CARAVAGGIO 2010
melograno associazione culturale viale Caravaggio 128 Porto Ercole (GR) 58018 melograno@post.com Finito di stampare nel mese di luglio 2010, da Labocolor, via Togliatti 20 (Loc. Prelli) Santo Stefano Magra (SP) 19037 tel. 0187-63371 www.labocolor.it
melograno associazione culturale
Il legame tra Porto Ercole e la figura del Caravaggio sta diventando sempre piĂš indissolubile, cosa che ci onora come cittadini e come amministratori. L'ultimo esempio di questa sorta di simbiosi tra l'artista ed il luogo in cui ha terminato la propria esistenza terrena, viene dal lavoro congiunto di tre professionisti locali, il fotografo Giuseppe Zanoni, la giornalista Annegriet Camilla Spoerndle, tedesca ma portercolese di adozione e l'architetto Giacomo Pietrapiana. I tre hanno rivisto con la tecnica fotografica del banco ottico a lastre alcune delle opere piĂš importanti di Michelangelo Merisi, inserendovi volti e profili degli abitanti di Porto Ercole, quali moderni protagonisti. A questa ulteriore unione tra l'artista e la nostra comunitĂ , il Comune di Monte Argentario ha dato il suo patrocinio. Siamo infatti di fronte ad un originale e per noi lusinghiero progetto che comprende una mostra fotografica di otto opere d'arte contemporanea legate ad altrettanti capolavori del Caravaggio che saranno esposti dal 24 luglio al 29 agosto nel palazzo della ex scuola elementare sul lungomare Andrea Doria e che vanno ad arricchire il panorama culturale sul Promontorio in questo straordinario anno caravaggesco.
Arturo Cerulli /Sindaco di Monte Argentario
In questa prestigiosa e irripetibile occasione in cui si commemora la morte del grande pittore, Michelangelo Merisi da Caravaggio, l’Amministrazione Comunale ha voluto intraprendere una strada spesso non facile; quella dell’arte contemporanea, lasciando spazio a giovani e talentuosi artisti che ispirandosi al Caravaggio, hanno prodotto opere degne di grande attenzione. Privilegiare l’arte contemporanea significa ridare la giusta interpretazione all’opera e alla personalità del Caravaggio, che fu un “contemporaneo” del suo tempo e che fece “l’avanguardia” nella Roma del 1600. Incompreso, o meglio compreso da pochi, come spesso accade, rivoluzionò la pittura lasciando un segno indelebile che ancora oggi ispira ed emoziona i giovani artisti. Ne è testimonianza questo lavoro, che ho sempre appoggiato sin dai nostri primi incontri, ritenendolo giusta interpretazione della volontà di divulgare e promuovere l’arte contemporanea all’Argentario. Tale volontà nasce dalla necessità ormai fortemente sentita di creare un’offerta turistica alternativa, di alta qualità, che aggiunga valore allo splendido scenario paesaggistico ed architettonico che l’Argentario offre. Il progetto Caravaggio 2010 esprime a pieno la volontà dell’Amministrazione: è un progetto ambizioso e coraggioso che nel rispetto assoluto dell’opera del grande maestro e partendo dall’analisi e dallo studio delle sue opere, arriva attraverso la fotografia, non a caso una tecnica artistica della contemporaneità, a risultati sorprendenti, immagini che rileggono l’iconografia caravaggesca e dell’intero ‘600 in chiave di assoluta attualità, e che rispondono alla domanda che gli artisti si sono posti: cosa avrebbe dipinto Caravaggio oggi? Affascinante e suggestiva domanda che nell’anno della commemorazione del quadricentenario della morte dell’artista avvenuta a Porto Ercole il 18 luglio 1610, come attestano i maggiori biografi e storici dell’arte di tutti i tempi, trova risposta nell’opera dell’Associazione Melograno, alla quale va il mio sostegno ma anche il mio ringraziamento per avermi dato l’occasione di promuovere l’arte contemporanea all’Argentario.
Umberto Amato /Assessore alla Cultura del Comune di Monte Argentario
A cosa serve Caravaggio? La domanda può apparire incongrua, ma la pericolosa brutalità delle risposte che fioccano ogni giorno obbliga ad affrontarla in modo esplicito. La più diffusa di queste risposte è anche la più desolante: Caravaggio serve a intrattenere e a divertire. E questo lo rende un campione del marketing. Con Leonardo, Michelangelo e pochi altri giganti, Caravaggio condivide, infatti, il potere di attrarre magneticamente le masse dei fedeli dell’Arte. Qualunque evento che abbia nel titolo il suo nome (non importa quanto abusivamente) risulta un affare, e dunque da decenni si moltiplicano le mostre pretestuose, le ‘scoperte’ inesistenti, le attribuzioni improbabili, gli eventi mediatici. Il fenomeno non riguarda solo Caravaggio: nel discorso pubblico italiano la storia dell’arte ha subito una mutazione genetica che l’ha trasformata da sapere critico e strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di crescita umana, in un fiorente settore dell’industria dell’intrattenimento ‘culturale’, e dunque in un fattore di alienazione, di regressione intellettuale e di programmatico ottundimento del senso critico. Ma è ancora possibile, per fortuna, anche un’altra risposta: Caravaggio serve alla nostra vita interiore, alla nostra anima, alla nostra crescita intellettuale e morale. È una risposta meno ovvia e più impervia, e dunque assai meno frequentata. Essa implica, infatti, uno sforzo personale fatto di letture, viaggi e riflessioni, e induce ad un percorso di formazione e di educazione che non si riduce alla passeggiata distratta nei corridoi dell’ultima mostra. La storia dell’arte come disciplina scientifica serve esattamente a rendere possibile quel percorso: cioè a far sì che le opere d’arte che sono sopravvissute al loro tempo, e vivono nel nostro, non diventino mute, ma continuino a parlarci, a provocarci, ad educarci, a formare la nostra umanità e la nostra cultura. Il lavoro degli storici dell’arte consiste, sostanzialmente, nel rendere possibile una sorta di resurrezione del passato. La loro ricerca mira a rendere di nuovo vivo e conoscibile quel tessuto di intenzioni, funzioni, relazioni e significati che accoglieva la nascita, l’accettazione e la comprensione delle opere d’arte. E questo avviene sui piani più diversi, dalla conoscenza dello stile all’indagine dei contenuti, dalla ricostruzione dei moventi della committenza al recupero dell’antica ricezione critica delle opere, e così via. Se vogliamo che Caravaggio sia per noi vivo e attivo dobbiamo saper ritessere (per quanto possibile) la trama e l’ordito dei suoi giorni: e quanto più questa ritessitura sarà capillare, tanto più vitale sarà per noi l’arte di Caravaggio. Ma gli storici dell’arte sanno che tutto questo non basta. Francis Haskell (che è stato fra i più ardenti apostoli di una resurrezione del passato a trecentosessanta gradi) ha scritto che «per conservare vivi e funzionanti i nostri rapporti con gli antichi maestri, in ultima analisi, è necessario forzarli». In altre parole, ciò che è davvero essenziale (quanto difficile) è tenere in equilibrio la ricostruzione filologica del passato con l’attualizzazione (magari violenta, e comunque necessariamente arbitraria) delle opere che provengono da quel passato. E in questa delicata operazione gli artisti hanno il ruolo più importante. È sempre stato così: è con gli occhi dell’arte viva che si è sempre guardato alla tradizione figurativa, e questo sguardo selettivo ha comportato, di volta in volta, la perdita o la resurrezione di interi periodi della nostra tradizione figurativa. Il giovane Roberto Longhi che parte alla riscoperta di Caravaggio grazie alla retrospettiva di Courbet offertagli dalla Biennale di Venezia del 1910, rappresenta in modo ormai classico questo affascinante paradigma. E, d’altra parte, se oggi sentiamo viva e drammaticamente attuale la pittura di Diego Velázquez lo dobbiamo in misura non trascurabile alla ossessiva e penetrante rilettura del suo Innocenzo X da parte di Francis Bacon.
