Bellezze e la bestia

Page 1

POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004 ART. 1, C. 1, DCB MILANO - PUBBLICAZIONE SETTIMANALE IL VENERDÌ CON IL CORRIERE DELLA SERA € 2.00 (SETTE € 0.50 + CORRIERE DELLA SERA € 1.50) - NEI GIORNI SUCCESSIVI € 1.50 + IL PREZZO DEL QUOTIDIANO. NON VENDIBILE SEPARATAMENTE

4 MARZO 2016 — nuMeRO 9

AFricA Autoritratto

di un continente popolato da santi, rivoluzionari e schiavi troppo presto dimenticati di Michele Farina

l’intervistA Riccardo

L’attrice Angelina Jolie dà voce a Tigre in Kung Fu Panda 3.

Cocciante: «Non amo ripetermi ma torno a Quasimodo perché mi rispecchio in lui» di Mario Luzzatto Fegiz

Adozioni e integrazione, la lezione di Kung Fu Panda Il terzo episodio indaga il rapporto tra natura e civiltà, toccando temi caldi in Italia e svelando gli ingredienti necessari per il dialogo tra cuccioli e genitori di Danilo Mainardi



EDITORIALE

Un po’ d’orgoglio

5

di Pier Luigi Vercesi

marzo di 140 anni fa, 1876, prima domenica di Quaresima secondo il rito ambrosiano. Per consuetudine, a Milano i giornali fanno festa, ma nelle vie semibuie della città viene distribuito un nuovo foglio. È una trovata per il lancio, che ha successo. Eugenio Torelli-Viollier, il direttore, qualche giorno prima aveva scritto a Raffaello Barbiera, suo capocronista: «Il Corriere della Sera sarà il giornale più indipendente. Si fonda con centomila lire, offerte da giovani facoltosi della migliore società di Milano». O, come si sarebbe detto poi, il salotto buono. Il Corriere, giornale illuminato ma borghesissimo, era vicino alla Destra e gli toccò una partenza in salita: tredici giorni dopo il primo numero, il governo di Marco Minghetti cadde sotto i colpi della Tassa sul macinato, evento che spalancò le porte alla Sinistra. Era redatto in una lunetta della Galleria Vittorio Emanuele e si stampava in uno stanzone semibuio, giù nei sotterranei, da dove partiva, alla volta della redazione, un bossolo di latta sospeso a una cordicella. Così gli articoli e le bozze viaggiavano su e giù dalla tipografia. Un pomeriggio, racconta Barbiera, «aperto un uscio a vetri, entrò il sorridente deputato Riccardo Pavesi. Si appartò in una stanzuccia col Torelli e gli tenne un discorso che attraverso le pareti quasi cartacee udii benissimo. Aveva un mandato del prefetto che, per modificate riflessioni, non avrebbe potuto in seguito prestare appoggio al Corriere della Sera se questo non si fosse avvicinato al partito che ormai era l’espressione della volontà del paese, come Agostino Depretis, capo del nuovo governo, aveva proclamato nel discorso di Stradella. E il giovane deputato, con tono blando, aggiungeva che le evidenti difficoltà finanziarie alle quali il nuovo giornale andava incontro, sarebbero state, amichevolmente, silenziosamente, e fin da quel momento, appianate. D’un tratto, la voce del Torelli, che sino allora era taciuta, vibrò, rispondendo un no così reciso che il Pavesi perse il sorriso». Il nuovo giornale continuò, così, tra mille difficoltà economiche e politiche. Ma in quello stava la sua reputazione. Torelli-Viollier persisteva a non calcolare le conseguenze delle sue prese di posizione, forse perché era cresciuto alla scuola di Alexandre Dumas e dei Tre moschettieri. Doveva contendere lettori a un colosso, Il Secolo edito da Edoardo Sonzogno e diretto da Ernesto Teodoro Moneta, che si vantava di essere, oltre all’organo della democrazia, soprattutto quello della “tecnologia”, perché aveva fatto massicci investimenti nei servizi telegrafici. Per sopravvivere, nel 1877 anche il Corriere si attrezzò e, per convincere i lettori che le notizie erano “le più fresche”, fece installare una vetrinetta in Galleria dove esporre i dispacci originali. Qualche decennio dopo, la gente faceva ancora la coda davanti a quelle bacheche per leggere, in anteprima, gli articoli spediti, da ogni parte del mondo, dall’inviato speciale che insegnò il mestiere a tutti quelli venuti dopo di lui: Luigi Barzini. pvercesi@corriere.it © RIPRODUZIONE RISERVATA

Contenuti/ N°9 — 4 marzo 2016

48

Umberto Eco

40

L’Africa del futuro

Opinioni 7 / Italians di Beppe Severgnini

15 / Italia sì, Italia no di Aldo Cazzullo

8 / Cavalli di razza di Gian Antonio Stella

16 / A che Prezzo di Danilo Taino

10 / Malintesi di Aldo Grasso

17 / Finestra sul cortile di Antonio Polito

10 / Check-Point Elle di Ellekappa

18/ Consegna pacchi di Antonio D’Orrico

12 / Flash News di Maria Luisa Agnese

18 / Parole ritrovate di Alessandro Masi

14 / Religioni e Civiltà di Andrea Riccardi

19 / ControTempo di Federico Fubini

14 / Disamore di Cesare Viviani

20 / Ponti&Muri di Stefano Jesurum 20 / Le liste degli altri di Severino Salvemini

Sette è in edicola tutti i giorni Sette del Corriere della Sera è sempre con voi. Oltre al venerdì, con il quotidiano a 2,00 euro, si può comprare nei giorni successivi, sempre in abbinamento con il Corriere, a 1,50 euro più il prezzo del quotidiano. LA NOSTRA CARTA Questo giornale è stampato su carta che deriva da legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici.

21 / ControVerso di Nuccio Ordine 21 / Una scena, un’immagine appena di Roberto Burchielli 22 / Diritti e Rovesci di Luigi Ferrarella 23 / Blowin’ In The Web di Roberto Cotroneo 24 / Storie (di) note Umberto Broccoli 25 / Scoperte e rivelazioni di Vittorio Sgarbi 26 / D’Amore e di Altri Disastri di Maria Laura Rodotà

In copertina,

Angelina Jolie e Tigre DreamWorks

SETTE | 09— 04.03.2016

3


Contenuti / Nº9 — 4 marzo 2016

Attualità 28 / Predatori e prede, uomini e animali. È al cinema che i bambini imparano come si vive in comunità di Danilo Mainardi

44 / MediOrienti di Davide Frattini

30 / Angelina Jolie: «Con Po ci chiediamo: a quale posto appartengo?» di Tony Horkins

46 / Europa di Donatella Bogo

32 / «Sono tutti democristiani riciclati che vanno dove li porta la convenienza» di Vittorio Zincone 34 / (Auto) ritratto di un continente di Michele Farina 40 / «Vi spiego la mia macchina del tempo» di Chiara Mariani 42 / L’America che trovi di Massimo Gaggi 43 / Latinos di Rocco Cotroneo

45 / AfrAsia di Edoardo Vigna

47 / BuonIncontri di Andrea Milanesi 47 / DirittiDesiderabili di Paola Severini Melograni

56

Marte trivellato

47 / QuartieriTranquilli di Lina Sotis

58 / Lawrence d’Arabia? Un patriota, bugiardo, spietato e sadomaso di Mirella Serri

48 / Umberto Eco, maestro della mossa del cavallo di Roberto Cotroneo

60 / Mille e più baci per Lesbia non posson bastare di Eva Cantarella

52 / «Detesto ripetermi, ma torno a Quasimodo perché mi rispecchio in lui» di Mario Luzzatto Fegiz

62 / «Una donna deve odorare di donna». E nacque Chanel n. 5 di Aldo Nove

56 / Gli italiani vanno su Marte con un disco volante per “trivellare” il pianeta di Giovanni Caprara

65 / Parola Chiave di Giorgio Dell’Arti

66 / Crisi o non crisi l’importante è volare alto di Massimo Donelli 68 / Quei “separatisti” siculi nel Pantheon di Indro di Enrico Mannucci 71 / Il mio eroe di Salvatore Giannella 71 / InVisibili di Simone Fanti

62

Stili di vita

Coco Chanel

73 / Cover di Gian Luca Bauzano

76 / Fitness di Andrea Milanesi

74 / Milano Moda Donna Inverno 2017 a cura di Gian Luca Bauzano

76 / En vogue di Alessandro Calascibetta

76 / Beauty di Cristina Milanesi

Piaceri&Saperi 79 / Cover di Micaela De Medici

84 / Serie Tv di Arnalda Canali

79 / Usi & Abusi di Maurizio Cucchi

84 / Documentari di Fabio Bottiglione

80 / Cinema di Paolo Mereghetti e Claudio Carabba

85 / Telescherno di Stefano Disegni

81 / Scuola di Giovanni Pacchiano 82 / Musica di Matteo Persivale 82 / I dischi della settimana di Stefania Ulivi 83 / Parentesi Jazz di Lorenzo Viganò 83 / Effetto Note di Mario Luzzatto Fegiz 83 / Tecnologia di Andrea Milanesi 84 / Telepatici di Paolo Martini 4

Sette | 09— 04.03.2016

85 / Vediamoci(in)chiaro di Chiara Maffioletti 86 / Libri di Antonio D’Orrico 88 / Saggistica di Diego Gabutti 89 / Passato Presente di Lucrezia Dell’Arti

94

90 / Il pensionato muore ma è solo un «danno collaterale» di Diego Gabutti 92 / Tempo al Tempo a cura di Manuela Croci 94 / Arte e Oltre di Francesca Pini 96 / Viaggio di Ilaria Simeone 98 / Detti & Contraddetti di Luigi Ripamonti 99 / Consigli alimentari di Caterina e Giorgio Calabrese

99 / Pagine di Scienza di Giovanni Caprara 100 / BenEssere di Elena Meli 100 / Sex & The Science di Anne Kelly 101 / Dolori addio di Dario Oscar Archetti 102 / Fondazione Corriere di Daniele Angi 103 / Cocktail Martini di Paolo Martini 104 / L’edicola di Peppe Aquaro 105 / Oroscopo di Alessandra Paleologo Oriundi

Arte 106 Lettere al Direttore la nostra mail è lettereasette@rcs.it




Beppe Severgnini / Italians www.corriere.it/italians

Alla fine non resta che Hillary Si vota sempre il meno peggio. E qui c’è chi (Sanders) è buono per la coscienza ma non per governare e chi, come Rubio, resta un peso medio. Trump? Aaaaaargh!

Andrea Cogliati andreac71@hotmail.com

Rubo il titolo a un commento che la mia amica Anne Applebaum – autrice e columnist americana – intende scrivere: “Abbasso Hillary! Votiamola tutti”. Una contraddizione? Macché. Si vota quasi sempre il meno peggio (ingenui, entusiasti e fanatici fanno eccezione). In Europa o in America: fa lo stesso. Il catalogo è questo. Tra i democratici, Bernie Sanders è la versione yankee di Jeremy Corbyn: buono per massaggiarsi la coscienza, non per governare un Paese. Tra i Repubblicani Ted Cruz è un estremista; Marco Rubio, un peso medio (forse crescerà). Donald Trump? Aaaaaaaaaargh! (non è un’esclamazione: è un editoriale). Resta Hillary. In un mondo complicato, mi sembra la soluzione meno rischiosa – anche per noi europei. Il 2016 non è il 2008. I sogni hanno lasciato spazio agli incubi, e dobbiamo svegliarci.

È questione di testa, non di lingua

Caro Severgnini, in merito al discorso della “fuga dei cervelli”, specialmente dei ricercatori, tempo fa lei disse che andrebbe bene che vari italiani emigrassero in Europa se poi altri arrivassero dagli altri Stati del vecchio continente, perché dovrebbe essere una ruota: si dovrebbe uscire, ma anche entrare. Per l’Italia ora c’è un senso unico in uscita: si parla di più 100.000 italiani trasferitisi all’estero per lavorare nel 2015. È vero che l’attrattiva del nostro

MANUELA BERTOLI

C

aro Bsev, non ho ancora letto, se non tra le righe, il tuo pensiero sulle elezioni americane. Per chi tifi questa volta? Il New York Times, che mensilmente ti ospita, si è schierato con Hillary Clinton. Condividi? O preferisci l’”underdog” Bernie Sanders, che deve lottare non solo contro una macchina elettorale potentissima, ma anche contro buona parte del partito con cui ha scelto di correre (non dimentichiamo che è stato indipendente fino al 2015). Oppure ti stai lasciando sedurre dal lato oscuro della Forza, magari da un candidato moderato come John Kasich (fra tutti il mio preferito, purtroppo con modeste speranze di vincere le primarie) o l’”Obama repubblicano”, Marco Rubio?

sistema è piuttosto bassa (pochi posti per ricercatori), ma potrebbe anche essere che la lingua sia una barriera? Cioè, l’italiano è poco conosciuto nel mondo negli ambienti della ricerca: potrebbe essere che, oltre al resto, anche ciò scoraggi chi potesse scegliere tra Italia e un altra nazione? Alberto Pletti albertopletti@gmail.com

Il problema non è la lingua (nelle università, nei laboratori e nelle aziende d’avanguardia si parla inglese). Il problema è la testa. Troppi ambienti italiani respingono gli stranieri (e gli italiani di rientro), temendone la concorrenza. O li ostacolano. È un’assurdità: l’Italia offre – offrirebbe – opportunità per tutti.

La Brexit non è la prima sfida dell’Ue

Caro Beppe, cosa ne pensi dell’accordo Gb-Ue? Io la penso così, citando Churchill: potevamo scegliere tra il disonore e la guerra; abbiamo scelto il disonore, avremo la guerra. Spero che, ancora una volta, siano i cittadini britannici a salvarci, scegliendo col prossimo referendum di uscire da questa Ue che non funziona, ormai a pezzi. E te lo dice un europeista convinto, uno che ha sempre declinato la propria identità come sardo, italiano, europeo.

Alessandro Sanna iskander66@gmail.com

Penso che l’Unione Europea abbia affrontato molte sfide, prima di questa. Nata da una guerra, ha superato la crisi petrolifera degli

anni 70, il vuoto a Est negli anni 90, lo sconquasso finanziario degli anni Duemila: ogni volta ne è uscita ed è ripartita. La pressione delle migrazioni è una prova formidabile: la Ue potrebbe soccombere, certo. Ma non è detto. Lasciare l’Unione, per la Gran Bretagna, sarebbe una decisione miope ed emotiva. Per un popolo lungimirante e razionale, una sconfitta. “Grace under fire” – mostrare grazia sotto il fuoco nemico – è una delle qualità più ammirate, Oltremanica. Scappare e chiudersi? Indecoroso.

Troppe sigle per capire la scuola

Caro Severgnini, la scuola sta cambiando e lo si vede anche attraverso nuove sigle/ definizioni. Molti infatti sono BES (alunni con bisogni educativi speciali) per i quali si deve stendere un PDP (piano didattico personalizzato), ma se sono NAI (nuovi arrivi in Italia) si deve compilare il PEP (piano educativo personalizzato). In classe però ci sono anche i DSA (alunni con disturbo specifico dell’apprendimento) che hanno il PEI (piano educativo individualizzato), i DDAI o gli ADHD (deficit attenzione e iperattività), i DSL (disturbi del linguaggio) che fanno parte dei DES (disturbi evolutivi speciali). Che mi dici? Laura Soliveri soliveril@tiscali.it

NHCN (Non Ho Capito Niente) (ha collaborato Paolo Mas“a) © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

7


Gian Antonio Stella / Cavalli di razza

Il computer dell’Inps è uno strozzino Ma chi controlla i messaggi automatici? L’Istituto contesta cifre insulse, avvisa i morti sui loro ricorsi e, dopo sette anni di controllo, esige una restituzione in tre settimane

M

scusa a nome della macchina cretina e crudele. Anche il cambio dei vertici dell’istituto con la nomina a presidente di Tito Boeri, cui va riconosciuto uno sforzo di trasparenza perfino a dispetto di quella politica che preferirebbe mettere i problemi sotto il tappeto, ahinoi non è riuscito a far rinsavire il computer. Programmato evidentemente senza un briciolo di buon senso.

MANUELA BERTOLI

a chi li controlla, i messaggi automatici dell’Inps? Nell’ottobre 2013 Sua Eccellenza La Stupidità Digitale, cioè il computer dell’Istituto di previdenza, fece fare un mezzo coccolone al pensionato Emilio Canali, 85 anni, di Rimini, con l’intimazione a pagare quanto indebitamente percepito dal 1 gennaio del 1996 al 31 dicembre del 2000 (cioè da 18 a 13 anni prima!) poiché erano « state corrisposte quote di pensione non spettanti, in quanto l’ammontare dei redditi personali è superiore ai limiti previsti dalla legge». «Oddio! Sono spacciato!», pensò il pover’uomo. E scorrendo tremante il dito cercò la cifra: «euro 0,001». Un centesimo! Il costo di un pop corn. Uno di numero. Seguiva, con irresistibile comicità, un’ avvertenza: se il pensionato non fosse stato in grado di pagare avrebbe potuto recarsi agli uffici dell’Inps per «concordare la rateizzazione del dovuto». Un capolavoro. Nel 2014, peggio ancora. Giuliano Strofaldi, un signore che abita a Brescia, apre una lettera dell’Inps per la moglie e ci trova un messaggio che nella sostanza dice: «Gentile signora, la sua pensione di invalidità non può essere erogata in quanto lei è morta». E così è, purtroppo: la sua Concetta se n’è andata il 4 maggio di due anni prima. Poco prima di andarsene a poco più di cinquant’anni, però, quando già stava malissimo, aveva chiesto il vitalizio di invalidità. Due anni e mezzo dopo (due anni e mezzo!), ecco la risposta indirizzata non al vedovo ma alla defunta: «Le comunico che non è stato possibile accogliere la domanda in oggetto, presentata il 23/03/2012 per il seguente motivo: la domanda di pensione di inabilità è stata

Il bollettino Mav a una 91enne L’ultima “trovata”: è stato inviato a una 91enne con mille euro di pensione, un bollettino Mav con la richiesta di pagare 15 mila euro entro 25 giorni.

accolta secondo i criteri medico-legali ma non viene erogata in quanto la cessazione dell’attività lavorativa è avvenuta con il decesso». Testuale. «La informiamo che, nel caso volesse impugnare il presente provvedimento», proseguiva la lettera alla morta, «potrà presentare un ricorso amministrativo esclusivamente online attraverso il portale www.inps.it nello spazio riservato ai Servizi Online» oppure «tramite i patronati e tutti gli intermediari autorizzati dell’Istituto…». O ancora, ovviamente, «potrà proporre azione giudiziaria…» Una figuraccia. Tanto che l’allora direttore generale Mauro Nori, e ciò gli fece onore, si precipitò a chiedere pubblicamente

RISCOSSIONI IMMEDIATE Ed ecco che il 24 febbraio scorso è arrivata alla signora Maria Teresa Luciani, novantuno anni, insegnante in pensione e madre di Roberto Della Seta, già presidente di Legambiente e poi senatore del Pd («Per fortuna l‘ho letta io sennò rischiava un infarto») una lettera dell’Inps che dice: «La informiamo che, nel periodo che va dal 1/1/2005 al 30/6/2009 sono stati pagati 14.910,80 euro in più sulla sua pensione». Perché? Perché «sono state corrisposte quote di pensione ai superstiti non spettanti in quanto l’ammontare dei redditi è superiore ai limiti previsti dalla legge 335/95. In allegato a questa lettera troverà un bollettino Mav che dovrà utilizzare per il pagamento della somma dovuta entro il 20/3/2016». Giusto? «Può anche darsi», risponde Della Seta, «Ma a parte il fatto che l’errore, se c’è stato, lo commise l’Inps perché certo mia mamma non avrebbe mai fatto la furbetta, chiedo: come può l’ente pubblico prendersi sette anni per fare i suoi controlli e poi intimare a una novantunenne con mille euro di pensione diretta e 350 di reversibilità di tirar fuori di colpo quasi quindicimila euro entro venticinque giorni?». L’Inps sette anni, la vecchia tre settimane: il computer è anche strozzino…

© RIPRODUZIONE RISERVATA

8

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Nuova

Renault MEGANE Wake up your passion.

