Colore e luce in architettura: fra antico e contemporaneo Le modalità di rilevamento del paesaggio edificato potrebbero essere infinite, pure selezionando un filtro di lettura come il colore e la luce. A prima vista sembrerebbe perciò estremamente ambizioso tentare di controllare qualcosa che per sua natura non agevola l’identificazione di regole semplici e condivisibili. Tuttavia la configurazione di ogni paesaggio antropizzato necessita di confrontarsi con questi due aspetti. Per ogni progettista risulta necessario avere conoscenza delle qualità cromatiche, poiché tutto ciò che è materiale possiede un colore, così come non può esimersi dal prendere in considerazione il comportamento luminoso dei volumi architettonici, siano essi esterni o interni. I contributi degli studiosi qui raccolti, partendo da considerazioni che affondano le motivazioni nella storia e nella cultura del colore e della luce, tracciano alcuni percorsi, forniscono interessanti interpretazioni e mettono in luce talune considerazioni necessarie per il progetto architettonico nell’epoca contemporanea.
P.Zennaro, K. Gasparini, A. Premier
contributi scientifici di:
Valeria Bennacchio Gian Camillo Custoza Giulio Dubbini Katia Gasparini Nicola Pegolo Alessandro Premier Franca Pittaluga Giuseppina Scavuzzo Pietro Zennaro
colore e luce in architettura: fra antico e contemporaneo
P. Zennaro, K. Gasparini, A. Premier, a cura di
€ 22,00
www.knemesi.com
ISBN 978-88-96370-025
Questo libro è il primo risultato di uno studio condotto presso l’Università Iuav di Venezia dall’Unità di ricerca “Colore e luce in architettura”, inquadrata all’interno della più ampia Area di ricerca “Il progetto di paesaggio”.
Copyright © 2010 by KNEMESI, Verona, Italy Prima edizione 2010 ISBN 978-88-96370-025 I contenuti del libro, comprese tutte le sue parti, sono tutelati dalla legge sul diritto d’autore. Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica) e la comunicazione (inclusi a titolo esemplificativo ma non esaustivo: la distribuzione, l’adattamento, la traduzione e la rielaborazione, anche a mezzo di canali digitali interattivi e con qualsiasi modalità attualmente nota o in futuro sviluppata). Dove non diversamente specificato, le immagini e le foto sono degli autori dei singoli articoli. Per i passi antologici, le citazioni, le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, i curatori e gli autori dei singoli articoli sono a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonchè per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. Finito di stampare nel mese di giugno 2010 presso Atena spa, Vicenza, per conto di Knemesi.
colore e luce in architettura: fra antico e contemporaneo Pietro Zennaro, Katia Gasparini, Alessandro Premier, a cura di
contributi scientifici di:
Valeria Bennacchio Gian Camillo Custoza Giulio Dubbini Katia Gasparini Nicola Pegolo Franca Pittaluga Alessandro Premier Giuseppina Scavuzzo Pietro Zennaro
INDICE
07 PRESENTAZIONE DI UNA RICERCA Pietro Zennaro
13 1. Un exemplum di bibbia pauperum l’altare della S.S. Trinità nella Chiesa di Santa Maria Novella a Firenze Valeria Benacchio, Giancamillo Custoza 25 2. LA LUNA NEL POZZO La ricerca della luce nell’architettura ipogea Franca Pittaluga 43 3. I COLORI DEL BIANCO Nicola Pegolo 57 4. COMPOSIZIONI PER TASTIERE CROMATICHE Giuseppina Scavuzzo 71 5. COLORE A SCALA URBANA Giulio Dubbini
6. ARCHITETTURA MEDIATICA 89 Innovazione fra colore, luce e informazione Katia Gasparini 7. FILTRI METALLICI 105 Materiali, colori, textures nelle facciate contemporanee Alessandro Premier 8. VERSO L’IMMATERIALITA’ CROMATICA DELLE ARCHITETTURE 119 Pietro Zennaro BIOGRAFIE DEGLI AUTORI 135
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ARCHITETTURA MEDIATICA Innovazione fra colore, luce e informazione