Naturalmente, lo sguardo dello storico dell’arte è profondamente diverso da quello dell’artista: e ciò che giova al pubblico più largo è proprio la tensione che separa e al contempo unisce queste due prospettive storiche. È per questo che, da storico dell’arte che si occupa del Seicento, sono stato incantato dall’intelligenza e dalla sensibilità dello sguardo di Giuseppe Zanoni, Giacomo Pietrapiana e Annegriet Camilla Spoerndle sull’opera di Caravaggio. Occhi di giovani artisti ci vengono prestati affinché possiamo guardare alle opere di Caravaggio con una profondità e un’empatia che i nostri occhi, usurati dall’abitudine e intrappolati nel marketing, sembrano aver perduto. Né si tratta di uno sguardo ingenuo. La scelta del mezzo fotografico parla innanzitutto della voglia di ‘leggere’ Caravaggio secondo i suoi stessi principi. Gli autori hanno scelto un piccolo nucleo di opere caravaggesche (quelle che più parlavano alla loro sensibilità) e hanno provato a riproporle in fotografie stampate in dimensioni identiche ai rispettivi modelli: ma, prima ancora, a trascriverle in un nuovo linguaggio mentale e formale. Nel far questo, essi si sono dati una regola che appare alla stregua di una precisa scelta di campo: rinunciare alle infinite possibilità della fotografia digitale, e ai ‘trucchi’ virtuosi della post-produzione informatica. E questo significa che ciò che oggi vediamo è esistito, letteralmente identico, nel loro studio. Non solo le composizioni, le pose dei modelli e gli oggetti: ma anche l’incidenza della luce, le ombre dei panneggi, le gradazioni cromatiche. Ed è precisamente per questo motivo che tali opere non hanno un sapore Pop o New Dada: cioè non appaiono serializzazioni, oggettivanti o estranianti, degli originali caravaggeschi. Né si avverte in esse l’atmosfera (peraltro geniale) da messa in scena che permea i quadri viventi del film di Derek Jarman, o il respiro patetico dell’iperrealismo visuale con cui Bill Viola ha dialogato con altre opere della tradizione figurativa alta. Se si dovesse evocare un precedente, verrebbe piuttosto alla mente il Pasolini neorealista della Ricotta. La cosa che più impressiona, in queste opere, è la capacità di svelare la propria genesi attraverso un assetto formale perfettamente chiuso, e anzi come smaltato. Descrivendo la Maddalena pentita di Caravaggio, Giovan Pietro Bellori scrisse (nel 1672) che: «Michele […] dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno, in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena». Se si deve descrivere una ‘storia senza azione’ – un fotogramma – sembra dire Bellori, non si può che descriverne la genesi figurativa, andando così al cuore del problema. Che le opere d’arte parlino di se stesse e della loro nascita, e cioè che rappresentino, più o meno trasparentemente, la situazione materiale e intellettuale della loro creazione, è un fenomeno tipico dell’arte moderna (da Goya a Manet, da Courbet a Picasso), e le cui origini siamo abituati ad associare ad alcuni famosi dipinti di Velázquez (come Las Meninas) o di Vermeer (L’atelier). Ma tutto ciò esiste in nuce nelle opere del ‘padre’ di Velázquez e Vermeer: Caravaggio. Il Bacco o, appunto, la Maddalena pentita, non nascondono, ma esplicitano e narrano nei dettagli la loro genesi. E il vero protagonista è lo studio dell’artista, con i suoi modelli, i suoi oggetti di scena, la sua luce accuratamente orientata. L’artista, in un modo aurorale ma decisivo, entra nel quadro: non ne uscirà più. Ecco, queste fotografie parlano della loro creazione in termini non lontani: ed è proprio in ciò – ancor più che nella trascrizione diretta dei singoli testi caravaggeschi – che avvertiamo la capacità di leggere, formalmente e moralmente, Caravaggio. Ma cosa vogliono dire queste opere? Qual è il significato di ogni variante? È un commento a Caravaggio? È un’attualizzazione, un dialogo, una negazione?
Ogni spettatore potrà provare a trovare le proprie risposte, notando richiami interni talvolta assai penetranti, come nel caso della Cena in Emmaus, che torna ad essere un tavolo di giocatori, esplicitando la radice di genere della pittura sacra di Caravaggio, ed anzi lo stesso abbattimento dei confini tra i generi: vale a dire il nocciolo più durevole della rivoluzione caravaggesca. Tuttavia, uno dei pregi di questi lavori è che essi conservano la stessa ambiguità delle opere cui si ispirano: di fronte ad essi proviamo lo stesso imbarazzo e la stessa incertezza che sentiamo di fronte ai prototipi. Queste fotografie non vogliono ‘spiegare’, né tantomeno tradurre o concettualizzare, Caravaggio: vogliono provare a conoscerne, e perfino a parlarne, la lingua. Una lingua formale, non concettuale. Si tratta di parlare con Caravaggio, più che di Caravaggio: ed è un dialogo non di rado assai più delicato e profondo di quello di cui sono capaci gli storici dell’arte. Di fronte a queste opere si avverte che qualcosa si può ancora salvare dalla universale nullificazione del marketing: nonostante il caos, è ancora possibile sentire Caravaggio. Sentirlo vivo.
Tomaso Montanari
Canestra di frutta /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 47x31
Caravaggio, Canestra di frutta, 1595 circa Olio su tela, 47x31 cm Milano, Pinacoteca Ambrosiana «La cestina comune dell’affittacamere, colma di frutta a buon mercato» (Roberto Longhi, 1952). Il più feriale, il più umile, il più banale dei soggetti: una canestra di frutta matura, appoggiata, un po’ in bilico, su un tavolo. E nient’altro: solo uno sfondo neutro. Ma la costruzione dello spazio e l’uso della luce costruiscono una solennità e una monumentalità che non potrebbero esser maggiori nemmeno se il soggetto fosse il Padreterno in persona. L’espressione italiana «natura morta» traduce quella fiamminga «still-leven», che persiste per esempio nell’inglese «still-life»: vita ferma, modello immobile, in opposizione al modello vivo dei quadri di figura. Ebbene, l’unica natura morta sicura di Caravaggio abbatte proprio questo confine convenzionale: questa natura è viva, è presente, è attuale proprio come una persona. Ma la Canestra di frutta annulla un confine ancora più importante: quello della gerarchia tra i generi della pittura. L’unica ‘teoria artistica’ sicuramente riferibile al Merisi è tutta racchiusa in una frase tramandata dal suo protettore Vincenzo Giustiniani: «e il Caravaggio disse che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori come di figura». Non conta, cioè, il soggetto, ma il dipinto: un cesto di frutta vale come una Madonna, e ciò che conta è la «manifattura», cioè l’arte. E questa - ancora aurorale - scissione tra contenuto e forma, tra funzione e stile, è carica di futuro, e costruisce la vicenda dell’arte moderna, fino a noi. E il primo padrone della Canestra, cioè il cardinale Federico Borromeo (sì, quello dei Promessi sposi) comprese molto bene che il punto non era cosa si vedeva, ma come lo si vedeva. Egli avrebbe voluto commissionare ad un altro pittore un’altra natura morta che facesse coppia con quella di Caravaggio, ma confessò che «poiché nessuno riuscì a pareggiarne la bellezza e l’incomparabile eccellenza, la Canestra rimase sola». Qualcuno ci riuscirà, ma solo molto tempo dopo: e si chiamerà Chardin, Cézanne o Giorgio Morandi.
