culturificio RESISTERE
OGNI LETTURA È
UN ATTO DI RESISTENZA. DI RESISTENZA A COSA? A TUTTE LE CONTINGENZE
06
Matteo Meschiari Politica delle immagini e resistenza dell’immaginario
16
Arianna Fontanot Resistere per esistere
30
Alessandro Di Giacomo Quanta strada ha fatto Bella ciao!
09
Marco Miglionico Amabili resti
22
Andrea Talarico Bertolt Brecht e la resistibile ascesa di Arturo Ui
36
Gianmarco Canestrari Potere e privato commodo
44
Francesco Del Vecchio Resistere a internet e ricostruire la conversazione
14
Stella Sacchini Fabio Pedone Dare una seconda vita alle parole
27
Paolo Mattera Una memoria divisa: la Resistenza fra cinema e televisione
40
Edoardo Angrilli La fame sono io
48
Giovanni Campagnoli La scrittura impigliata nella rete
52
Tonia Samela Resilienza: la risposta dell’evoluzione per resistere allo stress
culturificio
DIREZIONE EDITORIALE
FEDERICO MUSARDO
F.MUSARDO@TISCALI.IT
LUDOVICA VALENTINO
LUDOVICAVALENTINO@YAHOO.IT
ILLUSTRAZIONI E PROGETTO GRAFICO
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HANNO COLLABORATO
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FRANCESCO DEL VECCHIO
.
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PAOLO MATTERA
MATTEO MESCHIARI
MARCO MIGLIONICO
FABIO PEDONE
STELLA SACCHINI
TONIA SAMELA
ANDREA TALARICO
EDITORE
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Noi del Culturificio crediamo in un’idea organica e democratica di divulgazione culturale. All’inizio – a marzo del 2015 – eravamo da poco iscritti all’università e da tempo volevamo scrivere di ciò che ci appassionava: la letteratura. Pensavamo a un “lettore zero” che fosse chiunque, ambivamo a incuriosire tutti. Da allora, in un certo senso, siamo cresciuti insieme al Culturificio, anche se per fortuna non abbiamo ancora trovato la nostra strada e perciò continuiamo a cercare; l’amore per la letteratura non ci ha impedito di arrivare altrove: storia, arte, cinema, filosofia e perfino escatologia sono soltanto alcuni tra gli esempi possibili degli spazi che abbiamo cercato di abitare. Scriviamo soprattutto perché siamo curiosi. L’inesperienza che ci accompagna da sempre è anche una grande risorsa, perché sperimentiamo senza temere di attraversare i confini. La nostra è una redazione giovane che non rinuncia a meravigliarsi. Tendiamo verso ciò che non conosciamo, siamo sensibili alle scoperte, aperti ai pensieri e alle esperienze esistenziali degli altri. Vogliamo resistere all’ignoranza e rispettare tutte le culture senza discriminare nessuno. Vogliamo insomma imparare a pensare. Crediamo che studiare, leggere e scrivere siano azioni fondamentali per intraprendere questo percorso.
Dopo quattro anni di esistenza virtuale, durante una riunione di alcuni mesi fa, abbiamo pensato di tentare un esperimento cartaceo anche grazie al supporto di alcune persone amiche, tra cui una grafica e un’editrice. Vorremmo scrivere di volta in volta intorno a un determinato verbo all’infinito. Il tema di questo primo numero è “resistere”, una parola molto importante che ci ha indotto a riflettere criticamente sul presente anche attraverso il passato. Ognuno di noi ha perciò coniugato questo verbo spaziando da una disciplina all’altra secondo un punto di vista personale e allo stesso tempo comune. Tutte le nostre interpretazioni del resistere
nascono quindi da una domanda condivisa a cui abbiamo cercato più risposte: perché resistere? Ci è parso necessario domandarlo, scrivendo, anche ai nostri lettori.
Il numero si apre con un breve testo sulla necessità di immaginare; si introduce così il tema della scrittura, rappresentato dalla sopravvivenza dei frammenti e dall’importanza della traduzione. Dopo queste letture si passa a quando la politica fascista ha tentato un’uniformazione forzata dell’italiano contro i dialetti, quindi a un discorso sulla lingua, fino ad arrivare alla letteratura, ovvero al ritratto irriverente che di Hitler e del nazismo fece Brecht. Dal teatro si va verso la storia vera e propria: il cinema e la televisione hanno raccontato a modo loro la Resistenza; Bella ciao, cantata dagli Italiani tra le montagne durante la guerra, è ormai conosciuta pressoché dovunque, il più delle volte legata a un discorso di natura civile e sociale. Poi si fa un passo indietro e si torna al Medioevo: un saggio illustra il modo in cui gli uomini di allora si sono rapportati alla figura del tiranno, un altro invece indaga il tema dell’anoressia, tuttora di grande interesse, da una prospettiva mistica e religiosa. Il Culturificio nasce su internet: sarebbe stato impossibile ignorare questo spazio culturale e letterario: Resistere a internet e ricostruire la conversazione e La scrittura impigliata nella rete sono da leggere insieme perché ci interrogano sulle forme di dialogo caratteristiche di questa realtà e sulla metamorfosi dei concetti di scrittura, parola e umanità. Infine, l’ultimo saggio verte sulla difficile dialettica tra stress e resilienza in un’ottica sia sociologica che clinica. Come si capisce già da questa brevissima presentazione dei saggi che abbiamo concepito, il nostro è un punto di vista vario e interdisciplinare, perché un verbo come “resistere” va coniugato così, avendo cognizione del fatto che ognuno di noi ha una grande responsabilità verso sé stesso, il mondo e l’altro.
VOGLIAMO
INSOMMA
IMPARARE
A PENSARE
POLITICA DELLE IMMAGINI E
RESISTENZA
DELL’IMMAGINARIO
MATTEO MESCHIARI
Resistere è una parola che tutti hanno in bocca e che proprio per questo non serve a niente. Non ha più peso o efficacia o valore perché funziona dentro a frasi standard: si resiste al cibo nel frigorifero, alle tentazioni più o meno cattoliche tra le lenzuola, alle trasgressioni etiche del sabato sera, all’alcol, al brontolare della suocera. La Resistenza con la maiuscola è per molti una roba vecchia da buttare o svilire o attaccare. La resilienza è poco più che una sopportazione passiva nella grande solitudine sociale. Ma è chiaro che se si resiste, si resiste ancora e sempre all’ingiustizia, al sopruso, alla violenza del più forte. Resistere non è insomma una questione privata, anche se forse è da lì che comincia e prende forza. Resistere è un’azione di gruppo. Ma come? Dove? Perché? Il punto cruciale è uno, e cioè che la resistenza si attiva solo quando si è veramente certi di conoscere il volto del proprio avversario. Basta un minimo dubbio, una confusione, una sfumatura di grigio per smorzare lo slancio. Ci vuole il bianco e nero dialettico, ci vuole il click interiore che ci fa dire «questo è il mio nemico». Qual è allora il nostro nemico oggi? Trovo ridicolo l’intellettualismo applicato al tema della resistenza. Trovo ridicolo chi dice come è fatta la resistenza senza spiegare come si fa. Trovo estremamente ridicolo e pericoloso chi interiorizza la lotta, sparando frasi seduttive del tipo «il nemico siamo noi, il nemico è dentro di noi» oppure «siamo tutti colpevoli». È pericoloso e ridicolo perché è sommamente vigliacco, essendo solo un altro modo rinunciatario per spostare il problema in zone confuse e inattingibili. Insomma, un altro modo per stare a spulciarsi il pube senza darsi una mossa. Ora, in tutto questo io sono completamente certo di una cosa. Il nemico c’è, è reale, il suo operato è chiaro, e davvero per me ha tutto a che fare con le immagini. Le immagini creano desiderio, identità, ideologia, dipendenza. Le immagini creano sempre economia, soprattutto quando inventano bisogni e suggeriscono alternative di vita che crediamo di poterci accaparrare attraverso il denaro. La gestione delle immagini è un esercizio di potere e perciò è una questione politica che riguarda tutti. Proprio tutti. Quando oggi sentiamo dire che il nostro immaginario è colonizzato pensiamo automaticamente alle immagini che assorbiamo in modo passivo dai media. Ma il vero colonialismo si realizza appieno solo attraverso il contributo della maggioranza, specialmente durante quelli che potremmo chiamare i “processi di ricerca”. Quando si cerca di rispondere a una domanda attraverso le piattaforme della rete ci si abitua a nuotare in un liquido in cui una risposta, qualunque essa sia, arriva sempre. Siamo consumatori di immagini non tanto perché ne siamo imboccati ma perché, ormai, ci siamo illusi che l’accesso alle risposte sia automatico. Basta digitare una parola in un motore di ricerca e avremo così tante risposte che la prima o la seconda della lista saranno sufficienti. Non è ammesso un vuoto, un buco di informazione, un incidente, un incontro casuale, mentre a volte la vera risposta arriva proprio grazie a un fraintendimento, un errore, una libera associazione. L’immaginario non è colonizzato perché è imbottito di immagini pubblicitarie, ma perché è atrofizzato, perché l’immaginazione non è più costretta a esercitarsi a colmare vuoti, a rovesciare un imprevisto, a fare i conti con il non senso. Ora, è proprio attraverso le immagini che si gioca tutta la politica che ci riguarda, perché la nostra quiescenza sociale è direttamente proporzionale alla nostra incapacità
di produrre immagini per conto nostro. Un immaginario ricco, complesso, dinamico è alla base del cosiddetto spirito critico. Un’immaginazione libera e spregiudicata significa ipotizzare scenari alternativi allo status quo. Non esiste solo un analfabetismo funzionale, esiste anche un analfabetismo immaginativo, e la conseguenza diretta è una massa di soggetti incapace di immaginare un futuro diverso da quello che le viene apparecchiato, incapace di immaginare il dolore altrui, di immaginare la complessità, la diversità, l’alternativa. Oggi ogni battaglia politica è una battaglia delle immagini e per le immagini. Chi le sceglie, chi è in grado di illuderci che siamo noi a sceglierle, può orientare le menti e dunque l’economia. Per chi non accetta questo, lo scenario è quello di una autentica lotta partigiana. Ma con quali strumenti si può resistere? Se l’immaginario è colonizzato, se è colonizzato con la stessa connivenza dell’individuo, allora l’unica via possibile è quella di andarsene e fondare un immaginario alternativo. Le tattiche per farlo, pur continuando a vivere in una società dello spettacolo, sono in realtà piuttosto semplici. In primo luogo ampliare le zone di vuoto, di indeterminatezza, di attenuazione dei confini, in modo tale che l’immaginario riprenda ad allenarsi sull’imprevisto, sulla libera associazione, sul ritocco creativo, e insomma che riprenda a immaginare per conto proprio. In una società dove il pianeta è visto come un silo da svuotare, dove gli animali sono abitualmente trattati come cose e dove certi gruppi di uomini sono sempre più spesso trattati come animali, educare e stimolare un immaginario alternativo in cui i confini ontologici non sono così netti, in cui l’approccio di base dovrebbe essere quello di trattare davvero tutti e tutto come persone, trovare immagini primarie in grado di parlare a tutti potrebbe fare la differenza. Coltivare un immaginario fuori da quello mainstream, sviluppare un corpus di immagini in cui si cerca di far leva su un sistema di corrispondenze tra terre, bestie e umani, esercitarsi all’invenzione di soluzioni creative è un modo molto concreto e immediato per offrire un’alternativa ai pensieri dell’esclusione, del razzismo, del populismo, del nazionalismo, della sopraffazione. Ognuna di queste scorciatoie politiche e sociali è il risultato di una mancanza di immaginazione: incapacità di immaginare l’altro, di immaginarsi con l’altro, di immaginare un altro modo di fare comunità. Non mi interessa dare un nome individuale o collettivo a chi sta manipolando le immagini per conto mio. Quello che so è che la lotta delle immagini è cominciata almeno quarant’anni fa e che la resistenza dell’immaginario è alla portata di pochi. Come sempre.
LA RESISTENZA SI ATTIVA SOLO QUANDO SI È VERAMENTE CERTI DI CONOSCERE
IL VOLTO DEL PROPRIO AVVERSARIO.
BASTA UN MINIMO DUBBIO, UNA CONFUSIONE, UNA
SFUMATURA DI GRIGIO PER SMORZARE LO SLANCIO
Amabili
resti
Un’indagine sul resistere di un frammento nella storia cui dà voce
Interrogarsi sulla resistenza è un quesito inevitabile per chi si trova a riflettere sull’ esistenza, giacché di quest’ultima rappresenta – non solo in tempi più difficili e critici – la parte più importante. Affermare la propria posizione nel mondo comporta di per sé una forma di resistenza, ma quello che cambia per ciascuno è la modalità.
Appartengono certamente alla scienza, alla filosofia e alla politica le risposte più note alla domanda: che cosa vuol dire resistere? Forme di resistenza politica e individuale sono presenti da sempre nella storia e sono altrettanti esempi di affermazione di una precisa identità corale o singolare. Tra i casi più noti si pensi a quelli descritti da Tucidide, nella cui opera si rintracciano numerosi eventi di resistenza tra quei popoli insofferenti all’egemonia ateniese che trovarono il modo di determinare la propria identità attraverso, appunto, le loro diverse manifestazioni di opposizione alla politica imperialista della polis egemone. Un esempio è offerto dal dialogo tra i Meli e gli Ateniesi raccontato in Tucidide V 84, 114. È l’estate del 416 a.C. A Melo, isoletta delle Cicladi legata a Sparta da vincoli di stirpe, Atene ingiunge formalmente di accettare la propria egemonia pagando un tributo. Melo si trova davanti a un’alternativa: accettare il dominio e salvarsi, o resistere, cosa che avrebbe causato l’assedio, la conquista e la distruzione della città. Che la maggior parte delle popolazioni fu comunque costretta a perire, come visto, poco importa: esse riuscirono ad affermarsi nella storia proprio in virtù delle loro attività di resistenza. Quasi naturalmente, perciò, si è passati a osservare l’altra faccia del resistere e cioè il resistere quale mezzo di affermazione nel tempo. Proprio da questo secondo punto si inizierà a indagare quei fenomeni di resistenza del passato nel presente che sono, sforzandosi di ammettere questa estensione analogica, i frammenti a noi giunti della produzione scritta.
Occorrerà fare una prima e necessaria distinzione tra quei frammenti, papiracei e membranacei, che provengono da volumina (i rotoli, più presenti nella memoria collettiva della cultura scritta classica) o da codices di natura letteraria, da quelli di natura documentaria. Prima ancora occorre premettere che cosa sia un frammento e che cosa esso rappresenti dell’organismo cui apparteneva prima di essere un lacerto, un resto.
