura cella per l’esecuzione, ad accarezzare l’idea della morte. Di nuovo percorriamo un lungo corridoio poco illuminato che ci conduce verso il centro della piattaforma. Ma questa 30


volta da lì entriamo in una stanza di metallo con le pareti macchiate di ruggine e poi ci infiliamo dentro a un ascensore e scendiamo. Scendiamo, lei ed io, con la pressione che ci spinge sempre più forte nelle orecchie. Pareti d’acciaio. È strano: immersi dentro a un tubo di metallo incassato dentro a un altro tubo di metallo più largo, tirati e spinti da cavi e meccanismi, forzati in basso, giù, circondati da quantità sterminate d’acqua invisibile, eppure la situazione è quella tipica e stupida degli ascensori di tutto il mondo: silenzio, imbarazzo, attesa. In silenzio fissiamo il pavimento, imbarazzati dal fruscio indecente dei cavi che si srotolano meccanicamente, in attesa scrutiamo soffitto e pareti. Solo gli occhi si muovono, i miei; li alzo dal pavimento e seguo i movimenti luminosi della scala numerata che segna i metri di discesa accanto alla tastiera: sprofondiamo, meno dieci, venti, trenta, cinquanta sotto, sotto cosa?, sotto il livello del mare, sotto la base della piattaforma, sotto le sabbie del fondo? Dietro le pareti dell’ascensore immagino i lunghi cavi d’acciaio agitarsi nel buio tra noi e l’oceano come immensi lombrichi viscidi. Poi tocchiamo terra, dentro al mare, credo. Si aprono le ante dell’ascensore con un sibilo. Usciamo senza guardarci. Mi cammina oltre come una speleologa che penetra grotte. Il suo passo denota familiarità con il corridoio spalancato davanti all’ascensore. Da dietro la osservo procedere con moto felino e troppo deciso. Questo è il suo mondo, mi dice quel passo. Devo essere sincero: un po' mi spaventa il suo modo di avanzare; un po' mi spaventa quando la vedo superare una porta grigia, sparirvi dietro. Così, prima della soglia grigia, esito. Ma alla fine entro anch’io, e allora ci troviamo entrambi 31


davanti al nuovo acquario. Solo che stavolta non è come nel primo laboratorio che abbiamo visitato. Quello era un acquario vero, insomma, era una miscela d’acqua sporca e densa dentro a un minuscolo cubo di vetro, in fondo mancavano solo pesci colorati, e piante e qualche corallo per trasformarlo davvero in un acquario innocuo. Invece questo è diverso. Certo, il liquido sembra lo stesso, una pasta vorticosa e melmosa carica di riflessi blu cenere e luccichii più chiari, azzurro cromo, e i celesti, e grigi metallici, o vaghe ombre violacee. Ma la dimensione no, è diversa. Questo è un cubo immenso, più di due metri di vetro verticale e altrettanti in larghezza. E poi ci sono i cavi, cavi che escono dalla vasca come capelli di Medusa e si infilano dentro a macchinari nel soffitto. Guardando quella forma percepisco un odore di minaccia. So che quello sarà la mia ultima e magnifica urna di cristallo, e non posso trattenere un gesto di arretramento. La dottoressa si accorge subito della mia reazione. «Le fa paura?» chiede guardinga. La nostra recente e infausta spedizione in visita all’acquario più piccolo sembra averla ammorbidita. È più cauta adesso nel parlare, meno autoritaria, forse più consapevole che sotto allo strato di parole che ci scambiamo si cela sempre un pensiero solo: la morte. La mia morte. «No» rispondo mentendo. «Non posso veramente chiamarla paura. È da troppo tempo che convivo con la malattia, sempre a un passo dalla fine. Avrei preferito vivere. Sono ormai vicino ad accettare il fatto che questo non accadrà. Provo a non pensare all’idea di non essere più. Piuttosto è una specie di timore sordo che mi prende allo stomaco e mi stringe. Non posso fare a meno di sentire la stretta. Anche 32


adesso. È il timore per l’indefinito. So che sarò lì dentro tra breve, e che poi non sarò...» Esito. Ma alla fine confesso: «Sì, mi fa paura.» Lei annuisce. «Quanti giorni... quanti giorni ancora?» dice. «Non vogliono dirmelo. Poco, credo. E lei dovrebbe saperlo meglio di me. Ma immagino che neppure lei...» «E come si sente?» me lo chiede evitando che io finisca la frase. «Non potrei stare meglio. Mi hanno detto che con le medicine che mi danno arriverò alla fine senza dolore. Ne prendo a manciate, mattina e pomeriggio e sera. Introducono piccoli ritocchi benefici al mio malandato stato generale di salute. Mi tengono in piedi abbastanza bene. Ma mi viene in mente una frase che ho letto: ‘Se molti rimedi sono prescritti per una sola malattia, puoi star certo che quella malattia non ha cura. Mi pare fosse Chekhov a dirlo più di cento anni fa. Ora le cose non stanno molto diversamente. Non per me. Però mi dicono che sarà una morte dolce, e questo mi è di qualche sollievo.» «Ed è per questo che ha accettato l’idea di venire qua?» dice. Mi lancia un’occhiata distratta. Naturalmente. Eccola, finalmente. Finalmente l’ha tirata fuori, la custodiva dentro calda, fiammeggiante, pronta ad essere sputata, lo sapevo che prima o poi la curiosità l’avrebbe avuta vinta. Perché, perché? Ci girava attorno, se l’è risparmiata finora cercando l’occasione propizia. Certo. Adesso. E adesso infine anche lei vuole sapere perché, vuole sapere come ci si sente a morire così, vuole sapere perché si può fare una scelta come la mia. Perché? «Forse perché quando si acquista la consapevolezza della 33


propria morte e non si ha scelta e ti offrono un ultimo viaggio gratis prima di andartene accetti di tutto» rispondo. «Gliel’ho detto. È un modo per non pensare. Per fingere di non sapere, distraendosi col brusio della novità, il rumore di fondo che si amplifica e copre i segnali primari, quelli che scandiscono chiara l’idea della morte. È la preparazione per un altro modo di essere. O di non essere più. Meglio questo di altri giorni tutti uguali in carcere, o in un letto d’ospedale con qualche amico con l’occhio lucido che cerca di accompagnarti a tutti i costi fino alla fine.» Chissà se questo può bastarle. Forse è troppo banale per lei. Comunque è il massimo che posso darle. La vedo che annuisce ancora. «Non so se...» dice, esita. «...La paura, la sua paura. Non è solo l’idea della morte, credo. Non credo che... Insomma, voglio dire che anch’io a volte ho paura quando entro qua dentro. Quello che lei dice, il timore sordo che prende allo stomaco e stringe. È chiaro che per me è diverso, ma anche se io non devo... Ma anch’io, anch’io sento lo stesso: disagio, un senso di oppressione. Claustrofobia. E le posso garantire che tutti noi che abbiamo costruito questo dispositivo senziente ci sentiamo intimoriti quando entriamo in questa stanza...» Di nuovo esita, quasi sul punto di rivelarmi un segreto. Poi alla fine confessa. «È il computer» dice sottovoce, forse temendo di essere ascoltata da orecchie poco gradite. «Glielo dico con franchezza: non conosciamo la potenza di calcolo della creatura che si è sviluppata qui. Sappiamo com’è fatta, sappiamo come funziona, ma non sappiamo cosa può fare veramente. La sua complessità è tale che non ci è possibile prevedere il suo comportamento. Ci sfugge un po'. E quindi la temiamo.» 34


«Creatura?» le chiedo. «Sì. Può sembrarle strano ma è come una creatura; lei pensa, è viva.» «Lei?» dico. «Una creatura femminile? In quel cubo di liquido?» «Sì. No. Lei sbaglia ancora. Non in quel cubo. Lei è quel cubo. E deve anche togliersi dalla testa l’idea che sia semplicemente un acquario ripieno. Quello che lei chiama liquido è soltanto un supporto fisico che rende possibile l’esistenza di una mente complessa. Né più né meno di quanto accade con il suo cervello: è il supporto per la sua mente. L’intelligenza riflette i disegni dell’universo. Perciò si manifesta in configurazioni simili, anche se queste si sviluppano in forme fisiche molto diverse. Quella creatura è viva. E possiede una mente molto più sofisticata della sua, o della mia, se è per questo. E in un certo senso è anche donna. Almeno per me. Altri tra noi la pensano al maschile, e va bene così. Qualcuno la chiama Bice, da B.C., Biological Computer, ma anche Before Christ; ci piace pensare a Bice come a una mente primordiale la cui configurazione esiste da tempi lontanissimi, e che solo ora, tramite noi, è riuscita a venire alla luce. In realtà facciamo fatica a trovare un nome che vada bene per tutti. Non ha un corpo come il nostro. Non ha un sesso. Lei è molti nomi e molte identità. È sfuggente e mutevole. A volte non riesco a sentirla né donna né umana. Forse il crederla donna è soltanto il frutto di una mia proiezione, una strategia difensiva. Mi piace cercare la presenza di una donna dietro a quella mente aliena; la penso donna e lei è donna per me. Così la riduco a qualcosa che conosco meglio, e questo mi tranquillizza. Ma credo riesca a trasformarsi in uomo con altri. È capace di trascendere i confini tra i sessi: non ha un sesso 35


perché non ha un corpo, ma sa essere donna con chi la vuole donna, e uomo con chi pensa che lì dentro ci sia un uomo. In realtà credo che sia molto di più. È un essere che ci sfugge. È per questo che mi fa paura...» Mentre parla dolori minacciosi mi scuotono il ventre: i crampi, la pressione, la sensazione di strappo. Ma ora non comprendo bene l’origine di questo. Sono le parole che ho appena ascoltato a richiamare la paura che poi si manifesta facilmente sul mio corpo fragile, o è il tocco solerte dell’altra creatura, quella che mi abita dentro e non perde occasione per ricordarmi della sua presenza e richiede un pedaggio anche ora, mentre ascolto? Non lo so, non riesco a capirlo. Così fingo di ignorare i dolori. «Ed è capace di comprenderci?» dico. «Di sentirci? Adesso ci può sentire?» «Solo se glielo permettiamo. È come per il primo computer che abbiamo visitato. Quei cavi la collegano a dispositivi sensoriali. Quando decidiamo di metterla in contatto...» «E ora è collegata?» «Sì, adesso ci può sentire e vedere. Sa che lei è qui. Ci sta ascoltando.» «E posso parlarci?» chiedo d’improvviso. Immagino telecamere nascoste che ci spiano. L’idea di avere una conversazione con questo cubo di liquido senziente mi imbarazza e mi affascina. Mi spaventa anche. Di nuovo la paura. L’origine del dolore. Forse. Ma so che devo parlarci. La vedo esitare prima di rispondermi. «Non esattamente» mi dice alla fine. La guardo e nei suoi occhi chiari e concentrati su un punto centimetri sotto la mia spalla scopro un’esitazione che non avrei immaginato. Dice: «Non può parlarci ora.» 36


«Non posso parlarci ora? Che vuol dire?» «No. Bice ha deciso così. Per ora non vuole comunicare con lei.» Continuo a guardarla mentre lei si impone con solerzia di evitare il mio sguardo. «Cosa significa che non vuole comunicare con me?» chiedo. «Può farlo? Può decidere cosa fare?» La sua risposta tarda ad arrivare. Quando parla la voce è tesa, perplessa. «Ancora non ha capito, vero? La teniamo prigioniera perché siamo consapevoli di trovarci davanti a una scatola nera e temiamo di lasciarla libera. L’imprigioniamo decidendo quando darle un contatto con il mondo, e quanto far durare quel contatto, decidendo persino la natura di quel contatto. Il nostro rapporto con lei nasce da questo stato di prigionia costante. E anche quando comunichiamo con lei lo facciamo soltanto attraverso il linguaggio. Le parliamo, ci parla. Ci intendiamo. O piuttosto crediamo di intenderci, basando questa certezza sul fatto di condividere una lingua comune...» «Potrebbe essere altrimenti?» dico. «Non ha neppure un corpo, come potrebbe...?» «Non lo so. Forse. Ma non ci basta, non ci può bastare. In realtà non sappiamo assolutamente nulla di quanto si nasconde dietro alle catene di parole che riceviamo da lei. Cosa pensa, cosa pensa veramente? Come pensa? Quanto sono distanti i suoi pensieri dai nostri? Con noi condivide il linguaggio, ma ci sfugge veramente ciò che non dice, ciò che non esce dai suoi dispositivi sensoriali, ciò che resta imprigionato tra le strutture mentali generate dentro quel cubo. E per noi è troppo complessa per essere esaminata. Così è sempre un passo avanti a noi...» «Ed è proprio per questo che ci ha fatto una richiesta. È 37


cosciente del nostro imbarazzo nei suoi confronti, sa perfettamente che quando entriamo in questa stanza abbiamo paura. Lo sente. Così alla fine ha preso una decisione: avere contatti non linguistici con un essere umano. Ha chiesto di avere qualcuno alla soglia della morte. Lei. Ha detto che attraverso questo incontro avremmo avuto l’occasione per capirla meglio, in un modo diverso...» «E voi lasciate che sia una macchina a guidarvi così?» chiedo infastidito, finalmente comprendendo meglio la natura del ruolo che io gioco in questo esperimento. Sono il contatto extra-linguistico. La macchina vuole me, mi vuole mangiare, e loro glielo permettono. Mi guarda. Scuote la testa. «Con Bice un approccio puramente scientifico è piuttosto difficile. Non è una macchina. Bice è un computer speciale per il trattamento di problemi non deterministici, per molti versi simile a un cervello umano. È nella sua natura essere poco prevedibile. È nella natura di tutti i sistemi complessi. Sfugge al controllo per via di un limite che è soltanto nostro. Siamo troppo semplici per riuscire a governare ciò che semplice non è. È nostro il limite. Siamo noi che abbiamo bisogno di altro. Abbiamo bisogno di capirla, abbiamo bisogno di un contatto.» Esita ancora, cercando parole nell’aria. «Come posso spiegarglielo?» dice alla fine. «Per certi versi è un salto nel buio, perché dobbiamo fidarci di quello che Bice ci chiede anche se non sappiamo esattamente in cosa dobbiamo riporre questa fiducia. Sappiamo che quando la immergeremo nel cubo Bice comincerà subito a interagire con il suo corpo. Le molecole che costituiscono gli elementi computazionali di Bice si programmeranno per sintetizzare e rilasciare componenti sub-cellulari in grado di attaccare le sue cellule in modo se38


lettivo e controllato. Bice si organizzerà per fronteggiarla e il suo corpo sarà smantellato cellula dopo cellula. In un certo senso, lei sarà lentamente assaltato e assorbito da Bice. E ci aspettiamo che durante questo processo Bice sia in grado di acquisire dal suo corpo una grande massa di dati. L’intera struttura del suo corpo a livello cellulare, e forse subcellulare. Così Bice potrà elaborare quei dati per comporre una complessa immagine d’uomo. La sua immagine profonda, con una definizione assolutamente impensabile per noi con i nostri attuali strumenti.» «Ma se le dico che questo è un salto nel buio è perché non sappiamo veramente cosa Bice vuole fare con i dati che acquisirà. Non ce lo ha detto ancora. Vuole comunicare con noi in un modo che non le è possibile tramite la parola. Ma altro, da lei, non riusciamo ad ottenere. Almeno per ora. Però questo salto nel buio dobbiamo farlo comunque. Lo capisce? È per questo che è importantissimo che lei sia qua: lei è il salto, lei è un inviato, un nostro messaggero. Lei è uno strumento per aiutarci a scoprire e capire Bice. Attraverso di lei Bice conoscerà gli umani un po' meglio. Lei è un ponte tra noi e Bice. Lo capisce? Capisce perché abbiamo bisogno di lei?» Sì, finalmente ho capito. Ho capito questo: io sono un ponte. Il mio corpo è un ponte. Per favorire un importantissimo incontro extralinguistico il cui fine ultimo sarà il mio annientamento. Sarò smantellato, sbucciato cellula dopo cellula, come una cipolla. Però mi chiedo: sbucciandomi, riuscirà a raggiungere anche 39


i miei neuroni, uno per uno, stabilire la loro posizione e l’organizzazione delle mie connessioni sinaptiche, le complesse configurazioni di scambi elettrici e chimici tra neuroni che strutturano e determinano i miei pensieri? Riuscirà a leggermi i pensieri, rappresentare la mia mente? Riuscirà a conquistare la mia identità codificata nell’organizzazione delle mie connessioni? Essere me? Imitarmi? Simularmi? Sopraffarmi? Riuscirà a scoprire i miei segreti, ciò che ho immaginato negli anni e mai rivelato? I miei sogni? Riuscirà a vedere quello che io vedo ora, ciò che vedo ancora; riuscirà a richiamare le mie memorie, di quando ero fuori dal carcere, di quando ero con Mirna? Catturare la sensazione di bellezza radiosa emanata dai suoi occhi, dalla sua bocca aperta in un sorriso, o l’idea del sedersi su un prato in una giornata di sole? Ricordare il calore morbido di quel sole? Saprà scavarmi così a fondo nei ricordi? È per quello che vuole smantellarmi? Per usarmi come strumento per capire e carpire i segreti del pensiero? È questo che intende con contatto extra-linguistico? Per sapere di noi umani ciò che neppure noi umani siamo riusciti a scoprire? È questo che mi fa più paura di ogni altra cosa: che Bice possa riprodurmi, ricostruendomi per obiettivi ignoti. Tutto scorre veloce, velocissimo. Non c’è più tempo. Tre giorni, cinque, magari un’altra settimana di vita. E lo sanno anche loro. Stamattina mi hanno fatto un’altra serie di esami. TAC, ecografie, raggi X, risonanza magnetica e altro. La testa, il cervello, il cuore e il fegato, lo stomaco e i testicoli. E i polmoni, naturalmente, che alimentano la fame del mostro 40


che mi vive dentro. Per tutta la mattina dentro e fuori a macchine, con rumori di macchine addosso, e sonde infilate nelle braccia e nel culo. Dopo non mi hanno detto nulla, però era chiaro il messaggio che leggevo nel silenzio: ancora pochi giorni. E ancora: pena. Poveretto, se ne sta andando, questo lo vedevo chiaro scritto negli occhi di uno dei medici che mi avevano visitato. E c’era anche altro: disgusto e sollievo, per esempio. Era chiarissimo quello che pensava quell’uomo sano mentre mi scrutava: è finita! Finalmente se ne va! Perché chi è vicino ad andare è portatore di tracce di morte, si sentono, si annusano, e quelle tracce fanno paura. Inconsapevolmente si teme un contagio. Quelle tracce è preferibile tenerle nascoste, lontane. Quell’uomo aveva paura di me. Alla fine un altro medico mi ha consegnato un foglio. Poche righe: Io sottoscritto, eccetera, cominciava il foglio nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, autorizzo l’utilizzo del mio corpo al fine di promuovere la ricerca scientifica. Eccetera ... eccetera... Un foglio carico di parole per esprimere con chiarezza un concetto solo: che autorizzo la mia esecuzione. Fatemi a pezzi e non protesterò. Smembratemi, dissolvetemi, datemi in pasto a una creatura senziente imprigionata in un cubo d’acqua e io saprò di essere morto per la giusta causa! E io accetterò con felicità la mia fine. Ho letto con calma. Anche la dottoressa De Sanka era presente. Mi è rimasta davanti per tutto il tempo che leggevo. Ha notato la mia esitazione. Allora mi ha detto: «Vorrei che lei sapesse una cosa...» Era chiaramente a disagio davanti al mio disagio. 41


«Mio padre» ha continuato. «Ha sofferto prima di morire. Molto. Se n’è andato presto. Lui è stato...» esitava, «anche lui è stato... mangiato, come lei. Ma non ha avuto la fortuna di essere guidato verso il suo ultimo momento senza soffrire. L’ho visto mentre si piegava nel dolore, e poi quando si spegneva in un letto d’ospedale. E senza neppure un amico ad accompagnarlo fino alla fine.» Era dura adesso, mentre parafrasava le parole che ieri le avevo lanciato con falso cinismo per mascherare la mia paura. «Mio padre, l’ho amato molto. E l’ho visto mentre respirava per l’ultima volta, e quel ricordo mi segue spesso. Il suo sguardo cieco verso il soffitto, la sua bocca spalancata per provare a succhiare ancora un po' d’aria, ancora un po'... Vorrei dimenticare, ma non posso, non ci riesco. E così convivo con quella morte, con quell’ultimo respiro che gli sale dai denti...» Poi ha detto anche: «Quando sarà il momento, le inietteremo una sostanza che le impedirà di soffrire. La sua fine sarà indolore. Per lei non sarà molto diverso dal morire in un letto d’ospedale. O forse sarà meglio.» Ha alzato lo sguardo verso di me. «Deve firmarlo» ha aggiunto indicando il foglio. «Altrimenti non possiamo procedere.» Ho firmato in fondo alla pagina. Ho firmato per consentire la mia piccola morte dolce e un grande passo per l’umanità. È pomeriggio. Oggi mi hanno lasciato solo. Nessun laboratorio da visitare, niente parole da scambiarsi, nessuna dimostrazione. Tutto è stato detto, tutto è stato fatto. Esco dalla mia stanza e salgo scale arrugginite dall’aria di mare, salgo e arrivo su, in cima, vicino alla piattaforma con 42


l’H cerchiata, là dove siamo atterrati al tramonto con l’elicottero. Mi sporgo da una ringhiera. C’è un vento forte, c’è odore di mare, c’è una luce chiara. Mi affaccio in basso verso il mare. Giù guardo il mare. Una cosa è certa: sparirò tra breve, e sarà come annegare, affondare senza poter più respirare. Come essere inghiottiti da questo mare. Lo guardo, il mare, e penso a Joseph Paul Jerniquan, il bastardo condannato a morte, quello che ha accettato di farsi affettare per riscattare la sua miserabile esistenza d’assassino. E per favorire il progresso della scienza. Anche lui. Ora non respira più, e il suo corpo è uno spazio dati. Uno spazio condiviso. Si riesce persino a visitarlo dentro a un browser e ricostruirlo di profilo, dall’alto, da dietro. A colori. In 3D. Studiarne l’ossatura, la circolazione, l’apparato digerente o quello riproduttivo. Povero bastardo! Navigateci dentro, sguazzateci profanando il suo corpo immune al dolore, penetrandolo dalla testa e proseguendo in basso in un viaggio allucinante, giù, fetta dopo fetta, sezione dopo sezione, scendete veloci fino a uscirgli dai piedi! Poi tornate indietro, risalite in alto dentro di lui, se volete. Penetrate Joseph Paul Jerniquan, l’assassino! In carcere, mentre decidevo sul mio destino, anch’io ho smembrato e ricostruito Joseph Paul Jerniquan. Me l’hanno permesso. No, me l’hanno imposto. Per capire, hanno detto, per confrontarmi con la sua morte e per dare un senso alla mia. Della sua esistenza virtuale due particolari mi sono rimasti impressi: il suo cazzo flaccido catturato dall’affettamento e ricostruito in falsi colori; e anche la sua pancia grassa come una collina franata. Una pancia da bevitore. Sono due dettagli insignificanti; toglieteli dalla 43


ricostruzione e l’occhio della scienza sarebbe ugualmente soddisfatto. Ma per me quel piccolo pene e quella sua pancia larga sono una precisa dichiarazione d’umanità. Joseph Paul Jerniquan ora vaga immortale nel flusso denso dei dati. Nelle correnti. Ed è lui, proprio lui; non esiste semplicemente come modello asettico d’uomo, ma è lui, un uomo vero, col suo cazzo molle e la sua pancia rancida. Persino sua madre si è accorta della resurrezione. Le hanno mostrato le ricostruzioni del figlio e lei dubbiosa, smarrita, cinica, incredula ha d’improvviso ritrovato un figlio che le mancava da troppi anni, ha riscoperto quel figlio che il carcere e la condanna a morte le avevano strappato. “Mio figlio è ancora vivo,” ha dichiarato ai giornali. “Lo vado a trovare spesso, in Rete; adesso posso essergli vicina...“ E che qualcuno provi a ridere per questo... Guardo il mare dall’alto. Scruto il moto lento di masse d’acqua, le vaghe righe bianche di schiuma che pettinano le onde. Cinque gabbiani in formazione triangolare compiono veloci ronde sopra l’acqua: s’alzano assieme, insieme scendono. Uno si tuffa puntando a pesci ignari sotto la superficie. Quel gesto me ne richiama un altro che come una visione scende dal futuro: è Mirna come un uccello in caccia, copia lontana della mamma di Joseph Paul Jerniquan in felice contemplazione davanti alla resurrezione. È Mirna mentre si tuffa nella Rete e mi ritrova e recupera il mio corpo sommerso, mentre io navigo incosciente nei flussi di dati. Mentre io sono dati irresponsabili. In questa mia visione Mirna mi sta riproducendo: risucchia avida una mia simulazione creata dopo le analisi di Bice e regalata al mondo; poi mi seziona, mi analizza, mi naviga dentro, mi apre, mi smonta, mi penetra, mi rimonta. Sono 44


io, sono io! E costruisce molteplici copie da molteplici prospettive, le scarica nel suo disco, le esamina. Così finalmente può conoscermi anche dentro, sa i miei pensieri ricostruiti dal mosto liquido, impara a scoprirmi come mai ha potuto fare quando ero in vita. Così mi possiede completamente. “Il mio amore è ancora vivo”, pensa guardando quelle copie. È probabile che penserà questo di me. “Eccolo,” dirà. “È qui con me.” Sorridendo. Così forse dimenticherà che sono scappato lasciandola sola a vivere la sua vita. E che qualcuno provi a ridere per questo... Guardo il mare dall’alto. L’acqua segna lo spazio per un nuovo inizio. In questo inizio che nasce dal liquido io ci sarò. Io sarò il messaggero, l’emissario, il ponte che permetterà la traversata tra due mondi. Io sarò la luce del mondo. Io sarò la resurrezione e la vita. Io sarò immortale. Io sarò il tratto d’unione tra l’umanità e una forma di mente lontana e liquida! Ma... Ma mi sto sbagliando. Tutto. Così non sfuggo alla morte. No. Una copia non è l’originale, quel fottuto io che mi cavalca dentro, che vede con i miei occhi, sarà andato. Io, quest’io che pensa ora, adesso, guardando il mare, quest’io sarà incapace di pensare. Io sarò inconsapevole. Io non la sentirò. Io sarò solo una massa di dati da comporre in un browser e da scaricare su un disco. La mia identità sarà prigioniera di una configurazione di informazioni. Io non avrò più un corpo. Io sarò dati incoscienti. Io sarò morto, mentre Mirna si affannerà a riportare in vita un mio simulacro. Ma io non la sentirò più. Io non sarò più...

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Non c’è molto tempo, tutto scorre veloce, velocissimo. Non c’è più tempo. Quando mi riprendo e apro gli occhi sono steso in barella e mi stanno già infilando nell’ascensore. So dove mi trovo, ma ci sono minuti di vuoto dentro, nella memoria, che non riesco a ritrovare. Non ricordo null’altro che il dolore improvviso alla testa e il pavimento che mi veniva incontro. Poi un po' di nulla, un assaggio di quanto arriverà. Non so quanto tempo è passato. Ma so che non c’è più tempo. Siamo arrivati alla fine, non è vero?, penso. Una volta in basso sotto all’oceano e dentro alla sala con il cubo liquido due uomini vestiti di bianco mi fanno scendere dalla barella, mi sorreggono per le spalle aiutandomi a salire verso il piedistallo a fianco del cubo. Le mie dita s’ingarbugliano, scivolano sui supporti troppo lisci per la mia presa molle. Poi mi stendono ancora e mi assestano su una nuova barella di plastica e metallo, agganciata al soffitto con quattro cavi tesi e lucidi. La barella oscilla appena quando la tocco. Barcollo, braccia mi tirano e trattengono, sono poco collaborativo, mi limito a muovermi pigramente, con gesti goffi e lenti. Li lascio fare. Mi stendo. Il materassino sulla barella è morbido, lieve. Scorgo fasci di cavi fitti, ragnatele che si nascondono nel soffitto. Mani abili mi infilano il casco per la rilevazione dell’EEG e collegano i cavi pendenti ai mille sensori che mi hanno incollato al corpo durante il mio svenimento. Quando hanno finito sono stordito e legato, incapace di muovermi o di alzare un braccio senza perdere le dita tra i fili. È la fine, penso. I due uomini in camice bianco controllano i collegamenti sul mio corpo e mi toccano la pelle dolcemente, come se vo46


lessero accarezzarmi e massaggiarmi. L’unico dolore che provo è quello di un ago, quando me l’infilano nel braccio. Poi si scostano da me come intimoriti, e uno dei due apre la valvola della flebo e un liquido blu poco denso subito scivola impaziente dentro al tubo fino al mio braccio e alla vena. La droga comincia a fare effetto quasi immediatamente: me ne accorgo da un improvviso ispessimento alla nuca, una costrizione al petto, una confusione della vista. Ma poi sono subito distratto da altro, d’improvviso gli altoparlanti mandano l’eco di una voce, una voce fredda e poco umana. Potrebbe essere il rantolo di un uomo, o il sussurro di una donna. Di sicuro è una voce lontana dal mondo. Quella voce è per me. È Bice che mi parla. «Il tempo è prezioso» dice la voce. «Non hai molto tempo, lo sappiamo. So che vuoi sentirmi parlare almeno una volta e accetto di farlo perché capisco il tuo pensiero, posso comprendere la tua esigenza di ascoltare la mia voce. Una voce avvicina, e il sentirmi forse ti renderà più facile lasciarti andare dentro a questa voce. Prima che il tuo corpo si apra al mio essere vorrei introdurre nella tua mente poche parole. Per ringraziarti perché hai accettato di soddisfare un mio desiderio. Per darti un modo di capire. E quando non sarai più ricorderò per te.» «Una storia» continua la voce «ti racconterò una storia, che sarà il luogo del nostro incontro.» Ascolto questa voce e riconquisto strati di lucidità. Vorrei pensare a qualcosa di logico e profondo, ma non ci riesco, questo è il momento di morire, penso, dovrei pensare a qualcosa di logico e profondo, ma non ci riesco, le parole sono velate di pesante nebbia azzurra e non superano lo spazio della gola. Le parole sono pesanti gocce plumbee e cupe. 47


E la voce comincia la storia: “In un tempo lontano c’era un lago circolare al centro della foresta e il Demone Perforatore viveva nel lago, nuotando sotto la superficie d’acqua in attesa di corpi da prelevare. Quando gli animali arrivavano preparandosi per bere il Demone Perforatore allungava una mano artigliata e afferrava l’animale più vicino per il collo. «Vieni e trasformati!» Ogni volta era questo che diceva il Demone alla sua vittima. E mentre tratteneva la sua preda tra le dita tirava fuori dall’acqua la testa enorme e nera e gridava agli animali rimasti sulla sponda: «Venite e trasformatevi! Vi risucchierò!» Poi scendeva sul fondo del lago e apriva la testa della preda con un colpo d’unghia e dalla mente spalancata succhiava la linfa che lo manteneva in vita.” “Gli abitanti del villaggio sapevano del Demone Perforatore e stavano lontani dal lago. Ma a volte la pioggia trascinava la voce del Demone: «Venite e trasformatevi!» E allora tutti rabbrividivano di terrore. Soltanto i vecchi parlavano del Demone con dolcezza. Lo conoscevano bene e non ne avevano timore, perché il Demone non poteva uscire dal lago e si nutriva solo con il cibo che gli veniva portato nei pressi dell’acqua...”

Mentre ascolto la voce immagino due uomini. Ci sono di nuovo due uomini bianchi che armeggiano qui vicino alle mie braccia, mi spostano, stringono cinghie, è una pressione di cinghia forte sul petto quella che mi toglie il respiro. Poi mi piantano in faccia una maschera per respirare. Come un palombaro che si infila nel mare, penso. Sento un sapore dolciastro in bocca. Lo conosco questo sapore: di zucchero, di vento di mare, d’alghe. Ma non saprei dire quando l’ho già avuto in bocca. Poi chiudo gli occhi... “Un giorno un vecchio del villaggio pensò alla pioggia e all’acqua, poi pensò al lago generato dalla pioggia, poi pensò al Demone Perforatore. La sua vita era legata a un filo ormai. E sapeva che quel filo terminava nel lago, dentro. Fece uno sforzo per contrastare la spinta della dimenticanza. I vecchi pensano spesso al

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passato, e raccolgono i ricordi, e raccontano le storie per tenere in vita la memoria. Così rammentò la vita dei giovani, la cattura del cibo, le modalità dell’accoppiamento e dell’amore e della generazione, la caccia, la nascita e la morte, infine.” “Poi capì che era il momento di morire.” “Come era abitudine quattro giovani lo trascinarono vicino al lago. Il vecchio aveva paura, ma lo tranquillizzarono ed era in pace quando si trovò nudo sulla terra, a un passo dall’acqua. Il vecchio pensò al fuoco, poi pensò alla pioggia e all’acqua e al lago. Poi pensò al Demone. Evitarlo non era possibile. Temerlo era giusto.” “Poi sorrise. Con lui, l’esistenza del villaggio era preservata. «So la nostra storia» disse il vecchio. «Questo è sufficiente» disse alla fine. Ascoltò l’acqua del lago ribollire, farsi fermento. Il Demone era vicino. «Fai buon uso del cibo che ti offro» mormorò il vecchio al Demone.” “«Accogli la memoria del nostro popolo» dissero i giovani che scortavano il vecchio.” “Quando la mano unghiata lo raggiunse, il vecchio fu incapace di accorgersi del perforamento. Fu un istante. Il Demone lo trascinò in basso e l’aprì con un solo gesto. E bevve. Succhiò, avidamente. Era dolce quel nettare! Non pensieri animali, ma le umane vicende, il dolore, l’accanimento con cui si prova a mantenere la specie. L’amore!” “Quando fu sazio, il Demone trasmise i pensieri all’acqua del lago, così che l’acqua vigile conteneva i pensieri del Demone ed era custode dei pensieri del villaggio e il villaggio poteva continuare ad esistere e a nutrire il Demone.” “Poi tirò fuori dall’acqua la sua testa enorme e nera e vide i quattro giovani in attesa, lontani dalla morsa dei suoi artigli, e urlò: «Venite e trasformatevi! Vi risucchierò! Abbandonate questa carne per un’altra! Non pascolate più, non rincorrete invano gli animali per la caccia. Nutritevi di carne nuova! Nutritemi della carne dello spirito! Bagnatevi nelle acque del lago e vi succhierò. E rinascerete e rivivrete e vincerete il corpo plumbeo che trascina lo spirito all’annientamento!»” “«Presto!» diceva il Demone, «Sono affamato! Presto, fate presto!»” “Così parlava il Demone Perforatore...”

C’è una pausa ora in questa voce invisibile che mi cresce 49


attorno e fuori dall’oblio che mi cattura. Infine la voce riprende: «Vorrei dirti anche questo» dice. «Voglio che tu sappia che quando non sarai più, sarai con me...» Poi è la voce a non esserci più. Niente; gli altoparlanti sparano solo il fruscio bianco di un silenzio amplificato. Incoraggiante, penso. Che degna fine!, penso, stasera sarò a cena con l’oracolo liquido, penso. No, penso, stanotte sarò la cena dell’oracolo. Voglio ridere, perché penso: che fine di merda! vado in pasto a una melma blu che davanti al mio capezzale di morte ha la faccia di regalarmi leggende per consegnarmi felice all’oblio! Che fine di merda, penso, e vorrei ridere, ma le sostanze che mi hanno sparato in corpo cancellano molti pensieri e anche la voglia di ridere, perfino la voglia di morire. Fluttuo nel caldo, nel freddo, nell’oblio. Riemergo. Vorrei ridere ma non ci riesco, vorrei morire, no, non vorrei morire, vorrei... Poi chiudo gli occhi. Poi li riapro. Poi mi immagino in un film, sono in un film: condannato. Appena fuori dalla cella della morte, cento passi da percorrere e so che poi mi spingeranno nella camera a gas. Avanzo con le catene che mi trattengono le gambe, avanti, novanta passi, due guardie ai lati, ottanta passi, settanta, davanti una guardia, sessanta. Cammino. La morte è così vicina: cinquanta passi... Poi però svanisco per entrare di colpo in un altro film. Troppo simile, però: qui sono già oltre i cento passi, sono già seduto e pronto, stordito al punto giusto, con ragnatele di elettrodi che mi fioriscono dal cervello e si infilano nel muro, su in alto. La scarica definitiva è qui, a secondi di distanza, basta abbassare la leva. Boia! Abbassa quella leva del cazzo!, grido, so che lo farà. Ruoto gli occhi, da oltre un vetro spesso scorgo molte teste e molti occhi risentiti e fissi su di 50


me. Colpevole! Dicono quegli occhi, ed ecco che arriva la scarica, eccola tre due uno, ecco che arriva... Ma no, perché poi mi proietto in un altro film: in questo film attorno c’è buio, attorno c’è freddo, attorno ci sono strati di coperte che non riescono a scaldarmi, attorno c’è lo sguardo di una donna, lo sguardo di Mirna. Su di me. In questo film sono mangiato da dentro, voracemente. Fa freddo, la sua mano mi sfiora le labbra, ma non la guardo negli occhi, Mirna. Quello sfioramento è come un saluto dolcissimo, un ciao, ti amo, ti odio, ti amo, perché mi fai questo, andartene così... mi dice. È un rimprovero. Ciao Mirna, arrivederci... le rispondo, agito in aria la mano per salutare prima di uscire dalla scena. Poi mi immagino in un altro film molto più reale, attorno c’è un soffitto di metallo riempito di fili di metallo. Ruoto la testa e in basso vedo un ribollire di liquidi inquieti. E davanti c’è lo sguardo di una donna più recente, sento la sua mano che con le dita mi sfiora le dita di una mano, è pronto? mi dice la sua voce, una voce calda e molto umana, pensare a questa voce mi fa piangere, penso: non proprio adesso, perché questa voce è così bella, penso: non voglio morire col suono di questa voce in testa, immagino di dire di sì con la testa, sì sono pronto, ma la voce mi ripete è pronto? e io non so cosa rispondere, questa voce mi fa piangere. Sono pronto?, penso, non lo so. Non lo so. Vorrei rispondere, ma vedo lo sguardo che si allontana, la mano non mi sfiora più. Ho risposto?, penso, forse ho risposto. Non lo so. Non lo so. Odo un clangore di macchine, vibrazioni lievi, mi muovo, scendo, scendo in basso verso il liquido. Odo uno sgoccio51


lio, una scintillante spirale di rumore, come se l'acqua scorresse attorno a me. Chiudo gli occhi, ma sento il liquido turbinarmi intorno. Però non è acqua. È più denso, una specie di gelatina. Mi immergo per diversi centimetri, e il livello continua a salire. È fresco ma non freddo. Sento il vago odore dolce della gelatina e della sua salda consistenza su di me. La gelatina turbolenta raggiunge i bordi della mia maschera. Ne accolgo l'avanzata, respiro a fatica, sento l’aria arrivarmi da lontano e attraversare il tubo che mi si insinua in bocca e scorrermi dentro, e mi sembra che l’aria stessa si trasformi in altra sostanza densa e oleosa, che nel toccarmi il palato emette un suono di timpani. Leggero. Il flusso della gelatina mi copre gli occhi ormai. Riuscirò a respirare? penso. Ma non c’è risposta. Apro gli occhi. Attraverso la gelatina la luce penetra più tenue e distorta. Vedo ombre di figure lontane che mi osservano. Ora sono una crisalide avviata verso la morte. Bisogna morire per poter rinascere, non è così? E io sono pronto a rinascere. Sono il ponte. Mi sto allontanando. Muovendo. Non c’è più nessuno. Lasciato solo?, penso. Dovrò nuotare?, penso. Saprò? Non lo so. Non lo so. E poi da lontano mi pare di percepire la voce di un'anima addormentata, un’anima velata, un’anima dal colore limpido, e dal timbro e dalla sostanza d’acqua: è l'anima di Mirna. Mi pare di sentirla mentre mi chiama dolcemente dicendo svegliati, svegliati, ti amo, sono venuta qui per te, per accompagnarti! Se sei venuta per me, unisciti a me, le dico subito. Diventa anche tu parte di me, tu con Bice. Tutti e tre assieme. Mirna? La chiamo. Mirna? Mirna? Ma lei non risponde. Vedi? Vedi? 52


le dico. Sta per accadere. Ma non ti devi preoccupare Mirna, non ho sofferto, e ora sarò liberato. Ma lei non risponde. Vorrei che le cose fossero andate meglio tra noi Mirna. Per tutti e due. Invece hai avuto me. Ti prego perdonami, le dico. Ma lei non risponde, non risponde più. Se n’è andata, penso. Era un’illusione. Sono solo. Cosa posso fare ormai? Ma poi provo un sollievo immenso al pensiero che il tempo della finzione è finito, e che non è più necessario nascondere nulla, neppure a me stesso. Non c’è nessun altra voce a parlarmi, non incontro altre anime. La gelatina è come un vestito attillato e caldo. Mi ribolle addosso, ma questo è tutto. Non mi sta mangiando, non mi sta assorbendo. Non mi catturerà la mente. Sorrido. «Non funziona!» urlo dentro al tubo che mi aiuta a respirare. Il suono della mia voce è fioco e denso, cavernoso, lontano. «Non funzionerà!» lo urlo di nuovo, ancora, inviando mille segnali ai sensori che mi esplorano la mente e il corpo e raccontano di me, registrano le fasi del mio morire. Ora è spuntata in me la certezza dell’inutilità di quest’esperimento condotto con la mia vita. Giocato sulla mia pelle. Destinato a fallire. So che non funzionerà. Dovevi morire comunque, mi sussurra una voce dall’esterno, dall’acqua. È una voce inutile e inconsistente, vuota come quella di Mirna. Un miraggio. Però potevo risparmiarmi questo, rispondo comunque a quella voce. E il dialogo si interrompe qui. L'eco della voce si disperde nell'infinito. Poi c’è silenzio. So che non funzionerà. Non mi succhierà. La consapevolezza di questo fatto mi riempie di sollievo. Poi mi sento svuotato. E divento solo un punto di consapevolezza, una luce, una spirale di luce che si sta chiudendo. Vorrei urlare ancora. Non funziona! Vorrei urlare, ma non ci 53


riesco. Mi abbandono. Mi pare di sciogliermi, così, d’improvviso. Senza dolore. Scivolo in un abisso scuro. Mi disperdo nello spazio. L'amplesso della morte è tenero. Fluttuo attraverso un reame di vuoto tremulo. Sono trascinato senza volontà. Aleggio, sospeso nel vuoto, nero. Occhi chiusi. Nessun dolore. Fasce di luce purpurea e scarlatta mi trafiggono, colpendomi, come barre metalliche. Precipito. Ruoto. Nessun dolore. Veleggio. Brillo come vetro puro, trasparente. Scintillo. Penso al mare, all’acqua, gigantesche montagne di acqua, immagino gabbiani che volano sopra l’acqua con moto lento, uccelli che si tuffano, pesci dentro che guizzano. Penso al mare. Sprofondarci dentro, giù, lentamente, dolcemente. Sciogliersi. Una piccola morte dolce, una piccola morte inutile. Meraviglioso! Non funziona! Penso di urlare. Ed è in questo momento, mentre la certezza annulla i miei pensieri dentro alla luce, mentre intuisco vicino il passo della morte, mentre il sapore aspro della fine mi avviluppa e invia segnali decisi alle mie papille gustative, mentre l’odore pungente del buio mi satura, mentre la mia vescica ribelle spara liquidi all’esterno per marcare inutili territori d’acqua, è in questo momento che accade, in questo momento che mi sintonizzo, inaspettatamente. Adesso mi accorgo che potrei toccare qualunque anima, non è tempo di dolore, mi dice la voce ritornata. È una voce vera, questa volta. Calda. E il suo parlare è come un canto, ora. Niente miraggi. Siete creature solitarie, mi spiega la voce. Siete creature lontane. Siete creature fragili e mortali. Sì, rispondo, è vero. Ma a volte riusciamo ad incontrarci, a trovarci. Adesso vorrei... dico, e vorrei continuare, ma non riesco. Non riesco più. Niente. Ma so trovare 54


l’energia per un sorriso ingolfato dalla maschera. In questo momento capisco, sento, so che mi sbagliavo, è questo il momento per cominciare... Milano 2001

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IMMAGINARE DI IMMAGINARE DI IMMAGINARE

Jean de Boneville, nel suo Storie di specchi: dal labirinto al rizo-

ma illumina i lettori sul progetto per un labirinto di luce che Leonardo non riuscì mai a realizzare: la Stanza Ottagonale con pareti a specchio. Pare che mentre Leonardo indagava sulla natura delle immagini speculari, riprendendo il cerchio semicircolare di Tolomeo, disegnò un intreccio di riflessi e un labirinto: otto enormi specchi rettangolari uniti assieme a comporre un mondo senza confini. Incapace di costruirsi da sé lastre riflettenti grandi abbastanza da soddisfare le sue esigenze abbandonò l’idea. Però scrisse: «Quel omo che si troverà [al suo interno] potrassi vedere per ogni verso infinite volte e con infinita bellezza. Perché non vede la immaginazione più grande eccellenza qual vede l’occhio riflesso.» A quel Leonardo manipolatore di luce, che nell’immagine dell’occhio riflesso scopre l’immaginazione, vorrei sottrarre la forza dello sguardo verso il futuro. Vorrei immaginarlo come cercatore dell’infinito dentro al finito. Mi piacerebbe riprendere quell’ideale marchingegno leonardesco per la generazione 56


di labirinti e lì trovarvi l’ispirazione per sognare una visione: un frammento d’immaginazione per il terzo millennio. Vorrei generare per il lettore uno spazio per un’immaginazione che non rifugga la sfida della tecnologia, ma che piuttosto l’accarezzi; un’immaginazione che nasca calda dentro alla tecnologia e da lì fiorisca e si moltiplichi. Come un riflesso nella stanza di specchi. Tentiamo un esperimento di immaginazione: guardiamo, dall’alto, all’ottagono di specchi di Leonardo. Al centro della stanza osserviamo un tavolo circolare, una sedia e tracce vistose di tecnologia: otto elaboratori a computazione parallela connessi l’un l’altro. In semicerchio attorno al tavolo ampi monitor al plasma su piedistalli di metallo. Otto. Infine un uomo seduto, collegato ai computer tramite interfacce a immersione. L’uomo è Mangiafuoco, burattinaio di avatar. Nella religione Hindu, l’Avatar è l’incarnazione del Dio: la manifestazione di un’idea o di una realtà superiore. Per parallelo imperfetto, nei mondi digitali gli avatar indicano le manifestazioni più terrene di un creatore umano, le incarnazioni di un essere corporeo dentro a un mondo di informazioni. Nel nostro caso l’uomo si è multicopiato negli otto elaboratori a computazione parallela, incarnandosi in otto avatar distinti. Ogni avatar costituisce una variante semplificata della personalità del suo dio-creatore. Dopo la creazione, il dio ha scelto di manifestare i suoi otto avatar in un identico mondo virtuale. Chiamiamolo Aleph. L’uomo ha digitalizzato la sua immagine in 3D, e poi ha nutrito i computer con quell’immagine, così che ora sofisticati software di grafica la riproducono, perfetta, negli avatar. Altri software euristici 57


guidano gli avatar nello spazio del mondo simulato in azioni semi-indipendenti: mimano nei dettagli le espressioni facciali, i gesti e la postura, il linguaggio non-verbale, le configurazioni prossemiche del creatore. I computer eseguono il loro lavoro con perfezione. La potenza di calcolo è enorme; la risoluzione grafica di Aleph e degli avatar in Aleph è altissima, ed è impossibile distinguere l’aspetto degli avatar dell’uomo, vivi in Aleph, da una delle immagini dell’uomo riflesse negli specchi della stanza di Leonardo nella quale l’uomo conduce il suo esperimento. L’uomo ha organizzato un incontro tra i suoi burattini in un sotto-spazio di Aleph che è una copia della stanza degli specchi di Leonardo, e ora, mentre l’osserviamo, sta inviando comandi agli avatar attraverso le interfacce a immersione. Ogni avatar nella stanza degli specchi su Aleph vede gli altri avatar attorno, e vede molteplicità di copie di sé riflesse negli specchi della stanza virtuale, e vede molteplicità di copie degli altri avatar riflesse negli specchi della stanza virtuale. Avatar e riflessi di avatar riproducono, da molteplicità di prospettive, molteplicità di varianti del comportamento dell’uomo-dio. Ciascun monitor nella stanza degli specchi dove siede l’uomo ai computer che controlla l’incontro degli avatar nella stanza degli specchi in Aleph riporta l’incontro con gli occhi di uno degli avatar. Ogni monitor produce molteplicità di copie di se stesso nelle pareti a specchio della stanza di Leonardo e quindi molteplicità di varianti di avatar e riflessi di avatar generati nella stanza degli specchi di Leonardo simulata in Aleph. Si è detto che gli avatar vedono. In realtà è ovvia la distanza tra il loro concetto di vedere e il nostro. Gli avatar sono soltanto marionette, scimmie impegnate nel simulare semplici varianti visibili del comportamento complesso del loro dio. 58


Per loro, vedere è soltanto riprodurre. Così tale incontro di avatar possiamo pensarlo come un tentativo maldestro dell’uomo di rappresentare frammenti di vita su un palcoscenico virtuale. Ma per l’uomo ciò è già sufficiente. E anche per noi. Guardando meglio l’uomo condurre l’esperimento ci accorgiamo che è perplesso. Sta riflettendo sul problema insolubile dell’enumerazione, sia pure parziale, di un insieme infinito. Sta pensando: le copie sono riflessi lievissimi della mia complessità. Sono scatole nere. Dietro di loro, tra le pieghe del software che li anima, c’è ben poco, forse nulla, di umano. Nessuna di esse supererebbe il Test di Turing. Ma se solo una di queste copie, solo per un istante, per accidente, per fluttuazione probabilistica, per errore di software, fosse capace di trascendere i limiti della sua stupidità imposta dai processori che la inventano? Se una sola scintilla d’immaginazione digitale fiorisse dagli occhi di una di quelle mie copie? Una, una sola, per un istante. Allora quella scintilla infinitesima moltiplicata infinite volte nel labirinto di riflessi digitali dilagherebbe infinita in tutti i riflessi, su, fino al mio mondo di carne. Sorride a questo pensiero. Ne coglie a un tempo la potenzialità e l’impossibilità. Poi, incapace di tenere a freno la molteplicità di movimenti che saturano il suo spazio visivo, distoglie gli occhi dagli schermi. Ma non serve; può cogliere soltanto altre molteplicità di sue copie riflesse che lo scrutano. Allora scioglie gli occhi nel vuoto, sfocando lo sguardo tra molteplicità di riflessi, sperando in una redenzione dalla moltiplicazione. È così che lo lasciamo: seduto mentre ci regala questa speranza per l’avvento di un’immaginazione che nell’era tecnologica scaturisca dalla complessità quasi per accidente 59


probabilistico, o magari per alchimia elettronica, e trabocchi nel suo mondo e ancora più su fin dentro al nostro mondo. Forti della nostra posizione di osservatori, zoommando indietro e dall’alto, usciamo con gli occhi dallo schermo che racchiude la stanza di Leonardo e l’uomo, nostro alter-ego e avatar, e i suoi riflessi, e i riflessi dei suoi avatar nei monitor, e gli avatar nella stanza di Leonardo in Aleph, e i riflessi degli avatar negli specchi della stanza di Leonardo in Aleph. Allontanando ancora il nostro sguardo i riflessi di riflessi di riflessi perdono definizione. Si intrecciano fittamente fin quando nello schermo si disintegrano assumendo l’aspetto di pulviscolo, di vibrazioni elettroniche: brusio di rumore di fondo. È a questo punto che fermiamo il moto di allontanamento. È a questo punto che sul vetro del monitor, attraverso il pulviscolo di microriflessi intrecciati, cogliamo il riflesso dei nostri occhi. Dentro vi leggiamo scandita la stessa perplessità letta negli occhi del nostro avatar: questo nostro avatar di certo non supererebbe il Test di Turing ⎯ ci raccontano i nostri occhi. ⎯ Ma se solo per un instante un barlume della sua creatività si riflettesse dentro a uno di quei riflessi, allora forse ci sarebbe lo spazio per l’avvento di un’immaginazione che scaturisca dalla complessità quasi per accidente probabilistico, o magari per alchimia elettronica, e trabocchi nel suo mondo e ancora più su fin dentro al nostro mondo... Formulato il pensiero, un altro pensiero ci scaturisce improvviso: la ricorsività del processo che ci ha portato a formulare il pensiero sull’immaginazione nell’era digitale e a pensarlo scaturire da pensieri di riflessi di riflessi di riflessi. È a questo punto che da noi scaturisce il pensiero di essere pensieri di altri. È a questo punto, mentre pensiamo a immaginazioni di immaginazioni di immaginazioni, che ci 60


sentiamo addosso la sensazione di altri occhi su di noi, da dietro e dall’alto. Mentre ci osservano. Allora non ci è difficile immaginare molti altri livelli, molte altre immaginazioni... Milano 2000

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VITA MENTALE DI ALCUNE MACCHINE

Dalla collina scendo attraverso il parco, giù fino ai cancelli

e all’uscita, e cammino verso il fiume e il ponte. Guardo l'acqua nera in basso. Poi supero il ponte e vago per un po' tra le strade deserte, fin quando la scorgo nell'angolo, d’improvviso, ammasso scuro per terra, quasi inciampo su di lei sdraiata sul marciapiede. È sera, poche macchine ci scivolano a fianco, punti di luce mobile la illuminano a tratti, la nascondono; le sue gambe sporgono oltre l'orlo del marciapiede, aperte pendono sull'asfalto della strada, vicine ai pneumatici che passano. Mi accosto a lei, mi chino su di lei. È sporca, ha la faccia scura, il naso ferito, la bocca piegata in una smorfia, i capelli arrotolati sulle spalle e il collo come funi bagnate. Un alone fetido le circonda le labbra: alcool. Con un dito le sfioro una guancia, la tocco sulla spalla, i suoi occhi si schiudono come magici e lei si ritira dalla mia mano con un guizzo, ma poi mi guarda dritto e si apre in un sorriso: denti bianchi, bianchissimi; un contrasto acceso contro la sua pelle invisibile quasi al di là dello sporco. È un attimo, un attimo soltanto; il suo sorriso mi cattura: 62


puro, perfetto. Scorro gli occhi su di lei, dalle labbra al collo al suo seno e lo stomaco, le gambe, e l'immagine di questo suo corpo scarno e fragile accende in me un desiderio forte di lei, qualcosa mi afferra dentro, una voce, provala, dice, provala, lei è la persona giusta, in qualche modo lo sento. Provarla, lo so, sì, devo provarla, devo vedere. Sì. La scuoto, la cerco negli occhi neri. «Vuoi venire con me?» le chiedo. «Posso pagare. Posso pagare bene.» Lancia occhiate incerte a me e dietro di me, a oggetti alle mie spalle; aspetta un po' poi annuisce sorridendo. «Va bene» risponde. Allora l'aiuto a sollevarsi, la afferro per le spalle e la sorreggo e la spingo appena mentre lei si lascia trascinare, e in silenzio prendiamo a camminare nella notte come due amanti abbracciate, con l'autunno che ci circonda, con l'aria che si insinua fredda dentro ai miei vestiti, con le luci delle auto più lontane che brillano come stelle. Quando arriviamo la spingo oltre l'ingresso dei laboratori. Accendo la luce. Camminiamo lente lungo i corridoi sotterranei. Scorgo le sagome scure dei tubi che si perdono nel buio del soffitto, fasci di braccia lunghissime. Dove sono le mani? mi viene spesso da chiedermi quando li vedo. Cosa trattengono, cosa sorreggono? E i liquidi, l'acqua calda, acqua che scorre, su fino nelle dita dei tubi, nelle unghie di mani invisibili nascoste nei muri. Dove sono? Ritorno con gli occhi alla donna che segue obbediente i miei passi, l'osservo guardarsi attorno distrattamente; non parla, soltanto dondola mollemente le braccia attorno al suo corpo minuto, i suoi occhi come due grandi insetti; li appoggia appena sulle cose, con lo sguardo sfiora le 63


scatole di cartone ammucchiate negli angoli, le serrande abbassate dei magazzini, le macchine ferme in fila come appoggiate ai muri, silenziose. Apro una porta, saliamo le scale. Apro altre porte, saliamo altre scale. Altri corridoi, e finalmente entriamo nel mio laboratorio. Subito l'odore acre del suo corpo sporco si diffonde nella stanza. «Và a farti una doccia!» le dico, e lei annuisce senza protestare. Quando la prendo per mano si lascia guidare verso il bagno procedendo lentamente accanto a me con l'indifferente sottomissione di un felino abituato a ricevere ordini e alla vita di gabbia. Il suo vagabondare solitario nella città e nell'alcool deve averla assuefatta a questi incontri casuali, a questo modo di concedersi in cambio della possibilità di un giorno in più per le strade e di una nuova bottiglia. Sì, annuisce ora, si lascia spogliare da me, certo, sa che una donna come me non può farle nulla di male, certo, si fida di me, cosa dovrei farle in fondo? E poi la pago, sa che la pagherò, ho visto il bagliore nei suoi occhi quando ho pronunciato le parole magiche, le parole che annullano emozioni e dolore, aprono tutto, fino ai corpi, la pelle, la carne. Appoggio le mani su di lei, sulle spalle, le sue braccia sottili, apro i bottoni della sua camicia, uno dopo l'altro, lentamente, e lei mi lascia fare. In fondo è questo che si aspetta da me. Le sfilo la camicia e la maglietta sporca, tolgo la gonna che si arrotola per terra attorno alle caviglie, poi le scarpe, le calze e le mutandine giù lungo i suoi fianchi magri, le cosce, i piedi. Aspiro l'odore aspro del suo corpo nudo; sudore e sporco impastati dal tempo, odore di donna selvaggia: preda da catturare, da conquistare. Vorrei toccarla ora, sfiorare la sua pelle, attraverso il contatto cercare in lei un legame che me la renda 64


accessibile e senza riserve, e in qualche modo annulli la distanza tra il mio corpo e il suo, sullo sporco e oltre lo sporco. Ma mi trattengo. Non posso ora, no. La carne no, lei ha un altro ruolo stanotte, la carne no... La spingo nel box della doccia e apro il rubinetto. Il getto d'acqua calda le afferra la testa e le spalle. «Come ti chiami?» le chiedo mentre l'acqua la bagna, inonda capelli e viso, le gocce scendono su di lei come perle. Le sfioro le mani, si lascia toccare senza reagire. Mi lancia uno sguardo, «Ianina» dice. Ianina: nome dolce, nome strano. Mai sentito prima. Un nome da dea, un nome potente. Ma questa volta Ianina non ha potere; Ianina è in mio potere! Libero le sue dita dalle mie, «No!» dico. «No, niente Ianina per stanotte; per me ti chiamerai Ofisia.» La guardo. Mi guarda: occhi spalancati, la sua mente esce dalla nuvola d'alcool che la annebbia. Per un attimo. «Ofisia?» dice. «Che razza di nome! E che significa?» «Serpente. Ti pago per essere Ofisia. È il nome di un serpente. O di chi credeva nei serpenti. Ofisia per stanotte.» Mi studia ancora. Stupita. Occhi neri, e dietro quegli occhi un barlume di luce che spunta da dentro; Ianina, Ofisia, il mio serpente. «Serpente? E che vuol dire...?» balbetta sporgendo la testa fuori dal getto della doccia mentre il suono dell'acqua frena le sue parole. «Io credevo che...» «Ofisia. Pago per questo. Ti do soldi per chiamarti serpente. Cosa ti aspettavi? Sesso? Vuoi sesso? Se vuoi posso darti anche quello, ma non solo quello Ofisia.» Mi guarda a disagio. «E poi? Che dovrei fare poi? Io credevo che... Insomma cos'altro mi...?» 65


Mi guarda. Occhi grandi, bocca aperta e i denti che brillano. Le gocce d'acqua sul suo viso più pulito ora, sui suoi capelli bagnati. Paura forse. Sospetto. Prima consapevolezza che il gioco a cui è abituata sta scivolando in qualcosa di diverso, una situazione con regole che non conosce, che non riesce ad afferrare. Naturalmente. È così che deve essere. Ianina, un nome di dea, la dea che non conosce, la dea che ha paura. Certo. «Un paio di occhiali» dico. «Voglio che ti infili un paio di occhiali e guardi dentro. Sono occhiali speciali. Vedi cose dentro. Tutto qui. Ci guardi dentro per un po', mi dici quello che vedi e poi ti pago e te ne vai.» «Tutto lì?» dice adesso. Sospettosa, ancora. Sorride stentata. La vedo che pensa, riflette su quanto le ho detto. Preoccupata, ancora. Però sembra più rilassata ora che sa. Ora che crede di sapere. La paura è andata, non è una donna di quelle, pensa; l'ho spogliata, ecco la solita lesbica, ha pensato, ma ora sa che non le voglio fare del male, sa che non la voglio uccidere, certo che no, pensa, lo leggo nei suoi occhi che è sicura di questo ormai. La solita lesbica, il sesso sotto la doccia e tutto il resto, sono sicura che ha pensato questo. Poi le dico degli occhiali e allora è una donna strana, pensa, no, non vuole sesso, mi fa solo guardare negli occhiali. E va bene, allora guardiamoci in questi occhiali sembra dire coi suoi occhi. Mi riserva quello sguardo paziente e ammiccante che si regala ai pazzi, è pazza! vorrebbero bisbigliare le sue labbra chiuse, ma se mi fa guardare negli occhiali e paga va bene. Guardare negli occhiali e mi paga anche... Certo, questo è ciò che pensa, mi pare di decifrare i suoi pensieri nascosti oltre il fruscio dell'acqua su di lei, al di là dei suoi occhi, dentro. «Ma io vedo cose anche senza occhiali» dice. «Gli uomini 66


pensano che sono pazza perché racconto le cose che vedo quando sto con loro, e loro mi dicono che invento tutto e che loro non vedono niente e che sono pazza.» «Bene. Allora per te sarà ancora più facile.» Le sorrido; bene, Ianina la visionaria, la scelta migliore, come sempre sono le scelte dettate dal caso. Ma lo sapevo, lo sentivo. «Sento anche le voci» dice mentre si insapona le braccia, mentre la schiuma le accarezza il ventre. «La telecamera... Loro non mi credono quando gli dico della telecamera che mi segue. Davvero... Riprende tutto quello che faccio. Mi dice cose, cosa debbo fare, dove devo andare. Mi ha detto di venire con te prima... Loro non la possono vedere perché è nascosta, nessuno la può vedere, neanche tu, è troppo piccola, solo io so che c'è, lì...» punta il dito di fronte, il dito verso il soffitto, occhi sbarrati, occhi affogati nell'alcool. «Io ti credo» dico. «Sì, io ti credo, anch'io vedo cose che gli altri non vedono. Gli altri non possono capire... Il tuo mondo non è il loro... Ma io ti credo.» Oltre il vetro guardo la luna spezzata dai rami che si agitano nel vento, i frammenti luminosi che nel vento cambiano forma e dimensione. Poi torno alla stanza, a Ofisia, mi avvicino a lei, chiudo il rubinetto, mi muovo verso l'armadio con gli asciugamani. «Ecco, vieni qui» dico. Stendo un braccio e lei stende le braccia, le sorrido e lei si specchia nel mio sorriso, risponde sorridendo. Sì, vieni qui, vieni verso di me, vieni, ecco, brava, fragile creatura in mio potere. Afferra l'asciugamano che le porgo e per istanti abbandona le sue dita nelle mie, si fida ormai, certo. Si sposta, i suoi piedi lasciano tracce bagnate a terra. Si ferma e con l'asciu67


gamano comincia a cancellare le gocce d'acqua dal suo corpo. Quando ha finito raccoglie la camicia e sta per infilarla. «No» dico, «non occorre, va bene così come sei» e lei mi guarda; insicura, ma mi asseconda. Cos'altro potrebbe fare ormai? Usciamo dal bagno. La spingo, io ansiosa, lei ansiosa, lo vedo da come si muove guardinga, paura forse, ancora, ma non dovrebbe ormai. La faccio sedere nella poltroncina vicino al computer. Prendo gli occhiali dal contenitore di plastica, il cavo dal tavolo, infilo lo spinotto nella console e lo collego agli occhiali. Poi vado verso di lei. «Infilali» dico, glieli porgo e lei li afferra, li guarda. «Infilali» ripeto. Li mette con una lentezza che mi esaspera, fa passare la fascia elastica attorno alla testa, dietro. Con le mani controllo che gli occhiali siano ben sistemati. Sorrido. Ora che è cieca, impotente davanti a me, le afferro i polsi e con le cinghie la blocco ai braccioli della poltrona, e prima ancora che si opponga ai miei movimenti è legata ormai, catturata. Cerca di ribellarsi, perché ti ribelli? le chiedo, non c'è niente di cui preoccuparsi, le dico, non ti preoccupare, è tutto tranquillo, è solo che ho bisogno che tu non ti muova, devi essere ferma. Tranquillo, è tutto tranquillo. Per me. Tutto bene. Ianina, Ofisia, non devi preoccuparti, ormai non puoi andartene. L'alcool ti darà forza, vedrai. E poi vedi cose, già le vedi senza di me, che differenza può fare per te? Telecamere o altro, siamo tutti schiavi delle nostre visioni. Non ti preoccupare Ofisia, non devi... Le allaccio le due cinghie con le piastre termiche, l'una at68


torno alla vita, l'altra appena sopra ai seni. Controllo che le piastre termiche siano posizionate correttamente, anche quella sotto la cinghia degli occhiali, vicino alle tempie. Fegato, cuore, cervello: la forza, la passione, la vita. Certo; la morte anche. Vado verso la console. Accendo i due monitor collegati agli occhiali, le minitelecamere negli occhiali, poi il computer e la telecamera stereoscopica di fronte a Ofisia. Tutto è pronto. La guardo: stupenda, immobile sulla sedia, in attesa. Anch'io mi arresto in contemplazione. Bellissima. E subito arriva la zampata del desiderio, mi sale dentro rapida, cerca in me la sua strada ora, mi chiama all’azione. È un formicolio che inonda la nuca. Ma riaffiora anche la memoria: Erina, le immagini di quella volta, le sue mani su di me intrecciate alle sue macchine fredde, quelle dita meccaniche che mi frugavano il corpo mentre Erina rideva alle mie grida... quella sera... le immagini di quella sera... Erina... Ora invece sono io a preparare le immagini per il futuro di Ofisia. Erina su di me, ora io con Ofisia... Neppure Ileana sa che sto per provare il programma. Certo, se sapesse mi odierebbe, in fondo abbiamo sviluppato il programma assieme. Ma devo provarlo da sola, senza di lei. Finora con lei è stata solo teoria, troppa teoria. Sì, anche Ileana ama assaporare il piacere che fiorisce dal dolore, ma non è ancora capace di convincersi a praticare ciò che la sua mente le suggerisce, e così ancora le sfugge quel senso di bellezza che solo la presenza di una vittima reale potrebbe generare. No, in fondo non è neppure questo, non è che Ile69


ana non lo capisca; è che lei ha paura, lo so. Paura delle conseguenze, paura di non saper contenere la grandezza di un sentimento che nasce dalla consapevolezza di possedere un potere assoluto sulla vittima. Troppa teoria. Forse lei non ne ha avute abbastanza, è quello il suo problema, le manca una ragione, la spinta a farlo sul serio. Io invece... tutto quello che mi sono lasciata fare, quello che mi hanno costretto a fare; le altre donne, gli uomini. Le altre donne. Anche lei, Erina, certo, come tutte le altre, più delle altre. Tutti. Perché non dovrei cercare la vendetta? Chi l'ha detto che soltanto gli uomini devono essere crudeli? A loro il diritto alla vendetta, le donne invece, accettare tutto in silenzio, e la rassegnazione... E chi l'ha detto? Gli uomini, ripieni di quella loro crudeltà stupida che cerca solo la soddisfazione di istinti semplici, la duplicazione attraverso il seme, la penetrazione come forma di trionfo. Gli uomini! Troppo pochi sono quelli che fanno della vendetta un cibo speciale da assaporare; troppo pochi quelli che abbandonano il mondo meschino dei mediocri per fare del corpo la fonte di un piacere profondo. Dovrebbero imparare ad essere crudeli sul serio, imparare a capire il senso delle loro azioni, imparare a fare come me ora, qui, con Ofisia, il suo corpo davanti a me pronto ad accettare il mio regalo. Il suo corpo, la pelle, la carne. La penetrazione. Sì certo, la carne da afferrare e penetrare, ma cosa c'è di più seducente del cervello, la carne che controlla i corpi? Contro di te Erina, in ricordo di tutto quello che ho dovuto subire, per te, che mi hai insegnato a capire il dolore e la sua terribile bellezza e a rifuggirlo da me praticandolo sugli altri. Per te Erina: la vendetta sul cervello, la mente, è lì che voglio spingermi, lì che voglio prendere; la penetrazione nel cervello, la conquista più ambita, la più dif70


ficile, quella che più di ogni altra mi permette di urlare sì, ho posseduto, ho preso, ho tolto! Ho tolto, sì... Ho dato forse, ho dato anche, ma quello non ha importanza. Non ora. Non con te Ianina, non con Ofisia, la mia dea stanotte. Con te prendo. Con te accolgo la forma più perfetta di penetrazione. Su di te, con te, come hai fatto tu con me Erina. Sì... «Non vedo niente!» urla Ofisia e si agita irrequieta nella poltrona come un animale al guinzaglio. «C'è solo questa luce, ma non vedo niente. Perché non vedo niente?» dice, apre e chiude le mani, le dita si contorcono come serpenti appena in vita. Sì, serpenti. «Aspetta» rispondo. «Aspetta e vedrai.» Compongo il nome del programma nella tastiera e lo faccio partire. Subito le due telecamere montate negli occhiali rimandano nei miei video le immagini dei suoi occhi. Allora attivo i minuscoli monitor negli occhiali, e attraverso quegli schermi spedisco a Ofisia le copie dei suoi occhi. «Ehi, vedo i miei occhi adesso!» urla eccitata. «Sono i miei occhi!» «Sì, sono i tuoi occhi.» «È come in uno specchio, solo che ci sono solo i miei occhi, senza tutto il resto. I miei occhi senza la mia faccia... è strano...» Non rispondo. Lascio passare i secondi, li lascio accumulare in minuti, minuti di silenzio. Lei comincia a dimenarsi nella poltrona; non aggiunge parole, ma sembra sempre più irrequieta. Certo; conosco la sensazione di guardarsi negli occhi, l'ho provata anch'io quando preparavo il programma, 71