Risveglia la tua passione di guida a bordo di Nuova Renault MEGANE con l’esclusiva tecnologia Multi-Sense®, l’Head-Up Display a colori e il sistema multimediale R-Link 2. Vieni a provarla, ti aspettiamo in concessionaria.

Emissioni di CO2 da 95 a 134 g/km. Consumi (ciclo misto): da 3,7 a 6 l/100 km. Emissioni e consumi omologati.


Aldo Grasso / Malintesi agrasso@rcs.it

Guelfo Guelfi, l’incendiario-pompiere Figlio di partigiani, un passato in Lotta Continua, il consigliere Rai, ora vicino a Renzi, esalta la tv “buona” di Bernabei: quella dei «2o milioni di teste di c...»

«

Check-Point Elle

Share, tv rassicurante, Ettore Bernabei… Insomma, il nuovo che avanza. E dire che il dottor Guelfi ha un passato da incendiario. Figlio di partigiani, si appassionò subito di politica. Della sua infanzia ricorda «una porta aperta, e dietro c’era una tavola dove mio padre si sedeva a mangiare con altri compagni e si parlava di politica con una passione di sguardi e voci che ancora oggi ricordo. Ero piccolo e non capivo quel che si dicevano. Ma quegli sguardi li capivo e continuo a capirli tutt’oggi». STEFANO CAROFEI / IMAGOECONOMICA

S

i nasce incendiari e si finisce pompieri». L’aforisma, di fatale verità, è attribuito a Pittigrilli (Dino Segre, 1893-1975), di padre ebreo e madre cattolica, scrittore di successo che finì per essere membro dell’Ovra, la polizia segreta del fascismo. Sapeva ciò di cui parlava. Pensavo a questo destino terreno leggendo un’intervista a Guelfo Guelfi, consigliere di amministrazione della Rai. Cosa dice di tanto sconvolgente il dottor Guelfi? Incalzato da Giovanna Cavalli sulle nomine di Viale Mazzini, si abbandona a magnificare i grandi successi della Rai: «Con il Festival di Sanremo siamo riusciti a raggiungere quasi il 50 per cento di share per cinque sere di seguito, senza creare polemiche, è un miracolo, no? Abbiamo fatto una televisione buona, rasserenante». Cavalli: «Come quella che vorrebbe... il premier Renzi». Guelfi: «Ovvio, è il presidente del Consiglio. Ma la voglio anch’io, una tv buona. Sa cosa diceva il grande Ettore Bernabei? Mandate a letto sereni gli italiani, altrimenti diventano cattivi. E aveva ragione, sa?».

LAUREA E AMICIZIE Guelfi viene da Lotta

Continua ed è molto amico di Adriano Sofri; in occasione del processo di primo grado per l’assassinio del commissario Luigi Calabresi testimoniò contro la versione (che poi risultò decisiva) del pentito Marino e a favore di Sofri. Ma il dottor Guelfi è anche amico del padre di Renzi, Tiziano, che difende a spada tratta ogni volta che spunta qualche magagna, ed è presidente del Teatro Puccini di Firenze fondato da Sergio Staino, disegnatore storico dell’Unità. Poi la vita va come deve andare: «Prima

Consigliere Guelfo Guelfi, classe 1945, nel cda Rai dall’anno scorso, indicato dal Partito democratico.

di fare il bene del Paese, pensavo di provvedere alla mia prossima vecchiaia. Fu per questo che mi laureai. Poi forse c’era anche quell’altra questione “dell’operaio che vuole il figlio Dottore” ma più sullo sfondo... Mi sono laureato il 13 ottobre del 2005, il giorno del mio sessantesimo compleanno. Mi ero iscritto nel 1965, quarant’anni prima. L’ho fatto perché il titolo è d’obbligo per svolgere un ruolo dirigenziale nella pubblica amministrazione. Quindi se mi danno del dottore non devo smentire come fanno Gad Lerner e Massimo D’Alema». Ha fatto il pubblicitario, è entrato nel cerchio magico di Renzi, vive a Fiesole e ora finisce con il citare Bernabei, quello che diceva: «i telespettatori italiani sono venti milioni di teste di ca…».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

10

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


...scegli il tuo Trend


Estasi canora. Roberto Formigoni non si prepara alla levitazione come Santa Teresa d’Avila: trattasi di karaoke simil-sanremese, ai microfoni di Radio2, in Rose Rosse (per chi?).

In posa alla Belen. Anche il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha tempo libero, tanto ci pensa Putin. Qui sverna in completino etnico rivisitato, sulle nevi di casa a Kransaya Polyana, ski resort alla moda russa.

© riproduzione riservata

Maria Laura Antonelli / AGF

Flash News / a cura di Maria Luisa Agnese

Chiudete l’audio. Fa bene Matteo Orfini a tapparsi le orecchie, e poco importa se il gesto è per Formigoni colto da raptus canoro o per le urla che salgono dal suo Pd. Meglio disconnesso!


PHOTOSHOT/SINTESI (2)

@maragnese

Grazie, preferisco Putin. Gerad Depardieu lascia per un attimo l’amata Russia per Berlino per presentare il suo film Saint Amour e lodare il presidente russo. E cerca pure di fare la faccia dura, come lui.

Scaramantico. Non sa proprio che pesci pigliare Pep Guardiola dopo il pareggio in extremis della Juve con il suo Bayern Monaco. E allora mette in campo la maledizione italica: «Perché i tedeschi con voi non vincono mai?».

L’incredibile sfida all’ultima nota dei nostri politici

AUGUSTO CASASOLI/A3/CONTRASTO (2)

Si può fare di più. A Giovanni Malagò fa gola l’eleganza di Medvedev, ed è geloso: Ma come, a me solo la coccardina? Vabbè che è tricolore, ma nel Paese del made in Italy ci si poteva sforzare un po’.

sa allegria cantando e sfidandosi all’ultima nota, in una specie di riedizione del Festival a Sanremo da Pecora, un karaoke casereccio a Radio2. C’erano i bravi presentatori, Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, c’erano sei politici fra deputati e senatori, e c’era la giuria con la conduttrice pop Mara Venier, l’architetto star Massimiliano Fuksas e il consigliere Rai il sempre smart Carlo Freccero. E non si sa PAOLO TRE/A3/CONTRASTO

A quello che sto per dirvi non ci potrete credere, ma è incredibilmente vero. Nella settimana della (quasi) guerra di Libia, del voto di fiducia per le unioni civili, dell’Italia intercettata, della ripresa che non c’è, della cavalcata di Donald Trump, e perché no? del dramma di Totti, e via andare, i nostri politici se la son voluta spassare un po’. E han pensato di concedersi un momento di peno-

chi fosse il peggiore, anche se i premi sono stati distribuiti e primo è risultato Mario Mauro (Gal) con Cielito Lindo, ultimo Roberto Formigoni (Ap) con Rose Rosse. Se non avete visto con i vostri occhi, andate da buoni San Tommaso su Youtube e vedrete e udirete le delizie del karaoke estremo di Gasparri e compagnia. Un tempo si diceva canta che ti passa! Ma sarà vero? Sono un Mister, non un Signore. «Con Totti tutto a posto, ma rifarei tutto quello che ho fatto». Ovvero, nessuno di noi avrebbe voluto essere nei panni di Luciano Spalletti.


Andrea Riccardi / Religioni e civiltà

Sia chiaro, il futuro è una società meticcia La “negoziazione”, sosteneva Eco, è la difficile via per gestire l’immigrazione. Serve una visione chiara. E l’integrazione dei leader islamici con le istituzioni

N

ei giorni scorsi, molti sono intervenuti su Umberto Eco, dopo la sua scomparsa: un grande umanista italiano di livello internazionale, espressione coerente della cultura italiana, ma anche figura rara ai nostri giorni. Mi vorrei solo soffermare su un aspetto – non il più noto – della sua riflessione: gli immigrati. Nel 2012 ero ministro della Cooperazione e integrazione nel governo presieduto da Mario Monti. C’era stata in quei mesi un’indiscutibile evoluzione nell’opinione pubblica sul modo con cui si dibatteva sugli immigrati, con l’abbandono di paure («parlarne fa perdere i voti») o di stereotipi, come l’invasione. Restava la domanda centrale sull’integrazione. Chiesi sostegno a Umberto Eco. Era il novembre del 2012 ed Eco intervenne in un convegno, organizzato dal mio ministero e dall’Università per Stranieri di Perugia. Avevamo dinanzi la crisi del modello francese d’integrazione (assimilazionista) e di quello britannico (multiculturale). Ero convinto – e lo sono ancora – che l’Italia si fosse mossa fino ad allora in modo pragmatico, non per questo sbagliato. Ma ci voleva maggiore chiarezza: il futuro sarebbe stato l’integrazione o il conflitto? Ce lo chiediamo oggi, più di ieri. Eco parlò in una prospettiva storica. L’Europa frutto di una lunga storia di meticciato tra poDIS AMORE

gran numero di badanti e colf), ma anche la piccola e media industria. Per non parlare del ruolo fondamentale della scuola. Un compito importante appartiene oggi alle religioni che, quasi per tutti gli immigrati, conservano la memoria dell’identità e delle norme tradizionali di vita. Qui c’è la questione dei musulmani, i cui leader territoriali e nazionali vanno inseriti in un contesto interattivo di relazioni con gli altri capi religiosi e con le istituzioni. Come ministro, volli una conferenza permanente “Religioni, cultura e In parte il modello ha funzionato integrazione”, cui partecipavano spontaneamente in Italia tramite i leader religiosi –tra cui i musulmani –, valorizzando la loro la famiglia, l’industria e la scuola. capacità integrativa rispetto ai Ma non possiamo lasciare al caso fedeli. L’integrazione dei leader la costruzione della nostra società religiosi sul territorio in contatto con le istituzioni è un fatto decisivo: il dialogo sociale e interreligioso della società e non solo dell’economia e è la negoziazione della vita quotidiana. Per della politica). Questa però comporta una questo, ci vogliono iniziative, strumenti e coscienza matura – aggiungeva – di ciò cultura, che spesso mancano. Ci vuole soche siamo: «Riflettere sui nostri parametri prattutto la visione del futuro che Umberto significa anche decidere che siamo pronti Eco indicava: saremo una società meticcia. a tollerare tutto, ma che certe cose per noi A questo, dobbiamo prepararci e non visono intollerabili». Negoziare porterà a vere come se non fossimo noi a decidere il cambiare, ma non ad autodistruggersi. Per domani, lasciando passare il tempo. Grandi Eco, la negoziazione doveva diventare il società del mondo, si pensi all’America centro del processo integrativo. È in parte Latina, sono riuscite nell’integrazione. Però avvenuto spontaneamente in Italia, dove oggi non si può lasciare al caso la costrul’integrazione –con scarsa regia pubblica zione del futuro. Ci vuole una visione. – si è svolta tramite la famiglia (si pensi al poli e culture, oggi sembra omogenea: «Il problema è che in un periodo abbastanza breve...», disse, «l’Europa sarà un continente multirazziale, o se preferite, colorito. Se vi piace, sarà così, e se non vi piace sarà così lo stesso». La nostra storia sarà questa, ma come arrivare al domani? Eco notava: si dovranno prendere decisioni difficili. La sua proposta, come cuore del modello futuro d’integrazione, non era ideologica: la “negoziazione” (che governa tanti aspetti

di Cesare Viviani

Il senso della vita non coincide con affetti e lavoro

Si può amare la vita in sé e per sé, indipendentemente dalle relazioni con gli altri? Oppure ogni tipo di amore si forma nelle relazioni, e non è immaginabile un’autosufficienza positiva, vitale e serena, al di fuori dei rapporti? Eppure ci sono eremiti, asceti e navigatori, esploratori, scalatori e naturalisti che fanno a meno delle frequentazioni umane e amano soltanto la divinità e la natura. Mentre ci sono tanti che si dedicano soltanto agli affetti o al lavoro. Ma alla fine si può pensare che il valore dello stare al mondo e dell’esistenza sia bene mantenerlo distinto dalle risorse affettive e dai risultati del fare. Altrimenti si corre il rischio, quando finiscono i rapporti o falliscono le attività, di perdere anche il senso della propria vita. © RIPRODUZIONE RISERVATA

14

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Aldo Cazzullo / Italia s“, Italia no

Quella notte con Eco sulla 127 diesel Così mi raccontò la storia dei Ragazzi di via Po. E compresi che i veri grandi non sono chiusi e presuntuosi ma generosi e autoironici. Com’era lui

A

l liceo avevo avuto solo amori platonici, inconfessati. All’università ci fu la prima vera esperienza con una ragazza: stesse idee, sentimenti, romanzi, emozioni. Era bello. Passavo con lei molto tempo, tutti i giorni. Far l’amore, neanche a pensarci. Un bacio al cinema. E poi le passeggiate, tante, interminabili. Lei stava vicino a corso Giulio Cesare. Uscivamo insieme da palazzo Campana, attraversavamo i giardini Reali, poi il Lungo Dora. La salutavo all’altezza del Cottolengo. Poi tornavo verso il collegio, a Porta Nuova mi infilavo in una cabina, la chiamavo e stavamo due ore e mezzo al telefono, con i suoi che la imploravano di riattaccare». Era una notte d’inizio primavera di vent’anni fa, Umberto Eco stava raccontando il suo primo amore mentre lo portavo su una 127 diesel da Torino a Milano e a me, che avevo letto e riletto il Nome della Rosa e imparato a memoria il dialogo finale tra Guglielmo da Baskerville e Jorge da Burgos, pareva di sognare. Non ho mai scritto né scriverò in vita mia un articolo in morte di qualcuno usando l’“io” o il “me”. Una rubrica però è diversa, consente e in qualche modo esige uno sguardo personale, un coinvolgimento, una certa generosità di sé. In quella circostanza Eco fu con me molto generoso. Non mi conosceva affatto quando lo cercai, chiedendogli una testimonianza per il libro che volevo scrivere sulla vicenda di formazione dei “ragazzi di via Po” (lui, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Claudio Magris, Edoardo Sanguineti). Disse subito di sì, e mi diede appuntamento a Torino a casa di Paolo Paloschi, allora amministratore delegato della Stampa, dov’era a cena dopo aver partecipato a un’iniziativa della campagna elettorale proprio di Furio Colombo, candidato alla Camera per l’Ulivo. L’accordo era che avrei riportato Eco in macchina a Milano, e nel viaggio avremmo registrato il suo racconto. Arrivai a mezzanotte, dopo la chiusura del giornale. Il cameriere annunciò al padrone

CAMERA PRESS/ANDREW CROWLEY / TELEGRAPH/CONTRASTO

«

Profondamente piemontese Umberto Eco era nato ad Alessandria nel ‘32. Molti suoi personaggi erano piemontesi.

di casa: «C’è l’autista del professor Eco». Paloschi mi guardò sbalordito, pensando facessi un doppio lavoro. Sarà stata l’ora notturna, o la calma allegra dopo una bella serata, fatto sta che Umberto Eco confidò della sua giovinezza episodi e dettagli che non aveva mai detto in pubblico. Arrivati a Santhià rallentai per guadagnare tempo. All’autogrill di Novara ci fermammo per cambiare la cassetta del registratore. La conversazione proseguì sotto casa sua, in piazza Castello a Milano, sino alle quattro del mattino. Siccome non avevamo finito, mi diede appuntamento da lì a qualche giorno, e registrammo per altre cinque ore una ricostruzione in cui c’era tutto: i fumetti dell’infanzia, l’agguato del pedofilo alla stazione, l’incontro con Getto, Bobbio e gli altri grandi dell’università di Torino, il primo amore con l’anonima ragazza di corso Giulio Cesare, il fidanzamento e la dolorosa rottura con Enza Sampò, l’incontro con la donna della sua vita, Renate, ma la rottura di cui Eco parlava con maggiore sofferenza, quasi con le lacrime agli occhi, era quella con il suo maestro, Luigi Pareyson: «Quando, ancora ragazzo, scegli un professore con

cui fare la tesi, diventa il personaggio in cui ti identifichi e che ami. E lui contraccambia, perché sei un suo allievo. Ma, all’inizio degli anni Sessanta, il nostro legame si spezza. Forse non sopportava il mio allontanamento dal mondo cattolico. Forse non mi ha perdonato di aver scritto che la sua estetica funzionava benissimo anche senza un’ipotesi metafisica di fondo, che lui riteneva essenziale. Fatto sta che Pareyson mi ripudia». Quelle due lunghe testimonianze furono solo l’inizio. Eco rilesse molte parti del libro, correggendo una serie d’errori, tra cui uno che lo indignò in modo particolare (avevo scritto Simone de Beauvoir con la e finale). Venne poi a presentare I ragazzi di via Po alla biblioteca Einaudi di Dogliani, così come volle poi presentare un libro che gli era piaciuto, Outlet Italia. Che cosa ho tratto dall’incontro con lui? Molte cose, ma vorrei citarne almeno tre. La prima: la generazione dei “Ragazzi di via Po” era unita da una solidarietà fortissima, mentre la mia generazione è dilaniata da rivalità e gelosie al limite dell’odio che la stanno portando alla rovina. La seconda: Umberto Eco era profondamente piemontese, e questo aspetto nell’ora della sua morte non è stato colto, anzi si sono letti reportage da Bologna, come se fosse casa sua. Eco era di Alessandria come la famiglia di Bobbio –, si è laureato a Torino, Il Nome della Rosa è ambientato sulle Alpi marittime tra Piemonte, Liguria e Francia, i personaggi del Pendolo di Foucault dicono frasi in dialetto piemontese, i protagonisti di quasi tutti i suoi libri Baudolino, il Roberto de la Grive dell’Isola del giorno prima, lo Yambo della Misteriosa fiamma della regina Loana, il Simone Simonini del Cimitero di Praga sono piemontesi. Purtroppo Torino oggi è una città dall’identità troppo sfilacciata per rivendicare un figlio così illustre. La terza: i veri grandi non sono quasi mai cupi, ombrosi, chiusi, presuntuosi, ma solari, semplici, generosi, autoironici. Com’era Umberto Eco. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

15


Danilo Taino / A che Prezzo dtaino@rcs.it

La potenza imperiale di un “I love...” Anche se altrove ha significati e modalità d’uso diversi, l’espressione americana ha conquistato il mondo. Segno che sulla cultura Usa il sole non tramonta davvero mai

MANUELA BERTOLI

«I

love…»: ci sono sempre un’americana e un americano che amano qualcosa. Amano una ragazza o un ragazzo. La nonna. Fare yoga. L’hamburger. È una vera esagerazione di “love”, che ha contagiato (fino a un certo punto) il resto del mondo: dalle magliette di NY con il cuore rosso alla torta al cioccolato. “I love” è diventato ubiquo, si può applicare a quasi tutto. Negli Stati Uniti. Ma anche altrove: l’importante è che però sia detto in inglese o con una palese propensione alla cultura anglosassone, non nella lingua originale del posto oppure con un chiaro porsi in una dimensione globale. “I love” è diventata un’espressione che permette di affermare, – soprattutto tra i giovani – che si è parte del mondo. “Amo l’happy hour di Milano”, mi diceva sere fa una ragazzina: con ciò voleva congiungere il local milanese con il modo di esprimersi global, stabilire che il suo Spritz travalica la provincia.

