The Eye of the Beholder

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L’occhio di chi guarda

The Eye of the Beholder

Jane Taylor

Jane Taylor

In the last years I’ve been looking a lot a—not the nature of perception, but the phenomenon of it—what it is that we do when we recognize something, how we construct the world from fragments. William Kentridge, interview July 2008

Form is a trace of the formless; it is the formless that produces form, not form the formless; and matter is needed for the producing; matter, in the nature of things, is furthest away, since of itself it has not even the lowest degree of form. Thus loveableness does not belong to matter but to that which draws upon form: the form upon matter comes by way of soul; soul is more nearly form and therefore more lovable; Intellectual Principle, nearer still, is even more to be loved; by these steps we are led to know that the primary nature of Beauty must be formless. Plotinus, Enneads, VI, 7, 331

William Kentridge al lavoro sulla costruzione per / William Kentridge working on construction for Return, 2008

Negli ultimi anni, sono stato molto attento non tanto alla natura della percezione, ma al fenomeno vero e proprio: a ciò che facciamo quando riconosciamo qualcosa, a come costruiamo il mondo partendo dai frammenti. William Kentridge, intervista, luglio 2008

La forma infatti è la traccia dell’informe, poiché è questo che genera la forma, non la forma che genera l’informe, e genera quando gli si accosta la materia. Ma la materia è, necessariamente, molto lontana, poiché essa, delle forme inferiori, non ne ha, di per sé, nemmeno una. Se dunque è amabile non la materia ma ciò che viene formato dalla forma; se la forma che è nella materia deriva dall’anima: e se l’anima è tanto più desiderabile quanto più è forma; se l’Intelligenza è forma più dell’anima ed è perciò molto più desiderabile: bisogna ammettere che la natura prima del Bello è senza forma. Plotino, Le Enneadi, VI, 7, 331 82

I: This is not an easy process to describe A scrap of black construction paper, of indeterminate shape rather like a little rag, is attached with infinite care to a precise position on a length of aluminum wire. Another torn fragment is taped to a stalk which crosses that wire at right angles. Kentridge shifts his attention back and forth alternately between the three-dimensional Calderesque construction emerging out of bits of wire and paper in front of him, and the two-dimensional shadow cast by that sculpture. The sculpture is itself an unreadable form, a messy composite of lines and blobs which, nonetheless, when interpreted from a definite single perspective, will resolve itself into a coherent figure from an operatic ensemble. This much we learn from the shadow on the wall. That shadow provides an oblique view of the sculpture, and renders it in its state as a legible representation of a musician. The terms in which Kentridge describes this work are about form. That is, he is engaged with the materiality of the figures, and what they can say about vision, perspective, and substance. Necessarily, this is also an engagement with the history of subject and the history of art. Kentridge explicitly is addressing the processes through which Albertian perspective was naturalized within Western representation. 83


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I. Questo è un processo difficile da descrivere Un cartoncino nero, dalla forma indeterminata come uno straccetto, è attaccato con enorme cura in una posizione precisa su un filo metallico. Un altro brandello strappato è applicato con un nastro a uno stelo che attraversa perpendicolarmente il filo. Kentridge sposta lo sguardo avanti e indietro tra la costruzione tridimensionale alla Calder che emerge dai pezzi di filo e di carta davanti a sé e l’ombra bidimensionale proiettata dalla scultura. La scultura stessa presenta una forma inintelligibile, un insieme disordinato di linee e pieni che, ciononostante, visti da una certa prospettiva particolare, si risolve nell’insieme in una forma coerente. Questo è quanto possiamo apprendere dall’ombra sulla parete. L’ombra offre una visione obliqua della scultura, così da trasformarla nella rappresentazione intelligibile di un musicista. Kentridge descrive quest’opera in termini di forma. Ovvero, si occupa della materialità delle figure e di quello che possono dire sull’atto del vedere, sulla prospettiva e sulla sostanza. Inevitabilmente, ciò significa rapportarsi anche con la storia del soggetto e la storia dell’arte. Kentridge affronta in modo esplicito i processi attraverso i quali la prospettiva albertiana fu naturalizzata all’interno della rappresentazione occidentale.

costruzione per / construction for Return (Coloratura), 2008 dettaglio / detail filo metallico, carta straccia nera, tavola, nastro adesivo, bastoni con le spine, bastoni d’acciaio, righello, pinze, tavola di legno, piattaforma girevole / wire, torn black paper, board, adhesive tape, dowel sticks, steel rods, ruler, clamps, wooden board, turntable 116 x 140 x 60 cm ca.