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Introduzione In architettura da qualche tempo il tema della superficie è particolarmente dibattuto. L’attenzione rivolta da molti progettisti alla pelle dell’edificio sembra essere doverosamente significativa. Lo è sia dal punto di vista culturale e artistico, di luogo fisico laddove si concentrano maggiormente i significati architettonici e artistici, ma lo è anche per l’ambito strettamente tecnologico (P. Zennaro, 2009). La pelle architettonica, che nell’architettura contemporanea si può identificare nell’involucro quale limite fra interno ed esterno, può avere diverse prestazioni funzionali e assumere molteplici significati, che possono svilupparsi con soluzioni tecnologiche fra le più innovative. Già Scheebart nel primo decennio del Novecento aveva profetizzato una nuova architettura di colore e luce, realizzabile proprio a partire dall’architettura di vetro che le tecnologie del tempo prefiguravano, in quanto trionfo sull’oscurità degli spazi interni dell’architettura (R. Maspoli, 2007). Nei progetti di architettura moderna e contemporanea realizzati a partire da Mies van der Rohe fino a Jean Nouvel, Toyo Ito, Bernard Tschumi, ecc., si è manifestata una ricerca minuziosa di innovazione nei sistemi che regolano l’evoluzione del progetto. Tali interventi tengono conto del valore figurativo e cromatico delle superfici, si valgono della texture, delle qualità percettive dei rivestimenti esterni, giocano con la leggerezza strutturale e la trasparenza, i riflessi, cioè con quei dettagli che contribuiscono a far vivere l’architettura nel suo luogo, attraverso materiali e tecnologie che provocano reazioni, interferenze e interazioni.
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L’età dell’informazione, poi, in cui ci troviamo immersi già da qualche anno, influenza la nostra vita quotidiana e di riflesso anche l’architettura attraverso un insieme di fattori che si possono riassumere nell’immaterialità, alla quale sono legate la leggerenza e la trasparenza, la tachia, connessa alla velocità e alla riduzione dei periodi temporali; la multimedialità, legata alla moltiplicazione dei supporti e la trasformabilità o mutevolezza connessa al concetto di sensorialità. La multimedialità, in particolare, è “il fattore attraverso il quale si esprime l’età dell’informazione” e consente di rappresentare i messaggi su molteplici supporti che in architettura si possono integrare alla costruzione, in modo particolare al suo involucro. L’edificio può così diventare uno schermo che irradia luci, colori, suoni e contemporaneamente comunicare informazioni (P. Zennaro, 2000).
COLORE E LUCE NELL’ARCHITETTURA MEDIATICA: HIGH OR LOW RESOLUTION? Con la diffusione dell’elettronica dei processori, dei sensori applicati all’interno delle abitazioni e dei display digitali applicati in facciata, le costruzioni di oggi sembrano trasformarsi sempre più in freddi organismi elettronici. Gli edifici diventano essi stessi dei totem a dimensione urbana dotati spesso di sistemi, per esempio a lampade fluorescenti o di reti metalliche con integrati sistemi di illuminazione gestiti elettronicamente, oppure rivestiti di videowall che ormai identificano vaste superfici architettoniche. Questi interventi sono gli ultimi e i più perfezionati di una serie di sperimentazioni iniziate già nell’ultimo decennio del secolo scorso. Molti di questi interventi identificano un tipo di superfici mediatiche che si potrebbero definire “a bassa risoluzione”, sia per le tecnologie adottate, sia per l’effetto visivo raggiunto. Sono annoverabili fra queste le sperimentazioni del gruppo CCC (Chaos Computer Club) sfociate nell’esperimento parigino alla Biblioteca Nazionale di Francia (2002). In quell’occasione il gruppo trasformò la torre T2 della Biblioteca in un immenso schermo di computer. Con una matrice di 20X26 finestre (che si trasformano in 520 pixel utilizzabili) e una dimensione complessiva di 3.370 mq