Dimensione globale Un’italiana, un cinese, un africano possono usare l’espressione importata, ma non sarà mai parte della loro cultura, proveranno un minimo di disagio nell’usarla.

TRA LA PIZZA E LA RAGAZZA Questa, però, è solo la superficie di un’espressione inflazionata. Negli Stati Uniti, “I love” può essere applicato a qualsiasi oggetto e, fondamentalmente, è il contesto a fare la differenza: usato davanti a una pizza ha una portata semantica; guardando negli occhi la ragazza

al chiaro di luna un’altra. Il suo uso ampio è probabilmente il segno della cultura di un Paese che deve esaltare – qualcuno può dire esagerare – tutto, dove non ci sono limiti di riservatezza e il sottinteso non ha patria. Fuori dagli Stati Uniti, è diverso: un’italiana, un cinese, un africano possono usare l’espressione importata, ma non sarà mai parte della loro cultura, proveranno un minimo di disagio nell’usarla. Un articolo della rivista Atlantic ha di recente raccolto opinioni di giovani cinesi, colombiane, polacche, siriane che hanno raccontato la loro difficoltà ad adeguarsi all’“I love” compulsivo di partner americani. Uno studio di ricercatori cinesi ha ipotizzato che le società giovani, aperte, demograficamente differenziate non hanno problemi a esprimere le emozioni – e quindi l’“I love” – con facilità. Quelle più chiuse, collettiviste e demograficamente omogenee tendono invece a trattenere le emozioni e a considerare “I love” frivolo: per loro, meglio lasciare certe cose al sottinteso. Il senso della frase, dunque, assume significati e sensi psicologici diversi a seconda di chi lo usa. La domanda è come mai abbia conquistato, seppure con significati differenti, tanti seguaci in culture diverse da quella americana. L’impero, forse, è ancora potente. @danilotaino

NUMERI A CONFRONTO

Il Superenalotto è maggiorenne

18

975,6 milioni 16 per cento

4,3

2.484 milioni 8 per cento

Anni passati dalla prima estrazione del Superenalotto

Miliardi vinti (in euro) Fonti: RAI, Mediobanca, Istat 16

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

Cifra stanziata per la manutenzione della rete ferroviaria italiana nel 2016

Percentuale dei vini italiani esportati, che sono spumanti

Per investimenti e innovazione

Vini sfusi (il resto sono vini fermi imbottigliati) © RIPRODUZIONE RISERVATA


Antonio Polito / Finestra sul cortile

La pericolosa nostalgia del “latifondo” C’è chi esalta le nomine dei direttori di rete Rai come strumento di “egemonia” culturale. Parole che ci fanno rivalutare la vecchia, cara, tanto deprecata “lottizzazione”

O

damento di persone, no. Si tratta del «tentativo di trasformare l’Italia governata da Renzi in qualcosa da declinare non solo con il linguaggio legislativo ma anche con il più complesso e più efficace e penetrante linguaggio televisivo». I programma di Rai1, Rai2 e Rai3 dunque come leggi delega, finalizzati a «fotografare un concetto come il renzismo proiettando sullo schermo l’Italia immaginata da Renzi attraverso fotogrammi, idee, parole, cultura», per consentire al premier di «creare una stabile connessione sentimentale con un pezzo del Paese».

DANILO CERRETI / OLYCOM

gni volta che Campo dall’Orto, a sua volta nominato da Renzi, fa delle nomine in Rai, gli avversari del premier gridano alla “lottizzazione”. Usano così – non sempre sapendolo – un neologismo inventato nel 1974 dal grande Alberto Ronchey, che lo prese in prestito dall’urbanistica per dare un nome a una svolta storica nella pratica del sottogoverno. La “lottizzazione” infatti fu pur sempre una modernizzazione; qualcosa cioè che succedeva al “latifondo”. Nel senso che prima c’era solo la Dc, e poi la Dc dovette spartire il potere in Rai con gli altri; prima con gli alleati e poi anche con gli avversari. La pratica si affinò con gli anni fino ad essere letteralmente codificata. Chiamate “Rai 643111”, si intitola un delizioso libriccino di Alberto La Volpe, giornalista a lungo in azienda in quota socialista ma con una professionalità e una indipendenza di giudizio che non gli hanno mai fatto difetto. La formula matematica stava ad indicare la perfezione numerica della lottizzazione: prevedeva per ogni 6 incarichi dirigenziali che andavano alla Dc, 4 al Pci, 3 al Psi, e uno ciascuno ai cosiddetti partiti “minori”, socialdemocratici, repubblicani e liberali. Però, come dicevamo, prima di questo c’era il “latifondo”. E non solo perché tutto era appannaggio del partito di governo, ma anche perché il partito di governo ambiva ad usare la Rai per trasformare l’intero Paese a sua immagine e somiglianza, per conquistarne i cuori e le menti oltre che per governarlo. Per possederlo, in una parola. “Questo

Strumento di modernizzazione La “lottizzazione” – neologismo inventato da Alberto Ronchey per raccontare la spartizione del potere fra i partiti della Prima Repubblica (qui sopra, il “cavallo” Rai di viale Mazzini), fu pur sempre una risposta modernizzatrice alle ristrettezze culturali dell’Italia.

incarico speciale – racconta Alberto La Volpe – fu affidato da Fanfani a Ettore Bernabei”, il quale ha così poi descritto il suo programma: «Bisognava cambiare i programmi per cambiare gli uomini. Non si poteva pensare di fare trasmissioni diverse con le stesse persone. E cambiare gli uomini significava cambiare la pelle, i muscoli, le ossa del popolo Rai». La cosa mi è tornata in mente quando ho letto, subito dopo le nomine dei tre nuovi direttori di Rete, un articolo entusiasta di Claudio Cerasa sul Foglio. Per lui non si tratta solo di un avvicen-

AMBIZIONE IRREALISTICA. Addirittura. Se questo è l’intento, se l’obiettivo di questa operazione è davvero quello di regalarci fiction e varietà che costruiscano in noi l’immaginario renziano, allora vuol dire che c’è in giro una pericolosa nostalgia del “latifondo”. Sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia ha già segnalato che si tratta di un’ambizione irrealistica, perché per avere una “egemonia” culturale ci vuole una grande idea, e a suo dire il renzismo questa idea non ce l’ha. Ma il semplice fatto che lo si possa pensare, e anche teorizzare, ci fa rivalutare la vecchia, cara, tanto deprecata lottizzazione. In fin dei conti fu una risposta modernizzatrice proprio alle ristrettezze culturali in cui era finita l’Italia, sotto la cappa di piombo del regime democristiano. Sempre meglio molte idee che una sola idea, per quanto grande e nuova possa apparire. Figuriamoci poi se è piccola e antica come la tv di Bernabei.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

17


Antonio D’Orrico / Consegna pacchi adorrico@corriere.it

Ecco un gol in puro stile Don Winslow Calcio & scrittori: le reti di Vieri narrate alla maniera dell’autore americano e il ragazzo che diventò grande grazie a Bobo e ai romanzi

U

n gol di Christian Vieri, il più grande centravanti degli ultimi trent’anni, è sempre perfetto per cominciare. Ecco quello meraviglioso di Inter-Parma 1999 raccontato da Davide Seminari: «Controllo di tacco, Bobo si gira e palla nell’angolo. Non è un gol scritto da Winslow?». Ha ragione, puro Don Winslow. IL CENTRAVANTI ROMANTICO. Non

finisce qui. Ecco il racconto di formazione di Michele Castelli che narra come diventò grande proprio negli anni di Vieri all’Inter. «Anch’io ho avuto la fortuna di assistere dal vivo alle gesta di Christian Vieri durante i sei anni che passò all’Inter. “Sentimentale”: non c’è parola migliore per raccontare Bobo-gol. Vieri è stato l’eroe romantico della mia adolescenza. A Ronaldo avevo dedicato il tema d’esame in quinta elementare: tappa che rappresentò, per me, il capolinea della fanciullezza. Bobo arrivò all’Inter nel corso dell’estate successiva, quella del ’99 (indimenticabile, perché allora cominciai ad amare la lettura come mai mi era successo prima: Flatlandia, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, L’isola del tesoro, Il vecchio e il mare). Nella venerazione di Bobo-gol trascorsi

PAROLE RITROVATE

Quella forza creatrice che si chiama natura di Alessandro Masi

due terzi delle scuole medie e quasi tutte le superiori. Il 3 marzo 2002 Vieri segnò di ginocchio la rete che regalò all’Inter un importante derby; io facevo la quarta ginnasio. L’Inter non sconfisse più i cugini fino all’11 dicembre 2005, quando io ero all’ultimo anno di liceo e Bobo già nel Milan. Tra l’una e l’altra data, come tutti i tifosi nerazzurri, attraversai la storia di illusioni perdute raccontata da Severgnini

dedicò a Ronaldo in quinta elementare? Sarei felicissimo di pubblicarlo. E, se non l’ha già fatto, legga Come Dio comanda, il grande romanzo di Niccolò Ammaniti dove il giovane e sfortunato eroe scrive un tema proprio su Vieri (l’arte imita la vita!). NEMO PROPHETA. Pubblico la mail che

segue di Giancarlo Mignucci ricordando solo la data in in cui mi è stata spedita: 3 febbraio 2016. «Non sembra anche a lei che In Italia si perdona tutto tranne di Umberto Eco si parli troppo il successo. Era una delle massime poco non solo nella rubrica, ma in generale? Per me Eco è preferite dal vecchio Enzo Ferrari. un mostro di bravura proteiSecondo un lettore, è ancora forme, uno che svaria dalla (e sempre?) di strettissima attualità letteratura, alla semiotica, alla filosofia, alle note di costume negli Interismi. Vieri, il nostro uomo più con una facilità disarmante. Aggiungi forte e rappresentativo, divenne emblema la padronanza assoluta dei temi toccati di una squadra specializzata nell’arrestarcondita con una scrittura meravigliosasi a pochi passi dal trionfo. In lui vidi la mente elaborata per ogni esigenza. Un personificazione dell’età che stavo vivenvero genio della cultura italiana e forse do, fatta di commozioni e di tormenti, di per questo ignorato qui da noi, ma non cocciutaggine e di speranze disattese. all’estero per fortuna. Un mese dopo il mio esame orale di maPerché, come diceva qualcuno: in Italia turità, Moratti mise sotto contratto Zlatan tutto si perdona tranne il successo. Ibrahimovic: per me e per l’Inter stava Se non è da Nobel uno come Eco, mi dica iniziando una nuova epoca». lei. Assieme al grandissimo Paolo Conte Carissimo Michele, ha copia del tema che siamo in credito come italiani».

In latino naturus è il participio futuro del verbo nascor (“nascere”); indica quindi la forza che porta la vita, che permette a ciò che ancora non esiste di venire al mondo. Forza creatrice e creativa per definizione, la natura ha ben dimostrato di saper resistere a ogni tipo di vicissitudine e alle attività umane più scellerate e invasive. Figuriamoci se si fa spaventare da qualche invocazione di troppo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

18

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Federico Fubini / ControTempo

Quella morte che è più di una statistica I decessi in Italia sono cresciuti del 10% sulla media. E la tendenza, che rischia di diventare permanente, potrebbe essere sempre più legata alle condizioni sociali

GETTY IMAGES

I

n una discussione italiana dominata da altri temi sempre più impellenti, ha creato un piccolo blip in superficie e poi si è di nuovo inabissata una notizia storica: l’anno scorso in Italia sono morte 653 mila persone. È una notizia perché sono 54 mila in più che nel 2014, circa il 10% sopra le medie di lungo periodo. Ed è di portata storica perché potrebbe segnare l’inversione di una tendenza secolare verso l’allungamento dell’aspettativa di vita in Italia. Nel pubblicare questa informazione, l’istituto statistico Istat sottolinea infatti che, in base ad essa, la speranza di vita alla nascita diminuisce di due o tre mesi per gli uomini (a 80,1 anni) e di tre o quattro per le donne (a 84,7). Nel dopoguerra, era successo pochissime volte. Naturalmente potrebbe essere molto rumore per un episodio passeggero; magari le rilevazioni dei prossimi anni smentiranno che questa sia davvero un’inversione di tendenza. Eppure analisi dei Neodemos.info, il giornale online che racconta le grandi evoluzioni demografiche del Paese, fanno pensare che lo scenario più rassicurante non affatto sia scontato. Il picco di mortalità del 2015 sembra dovuto per un terzo a cause transitorie, ma per due terzi a fattori che probabilmente si ripresenteranno in futuro. Passeggero (si spera) è il fatto che l’anno scorso tanti italiani si sono vaccinati dall’influenza meno del solito, e certi vaccini si sono dimostrati meno efficaci contro i virus di stagione. Ricorrente invece potrebbe essere tutto il resto: un terzo di mortalità in più è dovuto a un’estate molto calda, ma sappiamo già che il problema del cambio climatico non sarà risolto l’anno prossimo o fra due; e un altro terzo di mortalità in più, rispetto alle medie, si spiegherebbe con il fatto che le persone di oltre 65 anni sono ormai quasi un quarto della popolazione in Italia. Gli anziani sono sempre più numerosi. Quando ero bambino io, oltre 40 anni fa,

Un tabù da superare Parlare di speranza di vita e cause di morte non è considerato elegante. Sarebbe invece opportuno riflettere sul perchè si rischia di morire di più di prima.

essere anziani era ancora visto come un fatto singolare, comunque meritevole di attenzione e rispetto; oggi invece essere vecchi è diventato banale, troppo comune e frequente per risultare ancora interessante. ASCENSORE IN PANNE. Torniamo dunque al punto di partenza: in Italia si muore più di prima. Almeno questo è quanto è accaduto nel 2015. Mi rendo conto che attorno a questi argomenti vige ancora un implicito tabù - non è elegante parlarne - mentre invece è caduto o resta in modo ipocrita e posticcio riguardo al sesso o all’uso di droga. Ma forse ha senso mettere alcuni punti fermi, perché oggi in

Italia neanche la morte è uguale per tutti e questa non vuol essere un’affermazione politica. È statistica. Posso dirlo dopo aver controllato i dati dell’Istat. Nel suo rapporto del 2012, l’istituto mostra che durante la piena età adulta (fra i 25 e i 64 anni) la mortalità nel Paese si distribuisce a macchia di leopardo. Non tanto su base geografica, ma sociale e educativa. Un maschio con un basso livello di istruzione è quattro volte più soggetto di un coetaneo con alto livello di istruzione a morire per “cause esterne” (un incidente d’auto, per esempio); e sia un uomo che una donna con un basso livello di istruzioni hanno più del doppio di probabilità dei loro coetanei con una laurea di morire di tumore prima dei 65 anni. Il tipo di diploma di ognuno, in un Paese come l’Italia, rivela moltissimo le origini di classe. L’ascensore sociale, o educativo, non è mai stato così in panne. La Corea del Sud, la Polonia e persino la Cina hanno progressioni culturali molto più dinamiche da una generazione all’altra. In Italia invece solo il 5% dei figli di operai con la licenza media approda alla laurea, mentre ci arriva il 62% dei figli di padri benestanti che a loro volta hanno una laurea. In altri termini il tuo titolo di studio rivela che infanzia hai avuto, se i tuoi genitori ti hanno fatto frequentare costosi corsi sportivi, se tuo padre o tua madre fumavano troppo, magari bevevano o se sottoponevano se stessi e anche te a costosi check-up medici privati ogni anno. Parliamo molto di crescita in Italia, o di banche e di debito. Sono temi essenziali. Parliamo però meno di noi stessi. Del fatto che rischiamo di morire più di prima e di farlo in modo diverso fra noi, e in momenti diversi, secondo dove sia caduta la nostra pallina nella roulette di un Paese sempre più spietato che finge di non esserlo. Sempre più pieno di tabù sui temi che davvero contano, pretendendo di essere franco, aperto e persino sfacciato. Forse non è tardi per pensarci su. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