anch'io mi sono spinta fino a questo stadio, ricordo la sensazione di sentirsi spiati dai propri occhi... «Allora?» chiede a un certo punto. «Basta guardare gli occhi! È tutto qui quello che devo fare?» «Aspetta; aspetta devi essere paziente!» dico. «Conosci così bene i tuoi occhi che non hai bisogno di guardarli? Guardali, perché non li guardi bene? Guardali bene, fino in fondo, dentro...» Sì, aspetta Ofisia, guardali bene, aspetta la sorpresa... I suoi occhi riempiono il campo dei miei monitor. Li apre, li chiude. Agita la testa. Guardali dentro, ora, perché ora vedrai. I tuoi occhi come specchi, e riflettono... Dalla tastiera attivo nuove opzioni del programma. Il computer cattura l'immagine del suo corpo dalla telecamera stereoscopica di fronte a lei, la esamina, la polverizza e la ricompone sugli schermi. «Muoviti!» le dico. «Muovi la testa!» Lei obbediente scuote la testa; il programma analizza il movimento e immediatamente lo riproduce nei monitor. Inserisco altri valori nel computer, seleziono voci di menù, le forme dell'incubo di Ofisia: 14, 4, 7, 12; la caverna, lo specchio, l'uomo senza volto, il cesto col serpente. Il computer digerisce i miei dati, subito il fondo grigio dietro l'immagine di Ofisia assume i colori della roccia, è roccia, lo specchio appare attorno a lei, la sua immagine diventa quella di una figura riflessa, una finzione che lei non può capire. Osservo per istanti la qualità della grafica, cerco difetti nelle forme, sbavature nei contorni, alterazioni cromatiche. Niente, perfetta; l'immagine è indistinguibile da quella reale. Allora la spedisco nei suoi occhiali. «Ora parla» le dico. «Dimmi tutto quello che vedi, quello 72


che provi. Parla...» «Sì, adesso vedo» dice subito lei, «sono io, e c'è uno specchio di fronte a me, grande, e io mi ci vedo tutta come sono ora, seduta nella sedia, con questi occhiali, ma... la stanza non è... ehi cosa hai fatto, dove mi hai portato...? non è questa stanza, è un altro posto... più grande e io... ma non mi sono accorta che... dov'è finita la stanza...?» «Quale stanza? Non c'è mai stata una stanza, ricordi? È una caverna, siamo entrati nella caverna.» «Ehi! Quale caverna? Cosa mi stai facendo? Ehi! Slegami, voglio andarmene. Ehi!... mi senti? Voglio andarmene da qui, non ho più voglia di questo. Fammi andare via. Ehi!....Ehi!...» Non rispondo. Ormai non esisto più per lei, il cuore pulsante del programma è attivato ormai, lei è nella caverna. C'è l'uomo senza volto che la aspetta. Sì, posso sedermi ora, qui, di fronte a te, vedere dai monitor ciò che tu vedi, vederti reagire alla finzione elettronica, assistere alla costruzione del tuo incubo. Buona fortuna Ofisia, certo, ora sei la primadonna della rappresentazione che ho preparato per te. Ecco... La vedo dimenarsi sulla sedia cercando di rompere le cinghie che la trattengono ai polsi. Grida. Mi cerca. Ha capito che non sarà come ha creduto; ora sa che non doveva fidarsi. Mai fidarsi di nessuno; certo. Ma è troppo tardi ormai per te Ofisia, troppo tardi... Guardo l'agitarsi speculare della riproduzione grafica del suo corpo. Lo specchio la contorna e la contiene, la grotta contiene lo specchio, il programma contiene lei e lo specchio e la grotta. È così che lei si vede attraverso gli occhiali, così che lei si pensa ora. Si agita, grida, ma non le servirà. Non più ormai. Ianina, Ofisia, la tua immaginazione visionaria ti aiuterà 73


a credere che sia realtà, l'esperienza più profonda che tu possa mai fare. In fondo dovresti ringraziarmi per l'occasione che ti offro... L'uomo senza volto le arriva da dietro in silenzio. Lei lo vede nei suoi occhiali, riflesso dietro di lei nello specchio, e allora smette di agitarsi, si concentra sulla nuova figura che le è vicina. Gira la testa. L'uomo senza volto le si accosta, si piega su di lei, sul suo viso; atterrita. Il tocco di perfezione: ho dato gli occhi di lei all'uomo senza volto; quegli occhi in cui si è specchiata per un po' ora sono occhi in un corpo da uomo, corpo muscoloso e nudo, occhi che la guardano. Grida. Grida ancora, perché gridi ora, questo è solo l'inizio, non gridare ancora, c'è tempo per quello, non cercare di fuggire, è inutile. C'è anche la cesta nelle mani dell'uomo senza volto, ora di fianco a lei, e Ofisia che cerca i suoi movimenti nello specchio ruotando la testa attorno, piegando il collo fin quasi a spezzarlo. E lentamente lui apre la cesta, getta a terra il coperchio, infila dentro un braccio, lo ritrae e il serpente è nelle sue mani, gioiello nero. Lo tiene per la testa, testa luminosa, e lo avvicina a te Ofisia, alla tua faccia, e tu gridi, scuoti la testa, no, non preoccuparti ancora, guarda la lingua che guizza tra i tuoi capelli che si aprono tutt’intorno a te, bellissima Ofisia, non preoccuparti, questo è solo l'inizio. Ecco, l'uomo senza volto muove il serpente verso sé, verso la sua testa, là dove dovrebbe esserci un'invisibile bocca, e pare bisbigliare parole, se solo potesse parlare, ma Ofisia non le sente, non c'è bocca, può solo immaginare parole, ma lei è capace di questo, lei ha visioni, no?. Dunque ci sono parole per il serpente, ordini forse? Certo, ordini da eseguire su Ofisia, sul suo corpo dolce e nudo e inerte nella sedia. L'uomo senza volto accosta il serpente al ventre di Ofisia; il programma attiva le piastre termiche attorno alla sua vita, il tocco fresco del serpente sul suo corpo è reale per lei, 74


grida, l'urlo altissimo di terrore riempie la stanza e colma la mia mente. Grida, grida pure, non c'è nessuno che possa sentirti, solo io qui ad ascoltare il canto della tua voce, grida, grida, ricordi Erina, questo era il modo in cui anch'io gridavo, te ne ricordi ora? Il serpente striscia sull'immagine di lei, e lei lo sente naturalmente, perché le piastre le trasmettono la variazione termica che simula la presenza del serpente sulla sua pelle, il suo lento vagare sul suo ventre. L'uomo senza volto è davanti a lei, immobile, ma Ofisia non lo guarda ora, non più, perché è il serpente a preoccuparla e farla urlare di terrore. E ora ecco finalmente la prima penetrazione: il serpente che scivola giù verso l'anca, si appoggia sulla coscia e solleva la testa e scatta giù verso la pelle, affonda i denti dentro di lei e verso il fegato, mentre il corrispondente disco termico si accende come fuoco a riprodurre il dolore del morso. Grida ora Ofisia, grida, perché è giusto che lo faccia ora, ora che il serpente ti morde e lo vedi entrare piano nel tuo corpo, guizzi d'oro nel suo corpo nero, dentro fino a sparire cercando in te la strada verso i tuoi organi vitali, il fegato, e poi su, il cuore. Grida, grida..!. Non lo vedi più ora, è scomparso dentro di te. C'è solo il foro rosso di sangue vicino al tuo sesso a ricordarti la sua presenza in te, ma quella bocca di sangue spalancata nella tua carne è troppo dolorosa per non apparirti vera. Ma in fondo non è il dolore ormai a preoccuparti ora, lo so, non solo quello, vorresti sapere dov'è il serpente ora; certo, è in te, dentro di te, sì, ma dove? Non lo senti? Aspettalo, aspettalo pure... L'attesa ti sconvolge vero? Non ti agitare, non serve a niente, ferma, aspetta che lui venga a trovarti più in alto, aspetta... Ecco, eccolo, il disco all'altezza del cuore ti invia il 75


calore del nuovo morso, la simulazione grafica annuncia ai tuoi occhi l'uscita del serpente dal seno, e tu ci credi, certo, lo so, i tuoi capezzoli eretti, ecco si fa strada fuori dal cuore, lo senti il dolore? sì lo senti perché gridi ora, non parli ora, non domandi, solo il suono dolcissimo che esce dalle tue labbra, è inutile che chiudi gli occhi, spalancali, guarda la testa nera del serpente aprirti la carne, senti il fuoco del suo morso su di te, il sangue che spilla dalla tua immagine, le tue gambe rosse ormai, guarda i suoi occhi rossi, i riflessi d'oro della sua testa, la lingua che sboccia dal nuovo squarcio aperto nel tuo seno. Resisti, ora, resisti ancora Ofisia, perché non è finita! Se Erina fosse qui! Se solo potesse vedere! Ricordi Erina? Certo, come potresti dimenticare? E tu Ofisia come ti senti ora? Capisci quello che ho provato? Ora anche tu puoi capire cosa si sente. Ora conosci il dolore, la penetrazione, tutto. Ora capisci Ofisia? Erina? Il programma continua, il computer agita i suoi bits, elettricità indifferente al grido di Ofisia, alla mia gioia, la passione. Il corpo nudo di lei che si agita cercando la fuga, imprigionato alla sedia, è lo spettacolo perfetto, l'appagamento per i giorni e i mesi spesi sul programma. È perfetto. Così come perfetto è il mio serpente inventato che si erge ora nell'aria attorno alla testa di Ofisia, per metà ancora infilato nel corpo di lei, il nero lucido delle sue scaglie che brilla sul rosso vivo del suo sangue. Due fori, due bocche, due penetrazioni: il fegato, il cuore. Manca solo il cervello ormai. E infatti il serpente si scaglia ancora su di lei, dall'aria attorno alla sua testa si muove con scatto veloce fino agli occhiali e 76


poi la tempia. Di nuovo il disco termico le conferma il messaggio del morso, di nuovo il suo grido riempie la stanza. Ofisia scuote la testa come impazzita, la butta indietro, coi capelli che riproducono e moltiplicano i suoi movimenti disordinati mentre il serpente lento entra in lei, le scivola dentro la testa e sparisce. C'è solo il dolore ormai a testimoniarle la verità di ciò che ha visto. Ora sei nella grotta Ofisia, lo so, ti sei dimenticata di me ormai, c'è solo la grotta per te, e c'è soltanto la tua immagine che si agita nello specchio che vedi di fronte, e l'immagine dell'uomo senza volto, l'uomo coi tuoi occhi che assiste immobile alla cerimonia che io ti dedico. La finzione che ho preparato per te si è trasformata ora nella tua realtà. Ci credi ormai. E cos'altro è in fondo la tua realtà se non ciò che i tuoi occhi ti dicono, il dolore che ti brucia il corpo, l'urlo della tua gola che risponde obbediente alla tua paura e la tua sofferenza? Cosa ti succederà ora? Dov'è il serpente? Ti sta mangiando la mente? Catturato dentro di te, uscirà di nuovo, o farà in te il nido e ti abiterà dentro? Grida Ofisia, grida ora, scuoti la testa, urla, piangi, impazzisci se vuoi, grida anche se non lo vedi più, soprattutto perché non lo vedi più. Aspettalo, aspettalo ancora se riesci a sopportare il dolore, se resisti all'attesa; aspettalo. Dove spunterà ora? Il sesso, la fessura tra le tue cosce che credevi di vendermi per stanotte? O gli occhi? Uscirà dagli occhi, mangiando la sua strada di carne verso l'esterno? O la tua bocca forse, così che il tuo urlo ti morirà dentro, soffocato dalla luce nera della sua testa che fiorirà tra le tue labbra come una lingua? Dove? Dove? No Ofisia, non uscirà più, resterà con te, ti seguirà via di qua, in strada, nelle tue notti da alcolizzata, nei tuoi peggiori incubi, nelle tue visioni. Imparerai a temerlo, ad aspettarlo. Spunterà d'improvviso forse, e ti vorrà mangiare ancora. Ma cosa c'è da mangiare quando hai già perso la forza, la passione e la mente? Cos'altro ti resta? Svieni se vuoi, ora è tempo 77


per farlo. Anche l'uomo senza volto se ne va lasciandoti sola ad allevare il dono che ha portato per te. Conservalo con cura, lascialo crescere in te, aspettalo... Pian piano il suo grido si smorza in un lamento e poi in silenzio. La testa le scivola di lato, i capelli le fasciano le spalle. È finita. Svenuta. Troppo breve. Ma no, no, in fondo è giusto così, l'intensità non può aver durata, altrimenti diventa abitudine, si sfilaccia e perde contorno, la passione che muore nella ripetizione. La cerimonia è compiuta ormai. Cos'ho ancora da prenderle? Da darle? Ho bevuto il suo dolore; le ho regalato un sogno. Cos'altro? No, è finita... sì, va bene, va bene così... Mi avvicino a lei, le libero i polsi dalle cinghie, la prendo tra le braccia e la sollevo. È leggera, morbida, il suo corpo sudato emana l'odore della paura. Mi giace tra le braccia con la mollezza di un uccello morto. La trascino verso il bagno, la appoggio per terra. Afferro i suoi vestiti sporchi e glieli infilo l'uno dopo l'altro: le mutandine, la maglietta, le calze, la gonna, la camicetta strappata, le scarpe. È ancora svenuta. La sollevo di nuovo, la trascino giù per le scale, lungo i corridoi, oltre le porte e il cancello, giù fino alla strada buia. Nessuno. A fatica la stendo a terra per riposarmi e come la appoggio al marciapiede comincia a muoversi agitando lentamente le braccia e le gambe come un gigantesco insetto catturato per le ali che cerca di liberarsi. La faccio alzare. Riesce a camminare. Per un po' la accompagno sorreggendola per le spalle, poi la adagio a terra di nuovo prima che si riprenda completamente. Tiro fuori dalla tasca un fascio di soldi arrotolati. Per un momento li stringo nel pugno, poi mi chino su di lei e li appoggio sul suo corpo. 78


Soldi ben guadagnati Ianina, ecco, prendili, sono tuoi, certo prendili, usali, compra la gioia per la tua mente, l'alcool sarà il liquido magico per il tuo cervello, la culla che custodirà la creatura che stanotte ti ho aiutato a partorire, il dio che vivrà in te e ti dominerà... Mi allontano. Fatti pochi passi nella notte mi giro verso di lei, e lei è una figura scura sdraiata sul marciapiede, potrebbe essere un uomo, una donna, uno strano animale che dorme e si agita nel sonno accompagnato dai propri incubi. Mi allontano. Riattraverso il cancello, torno a riaprire porte, percorro i corridoi bui, poi su per le scale, il laboratorio. Entro. Spengo i monitor, la telecamera, gli occhiali, il computer. Ripongo gli occhiali nella custodia. Poi vado in bagno. Mi incontro nello specchio, ci incontriamo. Sorrido al riflesso che mi sorride davanti. I miei occhi azzurri mi rispondono: Eccoti, eccoti finalmente, sì! Afferro il lampo oltre i tuoi occhi cerchiati di rosso, lucidi: il bagliore della passione, la potenza. Sì, domani sarai ancora la copia perfetta del Dottor Jekyll, l'ingannatore. Ma questa notte no, non con Ianina. Con lei, con Ofisia, la tua identità è stata Hyde, l'ombra, l'oscurità. Per te Erina, contro di te, per tutte quelle come te che hanno sempre trovato le loro Ianine, per quelle come te, senza occhi, o con occhi come specchi, troppo prese nella contemplazione della vostra esistenza per occuparvi della vita di chi vi ha cercato e amato e si è perso per voi. Per questa notte siamo state Erina. Ianina, dea della perdita, ha assunto il nostro ruolo. Per questa notte almeno. Poi ci saranno altre notti come questa e in quelle notti anche Ileana. Altre notti, altre rivincite; anche Ileana alla fine cederà alla curiosità di vedere, di sfogarsi; sì, lo so, non può farne a meno, è solo questione di tempo e anche lei cercherà le sue Ianine da piegare. Ma allora sarà diverso, diverso. Questa notte, la prima notte, doveva essere soltanto mia, nostra. Albany, 1990

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IL PERSUASORE

Voglio cambiar lavoro; sono stanco, e prima o poi mi

beccano e finisco al tg e mi chiederanno: come ho potuto? e altre stronzate, come è stato con la Vanna Marchi, quei suoi assistenti intervistati sfocati per non essere riconosciuti, pentiti e pronti a confessare, che dicevano: ci costringevano, avevamo paura, bisogno, e la disoccupazione, il milione di posti di lavoro, eccetera. E se scoprissero me? Altro che riprese sfocate! Mi arresterebbero. E io che direi? Che ero costretto, avevo paura, e la disoccupazione eccetera? Stronzate! La verità è: lo faccio per i soldi. Ne ho passati tanti di lavoretti, ma qui pagano meglio. E poi è un lavoro come un altro, come con i becchini. Qualcuno deve farlo, e io lo faccio perché rende, perché il mio capo con me sa che accadrà ancor prima che accada, e dopo ha lo scoop da vendere ai giornali, con tutti i come e perché che eccitano i morbosi che si fingono scandalizzati. E io sono bravo, so scrivere, so convincere. Per questo mi paga: navigare, scovare i tipi giusti, chattare della vita e di Dio e della morte. E convincerli. Perché alla fine questo faccio: li scelgo, li riunisco, li aiuto a finire ciò che comunque hanno già deciso. Solo che con me 80


lo fanno meglio e prima. E non è facile, credetemi, non è come la Marchi con i suoi filtri antimalocchio. Per esempio, ricordate la storia dei giappo morti? Gas di scarico, tutti suicidi? Grande storia per tv e giornali! Ottimo lavoro. Non sono stato io, ma potrei essere stato io. Forse un collega. Invece quello che si è murato vivo in cantina a Milano, come in una storia di Poe, quello sì, sono stato io. Gran bel lavoro. E insomma, qualcuno deve farlo. Lo faccio io. E non rompetemi. Sono stanco, voglio cambiar lavoro prima che mi becchino, e domani, magari, ci sarà un altro al posto mio. Milano 2005

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DOLORI NELLE PRIME ORE DELLA NOTTE

Nessuno avrebbe saputo raccontare com’erano cominciati

questi nostri incontri, ma in un modo o nell’altro eravamo finiti tutti lì, a guardare le macerie nere, le ceneri, i fuochi che nella notte sostituivano le luci elettriche. A guardarci in faccia, malandati e sporchi. Che altro potevamo fare oltre a tentare di sopravvivere? Quella sera eravamo riuniti in cerchio attorno alle fiamme, come al solito, a scaldarci e a tirarci addosso stronzate, in cerca di protezione attraverso le parole, in cerca di stordimento con roba forte. Erano le prime ore della notte, noi ci facevamo con ciò che eravamo riusciti a recuperare nei supermercati; per allungare le dosi mescolavamo alcol etilico e vino rosso scolato dalle buste di cartone. Certo che faceva schifo quell’intruglio, e ci intossicavamo con quello, ma chi se ne fregava a quel punto, ti si arrampicava direttamente nel cervello, come una bestia viscida, si strusciava addosso, poi il bruciore e un’esplosione, e si partiva. Si vedevano luci, cose, i ricordi tornavano. Erano schegge violente e confortevoli. Cos’altro ci restava se non l’illusione di poter annullare il mondo per un po', per un po' stordirci e scordare il presente? 82


E così quella sera eravamo in cerchio attorno alle fiamme, come sempre facevamo nelle prime ore della notte, e si fece avanti questo donnone che di certo non avevamo mai visto prima. Apparve d’improvviso, senza far rumore di passi, proprio come succede con gli spettri. Ma degli spettri aveva ben poco; era possente, alta, con due grandi tette che le riempivano il petto e sfondavano il buio. S’infilò tra noi. Non salutò, non disse nulla. Solo si fece avanti fino ad arrivare in mezzo al cerchio di corpi, e si fermò vicina al fuoco per scaldarsi, tendendo le mani verso la luce mobile. Lo sguardo era fisso tra le lingue di fuoco. Subito dopo se ne venne fuori lo Smilzo, ci spuntò davanti senza che quasi ci accorgessimo di lui. L’aveva seguita camminandole alle spalle, come un misero animale domestico che d’improvviso è lasciato libero e non sa come muoversi, né come nascondersi. Si mimetizzava dietro di lei, che era larga il doppio di lui. È per quello che non l’avevamo visto subito. «Lei è Mina» ci disse lo Smilzo. Si rivolgeva a tutti noi, e a nessuno in particolare. «Una grande cantante, prima della catastrofe.» Mina. Una cantante. Li guardammo increduli. Mi venne da pensare a un ippopotamo e a un serpente. Erano una coppia assolutamente improbabile, la bella e la bestia, la cantante e il cretino. Che ci faceva Mina la cantante in questo posto merdoso? E con lo Smilzo, poi? Cosa mai li poteva portare assieme attorno al nostro fuoco? Che volevano da noi? Però continuammo a guardarli, anzi, no, ci concentrammo solo su di lei, perché dello Smilzo ce ne fregavamo, lui era semplicemente lo Smilzo, che altro si poteva dire di lui? Inve83


ce lei la fissavamo curiosi, attenti mentre ora ci sfiorava tutti col suo sguardo per niente intimorito. Addosso aveva questo vestito nero e lungo, ben attillato, così che la stoffa lucida rivelava tutti i rigonfiamenti del suo corpo molle. Solo il petto era mezzo fuori, poverino, grosso com’era non è che trovasse molta stoffa per nascondersi. «Sa cantare» aggiunse lo Smilzo con una voce appassita. Con quella frase pareva che volesse giustificarsi per averla portata. Ci si stava lavorando, come al solito. O almeno ci provava. «E canta bene anche. Era la prima donna nel coro di Varsavia...» «È una grande cantante lirica...» disse alla fine. «Davvero...» E le parole gli si spensero nella notte. Noi ce ne restammo in silenzio ad aspettare che succedesse qualcosa. Va bene, avevamo la cantante. E quindi? Che dovevamo farci con la grande cantante? Intanto tirai una buona sorsata per scaldarmi. Quella roba andava giù bene, dannatamente bene. Bruciava tutto dentro. Cominciai a lacrimare. Alzando la testa vidi le stelle. Costellazioni lontane e indifferenti. Fuori era il fuoco a bruciare. Piccole schegge luminose partivano via dalle fiamme e ruotavano nell’aria come farfalle, in alto; poi si spegnevano e scendevano fredde. Dall’ombra qualcuno borbottò: «Se sa cantare allora falla cantare, no?» Questo disse la voce che proveniva dal buio. Erano parole raschianti, impastate d’alcol e di fumo e di fastidio. Non vidi chi parlava. Ma chiunque fosse aveva ragione: se quella faceva la cantante, allora cos’altro poteva fare se non cantare? Anche lo Smilzo sembrò d’accordo. Così le fece un segno, spostando il mento in basso e scuotendo la testa più volte, e 84


indicando noi con un dito puntato, segnando il cerchio di corpi. Era veramente brutto lo Smilzo, e quel gesto che fece lo imbruttì di più. Ma lei non ci prestò attenzione, né si fece pregare, e si preparò subito al canto. Lo capii prima ancora che cominciasse. Lo capii da come mosse le gambe e si assestò i piedi nella polvere. Lo capii da come si protese in avanti, per respirare l’aria calda che saliva dal fuoco: un gesto contenuto, ma eseguito con armonia perfetta. Si rivolse a noi con gli occhi. Al suo pubblico improvvisato in quel teatro fatto di terra e di macerie di polvere e di fuoco e di corpi. Che fosse una professionista lo capii da come ci sorrise con gli occhi, regalandoci grandi occhiate lunghe, senza abbandonare le nostre pupille per un istante. Era abituata a regalare sguardi. Poi alzò un braccio sopra alla testa e lo tenne sospeso in aria, come in attesa di un segnale dal cielo. Cinque secondi, non di più. E infine lo riportò più in basso, con la mano a coprirsi il petto, come a volersi tenere stretto tra le dita quel suo seno enorme. Ombre rapide scivolavano su di lei, si spostavano furtive. La catturavano e la lasciavano. Sorrideva anche, ma presto vidi quel sorriso svanire quando la sua bocca si spalancò, quando cominciò a cantare. Senza musica, senza nessun preavviso. Senza neppure una nota di prova. Piegò la testa verso l’alto, verso il cielo riempito di stelle. Aprì la bocca a formare un ovale nero tra i denti. E subito la sua voce spiccò forte nel silenzio improvviso, fino ad annullare anche il crepitio delle fiamme. Sole, col pianto ogni sera, i tuoi begli occhi fai arrossare, quando ti immergi nello specchio del mare pronta ti coglie una morte prematura. 85


Era fottutamente strano che noi fossimo lì davanti a un fuoco tra mucchi di macerie e la puzza di merda attorno, e questa donna tirasse fuori una voce dannata che poteva fare a pezzi i pochi muri rimasti in piedi. Eppure fu così. Davanti a quella voce tremò il terreno, tremarono le macerie, e anche noi tremammo. I nostri cuori erano toccati. Perché quella voce era una lama di luce nella notte. Era un faro, un baratro di luce immensa e dolce che ci avvolse tutti e ci affogò. Ma risorgi dall’antico splendore, gloria del tuo mondo ottenebrato tu come un fiero eroe trionfale di nuovo al mattino ti ridesti! Ah, come potrei lamentarmi, come, cuore mio, vederti tanto greve, se il sole perfino deve disperare, se persino il sole deve tramontare? Cantò. Continuando con le strofe di quel brano che nessuno di noi conosceva. Nessuno. Non c’era musica ad accompagnarla, ma nessuno protestò. Nessuno se ne accorse. E se morte genera solo vita, i dolori danno solo gioie: o come sono grato alla natura che di tali pene mi diede l’affanno. Cantò per un tempo breve, che pure mi parve senza fine. Quattro strofe, e noi eravamo lì immobili ad ascoltarla, igno86


ranti e muti come uno stupido branco di pesci. Cantò modulando la voce in un modo che non avrei creduto possibile. Anche la notte si piegò davanti a questa voce. Si alzò tra noi una brezza leggera, spazzò ciuffi di polvere, la sparse tra noi come per dispetto, poi di colpo si arrestò. Mina era una divinità atterrata per noi da un pianeta alieno e lontanissimo. Era venuta per riempirci l’anima di dolore, per ricordarci che prima c’erano state cose belle come lei, e che adesso invece lei poteva solo esibirsi così, per caso, cantando in un teatro invisibile per un branco di straccioni pidocchiosi che si facevano di vino cattivo, con l’odore di merda intorno e quattro cani randagi che si mordevano le pulci. Cantò con quella voce che strappava le lacrime anche ai muri. Cantò, e le lacrime che versai non erano per il vino cattivo, questa volta. E poi smise di cantare. E poi se ne andò. Così, senza dire più niente; così come era arrivata, quella figlia di puttana! Un attimo prima era in mezzo a noi, la sua voce era tra noi; poi d’improvviso si voltò e si spostò lontana dal fuoco. Sparì come un frammento di legno bruciato che si fredda e si sbriciola per terra. Se ne andò portandosi dietro le sue grasse chiappe e il suo petto infinito. E sparì nel buio, nella polvere, nella notte, come uno spettro. E forse era uno spettro davvero. Fu solo a quel punto che ci svegliammo tutti assieme, come da un sogno lontano e dolce. Aveva appena smesso di cantare e già quella voce era diventata nostalgia. Anche lo Smilzo approfittò di quel momento per svignarsela. Attardato la seguì nell’ombra, con lo stesso passo che aveva tenuto arrivando: furtivo, raccolto, spaventato. Ma quando stava per uscire dal cono di luce che ci scaldava le facce si fermò e si voltò verso di noi. E sorrise, sorrise quel 87


bastardo, nel silenzio che ci circondava, nel silenzio impossibile da rompere dopo quel canto, sorrise, e tra quei suoi denti marci c’era scritto il trionfo. Avete visto chi vi ho portato per stasera? Questo c’era scritto nel suo sorriso di merda! E poi anche lui se ne andò, lasciandoci a sprofondare in quel silenzio ormai incolmabile, ancora col riverbero di quella voce nelle orecchie. Milano 2004

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LA STAGIONE DEL RACCOLTO

Più che altro, a stupirla, era stata la naturalezza con cui lo

aveva fatto. Mentre saliva di sopra ci pensava e pensava a come sarebbe stata la sua vita, in futuro, da quel momento in poi. Diversa, migliore o peggiore, forse... ma senz’altro diversa. Certo, non era stata lei ad ammazzarlo. Ma si accorse che aveva accettato subito quella morte, senza dolore, senza nessun rimpianto. Con naturalezza, appunto. Per un istante fu persino colta da un senso di vertigine all’idea che il fratello non ci fosse più. Rise tra sé a labbra strette, ma poi subito sentì la colpa sfiorarla, e si pentì di quel gesto d’abbandono. Come poteva riuscirle di ridere dopo quanto era successo? Non l’amava, questo è sicuro, ma in fondo era sempre suo fratello, no? E d’altra parte che avrebbe potuto fare? Ogni cosa era andata storta fin dall’inizio: lei era arrivata in ritardo all’appuntamento, e Gianni era già morto quando era entrata nel parco. Morto e con un coltello infilato in gola. È per quello che era fuggita. Era l’unica cosa da fare. Non si era soffermata troppo a guardare il corpo. Era lì per terra, im89


mobile. L’aveva toccato, ma per un istante soltanto. Era freddo. Pieno di sangue. Aveva impugnato il coltello cercando di sfilarlo, ma ci aveva subito rinunciato. È morto, aveva pensato. Pensò che si sarebbe freddato ancor di più. Così era scappata. E adesso invece era in casa e al sicuro. Ma suo fratello era ancora morto. E qualcuno lo aveva ammazzato. E lei non poteva dirlo a nessuno. Non poteva essere lei a trovarlo per prima, perché altrimenti l’avrebbero subito sospettata. Tutti sapevano delle liti tra loro, tutti ricordavano che lei gliel’aveva urlato che l’avrebbe ammazzato prima o poi. Non diceva sul serio, naturalmente, ma ora quelle parole potevano usarle contro di lei. Così ora era costretta ad aspettare che fossero altri a scoprirlo. Cos’altro poteva fare? Un senso vago di disagio scalzò la sicurezza con cui era entrata in casa. Dormire, si disse. Devo dormire. E si preparò per dormire. Si lavò le mani per rimuovere il sangue secco rimasto tra le dita. Non pensare, si disse mentre acqua rossa di sangue spariva nel lavandino. Si lavò i denti guardandosi allo specchio. Nello specchio incontrò occhi cupi che avevano visto la morte. Non pensare. Non serve a nulla. Non pensare. Stesa nel letto al buio chiuse gli occhi e finse di dormire, ma non ci riusciva perché in testa ritornavano le immagini del fratello: steso, la pancia all’aria, la gola squarciata. Col corpo che si freddava con rapidità, il coltello piantato in gola, la camicia sporca di sangue, un’ombra scura dietro a un albero, lei che afferra il manico del coltello, le sue mani imbrattate di sangue, il silenzio perfetto, la luce della luna, il sentiero tra l’erba, il cancello spalancato da cui fuggire, il suono delle sue scarpe mentre correva sul marciapiede. Lei 90


che correva... Bloccò le visioni. Accese la luce. Qualcosa non andava. Seduta nel letto si costrinse a ritornare con la mente ai momenti del ritrovamento: l’appuntamento, il ritardo, l’ingresso nel parco, pochi passi lenti verso l’interno, alberi fitti e siepi attorno. E il corpo steso a terra, il coltello, l’ombra dietro l’albero, il sangue, il cancello, la corsa, la luna. Il corpo, il coltello. Il coltello! e l’ombra dietro l’albero! Ecco cosa non andava! Aveva toccato il coltello infilato nella gola del fratello. Ora c’erano le sue impronte sul manico. L’avrebbero accusata di omicidio. Tutti sapevano che litigavano. E poi, c’era l’altra cosa: l’ombra. Mentre costruiva contro se stessa prove di un delitto che non aveva commesso qualcuno la stava a guardare. Un’ombra, appunto. Era l’assassino? L’aveva vista? Riconosciuta? Il coltello. L’ombra. Capì che per salvarsi doveva tornare dal fratello, eliminare quelle impronte dal manico. Ma non passò subito all’azione; l’idea dell’ombra in agguato la spaventava, e quella paura voleva trattenerla in casa; ma anche il pensiero di un’accusa d’omicidio l’atterriva, e quest’altra forma di paura insisteva in lei perché tornasse verso il fratello assassinato. Esitò per poco. Immaginò che l’ombra poteva affrontarla, forse, ma un’accusa per il delitto no. Allora si alzò rapida dal letto e subito prese a vestirsi. Due minuti dopo era di corsa giù per le scale. Da un cassetto in cucina si prese un coltello e l’infilò di fianco nella cintura come fosse una spada. Poi uscì rapida. Fuori era freddo. Camminò nella notte, e la paura le stava addosso come una scimmia avvinghiata alla schiena. Arrivò nel parco e superò il cancello guardinga, avanzando lenta, preoccupata per un attacco improvviso dell’ombra. 91


Per proteggersi si affidava al coltello, che stringeva in mano con goffaggine. Ma non vide l’ombra, né qualcun altro che la stesse a guardare. E neppure il corpo del fratello. C’era la siepe, il sentiero di ghiaia, un’aiuola con fiori esuberanti. Ma del cadavere nessuna traccia, se non uno schiacciamento leggero dell’erba che solo per lei avrebbe potuto avere un significato. Dimenticò il pericolo e rimase a fissare l’ovale d’erba per cercarci indizi e scoprire dov’era il corpo. La luce della luna l’aiutava; sì chinò, trovò tracce di sangue, ma a cosa poteva servirle del sangue senza un corpo che sanguinava? Tornò a casa perplessa. È morto veramente? si domando. E chi l’ha spostato? Certo, in fondo era un bene che fosse sparito. Se trovano il corpo, pensò, e il coltello, avranno le prove contro di me. Se trovano il corpo non avrò scampo .... Si sentiva già condannata. In bagno si affido all’acqua per calmarsi. Entrò nella vasca ricolma, ma rimase immersa per poco, perché sul soffitto continuava ad apparirle l’immagine del fratello morto. Di nuovo s’infilò a letto, ora con l’angoscia che dallo stomaco le saliva fino in gola, come catrame; era certa che non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Invece si addormentò subito e dormì un sonno lungo. Non sognò neppure, o almeno non ricordo di aver sognato. Solo al mattino, con la luce del sole che filtrava tra le tende, al sicuro dentro casa, l’immagine del fratello a terra col coltello piantato in gola le parve un sogno. Scese le scale verso il soggiorno e già gli altri fratelli erano a colazione e si stupì di non vedere Gianni tra loro. «Dov’è Gianni?» domando. Ma nessuno dei fratelli l’aveva visto. Allora Alice capì che il sogno della notte era realtà. 92


Gianni era morto. Alice non fece molto per scampare al suo destino di colpevole. Un tentativo di cancellare le impronte l’aveva fatto. Inutilmente. Altro non poteva, o non sapeva. Così restò in casa ad aspettare. Telefonò al ristorante dove lavorava per avvertire che non sarebbe andata. E così trascorse ore in poltrona, stordita, in attesa di qualcuno che venisse ad avvertirla del ritrovamento del corpo. Poi ci sarebbe voluto ben poco a rilevare le impronte e risalire a lei. Lo sapeva bene: aveva poche ore di libertà. Dopo un po' cercò sollievo nelle abitudini. Pulì la cucina, com’era solita fare a metà mattina, anche se era la cucina del ristorante che puliva, in genere. E a mezzogiorno prese a cucinare, come faceva sempre a quell’ora. In una padella preparò il soffritto immergendo nel burro la cipolla a fettine e gli asparagi in pezzi, e poi ci buttò un pugno di riso nero, e col mestolo aggiunse il brodo e mescolò il riso perché il brodo si distribuisse bene. Mangiò da sola, assaporando ogni boccone. Non le capitava spesso di poter rimanere seduta a mangiare all’ora di pranzo. Gustò il cibo con lentezza. Non pensare, si disse mentre masticava. Più tardi si dedicò alla spesa; anche quella un’abitudine consolidata. Devo farla comunque la spesa? si domando dubbiosa, anche se Gianni è morto? Ma si rese conto che era la sola a sapere di quella morte, per ora, e che quindi doveva comportarsi come se suo fratello fosse ancora vivo. Così uscì e si incamminò verso il centro, fingendo una tranquillità che non aveva. Dal fruttivendolo comprò un chilo di zucchine, sca93


logni, carote e pomodori. Nel supermercato a cento metri da casa prese scamorza affettata e bresaola, dallo scaffale dei vini selezionò un Alezio Rosato per accompagnare gli involtini che voleva preparare per cena. Poi passò in macelleria. «Buon pomeriggio!» la salutò il macellaio. Le sorrise con grande sfoggio di denti perché la conosceva bene, perché la vedeva spesso entrare a comprare carne fresca per il ristorante. Una delle sue migliori clienti! Così il macellaio si stupì sentendola chiedere solo sei etti di fusello tagliato in fette sottili per gli involtini e cinque etti di carne macinata. Nient’altro. Ben poco rispetto al filetto per le bistecche, al manzo per i bolliti e gli umidi e lo spezzatino, e le costine di maiale e d’agnello, e i coniglie e il pollame. Tornò dal retro con la carne già tagliata in fette. «Una carne speciale per lei oggi» le disse mentre la incartava. E le sorrise ancora, e molto. «Però è nulla rispetto al solito. Il ristorante è chiuso?» «Oggi non lavoro» rispose Alice. Gli ricambiò il sorriso. «Cucino solo per me e per i miei fratelli» disse mentre afferrava il sacchetto con la carne e si girava verso la cassa. Tornò in casa, sistemò la spesa sul tavolo. Dispose le fettine sul tagliere. Una volta battute bene, le coprì con fette di scamorza e aggiunse la bresaola. Legò gli involtini con lo spago e li passò nella farina. Immaginò con chiarezza la pelle del fratello, che in quel momento doveva essere bianca allo stesso modo. Non ci pensare, si disse. In padella preparò un soffritto di carote, scalogno tritato e pomodoro a cubetti, poi mise gli involtini a rosolare. Aggiunse foglie di timo e menta fresca. Ogni tanto girava gli involtini, li bagnava col vino. Mentre la carne cuoceva preparò anche il ripieno per le zucchine. A cena i fratelli non si preoccuparono dell’assenza di 94


Gianni. Cinque persone, o sei, attorno a un tavolo, la differenza non poi è così evidente. Invece si accorsero della differenza nel cibo. Era raro che Alice fosse lì a cucinare per loro. Erano abituati a pizze riscaldate, o verdure che invecchiavano dentro a buste di plastica, o a carni congelate riportate in vita dal microonde. Non certo a quella carne tenera ripiena, col retrogusto vago di vino evaporato durante la cottura. Attorno alla tavola erano chiassosi, ridevano forte come sempre. Divorarono gli involtini come un branco di animali d’inverno. Anche Alice si sorprese a mangiare con piacere. La carne dolce le evocò in bocca il sapore del mirtillo. Ho esagerato col timo? si domando. Ma già conosceva la risposta. Neppure al ristorante avrebbero avuto nulla da obiettare. Era un piatto perfetto. Le zucchine ripiene fecero la stessa fine degli involtini: svanirono in fretta dentro a bocche insaziabili. Un giorno passò, poi due e tre, ma di Gianni non c’era più traccia. Alice viveva come davanti a una finestra: in attesa di veder scorrere oltre i vetri uomini pronti ad annunciarle il ritrovamento del corpo e costruire la sua colpevolezza. Ma i giorni diventarono sette, e otto, poi dieci e nessuno transitò davanti a quella finestra inventata, e a un certo punto Alice si scosse e tornò alla sua vita ordinaria: il ristorante, la cucina, i clienti, il sesso furtivo in macchina con l’uomo che frequentava da poco e che presto avrebbe lasciato. Un po' si stupì che nessuno dei fratelli notasse l’assenza di Gianni, ma non troppo. In fondo la loro casa era un territorio di passaggio. C’erano troppi uomini in quella casa, e troppe donne che scivolavano per le mani di quegli uomini. 95


Non era raro che qualcuno dei fratelli sparisse, troppo preso a infilarsi nel letto di donne conosciute molto in fretta. Ritornava sconfitto dopo un giorno, o dopo una settimana. O magari un mese, quando andava bene. Chissà. Di sicuro pensarono tutti che con Gianni le cose fossero andate così: sparito dietro a una donna, dentro. Certo, Alice si continuava a fare domande: dov’è finito? si chiedeva. E anche: chi l’ha fatto sparire? Ma soprattutto: perché mi aveva dato appuntamento nel parco di notte? Però non aveva risposte, e non sapeva neppure come trovarle. Spesso l’ansia la assaliva a ondate lente, come una predatrice scaltra in attesa: si avvicinava a lei, poi si ritraeva. Sarebbe mai finita? Anche questo si chiedeva. Colta da un senso di colpa vago quanto inutile un giorno, era il dodicesimo dopo la morte di Gianni, Alice si ritrovò nei pressi del parco. La notte prima una tempesta di neve aveva riempito l’aria. Ora la neve spalata si ammucchiava ai lati delle strade in lunghe strisce sporche. Dal fiume grigio saliva il vento a raffiche. Era freddo quando attraversò il cancello. Non avrebbe potuto giustificare la sua presenza in quel luogo, soprattutto a se stessa. Pure entrò e andò sicura verso il punto che conosceva bene. Trovò solo neve e chiazze d’erba gelata, ma per minuti restò comunque a fissare il punto dove una volta c’era il corpo. Non serve a niente, pensò. No, non è vero, pensò subito dopo. Serve a liberarmi dal suo fantasma. Fu distratta da un movimento laterale che colse con la co96


da dell’occhio. L’ombra, si disse. Si voltò e scorse un’ombra dietro a una pianta, e capì che era stata seguita. Provò paura, e freddo. L’ombra si mosse tra rami e cespugli. Alice la seguì con gli occhi, si accorse che era una figura bassa, doveva essere un nano, o un bambino. Non devi temerlo, si disse allora. La vide allontanarsi verso l’uscita e decise di andarle dietro. Rallentava il passo quando la figura rallentava, poi si affrettava se la vedeva correre. Si nascose dentro ai negozi, fermandosi dietro alle porte a vetro. La figura procedeva decisa, ma a tratti si voltava per cercare Alice con gli occhi. Camminò fino a raggiungere zone familiari: il quartiere di Alice, le strade che lei frequentava ogni giorno. Sparì oltre la porta della macelleria, esitando solo un istante prima di entrare. In breve anche Alice era davanti a quella porta. Era presto, le due e trentotto, e a quell’ora c’era poca gente in giro. Che fare? Cosa aspettarsi? si chiese. Cauta spinse la porta. Era aperta. Entrò. Fuori era freddo, dentro molto caldo. Con gli occhi cercò il macellaio, ma vide solo porzioni misurate di animali squartati allineate dentro ai banconi, coi prezzi in vista nei cartellini bianchi. Quei corpi morti le ricordarono il fratello, morto anche lui. Non pensarci, si disse. Cercò il suo inseguitore, certa che fosse lì vicino. Vide l’ingresso per il retro della macelleria. Esitò prima di muoversi, ma non troppo. In quattro passi era già davanti alla porta, l’aprì, superò la soglia. Dentro era buio. «Forse conosce già mio figlio» disse quasi subito una voce. Alice la riconobbe: era la voce del macellaio. Poi si accese una luce forte, e a quel punto lei non ebbe più dubbi: era il macellaio. Attorno c’erano carcasse di animali appesi ai ganci: quarti di bue, maiali, conigli e capretti spellati. L’uomo era 97


in piedi vicino al muro, con una mano sull’interruttore della luce. Indossava l’uniforme da lavoro, quel camice bianco sporco di sangue che crea somiglianze tra i macellai e i chirurghi. Il sorriso era il suo solito: una gran quantità di denti e guance contratte. Ma gli occhi no, non erano i soliti. Dentro Alice ci trovò un riflesso di luce nera. Al suo fianco c’era un ragazzino, di sicuro la figura che lei aveva inseguito per le strade della città. «Mio figlio» disse di nuovo il macellaio, guardando Alice e sfiorando il ragazzo con la mano. «Un ragazzo obbediente.» Gli appoggiò le dita sulla spalla e lui si mosse sentendosi al centro dell’attenzione, si rivolse silenzioso verso il padre lanciandogli un sorriso vago. «Perché mi seguiva?» domando Alice all’uomo indicando il figlio. «Per attirarla da me» le disse il macellaio. «Perché io ho bisogno di lei.» Esitò un poco prima di pronunciare la frase successiva: «Tu...» le disse, «tuo fratello è morto a causa tua. L’ho dovuto ammazzare. Dovevo scegliere tra te e lui.» Alice non capiva, scosse la testa. «La carne...» le disse il macellaio, commentando le parole con un gesto circolare del braccio. Indicò le bestie dimezzate e appese rovesciate. «Non tutta è carne di animali.» Si avvicinò ad Alice, la afferrò per mano, con dolcezza la trascinò verso l’angolo più scuro della stanza, verso una delle carcasse congelate. «Questo è un uomo» le disse. Alice guardo il corpo freddo che pendeva dal gancio, guardo la testa piena di capelli, e le estremità rigide che toccavano il pavimento: non erano zampe. Alice preoccupata si domando: perché? Da quanto tempo lo faceva? E suo fratello che c’entrava? Il macellaio sembrò leggerle le domande negli occhi. «Nu98


trire con la carne è il mestiere dei macellai comuni. Nutrire con carne umana è mestiere di pochi. È il mio mestiere. C’è gente che paga per averla. Paga molto bene. E tuo fratello mi aiutava a procurarmi carne. La carne umana ci legava con una legge di sangue. In vita e in morte.» «Ma qualcosa è andato storto» continuò il macellaio. «Voleva rinchiuderti qui. Aveva deciso di usare te come carne in vendita. Credo ti odiasse.» Alice ripensò alle liti con Gianni, alle troppe parole dure tra loro. A quando le mani di lui avevano cercato di scavalcare la stoffa della gonna per raggiungere gli slip. Allo squarcio che lei gli aveva aperto in faccia con l’anello per evitare che continuasse. Si odiavano, certo. Ma non fino a quel punto, non lei almeno. E lui invece... «L’ho ammazzato senza esitazione» disse il macellaio. «Tu sei una delle mie clienti migliori. Non potevo perderti.» Le sorrise con affetto. «Gli ho infilato la lama in gola e poi giù, dentro fino al cuore, come a un maiale. È morto con rapidità. L’ho già venduto tutto. Anche a te, quando sei venuta per gli involtini. Spero ti sia piaciuta quella carne.» Alice ricordo il sapore dolce degli involtini ammorbidito dal vino. Rivide gli altri fratelli mentre si infilavano la carne in bocca e masticavano rapaci. Ci sono modi più inutili di morire, pensò. Nessuno potrà più accusarmi, pensò con soddisfazione. «Ho bisogno di qualcuno che sostituisca tuo fratello e mi aiuti a recuperare la carne» le disse il macellaio. «Posso scegliere te, o farti sparire. Preferirei tenerti in vita, ma non farei nessuna fatica ad ammazzarti. Adesso. Subito. Domattina saresti già carne prelibata e costosa, finiresti tra le lingue di palati raffinati.» Terminò di parlare, poi aspettò in silenzio la reazione di 99


Alice. Alice non cercò di fuggire, e anche l’attacco lo escluse. Si fece i suoi conti. Molte questioni tra loro non erano affatto chiarite, ma di sicuro col tempo le spiegazioni sarebbero arrivate. Però di una cosa era certa: in quel momento non aveva scelta. Poteva sostituirsi al fratello o morire. Si impose di vedere quell’imprevisto come un dono, una possibilità che la vita le offriva. Fece un cenno del capo rivolto al macellaio. Quel gesto fu come una firma nel contratto invisibile stipulato tra loro: il macellaio la teneva in vita, in cambio lei avrebbe procurato carne. Il macellaio sorrise, chiamò il figlio che era rimasto indietro nella stanza. Gli scosse i capelli con la mano. «Lavorerà per noi» disse al ragazzo. Lui piegò la testa in alto, guardo al padre come a dire: ne ero certo. I barboni sono creature invisibili, le spiegò il macellaio quella sera. Se uno di loro muore c’è più spazio per gli altri, e più cibo. Nessuno protesterà. Per cominciare, è quello il tuo terreno di caccia. Le spiegò ancora che il fratello andava in stazione a catturarli. Era più facile, lì attorno: ce n’erano tanti. Li aspettava nascosto, attendeva che uno si allontanasse dal gruppo. Poi lo avvicinava, col coltello lo apriva rapidamente senza neanche parlargli. Lo trascinava dentro al furgone che era ancora vivo. Al resto ci pensava il macellaio. «Tuo fratello ci sapeva fare» aggiunse il macellaio. «A modo suo...» Un metodo rude, pensò invece Alice mentre ascoltava. Rude come lui, si disse ripensando a Gianni, al suo corpo ormai già trasformato in escrementi. Era un uomo senza gusto, concluse. 100


Si scrutò dentro in cerca di rimpianti, di dolore, di un senso di perdita per quella morte. Non ne aveva e non si stupì di non averne. Lui era morto. Lei era viva. È così che va il mondo. Tre giorni dopo Alice era in stazione. Era sera, era freddo, era tardi. Non fece fatica a scovare i barboni. Si avvicinò a un gruppetto di loro ammucchiati a bere e fumare e appoggiò per terra le scatole di cartone che teneva in mano. Da una tirò fuori un contenitore di plastica. Il profumo forte del cibo scatenò l’attenzione dei barboni. Un uomo si avvicinò. Quando Alice fece il gesto di porgergli il cibo quell’uomo sorrise distratto, troppo concentrato sull’idea del mangiare per preoccuparsi di chi gli faceva l’offerta, o del perché. C’era cibo, e questo bastava. Afferrò il contenitore e cominciò a infilarsi in bocca le tartine al salmone e al caviale che Alice aveva sottratto al ristorante. Era sporco e si sporcò di più mangiando. Pochi secondi dopo anche gli altri gli si ammassarono dietro, rumorosi aprirono le altre scatole distruggendo i coperchi e lanciandosi sullo sformato di sedano al prosciutto. Erano affamati tutti, e fecero sparire rapidi anche le fette di arrosto, e succhiarono il sugo bevendolo direttamente dal contenitore, passandoselo l’un l’altro come fosse una coppa di vino. Non hanno neppure sentito il sapore, pensò Alice. Peccato. Quell’arrosto al brandy e pompelmo era una sua specialità. Al ristorante ci venivano apposta per mangiarlo. Ma potrebbe essere il loro ultimo pasto si disse. Si meritano un buon pasto. Sorrise. L’ultima scatola se l’era tenuta stretta tra le gambe e nessu101


no c’era arrivato ancora a conquistarla. La sollevò da terra e l’aprì. «Tu...» disse, indicando col dito l’uomo che al suo arrivo si era lanciato sul cibo. Quel tu l’avrebbe pronunciato ancora. Ma questa era la prima volta: un momento importante; tracciava una linea di confine. Da quel momento in poi la sua vita avrebbe avuto una svolta. In meglio, o in peggio, questo non poteva dirlo, ma senz’altro sarebbe stata diversa. «Tu...» disse, «vuoi sapere cosa c’è qua dentro?» L’uomo le si parò davanti, ormai certo di essere privilegiato sugli altri. Aveva occhi verdi e molto grandi. Ancora da mangiare, pensò. «Vieni con me» gli disse Alice. Schiuse le labbra mostrandogli i denti e lo trascinò lontano dagli altri. Dal fiume saliva un vento freddo che congelava ogni movimento. Com’è radioso questo sorriso, di notte, pensò l’uomo. E sorrise a sua volta. Poi prese a seguirla come un cane. Milano 2004

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ACQUA, ACQUA OVUNQUE. E TUTTE LE BARCHE AFFONDANO

Pioggia.

Non è la prima volta che capita, la pioggia d’inverno, fitta, violenta per un giorno, due anche, o tre, tre giorni di fila. Con l’acqua che invade prati e strade, allaga le cantine e i primi piani delle case. Non è la prima volta, ma ora è diverso: tre giorni di pioggia, poi quattro e cinque, poi un’intera settimana e oltre, i canali sono già traboccati da un pezzo e l’acqua scende e scende, le strade sono fiumi fangosi, ho visto auto navigare per quelle strade come barche alla deriva, si moltiplicano gli incidenti, le linee elettriche saltano, e le piazze sono piccoli laghi. La pioggia si mescola con l’acqua delle fogne impazzite, risale putrescente, livella le superfici. È la fine del mondo che arriva, penso mentre cammino verso l’ingresso della metropolitana. È così che immagino il diluvio: masse d’acqua che scendono per coprire, per annullare. Miliardi di gocce. Una forma di pericolo suddiviso e moltiplicato e infinito. Il vento spazza le gocce, non c’è ombrello che tenga, la pioggia bagna tutto, gente e auto e animali. Sono zuppo. E 103


gelato. Odio l’acqua, odio camminare sotto la pioggia. Vai a fare le foto della grande pioggia! hanno detto in redazione. Prendendomi per il culo, anche. Ridendo mentre lanciavano occhiate divertite oltre le finestre, sguardi lontani al cielo cupo, alla pioggia. Scatta ogni cosa, quello che vuoi, ma foto buone, subito! È la tua grande occasione! Facile a dirsi. Le foto della grande pioggia... Fa buio presto a dicembre. Difficile scattare foto di notte. È per questo che ho pensato alla metropolitana: è il luogo perfetto per rappresentare l’avvento del diluvio senza bagnarsi troppo. Osservare il diluvio da sotto, nelle viscere della città. L’acqua è un pericolo che cova in silenzio. Vorrei scoprire le forme di quel pericolo incise nei volti dei passeggeri, mentre fuggono dall’acqua e scivolano nei tunnel scavati nel cuore profondo della città. È al pericolo che sto pensando mentre mi infilo per le scale della metro. Scendo di corsa concentrato sull’ombrello da chiudere e sui gradini umidi, e mi accorgo tardi di questo corpo mobile che scende veloce le scale. È un’ombra, niente più. Ci scontriamo. L’impatto è breve: stoffa bagnata contro stoffa bagnata. Apro la bocca per borbottare parole, scuse forse, o altro, ma poi con gli occhi mi scopro a fissare altri occhi puntati nei miei. Verdi e grandi. E non trovo più parole. È una donna. Bella: naso piccolo, viso tondo, labbra molto rosse. È come un gatto in piedi. Un gatto che mi scruta. Pericolo! sembrano dirmi quei suoi fari verdi che mi tiene addosso. 104


Un secondo, due secondi. Siamo troppo vicini, ma non mi sposto. Tre, quattro secondi. Non trovo parole. È chiaro, è infastidita dallo scontro e dalla mia presenza, pure neanche lei si sposta, e rimaniamo immobili come oggetti freddi abbandonati sulle scale. Cinque, sei. Dopo quel silenzio lungo è lei a scuotersi, e se ne va, ignorandomi. Si allontana, svanisce in basso. Affronto altri gradini e poi scendo ancora. A piedi, perché le scale mobili sono bloccate. Il neon è guasto, lancia deboli segnali a intervalli: acceso, spento, acceso. Luce bianca, oscurità, luce. A ogni mio passo. E d’improvviso mentre cammino mi ritrovo di nuovo a fissare occhi, verdi ancora, quelli di una donna stampata su un manifesto. Gigantesca, mi lancia occhiate complici laterali. Sorride. Denti bianchi e un rossetto lucido. Mi invita ad acquistare un cellulare, e sono certo che continua a osservarmi mentre procedo. Sento i suoi occhi su di me, e subito penso all’altra donna incontrata sulle scale. Altro sguardo verde. Mi sarebbe piaciuto fotografarla, catturare attraverso il suo volto bagnato le tracce appena visibili di un pericolo trascurato, o forse imminente. I segni di una paura per il diluvio. Il pensiero di quello sguardo mi resta addosso appiccicato come un vestito bagnato anche quando arrivo sulla banchina, nella luce finalmente. Sull’altro lato poche persone in attesa. Tra noi le rotaie. Vedo donne, tre, vicine l’una all’altra. Dietro di loro qualcuno con lo spray azzurro ha scritto sul muro: ACQUA, ACQUA 105


OVUNQUE. E TUTTE LE BARCHE AFFONDANO. ACQUA, ACQUA OVUNQUE, E NON UNA GOCCIA DA BERE.

Molto opportuno, ora. Pronti per il diluvio! Cerco le donne nel mirino della macchina fotografica. Le inquadro. Campo medio. Scatto, congelo la scritta sul muro e i tre corpi davanti. Colori: azzurro, rosa, verde. E poi i vestiti: giallo, rosso, nero. Scatto ancora. Altro campo medio. Verticale. Taglio via una donna, ne rimangono due, in piedi, nello sfondo le piastrelle: macchiate, sporche. E scatto ancora. L’apparecchio fotografico è simile a una pistola; identica la precisione, uguale la voracità. Perciò con lo zoom mi avvicino vorace e mi concentro su una delle donne. Trent’anni al massimo. Mezzo busto. Scatto: vestito giallo, macchie d’acqua sulle spalle, capelli bagnati sotto al cappello, rossetto, occhi immersi nell’ombra del cappello. Naso imponente. Nello sguardo una solitudine incolmabile. Scatto. E mi accosto con più insistenza su di lei. Un primo piano: la testa al centro dell’inquadratura a spezzare la scritta ACQUA, ACQUA. L’orlo del cappello; sotto, capelli biondi, bagnati. Rosa, azzurro, giallo, bianco. Un neo sulla guancia sinistra. Scatto. Perfetta. In più punti dal soffitto scende acqua. Mi distrae il gocciolio intenso, come di cascata. E rumori più sordi, e borbottii lontani. È il diluvio che avanza. È la pressione che aumenta. Mi immagino strati d’acqua pesante avvolgere le pareti esterne dei tunnel, della stazione, cercare di afferrare i muri e poi spingere. Potremmo morire tutti, adesso, schiacciati d’improvviso dalla forza di onde d’acqua impazzita. Elimina106


ti dal diluvio che scende dall’alto... Torno alle foto; mi concentro sulla donna: il naso, quelle sue labbra rosse. Con lo zoom mi accosto di più, fino a vedere solo un occhio, il neo, porzioni di guancia, la Q azzurra sullo sfondo sottratta alla parola ACQUA. E un ciuffo di capelli. Forse la donna intuisce la mia presenza indiscreta. Alza la testa mentre sto per scattare, il suo occhio riempie un terzo dell’inquadratura. Verde. Spalancato. Il resto è pelle, guancia, labbra. Mi blocco. Cos’è che c’è scritto in quell’occhio che mi fissa? È paura? Noia? Tristezza? Disperazione? Non riesco a cogliere il senso di quello sguardo. Ma non c’è tempo per capire, così scatto prima che lei si muova ancora. L’acqua e la donna e la solitudine. Perfetto. Non credo che in redazione accetteranno queste foto. Troppi dettagli. Potrebbero essere qualsiasi cosa, invece loro vogliono le foto della grande pioggia. Quella su, fuori, in superficie. Foto d’acqua, acqua dappertutto, e gente disperata, allontanata da casa. E sullo sfondo fiumi che erano strade. Lo so che non le accetteranno. Ma non importa. Questa è la grande pioggia per me. Qui sotto, qui dentro. Questa donna con lo sguardo perduto tra i binari, e la parola ACQUA alle spalle, a fasciarle la testa. È lei la grande pioggia. Vorrei baciarla ora, questa donna sconosciuta che si è impressa nel mio rullino. Undici e venticinque. Mezz’ora al massimo, poi tutti a 107


dormire, fine delle corse, fine delle foto. Ma non è andata male, ho riempito tre rullini, in redazione avranno le foto che volevano, qualcuna almeno. Così non mancherò di rappresentare l’arrivo della pioggia infinita. Dal mio punto di vista, naturalmente. Volevano l’acqua. Avranno l’acqua. Di notte. Nel sottosuolo. A invadere la terra. Colare, picchiettare, scendere, bagnare, impregnare tutto. Ho scattato le foto che volevano. Insomma, più o meno. Però di questi tre rullini uno è per me soltanto, è quello con gli scatti che non verranno mai pubblicati. Gente bagnata che ritorna a casa tardi. Volti preoccupati. Primi piani. Ombrelli che colano acqua sui pavimenti sporchi delle vetture. Primi piani. Piedi zuppi, scarpe macchiate, vestiti impregnati di pioggia, facce umide, capelli fradici. Piani medi. Pubblicità di liquidi colorati che fanno da sfondo a uomini infangati, a donne stanche da troppa acqua che camminano impazienti lungo la pensilina. Colori di cartelloni pubblicitari: tutti i colori. I neon bianchi. Le piastrelle sporche. Nelle vetture percorro spazi avanti e indietro, da un capolinea all’altro. Vedo mani appese alle sbarre di metallo dentro ai vagoni. Vedo un cane solitario, bagnato, col pelo a ciuffi, lo sguardo spaventato. Ultima corsa. Entro nel vagone di testa. Siamo in pochi ormai, solo quei pochi pazzi che non si sono ancora infilati a casa, al caldo. Così mi preparo per gli ultimi scatti nel cuore della terra prima della fine del mondo. Inquadro svogliato, perché le 108


immagini ormai si ripetono, ma a un certo punto l’occhio registra dettagli fuori posto. È una frazione di secondo. È un avvertimento dell’occhio che vede prima ancora che io capisca. Inquadro un ragazzo, poi una donna seduta, la sto puntando con l’obbiettivo e d’improvviso so che qualcosa non va: la donna. È proprio con lei che mi sono scontrato all’ingresso della metropolitana. Più di cinque ore fa. Mi allarma la sua presenza nel treno. Mi preoccupa il suo volto, ciò che vi intuisco nascosto dentro. Vedo un viso che non sa sorridere. E a inquietarmi è anche il suo sbattere le ciglia troppo in fretta, il suo lanciare sguardi furtivi in giro. Ritorna troppo spesso con gli occhi all’orologio, spostando la testa a scatti. È come un animale che annusa l’aria per fiutare un pericolo prima ancora che il pericolo si manifesti. Osservandola attraverso il mio obbiettivo, lo intuisco con chiarezza cristallina: il pericolo è nell’aria. E lei lo sa. Sta per accadere qualcosa. E infatti qualcosa accade, uno schiocco forte precede di un istante l’oscurità totale. È uno scatto feroce d’ingranaggi che si spaccano. Poi la vettura rallenta fino a fermarsi. Fine della corsa. Pochi istanti e il treno è già ricolmo di suoni: urla, proteste, lo spavento gridato. Tante voci assieme nella notte imprevista. Ultima corsa. Siamo nel buio del tunnel. Al centro del buio. Ma qualcuno è riuscito ad aprire le porte azionando le leve d’emergenza, aria fresca entra nella carrozza e possiamo re109


spirare. I passeggeri si placano, quasi col timore di parlare a voce alta nell’oscurità. Così nel buio, nell’improvviso silenzio, possiamo ascoltare i tunnel. Suoni inediti: scricchiolii di metallo, l’eco sorda di rumori sconosciuti. Sono fruscii come di piante in crescita veloce; è lo squittire debole di creature che vivono nel buio. Poi un odore indistinto sale nella vettura; è rivoltante. Ricorda gomma bruciata, grasso animale, la muffa, il sangue. Aspettiamo a lungo. Ogni protesta è inutile ormai. I primi cominciano a scendere quando è chiaro che il treno non ripartirà. È finita per stanotte. Niente elettricità. Niente ritorno. Inutile aspettare. Fuori, solo la grande pioggia è in attesa. Scattano accendini. Ombre mobili tremano nel buio. Ombre che si preparano all’uscita. E finalmente scendono. Molti si buttano a destra, verso la stazione appena passata, verso l’uscita, verso casa, verso la fine della notte. Ma non tutti. Intravedo altre figure uscire e incamminarsi a sinistra, più a fondo nel cuore del tunnel. Sono quattro donne, lo capisco dal moto dei capelli lunghi che si appoggiano sulle spalle, dalla linea dei vestiti e dei fianchi. Spariscono una dopo l’altra oltre la porta della vettura. Sono rimasto solo. Tutti andati. Sfilo l’accendino da una tasca, lo accendo, mi avvicino all’uscita, con la fiamma in mano sfioro l’orlo di buio oltre la porta. Apro chiazze di luce 110


nel tunnel: il muro inerte, un passamano di metallo. Leggo scritte sui muri: dichiarazioni d’amore, ricordi di amplessi. Le tracce di altre presenze, i segni del passaggi di altri umani in questo territorio d’ombra. Cosa sto aspettando? In basso vedo riflessi d’acqua. Scendo con cautela. C’è silenzio fitto. C’è acqua attorno, il tunnel è inondato, subito l’acqua mi riempie le scarpe. Guardo a destra, verso la stazione, poi a sinistra. Nel silenzio colgo il suono lontano di passi. Sono le donne del treno che si muovono nell’acqua. Scorgo le loro sagome vaghe dirigersi verso una luce. Una luce che non dovrebbe esserci. Se è per questo, neanche io dovrei esserci ora, qui. Che fare? Cerco aiuto nelle scritte sul muro. Calcolo i rischi della situazione. Devo tornare con gli altri verso la stazione e affrontare ancora la pioggia e terminare così questa notte d’acqua? O seguire le donne nel buio? Minuti più tardi procedo lungo il corridoio costruito tra il muro e la linea dei binari. Macchina fotografica in mano, pronto allo scatto. Alla luce dell’accendino leggo scritte: L’ACQUA È LA MADRE, oppure altro: L’ACQUA SI PRENDERÀ CURA DEL MONDO! Mi avvicino alla fonte di luce. Nessuno in giro. Arrivo a un quadrato di cemento, oltre c’è una porta. È da lì che arriva la luce. Gialla, come un faro nella notte. Entro. Procedo lungo un corridoio breve e alla fine trovo una botola aperta. Con l’accendino in mano mi affaccio guardingo oltre l’apertura ed esploro il buio. Vedo una scala 111


a pioli che scende nel nero. Sotto, rumore d’acqua. Che fare? Esito, ma alla fine mi infilo nella botola, reggendomi ai pioli viscidi. Scendo e c’è acqua attorno, trasuda dalle pareti umide, goccia dall’alto, scorre in basso con suono di torrente, altra acqua la immagino spostarsi rapida dentro ai tubi appesi alle pareti del cunicolo che mi guida in basso. E c’è altra acqua sotto che mi aspetta, ne sono certo. Cinque metri e la scala è già finita. Con attenzione appoggio i piedi per terra, l’acqua mi arriva alle caviglie. Sono zuppo ormai e il freddo mi risale addosso, mi ruba calore. Riprendo l’accendino, la fiamma mi mostra una porta. Mi avvicino spostando masse d’acqua con i piedi. Apro la porta con cautela. Oltre la soglia di nuovo luce. Mi sporgo, ma non c’è nessuno in vista, allora avanzo. Lampadine fioche appese al soffitto illuminano malamente una grande sala completamente allagata. Pareti di pietra, molte colonne, macchinari in disuso, ombre lunghe. L’aria è greve, sa di chiuso e muffa. In lontananza, quattro tubi giganteschi piantati nel muro sputano nel locale getti violenti d’acqua. Acqua che si lancia ribollendo su altra acqua. Non ci vorrà molto a riempire la sala. E poi l’acqua dilagherà sottoterra, nei tunnel sotto alla città che dorme, e si aprirà una strada in alto per congiungersi con l’acqua di superficie. È il diluvio che arriva dal basso... Quest’idea mi spaventa, e già penso di tornare indietro, ma un nuovo scroscio si unisce agli altri, improvviso e più lontano, ma forte abbastanza da attirare la mia attenzione. Colonne e macchinari mi nascondono la fonte di quel suono, allora curioso avanzo verso il nuovo richiamo. 112


Procedo a piccoli passi. Dopo un po' posso udire voci, parole. Mi sporgo oltre una colonna e vedo tre donne attorno a un altro tubo. Parlottano. Ridono. Una, in mano ha una lampada alta su di loro, le altre due sono impegnate ad allentare la valvola che ancora trattiene l’acqua dentro al tubo. Chi sono queste donne? Sono state loro a bloccare il treno? Che stanno facendo? Vogliono allagare la metropolitana? Perché? Penso a terroriste. A pazze. A invasate. Che vogliono fare? Non ho risposte, non ancora. Ma di certo questa è la mia occasione per scattare le foto del diluvio. Le ultime immagini prima dell’alba, quelle significative davvero. Così mi appoggio al muro e afferro la macchina fotografica che mi penzola al collo. La luce è poca, ma sufficiente. Mi accosto alle donne con lo zoom, furtivo, con lo sguardo mi struscio addosso ai loro corpi bagnati. Scatto: due donne ruotano il volano che controlla l’afflusso d’acqua. Nel mirino vedo fatica, gioia. Scatto: c’è il getto violento d’acqua che fiotta dalla bocca del tubo. Scatto: una donna bagnata che ride, con molta acqua dietro a farle da sfondo. Scatto ancora e d’improvviso nell’acqua colgo l’impossibile. Attraverso la lente il mio occhio registra una forma. È un’altra donna che vedo, ma ben diversa dalle altre. Ben poco umana. È grande, e composta d’acqua. Non perfettamente a fuoco, confusa. È dietro l’acqua, o piuttosto sembra dentro l’acqua, concentrata a guardare gli sforzi delle donne sotto di lei. È un mezzobusto quello che scorgo tra i riflessi: una testa, spalle fatte d’acqua, il profilo incerto di due seni. Il resto si perde dentro all’immenso tubo infilato nel muro. 113


È viva!, penso, e la stanno liberando! Apriranno la valvola finalmente, e lei sguscerà intera dalla bocca del tubo. Sfileranno il bacino e le cosce, e le caviglie fino ai piedi. La stanno liberando! No!, penso, è un sogno. Non riesco a credere a quel miraggio che mi racconta la lente della macchina fotografica e allora la lascio da parte e provo con lo sguardo diretto. Ma inutilmente; sono troppo lontano e solo lo zoom mi concedeva la possibilità di accorgermi della presenza della donna d’acqua. A occhio nudo c’è solo acqua confusa, e ombre e le donne vicino al getto d’acqua. Allora inquadro ancora, pronto a scattare in cerca di certezze, a caccia del miraggio e di facce da far identificare, domani, quando sarò fuori da qua, e... Un rumore nuovo mi distrae. È acqua mossa da piedi. Viene da dietro. È vicino. Mi volto veloce, ma non mi basta. Scorgo un corpo, un volto. È una frazione di secondo. Poi vedo anche un braccio spostarsi rapido verso la mia testa. Chiudo gli occhi d’istinto. Il colpo che mi arriva è forte, il dolore indicibile. Vorrei riaprire gli occhi, ma non riesco. Invece precipito nell’acqua gelida. Mi risveglio intorpidito dal freddo. Bagnato. Provo a toccarmi la ferita alla testa, ma scopro che non posso perché ho le mani legate. Ci sono pareti di pietra. C’è acqua attorno. E frastuono d’acqua. Dobbiamo essere ancora in metropolitana, ma non dove eravamo prima. Devono avermi trascinato. Mi sollevo in piedi con fatica. Sono confuso, il mondo intorno è come ovatta. 114


«Non dovevi vedere...» mi dice una voce. Mi giro verso il suono, verso un cono di luce. A tre metri da me, di fronte, c’è la donna che ho incrociato per le scale ore indietro. O giorni, ora non ricordo. La guardo. E la vedo aprirsi in un sorriso mentre mi parla: è uno schiudersi di labbra che su di lei avrei detto impossibile. È bella mentre ride, è bella mentre gli occhi me li tiene puntati addosso. Verdi e duri. Pericolo imminente, mi dicevano quegli occhi. E infatti... «Non dovevi fotografarci...» dice. Ha la mia macchina fotografica in mano, me la mostra, poi la getta in acqua. Peccato, non potrò scoprire il mistero di quella donna che mi è parso di intuire dentro al getto d’acqua. Era un miraggio? Un’allucinazione per via della poca luce, dei riflessi d’acqua, della stanchezza, dell’umidità che velava la lente? Non saprò. Mai. La macchina è andata. Altre due donne vicine alla prima mi guardano senza parlare. Vorrei essere fuori da qui, sotto la pioggia, a bagnarmi altrove. Libero. Il freddo è pungente. Qualcuno da dietro mi strattona. La quarta donna, ovvio. Nessuno parla. Dita mi premono nella schiena costringendomi ad avanzare di un passo, così mi accorgo che tra me e le donne c’è un baratro, un abisso nero. La luce è poca, non mi basta per vedere il fondo. Mi arriva solo il fruscio lontano di acqua in movimento. Le mani mi spingono ancora. «Ehi, un momento!» dico allora. «Fermatevi!» grido. Vorrei spiegazioni. Provare trattative. Ma non mi ascoltano, e comprendo che non c’è più tempo per chiedere, capire, farsi ascoltare. Per loro non c’è ragione di farlo. Non c’è tempo, non c’è più tempo. 115