Tomaso Montanari
"... posso ancora succhiare quelle energie che mi permisero, un tempo, di esibirmi in scintillanti varietà, storici festival della nostra canzone, caroselli e gloriosi giochi di pallone... quante ne ho dette di cose IO!!! integerrimo portatore d'infomazione e umile servitore di schizofrenici padroni. Indefesso lavoratore, composto e discretamente equipaggiato di rotelline, mi adattavo alle esigenze visive di chi dovevo sollazzare. Mi esprimevo poeticamente tra sfumature di grigio... sono nato per essere un animatore IO, eppure son senz'anima... quanto tempo è passato dalla prima trasmissione!!!... ora sono un saggio nonno tecnologico, triste a pensar a ciò che il passar degli anni ha fatto del mio ruolo... come pensavo diversi i propositi che mi videro ideato!!! vorrei poter combattere e difendere la mia dignità, quella preziosità insita nelle mie fattezze, così nobili d'ingegno e non di certo ridicole, seppur superate. Se è vero che pensare significa essere... cosa sono IO che trasmetto il NON pensiero di altri nel quale NON posso riconoscermi e dal quale NON mi è permesso liberarmi? Cosa porto e a CHI porto ciò che porto? Contenitore di chincaglieria inutile e pacchiana, accumulatore di pochezza... ECCO COSA SONO ORA! Costretto a spinger via dal mio tubo catodico, digerente, queste copiose scorie puzzolenti. Mi vergogno sovente del maleodor d'immagini che, mio malgrado, mi tocca emanare e il mio unico sollievo m'accorgo oggi di goderlo al solo momento dello spegnimento, quando mi chiudo in me... lasciando restringere una traccia della mia luce bianca... che diventa un rettangolo che si assottiglia piano... a diventare un filo... che poi si stringe... fino a restare un punto... Come trovo imprudente e crudele colui che in famiglia si accinge a riattivarmi, torturatore spietato e inconsapevole vittima del mio infausto destino! E pensar che delle rotelle di cui mi hanno dotato non posso farne uso per spostarmi... se solo potessi averle come pattini... potrei sperare in un movimento tellurico liberatorio e salvifico che mi spinga ancor più sul ciglio della credenza e mi abbandoni alle forze di gravità... che bel finale sarebbe per me... "EROICO FU IL SUO SACRIFICIO PER LA PATRIA" potrebbe essere il mio epitaffio, oppure "L'ATTO CONCLUSIVO DI UNA TV RESPONSABILE" potrebbe essere il mio necrologio su un quotidiano!!! ...ma no!!! QUESTI SONO SOLO I MIEI SOGNI, quelli di un oggetto senz'anima che vorrebbe salvare il mondo e che non può... condannato ad un’esistenza meschina dalla quale non può sottrarsi!!! ...ma concedetemi un appello, a tutti coloro che hanno un cuore per udire il mio lamento chiedo: VI PREGO ABBIATE PIETA'... STACCATEMI LA SPINA!!!"
Ornella Cosenza /psicologo
Suonatore di liuto /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 119x94
Caravaggio, Suonatore di liuto, 1595-96 Olio su tela, 119x94 cm San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage Caravaggio dipinse «un giovane che sonava il lauto, che vivo e vero il tutto parea, con una caraffa di fiori piena d’acqua che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgeva, con altri ripercotimenti di quella camera dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finita. E questo disse che fu il più bel pezzo che facesse mai» (Giovanni Baglione, 1642). La sfida di Caravaggio - sulle orme di Giorgione e del giovane Tiziano - è quella di bloccare per sempre nella luce e nel colore non solo una frazione temporale di ciò che cade sotto lo sguardo, ma addirittura la musica e il canto. Ed è forse l’ambiguità la vera chiave di questo quadro: e non solo quella dell’identità del protagonista (che già nel Seicento veniva talvolta scambiato per una donna), ma quella, più radicale, dello statuto stesso della rappresentazione visiva di un suono. E, d’altro canto, uno dei madrigali i cui spartiti sono squadernati in primo piano, cioè in faccia allo spettatore, s’intitola «Chi potrà dire quanta dolcezza provo?». La sensazione della viva, tangibile presenza del musico e degli oggetti - determinata dalla luce di Caravaggio - si scontra dunque con un senso di radicale incomunicabilità: come è possibile rappresentare in pittura, e dunque fermare per sempre in figura, la musica e le sue emozioni? Appunto: «chi potrà dire»?
Tomaso Montanari
♫ Nascosto in evidente mostra agli occhi del creato / Mi vedi? Sono io. lI suonatore di Liuto. Si. Ti vedo. E ti riconosco. A lungo sono stato ciò che tu eri e, per certi versi, ciò che tu sei. Riconosco le tue poche primavere ed i tuoi tanti dubbi. Ma cosa ti turba? ♫ A lungo sono stato ricercando un’armonia / che rivelasse al mondo l’evidente nostalgia Di chi vedeva un tempo nascosta tra le carte / gli sprazzi della vita nelle nature morte Mi trovo qui a suonare desideri malcelati / ricordi di una vita che non sono mai cresciuti E come puoi avere ricordi già maturi se ancora è tanta la strada che hai da fare? Devi aver fiducia nell’avvenire: se darai tempo al tempo, il tempo qualcosa ti darà. Ce n’erano alcuni, di tempi, non troppo lontani, in cui le cose erano diverse... In cui potevano apparire più facili. Ma non erano più facili: erano solo diverse. Le persone stavano insieme e condividevano di più, ma non avevano le possibilità che ora tu hai. Non darti pena se ora ti senti solo. ♫ Non sono solo in questo spazio che tutto circonda / ho addosso il vostro sguardo che nel petto affonda Con che parole e modi potrò chiedere aiuto / io che sono solo un suonatore di liuto? Non pensare a cosa puoi chiedere e cosa puoi dare. Perché la vita non è solo un prendere e donare. La vita è condividere e partecipare. Nella condivisione ci sono già entrambe le cose. Devi solo aver la forza di essere ciò che sei, non ciò che credi di dover essere. L’idea che hai di te è tutto quello che hai e ti ci sei abituato. Ma è un inganno: spesso siamo abituati a vivere all’inferno da aver paura del paradiso. ♫ Sei certo nel profondo che son queste tue parole / a spiegar la differenza tra la gioia ed il dolore? Alla fine non credo che ci siano parole più utili dei fatti. Le parole possono raccontare ma non sempre riescono a spiegare. Vedo la tua sfiducia accartocciata in pensieri all’ombra di fiori di plastica. E le dita incerte sul tuo insolito liuto. Ma è questo che sei e se lo sarai davvero allora tutto avrà senso nell’essere vissuto. Null’altro ho da dirti se non che spesso siamo costretti solo da noi stessi. E’ un cammino verso la libertà ed ogni cammino è degno di essere scelto e percorso. E non ti preoccupare se è la scelta sbagliata: tanto quella giusta non ti era piaciuta. ♫ Vedrò cosa riserva il mio prossimo futuro / percorrerò il cammino con passo più sicuro Coi modi dell’artista vi canto il mio saluto / Vi ringrazio, servo vostro, il suonatore di liuto. Alan /cantautore
Giuditta e Oloferne /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 195x145
Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1599 circa Olio su tela, 195x145 cm Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini «Rimase sola Giuditta nella tenda, e Oloferne buttato sul divano, ubriaco fradicio. […] Avvicinatasi alla colonna del letto, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “Dammi forza Dio d’Israele in questo momento”. E con tutta la forza di cui era capace, lo colpì due volte al collo, e gli staccò la testa. Indi ne fece rotolare il corpo giù dal giaciglio, e strappò via le cortine dai sostegni. Poco dopo uscì, e consegnò la testa di Oloferne alla sua ancella» (Giuditta, 13, 2, 6-9). Caravaggio cava dal fondo nero ogni dettaglio della scena biblica: Oloferne riverso sul divano, la grande cortina rossa, la vecchia ancella in attesa, e soprattutto lei, Giuditta, che brandisce la scimitarra con una forza non terrena. E poi il sangue: soprattutto il sangue, che sgorga a fiotti, quasi a lordare perfino lo spettatore, di qua dalla tela. «Il delicato e l’avventante di questa ‘Fornarina del naturalismo’ reggono a stento (e se ne schivano, infatti) al terrore enorme del gigantesco scannato e del tendone sanguigno che incombe sul fattaccio» (Roberto Longhi, 1952). Questo quadro illuminò di un senso nuovo un passo celeberrimo della Poetica di Aristotele: «Dalle imitazioni tutti ricaviamo piacere. Ne è indizio ciò che avviene nell’esperienza. Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà, godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri». Nell’epoca del trionfo dello splatter tutto questo ci sembra perfino ovvio: come non pensare a Tarantino, vedendo la Giuditta? Ma già i contemporanei di Caravaggio lo capivano perfettamente, e dicevano, con Giovan Battista Marino, «ch’ancor tragico caso è caro oggetto, / e che spesso l’orror va col diletto».