19


Stefano Jesurum / Ponti&Muri stefano.jesurum@gmail.com

A Venezia c’è un’ombra lunga 500 anni Il Ghetto della Serenissima sta per compiere mezzo millennio: un luogo che fa riflettere su soprusi e umiliazioni, ma anche inclusione e incontri

T

ra meno di un mese il Ghetto di Venezia compirà 500 anni. In attesa delle importanti celebrazioni e delle prestigiose collaborazioni internazionali che s’inseguiranno per l’intero 2016, forse è il caso di provare a trarre da quella storia qualche spunto di riflessione. Perché abbiamo bisogno di messaggi e speranze di libertà e dignità per ogni individuo oppresso da reclusioni fisiche e mentali, guerre, fame, attacchi terroristici, campi profughi, banlieue. E dunque quale miglior narrazione se non ciò che un tempo fu area di umiliazione, soprusi e sopraffazione per poi divenire – benché a fasi alterne – laboratorio di inclusione e infine, nella contemporaneità, straordinario luogo di incontro tra ebrei e cittadinanza? Così le calli anguste claustrofobiche e struggenti, i bui sotoporteghi, i campielli rilucenti, le case più alte della città

per secoli abitate dal popolo cantato da Rainer Maria Rilke si mostrano per quel che sono, il primo caso di segregazione organizzata e al medesimo tempo un “cortile” chiassoso e vitalissimo, spazio d’incontro tra culture e migrazioni. Mura e spessi cancelli che si chiudevano la sera sono stati e rimangono segno dell’intolleranza altrui ma possono divenire pure simbolo di autodifesa e autoconservazione. La contraddizione è forte e diviene simbolica, un luogo dell’anima dove preservazione di sé significa sia contatto e scambio all’interno della minoranza – tra ebrei provenienti da Spagna, Centro Europa, Medio Oriente –, sia intima contiguità con la maggioranza “segregante”. La politica della Serenissima fu per molti versi grande esperimento di inclusione seppur attraverso la ferrea separazione di fedi, mestieri e nazionalità. Esclusione da un lato, garanzia di identità dall’altro, e

poi collaborazione. E laddove le proibizioni ponevano ostacoli insormontabili fu proprio la collaborazione tra ebrei e cristiani a regalare al mondo, ad esempio, un terzo dei libri in ebraico stampati in Europa fino al 1650. Davanti a noi un futuro che sempre più farà i conti con globalizzazione, flussi migratori, identità complesse, tentazione neorazzista di costruire ghetti per liberarsi dell’altro e/o chiusura in se stessi a tutela del proprio Io. Allora, come il vecchio Melchisedech che Rilke racconta volesse abitare nella costruzione di volta in volta più alta del Ghetto, non ci resta che salire e salire, per cercare di vedere al di là, oltre: «Il vecchio continuava a ergersi fiero nella persona e poi a prostrarsi al suolo. E la folla, in basso, aumentava, e non distoglieva lo sguardo da lui: aveva veduto il mare oppure l’Eterno nella sua gloria?». Oppure la libertà?

Severino Salvemini / Le liste degli altri sevesalvemini@gmail.com

Il primo Lou Reed mi ha aperto tante strade

Abbiamo chiesto a ISABELLA RAGONESE di raccontare i 10 brani musicali che hanno segnato la sua vita

G

iovane, convincente, non stereotipata in personaggi ricorrenti, Isabella Ragonese (1981) è il volto pulito del cinema italiano. Inizia nei teatri palermitani, dove è nata, con opere scritte, dirette e interpretate da lei. Nel 2006 esordisce sul grande schermo con Nuovomondo di Crialese, ma la vera occasione arriva con Tutta la vita davanti di Virzì, dove impersonifica una operatrice di call center di frullatori miracolosi, che la consacra come bandiera del lavoro precario. Seguono 16 film in otto anni, pellicole molto diverse tra loro, senza comunque trascurare il teatro e i reading di libri. Nell’ultimo film Dobbiamo parlare è Linda, una ghostwriter che compone testi attribuiti ad altri. Insieme al resto del cast principale composto da Fabrizio Bentivoglio, Sergio Rubini e Maria Pia Calzone, ha replicato il testo in tournée teatrale in tutt’Italia. Ama moltissimo la sua isola natale («ti manca quando sei lontana, ti soffoca quando ci vivi»).

1 2 3 4 5

The Velvet Underground & Nico, tutto l’album Billie Holiday, All of Me Portishead, Glory Box Rosa Balistreri, Cu ti lu dissi CCCP, Io sto bene

6 7 8 9 10

Paolo Conte, Un’altra vita The Chemical Brothers, Believe The Pixies, Gigantic Patti Smith, Horses Cristina Donà, Labbra blu

L’album dei Velvet Underground, rubato con circospezione a mio fratello più grande di me di 6 anni, è stato il primo approccio con la musica vera. La copertina grande con la scandalosa banana disegnata da Andy Warhol (che era il produttore del disco) mi incuriosiva, anche se nella mia giovane innocenza non ci vedevo alcuna malizia. E da allora ho imparato quasi tutti i brani di Lou Reed a memoria, scappando di casa nel 1994 per frequentare all’insaputa dei miei un suo concerto a Firenze. Quell’album va ascoltato tutto, perché ogni brano getta le basi per una moltitudine di generi che sono venuti dopo (dal punk al rock e al new wave), con i suoi suoni acidi e i contenuti espliciti e un po’ perversi. Un disco “seminale” come si dice oggi; un disco che ha formato la mia estetica musicale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

20

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Nuccio Ordine / ControVerso nuccio.ordine@unical.it

ARCHIVIO GBB/ CONTRASTO

Elogio della filologia (e della lentezza)

Friedrich Nietzsche (18441900), Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, nota introduttiva di Giorgio Colli, versione di Ferruccio Masini, Adelphi, [Prefazione, 5], p. 8.

I

‘‘ ’’ «Questa prefazione viene tardi, ma non troppo tardi; che importano, in fondo, cinque, sei anni? Un libro del genere, un problema del genere non ha fretta: inoltre, noi siamo entrambi amici del lento, tanto io che il mio libro. Non per nulla si è stati filologi, e forse lo siamo ancora: la qual cosa vuol dire, maestri della lettura lenta; e si finisce per scrivere anche lentamente»

n un momento in cui le scuole e le università sembrano sempre più proiettate verso il mercato, verso il culto della velocità, pronte a sacrificare quei saperi umanistici (che non producono soldi) e scientifici (che non producono un immediato profitto), questo elogio della lentezza e della filologia rappresenta un prezioso balsamo. Nella prefazione, pubblicata nel 1886, alla raccolta di aforismi intitolata Aurora (1881) – in cui Nietzsche, in 575 frammenti, ci fa riflettere sull’illusione dei valori morali, sui pregiudizi e sulle ipocrisie generate dal conformismo borghese-cristiano – il filosofo si presenta nelle vesti di una talpa che «perfora, scava, scalza di sottoterra» per «avanzare lentamente, cautamente, delicatamente», guidata dalla speranza di poter uscire dalle tenebre per avere

«il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora» (p. 3). Scendere nella profondità, serve a «scalzare la nostra fiducia nella morale»: per secoli, infatti, convinti di aver edificato «sul più sicuro fondamento», abbiamo invece costruito su basi liquide e mobili, assistendo, volta per volta, al crollo di «ogni costruzione» (p. 4). Così, «a colpi di martello», Nietzsche demolisce norme e concetti fondati su consolidati luoghi comuni. E, nel farlo, esprime però tutta la sua infinita passione per il sapere, per la “lentezza” e per il faticoso “scavo filologico” che ogni esercizio critico presuppone: «Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento» (pp. 8-9). Si tratta di un’arte che «è oggi più necessaria che mai»: «è proprio per questo mezzo che essa […] ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore

UNA SCENA, UN’IMMAGINE APPENA

di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuole, “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo» (p. 9). La filologia – di cui il filosofo denuncia anche i limiti quando diventa puro esercizio accademico, astratto tecnicismo, incapacità di saper coniugare il dettaglio con l’universale, sterile sfoggio di erudizione – nella sua accezione più alta (frutto dell’intreccio con la filosofia, l’arte e la vita) è un’educazione alla profondità: «essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati» (p. 9). E allo sforzo dell’autore, che aveva esordito proprio come professore di filologia classica, deve anche corrispondere uno sforzo del lettore («questo libro si augura soltanto perfetti lettori e filologi: imparate a leggermi bene!» p. 9). Ma, nell’era della superficialità e della rapidità, la strada della filologia e della lentezza comporta quella stessa “solitudine” che Nietzsche aveva denunciato nella sua prefazione: «Chi va infatti per queste vie tutte sue, non incontra nessuno» (p. 3).

La neve, sipario bianco sulla tragedia umana Un campo brullo che l’inverno ha privato dei colori e le montagne innevate che fanno da sfondo. I fiocchi di neve viaggiano lenti come se l’aria si fosse cristallizzata in un presagio di morte. Un totale, un’inquadratura fissa e rallentata all’estremo, a costruire una sequenza di quadri viventi. Uomini che si affrontano da una parte e dall’altra, spade e pugnali che s’incrociano vigorosi in cerca di un lembo di carne da ferire a morte. In fondo, al centro della scena, tre figure di donna, tre sorelle, forse spettri, che osservano la battaglia con l’aria di chi ne conosce già l’esito. Avanzano i guerrieri e cresce la ferocia: il sangue schizza repentino dalle gole tagliate. Tra i tanti si distingue per coraggio un condottiero dal viso

di Roberto Burchielli

dipinto di terra scura. È lui, impavido e giusto, che guida l’assalto in cerca di chi ha tradito il suo re. Tutta l’azione è dilatata nel tempo, a portarci in un’altra era, in un mondo di fantasia ma comunque vicino ai drammi umani. I volti urlanti degli uomini trasfigurano le loro sembianze: sembrano lupi affamati pronti ad addentare la loro preda. Muoiono i soldati, i figli, perisce il senno dei padri per lasciar spazio alla follia e alla brama di potere. Scende incessante la neve, per nasconderci maggiori atrocità, come un sipario bianco a ricordarci che quella a cui assistiamo altro non è che una tragedia nel teatro del vivere umano. Di quale film si tratta? - La soluzione a pag. 106 © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

21


Luigi Ferrarella / Diritti e Rovesci lferrarella@corriere.it

Glossario del leghista intercettato Dalle registrazioni telefoniche dell’ultima inchiesta sugli appalti, manuale pratico di traduzione simultanea dal padano all’italiano. Più che semiserio, assai vero

«Padroni a casa nostra, fora da i ball!». Traduzione: indebite pressioni, con un intervento «pesantissimo…nel senso che hanno capito che è meglio non mettersi contro», sui dirigenti di un ospedale che sembravano intenzionati ad affidare la gestione dell’odontoiatria a una società svizzera anziché alle società dell’imprenditrice di riferimento del presidente leghista della Commissione Sanità (entrambi ora arrestati con l’uomo di fiducia del consigliere regionale): «È un bingo pazzesco! (…) Va portata a casa ma anche perché.... ehm, tu sai che noi nella riforma abbiamo fortemente insistito in ogni suo punto per il “chilometro zero” ...Gli svizzeri che cazzo c’entrano?... adesso non prendiamoci in giro!». «Gli extracomunitari? Vanno sì aiutati, ma a casa loro». Traduzione: «Dall’ospedale pediatrico, cioè dall’ospedale in Brasile, potrebbero venir fuori un paio di milioni a testa (…) Ne basterebbe uno... No? Facciamo uno... Anche mezzo basta! Non ti risolve la vita ma ti alleggerisce tutto. Anche mezzo milione di euro basterebbe». Detto della realizzazione di un ospedale pediatrico nello stato del Goya in Brasile, progetto di Regione Lombardia nell’ambito del quale agivano come figure istituzionali due degli arrestati. «Il modello Lombardia va esportato». Traduzione: «Senti è bello sereno Luca?». «Beh, Luca da ieri è ancora più sereno, perché ieri sera siamo usciti a cena noi tre

ENRICO BRANDI/fOtOgRAmmA

P

iccolo manuale pratico di traduzione simultanea dal leghista all’italiano. Edito dalle intercettazioni e dai commenti di partito sull’inchiesta dei magistrati di Monza nella quale sono state arrestate 21 persone, tra le quali il presidente della Commissione Sanità della Regione Lombardia e “padre” della riforma sanitaria vantata dal presidente Roberto Maroni.

eh...», e il presidente della Commissione Sanità «gli ha fatto presente che questa cosa è un progetto politico di estensione… (adesso ti faccio ridere perché Fabio in questo è veramente bravo) … di estensione del modello lombardo dentro casa di chi ci ha insegnato come si faceva il sociale fino a ieri… E gli facciamo vedere come il modello Lombardo invece funziona e funziona molto bene, anche tra i comunisti». Detto del progetto degli indagati-intercettati di convincere una manager sanitaria di strutture ospedaliere della “rossa” Toscana a far gestire quattro centri alle società dell’arrestata imprenditrice di riferimento. «Il sistema dei controlli della Regione funziona. E siamo dotati di strumenti specifici contro la corruzione» (Maroni, ottobre 2015). Traduzione: c’è una Agenzia regionale di controllo sul sistema sociosanitario, un’Unità organizzativa sul sistema dei controlli e prevenzione della corruzione, un Comitato dei controlli, un ex magistrato nominato sottosegretario di Maroni alla Trasparenza, un ex generale della Guardia di Finanza a capo di un Comitato regionale trasparenza sugli appalti e sicurezza nei cantieri, e da ultimo c’è pure il progetto di una neonata Autorità regionale anticorruzione: eppure non uno degli scandali della sanità lombarda è emerso da qualcuno di

Quale sanità Fabio Rizzi, capo della Commissione Sanità della Regione Lombardia e stretto collaboratore del governatore Roberto Maroni: è stato arrestato nell’ultima inchiesta dei magistrati di Monza sugli appalti truccati.

questi controlli, ma sempre e soltanto dalle indagini della magistratura. «La Lega non ha nulla da nascondere, chi sbaglia paga». Traduzione: «Se so che qualcuno nella Lega sbaglia sono il primo a prenderlo a calci nel culo e a sbatterlo fuori. Ma lui è un fratello e lo difenderò fino all’ultimo da quella schifezza che è la magistratura italiana». Detto dal leader leghista Salvini all’indomani del rinvio a giudizio del suo vice per peculato e falso nelle spese pseudo-istituzionali di consigliere regionale in Liguria. «Ci sono dei magistrati politicizzati, in questo caso mi pare di poter dire che hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Sono deluso e ferito per i rapporti personali che avevo con Rizzi, sono veramente incazzato per quello che è successo, perché il lavoro che stiamo facendo in questi anni per garantire trasparenza rischia di venire infangato». Detto da Maroni dopo l’arresto. Traduzione: «Probabilmente sono stato un pirla, troppo leggero, non mi aspettavo l’arresto, ma solo un avviso di garanzia, sono stato sorpreso». Ah no: questo era il tesoriere della Lega di oltre 20 anni fa, Alessandro Patelli. All’uscita dagli arresti domiciliari nel 1993 per un finanziamento illecito alla Lega di 200 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi-Montedison. © riproduzione riservata

22

sette | 09— 04.03.2016


Roberto Cotroneo / Blowin’ In The Web

La privacy è la vera nemica del sistema Il mondo virtuale dei social funziona soltanto se non è filtrato. A meno di non chiedere di sbloccare un iPhone. Allora si dicono tutti contrari

MANUELA BERTOLI

I

l web, e poi i social che a loro modo stanno diventando il web, ci chiede di continuo di formulare domande. Google ha una finestra dove si scrive una frase, si chiede qualcosa, e si attende risposta. Spesso sono soltanto parole allineate che servono a centrare un argomento. Altre volte sono vere e proprie domande che non possono avere alcuna risposta sensata, ma generare un’idea di risposta, che ormai è diventata sinonimo di soluzione. La risposta non è un modo di interloquire ma deve risolvermi il problema. Per cui se chiedo a Google in quale cinema più vicino a casa proiettano il film che voglio andare a vedere e lui mi risponde in modo corretto, ho risolto un problema. Ma se gli chiedo quale autore ha raccontato meglio l’amore in una poesia, la risposta è sempre sbagliata, anche se Google mi dicesse: Catullo. Perché cercare una soluzione dove invece si dovrebbe impostare un dialogo è un errore a cui non si può rimediare. Da anni si discetta sui pericoli del web e dei social network. Nelle ultime settimane c’è tutto un dibattito se sia corretto pubblicare le foto dei propri figli. E la Rete, come sempre si è spaccata (come se poi fosse mai stata integra e unitaria). Sono problemi importanti, si sa che mostrare i propri figli minori è un azzardo, e sarebbe meglio avere più privacy. Ma al tempo stesso Mark Zuckerberg annuncia al mondo, dal World Mobile Congress che il futuro sarà il video, internet per tutti, le reti sempre più veloci 5G, la realtà virtuale. E così ci si potrà mostrare ancora meglio. Ma tra le domande a cui Google non sa rispondere c’è naturalmente quella non tanto della frantumazione di tutte le privacy, semmai dell’implosione. La tecnologia ha spostato il suo asse, da strumento per ri-

Violabilità assoluta Bello far pensare a tutti che i nostri segreti siano inviolabili persino dall’Fbi quando le grandi imprese mondiali che controllano la Rete hanno reso questo mondo il più violabile che esista.