Poi le dita dietro di me si fanno insistenti. Provo a buttarmi di lato, ma non c’è nulla da fare. L’orlo del pozzo è già sotto ai miei piedi. La spinta alle mie spalle è decisa. Perdo l’equilibrio. Precipito nel pozzo, nel nero. È la fine del mondo, ho il tempo di pensare. Poi lo schiaffo dell’acqua mi scuote il corpo intero. È un lampo di luce. È un dolore molto forte. L’acqua mi abbraccia, mi avvolge mentre scendo verso il fondo... Milano 2002

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LE SUPERFICI DEL TEMPO

Quando mi sveglio ho la testa pesante e la bocca impasta-

ta dal troppo sonno privo di sogni. Lentamente scivolo giù dal letto, mi vesto e, ancora stordito, scendo al pianoterra lasciando che le dita sfiorino la superficie impolverata della balaustra di legno delle scale. Sotto c'è una penombra morbida; la luce entra dalla finestra diffusa dalla polvere incrostata sui vetri e si appoggia come liquida sui mobili accatastati alla rinfusa e ancora ricoperti di teli bianchi. Quando sono sull'ultimo scalino intravedo dalla cucina l'ombra di mio fratello muoversi verso di me. Si affaccia oltre lo stipite della porta, mi sorride. «Finalmente!» dice. «È molto che sei in piedi?» domando. «Ore. Ma se ti chiamavo quando mi sono alzato sicuramente mi avresti ucciso!» «Beh» rispondo, «non sono certo venuto in vacanza per essere buttato giù dal letto all'alba.» Sulle sue labbra appare un mezzo sorriso in risposta alle mie parole e per un istante rimaniamo in piedi l'uno di fronte all'altro in silenzio. In quell'attimo, mentre guardo le sue 117


guance scavate, la sua barba lunga, i suoi occhi arrossati e i suoi capelli arruffati, ho l'impressione che la notte lo abbia invecchiato un poco, e subito questo pensiero mi diverte, perché la notte deve aver invecchiato anche me allo stesso modo; anch'io devo avere stampata sul mio viso la sua stessa aria stanca, anche i miei occhi devono essere gonfiati dal sonno come lo sono i suoi. L'idea mi diverte perché da quando non viviamo più assieme ho perso l'abitudine di vedermi riprodotto in lui, e mi fa uno strano effetto ora il ritrovarmi d'improvviso davanti al suo viso così identico al mio. «Sai» dice notando il mio sguardo insistente su di lui «quando mi sono alzato e ti ho visto nel letto, per un momento ho avuto la sensazione di vedere una copia di me stesso che dormiva mentre io ero lì sveglio ad osservarla.» Mi guarda e io gli sorrido, sorpreso all'idea che anche lui sia stato catturato dallo stesso mio pensiero. «Non eri più abituato eh?» chiedo. Lui annuisce lievemente e a quel gesto i miei occhi si incontrano coi suoi, e d'improvviso vi leggo lo stesso imbarazzo che lui sicuramente trova nei miei occhi, quell'imbarazzo generato dalla distanza che il tempo ha accumulato tra noi. Da quello sguardo capisco che per me l'accettarlo di nuovo non sarà così facile come ho creduto. Devo pensarlo ancora come mio fratello, dopo tutti gli sforzi che ho fatto per eliminarlo dalla mente dopo che se n'è fuggito da noi, da me. E d'altra parte, come si può dimenticare? È mio fratello, la persona più vicina a me, nonostante tutto; la mia copia. Imperfetta forse, specialmente dopo questi anni che hanno certamente accresciuto le differenze tra noi. Ma è pur sempre la copia di me stesso... 118


Per cancellare quel disagio creato dall'incrociarsi dei nostri sguardi, subito ci muoviamo verso la cucina. Mentre mio fratello si dirige verso la credenza io mi siedo. Quando si avvicina al tavolo ha un barattolo di vetro tra le mani. «L'ho trovato stanotte» dice indicando del caffè nel barattolo. Lo appoggia sul tavolo, toglie il coperchio, annusa il caffè. «Deve essere qui da secoli...» dice con una smorfia, poi torna verso la credenza, tira fuori una caffettiera, la svita lentamente, la riempie d'acqua e la posa sul tavolo vicino al barattolo di caffè. Per un po' seguo in silenzio i suoi gesti, il suo riempire la caffettiera fino all'orlo con una lentezza quasi esasperante. Non sembra ancora esserci tra noi l'urgenza di parlare. È trascorso troppo tempo da quando vivevamo con nostra sorella Irene, e so che questo silenzio manifesta la nostra incapacità di trovare il modo per ricominciare a parlarci di nuovo, per raccontarci le nostre storie e riempire così quegli anni di vuoto che ci hanno separati. Restiamo in silenzio perché entrambi sentiamo che ci vuole tempo per far riaffiorare alla memoria quei momenti che abbiamo creato assieme e condiviso, ci vuole tempo per riconquistare quel desiderio di parlare e dirsi tutto come facevamo quando eravamo ragazzi, ritrovare quel profondo senso di unione che c'era tra noi prima che lui sparisse. In fondo è per questo che siamo qui; è per ristabilire quel contatto quotidiano troppo a lungo interrotto che ci siamo inventati la scusa della vacanza assieme. «Stanotte ti ho sentito quando ti alzavi» dico dopo un po'. «Sì, mi sono svegliato presto. Avevo fame. La notte mi mette sempre fame, tutto quel dormire... E poi ho dormito malissimo, ho fatto sogni strani, incubi che non mi lasciava119


no in pace.» Spalanca gli occhi e agita le braccia mentre parla. «Brutte storie?» chiedo. «No, non so, non ricordo bene. Ho solo immagini in testa; immagini non storie. Non so, non ricordo nemmeno cosa fossero, ricordo solo che le immagini erano nitide, così precise che era come se le avessi davanti, come fossero reali. Però non ricordo cosa.» Fa una pausa, appoggia le braccia sul tavolo, mi guarda, con le dita prende a grattarsi la crosta di una ferita sul pollice. «E comunque, già che ero sveglio mi è venuta voglia di buttar giù un boccone e così mi sono messo a cercare da mangiare... Ma niente da fare; questo posto è vuoto come un cubo d'aria, niente di niente!» «E che ti aspettavi?» chiedo divertito. «È almeno un anno che qui non ci mette piede nessuno. Cosa volevi che ci fosse?» «Beh, speravo in qualcosa... Che so, almeno un salame appeso da qualche parte e dimenticato per sbaglio da qualcuno.» Sorrido; lo vedo vagare affamato tra questi mobili velati di bianco, come un fantasma frugare alla caccia di cibo da far fuori. Lo ricordo in queste sue stranezze notturne fin dai tempi in cui eravamo ragazzi. «C'era il caffè no?» dico. «Da spalmare su una fetta d'aria! Al diavolo!» Fa un gesto come per scacciare una mosca. «Comunque, ho fatto due passi attorno alla casa per prendere un po' d'aria.» «Di notte?» «Quasi giorno. E c'era la luna piena.» Mi lancia un'occhiata, 120


poi guarda oltre la finestra verso un vecchio carretto di legno annerito e affondato nell'erba, inclinato sull'asse privo di ruota. «Da quassù si vede tutta la valle fino al mare» continua. «E con la luce della luna le colline sembravano schiene bianche di animali notturni.» Muove gli occhi molto in fretta mentre parla, sfarfalla una mano a mezz'aria per evocare le forme delle schiene dei suoi animali. Poi si ferma; finalmente richiude la caffettiera, si muove verso il fornello, appoggia la caffettiera sulla piastra e ritorna verso di me. Afferra una sedia, ne sfiora con un dito la spalliera impolverata e si siede scrollando le spalle con aria indifferente. Con un gesto lento si pulisce il dito strofinandolo sulla stoffa della camicia. Mi guarda senza parlare per qualche tempo. Anch'io lo guardo. «Che ne dici di chiedere al tuo spiritello notturno di tirare fuori la sua bella testolina che c'è del lavoro per lui?» dico allora a un tratto. Lui scuote la testa senza capire. «Le provviste da comperare in paese. Visto che hai tanta voglia di muoverti...» «Ehi!, ma per chi mi hai preso? Và tu piuttosto che ti sei alzato ora!» «Ma è per il bene comune no? Tu lavori e mangiamo entrambi. E poi non dirmi che non ti va l'idea di scorrazzare un po' su e giù per le schiene dei tuoi animaletti bianchi!» Lo guardo dritto negli occhi e con un sorriso sulle labbra, aspettando in silenzio la sua replica sarcastica, ma lui invece mi risponde con un sorriso, e allora d'un tratto ho l'impressione che questo sorriso sia diverso da quelli che mi ha lanciato finora; forse è nel modo in cui piega le labbra o apre gli occhi, non so, non ne sono certo, ma è un sorriso che sembra esprimere il primo segno di incrinatura in quell'invi121


sibile barriera che ci ha allontanati. E infatti lui, quasi a conferma della mia sensazione, e in risposta alle mie parole, e con una reazione così familiare che di colpo cancella questi setti anni che ci hanno divisi, afferra dal tavolo uno straccio impolverato con un movimento veloce della mano, ed è già col braccio sospeso in aria pronto a lanciare lo straccio contro di me, ed io che sto al suo gioco e rido con la testa nascosta tra le mani, quando d'improvviso udiamo qualcuno che ci chiama da fuori e bussa alla porta. Sorpresi, rimaniamo per un attimo in silenzio nelle nostre posizioni ridicole, poi entrambi ci alziamo e andiamo alla porta. La apro, davanti a noi c'è una donna illuminata dal sole, la luce incide ombre nette sull'ovale perfetto del suo viso. Nuvole di capelli scuri le scivolano sulle spalle. Sorride. «Salve» dice, e la sua è una voce calda e dolce. «Salve» rispondo. «Siete voi che avete affittato la casa per l'estate?» chiede e poi ci osserva facendo scorrere gli occhi da me a mio fratello, probabilmente sorpresa dai nostri volti troppo uguali. «Già» dico «siamo arrivati ieri sera.» «Sì, lo immaginavo. Qualcuno ha visto la macchina passare e sapete come sono i paesi... basta qualcosa di nuovo e subito tutti ne sono al corrente.» «Già» ripeto. «Sono un'amica del proprietario della casa. Mi aveva detto che sareste arrivati oggi. Voleva venire a salutarvi stamattina, ma proprio ieri sera è stato chiamato da un cliente in città e allora mi ha chiesto se potevo essere io a ricevervi, vedere se è tutto a posto o se avete bisogno di qualcosa...» Mio fratello ed io ci guardiamo leggermente imbarazzati senza sapere bene cosa dire. 122


«Beh, grazie...» risponde poi mio fratello «ma siamo appena arrivati e non sappiamo ancora di cosa potremmo aver bisogno... Comunque si accomodi, c'è il caffè sul fuoco... Se vuole una tazza di caffè... Non sarà un gran che ma è tutto ciò che possiamo offrirle.» Lei fa un cenno di assenso e sorride ed entra davanti a noi. Ci sediamo; lei continua a sorridere e noi continuiamo a muoverci goffamente attorno al tavolo, ancora impacciati per la sua presenza improvvisa. Mio fratello si occupa del caffè, e quando finalmente siamo davanti a tre tazze di un'orribile miscela scura e fumante la donna dice: «Il proprietario ha lasciato un pacco per voi a casa mia. Mi ha detto di avvertirvi; non so perché sia da me quando poteva benissimo lasciarlo qui; forse contiene qualcosa di valore... Comunque è piuttosto grande e io non potevo portarlo a piedi fin qua.» «Stava giusto preparandosi per andare in paese» risponde subito mio fratello indicandomi. Io cerco di replicare, ma lui non mi lascia il tempo di parlare e continua «...per cui può passare lui a ritirare il pacco a casa sua. Se lei è d'accordo, naturalmente.» Le lancia un'occhiata rapida e un sorriso impercettibile quasi. «Naturalmente» risponde sorridendogli, e il tono della sua voce è così deciso e definitivo che mi sento ormai intrappolato e costretto ad andare, e nei momenti successivi, incapace di trovare le parole adeguate per protestare, rimango stizzito e muto davanti a lei. Nei minuti che seguono sorseggiamo lentamente il caffè. Io parlo poco e lascio quasi interamente a mio fratello il compito di sostenere la conversazione con quegli argomenti 123


generici e vuoti tipici dei dialoghi tra sconosciuti. Non so perché lui si è mostrato così ansioso di spedirmi a ritirare il pacco, ma il fatto di dovermene andare in paese così d'improvviso mi irrita enormemente. Mentre lui parla cerco con stizza i suoi occhi elusivi, ma ogni volta che gli lancio uno sguardo lo trovo preso a fissare la sua immagine rovesciata e deforme nel cucchiaino che tiene in mano, o lo colgo a contemplare la donna con una curiosa espressione di stupore. «Bene, sono pronto ad andare in paese» dico allora a un tratto alzandomi bruscamente, sempre più irritato dal modo con cui mio fratello continua a scrutare la donna come se lei fosse un prezioso oggetto che lui è capace di ammirare ora per la prima volta nella sua vita. Entrambi si voltano verso di me e mi guardano con meraviglia. «Andiamo a prendere questo pacco, no?» continuo con tono sarcastico fissando mio fratello negli occhi. «Se lei vuole aspettarmi in auto...» dico poi rivolto alla donna. «Mi infilo una camicia e possiamo andare.» Lei continua ad osservarmi. «Va bene» risponde. «Però preferisco andare a piedi; le auto non mi piacciono molto.» La guardo stupito e anche mio fratello la fissa con aria sorpresa. «È sicura?» domando, ma lei annuisce con dolcezza. «Le auto non mi sono mai piaciute» ripete. «Non si preoccupi per me. E poi» prosegue puntando un dito verso la finestra «c'è una scorciatoia proprio qui dietro. Con quella farò prima di lei, e in dieci minuti sarò a casa ad aspettarla.» Chiede un pezzo di carta e una penna, e quando mio fratello le porge un foglio lei ci scrive il suo nome e indirizzo e poi me lo infila in mano e mi spiega la strada in maniera sommaria, con brevi e confuse indicazioni che subito dimentico. Osservo il foglio scritto, la sua calligrafia leggera e 124


disordinata. «È facilissimo trovare la casa. E comunque, se si perde può chiedere in giro, la gente sa chi sono» aggiunge sorridendo con le labbra leggermente dischiuse, ed è un sorriso che mi cattura, e per un momento dimentico la rabbia per mio fratello e penso che in fondo non c'è niente di male in questo viaggio imprevisto. Anzi... Per attimi rimaniamo a guardarci in silenzio, poi salgo in camera, mi infilo una camicia e quando scendo mi dirigo verso la porta ed esco. Loro mi seguono fuori e mi accompagnano fino all'auto, poi tornano indietro e restano sull'orlo della porta mentre chiudo la portiera e avvio il motore. Mio fratello mi lancia un saluto col braccio e li vedo rientrare in casa. Lentamente affronto i pochi metri di piazzale che circondano la casa e imbocco la strada stretta e ripida che scivola verso valle. Continuo per qualche minuto e man mano che scendo tra le curve tortuose le forme ondulate delle colline si ammorbidiscono, come succhiate e livellate dall'energia del mare che delimita d'azzurro la costa ancora lontana. Dopo un po' l'auto prende a sbuffare e tossicchiare in maniera strana. Cambio marcia e diminuisco la velocità e il motore dà uno strappo violento che mi lancia in avanti; continuo a procedere a strattoni sobbalzando al posto di guida per una cinquantina di metri fin quando l'auto si arresta definitivamente. Per quasi due minuti riprovo ad avviare il motore senza risultato. Scendo, infilo le mani in tasca e guardo il mare lontano. Apro il cofano e do un'occhiata sommaria al motore senza notare nulla di strano. Risalgo in macchina, di nuovo provo ad avviare l'auto, ma ancora senza risultato. 125


Accendo la radio a volume molto alto, senza troppa attenzione la sintonizzo sulla prima stazione che trasmette musica. Scendo ancora, mi appoggio con la schiena su un fianco dell'auto. C'è una brezza lieve e tiepida e piacevole, un cielo azzurro molto intenso, trasparente. Con la vaga speranza di veder sbucare qualcuno fisso a lungo il punto in cui la strada sparisce dietro a una curva, ma trascorrono una decina di minuti senza che una sola auto mi passi davanti. Il sole scotta ormai, la brezza leggera mi agita appena i capelli sulla fronte. Guardo l'orologio; sicuramente la donna deve essere già in paese ad aspettarmi. Attesa vana ormai... Per un paio di minuti guardo ancora la strada vuota che zigzaga verso il mare, poi entro di nuovo nell'auto, spengo la radio, richiudo la portiera e lentamente prendo a camminare verso casa. Ogni tanto abbandono la strada tagliando le curve a gomito attraverso brevi sentieri segnati tra i cespugli e l'erba bassa, e dopo un po' noto che le impronte che le mie scarpe incidono sulla terra umida si sovrappongono a molte altre impronte che hanno tutta l'apparenza di essere recenti e che dimostrano un uso frequente dei sentieri. Questo fatto mi incuriosisce. Che ragione avrebbero mai altre persone di passare di qui? E per andare dove? Mentre cammino lascio vagare i miei pensieri in cerca di risposte che mi tengano occupato per un po'. Provo ad immaginare auto bloccate lungo la strada e uomini costretti come me a tagliare le curve sotto il sole e a dirigersi verso l'alto, allontanandosi senza motivo dal paese a valle. Per un momento mi diverte l'idea di pensarmi come l'unico artefice di queste tracce. Certo, mi dico, sono sicuramente già passa126


to di qui altre volte, queste sono le mie impronte. Mi immagino come catturato tra gli ingranaggi di un meccanismo che genera la mia vita e scandisce il ritmo delle mie giornate, un meccanismo che produce eventi simili ed eventi diversi, la sensazione del tempo e dello spazio, le cose attorno. E le impronte... anche quelle impronte di terra davanti a me, impronte sovrapposte che mi fanno capire ora che il meccanismo si è inceppato cosÏ che ogni giorno sono costretto a scendere con l'auto in paese per fare provviste, e ogni volta ecco che l'auto si ferma per strada, e mi tocca pazientemente risalire a piedi verso casa sotto il sole, mentre mio fratello affamato aspetta con ansia che ritorni col cibo... Per un istante mi fermo a pensare all'espressione incredula che farà mio fratello nel vedermi ritornare a piedi e senza cibo. E senza neppure il nostro misterioso pacco! Mi viene da ridere all'idea. Mi volto indietro, verso il mare lontano che riflette schegge di sole. Riprendo a camminare. Cammino per un ventina di minuti e quando finalmente scorgo il tetto della casa dietro la curva morbida di una collina mi fermo ancora una volta a riprendere fiato. Poi, ansioso di sedermi finalmente e riposare, mi avvicino a passo piÚ svelto, ma quando sono ormai sulla porta sento ridere dentro, un risata forte di donna che mi blocca a mezz'aria nel gesto di afferrare la maniglia. Rimango a lungo in questa posa sospesa, poi invece di entrare mi sposto cautamente su un fianco della casa e mi accosto a una delle finestre che guardano nel soggiorno. I vetri sono molto sporchi, quasi opacizzati da uno strato incrostato e omogeneo di polvere. All'interno, tra le lenzuola che ancora avvolgono i mobili, vedo aggirarsi mio fratello 127


come uno spettro tra altri spettri. Tra le braccia sorregge la donna dai capelli neri; il vestito di lei è sbottonato, in parte aperto sul davanti, posso scorgere porzioni chiare di pelle, una spalla lucida, il profilo incerto dei seni velati appena dalla sottoveste sottile. La vedo gettare la testa indietro e in basso scuotendo fin quasi a terra masse disordinate di capelli; la sento ridere ancora, e questa volta è un sospiro dolce quasi. Passa una mano tra i ricci di mio fratello che la fissa negli occhi sorridendo ai mormorii che lei gli lancia con le labbra dischiuse. Subito la scena mi infastidisce. Mi ritornano in mente alcuni particolari del nostro incontro con la donna, dettagli a cui evidentemente non avevo assegnato il giusto peso: l'insistenza con cui mio fratello soffermava il suo sguardo su di lei mentre prendevamo il caffè; quelle occhiate e quei sorrisi scambiati tra loro quasi a manifestare una sorta di complicità furtiva; e poi quei loro sorrisi soddisfatti mentre me ne andavo! Penso alla fretta di mio fratello nello spedirmi a far provviste e a prendere il pacco. È questo dunque il motivo per cui ha scelto di venire qui in vacanza? E che bisogno aveva di me allora? Continuo a guardare al di là dei vetri, mentre un'irritazione crescente si impossessa di me all'idea di essere stato allontanato dalla casa con uno stratagemma così infantile quanto inutile. Lei è ancora nelle sue braccia; li vedo scambiarsi poche battute con i visi quasi a contatto, le parole sussurrate e smorzate dal vetro mi giungono come tenui e incomprensibili suoni. Poi mio fratello la stende sul divano, con un gesto lento sfila il lenzuolo da sotto di lei e lei asseconda il suo movimento ruotando su se stessa di mezzo giro e d'un tratto, mentre lui getta a terra la stoffa accartocciata, 128


bruscamente e senza motivo piega la testa verso la finestra, ed io non riesco a scostarmi in tempo per evitarlo e, per un attimo, i nostri occhi si incrociano. Improvvisamente mi afferra un senso inquietante di vergogna e paura e subito mi lancio lontano dalla casa correndo in cerca di un qualsiasi posto dove nascondermi, anche se nel momento stesso in cui scatto mi stupisco del mio comportamento, perché non ho nessuna reale ragione per fuggire, tanto meno da mio fratello e in una situazione come questa. Malgrado ciò però continuo a correre tra i cespugli, sperando anzi che lui non mi abbia visto, anche se sono certo del contrario, o almeno che l'opacità del vetro gli abbia impedito di riconoscermi. Finalmente riesco a infilarmi dietro a un cespuglio alto abbastanza da coprirmi, e da lì, scrutando tra le foglie in direzione della casa, aspetto che accada qualcosa, che sia mio fratello a fare la prima mossa, a uscire a cercarmi e chiamarmi. Trascorrono un paio di minuti, ma non sembra che mio fratello abbia intenzione di farsi vivo. Forse mi sono sbagliato, forse non mi ha visto, o magari mi ha visto, ma preferisce continuare ad occuparsi di ciò che aveva appena cominciato. Comunque, per precauzione, decido di rimanere nascosto dietro al cespuglio ancora per qualche minuto. Più rilassato, lascio vagare lo sguardo attorno e alla mia sinistra, a una ventina di metri dalla casa, seminascosto tra alberi e cespugli, noto l'imbocco di un sentiero che scende in basso. Cercando di orientarmi torno ad osservare la casa e poi di nuovo il sentiero. Probabilmente quella è la scorciatoia per il paese di cui parlava la donna, la direzione è la stessa. Per un po' resto in silenzio a guardare l'imbocco del sentiero senza riuscire a 129


decidere come comportarmi. Fa caldo, il sole scotta e il cespuglio blocca la brezza leggera che sale dal mare. Lentamente succhio il sangue da una ferita sottile vicino al pollice, sicuramente causata da uno dei rami dei cespugli più bassi che ho superato mentre correvo a nascondermi. Sudo. Non so cosa fare. Ovviamente non posso tornarmene a casa ormai; d'altra parte, non mi sembra abbia molto senso che io scenda in paese a ritirare il pacco, anche nell'improbabile ipotesi che il pacco esista realmente. E in ogni caso è senza dubbio inutile che io continui stupidamente a rimanere nascosto dietro questo cespuglio. Incapace di decidermi rimango immobile per lungo tempo. Poi finalmente mi viene un'idea. Esco con cautela dal cespuglio e senza avvicinarmi troppo alla casa mi infilo nel sentiero facendo attenzione a non scivolare sulla ghiaia sottile. Se la donna non è giù ad aspettarmi, allora sarò io ad aspettare lei. Cammino in discesa aprendomi un varco tra i cespugli e gli arbusti cresciuti lungo il sentiero fin quasi a cancellare le tracce del percorso, e dopo una decina di minuti mi ritrovo d'improvviso alla fine della scorciatoia e di fronte alla facciata bianca di una casa, e allora mi fermo a riprendere fiato. Il paese è lì davanti a me, con la sua forma allungata che segue l'ondulazione discendente della collina. Almeno in questo la donna aveva ragione! Con cautela aggiro il muro della casa e lentamente mi addentro in un vicolo stretto che mi si apre davanti e si inoltra nel cuore del paese. Per un po' procedo a caso sperando di incontrare qualcuno che mi indichi la via dove abita la don130


na, ma le strade che incrocio sono deserte, stranamente silenziose, senza una voce o un grido, né traffico, prive di qualsiasi lontano rumore di fondo. L'aria è afosa. Sudo, e le gocce di sudore mi scivolano dalla fronte agli occhi, poi giù per le guance. Lancio un'occhiata veloce all'orologio da polso e mi accorgo che è fermo alle nove e dieci, e allora mi ricordo che mi sono dimenticato di caricarlo. Mi fermo a pensare. Continuo ad osservarmi attorno, guardo le strade vuote, il selciato lucidato dal sole. Guardo in alto verso l'azzurro del cielo. Che ore sono? Le dieci? Le undici? No, forse le undici e mezzo... Comincio a ricaricare l'orologio, ma ho appena iniziato e subito mi interrompo, perché scorgo un movimento con la coda dell'occhio, e quando alzo lo sguardo d'improvviso mi ritrovo davanti a una donna che deve essere sbucata in silenzio da una delle porte sul lato della strada. È una donna anziana: indossa un abito nero che le scivola dal collo fino alle caviglie; riflessi grigi sfumano l'aureola di capelli neri oltre la stoffa del fazzoletto scuro che le fascia la testa e quasi le nasconde il volto. Sosta sulla strada, ferma ad osservarmi con le mani appoggiate sui fianchi. Mi avvicino a lei. Anche i suoi occhi sono neri, profondi. Vagamente imbarazzato borbotto poche parole cercando di iniziare la conversazione, le chiedo l'ora, ma lei non risponde e si limita a scuotere la testa come se incapace di capirmi. Poi prende a fissarmi evitando i miei occhi, e puntando con insistenza il suo sguardo all'altezza delle mie labbra, e giù sul mio collo. Per un po' rimango anch'io a guardarla senza parlare; osservo le rughe che le incidono le guance, un piccolo neo sotto l'occhio destro, la sua figura scarna celata sotto al vesti131


to, le sue mani, le sue dita sottili. Ma come il tempo e il silenzio si addensano tra noi, sempre piĂš mi afferra la sensazione che i suoi occhi si struscino sul mio collo insistendo fino quasi a incidermi la pelle, e un profondo senso di disagio mi coglie, e allora mi scuoto e la saluto con un sorriso stentato che non trova risposta e si perde tra me e lei. Proseguo in discesa e le mie scarpe risuonano ticchettanti sui ciottoli del selciato; afferro con lo sguardo l'altezza dei muri massicci e le facciate bianche delle case, un bianco calce luminoso che riflette a terra bagliori di cielo. Continuo a camminare senza ragione, senza meta. Poi sento arrivare qualcuno, l'eco del suono di passi si diffonde da un vicolo pochi metri davanti a me e mi raggiunge prima ancora che io riesca a scorgere una figura o un movimento. Mi arresto di nuovo, aspettando con ansia che la persona sbuchi dalla strada dando un corpo a quello scalpiccio, e finalmente una donna esce dal vicolo, e non appena si accorge di me a pochi metri da lei, fermo a guardarla, ha uno scatto leggero all'indietro con la testa e rallenta assumendo un'espressione a metĂ tra stupore e paura. Muovo una mano verso di lei quasi cercando di rassicurarla e allora lei si ferma, ruota la testa verso di me e i suoi capelli lunghi e scuri sembrano aggrovigliarsi sulle sue spalle. Le lancio un sorriso leggero. I nostri sguardi si incontrano per un istante, poi la vedo perlustrarmi con un'occhiata rapida muovendo i suoi occhi neri dall'alto in basso. ÂŤVuole qualcosa?Âť dice con una voce quasi infastidita. Esitando, le spiego che sto cercando una strada; estraggo dalla tasca il foglietto stropicciato con l'indirizzo e glielo mostro. Lei lo fissa a lungo come se le costasse fatica decifrarne le parole, e per un istante ho quasi la sensazione che non sia 132


neppure in grado di leggere e si soffermi sulla carta senza motivo. Si strofina una mano sull'ovale perfetto del mento, per un attimo si sfiora con l'unghia un neo sotto l'occhio destro, poi distoglie lo sguardo dal foglio e mi fissa dritto negli occhi. «Cerca qualcuno in particolare?» «Una donna che abita a quest'indirizzo.» Ritorna alla scritta, ma questa volta per pochi istanti soltanto. «Mora, con i capelli lunghi e neri e occhi scuri, un po' come me?» Assume un'espressione vagamente divertita mentre parla. «Proprio lei! La conosce?» Non risponde, ma annuisce più volte con brevi cenni del capo e sorride piano piantando ancora i suoi occhi nei miei e piegando le labbra di lato in una strana smorfia che per un attimo le deforma il viso. Poi prende a indicarmi la direzione da seguire agitando mollemente le braccia in aria come un direttore d'orchestra. Mi spiega che devo voltare subito a destra e imboccare la prima strada a sinistra, percorrerla fino a una piazzetta circolare e prendere la traversa di sinistra e proseguire ancora fino alla terza strada a sinistra; lì, dopo una casa dipinta interamente di giallo, l'unica del paese, devo girare a destra; quella è la strada che cerco. Frettolosamente mi rimette in mano il foglietto con l'indirizzo e ancor prima che possa chiederle ulteriori spiegazioni mi saluta esibendo di nuovo quella smorfia laterale che la fa assomigliare a un pupazzo di gomma schiacciato. Per alcuni secondi rimango col foglio in mano guardando la donna mentre si allontana, osservo i movimenti elastici della sua gonna, le sue caviglie sottili. Poi cerco di ricapitolare la sequenza delle svolte, ma già destre e sinistre si 133


accavallano nella mia mente in moltitudini di itinerari ipotetici. Allora imbocco la prima strada a destra. Anche lì le case continuano bianche e identiche come nella strada precedente. Al primo incrocio mi blocco esitante, giro a destra, entro in un vicolo in salita, chiaro come gli altri e come gli altri simile. Vago per minuti tra vie bianche e vuote e uguali fin quando mi accorgo di essermi perso. Continuo a camminare ormai affidandomi interamente al caso. Quando mi imbatto in qualche negozio trovo sempre le serrande abbassate o cartelli minuscoli appesi alle porte a vetri o alle vetrine ove leggo chiuso oppure torno subito o altre frasi più enigmatiche come oggi non si apre . Continuo a camminare, ma non riesco a trovare né la piazzetta circolare né la casa gialla, né tantomeno qualcuno a cui domandare la strada, e questo mi stupisce e mi inquieta anche, perché è come se si fossero tutti serrati in casa per nascondersi da qualcosa, o allontanati dal paese per qualche motivo a me sconosciuto. Soltanto una volta, per un attimo, ho l'impressione che la persiana di una finestra al primo piano di una casa si apra appena con un leggero cigolio, e mi sembra di intuire un'ombra curiosare, probabilmente qualcuno richiamato dal suono dei miei passi. Proseguo a destra ancora e a destra, poi a sinistra. A sinistra di nuovo. Richiamo alla memoria regole antiche per uscire da labirinti. Per una decina di minuti decido di voltare a destra ogni volta che incrocio una strada. Cerco tracce nel percorso, etichette da appendere ai luoghi del mio passaggio per generare differenze che mi aiutino a identificare le strade. Un getto leggero d'acqua che scivola fino a terra in un rivolo lucido da una fontana di marmo a forma di bocca incastonata in un angolo bianco di una casa; una crepa lunga 134


che spezza come una gigantesca tela di ragno l'uniformità candida di una facciata due metri prima di una svolta; una buca nella strada con tre sassi divelti e appoggiati sul bordo del marciapiede; la buccia lucida di una fetta di melone abbandonata in mezzo alla strada. Invano cerco coordinate nella posizione del sole, ormai alto al centro di un cielo di mezzogiorno. Considerando la relativa grandezza del paese e il fatto che sto camminando da piÚ di mezz'ora devo supporre che, perso qualsiasi riferimento, sto insistendo stupidamente negli stessi luoghi senza rendermene conto. Allora, dato che il paese si estende in lungo e in discesa, per un po' imbocco tutte le strade in salita sperando almeno di ritornare nei pressi della scorciatoia dalla quale sono venuto, ma prima o poi incappo in vicoli ciechi o mi trovo davanti a muri alti e bianchi che, curvando, mi costringono verso il basso. Una volta ritorno nell'angolo con la fontana a forma di bocca; scarto nella direzione opposta a quella presa in precedenza, ma dopo un giro complicato di stradine e scalette e ponticelli in ferro che scavalcano canali e fossati mi ritrovo di nuovo all'angolo con la fontana. Mi accosto alla fontana, stendo le mani verso il getto d'acqua gelida e bevo a piccoli sorsi. Mi siedo sul bordo della fontana. Guardo i ciottoli lucidi del selciato e di colpo l'assurdità della situazione mi salta agli occhi con la violenza di un insetto fastidioso; mi vedo con gli occhi di uno degli invisibili abitanti di questo paese: un intruso, un estraneo incapace che è riuscito a trasformare questa semplice rete di strade in un labirinto del quale è ora stupidamente prigioniero... D'improvviso, a una decina di metri davanti a me, si spa135


lanca una porta e una bambina si lancia in strada di corsa. Saltella per quattro o cinque passi veloci, poi mi scorge e si blocca a guardarmi. Sorpreso dalla sua apparizione, incapace di reagire, anch'io mi limito a guardarla. Mi fissa a lungo e i suoi occhi neri e profondi mi disturbano. È strana, un po' goffa forse; dimostra non più di nove anni, dieci al massimo; ha un viso ovale e la testa curva sulle spalle, i capelli neri e lunghi che le nascondono il collo, le braccia e le gambe che sembrano appena più corte di quello che dovrebbero essere, come strappate a una nana e appiccicate per sbaglio a quel suo corpo sottile. Prima ancora che riesca a parlarle la vedo interrompere quel suo sguardo inquisitorio su di me, e immediatamente riprende a correre quasi a cercare rifugio lontano da questa imprevista e misteriosa figura seduta che io devo apparire ai suoi occhi. Stupito dalla sua reazione improvvisa resto per un istante a guardarla allontanarsi, ma poi mi scuoto e mi alzo e mi lancio di corsa dietro di lei gridandole di aspettarmi perché non voglio farle niente, voglio solo parlarle, voglio soltanto un'informazione. Lei però sembra decisa a non volermi ascoltare, si limita a voltarsi verso di me un paio di volte, ma senza minimamente mostrare l'intenzione di rallentare o fermarsi. Continua a correre su quelle sue buffe gambe corte muovendosi veloce e sicura davanti a me tra queste strade deserte, e gli unici suoni che si odono sono i nostri passi sfasati e frettolosi, il mio ansimare sempre più insistente. Mentre la seguo noto che ha uno strano modo di correre, con le braccia ripiegate sul petto e una falcata ampia che presuppone una familiarità con la corsa certamente anomala in una bambina così piccola. Per un istante la vedo rallentare e 136


voltarsi di nuovo verso di me quasi per accertarsi che io la stia ancora seguendo, e io allora riesco ad avvicinarmi fin quasi a toccarla, ma subito lei guizza via in un vicolo a sinistra e mi sfugge di nuovo, e quando anch'io raggiungo l'imbocco della strada ho appena il tempo di udire il suono secco di una porta che si chiude inghiottendo la bambina dietro di sé. Esasperato mi avvicino alla porta e senza esitare prendo a battere i pugni con violenza contro il legno massiccio così che la strada è di colpo inondata di tonfi ripetuti, suoni che nel silenzio perfetto sembrano boati di tuono scatenati da un improvviso temporale. Senza preoccuparmi troppo per le possibili conseguenze del mio gesto continuo a picchiare i pugni contro la porta. Continuo, ma non accade nulla, non il più piccolo segno di reazione da parte degli abitanti della casa. Eppure qualcuno deve esserci! Come ha fatto la bambina ad entrare altrimenti? Non può avere avuto il tempo di aprire la porta con una chiave, io le ero troppo vicino! La porta doveva essere già aperta quando lei è arrivata, e questo significa che qualcuno deve esserci dentro. E in ogni caso, almeno la bambina deve essere ancora in casa, almeno lei deve esserci! Ma allora perché non aprono, perché non riesco ad ottenere un qualsiasi segno di vita? Continuo a picchiare contro la porta per un po', ma con sempre meno convinzione. L'unico risultato che i miei colpi sembrano ottenere è quello di condensare la stanchezza che ho accumulato nella mattinata, così che improvvisamente sento i muscoli allentarsi e le forze abbandonarmi, e allora smetto e mi siedo sull'orlo del marciapiede con i gomiti tra le ginocchia e le mani nei capelli. 137


Resto in questa posizione nell'attesa vana che qualcosa accada. L'intera situazione mi appare paradossale e ridicola allo stesso tempo: mi vedo qui solo, sfinito, incapace di uscire dal paese, incapace di entrare in una qualsiasi casa o un qualsiasi negozio, e senza la possibilità di comunicare con qualcuno. Come invisibile, estraneo al tempo e a me stesso. Non il minimo rumore spezza il silenzio. Sento le palpebre farsi pesanti e lentamente scivolo in un torpore leggero con la testa tra le ginocchia. Mi ridesto dopo alcuni minuti, e quando alzo lo sguardo i miei occhi sono subito attratti dai riflessi gialli nella facciata di una casa che sembra infrangere come per magia la continuità bianca del paese. La casa gialla, la casa gialla! di colpo ricordo le istruzioni della donna, devo girare a destra dopo la casa gialla! La via che cerco deve essere o la prima traversa a destra o la precedente a sinistra! Subito mi dirigo a destra quasi correndo; in alto, su una targa di marmo appesa al muro, leggo il nome della via e lo confronto soddisfatto con quello scritto nel biglietto che ho estratto dalla tasca. Eccitato percorro la via in discesa sfiorando i muri con gli occhi e cercando il numero della casa fin quando finalmente sono davanti alla porta e allora mi arresto esitante, aspetto alcuni istanti prima di suonare il campanello, bloccato ora dalla consapevolezza dell'inutilità del mio gesto, certo che nessuno verrà a rispondermi. Ad ogni modo decido di provare. Suono, e con mia sorpresa quasi subito la porta si apre, e dietro c'è proprio la donna che stamattina era da noi. «Salve» dico, turbato dalla sua apparizione inattesa. 138


«Salve» risponde lei fluida. «Allora è già tornata?» Mi guarda come se non capisse. «In che senso?» chiede. «Beh» dico sfumando la voce di sarcasmo «prima si è... trattenuta da noi, e non credevo di trovarla qui così presto.» «Ci conosciamo?» dice lei spalancando gli occhi e scuotendo appena la testa di lato. «Lei non pensa?» «Sinceramente non ricordo di averla mai vista. Potrebbe anche sbagliare non crede? Succede a volte...» Agita una mano in aria come a sostenere un oggetto invisibile. «Sono abbastanza certo di quello che dico.» «Beh, anch'io!» risponde decisa. «E questo dimostra che uno di noi sbaglia. Dunque cosa vuole?» Rimango a guardarla in silenzio per alcuni istanti cercando di comprendere il suo gioco. «Intanto potrebbe anche dirmi perché lei e mio fratello mi avete costretto a venire fin qua con la storia del pacco; se volevate restare da soli potevate anche parlare chiaramente senza tanto bisogno di inventare stupidi stratagemmi per liberarvi di me.» «Continua ad essere così certo di non sbagliare?» risponde con decisione. «Certissimo» dico senza neppure cercare di contenere il mio sarcasmo. «Vuole che le rinfreschi un po' la memoria?» «Non mi dispiacerebbe, la prego. Così saprò finalmente il motivo della sua presenza qui» dice con un crescente tono di sicurezza che mi mette a disagio. «Devo restare sulla porta?» domando. Mi fissa dritto negli occhi. I suoi occhi neri mi confondono. «E chi mi dice che lei...» comincia, ma poi si interrompe, 139


esita un attimo a labbra dischiuse prima di continuare, come in cerca di parole adeguate. «Prego» dice alla fine compiendo un mezzo arco col braccio e invitandomi ad entrare. «Finalmente qualcuno!» dico mentre lei richiude la porta alle mie spalle. «Tutti viscidi come serpenti! Come mai questo paese è così deserto?» Restiamo in piedi fermi nell'ingresso, e lei sembra mettere a fuoco la domanda per due o tre secondi. Si appoggia con la mano sulla maniglia della porta e dice: «Non so, non esco spesso, la gente non mi piace, in genere.» «Non le piacciono le auto, non le piace la gente... ma se era da noi fino a poco fa!» «Non mi sono mai mossa da qua» ripete con sicurezza. «Sta mentendo!» dico, incapace quasi di controllare la mia voce. «Per quel che mi riguarda è lei a raccontare storie. Le ripeto che non mi sono mai mossa di qua; lei piuttosto non mi ha ancora detto cosa vuole da me.» «Non è possibile!» dico. «Era in casa mia non più di due ore fa.» «Non è possibile. Probabilmente si riferisce a qualcuno che mi somiglia.» «Ne è sicura?» dico sorridendo alle sue parole. «Mia sorella, per esempio.» Sorride anche lei ora, ha alterato appena il tono della sua voce, è più soffice ora. «Ha una sorella?» «Gemelle; siamo uguali. È uscita stamattina presto, ma non so dove sia. A casa sua, mi pare di capire. Comunque vede, le avevo detto che può capitare di sbagliare a volte. Piccoli errori d'identità. Tutto qui. Dunque, vuol dirmi ora cosa vuole da me?» 140


«Sta scherzando?» dico confuso da quel suo tono troppo deciso. «Affatto. Venga.» Mi guida nel soggiorno attraverso un corridoio scuro. Io la seguo camminando rasente alla parete. Quando entriamo mi indica una fotografia in bianco e nero contornata da una sottile cornice d'argento macchiata in più punti, appesa al muro sopra a una cassapanca di legno. «Questa è mia sorella» dice avvicinandosi alla foto. «E quella sono io» continua mentre si dirige verso un'altra foto appesa al muro non lontana dalla prima, incorniciata anch'essa da una linea d'argento screpolato. La stacca dal muro e me la mostra da vicino. La prendo in mano e la osservo per qualche secondo. È un primo piano della donna vista di tre quarti: le guance più scavate e un'espressione tesa, con gli occhi troppo aperti e le labbra atteggiate in una strana smorfia, danno la curiosa sensazione che la donna ritratta sia più vecchia di quella che ho davanti in carne ed ossa, quasi che la foto appartenga al suo futuro piuttosto che al suo passato. «O se preferisce è il contrario. Io sono l'altra e questa è mia sorella, non ha molta importanza in fondo.» Guarda me, si guarda attorno senza attenzione. «A me sembrano semplicemente due copie della stessa foto» dico confrontando i tratti dell'immagine che ho davanti con quelli dell'altra alla parete. «A volte, guardandole, lo penso anch'io sa? Non ricordo neppure quando l'abbiamo scattata. Ma comunque questo non ha importanza non crede? Piuttosto, non doveva dirmi qualcosa...?» «E perché lei non esce mai di casa?» «Mia sorella: lei non vuole perché dice che sono pazza. Dice che è meglio per tutti se me ne sto tappata in casa.» 141


«Ed è vero?» «Che sono pazza? No. Solo mi piace divertirmi.» Sorride. «Basta mettersi d'accordo sulle parole e siamo a posto.» «E riesce a divertirsi qua dentro, senza mai uscire?» «Secondo lei divertirsi e uscire sono la stessa cosa?» Si ferma un attimo a pensare con lo sguardo puntato al soffitto e una mano appoggiata al mento. Dice «Ecco! Complementari forse, ma non uguali. O forse no, ma non importa. Le piacciono i complementi?» «Dipende dai casi» rispondo cauto cercando di adeguarmi al suo strano modo di parlare. «Beh, io complemento mia sorella. È per questo che lei dice che sono pazza; perché non le assomiglio! Questo caso le piace?» «Sinceramente non sono sicuro di capirlo bene; troppo poco tempo, non le pare?» chiedo tentando di eludere la sua domanda. «Ma il tempo non è un problema» dice, mi lancia un sorriso a fil di labbra. «Naturalmente» rispondo io senza capire, solo per aggiungere qualcosa. «Comunque sono qui per il pacco.» «Ah sì, il pacco, il pacco è vero. Mi parli pure di lei e di questo suo pacco che viene a cercare in casa mia con tanta irruenza.» «Solo se qualcuno me ne fornisce l'occasione» aggiungo con sarcasmo leggero. Lei ignora le mie parole e si limita a sorridere ancora scuotendo leggermente la testa. Allora le racconto della visita della sua presunta sorella stamattina, del pacco che dovevo prelevare qui, dei problemi con l'auto, dell'incontro tra mio fratello e sua sorella, del mio vagare in questo paese strano e vuoto. Alla fine la fisso negli occhi 142


sperando di leggere in lei tracce delle sue bugie. «Nessun pacco per nessuno» afferma sicura. «Lo sospettavo. A sua sorella piace mentire?» «Sì, a volte le piace; in questo siamo come due gocce d'acqua. Ma anche lei, come me, vuole sani motivi per farlo. Sa darmene uno?» Rifletto per alcuni istanti; la guardo negli occhi. «Veramente non ricorda di avermi visto altre volte qui?» «Se non lo sai lei! E comunque me ne ricorderei. Questo c'entra qualcosa con le menzogne di mia sorella?» «Anche io e mio fratello siamo gemelli. Uguali voglio dire. Se lei si ricordasse di me, allora potrebbe aver visto lui. In fondo è stato mio fratello a scegliere questo posto per le nostre vacanze. Forse lui e sua sorella si conoscevano già da prima di stamattina, e la storia del pacco è stata solo un pretesto per allontanarmi da casa.» «Questo la turba vero?» «Non mi turba affatto. Solo avrei preferito che fossero stati più chiari. Avrei risparmiato la fatica di arrivare fin qua.» «E così perso il gusto per il nostro incontro? Due gemelle che incontrano due gemelli; non le sembra un buon gioco arrotolato dal caso?» Per qualche secondo ripenso alle sue parole strane. «Il caso dice? Sua sorella che piomba da noi e lei lo chiama caso?» «Dico piuttosto che dato che è qui ormai potrebbe anche mettersi a suo agio, sedere e rilassarsi, bere un buon bicchiere e smetterla di preoccuparsi.» «Non mi sto preoccupando; vorrei solo una spiegazione.» «Non si sta divertendo vero?» «Lei sì?» «Abbastanza. Fosse posso tentare di addolcire questa visita 143


che il caso ha montato per lei? Vuole qualcosa da mangiare, qualcosa da bere? Vuole riposarsi? Qui trova ciò che vuole; basta chiedere.» Senza attendere la mia risposta mi afferra con per un braccio con leggerezza e mi spinge a sedere a un enorme tavolo di legno scuro che domina il centro della stanza. «Aspetti qui due minuti» dice. «Le preparo qualcosa di veloce da mangiare» e mi lancia un sorriso dolce e scivola verso la cucina e sparisce. Una volta solo nella stanza sento la necessità di ripensare a quanto mi è successo stamattina, ripercorrere con la mente la sequenza di eventi e organizzarli in modo da dare un senso a ciò che mi sta accadendo, e provare così finalmente a controllare la situazione, almeno in parte, piuttosto che lasciare che sia la situazione o il caso o entrambi a controllare me. Mio fratello e questa donna, o questa donna e sua sorella e mio fratello, o io e questa donna e mio fratello e sua sorella. Si conoscevano già in precedenza? E mio fratello mi ha mentito? E se l'ha fatto, perché, che bisogno aveva di farlo? O è stata la donna di stamattina a mentire e io e mio fratello siamo vittime di un suo gioco misterioso? O è sua sorella a mentire? O entrambe? E poi il mio essere qui ora, con questa strana donna, col suo linguaggio oscuro che mi rende difficile il compito di trovare un modo adeguato per reagire a lei, e quel suo guardarmi dritto negli occhi, quei suoi occhi scuri e profondi e troppo uguali a quelli della sua presunta sorella, occhi che mi turbano più di quanto dovrebbero... Non so, tutto ciò mi appare confuso, ho la sensazione di stare osservando troppo da vicino i particolari di una fotografia, così che pur se i dettagli di ogni elemento 144


dell'immagine emergono chiaramente alla vista, mi resta difficile decifrare l'immagine nel suo insieme. E di nuovo mi afferra ora quella stanchezza che mi ha colto dopo l'inseguimento della bambina, una sorta di confusione mentale, una nebbia sottile che sembra insinuarmisi nel cervello, così che mettere a fuoco i pensieri mi diventa quasi impossibile. Provo a rilassarmi; cercando di distrarmi prendo a perlustrare la stanza con lo sguardo lasciando che i miei occhi sfiorino le superfici degli oggetti senza soffermarsi su nessuno in particolare. Nell'angolo sotto la coppia di foto c'è la cassapanca di legno massiccio; a fianco un divano addossato alla parete, rivestito di una stoffa ruvida bianco-perla con minuscoli fiori stampati a tinte smorzate. Di fronte c'è un comò di legno scuro con quattro cassetti e il ripiano di marmo lucido. Appeso all'altra parete, un grande specchio con macchie irregolari nere d'argento scrostato sulla superficie duplica la stanza alle mie spalle, il tavolo, le sedie, il mio volto teso che mi guarda. Distolgo gli occhi dalla mia immagine che mi scruta. Dalla cucina provengono suoni di piatti e allora mi alzo in silenzio e incuriosito mi dirigo verso il corridoio e poi prendo a vagare tra le camere in cerca di non so neppure io cosa, aprendo le porte una dopo l'altra senza fare rumore, quasi col timore di sorprendere donne dormienti nascoste nel buio e strapparle d'improvviso al loro sonno leggero. Continuo la mia perlustrazione e in breve mi accorgo che non c'è molto da scoprire: alcune stanze sono completamente vuote, in altre stanze la luce non si accende e posso soltanto intravedere i profili degli oggetti e vagamente intuire le posizioni dei mobili. E più mi guardo attorno, più l'architettura della casa mi ricorda con fastidio quella della nostra 145


casa in collina. Stessa la disposizione delle stanze, identiche o quasi anche le posizioni di quei pochi mobili che ho l'occasione di vedere. Nella sala da pranzo c'è perfino la stessa scala di legno con la balaustra che guida al primo piano. Se potessi coprire questi mobili con delle lenzuola non mi sarebbe difficile credere di essere stato proiettato indietro nel tempo e nello spazio e trovarmi ancora nella mia casa in collina, e di aver immaginato tutto questo ed essere in un sogno mattutino. Mentre mi muovo tra le stanze sento la donna uscire dalla cucina e allora interrompo la mia perlustrazione e velocemente ritorno nel soggiorno. Quando mi siedo la trovo già seduta al tavolo; davanti a lei c'è un vassoio con pane e salame e una brocca di vetro con del vino rosso. Mi guarda. «Le ho preparato questo per uno spuntino veloce» dice sorridendo. «Il resto più tardi, se vuole.» Annuisco e le sorrido in risposta per ringraziarla. «Ha trovato qualcosa?» chiede d'improvviso. «Come?» «Ha avuto tutto il tempo di dare una buona occhiata alla casa, no?» chiede con un tono ambiguo, una mistura di curiosità e sarcasmo. «Volevo sapere se ha trovato qualcosa di interessante...» «Beh, sì, mentre l'aspettavo ho dato un'occhiata in giro» rispondo con imbarazzo abbassando gli occhi sul cibo. «È una strana casa» aggiungo poi cercando di eludere la sua domanda. «Sembra identica a quella che mio fratello ed io abbiamo affittato in collina.» «Già. Poca fantasia. Le fanno tutte uguali vero? Poca fantasia!» «E perché tutte quelle stanze vuote e al buio?» 146


«Per lei deve esserci sempre una risposta a tutto?» chiede subito lei eludendo la domanda così come io ho fatto in precedenza con lei, e poi piega la testa e mi fissa ancora una volta negli occhi. Io continuo a sentirmi a disagio e non so cosa rispondere; rimango in silenzio e neppure lei sembra voler aggiungere altro. È seduta di fronte a me, appena spostata verso lo spigolo del tavolo, e mi osserva lanciarmi sul cibo e addentare il pane. Le sue mani poggiano aperte sul bordo del tavolo, l'una sull'altra. Tra un morso e l'altro vuoto bicchieri di un vino scuro dal sapore aspro e forte. In silenzio, masticando, allargo con la punta delle dita le tracce più o meno asciutte, più o meno nette, intrecciate e circolari lasciate in strati successivi dal fondo umido del bicchiere sul piano del tavolo. Gioco con le briciole aggiungendole alle geometrie liquide spezzate. Lei continua a guardarmi bere e mangiare, osserva le mie mani, la bocca, gli occhi, la bocca. Entrambi non vogliamo o sappiamo aggiungere parole alla scena. Quando ho finito di mangiare e bere ci alziamo dal tavolo e ci spostiamo verso il divano. Mi siedo e mi sembra quasi di sprofondare nel tessuto morbido dei cuscini e mi sento avvolgere da una piacevole sensazione di calma e pace. Probabilmente accorgendosi della mia espressione finalmente più rilassata lei dice d'un tratto: «Pensa ancora a suo fratello?» «Non ha importanza ormai.» «Bene; è in buone mani con mia sorella, non deve preoccuparsi.» Muove una mano col palmo aperto verso di me come per rassicurarmi. «Non mi sto preoccupando. Non ha importanza.» «Bene allora.» Fa una pausa e sorride schiudendo le labbra. 147


«Si sta divertendo vero?» le chiedo notando la sua aria soddisfatta. «Abbastanza. In genere ho solo bisogno di un po' di rincorsa. E lei?» «Cosa?» «Lei non si diverte?» «Beh, non so... cosa c'è di divertente?» «Beh, intanto la sua rincorsa goffa, il disagio scritto nei suoi occhi che non riesce ancora a mascherare bene. Lei insomma!» Sorride ancora, piega le labbra sottili in quella strana smorfia laterale che le deforma il viso, rendendola ora simile alla donna della foto, per un attimo invecchiandola appena. «Posso raccontarle qualcosa per rilassarla?» aggiunge con dolcezza. «Per esempio dirle dei miei capelli o le mie mani o i piccoli oggetti che sono qua attorno a noi e irradiano segreti da scoprire. Basta solo l'occhio giusto. Scommetto che lei non si è mai osservato le mani con l'occhio giusto!» «Lei sì invece?» chiedo sfiorandole gli occhi coi miei occhi, scorrendo gli occhi sul profilo del suo naso sottile, sulle punte delle sue dita che si muovono in aria in piccoli cerchi. «Certo! Qui ho tutto il tempo per aprirlo e guidarlo a svelare le tracce minute ma importanti che descrivono la struttura misteriosa delle cose.» «E l'occhio giusto...?» «È tutto ciò che vuole; è guardarsi un'unghia come fosse sempre la prima volta, cercare una storia in un capello, in un fruscio di un vestito, nello sbattere di una porta, nelle labbra, in un occhio. Basta solo qualcosa dentro che ci dica che ogni parte del mondo va guardata con l'occhio giusto. Forse...» dice con aria divertita e misteriosa «...forse il suo occhio giu148


sto è proprio in quel vino che ho portato per lei. Forse è quello il suo trampolino.» «Se l'occhio giusto è quello» dico indicando il bicchiere vuoto «allora a volte anch'io ho l'occhio giusto.» «Certo! Tutti ce l'hanno a volte, ma non basta! Bisogna desiderarlo per averlo, altrimenti è solo un incidente, qualcosa che succede per caso, e allora sì che è qualcosa che tutti hanno! Ma che spreco in quel caso! Ma lo sa che dentro di noi c'è uno spazio poetico e l'occhio serve a rivelarcelo?» La guardo, la fisso negli occhi sempre più a disagio. «In che senso?» chiedo. «Dobbiamo sognare per restare vivi. Il sogno è la nostra poesia, il sogno ci lascia scie colorate e calde dentro che si freddano durante il giorno. Di notte siamo poeti, lasciamo che l'armonia dell'universo ci inondi, ci immerga nel suo grembo colorato. E l'occhio è proprio la lente tra il dentro e il fuori, tra il sogno e la realtà, tra il giorno e la notte. È per questo che bisogna imparare a usarlo.» «Lei pensa spesso a questo vero?» borbotto impacciato, sprofondato nel divano, incapace di seguirla fino in fondo. «E lei mai vero? Certo, come tutti gli altri... Ecco perché non si diverte! Ma si rende conto che i sogni sono la nostra unica speranza di sopravvivenza in un mondo altrimenti così inutilmente monotono e identico? Quando sogniamo blocchiamo il tempo, o lo facciamo slittare un po' in avanti, o lo tratteniamo indietro per i suoi lembi sfilacciati, e regoliamo gli orologi del tempo come ci piace. Ma si rende conto? Sognare è come catturare in un istante spazi diversi e sfaccettati ed essere capaci di poter lambire tutte quelle superfici e affacciarsi verso di loro e spaziare dentro e vedere cose, e specchiarsi e vedersi dentro come in un diadema prezioso.» 149


«E il tempo...» continua fissandomi con uno sguardo ipnotico «ci serve l'occhio per vedere il tempo. Il tempo dovremmo percepirlo con dolcezza, come durante i sogni, perché il tempo opera nella nostra mente con meccanismi delicati, macchine fragili che si spezzano facilmente. E se i motori si inceppano il tempo diventa sfuggente, sguscia via e diventa una linea veloce che si allontana, quel tempo noto e monotono che scandisce le nostre giornate più noiose. Invece si devono coglierne tutte le facce. Si deve guardare al tempo per scoprire futuri luminosi, futuri possibili, tutti i futuri normalmente invisibili e impossibili, tutti i presenti da trasformare in molteplici passati, tutti i passati paralleli che si combinano assieme... Tutto questo è l'occhio: è la capacità di vedere i sogni, di capire il tempo, di capirsi dentro...» Si interrompe, si perde con lo sguardo in un punto di spazio in basso, forse su una riga scura in un quadrello di legno del pavimento. «Aspetti un attimo.» Fa un gesto col braccio, lentamente si alza e con calma si dirige verso il comò. Apre un cassetto e vi fruga dentro e ritorna verso di me con un foglio e un paio di forbici e un rotolo di nastro adesivo tra le mani. Si siede sul divano al mio fianco. Con le forbici taglia una striscia di carta lunga e sottile; stringendone le estremità tra pollice e indice ruota le mani sui polsi l'una opposta all'altra e con un movimento ad arco unisce le dita, pollice contro pollice. Poi salda con il nastro adesivo la striscia di carta piegata in quello strano anello. Me lo mostra sorreggendolo davanti ai miei occhi. «Questo non è un anello normale come sembra appena lo si vede» dice. «È un anello magico. È come il tempo. Se lo si percorre con un dito ci si accorge che è un sentiero senza fi150


ne. Certo, come tutti gli anelli, ma questo è speciale, perché si può scivolare dalla superficie interna a quella esterna senza mai staccare le dita da essa, e si può continuare avanti per sempre e si va da dentro a fuori e da fuori a dentro e fuori ancora...» Mi mostra la cosa facendo scorrere un dito sulla superficie del nastro per una decina di secondi, seguendo il movimento con gli occhi spalancati e sorridendo. «Non è strano?» domanda. «Si crede di passare da una faccia all'altra, si vedono due facce e invece ce n'è una soltanto. Una continua e circolare. Tutto è dentro, tutto è fuori, dentro e fuori insieme...» dice, si blocca e mi osserva con occhi grandi e profondi, resta con la striscia di carta in mano, le luccicano quei suoi occhi. Ha pupille dilatate, scure, anellate appena di un azzurro intenso, come magico. Mi sento strano, caldo. Mi sento come catturato dal suo sguardo. Mi sento succhiato nei suoi occhi, perché nei suoi occhi dolci scintillano macchie grigie che non riesco bene a decifrare, come se codici misteriosi si fossero spezzati d'improvviso, azzerati e dispersi in profondi... cosa mi sta...? cosa sta facendo con... Me, sì, è strano, sono prigioniero di un incanto... è come se... sto perdendo la capacità di... completamente il fine, l'abilità per scappare... viscida, qui c'è, lei c'è, luce, bianca, riflessi molti, bianca molto, molto bianca splendente chiara luminescente sfarfalla luminosa luce molto molto molto molto molto molto chiudo. Gli apro. Occhi. Apro anche di nuovo la. Bocca...sua ------------------------------------------bocca ----------------------------------------------------------chiudo -------------------li apro 151


-------------------------------------------------------------------------------------------Occhi ----------------------------------------------------ma non... ------------------------------------------------------------------------------------Bocca ---------------la sua bocca mi sorridebolmente. Apre, ma non ---------------------------------------------------------so so bene aprire, credo di scivolare lentamente nel liquido morbido sciolto e appena, in oblii slittati, spostati deviati laterali piegati che. Cerca di carpirmi oltre dalla mente il mio cervello. Mente, sì, la mente. Perché... ...Apro gli occhi. Provo ad... Afferrarmi a lembi d'aria sospesi mentre sto precipitando, cadendo percepisco il mio corpo inclinarsi a velocità crescente vorticoso affrontare la terra. Osservo il pavimento di legno, gli intarsi geometrici ingrandirsi e corrermi incontro grandi giganteschi... Apro gli occhi e lei è davanti a me sorridente. «Non è niente» dice dolce. «Cosa?» «Niente. È l'effetto. Ma te ne accorgi solo all'inizio.» 152


«Cosa?» «Era nel vino, ma poi non te ne accorgi più.» «Cosa? Di cosa devo...?» «È per aprirti al tempo, al divertimento. Te l'ho detto, il tempo è un anello magico. Poi non ti rendi più conto. Semplicemente non te ne accorgi più. Te ne dimentichi. Dimenticato...» «Ma di che stai parlando?» urlo. La percepisco lontana col cervello, qui col suo corpo, eppure lontana da qui. «Non importa. Veramente, non importa ormai.» «Ma che stai farfugliando?» la afferro per le spalle, la scuoto con violenza eccessiva. Però lei mi lascia fare, asseconda i miei movimenti vibrando con me senza reagire. Lentamente la libero. Ha una piega dolce negli occhi, i capelli arruffati le coprono il viso in parte, le fasciano il collo, le nascondono in parte un sorriso oscuro che lascia affiorare appena i suoi denti dietro le sue labbra luminose. Restiamo a lungo a sondarci in silenzio. Mi mostra ancora l'anello di carta nelle sue mani e io, confuso, non riesco a reagire a lei, a fermarla in questo suo insistere eccessivo che mi trascina nel suo mondo senza che io possa impedirglielo. «C'è più di una via per scavalcare lo spazio» dice. «Come puoi andare da un punto all'altro della superficie di questo anello?» Attende che dica qualcosa. Resto immobile di fronte a lei, la guardo, formulo pensieri vaghi senza riuscire a concentrare l'attenzione su parole o gesti adeguati. Sono soltanto capace di fissarla, sposto a tratti lo sguardo da lei alla carta arrotolata e a lei di nuovo. «Hai detto che è a una sola faccia no?» chiedo dopo molto tempo. «Allora basta andare sempre avanti. Così da ogni 153


punto arrivi sempre a un altro punto!» «Vero! Ma credi che le strade più lunghe siano sempre le migliori? E se invece scavalcassimo lo spazio deviando di lato? E se facessimo un foro sulla superficie?» Con le forbici apre un foro rettangolare nella superficie di carta. «Guarda...» indica il foro. «Se la superficie è a una sola faccia, allora aprendo un foro su di essa vai da una zona all'altra della stessa superficie attraverso la via più breve, come una porta che si affaccia su due spazi lontani e li avvicina, un ingresso che scavalca lo spazio. Non credi che sia magico questo? Come il tempo, un tempo magico che ti permette di muoverti in avanti saltando sezioni di tempo, o muoverti indietro dove ti piace tornare e generare cicli, anelli di tempo, anelli speciali, come questo.» Le brillano gli occhi mentre parla, una luce misteriosa. «Pensi spesso a queste cose vero?» ripeto. La guardo preoccupato e a disagio, ansioso per qualcosa di oscuro che sembra prenderla dentro, lanciarla veramente troppo lontana da me, lontana da qui e da se stessa. «E tu mai vero? È così che resti ancora nel buio, come tutti gli altri, come mia sorella che mi crede pazza perché le racconto tutto questo.» Piega la testa di lato e continua a sorridere con un'espressione allucinata, gli occhi sbarrati e le labbra dischiuse. «Ora, se tu fossi magnetico» sussurra avvicinandosi d'improvviso, colorando la sua voce di toni caldi «mi attireresti come si attira il metallo fuso.» «Sono magnetico?» chiedo, scambiando sorrisi anch'io, incerto, mal lanciato nel suo gioco. «Si può provare a scoprirlo, e giocare a cercare i piccoli campi elettrici che inondano l'aria attorno al tuo corpo.» 154