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l’installazione chiamata “Arcade” divenne il più grande schermo di computer mai visto. Le luci poste su ogni singola finestra erano provviste di potenziometro, offrendo quindi la possibilità di variare l’intensità luminosa di ogni singolo pixel e riuscendo a creare delle immagini di maggior complessità e definizione, come è possibile fare con il sistema di facciata Bix brevettato dal gruppo realities:united. Arcade si presentò all’epoca come un vero schermo a bassa definizione. Oltre alla proiezione di video o immagini, il gruppo CCC ha ivi ideato una serie di giochi da computer da applicare sullo schermo-palazzo permettendo a tutti di interagire con un telefono cellulare. Un altro intervento significativo, realizzato ormai da circa dieci anni, è il progetto di Renzo Piano KPN Telecom Office Tower a Rotterdam (1997-2000). La costruzione è caratterizzata da una facciata a forma di tabellone elettronico le cui dimensioni sono circa 37,8x72 m. La superficie è rivestita da pannelli di vetro stratificato che, inseriti in un telaio di alluminio e rivestiti di pvf2 grigio, dividono la facciata in un reticolo di circa 1,8 mq per ogni cella. Al centro di ognuna è posizionata una lampada a lunga durata (fig.1) con la parte anteriore piatta in Perspex verde brillante. Ognuna è controllata da un software che ne gestisce l’illuminazione e conseguentemente gli effetti di animazione. La superficie interna del pannello in vetro è serigrafata al 70%. Fig. 1 KPN Telecom Office Tower a Rotterdam (1997-2000), RPBW. Dettaglio lampade
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L’edificio così concepito sembra fungere da vettore di comunicazione: la facciata diventa infatti una sorta di “schermo che guarda la piazza”, capace di proiettare animazioni grafiche, messaggi visivi, informazioni sugli eventi in corso, fino a due chilometri di distanza, grazie a 896 speciali lampadine da 24 volts. Una serie di computer gestisce questa superficie pixelata, consentendo alle lampade accensione e spegnimento due volte al secondo, per una superficie totale di 3.600 mq.
Il ruolo delle tecnologie e dei materiali Da quanto fin qui esposto si evince come la mediaticità dell’architettura, non solo contemporanea, può essere perseguita con tecnologie e prodotti diversi, in funzione dell’effetto che si desidera raggiungere, dei costi/investimenti previsti, del luogo e, soprattutto, del progetto da realizzare. Altro fattore fondamentale che influisce a priori sulla scelta dei prodotti da impiegare è l’effetto percettivo della superficie mediatica, ovvero se si desidera una percezione di tipo statico o dinamico. In altri termini si intende se il media building è funzionale a una comunicazione dinamica raggiunta tramite sistemi meccanico-elettronici o se si limita alla trasmissione di messaggi scritti o figurati alla stregua della carta stampata. Gli esempi anzi citati possono afferire a una dinamicità di tipo visivo realizzata attraverso l’accensione e spegnimento sequenziale di lampade. Si tratta di quella che si può definire una mediaticità a bassa risoluzione, dove le immagini che sono trasmesse sono composte pur sempre da una certa quantità di pixel, ma di dimensioni ben diverse rispetto a quello che intendiamo comunemente quando ci riferiamo ai sistemi digitali (tv, schermi di computer, ecc.). Si può sostenere in questo caso che si tratta di pixel di notevoli dimensioni fisiche, che si identificano in ciascuna lampada installata sulla superficie architettonica. Sono le lampade circolari fluorescenti, per esempio, del sistema Bix del KunstMuseum di Graz o della facciata Spot di Berlino, oppure le lampade a lunga durata della torre della Telekom anzi descritta, e così via. In sostanza è una mediaticità che si realizza con la semplice applicazione della tecnologia elettrica a componenti come le lampade, appunto, in uso da
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decenni ormai. Nulla di nuovo, quindi. La novità semmai, risiede nell’interazione di altri sistemi e tecnologie con quest’ultima, così da agevolare e programmare sia la gestione del sistema illuminotecnico-mediatico, sia la percezione. La cosiddetta trasversalità che si realizza nell’applicazione di sofisticati sistemi software che interagiscono con la programmazione della luminosità, per esempio, e dell’accensione programmata delle lampade così da realizzare una sorta di trasmissione di immagine sulle facciate degli edifici che, per le dimensioni dei pixel-lampada che le compongono, consentono la percezione dell’immagine finale solo a grande distanza rispetto