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NASI ROSSI FUORI PISTA

NASI ROSSI FUORI PISTA

PERCORSI E FUGHE DEL CLOWN PRIMA E DOPO IL CIRCO

di Raffaele De Ritis

Se l'icona del clown dal naso rosso, abiti larghi e capelli scomposti prende forma nel cerchio della pista (attorno al 1870), la sua longevità va cercata altrove,

prima e dopo. Il termine clown (forse da clod, zotico) si afferma nel teatro inglese del Rinascimento, non a caso contemporaneo di Arlecchino, entrambi antieroi selvaggi e diabolici. Il contadino contro il borghese, il servo contro il padrone, la cultura agreste selvatica (astuta e insieme ingenua) contro quella urbana più composta; l'innocenza dell'infanzia contro la compostezza dell'età adulta; l'anarchia contro i codici. Lo scemo del paese che però, fuori dagli schemi, la sa sempre più lunga di tutti. È il contrasto atavico dell'umanità, tragico ma dagli esiti comici (il padrone irriso dall'anarchia al potere), che nel Novecento circense, secolo di conquiste e contrasti sociali, prenderà forma negli archetipi clowneschi di “bianco” e “augusto”.

Agli albori del circo moderno, fu la contaminazione del clown inglese con le maschere italiane a creare il clown ottocen-

tesco (con il pioniere Joe Grimaldi) che, prima ancora dell'affermazione nel circo, era un personaggio fiabesco nato per il palcoscenico: non disdegna la bottiglia, con lo stato di ebbrezza che è una buona scusa sia per l'acrobazia che per la bocca e il naso tinte di rosso, ben visibili a distanza. Nel circo il clown sembrò trovare senz'altro la propria dimensione ideale; in realtà vi viene trattenuto a malapena per un secolo, tentando spesso la fuga. Ma è sicuramente grazie al circo se esso prende sembianze e struttura. Inizialmente è il varietà, già verso il 1880, a offrire ai nuovi clown del circo maggiori stimoli e forme; poi l'arrivo del cinema. Attorno al 1910, il cinema muto è un formidabile magnete, che strappa al circo i migliori talenti comico-acrobatici fino ad inventare con essi una delle forme d'arte più influenti dell'umanità. Anche il teatro offre fortune: degli anni '20 e '30 è il paradosso di Grock, il più grande clown di tutti i tempi, la cui carriera si snoda in prevalenza sui palcoscenici e solo saltuariamente in pista, nonostante il suo materiale comico-musicale sia stato squisitamente circense.

Anche quando il clown rimane fedele alla pista, la sua ombra mitologica scappa altrove: nella poesia con Baudelaire, in pittura con Picasso e Rouault, nella musica con Leoncavallo, nella filosofia con Starobinski e Bergson, fino al labirinto infinito di stereotipi tra cinema e romanzo.

È verso il 1970, dopo circa un secolo dalla propria nascita circense, che il clown ritrova una propria vita fuori dalla pista.

È Federico Fellini, sorta di esecutore testamentario, a catalizzare il mito del clown triste addirittura in una visione poetica della “morte del clown”. Una finzione sublime forse ingrata rispetto alla realtà, quando molti clown di circo avevano ancora successo e facevano ridere. Ma sicuramente erano sempre più lontani dalla realtà, con una comicità tenera rimasta a prima della guerra, nella quale della dimensione sociale e poetica di questa maschera resta ben poco. Se ne accorgono persino alcuni circensi: i Colombaioni, che a contatto con Fellini e Dario Fo mostrano una nuova via teatrale al clown; Leo Bassi, che lascia la dinastia circense per il contatto con la strada e il recupero dello spirito provocatorio, perduto, del buffone. C'era poi Annie Fratellini: negli anni '60 era già “scappata” da una leggendaria dinastia di clown ma per dedicarsi alla musica pop e jazz; nel 1970 fa il percorso contrario, creando un numero di clown per il circo e poi fondando la prima scuola al mondo.