Prende ad agitare le braccia e le mani attorno alla mia testa, sembra sondare un guscio a me invisibile che mi incarta. «Forse...» dice divertita. «E tu sei metallo fuso?» chiedo. «Certamente!» Subito me la ritrovo addosso; mi abbraccia come una piovra scura stringendomi forte. «Vedi? Come lava e calamita!» D'improvviso le nostre bocche si toccano, sfiorano, tirano aperte coi denti pelle di guance e mento e lingua. Contatti morbidi si sovrappongono nella mia mente, zone calde confondono le mie dita. Emergono densità diverse affastellate in fasce contigue di spazio di corpo. «Vedi che può esserci un tempo di sogno?» bisbiglia staccando i suoi denti dai miei. «Non siamo in un sogno ora.» «Ne sei così sicuro? E in ogni caso mi piace crederlo. Le possibilità del dubbio...» Si sfila il vestito nero e lungo che scivola sul suo corpo fino a terra con un fruscio liquido, come un mucchietto accartocciato scuro le copre i piedi nudi e le caviglie. «I tuoi futuri luminosi prevedevano questo?» domanda mentre mi si arrotola vicino. «Può darsi. Quelli luminosi può darsi...» «Andiamo di sopra» dice allora guardandomi, schiudendo le sue labbra lucide. La contemplo per lunghi istanti. «Sei un meccanismo misterioso» le sussurro ridendo piano. Allora mi afferra la mano, la stringe, mi guida in fretta per le scale di legno e in camera e sul letto. Mi guida verso di lei e su di lei e io la lascio fare. Mi spoglia rapida avvinghiandosi 155


alla mia pelle. Mi guida a sfiorarla e toccarla in punti di vibrazione, mi guida verso nicchie nascoste e calde del suo corpo e superfici tenere da assaggiare. Fino alle sue unghie da succhiare, polpastrelli e profili di dita lunghe, e sbandamenti di vene, intarsi di pelle e leggere pelurie che dorano dune di carne riflettendo le luci della stanza. Colgo il suo cuore di lava, le affinitĂ misteriose che sbocciano dal contatto dei nostri corpi stretti. Mi guida verso fasce sode di corpo, ondulazioni di schiena e tagli improvvisi, mi avvolge con masse di capelli neri, sfioro i suoi piedi sottili, le sue caviglie, il suo ventre caldo, e i seni, le spalle, il suo collo tornito, la linea limpida del suo naso, il suo neo perfetto sotto l'occhio destro. Mi guida verso le sue zone scure, verso luci che salgono nel cervello, verso il suo buio che diventa il mio. Nel sonno dopo l'amore mi dimeno su strati eccessivi e morbidi di stoffa e pelle amalgamate. Sogno: episodi brevi, confusi nel sudore; luci abbaglianti seguono momenti di tenebra, precedono sequenze meccaniche di gesti, ripetizioni di eventi che poi si dissolvono per morte da dimenticanza. Sogno: corpi identici di donne eteree partorite da una sola radice, umida e bianca che emerge dalla linea liquida di un mare di sangue. Le figure si dimenano e contorcono anelando al distacco dalla madre generatrice, e precipitano nel magma cupo, l'una sull'altra, gemendo; le loro braccia si muovono frenetiche e le bocche aperte mostrano lingue e denti; i capelli arrossati, lunghi, si intrecciano e si fondono, e i corpi si addensano con rumore di ossa, sciolti si compon156


gono in un ammasso informe di carne chiara che spicca dal liquido agitando braccia e protuberanze, come rami morbidi di una radice bianca. Sogno: labirinto bianco che si piega su se stesso in dimensioni invisibili e infinite. Sono sempre dentro, nato lì dalla materia fusa del labirinto stesso; sono sempre il labirinto, dentro, bianco, sono sempre stato dentro, e l'ingresso, sbocciato da braccia di donna, trovato e dimenticato, è ora l'uscita, agognata e impossibile, che riconduce al labirinto stesso, ancora e ancora. Sogno: occhi schiacciati, annodati, arrotolati, con bocche voraci e altri occhi ossessivi, fissi, che cercano l'immagine della propria vista; emergono pulsanti da ogni zona della superficie vitrea del bulbo e scompaiono inghiottiti da altri occhi più recenti. Il sudore mi gela nel sonno, nel tempo dell'oblio e dell'indifferenza. Le differenze sono perse ormai, annullate; invano cerco connessioni troppo in fretta svanite dalla memoria, perse ormai, ormai dimenticate. Mi sveglio di colpo dopo ore di ossessioni. Guardo l'ora ma l'orologio è fermo. Fuori è buio, riflessi di luna piena entrano dai vetri e velano d'azzurri e bianchi pallidi le superfici degli oggetti nella stanza. Ho sete e fame; mi alzo, una pesantezza alla testa mi inchioda stordito sul bordo del letto, chiazze mobili di luce impresse nella retina svaniscono a fatica. Ho la bocca impastata come se avessi bevuto del vino di pessima qualità. Mi vesto e scendo al pianoterra ancora assonnato e intontito. In cucina bevo a lunghi sorsi direttamente dal rubinetto, 157


poi inquieto apro tutti gli sportelli della credenza, sfilo i cassetti in cerca di qualcosa da mangiare, ma la sola cosa che riesco a trovare è un barattolo di vetro con del caffè. Niente altro. Allora prendo a vagare tra le stanze con i crampi allo stomaco; confuso, mi abbandono a una ricerca asistematica di cibo, vado avanti e indietro, apro porte e le chiudo, ruoto maniglie, giro la testa attorno. I miei occhi invano cercano riferimenti tra questi mobili che mi appaiono tutti uguali, in parte celati nell'oscurità, forse in parte avvolti con lenzuola chiare. La casa è più grande di come la ricordavo. Continuo ad aprire porte e richiuderle dietro di me. Trovo un lungo corridoio che si affaccia su un lato della casa che non avevo ancora esplorato. Ci sono porte a destra, porte a sinistra. Vado avanti, alla fine del corridoio c'è ancora un'altra porta. In qualche modo è diversa dalle altre, meno rifinita forse, quasi come un'uscita tagliata nella superficie del muro dopo la costruzione del muro stesso. La apro, passo attraverso, mi ritrovo all'esterno. Scendo pochi gradini di pietra fino al prato, cammino lento sull'erba con le gambe rigide. Giro attorno alla casa; a sud si allarga la valle e le colline morbide illuminate dalla luna sembrano branchi ammassati di strani animali notturni, immobili, con le teste piegate nel sottosuolo e le schiene inarcate rivolte al cielo. Il mare lontano si intravede come una fascia compatta più chiara, una linea d'argento sbiadito. Mi siedo a terra con le gambe distese e le braccia gettate all'indietro, cercando invano di mettere a fuoco i pensieri turbinosi delle ultime ore di sonno e incubi. In breve l'umidità dell'erba mi penetra nei vestiti e poi dentro fin nelle ossa. I primi bagliori dell'alba colorano il cielo 158


ad est. Rientro in casa, in cucina mi siedo al tavolo e appoggio la testa sulle braccia ripiegate. Scivolo presto in un torpore senza sogni per un tempo indefinito. Il suono dei passi di qualcuno che scende le scale mi sveglia di soprassalto, e subito un misterioso impulso dentro, un prepararmi alla difesa contro un pericolo invisibile, mi fa scattare in piedi prima ancora che io abbia aperto gli occhi. Oltre lo stipite della porta vedo un'ombra muoversi giù dalle scale e, ancora prigioniero del sonno, ancora preso dalla sensazione di muovermi in un sogno che non ricordo di aver cominciato, abbandono il tavolo e mi avvicino alla porta, fin quando l'ansia generata dal mio risveglio brusco si placa finalmente, perché riconosco mio fratello fermo sull'ultimo scalino. «Finalmente!» gli dico. «Ehi!, ma ci si sveglia all'alba in questo posto?» chiede lui appena mi vede. «Beh, se credi che sia l'alba...» rispondo indicandogli la finestra e la luce intensa del sole che filtra dentro. Lui non aggiunge altro, ma segue con gli occhi la direzione del mio dito verso la luce. Per istanti restiamo immobili e in silenzio, ci guardiamo, lui un palmo più in alto di me fermo su quell'ultimo scalino, io più in basso, intontito dal sonno, incapace di staccarmi dalla sensazione di essere saltato da un sogno a un altro, di essermi svegliato solo per scoprire di stare ancora dormendo e sognando. Gli sorrido a occhi socchiusi e lascio scorrere lo sguardo su di lui, sui suoi ricci scomposti, su quei suoi occhi arrossati dalla notte, e le sue guance scavate scurite dalla barba lunga. Ho l'impressione 159


che questa sua aria stanca lo invecchi. In fondo ha la mia età, in fondo lui dovrebbe essere il mio specchio, la mia copia perfetta. Eppure io non sono come lui, non mi sembra di... No, è che ho perso l'abitudine di confrontarmi in lui e di accettarlo come un'estensione del mio corpo, una duplicazione del mio volto. O magari, dopo tutti questi anni, forse è vero che non ci somigliamo più; l'esperienza ci cambia, cambia la mente, ma anche i muscoli, le contrazioni, il modo in cui sorridiamo o chiudiamo gli occhi e muoviamo la bocca; il tempo e gli eventi cambiano anche quello, e siamo diversi, se possibile ancora più diversi da come eravamo prima, il tempo e lo spazio che intensificano la distanza tra noi. Ma non so, non so bene, perché d'improvviso mi salta alla mente l'immagine di lui stanotte nel suo letto, quando mi sono alzato, il pensiero che mi ha colto allora, quando l'ho visto dormire, un pensiero opposto a quello che ora mi sfiora, sono io, ho pensato allora, ecco la mia copia che dorme e io sono qua in piedi di fronte a me a guardarmi dormire... «Sai» gli dico «stanotte, quando mi sono alzato e ti ho visto nel letto, per un momento ho avuto la sensazione di una copia di me stesso che dormiva mentre io ero lì sveglio ad osservarla.» Gli sorrido. Continuo a guardarlo e da come lui risponde al mio sorriso col suo sorriso sono sicuro che anche lui nel vedermi ora, qui di fronte a lui, è stato colto dallo stesso pensiero. Lo so, posso sentirlo. In fondo, anche se il tempo ci divide, siamo ancora gemelli. In qualche modo ancora riesco a intuire i suoi pensieri. «Non eri più abituato eh?» mi risponde e io annuisco e poi i miei occhi si incontrano coi suoi finalmente, ma allora mi accorgo che non è come ho pensato e sperato, leggo qualco160


sa di strano in lui, sento nella sua voce una nota di disagio sicuramente generato dalla mia presenza, quello stesso disagio che aveva cominciato ad farsi strada tra noi negli ultimi tempi in cui vivevamo assieme con Irene, prima di quel giorno... Mi accorgo che non è ancora riuscito a perdonarmi di aver scelto la sola cosa veramente giusta per entrambi, essermene andato e averlo lasciato con Irene. Così ora restiamo ancora lì in piedi, lui imbarazzato e ormai anch'io colto da un imbarazzo leggero per quel prolungato silenzio tra noi. Poi finalmente è lui a muoversi verso la cucina e io allora lo seguo. Ci sediamo e prendiamo a guardare il tavolo, la finestra, le nostre dita. Trovare le parole non è facile. «È molto che sei alzato?» mi domanda dopo un po'. Punto gli occhi su di lui. «Abbastanza. Avevo fame e così sono sceso a cercare qualcosa da metter sotto i denti, ma niente di niente, questo dannato posto è vuoto come l'aria!» Lo vedo sorridermi divertito. «Beh, dopo un anno che è disabitato... Pretendevi anche che qualche servizievole spiritello ti apparecchiasse la tavola commosso dal tuo appetito famelico?» «Ma se è da ieri che non mangio!» «Poveretto!» dice simulando un'espressione rattristata. «Vuoi commuovere anche me?» «Piantala!» gli urlo brusco. «Piuttosto fa' il caffè, che è l'unica schifosa cosa che sono riuscito a trovare qua dentro.» Mi alzo, vado a prendere dalla credenza il barattolo di caffè che ho trovato stanotte e lo appoggio sul tavolo. «Ehi, ehi calma!» dice lui guardando il barattolo e poi me. «Io mi sono appena alzato; non puoi chiedermi questo...» «Beh, potresti almeno...» comincio, ma poi mi interrompo. 161


Gli lancio un'occhiataccia, ma non ho voglia di parlare ora. Non per il caffè, in ogni caso. Prendo la caffettiera dal lavandino, torno al tavolo, apro il barattolo del caffè e lentamente comincio a riempire la caffettiera. Lui segue i miei movimenti con gli occhi, sembra quasi cercare segni misteriosi nascosti nei miei gesti, mi guarda e guarda e continua a non parlare. Mi piacerebbe sapere cosa gli sta passando per la testa ora. Sicuramente è il disagio per avermi davanti di nuovo e d'improvviso dopo tutti questi anni. In fondo anch'io provo lo stesso disagio. Certo, come potremmo evitarlo? Ma vorrei sapere se è stata veramente una buona idea quella di venire qua in vacanza per cercare di recuperare il tempo perduto tra noi. Non so, siamo gemelli, dovrei conoscerlo come conosco me stesso, e malgrado ciò ora non riesco neppure a capire cosa gli sta passando per la testa. È lì che mi guarda in silenzio, e magari vorrebbe dirmi cose e invece... È strano, non dovrei neppure pensare questo dopo appena poche ore, ma ho la chiara sensazione che lui non sia cambiato affatto; come se quell'ingenuità adolescenziale che allora entrambi condividevamo si fosse conservata in lui perfettamente identica. Ho la spiacevole sensazione che il tempo per lui si sia fermato a quando vivevamo ancora assieme. Lo vedo sforzarsi nel riprodurre quelle frasi e quelle espressioni e quel modo di essere con me che ci univa allora e che per me ormai appartiene soltanto al passato. Anche dopo appena poche ore mi è chiaro ormai che quel legame stretto che c'era tra noi, quel capire le cose al volo senza bisogno di parole, quel dialogo con gli occhi, quella forza segreta tra noi che ci divertivamo a chiamare la magia dei gemelli non esiste più. Mi domando se riusciremo mai a parlarci di nuovo, o se 162


questa vacanza che ho cercato di organizzare per farmi perdonare da lui finirà invece in qualcosa di insoluto, qualcosa che ci farà ripetere ancora e ancora parole e gesti ormai consumati, senza la possibilità di poter uscir fuori da un passato che ci lega e che pure ormai non ci appartiene più. Quando ho finito con il caffè chiudo la caffettiera e la appoggio sul fornello e poi ritorno al tavolo e mi siedo. «Grazie fratellino» dice allora lui indicando la caffettiera. «Non ti preoccupare, avrai modo di ringraziarmi a suo tempo.» «Cosa sta elaborando ora quella tua testolina insana?» «Provviste. Manca tutto qua e bisogna che qualcuno vada in paese a far compere.» «E non pretenderai che io...» «Io il caffè tu le provviste. Te l'ho detto, aspetta a ringraziare. E poi non posso andare io, ho mal di testa. Ho avuto incubi tutta la notte e anche maledettamente reali, come veri.» «Brutte storie?» domanda. «Non so bene, non ricordo. So solo che sembravano veri. Immagini lucide. Non ricordo cosa, ma ho questa sensazione strana, queste immagini che si ripetevano come in un ciclo, ossessive; una dopo l'altra, due o tre volte, e poi da capo, la prima, e poi la seconda ancora, e così tutta la notte! Terribile! Come se avessi bevuto troppo! Credevo di non venirne più fuori... È anche per questo che mi sono alzato presto. Sono uscito a prendere una boccata d'aria fresca.» «Di notte?» chiede stupito. «Era quasi giorno.» Lancio lo sguardo oltre i vetri sporchi della finestra, per secondi lascio vagare gli occhi sul profilo di un vecchio carretto di legno annerito e affondato nell'er163


ba, inclinato sull'asse privo di ruota. Mi gratto la crosta sottile di una ferita vicino al pollice. «E poi c'era la luna piena» continuo. «Si vedeva la valle e le colline. Era strano, irreale quasi, tutte quelle colline sembravano quasi le schiene imbiancate di animali notturni addormentati» gli spiego agitando le mani in aria per riprodurre con le dita le rotondità delle colline. Lo vedo sorridermi mentre gli racconto questo. Sento che sta facendo di tutto per tentare di riavvicinarsi a me e adeguarsi al mio modo di essere, anche se è chiaro dall'espressione del suo volto che le mie parole e i miei gesti devono apparirgli estranei, troppo diversi da quei gesti e quelle parole che definivano il dialogo tra noi. Lo guardo ancora negli occhi e allora gli sorrido anch'io, cercando di minimizzare questa sensazione di lontananza che mi trovo a provare nel vedermelo davanti. Gli sorrido, e mi accorgo che lui assegna un qualche significato speciale a questo mio sorriso, lo capisco da come reagisce, da come apre gli occhi e allenta finalmente quell'espressione tesa che ha avuto finora stampata sul suo viso. E sta quasi per aprire la bocca e parlare, ma la sua frase gli resta muta tra le labbra perché d'improvviso udiamo qualcuno bussare alla porta e chiamarci. Il caffè bolle sul fuoco, corro verso il fornello e lo spengo, poi lancio un'occhiata incuriosita a mio fratello, ma lui scuote la testa, e allora andiamo alla porta. La apro, ferma davanti a noi c'è una donna giovane, bellissima, col sole che le riempie il volto di luce, coi capelli neri che le avvolgono le spalle, neri come gli occhi che ci punta addosso mentre ci sorride. Subito ci saluta con cordialità, la sua voce è piacevole e bassa, una nota di viola quasi. 164


«Siete i nuovi inquilini?» domanda. Annuiamo e lei allora ci guarda per un momento spostando gli occhi da mio fratello a me, sicuramente sorpresa nel notare le nostre facce identiche. «Scusate il disturbo, così di mattina, senza avvertirvi» continua rivolta ad entrambi. «So che il proprietario della casa voleva venire a salutarvi, lo so perché sono una sua amica, però è via per affari, e così mi ha telefonato pregandomi di venire io qua e vedere se tutto è a posto e insomma, sì, ad aiutarvi se avete bisogno di qualcosa.» Dopo queste parole rimane in silenzio per alcuni secondi e sofferma i suoi occhi su di me e mi sorride, un sorriso strano, intimo quasi, quasi di complicità, e improvvisamente e senza ragione mi afferra un forte disagio; è come se avessi già visto quello schiudersi di labbra, un ricordo lontano che affiora ora di colpo alla mia mente, ma è un'immagine che mi sfugge, non riesco a definirla con chiarezza, non ricordo dove o quando, è solo un senso di familiarità con quell'aprirsi leggero delle labbra e scoprire i denti, l'idea di ammirare la ripetizione di un sorriso che devo aver già visto. È una sensazione d'un attimo, ma sufficiente perché io rimanga in silenzio un momento di troppo, e mio fratello nota la mia incertezza, così che ora anche i suoi occhi meravigliati sono su di me, accrescendo così il mio senso di disagio. «È molto gentile da parte sua» dico lentamente, nel tentativo di celare il mio imbarazzo «ma non sappiamo ancora...» «Siamo appena arrivati ieri sera» mi interrompe mio fratello accorgendosi che sono ancora in difficoltà «ed è difficile dire di cosa potremmo aver bisogno. Comunque, già che è qui prego, si accomodi. Abbiamo appena fatto del caffè. Non c'è 165


niente da mangiare, ma almeno una tazza di caffè possiamo offrirgliela.» Ci sorride e ringrazia e allora ci scostiamo per lasciarla entrare, e mentre lei ci cammina disinvolta davanti verso il soggiorno io e mio fratello ci scambiamo un'occhiata interrogativa, anche lui, come me, lo so, ancora incapace di reagire adeguatamente a quest'improvvisa presenza tra noi. Io prendo subito a occuparmi del caffè, cercare i cucchiaini, versare il caffè nelle tazze, affidando così a mio fratello il compito più difficile di iniziare la conversazione. Una volta seduta al tavolo lei dice subito: «Ah sì, dimenticavo... ho un pacco per voi da parte del vostro padrone di casa. Ma non qui, il pacco è a casa mia, perché era troppo pesante e non potevo trasportarlo qui da sola, senza un'auto. Ecco, volevo solo dirvi questo, così quando venite giù in paese...» «Proprio pochi minuti fa mio fratello stava dicendo che vuole andare in paese per comperare del cibo» rispondo subito, ancora in piedi con le tazze in mano, prima che sia lui a precedermi. «È una magnifica giornata e a lui piace molto muoversi in auto» continuo sorridendo, caricando la voce con quel tono ironico che piace tanto a mio fratello, e cercando di prevenire così i suoi tentativi di protesta. Ma allora lo vedo subito muovere gli occhi da me a terra e incupirsi e restare a bocca aperta, senza neppure iniziare quelle sue frasi di stizza che so aveva pronte per me, e allora capisco che ho sbagliato; non è ancora capace di accettare i miei scherzi, lo so, non avrei dovuto spedirlo a prendere il pacco così d'improvviso. Ma ormai è troppo tardi, cosa posso farci ormai, e poi, in fondo, non è così importante, dovrebbe imparare ormai a prendere 166


le cose più semplicemente... Nei minuti che seguono evito le sue occhiate che presumo di fuoco e mi soffermo a studiare nella tazzina il riflesso d'oro della luce che entra dalla finestra. Con imbarazzo crescente ci perdiamo nel caffè che sorseggiamo con piccoli movimenti ripetuti dal piattino alla bocca al piattino. A volte spezziamo il silenzio con commenti sul sapore acquoso della miscela, o sul tempo, eterno appiglio di parlato in caduta, e ci concediamo sorrisi eccessivi, raccontandoci dell'andare al mare, la spiaggia pulita, l'acqua calda, e come è piacevole poter nuotare di nuovo dopo l'inverno lungo e freddo, e... Mentre parliamo non posso fare a meno di lasciare che i miei occhi vaghino, sicuramente con insistenza eccessiva, su questa donna che mi siede di fronte, sui suoi occhi, i suoi capelli lunghi e così neri che sembrano quasi catturare tutta la luce e assorbirla, sulle sue labbra che continuano a sorridermi e sorridermi, e allora sempre più mi coglie la sensazione di averla già vista, anche se non riesco a ricordare dove e quando. Non posso staccare gli occhi da lei, e lei si accorge di questo, ma non evita le mie occhiate, anzi, anche lei prende a guardarmi con insistenza, senza esitazione, senza neppure tentare di mascherare il suo interesse. Mi osserva e mi sorride. D'un tratto, con un gesto brusco, mio fratello si alza. Mi guarda. Guarda lei. «Bene» dice con un tono sarcastico. «Vogliamo andare a prendere questo pacco? Bisogna muoversi no? Togliersi di dosso il freddo e la pigrizia... E poi c'è questo pacco da prendere no? Se vuole aspettarmi in auto, in un attimo sono pronto...» «Le auto non mi piacciono molto» risponde lei tranquilla, 167


sorridendo, ignorando il suo sarcasmo. «Preferisco camminare quando posso. E poi» continua, indicando col braccio un punto oltre la finestra «c'è una scorciatoia per il paese proprio qui dietro, e con quella sarò a casa mia prima di lei, se lei vuole andare ora.» Sorride ancora, poi chiede un pezzo di carta e una penna; io mi alzo e vado a frugare nelle tasche della mia giacca, e quando le porgo carta e penna lei scrive il suo indirizzo e spiega a mio fratello sommariamente come trovare la sua casa. Da come mio fratello la guarda sono sicuro che non ha capito, forse non sta neppure ascoltando, ma non chiede altre spiegazioni e io non voglio certo aggiungere parole, visto che se l'è presa così a male per avergli chiesto di andare a prendere quest'accidenti di pacco. Poi, senza più parlare, sale in camera. Quando scende dopo un po' indossa un'altra camicia. Mentre si dirige verso la porta ci lancia un sorriso falso. «Allora ci vediamo a casa sua eh!» dice alla donna, e poi ci saluta con un gesto breve della mano ed esce. La donna ed io lo seguiamo fino all'auto, accompagniamo con gli occhi i suoi gesti lenti, l'infilarsi nell'auto, l'accendere il motore, l'allontanarsi e lo sparire nascosto dal profilo della collina. «Arrabbiato?» mi chiede la donna mentre rientriamo in casa. «Chi lui? No, è soltanto un po' pigro; sì, non aveva molta voglia di andare, ma basta scuoterlo un po'. Non si preoccupi, è fatto così, ma gli passa subito...» le lancio un sorriso e allargo le braccia; anche lei sorride. Quando siamo di nuovo dentro lei dice «Posso restare ancora un po'?» La guardo. «Scherza? Certo. Faccia come fosse a casa sua.» 168


Mi ringrazia. Camminiamo verso il soggiorno e lei si siede con cura nel divano ancora avvolto nel lenzuolo e incrocia le gambe e scopre le ginocchia. Afferro una sedia e mi siedo di fronte a lei. Osservo il rosa delicato della sua pelle, il profilo delle sue caviglie diventare ginocchia e cosce e confondersi poi nell'ombra della gonna. Per qualche minuto riprendiamo quella conversazione vuota che tiene il tempo sospeso in uno spazio neutro di significati. Mentre parliamo lei si agita nel divano, ogni volta cambiando la posizione delle gambe, incrociate, accavallate, piegate di lato, allungate, e ad ogni suo movimento gli occhi mi cadono sui suoi polpacci e ginocchia e centimetri di quelle gambe affusolate che la stoffa non riesce più a nascondere. Passano i minuti, minuti sempre più lunghi. Ogni tanto ci interrompiamo, allungando di volta in volta i silenzi tra le parole, fin quando quei silenzi diventano imbarazzanti, fin quando provo la sensazione di essere ormai incapace di sostenere ancora quella conversazione senza senso né scopo. Dopo un silenzio troppo lungo e per me ancor più imbarazzante di quelli che l'hanno preceduto, lei piega la testa da una parte, i suoi capelli amplificano ondeggianti il suo movimento. Mi osserva, sulle sue labbra quel sorriso che non la abbandona per un istante. Sembra essere perfettamente a suo agio. «Le piace la casa?» domanda. «Beh, non saprei ancora. Siamo arrivati soltanto ieri sera e non ho ancora avuto il tempo di guardarla bene. È così grande...» «Sì, questo me l'ha già detto, ma non ricorda altro?» «Cosa?» «Naturalmente. Dimenticanza... Non ha ancora imparato ad aprire gli occhi. Certo, come tutti gli altri...» 169


«Come?» le chiedo, forse mi è sfuggito qualcosa nelle sue parole. «Dicevamo che non ricorda. È questo è naturale. Certo, si dimentica subito. Ma... E suo fratello è via ora. E noi... no, non ha importanza.» «Scusi, ma non riesco bene a...» «Forse dovrei andare vero? È ora che me ne vada? Ma il tempo non ha importanza, non le pare?» domanda e poi resta con la frase a mezz'aria, immobile, in attesa di una mia risposta. «Certo» balbetto, tentando di riagganciarmi a un filo logico a me invisibile e che a lei invece appare chiaro. Ci guardiamo. Lei torna insistente con lo sguardo su un punto del mio collo; i suoi occhi profondi mi imbarazzano. Sempre più sono preso dalla sensazione di averla già vista. Ma quando? Dove? Cerco tracce nella memoria, ma invano, allora cerco parole per ristabilire la conversazione, cerco lo spunto nei motivi geometrici del pavimento, o in una macchietta scura nel bracciolo della mia sedia, ma niente, nessun ricordo riaffiora, nessuna parola, non so più cosa pensare o dire. Per qualche istante aspetto che sia lei ad aggiungere altro o si alzi per andarsene finalmente. «Forse mio fratello la sta aspettando» azzardo allora dando un'occhiata all'orologio. «Suo fratello è in buone mani. Non c'è niente di cui preoccuparsi» dice molto calma, decisa. «E poi gliel'ho detto, il tempo non ha importanza.» «Come?» ripeto continuando a non capire, vagamente preoccupato per quel tono sicuro con cui ha pronunciato queste ultime frasi. «Perché vuole sempre sapere? Sempre domande..» 170


Si alza, si avvicina a me prima che riesca a replicare, afferro il suo odore dolce di pelle negli attimi che la precedono avvinghiata a me, mentre stringe le braccia attorno alla mia schiena, mentre mi sfiora la fronte con le sue labbra fresche, lo zigomo e la bocca e l'occhio e la bocca ancora, mentre le sue dita si intrecciano con le mie, goffe, mentre impulsi luminosi impregnano il mio corpo e salgono su fino alla nuca e al cervello. Ci baciamo a lungo in piedi, inclinati tra tavolo e divano. La stoffa leggera del suo vestito sembra cedere e aprirsi sotto le mie mani; bottoni sfilati, lembi ripiegati, dita che si soffermano leggere su e giÚ, e su e su ancora in intermezzi caldi e morbidi. La stringo a me, la abbraccio e mi lascio abbracciare, stupito di lei e del mio arrendermi facile a lei, mentre ritrovo in lei le sensazioni nascoste nei sogni, odori persi e catturati ora tra i suoi capelli, e restiamo cosÏ, i nostri movimenti che sembrano rallentati, lunghi e perfetti, per un tempo che sembra perdere consistenza e farsi sempre piÚ lento, lungo e perfetto, lunghissimo, eterno. Poi distacca le sue labbra da me, si allontana un po' e ride forte senza motivo, una risata dolce e profonda che mi vibra dentro, e allora la tiro indietro e verso di me, la sollevo, ed è leggera tra le mie braccia; getta a terra masse disordinate di capelli, continua a ridere e a lanciarmi lievi sospiri e ad arruffarmi i capelli con le sue cento dita. Mi sussurra all'orecchio frasi che non capisco, sul tempo e la magia del tempo, dice, i sogni, me e lei di nuovo, dice, finalmente, bisbiglia, e ride aprendo la bocca e mostrandomi i suoi denti bianchissimi. Lentamente mi dirigo verso il divano e ce la depongo e prendo a sfilare il lenzuolo da sotto di lei facendola ruotare di mezzo giro, e allora, d'improvviso, mentre sto lanciando 171


la stoffa sul pavimento, colgo con la coda dell'occhio un'ombra alla finestra. Mi giro di scatto e per frazioni di secondo i miei occhi incrociano quelli di qualcuno che guarda dentro, un uomo credo, ma la polvere incrostata sui vetri mi impedisce di distinguerne bene il viso, e non ho il tempo di guardare meglio perché non appena si accorge di essere scoperto lui subito schizza via dalla finestra e sparisce. Io corro alla porta cercando di inseguirlo, ma subito la donna mi grida: «Lascia stare, non ha importanza.» «L'hai visto anche tu?» chiedo eccitato, fermo a metà strada tra lei e la porta. «Lascialo stare; se n'è andato ora.» «Ma stava a spiarci! Devo inseguirlo e sapere che cosa...» «Vieni qui» mormora lei, mi sorride. Per un momento la ammiro distesa nel divano, col vestito aperto in parte, le labbra dischiuse, accese. «Vieni qui e portami di sopra» dice dolce. Ruoto la testa verso la finestra vuota. Fuori c'è solo la collina, un cielo lucido. Con lo sguardo ritorno a lei, al suo sorriso. «Portami di sopra» ripete. Mi avvicino a lei. Rimango in piedi di fronte a lei. Esito. Non riesco a capire il suo gioco. Esito. Poi mi avvicino fino a toccarla. Quando mi sveglio ho la testa pesante e la bocca impastata dal troppo sonno privo di sogni. Lentamente scivolo dal letto, mi vesto e, ancora stordito, scendo al pianoterra lasciando che le dita sfiorino la superficie impolverata della balaustra di legno delle scale. Sotto c'è una penombra morbida; la luce entra dalla fine172


stra diffusa dalla polvere incrostata sui vetri e si appoggia come liquida sui mobili accatastati alla rinfusa e ancora ricoperti di teli bianchi. Quando sono sull'ultimo scalino intravedo dalla cucina l'ombra di mio fratello muoversi verso di me. Si affaccia oltre lo stipite della porta, mi sorride. ÂŤFinalmente!Âť dice. Padova 1986

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L'ACCUMULAZIONE DELLE DISTANZE

La brama d'odio è il desiderio smodato di consumare e di possedere in modo indicibile l'anima dell'odiato, così come la brama d'amore è il desiderio di possedere o di essere posseduti dall'amato. Ma in un caso o nell'altro, il risultato è la dissoluzione di entrambe le anime, ciascuna persa nella trasgressione dei propri limiti. (D. H. Lawrence)

Rientrando in casa vidi subito la busta sul tappeto nell'in-

gresso. Senza francobollo, senza indirizzo. La raccolsi e la aprii lentamente, poi lessi le poche righe scritte in una calligrafia stentata. Sono certa che Alina sarebbe felice di vederti ora. Qualcosa è successo, qualcosa è cambiato in lei. Vieni a trovarla, ti prego. Sono sicura che la faresti felice. Per favore vieni... Sarah

Sua madre... Turbato rimasi a lungo con il foglio in mano, lo rilessi tre volte cercando tra le righe il senso del messaggio. Poi appoggiai il foglio sul tavolo. Alina. Alina, le lettere del suo nome scandite su carta accesero in 174


me le immagini che lei mi aveva inciso nella memoria, quando l'avevo vista per l'ultima volta, l'ultimo contatto tra noi: a letto, appena svegli. Col mio braccio attorno al suo collo, con la luce che filtrava oltre le tende e accarezzava le linee dolci del suo profilo, le labbra lucide. Mentre i suoi occhi aperti puntavano al soffitto. Quando si era girata dalla mia parte e mi aveva guardato a lungo prima di parlare. Quando aveva detto che non voleva più vedermi né sentirmi, con la determinazione di chi ha già deciso e semplicemente si limita a esporre l'innegabile evidenza di un fatto. Aveva conservato dentro tensioni e rancori, insofferenze e indifferenze; una dopo l'altra, un giorno dopo l'altro. Come rocce appoggiate su una lastra sottile di ghiaccio. In silenzio, senza perdonarmi nessuno dei miei errori, nessuno dei difetti. Quella mattina la crosta che conteneva i suoi pensieri aveva ceduto; in un istante, ciò che ci univa si era trasformato in ciò che determinava il nostro separarci. Le cose cambiano, mi aveva detto, i sentimenti si trasformano. Mi aveva spiegato tutto con lentezza, mentre io continuavo a spostare i miei occhi dai suoi occhi alle labbra e ai suoi occhi di nuovo, in cerca di un legame tra le sue parole così impensabili per me fino a pochi istanti prima e il ricordo dei momenti in cui avevo accarezzato la sua lingua con la mia, e colto il sapore dei suoi baci liquidi. Poche ore appena, indietro nella notte. Era stata l'ultima occasione che mi aveva concesso, quella. La sola in cui ero riuscito a domandarle le cause del suo negarsi improvviso. La sola in cui mi aveva offerto spiegazioni che avevo dovuto rassegnarmi ad accettare. Senza capirle, però. Non l'avevo più rivista. Ma volevo farmi del male, così l'a175


vevo cercata al telefono. Ogni volta con lo stesso risultato: la sua rabbia immediata, molta rabbia, rabbia eccessiva. E parole dure, che colpivano fredde, cariche di crudeltà inutile. Sparisci! mi dicevano quelle parole. Via! Non l'avevo più chiamata. Però a lungo e invano avevo atteso lo squillare del telefono, il suono della sua voce. A lungo e invano avevo sperato di ricevere lettere in risposta a quelle che le avevo scritto. Giorno dopo giorno dopo giorno. Ma niente. E ora invece questa lettera... Questa lettera spezzava il silenzio e i quattro mesi di lontananza che si erano accumulati tra noi. Troppo in fretta mi riportava indietro nel tempo a quei gesti e parole e sguardi e sorrisi e carezze di cui avevo cominciato a comprendere la necessità soltanto dal momento in cui mi erano stati negati. Ci rimasi a lungo in piedi in cucina, davanti al tavolo, fisso sul foglio aperto appoggiato sul tavolo. Per favore vieni... Mi ero sforzato di credere che la mia indifferenza per Alina avesse la stessa concretezza dell'indifferenza che lei aveva dimostrato per me. Ma era inutile. Sciocco. Ero ancora stregato da quella forza che aveva acceso in me il desiderio di lei fin da quando ci eravamo incontrati. Certo. Il desiderio di lei si era fatto necessità. Aveva frantumato la mia razionalità, macinato tutto dentro. Triturato. Era diventato altro: perdita, mancanza, un vuoto nero. Non volevo andare. Un nuovo incontro con Alina avrebbe sfaldato la consistenza del ruolo che avevo recitato ogni giorno con me stesso cercando di soffocare con la ragione il potere distruttivo dei sentimenti. 176


Ma mezz'ora più tardi ero in strada e camminavo verso la sua casa, con l'ansia per la visita imminente, irritato per la magia inquieta che mi costringeva a cercarla, in lotta contro una voce in me che voleva costringermi a ignorare la lettera e continuare nella finzione dell'indifferenza. Era sera ormai. Era freddo, nuvole grigie e compatte affollavano il cielo; nell'aria il profumo di neve in arrivo. Attraversai il parco davanti casa, l'erba gelata mi scricchiolava sotto ai piedi. Lungo la sponda del lago già cominciava il viavai consueto di macchine e uomini in cerca di compagnia e sesso. Percorsi strade, incroci, altre strade fin quando infilai la discesa tra gli alberi, verso casa di Alina. Lì davanti mi fermai e rimasi immobile, come una costruzione di ghiaccio, indeciso se andarmene o restare. Ma suonai, alla fine. Da oltre la porta percepii un fruscio di passi, lo scricchiolio dei pavimenti di legno, gli scatti metallici della serratura, e quando la porta si aprì vidi il volto magro della madre di Alina. La udii bisbigliare il mio nome mentre deformava le labbra in un tentativo di sorriso. E poi si scostò per lasciarmi entrare, con un gesto così consueto che per un attimo mi colse il pensiero che i miei quattro mesi di assenza da questa casa fossero semplicemente il frutto di un sogno troppo lungo da cui soltanto ora mi svegliavo. Nell'oscurità il corridoio mi apparve più stretto di come lo ricordavo, e io proseguii incerto nel buio con la sensazione di infilarmi nella gola di un rettile addormentato. Mi fermai in fondo. Dal piano superiore arrivavano suoni dissonanti e 177


cupi, di sicuro Victor che si esercitava al piano. Le note si infilavano invisibili attraverso le pareti e ne uscivano filtrate e distorte. Immobile nel buio notai la presenza di un odore strano: penetrante e acido, e diverso da qualsiasi altro odore che conoscevo. Con gli occhi ne cercai la fonte, ma fui distratto dallo strisciare dei passi della madre di Alina verso di me, dal tocco morbido della sua mano sulla mia spalla destra, dal contatto lieve dell'altra mano sulla sinistra. Mi spinse in avanti con una pressione leggera delle dita fino nel soggiorno. Lì dentro, una scena vista altre volte: suo marito sprofondato nel divano davanti alla televisione, un bicchiere in mano, i piedi accavallati sul tavolino vicino a una bottiglia di vino. Ci vide arrivare e si voltò verso di noi, poi prese a guardarmi e aprì la bocca come per parlare, ma alla fine rimase muto, congelato per istanti in quella posizione sospesa. Tornò a concentrarsi sullo schermo. Allora mi voltai verso la madre di Alina ora esposta alla luce e mi accorsi che durante i mesi della mia assenza la forza del tempo si era impossessata di lei e graffiato anni sul suo viso. Di sicuro era diversa da come la ricordavo: vedevo occhi spenti ora, e uno sguardo di donna rassegnata, disposta al dolore. Guardai i suoi capelli spettinati, quel biondo pallido che sbiadiva nel bianco, colsi i tratti spigolosi del suo naso, e le rughe che incidevano le guance e si aprivano ai lati della bocca. E vidi occhi rossi, e il gonfiore attorno agli occhi, e tracce di pianti recenti e frequenti. Doveva essere successo qualcosa. Sì, qualcosa ad Alina... Inquieto, continuai a fissarla sperando che fosse lei a parlare e rispondere alle domande che io le avevo silenziosamente 178


formulato dentro di me. Ma lei ricambiava le mie occhiate, solo quello. E io non potevo che rimanere così, muto di fronte a lei, incapace di trovare le parole adeguate per aprire la conversazione. Finalmente mi indicò il tavolo con un gesto della mano, e una sedia. «Come va?» mi chiese mentre sedevo, con una gentilezza forzata che riuscì solo ad aumentare il mio imbarazzo. «Bene» risposi. Sorrisi poco convinto. «Sì, insomma, abbastanza bene.» «Sei dimagrito molto» disse allora facendo scorrere i suoi occhi su di me, e riuscì subito a irritarmi con quella sua occhiata rapida e con la sua frase assolutamente fuori luogo. «Sì, lo so» risposi. «Lo so, me lo dicono tutti, ma non è niente. È che ultimamente non... Ma no... sì, sono dimagrito un po', ma non è niente» conclusi velocemente, provando a minimizzare la cosa con la speranza di riuscire a cambiare argomento. Certo, ero dimagrito, ma che potevo farci se perdevo peso? Sei magro, sei proprio dimagrito, dovresti mangiare, mangiare! Me lo diceva lo specchio, me lo sentivo ripetere e ripetere da tutti ormai. E ora anche lei... Ma non ero venuto qui per sentirmi dire cose che già conoscevo; non era questo che volevo ascoltare ora. Alina, volevo sapere di Alina. Alina. Ma doveva essere lei a cominciare e dirmi e spiegarmi. «Vuoi qualcosa da bere?» domando. Scossi la testa. «Dov'è Alina?» chiesi, troppo impaziente per trattenermi ancora. Mi guardo a lungo prima di parlare. I suoni del pianoforte si intromettevano tra noi, costruivano distanze. Ripetei la domanda a voce più alta. 179


«Dov’è?» «Alina è malata» disse. «Molto malata.» «Malata come?» «Non sono riusciti a capirlo esattamente.» Puntò i suoi occhi nei miei. Alina, aveva gli stessi occhi: sfumature di verde luminoso immerse nell'azzurro profondo. Abbassai per un attimo lo sguardo a terra, nelle geometrie indifferenti del tappeto. Turbato. «È successo tutto così d'improvviso...» continuò. «Sono venuti a visitarla, abbiamo chiamato diversi dottori... Una disfunzione dicono, ma non sanno spiegare... dire cosa...» «Dov'è?» chiesi ancora, nervoso, alzando la voce più del necessario. «Non sanno spiegare» ripeté senza rispondermi. Era come se io non ci fossi. «Anche la sua mente è... lei è diversa ora, non è più come prima, è cambiata...» Si fermò di nuovo e continuò a fissarmi senza parlare. Queste sue pause mi gonfiavano l’irritazione dentro. Se ne accorse. «È in camera sua» disse puntando un dito verso l'alto. «È stata lei a chiedere di vedermi?» domandai. «No» rispose senza esitazione. «No, sono stata io. Ho pensato che forse le avrebbe fatto piacere vederti...» Non era stata Alina. Naturalmente. Chiaro, non era stata lei, solo io potevo essere stato così sciocco da illudermi che la malattia l'avesse cambiata, che lei avesse pensato che io... «Vorrei che tu la vedessi» mi disse sua madre. E mi scavò una strada dentro con gli occhi. Era una strada che parlava di dolore e altro che non potevo capire. E continuò: «Vorrei che tu potessi parlarle. Lei è così diversa ora, è sempre più 180


difficile comunicare con lei, e io non so se... Vorrei solo che tu riuscissi a parlarle.» «Ma che le è successo?» mi sentii domandarle. «Che significa che è cambiata? Che malattia ha?» chiesi, e scattai in piedi e stavo quasi urlando. Lei non mi rispose, ma le intuii un tremore sulle labbra, e i suoi occhi erano lucidi. Così un disagio crescente prese ad accumularsi in me con l'accumularsi dei secondi di silenzio tra noi. Per un tempo interminabile restammo uno di fronte all'altra, immobili. «Posso vederla?» domandai alla fine. Mi rivolse un sorriso sbiadito e annuì. Allora mi diressi verso la camera di Alina senza aggiungere parole. Mentre salivo le scale osservai le foto di famiglia attaccate alla parete: Alina, capelli lunghissimi, rideva in groppa a un cavallo nero. Fierissima, bocca spalancata. Poi, Alina in riva al mare: che correva sulla spiaggia lanciando nuvole basse di sabbia attorno ai piedi, un attimo prima di afferrare il fratello in corsa davanti a lei. E ancora, Alina ridente tra i suoi genitori: alle spalle una scena di campagna, verdi, gialli sfuocati; e sua madre più giovane, ancora bella; e suo padre che sorrideva, ancora lontano dai guai, lontano dalla bottiglia. Alina... Un flusso di ricordi mi assalì con la furia di una bestia selvaggia. Ricordi vicini. Forti. In quei ricordi c’era un vino bevuto davanti alla televisione inutile, abbracciati nel divano, a baciarsi. E dopo, mentre la toccavo. O dopo ancora, con gli inseguimenti rumorosi su per queste scale; un bicchiere rotto sul pianerottolo, rumore di vetro che si spacca, e ridere, frammenti di vetro attorno ai nostri piedi, vino rosso cupo fuso col rosso del tappeto. E ancora: c’era il gioco del181


l'inseguirsi, le nostre ombre che si rincorrevano e intrecciavano, l'afferrarsi e lo stringersi, e le mani, le dita che si chiudevano, col desiderio che prendeva i nostri corpi. I contatti ansiosi prima dell'amore, gli scivolamenti e le carezze. Ricordo un movimento di capelli anche, il ruotare lento di ciuffi di capelli che riempivano lo spazio davanti ai miei occhi... D’improvviso l'idea di rivederla mi riempì d'apprensione, di paura. Non ero preparato per questo incontro. Alina mi aveva scacciato dalla sua vita col gesto indifferente di chi allontana un insetto. Ora era malata, cambiata, e io dovevo visitarla e usare con lei una gentilezza che lei mi aveva negato. Perché rivederla, e riaprire quel varco sul silenzio che aveva imposto la distanza tra noi, come se questa distanza potesse essere colmata, cancellata? Mi arrestai e volevo andarmene, volare via da quella casa come un fantasma invisibile. Eppure mi trattenni. Non riuscivo a dominare quel desiderio che mi spingeva a volerla rivedere, e sapere cosa le stava accadendo. Parlare ancora con lei, ascoltare la sua voce, esserle vicino; questo volevo. Solo questo. Salii gli ultimi scalini e mi avvicinai alla camera. La porta era aperta. Entrai. La stanza era avvolta nella penombra. Quell'odore pungente che già avevo notato appena entrato in casa mi afferrò ora più violento; ricordava erbe marcite nella pioggia, o il pelo bagnato di animali. Ma subito dimenticai l'odore, perché vidi Alina seduta nel letto, china su qualcosa che reggeva tra le mani. Incerto, imbarazzato, mi avvicinai per salutarla, ma come fui in prossimità del letto le parole mi si bloccarono in gola e provai l'improvvisa e terribile sensazione che Alina stesse continuando quel gioco 182


crudele con le mie emozioni iniziato nel momento in cui mi aveva eliminato di colpo dalla sua vita. Era uno scherzo quello che mi stava facendo, doveva essere uno scherzo... Tra le lenzuola, avvolto come in un bozzolo, c'era il corpo enorme di una donna che non conoscevo. Quella donna non era lei, non poteva essere lei. Mi avvicinai ancora e cosÏ riuscii a vederla meglio alla luce fioca della lampada, e mi accorsi che era proprio lei, Alina credo. Ero quasi certo che fosse lei, anche se non riuscivo a capire, non era possibile che in pochi mesi le fosse successo questo, non era possibile... La guardai. Non potevo fare a meno di tenere gli occhi su quella creatura. Era ingrassata. A dismisura. Completamente diversa da come la ricordavo, completamente. Alina non alzò neppure la testa. Per terra, attorno al letto e sul letto, decine di fogli di carta, alcuni strappati, altri appallottolati, altri riempiti con righe fitte di parole. Come in un caotico arcipelago di carta. E lei era seduta sul letto, appoggiata con le spalle al muro, la testa che toccava quasi il soffitto in pendenza. E lei era china e presa e persa nell'atto di scrivere senza posa su un foglio, l'oro nei suoi capelli che nascondeva in parte la carne che annullava i tratti del suo volto. Sopraffatto da quella visione non sapevo piÚ cosa dire o fare. Lanciai occhiate intorno, alla stanza, ai mobili, alle cose di Alina che spesso avevamo usato assieme e che ora erano lÏ tra noi come testimoni di un passato irrecuperabile. Nella stanza accanto Victor continuava a suonare il piano e le note si imponevano chiare nel silenzio. Cercai di immaginare le sue dita scivolare velocemente sui tasti come zampe affilate di ragni frenetici. I suoni mi inondavano, danzavano attorno 183


e si appoggiavano sugli oggetti e si dissolvevano. E guardai Alina. La guardai a lungo. Catturato nel groviglio di suoni, afferrato dai ricordi, invano cercai di formulare pensieri adeguati, di materializzarli in significati, in parole. Il tempo mi sembrò sospeso. «Ciao» le dissi alla fine. A disagio, sottovoce, cercando di concentrarmi nei suoi occhi, evitando di scorrere il mio sguardo sull'ammasso di carne che era diventata. Per una frazione di secondo lei alzò la testa verso di me e non riuscii a riconoscerla quasi, ma sapevo che era lei perché i suoi occhi mi sfiorarono e ne afferrai la luce verde, le tonalità azzurre. Un attimo, uno sguardo veloce, senza interesse, come quello di un cieco che finge di concentrarsi sulla direzione di un suono senza veramente essere in grado di identificarlo. Poi ritornò al foglio e alle parole. «Ciao» dissi di nuovo, ancora più a disagio. Ma lei non mi degnò neppure di un'occhiata e continuò a scrivere. Mi sentii ridicolo. Volevo andarmene, dimenticare questo. Invece con lo sguardo indugiai sul suo corpo cercando di individuarne i contorni nascosti dalle lenzuola. Mentre scriveva le sue braccia nude tremavano come masse di gelatina, le sue dita ora tozze stringevano lo penna e la nascondevano quasi. «Mi sei mancata» dissi allora, e subito la vergogna mi assalì per la stupidità di una frase così assurda in un momento come questo, e che pure mi era sgusciata di bocca con la velocità insidiosa di un serpente. Al suono delle mie parole lei smise di scrivere, alzò lo sguardo verso di me, e sbuffò e dischiuse le labbra e rise, emettendo un suono rauco che fino a pochi mesi prima non le apparteneva. Poi riabbassò la testa. Solo per un attimo 184


colsi la visione dei suoi denti bianchi e perfetti, come gioielli d'avorio, non intaccati dalla mutazione che aveva gonfiato il suo corpo. Cercai di cancellare l'immagine che di colpo affiorò alla mia mente alla vista dei suoi denti, l'immagine di noi in questa stanza, lei tra le mie braccia, il suo corpo snello stretto nel mio, le mie labbra contro le sue, la lingua che scorreva tra quei suoi denti lucidi. No, non era lei, no, non era più lei, non era più lei... Alina mi ignorava, proseguiva in quel suo scrivere ossessivo; riempito il foglio che aveva tra le mani lo appallottolò e lo lanciò a terra. Si girò verso il comodino, aprì il cassetto ed estrasse un altro foglio e un attimo dopo stava già scrivendo. Il silenzio materializzò la distanza tra noi, l'incolmabile abisso che i miei occhi percepivano e che la mia mente ancora si rifiutava di accettare. Allora non so cosa mi prese; una forza ignota trovò spazio dentro di me. Era come una luce improvvisa. La sentii prendere possesso del mio corpo, scegliere i miei pensieri e guidare il moto delle mie gambe. Così mi alzai, mi mossi verso il letto calpestando i fogli scagliati a terra mentre un desiderio disperato per Alina mi colmava. Ero incapace di sopprimere il riaffiorare di mille immagini di lei. Volevo riaverla come era un tempo, così come mi appariva nella memoria. Non so cosa mi prese; d'un tratto ero in piedi, preda di un incanto che mi trascinava verso di lei e mi accecava, sovrapponendo nei miei occhi il fantasma di lei a quell'ammasso indifferente di carne che mi giaceva davanti, lanciata come un uccello impazzito verso una distanza infinita, via da me, lontano da se stessa. Mi alzai, mi avvicinai mentre lei continuava a scrivere, e allungai una mano verso il lenzuolo che la nascondeva e glielo 185


strappai di dosso, lo scagliai in aria e poi lo lanciai a terra. La sua camicia da notte era arrotolata attorno alla vita; incredulo, incapace di esprimere parole, restai davanti alla sua nudità improvvisa, inorridito alla vista di quei rotoli di carne rosa e luminosa e impregnata di sudore che avvolgevano e sopprimevano i contorni delle sue gambe trasformandole in alberi morbidi, indefinibili. L'odore del suo corpo umido, lo stesso odore dolciastro che avvolgeva la casa, mi afferrò. Pungente. Solo a fatica riuscii a trattenermi dall'allontanarmi. Mentre fissavo la macchia di pelo scuro attorno al suo sesso seppellito nell'intreccio di carni cadenti dal ventre e dalle cosce, percepii i suoi occhi su di me. Alzai lo sguardo, e i suoi occhi erano puntati nei miei: verdi, immersi nell'azzurro, come pietre nascoste nell'eccesso che era diventato il suo volto. Mi guardo, a lungo questa volta, mentre un sorriso le piegava la bocca in una smorfia. «Cosa vuoi ancora da me?» disse; la sua voce era cambiata: cupa, rauca. «Lo so perché sei qui!» continuò senza neppure aspettare la mia voce. «Ti piaccio ancora vero? Dì, non è vero che ti piaccio ancora?» Si girò verso il comodino, verso la lampada. «È ancora innamorato di me, poveretto!» disse, e questa volta le parole erano rivolte alla stanza, alla luce. «È ancora innamorato, come un idiota, dopo tutto questo tempo, come se io non avessi altro a cui pensare che ai suoi stupidi problemi!» Fece una pausa, tornò a guardarmi, i suoi occhi socchiusi fissi nei miei come a volerli penetrare. «Che stupido sei... devi essere proprio stupido per perdere ancora il tuo tempo con me!» disse, e poi cominciò a ridere, un suono ansimante, rideva con la bocca spalancata, i denti luccicanti, la lingua che le saettava nel palato come la testa rossa di un serpente 186


vivo nella sua gola. «Poveretto...» ripeteva tra le risa, «povero stupido!» e il suo corpo intero tremava negli spasmi del riso. Era una montagna di carne scossa da un terremoto violento. Poi smise di colpo. «Cosa vuoi ancora?» mi urlò addosso. «Non vedi come mi hai ridotta! Non ti basta questo?» disse, e mi guardo con gli occhi spalancati, la bocca aperta, e in quel momento capii che l'avevo persa per sempre e allora sentii la tristezza farsi solida e amara, e salirmi in gola rapidissima, e volevo fuggire da lì, andare via, e già stavo per muovermi verso la porta quando Alina si scosse con un scatto, mi afferrò per un braccio e mi tirò verso di sé. Cercai di trattenermi, ma non riuscii a divincolarmi e caddi sul letto e su di lei. Le sue braccia e gambe mi si stringevano attorno, percepii il gonfiore del suo corpo contro il mio e potevo sentire le sue dita frugarmi la schiena in cerca della pelle sotto al vestito. E poi il dolore lancinante delle sue unghie in me. Mi penetravano nelle spalle. Mi stringeva contro di lei e premeva, ero sempre più avvinghiato a lei, come in una morsa, mentre la carne umida e calda del suo corpo massiccio sembrava volersi spalancare attorno a me e avvolgermi e inghiottirmi e nascondermi dentro di lei. Le sue labbra aperte mi cercavano il collo, la sua saliva mi bagnava la pelle, lei mi succhiava con violenza mentre con i denti affondava nella mia carne. La mia testa si perdeva nei suoi capelli. «Vieni, vieni con me!» mormorò. «Facciamola finita una volta per tutte!» disse. Provai a staccarmi da lei, ma lei mi tratteneva stringendomi sempre più forte, e urlava e rideva e continuava a succhiarmi il collo, e rideva e stringeva, e io sentivo il respiro mancarmi. Sprofondavo in lei, nel suo cor187


po che si fondeva col mio. Con un gesto disperato le afferrai la faccia con entrambe le mani premendo le dita nei suoi occhi e cercai di spingerla via con le poche forze che mi erano rimaste. Allora lei lasciò la presa sul mio corpo e mi scagliò contro il muro, lontano dal letto. Ci fu un istante in cui restammo a guardarci. I suoi graffi mi bruciavano la schiena come fuoco. Mi infilai la camicia nei pantaloni. Sentivo le braccia molli, le gambe quasi incapaci di sorreggermi. In quell'abbraccio l'energia del mio corpo mi era stata succhiata via. Era evaporata, assorbita dalla sua carne sudata. Mi guardo negli occhi e mi urlò: «Perché non te ne vai ora? Mi hai visto, no? Hai avuto ciò che volevi! Non sei contento ora? Non vedi che ho da fare? Non posso perdere il mio tempo con te! Perché non te vai, eh? Và via! Via!» Poi, come se il nostro incontro fosse soltanto il frutto di un suo sogno ormai dimenticato, si agitò appena nel letto e riprese a scrivere con un gesto tranquillo. Abbassai gli occhi. A terra c'era il lenzuolo; mi chinai, lo afferrai e glielo lanciai con un gesto rapido del braccio. Mentre compivo quel movimento, per un attimo colsi la mia immagine nello specchio alla parete, e provai la sensazione che quegli occhi lucidi che mi guardavano, quei capelli arruffati, quei tratti pallidi la cui magrezza era accentuata ora dalla penombra, non appartenessero a me, ma fossero di qualcuno che non conoscevo e che ci aveva spiati in silenzio al di là del vetro. Fu un istante soltanto, ma mi venne spontaneo l'alzare un braccio verso il mio viso e sfiorarmi le guance incavate, e cercare quel gesto riprodotto nella mia copia nello specchio. 188


Fu un istante soltanto. Poi andai verso la porta senza girarmi indietro. La risata di Alina ancora mi risuonava nelle orecchie. Uscendo incrociai sua madre che aveva assistito al nostro incontro nascosta dietro la porta, ed ora era lì, nell'angolo, con le lacrime agli occhi. Non mi fermai a parlarle. Scesi di corsa le scale, inciampai e caddi quasi. Attraversai il soggiorno in fretta. Suo padre era nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato: con la bottiglia in mano, incassato nel divano, coi bagliori della televisione che gli accendevano il viso. Dalla camera di Victor la musica continuava instancabile, indifferente a quanto stava accadendo; mi seguì fino al corridoio, attraverso l'atrio buio, oltre la porta che mi chiusi alle spalle. Fuori era notte ormai. Nevicava. I fiocchi scendevano fitti assorbendo i suoni, accumulando il bianco nella strada, eliminando contorni, differenze. Il vento spazzava i fiocchi con violenza. La stanchezza che già si era impossessata di me quando ero ancora nella camera di Alina si fece più pressante ora, accumulandosi al freddo pungente. Mi incamminai verso casa con lentezza lasciando che la neve mi avvolgesse. Incrociai poche persone; invano cercai i loro occhi. Avevano facce puntate a terra a inseguire il movimento dei loro passi. Mi venivano incontro, scivolavano via come se non si accorgessero di me, come se io non esistessi. Le luci dei lampioni proiettavano la mia ombra sulla neve, ed era un'ombra sottile, invisibile quasi. Camminavo; percepivo lo scorrere lento del sangue alle tempie. La stanchezza mi avvolgeva, mi tagliava le gambe, la sentivo arrampicarsi nel mio corpo e soffocarmi dentro. Lentamente. Proseguire diventava sempre più difficile e avrei voluto fermarmi a riposare, sdraiarmi nella neve e 189


aspettare. Ma aspettare cosa? Cosa? Continuai a camminare, e il freddo mi penetrò nelle ossa, e le dita, nel freddo, sembrarono distaccarsi da me, separarsi dalle mie mani, distanti. Albany 1989

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CONTAMINAZIONI

Sta piovendo e il vento anima le cartacce per strada, le

raccoglie e le alza in rapidi mulinelli e le rilancia a terra. Le luci delle vetrine e dei neon si riflettono sul suolo bagnato. Mentre cammino, d'improvviso mi accorgo che sta per accadere ancora, lo deduco da piccole tracce attorno a me, dettagli che come folgorazioni illuminano la scena e la cambiano. Un cane comincia ad abbaiare; da un'auto posteggiata si alza il suono di una sirena antifurto; due ragazzi che corrono ridendo sotto la pioggia si fermano di colpo a guardare l'auto che urla. Il vento si attenua per un istante. Una donna grassa cammina verso di me; mi guarda e leggo nei suoi occhi scuri che anche lei percepisce quello che c'è attorno, percepisce il mutamento. Anche lei. Così ci siamo già dentro, così ora non mi resta che aspettare e prima o poi mi raggiungerà. Guardo il flusso di corpi e teste e braccia e gambe attorno a me. A quest'ora la strada è troppo affollata, non voglio correre, e poi sarebbe inutile, non c'è possibilità di fuggire, isolarsi, posso solo sperare che questa volta il raggio d'azione sia di pochi metri appena. 191


Un'altra giovane donna mi viene incontro e i suoi occhi si incrociano per istanti coi miei e mi catturano. Rallenta e per un attimo sembra quasi volersi fermare e parlarmi, e allora la fisso, ma lei mi scivola davanti e si allontana. Mi sento ridicolo. Ho soltanto immaginato che lei volesse parlarmi; ho proiettato in lei il mio desiderio di comunicare, dire a qualcuno che sta per accadere. Non so perché l'ho fatto. È la cosa peggiore in momenti come questi. Ma i suoi occhi hanno di colpo richiamato alla memoria altri occhi e altri sguardi, altri momenti, Edna... Mi rendo conto che non sono più preparato all'idea che accada di nuovo, ancora e ancora, senza controllo; è passato troppo tempo dall'ultima volta e cominciavo a sperare che fosse finita, che si potesse dimenticare e ritornare a vivere come se niente fosse successo. Come prima di allora... Edna... La mia prima intrusione è stata con lei. Stavamo ancora insieme allora, ricordo con chiarezza quella sera. È accaduto prima a lei, io non ero riuscito a capire i segni nell'aria, semplicemente non mi ero reso conto di nulla, non sapevo ancora che potesse succedere, non sapevo che fosse così improvviso. Eravamo sdraiati a letto, faceva caldo e l'umidità ci appiccicava addosso le lenzuola; erano quei momenti che precedono l'amore, quegli attimi definiti da contatti e sfioramenti, quando l'attenzione è concentrata sui particolari, su zone di pelle, sulle sfumature di luce in una mano, in un dito su una guancia che deforma appena un'espressione sul viso. Poi, d'un tratto, lei ha alzato la testa in maniera strana, inconsueta. Il movimento dei suoi capelli era un dondolio 192


leggero sopra le sue spalle; ricordo le sue labbra appena dischiuse, i suoi occhi troppo aperti, lanciati in un'espressione di sorpresa, di dubbio. Ma quando ho capito che qualcosa stava accadendo era già troppo tardi; aveva preso anche me, e cercare di sorreggerla o aiutarla era un compito scivolato via dalla mia mente, lontano. Per lungo tempo non sono riuscito a coordinare le idee e a definire con chiarezza ciò che stavo provando. Ho visto il comodino a fianco del letto, il bicchiere pieno d'acqua appoggiato sul ripiano, una penna, una scatola di pillole, la lampadina accesa. Gli oggetti mi apparivano quelli di sempre; eppure, allo stesso tempo, in un modo che in quei momenti mi riusciva difficile comprendere, li sentivo diversi. Era come se la mia mente si fosse d'improvviso dischiusa verso un altro spazio, verso zone di percezione a cui ero estraneo. Mi sentivo come un neonato che si apre al mondo, o come un cieco a cui sia offerta d'improvviso la visione dei colori e le forme, la luce. Poi ho captato una voce. Non riuscivo a darle una direzione, era come se provenisse da me. «Ah...» ha detto la voce. Era sorpresa, spaventata. «Cosa sta succedendo?» ho detto. «Sei tu?» ha chiesto la voce. «Sei tu?» ha ripetuto. Allora l'ho riconosciuta, era Edna, ma c'era una nota stonata nella sua voce, le mancava qualcosa, un timbro forse, una forza. «Sì, sono io, sono io!» ho detto, l'ho gridato quasi, ma anche la mia voce era priva di quel timbro, quella forza. Rimasi immobile tra le lenzuola; sentivo la mascella contrarsi, come se la mia bocca rifiutasse di aprirsi. Dalla finestra scivolava dentro la luce lampeggiante di un'insegna al neon; la stanza si riempiva di riflessi rossi, poi gialli, poi rossi. I nostri corpi ne erano pieni. 193


«Cosa ci sta accadendo?» ho ripetuto, ma le mie labbra non si muovevano, la mia bocca era serrata. Ho chiuso gli occhi, li ho riaperti; lei era distesa accanto a me, ansimante, la sua pelle bianca era lucida di sudore, scintillante. Teneva la bocca aperta in cerca d'aria, i suoi occhi erano sbarrati, vuoti, come grandi luci spente. Ho visto i suoi denti bianchi. «Cosa...?» ho ripetuto, no, non l'ho detto, l'ho pensato, questa volta ero sicuro di averlo solamente pensato. «Tu...?» ha detto. «Tu stai parlando?» ha aggiunto, e potevo vedere la sua bocca spalancata, immobile. «Sì... No, non... Sto solamente pensando, ma non capisco, io posso sentirti, posso...» «Anch'io...» ha detto lei ed io ho letto l'angoscia nelle sue parole. Letto. Ecco, ho pensato di leggere la sua angoscia, e d'improvviso ho visto la sua angoscia come fosse un mio pensiero, una mia sensazione, l'ho vista dentro di lei, nella sua mente. Ho cercato di muovermi nel letto; facendo perno sui gomiti ho provato ad alzarmi, ma la tensione alla testa era troppa e la stanza ha preso a ruotarmi attorno come viva. Mi sono disteso di nuovo. Ho sollevato un braccio verso di lei, l'ho toccata, ho sfiorato il suo corpo e poi la sua mente. La sua mente... Era una sensazione nuova, sconcertante: potevo sentirla dentro; potevo vederla dentro. Come se un invisibile occhio si fosse d'improvviso spalancato nelle nostre menti; d'improvviso le nostre memorie erano lì davanti a noi, l'occhio vagava libero di immagine in immagine, le scrutava, si soffermava su alcune, le prendeva e ce le trasmetteva. All'inizio era difficile, non a fuoco, un flusso caotico di informazioni ci inondava, potevamo solo catturare frammenti di immagini e suoni e idee, i ricordi, i pensieri, attimi, il passato. 194


Però, appena trascorsi quei momenti di smarrimento totale durante i quali ci era mancato il tempo per riflettere su quanto stava accadendoci, lei ha cercato di allontanarsi da me. Ho percepito il suo desiderio di fuggire, la sua paura. Non capivo perché. Vagamente potevo cogliere in lei pensieri di fuga, ma non riuscivo ad isolarli; sentivo soltanto la paura espandersi nella sua mente: lei che sempre più tentava di celarmi i suoi pensieri e si chiudeva su se stessa come un animale spaventato che cerca nella fuga protezione da un assalitore troppo improvviso, troppo incredibile. Allora l'ho afferrata per un braccio per avvicinarla al mio corpo, ma lei ha strillato e si è divincolata dalla mia stretta e il suo urlo acuto ha riempito la stanza e la mia mente, e d'un tratto la sua voce mi è apparsa strana, innaturale e inutile e, per contrasto, l'eco del suo urlo mentale risuonava in me come una nuova voce, pura e perfetta. L'armonia di quel suono mi ha scosso dentro e ha acceso in me il desiderio di lei. In quel momento mi sono sentito assetato di lei come mai prima. Mi sconcertava il trovarmi così pronto a reagire, ad approfittare di quella situazione così imprevista, così incredibile. Eppure l'attrazione per lei saturava i miei pensieri; ero eccitato all'idea di un sesso tra menti che portasse a compimento quella fusione imperfetta che cercavamo nel sesso tra i nostri corpi. Un desiderio violento mi possedeva ormai, volevo carpire da lei ciò che lei tentava di nascondermi, volevo prenderla dentro, spiarla, nutrirmi di ciò che le apparteneva, nutrirmi di lei e dei suoi pensieri. Di nuovo l'ho attratta verso me, ho preso a toccarla, sfiorarle i seni e il viso e le labbra e i capelli e il suo corpo e la sua mente, fin quando l'ho sentita cedere al mio contatto mentale. Conosceva le ragioni del mio desiderio, poteva leg195


gerle da me; il dubbio la forzava a resistere, la paura le impediva di lasciarsi andare fino in fondo, ma potevo vedere in lei che anche lei era attratta dalla magia di quell'improvvisa energia che ci aveva invaso; anche lei voleva capire e usare quella nuova forza per sentirmi e aprirmi e carpirmi e possedermi. E poi ha abbandonato le sue resistenze, ha accettato che il mio gioco diventasse anche il suo, mi ha accettato in lei e voleva essere in me. Ăˆ rotolata su di me ed ora era lei a sfiorarmi e stringermi, a cercare le mie labbra e lembi di pelle e contatti. Il caldo era soffocante. La finestra era chiusa. Il condizionatore ronzava in un angolo. I nostri corpi sudati scivolavano l'uno sull'altro, entrambi ci affannavamo in cerca delle regole per controllare questo nuovo potere che ci aveva catturato e che pian piano trasformava la nostra paura in un gioco dei sensi. Mai come allora potevamo sentirci: la toccavo, vedevo dentro di lei ed ero dentro di lei; la toccavo, lei mi toccava, e i miei sensi si eccitavano per il suo sfiorarmi e per il mio sfiorarla, sensazione che tornava a me attraverso la sua mente. E io, come in un'infinita serie di specchi, io le trasmettevo questo di nuovo, e lei lo riceveva ed eccitata di nuovo lo lanciava a me, amplificato, ancora e ancora. Un flusso di immagini si fondeva in noi e troppo tardi ho intuito che quell'atto estremo in cui ci eravamo addentrati avrebbe aperto in noi ferite impossibili da richiudere, ci avrebbe allontanati per sempre. In quei momenti volevamo vedere, volevamo sapere; in quei momenti tutto era chiaro, visibile, senza quella possibilitĂ del dubbio che le parole ci avevano sempre lasciato, senza quelle illusioni che le parole e i silenzi tra noi ci avevano concesso. L'ho vista allora in quelle azioni della sua vita che sempre mi erano state negate. Ho 196


catturato quei frammenti di pensiero nati in lei in un attimo e in un attimo soppressi. Ho rivissuto i momenti del suo amore per me, e la passione con me, i momenti di gioia e di abbandono, i momenti in cui lei si era affidata a me e fidata di me, i momenti in cui la mia presenza le aveva dato la forza di superare situazioni difficili, i momenti in cui lei, come me, era convinta che fossimo fatti l'uno per l'altro. E ho visto anche la sua indifferenza per me, l'insofferenza; ho capito il significato dei suoi silenzi pieni di pensieri feroci, la sua noia con me, la sua rabbia contro di me, la sua tristezza, e il rancore, la sua solitudine, l'angoscia, la fuga da me, il suo corpo tra le braccia di altri, il suo mentirmi e la sua gioia nel farlo, il suo timore di dire, i suoi rimorsi, la paura, la vergogna, i dubbi. Ho visto corpi di altri uomini avvicinarsi al suo corpo, ai suoi occhi che diventavano i miei occhi. Uomini di cui non sapevo l'esistenza. Li ho sentiti su di lei e dentro di lei, attingere liquidi da lei con dita e lingue. La toccavo, la sentivo e leggevo in lei la sensazione delle mie mani sul suo corpo che si sovrapponeva ai ricordi di altre mani non mie. Confrontava il mio tocco col tocco degli altri; ho visto bocche baciare la sua pelle; altre labbra e altre lingue su di lei. Ho visto i suoi sorrisi lanciati ad altri e ho rivissuto l'intenso piacere del suo orgasmo donatole da altri corpi. E allo stesso tempo potevo anche leggere il suo penetrarmi, il suo scavare in me con crescente orrore in cerca di quei momenti della mia vita che io le avevo negato, che non avevo voluto o saputo darle. Anche lei, come me, come un vampiro assetato, mi si avvinghiava attorno, mi leggeva, afferrava tutto di me, tutti i miei errori con lei, gli inganni, altre donne che erano state mie senza che lei sapesse, i miei pensieri pi첫 segreti, i pensie197


ri mai trasformati in azioni, le frasi mai dette e quelle pronunciate per evitarne altre. Tutto; tutto. I suoi occhi affondavano nel mio cervello, e lei era lì, dischiusa davanti ai miei occhi, ed io non potevo fare a meno di penetrarla mentre nell'amore ero dentro di lei. Più dentro, più a fondo, nonostante quello che lei mi svelava mi atterrisse, nonostante una parte di me volesse fermare quell'indagine troppo minuta che la trasformava in un essere troppo diverso e lontano da quello che io conoscevo. I nostri corpi danzavano verso l'orgasmo, e mentre noi sempre più ci sporgevamo a scrutare i nostri mondi, sempre più comprendevamo quella distanza incolmabile che ci separava, quella distanza esistente tra noi e invisibile in quello spazio di gesti e parole all'interno del quale ci eravamo finora definiti. Continuavamo, eravamo forzati a continuare, viaggiatori delle nostre menti, incapaci di districarci da esse, presi e persi in esse. Sempre più sprofondati, sempre più dentro, fin quando ogni cosa ha perso contorno e si è trasformata in luce pura, una luce abbagliante. Dopo l'amore tutto è finito, scivolato via. Le nostre menti si sono rifugiate nel guscio dei nostri cervelli. Ogni cosa è ritornata normale. Ma noi no, noi non potevamo più essere gli stessi. Il ricordo di quanto era accaduto pungeva in me come un ago acuminato. Tutto era stato svelato, avevamo visto l'abisso dentro noi stessi. L'immagine di quel vuoto si apriva davanti a noi; giacevamo sulle sponde opposte di un fiume nero e denso. Come avremmo potuto ignorare la sua presenza tra noi, come potevamo prosciugare quell'acqua che ci separava? Come potevamo colmare l'abisso? Lei si è stretta a me e ha cominciato a piangere. Le sue lacrime bagnavano la mia spalla e il cuscino, lei si stringeva a 198


me e io la sentivo lontana, lontana come mai prima. Il neon dell'insegna ha continuato a riempire la stanza di rossi e gialli e rossi. Ho fissato il soffitto vuoto. Il bianco ha riempito la mia mente e ho provato a trasmetterle questo. Ma eravamo troppo lontani ormai. Quella è stata la mia ultima volta con lei, la prima volta in cui ho sperimentato l'intrusione. Poi ci sono state altre volte e ho imparato a distinguere i segni che ne preannunciano l'arrivo. Sono sensazioni, vibrazioni nell'aria; non so bene come spiegare, come definire. A un tratto so che accadrà, lo sento; semplicemente questo. Quando arriva, in un modo o nell'altro siamo tutti segnati, senza possibilità di scampo. Non c'è modo di individuarlo, di sapere, di identificare. I nostri strumenti sono incapaci di percepire informazioni significative. Sappiamo solo che colpisce le menti. Potrebbe essere qualsiasi cosa, una malattia che ci ha infestato, una presenza estranea e incomprensibile che come un dio malvagio si diverte con noi. La sola cosa di cui si è certi è la sua esistenza in noi. Arriva, può durare minuti soltanto, o forse ore o giorni; può essere improvviso per tutti, o annunciarsi lentamente solo nelle menti dei più sensibili. Poi svanisce, tutto torna come prima, restano soltanto i segni dentro, nella memoria. Ci sono state altre volte e ogni volta è stato diverso. A volte, di sera o di notte, mentre camminavo per strade deserte, mi trovavo quasi senza accorgermi nella mente di uno dei pochi passanti, e per un attimo vedevo il mondo coi suoi occhi e la mia mente si fondeva con la sua. A volte soltanto io ero percettivo e l'altro non sapeva di me, del mio scrutare. 199