la costruzione. Motivo questo che fa di queste architetture dei totem a dimensione urbana, dei segnali urbani percepibili e definiti nell’ambito territoriale. O la trasversalità che si realizza nell’applicazione di serigrafie atte a schermare o colorare i pannelli di vetro che racchiudono le lampade, oppure la realizzazione dell’involucro con pannelli polimerici colorati che celano il componente luminoso vero e proprio concedendo solo alla luce di trasparire da sotto il pannello (p.e. stadio Allianz Arena, Herzog& DeMeuron, fig.2). Ancora una volta si tratta dell’applicazione di tecnologie e componenti conosciuti da tempo, ma applicati in stretta sinergia in un settore sperimentale rispetto a quello di provenienza. Da una ricerca condotta dalla sottoscritta qualche tempo fa sull’involucro mediatico e le tecnologie che ne consentono la realizzazione, è emerso che la maggior parte di queste realizzazioni è costruita con l’apporto di diversi settori scientifico-tecnici. Di questi i più interessati fanno capo alle tecnologie elettrica, elettronica, idraulica e chimica. Solitamente ognuna si integra con l’apporto della tecnologia informatica, che negli ultimi anni sembra avere assunto un ruolo fondamentale nella programmazione della gestione e manutenzione dell’involucro architettonico. Fig. 2 Plastico di studio dell’involucro dello Stadio Allianz Arena Foto © Katia Gasparini
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Nella fattispecie del caso in esame, ovvero della realizzazione di involucri mediatici di tipo dinamico, sembra che circa il 30% dei casi analizzati sia realizzato con l’aggregazione della tecnologia informatica ed elettrica che conduce alla trasmissione di immagini a bassa risoluzione, prima definite.
IL COLORE GENERATO DALLA TECNOLOGIA CHIMICA O NANOTECH Lo spazio urbano contemporaneo sembra essere diventato un luogo di sperimentazione di tutti i tipi di tecnologie atte a comunicare: dai rivestimenti adesivi policromi (meglio conosciuti come pellicole decorative applicate alle facciate degli edifici) ai teli pubblicitari che rivestono i ponteggi dei cantieri cittadini. Quest’ultimi sono realizzati con materiali sempre più evoluti che riescono a dare un senso di dinamicità alla visione, fino all’applicazione di tecnologie atte a realizzare una sorta di tabelloni elettronici o di videowall. Questa evoluzione delle tecnologie applicate alle superfici architettoniche urbane ha spinto anche un eminente architetto come Bernard Tschumi a chiedersi che cosa ormai oggi “distingue l’architettura dalla progettazione di cartelloni pubblicitari” (Tschumi B., 2005). Effettivamente il nuovo rapporto che si è formato fra la funzione residenziale e quella informativa assunta da certa architettura contemporanea sta diventando un fenomeno rilevante. L’urbanista-filosofo Paul Virilio ha osservato che anche se la funzione abitativa è stata fin dall’origine alla base dell’architettura, laddove “l’architettura è l’arte di racchiudere, di ospitare nel proprio seno uomini (o cadaveri), opere e così via“, oggi con l’avvento dei mediabuilding, la funzione informativa tende a prevalere su quella residenziale: ciò significa che a Times Square si può costruire un edificio la cui unica redditività risiede nell’informazione, perché il valore dell’informazione, il profitto che se ne ricava è tale che la funzione residenziale può essere abbandonata e “l’architettura sta diventando (…) un supporto dell’informazione, per non dire un supporto pubblicitario in senso lato, un supporto mediatico” (Virilio P., 2000). Nell’ultimo decennio infatti abbiamo potuto assistere alla diffusione di veri