Ora sto creando delle forme tridimensionali che dirompono nel caos per poter essere viste come figure bidimensionali. È il contrario della ricerca svolta nella pittura tridimensionale. Qui ci sono delle vere figure tridimensionali che sono costrette a fornire un’immagine bidimensionale. William Kentridge, intervista, luglio 2008 Queste “figure che esplodono” sono visibili grazie alla traccia di sé che lasciano nel cortometraggio che verrà proiettato.2 Kentridge ha posizionato la macchina da presa davanti a ognuna delle costruzioni, facendo ruotare le figure sul proprio asse per fissarle sulla pellicola da ogni prospettiva. Sebbene dalla quasi totalità delle prospettive le costruzioni costituiscano una confusione primordiale, in un singolo momento nella rotazione a 360 gradi, ognuna può essere vista come forma umana. Mediante questa strategia, si costruisce un arco narrativo minimale in cui ogni scultura in filo e carta si protende verso i limiti della propria incoerenza prima di ritornare su se stessa e, con spostamenti progressivi, le parti si riallineano davanti allo spettatore. Tutto a un tratto ciò che vediamo non è più uno schizzo di segni casuali, ma una “rappresentazione” ordinata.

II. Forse riesco a evocarla attraverso la storia dell’idea Indagini di questo tipo sono state al centro di molte delle opere recenti di Kentridge. Il cortometraggio Stereoscope (1999) è un esperimento in cui l’inquadratura, divisa in due, offre due sequenze simultanee, sebbene con minime differenze. Il ben conosciuto personaggio di Kentridge, Soho Eckstein, viene visto fianco a fianco in due universi paralleli che talvolta si differenziano ulteriormente l’uno dall’altro, mentre in altri momenti sono pressoché identici. La tecnologia tardo-ottocentesca conosciuta come stereoscopio offriva una forma di divertimento da salotto, in cui due fotografie, fatte a pochissima distanza l’una dall’altra per catturare una scena dalla prospettiva sia dell’occhio sinistro che dell’occhio destro, si posizionano poi una di fianco all’altra come immagini distinte e si guardano attraverso un paio di lenti che sovrappongono le 84

Now I am making three-dimensional forms which are broken into chaos in order to be able to view them as two-dimensional figures. It’s the opposite of the pursuit for three-dimensional painting. Here you have real three-dimensional figures in 3-D space being forced to give you a completely flat two-dimensional image. William Kentridge, interview July 2008 These “exploding figures” are visible via the trace which they leave in the short film that you will see screened for you.2 Kentridge has positioned his camera in front of each of the constructions, revolving the figures upon an axis in order 85


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disegno per / drawing for Stereoscope, 1999 carboncino e pastello su carta / charcoal and pastel on paper 120 x 160 cm

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immagini per formarne una singola, nettamente tridimensionale. Questo marchingegno rende chiaro il principio della visione binoculare umana. Lo stereoscopio era una delle tecnologie che effettivamente “mettevano in atto” il colonialismo all’interno dell’ambiente domestico.3 L’iperrealismo tridimensionale dell’immagine così generata garantiva un maggiore appagamento visivo. Molte immagini stereoscopiche prodotte per il mercato europeo raffiguravano scene di località straniere selvagge o esotiche (il Rio delle Amazzoni o il Nilo) o siti di rinomato splendore internazionale, come le piramidi o il Taj Mahal. Le zone selvagge in questione potevano essere remote come il Perù o vicine come le Highlands scozzesi, ma tutte erano mostrate per il diletto dell’avventuriere coloniale e la sua famiglia a casa. Inoltre, i siti delle meraviglie sceniche europee come la Torre di Pisa o la Alhambra offrivano un piacere per la mente e uno stimolo per l’occhio. (Ricordo con grande gioia la varietà delle scene. Da ragazza sono cresciuta in Sudafrica alla fine dell’impero e lo stereoscopio era uno dei miei passatempi preferiti quando dovevo restare a casa a causa di qualche malattia infantile o di un raffreddore.) Il film di Kentridge Stereoscope prende questa tecnologia arcaica come punto di partenza, ma pone anche una domanda metafisica sulla natura del desiderio e del soggetto diviso in due. Quali sono le conseguenze per un agente umano costretto, nonostante le contraddizioni, a vivere come un essere unitario non-contradditorio? Le divagazioni del film approdano su molti dei temi di Kentridge. Come fa un essere umano a mantenere la sua integrità se, per vivere in modo gioioso, si rende necessario reprimere la propria conoscenza ed esistere come se si fosse ignari della sofferenza generale e dell’ingiustizia politica? E quanto alle ambivalenze del desiderio? Una successiva indagine della prospettiva fa nascere enigmi visuali a proposito della recente mostra di Kentridge What Will Come (Has Already Come). La mostra conteneva alcuni esercizi formali e tecnologici di disegno stereoscopico e antropomorfico (disegno che si affida a un punto di vista radicalmente distorto, una specie di reductio ad absurdum che rende l’immagine pressoché inintelligibile, salvo da un’unica prospettiva molto limitata.) La mostra consisteva di alcuni esperimenti stereoscopici e un cortometraggio anamorfico da cui il nome stesso della mostra. What Will Come (Has Already Come) è l’esplorazione di Kentridge del bombardamento aereo italiano dell’Abissinia con l’iprite, nel 1935-1936. I