Per non scadere in un’apologia del frammento in quanto tale, e cioè come unità singolare e autonoma, è utile dire che esso, prima di presentarsi nello stato materiale in cui è osservabile oggi, era parte di un più o meno complesso manufatto e di quest’ultimo rappresenta l’istanza ultima e per noi unica. Si cercherà di giustificare l’enorme importanza di un piccolo lacerto per ricostruire l’identità macroscopica di un prodotto, la sua storia, a partire da ciò che di esso è resistito nel tempo. Il frammento rappresenta quello che doveva essere il prodotto originario, perché da esso se ne possono cogliere le caratteristiche grafiche, materiali, testuali e paratestuali più perspicue. Il colore della pagina, degli inchiostri, l’alternanza di tratti pieni e tratti sottili, la disposizione del testo, la sua interazione con il foglio nella «grammatica dello spazio bianco» (Signorini 2009) sono dati che prima di tutto vengono
dedotti visivamente. Il frammento offre talvolta la possibilità di osservare quale dovesse essere il formato librario nella sua interezza, dal momento che – per esempio – una scrittura eseguita in maniera più corsiva ci orienterà verso un certo milieu rispetto a un’altra dal grado calligrafico più alto e con una disposizione, una mise en page più ordinata. Ovviamente questi dati grezzi dovranno essere confortati dal supporto di studi più specifici: sarà la paleografia a determinare le caratteristiche grafiche, interagendo con chi si occuperà del dato materiale (codicologi, papirologi, bibliologi) e testuale (filologi), riunendo gli elementi più omogenei e funzionali a finalizzare un’ipotesi ricostruttiva di tale frammento. È sempre auspicabile un lavoro di gruppo in questi casi, ma assai spesso è il medesimo filologo a dover avere basi paleografiche e una discreta conoscenza della materia scrittoria o, viceversa, il paleografo dovrà essere versato anche nelle altre discipline. Quanto si spera di ottenere, infatti, con una modalità di indagine estensiva è dare forma a una disciplina ibridata che viene definita negli studi filologia materiale. L’aspetto testuale stricto sensu non può considerarsi infatti completo, qualora non venga messo prima a punto il «physical setting» (Boyle 1988, p. 35) che è l’insieme dei suoi dati materiali e che, per esempio, in fase di raccolta dei testimoni di una tradizione, aiuterebbe il filologo a inserire (oppure escludere) un codice tra gli altri. Un lavoro di ecdotica non dovrà infatti trascurare questi dati che già Pasquali riteneva essere «resultato chiaro e inoppugnabile» (Pasquali 1952, p. 30) più degli elementi interni al testo. Il quadro delle componenti materiali sarà utile per indicare, infine, «fatti, modi, fasi della storia (e talora della stessa “scrittura”)» (Cavallo 2002, p. 28) del manoscritto originale. È pur vero che altre volte il frammento può restituire una certa immagine, ma non rappresentare quel che doveva essere il prodotto originario: si pensi a quei codici raccogliticci oppure a casi più elaborati di raccolte in cui venivano assemblate insieme opere di prosa e di poesia di un medesimo autore. Dunque si deve ragionare con cautela quando a partire dai dati materiali sopra descritti si passa alla definizione del contenuto: sarà meglio non sovraestendere quanto dedotto dal frammento all’intero prodotto ma limitarsi a constatare e raccogliere dati su ciò che nel frammento si legge. Si tratta infatti della «parte annosa e complessa» (Caldelli 2012, p. 99) da cui si giudica la capacità dello studioso di un frammento, che ha il compito di riconoscere il testo, ma anche quello di dover agire con cura qualora si trovasse di fronte a determinate tipologie testuali (per esempio i frammenti liturgici) che hanno una pletora di studiosi pronta a sapere di quale opera e di quale autore il frammento si fa portatore. Inserirsi in una tradizione testuale già stratificata e complessa a partire dal testo reso noto da un singolo lacerto è un’operazione coraggiosa e irrinunciabile.
Fatta questa dovuta premessa, in cui inevitabilmente si è sconfinati verso prescrizioni di carattere metodologico, si dirà ora delle differenze di quanto nei frammenti è rimasto (resistito, per rimanere nel solco di questo lavoro comune) della produzione scritta del passato.
Appartiene alla fascinazione degli studi classici l’idea
che la conoscenza della produzione letteraria antica sia figlia legittima di quei secoli; in verità, quanto si possiede è spesso la copia indiretta di opere classiche avvenuta in epoca altomedievale. Non mancano i casi di ritrovamenti di papiri o di codici di natura letteraria anteriori, talvolta filologicamente più genuini, ma occorre ricordare che sono comunque figli di atti di copia e che essi, in quanto tali, sono un’alterazione più o meno ponderata dell’originale. Senza volersi addentrare ora in questioni di filologia degli errori, di ecdotica e di restituzione del testo nella sua purezza, quello che preme sottolineare è l’idea che ogni resistenza di un testo nel tempo ha inevitabilmente dovuto incontrare l’azione corrosiva dei secoli, come se quel testo si fosse coperto di rughe, pur mantenendo inalterata la sua bellezza: si spera così di intaccare un po’ la convinzione di certi studiosi della classicità che vedono nel testo l’immacolata presenza di un autore, bramano di sentirne il respiro autentico. Questa presa di posizione evemeristica nei confronti del passato non vuole però trascurare il dato oggettivo e cioè che proprio la cultura scritta ha determinato la sopravvivenza di certi autori, riconoscendo che la loro resistenza ha dovuto incontrare – e spesso non superare – cause di dispersione materiale oggettive (incendi di biblioteche, usura materiale dei supporti scritti, luoghi di conservazione spesso inadatti) e scelte editoriali ante litteram a volte compagne della politica e crudeli quasi quanto il contemporaneo mercato librario. Non sorprende infatti che tra gli autori più noti per noi si legga Orazio, intellettuale inseritosi nella cerchia di Mecenate vicina al princeps Augusto, e che proprio Orazio avvertisse il senso del tempo e misurasse rispetto a esso la resistenza della sua poesia (HOR. Carmina III. 30):
Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius. (Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo più alto della regale maestà delle piramidi).
Emerge quindi un dato incontrovertibile: è la scrittura, intesa come azione incisiva e come materiale affermazione di un prodotto nel tempo, ad averne determinato la sopravvivenza fino ai giorni nostri. Prima dell’archeologia, spesso è quanto si legge dell’antichità che consente di ricostruire quello che accadeva in passato. Resta innegabile l’assunto che l’introduzione della scrittura nelle antiche società abbia rappresentato un cambiamento che non si traduce esclusivamente in un nuovo mezzo di comunicazione – rispetto all’oralità tradizionale e alle sue implicazioni sociali, quali la formazione di gruppi più o meno coesi e solidi, formatisi attorno al nucleo della propria tradizione –, ma anche in una modifica della «fisionomia della coscienza» (Havelock 2005, p. 22). Aver addomesticato il pensiero (Goody 1990) alla scrittura ha ovviamente modificato la percezione stessa della scrittura e, a prescindere dalla possibile origine sulla quale comunque molti hanno indagato, occorre sottolineare innanzitutto questo dato per comprendere il valore di resistenza della scrittura. A questa analisi se ne accompagna inevitabilmente un’altra, che prende in considerazione e tiene
INTERROGARSI SULLA
RESISTENZA È UN QUESITO
INEVITABILE PER CHI SI TROVA
A RIFLETTERE SULL’ESISTENZA,
GIACCHÉ DI QUEST’ULTIMA
RAPPRESENTA LA PARTE PIÙ
IMPORTANTE. AFFERMARE
LA PROPRIA POSIZIONE NEL
MONDO COMPORTA DI PER SÉ UNA FORMA DI RESISTENZA, MA QUELLO CHE CAMBIA PER CIASCUNO È LA MODALITÀ
assieme scrittura e alfabetizzazione, punto sul quale è ora inutile dilungarsi, ma per cui si rimanda a una sezione della bibliografia in fondo al testo. Risulta infatti imprescindibile legare questi due aspetti, per comprendere non tanto come e quanto la scrittura fosse diffusa, dal momento che va premesso di non poter cogliere il grado di alfabetizzazione di una società antica se tentiamo di spiegarla con i termini della modernità o con una ricerca di tipo quantitativo (così conclude Paolo Radiciotti in Ammirati – Biagetti 2006) bensì per comprendere la necessità che determinò la scelta di affidare la propria storia alla scrittura.
È questo infatti lo slancio che serve per procedere verso un secondo momento fondamentale di questo lavoro: l’analisi dei prodotti scritti di àmbito documentario, che danno la possibilità di constatare in maniera più immediata quanto si vuole conoscere di una civiltà antica e registrarne, quindi, la sua resistenza nel tempo.
Certamente meno affascinanti e intriganti per l’occhio comune, anche i prodotti della pratica scrittoria usuale, meno calligrafica e più corsiva, meno “precisa” e più indecifrabile, offrono informazioni utili per ricostruire le manifestazioni sociali di una civiltà, le sue strutture. Avere di fronte a sé simili documenti consente da un lato di poter conoscere quali fossero queste strutture portanti, le istituzioni del passato, le caratteristiche fondamentali, dall’altro complica enormemente il quadro della nostra conoscenza, soprattutto quando si cerca di evidenziare una continuità senza soluzioni fra la nostra epoca e il passato. L’enorme mole di frammenti documentari aiuta infatti lo studioso a indagare più da vicino la
realtà antica, ma è indubbio che certe sfumature (per esempio ricostruire il ruolo reale di alcune istituzioni nominate nella documentazione superstite) restano spesso non pienamente intelligibili. La ricostruzione possibile è invece intessere –sulla scorta del materiale superstite – un tessuto connettivo tale da giustificare quello che progressivamente si scopre senza relazioni o adeguamenti meccanici al presente, ma spiegando il passato col passato e garantendone la sopravvivenza, la resistenza, grazie all’attività stessa dello studioso. Un po’ come per la pratica giapponese del kintsugi, irripetibile reticolato dorato tra i frammenti di ceramica, a chi si occupa di studiare il passato è richiesta la cura di unire i resti senza pretesa di ricomporre il passato in maniera identica a quale doveva essere, ma in una forma nuova e più preziosa giacché preservata dallo stato frammentario in cui versava. Solo così si riesce allora ad apprezzare con uguale stupore un papiro letterario, un autografo di Petrarca, un documento notarile quattrocentesco o le annone militari dei castra romani in Egitto, le liste dei soldati stanziati nelle legioni e la raccolta di conti di un anonimo redattore. Ed è in questo tipo di documenti che assai spesso si può registrare in maniera più immediata la lingua vera di una certa popolazione, con tutti gli “errori” e le varianti che la classicità e il canone letterario avrebbero invece oscurato, o la pratica scrittoria reale, la viva manus di coloro i quali contribuirono – più che nella prassi calligrafica e nella produzione scritta alta –alla formazione di buona parte della morfologia di lettere e legature fra lettere. È nell’errore caro anche ai filologi che si propongono di ricostruire la tradizione di un testo nella stortura dalla norma che si evidenziano i progressi e le novità, prima che esse vengano apprese e riadattate a un contesto grafico alto. Non solo di paleografia si tratta: certi fenomeni grafici consentono di inferire anche i perimetri entro i quali si faceva uso della scrittura e quali fossero le pratiche più comuni. Si avrà modo, per esempio, di apprendere che fenomeni di scrittura collettiva con alternanza di più mani nella redazione di un testo avvenissero anche ben prima che negli scriptoria di epoca medioevale (Fioretti 2015), che esistevano esperienze di scrittura scolastiche anche al di fuori dei contesti scolastici comunemente intesi, di cui esiste una ricca bibliografia parzialmente riprodotta, e altre implicazioni che consentono persino di riscrivere la sociologia della scrittura, l’area della sua diffusione. Esiste anche un altro versante di riscrittura della storia attraverso l’analisi di ciò che di essa ha resistito nel tempo e che, se si vuole, afferisce a un ambito più affettivo e commovente. Nell’analisi della produzione scritta antica si può infatti incontrare la possibilità di riconoscere una mano in particolare: accade spesso per le grafie di epoca bassomedievale o umanistica, ma anche per l’antichità esistono casi (occorre dire: particolarmente fortunati e rari) in cui si è potuto evidenziare una medesima manus nella redazione di vari documenti. È il caso del rationalis Vitalis che nei primi decenni del IV secolo d. C. aveva inviato due identiche lettere di raccomandazione ad Achillio (P. Strasb. inv. lat. 2) e a Delfinio (P. Ryl. IV 623), a partire dalla seconda delle quali Roberts, nel 1952, ebbe modo di riunire più di trenta papiri
IL FRAMMENTO RAPPRESENTA
QUELLO CHE DOVEVA ESSERE IL PRODOTTO ORIGINARIO, PERCHÉ
DA ESSO SE NE POSSONO
COGLIERE LE CARATTERISTICHE
GRAFICHE, MATERIALI, TESTUALI
E PARATESTUALI PIÙ PERSPICUE
sotto l’unico denominatore di «archivio di Teofane». Un caso simile solleva inevitabilmente un’altra grande questione di carattere generale, legata alla produzione scritta e cioè la conservazione. Soltanto in pochissimi casi la documentazione superstite afferisce a insiemi coerenti che è possibile chiamare archivi, in cui raramente confluisce anche materiale letterario (così Turner 2016). Perché si possa parlare di archivio, inteso come insieme pensato in epoca antica, deve essere soddisfatta la condizione – se non necessaria, sufficiente – che l’assemblamento di questo corpus risalga realmente all’epoca contemporanea alla produzione del materiale che l’archivio raccoglie (Martin 1994). Lo studio di un insieme archivistico consente inoltre di poter lavorare anche in una dimensione sociologica, indagando cioè le dinamiche di produzione e raccolta della documentazione, intuendo quali dovessero essere i ruoli, i rapporti all’interno di un contesto che faceva uso consapevole della scrittura. «L’archivio ci permette una specie di sondaggio in un settore del mondo antico, a scala reale: lo studio di un campione, che può essere una famiglia per due o tre generazioni, con tutte le sue vicende di nascite, morti, matrimoni, relazioni di lavoro e di affari, rapporti con l’autorità, ecc.» (Montevecchi 1988, p. 247). Allo stesso tempo, però, aver scoperto così pochi archivi (appena più di un centinaio) ridisegna il concetto di alfabetizzazione diffusa (Turner, ivi, p. 95), discorso che inossidabile si lega all’analisi della scrittura, come sopra.
Analisi di natura materiale, grafica, di antropologia e sociologia della scrittura sono le tante diramazioni che si possono irradiare a partire soltanto da un minuto frammento che, preso in esame, si offre allo studioso come tangibile esperienza di resistenza nel tempo. Il frammento infatti sarà considerato di per sé come epifenomeno di una più ampia resistenza e cioè quella di tutte le componenti deducibili (più o meno immediatamente) dal frammento stesso. Avere il quadro di tutti questi elementi è il fine ultimo dello studioso, cui si impone il dovere – oltre che il piacere – di restituire una voce all’erma muta del frammento che si è opposto alla deperibilità per restituire un’immagine minima del passato da cui deriva.
Dare una seconda vita alle parole
Qualche pensiero sulla resistenza dei traduttori
PEDONE E STELLA SACCHINI
Costretto per lungo tempo a un’invisibilità coatta, alimentata dal naturale riserbo delle figure vitalmente vocate a lavorare dietro le quinte, oggi il traduttore sta uscendo dal buio: il suo impegno, la sua fatica, la sua umiltà vengono riconosciuti più di prima. Si moltiplicano le occasioni in cui questa “seconda voce” può venir fuori dall’angolo e prendere la parola (ma non nel culto di una “visibilità” spettacolare), i professionisti fanno rete fra loro più che nel passato e comunicano ai colleghi più giovani – ma anche all’esterno – i problemi della categoria; sembra sia nata una maggiore consapevolezza critica e culturale dell’etica del tradurre e del ruolo delle traduzioni; negli ultimi anni alcune case editrici hanno deciso di mettere in copertina anche il nome del traduttore; i migliori recensori provano a citare più spesso nei loro articoli il nome di chi ha realizzato la traduzione, senza strizzare il giudizio su un lavoro complesso nelle maglie di un trito aggettivo tra parentesi. Tutti segnali consolanti, non c’è dubbio, ma sono solo il timido inizio di un cammino che si annuncia arduo e periglioso. Servirà fare appello a tutta la resistenza di cui si è capaci. I traduttori lo sanno bene cos’è la resistenza, perché è la loro compagna quotidiana. Serve resistenza per tradurre un testo, quale che sia: vuoi per intraprendere un viaggio che sembra tranquillo, vuoi per scalare certe imponenti vette letterarie. È come essere alle pendici delle Ande o dell’Himalaya: se pensi alla fatica che farai fin dall’inizio allora la salita non la intraprendi neppure.
Ci vuole resistenza per districarsi nel ginepraio delle notevoli difficoltà che impone il “vivere da traduttori”, mestiere o arte in Italia non riconosciuto nemmeno sul piano economico nella misura in cui dovrebbe esserlo. Mestiere
o arte che, si sa, necessita di preparazione, vasta cultura, sensibilità linguistica, indefessa pazienza, umile capacità di confronto, istinto, slancio creativo. La traduzione non è passaggio automatico di significati, né mera funzione meccanica dell’accostamento di due lingue. Ci vuole resistenza per mettersi alla scrivania e con lenta meticolosità tentare di dare una nuova vita a parole consegnate a un’altra lingua, tentare di mutarle da lettera morta in voce viva.