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e propri cantieri mediatici, dove l’allestimento dei ponteggi ha assunto anche la funzione di supporto di importanti campagne pubblicitarie. Spesso tali cantieri rimangono montati per un tempo indefinito, proprio per l’enorme ritorno in termini economici che le affissioni producono, e in effetti molti restauri sono resi possibili grazie a questi introiti. Per questo la sponsorizzazione dei restauri è stata regolamentata dal Codice dei Beni Culturali e dal Codice degli Appalti che hanno consentito ai Comuni di sottoporre le forme pubblicitarie che invadono l’ambiente urbano a un regime di autorizzazione e al pagamento di un canone. I teli pubblicitari sono realizzati tramite verniciatura applicata con i metodi di stampa digitale e con inchiostri che sono diversi da quelli abitualmente usati per la stampa tradizionale. Gli inchiostri per la stampa digitale posseggono una viscosità molto bassa rispetto agli altri, caratteristica richiesta principalmente dalle dimensioni degli ugelli delle testine. La loro base, come negli altri inchiostri, è composta di un pigmento e di un veicolo che può essere a base acqua, a base solvente o a base olio, oltre a quei componenti che dovranno poi produrre quella viscosità, quella tensione superficiale e quella stabilità di stampa nel tempo subordinate al tipo di materiale che riceverà la stampa. Per la stampa digitale su supporti a base polimerica (PVC) si ricorre all’impiego di inchiostri a solvente che usano pigmenti, sciolti appunto in base solvente perché rispetto a quelli dotati di pigmenti a base acqua aderiscono maggiormente al supporto. Pertanto in molti casi si evita il processo di laminazione. Infine esistono gli inchiostri UV, nati principalmente per superare i problemi economici provocati dai solventi. Il sistema si basa sul fatto che le radiazioni UV polimerizzano in una frazione di secondo il film d’inchiostro o di vernice e lo asciugano completamente. È comunque indispensabile l’impiego di inchiostri e vernici speciali contenenti resine leganti diverse da quelle dei prodotti convenzionali e con l’aggiunta di specifici additivi detti “fotoiniziatori”. Gli inchiostri UV sono costituiti generalmente da quattro componenti: monomeri, oligomeri, pigmenti (e altri adesivi) e fotoiniziatori. L’unico ingrediente ottico “attivo” è il fotoiniziatore che reagisce alla lunghezza d’onda specifica della luce UV. Quando un fotone o radiazione UV colpisce una molecola fotoiniziatrice innesca la reazione indurente.
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L’assenza di solventi e il miglioramento della qualità di stampa rendono interessante e vantaggioso l’uso d’inchiostri UV. Tra gli aspetti positivi vanno ricordate l’ottima adesione su qualsiasi supporto sia cartaceo che plastico, la stabilità, nonché l’essiccazione immediata, in contrapposizione agli inchiostri ad acqua che richiedono frequenti aggiunte di solventi e ammoniaca nel calamaio. Si tenga presente, infatti, che l’uso di inchiostri e vernici UV risponde anche ad esigenze di protezione ambientale, dato che questa tecnologia elimina l’uso di solventi considerati dannosi per l’ambiente (aria contenente VOC) e per la salute dei consumatori (nel caso, per esempio, di solventi residui negli imballi alimentari). Inoltre, dal punto di vista tecnico, gli inchiostri UV sono migliori degli inchiostri a base oleosa e acquosa perché asciugano istantaneamente sul supporto cartaceo o plastico producendo una stampa nitida, senza spandimenti e aloni. Infine, la realizzazione dell’immagine che sarà stampata solitamente deriva da un progetto di advertising realizzato con programmi di grafica e impostato per la stampa secondo parametri di colore ben precisi, ovvero secondo la gamma CMYK (Cyan, Magenta, Yellow, blacK), i colori dei quattro inchiostri usati in tipografia e nelle stampanti a colori. Quando sono sovrapposti nelle diverse percentuali, i primi tre possono dare origine quasi a qualunque altro colore. Tuttavia, poichè impiegando il 100% dei tre non si ottiene il nero, ma il bistro, colore simile a una tonalità di marrone molto scura, nei processi di stampa si è aggiunto l’inchiostro di un quarto colore, ovvero il nero. I colori ottenibili con la quadricromia (afferenti alla sintesi sottrattiva) sono un sottoinsieme della gamma visibile, quindi non tutti i colori che vediamo possono essere realizzati con la quadricromia, così come non tutti i colori realizzati con l’insieme RGB (Red, Green, Blue) cioè quelli che vediamo sui nostri monitor (sintesi additiva) hanno un corrispondente nell’insieme CMYK.