to capture them on film from every perspective. While from most angles the constructions are an inchoate mess, at one moment within the 360? revolution, each can be glimpsed as a human form. Through this strategy a minimal narrative arc is constructed within which each wire and paper sculpture reaches outwards to the limits of its own incoherence before it turns back on itself and, through incremental shifts, the parts become realigned in front of the viewer. Suddenly what we see is not a splatter of random marks, but an ordered “representation.”

II: Perhaps I can evoke it through the history of the idea Such enquiries have been at the core of many recent Kentridge works. The short film Stereoscope (1999) is an experiment in which a split frame gives rise to two simultaneous though minimally different sequences. Kentridge’s familiar protagonist Soho Ekstein is seen to exist side-by-side in two parallel universes which at certain points diverge further from one anther, then at times are all but identical. The late nineteenth-century technology of the stereoscope provided a kind of parlor amusement, through which two photographs, shifted minimally to capture a scene alternately from the perspective of the left eye and then the right eye, are positioned side-by-side as distinct frames and viewed through a pair of lenses which make those two images cohere into a single, vividly threedimensional image. This device makes evident the principle of human binocular vision. The stereoscope was one of the technologies which effectively “performed” colonialism within the domestic setting.3 The three-dimensional hyper-realism of the image which is thus generated, allowed for the heightening of visual pleasure. Many stereoscopic images produced for the European marketplace captured scenes of rough, foreign, or barbarous places (the Amazon or the Nile) as well as sites of foreign splendor such as the pyramids, or the Taj Mahal. Wildernesses were as remote as Peru or as proximate as the Scottish Highlands, and all were shown to be apprehended by the gaze of the colonial adventurer and his family back home. What’s more, sites of European scenic wonder such as the Leaning Tower of Pisa or the Alhambra diverted the mind and excited the eye. (I remember the variety of scenes with delight. As a child growing up in South Africa at the end of empire, the stereoscope was a favored distraction which I was allowed to play with when on occasion I was kept at home with some youthful affliction or cold.) Kentridge’s film Stereoscope takes the archaic technology as its point of departure, but it also posits a metaphysical enquiry into the nature of longing, desire, and the split subject. What are the consequences for a human agent who is compelled, despite contradictions, to live as if in a non-contradictory unitary being? The film’s meanderings consider many of the Kentridge themes. How does a human subject retain integrity if, in order to live joyfully, one must repress full knowledge and exist as if ignorant of pervasive misery and political injustice? And what of the ambivalences of desire? A subsequent investigation into perspective gives rise to the visual puzzles in Kentridge’s recent show, What Will Come (Has Already Come). This exhibition included several formal and technological exercises in stereoscopic and anthropomorphic drawing (drawing which relies upon a radically distorted pointof-view, a kind of reductio ad absurdum which renders the image all but unread87


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disegno per / drawing for The Magic Flute, 2004 carboncino e matita colorata su carta / charcoal and colored pencil on paper 120 x 160 cm