Gli anni '70 a Parigi attraggono da tutto il mondo quelli che reinventeranno l'arte del clown, attraverso un incrocio formativo che rimette in discussione mimo, maschera, gestualità teatrale, creando la nascita del cosiddetto “teatro fisico”: oltre alla scuola Fratellini ci sono quelle leggendarie di Marcel Marceau, Etienne Decroux, Jacques Lecoq, a loro volta legate strettamente al lavoro di Dario Fo e alla riscoperta in chiave contemporanea della tradizione tutta italiana della maschera e della Commedia dell'Arte. È un'epoca in cui non esiste ancora la logica dei contributi economici. Lo sbocco lavorativo più sicuro è la piazza; la stes-

sa Parigi offre l'occasione per gli spettacoli “a cappello”, dando forma al clown di strada. È la culla da cui nei primi anni '80 nasceranno pionieri come Peter Shub o David Shiner, che verranno raccolti a loro volta in Germania dall'innovativo Circus Roncalli. Oppure la strada offre percorsi itineranti più avventurosi: il Grand Magic Circus di Jerome Savary, o il Friend's Roadshow di Jango Edwards, le prime grandi esperienze internazionali di teatro urbano, in cui il clown dopo secoli tornava ad essere una figura di trasgressione, innocenza perduta, grottesco rivelatore, per un pubblico ormai non solo infantile o familiare, e soprattutto non circense.

Nascono festival e stage: programmazione e formazione si incrociano nel mettere in discussione un meccanismo centrale: la trasmissione del sapere e i metodi di apprendimento. Seppur non sempre con risultati esaltanti, si cerca di slegare la cultura del clown dal sapere dinastico, considerato ripetitivo. Questo sebbene l'ispirazione dei grandi maestri nasca sempre dalla pista. Pierre Etaix, compagno di Annie Fratellini e grande cineasta, alla radice della formazione

clownesca moderna, è folgorato dai clown di circo della propria infanzia; lo stesso per lo svizzero Dimitri, la cui scuola sarà decisiva nello “sdoganare” l'idea di clown teatrale. Da tutte queste nuove fonti, negli anni '80 nasce una formidabile scuderia di talenti clowneschi mondiali che poco o nulla a che fare hanno con l'arte del circo, ma contribuiscono in modo decisivo a rinnovare l'arte del clown e della risata. Ai già citati Colombaioni, Leo Bassi, Jango Edwards e Dimitri, si aggiungono Pierre Byland, Bustric, Bolev Polivka, Gardi Hutter, Johnny Melville (ma solo per citare i più noti). Alcuni di loro, come i Mummenschanz, contribuiranno al rinnovamento del teatro-danza o alla spettacolarità urbana, come Els Comediants; altri, come Maurizio Nichetti, al linguaggio cinematografico.

L'influenza di questa nuova generazione torna fondamentale anche ai clown della pista, incoraggiando i clown del circo a coinvolgere gli spettatori come nel teatro di strada. A comprendere la lezione per primo, e meglio di tutti, è già dagli anni '80 David Larible: un clown di tradizione che dopo il Duemila giungerà a sublimare l'esperienza circense classica in un percorso teatrale, strada osata solo da Grock e dai Colombaioni. La trasposi-

zione dal circo alla scena ha sempre affascinato anche i clown russi, d'altra parte fin dalle origini legati ai maestri dell'avanguardia teatrale e futurista. Dalla dissoluzione della tradizione sovietica, gruppi come i Litsedei rimescolano circo, pantomima alla Marceau, grottesco felliniano, follia surrealista, poetica chapliniana. È da questo groviglio al margine della pista, tra clown reale e sua metafora onirica, che emerge il genio teatrale di Slava Polunin, col successo planetario Snowshow

L'abbandono della pista, per poi forse tornarci (Slava è poi passato dal Cirque du Soleil) sembra essere stata una spinta necessaria per mantenere viva l'anima del clown. Così come la nascita del clown circense riduceva in cenere gli stereotipi della Commedia dell'Arte. Trasgredire le tradizioni, “uccidere” il padre accompagnano ogni forma di rinnovamento artistico. Ma forse, è proprio l'amore profondo per le tradizioni e la loro forza ad essere il vero segreto per trovare ogni volta una nuova contemporaneità.

NASI R SSI FUORI PISTA

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