“Resistenza” proviene dal latino “re”, ‘indietro’, e “sistere”, ‘fermare’, ma volendo possiamo spiccare un salto d’immaginazione verso un’etimologia fantasiosa e pensare a questa parola come a un “esistere di nuovo”: resistere, ri-esistere, opporsi per tornare a esistere. Opporsi al tempo, che tutto divora. Opporsi alla frontiera della morte, del silenzio che attende al varco ogni parola umana. Opporsi al predominio di una circolazione frenetica delle parole-immagini che, seppellendoli sotto l’urlo collettivo dei social, ha messo da parte l’attenzione, la cura, la precisione, il fertile lento scambio di idee, la lettura approfondita del reale. Il traduttore, secondo un’immagine cara a Franco Nasi, è un Sisifo condannato a veder sempre ruzzolare giù dalla scarpata quel masso che ha affannosamente sospinto fino alla cima. Una fatica necessaria, inevitabile, che ha in sé però anche una promessa di felicità.
Dunque: aggirandoci con lieve disorientamento fra queste considerazioni e le ombre che gettavano su un futuro molto prossimo eravamo presi da una sorta di disagio, e infine abbiamo declinato questo sentimento in una suprema forma di resistenza: pensare a un piccolo festival di traduttori – e di traduzioni, al plurale – che si tenesse in una zona marginale d’Italia, e segnatamente in undici paesini delle Marche meridionali, tra la provincia di Fermo e quella di Ascoli Piceno (Altidona, Campofilone, Lapedona, Monte Rinaldo, Montefiore dell’Aso, Monterubbiano, Moresco, Ortezzano, Pedaso, Petritoli, Ponzano di Fermo). BookMarchs – L’altra voce incarna una forma di resistenza al quadrato, sì; per contrastare la tentazione di chiudersi in un’ossessione identitaria, sempre serpeggiante, e farlo nel nome di un’apertura e accoglienza dell’Altro che è la stessa a fondamento della civiltà mediterranea. Ci vuole resistenza per insistere nel parlare di traduzione, di letteratura, in piccoli borghi e paesi dove “morde l’arsura e la desolazione”, a dispetto della loro bellezza, perché si stanno spopolando e rischiano, in una reazione disperata, di trasformarsi per sopravvivere in “turistifici”: paesi-fantasma confezionati ad uso e consumo del turista “gastronauta” morso solo da passioni di cibo e di vino, nella dinoccolata, allegra ma scialba, infine indifferente ripetitività di un’estasi corporale prêt-à-porter. E quindi riportare fra i vicoli e nelle piazze un movimento di idee, un movimento culturale e virtuoso è la nostra personale forma di resistenza; senza contare poi l’assenza di vere e proprie librerie: anche tramite le molte copie vendute nel corso degli eventi la prima edizione del festival, lo scorso anno, ha confermato la fame di cultura che c’è in questi territori. Perciò il nostro scopo è portare al centro del discorso il libro, e il suo traduttore che ne è, non per caso, conoscitore fra i più profondi. Il rispetto per la figura dei professionisti dell’editoria e per
È COME ESSERE ALLE PENDICI
DELLE ANDE O DELL’HIMALAYA:
SE PENSI ALLA FATICA CHE FARAI
FIN DALL’INIZIO ALLORA LA SALITA
NON LA INTRAPRENDI NEPPURE
il loro insostituibile operare deve peraltro tradursi a nostro avviso anche nel riconoscere un compenso economico alla loro partecipazione, non solo per il loro valore, ma poi perché essere presenti al festival toglie tempo ed energie ai loro lavori in corso. E questo, grazie al sostegno dei Comuni, delle realtà produttive e delle istituzioni del territorio, cerchiamo di fare. Parte non trascurabile del nostro impegno è poi – nel corso di tutto l’anno – anche l’esperienza del “Traduttore in classe”, con lezioni e laboratori nelle scuole, dalle elementari fino alle ultime classi delle superiori.
Il tema della seconda edizione di BookMarchs, che si è tenuto quest’anno tra fine agosto e inizio settembre, è la traduzione dei classici quale forma di resistenza: per far “tornare a ridere al giorno” il testo, ridando voce a una pagina già scritta, il traduttore lo strappa alla morte, lo restituisce alla vita: si oppone all’oblio, alla riduzione della parola al silenzio. È vero che i testi letterari, e i classici per definizione, hanno una propria intrinseca capacità di resistenza, poiché sono capaci di sopravvivere al di là del proprio corpo, ma per tradursi verso un altrove hanno sempre bisogno di un “passatore”, una figura che li accompagni dalle rive dell’altra lingua alla luce della lingua nuova.
In questa trasformazione un ruolo fondamentale lo hanno avuto e lo hanno le donne: e siamo davvero soddisfatti di poter dedicare la seconda edizione a Rosa Calzecchi Onesti, la grande traduttrice di Omero che riposa a Monterubbiano, in provincia di Fermo, il paese delle sue radici. Nell’Italia arretrata degli anni Quaranta e Cinquanta, infatti, due traduttrici omeriche (l’altra è Giovanna Bemporad) hanno sottratto alla storia quello che per millenni era stato un territorio tutto maschile, misurandosi con l’epica greca e dando una nuova vita in italiano all’esametro, riscattandolo dall’enfasi e dalla pesantezza delle traduzioni fino ad allora classiche. Negli ultimi tempi si è fatto un gran parlare della nuova traduzione dell’Odissea in inglese a cura di Emily Wilson e del suo nuovo sguardo; almeno in questo l’Italia è stata forse in anticipo sul futuro.
BookMarchs – L’altra voce www.bookmarchs.it
Resistere
per esistere
La politica linguistica fascista e i tentativi di uniformazione forzata
ARIANNA FONTANOT
L’obiettivo di questo breve saggio è di fornire una panoramica molto generale degli elementi della lingua che, per quanto fervidamente osteggiati e addirittura vietati in epoca fascista, sono stati in grado di resistere alla politica linguistica del regime: il riferimento è soprattutto a fatti di fonologia e pronuncia dialettali e regionali.
Allo scopo di rendere il lavoro accessibile anche a coloro che non abbiano mai sentito parlare di linguistica, ho pensato di procedere gradualmente: innanzitutto verrà chiarito che cosa si intende per politica linguistica; in un secondo momento verrà presentata la peculiare situazione della lingua italiana nel periodo precedente all’insediamento del regime fascista. In seguito, si prenderà in considerazione l’atteggiamento del regime, volto a scoraggiare il ricorso dei parlanti a tratti considerati degni di censura, ovvero dialettali e appartenenti a lingue straniere. Infine, si fornirà una seppur minima valutazione del successo della politica fascista, a partire anche e soprattutto da alcune tendenze in atto nell’italiano contemporaneo.
Il termine “resistere” assume significati relativi ad ambiti anche molto diversi tra loro. Innanzitutto vi si può ricorrere sotto forma di nome, per indicare ribellione o opposizione e dunque atti di ostruzionismo, ostinazione, riluttanza, contrasto oppure, con una diversa sfumatura, perseveranza, quindi costanza e tenacia. Inoltre, il termine occorre nel dominio d’uso dei cosiddetti linguaggi tecnici, entro cui può assumere vari significati relativi ad esempio alla conformazione specifica di un materiale, all’indicazione di una vera e propria entità fisica dal punto di vista della meccanica oppure, come aggettivo, può fornire informazioni sugli attributi di un essere animato. Ad esempio nella descrizione di un materiale il termine “resistente” indica solidità, robustezza o compattezza; nella fisica meccanica, invece, esso definisce una grandezza: generalmente l’attrito; dal punto di vista della
qualificazione, infine, mette in evidenza la forza, il vigore o l’energia di un essere animato (Feroldi – Dal Pra 2011).
Nonostante questa varietà di significati, mi pare che la parola, così com’è scritta nel titolo, e cioè al modo infinito, ma ancor di più come nome “resistenza”, sia presente nel sentire comune essenzialmente in relazione ai fatti che riguardano la Seconda guerra mondiale, in particolare le attività dei partigiani. Infatti, ponendo qualche domanda a casuali interlocutori, nei contesti più disparati, mi è parso di cogliere che la prima accezione a sovvenire, qualora si pronuncino le parole “resistere” e “resistenza”, sia proprio quella relativa ai fatti intercorsi tra il 1939 e il 1945. Benché una suggestione non possa sostituire uno studio sistematico delle eventuali occorrenze, mi pare che quest’intuizione costituisca un buon punto di partenza per il fatto che il periodo storico appena citato si configura come un momento di grande fermento e di stravolgimento dal punto di vista culturale, sociale, politico, cosa che ha, ovviamente, conseguenze sul piano linguistico. D’altra parte, le prese di posizione conseguenti alla politica linguistica del periodo fascista consentono di riflettere su aspetti che hanno a che vedere con la “resistenza” non strettamente in senso di azione partigiana, ma per ciò che riguarda la persistenza di particolari fenomeni linguistici. Per esempio, i tratti dialettali che caratterizzavano la lingua della conversazione quotidiana per tutti gli italiani – in realtà si stima che i parlanti di italiano corrente all’epoca fossero circa il 10% della popolazione totale – durante i primi anni di regime furono oggetto di diversi provvedimenti: dapprima protagonisti di un nuovo metodo d’insegnamento della lingua, in seguito, soprattutto a partire dagli anni ‘30 e fino al 1940, se ne vietò l’uso in contesti pubblici – cosa che peraltro accadde a forestierismi ed esotismi. Tuttavia, tale imposizione del regime – ed è qui che si colloca l’elemento di resistenza – alla lunga non ebbe particolari effetti, in quanto
PER POLITICA LINGUISTICA
S’INTENDE UN’OPERAZIONE, COMPIUTA DALL’ORGANISMO
STATALE, CHE PERVADE OGNI
AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA
LINGUA, IN PARTICOLARE DI
RILEVANZA SOCIALE E POLITICA
i tratti vietati parvero addirittura rafforzati nella produzione linguistica dei parlanti, specialmente dal punto di vista della pronuncia e della fonologia.
I sistemi linguistici si configurano come entità complesse che risentono di molti fattori esterni alla lingua o extra-linguistici e che hanno, in un insieme di dimensioni di variazione, anche una dimensione diacronica collegata al momento storico, sulla base della quale l’atteggiamento dei parlanti cambia per comunicare messaggi entro contesti sociali e politici in continuo mutamento. In tal senso, il termine “politica linguistica” sottende in realtà molteplici aspetti di un processo a cui partecipano sia le istituzioni di un paese sia i parlanti stessi (Orioles 2011); perciò fornirne una definizione soddisfacente non è un’operazione così semplice. In generale essa implica un intervento degli organi competenti in uno stato o in una comunità orientato all’individuazione di una norma. In altre parole, per politica linguistica s’intende un’operazione, compiuta dall’organismo statale, che pervade ogni ambito di applicazione della lingua, in particolare di rilevanza sociale e politica.
In ragione di questo, si può dire che in Italia il concetto di politica linguistica non sia davvero pertinente fino almeno al 1861, anche se un intervento sistematico dello Stato in fatto di lingua si avrà soltanto in epoca fascista. La mancanza di un’identità nazionale forte ebbe infatti come conseguenza, nel momento – il XIX secolo – in cui il continente europeo contemplava la formazione dei grandi stati-nazione, l’assenza di un’identità tra lingua e nazione, pervasiva invece durante il ventennio fascista.
La sociolinguistica e la dialettologia, le discipline che insieme alla storia della lingua più si sono occupate dello studio della situazione immediatamente precedente e successiva all’unificazione, restituiscono per quel periodo un quadro di sostanziale diglossia, ovvero la presenza di due lingue da intendere, per così dire, come compartimenti stagni. Da un lato l’italiano, impiegato esclusivamente negli usi “alti”, modello normativo di riferimento per i comportamenti linguistici; dall’altro una serie di varietà spontanee native
– i dialetti – a cui la sostanziale totalità della popolazione ricorreva nelle interazioni quotidiane. In altre parole, si può dire che la produzione linguistica dei parlanti fosse pesantemente sbilanciata a favore dei dialetti, anche se a partire dal 1861 l’italiano acquisì progressivamente importanza fino a diventare, fra gli anni Cinquanta e Settanta, la lingua madre della maggior parte della popolazione.
Ad ogni modo, all’alba dell’Unità d’Italia, poiché i dialetti erano almeno tanti quanti le regioni d’Italia, sussisteva uno stato di frammentazione tale che si dovette far fronte alla necessità di favorire la diffusione dello standard nel particolare contesto in cui i dialetti costituivano la lingua madre della maggioranza di parlanti. Non è possibile, per ragioni di spazio, ripercorrere la storia dei tentativi di codificazione e standardizzazione della lingua italiana; tuttavia si deve tener presente che la questione ebbe un grande rilievo già a partire dal 1300.
Allo stato di frammentazione seguì comunque una fervida riflessione, da parte soprattutto di letterati come Alessandro Manzoni e Edmondo De Amicis, che portò all’individuazione di uno standard nel fiorentino effettivamente parlato dai colti. E in epoca fascista prese piede un atteggiamento, in buona misura prescrittivista, volto a condannare l’uso del dialetto e le pronunce con inflessioni dialettali che, per quanto contribuisse a individuare una norma, non forniva strumenti adeguati alla sua applicazione.
Infatti, nonostante le prescrizioni, l’esposizione allo standard nel parlato era in realtà insufficiente e le pronunce, come già accennato, assumevano tratti fortemente locali, propri della «malerba dialettale» (Crocco 2017, p. 105); in conseguenza di ciò, si soffriva la mancanza di strumenti validi soprattutto in ambito didattico. In effetti i maestri di scuola, che a loro volta vivevano in un contesto di diffusa dialettofonia e che si configuravano come il punto di riferimento del ben parlare italiano, non disponevano di una guida ortoepica specifica, né tantomeno affidabile, e desumevano la corretta pronuncia dall’ortografia. Tale strategia, benché utile, non era però risolutiva, siccome l’ortografia italiana presenta innumerevoli situazioni di ambiguità dovute principalmente a fenomeni di omografia e omofonia (Crocco 2017, p. 106). La generale inefficacia dell’atteggiamento prescrittivista e promotore del nuovo standard si coglie, in particolare, nel tentativo di uniformare la pronuncia dell’italiano, obiettivo che nemmeno la politica linguistica fascista parve in grado di raggiungere. In effetti ancora oggi, benché si sia giunti all’individuazione di uno standard ancora basato sull’italiano colto fiorentino nessun parlante – a meno che non sia un attore o uno speaker di professione – parla quotidianamente seguendo la norma prevista per la pronuncia standard. A questo proposito, alcuni studiosi ritengono opportuno mettere in evidenza l’elevato numero di “fonologie dell’italiano” contemporaneo: benché la configurazione socio-politica e linguistica sia fortemente diversa rispetto al momento dell’unificazione o dell’avvento del regime fascista, la parlata di ciascuna regione, mutatis mutandis, continua a essere riconoscibile in virtù di un accento, di una particolare pronuncia, che consente ai parlanti di individuare almeno l’area geografica
di provenienza dei propri interlocutori; in conseguenza di ciò esisterebbero almeno venti fonologie dell’italiano e dunque circa venti pronunce standard regionali (è naturalmente una semplificazione; intonazione e pronuncia risentono infatti, oltre che della variazione geografica, anche di fattori sociali e personali come l’educazione o la particolare conformazione dell’apparato fonatorio del parlante).
Tra le venti pronunce alcune sono ritenute più prestigiose di altre: ad oggi, pare che l’italiano parlato si orienti verso quello del Nord, sopratutto di Milano, per fattori essenzialmente extra-linguistici, ad esempio la percezione di un maggiore benessere e sviluppo economico presenti in quest’area. Ad ogni modo il prescrittivismo postunitario non sembra aver contribuito a diffondere la pronuncia e la fonologia standard tra parlanti delle diverse regioni quindi i tratti locali resistettero e resistono all’imposizione della norma.
Come già accennato un altro tentativo, messo a punto in modo più sistematico, si ebbe in epoca fascista, dapprima con una serie di interventi e decreti statali con l’obiettivo di strumentalizzare la politica linguistica in direzione di un consenso generalizzato al regime; in seguito con un vero e proprio manuale: il Prontuario di pronunzia e di ortografia, pubblicato nel 1939 da Giulio Bertoni e Francesco Ugolini, che divenne il punto di riferimento ufficiale degli speaker radiofonici durante il regime.