solvere i problemi ad altoforno che macina e cuoce tutto quello che esiste trasformando la realtà in un’altra cosa, che prima non c’era. Non si tratta di permettere a un nonno islandese di chiacchierare ogni giorno con il nipote in Tasmania come lo avesse nel condominio di fronte al suo. Si tratta di inventare abitudini prima inesistenti. NON È REALTÀ. Pubblicare le foto della propria famiglia su Facebook, del proprio bimbo nella culla o del sushi appena preparato, non è come mostrare l’album di famiglia agli amici o invitare i parenti a cena ed esibire il piatto con entusiasmo ed orgoglio. È un’altra cosa: è la realtà virtuale. Ed è forse per questo che è ancora complicato

convincere la gente a mettere gli occhiali che ti proiettano in un mondo virtuale che sembra vero. E questo per un motivo: che è quello vero a sembrare virtuale, per cui è lì la scommessa del futuro. Zuckerberg non lo sa. Al punto che si è comprato l’azienda Oculus per inventare una nuova forma di virtualità. I genitori che pubblicano le foto dei loro figli lo sanno bene invece: pensano che viviamo in un mondo che non ha più bisogno di privacy semplicemente perché non è un mondo vero. Come non sono vere le foto dei profili di Facebook anche quando sono vere. Nel senso che scegliere un profilo, un’espressione, un tipo di posa vuole dire già decidere che tipo di inganno identitario si vuole compiere sui social. A meno di non decidere di pubblicare le foto segnaletiche: fronte, profilo destro e profilo sinistro. In questo mondo virtuale dei social non c’è spazio per la privacy: perché è un inciampo in bianco e nero in un mondo a colori. I social funzionano se non sono filtrati. Se li chiudi non rendono più. E la privacy è nemica del sistema. A meno di non chiedere di sbloccare un iPhone. In quel caso le cose cambiano. Tutti solidali con Apple: da Google a Facebook. «Daresti le chiavi di casa tua a chi te l’ha venduta?», dicono alla Apple. Certo che no. Ma permetteresti a tutta la città di entrare e uscire da quella casa attraverso pareti di vetro, e anche spalancate, che mostrano tutto? A quel punto il portoncino ben chiuso serve davvero a poco. Ma anche questo è marketing. Bello far pensare a tutti che i nostri segreti siano inviolabili persino dall’Fbi quando le Over the Top, ovvero le grandi imprese mondiali che controllano la Rete, hanno reso questo mondo il più violabile e privo di privacy che esista.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

23


Umberto Broccoli / Storie (di) note

Un matto Dalle idee luminose alle ideologie cupe. Fabrizio De André racconta il protagonista di un mondo colorato nel quale i saggi non riescono ad entrare. Per paura

OLYCOM

1971

e non riesci ad esprimerlo con le parole” Primo dei scrive e canta Fabrizio de André nel 1971. Settanta e si È Non al denaro non all’amore né al cielo, vira. I colori capolavoro tratto dall’Antologia di Spoon dei Sessanta vanno stemperandosi in River di Edgar Lee Master. Ed è Un matto qualcos’altro di più cupo, anticamera di ovvero Dietro ogni scemo c’è un villaggio. quanto accadrà in seguito. Nei Sessanta In Spoon River parla l’iscrizione sulla esplode il desiderio di libertà e libertà sitomba di Frank Drummer, folle, perché gnifica soprattutto emanciparsi da quannon riusciva ad esprimersi con le parole. to di residuale sopravvive nel costume di Le sue parole – immagino – piovevano prima della guerra. Per cui l’idea guida è come una cascata rovinosa di suoni e ribadire il concetto di libertà, declinato lettere, ora frammentarie, ora accelerate, in ogni piega della vita quotidiana: dalla ora confuse, ora esaltate, ora scintillanti, libertà di pensiero, alla libertà sessuale. ora depresse, tutte rigorosamente lontane Tutto questo esplode gioiosamente nella dagli schemi ordinati del vivere sociale. seconda metà dei Sessanta e lo si vede “E sì, anche tu andresti a cercare / le ben rappresentato nei raduni dei giovani, parole sicure per farti ascoltare: / per stufigli dei fiori. Là ci si spoglia di tutto (e pire mezz’ora basta un libro di storia, / io non solo in senso lato) e tutto diventa cercai di imparare la Treccani a memoria, lecito, eccessi compresi. Quel tutto ha / e dopo maiale, Majakovskij, malfatto, la dimensione di una festa, ma andrà / continuarono gli altri fino a leggermi presto fuorigiri, quando le idee colorate matto”. Fabrizio propone vireranno in ideologie le contraddizioni di quel incupite e trasformeranLa realtà giovanile mondo, scoperchiato no in ossessivo, quanto ufficialmente da Basaglia. poco prima era giocoso. spinge in avanti, Il mondo, da sempre, All’inizio dei Settanta il con controspinte ha avuto paura del folle. mondo giovanile spinge all’indietro. Si Eppure, mi sembrano in avanti, nonostante le felici. Con quegli sguardi controspinte all’indietro, può comprare la da bambini, con quei inevitabili in ogni periodo pillola e Basaglia discorsi strampalati, ma di cambiamento. Ma tra diventa direttore del al tempo stesso lucidi, spinte e controspinte si radicalizzerà lo scontro manicomio di Trieste perché elementari. Con quelle richieste candide, generazionale, nonché infantili. i conflitti nella stessa generazione. 1971, 1 gennaio. È simbolico: i Beatles si danno appuntamento in tribuNESSUNA REGOLA Con quegli stupori nale per discutere come dividere il patriimprobabili, lontani miglia e miglia dagli monio. Il mondo corre comunque verso sguardi assetati, proposti minuto dopo quella libertà festeggiata nei raduni della minuto dagli interlocutori della nostra fine dei Sessanta. Cambiano consuetudini vita quotidiana. Nelle pagine scritte da della nostra quotidianità. Dal 10 marzo si chi chiamiamo folle i pensieri scorrono possono produrre, pubblicizzare e – sovia, veloci. Le parole si rincorrono senza prattutto – acquistare gli anticoncezionacostrizioni, senza dimensioni. Volano li. 1 agosto: lo psichiatra Franco Basaglia libere sulla carta, non tengono presenti diventa direttore del manicomio di Trieregole o schemi. Quasi fossero colori. E i ste. Da allora, sappiamo cosa è cambiato colori? Nei quadri dipinti da chi chiaper il trattamento delle malattie mentali. miamo folle, i colori trionfano, senza “Tu prova ad avere un mondo nel cuore / ordine. Si accavallano rubandosi la scena e raccontando mondi differenti: mondi visti evidentemente soltanto da quegli

Fuori dagli schemi Il cantautore genovese Fabrizio De AndrŽ (1940-1999).

occhi. È un mondo variopinto osservato e ascoltato con diffidenza da noi saggi. E con una punta di paura: perché il differente spaventa chi è abituato a considerare reale tutto quanto risponde all’analogia tenendo lontano l’anomalia. Noi saggi abbiamo costruito la nostra storia su schemi ripetuti. Migliaia di schemi ripetuti: per cui ci sembra di essere liberi, imprigionati come siamo dagli schemi. E non riusciamo a comprendere i messaggi spediti da chi chiamiamo folle: se riuscissimo a comprendere, forse ci renderemmo conto di quanta saggezza sia nella loro follia. Sorridono spesso, i folli. Cantano spesso, i folli. Fischiano per strada, i folli. Non si preoccupano del domani, i folli. Si accontentano di mangiare, di bere, di respirare, i folli. Non come noi saggi che sorridiamo poco, per strada camminiamo imbronciati e cerchiamo di accumulare ricchezze, preoccupandoci ogni minuto di quanto accadrà nel minuto successivo. In questa vita saggia, fatta di preoccupazioni, problemi, ansie, contraddizioni, insonnie, depressioni.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

24

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Vittorio Sgarbi / Scoperte e rivelazioni BOB KRIEGER

press@vittoriosgarbi.it

Le allucinazioni senza storia del Mastelletta Riappare (senza essere ricordata dalle fonti) una sua Adorazione dei Magi e racconta i fantasmi anti-cavaraggeschi del sontuoso coetaneo bolognese

N

essun dubbio che questa grande tela, cm 290x210 (senza aggiunte 250x203), raffigurante una Adorazione dei Magi, sia opera di Andrea Donducci detto il Mastelletta, originale e sontuoso pittore bolognese. Apparsa, senza una storia precedente e senza essere ricordata nelle fonti, a una vendita a Genova, (dove la conferma della identificazione è venuta dal risultato: 193.000 euro contro una base d’asta di 3.000!) con la generica indicazione “scuola emiliana secolo XVII”, la tela ha tutte le caratteristiche del visionario e popoloso Mastelletta, in un’opera impegnativa e preziosa. Pur sporco, il dipinto è vibrante di colore e ricco di materia, in una serie di piani sequenza che appartengono alla condizione di sogno più che di veridica riproduzione della realtà, in perfetta contrapposizione con Caravaggio che lavora negli stessi anni a Roma in presa diretta sulle cose che vede, senza trasfigurarle come fantasmi o apparizioni; e mettendocele davanti anche brutalmente come nella respinta Morte della Vergine che pure sarà piaciuta a Mastelletta. Il quale non potrà vedere del prestigioso collega la Natività di Messina, agli antipodi della sua concezione. Caravaggio (nato nel 1571) e Mastelletta (nato nel 1575) hanno gli stessi amici che ne apprezzano le antitetiche posizioni, come Vincenzo Giustiniani, confidente del primo e committente del secondo. Mastelletta non procede nella direzione di un naturalismo integrale anche se si muove agli esordi a Bologna proprio nell’accademia dei Carracci, negli anni immediatamente precedenti al 1595, quando Agostino e Annibale vanno a Roma. A Bologna resta solo Ludovico con il quale Mastelletta ha più stretta affinità. Un’ispirazione capricciosa, un fortissimo individualismo, uno spirito antagonistico lo portano, anche rispetto ai maestri, a scelte autonome. Se Annibale Carracci mostra tutto il suo ossequio, anche in funzione antitoscana, per Tiziano

Andrea Donducci detto il Mastelletta, Adorazione dei Magi, (cm 290x210, senza aggiunte 250x203), Collezione privata.

e Veronese, Mastelletta preferirà Tintoretto. È difficile sottrarsi alla suggestione di un rapporto diretto con le grandi tele della scuola di San Rocco. Fin dagli inizi, con il Matrimonio mistico di Santa Caterina e le Storie di Mosè nella galleria Spada, l’estro narrativo del Mastelletta appare meravigliosamente onirico con processioni di personaggi entro paesaggi scintillanti e incantati. Non mancano osservazioni naturalistiche e una curiosità per le attività agricole e per il mondo contadino con una sensibilità comune a Carracci, Domenichino, Scarsellino, Guercino, come si vede in idilli pastorali come l’Aia contadina, capolavoro giovanile del Mastelletta. E se, per comprendere questa interpretazione visionaria del paesaggio, si può forse risalire ai modelli di Dosso Dossi e di Nicolò dell’Abate, soltanto il soggiorno romano , già in apertura di secolo, allarga i confini dell’indomita curiosità del Mastelletta. A Roma certamente conosce Elsheimer e anche Paul Brill, Jan Pynas e anche Agosti-

no Tassi. Si può pensare che, per qualche tempo a Roma, Mastelletta, con la sua interpretazione romantica dei soggetti biblici e religiosi e i paesaggi trasfigurati, abbia rappresentato un’alternativa di “genere” a Caravaggio. Conosciamo le due grandi tele con Sansone e Dalila e L’offerta di Abigail commissionate da Vincenzo Giustiniani e ora in casa Busmanti a Bologna. A Roma, d’altra parte, Mastelletta rimane fino alla morte di Caravaggio, alla cui realtà contrappone il suo sconfinato sogno, i suoi idilli, le sue notti trasfigurate. Al ritorno a Bologna Mastelletta, invece, sembra mantenersi, con grande originalità espressiva, nei soggetti religiosi tradizionali. Ne dà prova nelle grandi commissioni per le chiese di San Francesco e San Domenico, mentre a Bologna è legato pontificio un Giustiniani, Benedetto, per la famiglia del quale aveva lavorato a Roma. In San Domenico dipinge, a fianco di maestri come Guido Reni, Lionello Spada, Alessandro Tiarini, grandi tele per la cappella dell’Arca, con una pittura teatrale e drammatica. Le sete dei suoi abiti frusciano in un compiacimento mai provato da Ludovico ma sperimentato da Pietro Faccini, con una intensificazione di effetti speciali e una luce irreale sempre lontanissima da quella del giorno, in una notte senza fine illuminata artificialmente. Le figure sono sontuose e trasfigurate, ben oltre le consunte cifre del manierismo. Due vivacissimi cani, in primo piano,ci riportano alla realtà. Per Mastelletta non ci sono soltanto ideale e reale, ma stati d’animo, atmosfere, allucinazioni. E quando, come nella Adorazione dei Magi, ora riapparsa, le figure sontuosamente affollano lo spazio intorno alla Vergine, con un patetismo forzato, teatrale, Mastelletta vuole stupire, non commuovere, vuole allontanarsi dalla realtà contrapponendosi radicalmente a Caravaggio. L’opera è un manifesto di pittura visionaria, sommamente rappresentativo, benché le fonti, a partire dal Malvasia, non la ricordino; manderà spettrali riflessi fino all’imprevedibile ma annunciato Füssli. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

25


D’Amore e di Altri Disastri / di Maria Laura Rodotà postacuore@rcs.it

L’uomo speciale e la figlia ipercritica

Arriva lui, che le sta prendendo il cuore. E lei pensa di mandare il matrimonio all’aria. Solo la prole la frena. Che fare? Aspettare, distinguere. E non caricare la ragazza di dilemmi non suoi

Anonima forever

Ti rispondo, sul serio, col cuore. Ho una figlia di vent’anni intelligentissima e abrasiva. Spesso abrasiva e basta; a volte abrasiva perché è protettiva. La tua

26

SETTE | 09— 04.03.2016

ILLUSTRAZIONI DI MANUELA BERTOLI

C

arissima, Dopo averti raccontato le mie storie, dopo, in fondo a tutto è arrivato, lui, un uomo speciale, separato libero e che mi sta cominciando a prendere l’anima oltre che il cuore. È così comincio a pensare a lui sempre, troppo; e a distogliermi dalle consuetudini familiari. Come fanno alcune coppie di amanti a reggere anni nella clandestinità? Io, è solo un mese che conosco quello che potrebbe essere l’uomo della seconda fase della mia vita, è già stento a nascondere i miei sentimenti al mondo, a casa! Fatto sta che oggi provo ad intavolare una chiacchierata tra lo scherzoso e l’amichevole con mia figlia diciottenne, e lei, scherzando,mi dice che mai vorrebbe che si sovvertisse l’ordine familiare: «Ma dove vai mamma,che tu dopo un po’ torneresti a casa, i cinquantenni soli sono tutti strani, e a te non ti ci vedo a fare la piaciona in giro, magari postando foto su FB!». Insomma.. tutto gira intorno a questo... vedere mia figlia triste e preoccupata mi ferma da un istintivo bisogno di ritrovarmi con questo uomo meraviglioso che ho conosciuto, e specchiarmi negli occhi con lacrima di mia figlia mi spingerebbe a tornare la “seria” madre e donna che lei apprezza. Aiuto Maria Laura, qui non scherzo più... che faccio?? Lascio scappo mollo famiglia marito e mi butto in questo forse amore (io un po’ lo sento che potrebbe essere veramente lui!); Oppure ascolto i pensieri di mia figlia, aspetto i suoi 25 anni ( e poi mi spengo!!) Aiuto

dice cose ragionevoli. Tu non hai voglia di essere ragionevole. Non è possibile stabilire chi ha ragione. Terapia consigliata

Non aspettare per via della creatura. Visto lo stato della nostra economia, tua figlia potrebbe rimanere a casa fino a 45 anni. Prova a distinguere tua figlia da tuo marito. È lui che vorresti lasciare, non lei. Aspetta per via del buonsenso. Non si pianta baracca e burattini dopo un mese di relazione. Dai tempo e modo all’uomo meraviglioso di capire e comunicare le sue intenzioni. Tratta tua figlia come una ragazzina appena maggiorenne ma preoccupata; non caricarle addosso i tuoi dilemmi. Molesta le amiche, piuttosto. Le tue. Poi, magari, parlatene insieme, le amiche, tu, e tua figlia, a cui non vorresti, tra un po’, dover dire “avevi ragione” (quando hanno ragione è seccante, suvvia).

L’ostinata ricerca dell’omaccione

C

iao Maria Laura. Sono tornata single da pochi mesi, dopo 7 anni e mezzo trascorsi con un bel manzo, che tagliava la legna con l’ascia ed era dotato di due belle cosciotte. Ora voglio un omaccione inglese/irlandese rossiccio di capelli. E invece c’è un ragazzino-collega (25 anni) piuttosto smilzo che ci prova spudoratamente, italiano (anzi, precisiamo, veneto) che per conquistarmi mi manda messaggi equivoci su Wozzapppp del seguente tenore: “Stasera vieni a casa mia, siamo da soli, ti faccio la polenta”. “Stasera non posso”. “Come non puoi? Ho voglia”. “Di cosa?”. “Di polenta”. Armonica

Mi vengono in mente doppi sensi orrendi sugli accompagnamenti della polenta.


D’Amore e di Altri Disastri

“Catullo” racconta pagine e pagine di vita, amori, scappatelle. Ma la realtà vera è che la moglie non l’ha tradito perché inadeguato. L’ha fatto perché è troppo prolisso

Terapia consigliata

Datti al rugby. Come tifosa, perlomeno. Segui la tua squadra in trasferta. Non perdere il torneo Sei Nazioni. Marca a uomo i tifosi di una o due nazioni. Divertiti molto. Non andare alle partite vestita da escort e con l’aria criptodisperata genere “cerco un omaccione” che tiene lontano ogni omaccione che si rispetti. Stai attenta all’ascia. Non è obbligatorio scegliere tra i battutari sulla polenta e i portatori d’ascia, poi. Sei in una fase di transizione. Puoi spaziare. Devi spiegare al tuo collega che tra i piatti sexy non c’è la polenta, anche se ci piace, e che come metafora è discutibile, e altro.