Tomaso Montanari
S.1 EST. SERA V.O. DONNA/CRONACA FUORI DAL RISTORANTE S.2A EST. SERA/TITOLI DI TESTA S.2B EST. SERA/CASA RUGGERI S.3A INT. SERA/STUDIO
S.3B INT. SERA/CASA RUGGERI S.3C INT. SERA/CASA RUGGERI
S.4 EST. NOTTE/CASA RUGGERI
RUMORI DI SPARI S.5 INT. GIORNO AULA DI TRIBUNALE V.O. DONNA (la stessa di prima):
STACCO CARTELLO: "3 anni dopo" S.6 INT. SERA/TEATRO
V.O. DONNA/MARINA RUGGERI
Una panoramica scopre un gruppo di persone che esce festosa dal ristorante. E' da poco passata la mezzanotte quando Federico Ruggeri, cinquantacinquenne industriale del legno, torna a casa dopo una cena con i calciatori ed i dirigenti della società di cui è presidente. Seguiamo un'auto che passa per vie di campagna fino a giungere ad un casale. Federico Ruggeri in auto ascolta Brahms: Clarinet Quintet In B Minor, Op. 115 - 4. Finale: Con Moto. Anche se è tardi si è rimesso a lavorare alla sua scrivania quando nel buio si sente chiamare. MASCIA: "Papà!" Federico si volta ed immediatamente viene raggiunto da una pallottola che gli ferisce la mano. Dalla penombra appare Mascia, sua figlia. Una ragazza di 17 anni, esile, dolce, timida. Ha in mano la pistola del padre. FEDERICO: "Mascia..." Mascia avanza verso di lui fissandolo negli occhi, non dice una parola, si guardano solo, ma nel suo sguardo c'è tutto l'odio ed il disprezzo per il padre. Rosa spia dal corridoio FEDERICO: "Mascia! Avanti, adesso basta...dai...ridammi la pistola." Ma Mascia sembra non sentirlo neanche, ora l'odio ed il disprezzo si sono trasformati in determinazione, fa un cenno con la testa. Rosa entra nella stanza, senza dire una parola si avvicina a Mascia con indosso i guanti di gomma. MASCIA: "Nonna hai preparato tutto?" ROSA: "Sì, la camera da letto è sotto sopra, al salotto penserò dopo, tua madre si è raccomandata di non metterci più di quindici minuti." MASCIA: "Ok, quanti ne abbiamo ancora?" Un carrello circolare scopre il volto di Mascia Ruggeri seduta al banco dei testimoni. "Dopo aver sparato tre colpi al padre, Mascia e Rosa hanno buttato la pistola ben pulita nel pozzo." MASCIA (con aria affranta): "Sì vostro onore. Dormivo. Io dormo al piano di sopra, lontano dallo studio. Ricordo solo di essermi svegliata con il rumore degli spari. Sono corsa giù di sotto ho trovato il salotto sottosopra, ho cominciato a chiamare mamma e papà. Sono andata nello studio ed ho trovato mio padre. Poi è arrivata la polizia. La mamma è arrivata più tardi, era a giocare dalle amiche, come tutti i venerdì sera." ROSA: "Vostro onore, io prendo il sonnifero per dormire, una volta che crollo è il caso di dirlo...manco con gli spari mi sveglio! Comunque... quando mi sono svegliata ho sentito Mascia che urlava, sono corsa e l'ho trovata lì ai piedi del padre che piangeva disperata, povera creatura." MARINA: "Ancora non riesco a crederci...ancora non riesco a credere che sia successo a noi!" Il teatro è pieno e sul palco si sta svolgendo una premiazione. PRESENTATORE: "Il premio miglior attrice protagonista va a...Mascia Ruggeri! Per il film “Era mio padre!” Mascia si alza e si appresta a ritirare il premio sotto gli scatti dei fotografi ed il clamore del pubblico. La Mdp indugia sul pubblico fino ad inquadrare Marina Ruggeri che applaude alla figlia felice. Lo so cosa state pensando: questa ragazza è un mostro! Ma non è così, Mascia è una gran brava ragazza e ha sempre dato grandi soddisfazioni a suo padre. Ma nonostante lei facesse di tutto per compiacerlo, lui in realtà non l'ha mai capita veramente. Io invece ho saputo subito che sarebbe diventata una stella. Ad ogni modo ora eccola lì la mia stella che brilla! Ho sempre sognato di vederla lì su di un palco a prendersi tutti i suoi meritati applausi! Io? Io sono sua madre. Maria Cristina Sansone /montatrice-regista
Cena in Emmaus /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 196x141
Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601-02 Olio su tela, 196x141 cm Londra, National Gallery «Allora si aprirono loro gli occhi, e lo riconobbero» (Luca, 24, 31). Quale miracolo poteva essere più adatto al Caravaggio che quello di vedere la Salvezza con i propri occhi? La sera del giorno di Pasqua, due discepoli in fuga da Gerusalemme riconoscono Gesù mentre benedice e spezza il pane: un Gesù trasfigurato dalla resurrezione, misteriosamente sbarbato. Ma non un fantasma: un corpo in carne ed ossa, come dimostra l’ombra scura che getta sul muro dell’osteria di Emmaus, e che è forse il passaggio più indimenticabile di questo quadro. «Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno», dice il Vangelo. Ma chi dopo aver visto questo quadro può davvero dire di non aver visto il Cristo risorto? Proprio qui, nella realtà più quotidiana e naturale di una scena di osteria, tra un pollo arrosto e una canestra di frutta (come sempre in bilico sul tavolo), si rivela la scoperta che spacca in due la storia dell’umanità: la morte non è più definitiva, la morte è ormai vinta. Caravaggio ferma per sempre quella frazione di secondo, cristallizzandola nella luce e nel colore: il discepolo alla nostra sinistra, sbalordito, afferra la sedia con tutte e due le mani, e sta per scattare in piedi; l’altro, segnato dalla conchiglia dei pellegrini, allarga le braccia in croce in un’esplosione di stupore che diventa professione di fede. Ma non tutti gli occhi vedono: quelli dell’oste, in piedi dietro il Cristo, appaiono persi nel vuoto. E i nostri, di occhi, cosa vedono?