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IL BINOMIO COLORE-LUCE NELLA REALIZZAZIONE DELL’INVOLUCRO INTERATTIVO La rivoluzione elettronica nelle videoinstallazioni sembra avere inizio con le apparizioni dei primi esperimenti video di Nam June Paik. A lui si deve l’uso creativo delle prime telecamere e video registratori portatili della Sony, i popolari “portapak”con una traslazione contestuale del contenuto delle riprese (Ladaga A., Mantiega S., 2006). Paik sembra aver capito che sintetizzando in tempo reale immagini completamente credibili avrebbe creato un nuovo mezzo per manipolare la verità. Mezzo che nell’unione fra computer, tecnologia delle comunicazioni e video avrebbe dato vita a quella che nel 1974 definì autostrada dell’informazione elettronica. La videoinstallazione coinvolge attivamente lo spettatore nel percorso spaziale dell’opera, in uno spazio simulato che mette in discussione il luogo fisico in cui essa si svolge. Le odierne tecnologie digitali consentono di ricreare spazi diversificati e installazioni multiformi con l’uso di monitor Lcd (Liquid Crystal Display), micromonitor, proiezioni sulle superfici architettoniche, schermi olografici, pellicole riflettenti, capaci di operare una vera e propria metamorfosi visiva (o video) dello spazio fisico, che in questo modo sembra moltiplicarsi ingigantirsi o frammentarsi. I mezzi per ottenere questa mutazione percettiva dello spazio, come si evince, risiedono quindi sostanzialmente in due diverse tipologie di strumenti: strumenti di proiezione (fari luminosi) che emettono immagini (o fasci di luce colorata) su pareti o architetture, oppure monitor elettronici che trasmettono immagini sulla loro superficie. L’evoluzione di questa seconda tipologia si realizza nei mediabuilding, dove si palesa come la rivoluzione tecnologica ha trasformato gli schermi in vere e proprie strutture architettoniche o, se è vero anche il contrario, ha trasformato talune architetture in veri e propri eventi mediatici. Esempi ormai noti possono essere tanto l’installazione di Piazza Duomo a Milano dal titolo “Milano in alto” (fig.3), quanto lo schermo led del Nasdaq a New York. Nella contemporaneità sembra che tutto l’edificio diventi una super-
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ficie multimediale, un’interfaccia che riceve e trasmette dati e immagini in un flusso continuo: da NewYork, al quartiere elettronico Akihabara di Tokyo, fino a Piccadilly Circus a Londra. La tecnologia delle proiezioni urbane si è evoluta legandosi a specifici eventi e sfruttando le superfici di edifici esistenti trasformandoli in schermi, realizzando l’interazione fra immagini proiettate e elementi architettonici. Un esempio sono le proiezioni temporanee realizzate in Italia dal multivision designer Paolo Buroni, fra le quali spicca l’evento di Multiproiezione Architetturale Motorola sul Grattacielo Pirelli (2005). Infatti questa sembra essere stata la più estesa multiproiezione mai effettuata su un grattacielo di grandi superfici vetrate e di dimensioni così rilevanti. Le difficoltà tecniche per realizzare una operazione di questo tipo a Milano hanno rappresentato, oltre che una sorta di sfida al paesaggio urbano di una metropoli, una vera e propria intrusione con una proiezione di immagini sull’architettura del più alto grattacielo milanese in un ambiente ostile popolato da centinaia di luci pubbliche accese a dai bagliori della notte. Per la proiezione sui 4.000 mq di superficie sono stati impiegati 15 speciali proiettori, posizionati a una distanza di 200 m e per i quali l’azienda produttrice ha costruito delle speciali ottiche di 80 cm cadauna. Altri esempi più recenti ed attuali sono le installazioni dello studio tedesco UrbanScreen, uno fra questi che sembra molto interessante è il 555Kubik Facade Projection (fig.4).