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contenuti specifici del film ne fanno una meditazione sia sulla storia che sul punto di vista. Il film suggerisce che dalla prospettiva coloniale sono sorte eredità catastrofiche particolari. È un detto ghanese, “Ciò che verrà è già venuto”, che dà il titolo al film. La frase sembra profondamente fatalista. L’evento è la necessità. Le strutture cicliche hanno sempre fatto parte del lavoro di Kentridge, sebbene lui stesso affermi che la sua visione non si basa su un impegno specifico alla ciclicità, ma piuttosto sul fatto che la storia si struttura in termini di ripetizioni con varianti, in linea con l’interpretazione marxista. Come risposta alla mia domanda, Kentridge pensa ad alta voce sui significati impliciti nella struttura del suo nuovo esperimento formale. Confessa di essere insoddisfatto della logica del ritorno inevitabile e suggerisce che, nella fase finale del montaggio, potrebbe anche sviluppare una strategia che permetta un cambiamento e una traiettoria narrativa non basata sulla ciclicità. Nel momento in cui scrivo queste frasi, il film è un work in progress e non è ancora chiaro quale piega prenderà alla fine. Sembrerebbe, da alcuni esperimenti recenti, che la struttura ciclica nel lavoro di Kentridge sia a volte fonte di consolazione elegiaca o persino di comicità e non soltanto un meccanismo con cui descrivere un’ossessione fatalista. A volte, le ripetizioni nei film suggeriscono un principio di ritorno tale da permettere che l’opera parli sia di lutto che di ricupero. Come nei suoi celebri disegni a carboncino “drawings for projection”, il segno cancellato lascia le tracce degli stadi precedenti dell’immagine, cosicché ogni punto fermo nei film rappresenta sia un’elegia a quegli stadi precedenti sia un istante in una narrazione che si dispiega. C’è quindi una profonda tensione tra la stasi e il flusso. Essere è sia “arrivare a essere” che “passare dall’esistenza”. Vi è un senso di godimento nella transitorietà unitamente a un senso di perdita e a un desiderio di riparazione. In Intelligent Design si percepisce un desiderio di “rimettere insieme” ciò che è stato frantumato o sparso. Le figure scultoree che ruotano ed esplodono per poi riconsolidarsi nella figura coerente del performer sono, come Kentridge stesso ha affermato, versioni delle figure scultoree create per la messa in scena teatrale della Coscienza di Zeno, ma si collegano metafisicamente ed esistenzialmente anche alle scene di frammentazione e riformazione che forniscono i motivi centrali del cortometraggio, Weighing and Wanting. Weighing and Wanting inizia con un disegno a carboncino di una semplice ma elegante tazzina da tè immacolata. Man mano, assistiamo al trauma della discordia domestica e a una scena di veemente conflitto in cui la tazzina viene lanciata e ridotta in frantumi. Però in qualche modo, la tazzina torna poi ad assumere la sua interezza originale, senza traccia di rottura. Nei film sorprendentemente ludici di Kentridge, 7 Fragments for Georges Méliès, l’autore usa le riprese al contrario per manipolare il passare del tempo. Così diventa un gio-

disegno per / drawing for What Will Come (Has Already Come), 2007 dettaglio / detail carboncino e matita colorata su carta, riflesso in un cilindro / charcoal and colored pencil on paper, showing reflection in cylinder 120 x 160 cm

disegno per / drawing for What Will Come (Has Already Come), 2007 dettaglio / detail carboncino e matita colorata su carta / charcoal and colored pencil on paper 120 x 160 cm

able except via a single narrowly defined perspective). The show consisted of several stereoscopic experiments as well as a short anamorphic film that gave rise to the name of the exhibition. What Will Come (Has Already Come) is Kentridge’s exploration of the Italian aerial bombardment of Abyssinia with mustard gas in 1935–1936. The specific content of the film makes it a meditation on history as well as on point-of-view. The film suggests that there are particular catastrophic legacies that have arisen from the colonial perspective. It is a Ghanian adage, “What will come has already come,” that gives the film its title. The phrase seems profoundly fatalistic. Event is necessity. Cyclical structures have informed much of Kentridge’s work, yet he himself has indicated that his understanding is not based on a commitment to circularity, but rather that history is structured through repetitions with differences, along the model of Marxist interpretation. In response to my query, Kentridge muses aloud about the meanings implicit within the structure of his new formal experiment. He confides that he is dissatisfied with the logic of the inevitable return, and posits that he may, in the final phase of making the film, develop some strategy which will allow for change and a narrative trajectory not based upon the cycle. At the stage of writing this essay, the film is still a work in progress, and it is unclear what the ultimate shape of that film may be. It seems from several recent experiments that the cyclical structure in Kentridge’s work is at times a source of elegiac consolation, or even of comedy, and is not solely a mechanism through which to describe a fatalistic compulsion. At times repetitions in the films suggest a principle of return such as allows for the work both of mourning and of recuperation. As in his celebrated charcoal “drawings for projection,” the erased mark leaves traces of prior states of the image, so any still point in the films is both an elegy to those earlier states as well as an instant in an unfolding narrative. There is thus a profound tension between stasis and flux. Being is both “coming into being” and “passing from existence.” There is a sense 89