Tomaso Montanari
Sto scendendo in bici da una montagna dei Simbruini, ho già percorso una settantina di km...ma il grosso della fatica è fatto, comincia la discesa! Ora sfreccio alla grande da Arcinazzo verso Piglio, Acuto, Paliano...ad Acuto mi fermo un po’...c'è un cimitero di Fuksas del '79...lo intravedo...umpff!...a Paliano c'è la palestra con la facciata pendente...’sticazzi, già vista...vado dritto! Arrivo alla stazione di Anagni, prendo un giornale locale, un caffè e una sfogliatella...la testa va all'articolo su Caravaggio...me lo chiedono in forma diversa dalla recensione che ho già scritto, più simile ad un racconto...ma come posso trasformarla in un racconto?...mi ci vorrebbe un escamotage!...potrei introdurre il testo citando il passo della Bibbia che parla della Cena in Emmaus, servirebbe da premessa alla reinterpretazione caravaggesca delle Historie sacre...uhmm...così ricado nella recensione...ci vuole altro!...boh? Intanto sfoglio il giornale, "Cronache Cittadine" edizione Nord Ciociaria: "...Le case al mare costano di più quest’anno...l'Olimpiade di Roma del '60...gli Starbucks Cafè non riescono a prender piede in Italia...", che notizie!...poi leggo: "A Paliano una singolare mostra: Caravaggio in Fotografia..."...che tormento!...sì vabbè, ma perché a Paliano? "...perché il maestro lasciò il segno anche in questa città, portato da Sciarra Colonna dopo aver ucciso Il Tomassone. Qui, nel Forte Colonna dipinse, nei due mesi trascorsi nel 1606, La Maddalena in Estasi e la Cena in Emmaus..." quella di Brera quindi!...la seconda versione...eppure la foto mostra la prima che è del 1602...lo so perché è proprio quella di cui dovrei scrivere...A Paliano si sbagliano!...eh sì!...perché c’è una bella differenza...nella seconda Cena il Cristo è più sofferente, più provato, specchio di un uomo in fuga dalla forca, anche la composiz...eh no, caro mio!...così mi ricadi nell’analisi artistica...non va...allora provo a sostituire un po’ di cose...per esempio...e se il Caravaggio fosse oggi un uomo su cui pende la pena di morte?...chi sarebbe e dove troverebbe rifugio? Minchia! Non potrebbe essere iddhru nu mafiusu ca si nascunna dalle guardie?...ma sì!...In fondo ‘sti signorotti locali del ‘600 chi erano, se non gli antenati dei mafiosi attuali...pensa: ...potere politico...finanziario...ville immense...castelli...e uno stretto legame familiare! Ed eccolo lì, il nostro eroe, ospitato all’interno del loro covo, che poi non sarebbe altro che un magazzino pieno di scatole di telefonini cinesi...pensa che palle...tutto il giorno nascosto...gli potrebbe venir voglia di dipingere un quadro...per esempio sostituendo soggetti sacri con mafiosi latitanti sorpresi in un dopo cena...pizzini e bicchieri di plastica sporchi di cantucci e vino; la tavola imbandita su un quadro rubato...forse una crosta del ‘600...una vecchia tv portatile su cui seguire “Chi l’ha visto?”...una capesanta come posacenere...e la benedizione?...è un tiro di dadi! Eh sì però...questi non sono modelli...chissà che fatica farli stare in posa...pensa a quello con le braccia divaricate... dovrebbe ingessarlo per fagli tenere ‘sta posa...questi so’ tipi che s’incazzano!...e poi volano coltellate...e sì che “il Nostro” si saprebbe difendere e, per dirla tutta, è anche lui un po’ incazzoso!...Meglio cambiare aria...andare a sud...verso Napoli, dai nobili Casalesi...ospite del Marchese di Castelvolturno e Gran Cavaliere di Scampia, Francesco Schiavone detto Sandokan...o in Sicilia dal Duca di Salaparuta, o ancora più a sud... da Totonno ‘o Maltese!...mah! Comunque a Paliano per fortuna hanno sbagliato cena!...Che stanchezza...c’ho le gambe frolle...la bici si fa sentire...arrivato a Roma scriverò di queste fantasie...mi dispiace cestinare la vecchia versione dell’articolo ma in fondo c’è già chi ne scrive...però, la citazione iniziale la tengo!...magari la metto alla fine... "...ci sono stati in tutti i tempi dei pittori realisti che sono stati grandi artisti. Non perché abbiano riprodotto la realtà empirica in modo illusorio, ma perché l'hanno reinterpretata, e cioè veduta e sentita a seconda della loro fantasia, dandone ciò che a loro sembra essenza!..." L. Venturi, il Caravaggio, 1951 Pier Luigi Ventura /architetto
Amore vincitore /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 113x156
Caravaggio, Amore vincitore, 1601-02 Olio su tela,113x156 cm Berlino, Staatliche Museen Un ragazzino nudo su un letto sfatto, sfrontatamente scosciato, quasi a parodiare la posa di uno dei santoni terribili del Giudizio di Michelangelo. Due grandi ali scure gli crescono sulle spalle, nella destra stringe un arco e due frecce, mentre ai suoi piedi si stende una delle più belle nature morte dell’arte universale. È Cupido, l’Amore carnale e profano della mitologia classica, che tutto sottomette e tutto vince: il potere (la corona e il bastone di comando), la guerra (la corazza), le arti (la squadra e il compasso dell’architettura, gli spartiti e gli strumenti della musica), la poesia stessa (il manoscritto e la penna coronati dall’alloro), e infine addirittura l’universo intero, rappresentato dalla sfera celeste su cui poggia, beffardamente, le terga. Nel colore e nella luce di Caravaggio anche l’astratta allegoria dell’amore che tutto vince riesce ad incarnarsi. Letteralmente: si fa carne. Il trionfo dell’amore è un trionfo della carne e dei suoi desideri: un trionfo sullo spirito, sull’intelligenza, sul potere. Caravaggio dipinge l’Amore vincitore per Vincenzo Giustiniani, e il nome del mecenate dovette pesare: Vincentius, cioè che vince. Ma qual è l’esatta declinazione di questo possibile significato: è l’amore di Vincenzo che tutto vince? O anche il vincitore Vincenzo si abbandona, e si lascia vincere dalla seduzione dolce e perversa di questo ragazzino? Difficile dirlo. Più facile accertare il carattere programmatico del quadro, che rappresenta alla lettera un celebre emistichio delle Bucoliche di Virgilio: «Omnia vincit amor» (Tutto vince l’amore). Esso non può dunque che suscitare nell’anima di ogni spettatore colto la memoria dell’altra metà dello stesso verso: «et nos cedamus amori» (anche noi, dunque, cediamo all’amore). Ed è davvero impossibile immaginare una celebrazione più estrema e intensa della libertà sensuale e neopagana che era il privilegio di una parte non piccola dell’élite della Roma papale.