All’interno del più ampio aspetto della politica culturale fascista si può individuare una costante che persistette per tutto il periodo in cui il regime volle organizzare il consenso intorno alla propria ideologia: la preoccupazione per il raggiungimento e mantenimento della purezza, fosse essa della razza o della lingua. All’alba dell’insediamento del partito fascista, Mussolini si trovava, in conseguenza della peculiare situazione linguistica italiana, di fronte alla necessità di eliminare ogni influenza dialettale e straniera così da comunicare efficacemente la propria ideologia e organizzare il consenso coerentemente con il concetto di purezza a cui tendeva. Tuttavia, un primo problema si presentò per via del diffuso analfabetismo, in virtù del quale la maggioranza della popolazione si accostava all’italiano come a una lingua straniera e del tutto nuova, poiché muoveva da un sistema linguistico variegato e con caratteristiche molto diverse dallo standard, ovvero quello dialettale.
Perciò, innanzitutto, il regime dovette preoccuparsi di eliminare, o quantomeno di contenere, l’analfabetismo, procedendo a riformare l’istruzione pubblica e le pratiche glottodidattiche. La prima innovazione in questo senso si ebbe con il metodo denominato “dal dialetto alla lingua”, messo a punto da Giuseppe
Lombardo Radice intorno al 1924; esso si faceva promotore di un’apparente rivalutazione del dialetto, riconosciuto come lingua madre dei parlanti e considerato come punto di partenza per l’insegnamento dell’italiano. Lungi dall’essere un tentativo di promozione dei tratti regionali, il metodo, in realtà, si serviva del dialetto come mero «tramite per raggiungere la lingua nazionale» (Klein 1986, p. 48) e per elevarsi allo standard imparando a contrastare le tendenze regionalistiche. Il metodo per raggiungere tale norma, secondo Lombardo Radice, consisteva nella traduzione, che tuttavia rischiava di rivelarsi fallimentare poiché contemplava il passaggio da una varietà locale rurale a una urbana sovraregionale, con la conseguente traslazione da una situazione culturale con specifiche caratteristiche a una con bisogni comunicativi diversi. A fronte di questo si può concludere che il metodo “dal dialetto alla lingua” non mirasse in verità a una tutela della cultura popolare, benché l’idea dell’emancipazione linguistica delle classi svantaggiate fosse un fondamento della teoria didattica di Lombardo Radice, bensì se ne servisse come strumento per raggiungere una diffusione capillare dello standard (Klein 1986, pp. 50-1).
In effetti ciò pare dimostrato dal progredire della politica culturale del regime, fondata sull’identificazione tra lingua e nazione, che promosse istanze xenofobe e un atteggiamento gradualmente meno tollerante nei confronti di tratti non standard o stranieri. Si venne così a creare una sostanziale condizione di dialettofobia, che sfociò attorno al 1940 in una vera e propria ideologia dell’autarchia linguistica, anche sul piano lessicale, secondo cui occorreva mettere a punto l’eliminazione e traduzione sistematica di dialettalismi e forestierismi. Dunque, se in un primo momento la politica linguistica fascista accolse come necessaria la mediazione del dialetto per la diffusione dello standard, in seguito procedette a una progressiva estromissione delle varietà spontanee native, al punto che la lingua nazionale divenne l’unica consentita sia nello scritto sia nelle interazioni orali.
A partire dagli anni Trenta la repressione si fece più aspra e sistematica: addirittura fu richiesto ai cittadini di fornire il proprio contributo nell’eliminazione dei tratti “esotici”,
ALCUNI ESEMPI DI ESOTISMI
SOSTITUITI DAI CORRISPETTIVI IN
ITALIANO FURONO, AD ESEMPIO: “GINEPRELLA” PER GIN, “SFRITTO” PER SAUTÉ, “ TRASFORMABILE”
PER CABRIOLET E “ LATTE
BULGARO” PER YOGURT
considerati estranei, o proprio stranieri, a quelli della norma. In particolare, il quotidiano romano «La Tribuna» bandì un concorso pubblico per la sostituzione di cinquanta esotismi (Klein 1986, p. 117). In contemporanea, si cominciarono a eliminare le scene di parlato straniero nel cinema e si vietò l’uso di forestierismi nei quotidiani.
L’autarchia perseguita dalla politica linguistica del regime trovò la sua piena espressione nel 1940 allorché fu istituita, su iniziativa del Ministro dell’Interno, una commissione per l’italianità della lingua, di cui si occupavano i membri della Reale Accademia d’Italia. Essa aveva il compito di assicurarsi il controllo burocratico della politica linguistica e di perseguire la completa eliminazione degli “esotismi” (Klein 1986, p. 118). Alcuni esempi di esotismi sostituiti dai corrispettivi in italiano furono, ad esempio: “gineprella” per gin, “sfritto” per sauté, “trasformabile” per cabriolet e “latte bulgaro” per yogurt (Serianni – Antonelli 2011).
È sulla scia di questa politica linguistica e culturale che si pone la stesura del Prontuario di pronunzia e di ortografia di Bertoni e Ugolini.
Il sistema fonologico dell’italiano non è unitario e anzi subisce le conseguenze di una frammentazione linguistica che affonda le proprie radici piuttosto lontano nel tempo. Non si può fare riferimento a un sistema unico neanche per la pronuncia, giacché essa risente sia della differente provenienza geografica dei parlanti sia di fattori più specificamente storico-sociali – livello di scolarizzazione, esposizione al dialetto o ad altre lingue, per esempio. Inoltre, occorre tenere presente che l’influenza esercitata dai mezzi di comunicazione di massa sullo standard linguistico e sulla sua percezione da parte dei parlanti ebbe un peso assai rilevante in epoca fascista. Benché i mass media fossero ancora agli inizi, radio, stampa e cinema costituirono, fin dagli albori del regime, gli strumenti primari con cui contribuire alla creazione di consenso tra la popolazione italiana. La radio rivestì un’importanza fondamentale nel tentativo di diffondere un nuovo tipo di italiano, con una pronuncia rinnovata. È infatti in seno alla spinta propulsiva del nuovo mezzo di comunicazione che maturò l’idea di fornire un vero e proprio manuale di pronuncia valido sia per gli speaker radiofonici sia per i parlanti.
In seguito a un programma radiofonico intitolato La lingua d’Italia, andato in onda tra marzo e settembre 1938 (Raffaelli 2010), Giulio Bertoni e Francesco Ugolini furono incaricati di redigere un Prontuario che chiarisse la posizione del regime in merito al trattamento della variazione geografica nell’italiano parlato. I due studiosi identificavano la pronuncia ideale con la risultante dall’unione di quella fiorentina e quella romana, anche se quest’ultima pareva favorita, come si può immaginare, per ragioni politiche. Inoltre, fornivano una serie di dettagliate prescrizioni da seguire qualora i due sistemi si trovassero in disaccordo (Calamai 2011).
Occorreva innanzitutto rinunciare alla sistematizzazione della pronuncia sulla base della grammatica storica, che aveva costituito fino ad allora il punto di riferimento principale; in questa prospettiva si affermava invece la necessità di prendere a modello l’uso vivo dell’italiano di Firenze e
Roma. In secondo luogo, nel caso più frequente di accordo tra le città, non era necessario operare nessun tipo di scelta ma accettare senza riserve la pronuncia ottenuta dall’unione delle due. Lo stesso doveva avvenire anche quando le altre città toscane non si accordassero con Firenze, che fungeva da modello. Infine, in caso di totale disaccordo, si contemplavano due possibilità: accettare la pronuncia fiorentina colta, considerata in stretto rapporto con quella letteraria, prendendo a riferimento gli attori professionisti, oppure rifarsi a quella della Capitale, in cui la storia stava creando i presupposti per la nascita di una lingua della patria.
Anche se la posizione dei due studiosi sembri orientata all’accettazione di una norma che tiene conto in buona misura di entrambe le città (da qui l’idea di un “asse linguistico Roma-Firenze”), Bertoni e Ugolini erano maggiormente favorevoli all’uso di una pronuncia più conforme a quella di Roma in quanto rappresentante dell’“avvenire” inteso come glorioso futuro della Nazione. Alla luce di ciò è fuor di dubbio che questa città e i tratti linguistici del suo specifico italiano, avessero ormai acquisito un valore simbolico imprescindibile e che il manuale si configurasse più come uno strumento propagandistico che come uno puramente normativo. In effetti i conduttori radiofonici, gli intellettuali e i giornalisti di origine romana furono in grado di imporre le proprie varianti accanto a quelle toscane fino ad allora considerate standard, teorizzando un asse linguistico volto a legittimare l’uso di forme facilmente reperibili nella sede romana e non sentite come innaturali in quello stesso luogo.
Trarre una conclusione coerente e bilanciata degli effetti degli interventi sulla lingua messi in atto dal regime fascista non è un’operazione semplice, soprattutto in un lavoro di estensione così limitata. Si possono individuare tuttavia degli elementi che rendano più chiaro quanto detto finora sulla politica linguistica fascista. È innanzitutto da comprendere se si possa davvero parlare di politica linguistica fascista o se sia forse meglio trattare di una politica linguistica durante il regime (Klein 1986, pp. 143-48).
Infatti, benché caratterizzata da un intento eminentemente autarchico, in linea con l’ideologia, la politica linguistica messa in atto dal fascismo mostra tutte le caratteristiche tipiche di quelle appartenenti ai regimi totalitari in genere. Ciascun totalitarismo si rende promotore di una repressione sistematica nei confronti di qualsiasi pluralismo, in particolare in ambito culturale, e ciò si ripercuote sul piano linguistico. Quello fascista procede alla negazione dei tratti dialettali, forestieri – o esotici – a vantaggio di una norma imposta, unitaria, interna allo Stato e volta all’esaltazione della Nazione, al punto da creare dialettofobia e xenofobia rivolta anche alle lingue di minoranza presenti sul territorio italiano. Tuttavia, tali elementi non persistettero a lungo nella coscienza linguistica dei parlanti, come dimostra il fatto che le lingue di minoranza sono state, con l’avvento della Repubblica, progressivamente reintegrate e tutelate: si prendano ad esempio gli articoli 3 e 6 della Costituzione, che si esprimono sull’eguaglianza fra le lingue (Toso 2011). Per la fonetica e la pronuncia, le prescrizioni del Prontuario di Bertoni e Ugolini sembrano aver goduto di una certa fortuna
CIASCUN TOTALITARISMO SI
RENDE PROMOTORE DI UNA
REPRESSIONE SISTEMATICA
NEI CONFRONTI DI QUALSIASI
PLURALISMO, IN PARTICOLARE
IN AMBITO CULTURALE, E CIÒ
SI RIPERCUOTE SUL PIANO LINGUISTICO
principalmente nell’ambito dei mass media, almeno fino agli anni Settanta (Raffaelli 2010). Altrove non hanno ottenuto consenso e la ragione di tale fallimento è essenzialmente storica e individuabile nella forte ondata di migrazioni interne, soprattutto da Sud a Nord, di cui l’Italia è stata protagonista nel secondo dopoguerra. Gli studiosi sono convinti che, da un lato, le conseguenze economico-sociali del conflitto mondiale abbiano accelerato il processo di trasformazione dell’italiano da lingua seconda a lingua madre dei parlanti, dall’altro che non si possa parlare di un solo italiano – come invece aveva sostenuto e auspicato il regime fascista.
Conseguentemente alla creazione della prima generazione di parlanti nativi di italiano, intorno agli anni Cinquanta del Novecento, si verificò uno spostamento della lingua nazionale entro domini d’uso dapprima dialettali, con conseguenze tutt’altro che irrilevanti. Se nel periodo immediatamente successivo all’Unità lo standard e il dialetto erano in un rapporto di diglossia – cioè, per lo meno tendenzialmente, non entravano in contatto in alcun dominio d’uso – la mutata condizione sociale e l’ingente migrazione causarono l’incontro di questi due “compartimenti stagni” e sorsero nuove varietà dette di “italiano regionale”. Esse da un lato conservano la maggioranza dei tratti regionali tanto osteggiati dal regime fascista, dall’altro contemplano tendenze nuove – di ristandardizzazione – e rivestono un’importanza cruciale in quanto costituiscono la dimostrazione che, quale che ne sia stata l’entità, la politica linguistica mussoliniana non ha intaccato se non marginalmente i sistemi linguistici presenti sulla Penisola.
Desidero ringraziare il professor M. Cerruti dell’Università degli Studi di Torino per il suo supporto, gli utili suggerimenti e le correzioni.
Quando resistere sarebbe stato possibile: Bertolt Brecht e la resistibile ascesa di Arturo Ui
Ho deciso di affrontare un caso in cui la resistenza è tale solo in potenza, evocata sottilmente e direi quasi con rimpianto. La resistibile ascesa di Arturo Ui (Der aufhaltsame Aufstieg des Arturo Ui) si apre infatti con questo aggettivo, “resistibile”, che suonerà senz’altro strano al parlante italiano. Se, infatti, chiunque parli italiano utilizza normalmente nei più vari e disparati contesti l’aggettivo “irresistibile” per indicare qualcuno o qualcosa a cui in nessun modo si può o potrebbe opporre resistenza (di qualsiasi tipo), al contrario l’aggettivo “resistibile”, che pure è la base grammaticale per la formazione del più noto aggettivo di senso opposto, non ha avuto la stessa fortuna nell’uso comune e sicuramente suonerà più stridente all’orecchio. Né il quadro appare a prima vista parecchio diverso in altre lingue europee: il titolo dell’opera è tradotto variamente con The Resistible Rise of Arturo Ui, La résistible ascension d’Arturo Ui e La resistible ascensión de Arturo Ui
Curiosamente, in tutte queste lingue il termine che traduce l’originale aufhaltsame risulta in qualche modo poco familiare (nella mia esperienza personale non ricordo di averlo mai incontrato al di fuori della traduzione dell’opera di Brecht, generalmente – nel momento in cui si deve esprimere un concetto simile – mi capita addirittura di incontrare la perifrasi “non irresistibile”), e il suo significato paradossalmente si costruisce in opposizione al termine che da esso deriva (“in” + “resistibile”, dove il prefisso ha valore privativo).
Mi spingerò forse troppo oltre (ma mi permetto il lusso di azzardare) nel supporre che il motivo sia da ricercare nella rarità che qualcosa che non sia irresistibile non incontri la resistenza attesa. Bisogna ricordare che in quest’opera l’ascesa resistibile a cui si riferisce Brecht non è altro che la parodia dell’ascesa al potere del movimento nazionalsocialista di Adolf Hitler, a cui corrisponde nel testo il personaggio di Arturo Ui, appunto. Non solo: in tutti i personaggi, i luoghi e i fatti del dramma si possono riconoscere, abbastanza facilmente, le figure chiave, le tappe e i luoghi che hanno segnato l’avvento al potere dei nazisti.
Il tono dell’opera rende palese lo sconforto dell’autore davanti a una situazione che si sarebbe potuta evitare, all’ascesa apparentemente inarrestabile di un movimento a cui si sarebbe potuto – e, anzi, dovuto – resistere.
Quando Brecht scrive quest’opera (tra il 1940 e il 1941) si trova in esilio forzato da circa sette anni (i suoi libri erano finiti nel mirino della censura nazista, e nel maggio del 1933 erano stati messi al rogo); lo scrittore risiedeva a Helsinki, in Finlandia, in attesa del visto per gli Stati Uniti.
La resistibile ascesa di Arturo Ui è anche l’ultima opera nata dalla collaborazione di Brecht con Margarete Steffin, morta di tubercolosi il 4 giugno del 1941; come se non bastasse, il testo che leggiamo manca dell’ultima revisione dell’autore, che da prassi Brecht conduceva a ridosso della messa in scena dell’opera, in questo caso avvenuta postuma, nel 1958.
Brecht si segnala, soprattutto a partire dagli anni dell’esilio, per l’impronta marcatamente politica che assunse la sua produzione letteraria. Saggi, lettere, drammi: l’autore è letteralmente ossessionato dall’ascesa del nazismo in Germania e in Europa, e questa commedia rappresenta l’ennesimo tentativo di investigare, attraverso il filtro della rappresentazione teatrale, le dinamiche dell’ascesa al potere di Hitler e della creazione del consenso nel tentativo ben evidente, qui come in molti altri luoghi della sua produzione, di smantellare il mito del führer per mostrare l’uomo e il politico che si celano dietro le vesti di quella che, nella percezione delle masse, andava acquisendo i tratti di una sorta di divinità laica.