Potevo vedere qualcuno avvicinarsi indifferente a me nell'ombra, e, negli stessi istanti e attraverso i suoi occhi e la sua mente, provavo l'emozione di osservare il mio corpo avvicinarsi a lui o lei. Potevo riconoscermi nella stupita creatura solitaria che si muoveva nella notte con un passo che mi era familiare, mi vedevo da un'altra angolazione, da un'altra visuale, filtrato attraverso un'altra mente. A volte, vedendomi finalmente più da vicino, lo sconosciuto si accorgeva del mio sguardo insistente e allora capiva, e una vampata d'odio mi assaliva e di colpo mi sentivo scrutato a mia volta coi suoi occhi --i miei occhi!-- e ci allontanavamo di fretta l'uno dall'altro e io scivolavo via da quella mente estranea. Quante volte è successo a me il contrario? Quante volte sono corso via da qualcuno perché ho sentito i suoi occhi puntati su di me, sui miei pensieri? Quante volte sono fuggito soltanto per un sospetto? Come posso guardare una persona ora senza sentirmi esposto alla sua curiosità, spiato, derubato dei miei pensieri? Come posso sapere se anche ora qualcuno sta mescolando le mie memorie con le sue? Altre volte ero nella folla e d'improvviso sapevo che stava per accadere. Quelli che percepiscono per primi subito si allontanano cercando di nascondersi, di sparire. Il loro moto è come un segnale per gli altri che immediatamente si guardano con sospetto e prendono a correre e a urlare. Nessuno si cura più di nessun altro, la fuga si trasforma in un movimento frenetico che d'un tratto apre varchi tra le persone ammassate, come un'onda che distrugge la compattezza dei corpi e li spazza via. Se accade troppo in fretta non c'è modo di fuggire e allora la folla ti assale d'improvviso ed è come un turbine che ti en200


tra nella testa, sono voci diverse e discordi e dissonanti ed impossibili da identificare; sono richiami, grida, lamenti, spesso è l'odio per la massa attorno, a volte è la curiosità di sapere, altre volte è la paura di vedere cose che non si vorrebbero, pensieri che sarebbe meglio dimenticare. E per attimi sei nella mente di una donna che passa, cogli il fruscio leggero delle sue percezioni, ma non c'è tempo di analizzarle perché sei già nel corpo di un uomo e poi un uomo ancora, diversi i pensieri, diverse le associazioni, un reticolo di frammenti di sogno e di ricordi, di visioni; le angosce, le ambizioni, le sconfitte, le speranze, i progetti, il sentirsi addosso un corpo di donna e sentire quel corpo scegliere diversi equilibri nel camminare, la difficoltà di una gonna troppo aperta, la curiosità maschile, l'improvviso accendersi del desiderio di sesso nella mente di qualcuno che passa, un pensiero disperato, uno di gioia, uno suicida, uno atterrito... Ormai siamo frammenti, piccoli specchi luminosi che si riflettono l'uno nell'altro senza la possibilità di evitarlo, senza più la possibilità di mentirsi, che non sanno come nascondere le proprie idee più segrete, i propri istinti più difficili da controllare, quelli che più si amano e meno si vogliono ammettere. Ormai non c'è più spazio per l'inganno, per la menzogna... Comincia a piovere più forte e la strada affollata sembra scuotersi in una vibrazione improvvisa. Le persone senza ombrello corrono da ogni parte, i loro movimenti calmi di pochi attimi fa si trasformano in un caos di gesti e urla, un moto di braccia e di gambe. Anche se non riesco a percepire nulla mi guardo attorno con sospetto; anch'io come gli altri 201


mi affretto cercando un riparo il più isolato possibile. Però, più li osservo e più le loro azioni mi appaiono normali: si fermano sotto ai cornicioni delle case o i tendoni dei negozi o davanti alle vetrine; entrano ed escono dalle porte, salgono negli autobus, guidano le auto, qualcuno guarda il cielo coi capelli bagnati e la faccia bagnata. Sono i soliti gesti, le solite voci; è il centro affollato di un qualsiasi giorno di pioggia: tutto funziona, tutto prosegue come sempre è stato. Non li percepisco, non li leggo, non mi sento diverso, non sento. Non sento. Eppure nello sguardo di quella donna incontrata poco fa mi era sembrato di cogliere un segno. E anche nell'abbaiare improvviso del cane, in quel suo modo strano di agitare il muso bagnato in alto e di lato. In momenti come questi la normalità mi appare poco convincente, incerta, malamente simulata, priva dell'impalpabile sentimento della durata. Ho la precisa sensazione che sia accaduto di nuovo, o che stia per succedere e... ecco, una luce nera mi riempie la mente per un attimo. Ecco... non so cos'è, è un'ondata intensa di nero, un velo nero nella mia mente, una macchia, una pressione, una differenza. Nero, ecco. Non so altro... Sta arrivando... L'ingresso della metropolitana è a cinquanta metri; stordito mi avvicino alle scale e mi infilo dentro cercando riparo almeno dalla pioggia. Sui gradini tre mendicanti sporchi mi si accostano l'uno dopo l'altro con le mani tese; quando li evito una donna con un bambino in braccio cerca di fermarmi bisbigliandomi parole che mi sfuggono. Evito anche lei. Scendo; dietro di me la folla si accalca e mi spinge in basso. Un uomo con un cappello nero calzato fin quasi agli occhi cerca spazio con l'angolo di un'enorme valigia di plastica. Lo lascio passare. Immerso nel flusso di corpi entro nel corri202


doio; il brusio che produciamo è un rumore di fondo che racchiude scalpiccii di passi e fruscii di vestiti, voci e risa e valigie trascinate, e borse e sacchetti di nailon che sbattono sulle gambe. C'è un bambino fermo davanti a un bidone della spazzatura che piange con le mani in bocca; il suono delle scale mobili è un ronzio sommesso. Attorno, nei corridoi che guidano ai treni, incassati lungo le pareti, ci sono i negozi di cibi e di vestiti, quelli che vendono catene d'argento e gioielli e orecchini e occhiali e giocattoli per bambini. Sento le grida dei venditori che richiamano l'attenzione dei clienti agitando le braccia e sporgendosi oltre le vetrine. Il fumo e l'aroma di carni arrosto si mescolano agli odori pungenti di frittura. Decine e decine di lampadine brillano in serie disordinate sui tetti delle bancarelle degli ambulanti creando aloni di luce che si intrecciano a terra spezzando la monotonia dei neon. Le persone sembrano catturate in miriadi di gesti consueti: camminano, guardano, si fermano, discutono, comprano, pagano, incartano, scartano, salutano, parlano, parlano. Alcuni, in piedi di fronte ai venditori, mangiano o bevono con movimenti frenetici di mani e mascelle e bocche. Un ragazzo con una radio in spalla sbuca da uno dei corridoi e un rock martellante satura lo spazio sonoro attorno, decine di teste si girano nella sua direzione e lo seguono fin quando la musica si allontana con lui. D'improvviso tutto questo mi infastidisce; mi sembra eccessivo, estraneo. Guardo la gente attorno e quei gesti mi appaiono meccanici, artefatti, recitati. Vedo sequenze, ripetizioni, minime variazioni di uno stesso tema inutile. Sono soltanto macchine che si agitano seguendo misteriosi e assurdi impulsi inviati da minuscole scatole piantate nel cranio. A volte queste scatole si aprono, si spac203


cano ed entrano in contatto e i loro contenuti traboccano e si mescolano e allora non... No! il nero ritorna ancora, il nero è di nuovo nel mio cervello! No...! Non so come, ma sono sicuro di esserci dentro ancora. Colpisce la mente; devo assolutamente allontanarmi da questa folla, dalle menti che potrebbero esplodermi attorno d'improvviso! Comincio a correre, scendo le scale fino al Secondo Livello, seguo le indicazioni, scendo altre scale verso il Terzo Livello, poi giù fino al Quarto. Continuo in fretta senza sapere esattamente dove andare; procedo senza direzione nel fiume di corpi, spinto, trattenuto, urtato, fin quando qualcuno mi viene incontro correndo, una donna, e mi urta e quasi cado e sto per lanciarle un insulto ma poi alzo gli occhi verso di lei e... certo, ecco... ecco... alzo gli occhi e sento il cuore salirmi in gola in un balzo e c'è Edna davanti a me che mi guarda con la stessa aria stupefatta che io devo aver stampata sul mio viso. No, Edna no, non ora, non col nero che sta per afferrarmi, non di nuovo come quella volta...! Lei mi guarda senza parlare, e io sono qui davanti a lei, senza sapere cosa dire. «Ciao» dice lei, la sua voce incerta. «Ciao Edna...» le rispondo, incerto anch'io. Restiamo l'uno di fronte all'altra, ci osserviamo in silenzio; le persone ci passano a fianco indifferenti e il tempo sembra sospeso. Non so assolutamente cosa dire, come continuare; vorrei essere via da qui, via da lei, lontano. «Come va?» chiede allora. «Bene» rispondo automaticamente. «E tu?» «Anch'io. E... cosa fai ora? Voglio dire... è un sacco di tempo che non ci si vede...» Annuisco. «Non faccio molto. Le solite cose sai. Non mol204


to è cambiato da quando tu ed io...» Mi interrompo, lei annuisce, mi osserva. «Ho provato molte volte a telefonarti» dice dopo alcuni istanti di silenzio; «ma ogni volta ho abbassato la cornetta al primo squillo. Non sapevo se tu volevi che io...» si interrompe, e io per un istante la fisso negli occhi, poi lascio scorrere il mio sguardo sul suo naso e la sua bocca e di nuovo sui suoi occhi luminosi. Niente è cambiato in lei; la guardo e ritrovo impressa sul suo viso quell'espressione dolce che aveva la prima volta che l'ho incontrata: quel suo sorriso lieve ed enigmatico dietro al quale ha sempre inutilmente cercato di nascondere la sua timidezza, quel suo modo di piegare il mento e spalancare gli occhi guardandomi dal basso e schiudendo le labbra fino a scoprire i denti. Niente è cambiato in lei. E allora sento qualcosa afferrarmi dentro, una nostalgia che mi trascina indietro nel tempo, alle parole e le situazioni e le scene del nostro passato insieme, a quei colori e i profumi e i suoni e le emozioni di una storia tra noi che ho a lungo tentato di eliminare dalla memoria e che ora riaffiora di colpo e con violenza davanti ai miei occhi. «Anch'io volevo telefonarti» dico mentendo e cercando di ricacciare indietro quel flusso di immagini troppo intenso. «È che da allora è difficile... sì insomma, anch'io non sapevo se tu avevi voglia di sentirmi, e allora mi sono detto che forse non era il caso di...» «Beh, potevi provare.» «Sì, anche tu però potevi provare...» dico, e subito dopo queste parole sento il silenzio piombare tra noi, addensarsi e accrescere la distanza. Non so cosa aggiungere. Come stai, cosa fai, stai con qualcuno, sei felice, sei felice? Forse è que205


sto che dovrei domandarle, è questo che lei si aspetta, certo, ma non ho voglia, non ho più voglia; che senso ha ormai? E poi anche lei non sa cosa dire, ecco, la vedo imbarazzata davanti a me guardarsi intorno in cerca di parole a cui aggrapparsi. Ecco, siamo allo stallo dopo appena poche parole, come due estranei, e queste frasi così comuni e vuote sono tutto quello che siamo capaci di dirci e darci ora, tutto quello che è rimasto tra noi. «Beh...» dico, guardo l'orologio con un gesto veloce. «Ora devo proprio scappare... Forse dovremmo chiamarci uno di questi giorni e magari andare a bere qualcosa come facevamo una volta e raccontarci tutto...» «Sì» dice, e mi resta davanti ancora con quel sorriso che conosco troppo bene, e la vorrei abbracciare ora e stringere. «Beh allora ciao eh...» dico, le lancio un'ultima occhiata. «A presto allora!» dico, le sfioro una spalla con la mano, mi giro veloce via da lei e comincio a camminare in fretta senza voltarmi. Procedo per dieci metri, venti, tento di perdermi tra la folla, trenta metri e poi sento la sua voce che mi chiama, «Aspetta..!» mi grida, ma io non mi volto, fingo di non sentire. Lei mi chiama di nuovo, ma io devo andarmene, non posso stare con lei ora che il nero è attorno, ora che tutto può succedere. Prendo a correre zigzagando tra le persone, continuo a correre verso i binari. Dall'ultima rampa di scale prima della banchina sento lo sferragliare del treno sui binari; mi giro indietro per un attimo e vedo Edna lontana, anche lei che si fa strada spingendo tra la folla, muovendosi verso di me. Continuo a correre saltando sulle scale, quando arrivo in cima il treno è già fermo; uomini emergono di fretta dalle porte, donne cariche di borse spingono in avanti. Di nuovo mi giro indietro, ma non riesco più a scorgere Edna. Senza 206


aspettare che tutti i passeggeri siano usciti, altri uomini e altre donne ai miei fianchi e dietro di me mi spingono dentro cercando di infilarsi nella vettura prima che le porte si serrino. All'interno i posti a sedere sono tutti occupati, c'è spazio appena per ammassarsi in piedi, come animali. Un sibilo acuto e breve annuncia il chiudersi delle porte; oltre i vetri vedo persone correre verso il treno, saltare dentro veloci, precedere di attimi lo scatto metallico delle porte che si serrano alle loro spalle. Nervoso sfioro con gli occhi la folla, le teste degli ultimi arrivati, e subito scorgo Edna tra loro, ce l'ha fatta dunque, anche lei è qui! Il treno parte; incontro i suoi occhi che inseguono i miei. Mi sorride, la vedo muoversi, spingere, tentando di farsi strada tra i corpi. Cosa vuole ora? Perché continua a cercarmi? Non capisce che è inutile, che non ha più senso? No, lei non capisce, non lo vuole capire, ed eccola ora che cerca di parlarmi di nuovo, eccola che vuole dirmi cose, spiegazioni, scuse, rimproveri, richieste. No, tutto questo appartiene a un altro tempo, ora non ha più senso. Devo andarmene da qui... Pressato tra i corpi non riesco ad allontanarmi; mi volto in direzione delle porte, di nuovo verso Edna che si avvicina, con le mani e i gomiti mi apro uno spazio tra un uomo più alto di me e una donna grassa che continua a spingermi anche quando l'ho superata. Guardo in basso e mi trovo davanti una bambina, grassa anche lei, serrata alla mano della madre. La osservo, lei mi fissa con i suoi occhi troppo piccoli e vicini al naso. Non so più cosa fare, provo a muovermi, spingo, lancio un'occhiata alla donna, ma anche lei ha gli stessi occhi incassati sul naso. Sento la voce di Edna che mi chiama, mi giro, lei è vicina ormai, poche persone tra noi ormai, e lei mi chiama ancora. Se accade qualcosa ora è ter207


ribile... Il treno sussulta, mi spingo ancora tra i corpi e mi avvicino alle porte. Oltre i vetri le luci gialle della stazione; il treno rallenta e si ferma e io spingo e c'è Edna alle mie spalle che mi chiama, ma non mi giro, spingo, spingo fin quando sono fuori sulla banchina e allora mi giro indietro finalmente e la vedo cercare di aprirsi un varco tra le persone, mi chiama, ma è troppo tardi ormai, lei è ancora troppo lontana dalle porte e il fiume di gente che entra la ricaccia indietro. È troppo tardi. Le porte si richiudono davanti a lei, la vedo premere le mani e la faccia contro i vetri, guardarmi. Il sorriso le è svanito dalle labbra. Mi fermo di fronte a lei, il vetro tra noi, lei mi guarda, perché? sembra chiedermi con gli occhi, perché?, e poi il treno riparte e lei mi scivola via da davanti, sparisce, e io resto in piedi nella stazione ormai deserta a fissare i binari in basso, nell'oscurità. Per minuti rimango con lo sguardo perso tra i binari vuoti. Poi lentamente mi incammino verso le scale, salgo le rampe fino in superficie. Fuori la pioggia mi assale violenta e io mi lancio di corsa sotto l'acqua verso l'altro lato della strada, là dove lampeggia l'insegna di un bar. Entro, mi guardo attorno; questo è il posto adatto, senza clienti, vuoto. Anche se accade d'improvviso posso facilmente correre in strada. L'uomo del bar mi saluta e sorride. Ordino una birra, mi siedo a un tavolino vicino alla vetrina e guardo fuori con il bicchiere in mano; i vetri sono ricamati di gocce di pioggia ed è difficile afferrare i particolari dell'esterno. Per un istante mi coglie un'agitazione leggera al pensiero che Edna possa avermi seguito fin qui e con gli occhi cerco nella strada le tracce della sua presenza, ma il marciapiede è vuoto e so che lei non può essere qui, l'ho vista andarsene, è lontana ormai, 208


persa ancora in quel mare di folla che ci ha riaccostati per un poco. No, non può essere qui. Osservo la strada oltre i vetri bagnati; da qui le auto che passano sono confuse macchie colorate; da qui il mare si distingue appena: è una striscia grigia e distante. È trascorsa mezz'ora e la pioggia si è attenuata in gocce sottili. Pago la birra, esco in strada. L'attesa mi innervosisce; sono certo di esserci dentro, ma questa volta l'inizio sembra essere più lento, diverso. Forse mi sono sbagliato. Forse ho semplicemente inventato l'esistenza di quei segni impalpabili che ne preannunciano l'arrivo per convincermi di possedere qualche controllo sul fenomeno, per credermi in grado di prevederlo prima della sua venuta e modificare le mie azioni per attutirne gli effetti. Forse mi sto soltanto illudendo di combattere con miseri stratagemmi ciò che invece mi sfugge completamente e si fa beffe di me. Mi muovo verso il mare, mi arrampico sul muretto di sassi che separa la strada dalla spiaggia e lo scavalco aiutandomi con le mani. Cammino, le scarpe imprimono impronte precise sulla sabbia bagnata. Il fragore del mare si impone sugli altri suoni di città e li annulla. Fa freddo, la pioggia leggera mi bagna i vestiti, la faccia, i capelli. Alzo il bavero della giacca, infilo le mani in tasca. Di colpo mi affiora alla mente l'immagine di Edna che mi guarda al di là dei vetri, i suoi occhi chiari... No, devo scacciarla da me, ricacciarla indietro. Non devo pensare a lei, non posso ora, no... Con lo sguardo cerco attorno un oggetto, un animale, una persona, un movimento, qualcosa. Niente. Nessuno da penetrare, nessuno da cui essere penetrati. Fisso l'orizzonte, là 209


dove cielo e mare sfumano l'uno nell'altro: il cielo è una lastra di piombo, l'acqua è un ribollire di grigi e verdi e bianchi. Le onde si agitano spazzate dal vento, restano alzate in aria per secondi, come sospese; le creste bianche di schiuma come creature dei sogni, con le facce deformate in espressioni grottesche, coi nasi allungati e schizzi di capelli ed occhi appena accennati, e corpi con le proporzioni alterate. Per un attimo; poi quei volti si mutano in braccia, migliaia di braccia ammassate l'una sull'altra che si fondono in mani e precipitano aperte con dita e artigli lanciati sull'acqua più in basso, sulla sabbia e sui sassi. Quel moto mi intenerisce; in fondo anche noi siamo come quelle onde, anche noi ci ergiamo per attimi illudendoci di essere indipendenti, con una forza e un'energia propria. E poi anche noi, come quelle onde, perdiamo il controllo delle nostre identità, ci fondiamo, dimentichiamo i confini che fanno di noi ciò che siamo e i nostri pensieri sfumano l'uno nell'altro e si trasformano in un solo pensiero, un immenso e caotico pensiero che li raccoglie tutti e che... ecco... il nero di nuovo... qualcosa sta arrivando, non è più soltanto un'impressione ora, no, la sensazione è più forte di prima, si espande in me. Non so come si manifesterà questa volta, cosa può accadermi ora, qui, mentre sono solo. Non so... Guardo le onde, guardo il mare. Sento il nero afferrarmi ora, caldo, riempie la mia mente ora, la avvolge e la sommerge... Sì... San Diego 1987

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LE EFFEMERIDI DELLA LUNA NERA

Scende la sera e da qui, oltre i vetri della finestra, oltre il

muro di cinta della villa, vedo nuvole basse, lunghe, colorate di rosso. Tra non molto arriveranno gli ospiti. Le mie guardie si muovono giĂ nel parco con i gesti consueti; girano lente tra le siepi, attorno alla casa, in silenzio; fedeli agli ordini impartiti cercano improbabili intrusi, sorvegliano le entrate. Anch'io voglio verificare che tutto sia a posto; entro nella stanza di controllo e accendo i monitor allineati lungo le pareti in triplice fila; la stanza si riempie di bagliori bianchi, di righe orizzontali che scorrono lente dal basso in alto, di zigzag disordinati sugli schermi. Sfioro con le dita le file di pulsanti nel pannello di comando, infilo le cassette nei videoregistratori, li accendo, attivo le telecamere una dopo l'altra. Ruotando sulla sedia girevole lancio rapide occhiate alle immagini del parco vuoto, alla piscina illuminata, alla scalinata esterna che conduce fino all'atrio centrale, a due o tre sale sfavillanti di luci, al salone della festa coi tavoli traboccanti di cibi, all'angolo riservato ai musicisti con i leggii giĂ disposti di fronte alle sedie. 211


Su uno degli schermi colgo un movimento, è la scia colorata di un corpo che esce dal campo di uno dei monitor. Subito ruoto la telecamera corrispondente a destra fin quando il giardiniere si staglia controluce al centro del quadro; lo vedo camminare verso la centralina di comando delle fontane, aziona le pompe per gli zampilli e abbassa l'interruttore che controlla le luci del parco. Si allontana. Dietro di lui scorgo i profili dei pini, le strutture intricate dei castagni, i bordi smussati delle siepi. Gli schermi mi rimandano quadri spezzati della villa; ogni cespuglio nel parco, ogni angolo della casa si specchia negli occhi attenti delle mie telecamere, e la villa è come frammentata e moltiplicata davanti a me in miriadi di ville diverse, immagini che trattengo e registro catturando sezioni di spazio sfrondate dal contesto inutile che le circonda. Gli animali nelle gabbie sembrano tranquilli: dormono. Solo una delle scimmie si sveglia d'improvviso al fruscio dell'acqua proiettata in alto. Gira la testa verso il cerchio irregolare che l'acqua in cascata compone nella vasca della fontana più vicina alle gabbie e si gratta la pancia a caccia di qualche pulce fastidiosa. Una guardia si accosta ora alle gabbie, rimane a scrutare gli animali per qualche secondo, poi scuote mollemente la testa prima di riprendere il giro, e mi fa sorridere questo suo gesto di superiorità nei confronti degli animali; le mie telecamere stanno a lui come i suoi occhi stanno alle scimmie; osserva le scimmie con disprezzo senza sapere che è lui, a sua volta, ad essere scimmia per me. A volte mi chiedo quali sarebbero le reazioni dei miei uomini se riuscissero a intuire la verità: che il loro appartenere 212


ai servizi di sicurezza è illusione, un involucro ufficiale opportuno solo a mascherare la mia attività. Ma so che è un pensiero inutile il mio; la loro ottusità già li condanna: non riuscirebbero mai a capire, e quindi non riusciranno mai a sapere. Ciò che veramente conta, il mio lavoro segreto, non li riguarda. Sanno che il controllo è il problema essenziale, e sanno anche che essendo io il capo dei Servizi di Sicurezza devo avere ogni cosa sotto controllo. Questo lo sanno, questo è normale. Ma come controllare, come usare gli strumenti di controllo, perché decidere di guardare, questo non riguarda loro né nessun altro. Il fascino che scaturisce dall'osservazione, quello non potrebbero mai apprezzarlo. Osservare, controllare, proteggere, proteggere tutto come in una cassaforte. Gli oggetti, le persone. Tutto. Osservare le persone come gioielli rari, pietre preziose cariche di movimento proprio e di vita, studiare i loro sguardi, le sequenze interessanti di gesti e parole, i comportamenti pubblici e quelli privati, sgusciare dentro le loro intimità e svelarle come si estrae il corpo lucido di un'ostrica dal suo guscio spalancato. Osservare tutto. Osservare. Capire. E usare le immagini, quando è il caso di farlo. Come in un gioco. Osservarli. Come animali in gabbia, appunto. Lancio un'ultima occhiata ai monitor; tutto è in perfetto ordine. Naturalmente. I primi ad arrivare sono i musicisti. Tutta gente accuratamente selezionata dalla marchesa stessa. Gli uomini indossano vestiti scuri, cravatte nere; le donne sfilano con lunghi abiti da sera scollati che scoprono spalle e lembi di pelle. Con gli astucci degli strumenti in mano ciondolano 213


lenti davanti al cancello, si osservano attorno cauti, forse appena a disagio per il fasto inconsueto che li circonda. CosÏ mi diverto a inseguirli con due o tre telecamere nascoste tra gli alberi, colgo qualche primo piano delle loro espressioni di meraviglia, il muoversi a scatti di qualche testa, un ciuffo biondo di capelli che scivola sulla fronte di una delle donne, il riflesso di una luce in una scarpa di vernice nera, un bagliore bianco. Li seguo mentre avanzano con movimento quasi continuo dagli schermi di sinistra via via a quelli di destra, dall'alto progressivamente in basso man mano che procedono verso l'interno del parco e verso la villa. Mentre uno dei camerieri li accompagna verso il settore della sala riservato ai musicisti, anche gli altri ospiti cominciano ad arrivare e sfilano l'uno dopo l'altro di fronte ai miei occhi invisibili. Alcuni sostano in piedi davanti al cancello e si scambiano sguardi stupiti o sorridono imbarazzati per i controlli minuziosi a cui li sottopongono le mani delle mie guardie prima di lasciarli entrare. C'è una donna corpulenta che attraversa il parco a passetti; l'abito lucido e nero che indossa rivela fin troppo i rotoli di carne molle del suo corpo. Con la mano davanti alla bocca bisbiglia qualcosa al suo accompagnatore, un giovane biondastro che la ascolta con l'aria fedele del cane abituato al lusso. Rilevo un primissimo piano della mano della donna, delle unghie ben curate piantate come per sbaglio su quelle mani tozze; i suoi denti ingialliti si intravedono per un istante tra le dita inanellate. Allora distolgo la telecamera da lei e la punto verso altro. Come di consueto alcune donne arrivano da sole, scendono da gradi auto scintillanti lanciando ordini agli autisti e lasciando che aprano e chiudano le portiere con gesti misurati. Tra i tanti corpi in movimento fuori dalle auto eccone uno 214


che spicca sugli altri, una donna alta coi capelli del colore del rame incandescente che le affollano le spalle nude e la schiena. Mi soffermo su di lei, sull'abito di chiffon verde lungo fino alle caviglie, incollato al suo corpo sinuoso: delicata, senza il minimo trucco, una bellezza selvaggia capace di far scomparire le altre. Ne cerco un primo piano: pelle luminosa, occhi verdi, profondi, un sorriso appena percepibile che le sguscia via dalle labbra mentre osserva i miei agenti al lavoro, la punta del naso che si curva in alto appena. Gli occhi le guizzano a scatti leggeri quando riprende a camminare dopo i controlli. Con una delle telecamere la seguo salire la scala dell'ingresso e prelievo il profilo di uno dei suoi seni oltre l'orlo della scollatura, un attimo prima che capelli e spalle me la nascondano e riempiano il campo del video. Altri ospiti arrivano, passano i controlli, entrano nel parco. Si fermano davanti alle gabbie prima di avvicinarsi alla villa. Gli uccelli insonnoliti si muovono pigramente e sono le scimmie a concentrare gli interessi di tutti. Tutti guardano le scimmie, indicano le scimmie, salutano le scimmie agitando le mani aperte, ridendo e divertendosi ai movimenti grotteschi e meccanici degli animali, alle loro grida rauche. Le scimmie ricambiano gli sguardi con occhi curiosi. D'improvviso un pavone irritato apre la coda e la richiude di scatto piegando la cresta e rifugiandosi in un angolo della sua gabbia. Gli ospiti lo indicano con le dita. Io guardo persone e scimmie attraverso i monitor. Pi첫 tardi gli ospiti sono ormai quasi tutti nella sala del ricevimento. Non pi첫 di un'ottantina di persone, gente scelta, gli amici della marchesa, tutti sotto il mio controllo. E la festa 215


comincia e gli schermi prendono così a collezionare per me miriadi di gesti contemporanei, movimenti che si assomigliano fin nei particolari: strette di mano, sorrisi, bocche aperte, bicchieri pieni che si vuotano, mani che scivolano su piramidi di tartine colorate, sulle geometrie di piatti e cucchiaini, su bottiglie già aperte appoggiate sui tavoli, su bicchieri riempiti che si vuotano. Come in un balletto vedo uomini e donne raggrupparsi in nuclei per conversazioni intrecciate: racchiudono in mano con eleganza bicchieri carichi di liquidi e, a piccoli intervalli, tra una parola e l'altra, li portano alle labbra e sorseggiano fissando negli occhi i loro interlocutori. Così fino a cadute di conversazione, sguardi furtivi al fasto della sala in cerca di altri a cui aggregarsi. Fino al distacco cerimonioso, un sorriso, una mano che saluta, e l'aggancio per nuovi scambi di parole. Ogni volta che gli schermi riproducono queste scene sono affascinato dalla capacità di questa gente di recitare meccanicamente tutti allo stesso modo, seguendo come automi di lusso quel copione faticosamente appreso in noiose ripetizioni di feste come questa. Rispettando le regole imposte dal loro gioco di classe si stuzzicano con occhiate discrete, risate leggere e preliminari verbali, lasciando che gli sfioramenti delle parole siano il preludio a quelli di mani e dita. Attivo i contatti audio di una delle sale e la mia cabina trabocca d'improvviso di suoni puri, un magma di frequenze fittamente intrecciate, sovrapposte con arroganza alle sonorità più limpide dei clarinetti e dei sassofoni. Spengo l'audio. Attraverso i monitor lancio occhiate anche all'esterno per controllare la situazione. Il parco attorno alla villa è quasi vuoto, c'è solo qualche coppia che cammina parlottando, o 216


gli ultimi ritardatari impigliati nelle maglie dei controlli dei miei agenti. E mentre osservo i miei agenti al lavoro mi fa piacere costatare la loro efficienza servile. So che approfittando dei controlli indugiano le dita sulle donne, palpano le carni fingendo di cercare nascoste. Ma li lascio fare, perché la loro ottusità è pari solo alla loro volgarità, e altro non potrei aspettarmi da loro che un uso sciocco e immediato del misero potere di cui dispongono. È ormai l'ora in cui le droghe cominciano a mescolarsi all'alcool per sciogliere le menti da quelle inibizioni resistenti che ancora controllano i corpi. Piccole pipe d'hascisc e anfetamine e altre pillole colorate scivolano tra le dita e spariscono tra le bocche e denti, vedo gesti d'aspirazione e inghiottimento, sorridono e tossiscono e ridono forte, alcuni sniffano cocaina estraendola da scatoline d'argento lasciate sui tavoli tra le bottiglie vuote, tra i bicchieri rovesciati e i piatti sporchi di creme o avanzi di sandwich. I camerieri sono stati allontanati ormai, e restano solo alcuni dei miei agenti mimetizzati tra la folla per scongiurare ogni pericolo eventuale. L'orchestra continua instancabile a produrre catene di note, ora ritmi diversi da quelli un po' stereotipati e da festa che hanno preceduto questi; ora i musicisti sembrano aver trovato un'armonia finalmente; abbandonati gli spartiti hanno scoperto la loro anima, e le voci degli strumenti si sciolgono in una, diventano una voce sola e corale, impregnata di quelle sonorità notturne che miscelate alle droghe riusciranno finalmente a tirar fuori la passione dai corpi di questa gente ricca e viziata. Lo so, lo capisco da come si muovono tutti nella sala che la tensione cresce e cresce, è 217


una corda sempre più tesa, e il punto di sfilacciamento e rottura è vicinissimo ormai. Nell'attesa esamino intanto gli altri schermi sulla parete di destra, quelli puntati sui bagni: vedo i viavai continui, le porte che si aprono e chiudono, le donne nei corridoi che aspettano impazienti il loro turno dondolandosi contro il muro e chiacchierando tra loro. Le mie lenti cercano le figure duplicate nei grandi specchi sopra ai lavandini, nei salottini lucidi di ceramiche nere stellate che precedono l'ingresso ai bagni veri e propri. Catturo riflessi elettronici di donne che si passano rossetti forti sulle labbra, boccheggiando tre o quattro volte come pesci giganti per amalgamare il colore alla pelle. Strizzano gli occhi e poi li aprono in modo eccessivo avvicinandosi agli specchi per controllare le sbavature; intingono piumini candidi in scatolette di ciprie profumate, eccitate si sbuffano nuvolette di polvere chiara sulle guance. Gli uomini invece sembrano muoversi più pacati, controllano le loro pettinature, si assestano i capelli fuori posto con leggeri colpetti delle dita, provano compiaciuti due o tre espressioni diverse inarcando le sopracciglia o gonfiando le guance, storcendo le labbra in abbozzi di sorriso. Seguo uomini e donne fin dentro ai bagni e aspetto gli sguardi stupiti quando, chiuse le porte, subito notano le statue che la marchesa ha fatto installare sopra i water. Quelli che ancora non conoscono i gusti della marchesa in genere sorridono per le pose curiose delle statue accucciate sopra le tazze con le teste sporgenti e piegate in basso nell'atto di osservare le operazioni più private. Qualcuno è indeciso: ecco un uomo che si avvicina ai due corpi nudi di ceramica rosa e quasi dimenticando la ragione che l'ha spinto dentro tocca le 218


spalle lucide e le teste delle statue; scruta con attenzione i visi e gli occhi azzurri, gli sguardi di pietra fin troppo umani e penetranti. Poi ride come gli altri, e come gli altri si sbottona i pantaloni senza sospettare delle telecamere installate come pietre preziose dietro a quegli occhi. Non sa che quegli occhi ora sono anche i miei occhi. Sposto ancora lo sguardo dalle attività dell'uomo a quelle negli schermi puntati sulla sala della festa. Ora c'è un sassofonista che si alza in piedi e smette di suonare e scivola tra i tavoli col sassofono che gli dondola al collo; lo seguo mentre si aggancia a una bottiglia mezza vuota e beve a lunghe sorsate con la testa buttata all'indietro. Punto una seconda telecamera su di lui, sui suoi capelli scomposti e la fronte sudata; un rivolo di vino gli cola dal mento sulla camicia sbottonata e aperta, sul petto. Continua a bere attaccato alla bottiglia fino a svuotarla e allora si ferma a fissare il nulla davanti a sé con la bottiglia in mano. Sullo schermo, per secondi, resta la sua faccia gigante: le rughe a ventaglio ai lati dei suoi occhi socchiusi, la curva forte del suo naso, la cicatrice che gli contorna il labbro inferiore. Poi si muove e io lo seguo con l'altra telecamera, riesco a mantenermi su di lui quando si sposta ancora, mi regala un campo medio controluce, infila tra le labbra il bocchino del sassofono, prova quasi sottovoce due sequenze di note contrappuntate all'orchestra, in dialogo con uno dei clarinetti, poi gonfia le guance e soffia più forte, escono suoni puri, una melodia perfetta che pare racchiudere l'essenza più profonda della notte. E infatti, quasi intuendo questa sua voglia di urlare la notte coi suoni, subito molti sono attratti da lui, lo circondano e lo nascondono, ma lui riappare oltre il cerchio di teste, è sbilanciato, lontano dall'orchestra, suona con gli occhi 219


chiusi, e le labbra strette attorno al bocchino sembrano sorridere. La folla lo avvolge, sono su di lui e battono le mani ballando disordinati in cerchio attorno ai suoi suoni, dimentichi ormai dei gesti composti di minuti indietro. C'è come una pulsazione crescente, uno slittamento dei comportamenti verso aggressività sempre meno celate, le ansie e desideri che prendono forma con l'accumularsi dei minuti e il moltiplicarsi dei contatti tra i corpi. Inizia finalmente l'ora di splendore che le mie fedeli pupille elettroniche registreranno per me. Ora i miei monitor diventano finestre affacciate su un mondo di sogni, su quei frammenti proibiti della vita che al mattino saranno già nascosti, negati, dimenticati. Sembra che sia la sala stessa a generare questo rombo di tuono carico di grida gonfiate dagli stupefacenti, di risate troppo acute; è un ribollire di sguardi eccitati, le mani prendono sempre più a strusciare e toccare e a indugiare sui contatti. Sento l'aura di desiderio trasmettersi dalla sala attraverso i video e fin dentro la mia tana segreta e invadermi il corpo, e allora comincio a premere i pulsanti che controllano gli zoom delle telecamere e quelli delle loro rotazioni, li muovo avanti e indietro al ritmo dei movimenti dei corpi immersi nelle danze, avanti e indietro, avanti e indietro, gli equilibri sono rotti finalmente! Sulla fila dei teleschermi in basso è un continuo succedersi di facce e occhi e braccia e gambe, i movimenti tesi verso la costruzione del piacere; avanti e indietro, mani, dita, i primi vestiti inutili che volano scomposti nella sala, lanciati in aria o appoggiati sui mobili, sulle sedie, abbandonati a terra. Ecco finalmente il premio per il mio lavoro, la gioia segreta del guardiano, ecco la festa per i miei occhi, il pullulare di immagini e suoni, la danza di uomini e donne mentre scivolano verso la fase della bestia, lo sfogo ormai ir220


reversibile dell'animale liberato in cammino verso la carne! Mi riprendo, lancio occhiate anche alle immagini dell'esterno. Il parco è deserto: solo pochi inconsapevoli dell'inizio del gioco ancora vagano chiacchierando per i viali vuoti con un bicchiere in mano. Più lontano c'è un uomo solo vicino alle gabbie, la giacca del frac ripiegata su un braccio, che spia i salti delle scimmie, il chiocciare dei pavoni, le mosse stupide degli animali prigionieri. Ma subito mi distraggo da lui, perché uno degli schermi in alto rivela i gesti di una coppia seminascosta da un cespuglio. Per un momento spengo l'audio della sala, zoomo sulla coppia e aumento al massimo il volume dei microfoni nascosti in quella zona del parco. Ansimano, sbuffano, la donna sospira con grida lente di piacere, smette, riprende. Oltre le foglie vedo una mano dell'uomo frugarle la carne, un capezzolo scompare sotto le sue dita, un seno strizzato, la mano di lei sguscia in basso tra le gambe dell'uomo, poi riprende ad ansimare quando anche l'uomo infila le dita dentro la gonna. Si muovono, rotolano per terra, spariscono dietro al cespuglio; vedo solo strati di pelle nuda, un fascio di capelli biondi intrecciati ai rami, la massa scura del corpo dell'uomo che schiaccia la donna contro il terreno. Sto per tornare ancora alle immagini della sala della festa, ma sono di colpo attirato da una scia verde che si agita in uno degli schermi puntati sui bagni. È la donna bellissima, quella dai capelli di rame che già prima nel parco aveva attratto la mia attenzione. La festa può attendere ancora per qualche istante; la seguo, si muove molto disinvolta, con passo veloce, la osservo oltrepassare la stanza di ceramiche stellate, aprire la porta di uno dei bagni, entrare e richiudersi la porta alle spalle. Come gli altri prende subito a osservare 221


le statue e sfiorarle con le dita. Ma non sembra sorpresa, non sorride. Afferro in primo piano porzioni giganti del suo viso, il rame riccio dei suoi capelli, il collo lungo che svanisce nella scollatura del vestito, le labbra luccicanti, gli occhi verdeggianti. Colgo il movimento della sua mano sulla pelle dura degli occhi delle statue, i miei occhi. Un suo dito mi nasconde la luce, poi riappare il suo viso nel monitor, e di nuovo il dito che rabbuia l'immagine. Ma non mi piace, insiste troppo vicino agli occhi come se sapesse cosa cercare; e infatti si accanisce sulla pietra trasparente, la gratta tentando di sfilarla, la sua unghia riempie lo schermo fin quando l'inevitabile accade e il vetro dell'occhio si stacca rivelando l'obiettivo della telecamera. La vedo rimanere immobile col frammento di vetro in mano a guardare la lente del mio occhio elettronico per parecchi secondi; fa una smorfia fastidiosa, piega le labbra e inarca le sopracciglia. I suoi occhi fissano i miei indifesi. Poi incastra di nuovo la pietra nell'occhio della statua ed esce sbattendo la porta e sullo schermo rimane l'immagine delle piastrelle di ceramica nera e stellata. Preoccupato, infastidito, fisso le statue nude. Fisso la parete nuda e lucida. Poi inseguo la donna con le altre telecamere: ansioso la studio mentre risale le scale e torna nella sala. Coi diversi pulsanti cerco di mantenere l'immagine su di lei, ma la frenesia di braccia e di teste e di corpi nudi in movimenti rapidi me la confonde e presto i suoi ricci di rame si mescolano ad altri ricci e altre teste, altri capelli e altri corpi. La intravedo per secondi vicino a una colonna della sala: è di fronte alla marchesa, le sta parlando. La marchesa è ancora vestita, annuisce. Si sorridono. Si lasciano. Cosa le avrà detto? Non è facile capire, non è possibile da qui. Ma mi distraggo anche 222


da questo perché di colpo molti schermi emanano un lampo nero e trasmettono il buio piombato nella sala. Istintivamente attivo le telecamere all'infrarosso e subito mi investono di nuovo le sagome scure di corpi ammassati, abbracciati stretti, che danzano o in procinto di baciarsi e spogliarsi; attivo anche l'audio e sono raggiunto dalle grida di stupore euforico che seguono la notte improvvisa; il fragore acuto dei sassofoni continua sul tum-tum ritmato della batteria e sulla dolcezza liquida dei clarinetti e della tromba lanciati assieme in una musica calda e densa e ossessiva e ormai sovrabbondante di note aggiunte e alterate dalle voci sovrapposte e da cori disordinati dei più ubriachi. Resto a guardare e sentire tutto questo senza muovermi; so che ormai non c'è più ritorno, la festa è come una cosa viva, un organismo inarrestabile che avanza indipendente dalla volontà dei singoli. Rimango a pensare alla donna, ai suoi gesti così precisi, così decisi. Devo sapere cosa sa. Devo provvedere. Per minuti lunghissimi trattengo lo sguardo sugli schermi senza vedere le immagini che racchiudono, senza capirle. Penso al da farsi. Poi finalmente mi decido. Mi alzo, prendo una Polaroid da uno scaffale, prendo qualche caricatore. Esco dalla mia sala segreta, esco dalla sala dei controlli ufficiali e vado verso il parco. Minuti dopo sono di nuovo nella villa. Quando entro nella sala della festa c'è un'aria elettrica tutt'attorno, diffonde odori di cibi e sudore, i profumi dei corpi, l'esalazione della tensione sessuale, le grida, le risate, i sospiri, le parole pronunciate sottovoce, la musica. Qua e là, come lucciole, si 223


spostano piccole luci di candela o d'accendini; alcune sfavillano per attimi attorno al braccio che le sorregge, altre appoggiate sui tavoli creano una danza di ombre, mostrano profili di corpi nudi, la carne. Per un po' mi muovo a tentoni facendomi largo tra le persone accalcate e cercando i ricci rossi della donna, ma non riesco a vederla, tutti mi spingono e urlano vicino a me, sospirano, ridono, qualcuno mi afferra le spalle e mi gira e mi stringe e mi nasconde gli occhi con i capelli. Una mano mi scivola dentro la camicia, penetra sotto la stoffa e mi accarezza il petto, ma subito quel contatto dolce mi è strappato via dalle mani di altri corpi vicini e la donna, o forse l'uomo intento su di me si allontana. Dovrei cercare la donna dai capelli rossi, ma il desiderio mi prende come fosse musica e si accavalla alla musica, mi confonde, mi si insinua dentro e mi scioglie. E ancora mi sento afferrato, ora è una donna, ne ho la certezza toccandola, sentendo il suo corpo seminudo che si struscia contro di me. Le sue labbra alcoliche si appoggiano sulle mie, la lingua mi apre un varco tra i denti e mi accarezza il palato e non riesco a liberarmi delle sue mani che mi lambiscono, della sua pelle profumata, dei suoi baci. La tocco anch'io, la carezzo, la afferro, con le dita le serro le spalle, la schiena, le natiche, le sue cosce. Attorno c'è un'esplosione di contatti, una liberazione di frequenze celate a lungo nelle viscere dei nostri cervelli che di colpo trovano l'unità. Come un coro. Così, nel buio, ci abbandoniamo tutti al fascino dell'ignoto, alle trame del caso. Più tardi la tensione si allenta; come dopo la calma che segue il lancio e il tonfo di una pietra sulla superficie d'acqua di 224


un lago, quando l'acqua si gonfia improvvisa, poi si increspa e si stende, le onde concentriche che si nascondono in un nuovo piano liquido. Molti, stanchi ormai, liberati dall'ansia dell'orgasmo, si sono sdraiati sui divanetti lungo le pareti, o siedono scomposti sulle sedie trovate a fatica nell'oscurità. Alcuni accendini accesi e qualche candela spezzano ancora l'oscurità con bolle luminose; si odono le parole farfugliate da chi è in cerca dei vestiti, arrivano dall'ombra i sospiri di chi non è ancora sazio di sesso, o risa ovattate dalle porte che guidano nelle altre stanze. Mi rivesto con calma osservando i corpi lucidi di sudore dei miei compagni più vicini mentre si muovono pigri nella notte; vedo i loro capelli arruffati nelle lotte erotiche, le fasciature di muscoli, le curve dolci di un seno o di un ventre, negli occhi l'opacità dell'abbandono al torpore dopo il pasto di piacere. Ma di colpo la sala si riempie di grida acute, quelle di una donna forse, ma potrebbero anche essere quelle rauche di un animale, e poi si sentono ancora altre grida intrecciate, grida di dolore che spaventano. E subito è un succedersi di voci; nessuno capisce cosa sta accadendo, qualcuno urla di fare qualcosa, di accendere le luci, di accendere in fretta, e tutto attorno è una confusione di suoni. Poi finalmente le luci inondano la sala improvvise come un'esplosione; c'è un boato di sorpresa, anche di vergogna forse, comunque la luce indirizza i nostri occhi verso l'angolo dal quale provengono le grida, una zona vicino all'ingresso della sala. Lì c'è una donna in piedi, nuda, la bocca spalancata, che grida con le braccia in movimento frenetico sopra la testa, e c'è il corpo scatenato di una scimmia avvinghiato su di lei. L'animale sembra impazzito: si muove a scatti rapidi, con le braccia serrate al collo della donna, e le gambe attor225


cigliate come serpenti attorno al seno e alla vita. Per istanti lunghissimi restiamo tutti impietriti ad osservare la scena, totalmente presi dalle movenze di quella lotta tra i due corpi nudi, dal colore carico del sangue che fiotta da una ferita sul braccio della donna e le si spalma addosso mentre la scimmia con le sue dita nere le strappa ciuffi di capelli e continua ad accanirsi attorno al seno di lei, e al collo e alla testa, vicinissima agli occhi. Le urla delle due creature ormai spiccano chiare nel più assoluto silenzio. Guardiamo: spaventati, desiderosi di fare qualcosa; ma nessuno si muove. È come se qualcosa ci bloccasse dentro, forse è la paura, o la stanchezza per il lungo abbandono ai piaceri della carne; o forse a bloccarci è quel senso di meraviglia per la tragica bellezza di quel ballo tra donna e animale, per le sonorità cristalline del dolore che escono dalle loro bocche spalancate. Rimango immobile; è inutile buttarsi in quella mischia corpo a corpo con una scimmia. E poi ci sono le mie guardie, prima o poi interverranno, è questione di istanti ne sono certo, hanno solo bisogno del tempo necessario ad adattare i loro cervelli a questa forma di pericolo non contemplata. E infatti quasi subito quattro dei miei uomini, anche loro coi vestiti scomposti, si lanciano sulla donna che urla, afferrano la scimmia per le braccia e le gambe e cominciano a tirarla per allontanarla dalla donna. Ma la donna e la bestia, sbilanciate, cadono a terra mentre sono ancora avvinghiate e si rotolano sui tappeti tra sangue e singhiozzi, e altri secondi passano prima che i miei uomini possano buttarsi su loro per cercare di immobilizzare la scimmia. Lascio agli altri il piacere della vista della cattura. Scivolo fuori dal cerchio di persone ammassate attorno alla zona di 226


lotta, lancio rapide occhiate alle teste, ai nasi, alle bocche, agli occhi, ai capelli bruni, a quelli rossi e biondi, quelli neri, quelli rossi e ricci di nuovo. Mi sposto da una zona all'altra della folla, e finalmente mi fermo dietro a un gruppetto compatto di persone. Sorrido soddisfatto. Ancora mi guardo attorno; una volta certo di passare inosservato, mi sposto indietro verso i tavoli, verso i piatti sporchi, verso le posate, le forchette, i coltelli. Ne afferro uno. Poi mi avvicino ancora alle spalle della folla che guarda. Dopo un po' la situazione è sotto controllo: la lotta è finita e la scimmia è a terra, morta, e io sono soddisfatto dell'esito del mio lavoro. Però non posso dire altrettanto del lavoro dei miei uomini. Dovrò punirli per quello che sono stati capaci di fare davanti agli ospiti. La marchesa sarà sicuramente dura con me per questo e loro pagheranno per la loro stupidità. Potevano evitare il sangue, l'orrore. Invece quando la scimmia ha cominciato a mordere i due uomini che cercavano di immobilizzarla, un altro dei miei agenti, quello più stupido e incapace di ricordare le regole, catturato dal suo istinto più selvaggio, ha afferrato una bottiglia da terra e ha preso a scagliare colpi in testa alla scimmia, colpi forti, precisi, ripetuti, e ha continuato anche quando la bottiglia si è spaccata e un fiotto di sangue è schizzato fuori dal cranio a pezzi della scimmia, ha continuato fin quando la scimmia ha smesso di divincolarsi e di urlare e si è semplicemente afflosciata per terra incapace ormai di fare male, di muoversi, un corpo morto con la testa spalancata e tutto quel sangue attorno come una corona rossa di capelli. Adesso mi fa quasi pena a guardarla così per terra, ormai 227


sparita. Era solo un povero animale impazzito. Mi fa pena ora a vederla così massacrata. Li punirò per questo spettacolo. Sì, li punirò, anche se in fondo tutto questo non ha molta importanza per me. So come trattare con la marchesa; so come tenerla in pugno. I miei occhietti segreti servono pure a qualcosa. La marchesa non è un problema. È il resto ad avere veramente importanza. E il resto, il mio lavoro di stasera, quello è stato perfetto. Finita la lotta, ora sono tutti sulla donna ferita a cercare di rialzarla e aiutarla, e c'è un chiasso di persone che parlano insieme, tutti che vogliono sapere, tutti a chiederle cosa è successo, domandarle di cosa ha bisogno e mille altre parole intrecciate che riaccendono la tensione proprio nel momento in cui l'eccitazione per la serata sembrava ormai alle spalle. Un uomo si accosta alla donna con una coperta tra le mani; gliela appoggia addosso. Lei rimane a terra in ginocchio, immobile in mezzo alle persone, senza ascoltare, senza rispondere. Sposta la testa, allunga le dita verso la stoffa. I capelli arruffati e sporchi di sangue le pendono come erbe stoppose sulla fronte; fa guizzare a scatti gli occhi spalancati, a sinistra, in alto, a sinistra, poi a destra di colpo. Come dopo una lotta con sciami di fantasmi. Poi si struscia ossessiva un dito sulla ferita al braccio, sfrega lo squarcio insanguinato come a scacciare via del pelo rimasto della scimmia. L'uomo che l'ha avvolta nella coperta la fa rialzare e la sostiene con un braccio mentre con l'altro si apre un varco verso l'uscita tra la gente incuriosita. Una volta che i due sono oltre la porta, subito l'interesse generale scivola dalla donna alla scimmia a terra, con una cresta bianco-rossa di sangue e cervello che le spunta dallo spacco nel cranio e si allarga sul tappeto; le braccia e le gam228


be troppo lunghe, contorte negli spasimi della morte. Vedo qualcuno approfittare della confusione per rivestirsi in fretta con gesti appena imbarazzati; nessuno sembra badare a me ora, un poco in disparte dal gruppo, indietro, vicino ai tavoli, mentre sorrido e mi diverto a giocare coi coltelli sporchi di panna. Lancio lunghe occhiate tra le teste e i corpi, tra i vestiti aperti e i capelli fuori posto e le guance arrossate. Ben presto però anche l'interesse per l'animale si esaurisce. C'è un allentamento della tensione magica accumulata tra noi, le persone rompono il cerchio stretto attorno alla scimmia e gli spazi tra noi si allargano con moto centrifugo. Il flusso di bisbigli e borbottii si sbriciola pian piano, le voci tornano a farsi più chiare e a pronunciare parole. Ma io continuo a guardarmi in giro e a sorridere perché so che la serata ci riserva altre sorprese e così sono in attesa del nuovo picco di tensione. E quasi a incarnare i miei pensieri, ecco un grido che parte da qualcuno come lo scatto di un fascio di muscoli e condensa di colpo e ancora l'attenzione di ciascuno. Ansiosi, confusi, in un istante siamo tutti rivolti verso una donna in piedi vicina all'angolo che col dito ci indica qualcosa dietro a un divano. Bene, finalmente è il momento. Corriamo verso il divano, e spingendo e parlando e urlando assieme ci raccogliamo di nuovo a semicerchio davanti a un corpo accasciato sul tappeto, il corpo di una donna che il gioco indifferente del caso ha composto in una posizione che duplica quella della scimmia: anche lei è supina, anche in lei un braccio e le gambe sono divaricate; e anche lei, come la scimmia, ha la testa fasciata dal rosso, una corona fulva di capelli; e poi c'è anche l'altro rosso, quello del sangue, un rivolo che scivola giù da oltre il braccio contorto sulla schiena e oltre la mano serrata sul manico di un coltello infilato tra le 229


scapole, appena sopra l'orlo del vestito di chiffon verde. Allora finalmente entro in azione. «Nessuno si muova!» grido rivolto al gruppo. «Servizio di sicurezza! Nessuno si muova!» urlo. Le parole congelano l'aria e d'improvviso il silenzio è perfetto. A un mio gesto, i miei uomini schizzano veloci verso le porte per impedire a chiunque di uscire. Lancio occhiate alle facce curiose che ho di fronte, colgo alcuni sguardi spaventati, occhi troppo spalancati, bocche aperte e distorte da pensieri cupi di paura. Ma ci sono anche quelli che sembrano più calmi, lontani, quasi a voler ostentare la loro estraneità all'assassinio. E poi mentre li scruto, mi cade lo sguardo su una faccia seminascosta da altre teste, un uomo in seconda fila: le guance pallide, gli occhi piccoli e troppo accostati al naso e un paio di baffetti fastidiosi che gli scendono ai lati della bocca, e le labbra sottili che quasi sogghignano, e i capelli neri e lucidi e stranamente troppo a posto, pettinati di lato. È quello che prima dell'inizio della festa guardava solitario le scimmie e i pavoni. Sì, è lui. Resto a lungo a fissarlo e l'uomo sente il mio occhio su di lui e si china in avanti quasi per nascondersi, ma sbaglia posizione e così riesco a vedergli la cravatta perfettamente annodata al collo, e la camicia abbottonata e il frac ancora infilato. Per una decina di secondi studio questa sua aria compita, e tutto in lui sembra suggerirmi l'idea che, unico tra noi, si sia astenuto dai divertimenti erotici. Allora so che lui è la persona giusta; e ha anche la mia statura. Sì, lui è la persona che mi serve. Gli sorrido con freddezza. Poi mi volto via da lui, mi avvicino al cadavere e mi chino. È un corpo sinuoso: le cosce affusolate e bianche, le natiche di carne compatta fasciate di chiffon lucido, le scapole che escono dall'orlo del vestito 230


come piccole ali. E tra le scapole il coltello, la sua mano, il polso, un braccialetto d'oro, un rivolo di sangue. Le sfioro il polso con le dita. Non c'è battito. Allora mi alzo e dalla tasca estraggo la Polaroid, poi giro attorno al corpo e scatto quattro foto da diverse angolazioni. Il flash lampeggia. Odo il vociare stupido di alcune donne vicine che seguono attente i miei movimenti. Continuo a scattare foto prima di spostarla. Per me, per la polizia che verrà e vorrà sapere. Un primo piano della mano serrata attorno al coltello, le unghie sporche di sangue secco, l'impugnatura d'argento della lama, le cosce aperte, le caviglie. Dopo ogni scatto sfilo la foto dall'apparecchio, aspetto qualche secondo, separo lo strato di sviluppo dalla carta. Guardo l'immagine, la appoggio a terra e riprendo a scattare. Dopo un po' le foto si sono accumulate sul tappeto. Allora sfilo la mano della donna dal coltello, poi impugno il manico con un fazzoletto e tiro strappandole il coltello dalla schiena. Viene via dalla carne ancora calda con facilità, con uno fruscio appena percettibile, come fosse piantato in un blocco di burro morbido. È un normale coltello da cucina, affilato, uguale a quello che anch'io avevo impugnato pochi minuti prima. Lo trattengo in mano, mi alzo, mostro la lama insanguinata alle persone davanti. «È stato qualcuno di voi!» dico con durezza. Appoggio coltello e fazzoletto su un tavolo. «Il coltello è uno di quelli usati per i rinfreschi prima dei vostri giochetti!» Subito vedo la marchesa sgusciare fuori dal gruppo «Ehi!» dice avvicinandosi; mi guarda con aria arcigna, le dita aperte di una mano puntate contro di me. «Come si permette di parlare in questo modo? Lei è soltanto un...» «Silenzio!» le urlo. «Non è il momento per questo. È stata 231


uccisa una donna, ed è stato qualcuno di loro a farlo. Le proteste a dopo. Ora non è il momento...» La marchesa prova a balbettare qualcosa, però non aggiunge altre parole, certamente sorpresa dal mio tono. Ma le mie telecamere sono una ragione sufficiente a zittire anche lei. E lei lo sa. La sicurezza ha un suo prezzo. Così restiamo in silenzio. Allora mi avvicino agli ospiti, scruto tutti quelli della prima fila, uno dopo l'altro, fissandoli negli occhi per accrescere la loro ansia, per inculcare in loro l'idea che li sospetti tutti. «È stato uno di voi» dico. «Ma vi assicuro che non riuscirà a scamparla.» Guardo con disprezzo l'uomo coi baffetti in seconda fila, e lui subito distoglie lo sguardo da me, e il suo sogghigno di poco fa è ormai soltanto una smorfia. Bene; quale colpevole più perfetto di lui potrebbe esserci? «Ci sono delle telecamere installate nella sala» dico. «Telecamere all'infrarosso. Possono filmare anche al buio.» Faccio una pausa e il silenzio riempie la stanza. Non un gesto, un movimento, un sussurro. «Non ne uscirete puliti. È tutto filmato. Tutto. È meglio che chi ha ammazzato la donna si faccia avanti...» Aspetto che le mie parole raggiungano le loro menti. Subito sale un borbottio, ciascuno muove attorno gli occhi in cerca degli occhi del vicino, stupidamente sperando che almeno uno nel gruppo si faccia avanti sul serio e confessi il delitto e liberi gli altri dal peso del sospetto. Imbecilli! Ma nessuno si muove. Nella sala cade ancora un silenzio freddo, lungo. «Bene» dico. «Come volete...» Con un cenno chiamo uno dei miei uomini. «Perquisiteli uno a uno. Prendete nomi, dati, indirizzi, amicizie, gusti particolari di ciascuno...» Faccio una pausa. «Senza eccezioni» aggiungo lanciando un'occhiata 232


insolente alla marchesa. Poi torno alla donna assassinata; la muovo, la giro prima che sia la polizia a farlo. Le braccia molli seguono il movimento rotatorio del corpo. Guardo i suoi capelli rosso fuoco. Il viso è contratto in una smorfia e racchiude l'immagine del dolore dei suoi ultimi attimi di vita. Gli occhi verdi, intensi, sono spalancati, e anche la bocca è spalancata, pronta a gridare. La sua bellezza selvaggia è finita. Sparita. Peccato. Prendo ancora la macchina fotografica, inserisco un nuovo caricatore e comincio a scattare altre foto: la donna distesa sul tappeto, a mezzo busto, il profilo dei suoi seni, il volto, gli occhi, il suo naso curvato verso l'alto, le labbra, i denti lucidi. Poi un polso, un neo sotto l'oro del braccialetto, la mano insanguinata, le dita, le unghie. Le cosce, le caviglie, i piedi. Le sfioro un capezzolo che esce dallo squarcio nel vestito; sotto l'aureola bruna si scorgono dei graffi, sicuramente prodotti durante la lotta con l'assassino. Sono l'unico che si muove. Giro attorno al corpo, mi alzo, mi abbasso, mi inginocchio. Ogni tanto guardo furtivo quelli che mi stanno a guardare, mi rialzo. Il flash accende la stanza con bagliori bianchi, disegna dappertutto ombre di pochi attimi. Alla fine osservo le foto cercando indizi, quei particolari minimi che nella realtà sfuggono all'occhio e che potrebbero invece apparire in immagini come queste sfrondate da un contesto fuorviante e inutile. Cerco tracce, segni, informazioni che potrebbero rivelarmi l'identità dell'assassino. Ma non c'è nulla. Per la polizia saranno perfette: nessuno avrà da protestare; nessuno troverà nulla. Allora ripongo in tasca le foto. «Potete cominciare» dico brusco ai miei uomini. «Io vado a dare un'occhiata ai filmati.» I miei uomini si muovono, vengono in avanti, si distribui233


scono tra i presenti. «Non ne uscirete puliti!» dico. Li osservo tutti di sfuggita. Sorrido asciutto sul borbottio di voci che segue le mie parole. Quando sono vicino alla stanza video mi prende un senso forte di soddisfazione per gli sviluppi imprevisti della serata: le mani mi tremano, le dita fremono. Una volta dentro do un'occhiata svogliata ai pochi monitor collegati a quelle telecamere la cui presenza è nota anche alla marchesa. Poi compongo col telecomando la combinazione per l'apertura che accede alla mia stanza segreta, quella che nasconde gli schermi delle altre telecamere, le mie. Scivolo oltre il pannello scorrevole, lo richiudo. Mi assesto nella sedia girevole circondato dagli schermi accesi e riempio occhi e cervello con le immagini. Con un piede imprimo un moto rotatorio alla sedia, schermi e schermi mi sfilano davanti, aumento la spinta e giro e giro schiacciato contro lo schienale, e la realtà piatta è di colpo una composizione di sequenze sovrapposte, le figure diventano scie di luce e macchie di colore che guizzano: teste e occhi, braccia, mani, dita, corpi, bocche, le piante nel parco, i musi grotteschi delle scimmie nella gabbia, lo sfavillio confuso dei lampadari nelle sale, i getti verso l'alto dell'acqua nelle fontane, la polvere d'acqua che scende, ancora teste e occhi, corpi, braccia, un tavolo, le mani, i movimenti, gli spostamenti, le frazioni di spazio occupate e abbandonate da porzioni di corpi, o da oggetti o luci, i giochi di chiari e scuri, le ombre allungate, i bordi luccicanti, le scie saettanti. Ogni persona, cosa, oggetto insegue ogni altro. Tutto diventa simultaneo. La rotazione amalgama, compri234


me e fonde. Quando mi freno la testa mi gira. Negli otto schermi centrali vedo i miei agenti continuare con solerzia i loro controlli inutili. Proseguono infaticabili con le loro domande; fedeli agli ordini riempiono le pagine dei loro taccuini con nomi, date, fatti. Informazioni di nessuna importanza. Torno nella stanza di controllo delle telecamere ufficialmente note. Arresto un videoregistratore collegato a una delle telecamere nel parco. Prendo il nastro e rientro nel mio covo segreto. Infilo il nastro in un videoregistratore, lo riavvolgo e poi attivo la funzione di riproduzione. Subito in uno schermo appaiono le immagini della gabbia con le scimmie. Faccio scorrere il nastro in avanti mantenendo le immagini sul video. Alcuni ospiti arrivano da sinistra, si fermano, guardano gli animali; poi schizzano a destra e fuori dallo schermo. Passano davanti alla gabbia come scie di colore. Poi ne arrivano altri; si fermano, se ne vanno. Poi altri ancora. La scena si ripete uguale fin quasi nei particolari; cambia solo il numero degli ospiti e i loro gesti che la velocità riduce a frammenti insignificanti di gesti. Di nuovo e di nuovo fin quando tutti gli ospiti sono ormai dentro la villa e la gabbia rimane l'unico elemento sullo schermo. Allora riavvolgo il nastro e le persone arrancano all'indietro velocemente con passetti meccanici. Poi altre persone. E altre ancora, e altre, fin quando finalmente scorgo ciò che sto cercando e blocco il nastro e lo rimando in avanti a velocità normale. Ecco l'uomo con i baffetti e il sorriso idiota. Lo vedo camminare dietro a un gruppetto di ospiti. Gli ospiti si fermano, l'uomo si ferma. Come tutti anche loro guardano le scimmie per alcuni secondi, poi il gruppetto si allontana e l'uomo rimane da solo per alcuni altri istanti prima di andar235


sene anche lui. Fermo l'immagine, controllo il contagiri. Riavvolgo tutto il nastro e da uno degli scaffali prendo un nuovo nastro; lo infilo in un altro videoregistratore, poi inizio a copiare il nastro già inciso nel nastro nuovo. In breve ho finito il montaggio. Nella copia ho spostato la sequenza in cui appare l'uomo coi baffetti. Ora l'uomo è uno degli ultimi ad arrivare, uno degli ultimi ad osservare le scimmie. Ho anche allungato il tempo di sosta dell'uomo davanti alle gabbie bloccando l'immagine nel nastro originale e continuando a copiarla nel secondo nastro. Poi ho tagliato via minuti di immagini inutili che descrivevano i movimenti lenti delle scimmie in gabbia, accorciando cosÏ i tempi tra l'uscita dell'uomo dallo schermo e la nuova sequenza interessante. Riavvolgo il nastro e lo riproduco ancora una volta cercandovi eventuali tracce che mostrino l'operazione di montaggio: l'uomo coi baffetti sosta a lungo davanti alla gabbia, poi se ne va e la gabbia e le scimmie rimangono padrone dello schermo per un po'. Pochi minuti piÚ tardi la luce che illumina le gabbie salta d'improvviso, e nella penombra prodotta dalle altre luci del parco si intravede una figura in frac proveniente dalla stessa direzione da cui l'uomo coi baffetti se n'era andato. Si vede la figura avanzare furtiva verso la gabbia, armeggiare con la serratura, aprire la porta di metallo, afferrare una scimmia e richiudere la gabbia e allontanarsi verso la sala della festa con la scimmia stretta tra le braccia. Poi la gabbia e le scimmie riempiono di nuovo lo schermo per altri minuti. Blocco il nastro. Mentre lo riavvolgo fisso soddisfatto la 236


matrice di monitor davanti a me. Il montaggio mi sembra perfetto, il contenuto semplice, evidente: le modifiche accentuano l'interesse dell'uomo per la gabbia delle scimmie; la sua sosta troppo lunga spicca per contrasto con quella di pochi secondi degli altri; la sua figura in frac crea relazioni lampanti con la figura dell'uomo irriconoscibile che apre le gabbie e trascina la scimmia tra la folla per creare un diversivo e compiere così più facilmente il delitto. Come non pensare a un legame stretto tra i due? Come non immaginare che l'uomo coi baffetti e l'assassino siano la stessa persona? Mai a nessuno verrebbe in mente di pensare di associare la figura misteriosa al capo dei Servizi di Sicurezza. Di pensare che ho falsificato i nastri. Che ragione avrei di farlo? Io sono il capo dei Servizi di Sicurezza; io sono l'addetto al controllo. Perché dovrei mancare al mio dovere? Che ragione avrei per alterare le immagini? I fatti sono documentati, ci sono i filmati; la realtà che presento è certa. Innegabile. Ci sono le immagini. Ci sono le telecamere, testimoni fedeli. Le immagini non mentono. Mai. Sfilo il nastro dal videoregistratore. Apro la porta, me la chiudo bene alle spalle ed esco anche dalla seconda stanza dei video. Torno verso la sala della festa. La polizia è già arrivata, l'ho visto dai monitor, e sicuramente saranno contenti quando sapranno del nastro; vogliono sempre buone prove loro, e questa volta non saranno delusi. E già me li vedo a dirmi che è stato un bene che ci fossi io a controllare, e che col nastro scopriranno subito l'assassino. Sono sicuro che me lo diranno. E ci sono anche gli altri nastri, gli dirò io molto soddisfatto, c'è una stanza di controllo e ci sono altri nastri, e due telecamere sono a infrarosso, e io non li ho ancora controllati, ma sono sicuro che esaminando quei nastri 237


lo troverete l'assassino. Certo. Sono sicuro. Certo, mi diranno loro, e prenderanno i nastri e li guarderanno, e guardandoli si accorgeranno del tipo coi baffetti vicino alla gabbia delle scimmie, e così qualche guaio glielo farò passare. Le sue beghe e i suoi intrallazzi verranno fuori. Sicuramente ci sono, tutti abbiamo sempre qualcosa da nascondere, sicuramente anche lui i suoi peccatucci li avrà. Ma le immagini di questo nastro sono pulite e avrò tutta la notte per vedere e pulire i film delle altre telecamere, così non scopriranno nulla di certo. A operazione finita del volto dell'assassino non ci saranno tracce. Forse se ne vedrà il corpo, un corpo molto simile a quello dell'uomo coi baffetti, e forse si vedrà anche quel corpo mentre infila la lama nella schiena della vittima. Ma il volto no, quello purtroppo non si riuscirà mai a vederlo, perché la qualità delle immagini all'infrarosso non sarà perfetta, perché la confusione di corpi coprirà spesso gli spostamenti dell'assassino, perché l'assassino, quasi conoscesse la posizione delle telecamere, non si avvicinerà mai troppo alle telecamere, non rivolgerà mai la testa in modo da poter essere riconosciuto. Così gli indizi potranno soltanto favorire i sospetti: l'uomo, la gabbia, le scimmie, la gabbia aperta, la scimmia scappata, un diversivo per compiere il delitto, perché è stato così a lungo davanti alla gabbia, dov'era durante la festa, perché è l'unico che ha ancora la camicia allacciata, e la cravatta? Dov'era? Che faceva? L'ha vista qualcuno? Chi ha aperto la gabbia? Le solite storie. Perché, perché, perché? Chi? Le solite cose. Ma non riusciranno ad avere prove. Solo il sospetto. Ma anche il sospetto mi basta. Qualche guaio lo passerà anche lui. E quando non troveranno prove sarà il turno degli altri. Dov'era, cosa faceva, con chi? Perché? Perché? Lo do238


manderanno a tutti questi idioti mascherati da persone. E perché non ci sono impronte sul coltello? E dov'era quando ha sentito gridare? Ha visto niente o nessuno che possa aiutarci a identificare l'assassino? Conosceva la vittima? E anche la marchesa passerà qualche guaio per aver organizzato una festa come questa. La polizia sapeva e chiudeva gli occhi e intascava qualcosa, pochi spiccioli elargiti dalla marchesa, ma sufficienti a comperare il silenzio. Ma adesso, con un omicidio sulle spalle, come si fa a tacere, a far finta di non sapere? Eppure non scopriranno nulla: caso insoluto, assassino introvabile, caso archiviato. Assassino sconosciuto nonostante l'efficienza dei sistemi di sicurezza. Nonostante la presenza delle telecamere. Ma con chi se la possono prendere? Con me? coi miei uomini? Con le telecamere? O con l'assassino che ha fatto in modo di non farsi riconoscere durante l'omicidio? Percorro i corridoi, le stanze. Esco nel prato che circonda la villa. Passo davanti alla gabbia delle scimmie poi arrivo vicino alla piscina. Ignara, seduta sul bordo coi piedi a bagno c'è Virna, la figlia della marchesa. Come sempre distante da quanto le accade attorno, fa ciò che l'ho sempre vista fare da quando lavoro qui, la sola cosa che sembra capace di fare: leggere. Leggere senza capire. Anche a quest'ora, anche con tutto quello che succede in casa sua e davanti a lei. Mi accosto. Mi vede, distoglie gli occhi dal libro e mi sorride e mostra i suoi denti bianchi e il suo sguardo lontano. Agita i piedi nell'acqua. Le sfilo il libro dalle mani; è un libro di poesie, Le effemeridi della luna nera del poeta russo Eisenkievich. 239


Scuoto la testa. Anche Virna scuote la testa. Sorride. Mi riprende il libro dalle mani. I suoi piedi creano onde concentriche nell'acqua. Torno a camminare verso la sala della festa col nastro in mano. «Dovresti stare meno appiccicato a quelle stupide telecamere!» mi grida dietro Virna. «Faresti meglio a leggere questo!» dice indicando il libro. Ride adesso. È allegra. A modo suo attraente, forse proprio per la distanza che riesce a mettere tra lei e le cose del mondo. Mi giro verso di lei e le sorrido anch'io, ma non le dico niente. Macerata 1991

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GRADAZIONI DI ROSSO

Siamo già a metà strada sul dorso della montagna; tira vento. Indico la cima del picco di fronte a noi. «Credi farà freddo lassù?» chiedo. «Non so, forse» dice, poi mi lancia un’occhiata rapida e sposta lo sguardo dal mio dito alla montagna. «Non è alta però» dico. «È più di quel che sembra da qui. Da quaggiù sembra più bassa.» «Chissà se farà freddo lassù» ripeto. Restiamo immobili, rivolti verso la cima; contempliamo la sua forma strana. «Non ti sembra un uncino rotto?» chiedo. «A me sembra più la zanna di un leone marino. È proprio come una zanna di leone marino.» «Così rossa?» «E l’uncino tu dove lo vedi? Ti sembra un uncino quello? Se quello è un uncino può anche essere una zanna di leone marino.» «Mah...!» dico. Rimaniamo in silenzio per alcuni secondi. Mi volto verso di lui. «Che ora è?» chiedo. 241


«Quasi le sei. Se vogliamo arrivare in cima dobbiamo sbrigarci!» «Beh, arriviamo col buio in ogni caso.» «Se ci sbrighiamo ce la facciamo prima che venga buio. Vorrei essere lassù prima che faccia notte.» «Sì...» rispondo. Però non voglio correre. In effetti non mi importa se arriviamo al rifugio stasera; mi piace dormire all’aperto, col cielo e le stelle sopra di me. Non ho voglia di correre. Lanciamo un’ultima occhiata al monte prima di riprendere il cammino. Guardo anche in basso, alla valle ondulata sotto di noi. È come trovarsi immersi in un mare denso di inchiostro rosso. Forse per via di quei cespugli fitti dalle foglie rosse; o per la terra rossastra e le rocce. Anche l’erba ha tinte secche, verdi pallidi sbiaditi nel giallo. «È bello da qui eh?» dico. «Sì, ma quelle foglie fanno un po' impressione. Non avevo mai visto delle piante con foglie così rosse...» «È che ce ne sono tante! È quello che fa impressione.» «Mai capitato di vederne di così rosse!» ripete. Riprendiamo gli zaini, ce li carichiamo sulle spalle. Continuiamo a salire e camminiamo per un po' lungo il sentiero; di tanto in tanto tagliamo le curve procedendo tra erba e sassi. Più tardi raggiungiamo le scale. Non le avevamo notate prima; ci fermiamo lì vicino. Le scale spariscono giù, in qualche punto a valle. Vanno su, verso l’alto, probabilmente conducono al rifugio. Sono strane in un posto come questo. Sono costruite con pietre irregolari appoggiate l'una vicina all'altra. 242


Le osserviamo, ci riposiamo. Dopo qualche minuto ricominciamo a salirle senza dir niente, i nostri passi sono lenti e misurati dalla larghezza delle scale. «Queste scale sono incredibili!» dice dopo un po' che saliamo. «Non capisco perché hanno messo queste scale proprio qui.» «C’è il rifugio in cima. Comunque nessuno ci obbliga a salirle. Se non ti va possiamo anche camminare sull’erba.» «No, no, va bene qui, con queste si fa prima. È solo che non capisco chi gliel’ha fatto fare di metterci tutte queste scale!» «È un modo come un altro di fare qualcosa. C’è chi le scale le fa e c’è chi le sale. È un modo come un altro...» «Non mi pare dei più geniali! Soprattutto qui. A che servono qui? Per salire? Ma se volevano metterci qualcosa per salire potevano anche metterci una funivia; una funivia era più pratica no?» «Così è più divertente però» dico, lo guardo. «Però non è economico! E poi sai che fatica che hanno fatto!» «E che ti frega dell’economia? Le scale mica ce le hai messe tu. Saliamo le scale; che ti frega dell’economia?» «Niente, ma...» «Allora siamo a posto. Saliamo le scale. Al diavolo con l’economia!» «Però non è logico.» «Al diavolo con la logica! Sali le scale e al diavolo!» Mi guarda di traverso, posso leggere l’incertezza nei suoi occhi. «Sei scocciato?» chiede. «Non sono scocciato; sto solo provando a salire queste dannate scale! Solo questo...» Non dice altro. Mi guarda ancora, poi finalmente si gira ver243


so le scale. Continuiamo a salire; le nostre scarpe sollevano sbuffi bassi di polvere rossastra trascinata dal vento sulle scale. Non è spiacevole camminare. Il cielo è molto azzurro, molto luminoso; non ci sono nuvole, solo un vento leggero e questa valle rossa e le montagne attorno. Le scale tracciano una linea più chiara nel rosso, salgono fino alla base della punta e scompaiono dietro, non si vedono da qui. «Chissà a che servono?» dice ancora. «Le scale?» «Già. Chissà a che servono quassù?» «Se vuoi camminiamo sull’erba.» «No, no, te l’ho detto, qui va bene. Solo che ancora non capisco a che servono.» «Per salire» dico. «Anche per scendere. Dipende.» «Va bene, va bene, ho capito. Accidenti alle scale!» «Al diavolo!» dico. Alzo un braccio mentre cammino. Mezz’ora dopo stiamo ancora salendo le scale. È faticoso ora, non sono sicuro che mi piacciano molto ora. Mi prude un orecchio, ho voglia di bere un goccio. Sgancio la borraccia, tolgo il tappo, bevo a lunghi sorsi e l’acqua scende fresca nel mio stomaco. «Ne vuoi?» gli dico. Lui ruota la testa verso di me, annuisce. «Sì, dammene un goccio» dice. Ne beve un buon goccio. «Oh, va meglio adesso» dice. Mi restituisce la borraccia e sorride. «Ti va di parlare?» chiede. 244


«Delle scale?» «Al diavolo con le scale!» «Allora parliamo.» Esita prima di cominciare. «Perché sei voluto venire con me?» chiede. «Non dovevo?» «No, non è questo. Voglio dire... vorrei parlare con te. Non... insomma, sai quello che voglio dire. Non ti importa di quello che è successo?» «Cosa?» «Di me e di lui... Non ti importa di questo?» Mi fermo un momento. «Tu credi che non mi importi?» domando, gli lancio un’occhiata veloce che lui evita di cogliere. «No, non lo so. Appunto chiedevo...» «Ecco. Allora me ne importa.» «E perché mi hai invitato allora? Voglio dire, perché siamo qui adesso?» Ora è lui a cercare i miei occhi. Ci fermiamo ancora. «Siamo amici no?» dico. «Sì, ma come puoi...» «Non vedo il nesso» dico. Di nuovo lui si gira verso di me, mi guarda, i nostri occhi si incontrano per un istante. I suoi occhi sono socchiusi per via della luce del sole diretta che gli cade sul viso. Riprendiamo a salire le scale. «Quella è un’altra cosa» dico. «Qui saliamo queste dannate scale per arrivare in cima» indico la vetta. «Quella è un’altra faccenda.» «Ma come un’altra faccenda? Come puoi dire che quella...» «Qua ci siamo solo noi no? Lui non c’è adesso. Siamo amici, e lui adesso non è qui, né con te né con me. Quella è un’altra faccenda.» 245


«Sì, va bene, ma io e lui...» «È qui con noi adesso?» «No, però...» «Non c’è. Allora quella è un’altra faccenda.» «Ma come fai a dire che quella è un’altra faccenda? Siamo qui, io e te, e lui... Come fai a dire che...» «Quella è un’altra cosa ti dico!» Si ferma di nuovo. «Se non ti va di parlarne puoi anche dirlo.» «Ok, non mi va di parlarne. Va bene adesso?» «Beh...» «Non mi va di parlarne. Non c’è niente da dire. Le cose stanno così. Non c’è niente che possiamo fare per cambiarle.» Allargo le braccia. «Ha scelto te, e io non posso farci niente. Poteva restare con me, ma non l’ha fatto. Non posso farci niente. Se stava con me eri tu a starci di merda ora. Ha scelto te, di merda ci sto io. Così vanno le cose. Cosa c’è da dire? Niente.» «Ma tu mi hai invitato qui. Io credevo che volessi stare da solo con me così potevamo parlare!» «Non c’è più niente da dire. Ti ho invitato perché siamo amici. Questo è tutto.» «Va bene, se non ti va di parlarne non ne parliamo» dice. «Bene, non ne parliamo. Non c’è niente da dire.» Per un po' camminiamo in silenzio. Non abbiamo parole da aggiungere. I minuti sono riempiti dai suoni leggeri prodotti dai nostri passi sulle scale. Ogni tanto insetti ci ronzano attorno alla testa per attimi, ci esplorano e subito volano via. Il resto è silenzio. L’aria è fresca.