Storia tagliata per motivi di spazio di una moglie non fedele e di un marito quasi comprensivo

P

rendo spunto da una lettera dove si prevedono, a una sposina innamorata, due classici ed inevitabili episodi di evasione: uno in

gioventù, dopo aver avuto i figli, sistemato casa e famiglia; l’altro, alla soglia dei cinquant’anni, per noia e desiderio di verifica. Ebbene, è quanto accaduto nel nostro matrimonio. Un aspetto trascurato in questi casi di infedeltà nella coppia, nelle lettere e (ovviamente) nelle risposte, è quello dell’impatto sull’altra parte, specie se innamorata, e sulle conseguenze nei rapporti per la successiva convivenza. 1962. Sposati poco più che ventenni, tre figli in cinque anni; lavori precari, decido di riprendere gli studi di ingegneria. A ottobre darò Fisica: studio, ed il sabato sera raggiungo la famiglia al mare. Vicini di casa al mare una coppia: lui play-boy di provincia 40 anni. La bacia mentre è assopita dopo pranzo. Durerà fino a novembre. Mi accorgo dei cambiamenti e tornati in città lei confessa e mi racconta tutto, si giustifica come corrotta dall’atmosfera e sedotta dall’attrazione per un amatore esperto (lui è più bravo di te e dura di più). Errori: Non avevo capito che si stava risvegliando come donna, non le bastava l’amore il sabato sera dopo la cena in famiglia, mi aveva proposto di scappare sulle dune con la luna. Troppa tenerezza nel rapporto, nel sesso ci voleva più aggressività e più conquista, cioè più esperienza. La consideravo una donna ideale, inattaccabile, invece andava capita come era. Conseguenze: Affronto lui, a pugni: si era anche vantato con gli amici della conquista. Rinunzio al progetto di studio: metto al primo posto come mezzi di riconquista il sesso, il denaro, la sicurezza economica. Andiamo avanti; il perdono non elimina la sofferenza, ma la banalizzazione dell’infedeltà aiuta l’accettazione: ho

due relazioni non impegnative, per esperienza e verifica sessuale: per lei solo vantaggi. Abbiamo affrontato insieme gli anni successivi, molta amicizia e complicità, un buon rapporto amoroso e tante attività sportive (campeggio naturista, sub, vela, motocicletta, kayak, sci di fondo). Con il 1984 iniziò un periodo fecondo: dirigenza per me, pensionamento, viaggio di nozze “fai da te” di cinque settimane in Polinesia, nozze d’oro. Tutto è bene quel che finisce bene. Catullo

Catullo, tua moglie non ti ha tradito perché sei inadeguato.Ti ha tradito perché sei prolisso. Il suo adulterio della mezza età l’ho tagliato perché avrebbe occupato sei pagine del giornale. Terapia consigliata

Non dispensate consigli, regalate kayak. O meglio ancora, a coppie in crisi, cinque settimane in Polinesia. A chi possono scrivere, in caso? Intanto, auguri. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

27


Storia di copertina Nel nuovo Kung Fu Panda 3 il rapporto tra natura e civiltà

Predatori e prede, uomini e animali. È al cinema che i bambini imparano come si vive in una comunità di Danilo Mainardi

T

orna il Panda Po, il Guerriero Dragone, di nuovo protagonista in Kung Fu Panda 3, film d’animazione della Dreamworks che uscirà il 17 marzo nelle sale italiane. E con lui torna la schiera di personaggi: i cinque cicloni mantide, tigre, vipera, scimmia e gru, il maestro Shifu, con l’aggiunta di Kai, lo spirito maligno. Po dovrà affrontare mirabolanti sfide, vivere altre avventure. Dovrà insegnare l’arte del kung fu ai suoi (inadeguati) compagni, uniti per rispondere alla minaccia che il maligno Kai sta lanciando su tutta la Cina. C’è anche una bella novità: Po ritrova, dopo molto tempo, il padre Li e con lui raggiunge un luogo incantato e segreto, il paradiso dei panda. Un film divertente, a volte esilarante, ma anche con spunti su cui riflettere. Merita infatti osservare che ogni volta che un animale penetra in uno schermo, compie, in qualche modo, un suo peculiare percorso evolutivo e diventa qualcos’altro rispetto al modello naturale di riferimento. Gli animali del cinema, in un certo senso, smettono di essere quelli della zoologia, così come furono descritti dai naturalisti e così come tutti riteniamo di conoscere nella natura vera. Subiscono una sorta di metamorfosi perché, abitando nello 28

SeTTe | 09— 04.03.2016

schermo, si trovano sottoposti a pressioni culturali selettive che sono dettate dal successo di pubblico e pertanto ben diverse da quelle che impone la natura. Non è infatti la stessa cosa vincere una battaglia per la sopravvivenza nella vita vera e quella all’interno di un film. Questo vale anche per Po. Se lo confrontiamo con il panda gigante, quello vero della zoologia, appartenente alla specie Ailuropoda melanoleuca, Po ha la testa troppo tonda e pure esagerata è la rotondità corporea, quasi da lottatore di sumo. Ha il doppio mento. Occhi e pupille sono perfette sfere, lucide e sfavillanti. La bicromia del mantello è realizzata a comparti eccessivamente netti. Infine, mi è sfuggito se in Po ci sia traccia di un pollice, dettaglio anatomico fondamentale nell’evoluzione del panda. Perché, va ricordato, il panda gigante è un

È un esercizio divertente analizzare e rivelare gli ingredienti che nel cinema determinano il successo di cuccioli e genitori: la nostra tendenza è di umanizzarli

orso e come gli orsi appartiene all’ordine dei carnivori. La sua però è una dieta quasi esclusivamente vegetariana e pure pressocché monofagica, visto che si nutre in pratica solo di germogli di bambù. Un carnivoro vegetariano, dunque. Un passaggio evolutivo bizzarro che ha comportato una serie di adattamenti per consentire il consumo e la digestione di questa pianta, incluso, appunto, l’evolversi di una sorta di sesto dito, noto come il pollice del panda. Non un vero pollice ma un osso del polso (il sesamoide) che si sviluppa ed estende a lato delle dita e facilita la prensilità. Un pollice opponibile che aiuta quindi ad aggrapparsi e ad afferrare le canne del bambù. Insomma, il disegno corporeo di Po è da un lato semplificato e nello stesso tempo, per certi caratteri, amplificato strumentalmente. Rotondità, occhi lucidi, ammiccanti, sono infatti segnali infantili, infallibili nel coinvolgere emotivamente il pubblico. Partecipazione emotiva. È interessan-

te dunque pensare alla parallela zoologia fatta di animali del cinema manipolati per corrispondere alle aspettative della mente umana. Ed è, forse, un esercizio divertente analizzare e rivelare gli ingredienti


Un luogo incantato e segreto In alto e sopra, due immagini dell’ultimo Kung Fu Panda 3. Nel film, il protagonista Po incontrerà suo padre Li e si batterà contro le minacce del “cattivo” Kai.

che sanciscono il loro successo evolutivo, cinematograficamente parlando. L’antropomorfizzazione per esempio. Esiste una tendenza, per buona parte innata, a umanizzare gli animali. È un trabocchetto in cui si casca anche semplicemente per motivi di lingua, perché non possiamo far altro che descrivere le emozioni e i sentimenti degli animali con le nostre parole, quelle appropriate alla nostra sfera emotiva. È, si

dice, “un’impotenza semantica”. Gli etologi sono attenti a evitare il rischio di antropomorfizzare, ma in un’ottica cinematografica l’umanizzazione degli animali funziona benissimo perché ha il pregio di evocare la nostra partecipazione emotiva. L’aveva capito Walt Disney che, nei suoi documentari, raccontava con strepitoso successo animali umanizzati. L’antropomorfizzazione fa sì che noi spettatori facciamo il tifo per la pre-

da, il personaggio “buono”, mentre il predatore è il “cattivo”. Con l’immancabile lieto fine: lo scoiattolino “buono” riesce sempre a sfuggire al serpente “cattivo”. Con buona pace dell’ecologia e delle reti trofiche. Nei cartoni animati, poi, l’operazione antropomorfizzante diventa davvero facile. Ricordo il cartoon Zeta la formica, dove, per umanizzare questi imenotteri ultrasociali, al posto delle tre paia di zampe proprie di tutti gli insetti, erano state aggiunte due braccia e due gambe, esattamente come gli uomini. Per non parlare poi dei miracoli che può fare il montaggio. L’umanizzazione di SeTTe | 09— 04.03.2016

29


DISNEY ENTERPRISES

ONTRASTO (2) EVERETT COLLECTION/C

Furia cavallo del West è un paradigma. Un cavallo con un’intelligenza quasi sovraumana che un abile montaggio faceva assentire in concomitanza di movimenti su e giù della testa (che invece, nel comportamento equino, è segno di aggressività). Allo stesso modo faceva dire di no e la zampa alzata era un’indicazione preziosa per risolvere il caso di turno. Con queste manipolazioni, gli animali dello schermo vengono omologati all’interno di un’umanità in qualche modo artatamente allargata, snaturando completamente la loro intelligenza e celando le loro altre, ma altrettanto belle, menti. L’infantilizzazione, come accennato per Po,

è un altro ingrediente che funziona. L’ha scoperto Konrad Lorenz: noi umani sappiamo istintivamente percepire le caratteristiche fisiche e comportamentali proprie dei cuccioli di mammiferi e dei pulcini degli uccelli e ne siamo attratti. Ricordo il saggio A Biological Homage to Mickey Mouse (Omaggio di un biologo a Topolino), di Stephen Jay Gould, dove si dimostrava che l’antropomorfico topo disneyano quando comparve sugli schermi non era per niente infantile. Aveva gambette sottili, occhi piccoli e, in generale, era piuttosto antipatico e dispettoso. Poi, negli anni, è stato sempre più infantilizzato, e questo ha determinato

il suo universale successo. Bisogna dire che i grafici della Disney hanno imparato bene la lezione. Anche l’esagerazione è un’altra manipolazione collaudata per gli animali dello schermo. È così che si creano i mostri. Si prende una caratteristica naturale, e la si travisa e la si esagera fortemente. King Kong, per esempio, è soprattutto un esagerato immenso scimmione e, nell’idea originaria, terrifico. Ma, via via, nel corso della storia riesce a suscitare negli spettatori conflittualità motivazionali, ambivalenti sentimenti di paura, tenerezza e pena, diventando il “cattivo dal cuore d’oro”. Accade anche con Kai, il maligno di Kung Fu Panda 3. Uno yak

Angelina Jolie: «Con Po ci chiediamo: a quale posto appartengo?»

N

30

SETTE | 09— 04.03.2016

GETTY IMAGES

ella sua straordinaria carriera, Angelina Jolie Pitt è stata un’assassina con la mira di un tiratore scelto, una fata vendicativa, una madre distrutta dal dolore, un’avventurosa eroina di videogame e una top model dal destino tragico. Ma è il ruolo di Maestro Tigre – la glaciale, formidabile, acuta maestra di kung fu, coprotagonista con i Cinque Cicloni della famosissima serie Kung Fu Panda – che ha avuto risonanza come nessun altro per l’attrice vincitrice di Golden Globe. «Già solo l’idea di mescolare il kung fu con un panda è brillante e molto divertente», dice dal campus della DreamWorks in California. «E penso che affronti temi magnifici che stanno a cuore alle persone». A dispetto della sua frenetica agenda – è una delle principali attrici americane in carriera come produttrice e, più di recente, regista e scrittrice, sta crescendo 6 bambini e ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo per il suo impegno umanitario – torna a dare la voce alla Tigre del cartone animato in Kung Fu Panda 3 (qui a lato, alla prima americana). «Ogni film della serie ha una propria caratteristica nella quale puoi trovare qualcosa di unico. I film parlano di famiglia e pongono domande come: “A quale posto appartengo?”. Inoltre, grazie all’influenza della Cina, le persone fanno conoscenza con quest’altro mondo;

riescono a comprendere un posto diverso. Esiste una saggezza millenaria che emerge dai personaggi e per molti bambini è la prima volta che sentono queste cose. È bello farli divertire e dare loro un po’ di cultura di base». In Kung Fu Panda 3 «Po incontra il suo papà biologico e non è più l’unico panda. Apprendiamo dell’esistenza degli altri panda, dove vivono e chi sono, e Po deve imparare a capire che cosa questo significhi e chi sia lui stesso. In più c’è un nuovo elemento divertente, un attacco di zombie, che aggiunge proprio tutto ciò che piace ai bambini – zombie e panda!». Nel film i figli dell’attrice prestano la voce ai piccoli panda. «È stato divertente. Ho detto loro che non erano obbligati e che si sarebbe trattato solo di poche righe. Non sono interessati a diventare attori ma a loro piacciono i film. Saremo insieme in questo piccolo mondo matto, un mondo davvero divertente. È così bello se puoi condividerlo con i tuoi bambini». Era la prima volta per loro in un film? «Sì! E non sapevo come avrebbero reagito. Non sapevo se sarebbero stati tranquilli o nervosi, ma tutti loro l’hanno fatto davvero, davvero bene. E quando ho chiesto “Tutto ok?” mi hanno risposto: “Recitare è facile”. Adesso mi toccherà sentirlo per il resto della mia vita. “È facile, mamma. Perché sei sempre così stanca?”». Tony Horkins


“esagerato”, dalle corna immense, terrifico e tonante ma anche, a tratti, ironico e tenero. È un’operazione raffinata che non sempre riesce. Ricordo banali api assassine o il film Aracnofobia, per il quale Irene Bignardi scrisse sull’Espresso che «il rischio vero è che gli spettatori più piccini, dopo aver visto questo film, non osino più mettere piede in un ambiente naturale». E si potrebbe continuare a lungo con l’analisi dei trucchi e artifizi che, alla fine, creano quest’affascinante pseudozoologia alla quale comunque rimane il merito di divulgare, soprattutto nei bambini, le conoscenze sulle specie animali e sui temi ambientali in genere. Così come Kung Fu Panda 3 contribuisce a far conoscere il panda gigante e con lui l’allarme per tutte le specie in estinzione di cui da sempre è il simbolo. Per i bambini e i giovani di oggi, se riflettiamo, il panda gigante e altre specie a rischio sono animali dello zoo. Fanno fatica a immaginarli nella natura perché troppo pochi esemplari sono rimasti e ben poco è rimasto del loro habitat naturale. Quando in qualche zoo nel mondo nasce un cucciolo di specie in estinzione, non a caso l’evento diviene una notizia. Sono i nuovi zoo, infatti, che oggi hanno in carico la missione della conservazione di specie rare, le cui popolazioni in natura sono ridotte al lumicino. Molti sono attrezzati con laboratori dotati delle più avanzate biotecnologie per favorire la riproduzione di specie a rischio. Sono sede di banche dello sperma e delle uova, praticano trasferimenti di embrione. Ricordo che al National Zoo di Washington, nell’agosto 2013, una femmina di panda gigante fecondata tramite inseminazione artificiale diede alla luce due cuccioli, ma uno morì subito dopo il parto. La madre lo cullò per 17 minuti prima di staccarsene. Il personale dello zoo ne diede notizia con un tweet e migliaia

DISNEY / ANSA

Buoni, brutti e cattivi Nell’altra pagina, dall’alto in senso orario: L’era glaciale, Madagascar e Il libro della giungla (film in uscita in Italia il 14 aprile). Qui a fianco, il primo episodio di Kung Fu Panda; nel tondo, Zeta la formica; sotto, Zootropolis (cartoon Disney attualmente al cinema).

di persone nel mondo parteciparono la loro gioia e commozione per l’evento. Racconto questo come esempio del paradosso che vivono appunto molte specie a rischio, tenute in vita grazie a pratiche che nulla hanno a che fare con la natura. Che cosa c’è infatti di più innaturale di un panda gigante che partorisce a Washington, grazie alle biotecnologie, accompagnato dalla partecipazione emotiva dei social? Generazioni future. Nel film Kung Fu Pan-

da 3, come detto all’inizio, Po con il padre Li raggiungono un luogo segreto, un paradiso dei panda. Non è un’invenzione, bensì una realtà alla quale s’aggrappa la speranza di vedere in futuro sempre più esemplari di panda gigante allo stato selvatico, dunque liberi e in grado di sopravvivere. L’Eden di questo animale si trova principalmente nella regione cinese del Sichuan. Ne dà un’ampia descrizione il bel libro Panda di Zhou Mengqi (Orme Editore): un paesaggio quieto e paradisiaco, dove il clima mite e umido favorisce la crescita di foreste lussureggianti e garantisce abbondanti germogli e canne di giovane bambù. Un ambiente ricco di biodiversità, animale e vegetale. Lì, in una vasta area di riserve naturali strappata all’agricoltura e all’industria mineraria cinese vivono, come riporta il Wwf, poco meno

di 2 mila esemplari di panda gigante, una piccola popolazione ma che continua a crescere. L’Unesco ha dato all’area lo status di patrimonio mondiale; il governo cinese sta mantenendo l’impegno nella salvaguardia; il Wwf, istituzioni e associazioni varie operano un costante monitoraggio. Infine, la ricerca scientifica continua a produrre conoscenze per la sopravvivenza del panda gigante. C’è infatti un Centro per l’allevamento e la ricerca sul panda a Chengdu, importante città del Sichuan, premiato tra l’altro con onorificenze per gli eccellenti risultati ottenuti. Tutto questo, dunque, fa sperare che le generazioni future potranno pensare al panda gigante come un bell’orso libero nei boschi e non solo confinato in uno zoo o saltellante sullo schermo in rocamboleschi esercizi di kung fu. Un’ultima curiosità. Nel libro di Orme citato c’è una foto che ritrae, uno di fronte all’altro, il campione di arti marziali, nonché attore, Jackie Chan e un panda gigante, al Centro per l’allevamento e la ricerca sul Panda a Chengdu. Chan presta la sua voce al personaggio della scimmia nella versione americana dei film Kung Fu Panda. Insomma la foto, in un certo senso, è una trasposizione dallo schermo cinematografico alla vita reale. E la didascalia, non a caso, recita: due celebrità s’incontrano. Danilo Mainardi © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

31


Luisa Ranieri / intervistata da Vittorio Zincone

«Sono tutti democristiani riciclati che vanno dove li porta la convenienza» «Anche Renzi lo ammette. E lui è pure un furbacchione», dice l’attrice napoletana. «La tentazione di andare all’estero c’è. Ma poi voglio che le mie figlie crescano qui»

S

i infuria quando parla di tasse, si illumina quando descrive la sua leggendaria collezione di scarpe. Scherza: «Le scarpe sono l’unica cosa di cui sono davvero esperta». Aggiunge: «Una volta, per comprarne un paio avvistato in una vetrina parigina, sono rimasta senza i soldi per il viaggio di ritorno in Italia». Incontro Luisa Ranieri, attrice, nella sua abitazione romana. Giacchetta militare verde, jeans e stivali. Cadenza decisamente campana. È reduce dalla fiction spacca-ascolti Luisa Spagnoli e sta per sbarcare in sala con l’ultimo film di Fausto Brizzi, Forever young. Racconta: «Mi ha chiamato e mi ha chiesto se volevo interpretare una Milf aggressiva». Milf è l’acronimo di «Mother I’d like to fuck», un modo gergale per definire donne/madri oggetto di desiderio sessuale da parte di uomini più giovani. Prima che ti chiamasse Brizzi sapevi che cosa fosse una Milf? «No, ma poi mi sono informata». Non ti ha dato fastidio che un regista ti chiamasse per interpretare una tardona? «Fermi tutti! Una Milf non è una “Cougar”». Potresti tradurre? «La “Cougar” è la tardona, cinquanta/sessantenne che gioca ancora a fare la felina. La Milf è una mamma che j’ammolla e piace ai ragazzotti». Ti sono mai capitati corteggiatori giovanissimi? «No o non me ne sono mai accorta. Io sono un po’ rinco: saluto tutti con cortesia e perché temo di non riconoscere persone che dovrei conoscere». Hai la fama di essere gelosissima. Temi le giovani corteggiatrici di tuo marito, Luca Zingaretti? «Naaaa. Ogni tanto le signore per strada lo abbracciano. Ma è giusto così, basta non esagerare. Il pubblico è tutto. Forever young comunque è soprattutto un film che demolisce la ridicolaggine di tutti i maniaci della gioventù protratta: padri che non si rassegnano al naturale invecchiamento, mamme di 40 anni che si conciano come le figlie». Tu hai 42 anni. Prevedi ritocchi, lifting e tagliandi assortiti? «No, ma non giudico chi lo fa. Se sei amata e vivi in un contesto felice probabilmente non ti viene nemmeno in mente. Ma se hai intorno persone che ti dicono che non lavori perché sei invecchiata e ti fanno credere che col bisturi puoi tornare giovane, bella e fica… La verità è che i vent’anni non tornano e quando ti ritocchi spesso dimostri più anni di quelli che hai. Io prendo atto che i quarant’anni sono belli». Luisa la saggia. «Dieci anni di analisi mi hanno aiutata. Ho cominciato praticamente 32