Fig. 3 Visione diurna e notturna dell’installazione “Milano in alto”, a cura di Urban Screen spa (Foto © Francesco Carcano). Il sistema mediatico adottato per il rivestimento della facciata è “Mediamesh©Ag4”
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Il colore generato dalla tecnologia elettronica e luminosa Come sappiamo, il colore non è una caratteristica intrinseca degli oggetti, ma il risultato dell’interazione fra la luce emessa da una sorgente, proprietà fisiche della superficie di riflessione e apparato visivo dell’osservatore. Infatti, sovente si adotta il termine “sensazione di colore” perché in realtà non sono le onde elettroFig. 4 Kubik Facade, proiezione a cura di UrbanScreen (Foto © Manuel Engels, URBANSCREEN, Bremen)
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magnetiche ad essere colorate, ma è il nostro apparato percettivo che interpreta la differenza della lunghezza d’onda della luce come diversità di colore (Ravizza D., 2001). I colori che caratterizzano gli schermi elettronici e luminosi, ovvero gli schermi dove il colore è trasmesso da sorgenti di luce, sono quelli della sintesi additiva dell’RGB (red, green, blu) ovvero gli stessi che caratterizzano i monitor dei computer. RGB è il nome di un modello di colori le cui specifiche sono state descritte nel 1931 dalla CIE (Commission internationale de l’éclairage). Tale modello di colori è di tipo additivo e si basa sui tre colori rosso (Red), verde (Green) e blu (Blue), che proiettati e sovrapposti in proporzioni corrette trasmettono la luce bianca. Lo stesso effetto si ottiene nell’applicazione dei sistemi di illuminazione led. L’incrocio della luce rossa con il verde trasmette il giallo, il verde con il blu trasmette l’azzurro (o cyan) e il rosso con il blu trasmette il Magenta (una sorta di porpora). Per poter trasferire un’immagine video è necessario inviare anche un segnale di sincronismo che fornisca le informazioni su quando inizia un’immagine (sincronismo verticale) e su quando inizia una riga dell’immagine (sincronismo orizzontale). Questi due sincronismi possono essere combinati in un unico sincronismo (sincronismo composito). Le proiezioni architetturali, per esempio, oggi definite multivision design, sono realizzate con proiettori di diversa manifattura, forma e potenzialità, che alla fine sono composti dalla combinazione di led colorati. Si possono usare proiettori di dimensioni contenute, per esempio, composti da una rosa di 18 led RGB, azionati da una potenza di 5 watt, con un’elevata resa luminosa, oppure si possono adottare sistemi definiti “diffusori”, a uso prevalentemente architetturale, che incorporano 40 led la cui combinazione consente di ottenere tutti i tipi di gradazione desiderati, evitando discontinuità o zone d’ombra nell’immagine proiettata. Mentre i primi, posti a una distanza di 5 metri dalla superficie di proiezione trasmettono un’immagine finale della superficie di 150 cm, con un angolo visivo di 14°, nel secondo caso a una distanza di 6 metri è già possibile realizzare una superficie di proiezione anche di 4 metri di diametro, con un angolo visivo di 37°.
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Molto spesso in sostituzione dei proiettori sono utilizzate delle superfici elettroniche composte di pannelli di diverse dimensioni (secondo la tecnologia impiegata e la casa produttrice) e materiali, in cui sono installati led diversamente combinati. Alcuni esempi possono essere i pannelli elettronici che trasmettono immagini in diretta negli studi televisivi, per esempio, o nei concerti. Sono formati dalla composizione di una serie di pannelli o piastrelle elettroniche di dimensioni circa di 50 cm, composti di 256 led montati su una griglia metallica e coperti da un pannello in vetro. Queste piastrelle elettroniche sono caratterizzate da un’elevata velocità di refresh a 30 Hz e possono essere utilizzate sia in verticale che in orizzontale. Infatti, proprio per supportare i carichi in quest’ultima ipotesi, sono dimensionate per un carico massimo di 300 kg/mq. La Crown Fontaine di Chicago, per esempio, è rivestita con circa 294 panelli led ad alta risoluzione per un totale di 903.168 pixels sui fronti dove sono proiettate le immagini. Significa che ogni pannello è composto di oltre 3.000 led. I lati sono illuminati con 70 fari Colorblast a 12 led, della Barco. I pannelli della fontana garantiscono un angolo visivo orizzontale di 120° e verticale di 60° (fig.5). Si sta sempre più perfezionando, inoltre, l’impiego della tecnologia OLED su ampia scala e su superfici interessanti. Finora erano limitate a sperimentazioni su microdisplay. Il concetto luminoso e trasmissione del colore è lo stesso dei led, ma in questo caso si tratta di led organici. OLED, infatti, è l’acronimo di Organic Light Emitting Diode ovvero diodo organico ad emissione di luce. È una tecnologia che permette di realizzare display
Fig. 5 Crown Fountaine Foto © Katia Gasparini
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a colori con la capacità di emettere luce propria: a differenza dei display a cristalli liquidi, i display OLED non richiedono componenti aggiuntivi per essere illuminati (i display a cristalli liquidi vengono illuminati da una fonte di luce esterna), ma producono luce propria; ciò permette di realizzare display molto più sottili e addirittura pieghevoli e arrotolabili, e che richiedono minori quantità di energia per funzionare. A causa della natura monopolare degli strati di materiale organico, i display OLED conducono corrente solo in una direzione, comportandosi quindi in modo analogo a un diodo; di qui il nome di O-LED, per similitudine coi LED.