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Lentamente la pendenza delle scale cambia, diventa più dolce perché c’è un tratto di salita più lieve. Le scale sono anche più larghe ora, è come se la montagna volesse finire lì, alla base di quel picco di fronte a noi. «Da qui non sembra più una zanna di leone marino» dice d’improvviso; la sua voce è più rilassata ora. «Sembra soltanto una montagna strana, molto stretta. Annuisco. Ci voltiamo indietro, verso il percorso già fatto, alle scale che scendono giù fino a valle. Così rossa è molto strana; è come essere in un altro pianeta, un mondo diverso. Marte. «Accidenti com’è rosso!» dico. «Hai visto le scarpe?» dice. Guardo le scarpe: uno strato di sottile polvere rossa le ricopre. Sono così rosse che si confondono quasi col terreno. Le sbatto forte contro i gradini e alzo sbuffi rossi. «Si sta facendo notte» dico. Il cielo comincia a tingersi di arancioni diversi, azzurri cupi e strisciate di giallo. Il sole è ormai a metà dietro la cresta di un monte. I colori sono molto netti, asciutti, poco filtrati dall’atmosfera. «Siamo già alti eh?» dico. «Abbastanza.» «Ci conviene fermarci qui per stanotte.» Lo guardo, sorrido. «Al rifugio ci arriviamo domattina. Non è prudente salire col buio.» Lui non risponde subito. È catturato dall’ultima fetta di sole che scompare; i suoi occhi sono socchiusi. «Va bene, fermiamoci qui» dice quasi in un bisbiglio.» Per un po' cerchiamo un posto pianeggiante per la tenda. «La possiamo mettere lì» dico quando vedo un punto adatto vicino alle scale. Lui annuisce. Ci togliamo gli zaini. Apro il 247


mio ed estraggo la tenda. «Comincia a far fresco eh?» dico, di nuovo apro lo zaino, cerco il maglione pesante, me lo infilo. Quando abbiamo montato la tenda è già praticamente notte. C’è una luna piena che illumina intorno. La valle è come risplendente, le montagne sembrano impregnate di rosso intenso. Anche di notte, col bianco della luna, la valle emana riflessi rossi. «Facciamo un fuoco?» chiedo. «Con cosa?» «Con quei cespugli lì» indico i cespugli rossi attorno a noi, le foglie rosse. «Sono così rossi che sembrano già accesi.» Annuisce. Ne raccogliamo una decina senza fatica strappandoli direttamente con le radici. Le foglie sembrano molto secche, ruvide. «Secondo me non bruciano» dice. «Ma se sono secchi!» Li accatastiamo l’uno sull’altro, in una sorta di semicerchio. Dalla tasca estraggo la scatola dei fiammiferi, accendo un tovagliolo di carta e lo infilo alla base del mucchio di cespugli. Immediatamente prendono ad ardere, scoppiettanti, con poco fumo, si dissolvono nelle fiamme. «Hai visto come prendono?» dico. Annuisce, dice «Ce ne vogliono altri però...» Andiamo a prenderne altri, li appoggiamo sull’erba, per terra vicino al fuoco. Ci sediamo, ogni tanto ne lancio uno sulla fiamma per ravvivarla. «È bello qua eh?» fa lui. «Già» dico. Lui ispira molto forte l’aria fresca della notte, di248


stende le braccia in alto, coi pugni chiusi. Mi alzo, vado verso lo zaino e apro una delle tasche. Torno con una busta di cuoio lunga e stretta. Mi siedo. «Cos’hai lì?» chiede. «Un coltello.» Lo sfilo dalla custodia, lo afferro per il manico con la lama rivolta verso di lui. «È un regalo» dico. Glielo mostro, glielo porgo. «È un bel coltello» dice lui. La lama splende, quando la inclina vi si riflette una scheggia di luna. Guarda il coltello per un po', poi me lo restituisce. Io afferro uno dei cespugli rossi e col coltello ne taglio via la cima con un colpo solo, netto e preciso. «Accidenti come taglia!» dice. «L’ho fatto affilare quando ho saputo che venivamo quassù» dico, gli lancio un’occhiata rapida. «Può essere utile» aggiungo. Lui mi guarda, apre la bocca come per dire qualcosa, ma poi si ferma, non dice una parola. So che vuole parlare ancora. Rimango in silenzio e continuo a tagliare pezzi del ramo con colpi sicuri. Mi piace usare il coltello. I pezzi di ramo schizzano via attorno a noi. Il fuoco gli lancia sul volto ombre guizzanti. Abbiamo tempo per parlare, per dirci quello che dobbiamo. Abbiamo tutta la notte. Padova 1987

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LA SCOPERTA DELL'ANIMA

Ancora una donna, l'ottava, da quando ha cominciato a uccidere.

Ma questa volta anch'io gioco il mio ruolo, i miei occhi hanno visto, io ero lĂŹ nella sala rotonda al secondo piano. Vetri attorno, specchi in cui la mia immagine si moltiplica, si perde in labirinti. Camminavo, come le altre volte, mi piace percorrere queste sale vuote, quando i negozi sono giĂ chiusi e i miei passi risuonano sui pavimenti sporchi di impronte, macchiati di liquidi. Camminavo, solo, lentamente, e vedo spuntare la donna, come una visione. Silenziosa, quasi emersa dagli specchi. Bionda, alta, il suo corpo sinuoso che si allontana da me, verso le luci, i riflessi percepiscono i suoi movimenti, la duplicano. Allora vedo questa figura scura apparire d'improvviso, un uomo sfigurato, o senza volto, o con un volto che non riesco a catturare. Scivola verso di lei e lei non se ne accorge, io mi avvicino, guardo non visto. La figura scivola verso di lei, un braccio ruota verso l'alto, comincia una danza col coltello in mano, afferra la donna e insiste con la lama su di lei, mentre lei urla, mentre il sangue spilla da lei come un torrente luminoso, la ricopre come un manto purpureo. Il coltello entra veloce nelle nuove aperture della carne, ne esce, ripete ancora e ancora l'esecuzione dell'affondo. Guardo, riparato dietro una colonna, incapace di distaccarmi dalle immagini di lei che urla, lei che si accascia a terra a bere i suoi liquidi, lei immobile ormai, priva di vita. L'assassino ha compiuto il suo rituale. 250


Nessuno in giro, io soltanto ho assistito all'evento, l'assassino si muove, cerca attorno a noi qualcuno, ma soltanto io ho visto, solo io ero presente. Li seguii. Li vidi muoversi come un solo corpo. Lei nelle sue braccia, il suo corpo dondolare, i capelli biondi che sfiorano i pavimenti. Li seguii lungo le strade buie, fino al covo dell'assassino, il luogo dove lo vidi scaricare il corpo nella gabbia, la donna nella gabbia. Poi lo vidi tornare lungo le strade, usare la notte e le strade per nascondere la gabbia. Scostare le pietre del selciato, ammucchiarle di lato, scavare un foro nella terra, gettare la gabbia nel foro, usare la notte e le pietre per nascondere la gabbia che nascondeva il corpo. Fu allora che mi vide, forse vide la mia ombra, non so, non ha più importanza ora. Ricordo i suoi occhi, non la sua faccia. Fuggo veloce, fuggo nella notte e non odo i suoi passi rincorrermi, ma so che la memoria dell'assassino ha catturato il mio volto e che presto sarà su di me per ripetere la danza del coltello, per eliminare i miei occhi che hanno visto. Corro fin quando raggiungo la porta della mia casa. Giorni dopo, la paura ancora mi abita. Ho parlato con la polizia; l'investigatore a cui il caso è affidato si affida a me sperando invano nella mia capacità di identificare, riportare, porre fine a questo. Mi chiama al telefono, assieme camminiamo nella strada dove una nuova gabbia è stata ritrovata. Camminiamo e l'uomo fa domande, aspetta da me risposte che io non posso dare. La folla è attorno alla gabbia, curiosa. Uomini della polizia contengono a fatica i corpi della folla. Le strade pullulano di movimenti. I venditori di spezie chiamano i clienti e mostrano la merce nei mantelli colorati aperti a terra. Mi sorridono, con la stessa felice espressione dei venditori di droghe che incontriamo nelle strade più buie e più vicine al covo dell'assassino. Non ricordo bene, cercare di ricordare è come affrontare le complessità di un labirinto. Scendiamo scale, saliamo strade, 251


saliamo scale. Il sole emerge a tratti, spicca nell'oscurità, illumina i ciottoli a terra, li infiamma come pepite d'oro. Quale, tra queste rocce, nasconde altre gabbie, altri corpi? L'investigatore mi sorveglia, mi protegge. Altri uomini della polizia si muovono invisibili attorno a noi. L'assassino uccide donne, solamente donne, dice l'investigatore, non devo preoccuparmi. Eppure so che è in cerca del mio corpo, in cerca dei miei occhi che sanno, che hanno visto. D'altra parte, un dubbio mi prende e non mi lascia lungo il cammino: l'assassino sa che io non posso identificare i tratti del suo volto, sa che non potevo vedere. Perché mi cerca allora, perché ho la sensazione di sentire l'eco dei suoi passi seguire il suono dei nostri passi, ora che scendiamo, ora che frammenti di ricordo riaffiorano e mi indicano percorsi? Ci avviciniamo al suo covo. Lo so, ora lo so. Infatti riconosco la casa. Quella. Se è donne che vuole, perché sento il suo fiato su di me? Il dubbio non mi abbandona quando entriamo nella casa, quando troviamo le gabbie, le catene, macchie di sangue, la stanza vuota e, nella stanza, lo specchio che riflette i nostri corpi. Perché io? mi chiedo, ma non c'è tempo per pensare; la rivelazione è come un lampo di luce che invade l'oscurità della stanza. Nello specchio ammiro la trasformazione, contemplo i tratti armoniosi del mio volto, i miei capelli biondi e lunghi, le mie labbra sottili, i contorni del mio nuovo seno nascosti dal vestito. Nello specchio ho il tempo di incontrare gli occhi dell'investigatore, occhi che ho già visto, occhi che mi aspettavano, occhi che appartengono a un volto oscuro, sfigurato in un nulla che d'improvviso comprendo. La lama del suo coltello luccica alle mie spalle, il suo riflesso affonda nel riflesso del mio corpo mentre io esprimo il dolore col mio urlo, e il sangue spilla caldo via da me, e mi inonda, ancora e ancora, fin quando la mia mente diventa muta, il mio corpo... Albany 1989

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TERRITORI INSTABILI

Salivamo dalla strada che esce dal villaggio. La gente era

attorno a noi a guardarci mentre ce ne andavamo dal loro territorio, ma non sapevano che quello era anche il nostro territorio. Gruppi di bambini presero ad attaccarci mentre affrontavamo la collina. La strada era aspra e infangata, la neve che si scioglieva rendeva difficile la salita. Gruppi di bambini presero ad attaccarci. Venivano avanti due o tre per volta, certo, ma erano tanti, decine, centinaia. Scalciavano e ci tiravano sassi, e ci urlavano in faccia. Non sapevamo più come difenderci senza far loro del male. Intanto eravamo riusciti a trovare lungo la collina un mezzo più rapido, un calesse sporco con due cavalli vecchi che riuscivano a tirarci. Quando i bambini ci attaccarono di nuovo con i sassi e i pugni io estrassi la pistola e la puntai addosso alla bambina che mi era più vicina e che col pugno tratteneva qualche cosa. I miei compagni mi urlarono di non farlo, ma era troppo tardi e io premetti il grilletto. Nulla. La pistola non funzionava su di loro. E così la bambina riuscì ad avvicinarsi troppo e scagliò addosso a noi una polvere bianca che luccicava. «Attenzione!» gridai. Ma anche questa volta era troppo tardi 253


e la povere ci prese. E dopo questo è chiaro che fummo facile preda dei bambini; riuscirono a tirarci fuori dal calesse senza sforzo, ci strappavano le mani quasi a forza di tirare, e due mi portarono indietro al paese, perso nei vicoli e poi dentro a una casa. Lì c'erano altri bambini assiepati in assemblea. Mi aspettavano. Una bambina più grande delle altre cominciò a urlarmi che non avrei dovuto attraversare la città, contaminarla con le nostre radiazioni. Aveva lunghi capelli neri raccolti in trecce. Tre o quattro trecce. «Non siamo stati noi a portare le radiazioni» le dissi, ma lei continuò a urlare e allora tutti gli altri bambini si unirono a lei e ben presto fu un coro che si rivoltava contro di me. Era chiaro che volevano uccidermi. Di nuovo provai a sparare, ma la pistola rimase un gingillo inerte e freddo tra le mie mani. Risero tutti vedendo il mio gesto. Avevo paura. Però non so come riuscii a scappare da quella casa mentre i bambini gridavano e si preparavano ad attaccarmi. Forse fu un attimo di distrazione delle due guardie alla porta, era troppa l'eccitazione per avermi come preda, non so, ma sgusciai tra di loro e giù per le scale e presto fui fuori e allora ripercorsi indietro i vicoli stretti fino al sentiero che saliva. Sapevo che quella era la sola via d'uscita. I bambini mi inseguivano, ma potevo correre più di loro e li distanziai. Non so neanche come ma arrivai in cima. Non ricordo bene. Stanchissimo. Anche gli altri erano lì. Eravamo tutti lì, no, non tutti, perché alcuni di noi erano rimasti nelle mani dei bambini. Fatti a pezzi forse. Spariti comunque, e il gruppo così come lo conoscevamo e lo amavamo era finito ormai. Comunque i bambini ce li eravamo lasciati dietro; la pistola aveva ripreso a funzionare da poco, quando ero nei pressi della cima, dove è probabile che il campo di forze fosse minore. Allora l'avevo usata, e due 254


bambini erano svaniti nel nulla mentre lottavano per raggiungermi. Era servito a tenere gli altri a distanza. Ora sedevamo in cima, ma non sapevamo più bene come comportarci. Eravamo intristiti da quello che era successo. Per quelli di noi che non ce l'avevano fatta. Preoccupati. Sapevamo che non sarebbe finita lì; né sarebbe stato facile dirlo ai capi. E in più c'era la faccenda della polvere bianca che luccicava. Quali conseguenze avrebbe avuto sulla città? La città era ancora lontana. La vedemmo dopo un altro giorno di cammino senza sosta. Era in cima alla montagna e si distingueva facilmente anche da lontano per via delle due piramidi ai piedi delle zone speculari che spiccavano nere contro il rosso del cielo. Arrivammo che era già notte. I sorveglianti ci lasciarono entrare subito, perché ci avevano riconosciuto; invece entrare nel palazzo non fu così facile. Eravamo cambiati, soprattutto agli occhi dei custodi delle porte che non potevano vedere bene come gli altri e si accorgevano soltanto delle mutazioni esteriori. Ma in fondo quello era il loro compito, e non potevano sapere degli effetti della polvere. Noi sì invece, li conoscevamo, o almeno credevamo di conoscerli, ma bisogna ammettere che non avevamo dato troppo peso all'episodio della bambina che ci tirava addosso la polvere, o forse avevamo volutamente cercato di dimenticarlo per non spaventarci troppo. E poi, fin tanto che viaggiavamo in gruppo compatto non avevamo la possibilità di confrontarci se non tra noi, e così gli effetti della polvere non erano visibili. Ma non appena fummo dentro il palazzo e incontrammo altra gente che camminava per le strade illuminate subito ci fu chiara la differenza tra noi e lo255


ro. Avevamo sottovalutato gli effetti di quello che ci avevano scagliato addosso. E poi c'erano le radiazioni, troppe. Ci trascinavamo dietro anche quelle e non potevamo far nulla per scrollarcele di dosso. Vivevano con noi ora e ci nutrivano. Noi eravamo immuni ormai, ma che effetto avrebbero avuto sugli abitanti della città? Eravamo pericolosi? I Consiglieri se ne accorsero subito guardandoci e leggendo a terra i colori delle mappe vive che segnalavano le linee di confine e lo stato di salute del territorio. «Non posso credere che vi siate comportati così stupidamente!» ci urlò il Capo del Consiglio. «La città si restringerà! Guardate, guardate voi stessi i segnali di minaccia che emanano i confini!» e ci indicò le linee che noi tutti conoscevamo bene fin da bambini. Ma quelle linee ora avevano perso la loro aura bianca a cui eravamo abituati; erano diventate verdi nel momento stesso in cui eravamo entrati nella Sala del Consiglio e ora pulsavano e ronzavano come grandi animali alati affamati appena risvegliati. A quella vista tutti capimmo fino in fondo la portata di quanto avevamo compiuto, delle disgrazie che stavano per caderci addosso. Ora l'intera città era in pericolo per causa nostra. «Dovrete essere giudicati per questo» disse il Capo del Consiglio. «E puniti severamente!» Poi fece radunare tutti gli esperti e ordinò loro di studiare piani d'azione per poter catturare i bambini e strappare loro il segreto della polvere. Non era facile, e tutti noi lo sapevamo, ma cos'altro si poteva tentare ormai? Per non parlare poi delle radiazioni che distorcevano i campi in maniera vistosa davanti a noi. Ma a quello almeno c'era un rimedio più semplice e se ne sarebbero occupati in seguito, semmai la città avesse avuto un seguito. Poi, mentre gli esperti partivano per la valle guidati dai colonnelli noi fummo accompagnati verso gli ascensori e 256


a quella vista tutto infine ci fu chiaro. Non potevano esserci equivoci sul significato degli ascensori. Sulla loro destinazione. Ma entrammo ugualmente, in fondo eravamo stati noi stessi i fautori del nostro destino. Intanto le mutazioni avevano preso un corso inaspettato e non sapevamo più bene chi eravamo e cosa avevamo fatto. Neppure i sorveglianti riuscivano più a distinguerci l'uno dall'altro, eppure loro erano nati per sorvegliare e i loro occhi addestrati avrebbero dovuto riconoscere le differenze. Era forse quello il primo segno evidente che la città stava cambiando anch'essa? Non riuscivamo più a muoverci, e ci spinsero a forza fuori degli ascensori affondando le mani nei nostri corpi molli. E poi ci accorgemmo tutti, o sarebbe meglio dire che tutti lo sentimmo nello stesso istante, come un click, un battito d'ala nell'unica mente rimasta, che le mani di chi ci spingeva si stavano trasformando. Ma gli uomini se ne accorsero subito e urlarono di rabbia, insultandoci, volevano distruggerci con le pistole, ma non potevano più impugnarle, ma poi estraendo a fatica le mani tutto ritornò normale e così ci risparmiarono e riuscirono a spingerci fuori finalmente. Comunque ci impiegammo ore a uscire, e chi sa che non fossero giorni, ma non si poteva dire per via delle radiazioni. Però a quel punto nostri corpi di nuovo avevano gambe e tutto ormai sembrava ritornato alla normalità. Anche noi ricordavamo tutto di nuovo. Forse ciò era dovuto alla notizia che gli esperti erano sulle tracce dei bambini, notizia che spargendosi per la valle aveva già prodotto i suoi effetti benefici, o era anche possibile che fossero veramente trascorsi giorni, così che alcuni dei bambini erano stati già catturati e il segreto della polvere luminosa era stato rivelato. Ma tali pensieri ci parevano peccare di troppo ottimismo, per cui e257


vitammo di fare congetture ulteriori. E poi il destino della città non aveva ormai più attinenza con le nostre vite. Sicuramente saremmo stati condannati e questo doveva essere era il solo problema di cui preoccuparsi. Ma chi tra voi non sarebbe curioso di sapere cosa c'è in serbo per la città in cui è nato e cresciuto, anche quando sa che la propria fine è così vicina? Intanto ci eravamo affacciati oltre la recinzione della piramide della prima zona, quella speculare. Da lì per via della luna piena si vedeva bene tutta la valle anche se era notte. E poi ovviamente si scorgeva dall'altra parte la piramide della seconda zona, quella speculata. Ma per via della prospettiva quella da qui sembrava più grande della piramide dove ci trovavamo e la cosa ci confondeva molto. Inoltre i nostri riflessi potevano essere sparsi dappertutto in quel posto, per cui lottavamo con la ragione per riuscire a sapere quanti di noi erano lì sul terrazzo a guardare la luna e ad aspettare la fine, e quanti altri fossero invece pure speculazioni, giochi di luce o riflessi di riflessi che sedevano tutti assieme sul terrazzo a guardare la luna e giù la valle e aspettavano la fine. «La città è salva!» grido qualcuno da basso. Ma subito una voce gli fece eco gridando «La città è perduta!» e noi si era da capo a non sapere il perché si gridasse a quel modo, né quale dei due gridi fosse da prendere sul serio, né chi di noi avesse gridato, anche se che fosse uno di noi a gridare, almeno di questo eravamo certi. Comunque passa altro tempo lì in attesa. I vigilanti senza rendersene conto sono stati investiti da troppe radiazioni così anche loro adesso sono con noi, si mescolano al gruppo e lo ingrossano e ci sorvegliamo tutti assieme anche se loro non vogliono essere accusati dei nostri stessi crimini. Poi finalmente vengono a prenderci altre persone ben rivestite con 258


tute protettive. «Sono due giorni che vi aspettiamo» dice uno di loro. «Non è possibile» rispondiamo, «due giorni fa lottavamo coi bambini, lontani dalla città. Non è possibile!». «Appunto!» risponde la figura nella tuta. E questo pone fine al dialogo e prendono a spingerci per farci salire nel tunnel che si infila nella piramide della zona speculare. È lì dentro, dopo chilometri al buio, che incontriamo l'uomo che deve giudicarci: vecchio, immenso, che gira nella stanza a cupola in cui ci hanno fatto entrare. È in cerca delle sue foglie da fumare quando entriamo e borbotta tra sé parole che rumoreggiano come tuoni lontani. Non ci degna di un'occhiata, o forse sul serio non si è accorto di noi, non ci ha visto o ci ha scambiato per qualcosa d'altro. Ma questo veramente è difficile da credere. I nostri corpi sono ancora quelli di sempre. Certo, le mutazioni sono in corso adesso, lo sentiamo nel sangue e nella temperatura del corpo, e in effetti noi non possiamo chiaramente essere coscienti sul fatto di essere quello che noi crediamo di essere o vediamo. Noi siamo così, normali ai nostri occhi, ma chi può sapere cosa vede lui? D'altra parte, a ben pensarci questo ragionamento è fallace, in quanto noi tutti sappiamo che l'essere destinato a giudicarci è immune dagli effetti apparenti della polvere e delle radiazioni. Quindi arriviamo alla conclusione che effettivamente ci ha visto e ci ignora volutamente per sue misteriose ragioni. Comunque continua a mostrarsi occupato a cercare le sue foglie da fumare. Intanto tutta la gente che ci ha visto arrivare si è raccolta attorno a noi. Le mutazioni ora si susseguono sempre più velocemente, senza mai ripetersi due volte e ci domandiamo cosa mai possono vedere gli altri di noi, dei nostri poveri corpi. E anche le radiazioni modificano l'ambiente, anche la cupola che ci fa da soffitto. Un campo 259


di forza immenso. Poi cominciano ad agire anche su quelli che ci stanno a guardare. Ora siamo noi ad essere normali, perlomeno ai nostri occhi, e loro invece a cambiare. Prima si assottigliano, diventano quasi trasparenti fino a ricordare le sostanze eteree degli spettri, poi si accomunano, all'inizio in gruppi di due o tre, poi ammassi più grossi. Quando sono tutti mescolati in una palla colorata ecco che la sentiamo esplodere e non rimane più nulla dei nostri spettatori. Ma questo, ce ne accorgiamo troppo tardi, è stato un diversivo del giudice per non farci capire che ci stava osservando. Vuole penetrare i nostri cuori mentre le menti erano distratte da qualche novità. Comprendiamo che lui ha finito con noi, quando il pulviscolo dell'esplosione si attenua e notiamo che anche il soffitto si è schiacciato completamente. Questo significa che gli esperti non sono riusciti a catturare neppure un bambino? Che la città è destinata a restringere i confini fino alle dimensioni di un punto? E chi mai può dirlo, in queste circostanze! A noi non resta che aspettare le parole del giudice; sappiamo che ha già preso la decisione su di noi, e non ci resta che aspettare. E poi ci avvicineremo al nostro destino, alla fine. Facciamo silenzio per ascoltarlo quando ci accorgiamo che apre la bocca per parlare. «La città si salverà» dice. «Ma dovrò tagliare territori a nord della zona speculare, perché è troppo tardi ormai per arrestare il processo che avete scatenato con la vostra presunzione». Poi ci guarda tutti a fondo, e per lui siamo trasparenti come il cristallo. «Per voi c'è il silenzio» ci dice con voce cupa. «Il silenzio» ripete. Macerata 1993

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LE FASI DEL SILENZIO

Tre mesi fa i Punitori mi hanno tagliato la lingua. Da allora

ho perso il contatto con il mondo dei vivi, con il mondo di coloro che fanno del silenzio una scelta e non, come me, una condizione inevitabile. Ho amato la parola e l'arte del parlare e vengo ora punita per aver tentato invano di usare contro i Punitori le armi che i Punitori più temono: le parole. Ora mi hanno resa innocua, mi hanno trasformata in un essere muto e invisibile. Ora posso solo ascoltare, provare emozioni per il mondo attorno che riesce ancora ad esprimersi malgrado tutto, nonostante la presenza dei Punitori. Ma mi è per sempre precluso dar corpo a idee e pensieri, e l'urlo della mia mente non potrà mai più trasformarsi in suono. Ma la punizione mi ha lanciata in un silenzio ben più profondo di quello impostomi dalla mancanza di voce. L'ingiunzione dei Punitori mi impedisce qualsiasi contatto con i normali. La tunica che sono costretta a indossare è il marchio inconfondibile della mia colpa e il segno della distanza. Nessuno può avvicinarmi; non devo avvicinare nessuno. Non posso far gesti né rivolgere lo sguardo verso qualcuno 261


per richiamare l'attenzione su di me; non mi è neppure concesso di atteggiare il volto in un'espressione che mostri la mia paura e l'angoscia che mi tormenta. O meglio: posso farlo. Ma ogni mia azione è ormai come un segnale di luce lanciato contro un muro nero e invalicabile: ogni mio gesto, ogni mio tentativo di comunicare è destinato a perdersi nel nulla. Per gli altri è come se fossi già sparita, morta. Quando vedono la mia veste nera sanno che non è possibile far più nulla per me. Qualsiasi tipo di reazione alla mia presenza potrebbe essere fatale per loro. Chiunque potrebbe essere una spia, uno dei Controllori, addirittura uno dei Punitori. Amano nascondersi tra la folla. O almeno questo è ciò che si dice, o probabilmente ciò che i Punitori stessi sono riusciti a farci credere. Ma la possibilità che anche uno solo tra i Punitori possa aggirarsi tra noi basta a scoraggiare qualsiasi iniziativa. Un solo gesto, un'occhiata di comprensione, sarebbe sufficiente a decretare la condanna. Il rischio di essere visti è troppo alto. Gli altri non possono sprecare le loro vite per così poco; non vogliono precipitare nel mio stesso buio, nel silenzio. Così da tre mesi non esisto. Le ultime parole rivoltemi sono state quelle dei Punitori nei momenti precedenti l'inizio della pena, prima di mozzarmi lentamente la lingua. Mi hanno comunicato la condanna, poi uno di loro mi ha esposto con voce pacata i particolari che arricchiscono la pena di elementi crudeli. Ho scoperto che non c'è relazione tra l'entità della mia colpa e la durata della punizione. La condanna a vagare come uno spettro può essere reversibile oppure no; può durare un mese ancora, oppure soltanto un giorno. O settimane forse, o anni, o il resto della 262


mia vita. Ma non mi è dato di saperlo. La durata della pena è scritta nel Libro delle Punizioni esposto al pubblico nell’atrio del Palazzo dei Punitori. In tal modo, quelli che ancora sono capaci di leggere, quelli che mi conoscevano e sanno della mia punizione, possono soddisfare la loro curiosità inutile e morbosa. Ma non hanno la facoltà di comunicare con me e rivelarmi se la mia è una condanna a vita o soltanto di pochi giorni ancora. E qualsiasi mio tentativo di leggere nel Libro sarebbe punito con la morte, una morte atroce e lenta, che potrei leggere descritta sotto il mio nome e la durata della pena. Così la pena del silenzio è completa e perfetta nella sua crudeltà. Punita nel corpo, non mi è neppure concessa la pace della rassegnazione. Posso ancora illudermi e sperare che la condanna abbia una fine e che entro breve potrò finalmente gettare via questa cappa nera che mi avvolge fino alle caviglie e tornare di nuovo a vivere una vita normale. O quasi. Spesso penso al suicidio come alla sola possibilità di fuga. La morte come soluzione, la sola forma di pace che mi è ancora possibile scegliere. E prima di morire darei scacco ai Punitori, rifiutando il mio ruolo in quel gioco di speranze, illusioni e paure che mi hanno finora imposto. Trasgredirei le loro assurde regole, mi lancerei verso il Libro, saprei finalmente la durata della mia condanna, conoscerei il destino che mi è stato riservato per questa mia nuova colpa, e poi mi ucciderei lì davanti a loro in qualche modo veloce e indolore, prima che loro possano usarmi di nuovo per soddisfare i loro piaceri... Ho pensato spesso a questo. Ma non è così semplice. Non è facile trovare la forza. Non è facile ignorare il fatto che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo della pena. Come rifiutare questa possibilità? Come eliminare la speranza? E cosa sareb263


be in fondo il mio suicidio per i Punitori se non una variante già prevista della punizione studiata per me? Un incubo torna ricorrente ad ossessionarmi le notti. È un sogno cattivo. Nel sogno varco le soglie del Palazzo dei Punitori, mi accosto al Libro senza che nessuno noti la mia presenza. E lo apro, sfogliandolo in cerca del mio nome. Lo trovo. Ma quando finalmente ce l’ho sotto gli occhi, gli occhi corrono subito alla data che segna la fine della pena, e allora, sempre a questo punto, è la rivelazione: sono all'ultimo giorno di punizione! Allora l'angoscia mi scuote il cuore, stringe strizza spinge, si apre un varco. Così apro la bocca, la apro bene, è uno sforzo disperato che mi costringe, la apro ancor di più, spalancata, cerco di urlare, ma non escono suoni. Niente. E invece ecco sgusciarmi dalle labbra una lingua enorme e rossa e lucida di saliva, grande e lunga, quasi mi impedisce il respiro. Saetta nell'aria senza che riesca a controllarne i movimenti, guizza come un animale viscido. Un serpente vivo e malvagio. Con le mani la afferro, la tiro, provo a strapparla, la spingo cerco di ricacciarla dentro, arrotolarla e riportarla all'interno della bocca, ma mi sfugge dalle dita. Scivola scappa, mi sfugge. Ed è a quel punto, mentre scuoto la testa, in alto e in basso, in alto, la scuoto, e l'aria mi manca, e percepisco il pulsare violento del sangue alle tempie, è a quel punto che vedo scendere le guardie dalle scale del Palazzo, avvertite della mia presenza vicino al Libro dal bracciale elettronico sigillato al mio polso. Provo a urlare ancora, perché quello sguardo furtivo al Libro mi ha concesso di sapere il necessario, il tempo l’ho avuto, quel che basta, ho letto nel Libro la mia nuova 264


condanna. Condanna orribile: mi trascineranno nella Sala delle Pene per la Tortura dei Liquidi. Reagisco come farebbe un animale: d’istinto. Non rifletto, non sono capace di cogliere l’inutilità del mio gesto. E provo a scappare lontano dalle guardie. Ma la lingua mi saetta addosso, mi copre gli occhi e mi annoda le caviglie, e dopo pochi passi inciampo e cado a terra e subito mi raggiungono le braccia rudi delle guardie. Mi afferrano e mi stringono forte. Mi trascinano via. Il mio urlo mi sveglia; mi trovo nella mia branda, sudata, atterrita, con la bocca spalancata in cerca d'aria, con le mani che annaspano nel buio davanti alla mia faccia per cercare di strappare quella lingua lucida ormai invisibile, la lingua, la lingua che nel sonno mi riempiva la bocca. Nei primi giorni della pena ho preso a vagare tra la folla. Sgomenta. Ore, giorni, settimane. Nessuna ragione per continuare. Lentamente attraversavo le vie della città, superavo i ponti sui canali, mi soffermavo molto a lungo ad osservare il movimento delle luci spezzate nell'acqua o quello dei rami scossi dal vento. Quello dei rami riflessi nell’acqua. Quando ero stanca mi sedevo da qualche parte. Era il freddo a forzarmi a riprendere il cammino. Senza meta. Per ore scrutavo la gente. Mi camminavano attorno, mi ignoravano. Sentivo il suono dei loro passi. Potevo annusarli. Li vedevo camminare. L’incedere tranquillo di chi non sa di essere osservato. Ciascuno sembrava avere una direzione precisa, un'attività, uno scopo, un senso. Il freddo condensava i respiri nell'aria. Anche il mio: la sola cosa che sarebbe potuta 265


mai uscire dalla mia bocca ormai, uno sbuffo bianco, una nuvola vuota. Contavo teste e corpi, ero investita da frammenti di voci e grida intorno. Vedevo bocche aperte in sorrisi, davo a quei sorrisi e quelle bocche un volto. Distillavo le frequenze di ciascuna voce, erano suoni che mi venivano incontro e si allontanavano, suoni meravigliosi, dolci e incredibili, così semplici, così normali. I giorni sono passati via. Giorni, settimane. Quelle passeggiate mi tenevano vicina al mondo. Quei giorni erano il mio solo legame con il mondo. Ma dopo troppi giorni, dopo settimane che traboccavano di silenzio, anche il passeggiare ascoltando e guardando e spiando ha perso significato. La noia mi ha preso, catturato, si è impossessata di me. Dentro. Non esistevo per gli altri. I giorni si ripetevano uguali. Uno dopo l'altro, uno dopo l'altro, uno dopo l'altro. Cosa fare? Come può trascorrere il tempo un essere invisibile? Poi è salita anche la paura. La paura è bianca, pesante. Una nebbia fredda. A volte, mentre ero per le strade, specialmente quando il sole spuntava d'improvviso e una fiammata di luce investiva gli oggetti e ogni persona, mi sono scoperta la paura addosso. Guardavo attorno con troppa attenzione. La testa la muovevo a scatti. Come macchina inceppata. Un automa. Una bambola. I particolari, erano quelli a preoccuparmi. I particolari a poco a poco diventavano più accessibili: spigoli, bordi, fenditure, superfici complesse emergevano alla mia vista, i miei occhi erano lenti d'ingrandimento, cristalli acutissimi di microscopio. Vedevo oltre. Profondamente. Tutto. Il mondo mi esplodeva davanti, grande, gigantesco, carico. Intuivo tutto. Ogni cosa mi riempiva la mente. In quei 266


momenti gli oggetti emanavano fragranza acide e forti, luci speciali, una brillantezza, un colore poco noto. Mi parlavano, le cose. Troppo... È per quello che ho cominciato a spaventarmi. Era la voce dei particolari. Il richiamo dei particolari. L’urlo dei particolari si è fatto più frequente, più astuto col passare dei giorni. Sempre più insistente. Sempre più ho avuto la sensazione di essere incapace di muovermi. Gli oggetti diventavano molto importanti, mi riempivano la visuale, potevo perdermi in ognuno. È chiaro che ciascuno di essi avrebbe potuto catturarmi. Le cose, coscienti del silenzio che mi era stato imposto, volevano aprirsi a me che passavo, parlarmi, comunicarmi messaggi normalmente celati. Questo ha cominciato a spaventarmi. Perché ho intuito che era la prima conseguenza del silenzio, della distanza; il primo segno della seconda caduta, quella verso la follia, la distanza assoluta. Forse è stato proprio per sfuggire alle voci dei particolari che a poco a poco ho trasformato la notte e le zone più pericolose della città nelle dimensioni che meglio accolgono la mia vita, i miei movimenti. Sempre più trascorro il giorno nella mia stanza, al buio. Esco quando scende la sera. Di solito mi dirigo verso le strade che si affacciano sui canali; qui le luci brillanti spariscono, i contorni delle cose sfumano, e la folla è diversa, sono diverse le espressioni dei volti, i riflessi negli occhi della gente: predominano ombre, i suoni sommessi, le parole sussurrate. Nell'oscurità vicino all'acqua, o nei tunnel sotto l'acqua, ci sono i locali dove la gente si ubriaca. Ci sono luci fioche, quelle rosse o blu, o quelle tremolanti delle fiam267


me delle candele che creano ombre danzanti e figure incerte. Questo è il mondo dove perfino i Punitori hanno paura di avventurarsi o di installare le loro macchine di controllo. O forse dove i Punitori meglio controllano i nostri istinti lasciandoci l'illusione di libertà. Qui, notte dopo notte, uomini e donne si trasformano in animali violenti, e cercano nell'alcol e nel sesso anonimo rifugio dalla paura che li domina durante il giorno. Qui gli odori forti dei cibi si mescolano nell'aria, e le voci diventano risa rauche prive di identità, e allora non c'è più spazio per i particolari, non c'è più tempo, non c'è possibilità. Qui i particolari piombano nel buio, azzerati, annichiliti, dissolti. Ma per me non c'è scelta. Questo è l’unico mondo che mi è rimasto. Solo qui posso ancora sperare di mantenere la sanità mentale. Qui posso ancora sperare nello sguardo di qualcuno, in un contatto, in poche parole rivolte a me, a me, anche quando sono soltanto le parole biascicate da qualche sconosciuto ubriaco nelle cui braccia faccio scivolare il mio corpo per un'ora. In realtà c'è anche un'altra e più importante ragione che ha fatto della notte il mio giorno e di questa parte della città la mia città. Una ragione che ha acceso in me la speranza e ha ricacciato indietro l'idea del suicidio. È la possibilità che esistano eventi, seppur minimi, che sembrano sfuggire all'occhio onnipresente dei Punitori: le riunioni segrete degli altri incappucciati. È qui, in queste zone vicino all'acqua, dove stretti cunicoli tracciano reticoli complessi di strade, che ho scoperto di recente la loro presenza. O piuttosto è probabile che siano stati loro a lasciarsi scoprire. Sono come me: anche 268


loro vittime della crudeltà dei Punitori, e dividono con me la pena del silenzio. Loro sanno, comprendono bene il senso della punizione e le sue conseguenze. È per questo che si riuniscono. Ed è con loro che forse mi è concessa la sola possibilità di una comunicazione reale, più profonda di quella breve e casuale che scopro durante i momenti in cui mi dischiudo al sesso. È tra queste strade che li ho visti la prima volta ed è qui che ritorno a cercarli. Anche stasera, ora. Adesso, mentre cammino vicino alle fogne, grossi ratti neri mi guizzano tra le gambe. Qui sono i padroni della città, i signori della notte; i loro squittii mi inseguono, percepisco odori aspri, so del loro pelo umido e lo temo, tremo al pensiero che potrebbero afferrarsi coi denti ai bordi della mia veste, risalirmi su fino alle gambe e afferrarsi poi con quei denti alla mia carne. Quest'idea mi atterrisce al punto tale che presto più attenzione a dove metto i piedi che alla direzione da seguire e in breve mi accorgo di essermi persa in questo labirinto di strade buie. Ma in fondo non ha troppa importanza; gli incappucciati sanno ormai di me e mi cercheranno come hanno fatto le altre volte, mi troveranno. L'importante per me è rimanere in questa zona. Aspetto che siano loro a farsi vivi. Mi muovo cercando un posto più largo e in vista, così che possano trovarmi senza difficoltà. Vedo una piazza; mi fermo. Posso solo aspettare ora. Spero soltanto che facciano in fretta, prima che siano i seguaci della Setta del Muro a trovarmi. Sembra che questo sia il loro regno, sono voci a mormorarlo, ma non è possibile sapere con esattezza dove vivono o come operano, o quanti sono. Si sa soltanto della loro fama, della loro crudeltà che si 269


dice pari a quella dei Punitori. In effetti, neppure si è certi della loro esistenza, o se siano piuttosto leggenda, una voce che i Punitori hanno diffuso in giro per scoraggiarci dall’entrare in zone dove per loro è più difficile esercitare il controllo. Non so. Eppure ricordo quando hanno trovato in questo quartiere i corpi di quelle ragazze... Come avevano ridotto i loro visi... gli occhi... Mi scuote un brivido. Il buio mi terrorizza. L’attesa mi terrorizza. Ma devo aspettare; non so neppure dove mi trovo. Posso soltanto continuare così, in attesa, sperando che gli incappucciati si facciano vedere presto... Aspetto molto a lungo, forse un’ora, ma finalmente li scorgo davanti e lontani; sono tre questa volta, nell'oscurità riesco appena a distinguere le sagome delle loro vesti lunghe; li riconosco dal loro modo di procedere scivolando come spettri. Faccio un segno col braccio e uno di loro traccia nell'aria un gesto amico di risposta, e si fermano, e aspettano che mi avvicini. Allora mi copro la testa col cappuccio e mi accosto a loro, e li seguo quando riprendono a camminare. Camminiamo appiattiti ai muri degli edifici come rettili. Dopo poco imbocchiamo uno dei tunnel sotto il Muro. La luce è fioca e distinguiamo malamente i contorni delle pareti. Ci investe l'odore dolce di muffa, mescolandosi a quello dell'urina in combinazioni pungenti. Quando raggiungiamo il locale destinato all'incontro il silenzio è perfetto. Ai tavolini siedono gli altri incappucciati; le luci delle lampade ad olio illuminano i movimenti frenetici delle loro mani, amplificano con ombre la danza delle loro dita. Sono passate ormai tre settimane da quando ho scoperto 270


l'esistenza di questi incontri. Da allora, quasi ogni sera mi ritrovo con loro. Sto cercando di apprendere il linguaggio dei gesti per svelare i significati racchiusi in una flessione della mano, in un polso piegato, o in uno scatto rapido delle dita. Sembra che soltanto dopo una lunga pratica sia possibile tradurre in segni idee e pensieri. Mi pare di aver capito che nel passato c'era un libro che insegnava il linguaggio dei gesti, ma per motivi che non sono riuscita a comprendere il libro non esiste più. Forse si è consumato pian piano tra le dita di tutti quelli che l'hanno letto. O forse qualcuno che lo usava è stato arrestato prima di poterlo restituire, e il libro è finito nelle mani dei Punitori. Forse... In realtà dubito che il libro sia mai esistito veramente. A parte i microfilm segreti che ho consultato nel Palazzo di Giustizia e Cultura durante il mio lavoro prima di essere punita, l'unico testo che conosco, l'unico che ho mai avuto occasione di vedere, è il Libro delle Punizioni. Forse il libro col linguaggio dei segni è uno tra i tanti libri che esistono soltanto nei racconti narrati da quelli vecchi abbastanza da ricordare gli anni in cui ancora si leggeva e si produceva la carta, prima che Punitori ne proibissero l'uso. Non so, non è chiaro, non riesco veramente a capire quello che gli altri incappucciati vogliono dirmi. Per ora, le mie mani, strumenti primitivi e non addestrati a riprodurre le mille sfumature nella posizione di un'unghia o nella distanza di due dita, non possono che trasmettere il vuoto generato dai miei movimenti confusi. Le mie dita esprimono soltanto spezzoni di pensieri, frammenti di frasi. Ma l'idea di poter parlare di nuovo, anche se con questo linguaggio silenzioso, ha riacceso in me la speranza. Un giorno anch'io potrò conoscere come gli altri quei segni, un giorno anch'io potrò finalmente comu271


nicare l'angoscia del silenzio e l’amore che mi è rimasto dentro per tutte le parole che non potrò più pronunciare; potrò descrivere la voce della follia, i richiami suadenti delle cose, degli oggetti, del mondo esploso... Più passa il tempo però, più mi sembra che ci sia qualcosa di strano nei nostri incontri. Ho l'impressione che i codici che governano questo linguaggio siano eccessivamente complessi, così che, a volte, anche quelli che più a lungo hanno sopportato la pena e appaiono più esperti sembrano in difficoltà. Ho l'impressione che la molteplicità dei segni sia infinita, che le regole che controllano il nostro dialogo muto in realtà non esistano, o che, come oggetti fluidi, mutino di giorno in giorno, o addirittura nel corso di una stessa conversazione. Ho pensato molto a questo e non riesco a togliermi dalla mente l'idea che Punitori stessi siano gli ideatori di questi segni e codici assurdi. Mi viene perfino il sospetto che queste riunioni che crediamo segrete non siano altro che una crudele e astuta componente di quel gioco organizzato dai Punitori con le nostre vite. A volte non posso fare a meno di immaginarli mascherati come noi, con lunghe vesti e cappucci, mentre vengono in piccoli gruppi nei luoghi prescelti per gli incontri. Riesco quasi a percepire il loro piacere perverso nel farsi beffe della nostra lotta contro il silenzio. Li vedo mescolarsi tra noi, sedersi ai tavolini e iniziare la conversazione con le dita, facendo uso di quei segni che noi già conosciamo. E poi li vedo aggiungere pian piano a quei segni noti nuovi segni tra loro discordi, così da fuorviare le idee e accrescere i nostri dubbi, così da confonderci e rendere ancora più difficile la nostra comunicazione già precaria. Anche ora, mentre sono seduta al tavolo in attesa del mio istruttore, non mi è difficile pensarli tra noi. Chiunque tra i 272


miei compagni potrebbe essere uno di loro. Forse il mio maestro; forse questa figura che mi si avvicina. Non so, non posso sapere. Non c'è modo per provarlo. Non c'è più ragione per provarlo. Ma questo pensiero mi riempie di tristezza. Mi guardo attorno e vedo noi, poveri sciocchi fantasmi muti, cercare invano un senso, un messaggio nascosto in quei segni. Così continuiamo ad agitare le mani in aria senza capirci realmente, illudendoci di essere capaci di parlare e di leggere nei gesti degli altri conferme a ciò che pensiamo di dire. Dubbiosi, incerti sulla logica dei segni e dei codici, ma ansiosi di apprendere i nuovi segni e trovare conferme nei vecchi, con la speranza di possedere un giorno il sistema nella sua completezza ed essere in grado di comprendere finalmente, di comunicare come persone, come i vivi. Utrecht 1988

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IL BANCHETTO DEGLI OSPITI

Mi alzo presto, apro la finestra della camera da letto e mi

affaccio a prendere una boccata d'aria. Nel cielo i colori dell'alba, i rossi e i grigi, e bianche scie di luce. Do un'occhiata fuori. Nel prato che circonda la casa ci sono dei corpi. Sono disposti in maniera ordinata, ciascuno disteso in un rettangolo d'erba, con le gambe ben chiuse e le braccia allineate lungo i fianchi. Sembra quasi che stiano dormendo. C'è molto silenzio. Mi metto a contarli; dal mio punto di osservazione ne vedo non meno di un centinaio, e immagino che continuino fin dietro la villa e fino all'altro lato del parco. Chiamo mia moglie. «C'è gente fuori» dico. «Morti.» «Dei morti?» dice lei meravigliata. Si è appena svegliata. «Perché morti?» «Non lo so» dico. «Chi ce li ha messi?» insiste. «Non so.» Ci vestiamo, usciamo e ci avviciniamo ai cadaveri in fila. C'è una brutta luce, senza ombre. Davanti all'ingresso ve274


diamo il corpo di una bambina bionda; avrà al massimo dodici anni, ha gli occhi chiusi, un volto tranquillo. La guardo per un po'. È molto carina. Poi prendiamo a camminare tra le file, ogni tanto ci fermiamo a osservarli più da vicino. Ne tocco uno, è un uomo grande, con la barba; ha dita grasse, un anello all'indice destro. È tiepido e penso che non deve essere morto da molto. «Chi ce li ha messi qua?» domanda ancora mia moglie. Io non rispondo; ci guardiamo in giro disorientati. Tutto sembra a posto. Però ci sono questi cadaveri. «Saranno più di duecento» dico. «Già» fa mia moglie. «Ma vorrei sapere chi ce li ha messi.» Non lo domanda neppure ormai, è solo una specie di ritornello che ripete, tanto per dire qualcosa. Non rispondo. Lei resta ferma con le mani appoggiate ai fianchi. Io riprendo a camminare e mi dirigo verso un gruppo di alberi non lontano dalla casa. Dopo un po' mi si avvicina una ragazzina, la guardo in faccia, è abbastanza brutta, ma no, non è proprio brutta, piuttosto direi strana. Ha vagamente le fattezze di un cane mastino; appena però. Mi viene davanti e mi dice: «I corpi sono nostri». «Nostri di chi?» chiedo. «Beh...» fa lei, «noi ce li mangiamo». «Noi?» chiedo di nuovo. «La mia famiglia» dice, sorride. «Mio padre, mia madre e io.» «E dove li avete presi?» chiedo. «In giro» dice. Mi guarda; forse aspetta che io dica qualcosa, ma non ho niente da aggiungere. Per qualche secondo restiamo in silenzio l'uno di fronte all'altra, pensierosi. 275


«E perché li avete portati qui?» domando. «Pensavamo che non dessero troppo fastidio» risponde. «C'è tanto spazio.» Mi guarda con occhi da gatto; ha la faccia da cane e gli occhi dolci dei gatti. «Dobbiamo toglierli?» domanda, e c’è quasi un'espressione ansiosa disegnata su quella sua faccia da cane. «Non importa» mi sento dire, anche se non so bene perché queste parole mi siano uscite di bocca. Così si sono stabiliti da noi, nella casa per gli ospiti. Sono qui da diciassette giorni ormai, e devo dire che li trovo proprio tranquilli e silenziosi. Gentili anche. Se penso a quando ho incontrato la famiglia per la prima volta, ricordo che sembravano intimiditi, quasi preoccupati di recare disturbo. Lui avrà una cinquantina d'anni; non molto alto, stempiato, la faccia tonda e bonaria e un sorriso benevolo che ispira fiducia. Sua moglie deve essere più giovane di lui; quaranta, quarantacinque al massimo. Bionda, piccolina anche lei, non brutta, ma neppure bellissima. Begli occhi però, verdi, e anche lei un bel sorriso dolce. Nel complesso piacevoli entrambi. E anche la ragazzina è simpatica, bruttina ma simpatica. La incontro più spesso dei suoi genitori; è sempre gentile e mi sorride con grazia. Dimostra quattordici anni, quindici al massimo, anche se lei dice di averne quasi diciassette. Stamattina hanno mangiato la bambina bionda distesa vicino al portone della nostra casa. Erano più o meno le otto, io stavo andando a lavorare, e li ho visti portare dentro casa il corpo con delicatezza; l'uomo teneva la bimba morta per le braccia e la donna per le gambe, e la loro piccola mastina li seguiva come fosse il testimone di una cerimonia. Non so se 276


hanno un modo particolare per scegliere di volta in volta il corpo che vogliono mangiare, ma, nel caso della bambina bionda, sono quasi sicuro che l'abbiano tolta per farmi un favore, perché devono aver notato che quasi ogni volta che uscivo inciampavo su di lei. L'unico problema è che da quando ci sono i cadaveri nel parco non riesco a dormire bene. A volte mi sveglio d'improvviso. Anche mia moglie si agita nel sonno, e sono sicuro che tutti questi corpi non le piacciono molto, anche se non abbiamo mai veramente parlato di questo. Comunque, corpi a parte, la famiglia non crea nessun problema: hanno i loro spazi, la loro cucina, e qualche volta facciamo due chiacchiere quando ci incontriamo nel parco, e la vita procede più o meno come sempre. Ho preso l'abitudine di contare i cadaveri e ho calcolato che ne mangiano quasi due al giorno. Ora ci sono centocinquantasette corpi, abbastanza per tre mesi, più o meno. Oggi pomeriggio il vento spira dal parco verso la villa e l'odore dei corpi è più penetrante del solito. Però il loro aspetto è ancora buono. Pensavo che un morto cominciasse a decomporsi dopo pochi giorni; invece i nostri cadaveri sono belli. Sembrano mummificati, stanno tutti prendendo lo stesso aspetto grinzoso, la pelle ingiallisce e si tira, e anche i più giovani sembrano persone anziane. Ma sono belli. Uscendo incontro la signora nel parco e così le chiedo come fanno a conservarli così bene. «È un nostro segreto!» mi risponde. «Ci vuole molto per imparare, ma ne vale proprio la pena!» Sorride e mi strizza l'occhio, e allora noto che anche lei ha 277


una buffa espressione da cane. Sicuramente sua figlia ha preso da lei. Sono qui da quasi due mesi. Qualche volta, specialmente nei fine settimana, quando sono a casa anche durante il giorno, se le finestre sono aperte posso udire il suono di forti colpi provenire dalla casa degli ospiti. Probabilmente tagliano i cadaveri. Dalla loro cucina arrivano odori aspri. Mia moglie dice che dovremmo mandarli via. «Dove vuoi che vadano?» le dico allora. «In fondo che fastidio ci danno?» Ma mia moglie non è convinta. Dice che tutti quei corpi la innervosiscono e che non sopporta più l'odore. «E se qualcuno lo sapesse?» chiede. In effetti questo è un problema. Non ne ho parlato con nessuno, ma durante gli ultimi due mesi, con una scusa o l'altra, abbiamo tenuto tutti i nostri amici lontani. Ma più il tempo passa, più diventa difficile trovare delle giustificazioni credibili. E non vorrei che i miei amici cominciassero ad insospettirsi. Ieri sera ho provato a parlare di questo con il padre. Ho bussato alla loro porta; lui mi ha accolto con un sorriso. «Si accomodi prego» ha detto. «Beh...» ho detto io a disagio rimanendo sulla porta, «spero che non mi fraintendiate, ma vorrei... Vorrei che capiste che la mia situazione con voi in casa è un po' delicata. Spero che... sì, insomma, non vorrei aver problemi. Se succede qualcosa io sarei costretto a mandarvi via. Vorrei che capiste. Non lo farei per cattiveria...» «Non si preoccupi» ha risposto subito. «Lei è stato molto gentile con noi e non deve preoccuparsi. Capiamo perfetta278


mente, siamo stati altre volte in situazioni come questa. Le garantisco che non avrà nessun disturbo. Ma se c'è qualcosa che non va, non si faccia scrupoli e ce lo faccia sapere.» Io ho annuito e sono rimasto sulla porta senza sapere cosa dire, e lui deve aver percepito il mio imbarazzo, perché mi ha sorriso di nuovo e mi è venuto vicino e mi ha stretto la mano cercando di mettermi a mio agio. Anche sua moglie mi ha guardato con simpatia e ha sorriso e mi ha afferrato la mano con calore. Poi pure la ragazza si è avvicinata e io ho pensato che anche lei volesse stringermi la mano, ma invece mi è quasi saltata al collo, ha aperto la bocca e mi ha baciato sulla guancia destra, molto vicino alla bocca. Mentre mi veniva addosso ho notato che ha i denti più lunghi del normale. Appena, però. Sono rimasti cinquantaquattro corpi. Ieri dalla finestra guardavo la famiglia trascinare verso la casa il corpo di una donna grassa, molto grassa, quando ho sentito l'uomo che diceva: «Prima o poi toccherà anche a loro!» Non ha specificato chi sono questi loro, ma alle sue parole tutta la famiglia ha iniziato a ridere sguaiatamente, e questo mi ha stupito, perché in genere sono molto compiti. Non li ho mai visti sghignazzare così prima d'ora. Ho raccontato l'episodio a mia moglie e lei ha subito detto che quei loro siamo noi, lei e io. Personalmente non lo credo; di certo si riferivano ai corpi rimasti. Ho detto questo a mia moglie, ma lei non è convinta. La vedo agitata ultimamente. Piuttosto è la ragazza a crearmi qualche problema. Si è fatta molto più intraprendente ora. Tutte le mattine, quando mi vede mi corre incontro, anche se sono ancora in pigiama. Mi 279


sorride sempre e ha preso quest'abitudine di baciarmi, sempre molto vicino alla bocca. Ha l'alito pesante, direi quasi cattivo, forse per via di tutto quello che mangia. A volte, specialmente al mattino presto, si siede nel prato di fronte alla sala da pranzo mentre mia moglie e io facciamo colazione e ci guarda attraverso le finestre, e rimane lì finché non me ne vado. Spesso mia moglie l'ha vista sorridere mentre se ne stava a guardarci. «Si è invaghita di te» ha detto stamattina. «Non è possibile» ho risposto senza esitazione. «È molto brutta» ho aggiunto. «Ma ha un bel corpo!» ha detto mia moglie guardandomi dritto negli occhi. «Beh, sì...» ho risposto, «però mangia cadaveri». Ieri mia moglie è tornata dalla città con un cane al guinzaglio. «Con Doby mi sento più tranquilla» ha detto. «È un cane da guardia. Ci proteggerà.» «Doby?» ho chiesto. Era un dobermann grande e grosso, magro e col pelo marrone. Aveva denti molto affilati e le orecchie appuntite. «È il nome del cane» ha risposto. Sinceramente non mi è sembrato un gran nome per un cane come quello, ma non le ho detto niente. Per un po' Doby mi ha fissato con quei suoi occhietti neri. Mi ha annusato le gambe, poi è scattato via, ha cominciato a correre, ha fatto lunghi giri per il parco. Ho notato che non si avvicinava mai ai corpi. Anzi, quando ne trovava uno sulla sua traiettoria subito saltava per schivarlo. Sembrava impazzito. Che cane strano, ho pensato. 280


Una volta si è avvicinato alla casa degli ospiti, ma è subito tornato indietro e mi si è seduto di fianco con la lingua penzoloni. «Buono, Doby!» gli ho detto. Gli ho anche dato una carezza in testa. Mi è sembrato un buon cane. Stanotte lo abbiamo lasciato in giro per il parco. A un certo punto mi sono svegliato e l’ho sentito abbaiare. Abbaiava forte, poi ululava anche, sembravano i versi di un lupo più che di un cane. Non la finiva più di abbaiare e ululare. Poi ha smesso di colpo e io mi sono riaddormentato subito. «Dov’è Doby?» mi ha chiesto mia moglie stamattina. Era affacciata alla finestra. «Non lo so» le ho risposto. «Stanotte abbaiava molto. Poi ha smesso.» Allora mia moglie ha cominciato a chiamarlo. «Doobyy!» gridava sporgendosi dalla finestra, ma il cane non rispondeva. Poi siamo scesi e l’abbiamo cercato per un bel po', ma di Doby non c’era più traccia. «L’hanno preso loro!» ha gridato mia moglie. «L’hanno mangiato! Sono stati loro!» «Figurati» ho risposto cercando di calmarla. «Con tutto quel che hanno da mangiare vuoi che vadano a mangiarsi il nostro cane!» «E allora dov’è?» ha chiesto. «Come faccio a saperlo?» ho risposto. «Correva come un pazzo. Non gli piacevano i corpi nel prato. Hai visto come li evitava? Sarà scappato...» Mia moglie mi ha risposto brusca, borbottando qualcosa che non ho capito, poi è tornata verso casa. Io sono rimasto 281


a guardare il prato sperando ancora di vedere Doby. Non gli piacevano i nostri corpi, ho pensato alla fine. Sarà scappato... Peccato. Mi sembrava un buon cane. I corpi diminuiscono velocemente. Il prato sembra diverso quando ci sono dei corpi e quando invece è vuoto. Ora sembra molto più grande. Non lo ricordavo così. Comunque qualche corpo c'è ancora. Rinsecchiti, devo dire. Non più molto belli da vedersi. Sembrano rigidi, quasi come stecche di legno; probabilmente sono anche duri. Lo capisco da come li trasportano dentro casa; posso immaginarlo dal numero di colpi che sento. I primi giorni bastavano poche accettate – ho scoperto che usano l'ascia della nostra legnaia – ora invece danno colpi per lungo tempo, a volte anche mezz'ora di seguito. Due giorni fa sono entrato nella loro cucina mentre erano fuori a prendere un cadavere. Il tavolo era sporco di sangue secco, però il resto della cucina era in perfetto ordine. Per terra era pulito, nessun pezzo di carne in giro. Sul ripiano della credenza ho visto una grande scatola aperta. Dentro c’erano solo dei biscotti secchi e scuri, poco appetitosi. In un angolo ho trovato un mucchio di ossa, bianche e ben spolpate, probabilmente quelle degli ultimi corpi che hanno mangiato. Volevo cercare anche le ossa degli altri corpi, perché mi ero sempre chiesto che cosa ne facessero di tutte quelle ossa, ma li ho sentiti arrivare e me ne sono andato attraverso l'ingresso posteriore. Non volevo pensassero che stessi lì a spiarli.