SeTTe | 09— 04.03.2016

quando ho iniziato a fare questo mestiere. Era un approfondimento per capire come sono, un appuntamento piacevole con me stessa». Come sei diventata attrice? «Un po’ per caso». È la risposta che danno praticamente tutte le persone che lavorano nello show business. «Stavo attraversando un periodo abbastanza complicato. Mi ero iscritta a Giurisprudenza perché volevo fare il magistrato, ma non sopportavo la tensione degli esami. Svenivo per l’ansia. Un giorno ho incontrato un amico, gay e tossico, che mi ha raccontato di aver superato le sue difficoltà a parlare in pubblico partecipando a un corso di teatro. Così ho cominciato a frequentarlo pure io. Avevo 19 anni. Dopo un paio di esami lasciai l’Università, anche perché nel frattempo erano arrivati i primi spettacoli con la compagnia teatrale dei miei insegnanti e avevo capito che recitare mi piaceva davvero». Prima avevi mai lavorato? «Per arrotondare mettevo timbri in ufficio per l’azienda di famiglia: distribuzione di prodotti farmaceutici». Ci sono ruoli che avresti difficoltà a interpretare? «Dopo il film con Michelangelo Antonioni posso fare qualsiasi cosa». Anche un ruolo da super cattiva come Donna Imma Savastano della serie tv Gomorra? «Di corsa». È vero che dopo aver girato una sequenza di nudo con Antonioni hai vomitato? «Beh, Antonioni mi chiese di fare una scena di auto-masturbazione. Ero giovane, mi sono sentita male». Hai dichiarato: «Ho fatto sparire quella scena dal Web». Uno strano destino: lavori con il maestro Antonioni e sei costretta a nascondere quel lavoro. «Il film con Antonioni faceva parte di un progetto internazionale, Eros, che comprendeva pure un episodio diretto da Steven Soderbergh. Negli ultimi anni però la mia scena è stata estrapolata e usata da morbosi feticisti, piazzata in mezzo a scene porno. Sono intervenuta». Se ti proponessero di presentare Sanremo, accetteresti? «Non lo so. È un altro mestiere». Ma tu hai già fatto Rockpolitik con Adriano Celentano. «Celentano era il mito della mia infanzia. Sono cresciuta con le sue canzoni. Anche lì, avevo un’ansia…». A causa della diretta televisiva? «Sì. Ad Adriano non piaceva il fatto che fossi troppo perfettina, che mi preparassi troppo. Un giorno venne nel mio camerino e mi do-


Giovanni Gastel

Tra fiction, tv e cinema Luisa Ranieri, napoletana, 42 anni, attrice. Il successo più recente, la fiction Luisa Spagnoli. Sta per sbarcare al cinema con il film Forever Young.

mandò: “Sai cantare qualcosa?”. Risposi di sì. Dopo qualche ora, praticamente senza prove, cantavo Maruzzella in diretta di fronte a dieci milioni di persone. Stonai. Ero desolata. Alla fine dello show Adriano mi disse: “Finalmente un po’ di umanità, sei stata fantastica”». Hai lavorato col Molleggiato, sei stata diretta da Leonardo Pieraccioni e da Ferzan Özpetek. Ora come è stato lavorare con un regista ultra-renziano? «Chi sarebbe?». Brizzi ha collaborato con varie edizioni della Leopolda. «Non lo sapevo. Ammetto che, fuori dai set, non frequento attori e registi, quindi so poco dei loro orientamenti politici». Tu hai mai fatto politica? «Da ragazza frequentavo Piazza del Gesù, a Napoli. Luogo storico degli azzeccati». Gli azzeccati? «La sinistra-sinistra-sinistra». Oggi voti a destra o a sinistra? «Ma nuncestannocchiù la destra e la sinistra. Sono tutti democristiani riciclati che vanno dove li porta la convenienza». Renzi… «Lo racconta lui stesso: è un diccì con qualche idea di destra e qualche idea di sinistra. Ha capito che il mondo è cambiato e che se fosse troppo di sinistra sarebbe fuori dalla storia. Si è adeguato. È un po’ furbacchione, un grande comunicatore». Davvero con il fratello di Luca, Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, non parli mai di politica? «Giuro. Ogni tanto gli chiedo qualche cosa, ma lui lascia scivolare altrove la conversazione». Qualche anno fa hai detto che tu e Luca avete pensato di trasfe-

rirvi all’estero. «Io vorrei che le mie figlie crescessero qui, ma ogni tanto si ha davvero la sensazione di fare tanto e di ricevere pochissimo in cambio». Dare tanto, ricevere poco. Parli di riconoscimenti professionali? «A parte il fatto che gli attori sono una categoria non protetta, precaria…». Non credo che tu e Luca avrete mai problemi economici. «Non pensare a noi o alle 4/5 star in circolazione. Pensa alle centinaia di attori che lavorano senza garanzie, che pagano contributi e probabilmente non avranno una pensione. A parte questo… Da me lo Stato prende il 69% di quello che guadagno. Che cosa ho in cambio come cittadino? Poco. Per quasi tutti i servizi principali, per evitare attese folli, devo ricorrere ai privati. La tentazione di andare qualche anno fuori, è tanta. Ne parliamo, ne parliamo… ma poi restiamo». Hai un clan di amici? «Ne cito un paio: Francesca, romana, fa l’avvocato, e Marinella, che vive ad Atlanta, negli Stati Uniti». A cena col nemico? «Con un prepotente. Sono quelli che tengo più a distanza… Con Matteo Salvini. Gli vorrei spiegare du’ cosette». Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita? «Trasferirmi a Roma, nel 1997. Presi una stanza insieme con un’altra ragazza e cominciai a recitare per le pubblicità». Il leggendario spot del tè freddo Anto’ fa caldo. «Prima di quello ne ho fatti una ventina di cui non ero protagonista». Il film preferito? «L’amore molesto di Mario Martone. Una storia difficile che diventa accessibile a tutti grazie allo strumento filmico». Il film che non vedi l’ora di far vedere alla tua primogenita, Emma? «La ciociara». La scena dei sogni, quella che avresti voluto girare? «Innamorarsi: quando Meryl Streep e Robert De Niro si incontrano in metropolitana. C’è un’intensità pazzesca». Hai lavorato in Francia. Ti hanno mai proposto una grossa produzione americana? «Qualche anno fa. Per partecipare a un progetto statunitense con Kevin Costner rinunciai al ruolo di protagonista in Benvenuti al Sud. Alla fine, però, il film con Costner saltò». Il libro? «Le braci di Sándor Márai». La canzone? «Sono un jukebox ambulante. So a memoria centinaia di pezzi. Pino Daniele è la mia storia: A me me piace ‘o blues…». Canti qualche ninna nanna alle tue figlie? «Le invento. Spesso il testo è costituito dal racconto di quel che è successo durante la giornata». Sai quanto costa un pacco di pannolini? «Circa otto euro». L’articolo 1 della Costituzione? «L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». È anche democratica. I confini di Israele? «Non li so. Se vuoi li sparo a caso. La Siria? In geografia pijavo sempre 3». L’errore più grande che hai fatto? «Ce n’è uno ricorrente: non cavalco mai l’onda». Di che onda parli? «Non sfrutto i grandi momenti di visibilità. Come avrei potuto fare dopo Rockpolitik. Tendo a ritrarmi, per una esigenza di autenticità. Ho bisogno di tornare a me stessa. Anche ora, dopo il successo della fiction su Luisa Spagnoli avrei potuto cominciare ad agitarmi, a frequentare salotti, per propormi surfando il momento. Invece sono andata in Brasile, da un’amica». Il meritato riposo. «A Rio mi sento a casa, come a Napoli. Solo che i carioca non mi riconoscono e posso stare in ciabatte tutto il giorno». © riproduzione riservata

SeTTe | 09— 04.03.2016

33


la Storia “riscritta” con la fotografia / 1 La memoria rimossa di un popolo in 12 scatti

(Auto)ritratto di un continente

SAn beneDettO il MOrO Benedetto Manasseri nacque nel 1524 in una famiglia di schiavi (Cristoforo e Diana) condotti dall’Africa a San Fratello in provincia di Messina. Diventato libero, da piccolo si mise in mostra per la sua volontà di penitenza che gli fecero guadagnare il soprannome di Santo. A 18 anni lasciò la famiglia, cominciando ad aiutare i poveri. A 21 anni entrò nell’eremo di Santa Domenica, a Caronia. Alla sua porta si raccoglieva la folla per chiedere miracoli. Morì nel 1559. Fu canonizzato nel 1807 da papa Pio VII. La statua (a cui è ispirata la foto) è attribuita a José Montes de Oca. 34

Sette | 09— 04.03.2016

JuAn De PAreJA Pittore spagnolo (1606-1670), nato schiavo a Antequera, vicino a Málaga. I figli di padre spagnolo e madre mulatta come lui venivano chiamati Moriscos. È ricordato per aver fatto parte della scuola di Diego Velázquez, di cui divenne assistente dopo che il grande pittore spagnolo tornò da un viaggio in Italia nel 1631. Il Maestro lo ritrasse e gli diede la libertà nel 1650 mentre si trovavano a Roma. La “Vocazione di San Matteo” di De Pareja è esposta al Prado, così come il ritratto di Velázquez a cui si ispira questa foto.


Santi, rivoluzionari, schiavi: con il progetto Diaspora, il senegalese Omar Victor Diop fa rinascere (con il suo volto) una serie di personaggi africani approdati altrove e poi dimenticati. Con una particolarità: li riporta in vita tutti con un preciso riferimento al gioco del calcio

courtesy of magnin-a (paris)

di Michele Farina - foto di Omar Victor Diop

DOn Miguel De CAStrO Nel 1643, o forse nel 1644, Don Miguel de Castro e due servitori arrivarono nei Paesi Bassi dopo essere passati dal Brasile. Facevano parte di una delegazione mandata dal signore di Sonho, una provincia del Congo: tra gli obiettivi del loro viaggio c’era quello di trovare una soluzione al conflitto interno al Congo, attraverso la mediazione degli olandesi. Il ritratto originale a cui il fotografo si è rifatto non ha un’attribuzione certa: potrebbe trattarsi di Jaspar Beckx o di Albert Eckout.

AyubA SuleiMAn DiAllO Fu uno dei primi a narrare l’epopea degli schiavi in prima persona. Era nato nel 1701 da un’influente famiglia di leader religiosi musulmani. Il nonno aveva fondato la città di Bundu, in Senegal. Un giorno, mentre si trovava sulle rive del fiume Gambia per commerciare carta e schiavi, il giovane Ayuba fu rapito da un gruppo dell’etnia avversaria dei Mandingo e venduto agli inglesi come schiavo. Riuscì a tornare dalle piantagioni di tabacco del Maryland, a diventare libero in Inghilterra e a tornare a morire nella sua Africa nel 1773. Sette | 09— 04.03.2016

35


U

n pallone sotto braccio, un vestito d’altri tempi con i colori della Francia. Fotografato come un atleta che si traveste e gioca con il suo personaggio. Il nuovo Pogba? Jean-Baptiste Belley, detto anche Marte, potrebbe essere davvero il nome del giocatore che lascerà il segno questa estate agli Europei di calcio. Originario del Senegal, nato sull’Isola di Gorée, potrebbe essersi fatto le ossa in qualche sassoso campetto africano prima del trionfale trasferimento a Parigi che gli ha cambiato la vita. La sua è una storia di riscatto, simile a quella di molti ragazzi neri che hanno fatto fortuna con il pallone partendo da un villaggio. Dal “Dark Continent” (copyright colonialista by Henry Morton Stanley) all’Europa, passando per il Caribe: a due anni il piccolo Belley fu portato da trafficanti di esseri umani, scafisti ante litteram, al di là del mare. Per l’esattezza nelle Indie occidentali francesi, sull’isola divisa tra Santo Domingo e Haiti. Sì, perché Jean-Baptiste Belley in arte Marte, qui anacronisti-

Angelo SolImAn Nato intorno al 1721 nella provincia di Sokoto, entro i confini dell’attuale Nigeria, fu preso prigioniero ancora bambino e spedito a Marsiglia. Nel 1734 fu “offerto” al Governatore Imperiale di Sicilia: alla sua morte finì alle dipendenze del Principe del Liechtenstein di cui divenne primo servitore. Uomo colto, fu precettore del principe Aloys I e sarà considerato anche tra gli amici dell’imperatore austriaco Giuseppe II. Morì nel 1796. Il ritratto originale è opera di Gottfried Haid. 36

Sette | 09— 04.03.2016

camente raffigurato con un pallone di cuoio, era uno schiavo, cresciuto nella seconda metà del Settecento. Uno che si conquistò la libertà pagandosela, e che dalla prima grande rivolta nera di Haiti fece uno scatto nella Rivoluzione Francese: membro della Convenzione tra la Montagna e la Palude, accanto a personaggi del calibro di Robespierre e Marat, partecipò ai lavori del Consiglio dei Cinquecento. Il suo ritratto, realizzato da Anne-Louis Girodet, pupillo di David, fu esposto a Parigi nel 1798. Belley morì nel 1805, dopo un soggiorno nelle segrete della fortezza di Belle-Île. Sull’ex schiavo del Senegal che giocò un piccolo ruolo nelle retrovie dei Lumi calò il sipario. Come sul suo ritratto neoclassico. A rialzarlo, oltre due secoli dopo, ci ha pensato un conterraneo cresciuto a Dakar, Omar Victor Diop: famiglia borghese, padre contabile, madre avvocato, un posto da consulente nel settore finanziario, una vita già programmata fino al 2012. Prima della sterzata improvvisa. Diop diventa fotografo. Durante un soggiorno a Malaga si imbatte nella Me-

olAUdAh eqUIAno Nato nel 1745, meglio conosciuto dai contemporanei come Gustavus Vassa, schiavo liberato, visse a Londra nella seconda metà del Settecento e prese parte al movimento abolizionista britannico. La sua autobiografia, pubblicata nel 1789, suscitò molto clamore ed è considerata fra i fattori decisivi per la promulgazione dello Slave Trade Act del 1807, la legge che sancì sulla carta la fine della schiavitù nel Regno e nelle sue colonie. Non si conosce il nome dell’autore del ritratto a cui Diop si è ispirato.


so, le scarpe coi tacchetti. Oggetti “anacronistici che legano il passato al presente”, l’Europa africana di Don Miguel de Castro (che da un regno del Congo fu inviato come messaggero in Olanda) a quella contemporanea dei vari Eto’o e Pogba. I primi scout oltre il Sahara. «Nel modo in cui i calciatori afri-

cani vengono percepiti in Europa», dice Diop, «ci sono grumi di gloria, eroismo ed esclusione». Un mix in cui «i cori razzisti e le bucce di banana gettate in campo» bastano a mandare in pezzi nel più brutale dei modi l’illusione dell’integrazione. È questa la cornice, il “paradosso” come lo definisce Diop, in cui si collocano questi ritratti. Il calcio è l’anacronismo che li fa lievitare, li rende attuali. D’altra parte, proprio il calcio rappresenta una tribuna interessante da cui osservare il fenomeno delle diaspore dal Sud del mondo. In Feet of the Chameleon, una storia del football africano, Ian Hawkey racconta che i primi scout europei a spingersi oltre il Sahara alla ricerca di

courtesy of magnin-a (paris)

nil Collection e in una mostra, “L’Immagine dei Neri nell’Arte Occidentale”, che raccoglie ritratti che vanno dal Rinascimento all’Ottocento: raffigurano personaggi di ascendenza africana che hanno fatto incredibili “incursioni” (detto con linguaggio calcistico) nella storia europea. Gente come il rivoluzionario Jean-Baptiste Belley. Gente di cui Diop, africano francofono, non aveva mai sentito parlare (e noi con lui). Figure che non rientrano nel cliché degli africani che attraversano il mare. A Diop piace citare Albert Badin, che visse alla corte del re di Svezia nel Settecento, o Juan de Pareja, che trovò un posto nella casa di Diego Velázquez. Oggi li chiameremmo Afropolitan? Così è nato il “Progetto Diaspora”. Diop si fotografa nei panni di questi africani, così come appaiono nei quadri. Non li chiama selfie perché, “contrariamente all’autoritratto convenzionale, mi piace l’idea di essere un accessorio”. Convinto che “la potenza delle installazioni sia rafforzata dagli elementi calcistici”. Può essere un pallone, un paio di guantoni. Un cartellino ros-

JeAn-BAptISte Belley Detto anche Marte, nato in Senegal, sull’Isola di Gorée, nel 1746, a due anni fu portato su una nave negriera nelle Indie Occidentali Francesi. Dopo la grande rivolta nera di Haiti, si trasferì a Parigi e fu protagonista della Rivoluzione Francese: membro della Convenzione, partecipò ai lavori del Consiglio dei Cinquecento. Il suo ritratto, realizzato da Anne-Louis Gorodet, pupillo di David, fu esposto a nella capitale francese nel 1798. Morì nel 1805, dopo essere stato prigioniero nella fortezza di Belle Île.