Tomaso Montanari
Vincenzo aspetta, nudo e schietto; ha tra i piedi un lembo di lenzuolo e gl'indumenti, suoi e della ragazza, che nervosamente ha pesticciato. Adesso è calmo; e aspetta che anche lei si calmi; o che si sfoghi… e insomma esca dall'ombra e ritorni nel letto tempestato (e anzitempo disertato). Assume, nell'attesa, l'attitudine ribalda e rilassata del Cupido caravaggesco, nel famoso quadro intitolato "Omnia vincit amor" ovvero "Amore vincitore", che il Merisi ha dipinto più di quattro secoli fa per un antenato di Vincenzo (il marchese Vincenzo Giustiniani: suo omonimo per l'appunto). Lui in verità si rende conto di assomigliare se mai a Checco Boneri, il modello e garzone di Caravaggio. Ha poco o nulla di aristocratico, ma di Cupido ha, certamente, il "physique du rôle"; e anche se, al momento, non ha ali, ne serba il ricordo… E una reliquia, un ruffello di piume, una manciata che ha appena mostrato alla ragazza… Serafico, e un po' sovreccitato, Vincenzo ha detto, ed ha insistito - e garantito! - , a costo di farsi prendere per matto, che sono le sue angiolesche piume: è rimasto senz' ali che era piccolo, ma avverte, ancora, un solletico, alle scapole: si gratta, e si strappa, ogni volta, qualche penna. Del resto, oggi ci sono altri modi di volare. Questa storia di ali e piume, Vincenzo la racconta a ogni ragazza; o almeno a tutte quelle che gli piacciono. E tutte si divertono, o s'inquietano… Ma poi lo vedono, che è serio, che è affidabile: gli piace raccontare - e impressionare - , ma non dimentica mai il preservativo… Il fatto inedito è che ce l'ha da un'ora, o forse due: sempre lo stesso, e sempre asciutto; e intanto spiega alla nuova fiamma che ovviamente, beh, scherzava, e le penne le ha prese dal cuscino… Lei, ancora un po', sta sulle sue, ma via via si tranquillizza; e finalmente esce dall'ombra - strigando, con tutt'e due le mani, un pandemonio di capelli - e lo sogguarda. Vincenzo ci tiene alla ragazza, anche se è poco spiritosa… Butta le penne, le lascia svolazzare; ma il preservativo non lo butta, figuriamoci. E aspetta: sta lì, a piè fermo; e lei è un'onda che in punta di piedi tocca il lido e con un chioccolio si sdà e s'adagia. "Omnia vincit Vincentius". Ma… un momento! Forse non è così sciocca, la ragazza. Forse intende prolungare il gioco: però, a suo modo; gli dice: "Lascia perdere le penne; io ho paura di volare. E dimmi, a frecce come stai?" La bilancia torna in pari e, di nuovo, "omnia vincit amor". Al dunque, Vincenzo è vulnerabile. Sa evitare il rischio del contagio… ma sa qualcosa di tutti gli altri - altissimi! - rischi dell'amore?
Livio Bruni /scrittore
Madonna dei Pellegrini /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 150x260
Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, 1604-05 Olio su tela, 150x260 cm Roma, Sant’Agostino, Cappella Cavalletti La Madonna si affaccia sulla porta della sua povera casa, e - appoggiata disinvoltamente allo stipite, le gambe incrociate come una qualunque popolana - porge il figliolo ormai grandicello alla devozione di due pellegrini più poveri di lei. Davvero la Vergine Maria appare «ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia» (Baglione, 1642). Se questo quadro si conservasse - poniamo - in un museo americano e se ogni memoria della sua provenienza fosse perduta, si faticherebbe non poco a spiegare un’invenzione iconografica e un’intensità esistenziale che sono rare, se non uniche per quadri di quell’epoca e di quel soggetto. Ma l’opera si trova per fortuna ancora sull’altare romano dove lo collocò Caravaggio, e le fonti e i documenti che si conservano permettono di inserire questa straordinaria immagine in un tessuto che torna a palpitare di vita davanti ai nostri occhi. Il committente, Ermete Cavalletti, era impegnatissimo nell’assistenza ai pellegrini che sciamavano a Roma, e a sua volta partecipò - poco prima di disporre della propria cappella e della propria tomba in Sant’Agostino - ad un’intenso pellegrinaggio a Loreto. Fu forse in seguito a quell’esperienza che egli decise di affidare la propria salvezza eterna proprio all’intercessione della Madonna di Loreto: ed è proprio alla Santa Casa di Nazareth (una povera casa in laterizi) che tradizionalmente si venera nel santuario marchigiano che allude alla porta da cui si affaccia la Vergine nel quadro di Caravaggio. E, naturalmente, i pellegrini in abiti moderni alludono scopertamente allo stesso Ermete. Ma la Madonna dei Pellegrini non tramanda solo la devozione del committente, bensì anche la libertà del suo creatore. Raccontano le fonti che «Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca [Caravaggio] fece una Madona di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia; e per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura haver dee, da’ popolani ne fu fatto estremo schiamazzo» (G. Baglione, 1642). È assai probabile che il ‘naturale’ dal quale Caravaggio ritrasse la Vergine Maria fosse il volto bellissimo di Lena Tognetti, una prostituta con cui aveva una relazione a quell’epoca. Ed è così che la Madonna a cui i pellegrini affidano tutte le loro speranze non appare come un idolo lontano, ma come una mamma qualunque, su una porta qualunque della Roma del primo Seicento.
Tomaso Montanari
“Ein Beruf ist das Rückgrat des Lebens” (Friedrich Nietzsche) Il lavoro è un'attività produttiva che implica l’impegno di energie fisiche o intellettuali. Lo scopo del proprio mestiere o della propria professione è di procurarsi dei beni essenziali o superflui e di soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Il valore monetario di tale esercizio viene riconosciuto attraverso lo stipendio. Ma il lavoro è più di una necessità di sopravvivenza e più del contrario del tempo libero. Il lavoro ci da un’identità e ci integra nella società. “Aujourd’hui, ce sont les jeunes qui sont pauvres” (Louis Chauvel, Nouvel Observateur) Esistono sempre più lavori atipici. Stage, part-time, co.co.co e co.co.pro non permettono più di vivere dignitosamente, ma solo di sopravvivere a malapena. Di conseguenza per i trentenni di oggi è quasi impossibile avere una casa propria, una macchina o addirittura mettere su famiglia. Per la generazione dei nostri genitori invece valevano ancora le regole d’oro: “Non c’è pane senza pena” e “Chi ben lavora, ben raccoglie.” “Die Generation Praktikum” (Matthias Stolz, Die Zeit) Paradossalmente si richiede ai giovani proprio ciò che per forza di cose non possono avere: l’esperienza professionale; che nonostante i numerosi stage non o mal pagati e le conoscenze linguistiche, informatiche e interculturali non riescono ad acquistare. Senza la quale però, non bisogna neanche bussare alla porta di un datore di lavoro potenziale. “La Generación de los Mil Euros” (Carolina Alguacil, El País) Soprattutto i neolaureati si trovano in un mercato del lavoro che è sottomesso ad un processo di precarizzazione. Sono molto più qualificati dei loro genitori e più qualificati di tanti coetanei, ma estremamente sottovalutati. Chi arriva ai 1000 Euro mensili, può anche ritenersi fortunato. “Generation Praktikum - Mythos oder Massenphänomen?“ (Bundesministerium für Arbeit und Soziales) Chi non riesce a sorpassare questa prima soglia, naviga direttamente verso il “proletariato accademico”. E questo vale per tutta l’ Europa. Non esistono dati attuali, ma per anni si parlava di “solo” 4 milioni di giovani fra i 25 e 35 anni in Italia. Le pubblicazioni dell’Agenzia delle Entrate del 2008 hanno svelato invece che si tratta della metà della popolazione. “Do what you can, with what you have, where you are.” (Franklin Delano Roosevelt) I milleuristi di tutta Europa, della Corea e del Giappone s’incontrano, si scontrano e si confortano sulla piattaforma generazione1000.com. Di soluzioni ce ne sono due: adattarsi e accettare anche lavori più umili o andarsene e cercare la fortuna altrove. “Mah, siamo in crisi ma, senza andare in là, l’America è qua!” (Adriano Celentano, Svalutation) Davanti alla lavapiatti Maria si sono inginocchiati due giovani. Per loro Maria simbolizza la speranza di essere arrivati finalmente alla meta, dopo un lungo pellegrinaggio in cerca di lavoro e dopo l’investimento di intelletto, tempo e soldi. Ma la speranza è l’anticamera della delusione. E così i nostri laureati offrono a Maria il sacrificio della loro dequalificazione e declassificazione. “La reprise c’est tellement avant-gardiste.” (http://aldentelacrise.com) Evelyne Spörndle /sociologa
Ritratto di un cavaliere di Malta /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 95,5x118,5
Caravaggio, Ritratto di un Cavaliere di Malta, 1608-09 Olio su tela, 95,5x118,5 cm Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti Velázquez e Rembrandt - vale a dire i due più grandi seguaci di Caravaggio - innalzarono il ritratto sopra ogni altro genere pittorico, e lo condussero a vette forse mai raggiunte dall’arte universale. Ciò indurrebbe a credere che la rivoluzione caravaggesca avesse investito e rinnovato anche il modo di dipingere ritratti: ma si deve confessare che è proprio il ritratto (cioè il genere più costitutivamente naturalista) quello che ancora continua a sfuggire dalle maglie degli studi moderni dedicati al Merisi. D’altra parte, il biografo più intelligente di Caravaggio, Giulio Mancini, scrisse che egli non riusciva a fare i ritratti ‘simili’: forse nel senso che li faceva ‘veri’, e che il committente non si riconosceva in tanta, inusuale verità. Se si esclude l’accigliato, indimenticabile donatore della Madonna del rosario di Vienna, l’unico ritratto che oggi si possa attribuire al Merisi con qualche certezza è proprio l’ardente Cavaliere di Malta conservato a Palazzo Pitti. Che si tratti di un quadro dell’ultimo Caravaggio non lo dice solo il fatto che il protagonista (forse il fiorentino Marc’Antonio Martelli) è un cavaliere di Malta, ma soprattutto lo stile: il volto mezzo in ombra, lo sguardo che non cerca il nostro, le mani incompiute, la pelle arsa e rossiccia. E poi la cosa più indimenticabile del quadro: la grande croce di raso bianco, inzuppata di luce, che sembra sollevarsi sul torace nerissimo del cavaliere. Inutile provare a penetrare i nascosti pensieri di questo cavaliere di Malta - insieme presente e sfuggente -, che con la mano destra sgrana il rosario, con la sinistra impugna la spada e che ostenta ancora il buco all’orecchio che fino a poco prima doveva ospitare un gioiello da vero pirata della fede.