Ma qual è l’Adolf Hitler che Brecht avrebbe voluto mostrare con i connotati di Arturo Ui?
Il quadro delineato è quello di un gangster – l’opera è ambientata negli Stati Uniti e alle squadre delle SA e delle SS corrisponde una banda guidata da Emanuele Giri, vale a dire Hermann Göring, Ernesto Roma, ossia Ernst Röhm, e Giuseppe Givola ovvero Joseph Goebbels. Ovviamente, la scelta di ambientare l’ascesa dei nazisti negli Stati Uniti e di dare nomi italiani ai maggiori gerarchi non è affatto neutra e testimonia bene l’idea che Brecht doveva essersi fatto della posizione degli italiani nel conflitto.
La figura di Arturo Ui è quella dei grandi despoti del passato, il cui modello principale è il Riccardo III di Shakespeare, come dichiarato dal Buttafuori nel Prologo:
Ed ora la nostra attenzione più grande! Il gangster di tutti i gangster! Il notorio Arturo Ui! Il castigo del cielo per tutti i nostri peccati e delitti, violenze, debolezze e stupidaggini!
Ui si presenta davanti al sipario ed esce camminando lungo la ribalta.
Riccardo Terzo: a chi non viene in mente?
Dai tempi della Rosa Rossa e Bianca non si sono più visti così grandi sanguinosi fulminei massacri. Così stando le cose, inclito pubblico, la direzione si è proposta di non badare a spese straordinarie per inscenare tutto in stile. Pure, qui è realistica ogni cosa: quanto vedrete stasera non è nuovo, non è stato inventato o escogitato censurato e manipolato per voi: lo sa, quel che mostriamo, l’intero continente: la commedia dei gangster, nota a tutta la gente!
Ma cosa vuol dire accostare Hitler a Riccardo III? Brecht intende richiamare alla memoria del lettore non il personaggio storico, ma il ritratto che ne fa Shakespeare nell’omonimo dramma:
Ma io, che non sono formato per i sollazzi d’amore, né tagliato per contemplarmi compiaciuto in uno specchio; io, che son rozzamente foggiato e manco di fascino seducente, per pavoneggiarmi dinanzi a una sculettante ninfa; io che una perfida natura ha defraudato d’ogni armonia di tratti e d’ogni lineamento aggraziato, mandandomi anzitempo, deforme e incompleto, in questo mondo di vivi, solo per metà sbozzato e talmente claudicante e goffo che i cani mi abbaiano quando gli passo accanto arrancando; ebbene, io in questa zufolante stagione di pace non conosco altro piacere, per ingannare il tempo, che sbirciare la mia ombra al sole e intonar variazioni sulla mia deformità. Visto, perciò, che non posso fare il galante, in questi tempi dalla loquela ornata, ho deciso di fare il furfante e di odiare gli oziosi piaceri del giorno d’oggi. Ho tramato complotti, avviato insidiosi tranelli fondati su insensate profezie, maldicenze e sogni, per suscitare odio mortale fra mio fratello Clarence e il re; e se re Edoardo è retto e giusto quanto io sono obliquo, perfido e traditore, quest’oggi dovrebbe vedere Clarence messo in gattabuia per una predizione che dice che G sarà l’assassino degli eredi di Edoardo. Tuffatevi, pensieri, in fondo al mio cuore: ecco che viene Clarence.
Und nun zur größten unsrer Scehenswürdigkeiten! Der Gangster aller Gangster! Der berüchtigte Arturo Ui! Mit dem uns der Himmel züchtigte Für alle unsre Sünden und Verbrechen Gewalttaten, Dummheiten und Schwächen!
Vor den Vorhang tritt Ui und geht die Rampe entlang ab.
Wem fällt da nicht Richard der Dritte ein?
Seit den Zeiten der roten un weißen Rose Sah man nicht mehr so große Fulminante und blutige Schlächterein!
Verehrtes Publikum, angesichts davon War es die Absicht der Direktion Weder Kosten zu scheunen noch Sondergebühren
Und alles im großen Stile aufzuführen.
Jedoch ist alles streng wirklichkeitsgetreu
Denn was Sie heut abend sehen, ist nicht neu Nicht erfunden und ausgedacht
Zensuriert und für Sie zurechtgemacht:
Was wir hier zeigen, weiß der ganze Kontinent: Es ist das Gangsterstück, das jeder kennt!
But I, that am not shaped for sportive tricks, Nor made to court an amorous looking-glass; I, that am rudely stamped, and want love’s majesty To strut before a wanton ambling nymph, I, that am curtailed of this fair proportion, Cheated of feature by dissembling Nature, Deformed, unfinished, sent before my time Into this breathing world, scarce half made up And that so lamely and unfashionable That dogs bark at me as I halt by them; Why, I, in this weak piping time of peace, Have no delight to pass away the time, Unless to spy my shadow in the sun And descant on mine own deformity: And therefore, since I cannot prove a lover, To entertain these fair well-spoken days, I am determined to prove a villain And hate the idle pleasures of these days. Plots have I laid, inductions dangerous, By drunken prophecies, libels and dreams, To set my brother Clarence and the king In deadly hate the one against the other: And if King Edward be as true and just As I am subtle, false and treacherous, This day should Clarence closely be mew’d up, About a prophecy, which says that ‘G’ Of Edward’s heirs the murderer shall be. Dive, thoughts, down to my soul: here Clarence comes. (I, 1)
Questo ritratto di Riccardo III è, in qualche modo, il ritratto che Brecht vuole dare di Arturo Ui, e quindi di Hitler. Con pochi tratti, con un semplice accenno, Brecht delinea Ui/Hitler come un macchinatore deforme e sgraziato, un furfante a cui i cani abbaiano al passaggio; e non solo: Ui è Macbeth a cui appaiono i fantasmi delle sue vittime, Ui è Antonio che pronuncia l’orazione funebre davanti alla salma di Cesare. L’implicazione di questi illustri accostamenti è molto sottile, ma chiara: Ui/Hitler è destinato (è già accaduto, nel momento in cui Brecht scrive il suo dramma) a una rapida ascesa ma, al contempo, a un breve regno e ad una altrettanto rapida caduta.
Non darei a Brecht il merito di aver predetto la caduta di Hitler, ma piuttosto di averla auspicata:
EPILOGO
E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo!
I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto! il grembo da cui nacque è ancor fecondo.
EPILOG
Ihr aber lernet, wie man sieht statt stiert
Und handelt, statt zu reden noch und noch. So was hätt einmal fast die Welt regiert!
Die Völker wurden seiner Herr, jedoch Daß keiner uns zu früh da triumphiert –Der Schoß ist fruchtbar noch, aus dem das kroch.
È certo che in quest’opera spicca un elemento, anzi la mancanza di un elemento: le masse. Dove sono le masse nell’ascesa al potere dei nazisti? Nell’Arturo Ui la banda di gangster/ il movimento nazista sembra imporsi grazie a una serie di giochi di potere, inganni, omicidi che avvengono dietro le quinte, davanti a un pubblico che non è praticamente mai rappresentato come parte attiva negli avvenimenti.
La voce del popolo non si alza quasi mai nel corso del dramma. Una scelta dettata dall’economia della rappresentazione teatrale?
Possibile, ma credo che un autore del calibro di Brecht non avrebbe avuto difficoltà a inserire una figura in grado di rappresentare un’ipotetica vox populi: una sorta di coro, una voce fuori campo, un personaggio di estrazione popolare che parlasse per frasi fatte riproponendo i motti più diffusi tra i sostenitori del partito nazionalsocialista; frasi da bar che
IL TONO DELL’OPERA RENDE
PALESE LO SCONFORTO
DELL’AUTORE DAVANTI
A UNA SITUAZIONE CHE
SI SAREBBE POTUTA
EVITARE, ALL’ASCESA
APPARENTEMENTE
INARRESTABILE DI UN
MOVIMENTO A CUI SI
SAREBBE POTUTO – E, ANZI, DOVUTO – RESISTERE
chiunque poteva e doveva aver sentito nella prima fase di creazione del consenso di Hitler e dei suoi.
Sono solo alcune delle infinite possibilità a disposizione del drammaturgo al momento della stesura: so quanto sia rischioso fare proposte interpretative di questo genere, specialmente quando si tratta di analizzare un’opera che si offre al lettore incompleta, tra l’altro nell’impossibilità di avere un riscontro diretto da parte dell’autore.
Mi sembra comunque legittimo avanzare un’ipotesi di lettura per questa assenza, nella piena consapevolezza che, in mancanza di pezze d’appoggio di sorta, ogni lettura può essere altrettanto suggestiva quanto illegittima: l’ipotesi è che la mancata rappresentazione delle masse sia un espediente impiegato da Brecht per rappresentare, in absentia, la passività della popolazione di fronte all’ascesa dei gangster/nazisti, la totale assenza di una resistenza di sorta in opposizione a quella inarrestabile ascesa che, pure, era resistibile; a cui ci si sarebbe potuti opporre.
Al netto dei catastrofismi di sorta, vale ancora la pena di riflettere su testi del genere, sulla testimonianza preziosa di voci autorevoli che, avendo vissuto in prima persona la tragica frustrazione di non potere nulla, da soli, per resistere a una catastrofe storica e umana tanto terribile quanto resistibile, ci ricordano come una resistenza, in potenza, esista eccome. Ma sta a noi spettatori tradurla in atto. In questo momento particolare, l’appello che chiude l’Epilogo dell’opera assume un’importanza fondamentale:
I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancor fecondo
Nella speranza che la letteratura possa ancora dimostrarsi per quello che è ed è sempre stata, malgrado sembri essersene persa la coscienza da tempo, nostro malgrado: uno strumento prezioso di indagine sociale e culturale, un medium privilegiato nella tradizione della memoria alle generazioni future con l’auspicio che questa sia al tempo stesso una preziosa testimonianza e uno spunto di riflessione futura, piuttosto che un’operetta da antologie destinata agli appassionati e agli addetti ai lavori.
Una memoria divisa: la Resistenza fra cinema e televisione
mmaginate di svegliarvi ricordando poco o nulla del vostro personale passato: non avete idea di chi siete e di cosa avete fatto, ma solo forti incertezze su voi stessi, le persone che vi circondano e il vostro futuro. Insomma: avete un’identità molto debole. I dubbi sul vostro passato diventano dubbi su chi siete nel presente e cosa farete nel futuro. E così, in preda all’incertezza o all’ansia, vi gettate fra le braccia della prima persona che vi offre rassicurazioni, seguendo ogni sua indicazione, senza chiedervi se sia corretta o meno. Trasferite questa ipotesi da un individuo a un’intera collettività e avrete l’importanza cruciale della memoria storica. Un popolo e una società con una memoria debole del proprio passato sono più incerti e divisi nel presente, non sanno che direzione prendere nel futuro e perciò, colmi di ansia e di rabbia, rischiano di cadere preda di chiunque sia pronto a soffiare sul fuoco delle paure per guadagnare facili consensi.
In Italia la costruzione di una memoria condivisa è un problema irrisolto da decenni, in particolare sui valori e i momenti fondativi della nostra democrazia: l’antifascismo e la Resistenza. All’interno di questo quadro, un ruolo di primo piano lo hanno svolto i mass media. L’immaginario collettivo, infatti, si forma grazie ai canali di comunicazione di massa, che attingono alle conoscenze sviluppate in ambito universitario tra i ricercatori di professione e le diffondono a un pubblico più vasto. L’iconografia della dittatura, dell’antifascismo e della Resistenza si sono insomma plasmati col cinema e la televisione, che generano senso e propongono chiavi di lettura. In che modo si è sviluppato questo fenomeno? Con tutte le cautele che comportano le classificazioni, si possono individuare alcune fasi. La prima inizia subito, nel 1945. Il film capostipite, che fa da modello per molta della produzione successiva,
è Roma città aperta. La Resistenza viene presentata come reazione quasi spontanea e interclassista di una comunità cementata e rafforzata dai valori del cattolicesimo: il personaggio attorno al quale ruotano le vicende è infatti don Pietro (Aldo Fabrizi); è inoltre presso la parrocchia che i ragazzi si ritrovano, ed è proprio da lì che partono le azioni più significative del film. Il nemico sono i tedeschi, mentre i fascisti si vedono poco; anzi, la scelta del fascismo appare più di natura morale che ideologica, più dovuta alla stupidità che a una precisa opzione politica.
Dopo questa rappresentazione sostanzialmente edificante e consolatoria, che rimuove il tema della guerra fra italiani fascisti e antifascisti, la Resistenza rapidamente scompare dagli schermi (tranne poche eccezioni come Achtung! Banditi! di Lizzani e Gli sbandati di Maselli). Questo sostanziale oblio rifletteva il clima di scontro politico della Guerra Fredda, che certo non creava il contesto favorevole a valorizzare il ruolo dei comunisti nella lotta per la Liberazione né a insistere sulle contiguità di molti italiani col fascismo e la Repubblica Sociale.
Una svolta si potrebbe registrare intorno al 1961: l’Italia celebra il suo centenario nell’euforia del Miracolo economico. La data diventa così l’occasione per stendere dei bilanci e il cinema non si sottrae, spaziando dal Risorgimento (Il Gattopardo) alla Prima guerra mondiale (La Grande Guerra) fino ad arrivare alla Resistenza. Prendono così forma alcuni orientamenti destinati a durare per lungo tempo. Da una parte c’è Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy, che insiste sul topos consolidato della Resistenza come reazione collettiva di un popolo contro il nemico tedesco. D’altro canto c’è Un giorno da leoni dello stesso Loy che invece mostra la scelta della lotta antifascista come una maturazione lenta e faticosa. In mezzo si colloca Il Generale Della Rovere di Rossellini, con un bravissimo De Sica a interpretare l’evoluzione del protagonista, che da piccolo truffatore diventa un coraggioso patriota. Premiato dal pubblico e dalla critica, il film di Rossellini, tuttavia, non contribuisce a un’approfondita riflessione sull’antifascismo e la Resistenza perché, a ben vedere, presenta la scelta della lotta al nazifascismo in una prospettiva morale, in cui tutti i nodi problematici e le contraddizioni dell’epoca vengono riassorbiti in una rappresentazione autocelebrativa e sostanzialmente autoassolutoria. Intanto, il meno noto La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini mostra i fascisti – e non i tedeschi – guidati dal federale Aretusi come gli unici responsabili di una strage compiuta sotto la finestra del protagonista, il farmacista Barillari, il quale, tornato anni dopo e salutato l’ormai vecchio Aretusi, alla moglie che gli chiede chi sia, risponde: «Era una specie di gerarca fascista… un poveraccio… non credo che abbia fatto niente di male…». Ecco le due novità: la corresponsabilità dei fascisti è mostrata senza reticenze, ribaltando la rappresentazione autoassolutoria di un popolo compatto che lotta per la Resistenza; in più, si pone l’accento su quanto il benessere del Miracolo economico favorisca la rimozione della violenza fascista. Diventa allora emblematico l’episodio Scenda l’oblio de I mostri di Dino Risi. Una coppia
guarda al cinema un film dove i tedeschi stanno per fucilare su un muro un gruppo di partigiani: la tensione sale, sottolineata dalla musica, il soldato tedesco dà l’ordine di sparare, i partigiani muoiono, la drammaticità raggiunge l’acme col pianto disperato di un bambino, quando l’uomo si avvicina alla moglie e commenta: «Ecco, vedi? Il muretto della nostra villa lo farei proprio come quello, semplice, solo con le tegoline sopra, eh?» «Sì… sì», risponde annoiata la donna. E così, in poco più di un minuto, viene raccontata la scomparsa di Resistenza e antifascismo dall’orizzonte culturale degli italiani, tutti dediti a godere dei benefici del crescente (e inatteso) benessere. Il ripensamento critico della storia recente sembra così schiacciato tra le celebrazioni retoriche, che mobilitano solo una minoranza già convinta, e l’oblio che invece coinvolge la maggioranza della popolazione. La memoria del passato, insomma, non attecchisce. E la televisione? Negli anni ‘60 è ormai entrata a pieno titolo nell’immaginario degli italiani, quindi potrebbe contribuire positivamente, ma lo fa poco. In occasione del ventennale del 1965 vengono promosse due raccolte di interviste di Cesare Bermani e di Liliana Cavani. Però poi la Rai non manda in onda programmi di approfondimento: le testimonianze dei partigiani insistono sugli aspetti, tipicamente televisivi, di natura connotativa, mentre il fascismo viene appena menzionato e lasciato sullo sfondo, senza alcun tentativo di spiegarne le origini e i caratteri.