CONCLUSIONI Teorie e dibattiti inerenti l’uso della luce e del colore nell’architettura hanno origini remote e frastagliate, da scelte di ordine estetico a necessità sociali o politiche fino, appunto, a mere esigenze di tipo economico. In un’epoca in cui centri di ricerca, facoltà di architettura, architetti e urbanisti si impegnano a studiare e predisporre piani del colore nelle maggiori città italiane e non solo, viene da chiedersi quale ruolo possono assumere queste affissioni a livello urbano e quale sarà il contributo dell’architetto in questa trasformazione che sta investendo il progetto di architettura. L’architettura e il paesaggio sembra stiano assumendo sempre più conformazioni temporanee a solo scopo informativo. L’impiego di software e display digitali applicati alle facciate degli edifici, siano esse in vetro, plastica o metallo, sta cambiando radicalmente il significato dell’architettura. Tendono a prevalere il fattore informativo e commerciale e nuove figure diverse da quella dell’architetto si stanno incaricando della configurazione del volto urbano, tra costoro le agenzie di advertising e i produttori di sistemi di comunicazione. Un aspetto da non sottovalutare questo, strettamente connesso alla specifica professione dell’architetto. Il fatto che il dibattito, la ricerca e le applicazioni che riguardano l’architettura si stanno sviluppando ai margini e spesso fuori del suo campo d’azione dovrebbe far riflettere. Sotto la spinta di
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un fenomeno le cui potenzialità potrebbero cambiare in modo radicale il modo stesso in cui percepiamo la realtà, come evolverà l’aspetto delle città, degli edifici e delle abitazioni? Quali saranno i nuovi volti, materiali, colori che assumeranno le superfici architettoniche nel prossimo futuro?
Fig. 6 Superficie mediatica realizzata da realities:united. Progetto: A.AMP Architectural Advertising Amplifier for the Wilkie Edge, Singapore. Project Team: Jan & Tim Edler with J.C. Baetz, W. Metschan, D.Mock, M. Niedringhaus, M.Wiedauer, C. Wagner (render©2006 realities:united, Berlin)
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Bibliografia Katia Gasparini, 2009, Design in superficie. Tecnologie dell’involucro architettonico mediatico, FrancoAngeli, Milano. Alexandro Ladaga, Silvia Mantiega, 2006, Strati Mobili. Video contestuale dell’Arte e nell’Architettura, Edilstampa, Roma. Rossella Maspoli, 2007, “Colore, forma e superficie. Innovazione ed esperienze fra architettura ed arte”, in Zennaro P., a cura di, Il colore nella produzione di architettura, Ipertesto Edizioni, Verona. Donatella Ravizza, 2001, Progettare con la luce, FrancoAngeli, Milano. Bernard Tschumi, 2005, Architettura e disgiunzione, Pendragon, p.186. Paul Virilio, 2000, ““Dal Media Building alla città globale: i nuovi campi d’azione dell’architettura e dell’urbanistica contemporanee”, Crossing, n.1, 2000, pp.7-8. Pietro Zennaro, 2000, La qualità rarefatta, FrancoAngeli, Milano. Pietro Zennaro, 2009, Architettura senza. Micro esegesi della riduzione negli edifici contemporanei, FrancoAngeli, Milano. www.aic-colour.org www.evolight.it www.paoloburoni.it www.stark1200.com www.urbanscreen.com www.urbanscreen.net
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