Tomaso Montanari
Vengo dall'ombra e guardo nell'ombra, mi avvicino alla luce e in luce di specchi lascio le mie parole come pelle di tela e di carta ed i simboli che porta la mia vita e il mio intento. Tu che sei copia e parola di critica non ti distrarre ai pani ripieni e mai moltiplicati, alle vuote uova a cucinare e poi voi anche voi!!! Sì, sì, dico a voi, non presenziate il vostro osservare solo per deglutire l'offerto masticabile e le fontane di beveraggi d'ogni colore. Al vostro respiro, se è tale, dovreste attivare gli stimoli del godere degli occhi e pensieri e non solo gli stimoli della panza e sopra. Lo stesso Buffet come Abbuffet se fosse posto in penombra e si aprisse solo alla luce e movimenti dell'artista lo potreste solo contemplare e divorarlo con soli occhi, senza rivalità e con il timore di toccarlo per non offendere la storia, le passioni creative, le verità anche sotto le briciole e le trame della tovaglia. È scoperto infine questo malumore di crema, questo montaggio d'olio al giallo paglierino che così si è liberamente depositato, catapultato per una distrazione, magari per pura ingordigia a lodare l'opera del Maestro ed il suo sguardo. Tali distrazioni le conosce anche l'anima egocentrica insieme alla mia che non sdegna eguali, ingordo qua, ingordo là a gurgitare, annuire in complimenti decorativi; solo e con tutti, insieme tutti a sorriderci faccia a faccia con protesi e denti liberi da capperi, salse e pezzi di suini tagliati e salati al mare o dove sia. Attenzione però, perché questa è terra dove le menzogne si trasformano con lifting istantanei al contrario di rifacimenti plastici e l'onda porta altre onde.
Fulvio De Pellegrin /fotografo
Narciso /2010 . diapositiva 4x5" stampa fine art su carta hahnem端hle baryta cm 97x113
Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino (già attribuito a Caravaggio), Narciso, 1640 circa? Olio su tela, 97x113 cm Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini Ormai quasi tutti si sono convinti che il Narciso di Caravaggio non è di Caravaggio, ma dello Spadarino. La cosa non deve stupire: il lungo tramonto della «stella nera di Caravaggio» (R. Longhi), durato dalla metà del Seicento alla fine dell’Ottocento, ha precipitato nell’oscurità i contorni della sua opera, e oggi, dopo un secolo buono di studi fervorosissimi, ancora non li abbiamo ricostruiti del tutto. E, d’altra parte, la rivoluzione del Merisi convertì moltissimi artisti, che si fecero ‘naturalisti’ per seguirlo: ed è ovvio che i migliori dei loro quadri siano stati, e talvolta ancora siano, attribuiti al Maestro. E il Narciso - che è un autentico, altissimo capolavoro - non sarebbe stato nemmeno pensabile senza Caravaggio. La «fonte dalle acque argentate e trasparenti» delle Metamorfosi di Ovidio diventa un atroce lago nero, una pozza d’inchiostro che rinvia l’immagine del giovane bello, elegante e crudele che s’innamora di se stesso, e che si lascia morire per il dolore di questo amore impossibile. La cupezza infernale del quadro fa quasi pensare che lo Spadarino voglia rappresentare gli iperbolici versi in cui Ovidio immagina che «anche dopo, quando fu accolto dagli inferi, [Narciso] continuò a specchiarsi nell’acqua dello Stige». Il diabolico, inestirpabile amore per se stesso che conduce Narciso alla morte, e che nemmeno dalla morte è redento, spiega fino in fondo la seduzione di quest’opera sul nostro tempo, che proprio nella sfrenatezza del narcisismo riconosce una delle proprie cifre fondamentali.
Tomaso Montanari
Nel racconto mitologico Narciso era un giovane di incredibile bellezza che, in un mondo privo di specchi (quindi molto distante dal nostro), per eccesso di superbia respinse tutti coloro che si innamorarono di lui. Una notte, mentre era nel bosco, si accucciò su una pozza per dissetarsi e, vedendo per la prima volta la sua immagine riflessa, se ne invaghì perdutamente. A questo punto le fonti antiche discordano: alcune narrano la morte di Narciso per struggimento, altre per suicidio, ma la versione più suggestiva ed edificante ci garantisce che, nel vano tentativo di abbracciare la sua effige, Narciso scivolò nell'acqua e affogò. La stupidità del giovane vanitoso che riesce a morire in una pozza d'acqua è assurta nel tempo ad emblema di patologia psicologica, indicativa di un disturbo della personalità che si manifesta con lo smisurato amore di sé. Naturalmente, Caravaggio non sapeva niente del "narcisismo", e colse nell'episodio mitologico l'occasione per rappresentare la poesia tutta umana e carnale del desiderio e dell'infatuazione sensuale. Il pittore lombardo non scelse di evocare il momento dell'azione, cioè l'acme retorico e moralistico dell'affogamento, ma la magia naturale che la precede, quella che ancora oggi ci seduce osservando la delicatezza delle braccia di Narciso che si incontrano e si respingono, o la dolcezza esitante e stupefatta dello scoprirsi essere imperfetto, perché vulnerabile, e allo stesso tempo luce nel buio. Nella fotografia del soldato, invece, il "narcisismo" diventa palese argomento di confronto e giudizio. Un giudizio negativo, perché del Narciso rimane solo il titolo e il riferimento iconografico illustre, essendo scomparso il riflesso del giovane nell'acqua che definisce l'identità narrativa. E con il riflesso scompare l'amore e scompare la poesia: il giovane soldato dei nostri tempi è ferito a un ginocchio, si avvicina all'acqua per pulirsi e, sorpresa grandissima, in un mondo anche troppo riflesso da specchi (reali, virtuali, televisivi...) scopre che il suo corpo non proietta alcuna immagine. La nostra interpretazione si scinde allora in versanti dissociati. Il primo versante, quello più didascalico e ideologico, si concentra sul valore simbolico della divisa ed evidenzia l'annullamento della personalità che il ruolo anonimo della condizione militare presuppone e incoraggia. Il soldato, semplice numero di matricola, non può innamorarsi di sé, perché il suo io non gli appartiene. Non muore scivolando nell'acqua, ma morirà tornando nel buio colpito dal nemico. L'altro versante, quello più immediato e quotidiano, privilegia il confronto con la persona che abita la divisa, il Narciso che la condizione militare non riesce a devitalizzare. Il giovane reale si guarda e non si riconosce perché la cultura consumista dominante, pur esaltando individualismo ed egoismo, nella pratica elide tutte le differenze facendole sparire nelle tenebre dell'omologazione di modelli e stili di vita imposti. Al Narciso soldato non rimangono allora che due alternative: o innamorarsi del niente, e tuffarcisi contento, o scattarsi una foto col cellulare per provare ad essere riconoscibile almeno su facebook.