Una memoria così debole corre il rischio di diventare anche una memoria divisa. E così accade negli anni ’70. Il colpo di Stato in Grecia nel 1967, la strategia della tensione nel 1969 e la denuncia del Golpe Borghese nel 1970 riaccendono il timore di un ritorno al fascismo. Molti film rileggono perciò il passato come chiave di interpretazione del presente. Ma lo fanno in modi profondamente diversi. Opere come i poco noti Corbari (sull’omonima banda) e La villeggiatura (sull’esperienza del confino), fino alla grande saga dal respiro hollywoodiano di Novecento di Bertolucci, propongono, con accenti diversi, l’idea della Resistenza tradita: una svolta politica non portata a compimento, perché aveva condotto a una democrazia formale guidata dallo stesso blocco di potere e animata dalle stesse ingiustizie. Intanto Damiano Damiani con Girolimoni, il mostro di Roma racconta la storia di un innocente condannato per rassicurare l’opinione pubblica, perciò evoca indirettamente le disavventure di Valpreda per la strage di Piazza Fontana e ammonisce sui rischi per una società che, in nome della sicurezza, si affida all’“uomo forte”. A rincarare la dose giunge Vancini che, col Delitto Matteotti, sottolinea didascalicamente quanto sia fragile la democrazia. In entrambi i casi viene evocata l’idea di una Resistenza incompiuta, che ha avviato un cambiamento democratico da completare sull’onda della mobilitazione popolare e col coinvolgimento del PCI al governo. Per di più, tra queste due immagini opposte se ne colloca una terza, che si riscontra soprattutto nei programmi della Rai, dove, a parte la lodevole eccezione di Nascita di una dittatura di Zavoli, il fascismo continua ad essere un tema “scottante”, da evocare senza sollecitare
UN POPOLO E UNA SOCIETÀ
CON UNA MEMORIA DEBOLE
DEL PROPRIO PASSATO
SONO PIÙ INCERTI E
DIVISI NEL PRESENTE
approfondite riflessioni. E così, le ponderose ricerche che stanno gettando nuova luce sul regime fascista restano confinate nell’ambito accademico, mentre l’opinione pubblica continua a dividersi tra immagini stereotipate oppure a rifugiarsi nel sostanziale oblio.
L’ethos individualistico che si diffonde negli anni ’80 non favorisce certo un cambiamento di paradigma. Anzi. Lo sottolineano i fratelli Taviani nel finale di La notte di San Lorenzo quando, dopo la strage e all’annuncio dell’arrivo degli alleati, tutti si affrettano a casa, tutti tranne uno, Galvano, che – racconta la voce fuori campo – «per tre ore ancora rimase nel paese, solo e con molti pensieri». Ecco l’ammonimento: la Resistenza e l’antifascismo non sono diventati miti fondativi della Repubblica perché su quell’esperienza non ci si è soffermati a riflettere, rimuovendola frettolosamente oppure imbalsamandola in celebrazioni retoriche.
Sono così poste le basi perché dall’oblio e la memoria divisa si passi alla memoria controversa e tormentata. Accade nel 1994: nel vuoto creato dal crollo dei partiti di massa con Tangentopoli, Berlusconi riesce a vincere le elezioni con un’alleanza che include anche gli ex neofascisti di Alleanza Nazionale. La Rai allora manda in onda Combat film, le pellicole girate dall’esercito americano durante la guerra in Italia, che mostrano la morte di alcuni giovani aderenti alla Repubblica Sociale. Quelle immagini, riprese da una sola delle due parti in campo, senza essere poste in relazione con altri filmati e prive di un commento critico, finiscono con l’offrire una rappresentazione addirittura capovolta, in cui i fascisti diventavano le vittime. La polemica esplode con violenza, animando accesi dibattiti che però si svolgono nelle aule universitarie e sui giornali, senza raggiungere il grande pubblico. Ormai la Resistenza e l’antifascismo sono definitivamente diventati temi “controversi”, che dividono e perciò non possono essere più proposti all’opinione pubblica, lasciata così priva di strumenti per sviluppare una propria riflessione autonoma.
Dalle montagne alle piazze di tutto il mondo, dal cinema fino a Kobanê:
quanta strada ha fatto Bella ciao!
Una mattina mi sono alzato o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao una mattina mi sono alzato e ho trovato l’invasor.
O partigiano, portami via o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao o partigiano, portami via che mi sento di morir.
E se io muoio da partigiano o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao e se io muoio da partigiano tu mi devi seppellir.
Seppellire lassù in montagna o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao seppellire lassù in montagna sotto l’ombra di un bel fior. E le genti che passeranno o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao e le genti che passeranno mi diranno: o che bel fior! È questo il fiore del partigiano o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao è questo il fiore del partigiano morto per la libertà.
La Resistenza è forse la pagina più densa e
significativa
del rapporto tra la canzone italiana e la storia
La Resistenza è forse la pagina più densa e significativa del rapporto tra la canzone italiana e la storia.
Con queste parole Stefano Pivato ha sottolineato come i canti della Resistenza avessero il proposito di promuovere ideali e di suscitare richiami emotivi, propri di una determinata parte politica, per esaltare quelle idee e far rivivere, nelle menti dei militanti, valori unificanti e di appartenenza. Nel caso dei socialcomunisti, ad esempio, la fase resistenziale doveva essere, almeno sul piano teorico, la prima tappa di un processo che avrebbe dato come esito finale la rivoluzione del sistema, secondo il programma di democrazia progressiva del segretario Palmiro Togliatti.
Per i militanti di Giustizia e Libertà, di matrice liberale, questa fase era invece una spontanea e unanime azione popolare contro i “nemici della libertà”. I temi principali delle loro canzoni erano diversi. È il caso di Dalle belle città (canzone originale della Resistenza, meglio nota come Siamo i ribelli della montagna) per i socialcomunisti, dove sono espliciti i richiami alla lotta al fascismo e agli ideali che dovranno fondare la futura società socialista:
Libertà è l’idea che ci avvicina, / Rosso sangue il color della bandiera / […] quella fede che ci accompagna / sarà la legge dell’avvenir.
Relativamente alla visione dei giellini, la canzone più rappresentativa è sicuramente La Badoglieide, che esalta il moto
unanime degli italiani contro Casa Savoia e il Generale Pietro Badoglio, accusandolo di trasformismo:
Ti ricordi la fuga ingloriosa / con il re, verso terre sicure / siete proprio due sporche figure / meritate la fucilazion. […] Noi crepiamo sui monti d’Italia […].
Queste due visioni sono l’eredità lasciata dai canti partigiani alla cultura italiana e non saranno messe in discussione negli anni successivi alla Liberazione e la separazione emotiva e ideologica tra queste due concezioni verrà mantenuta. Ma davanti al ritorno sulla scena politica di schieramenti vicini alla monarchia e all’ideologia fascista (Partito Nazionale Monarchico e Movimento Sociale Italiano), i partiti al governo avvertirono il bisogno di unificare le varie anime della Resistenza. La canzone che meglio incarnava il nuovo corso era, sicuramente, Bella ciao, il cui testo, slegato dalle appartenenze politiche, era valido per tutti gli schieramenti del tempo. La storia della sua genesi non è lineare e, al contrario di quello che si potrebbe pensare, non fu troppo diffusa sulle montagne tra i partigiani della Seconda guerra mondiale. Sembra appartenesse alla Brigata Maiella e ad alcuni gruppi partigiani emiliani o che, addirittura, non facesse parte del repertorio resistenziale. Poi, nel 1947, in occasione del Festival Mondiale della Gioventù Democratica a Praga, alcuni giovani partigiani la presentarono nella rassegna canora Canzoni mondiali per la gioventù e per la pace, inventando il tipico battimani d’accompagnamento, e il canto ebbe un tale successo da ottenere, in breve tempo, una
diffusione addirittura globale, diventando un canto di libertà. Ma se negli anni immediatamente successivi alla guerra Bella ciao non veniva riconosciuta come una canzone-simbolo della Resistenza e dei partigiani, negli anni ’90 ebbe la sua consacrazione, grazie anche a un concerto “di protesta” contro il governo del momento, che univa il rock ai valori resistenziali. Si tratta di Materiale resistente (1995), in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, nel quale tante band, vecchie e nuove (tra le quali spiccano gli Skiantos e i Modena City Ramblers), fornivano il proprio contributo in difesa della memoria del 25 aprile e dei valori della Costituzione. Infatti, con l’avvento di Silvio Berlusconi al potere, insieme a due forze politiche considerate “antisistema” (Lega Nord e Alleanza Nazionale), il canto risuona nelle piazze dell’opposizione. In polemica contro il governo Berlusconi è anche il conduttore Michele Santoro che, contro il cosiddetto “editto bulgaro”, una sorta di censura che aveva colpito alcuni giornalisti contrari alle idee del cavaliere, inizia la sua trasmissione Sciuscià cantando proprio Bella ciao. È doveroso un accenno anche a un film italiano, mai distribuito e trasmesso pubblicamente (fatta eccezione per la presentazione al Festival di Cannes nel 2002), intitolato proprio Bella ciao, di Marco Giusti e Roberto Torelli, sulle violente vicende del G8 di Genova del luglio 2001, per le quali il governo fu fortemente criticato in patria e all’estero. La canzone inizia ad avere valore universale: diventa la colonna sonora del movimento arcobaleno contro la guerra in Kosovo e contro un governo, stavolta di sinistra, incapace di contrapporsi alle decisioni della NATO; è la voce contro la
globalizzazione e per la conquista di diritti civili. Non a caso, la comunità LGBTQ+ ne fa un canto di battaglia con cui conclude molti Gay Pride in tutta Italia: accade a Milano, dove è il sindaco Giuseppe Sala, in testa al corteo, a guidare il coro; a Napoli, dove è Antonio Amoretti, partigiano delle storiche quattro giornate della città partenopea, a parlare dal palco contro ogni discriminazione, razziale o di genere; a Roma con la partigiana Tina Costa che unisce i valori di ieri alle nuove istanze di un’Italia per la quale vale la pena “resistere”. Bella ciao era presente anche ai funerali di don Andrea Gallo (2013): durante la funzione, Angelo Bagnasco, l’Arcivescovo di Genova, dovette interrompere la sua omelia. Lo stesso don Gallo peraltro aveva cantato insieme a Gino Paoli, tre anni prima, interpretando proprio Bella ciao.
Sempre con questa canzone, particolarmente toccante è stato poi l’omaggio di Christophe Alévêque, un comico francese, ai funerali di Tignou (pseudonimo di Bernard Verlhac), vignettista di «Charlie Hebdo» morto nell’attentato di matrice terroristica alla sede del giornale satirico nel gennaio 2015. In tempi recenti il canto è stato utilizzato in difesa dei più umili: ad agosto 2018 le note di Bella ciao risuonano a Foggia dove, dopo due terribili incidenti stradali che causano un totale di sedici morti, i braccianti agricoli stranieri, per lo più africani, protestano di fronte alla prefettura per combattere il caporalato e richiedere condizioni più eque di vita e di lavoro. A suonare è la violinista serba Ljubica Damcevic che esegue in piazza una versione strumentale del canto, in segno di solidarietà con i manifestanti. C’è il caso di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, in Calabria, conosciuto in tutto il mondo per il modello di accoglienza dei richiedenti asilo. In un suo discorso a Milano, invitato dal sindaco Sala, Lucano si commuove davanti ai presenti che intonano Bella ciao. Di recente, inoltre, Riace è stata lo sfondo di un’altra interpretazione dello stesso brano realizzata dai Marlene Kuntz e Skin.
All’estero il canto risuona nelle piazze e nelle strade dove manifesta il movimento internazionale Occupy: si canta a Wall Street, a New York, nel 2011, nella protesta di Zuccotti Park, contro gli abusi del capitalismo finanziario. Sempre negli Stati Uniti troviamo poi una traduzione di Tom Waits presente nell’album del chitarrista Marc Ribot, intitolato Songs of Resistance 1942-2018, scritta in occasione di una manifestazione di sostegno ai migranti, in opposizione alla politica del Presidente Donald Trump.
Nel maggio 2013 si canta a Gezi Park (Istanbul). Un sitin contro la costruzione di un centro commerciale nel parco viene represso violentemente dalla polizia e fa sì che la pro-
testa si allarghi a tutto il paese contro il governo di Erdoğan. Bella ciao tornerà protagonista sempre a Istanbul, in piazza Taksim, il primo maggio 2018, ancora una volta contro il presidente e contro un sistema che contrasta la laicità dello Stato, un governo che appare sempre più distante dal favore dei cittadini.
Si canta a Hong Kong, ad Admiralty, il cuore finanziario della città, in occasione della protesta Umbrella Revolution (per l’utilizzo di ombrelli da parte dei manifestanti), nell’ottobre del 2014, per opporsi all’ingerenza cinese nelle elezioni locali. È padre Franco Mella, un sacerdote italiano residente da più di quarant’anni nella penisola cantonese, a incitare i manifestanti al canto con un megafono.
Un altro momento cruciale è la campagna elettorale di Alexis Tsipras, il leader del movimento SY.RIZ.A., partito politico greco di ispirazione marxista. Nella Grecia travagliata dalla crisi economica e sociale, dovuta all’introduzione dell’euro in un’economia non al passo con gli standard europei, Tsipras porta un messaggio di speranza, pur nella consapevolezza delle difficoltà. Il canto unanime è ancora Bella ciao. La versione italiana del gruppo rock Modena City Ramblers risuona prima in sostegno al no al referendum che avrebbe costretto la Grecia a patire il controllo della sua economia da parte dell’Europa, poi a piazza Syntagma, la sera della vittoria elettorale, nel settembre 2015, con la folla ad accompagnare le speranze di un paese intero.
A marzo 2019, ai comizi delle manifestazioni mondiali per il clima, Friday for future, guidati dalla giovanissima attivista Greta Thunberg, le note di Bella ciao accompagnano il testo di Do it now, scritto a sostegno del movimento, ed entusiasmano le nuove generazioni.
La diffusione capillare della canzone all’estero è dovuta anche al recente successo della serie tv spagnola La casa de papel, in cui una banda compie una rapina in grande stile, guidata dall’iconico personaggio del Professore, che si ispira agli ideali della Resistenza e del riscatto. La canzone assume un ruolo centrale per il suo significato di lotta all’oppressore, riconosciuto nelle banche internazionali, identificate come le vere artefici delle diseguaglianze sociali. Nel plot, attraverso la voce fuoricampo di Tokyo, la protagonista femminile, con in sottofondo Bella ciao, viene raccontato come si possa educare alla lotta contro i mali della società partendo dalla Resistenza al fascismo:
La vita del Professore girava attorno a un’unica idea: la Resistenza. Suo nonno, che aveva fatto la Resistenza coi partigiani per sconfiggere i fascisti in Italia, gli aveva insegnato quella canzone… e poi lui… l’aveva insegnata a noi…
Brigata Maiella
Complice il successo della serie nell’estate del 2018, si moltiplicano le versioni remix: fra le più gettonate si possono menzionare quella dei Gunz for Hire, quella di Steve Aoki e i Marnik, che ha creato diverse polemiche in Italia, e quella brasiliana Só quer vrau che parla invece di amore e favelas.
Nel corso degli ultimi mondiali di calcio in Russia, alcune tifoserie hanno utilizzato il canto, sfruttando l’internazionalità del “ciao”, per salutare ironicamente un avversario appena eliminato. Il coro dei brasiliani dopo l’eliminazione dell’Argentina da parte della Francia è diventato un tormentone sugli spalti della Kazan Arena, a Mosca e in tutta Parigi:
Oh Di Maria… Oh Mascherano…
Oh Messi Ciao! Messi Ciao!
Messi Ciao! Ciao! Ciao!
Tutto questo dimostra come non ci sia canzone al mondo capace di scatenare entusiasmi di piazza, cori ed euforia come Bella ciao: le note e le parole sprizzano un’energia che non ha pari nella musica popolare. Bella ciao ha fatto veramente tanta strada
Per gli taliani la canzone incarna soprattutto la Resistenza al nazifascismo, ma il suo spirito ha accompagnato le lotte di molti per giungere sino ai nostri giorni senza mai smettere di esaltare chi la sceglie come colonna sonora dei suoi ideali. La sua diffusione apolitica non ne ha scalfito il fascino originale.