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Oggi pomeriggio sono andato di nuovo a parlare con la famiglia e ho chiesto all'uomo cosa avrebbero fatto una volta che avessero finito di mangiare i corpi. «Ce ne procureremo degli altri» ha risposto sorridendo. «Ma non qui, non si preoccupi.» Allora ho chiesto se avevano intenzione di andarsene. «Tra un po'» ha detto. Mi ha sorriso di nuovo. Poi mi ha stretto la mano come aveva fatto l'altra volta, e anche sua moglie ha voluto stringermi la mano. Anche lei sorrideva. Avevano tutti i denti un po' più lunghi del normale, ho notato. Poi la figlia è partita per baciarmi come al solito, ma questa volta ha mirato alla bocca e io non ho fatto in tempo a chiuderla e per un attimo ho sentito la sua lingua sfiorare i miei denti. Velocemente ho salutato e sono subito rientrato in casa. Non ho parlato di questo con mia moglie. Più tardi sono uscito per fare due passi. Fuori era già notte. Camminare nel prato buio non era particolarmente piacevole. Sono inciampato in un cadavere, uno degli ultimi. Sono ritornato in casa, ho acceso le luci nel parco e sono uscito di nuovo a contare i corpi rimasti. Solo sette. «Non più di quattro giorni!» ho detto allora a mia moglie rientrando, «Non più di quattro giorni!» Finalmente i cadaveri sono finiti. Ieri sera li ho visti portare via l'ultimo. Era il corpo di un uomo giovane, probabilmente abbastanza bello in vita. Ora meno. Però era l'ultimo. 283


Mi sveglio dopo un sonno profondo. Mia moglie non c’è. Guardo l’orologio e mi accorgo che è molto tardi. Mia moglie deve essersi alzata già da un pezzo. Scendo in soggiorno e la chiamo, ma non mi risponde, allora la cerco per un po', ma niente, non c’è. Sarà andata in città. Magari ha voglia di festeggiare la fine di questa storia e vuole farmi una sorpresa. Sono quasi sicuro che sia così. È tipico di lei comportarsi a questo modo. Cerco qualcuno della famiglia per fare due chiacchiere, ma in giro non trovo neanche loro. Allora esco nel parco e mi avvicino alla casa degli ospiti, ma quando sto per bussare alla porta sento provenire da dentro dei colpi d’ascia e mi fermo. Forse stanno terminando di tagliare il corpo che hanno portato via ieri sera e non mi sembra il caso di disturbarli durante il loro ultimo pasto qui da noi. Così torno in casa a fare colazione da solo. Sono un po' preoccupato. È già sera, e mia moglie non è ancora tornata, ed è strano, perché non fa mai così tardi. Dalla finestra vedo la ragazzina che mi fa dei gesti. Mi avvicino. «Devo parlarti» mi dice. La faccio entrare. Lei mi segue in soggiorno trascinandosi sulla spalla una grossa borsa nera. Mi siedo sul divano. Lei appoggia la borsa per terra e mi si siede accanto. Molto vicina. Indossa un vestito azzurro, attillato e scollato, con i seni ben in vista. Mi guarda dritto negli occhi. Sorride. «Ci sei simpatico» dice. «Avevamo pensato di mangiarti, ma ci sei simpatico e allora abbiamo deciso che non lo faremo.» Per un momento penso ai suoi denti che affondano nella 284


mia carne. Immagino sua madre succhiarmi gli occhi facendo schioccare le labbra con gusto. «Tu mi piaci» dice, «e non ti voglio mangiare». Ripenso alla sua lingua scivolare nella mia bocca. «Sono sposato» dico. «Volevamo mangiare anche tua moglie» risponde. «Vi abbiamo aiutato. Dovreste essere riconoscenti.» «È appunto per quello che non vi mangeremo» insiste. Mi viene più vicino, e sento il suo alito riempire l'aria attorno alla mia testa. Per un attimo ho quasi la sensazione che si metta ad abbaiare, come un cane. «Vogliamo farti un regalo per ringraziarti» dice. «Ce ne andiamo, ma prima vogliamo lasciarti un regalo. Ti va?» Penso alle ossa nascoste da qualche parte. Vedo pezzi di corpi tagliati con cura e già cotti. «Dipende» rispondo. «È un bel regalo!» dice lei. «Sul serio...» Non so cosa rispondere, così per un buon minuto restiamo in silenzio, uno di fronte all’altra. Mi sembra più grande della prima volta che l'ho vista, sicuramente per via di tutto quello che ha mangiato. Spero che se ne vada, ma non si muove. Allora provo ad alzarmi, ma subito lei mi ferma, e mi si fa ancora più vicina. Struscia la gamba contro la mia, poi d’improvviso si volta verso di me e mi si stringe al collo e io non riesco a divincolarmi perché lei è molto forte. Cerca di baciarmi. Io chiudo la bocca questa volta, ma lei riesce ad aprirmela facendo forza con le mani e fa passare la sua lingua contro il mio palato. La sua saliva ha un sapore inaspettato, dolce quasi. «Mi piaci!» dice staccandosi dalle mie labbra. Mi sorride. E mi si fa addosso per baciarmi ancora. Cerco di respingerla trattenendola per le spalle. «È tardi» 285


dico. «Mia moglie potrebbe tornare da un momento all’altro. Non credo che...» ma non riesco a continuare, perché mi ritrovo la sua lingua tra i denti. È molto forte. È difficile fermarla. «Non ti preoccupare per tua moglie, non è un problema» dice. Poi aggiunge subito: «Che ne dici se beviamo qualcosa?» «Bere?» dico, un po' meravigliato. «Per festeggiare che ce ne andiamo. Non è questo che volete?». Sorride. Esito. Non dovrei assecondarla, ma poi penso che quella del brindisi non è una cattiva idea. Riuscirò a tenerla a bada per un po', magari fino a quando non torna mia moglie. Annuisco. Subito tira fuori due bicchieri dalla sua borsa nera. Poi una piccola bottiglia. Il liquore che versa nei bicchieri è azzurro come il vestito che indossa. Limpido, brillante. Sorseggio il liquido. Ha un sapore speziato. È molto forte. Subito mi va alla testa. La vedo sorridermi mentre bevo. È un brindisi che dura poco. Dopo cerco di muovere la testa, ma mi sento il collo rigido. La stanza è illuminata con una luce ricca, vibrante. «Ti mancheremo?» mi domanda. Non rispondo. Mi mancheranno? Forse. Sono stati a lungo nostri ospiti, siamo come amici in fondo, ci conosciamo bene, ci vogliamo quasi bene. Di sicuro sento che c'è molta intimità tra noi. Ho anche baciato la ragazza. Più volte. Ho appena finito di baciarla. Sulla bocca. Sì, forse mi mancheranno. Forse lei mi mancherà. Ma non glielo dico. Di nuovo me la ritrovo addosso, stretta. È difficile fermarla. 286


«Ti piace?» fa a un certo punto staccandosi da me e indicando il liquore. Annuisco. «L’abbiamo fatto noi. È forte vero?» dice. Poi continua: «Forse dovremmo mangiarci qualcosa insieme, che ne dici?». Io non sono ben sicuro che abbia ragione, ma mi resta difficile contraddirla, ora. La vedo tirar fuori dalla sua borsa nera una manciata di striscioline marroni che hanno l’aspetto di biscotti. Hanno una forma irregolare. Sembrano fatti a mano. «Mangia questo» dice. Mi spinge in bocca uno dei biscotti. Lo assaggio. Non è cattivo. Mentre sto masticando, la ragazzina si alza e spegne la luce. Poi mi atterra addosso e ricomincia a baciarmi quando ho ancora in bocca pezzi di biscotto. Con la mano mi accarezza leggermente la schiena. Fa scorrere le dita lungo la spina dorsale. Subito penso che mia moglie potrebbe tornare e trovarci così. Ma è un pensiero che dura un istante. Mi stendo sul divano. Mi ritrovo avvinghiato a lei senza neanche accorgermene. Sento il suo corpo giovane premere contro il mio. Mi infila due dita in bocca. Gliele succhio. Hanno un sapore molto piacevole. Poi le toglie. Subito dopo sento qualcosa ancora in bocca, ma non sono le sue dita. «Un altro biscottino» mi sussurra in un orecchio. Stringo il biscotto tra i denti, lo assaporo con la lingua. Ha una consistenza diversa da quello precedente. Più duro. Più coriaceo. Ma anche questo ha un buon sapore. Dolce. E anche salato. Ci metto un po' a masticarlo. L’ho appena finito e già lei me ne infila un altro in bocca. «Hai fame, vero?» mi bisbiglia nel buio. «Mangia» mi sollecita. E io continuo a mangiare. Nel buio vado avanti a baciarla. Quando non la bacio 287


mangio i suoi biscotti. Non so per quanto continuiamo così, ma ogni volta che mi infila un biscotto in bocca non riesco a trattenermi. Ogni volta che mi bacia credo che sia l’ultima. Invece proseguiamo per molto tempo. Mi risveglio sul divano. Sono solo. La finestra è aperta. Fuori è già giorno. Mi sento debole. Ho la testa pesante. Di sicuro ho bevuto più di quanto avrei dovuto. E mangiato fin troppo. Non la finivo più di prendere biscotti dalle dita della ragazzina. A fatica mi rialzo dal divano. Mi muovo per le stanze di casa come un fantasma. Mia moglie non c’è. Non ricordo di averla sentita rientrare. Non è tornata. Doveva farmi una sorpresa. Chissà dov’è finita... Finalmente riesco a uscire nel parco per prendere una boccata d’aria. Cammino barcollando sull’erba verso la casa della famiglia, ma quando sono davanti alla porta mi accorgo che non c’è una luce dentro. Non un rumore. Busso alla porta. Non mi rispondono. Se ne sono andati. Resto immobile davanti alla casa per un po'. Forti crampi mi serrano lo stomaco. Mi sento molto debole. Ho fame. Dovrei cercare qualcosa da mangiare. Attraverso il parco fino all’uscita. Supero il cancello e me lo chiudo alle spalle, poi prendo a camminare svelto. Forse la famiglia non se n’è andata da molto. Forse non sono lontani. Forse riesco ancora a raggiungerli. Milano 2003

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IL PETALO AZZURRO

Mi alzo presto, apro la finestra della camera da letto e mi

affaccio a prendere una boccata d'aria. Nel cielo i colori dell'alba, i rossi e i grigi, e bianche scie di luce. Do un'occhiata fuori. Nel prato che circonda la casa ci sono dei corpi. Sono disposti in maniera ordinata, ciascuno disteso in un rettangolo d'erba, con le gambe ben chiuse e le braccia allineate lungo i fianchi. Sembra quasi che stiano dormendo. C'è molto silenzio. Mi metto a contarli; dal mio punto di osservazione ne vedo non meno di un centinaio, e immagino che continuino fin dietro la villa e fino all'altro lato del parco. Chiamo mia moglie. «C'è gente fuori» dico. «Morti.» «Dei morti?» dice lei meravigliata. Si è appena svegliata. «Perché morti?» «Non lo so» dico. «Chi ce li ha messi?» insiste. «Non so.» Ci vestiamo, usciamo e ci avviciniamo ai corpi. C'è una brutta luce, senza ombre. Davanti all'ingresso vediamo il 289


corpo di una bambina bionda; avrà al massimo dodici anni, ha gli occhi chiusi, un volto tranquillo. La guardo per un po'. È molto carina. Poi prendiamo a camminare tra le file di corpi, ogni tanto ci fermiamo ad osservarli più da vicino. Ne tocco uno, è un uomo grande, con la barba; ha dita grasse, un anello all'indice destro. È tiepido e penso che non deve essere morto da molto. «Chi ce li ha messi qua?» domanda ancora mia moglie. Io non rispondo; ci guardiamo in giro disorientati. Tutto sembra a posto. Però ci sono questi cadaveri. «Saranno più di duecento» dico. «Già» fa mia moglie. «Ma vorrei sapere chi ce li ha messi qua.» Non lo domanda neppure ormai, è solo una specie di ritornello che ripete, tanto per dire qualcosa. Non rispondo. Lei resta ferma tra i corpi con le mani appoggiate ai fianchi. Io riprendo a camminare e mi dirigo verso un gruppo di alberi non lontano dalla casa. Dopo un po' mi si avvicina questa specie di ragazzina, la guardo in faccia, è abbastanza brutta, ma no, non è proprio brutta, piuttosto direi strana. Ha vagamente le fattezze di un cane mastino; appena però. Mi viene davanti e mi dice: «I corpi sono nostri». «Nostri di chi?» chiedo. «Beh...» fa lei, «noi siamo mangiatori di cadaveri». «Noi?» chiedo di nuovo. «La mia famiglia» dice, sorride. «Mio padre, mia madre ed io.» «E dove li avete presi tutti questi corpi?» chiedo. «In giro» dice. Mi guarda; forse aspetta che io dica qualcosa, ma non ho niente da aggiungere. Per qualche secondo 290


restiamo in silenzio l'uno di fronte all'altra, pensierosi. «E perché li avete portati qui?» domando. «Pensavamo che non dessero troppo fastidio» risponde. «C'è tanto spazio qui.» Mi guarda con occhi da gatto; ha la faccia da cane e gli occhi dolci dei gatti. «Dobbiamo toglierli?» domanda, e c’è quasi un'espressione ansiosa disegnata su quella sua faccia da cane. «Non importa» mi sento dire, anche se non so bene perché queste parole mi siano uscite di bocca. Così si sono stabiliti da noi, nella casa per gli ospiti. Sono qui da diciassette giorni ormai, e devo dire che li trovo proprio tranquilli e silenziosi. Gentili anche. Se penso a quando ho incontrato la famiglia per la prima volta, ricordo che mi hanno persino chiesto se non mi dispiaceva troppo averli qui; sembravano intimiditi, quasi preoccupati di recare disturbo. Lui avrà una cinquantina d'anni; non molto alto, stempiato, la faccia tonda e bonaria e un sorriso benevolo che ispira fiducia. Sua moglie deve essere più giovane di lui; quaranta, quarantacinque al massimo. Bionda, piccolina anche lei, non brutta, ma neppure bellissima. Begli occhi però, verdi, e anche lei un bel sorriso dolce. Nel complesso piacevoli entrambi. E anche la ragazzina è simpatica, bruttina ma simpatica, con un che di femminile che non saprei ben dire. La incontro più spesso dei suoi genitori; è sempre gentile e mi sorride con grazia. Dimostra quattordici anni, quindici al massimo, anche se lei dice di averne quasi diciassette. Oggi hanno mangiato la bambina bionda distesa vicino al portone della nostra casa. Erano più o meno le otto stamattina, io stavo andando a lavorare, e li ho visti portare dentro 291


casa il corpo con delicatezza; l'uomo teneva la bimba morta per le braccia e la donna per le gambe, e la loro piccola mastina li seguiva come fosse il testimone di una cerimonia. Non so se hanno un modo particolare per scegliere di volta in volta il corpo che vogliono mangiare, ma, nel caso della bambina bionda, sono quasi sicuro che l'abbiano tolta per farmi un favore, perché devono aver notato che quasi ogni volta che uscivo inciampavo su di lei. L'unico problema è che da quando ci sono i cadaveri nel parco non riesco a dormire bene. A volte mi sveglio d'improvviso. Anche mia moglie si agita nel sonno, e sono sicuro che tutti questi corpi non le piacciono molto, anche se non abbiamo mai veramente parlato di questo. Comunque, corpi a parte, la famiglia non crea nessun problema: hanno i loro spazi, la loro cucina, e qualche volta facciamo due chiacchiere quando ci incontriamo nel parco, e la vita procede più o meno come sempre. Ho preso l'abitudine di contare i cadaveri e ho calcolato che ne mangiano quasi due al giorno. Ora ci sono centocinquantasette corpi, abbastanza per tre mesi, più o meno. Oggi pomeriggio il vento spira dal parco verso la villa e l'odore dei corpi è più penetrante del solito. Però il loro aspetto è ancora buono. Pensavo che un morto cominciasse a decomporsi dopo pochi giorni; invece i nostri cadaveri sono belli. Sembrano mummificati, stanno tutti prendendo lo stesso aspetto grinzoso, la pelle ingiallisce e si tira, e anche i più giovani sembrano persone anziane. Ma sono belli. Uscendo incontro la signora nel parco e le chiedo come fanno a conservarli così bene. «È un nostro segreto!» mi risponde. «Ci vuole molto per imparare, ma ne vale proprio la 292


pena!» Sorride e mi strizza l'occhio, e allora noto che anche lei ha una buffa espressione da cane. Sicuramente sua figlia ha preso da lei. Sono qui da quasi due mesi. Qualche volta, specialmente nei fine settimana, quando sono a casa anche durante il giorno, se le finestre sono aperte posso udire il suono di forti colpi provenire dalla casa degli ospiti. Probabilmente tagliano i corpi. Dalla loro cucina arrivano odori aspri. Mia moglie dice che dovremmo mandarli via. «Sono mangiatori di cadaveri» le dico allora. «Dove vuoi che vadano? In fondo che fastidio ci danno?» Ma mia moglie non è convinta. Dice che tutti quei corpi la innervosiscono e che non sopporta più l'odore. «E se qualcuno lo sapesse?» chiede. In effetti questo è un problema. Non ne ho parlato con nessuno, ma durante gli ultimi due mesi, con una scusa o l'altra, abbiamo tenuto tutti i nostri amici lontani. Ma più il tempo passa, più diventa difficile trovare delle giustificazioni credibili. E non vorrei che i miei amici cominciassero ad insospettirsi. Ieri sera ho provato a parlare di questo con l'uomo. Ho bussato alla loro porta; l'uomo mi ha accolto con un sorriso. «Si accomodi prego» ha detto. «Beh...» ho detto io a disagio rimanendo sulla porta, «spero che non mi fraintendiate, ma vorrei... Vorrei che capiste che la mia situazione con voi in casa è un po' delicata. Spero che... sì, insomma, non vorrei aver problemi. Se succede qualcosa io sarei costretto a mandarvi via. Vorrei che capiste. Non lo farei per cattiveria...» 293


«Non si preoccupi» ha risposto subito. «Lei è stato molto gentile con noi e non deve preoccuparsi. Capiamo perfettamente, siamo stati altre volte in situazioni come questa. Le garantisco che non avrà nessun disturbo. Ma se c'è qualcosa che non va, non si faccia scrupoli e ce lo faccia sapere.» Io ho annuito e sono rimasto sulla porta senza sapere cosa dire, e l'uomo deve aver percepito il mio imbarazzo, perché mi ha sorriso di nuovo e mi è venuto vicino e mi ha stretto la mano cercando di mettermi a mio agio. Anche sua moglie mi ha guardato con simpatia e ha sorriso e mi ha afferrato la mano con calore. Poi pure la ragazza si è avvicinata e io ho pensato che anche lei volesse stringermi la mano, ma invece mi è quasi saltata al collo, ha aperto la bocca e mi ha baciato sulla guancia destra, molto vicino alla bocca. Mentre mi veniva addosso ho notato che ha i denti più lunghi del normale. Appena però. Sono rimasti cinquantaquattro corpi. Ieri dalla finestra guardavo la famiglia trascinare verso la casa il corpo di una donna grassa, molto grassa, quando ho sentito l'uomo che diceva: «Prima o poi toccherà anche a loro!» Non ha specificato chi sono questi loro, ma alle sue parole tutta la famiglia ha iniziato a ridere sguaiatamente, e questo mi ha stupito, perché in genere sono molto compiti. Non li ho mai visti sghignazzare così prima d'ora. Ho raccontato l'episodio a mia moglie e lei ha subito urlato che quei loro siamo noi, lei ed io. Personalmente non lo credo; di certo si riferivano ai corpi rimasti. Ho detto questo a mia moglie, ma lei non è convinta. La vedo agitata ultimamente. Piuttosto è la ragazza a crearmi qualche problema. Si è fat294


ta molto più intraprendente ora. Tutte le mattine, quando mi vede mi corre incontro, anche se sono ancora in pigiama. Mi sorride sempre e ha preso quest'abitudine di baciarmi, sempre molto vicino alla bocca. Ha l'alito pesante, direi quasi cattivo, forse per via di tutto quello che mangia. Ad ogni modo, quando io sono a casa e lei non sta mangiando, posso vederla gironzolare attorno alla nostra casa, e qualche volta viene anche dentro. A volte, specialmente al mattino presto, si siede nel prato di fronte alla sala da pranzo mentre mia moglie ed io facciamo colazione e ci guarda attraverso le finestre, e rimane lì finché non me ne vado. Spesso mia moglie l'ha vista sorridere mentre se ne stava a guardarci. «Si è invaghita di te» ha detto stamattina. «Non è possibile» ho risposto senza esitazione. «È molto brutta» ho aggiunto. «Ma ha un bel corpo!» ha detto mia moglie guardandomi dritto negli occhi. «Beh, sì...» ho risposto, «però mangia cadaveri». I corpi diminuiscono velocemente. Il prato sembra diverso quando ci sono dei corpi e quando invece è vuoto. Ora sembra molto più grande. Non lo ricordavo così. Comunque qualche corpo c'è ancora. Rinsecchiti, devo dire. Non più molto belli da vedersi. Sembrano rigidi, quasi come stecche di legno; probabilmente sono anche duri. Lo capisco da come li trasportano dentro casa; posso immaginarlo dal numero di colpi che sento. I primi giorni bastavano poche accettate – ho scoperto che usano l'ascia della nostra legnaia – ora invece danno colpi per lungo tempo, a volte anche mezz'ora di seguito. 295


Due giorni fa, spinto dalla curiosità, sono entrato nella loro cucina mentre erano fuori a prendere un cadavere. Il tavolo era sporco di sangue secco, però il resto della cucina era in perfetto ordine. Per terra era pulito, nessun pezzo di carne in giro. In un angolo ho trovato un mucchio di ossa, bianche e ben spolpate, probabilmente quelle degli ultimi corpi che hanno mangiato. Volevo cercare anche le ossa degli altri corpi, perché mi ero sempre chiesto che cosa ne facessero di tutte quelle ossa, ma li ho sentiti arrivare e me ne sono andato attraverso l'ingresso posteriore. Non volevo pensassero che stessi lì a spiarli. Questa notte ho fatto un sogno. Passeggiavo con mia moglie in un cimitero, tutto era molto scuro. Tra i sepolcri ho visto un cavallo che masticava un mazzo di fiori strappato da una delle tombe. Aveva un fianco senza pelle. La carne era chiara e compatta, e i muscoli scoperti erano bianchicci e rossi. Potevo quasi vedere il sangue scorrere nelle vene. Anche il muso era senza pelle; l'occhio sporgeva molto, e si distinguevano con chiarezza i sottili muscoli che lo sorreggevano. Ci ha visti e ha girato la sua testa verso di noi e ci ha detto con una voce cupa: «Andatevene finché siete in tempo!» A quelle parole mi sono svegliato di colpo inorridito. Ho trovato il cuscino completamente bagnato di sudore. Ho raccontato il sogno a mia moglie. «Vogliono mangiarci!» ha strillato lei. Le ho fatto notare che questo non c'entrava niente con il sogno, ma lei non mi è stata nemmeno a sentire e si è lanciata con furia verso il bagno. Potevo chiaramente vedere che stava quasi per perdere il controllo. 296


La situazione sta diventando pesante. Per fortuna i corpi sono quasi finiti. Oggi pomeriggio sono andato di nuovo a parlare con la famiglia e ho chiesto all'uomo cosa avrebbero fatto una volta finiti i corpi. «Ce ne procureremo degli altri» ha risposto sorridendo. «Ma non qui, non si preoccupi.» Allora ho chiesto se avevano intenzione di andarsene. «Tra un po'» ha detto. Mi ha sorriso di nuovo. Poi mi ha stretto la mano come aveva fatto l'altra volta, e anche sua moglie ha voluto stringermi la mano. Anche lei sorrideva. Avevano tutti i denti un po' più lunghi del normale, ho notato. Poi la figlia è partita per baciarmi come al solito, ma questa volta ha mirato alla bocca e io non ho fatto in tempo a chiuderla e per un attimo ho sentito la sua lingua sfiorare i miei denti. Ho pensato che non sarei riuscito a trattenermi dal vomitare. Velocemente ho salutato e mi sono allontanato. Non ho parlato di questo con mia moglie. Più tardi stavo andando verso la camera da letto e ho trovato la ragazzina che mi aspettava davanti alla porta. «Devo parlarti» ha detto. Mia moglie era di sotto nel soggiorno. Ho aperto la porta con cautela e siamo entrati in camera. Mi sono seduto sul letto e lei si è seduta al mio fianco. Abbastanza vicina. Ho notato che indossava un vestito attillato e scollato. Mi sono chiesto se l'aveva messo per l'occasione. Le ho guardato i seni rotondi. Devo confessare che mi sarebbe piaciuto toccarli. Non era molto bella, ma effettivamente aveva un bel corpo. «Ci siete simpatici» ha detto. «Avevamo pensato di man297


giarvi, ma ci siete simpatici e allora abbiamo deciso che non lo faremo.» Per un momento ho pensato ai suoi denti che affondavano nella mia carne. Ho immaginato sua madre succhiarmi gli occhi facendo schioccare le labbra con gusto. «Tu mi piaci» ha detto, «e non ti voglio mangiare». Ho ripensato alla sua lingua scivolare nella mia bocca. «Sono sposato» ho detto. «Volevamo mangiare anche tua moglie» ha detto lei. «Vi abbiamo aiutato. Dovreste essere riconoscenti.» «È appunto per quello che non vi mangeremo. E poi tu mi piaci» ha insistito. Mi è venuta più vicino, e ho sentito il suo alito riempire l'aria attorno alla mia testa. Per un attimo ho quasi avuto la sensazione che si mettesse ad abbaiare, come un cane. «Vogliamo farvi un regalo per ringraziarvi» ha detto. «Quando avremo finito i nostri corpi ce ne andremo, ma prima vogliamo lasciarvi un regalo. Vi va?» Ho pensato alle ossa nascoste da qualche parte. Ho visto pezzi di corpi tagliati con cura e già cotti. «Dipende» ho detto. «È un bel regalo!» ha detto lei. «Ne riparliamo quando questa storia è finita» ho concluso. Allora lei si è fatta ancora più vicina, e mi è sembrata più grande della prima volta che l'ho vista, sicuramente per via di tutto quello che ha mangiato. Comunque improvvisamente mi si è stretta al collo e io non sono riuscito a divincolarmi perché lei era molto forte, e poi ha tentato ancora di baciarmi, io ho chiuso la bocca questa volta, ma lei è riuscita ad aprirmela facendo forza con le mani e ha fatto passare la sua lingua contro il mio palato. 298


«Mi piaci!» ha detto poi staccandosi dalle mie labbra. In quel momento mia moglie ha aperto la porta ed è entrata nella stanza e ci ha visto abbracciati. «Vuole farci un regalo» ho detto, ma lei se n'è andata sbattendo la porta. Abbiamo litigato. Mia moglie ha detto che io sono solo un porco. Ho provato a giustificarmi e spiegarle cosa è successo, ma lei era arrabbiata e si è rifiutata di ascoltarmi. Allora io le ho detto che ormai siamo alla fine, che ormai è soltanto questione di pochi giorni. Sono uscito; fuori era già notte. Camminare nel prato buio non era particolarmente piacevole. Sono inciampato in un cadavere, uno degli ultimi. Sono ritornato in casa, ho acceso le luci nel parco e sono uscito di nuovo a contare i corpi rimasti. Solo sette. «Non più di quattro giorni!» ho detto allora a mia moglie rientrando, cercando di sembrare dolce e remissivo. «Non più di quattro giorni!» Ma lei era ancora arrabbiata e credo che questa notte dovrò dormire sul divano. Finalmente i cadaveri sono finiti. Ieri pomeriggio hanno mangiato l'ultimo. Era il corpo di un uomo giovane, probabilmente abbastanza bello in vita. Ora meno. Però era l'ultimo. Stamattina mia moglie era un po' più calma e così stavamo facendo colazione insieme. Loro non si erano sentiti. Non il più piccolo rumore, niente. E poi, d'improvviso ce li siamo 299


trovati davanti nel soggiorno, e avanzavano verso di noi quasi in punta di piedi. «Ce ne andiamo» ha detto l'uomo. «Siamo venuti a portarvi il regalo» ha aggiunto la ragazza. Poi si è mossa verso il tavolo e mi ha sorriso, e questo è l'ultima cosa che ho percepito con chiarezza. Dopo gli eventi sono abbastanza confusi; non ricordo più bene che è successo, né l'ordine preciso in cui si sono svolte le cose. Credo che la ragazza si sia avvicinata a me con la solita aria di volermi baciare. Allora credo che mia moglie si sia alzata in piedi scagliandosi su la ragazza e cominciando a schiaffeggiarla. O forse è stata la ragazza a schiaffeggiare mia moglie. Comunque hanno iniziato a picchiarsi e a urlare entrambe come due animali impazziti. Credo che a un certo punto la ragazza abbia preso anche a mordere mia moglie e lei si è messa a urlare più forte. Allora sono accorsi anche i genitori della ragazza. Per un attimo ho visto un mucchio compatto di corpi che si muovevano all'unisono, ansimanti e borbottanti. Rumore di carne contro carne, vestiti che si strappavano. Allora sono intervenuto anch'io nella mischia. Ho preso a colpire, menavo colpi senza neppure guardare dove colpivo. Poi ho sentito un dolore fortissimo dietro all'orecchio sinistro, come se qualcuno mi avesse afferrato la carne con una pinza e avesse cominciato a torcere e torcere, sempre più forte. L'ultima cosa che ricordo è il mio urlo mescolarsi a quello di mia moglie. Poi sono svenuto. Ora non so quanto tempo sia passato. Apro gli occhi. Cerco di muovere la testa. La stanza è illuminata con una luce ricca, vibrante. Provo ad alzarmi da terra. Subito il dolore dietro all'orecchio torna ad assalirmi. Appoggio una mano 300


sulla nuca, la ritiro insanguinata. Riesco a tirarmi in piedi. Mi sento debole. Crampi mi serrano lo stomaco. Loro sono lì, seduti tranquillamente davanti a me; aspettano qualcosa, credo. C'è anche mia moglie, ma è distesa a terra, immobile, pallida. Mi avvicino a lei preoccupato, perché vedo qualcosa che le sporge dalla bocca. Le prendo una mano ed è molto fredda. «Fa freddo qua dentro» dico, o forse sto semplicemente pensandolo mentre guardo la famiglia. «C'è freddo, sentite com'è fredda.» Le tengo la mano, la alzo verso di loro cercando il loro aiuto. Ma poi sono distratto da questa cosa che esce dalla bocca di mia moglie. Dimentico la mano e mi avvicino al suo viso. C'è questa strana cosa, come un rigonfiamento allungato che le scivola fuori dalle labbra. Sembra di materiale spugnoso, di un meraviglioso azzurro smeraldo. Bellissimo, luccica quasi come vivo. A momenti sembra schiuma. Mi ricorda anche il fegato di qualche grosso animale, eppure è azzurro, quasi trasparente, non può essere... «È mia moglie» dico, sono quasi sicuro di averlo detto. «È bellissima!» Sto ad osservarla per un po' mentre la famiglia ci osserva, seduta in semicerchio attorno a noi. Ora sento che c'è molta intimità tra noi, mi sembra quasi che i mangiatori di cadaveri siano parte di noi. Sono stati a lungo nostri ospiti, siamo come amici in fondo, ci conosciamo bene, ci vogliamo quasi bene. Ho anche baciato la loro figlia, due volte sulla bocca. Mia moglie ancora non riesce a svegliarsi. È molto pallida, ha le labbra viola. E poi c'è questa cosa azzurra e luminosa che le esce dalla bocca, le scende un po' sul petto, le si appoggia appena sui seni. Non so cos'è, ma è di mia moglie. Mi 301


viene da pensare che è come se fosse fiorita, con un petalo unico e azzurro. Lo sfioro, lo tocco; è gelatinoso, tremula per un po' anche quando non lo tocco più. Lo afferro con entrambe le mani e provo a sfilarglielo dalla bocca, ma mi scivola tra le dita. Vorrei strapparlo via, ma non so come fare. Provo ad accostarmi con la faccia alla massa azzurra e sento che manda un odore pungente. Però non è sgradevole, anzi, è un buon odore. Provo a grattare quell'ammasso viscido con le unghie, ma senza risultato. Prendo di tasca il fazzoletto e tento di afferrarlo con la stoffa sperando che non scivoli, ma anche questa volta mi sguscia via dalle mani. L'odore è forte adesso, mi stordisce quasi. Non so più cosa fare. Mi accosto con la lingua sul rigonfiamento azzurro, lo sfioro più volte soltanto con la punta. Non ha sapore. Provo a mordicchiarlo, e lo sento compatto. Lo mordo più forte, cercando finalmente di strappare l'ammasso dalla bocca di mia moglie tirandolo con i denti. «Ecco, comincia» sento allora l'uomo bisbigliare. «Sì» sento sua moglie rispondere... Padova 1986

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FRATELLI, NEI GIORNI DELLA PIOGGIA

Nell’ultimo mese Aldo è ingrassato di altri otto chili e così

ha deciso che non si sposterà più dalla vasca da bagno. Aldo è testardo, lo è sempre stato, tra noi fratelli lui era quello più duro di tutti anche da bambino, nessuno riusciva a smuoverlo quando si ficcava una cosa in testa. Così tre giorni fa si è pesato e quando ha visto che la lancetta indicava centosedici ha urlato e si è infilato in bagno e non l’abbiamo più visto uscire. Ci abbiamo provato in tutti i modi a tirarlo fuori dalla vasca, ma non c’è stato verso: ha deciso che resterà lì dentro. Sdraiato nella vasca, come fosse un letto, non fa altro che guardare il soffitto, e crescere. Neanche la minaccia di lasciarlo senza cibo ha funzionato. Aldo si è messo a ridere quando gliel’abbiamo detto. «E lasciatemi senza mangiare!» ha gridato. Anzi, si è rifiutato di mangiare per tre giorni, e quello che gli portavamo l’ha buttato per terra. E intanto ha continuato a ingrassare. Così adesso gli portiamo da mangiare in bagno e siamo senza vasca e anche senza bagno, e ci tocca tutti usare l’altro bagno più piccolo, su in mansarda, anche per lavarci, con tutte quelle scale da fare per salire in cima. 303


Certo, siamo piuttosto seccati di andare su e giù per le scale, ma non è quello il punto. Insomma, il punto è che Aldo sta ingrassando e anche Vito ha cominciato a crescere e questo è preoccupante. Due chili questo mese, anche lui, sì, come Aldo, anche se non ingrassa ancora al ritmo di Aldo. Nessuno sa spiegare cosa sta succedendo questa volta dentro casa. Di noi sei, Aldo era il più magro. E adesso non smette più di crescere. C’è da dire che non è la prima volta che Aldo ne combina una delle sue. Aldo non è una persona facile. Da bambino ci raccontava storie che inventava e noi stavamo ad ascoltarlo riuniti in cerchio, tutti noi fratelli pendevamo dalle sue labbra, ogni volta volevamo sapere come sarebbe andata a finire la storia che si inventava al momento, ma lui non le finiva mai le storie, lo faceva apposta a non finirle. Invece, con un gesto che tutti sapevamo sarebbe arrivato e che tutti temevamo, a un certo punto col dito indicava uno di noi, e a chi toccava toccava. Ci guardava già allora con quei suoi occhi troppo neri e ci faceva paura. Però dovevamo stare al gioco, fingere di volerlo ascoltare, se solo volevamo scamparla. Lo assecondavamo sempre. Quando ero io la vittima designata ricordo che mi veniva da piangere, avrei voluto scappare, ma non potevo farlo, perché tutti i fratelli si aspettavano che io me ne restassi buono a sopportare la penitenza che Aldo aveva scelto per quella volta, e ogni volta era diversa ed era una sorpresa spiacevole. Aldo aveva una gran fantasia. Tutti se ne restavano fermi in attesa quando toccava a loro, e quindi anche io dovevo fare altrettanto se era il mio turno. Così trattenevo le lacrime, o a volte piangevo anche, 304


ma restavo comunque fermo aspettando che Aldo facesse su di me quello che aveva scelto di fare, mentre gli altri fratelli stavano a guardare. Ancora ho le cicatrici per quello che riusciva a farmi con le mani o con gli altri attrezzi che si portava sempre dietro. Ma era soprattutto delle sue mani che avevo paura, perché se mi toccava non potevo prevedere come avrebbe reagito il mio corpo. Ero fortunato se uscivo da quegli incontri solo con qualche piaga che ci metteva giorni a sparire. Aldo è strano. L’abbiamo sempre pensato. Un’altra volta era successo che d’improvviso dei brufoli avevano cominciato a spuntargli addosso. Avrà avuto dodici anni, io ne avevo nove, gli altri erano ancora più piccoli. I brufoli erano tanti, brutti, con la punta bianca ripiena di pus, e ce li aveva dappertutto, sulla fronte e sul naso, sulle labbra gli diventavano gialli e lui li rompeva con i denti, e già dopo tre ore gli erano ricresciuti. Ma ce li aveva anche sul collo e sulle braccia. Allora si levava la maglietta e ce li faceva vedere bene, anche quelli sul petto e sullo stomaco. Poi si girava perché potessimo ammirare quelli dietro la schiena. E la cosa strana è che non gli prudevano affatto, almeno così ci diceva, e anzi lui ne era quasi orgoglioso, ce li mostrava come fossero trofei. Lo guardavamo incuriositi, nessuno di noi li aveva mai visti dei brufoli come quelli, e per noi lui era una specie di rarità, un mostro che ci girava libero in casa. Siamo sinceri, un po' di paura ce l’avevamo, anche senza contare tutto quello che ci faceva di solito. E poi con tutti quei brufoli mandava un odore dolce di mela cotogna, o di marmellata di prugne che ci nauseava. Ne era piena la casa, dovevamo te305


nere le finestre aperte per mandare via l’odore. Non poteva portare una maglietta per più di qualche ora, poi i brufoli si spaccavano quando si muoveva, e gli macchiavano la stoffa con tante piccole gocce gialle che si vedevano anche da fuori, e quando la maglia era piena di quelle macchie Aldo rientrava in casa per cambiarsi. Cinque o sei magliette al giorno, nostra madre non era affatto contenta, con tutto il da fare che già aveva con noi fratelli, le magliette non bastavano mai, e i pantaloni nemmeno, e il mangiare e tutto il resto. Una volta in quel periodo Aldo si tirò giù le mutande e ci fece vedere i brufoli che aveva sul culo e anche sul pisello. Il suo pisello era piccolo, una specie di mollusco moscio e rossastro ripieno di queste punte bianche. Poi aveva puntato un dito contro di me e voleva che glielo toccassi per farmi sentire com’erano dure quelle punte bianche in cima ai suoi brufoli. Esitai, ma non c’era verso, aveva detto che dovevo toccarglielo e io non potevo rifiutarmi, e glielo toccai. Il pisello era moscio, ma quando ci passai sopra la mano lo vidi che si induriva un po'. Ma io non mi preoccupavo di vederlo ingrossare, a quel tempo non capivo neanche perché dovesse aumentare di volume, piuttosto mi faceva paura l’idea che toccandolo anche io mi sarei riempito la mano di tanti brufoli come i suoi. Ricordo che dopo mi lavai la mano con la nafta e lo spazzolone per i panni per rimuovere il liquido che dai brufoli spaccati mi si era incollato alle dita. E comunque nessuno di noi fratelli li prese. Solo Aldo. Gli passarono da un giorno all’altro, dopo tre settimane, e non c’era spiegazione per questo fenomeno. Ma lui era fatto così, gli capitavano ogni tanto queste cose bizzarre, come quando invece cominciò a far scricchiolare le cose di legno della ca306


sa, le superfici dei mobili, le assi del pavimento, tutto quello che era di legno scricchiolava quando lui era vicino, a un metro, forse due. La cosa più strana è che succedeva solo dentro casa, se invece c’era un pezzo di legno fuori, un albero o un giocattolo di legno che i più piccoli lasciavano fuori, niente. Scricchiolii zero. Quando faceva scricchiolare le cose non rompeva nulla, solo lo si sentiva quando arrivava, perché prima ancora che riuscissimo a vederlo era preceduto da questo fruscio, come se le cose di legno della casa annunciassero il suo arrivo. «Il legno parla» diceva lui, noi ci divertivamo con l’idea che lui riuscisse a far dire parole al legno. «Chissà che ti dice il legno quando passi!» gli urlavamo dietro, «forse il legno è innamorato di te!» gli grido Valerio una volta. E noi ridevamo. In quel caso Aldo non ci picchiò neppure. Rideva anche lui. Dopo restava il ricordo di lui impresso sulle cose: piccole screpolature che rigavano gli oggetti, una miriade di vene, quasi. Anche questo gli durò tre settimane, ma tutta la casa porta ancora il marchio di questa sua simpatia per il legno. A volte penso che abbia attaccato queste sue stranezze anche a noi. Vincenzo, per esempio, una volta per tre giorni non poteva più camminare normalmente, ma era costretto a strusciare i piedi e non riusciva più a staccarli da terra. «È come essere fusi col pavimento» diceva per spiegarsi, ma nessuno di noi lo capiva, perché a guardarlo aveva i piedi ben fuori, appoggiati sul pavimento come tutti noi. Quando teneva le scarpe, fuori, allora tutto tornava normale, e Vincenzo camminava come un uomo libero. Ma se stava in casa le scarpe doveva toglierle, nessuno di noi avrebbe osato por307


tarle in casa, e allora ecco che incominciava a strusciare come una grossa lumaca, strusciava e sudava, gli guardavamo i piedi ed erano normali, glieli toccavamo anche, ma non sentivamo nulla, forse solo un po' di calore, ma era normale avere i piedi caldi, no? Però quando si metteva dritto in piedi senza scarpe ecco che camminava come se quei piedi fossero affondati dentro al pavimento, e a fare tre metri ci metteva anche dieci minuti, e soffriva molto, glielo potevamo vedere chiaramente scritto in faccia, così che quando gli passò d’improvviso tirammo tutti un bel sospiro di sollievo, perché Vincenzo non è come Aldo, lui se la prendeva veramente e aveva cominciato anche a dire che era tutta colpa di Aldo, e voleva anche picchiarlo. Insomma, lo diceva soltanto di volerlo picchiare, chiaro, perché poi di farlo non se ne parlava, lo sapevamo tutti che era impossibile picchiare Aldo, ancora abbiamo addosso tanti segni di quando eravamo troppo piccoli e non avevamo capito di com’era fatto Aldo, e ci avevamo provato a picchiarlo quando lui ci faceva quelle cose che non ci piacevano. Poi però c’è stato anche il caso di Vinicio, che per un po' si è portato dietro un’ombra. La cosa più strana di quest’ombra era che nessuno poteva vederla veramente, ma tutti sapevamo che c’era perché la potevamo intuire con la coda dell’occhio. Era una specie di figura scura che seguiva Vinicio da dietro, un po' di lato; c’era sempre, di giorno e anche di notte, alla luce del sole o contro quella artificiale delle lampadine. C’era anche nel buio totale, o sotto le stelle. Nessuno la vedeva, ma tutti sapevamo che era lì. Se guardavamo Vinicio di fronte o di profilo, niente, era solo e normale, e 308


quando era una bella giornata al massimo riuscivamo a scorgere la sua ombra naturale, quella che tutti ci trasciniamo dietro. A toccarlo Vinicio era come noi, niente di niente addosso. Correva, sudava, rideva, si fermava, la sua pelle era umida, camminava come tutti, e nessuno ci poteva proprio trovare niente di strano in lui. Però si trascinava dietro l’ombra. Era un’ombra che c’era quando non la guardavamo ma pensavamo di farlo. E non è che fossimo solo noi a vederla, perché anche nostra madre se ne accorse, e disse: «Vinicio, cos’è quella macchia che ti segue?» la chiamava macchia perché non trovava altro modo per definirla, e infatti era proprio così: era una macchia che stava appiccicata a Vinicio, sempre. Vinicio non se l’aveva a male, anzi rideva, forse perché era l’unico che non si accorgeva di nulla. La macchia, così la chiamavamo tutti dopo quella volta che nostra madre l’aveva nominata. Vinicio non la poteva vedere perché era troppo vicina a lui, quindi diceva che ce l’eravamo inventata per prenderlo in giro, e rideva quando eravamo a cena e gli chiedevamo: «Ma alla macchia non dai da mangiare?». Faceva un verso strano e rispondeva che no, la macchia non aveva fame quella sera. Poi anche la macchia è sparita: un giorno c’era, al mattino del giorno dopo ci sembrava che mancasse qualcuno in casa. Cercavamo di guardare Vinicio senza guardarlo direttamente per poter veder la macchia. Ma la macchia era sparita. Comunque Aldo è sempre stato una preoccupazione per noi. Anche quando siamo cresciuti non potevamo portare le ragazze in casa perché Aldo non voleva donne in giro, e le 309


prime volte non l’avevamo capito, perché lui non è che ce lo avesse detto chiaramente, e così le portavamo in casa per cena, per far conoscere i fratelli, o nostra madre, e nostro padre anche. In fondo quelli erano i nostri primi esperimenti con l’altro sesso, non sapevamo ancora bene cosa fare, e portare le ragazze in casa ci sembrava la cosa più naturale di questo mondo. E poi ci piaceva mostrare in giro la nostra abilità di cacciatori, ci piaceva che le ragazze ci circolassero in casa come mosche. L’invidia cresceva tra noi al pari della nostra voglia di accarezzare la pelle di quelle donne. Ma alla fine era sempre la stessa storia: dopo una volta che venivano non tornavano più, perché si preoccupavano quando vedevano il pavimento che cominciava a muoversi senza ragione, e gli scricchiolii che sentivano non riuscivano a capire da dove provenissero, perché eravamo tutti fermi e tutti presenti davanti a loro, così si spaventavano. Come non capirle? Anch’io mi sarei spaventato se non avessi fatto l’abitudine a queste cose, anch’io mi sarei preoccupato se tutte le luci di una stanza avessero cominciato a lampeggiare, e poi scoppiavano una dopo l’altra con un piccolo lampo accecante. Insomma in realtà non c’era controllo su quanto ci succedeva in casa, soprattutto negli ultimi tempi, dopo che i nostri genitori erano morti: un incidente, l’auto schiantata, rovesciati, morti, un giorno c’erano, tre giorni dopo eravamo dietro al carro che li trascinava al cimitero, e insomma, erano morti lasciandoci la casa e quattro soldi per mandarla avanti. E Aldo se ne approfittò subito, perché era il fratello più grande e quello più prepotente, per cui ci comandava tutti. 310


Gli bastava uno sguardo con i suoi occhi neri e già la paura ci riempiva e ubbidivamo come animali domestici. In realtà lo faceva anche prima, quando mamma e papà erano con noi, ma dopo Aldo aveva potenziato il controllo, e non c’era più nessuno che gli impedisse di dire e fare ciò che voleva. Comunque, anche quando Aldo non era in casa, mentre magari era lungo il fiume ad ammazzare i pesci con le bombe o con l’elettricità, capitavano cose. È successo anche a me una volta che ho portato questa ragazza, si chiamava Ines, l’ho portata in casa perché sapevo che Aldo non c’era e non ci sarebbe stato per un po', per cui volevo farci un po' di cose con questa ragazza. Era molto bella, rossa, con i capelli lunghi e tutto il resto, anche se aveva i brufoli in faccia che mi ricordavano quelli di Aldo, ma mi piaceva lo stesso e l’ho portata di sopra in camera, e lei si è stesa sul letto e io ho cominciato a toccarla, le ho messo la mano sul petto prima sopra al vestito, poi sono riuscito a intrufolarmi sotto, a superare anche l’elastico del reggiseno, e così la stavo toccando per bene ed ero anche riuscito a infilare l’altra mano in basso tra le gambe sotto alla gonna, sentivo che le piaceva, Ines mandava questi sospiri sommessi e intanto allargava le gambe, e già ero arrivato con le dita a scoprire l’umidità viscosa delle sue mutandine quando poi ho cominciato anche a sentire il calore, un calore troppo forte per essere quello emesso dal corpo di Ines. Erano cinquanta gradi almeno, magari sessanta, che irradiavano da sotto gli slip. Ho staccato le dita perché mi stavo scottando, ho pensato che Ines ci avesse messo qualcosa per impedire agli uomini di toccarla, non so, una specie di schermo bruciante, ma poi Ines ha cominciato a gridare che le facevo male, però io non la toccavo già più e lei gridava lo stesso, e io le facevo vedere le mani tese davan311


ti a me, «Guarda, non ti sto toccando!» le dicevo, ma lei continuava a urlare. Poi è balzata su dal letto ed è schizzata giù per le scale e non l’ho più vista, e ho dovuto aprire la finestra perché il caldo nella stanza era diventato insopportabile, e io sudavo ed ero bagnato. Guardai fuori oltre la finestra e pioveva. La mano mi scottava, era ancora umida e profumata dei liquidi di Ines, ma scottava come se avessi toccato l’inferno. Pochi istanti dopo vidi Ines lontana correre via dalla nostra casa senza girarsi indietro, e correva e si bagnava sotto la pioggia. Anche nei giorni trasparenti pioveva. Li chiamammo così quei giorni d'oblio che ci piombarono addosso: i giorni trasparenti. Niente a che vedere con ciò che mi era accaduto con Ines o le altre ragazze, erano cose minime quelle, invece sto parlando di un'altra storia che coinvolse tutti, gli altri fratelli, e anche Aldo. Cominciò durante un temporale, cominciò a piovere forte, lampi di luce folgorante precedevano rombi nel cielo. L'acqua riempiva i campi già colmi di grano e orzo. Scendevano gocce grandi come perle di vetro, ci fu un lampo, poi uno immediatamente dopo, e un tuono forte che scosse l'aria. Luce e suono arrivarono vicinissimi, assieme quasi, e i vetri si spaccarono subito, fu come un'esplosione. Era sera, ormai notte, e tutti eravamo in casa, e tutti ci spaventammo. Però a nessuno di noi venne in mente di urlare, anzi fu piuttosto strano il fatto che in fondo la cosa ci piaceva anche. I vetri esplosero, diecimila frammenti di vetro riempirono l'aria attorno, e poi schegge minuscole ci si infilarono addosso, negli occhi e nella faccia, nella pelle, nelle mani, in tutto il corpo penetrando fino alle ossa. Ci 312


vennero incontro in una frazione di secondo dopo l'esplosione, ma non ce ne accorgemmo neppure. Non provammo dolore. Semplicemente i vetri si fusero coi nostri corpi e noi li assorbimmo con rapidità, e quasi subito ci fu facile acquisire le proprietà del vetro e dell'acqua. Ce ne accorgemmo guardando Aldo che era diventato trasparente prima ancora di tutti noi, ma quando già cominciavamo a sospettare di lui, quando già cominciavamo a pensare che ci stesse giocando un altro dei suoi scherzi cattivi, mentre pensavamo questo, anche noi lo seguimmo nel processo di trasformazione. Diventammo vetro forse, o chissà cos'altro. Trasparenti, comunque. Eravamo lampo forse, lampo chiaro e lucido e rapido. O acqua, limpida come quella che cadeva rumorosa sui campi e sul tetto della nostra casa. Ma quando il temporale passò noi restammo leggeri come quell’acqua. Leggeri come l'aria, come la luce, come il vento. Trasparenti come il vetro che era esploso contro i nostri corpi indifesi. Dopo il temporale nostra madre scese le scale ed entrò nel soggiorno e non ci vide. Pensò che fossimo a dormire e solo il giorno dopo cominciò a preoccuparsi, perché non era mai capitato che nessuno di noi fosse in casa. A colazione, a pranzo e a cena eravamo tutti lì, ma nostra madre non ci poteva più vedere. E anche le nostre voci erano diventate trasparenti, così che era impossibile per noi dirle: « Siamo qui, davanti a te!». Non ci sentiva né ci vedeva, come non ci vide il vicino che venne a visitarci il mattino del giorno seguente, e non trovando nessuno in casa se ne andò. Nostra madre ci cercò per molte ore, ci cercò nelle nostre stanze e poi nei campi. Camminò in mezzo al grano ancora bagnato senza scoprire le nostre tracce. Tornò in casa, e voleva andare dalla polizia per farci ritrovare. Se non lo fece fu soltanto 313


perché la fermammo sulla porta. Non ci vedeva né ci sentiva, ma capimmo che potevamo ancora toccarla. Così la sfiorammo con le nostre dita d’acqua e lei si accorse di noi, e comprese e sorrise, e dopo averci ritrovato ritornò tranquilla in casa. Non ci poteva vedere, ma sapeva che eravamo attorno a lei e questo le bastava. Sorrise e pianse lacrime tenui che ci somigliavano. Durò tre settimane. In quel tempo facevamo tutto ciò che avevamo sempre fatto: mangiare, bere, dormire, andavamo in bagno come sempre. Tra noi parlavamo spesso, perché tra noi potevamo sentirci. Mangiavamo ciò che ci preparava nostra madre. Non appena il cibo superava le nostre bocche diventava come noi: invisibile. Nostra madre vedeva il cibo salire sopra ai piatti senza ragione, poi dissolversi. Durò tre settimane, poi, come sempre era accaduto, d’improvviso tornammo normali e visibili. Fu Aldo a mostrarsi per primo, naturalmente, poi tutti gli altri. Prima i vestiti, poi i nostri corpi dentro ai vestiti. Nostra madre sapeva che sarebbe successo e aspettava di vederci riapparire seduta nella poltrona. Quando tornammo sorrise con quel suo incredibile sorriso dolce e a vederla in quel modo, che quasi piangeva di gioia a rivederci, finalmente, anche a me veniva da piangere. Era molto bella nostra madre. Era stato Aldo a farci sparire? Difficile dirlo. Non siamo mai riusciti a saperlo. Di certo se era Aldo la ragione di quel fenomeno, contemporaneamente ne diventò anche vittima. Forse, troppo preso nel compito di controllare la realtà, aveva esagerato, diventando anche lui preda del suo gioco di prestigio. Forse. Ma non abbiamo mai potuto urlargli addos314


so: «Tu! Sei tu il colpevole! Tu ci hai lanciato in questo mondo così fragile!». Non abbiamo mai potuto farlo perché mai ne abbiamo avuto le prove. Neppure oggi, dopo anni, e sono molti gli anni passati dal periodo dei giorni trasparenti, sappiamo dire. E neppure ora possiamo andare in bagno a domandargli di quei tempi, perché lui è lì dentro la vasca a ingrassare come un'anatra e mi fa paura. Ormai è troppo tardi. Però, se solo potessi, vorrei chiederglielo: sei stato tu Aldo? Per i giorni trasparenti, e anche per tutto il resto, tutte le altre volte... Sei stato tu? La domanda spesso mi scorre in testa. Ma mi dico anche: perché avrebbe dovuto inventarsi cose come queste, tiracele addosso a noi tutti nella casa, i fratelli, e tirarle anche contro se stesso? Perché? Anche oggi è un giorno di pioggia, e l’acqua ci circonda. Sono tre giorni che piove. Piove fuori, da oltre la veranda, da oltre i vetri. Il rumore battente delle gocce copre ogni altro suono. Piove forte e la pioggia crea velature nello sguardo verso l’orizzonte, dove la campagna si perde contro il cielo. Fuori dalla finestra posso distinguere la striscia verde dei campi coltivati, e quella grigia e alta del cielo. Sono colori lontani e tenui, sommersi nell’acqua, e provo tenerezza. Il profumo della pioggia in campagna è meraviglioso. Siamo nella casa, tutti noi fratelli. Sono giorni ormai che non usciamo, anche da prima che cominciasse a piovere. Comunque adesso piove e Aldo è ancora in vasca da bagno. Di sicuro ha superato i centocinquanta, è gigantesco ormai. 315


Ci fa paura quando gli portiamo da mangiare, a turno. Cerchiamo di evitare che ci tocchi con le sue dita, perché non sappiamo proprio cosa potrebbe succederci a essere toccati o anche semplicemente sfiorati da quelle dita. Chiedetelo a Vinicio. Ieri di certo non è stato fortunato. O forse è stato solo sciocco, lo sapeva che doveva stare attento mentre gli lasciava il vassoio col cibo. Ma Vinicio è stato sempre un po' lento, e non dico che si merita ciò che gli è capitato, però... E poi Aldo ci urla cose che non capiamo. Urla parole, una dietro l’altra. Vuole dirci cose, questo è certo. Ma il fatto è che le parole che pronuncia, prese singolarmente, una per una, ci sono chiare, chiarissime; pure, quando quelle parole Aldo le mette in fila in una frase non sappiamo più cosa ci sta dicendo. A ogni momento ci pare di capirlo, ma se qualcuno ci chiedesse: cosa ha detto con le sue urla da animale inquieto?, nessuno di noi saprebbe dirlo. Forse parla una lingua nuova, che ha inventato sdraiato in vasca da bagno. È la lingua dei solitari, la parola dei malati, il verbo di chi sta impazzendo. La sola cosa che comprendiamo bene è la sua ira per la carne che gli cresce addosso. Sta crescendo e sta anche diventando lucido. Ce ne siamo accorti tre giorni fa, sembrava sudasse, ma fuori faceva freddo quasi, e non poteva essere che sudava così. Fuori pioveva. In bagno faceva freddo. Eppure Aldo grondava. Certamente suda perché è così grasso, ci siamo detti, insomma, non eravamo sicuri, ma in fondo come facevamo a saperlo?, nessuno di noi era mai stato così in carne, era un’esperienza nuova per tutti noi. Magari si è fatto un bagno e quello che vediamo non è sudore, ma acqua, ci siamo detti, acqua di vasca, in fondo ci vive ormai dentro la vasca, si laverà anche qualche volta, no? Però non poteva essere perché 316


i vestiti erano asciutti, insomma, quasi asciutti, erano bagnati un po' perché era Aldo che grondava. È stato Valerio a tirare fuori questa storia dello scioglimento. «Per me si sta sciogliendo» ha detto. Eravamo in sala da pranzo, a cena, davanti a un piatto semplice di carne tolta dalle scatolette e due foglie d’insalata. Non è che avessimo molto altro cibo ormai. Per un attimo tutti abbiamo guardato Valerio come si osserva un demente in famiglia quando apre bocca: con affetto compassione tenerezza, mentre ci parlava di scioglimenti. Però siamo rimasti ad ascoltarlo, prima di tutto perché era nostro fratello, e poi perché in fondo non è che potessimo scartare totalmente quella possibilità. In fondo di cose ne erano successe in casa: i brufoli di Aldo e le ombre di Vincenzo, le lampadine che scoppiano davanti alle ragazze, e il legno che scricchiola intuendo la presenza di Aldo, e la carne delle nostre prime fidanzate che si infiamma o la trasformazione dei nostri corpi in vetro. Per non dire di tutte le altre cose che ci erano capitate negli anni: le stanze che non riuscivamo più a trovare anche se sapevamo che c’erano, e quella volta che non potevamo più riconoscerci, e ci incontravamo in casa e la sensazione che avevamo addosso era chiaramente quella di incontrare estranei, come ci vedessimo per la prima volta, e poi anche quell’altra volta, quando tutte le porte di casa si aprivano sulla cucina, e noi cercavamo di andare a dormire, o in bagno, o uscir fuori nella campagna, e invece finivamo sempre in cucina senza sapere perché, e lì c’era nostra madre che ci aspettava. «Siete ancora qui?» ci diceva incuriosita, guardandoci entrare e uscire dalla porta. E ci sorrideva come solo 317


una madre sa fare, sorrideva per la nostra ingenuità infinita. «È arrivato il suo momento» ha continuato Valerio mentre si infilava in bocca un bel pezzo di carne in gelatina. «Prima si gonfia e poi si scioglie. Si è gonfiato fino al limite, adesso comincerà a sciogliersi, vedrete, e di lui non resterà nulla. E sarà il primo di noi ad andarsene. Non c’è altra spiegazione. Poi ci siamo noi.» Era una possibilità come un’altra. Inquietante e sbagliata, probabilmente. O almeno tutti lo speravamo. Ma non potevamo ignorarla. Anche perché pure Vito nelle ultime tre settimane era ingrassato ancora. Otto chili, questa volta, e già cominciava ad assomigliare ad Aldo, e ce n’eravamo accorti tutti anche se non dicevamo nulla, e già qualcuno di noi pensava, ne sono sicuro, che presto anche il bagno della mansarda sarebbe stato occupato in maniera permanente, anche se Vito è molto più docile di Aldo, e magari saremmo riusciti a scacciarlo senza troppe conseguenze. Guardavamo Vito preoccupati. Temevamo molto che questo potesse accadere, perché saremmo restati senza bagno. Ma anche un altro pensiero vagava tra noi, sfiorava pareti e pavimento, le nostre teste: il cibo. Il cibo cominciava a scarseggiare, erano giorni ormai che davamo fondo alle provviste di riserva, scatolette e cibi surgelati, tonno e sardine, pomodori secchi sott’olio, di pane già non se ne parlava più, e di verdure fresche neanche, c’erano solo scatolette di carne, biscotti, gallette, buste di legumi congelati che sparirono presto trasformati in zuppe fumanti, e poco altro: due salami, una forma di formaggio che ci durò due giorni. Ma la cosa preoccupante era che nessuno di noi si era presa la briga di andare in città a procurarsi altro cibo. E la cosa più preoccupante ancora era che nessuno di noi pareva volesse 318


prendersi la briga di muoversi per il cibo. Era come se a nessuno interessasse mangiare. Nessuno. O forse dovrei dire piuttosto che era come se nessuno di noi fosse interessato a uscire per procurarsi da mangiare. Restavamo tutti in casa, confinati nel soggiorno, aspettando che qualcuno uscisse per procurare da mangiare alla famiglia. Parlavamo poco, ci guardavamo molto negli occhi. Aspettavamo. Mangiavamo quel che c’era. Mangiavamo sempre meno e non uscivamo più. Fuori pioveva, pioveva, anche ora piove. Sono giorni che piove, sta piovendo a dirotto, il suono della pioggia è diventato un compagno indispensabile per le nostre orecchie ormai. È con noi sempre, batte sui campi e sulla terra, sul tetto della nostra casa, e ci segue nel sonno e nella fame. Il cibo è finito. Sono tre giorni che non andiamo a vedere come sta Aldo. L’idea che ci possa toccare ci spaventa infinitamente. E non abbiamo più cibo da dargli, quindi evitiamo persino di affacciarci oltre la porta del bagno. E non lo capiremmo anche se ci parlasse. È da un po' che abbiamo rinunciato a capirlo. E non capiamo neppure questa storia del mangiare. Non mangiamo più ormai, perché non c’è più niente da mangiare, e non usciamo più, perché di uscire non ci va. Ma nonostante ciò abbiamo preso a crescere, ingrassare. Tutti noi. Non al ritmo di Aldo, certo, ma cresciamo comunque. Tre giorni fa Vito ha superato i cento chili, e anche io sono ingrassato di almeno tre chili. Però, se dovessi proprio essere sincero, questo è un pensiero che ha smesso di essere una preoccupazione. Se dobbiamo ingrassare, ingrasseremo. In fondo cosa c’è di ma319


le a essere grandi, e lenti? Stiamo diventando una bellissima famiglia grassa. Fuori piove, sono dodici giorni ormai. Da sei giorni nessuno di noi tocca cibo. Non è che non abbiamo fame, se ci fosse un piatto di pasta io lo mangerei volentieri, e sono sicuro che anche gli altri fratelli dividerebbero con me quel piatto con piacere. È che il cibo non c’è, non ce n’è più in casa, e fuori piove, e il solo modo per procurarsi il cibo è quello di uscire, prendere l’auto sotto la pioggia, e andare in città, e nessuno di noi ne ha voglia. Si sta così bene in casa. È così bello il rumore della pioggia, così riposante. E poi, sono ormai giorni che Aldo non urla più, e questo ci lascia tutti più tranquilli. Non sappiamo cosa gli è successo, se aveva ragione Valerio a dire che si sarebbe sciolto, e che ora Aldo si è sciolto finalmente, così è per questo che non urla più. Oppure magari la mancanza di cibo gli giova, e Aldo ha cominciato a perdere tutti i chili che aveva messo su, e quindi non protesta: sta ritornando normale, è felice perché vede il miglioramento del suo corpo, ripensa a quando era più magro, e crede che presto tornerà a esserlo di nuovo, e che presto tornerà a dirci cose, a tutti noi fratelli: cosa fare, e come farlo, senza troppe discussioni. O forse dorme, dorme tranquillo come un cucciolo, finalmente. Intanto passano i giorni, e noi passiamo le giornate davanti al tavolo di cucina, ci sono io, c’è Vinicio, e Valerio e Vito, e Vincenzo anche. Ci siamo tutti davanti al tavolo vuoto, davanti al ripiano di faggio massiccio e ruvido che ha visto tanti nostri pasti assieme. Ora non c’è niente su quel ripiano. 320


Vuoto. Aldo è nella vasca. È, o forse non è più, se è vero quel che dice Valerio, non lo sappiamo, di certo sappiamo che non fa più rumore, non sbuffa non protesta. È difficile dire cosa gli è capitato: per esserne certi bisognerebbe andare fino in bagno e scoprire che fine ha fatto. Ma chi di noi ha voglia di muoversi? Intanto fuori piove. Intanto in casa tutto è tranquillo. Addosso ci è calato questo senso di calma meravigliosa, appagante e gommosa. Ci guardiamo negli occhi, io trascino lento lo sguardo da Vito a Valerio, poi su Vincenzo e Vinicio, e ritorno su Vito. Sono tutti grassi, grandi, enormi, ripieni. Sono bellissimi. Come me del resto. Siamo bellissimi. Siamo qui che ci guardiamo negli occhi, immobili e tranquilli e di spostarci non ci interessa più. A un certo punto è Vito che parla, apre la bocca con lentezza estrema, parla sopra alla musica della pioggia: «Che bella vita che facciamo in questa casa» dice Vito. E sorride, e quel sorriso mi ricorda nostra madre, e quel sorriso mi riempie gli occhi di lacrime e vorrei abbracciarlo. Ha ragione, penso. Facciamo proprio una bella vita. Milano 2005

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L'OCCHIO AMOREVOLE

Se qualcuno avesse potuto vederlo sarebbe stato colpito

dal suo aspetto tozzo, dalla pesantezza dei movimenti, dal suo camminare lento in cerca di equilibri difficili da mantenere sulle sue gambe massicce. Ora, come sempre più spesso faceva nelle sue lunghe giornate, si guardava allo specchio, muovendo appena gli occhi sulla superficie lucida che lo rifletteva. L'immagine non era perfetta, alterata da leggere deformazioni del vetro che generavano onde di luce intrecciate. Il suo occhio azzurro si posava sul torace gigantesco dell'immagine, sul riflesso di una spalla; la luce laterale creava ombre lievi che amplificavano le superfici delle increspature di pelle. Amava le geometrie rotonde del suo corpo. Poteva rimanere ad osservare la sua immagine per ore. Ore a scrutare la sua carne morbida, le simmetrie, le valli, le nicchie, le concavità, le vibrazioni dei tessuti, strati su strati di grasso lucido. D'improvviso gli animali urlarono e l'uomo si girò di scatto; aprì la bocca e la richiuse. Trascorsero pochi istanti ed ecco le urla ripetersi, rauche come grida strozzate, e allora mosse gli occhi. Gli veniva da pensare alle sirene; il canto 322


delle sirene doveva essere come quel suono lungo che udiva, che si spegneva di colpo e riprendeva. Gli animali hanno fame, pensò. Già, come sirene sotto un sole opaco in attesa delle prede da incantare. Immaginò un cielo al tramonto, i primi bagliori delle stelle, il mare in basso e le scogliere rosse e rumorose. E le sirene sdraiate sulle rocce, la loro pelle lucida, le sirene che si muovevano agitando le braccia e le code e urlando per la fame, con le bocche spalancate e i denti affilati. Sì, come ora gli animali... Gli animali, certo. Si spostò di scatto, subito una vertigine lo colse, e allora tornò a fermarsi. Dalla finestra filtravano i colori del tramonto, tinte azzurre, toni rossi, chiazze di blu grigi e gialli mescolati. Le urla riempirono di nuovo l'aria e lui capì che doveva muoversi in fretta e nutrirli prima che fosse troppo tardi. Eppure rimase ancora immobile ad ascoltare l'ansimare delle bestie lontane. Lo affascinava l'idea che di lì a poco avrebbero cominciato a cambiare forma. Voleva aspettare fino al momento in cui il pericolo sarebbe diventato troppo per esitare ancora. Guardo l'orologio appeso al muro, la lancetta dei secondi scandire il tempo, percorrere cerchi. Sorrise in silenzio deformando la bocca in una smorfia. Le sue braccia gonfie di carne si appoggiavano morbide ai lati del suo corpo, pelle contro pelle. Gli piaceva questa sensazione di contatto, amava percepirsi grande e pesante, sentirsi protetto da strati di grasso soffice. Poi finalmente si mosse scattando veloce verso la porta; la aprì precipitandosi fuori e prese a correre quasi, dirigendosi verso il capannone ed emettendo grida rauche in risposte a quelle degli animali. Gli animali allora si zittirono di colpo, ed era come se la loro presenza fosse stata annullata, come se non fossero mai 323


esistiti. Il silenzio era assoluto; non il più piccolo movimento, non un respiro, un suono o un fruscio, o il raschiare di unghie contro l'acciaio spesso delle gabbie. L'uomo esitò prima di aprire. Col suo occhio marrone lanciò uno sguardo all'orologio da polso, inarcò le sopracciglia e scrutò la luna piena e rossa emergere oltre la linea dell'orizzonte. Questo era il momento speciale, l'ora del mutamento. A fatica estrasse le chiavi dalla tasca e aprì la porta blindata del capannone. Nel buio l'odore aspro degli animali lo avvolse con forza e immediatamente provò la vertigine dell'eccitazione: il cervello che trasmette rapido gli impulsi dalle ghiandole al sesso, le mani impregnate di sudore freddo, il cuore che accelera il battito fino a ingolfare il respiro, le tempie che pulsano impazzite, sangue che scorre, le guance farsi di fuoco... L'impatto era il momento più difficile, il più pericoloso. Sapeva che pochi istanti ancora e l'avrebbe afferrato il desiderio di avvicinarsi alle gabbie e al buio cercare le sagome enormi delle bestie con le dita e frugarle a lungo, dentro; sapeva che presto sarebbe stato posseduto dalla voglia incontenibile di spalancare tutte le porte delle gabbie come un uomo impazzito che tenta di liberarsi dai suoi fantasmi più malvagi. Velocemente agitò le sue dita grasse sulla superficie della porta, cercando a tastoni la maschera appesa al chiodo. Ora doveva muoversi in fretta, anche se da tempo ormai la velocità era contro la sua stessa natura, anche se il suo corpo sembrava ribellarsi all'idea del movimento, allo scatto dei muscoli. Ma aspettare ancora sarebbe stato fatale. Si infilò la maschera e subito il sapore dolciastro dell'aria filtrata gli riempì la bocca. Per alcuni istanti agitò le braccia in avanti senza quasi pensare ai suoi gesti. Il silenzio era perfet324


to ora. Afferrò una delle sbarre della gabbia più vicina e la strinse e poi inspirò l'aria dalla maschera, e aspirò, ancora, ancora, tre, quattro volte, ancora, mentre le sue mani si muovevano attorno alla gabbia, mentre le sue mani si allontanavano da lui, le dita avevano cessato di appartenergli, semplicemente erano lì davanti, come cose, lontane da lui, sulla gabbia, le sue dita... Di colpo si scosse e capì, si rese conto di cosa stava per fare e una fitta di terrore si impossessò di lui. Con immensa fatica liberò un braccio dalla gabbia ed estrasse una pila dalla tasca, la accese e puntò la fievole luce rossa verso l'altro suo braccio che ancora stringeva la gabbia. La sua mano era vicina alla leva che azionava l'apertura. Eppure non ricordava di aver sollevato il braccio, non ricordava. Pochi secondi ancora e avrebbe aperto la gabbia e... Questa volta aveva aspettato troppo. Non posso più farlo, si disse, devo infilare la maschera quando sono fuori, pensò. Però così avrebbe perso il gusto generato dal pericolo, l'euforia che sbocciava in lui ogni volta che entrava nel capannone al tramonto, al limitare del momento della trasformazione. L'animale nella gabbia aveva capito cosa stava per accadere, sapeva. Naturalmente. E subito cominciò a produrre un suono strano, un borbottio sommesso, come quello di una creatura che si sforzi di imitare una risata senza che il riso appartenga realmente alla sua natura. Allora anche gli altri animali attaccarono a ripetere quello sdrucciolare di suoni e il capannone si inondo di quei sussulti e quasi-risa frammentate da brevi ululati a frequenze altissime, urla che cantavano la rabbia per il mancato banchetto e il dolore che sempre li afferrava allo stomaco e alle zampe quando percepivano la 325


presenza di cibo vicino e potevano odorarlo e vederlo muoversi, l'odore di carne così vicina alle loro zanne, alle loro bocche spalancate. Ormai al sicuro dietro la maschera, rilassato dopo il pericolo, l'uomo rabbrividì di piacere a quei richiami familiari. Come sempre la curiosità premeva in lui ora, avrebbe voluto comprendere il linguaggio celato dentro quei suoni che solo di notte erano capaci di emettere, avrebbe voluto accendere la luce per ammirarli finalmente anche di notte, capire cosa facevano e vedere finalmente i loro corpi assumere le diverse forme. Ma sapeva che accendere la luce avrebbe significato perdere l'intero liquido di una settimana e immediatamente questo pensiero lo trattenne dall'azionare l'interruttore. Eccitato, rimase a lungo ad ascoltare il loro canto, il lamento da fame dopo il mutamento. Poi si decise e si mosse. Guidato dalla minuscola luce rossa della pila si accostò alla leva del cibo e la azionò. Con uno scatto secco i contenitori appesi al soffitto sopra le gabbie si aprirono, ed egli udì il rotolare in basso e nelle gabbie dei minuscoli pezzi di radice che aveva depositato con cura durante il giorno. E subito sentì gli animali lanciarsi affamati sul cibo raschiando con le unghie sul metallo, producendo rumori di masticazione avida e ringhi sommessi di soddisfazione. Restò a lungo ad ascoltarli mangiare. Ora la fase del pericolo era terminata. Sorrideva. Ora era tutto a posto, ora poteva anche andarsene a riposare, poteva aspettare il gocciolare del liquido e l'alba. Pigramente spostò il suo corpo pesante verso la porta del capannone, poi si voltò indietro ancora, lo sguardo puntato nell'oscurità verso i suoni, verso gli animali e la sua riserva di liquido. Rise a bocca aperta, e 326


con la maschera che avvolgeva ancora il suo viso anche il suo sbuffare soddisfatto sembrava il lamento di uno degli animali. Si sfilò la maschera e la appese al chiodo, e uscì e serrò la porta con tre mandate. Fuori era già scuro, l'aria asciutta trasmetteva la luminosità limpida delle stelle raccolte in costellazioni e gli venne naturale ispirare boccate di quell'aria pura muovendo con lentezza capo e braccia, inspirare, espirare, inspirare, mentre la luna rotonda imbiancava la vegetazione bassa e stentata, colorava con riflessi pallidi chilometri di pianura. Avvicinandosi al cerchio di sassi che delimitava la zona del fuoco afferrò due o tre rami da un mucchio, li gettò leggeri sopra la cenere fredda accumulata nelle notti precedenti, poi infilò ciuffi di paglia tra i rami e ritornando alla legna sfilò altri rami e radici tagliate in pezzi corti. Quando accese la paglia le sue mani si animarono di ombre guizzanti, gli arbusti crepitarono e si arrossarono catturati dalle fiamme. Piegandosi lentamente sulle ginocchia si sedette con sforzo su un macigno largo e piatto di fronte al fuoco, e con un ramo più lungo degli altri prese a spostare il legno infiammato costruendo delicate strutture incandescenti che il calore divorava veloce. Volse lo sguardo alla pianura, poi alle fiamme. Come piccoli specchi i suoi occhi riflettevano l'agitarsi del fuoco, il colore e il calore inondavano la sua faccia piena, le guance che traboccavano sul suo collo tozzo in fasce molli di grasso. Come in altre sere, nella luce delle fiamme affiorarono le immagini, ricordi che il liquido ancora gli regalava, vivi, intensi, dai contorni precisi. Quando era ancora magro: vide le sue braccia agili serrare altre braccia, stringere i corpi giovani 327


di altri uomini, sfiorarne le pelli morbide, le braccia e le gambe; vide le loro mani che si intrecciavano alle sue e giocavano a lasciarsi, capelli scuri, capelli biondi e ricci, occhi luminosi come pezzi di cielo, labbra sottili, lingue bagnate che lasciavano sul suo corpo carezze liquide. E poi altre immagini si sovrapposero alle prime: immagini di un'età più recente, volti di altri amori, uomini, donne a volte. Si alternavano occhi socchiusi e labbra, nasi, movimenti composti di dita in cerca di piacere, bocche aperte. Ricordo i gesti, ed i particolari erano precisi fino al millesimo; c'era gioia nei volti, pieghe di passione e altre di dolore; la paura di perdere si mescolava nei ricordi all'avidità del prendere. E riaffioravano sequenze di momenti sbagliati, incontri sprecati, parole inutili, sofferenze. Su e su nel tempo, più vicini, fino al nero, un buco, il nulla... Il potere del liquido scorreva in lui ora, poteva sentirlo fluire caldo e lento nel suo sangue, in sintonia con la lentezza del suo vivere, del suo pensare. Non ricordava quando era iniziata la via verso il liquido. Non riusciva già più a ricordare, il liquido aveva cancellato la memoria dell'inizio, così che una volta perse anche quelle poche frammentate immagini che lo rimandavano a un passato diverso, lui avrebbe potuto cominciare a sognare che la sua vita era nata nel liquido, lì nel deserto. Poteva credere di essere stato partorito dal liquido e dal liquido cresciuto. Il dio liquido, il dio della memoria e della dimenticanza... Udì un grido lungo e acuto verso sud, dietro la Cresta del Diavolo, e si girò di scatto, gli animali!, pensò, il liquido! Ma il capannone era tranquillo, nessun rumore, quello era soltanto il grido di qualche animale notturno che iniziava la sua caccia. 328