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condo imbroglione che distrugge le immagini di se stesso prima di ripristinare la loro interezza mediante un capriccioso gioco di prestigio.

III. È un universo che esplode? Le figure scultoree, create attraverso il complesso gioco d’ombre descritto all’inizio dell’articolo, vengono filmate mentre volteggiano in una danza sia infinita che statica. Le sculture si trasformano in personaggi (“il tenore”, “il soprano”, “il direttore d’orchestra”) per un attimo sfuggente. Queste forme fisse poi passano l’istante ed esplodono di nuovo in frammenti mentre le ombre si frantumano in un gesto di dispersione apparentemente infinita, ma alla fine si risolvono nuovamente in esseri circoscritti. Non posso che immaginare Kentridge come se modellasse il cosmo, come aveva fatto quando costruiva le sequenze dell’aria della Regina della notte nel suo Flauto magico. In quel caso, i movimenti planetari si figuravano come particelle subatomiche che circolavano in orbite variabili. In Intelligent Design, la logica di espansione-contrazione dà l’idea che il nostro sia un universo chiuso, soggetto a pulsazioni alternate tra l’eternità e l’immediato; che periodicamente la materia imploda su se stessa e, una volta raggiunta una massa critica, esploda nuovamente verso il vuoto circostante. Ogni studente di arti cinematografiche impara presto la regola dei 180 gradi. La macchina da presa non può attraversare questa linea perché lo spettatore non potrà identificarsi in un punto di vista che non stabilisca prospettive precise per “chi guarda” e “chi è guardato”. Il mezzo filmico, a quanto pare, alla luce della sua alleanza ideologica con la storia del potere, non può tollerare l’incertezza che presenta un locus visivo destabilizzato. Punti di vista oscillanti sono governati dalle ferree convenzioni delle regole della ripresa/ripresa inversa che guidano un dialogo tra angolazioni di presa alternanti. Kentridge è molto consapevole di questa convenzione di scambio e l’ha sfruttata in modo molto efficace nei suoi film come The History of the Main Complaint. Il film alterna riprese di

video stills da / video stills from Invisible Mending (da / from 7 Fragments for Georges Méliès), 2003

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Soho Eckstein che guida la sua auto e riprese all’interno della sua coscienza, mentre vediamo ciò che vede lui attraverso il parabrezza. Il film fu distribuito nello stesso anno delle prime udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione in Sudafrica. Il complesso interscambio di mediazione, colpevolezza e testimonianza nel film non può che essere radicato in qualche misura nel contesto storico. Va sottolineato che questo è il primo film in cui il dualismo di Felix

of delight in transience as well as of loss and a desire for reparation. In Intelligent Design there is a longing to “make whole” that which has been shattered or scattered. The sculptural figures which revolve and explode and then coalesce into a coherent figure of a performer are, as Kentridge has said, versions of the sculptural figures made for the theatre piece, The Confessions of Zeno, but they are also linked metaphysically and existentially to the scenes of fragmentation and restoration which provide the central motifs in the short film, Weighing and Wanting. Weighing and Wanting begins with a charcoal drawing of a modest but elegant and immaculate teacup. As the film unfolds we witness the trauma of domestic disharmony, and we are shown a scene of vehement conflict during which the cup is thrown and smashed. By the close of the film, somehow, the cup has been restored to its primary oneness, with no traces of damage. In Kentridge’s astonishingly playful films, 7 Fragments for Georges Méliès, he uses reversed footage through which to manipulate the passage of time. He becomes a playful trickster who shreds images of himself and restores them to wholeness through whimsical sleights of hand.