Bella ciao è tornata infatti a “combattere” con le armi, sulle montagne, casa per casa. Nel settembre del 2014 il sedicente Stato Islamico ha iniziato l’invasione dei territori del Kurdistan, in Mesopotamia, attaccando i villaggi nella parte Nord-Ovest della Siria. Violenze inaudite si sono consumate ai danni dei civili che tentavano la fuga, nel disperato tentativo di salvarsi. Occorre precisare che il Kurdistan è una nazione ma non uno Stato indipendente ed è diviso tra i confini di vari stati in Medio Oriente (Turchia, Siria, Iraq, Iran e Armenia), collocandosi quindi in una zona strategica per chi, come l’ISIS, vuole espandere il proprio dominio.
Dopo la perdita di molti villaggi e avamposti, la resistenza curda si è concentrata nella città di Kobanê, all’estremo Nord della Siria, ai confini con la Turchia. Contro l’ISIS si è schierato un esercito composto dai guerriglieri del YPG (unità di protezione popolare curda, proveniente dalla Siria), i Peshmerga e il PKK (provenienti dall’Iraq) e, sfidando chi vuole togliere alle donne ogni diritto, l’YPJ, composto da guerrigliere, che difendono il loro diritto di esistere, come curde e come donne. L’assedio di
Kobanê durerà da settembre 2014 a gennaio 2015: i ribelli, con il supporto aereo statunitense, costringeranno lo Stato Islamico alla ritirata, dopo lunghe e durissime battaglie senza quartiere. A Kobanê è presente una grandissima rappresentanza di giornalisti provenienti da tutto il mondo, per seguire il conflitto. Nei momenti di tregua e dopo la vittoria ottenuta, risuona forte, ancora una volta, nell’incredulità generale, il canto di Bella ciao. Sono proprio le ragazze dell’YPJ che, sorridenti dopo la battaglia, ne fanno il loro canto di libertà, seguite dai compagni di lotta. È un’immagine forte e commovente che fa tornare alla memoria altre battaglie: le montagne non sono gli Appennini italiani ma quelle aspre del Kurdistan, la bandiera del nemico non ha una croce uncinata ma è nera come la notte buia dell’umanità. È suggestiva la testimonianza di Hassan, un ragazzo curdo che in un’intervista alla giornalista italiana Antonella De Biase ha spiegato, meglio di chiunque altro, cosa significasse per la sua gente Bella ciao:
Il riferimento alla montagna che c’è in Bella ciao, poi, evoca la storia dei curdi. “Gli unici amici sono le montagne” è il detto che rappresenta meglio le vicende del popolo curdo e la loro storia travagliata di popolo senza uno Stato nel Medio Oriente. I partigiani hanno a che fare con le montagne, elemento per noi curdi fondamentale. La montagna ti nasconde, ti protegge, è l’unico rifugio per i partigiani […]. La lotta partigiana è un modello. Per me la cosa più importante dei partigiani italiani che lottavano per la liberazione dal nazifascismo era che non erano solo uomini, c’erano anche le donne. Hanno lottato insieme, hanno preso in mano le armi per difendere l’Italia dai soprusi dei fascisti […]. La storia si ripete, sono le stesse cose. Si lotta contro i fascisti, contro le ingiustizie. E poi quando l’Italia è stata liberata, i giovani rivoluzionari italiani sono scesi nelle piazze e hanno cantato la libertà. Questa è la speranza anche per il mio popolo.
Le recenti notizie di cronaca ci raccontano della caduta di Kobanê dopo l’inasprimento dei rapporti tra i curdi e la Turchia di Erdoğan. Anche se il sogno di un Kurdistan unito è più lontano, il sentimento di questo affascinante popolo è più vivo che mai, ancora una volta nei valori della Resistenza. Se oggi come ieri, a distanza di settant’anni, l’emozione e il significato di questa canzone riescono a smuovere gli animi, possiamo ben dire: lunga vita a chi resiste, alla libertà, lunga vita a Bella ciao!
2015
attentato alla sede di «Charlie Hebdo»
2018 2019
La casa de papel Greta Thunberg
La fame sono io: RESISTERE O NO?
EDOARDO ANGRILLI
Anche il poeta ha un corpo. Mangia. Invecchia. Anche il poeta è stretto nella sua triste carne.
Con queste parole Fernanda Romagnoli, grande autrice italiana del Novecento troppo spesso dimenticata, descrive nella poesia Prima vista il proprio conflitto interiore, la propria voglia di farsi altro da sé e il dramma della presa di coscienza della propria finitezza. La poesia è spesso questo: un desiderio di infinito, una famelica voglia di grandezza. Sciocco sarebbe, a tal proposito, citare Leopardi, tanto è grande la sua voce, tanto è evidente questa affermazione. Eppure, ogni poeta, come ogni uomo, deve necessariamente confrontarsi con questa duplicità intrinseca, con questa opposizione tra corpo e spirito, tra l’altezza iperuranica della sua anima e la stretta prigione delle sue carni. È un conflitto lacerante, una tensione endogena senza soluzione, spesso distruttiva, ma dagli esiti infiniti, grotteschi. Perché al prevalere di una fazione bisogna fare i conti con la resistenza dell’altra, che scalcia, graffia e urla per riconquistare terreno. Come fossero due facce della
stessa medaglia, due teste della stessa creatura, antagonisti ma indissolubilmente legati. È dunque impossibile senza esiti autodistruttivi opporre resistenza a questi dettami organici, a questa cella di ossa, carne e pelle, al punto che dovremmo chiederci: laddove vediamo un’opposizione, non dovremmo instaurare piuttosto un dialogo? È possibile risolvere l’eterna dialettica corpo-spirito attraverso l’annullamento di ogni resistenza e l’accettazione dell’unicità di quello che, solo in apparenza, è un conflitto? È quello che cercheremo di dimostrare, dopo aver passato in rassegna alcuni degli esiti più affascinanti di questa guerra senza tempo.
Per Socrate, il rifiuto del corpo sembra una conseguenza implicita dell’importanza attribuita alla ψυχή. La sua dottrina, impregnata di reminiscenze orfiche e pitagoriche, imporrà il paradigma della preminenza dello spirito sul corpo, andando a influenzare per millenni il pensiero occidentale.
Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece il vivere?
(Euripide, Polydos, fr. 638)
Anche il poeta ha un corpo. Mangia. Invecchia.
Anche il poeta è stretto nella sua triste carne.
Le fonti di questa concezione sono numerose. Nel Fedone Socrate afferma che «questo corporeo» è una «cosa pesante e grave e terrena e visibile». Il pensiero, quindi, per elevarsi, dovrebbe liberarsene. Conversando con Cebète egli afferma ancora che «ogni piacere o dolore inchioda l’anima al corpo e ve la conficca e la rende corporea», allontanando la possibilità di «essere partecipe della compagnia del divino, puro, dell’uniforme» (83e). Ecco dunque che per il saggio di Atene il corpo non solo diventa un accessorio ma un vero e proprio impedimento, quasi un nemico da contrastare, da mettere al giogo per raggiungere la verità.
Nella cultura occidentale è pertanto a partire da Socrate che si accresce la frattura storica e umana tra corpo e spirito. Il pensiero, per liberarsi da ogni vincolo, dovrà resistere alla carne e ai suoi peccati, ai suoi limiti, per giungere altrove, alla metafisica.
Sotto questa luce non appare neanche più un puro vezzo accademico chiedersi quale fosse la dieta di Socrate e Platone; al contrario essa risulta essere quasi corollario dei loro insegnamenti. D’altronde, riflessioni sulla corretta dieta che un filosofo dovrebbe seguire si possono ritrovare in svariati testi,
dalle Leggi alla Repubblica
Se quindi il concetto di σωφροσύνη (la moderazione e l’autocontrollo) aveva già nei testi omerici un’importanza capitale per la corretta morale greca, negli scritti platonici esso assume un valore gnoseologico fondante, se non parossisticamente esasperato, tanto che potremmo azzardarci a tradurlo come ‘follia del corpo’.
Insomma, i pretesti del conflitto si sono infiammati, si scorgono le prime avvisaglie: solo attraverso lo spregio del corpo l’uomo può tentare di elevarsi, abbandonando il suo stato bestiale per farsi creatura di puro spirito e pensiero. Controllare la carne significherà, d’ora in avanti, controllare il proprio spirito.
È questa la certezza che verrà rielaborata da un’ampia porzione di mondo scolastico, portando tanto alla nascita dei monasteri di clausura, tanto all’inquietante e spesso sottaciuta realtà delle sante anoressiche. Questa definizione è piuttosto recente; il testo capitale sull’argomento venne infatti pubblicato nel 1985, con il titolo La santa anoressia. Digiuno e misticismo dal Medioevo a oggi, che fa riferimento a tutte le dottrine mistiche che hanno tentato di giungere alla pienezza divina attraverso
La scrittura impigliata nella rete
Uno sguardo sulla letteratura nel web
GIOVANNI CAMPAGNOLI
Tra le sfide più spinose che oggi la letteratura (e con essa i propri operatori) è chiamata ad affrontare c’è senza dubbio il web. È difficile tenere il conto della quantità di posizioni astiose o diffidenti tra editori, critici e scrittori nei confronti della rete, incolpata di aver assorbito il discorso letterario per poi trasportarlo “snaturato” sui social o sulle pagine di internet. Non solo: la crisi dell’editoria viene da molti considerata una conseguenza dell’impatto aggressivo che il web esercita nella nostra quotidianità, soprattutto in virtù dell’elemento di istantaneità che lo caratterizza. Distratti dai continui stimoli che la rete offre, gli utenti si trovano in difficoltà nell’approfondire gli argomenti che genera, perché l’immediatezza facilita una produzione di contenuti superficiali, il più delle volte non pensati per una loro assimilazione critica. È soprattutto questo fattore che muta la percezione del tempo: l’incredibile quantità di contenuti si riflette nel nostro comportamento, dandoci la sensazione di non riuscire mai ad afferrarli, con il risultato di renderci fruitori nervosi e frenetici. Viene così a mancare spesso un approccio riflessivo e più meticoloso nei confronti della realtà. Che ruolo gioca la forma-libro in un contesto simile? La situazione delineata mostra la complessità dei problemi con i quali la letteratura deve fare i conti, come imbrigliata in una matassa di software, piattaforme, dati e link. Il risultato è spesso un atteggiamento di resistenza verso il web come luogo preposto all’accoglimento della cultura. Ci dovremmo chiedere se un simile temperamento sia fondato e non si rischi, piuttosto, di compromettere la circolazione della letteratura e perciò di andare contro alla letteratura stessa. Due questioni che meritano di essere approfondite ordinatamente.
Se nelle posizioni avverse al web si riscontrano spesso giudizi maturati in seguito a un’incomprensione o a una scarsa conoscenza del mondo della rete c’è chi mostra, invece, molta attenzione al processo di traduzione della cultura sulle piattaforme digitali. Per comprendere cosa stia accadendo si dovrà tener conto di due fattori: la natura dei contenuti sul web e chi li produce. I contenuti possono spaziare da recensioni postate su Amazon, LibraryThing o IBS; dai video caricati su Youtube o Vimeo alle diverse voci di Wikipedia, compresi i vari materiali condivisi su Facebook o sui blog. Da questa premessa si chiarisce un punto: la stessa scrittura creativa, al di là delle sue strategie, si presenta come contenuto, ossia come oggetto che la rete è in grado di accogliere. Allo stesso tempo, l’autore è un utente che, per mezzo di tale connessione, condivide il proprio progetto al di fuori dei circuiti culturali più tradizionali. Uno scenario simile ci obbliga a un ripensamento radicale della letteratura, ora che si vede coinvolta nella rete. Il fatto che nessun criterio estetico normativo venga istituito nell’organizzazione dei
contenuti fa sì che questi si accumulino senza poter applicare una scrematura a quella massa di testi che non raggiunge lo standard minimo di narratività o di poeticità necessario per molti a designare il valore di un’opera. Si tratta di un processo radicalmente diverso da come, per tradizione, è stato classificato il materiale letterario: attraverso percorsi di archiviazione, secondo gerarchie di classificazione che andavano a definire il canone circoscrivendo i testi in uno spazio e in un tempo precisi. Il ribaltamento di una posizione simile priva di senso il concetto di canone ed è proprio questa una delle peculiarità maggiori del web: internet è tutto ciò che non è “canonizzabile”. È ancor più problematica, in questo contesto, la definizione del ruolo dello scrivente on line: se l’utente si inserisce nel circuito del web come creatore di contenuti offerti ad altri utenti, che a loro volta produrranno e offriranno nuovi contenuti, è difficile riconoscergli uno status nettamente definito, dal momento che la condivisione non esige alcun tipo di riconoscimento. L’interpretazione che si vorrà dare a tutto questo, dunque, non potrà prescindere dall’inevitabile ripensamento a cui la letteratura è chiamata: se già la meccanizzazione della stampa e poi l’industrializzazione dell’editoria l’hanno rimodellata a suo tempo, adesso la letteratura è costretta a fare un salto vertiginoso. Risulta difficile ipotizzare la sua futura fisionomia dato che il passaggio verso il digitale non è del tutto ultimato, ma ancora in una fase di sperimentazione. Con fatica, si sta accettando la possibilità che la letteratura possa essere condivisa in rete senza perdite: si inizia a pensare al web come a un nuovo luogo di dibattito e ricerca. Resistere a quella che sembra una vera e propria rivoluzione culturale, oltre a essere controproducente per la letteratura stessa, è un atto che va incontro a un fallimento certo: cercare di arrestare la dirompente e continua presa che il web ha nelle nostre vite sarebbe contraddittorio anche solo in via ipotetica.
I problemi che caratterizzano il rapporto tra il digitale e una concezione tradizionale della letteratura vengono percepiti con grande intensità da alcuni operatori culturali; da ciò, talvolta, nascono rifiuto e paura di internet, interpretato come un luogo dove un certo tipo di letteratura sembra impossibile. Quest’ultima, tuttavia, muta ma non si estingue. Verrebbe allora da chiedersi se davvero la minaccia alla letteratura provenga dal web o da chi non è pronto a pensare la rete come luogo privilegiato della cultura. La massa eterogenea e caotica di scritture presenti nel web è forse alimentata da una posizione di resistenza. Questa si oppone al rovesciamento del luogo letterario, date le questioni che internet inevitabilmente pone nel momento in cui incontra la letteratura. La necessità di risolvere i conti con la rete è di primaria importanza per chiunque voglia offrire un contri-
LA RETE HA GENERATO
UN USO DELLA PAROLA
SENZA PRECEDENTI,
UN’ESPLOSIONE DELLA
SCRITTURA CHE SI SALDA
PROFONDAMENTE CON
LA PERSONA. RIFIUTARE
I NUOVI LUOGHI DELLA
SCRITTURA RISCHIA DI
PORTARCI LONTANI
DALLA LETTERATURA
buto all’orientamento della cultura: se le battaglie maggiori sono state intraprese per tutelare il cartaceo rispetto all’alternativa digitale, è forse perché non si sono individuati i veri nodi da sbrogliare, senza contare che gli e-book sono un’alternativa e non sostituiscono la carta (ma non è da scartare un possibile trionfo del primo, in futuro, vista la sua natura più ecologica). Il pensiero diffuso tra coloro a cui il web è inviso sembra soltanto uno ed è uno strenuo rifiuto: osteggiare la rete, che ingabbia la letteratura e la mortifica, definendo il dibattito e i risultati generati sul web come sterili o indefinibili. L’unico atteggiamento concepibile, a questo punto, dovrebbe essere proprio una resistenza a queste ostilità, dannose per tutte le parti coinvolte. Per quanto lo scenario descritto si presenti ingarbugliato e spaventoso, non si possono giustificare atteggiamenti di indifferenza o di cieco purismo. La letteratura è stata chiamata costantemente a confrontarsi con le innovazioni tecnologiche: neanche stavolta può rimanere estranea alla propria contemporaneità. Bisogna sfuggire alla tentazione di dare giudizi affrettati e semplicistici: ignorare le potenzialità del web significa sfuggire al presente. Ciò non vuol dire che un’incondizionata adesione a internet muti la sua struttura e risolva le sue problematiche; ma opporvisi a priori fa emergere il rischio di fraintendere le specificità del nostro tempo, nonché di trascurare i fenomeni sociali che vengono veicolati attraverso internet. Da un punto di vista letterario e linguistico, uno di questi è rappresentato dalla nascita di molte scritture. Sorprende vedere come nuovi luoghi di sperimentazione sorgano insieme alla rete ed è forse grazie a essi che si soddisfa un bisogno intrinseco all’essere umano. Potrà prendere forma allora più di un punto interrogativo: da
dove nasce questa esigenza? Cosa spinge una persona a voler scrivere attraverso il web? Certamente non possono essere trascurate le ragioni culturali che hanno portato un cambiamento dei canali comunicativi, ma alcune riflessioni di Jacques Derrida, uno dei filosofi più discussi dell’ultimo ventennio del Novecento, potranno fornire qualche spunto interessante di lettura in merito alla sproporzionata mole di materiali letterari che oggi si riscontra on line.