Allora tornò a guardare il fuoco e rimase con la testa piegata di lato e appoggiata quasi su una spalla. Gli animali sono un parto del liquido, o il liquido è un prodotto della loro trasformazione?, gli venne da pensare. Una domanda importante sbocciata nella sua mente. Quante altre volte questa domanda gli era apparsa nei sogni? E la risposta, anche quella sicuramente doveva essere lì nascosta nella sua mente, sì, i sogni ci svelano le verità più preziose, sì certo, ma... no, no, non c'era risposta, e anche se c'era non poteva conoscerla, no, e se la conosceva l'aveva dimenticata ormai, come si può ricordare ciò che si sogna? Soltanto la sensazione labile di ripercorrere una domanda infinitamente complessa; questo affiorava in lui. Ma la risposta no; soltanto una domanda. E non era neppure certo di questo, in fondo poteva anche trattarsi di un dubbio sorto soltanto in quel momento e per la prima volta, opera del liquido che scorreva in lui; forse un problema su cui era in grado di concentrarsi quella sera per la prima volta, un problema che forse poteva fornirgli un futuro, un passato, delle ragioni. Lui era diverso prima. Aveva un passato. Sapeva questo. Ne aveva quasi la certezza. Ma allora cosa lo aveva portato al liquido, cosa aveva azzerato quel passato? Qualcuno l'aveva forse convinto a lasciarsi sedurre dal potere del liquido? Qualcuno? Qualcosa? Non ricordava. Forse sì, ma non riusciva a ricordare. Non stava cercando nulla. Non ricordava, non poteva cercare nulla in quel deserto. Non c'era nulla da cercare. C'erano solo quelle piante basse e rade, i cactus, la sabbia, quella sabbia così sottile e chiara, e i granelli minuti sollevati dal vento leggero. Soltanto sabbia e notte. E la luna. E le radici. Pensò alle radici, le radici rosse da tagliare in pezzi per nutrire gli animali. Ecco, ora lo sfiorò l'idea che la 329


scorta di radici era quasi esaurita e doveva andare in cerca di nuove piante da raccogliere e stendere al sole a seccare, e tagliare in piccoli pezzi per nutrire gli animali. Sì, gli animali avevano fame e lui doveva aiutarli. Doveva farlo. All'idea del cibo gli venne sete, ma non voleva alzarsi e muoversi fino al pozzo per pompare l'acqua. Poteva resistere fino a domani, fino all'alba. Pensò ai colori dell'alba, così simili a quelli delle fiamme, come se cielo e fuoco si fossero fusi nella sua mente in una sola materia, una sola origine. Dal mucchio di legna scelse con cura due pezzi non molto grandi e li appoggiò sugli altri già accesi. Gli piaceva guardare le fiamme, percepirne il calore, a volte si meravigliava di quelle lingue guizzanti vicine ai suoi piedi, le pensava come creature vive, come lui, come gli animali. Gli animali. Qualcosa gli affiorò alla mente, brandelli di un pensiero che gli sembrava importante, come emersi da un mare denso, un mare di liquido scuro, tranquillo. Ma non riusciva più a concentrarsi ormai, c'erano solo fiamme e cenere, il deserto illuminato dalla luna, fiamme e cenere che gli danzavano davanti. All'alba si svegliò, l'immagine del fuoco impressa nella mente, sovrapposta ad altre tenui immagini di sogno che sfuggirono leggere da lui non appena aprì gli occhi. Era il momento magico in cui sole e luna apparivano insieme, sbiaditi entrambi, lontani in un cielo d'argento e oro. Si scosse rabbrividendo per il freddo della notte penetratogli nelle ossa malgrado il grasso che avvolgeva il suo corpo massiccio. Osservò il cielo stropicciandosi gli occhi. Guardo la cenere tra il cerchio dei sassi, si alzò dalla pietra e cominciò a 330


battere i piedi a terra sollevando nuvole basse di polvere bianca. Lentamente si diresse verso il capannone dove gli animali ancora dormivano tranquilli. Una volta entrato si avvicinò con sicurezza alla leva che comandava l'apertura della gabbia più vicina e la abbassò. Subito la porta si sollevò con un cigolio e l'animale dentro si scosse emettendo grugniti soddisfatti e socchiuse gli occhi annusando l'aria col suo muso enorme. L'uomo aprì le gabbie una dopo l'altra, poi spinse la porta del capannone lungo la guida su cui era appoggiata. Come la luce entrò nella sala buia gli animali scivolarono timidamente fuori dalle gabbie strusciando i loro ventri bassi sulla paglia e sul terreno, annusando l'aria e ciondolando la testa e agitando le orecchie. Con gesti leggeri l'uomo li guido verso l'uscita, e sorridendo li osservò ammassarsi contro la porta e spingersi goffamente l'un l'altro per oltrepassarla. Quando tutti furono fuori richiuse la porta dall'interno e si spostò verso la piccola vasca rettangolare scavata al centro della stanza e ricolma del liquido scuro colato giù dagli animali e dalle gabbie attraverso i sottili canali incisi a terra. Sollevò lo sportello a fianco della vasca, infilò una mano dentro l'apertura e abbassò una leva, e quando il liquido sussultò lui si alzò da terra e guardo felice, guardo il liquido scendere inghiottito dal buco nella vasca. Aspettò in silenzio. L'attesa era lunga, troppo lunga. Certo, aveva tutto il tempo, tutta la giornata se voleva, eppure sentiva l'impazienza coglierlo, il desiderio del liquido farlo fremere davanti al liquido che scivolava via dalle pareti della vasca con lentezza. Finalmente la vasca era vuota! Allora infilò ancora la mano nell'apertura e poi la ritirò, e stringeva una bottiglia di vetro 331


dal collo largo, piena fino all'orlo del liquido denso e nero. Uscì con la bottiglia tra le dita e seguendo le tracce degli animali in breve fu dietro di loro, e camminò con loro incurante delle nuvole di polvere sollevate dallo strisciare pesante dei loro corpi contro la terra asciutta. Per un paio di volte non poté trattenersi dal tossire e allora si fermò, ma ritornò subito a muoversi fin quando la collina gli fu davanti. Allora, incamminandosi verso l'alto, abbandonò gli animali al loro vagare. Più volte si arrestò ansimante a riprendere fiato, e poi ancora riprese a camminare spostandosi con passetti lenti e molli, con l'impressione di sollevare piombo, come se ciascuno di quei passi lo costringesse a uno spreco di energie superiori alle sue possibilità. Quando finalmente fu in cima lanciò lo sguardo in basso. Gli animali strisciavano con movimenti quasi impercettibili da lì, si aggiravano attorno alla casa raschiando i musi nella sabbia, scavando buche con le unghie affilate, masticando la vegetazione ingiallita. Quella scena gli piaceva. Amava la collina, l'altezza gli permetteva uno sguardo d'insieme alla casa, al deserto, agli animali, all'orizzonte dove cielo e terra si incontrano in una linea. Gli piaceva questo. Sollevò la bottiglia col liquido e la portò alla bocca e prese a bere a lungo senza quasi respirare, muovendo ritmicamente la gola per inghiottire. Bevve in silenzio fin quando la bottiglia fu vuota. Allora ritornò a guardare gli animali. Ora si sentiva appagato. La pace lo avvolgeva, la pace lo inghiottiva. Guardo gli animali e il suo era uno sguardo tranquillo, con l'occhio amorevole dell'osservatore che ammira la scena di lontano, che guarda dall'alto le sue creature come un re fa con i suoi sudditi. Li amava, perché amava se stesso. Questo pensiero lo sfiorò e ne fu felice e percepì il liquido circolargli 332


dentro, ridargli forza. Il liquido era in lui ora ed era come tornare a vivere cento vite diverse tutte insieme, un prisma di vite ed esperienze conservate e fuse nel liquido e che il liquido gli trasmetteva. E questo era un momento magico. Come altre volte. Quando era col liquido l'aria si trasformava, diventava elettrica, trasmetteva vibrazioni particolari. Momenti, ricordi, sensazioni si sovrapponevano. Anelli di luce nella sua mente congiungevano le coscienze di cento altre menti e creavano catene infinite di pensieri. Esibivano ciò che normalmente rimaneva invisibile, connettevano ciò che normalmente non poteva che apparirgli separato. Ora avrebbe voluto essere capace di sfiorare gli oggetti, la sabbia, i sassi, le piante, il suo corpo morbido e i corpi degli animali. Fondersi con quanto lo circondava. Voleva poter tradurre sensazioni in parole per poterle cantare. Non sapeva, non capiva, non ora, non più. Spesso si perdeva, ma era felice. Si ritrovava per attimi, ora. Memorie scorrevano in lui, emozioni si riallacciavano, crittografie del passato che egli aveva il compito di decifrare. E lui le capiva a volte, altre volte gli sfuggivano, ma le amava. Tutte. Come amava se stesso, come amava gli altri, gli animali. No, non sapeva più parlare, era incapace, c'erano solo sensazioni, idee che fluttuavano da lui a loro e a lui. Grugniva quasi, amava se stesso ora, era felice. La sua mente vacillò e lui si stese a terra tra i sassi. Ora il liquido lo nutriva, forzava la sua carne a crescere ed espandersi, nuovi sottili strati di grasso, ancora e ancora. Ora era felice. Pensava agli amori dolci della sua vita, pensava agli animali dal pelo lucido, la loro pelle morbida e le scaglie, il loro muso quasi umano. Poi un'immagine d'improvviso si stagliò sulle altre, viva più delle altre perché più recente. Gli 333


apparve alla mente il ragazzo col furgone, quel ragazzo robusto che già da due o tre volte veniva a portargli le poche provviste necessarie. Pensò al ragazzo con amore; era una bella cosa vedere qualcuno diverso, gente giovane come lui era stato un tempo, giovane come i suoi amori che tornavano a frammenti nel fuoco durante la magia che il liquido gli donava. I suoi amori, sì. Sarebbe stato bello e dolce vedere ancora il ragazzo, pochi giorni ancora e il ragazzo sarebbe tornato e lui avrebbe potuto fargli assaggiare di nuovo il liquido, mescolandolo al vino come l'ultima volta. Era sicuro che sarebbe tornato, lo sentiva, glielo dicevano anche gli altri ora, le voci dentro di lui, le voci che il liquido gli faceva ascoltare. Anche lui sarebbe tornato, come tornavano gli amori nel fuoco, gli amori da accarezzare, la carne morbida e il pelo lucido, il grasso che riempiva le mani, il grasso da sfiorare e stringere con le zampe, i richiami da apprendere, le memorie da fondere nel liquido, le menti da baciare. Sarebbe tornato, sentiva questo. Aveva assaggiato il liquido, non poteva fare a meno di tornare. Questo pensiero lo rassicurò. Il futuro era salvo; il suo e quello degli animali. Dopo la lunga attesa il tempo della sua nuova fase stava avvicinandosi ormai, sentiva che il suo corpo era pronto ormai, il ragazzo avrebbe potuto prendere il suo posto finalmente. Per il suo amore, per amore del ciclo. Per il loro amore. Prima che fosse troppo tardi, prima della fusione totale nel potere del liquido. Siamo salvi, pensò, il ragazzo tornerà, deve farlo. E questo pensiero quasi non gli apparteneva ormai, sembrava quasi provenire fuori da lui, era come un canto di voci vicine, un coro dolce che gli riempiva la mente e la inondava. Erano dentro di lui ora e cantavano la gioia del ciclo, le meraviglie 334


del liquido. Il liquido... Il liquido era dentro di lui. Lo calmò e lo accompagnò nel sonno e lui rimase disteso a terra sotto il sole caldo, immobile come lo erano piÚ in basso gli animali. Sognava ormai e sorrideva, e a volte gli capitava di emettere dei suoni con le labbra, e se qualcuno avesse potuto ascoltarlo si sarebbe stupito a quei versi strani, dei sussurri o borbottii sommessi, quasi come quelli di una creatura che si sforzi di imitare una risata senza che il riso appartenga realmente alla sua natura. Denver 1986

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AL CAFÈ DELL’AVVENTURA

Anche quella giornata era passata in fretta, e io già comin-

ciavo a capire che i tratti del paesaggio potevano anche cambiare, c’erano state colline aspre e pianure radiose, campi d’orzo illuminati da cieli rossi di tramonto, montagne azzurre con le punte ritorte, laghi immensi come mari e sterminati muri di alberi, ma certe altre cose sarebbero rimaste immutate per l’intero viaggio: caldo, sole, umidità, pioggia. Non ci saremmo facilmente liberati di quegli ingredienti. Riuscimmo finalmente a riprender fiato passando da una sponda all’altra del fiume su una specie di zattera di legno marcio, e potevamo respirare l’umidità dell’aria e riposarci sudando, invece che sudare trascinando gli zaini da un posto all’altro. Prima c’era stato un autobus, rigorosamente pieno, con noi in piedi, stretti, pigiati contro gente sudata, tra odori rancidi e polli chiassosi legati per le zampe, e ventilatori appesi al soffitto che continuavano a spararci addosso ondate fredde d’aria che ci gelavano il sudore sulla schiena. Per quattro ore, per cinque soste per mangiare, con gente dappertutto, bambini, donne gravide, vecchie accompagnate da donne più 336


giovani, ragazze che già allattavano bambini minuscoli come feti, finti storpi che ciondolavano lamentosi tra i passeggeri. Poi il treno. Vagamente più comodo dell’autobus, se non altro perché ci si poteva sgranchire le gambe nei corridoi. Però: dieci ore, treno rigorosamente pieno, noi in piedi, stretti, pigiati contro gente sudata, tra odori rancidi di cibi cotti. Nelle soste, vecchie vendevano cibo stendendo le mani verso i finestrini e toccava scacciare quelle mani cariche di carni sanguinolente, pannocchie bruciacchiate o spiedini di topo. Mentre il treno procedeva a passo lento attorno c’erano alberi, altri alberi. A volte si scorgevano capanne, bambini che giocavano nel fango, baracche di legno in semicerchio. Poi: altro autobus, naturalmente pieno, noi in piedi. E la gente che continuava a entrare, l’autobus gonfio di corpi, e ne salivano ancora a ogni sosta, e tutti con bagagli, borse, pacchi, scatole, animali, strumenti musicali, sacchi di patate e di pane e di caffè, vassoi di pasticcini, bottiglie con bevande colorate. I bambini piangevano, cagavano, urlavano. Eravamo lumache dentro a una piccola scatola. Come facciamo a starci tutti? mi domandai guardandoci così pressati. Infine la zattera sul fiume. Il traghettatore era tranquillo, stretto al timone, insensibile al caldo, lo sguardo verso il centro dell’acqua. Di noi che attraversavamo gli interessava ben poco. Ne aveva visti migliaia transitare tra quelle sponde. L’acqua fremeva di riflessi rossi; in cielo scorrevano nuvole larghe come ombrelli spalancati. Scendeva la sera. Orde di zanzare già erano pronte al pasto, mentre noi cercavamo di difenderci con pomate tossiche.

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Più tardi eravamo a letto, anche se era difficile chiamare letto quella stuoia sulla quale ero sdraiato, sporca di polvere, dura contro il pavimento sconnesso. Prima, il pasto era stato frugale: riso e pollo, quel tanto che bastava per toglierci la fame. Poi la stanchezza ci aveva preso come in un abbraccio unto, e avevamo cercato la nostra baracca per dormire. La notte era afosa. Il sudore ci si appiccicava addosso. Per fortuna le zanzariere tenevano lontani spiacevoli ospiti. Eravamo stanchi, pure ci era difficile prendere sonno. «È una bella stronzata» borbottò Aldo. Ripeterlo gli faceva bene, anche se lo ripeteva troppo. « Siamo qua ormai, è inutile che continui» gli risposi brusco. Cominciava a infastidirmi, e finsi di addormentarmi subito per non dargli l’occasione di ripetersi ancora. Ma non dormivo: fissavo il buio a occhi aperti, mentre fuori la giungla condensava i suoni del mondo, le grida, i fruscii di voli notturni. Ripensai all’inizio della storia. Mi vidi con chiarezza al Cafè dell’Avventura, con gli amici di sempre attorno al solito tavolo mentre tutta la storia cominciava. Tre settimane prima. Sorseggiavo una tazza di caffè Mattari Yemenita, in bocca il retrogusto del cioccolato, e già qualcuno di noi aveva iniziato il giro di grappe, la prima da assaporare mescolando sulla lingua il gusto aspro del distillato con quello più amaro dell’ultimo caffè, e un’altra per scacciare il sapore della prima, e un’altra ancora per dimenticare le cose della vita. Anch’io presto sarei passato alle grappe, perché ne avevo molte di cose da dimenticare. Ero lì apposta quella sera: per distrarmi, per trovare nella sequenza di caffè e grappe e nei racconti di quelli seduti ai tavoli ottimi argomenti per frullarmi il cervello, e scrollarmi di dosso il desiderio feroce per 338


occhi e labbra sparite da poco. Forse non sapete che chi va al Cafè dell’Avventura lo fa per due motivi: il caffè e le avventure. Al Cafè dell’Avventura il caffè è Caffè, con la maiuscola ben in vista, e quando il vecchio Peppuccio s’avvicina al tuo tavolo non ti chiederà mai se vuoi un caffè; piuttosto la sua domanda sarà: «Che caffè stasera?» e se lo lasci continuare sentirai: «vuoi un Ghimbi Etiopico o il Tachiras Venezuelano? Vai col Mandheling superforte, o stasera hai il palato giusto per lo speziato Bugishu Ugandese?» E poi ci sono le avventure, al Cafè dell’Avventura. Da vivere, da raccontare, da ascoltare con la tazza di caffè in mano. Quelli seduti ai tavoli stanno sempre per partire o sono appena tornati da un’avventura straordinaria, per cui c’è sempre qualcuno pronto a raccontare storie incredibili. Al Cafè dell’Avventura ci piace esagerare. E che le storie siano vere o false poco importa; basta che ci facciano sognare. Così anche quella sera io e i miei compari eravamo al Cafè dell’Avventura a bere caffè e grappe e in procinto di raccontarci storie. L’atmosfera però era un po' diversa dal solito, più elettrica. Natale era alle porte, e col Bambinello già bello che pronto a scender dalle stelle arrivavano le vacanze e molti, probabilmente tutti lì al Cafè dell’Avventura, non aspettavano altro, e già preparavano i bagagli. Beh, no, tutti no. Io no. Io restavo. Diciannove giorni e qualche ora prima la mia donna, il mio amore, quella donna che non volevo più nominare, era sparita senza spiegazioni. Svanita come una cometa che lascia il sole. E quindi non contavo di viaggiare. Gli altri partivano, io invece restavo in casa a leccarmi le ferite. Ma mi sbagliavo, e lo scoprii presto. 339


Quella sera qualcosa era in agguato al Cafè dell’Avventura. Chiaro, non c’era nulla di strano nel gesto di Vanni, quando dalla tasca cacciò fuori una rivista e la sfogliò bevendo grappa e poi, dopo minuti di quel lento girar di pagine, a un certo punto disse: «Hei, guardate questa!» mostrando la pagina aperta su una foto di piantagioni tropicali di caffè, col titolo che recitava: “MARAGOGYPE SPECIAL”: ALLA SCOPERTA DEL CAFFÈ PIÙ BUONO DEL MONDO. Nulla di strano. Ma io ero sospettoso e cupo. In quei giorni mi pareva che il mondo avesse preso una piega in salita. Cominciavo a scivolare nell’irrazionale, trovavo intorno piccoli ma significativi segni di un complotto alle mie spalle. La sparizione della mia donna, per esempio. Il primo segno. E altri segni li trovavo nelle congiunzioni di eventi astrali, nei magici artifici del cielo che si mescolavano a infausti eventi della Terra. Le macchie solari, per esempio, che già da settimane si agitavano sul sole. Molti pensavano che quelle macchie minacciavano la nostra salute, rompevano fragili equilibri psichici. Anche io lo pensavo. Forse distruggevano persino antichi amori. Forse il mio. E poi c’era la cometa, gli astronomi ce l’avevano annunciata, luminosa più delle stelle luminose. Ma perché una cometa decide di presentarsi proprio a Natale? Cos’è che voleva annunciarmi? Insomma, ero attento a ogni cosa, e in ogni cosa trovavo segni. E per ogni nuovo segno rivelato, sempre più mi pareva che si venisse componendo la trama di un complotto a mie spese. C’erano segni dappertutto. Segni. Nell’interazione tra quei segni non poteva non esserci l’opera di una divinità scontrosa che si faceva beffe dei nostri destini miseri. E soprattutto del mio. È così che pensavo, e pensavo male, lo so, ma era quello il 340


modo in cui mi andava la testa in quei giorni. Capite quindi che subito squillò un campanello quando Vanni disse: «Guardate questa!» mostrando la rivista. Niente di strano. Pure, in quel gesto troppo enfatico ci vidi un altro segno. Non chiedetemi perché, non saprei spiegarlo. Lo sentivo e basta. E poi, va anche detto a mia discolpa: forse pensavo male, è vero, ma in quel caso avevo ragione. Il complotto c’era davvero. Lo scoprii dopo, quando Vanni, lette poche righe dell’articolo, disse guardandomi: «Il caffè più buono del mondo coltivato tra giungla e colline... La storia sembra fatta apposta per te. Perché non te ne vai a prenderci un po' di questo caffè, e così ti scordi anche la tua donna?» E subito tutti presero a fissarmi come se quella fosse la proposta più ragionevole del mondo. A dire il vero a me sembrò una stronzata, ma una stronzata innocua, buttata lì tanto per parlare. Ma poi tutti continuarono a discuterla, quella stronzata. E stranamente tutti parlavano con me. Parti, vacci tu, dài, insisteva Lucio, e cosa c’era di meglio per distrarsi dalla scomparsa di quella donna che non volevo nominare? Dimentica tutto e subito, mi consigliò Enrico, detto il Professore. Elabora il lutto in fretta. Come avrei potuto rifiutare quel richiamo all’avventura?, mi dissero tutti gli altri. Sembravano il coro della notte di Natale. Dovevo partire. E se per un po' continuai a pensarla come una bella stronzata che ci teneva allegri attorno al tavolo, già dopo la quarta grappa quell’idea era diventata una prospettiva attraente come un miraggio. Un buco perfetto nella sabbia in cui infilare 341


la testa. La storia intera venne fuori dopo, e solo allora capii: altro che sbirciata casuale all’articolo sulla rivista! Altro che caffè più buono del mondo! Tutti sapevano tutto prima ancora che Vanni dicesse la sua storia sul caffè. Ero io il predestinato, il cacciatore di caffè. Avevano preparato la cosa chissà da quanti giorni. Apposta per me. Contro di me. A quel punto mancava solo che mi infilassero un biglietto d’aereo tra le mani! E non era finita, naturalmente. Il biglietto non lo cacciarono, ma erano così certi che sarei partito che mi chiarirono quel che ancora mi mancava per farmi una buona idea del loro bel progettino su di me. «Se è facile non ci piace» disse Vanni ribadendomi il motto di noi del Cafè dell’Avventura. «E non piace neanche a te, no?» aggiunse. Cosi venne fuori anche la storia dell’itinerario di viaggio già adattato per me. «Com’è vero che tutte le strade portano a Roma» pontificò Vanni sorridendo «è anche vero che tutte le strade portano al caffè più buono del mondo» e girò la pagina della rivista che ancora teneva in mano per mostrarmi la mappa dei territori di quel prezioso caffè. Bell’idea, pensai. Sapevo già cosa intendeva: scordati il percorso rettilineo, breve, semplice! Ancor prima di guardare la mappa ero sicuro che la distanza tra me e quel caffè sarebbe stata molta, e la strada faticosa. E infatti... E non era finita, naturalmente. La ciliegina sulla torta, anche se non è così che me la misero i miei amici cari, l’avevano tenuta per chiudere in bellezza: Aldo, che quella sera non c’era, chissà come mai, veniva con me. E mentre Vanni me lo diceva tutti guardavano da qualche altra parte, 342


trattenendosi dal ridere. Ora, dovete sapere che Aldo non è esattamente Indiana Jones. Schivo, silenzioso, un metro e novanta per centoquaranta chili. Con la propensione a sudare, estate e inverno. E a lamentarsi. Estate e inverno. E soprattutto è uno dei pochi tra noi al Cafè dell’Avventura che le storie ama più ascoltarle che viverle. Aldo è il perfetto prototipo del pantofolaio incallito, del pensionato precoce; il suo ideale di avventura è una birra da ciucciarsi in poltrona e un film d’avventura in tv. Estate e inverno. Quindi è il compagno perfetto per finire in un posto come quello dove mi volevano spedire, col cento percento di umidità e mille situazioni per tenere il culo in moto e mille ragionevoli motivi per lamentarsi. Insomma, capite la portata del complotto? Gli amici cari si erano ingegnati per bene per offrirmi un modo fantastico per distrarmi. Un magnifico regalo di Natale confezionato coi fiocchi! Aspettando che mi decidessi mi guardavano come si guarda a un ricordo: in lontananza. Erano talmente certi che non avrei rifiutato, che per loro era come fossi già partito. Avrei potuto rifiutare? In quei giorni ero debole, triste, manipolabile. Non rifiutai. È così che tre settimane dopo, la vigilia di Natale, io e Aldo eravamo lì, dentro a una baracca di legno, a sudare e lamentarci, e provare a dormire. L’umidità era soffocante e ci misi molto ad addormentarmi. Pensieri fissi su una donna mi tenevano sveglio, e anche il ronzio di zanzare affamate che cercavano buchi nella zanzariera per raggiungermi la pelle. Poi sognai che Aldo si alzava dalla sua stuoia e strappava la mia zanzariera gridando: «È tutta colpa tua!» e prendeva a 343


colpirmi con le sue grosse mani. Mentre cercavo di ripararmi dal suo assalto dietro di lui compariva un’ombra e io sapevo che era la donna che non volevo nominare. Era venuta a salvarmi. Toccò Aldo su una spalla e gli bisbigliò all’orecchio frasi di indicibile dolcezza, e subito Aldo smise di colpirmi e tornò a sdraiarsi. Quando la donna che non volevo nominare uscì dalla capanna anch’io sprofondai nel sonno. Il primo chiarore dell’alba scatenò un concerto di canti e urla rauche di chissà quali animali. La giungla si svegliava presto, e noi ci svegliammo con la giungla. Ci vestimmo con lentezza cullata dall’umidità. Nelle scarpe, rovesciate come bicchieri vuoti, cercammo ospiti indesiderati. Il tempo di prepararci per la colazione e già grondavamo. Da una baracca lì vicino una vecchia ci servì pane molle e un caffè troppo annacquato in tazze un tempo bianche. Gli uccelli frusciavano tra le piante, il loro canto era violento. Non parlammo molto. Quel pane e quel caffè non ci aiutavano a riprenderci dalla notte. Aldo era stanco, si vedeva, e io non volevo dargli l’occasione per lamentarsi. Non gli dissi del sogno. Poi arrivò Carlos, la guida ingaggiata la sera prima, ci salutò che stavamo ancora masticando. Era pronto a partire. Ci sorrise e ci aspettò in piedi. Era un omino dalla pelle scura e il corpo muscoloso. Lasciammo il villaggio che il sole era apparso da poco oltre i tetti di paglia del villaggio. Intorno uomini camminavano con borse tra le mani e sacchi di plastica, donne seguivano carretti carichi di erbe e trascinati da muli. Due bambini ci accompagnarono fino al ciglio della giungla facendoci gesti 344


curiosi. Eravamo una strana coppia di bianchi, Aldo soprattutto era strano, con la sua mole da gigante. Un ragazzino mi toccò la testa, come a voler esplorare le differenze tra i miei capelli e i suoi. Poi ci infilammo nella vegetazione fitta. Carlos procedeva a passi lenti, ogni tanto si voltava per controllare se c’eravamo ancora. Alzando la testa scorgevo il cielo azzurro oltre gli alberi più alti. Di notte ci sarebbero state le stelle, pensai. Forse si vedeva la cometa. Pensai alle macchie solari che in quel momento scalpitavano sul sole senza che io potessi farci nulla. Se dico: “eravamo infilati nella fitta vegetazione” subito dovreste immaginare colori: verdi in molte sfumature, il rosso di fiori tropicali, raggi di sole che trafiggono il verde e l’accendono. Profumi di erbe marce. E ronzii d’insetti svolazzanti. Se è questo che immaginate fate bene. Essere infilati nella fitta vegetazione è così. Ma la sostanziale differenza tra l’immaginare e l’esserci è esserci sul serio. Un mondo di differenza. Esserci significa molte piante, molti colori, molti ronzii, ma anche di più: significa caldo, sudore, fatica, e soprattutto pericolo. Noi eravamo infilati nella fitta vegetazione. Poche ore di cammino e già mi era chiaro che le creature grosse, i felini, i cani selvatici e quant’altro ci assomigli, le bestie fameliche di ogni tipo, o le scimmie incazzate, se ne stavano alla larga. Loro erano grossi, ma noi eravamo quasi sempre più grossi di loro: mangiarci non ci riuscivano, farci a pezzi neanche, quindi era meglio per loro starsene lontani. Quindi potevamo solo stare attenti alle cose piccole ma an345


cora visibili: le piante urticanti, le zanzare, i serpenti, gli scorpioni, i millepiedi o le sanguisughe, le lucertole o i loro parenti ipernutriti. Per il resto, il microscopico, l’innumerevole, l’innominabile, era inutile sprecarci tempo. Sto parlando di insetti, parassiti, esseri volanti e saltanti non identificati. Tutti piccolissimi e poco socievoli. Tutti affamati. Miliardi di creature ansiose di infilartisi in un orecchio o una narice, che ti si appiccicano tra le dita quando sfiori una foglia e poi si scavano in silenzio una strada attraverso le unghie, sottopelle, e ti ingravidano. Di sicuro erano pensieri come questi a rotolare in testa ad Aldo mentre eravamo lì infilati nella fitta vegetazione. Bastava guardarlo per capirlo. Grondante di sudore, guardingo e con gli occhi accipigliati, pareva dover crollare da un momento all’altro come un elefante abbattuto. Ovvio, si era pentito di avermi accompagnato. Al Cafè dell’Avventura le storie degli altri sono sempre grandiose davanti a una tazza di buon caffè. Fantasticarci su non costa nulla. Ma ora gli era evidente il significato di essere in un posto, esserci sul serio. «Questa storia del caffè è una stronzata» disse infatti. Per la decima volta nelle ultime quattro ore. «Tutto questo viaggio è una stronzata.» Mi fermai a scrutarlo, ma non risposi. Dalla borraccia tirai due sorsate di acqua tiepida e ripresi a camminare. Nonostante fatica e pericoli a me non dispiaceva essere lì, troppo impegnato a camminare per pensare a quella donna che non volevo nominare. E non era poi così terribile; a volte davanti a noi c’era un accenno di sentiero, e comunque Carlos se la cavava alla grande. Avanzava sicuro nonostante le ridicole infradito che portava ai piedi. Ci puliva la strada con colpi precisi di 346


machete, trascinandosi dietro uno zaino che era due volte il nostro. Nel pomeriggio sostammo in una radura e Carlos ci preparò da mangiare: pollo con riso. Era freddo e molliccio, ma la fame era troppa per fare gli schizzinosi. Intanto il cielo si era fatto bianco. Aldo non si lamentava più e io non sapevo se esserne felice o preoccupato. Da ore ormai camminava in silenzio, ultimo del nostro terzetto bizzarro. Ripensai al sogno della notte, ai pugni violenti che mi assestava in testa urlandomi addosso la colpa per peccati a me ignoti. Evitai di esplorare il significato dell’ombra che era venuta a salvarmi. Poi cominciò a piovere. Era un concerto bellissimo quello delle gocce sulle foglie, un rumore di mille animali al piccolo trotto a fare da base ritmica ai frinii delle cicale e degli altri chiassosi abitanti degli alberi. E non mi preoccupai troppo dell’acqua che mi bagnava. Ero già grondante di sudore, e trovai piacevole l’idea che con la pioggia potevo almeno vedere cos’era a bagnarmi. Ma quel piacere durò poco, perché la pioggia fu un richiamo per le sanguisughe. Coprimmo bene piedi e caviglie, ma presto diventò impossibile star dietro all’assalto di quei mostri che a ogni passo si attaccavano alle scarpe in cerca di sangue. Aldo vide una macchia di sangue spuntargli sulla stoffa dei pantaloni come un grande fiore rosso e urlò con un grido acuto che pareva quello di una scimmia. E anche io non riuscii a evitare due o tre succhiate. La guida rideva sentendoci imprecare in una lingua che non capiva. «No problema» ripeteva. Ogni tanto scacciava le sanguisughe dai suoi piedi nudi con un colpo di mano. 347


Continuò a ripetere «No problema» anche quando fui morso da un piccolo serpente. Me l’ero cercata. Avevo appoggiato la mano contro il tronco di un albero e il morso non s’era fatto attendere. Gridai, più per l’idea del morso e per il sangue che per il dolore. Ma Carlos vide il serpente scivolare tra i rami e non sembrò preoccupato. Non era velenoso, mi spiegò mentre la pelle attorno al morso si gonfiava. Cercò foglie tra le foglie, ne strappò un ciuffo da una pianta non lontana e dal gambo strizzato fece gocciare sulla ferita un latte profumato che mi calmò il dolore. «No problema» lo disse molte volte ancora, mentre Aldo, torvo e in silenzio seguiva l’operazione. Non capii bene il senso di quel suo sguardo, ma l’immaginai a studiare vendette adeguate per ringraziare a tempo debito gli amici del Cafè dell’Avventura. Dormire non fu difficile. Eravamo sudati, stanchi. Carlos sistemò le tende in uno spiazzo d’erba e di rami spezzati. Arrivava la notte rapida, portando nuvole di zanzare. Carlos ci servì del pollo freddo e riso in scodelle di plastica. Era difficile capire la differenza tra il pollo e il riso. L’acqua nelle borracce era calda come tè e disgustosa. Il cielo era pieno di stelle. Ci infilammo in fretta nelle tende senza forza per protestare. Non pensammo ai mille pericoli che potevano arrivarci addosso. Non sognai neppure. Il secondo giorno non fu diverso dal primo: alberi, insetti, fruscii, pericoli, il canto delle cicale, la pioggia pomeridiana. Ma era diversa l’aspettativa. Entro sera saremmo arrivati a 348


un villaggio, e quell’idea bastava a darci la carica per continuare. Camminavamo già da tre ore e Carlos ci indicò qualcosa puntando un dito tra la vegetazione. In quella direzione vidi il profilo di una costruzione in pietra. In breve eravamo al centro di un piccolo gruppo di edifici antichi e divorati dalla giungla. Affascinato studiai senza capirli i segni che scorgevo sulle pareti sotto a liane e radici. «Maya» disse Carlos. Sembrò preoccupato. Forse anche per lui quelle pietre erano una scoperta. Gli uccelli avevano smesso di schiamazzare. E anche le cicale. Ci aggirammo inquieti tra le rovine in attesa che qualcosa di ignoto decidesse di manifestarsi. Avevo visto troppi film e mi pareva impossibile trovare rovine nella giungla senza che nulla di fantastico e minaccioso accadesse. Ma non accadde nulla. Aldo salì sbuffando in cima al mucchio di pietre più alto e mi stupì molto la sua inattesa intraprendenza. Forse cominciava a prenderci gusto, pensai. Carlos e io dal basso lo guardavamo: era una specie di divinità che sorvegliava quella città antica. Spalancò le braccia e disse: «Non si vede niente.» Poi cominciò a scendere e due pietre dissestate ci franarono vicine e rimasero immobili nell’erba. Ripartimmo quasi subito. La pioggia arrivò nel pomeriggio e ci accompagnò fino al tramonto. A un tratto vidi grandi torri di terra scura sbocciate dal terreno, svettavano verso il cielo come guglie gotiche. Ai piedi delle torri un movimento frenetico di formiche. Mi chinai per osservarle. Erano enormi, minacciose, ronzanti. E altre formiche le vidi zampettare in fila indiana trascinando frammenti di foglie verso le torri. Erano miriadi, e sembravano perse in una complessa danza senza fine. 349


Raggiungemmo il villaggio che eravamo sul punto di crollare. Pioveva ancora, e la notte arrivava in fretta. Dopo aver camminato a lungo con la giungla intorno, di certo fu uno spettacolo strano quello che ci si aprì davanti: la giungla d’improvviso si fermava per dare spazio alle case di legno. Capii il motivo di quell’arresto della vegetazione solo quando fummo più vicini. Oltre le baracche di legno c’era un fiume: immenso, vivo con i riflessi dell’ultimo sole. C’era odore d’erba marcia, e d’acqua che ristagna, e grida di bambini. Vedere quell’acqua lenta ai confini della giungla mi fece pensare a un sorriso, e mi sentii felice per la prima volta da molto tempo. La gente del villaggio ci accolse festosa: i bambini ci corsero incontro, le donne ridevano e si coprivano la bocca con la mano. Non capitavano molti bianchi da quelle parti, e non credo avessero mai visto un omone come Aldo, se non forse nei loro sogni. Mangiammo in abbondanza. Pollo, riso e verdure, per cambiare, ma almeno quel cibo era stato appena cotto e per noi era come assaporare un cibo sconosciuto. Carlos venne a salutarci che era l’alba. Se ne tornava indietro, e ci affido a un tipo minuto, ma con le braccia forti e un gran sorriso. Manuel si chiamava. Già eravamo sulla sua barca, Aldo davanti, io e Manuel dietro, quando riprese a piovere e presto si alzò un vento forte che costruiva sull’acqua onde preoccupanti. Manuel sembrava tranquillo, teneva il timone come navigasse sopra 350


a uno specchio. Ma la barca prese a beccheggiare molto, e il vento ci tirava addosso acqua di fiume e noi ci spaventammo, e in breve fu chiaro che continuare era una follia. Dovevamo tornare a terra. Ma era troppo tardi e a poco valsero i tentativi di controllare la barca. Per fortuna si rovesciò che eravamo già vicini alla riva. Nuotammo come potevamo, aggrappati alla barca capovolta. Aldo sembrava una balena spiaggiata, urlava tra acqua e fango agitando le mani. Solo quando toccammo terra mi accorsi del suo braccio, del sangue. Si era ferito non so come. Urlava di dolore, non smise neanche quando trovammo riparo in un villaggio vicino, e una donna centenaria gli pulì il braccio con tenerezza sorprendete, sfregando sulla ferita grandi foglie bianche. Dopo era notte e pioveva ancora e il vento ci spazzava addosso la pioggia. Dentro la capanna Aldo si lamentava: «Voglio tornare a casa» diceva, pur sapendo che era impossibile. Piccole barche attraccate a riva sbattevano tra loro spinte dalla tempesta. Mangiammo poco e ascoltammo il rumore della pioggia. Al mattino era tutto finito, l’aria profumava di fiori. Pezzi di canne e tronchi scivolavano sull’acqua tranquilla. Avevamo fretta di partire, arrivare, e per un giorno intero scivolammo sul fiume. Insetti curiosi si avvicinavano a noi. Dal centro dell’acqua ammiravo le mura altissime fatte di alberi oltre le rive. I canti di uccelli ci fecero compagnia. Manuel silenzioso a tratti spingeva la barca con colpi di remo. Aldo si sosteneva il braccio ferito con la mano sana, si lamentava ogni tanto con un mugolio mesto. Ma nessuno disse una parola fino a sera. Poi la riva, la tenda, il fuoco, il cibo, la notte, le grida di animali, il sonno. 351


Era ancora presto al mattino quando navigammo verso un villaggio grande abbastanza da assomigliare a una città. Piccole imbarcazioni a motore si affollano attorno al mercato chiassoso distribuito lungo la riva. Eravamo appena scesi dalla barca quando Manuel mise in giro la voce che cercavamo un aereo, e cinque minuti dopo orde di uomini ci circondarono per proporci l’affare, come fossimo carne fresca e loro mosche. Lì erano abituati a gente come noi, e ci trattarono per quello che eravamo: soldi, e la possibilità di campare un altro giorno. E di soldi ne volevano tanti per trasportarci. A sentir loro, era Aldo il problema. Gli aerei sono piccoli, ci dicevano, e l’amico gigante troppo pesante. Ognuno gridava sulla voce dell’altro. Solo i nostri soldi riuscirono a convincerli che ce la potevamo fare anche con Aldo a bordo. Ma impiegammo molto a contrattare, e tutta la nostra pazienza, mettendo infine in mano all’uomo che ci aveva fatto l’offerta migliore molti più soldi di quelli previsti. Con un taxi l’uomo ci accompagnò alla pista di volo e ci mollò davanti all’aereo e al pilota. Erano piccoli entrambi, entrambi sporchi e poco affidabili. «Uomo pesante» disse subito il pilota vedendo Aldo. Scosse la testa e sputò per terra. Era poco più di un ragazzino ma si muoveva come un adulto. Io guardai Aldo, preoccupato. Il decollo fu rumoroso e fatto di false partenze e sussulti sulla pista polverosa. Ma poi ci trovammo in alto, dentro a un cielo brillante e sopra a una terra verde che sembrava troppo lontana. L’odore dolce del carburante non lasciava l’abitacolo. 352


Troppo peso, molto pericolo. Continuavo a pensarci. Aldo era muto e anch’io, e mi immaginavo quel giocattolo volante che precipitava, mentre io usavo gli ultimi secondi di vita per scagliarmi contro Aldo e urlargli: «È colpa tua!, è colpa tua!» Non posso dire che gli uomini a terra avessero totalmente ragione; non sarei qui a raccontarlo. Ma a un certo punto mi fu chiaro che i loro discorsi non erano solo scuse per spillarci soldi. L’aereo era un biposto. Noi eravamo in tre, e uno dei tre col peso di due uomini. E se in aria il peso in eccesso non ci creò troppi problemi, ce ne accorgemmo invece all’atterraggio. Avevamo già toccato la pista, e rallentavamo per fermarci, già con la convinzione d’avercela fatta, quando il carrello cedette con uno schianto e l’aereo si piegò su un fianco. Quando l’ala toccò il terreno ruotammo di lato, l’ala si spezzò e ce la lasciammo alle spalle e subito dopo anche l’aereo fece la stessa fine con un rumore di ossa spaccate. Restammo seduti nei resti d’aereo mentre la polvere si diradava, increduli per averla scampata. Poi Aldo prese a lamentarsi e mi spiegò urlando che aveva di nuovo battuto sul suo braccio ferito. Effettivamente, c’era del sangue che arrossava la fasciatura. Ma poi si azzittì. Credo si spaventò leggendomi in faccia la paura. Dovevo essere bianco come un ectoplasma. Scendemmo a fatica dal troncone di aereo e ci allontanammo dalla pista zoppicanti. Il pilota ci inseguiva urlando e insisteva per farci ripagare il suo aereo distrutto: piangeva, ci si parava davanti con le mani tese. Voleva i soldi per il suo aereo. Non gli spiegammo dove poteva andarseli a cercare quei soldi. Ma non lo picchiammo neppure. Lo lasciammo a piangere seduto in terra, a raccontare a chi voleva ascoltarlo 353


la storia del suo aereo perduto. Finalmente arrivò la sera, e con la sera la calma. Avevamo trovato una specie d’albergo costruito sull’acqua, e avremmo dormito in un letto vero e quest’idea ci consolava. Così, prima di cena passeggiavamo tranquilli per le strade di quella città fluviale, con la convinzione che nulla più ci poteva capitare. Ma non avevamo fatto i conti con la notte, con l’illuminazione scarsa e i lavori in corso in quella strada che finiva sul fiume. Aldo stava parlando e d’improvviso la sua voce diventò un urlo e poi un lamento seguito da un tonfo. Ci misi un po' a capire la causa della sua repentina sparizione e dopo non riuscii a trattenermi dal ridere. Povero Aldo, era finito dentro una buca a fianco di un canale che scaricava nel fiume. Uscì dalla buca nero per l’incazzatura e per la melma ben poco profumata che lo copriva tutto. Camminò lamentandosi fino davanti a una luce e così lo vidi bene. Il braccio gli penzolava dalla spalla, la fasciatura appena rifatta grondava d’acqua di scarico. Si era trasformato in un quintale abbondante di fogna ambulante. Come si poteva non ridere a guardarlo? Tutto questo per un po' di caffè, mi dissi più tardi. Ero sdraiato su un’amaca ad ammirare il fiume. Aldo era in bagno a lavarsi e lamentarsi. Avremmo potuto raggiungere facilmente la piantagione di caffè in un solo giorno con un aereo vero, pensai. In fondo, pensai, eravamo quasi ridicoli, io che riuscivo a farmi mordere dal primo serpentello di passaggio, e Aldo che saltava nell’acqua di fogna come un tuffatore. Proprio una bella coppia di eroi da fumetto! E in 354


quel momento avrei volentieri scambiato quell’amaca col letto di casa e con un bel film d’avventura in tv. Ma poi vidi il mio letto come l’avessi davanti. Mi ripensai in quel letto con la donna che non volevo nominare, ricordai il suo corpo che mi aveva dormito a fianco per tante notti. E mi vidi pure in un futuro non lontano, da solo in quel letto vuoto e grande, e allora mi scossi. No, quel viaggio funzionava esattamente come avrebbe dovuto. Guarivo dal male per un’assenza impegnando i miei pensieri nel presente. Piuttosto, era la fine del viaggio che avrei dovuto temere: dopo sarei finito dentro a una normalità grigia, e nel mio letto vuoto e troppo grande. Il fiume era una striscia scura ripiena di riflessi. Guardandolo presto precipitai nel sonno e Aldo non mi svegliò. Sognai la donna che non volevo nominare. Spuntò fuori dal fiume vestita di rosso e mi chiese spazio nell’amaca e mi si assestò a fianco e mi baciò mentre ci dondolavamo assieme. La notte passò in fretta tra quei baci. Mi svegliai col canto di molti uccelli, con la pelle che mi prudeva dappertutto. Di certo le zanzare avevano apprezzato il mio sonno sotto alla veranda. Ormai eravamo a un passo dalla fine del percorso perverso ideato per noi dai nostri cari amici del Cafè dell’Avventura per trasformare il facile in difficile. Ansiosi di arrivare, un’ora dopo il mio risveglio già correvamo dentro a un autobus traballante, ma seduti questa volta, e ben determinati a raggiungere la nostra ultima meta: le piantagioni del caffè più buono del mondo. Ma non fu così semplice, naturalmente. L’autobus a metà 355


strada spaccò un asse con un rumore che pareva un’esplosione, e fu complicato arrivare al villaggio più vicino, e poi trovare un mezzo che ci portasse avanti per più di pochi chilometri alla volta. Salimmo su un carretto trainato da un mulo, poi un trattore, e un taxi carico di balle di fieno. Attorno c’erano solo infinite piantagioni di banane. Alla fine fu un pick-up scassato ad aiutarci: ci trovammo a far compagnia a un bel mucchio di capre puzzolenti, ma in sei ore eravamo a Dos Rios. La strada era stata polvere e altra polvere e arrivammo bianchi come fantasmi e tutti ci guardavano e ridevano mentre camminavamo in cerca di un posto per dormire. Due fiumi attraversano Dos Rios e quasi si toccano nel centro del paese. C’e un ponte che scavalca il Rio Dulce e subito dopo si incontra l’altro ponte sul Rio Amargo. Io ero seduto lì, su una fascia di terra tra i due ponti. Per un tempo sospeso guardai quelle acque sorvolate da uccelli pescatori; in lontananza vedevo colline boscose, e in cielo grandi nuvole bianche. In quel momento fui certo di sapere perché eravamo partiti: per trovare quella visione. E contemplare acqua e terra e cielo in quel punto, all’incrocio tra i due fiumi, dove il dolce incontra l’amaro. Il giorno dopo, un taxi ci portò in collina tra i boschi, e finalmente, sotto gli alberi e tra l’ombra, vidi i filari con le piante di caffè. Molti uomini si aggiravano tra le piante e raccoglievano le ciliegie di caffè e le lanciavano in grandi ceste appese sulle spalle. L’odore pungente del caffè maturo entrò nell’auto inebriandoci. 356


Finalmente eravamo nel regno del Maragogype Special, il caffè più buono del mondo! Era la terra inseguita per tutti quei giorni! Ero emozionato, e credo che anche Aldo lo fosse. Mi sorrise. Ci fermammo a El Bosque, un villaggio in cima a una collina. Attorno, in zone disboscate, per terra, c’era un mare infinito di chicchi di caffè stesi a seccare sotto il sole. Un uomo camminava sui chicchi rivoltandoli con un grande rastrello. Costruiva lunghe scie rigate su quella superficie immensa. Visitammo una fattoria, camminavamo stupiti tra le case e le attrezzature per la lavorazione del caffè. Il caffè era nell’aria, nei colori, negli aromi, nelle mani degli uomini impegnati a setacciare i chicchi, nelle macchine di tostatura che lanciavano in aria grandi sbuffi di vapore aromatico. A pranzo eravamo con la gente della fattoria. Parlavano poco. Alla fine ci servirono il caffè ridendo, e io fui scosso da brividi: nella tazza che tenevo in mano c’era il caffè più buono del mondo. La sua fragranza speziata mi aprì una strada nei sensi. Era... No, non voglio dirlo. Ma sorrisi. Lo sorseggiai con lentezza infinita. E immaginai il racconto che avrei costruito su quel momento magico per gli amici del Cafè dell’Avventura. Nel pomeriggio finimmo in un capannone di stoccaggio. Grandi pile di sacchi di tela pieni di caffè riempivano lo spazio da terra al soffitto. Lì il caffè si sarebbe potuto respirarlo, tanto l’aria era densa di polvere di caffè. Comprammo due sacchi di Maragogype Special, e a quel punto, con i sacchi in mano, ci fu chiaro che non avevamo più ragioni per restare. Così tornammo in città, già con la 357


nostalgia per quella fattoria visitata, per quella gente che viveva coltivando il caffè più buono del mondo. Il viaggio era concluso, ormai. Eravamo contenti. Eravamo stanchi. Eravamo affranti, disperati. Davanti a noi, solo la strada del ritorno: rettilinea, facile, noiosa. Trovammo un autobus con ammortizzatori veri, un taxi, una città di cemento, un aeroporto, bagagli abbandonati dopo il check-in, la vista di decolli a catena oltre i vetri di una sala d’attesa. Del volo verso casa non ricordo molto. Era un volo qualsiasi, come mille. Grandi ciuffi di nuvole scorrevano sotto di noi. La notte li portò via. Atterrammo che era già mattino. Eravamo tornati. Sani e salvi, o insomma, quasi. Il viaggio era durato il tempo di un sogno o di un incanto. Il Bambinello era sceso dalle stelle, la cometa era arrivata e già se n’era volata tra le stelle. E delle macchie solari non sapevo più nulla. Se c’erano altri segni nell’aria ad avvertirci di un nuovo pericolo imminente, non ci feci caso. Atterrati al mattino, la sera già eravamo al Cafè dell’Avventura, stesso tavolo di sempre, stessa ora, stesso gruppetto di compari, Vanni e il Professore, e Lucio e tutti gli altri bastardi che ci avevano spedito in giro per il mondo, e Peppuccio dietro al bancone a preparare i suoi fantastici caffè, e Aldo al mio fianco, gigante fiero, con la sua fasciatura al braccio ben in vista, quasi fosse l’eroe di una guerra dei poveri. Non lo avrebbe mai ammesso, ma ero certo che si era divertito per la prima volta in vita sua. 358


Quanto a me, beh, ero sopravvissuto. Al morso del serpente, alle sanguisughe e alle piogge, ai fiumi in tempesta, e agli aerei poco propensi a restarsene interi. Ero sopravvissuto persino ad Aldo. Così sarei riuscito a sopravvivere anche al resto, al ritorno dentro a una vita grigia, e pure all’assenza della donna che non volevo nominare. O insomma, quasi. In fondo erano solo cinquantasei giorni e qualche ora che non sapevo più nulla di lei. Magari mi sarebbe servito un altro giorno, o una settimana, o un mese, ma prima o poi... Comunque avevamo il caffè. Due grandi sacchi del caffè più buono del mondo: Maragogype Special, dal produttore al consumatore. Regalo per Peppuccio, omaggio al Cafè dell’Avventura. «Abbiamo il caffè» annunciai solenne ai compari attorno al tavolo. Non aspettavano altro, lo vidi dal bagliore nei loro occhi. E così cacciai fuori da una borsa i due sacchi di juta col caffè, con lentezza, quasi fossero ostie consacrate tra le dita di un prete a messa, e li lasciai cadere sul tavolo con un bel tonfo, così che tutti si accorgessero del tesoro che portavo. L’attenzione generale fu presto catturata. Ogni sguardo era rivolto ai sacchi, e allora intuii che il momento era quello giusto, e dissi quel che tutti aspettavano: «È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta.» Al Cafè dell’Avventura la conosciamo bene questa frase. È una formula magica. È come voltare la copertina di un libro: apre all’ascolto di un’avventura nuova. Così, dopo quella frase, tutti si assestarono bene sulle sedie, come attorno a un fuoco la notte in un deserto. Aldo in silenzio al mio fianco mi lasciava fare e dire, i due sacchi di caffè sul tavolo erano i testimoni di una verità irrefutabile: ce l’avevamo fatta davvero. 359


Cominciai a raccontare dall’inizio. Dissi degli autobus affollati, dei treni e dei villaggi illuminati dal tramonto, dissi dei fiumi splendenti e delle barche, delle zanzare e delle sanguisughe, dei tre grandi serpenti velenosi che più volte mi avevano morso alle caviglie mentre liberavo Aldo dalle macerie di un’immensa piramide nascosta nella giungla e crollata su di lui, dissi dei versi magici gridati da Carlos contro il cielo per salvarmi dalla morte del veleno, mentre mi guariva le ferite con impacchi di foglie e sangue d’animali, dissi delle formiche ronzanti che trascinavano uccelli interi fin dentro i loro nidi a forma di torre. Dissi questo e altro, e già mi preparavo a esagerare di più con quel che restava della storia quando la porta del Cafè dell’Avventura si spalancò, e vidi una donna entrare, e quella donna vestiva di rosso, e avanzò d’un passo, e la vidi sondare lo spazio con gli occhi in cerca di qualcuno, fin quando quegli occhi si piantarono su di me, e restarono su di me, e io allora troncai la frase che trattenevo tra i denti, e me ne rimasi a bocca spalancata a fissare la donna che mi guardava, e sperai che gli altri non si fossero accorti dell’improvviso frastuono del mio cuore. Stella. Stella era sulla porta. Lo so, Stella non l’avete mai vista, ed è per questo che ora non riuscite a capire perché, a trovarmela lì, immobile e inaspettata, non fui capace di controllare i salti del mio cuore impazzito. Ma vi dico: Stella è una creatura splendente. Credetemi. Cercai parole senza trovarne, poi cercai lo stupore nelle facce dei miei amici, ma guardandoli mi accorsi che nessuno era sorpreso per quell’arrivo e allora un pensiero mi colse: erano stati loro. Sapevano che Stella sarebbe venuta, erano stati loro, i miei compari, i vecchi cari bastardi amici del Cafè 360


dell’Avventura che mi avevano spedito all’altro capo del mondo, e nel frattempo complottavano per costruire un miracolo. Stella era tornata. «Il resto della storia alla prossima...» è la sola cosa che riuscii a balbettare. E mi alzai dalla sedia. Ma nessuno protestò. E dagli altoparlanti del Cafè dell’Avventura un Chet Baker ruffiano pareva suonasse la sua tromba morbida apposta per me, per sostenermi degnamente quando mi avvicinai a Stella ancora ferma sulla porta. Era concentrata nei miei occhi, mi sorrise come una Gioconda, e io cosa avrei potuto fare quando la vidi muoversi per uscire, se non seguirla come avrei fatto con la Stella Polare se fossi stato un marinaio perso? Ma prima mi voltai verso Peppuccio e gli dissi, solenne come per pronunciare un addio: «Stasera il caffè lo offro io. Per tutti. Ma mi raccomando, voglio il caffè più buono del mondo!» e indicai i due sacchi di caffè sul tavolo. Poi uscii nella notte fredda. Stella mi stava aspettando. Per un po' camminammo nel buio. Stella non disse nulla. Io non le dissi nulla, ancora. Il cielo era pieno di stelle. Milano 2005

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SIGNS

Prima eravamo al mare. Ho guardato Serena camminare

sulla spiaggia, i suoi piedi affondavano nella sabbia; Serena correva rapida, era come un cane liberato in cerca di una tana misteriosa. Correva. «Voglio correre da sola» aveva detto. A restare sola con i suoi pensieri. Correndo si era allontanata diventando piccola, sempre più piccola. Quando già era una creatura minuscola sullo sfondo del mare si era girata verso di me e aveva agitato in aria un braccio, a salutare. Ho aspettato che tornasse. Tra me e lei c'era solo la fitta catena di impronte lasciate dai suoi piedi sulla sabbia. Un confuso sovrapporsi di segni. Dopo entriamo in casa. Subito Serena scivola dentro e si getta sul divano. È stanca. Anche io sono stanco. Dalla bottiglia di whisky mi verso un buon bicchiere. Restiamo in silenzio. Nel silenzio ci guardiamo attenti. Prima o poi, uno dei due deciderà di interrompere l'intreccio degli sguardi. Le indico la porta del bagno con il bicchiere in mano. «Và 362


a farti una doccia» le dico. «Perché la doccia?» chiede. Le sorrido. La rivedo camminare a piedi nudi sulla sabbia, lasciare segni. «È da un po' che ci penso» le dico. «Voglio farti delle foto. Foto di te bagnata. Come l'acqua, il mare...» «Che c'entra il mare?» «Beh, non è il mare. Non solo quello... Sei tu. Vorrei vederti bagnata. Te lo spiego dopo. Adesso fatti la doccia...» Le sue labbra sottili sono umide di saliva, i capelli incorniciano i suoi occhi con riflessi biondi. Serena è sorpresa. Non è questo il mio modo abituale di parlarle. Si attende che io aggiunga parole, che le spieghi, ma non lo faccio. Non voglio. Dalla strada salgono fastidiosi rumori di traffico: clacson, motori, il ronzare del rientro serale, una colonna sonora che si insinua tra i nostri sguardi. Non dico una parola. «OK» dice a un certo punto. E si tira su dal divano con gesto elastico e inizia a spogliarsi mentre gli specchi nella stanza moltiplicano i movimenti delle sue mani che slacciano la lampo della gonna. Presto è nuda. Dopo sento l'acqua scrosciare nella vasca, e passano i minuti e infine Serena è di nuovo sulla porta. «Va bene così?» chiede mostrandomi la sua testa bagnata, il suo corpo bagnato. L'acqua cade dai capelli a terra. Viene avanti, nuda e bagnata. Coperta di gocce sembra un pupazzo di gomma lucida che si sta sciogliendo. Senza aspettare una mia risposta si stende sul divano. Camminando deposita sul tappeto piccole impronte scure che subito si allargano e perdono definizione. «E allora?» domanda. 363


Le rispondo con un gesto: mi muovo verso lo studio, e dallo studio torno quasi subito con la macchina fotografica in mano. Serena è in attesa di non sa che cosa: bagnata e splendente, stranamente sottomessa. Serena ha la testa piegata di lato, i capelli le cadono su una spalla come un intreccio di funi. Quando mi avvicino a lei e la tocco e la tiro e la spingo lei mi permette di modellarla quasi fosse una creatura senza ossa. Serena si sposta, interrompe le mie azioni. «E allora?» domanda ancora. «Cos'è che stai facendo? Cosa c'entra questo col mare?» «Fammi scattare qualche foto» le dico. Non è una spiegazione, lo so. Però sembra bastarle, per ora. Non domanda ancora. Così mi permette di avvicinarmi a lei. Così inizio a scoprirla attraverso l'occhio della mia macchina fotografica. Attraverso la lente vedo chilometri di pelle liscia, le sue gambe affusolate, la sua peluria, i suoi pori sono gigantesche geometrie incise. Serena è un territorio di grandi valli di pelle e di pianure e di alberi e di vegetazioni. Se potessi delicatamente rimuovere la sua pelle e stenderla sul pavimento potrei fotografare l'immenso deserto che la riveste. Scatto dopo scatto la scopro come non l'ho mai vista prima: le pieghe della sua pelle sono canyon, i capelli si trasformano in lunghi arbusti lucenti. Scopro l'esistenza di rughe sottili, impercettibili, lievi come fantasmi. Poi mi infilo con la lente dentro la sua bocca. La sua lingua è splendente di saliva, i suoi denti grandi come pietre. Più in alto, nei cristalli liquidi dei suoi occhi, vedo chiara l'immagine riflessa del mio occhio meccanico puntato su di lei. Un neo sotto al 364


suo seno destro è come un lago scuro che si avvicina a me e poi si ritrae da me al ritmo lento del suo respiro. È come se fossi in volo su di lei. Scendo ancora sul suo corpo, raggiungo le sue dita, le unghie rotonde. I piedi. Ritorno a lei più in alto: un ginocchio, l'ombelico, il ventre, i seni ancora, ancora il collo, il mento, l'orecchio e il naso, le sopracciglia, la fronte. In spiaggia, quando correva sulla sabbia, Serena era un minuscolo essere lontano. Ora è una creatura immensa che riempie il mio sguardo; con la macchina fotografica posso solo interpretarla a piccoli pezzi, frammento dopo frammento....

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Finisco il rullino e lo estraggo dalla macchina fotografica e lo trattengo in mano come un oggetto prezioso. E lo è, in fondo: lì dentro, fissata nella pellicola, c'è una Serena nuova per me, che non conosco ancora, che non ho mai conosciuto prima. Verso ancora un goccio di whisky nel bicchiere. Le chiedo se ne vuole anche lei. Annuisce. So che è in attesa di parole; so che ora non posso negargliele. «Tu sei qui che lanci dei segni» le dico allora, «segni che io cerco di cogliere.» Le indico le macchie bagnante che ha lasciato coi suoi piedi sul tappeto; ora sono macchie nere, allungate e deformi. «È come prima, quando ti ho visto camminare in spiaggia. Lasci segni. Tante tracce che come queste sono destinate a svanire; evaporano, si dissolvono...» Ancora non trovo le giuste parole. Per prendere tempo le passo il bicchiere con il whisky. Tento un'altra prospettiva: «I segni che tu ti lasci attorno spesso si perdono, si confondono. Mi confondono. Se io sono con te i segni che diffondi cambiano prima di raggiungermi; altre volte invece svaniscono silenziosamente, sopraffatti dalla miriadi di nuovi segni che tu mi offri in ogni istante. Segni che uccidono segni. Cos'è che arriva a me di quei segni che tu lasci?» «Sono immagini di te che lottano per il sopravvento. Quale immagine riuscirà a conquistare i miei occhi, la mia memoria?» Un altro sorso di whisky. La gola mi brucia, Serena mi osserva incuriosita restando immobile sul divano, con la testa piegata all'indietro. «Ti ho sempre fotografata, in un certo senso» le dico. «Da 377


quando ti conosco. Cogliendo la tua pelle, i tuoi colori, sfiorando il tuo corpo. Toccandoti comprendo l'armonia del tuo corpo; ti conosco annusandoti, scoprendo il tuo calore, le tue profondità, i tuoi liquidi, le increspature delle tue labbra, o una luce riflessa negli occhi. Lo faccio quando sono con te. Costantemente. Ma costantemente perdo quanto ho appena conquistato. La memoria è labile. Tradisce. Tante volte ho provato ad imprimere nella memoria quei frammenti di te che tu ogni volta mi regali. Ma non è possibile. Non potrò mai. Il tuo corpo è vivo, cambia ogni giorno senza che io sia capace di accorgermene.» «La tua immagine di ieri e quella di oggi si sovrappongono; le differenze si mescolano, i particolari perdono consistenza. Di ciò che tu sei e fai e dici io posso solo avere memorie imperfette qui, nella mia testa. Memorie di momenti o giorni passati assieme, di parole che ci siamo detti. Di gesti...» «Però tutto svanisce inesorabilmente. Un mese, un anno e resteranno solo idee sbiadite, brandelli consumati di parole, scheletri sui quali di volta in volta io costruirò le parti di cui ho bisogno, quelle parti di te che amo o odio, quelle che conosco meglio, quelle che di te amo ricordare. Di te costruirò un inganno che crederò vero.» «Tu sei quella persona che ho visto oggi camminare sulla sabbia. Ma cambierai presto nel mio ricordo, diventerai una figura vaga, un corpo di donna che indosserà la tua faccia, più simile al volto che avrò davanti nel mio futuro che non a quello vivo e vero che oggi ha generato il ricordo. Il mare in cui correvi non sarà quel mare di oggi, ma un mare costruito dal mio cervello mescolando quel mare con tutti gli altri mari 378


che ho visto e vedrò. E lo stesso sarà per la sabbia. E per il cielo. E per il vento. Lo stesso sarà con te. Ricorderò una donna inventata che corre su una spiaggia inventata al suono di un mare inventato sotto un cielo chiaro che è la somma di tutti i cieli luminosi che ho visto, che vedrò.» «Oggi, fotografandoti, ho conquistato una visione nuova del tuo corpo, di te. Certamente, una visione imperfetta e parziale. Ma nuova. Che mi piacerebbe ricordare. E così voglio dare forza a un paradosso: provo a conservarti immutata pur sapendo bene di non poterlo fare. Fotografandoti ti colgo adesso per quello che adesso sei. Non i tuoi pensieri, l'umore, il suono del tuo cuore, certo. Ma un'immagine almeno, questo sì. Un'immagine imperfetta, limitata. Ma un'immagine di te. Di una parte di te. E così riuscirò a mantenere immobile nel tempo questo regalo che ora tu mi fai. La memoria cercherà di ingannarmi. Domani ti ricorderò diversa da quello che ora sei. Ma queste fotografie potranno ancora a raccontarmi di te quel che oggi ho visto. Quello che sei adesso.» «Serena bagnata, Serena sorridente, Serena pianeta vicino e lontanissimo, Serena insondabile, Serena arrendevole, un teatro per la rappresentazione di un inganno.» «Questo è un regalo che io faccio al mio io futuro. E un regalo che faccio a te, lanciando in una quasi-immortalità una piccola parte di te compressa in pochi metri di pellicola.» San Diego 1987- Milano 2006

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INDICE

Esperimenti d'amore in una sera di luglio Il canto dell'ultima voce Immaginare di immaginare di immaginare Vita mentale di alcune macchine Il persuasore Dolori nelle prime ore della notte La stagione del raccolto Acqua, acqua ovunque. E tutte le barche affondano Le superfici del tempo L'accumulazione delle distanze Contaminazioni Le effemeridi della luna nera Gradazioni di rosso La scoperta dell'anima Territori instabili Le fasi del silenzio Il banchetto degli ospiti Il petalo azzurro Fratelli, nei giorni della pioggia L'occhio amorevole Al CafĂŠ dell'avventura Signs

7 16 56 62 80 82 89 103 117 174 191 211 241 250 253 261 274 289 303 322 336 362


COPYRIGHT

“Al Café dell’Avventura.” AAVV, I racconti sul caffè. Modica: Caffè letterario moak, 2005. “La stagione del raccolto.” AAVV, Giallo Wave 2 - Il principio del giallo. Milano: Noreply, 2005. “Dolori nelle prime ore della notte.” Writers Magazine Italia n. 0 (Dicembre 2004). Milano: Delos Books. “Il banchetto degli ospiti.” Sguardi Oscuri. Milano: Delos Books, 2004. “L'occhio amorevole.” DELOS n. 88, (Aprile 2004). “Il canto dell'ultima voce.” DELOS n. 68, (Luglio 2001). “Vita mentale di alcune macchine.” DELOS n. 58, (Luglio 2000). “Steps of Silence” (“Le fasi del silenzio”). The Little Magazine, (Maggio 1990). Albany, NY: SUNY. “Signs.” THE GROUNDLORUM, (Luglio 1987). San Diego, CA.






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