III: Is it an exploding universe? The sculptural figures, made through the complex shadow art described at the start of this essay, are filmed as they revolve in an infinite yet static dance. The sculptures turn themselves—yes, literally turn themselves—into characters (“the tenor,” “the soprano,” “the conductor”) for one fleeting moment. These fixed forms then pass that instant and explode outwards again into fragments as the shadows shatter in a motion of apparently infinite dispersal, but then ultimately they are resolved down again into finite beings. I cannot resist imagining that Kentridge is modeling the cosmos, as he had done when con-

structing the sequences for the Queen of the Night aria in his Magic Flute. There, planetary motion was figured as subatomic particles swirling in variable orbits. In Intelligent Design, the logic of expansion and contraction suggests that ours is a closed universe, one which pulses alternately between eternity and the immediate; that matter periodically falls back upon itself, and then having reached a critical mass, again explodes outward into the void. 91


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Teitelbaum/Soho Eckstein, che erano stati i protagonisti dei primi film, si risolve in una figura unica che non è né del tutto Soho né completamente Felix. Durante i film seguenti, l’essere unitario, soggetto di History of the Main Complaint, si divide nuovamente in due, ma con la tecnica di utilizzare palesemente dei doppelganger, con Soho che presenta due facciate di se stesso. Formalmente, Intelligent Design costituisce un esperimento più radicale. Ipotizza che l’evento e la materia avvengano in modo casuale, che solo per sporadico caso le costellazioni delle volte si assemblano davanti allo spettatore per creare l’illusione della coerenza e dell’identità. È lo spettatore che conferisce il senso al mondo: il significato non è “là fuori”. Piuttosto, è un effetto causato dall’osservatore. È un atto di volontà.

Every undergraduate film student learns about the 180? rule. The camera cannot cross the line because a viewer will not be able to identify with a point of view which does not establish precise perspectives for the “looker” and the “looked upon.” Film form, apparently, given its ideological alliance with the history of power cannot tolerate the uncertainty which arises from a destabilized locus of vision. Fluctuating points of view are governed by the strict conventions of the shot/reverse shot rule that institutes a to-and-fro dialogue between camera angles. Kentridge is keenly aware of this exchange and has used it to great effect in films such as The History of the Main Complaint. There we alternately watch Soho Eckstein driving his car, and intermittently we enter into his consciousness as we see what it is that he is seeing through his windscreen. The film was released in the same year as the first hearings at the Truth and Reconciliation Commission in South Africa. The complex intersection in the film, of agency, culpability, and witnessing surely arise in some measure from the historical context. It is worth noting that this is the first film in which the duality of Felix Teitelbaum/Soho Eckstein that had provided the protagonists of the earlier films resolve themselves into one figure who is neither wholly Soho nor absolutely Felix. Over the succeeding films the unitary being who is the Subject of The History of the Main Complaint becomes again split, but now the strategy is to use overt doppelgangers, with Soho as two facets of himself. Intelligent Design is formally a more radical experiment. It proposes that event and matter occur randomly, that only through sporadic accident do constellations at times assemble themselves before a viewer in order to create the illusion of coherence and identity. It is the viewer who transfers significance to the world: meaning is not “there.” Rather, it is an effect of the observer. It is an act of Will.

1. Plotino, Enneadi (a cura di Giuseppe Faggin). Milano, Rusconi, 1996, p. 1273. 2. Attualmente il titolo del film non è ancora stato deciso. Nei nostri primi colloqui, Kentridge ha suggerito scherzosamente che avrebbe chiamato il pezzo Intelligent Design. Per comodità, userò il titolo qui di seguito, pur essendo consapevole che in futuro potrebbe cambiare. Detto ciò, ammetto che mi attira molto l’astuta molteplicità di significati insita in quello spicciolo suggerimento di William. 3. Questa storia della visione rapportata alle nuove frontiere tecnologiche è meglio documentata in Techniques of the Observer di Jonathan Crary. 92

1. Epigraph to Jacques Derrida and Maurizio Ferraris, A Taste for the Secret PUBLISHER< CITY< YEAR????????. 2. At this point the name of the film is still unresolved. Early in our discussions, Kentridge jokingly indicated that he might call the piece “Intelligent Design.” For the sake of convenience, I will be using that title here, although I am aware that that may no longer be accurate. Nonetheless, I myself am attracted to the rather wry multiplicity of meanings in that throw-away suggestion of William’s. 3. This history of vision in relation to technological breakthroughs is documented most readily in Jonathan Crary’s Techniques of the Observer. Cambridge, MA: MIT Press, 1992. 93


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