Mauro Papa /curatore, direttore CEDAV. Centro di Documentazione per le Arti Visive
a Paolo Vagheggi.
Si ringraziano: Roberta Lapucci, Umberto Amato, Marco Sabatini, Arturo Cerulli, Carla Casalini, Alberto Czajkowski, Laura Montanari, Sergio Breschi, Azelio Bagnoli, Claudio Fanteria, Carlo Movarelli, Antonio Delieto Vollaro, Rosanna Bani, Carla Longobardi, SOLUZIONI ARTE, Antonio Strafella, Lorenzo Alocci, Cristian Zanoni, Antonella Colico, Beatrice Frandi, LABOCOLOR, Giorgio Termini, Mariangela Bezzi, Carlo Bonazza, Marcello Silva, Luigi Costagliola, Polizia Municipale di Porto Ercole, INTERNI di Truffarelli, ZONA NOTTE Interni&Design, Maicol Scotto, R.p.s. Di Rispoli Adelfo & C, Raffaella Fiori, Enzo Sorrentino, Antonio Santoro, Nicola Santoro, Piero Bertocchi, Roberto Angioloni, Guido Olivi, Paola Pagano, Martina Haas, Daniela Alvez, Carla Andreia Vanderlei, Gerdi Sura, Mathieu Barrois, Sabina Leonetti, Lorena Miraldi, Santiago Pavón Fuentes, Jennifer Reid, Caterina Abashina, Margheritta Psakina, Aneta Glowacka, Bruno Chiodo, Angela Travali, Alessandro Carotti, Sylla Sadikh, Claudio Albergati, Michela Carotti, Giada Sabatini, Cristel Sciascia, Lucia Zanoni, Maria Putano Bisti, Gianfranco Zanoni, Donatella Lorenzini, Anita Angela Spörndle, Luigia Sabatini, Luigi Sabatini, Franco Pietrapiana, Giordano Fiorentini, Niccolò Fiorentini, Michela Massafra, Fabrizio De Dominicis, Ilaria Ciavattini, Diego De Dominicis, Gabriele Scotto. Un ringraziamento a tutti gli amici che ci hanno sostenuto in questi due anni di lavoro... ...e un ringraziamento speciale a Tomaso Montanari che, dal primo momento, ha visto in questo progetto quello che vedevamo noi.
Il progetto CARAVAGGIO 2010 è stato realizzato con il patrocinio e il sostegno di:
CARAVAGGIO 2010 Ente promotore: Melograno Associazione Culturale. Progetto: Giacomo Pietrapiana, Annegriet Camilla Spรถrndle, Giuseppe Zanoni. Progetto grafico e web design: architetto Alessia Fiori. Ufficio stampa: Annegriet Camilla Spรถrndle. Interpreti: Etrusco Bardi, Benedetta Cavina, Loreta Costagliola, Dina Fratoni, Antonio Galletti, Katherina Kรถster, Christian Massandrini, Enzo Massimi, Dylan Mikov, Ferdinando Nieto, Francesco Nieto, Silvano Pignattelli, Alessio Sabatini, Franco Sabatini, Roberto Scotto, Fabiana Trillocco. Trucco: Roberta Capecchi, Cristina Scotto. Testi: prof. Tomaso Montanari. Testi aggiuntivi: Alan Asaro, Livio Bruni, Ornella Cosenza, Fulvio De Pellegrin, Mauro Papa, Maria Cristina Sansone, Evelyne Spรถrndle, Pier Luigi Ventura. Teatro: Irene Paoletti, Mirio Tozzini.
_GIACOMO Pietrapiana: nato nel 1974 ad Orbetello. Architetto, ha progettato gli allestimenti della Biennale in TRANSito a Castel Sant’Angelo (Roma, 2004) ed ha partecipato con il gruppo ma0/architecture alla 10° Biennale d’Architettura di Venezia con il progetto “CONTINUI(CI)TY”. E' curatore del film-documentario “Oscar Niemeyer, l'architettura è nuda” (Bomba Production, 2005). L’intuitivo. Attento osservatore e concentrato sin nei minimi dettagli, si dedica con grande sensibilità alla realizzazione dei suoi ideali sempre alti. Li raggiunge con estrema lealtà, instancabile dedizione ed una bella porzione di ironia che per lui è un itinerario personale da percorrere fino in fondo. “Underneath this smile lies everything / All my hopes and anger, pride and shame / I make myself a pact, not to shut doors on the past / Just for today I am free / I will not lose my faith / It's an inside job today / I know this one thing well [...] How I choose to feel is how I am ” (Pearl Jam, Inside Job)
_ANNEGRIET CAMILLA Spörndle: nata nel 1975 a Donaueschingen in Germania. Laureata in lingue e giornalismo, nel 2001 si trasferisce in Toscana. Dopo un’esperienza presso “La Repubblica” di Firenze si specializza in PR e marketing. Lavora come giornalista professionista e scrive per diversi mass-media in Italia e all’estero su arte, cultura e viaggi. La facitrice. Dotata di una curiosità infantile e di un’energia travolgente vuole sempre andare fino in fondo alle cose. Il suo motto di vita è “niente è insignificante” e lo segue penetrantemente con grande serietà e originalità d’invenzione, prendendo le decisioni spontaneamente. “Graffiti women swap stories in the dark / Graffiti women take photos at the dark / And tenement people who wander through the day / Graffiti people got nothing got no name And you sleep but they'll find you / And they'll carve their number in your minds / And they'll steal what they want from who they want, from time to time.” (Suede, Graffiti Women)
_GIUSEPPE Zanoni: nato nel 1970 a Porto Ercole. Fotografo professionista, ha collaborato con lo studio Delogu di Roma e realizzato numerose campagne pubblicitarie per le più grandi aziende italiane. Sue opere sono state esposte al Museo della Permanente di Milano in occasione del Premio Arte 2005 e al Rathaus di Wiesbaden per il Festival Internazionale di Fotografia Contemporanea 2010. Il pensatore. Ambizioso e di grande lucidità mentale, riesce a trovare il giusto equilibrio tra ragione ed emozione. Quando si impegna in una cosa, è deciso e determinato. E’ “orientato alla sfida”, e quindi non si smuove mai prima di aver raggiunto i suoi obiettivi prestabiliti, sacrificandosi ad uno stile di vita frenetico. “I was stronger / I was better / Picked you out / Now don't say a word / No don't yell out / Never mind / Let you out / Led you back / Stay on / Sit down / Let it fall / Let it fall / Let it fall / Let it fall.” (Radiohead, How I made my millions)
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