Per Derrida, ciò che spinge una persona a scrivere è il bisogno umano di lasciare delle tracce che segnino la nostra presenza. Scrivere significa infatti voler registrare il proprio passaggio nel tempo e impedire che la nostra esistenza risulti effimera, opponendosi alla caducità della vita. Concepire la scrittura come traccia significa testimoniare sé stessi nella propria realtà ed esorcizzare la futura, certa, sparizione. È interessante notare come una delle tematiche più significative della scrittura riprenda vigore in un’epoca dominata dalla presenza di strumenti tecnologici che, secondo qualcuno, avrebbero dovuto determinare la sparizione della scrittura, intesa in questo senso, dalla vita umana. Si può pensare a un confronto con oggetti come il telefono, per esempio: dal momento che avrebbe facilitato la comunicazione orale si credeva che non sarebbe più stata avvertita la necessità di scrivere, poiché il parlato immediato sarebbe risultato più veloce ed efficace. Sappiamo invece che da questo punto di vista c’è stato un rovesciamento funzionale: sono proprio le nuove possibilità comunicative ad aver fomentato l’incredibile numero di testi che possiamo constatare, come lucidamente aveva intuito Derrida, secondo cui queste nuove tecnologie si sarebbero iscritte nei più antichi bisogni umani: la necessità di registrare la propria esistenza e di poter resistere alla morte. È attraverso la resistenza alla morte che viene concepita l’idea di scrittura, secondo la quale scrivere vuol dire tentare di scampare alla sicura evenienza della morte. Si intuisce come l’atto di scrittura scaturisca da un sentimento di resistenza e di conseguenza come il web si delinei come il “nuovo” luogo della resistenza. Derrida nega la possibilità di sparizione del segno, perché scrivere è l’unico modo per poter toccare quel centro indicibile che sfugge normalmente alla coscienza umana: dando forma scritta a una voce privata si può arrivare a interpretare il pensiero interiore altrimenti indecifrabile. Il problema sussiste, tuttalpiù, nel momento in cui riconosciamo la scrittura come non corrispondente al proprio io interiore. È da questa condizione che emerge un’altra idea fondamentale del filosofo: scrivere è differenza. Differenza perché differisce da me stesso e non rappresenta mai specularmente ciò che quel nucleo privato comunica; il luogo del silenzio può essere interpretato solo attraverso una mediazione, quindi per mezzo della scrittura. I segni che compongono il nostro alfabeto, ci insegna Derrida, provengono da un sistema culturale che in modo arbitrario definisce il codice linguistico e dunque la potenzialità dell’espressione. Comprendiamo da ciò che la scrittura non coincide mai con la nostra esigenza d’espressione. È solo il mezzo che permette di soddisfare il desiderio di conciliazione con la nostra essenza intangibile:
Ma il desiderio del centro, in quanto funzione del gioco stesso, non è ineliminabile? E come potrebbe, nella ripetizione o nel ritorno del gioco non attirarci il fantasma del centro? È su questo punto che tra la scrittura come decentramento e la scrittura come affermazione del gioco, l’esitazione è infinita. Essa appartiene al gioco e lo collega con la morte. Essa si attua in un “chi sa?” senza soggetto e senza sapere (Derrida 1971, p. 87).
Desiderare il centro è desiderio di scrittura. Affermare il gioco dei segni significa perdere il centro attraverso la volontà di afferrarlo: passione per la scrittura è passione per l’origine. La scrittura come passione per il centro, connessa alla morte, sottintende l’angoscia per la sparizione predestinata ma al contempo elogia la vita. A fronte di ciò, l’interrogativo diventa un altro: l’uomo potrà mai resistere al desiderio di scrittura, se esso è il desiderio del centro? Se da una parte le nuove tecnologie avrebbero dovuto deprimere la scrittura, dall’altra constatiamo invece la sua esplosiva prolificazione. Analizzata sotto quest’ottica il radicarsi del web nella sfera sociale e privata può essere interpretato come un incessante tentativo di resistere alla morte, sotto forma di una tale produzione di scritture, di registrazioni del vivere, che forse nemmeno Derrida avrebbe potuto immaginare. Se la traccia è argine della morte, internet oggi si offre come luogo della traccia. Dunque, perché opporre resistenza? Si può decidere di adeguarsi alle forme del web o meno, di farsi catturare dalla rete o lasciarla scivolare su di noi, ma se la decisione è di comprenderla ci si può accorgere delle possibilità che offre alla letteratura e di come queste si possano innovare. Esistono molti modi di scrittura online: dall’articolo lungo e strutturato, destinato alla pubblicazione sul sito specialistico, fino alla possibilità di scrivere su richiesta, oppure al testo che nasce sui social per motivi diversi. Esiste insomma una scrittura per il mezzo (quella immediata, che trova posto sui social) e una scrittura tramite il mezzo, che è prodotta a prescindere dal medium e potrebbe trovare legittimata la propria presenza in qualsiasi contesto. Se la scrittura si concepisce come mezzo d’espressione, il web non fa altro che rispondere a una richiesta di aggiornamento dei mezzi espressivi di cui l’uomo si serve. Come testimonia la storia il rinnovamento della tecnica è una costante determinata dalle capacità e dall’impegno dell’intero genere umano: rovesciando le preoccupazioni dei più reazionari, quindi, la minaccia che incombe sulla scrittura e la letteratura è la resistenza alle modificazioni della tecnica. A tramontare è forse la concezione dell’opera come oggetto di interesse chiuso, fatto e finito, che lascia il posto a una forma di scrittura breve e frammentaria come manifestazione di un pensiero istantaneo e soprattutto interattivo. Chissà se tale forma non sia l’effetto spontaneo di una realtà intermittente e dispersa che sempre più sembra rispecchiarsi in queste nuove forme narrative. Il web si intreccia con le nostre vite in modi del tutto imprevedibili e ancora sembra difficile comprenderne il potenziale, probabilmente inespresso, ma l’impreparazione è un lusso che potremmo dover pagare a caro prezzo. Ciò non significa che si prospetta un futuro dove le nostre
esistenze, e con esse tutto ciò che le arricchisce, saranno interamente trasposte sul web. Il tentativo di allentare la diffidenza verso il mondo della rete, e verso la letteratura che trova spazio su questo nuovo media, potrebbe significare avere uno sguardo di vivo interesse sulla discontinuità del mondo e sui suoi risultati senza volgere le spalle al futuro.
La rete ha generato un uso della parola senza precedenti, un’esplosione della scrittura che si salda profondamente con la persona. Rifiutare i nuovi luoghi della scrittura rischia di portarci lontani dalla letteratura: se la domanda è “la letteratura si modifica sul web?” la risposta è sì; se la domanda è “la produzione sul web può (e deve) essere letteratura?”, la risposta è la stessa. Resistere alla rete significa rifiutare il testo in sé e le meraviglie che dona. D’altronde è difficile ipotizzare un allontanamento da esso: se come suggerisce Derrida la scrittura (intesa come registrazione) è il solo modo di riconoscersi vivi in un presente che si sa caduco, l’uomo difficilmente potrà scongiurare altrimenti questo pericolo. L’impresa a cui si è chiamati diventa dunque la regolamentazione dei nuovi luoghi dove la letteratura può manifestarsi senza che ne venga messa in discussione l’autenticità, scongiurando così il rischio di una sua possibile incapacità di trasmettere contenuti. Ripudiare la tecnica e la sua continua mutabilità è temere lo stesso ingegno umano e le nuove trasmissioni di conoscenza. La sfida che affronterà la parola nel prossimo futuro non è d’altra parte la prima della sua storia: dalle origini è chiamata a continui adattamenti a forme che sono sempre discontinue. Certo l’operazione è delicata e ardua: così come è attualmente concepito, il web può sembrare inadatto come luogo di accoglienza per il discorso letterario. Un atteggiamento risoluto e positivo potrebbe essere il punto d’inizio, allo stesso tempo confrontandoci con il passato e confortandoci del fatto che la scrittura resiste nei secoli e difficilmente verrà meno. Ed è quella passione per l’origine, sottolineata precedentemente, che le permette di resistere alla duttilità del luogo; una passione che distingue l’umano. La scrittura resiste alle modificazioni del tempo; se essa è il solo modo di resistere alla morte allora la tecnica non dovrà prevaricare bensì sottomettersi al servizio dell’essere umano. La scrittura non differisce dalla tecnica: essa è tecnica. Resistere al web ci porta a rifiutare questo principio. Al di là delle diffidenze, non ci saranno ostacoli a impedire la desiderata riconciliazione col proprio Io che sfugge, l’ambìto poter dare corpo a una voce che fatichiamo a sentire: avremo sempre tante cose da dire e poche forme per farlo.
Resilienza: la risposta dell’evoluzione
per resistere allo stress
Tutti gli organismi viventi sopravvissuti alla selezione naturale hanno messo a punto delle strategie atte a rispondere e a resistere agli agenti esterni, ottenendo così un vantaggio evolutivo. Per “agente esterno”, qui, si intende qualsiasi ente in grado di interferire con l’omeostasi dell’organismo. Per ogni minaccia all’integrità fisica, psichica, sociale, biologica gli esseri viventi hanno messo a punto una strategia di coping (ovvero un insieme di meccanismi biologici e comportamentali atti a rinstaurare l’equilibrio). Il sistema immunitario, ad esempio, protegge i viventi dagli attacchi dei patogeni, oltre che da fattori di malattia endogeni; allo stesso modo esistono strategie mentali e biologiche che i viventi utilizzano per mantenersi in salute, anche a seguito di “attacchi da parte della vita”. Una delle più potenti fonti di pericolo per il nostro equilibrio psicofisico consta di una serie di fattori ben conosciuti al giorno d’oggi: ritmi frenetici, compiti da svolgere simultaneamente, con massima affidabilità e assoluta precisione, da svolgere nel minor tempo possibile; in una parola: stress. La convinzione che l’esistenza stessa sulla Terra, con le sue sfide di natura biologica, psicologica e sociale, potesse minare la salute mentale delle persone è un assunto di origine antica che è stato effettivamente preso in considerazione e studiato in maniera rigorosa soltanto negli ultimi secoli. È stato accertato infatti sin dagli albori della pratica psichiatrica l’assunto per cui eventi di vita negativi e stress prolungato possono essere considerati trigger di psicopatologia (laddove per trigger si intende un evento scatenante, evocato dall’esterno attraverso i sensi o autogenerato dall’emersione di memorie spontanee, in grado di generare a sua volta una serie di conseguenze specifiche in un individuo) (P. E. Griffiths 2008). A questo proposito Pinel, medico francese tra i protagonisti del rinnovamento avvenuto in psichiatria del XVIII secolo, riconobbe il rischio di sviluppare una psicopatologia nel verificarsi di circostanze di vita avverse, tanto che una delle domande più frequenti che soleva fare ai pazienti era: «lei ha mai dovuto sopportare vessazioni, dolori o sfortune nella sua vita?», rimarcando così anche agli occhi del paziente il ruolo degli stressor nella compromissione del buon funzionamento mentale.
Stando a quanto affermato da Lazarus, il termine “stress”, traducibile come ‘avversità’ o ‘difficoltà’, assume una dignità accademica soltanto nel XVII secolo, all’interno dei lavori dell’illustre fisio-biologo Robert Hooke (Hinkle 1973; Lumsden 1981). È proprio grazie a Hooke che è stato possibile apprezzare l’applicazione del termine stress a entità non industriali o comunque a esseri viventi e non a strutture sottoposte a deformazione a causa di forze ambientali. Lazarus spiega come in lingua inglese per load, ovvero ‘carico’, ci si riferisce solitamente al peso che grava su una struttura; per stress, invece, si intende l’area dove il carico pone la sua pressione; infine per strain (‘sforzo’) si considera la deformazione della struttura gravata dal carico creata dalla combinazione negativa di load e stress. Nonostante tali termini, in contesti extra-disciplinari, vengano oggi usati spesso come sinonimi, la ricerca psicologica li utilizza in maniera non interscambiabile, tenendo fede al significato
originario. Grazie a queste ricerche infatti per stress oggi si intende l’effetto esercitato da un peso esterno su un’entità biologica, sociale o psicologica.
Dal punto di vista strettamente clinico le prime linee di ricerca sullo stress si svilupparono in concomitanza con il primo e il secondo conflitto mondiale. Durante questo periodo i professionisti della salute mentale si trovarono infatti di fronte a “sindromi da stress” riportate frequentemente dai soldati che avevano prestato servizio al fronte (Grinker et al. 1945). Inizialmente, tuttavia, le sindromi stress-correlate che i soldati riportavano durante il servizio o una volta congedati non vennero prese in considerazione come entità cliniche emergenti o indotte dall’esperienza della battaglia. Non mancarono infatti interpretazioni di clinici che assimilarono le sindromi stress-correlate dei soldati all’isteria, alla mancanza di coraggio o più generalmente a un difetto organico cerebrale che si era manifestato durante il conflitto ma senza avere con esso una relazione di causalità (Corsa et al. 2004; Corsa 2013).
Successivamente venne coniato il termine shell-shock, o ‘shock da granata’, che fece la sua comparsa su un articolo pubblicato sul «Lancet» dallo psicologo e medico Charles S. Myers per indicare i disturbi psicologici che causarono il rimpatrio di molti fanti impiegati nel primo conflitto mondiale fin dal dicembre 1914. La comunità scientifica si rifiutò di ammettere la componente psicogena di questa sindrome, considerando lo shock da granata come l’espressione di una lesione cerebrale scaturita dall’urto di potenti agenti esterni, anche in considerazione del fatto che i soldati al fronte si erano trovati esposti a un’ampia gamma di danni da esplosione (Corsa et al. 2018). Questo tipo di spiegazione eziopatogenetica però non era sostenibile nei numerosissimi casi in cui i soldati colpiti da questa sindrome non avevano riportato alcun danno neurologico o comunque non avevano subito alcuna lesione alla testa, pur presentando tutti i sintomi riconducibili allo shell-shock. Fu solo a quel punto che la comunità scientifica ammise la natura psicogena della sindrome, che venne ammessa tra le “nevrosi traumatiche”. Da quel punto della storia in poi il termine shell-shock è stato utilizzato per indicare serie di sintomi neuropsichiatrici che comprendevano un ventaglio molto ampio di manifestazioni: ansia, depressione, stati confusionali, acufene, amnesia, cefalea, vertigini, sintomi da conversione, tremori, comportamenti antisociali, ideazioni suicidarie e ipersensibilità ai rumori, sia a seguito di un effettivo trauma cerebrale che in assenza di esso (Jones et al. 2007; Pizarro et al. 2006). Nonostante tutte queste difficoltà, lo studio delle sindromi post-traumatiche dovute al primo conflitto mondiale offrì l’opportunità di indagare, per la prima volta su vasta scala, l’effetto di uno stressor sulla mente e sul corpo degli esseri umani.
Ancora più in là nel tempo, a seguito soprattutto del secondo conflitto mondiale, della guerra di Corea e della guerra del Vietnam, gli studi sugli effetti dello stress conflitto-correlati si intensificarono e divennero più sistematici, portando finalmente a riconoscere l’esistenza della Sindrome Post-Traumatica da Stress (PTSD), che compare come entità nosografica distinta nel 1980, all’interno del-
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