AlBert BAdIn Adolf Ludvig Gustav Fredrik Albert Badin, nato Couchi, originario dell’Africa o forse dell’isola di Saint Croix. Visse tra il 1750 e il 1822. Servì alla corte del re di Svezia. Reso schiavo da piccolo, fu acquistato da un capitano danese che lo portò in Europa. Fu maggiordomo della regina Louisa Ulrika di Prussia e poi della principessa Sophie Albertine di Svezia. Scrisse diari in cui riportò tra l’altro il suo primo ricordo da bambino: la capanna dei genitori che bruciava. Era conosciuto come Badin, che vuol dire imbroglione. Sette | 09— 04.03.2016

37


PrinciPe Dom nicolaU Dom Nicolau, principe del Kongo, fu probabilmente il primo leader africano a protestare pubblicamente e per iscritto contro le influenze coloniali delle potenze europee. Denunciò l’espansionismo militare portoghese così come lo sfruttamento commerciale dei territori africani e dei loro abitanti. Fu ritratto da un artista sconosciuto in occasione di un viaggio a Lisbona nel 1845. Morì a 30 anni, nel 1860.

piedi buoni furono i francesi. Non pensate tanto a figure come Raoul Diagne, che pure giocò per i Bleus ai Mondiali del 1934: era figlio di un diplomatico senegalese che lavorava a Parigi. La caccia ai talenti neri ebbe inizio con le Olimpiadi di Berlino, quando Jesse Owens e gli altri afro-americani schiantarono i sogni di Hilter. La Francia, che a quel tempo possedeva un impero coloniale ben più vasto di quello tedesco o italiano, pensa di aver capito la lezione e sguinzaglia “osservatori” da una parte all’altra del continente. Anni più tardi il giornale sportivo L’Auto si offre volontario per organizzare spedizioni alla ricerca di “pulcini neri” da far esplodere nelle squadre francesi del Secondo dopoguerra. Il poeta Wole Soyinka narra la storia dell’Emiro di Gwando, nel nord dell’attuale Nigeria, che con sdegno misto a senso di superiorità africana guardava a ogni aspetto dei costumi europei. Invitato dal Commissario britannico ad assistere a una partita di calcio, l’Emiro resistette per 20 minuti, dopodiché diede il suo verdetto di fronte al «pietoso spettacolo di quegli uomini bianchi che si muovevano come ubriachi rincorrendo un pez38

sette | 09— 04.03.2016

aUgUst sabac el cher L’uomo che viene qui rappresentato con un anacronistico trofeo calcistico si può considerare un afro-tedesco, che era stato “regalato” al principe Alberto di Prussia nel 1843, a 7 anni, in occasione di un viaggio in Egitto. August crebbe come un prussiano e sposò una donna bianca. Morì nel 1885. I suoi discendenti combatterono o prestarono servizio nelle forze armate tedesche in epoche diverse: sotto il Kaiser, nella Germania di Hitler e in quella del Cancelliere Adenauer.

zo di cuoio». Il Commissario cercò di spiegare al suo ospite le regole e la finalità del gioco. Allora l’Emiro si girò verso il suo tesoriere e disse a bassa voce: «Compriamo altre 21 palle di cuoio per quei poveracci, e due per gli individui con la bandierina che corrono avanti e indietro ai bordi del campo». Soyinka la pensava come l’Emiro di Gwando, ed è per questo che al tempo dei Mondiali di calcio in Sudafrica declinò la mia offerta di parlarne: più che di un evento storico – la World Cup che si giocava per la prima volta nel Dark Continent – Soyinka vedeva il calcio con tutto il disprezzo e l’incomprensione di un nobile africano d’altri tempi. navi negriere e padroni illuminati. Probabilmente anche Ayuba Suleiman Diallo avrebbe avuto l’ atteggiamento del letterato Soyinka. Diallo fu uno dei primi a narrare l’epopea degli schiavi in prima persona, come persona informata e marchiata dai fatti. Era nato in un’influente famiglia di leader religiosi musulmani. Il nonno aveva fondato la città di Bundu, in Senegal. Un giorno, mentre si trovava sulle rive del fiume Gambia per


courtesy of magnin-a (paris)

Uno sconosciUto marocchino Qui Diop interpreta un uomo marocchino ritratto da Josep Tapiró y Baró, pittore catalano maestro di acquarelli, che fu tra gli amici più cari della pittrice Maria Fortuny, con la quale condivise la passione per il cosiddetto Orientalismo. Dopo aver studiato tra Barcellona e Madrid, seguì l’amica a Roma nel 1862, rimanendovi per diversi anni. Nel 1871 viaggiò in Nord Africa con Fortuny. Dopo altre due visite, si stabilì definitivamente a Tangeri, in Marocco, dove morì nel 1913.

Kwasi boaKye Nella sua prima vita Kwasi Boakye fu un piccolo principe dell’impero Ashanti. Raggiunse l’Olanda nel 1837, a 10 anni, grazie a un singolare accordo che permetteva ai Paesi Bassi di rifornirsi di guerrieri Ashanti da utilizzare nelle campagne in Asia, offrendo in cambio programmi di studio selezionati. Kwasi studiò all’Università di Delft e fu inviato a lavorare come ingegnere minerario nelle Indie olandesi. Morì nel 1904.

commerciare in carta e schiavi (anche lui!), il giovane Ayuba fu rapito da un gruppo dell’etnia avversaria dei Mandingo: dopo averlo rapato a zero (per cancellare le tracce della sua ascendenza) i Mandingo riuscirono a venderlo ai mercanti inglesi, che lo spedirono negli Stati Uniti su una nave negriera. Dai campi di tabacco del Maryland, Diallo fu liberato grazie a un padrone illuminato, lavorò per gli inglesi, finì in una prigione francese, riuscì a tornare in Africa dove trovò che il padre era morto e una delle mogli che si era risposata. Il suo ritratto fu dipinto da William Hoare di Bath nel 1733. Se ne persero le tracce. Dell’opera si pensava fossero rimaste soltanto delle stampe. Ma nel 2010 l’originale è riapparso nelle mani di un privato. La National Portrait Gallery di Londra l’ha acquistato dopo aver raccolto oltre 500 mila sterline per evitare che prendesse la via dell’estero. E prima che uno strano fotografo si mettesse nei suoi panni bianchi con un pallone in grembo. Sono i figli sconosciuti di una diaspora cominciata, a ben vedere, all’inizio della storia umana. I resti dei nostri primi antenati ritrovati nell’Africa orientale risalgono a 2,5 milioni di anni fa.

Da lì migrarono per il pianeta. In quelle stesse savane d’origine, l’Homo Sapiens è comparso 150 mila anni fa. Ce ne sono voluti altri ottantamila perché i Sapiens spazzassero dalla faccia della Terra le altre specie umane concorrenti. Per tutti questi millenni, fino alla Rivoluzione Agricola iniziata circa diecimila anni fa, gli uomini hanno vissuto in piccole bande di raccoglitori e cacciatori, ciascuna di poche dozzine di individui. Ancora tremila anni fa, scrive Yuval Noah Harari nella sua Breve storia dell’umanità, gli esseri umani occupavano soltanto uno “spicchio” di 11 milioni di chilometri quadrati, sui 155 milioni della superficie terrestre complessiva. Stavano tutti ammucchiati a coltivare il 2% del pianeta. E questo shock da affollamento, secondo Harari, è alla radice di tutte le violenze di massa e dei bagni di sangue che si sono susseguiti nella nostra storia anche recente. Semplicemente, per una questione di (mancata) evoluzione: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare i campi fino alla comparsa delle prime città e dei primi imperi, l’umanità non ha avuto abbastanza tempo per sviluppare un istinto di cooperazione collettiva. Può essere troppo comodo, pensarla così. Gli anacronismi della Diaspora raccontata da Diop mi hanno fatto pensare alla visione di Harari. Al disperdersi e al concentrarsi degli esseri umani sulla Terra. Dall’Africa, dove tutto è cominciato, continuano a partire e a spostarsi. Giocando a pallone. Facendo straordinarie fotografie. Un po’ come hanno fatto i personaggi improbabili ritratti in queste pagine, come Jean-Baptiste Belley detto Marte. Come è naturale che sia. Michele Farina © riproduzione riservata

sette | 09— 04.03.2016

39


La storia “riscritta” con la fotografia / 2 L’autore: «Metto in scena le aspirazioni della nostra gioventù»

«Vi spiego la mia macchina del tempo» Dal passato ai sogni per l’avvenire: anche gli altri ritratti del senegalese Diop sono metafore. Dell’identità nera che vuole abbracciare il mondo di Chiara mariani foto di omar Victor diop

Lo “studio” deLL’ambizione. Le due fotografie di queste pagine fanno parte di The Studio of Vanity. La serie di ritratti coinvolge i giovani che lottano per conquistare uno spazio nelle grandi metropoli africane ed emergere a livello internazionale. Sopra, Aminata, un studentessa che è anche una modella e una giocatrice di pallavolo professionista; accanto, Mame, una fotografa franco-senegalese che vive a Parigi. 40

sette | 08— 26.02.2016


Di famiglia agiata, laureato in economia e per qualche anno consulente finanziario, ha deciso di diventare fotografo per “testare” il suo talento: «Il mio ultimo progetto è un diario di bordo degli incontri che ho avuto nel mondo della cultura in tutta l’Africa»

i

courtesy of magnin-a (paris)

«

l mio lavoro vuole incoraggiare la memoria collettiva illuminando capitoli di Storia che sono stati scritti male. I ritratti non si rivolgono a un pubblico specifico. Mi piace pensare che queste fotografie contribuiscano a una conversazione universale, che sollecitino una riflessione su come possiamo usare il passato per ripensare i rapporti nel presente». Parla con grande autorevolezza Omar Victor Diop, il senegalese nato a Dakar nel 1980, che per il suo progetto Diaspora ha usato l’autoritratto come una macchina del tempo, un espediente efficace per marcare il valore di uomini dimenticati, metafore dell’identità nera. «Volevo onorare quei personaggi africani, schiavi o liberi, che sono approdati su altri continenti, che lo volessero o no, e che si sono distinti. Mi piace ricordare quanto fossero colti, eleganti, sicuri di sé. Quanto abbiano lottato e inciso sulla società in cui hanno operato». Lo fa con un gioco di rimandi che richiede concentrazione. Usa l’autoritratto sofisticato in studio, eredità della cultura senegalese. Studia a fondo la storia dei suoi eroi. E per interpretarli sceglie come riferimento la rappresentazione tradizionale o il ritratto ufficiale. «Cerco di preservare l’immensa eredità visiva della ritrattistica senegalese in studio, aggiungendo una narrativa più fresca per comunicare cosa significhi essere giovane in un contesto urbano africano. Integro gli insegnamenti dei grandi maestri come Malick Sidibé e Seydou Keita con lo stile moderno e i vantaggi della tecnica».

il progetto delle “Vanità”. Così, nel momento in cui i suoi colleghi e connazionali aspirano a una fotografia più minimalisti o modernista, Diop recupera la tradizione. Ma qual-

cosa della serie Diaspora salta all’occhio: in tutti gli autoritratti c’è un’interferenza che si richiama al gioco del calcio: «Il football è un fenomeno globale interessante. Quando osservi come sono celebrati i migliori giocatori neri in Europa, ti rendi conto che siamo al cospetto di una miscela singolare fatta di culto dell’eroe da un lato ed esclusione dall’altro. I cori razzisti e le bucce di banana lanciate sul campo distruggono all’istante e nel modo più brutale l’illusione dell’integrazione. È il tipo di paradosso che ho voluto investigare». Diop ci parla da New York, dove si trova per una serie di conferenze. È nato in una famiglia agiata, è laureato in economia e per qualche anno è stato un consulente finanziario. Nel 2012 decide di testare il suo talento e produce la serie The Future of Beauty a cui segue Diaspora e infine The Studio of Vanity, «un diario di bordo dei miei incontri nell’ambito della scena cuturale sia in Senegal che in Africa. Invito i giovani artisti, creativi o semplicemente uomini e donne dal volto interessante che nutrono delle aspirazioni. È il mio modo di raccontare il contesto in cui vivo. I modelli sono amici, collaboratori o persone che incontro per la strada. Sono il volto della gioventù urbana e creativa dell’Africa. I fondali riprendono le fantasie dei tessuti del nostro artigianato. Ritengo importante che noi africani, ci impegniamo a preservare e nutrire i legami secolari che ci uniscono e al contempo è essenziale trovare un modo per parlare all’umanità, superando il limite gretto dei concetti di nazionalità, genere o razza. Per quanto riguarda il mio Paese, ritengo che sia in cammino verso un futuro migliore dato che ha tutti gli ingredienti perché ciò sia plausibile: i giovani, un buon governo e la pace. Ci vorrà tempo. Ma ci arriveremo». © riproduzione riservata

sette | 08— 26.02.2016

41


L’America che trovi / di Massimo Gaggi

@massimogaggi

Il sindaco più in forma

Mick Cornett, dopo aver messo a dieta i cittadini, continua a investire sul fitness okLAhomA cIty

New york

La carica dei (1.600) procioni Che New York sia una città abitata più da topi che da uomini non è una novità. Negli anni scorsi ha fatto notizia l’incursione notturna di qualche coyote sceso lungo i corridoi verdi che costeggiano l’Hudson fino a Central Park e alle zone residenziali di Manhattan. Ora nella metropoli arriva un’altra invasione: quella dei procioni (detti anche orsetti lavatori). Animali piuttosto grossi e relativamente pericolosi (possono mordere) che vivono nei boschi, ma ora si stanno dimostrando capaci di adattarsi anche a un ambiente urbano. L’uomo cerca di eliminarli, certo, ma la sua caccia è meno micidiale di quella dei predatori naturali: aquile e falchi in primo luogo. L’anno scorso le richieste d’intervento contro questi “raccoon” sono state 1.600, quasi il doppio rispetto al 2014. E sono arrivate da ogni parte della città: Brooklyn, Queens, ma anche Manhattan con un procione catturato a Wall Street e un altro a Columbus Avenue, in piena zona residenziale. Ad Harlem il proprietario di una “townhouse” con giardinetto nel retro ha trovato un’intera famiglia di orsetti lavatori che sguazzavano nella piscinetta di plastica che aveva montato per i suoi bambini. Per fortuna questi animali non portano malattie (rarissimi i casi di rabbia), ma anche questa buona notizia ha i suoi aspetti negativi: i cittadini devono provvedere da soli a eliminare i procioni dato che il municipio interviene solo in caso di pericolo per la salute. Gli americani non si sono persi d’animo e hanno trasformato in Pil anche l’emergenza-procioni: lo Stato di New York ha assegnato 100 licenze ad altrettanti cacciatori di “raccoon”. Il già florido “business” della derattizzazione si arricchisce di un nuovo ramo.

Un programma per far perdere un milione di libbre di peso alla cittadinanza, 47 mila dipendenti pubblici municipali e statali spinti a seguire un programma di “rieducazione” alimentare, catene di “fast food” spinte a inserire anche cibi meno grassi nei loro menù. E poi più mezzi di trasporto pubblico, la costruzione di impianti sportivi, centri per anziani, sentieri per camminate e corsie per bici ovunque. Per anni l’ex sindaco di New York Michael Bloomberg ha fatto discutere per la sua battaglia contro l’obesità scatenata nella metropoli della East Coast a colpi di tasse e divieti che hanno colpito l’abuso di grassi saturi, zucchero, bevande gassate. Non ha mai fatto, invece, notizia Oklahoma City, capitale di uno Stato sperduto nelle pianure centrali americane, schiacciato tra Texas e Kansas: un’intera città messa a dieta dal sindaco Mick Cornett (nella foto), ormai da parecchi anni e con un ventaglio di interventi molto ampio. In una nazione allergica a prescrizioni e divieti, Cornett è stato rieletto due volte e con grande facilità. Il suo segreto: interventi attuati senza “diktat” e finanziati con una “tassa mascherata” della quale pochi cittadini si sono accorti. Capitale di uno Stato pianeggiante, agricolo ma, soprattutto ricco di petrolio, Oklahoma City è stata, fin dal Dopoguerra la città delle auto, della sedentarietà (svincoli ovunque e strade senza marciapiedi, frequentabili solo su quattro ruote) e di un’alimentazione fatta di sapori forti e di cibi ipercalorici, visto che, come nota il sito Politico.com, qui siamo all’intersezione tra la cucina del Southwest, col suo abuso di fritture, quella del “deep South” - il Profondo Sud -basata su barbecue e salse dense e piccanti, e quella del Texas, con le sue forti influenze messicane. Risultato: questa citta di oltre seicentomila abitanti era diventata una delle capitali statunitensi dell’obesità (ottava città più “pesante” d’America). Iniziata nel 2008, la cura Cornett ha dato i primi risultati già dopo quattro anni quando è stato raggiunto l’obiettivo collettivo della perdita di milione di libbre di peso. Il sindaco, un liberale con una mentalità imprenditoriale, ha evitato tasse e divieti, puntando sulla sua popolarità di ex telecronista sportivo per convincere i suoi concittadini a seguire stili di vita più salutari. Mentre le catene di fast food, alcune delle quali hanno il loro quartier generale proprio a Oklahoma City, sono state spinte a offrire anche cibi più “healthy”. I risultati ci sono stati, anche se parziali: la città ha perso peso, ma non per questo l’obesità dilagante ha smesso di essere un problema. Una parte consistente della popolazione si è, però, messa a mangiare più sano e a fare esercizio. E il sindaco, approfittando del rinnovo di una “sales tax” (una specie di Iva) particolarmente alta (8,6 per cento), incrementata nel 2001 per finanziare il restauro del centro urbano e poi mantenuta per rendere la città più a misura d’uomo, continua a investire in attività fisica: palestre per anziani, autobus in servizio anche la sera per spingere la gente a usare di meno l’auto, addirittura uno stagno trasformato in lago artificale sede di un centro di canottaggio olimpico. © riproduzione riservata

42

sette | 09— 04.03.2016


Latinos / di Rocco Cotroneo

Il Subcomandante libero

Prescritti tutti i reati del leader zapatista, che però non toglie il passamontagna meSSIco

argentIna

Il delfino morto fra i selfie Hanno girato il mondo le immagini di un gruppo di bagnanti in Argentina i quali, trovato un delfino sulla spiaggia, hanno iniziato a farsi selfie con l’animale, il quale sarebbe morto subito dopo. Amplificate dopo che il

Se volesse, ora il subcomandante Marcos potrebbe gettar via il mitico passamontagna, svelare il suo volto e passeggiare tranquillo per le strade del Chiapas. Il Csm messicano infatti ha dichiarato prescritti tutti i reati del leader zapatista, il quale non è più ufficialmente un latitante. I capi di imputazione, dal 1995 in poi, furono rivolta, terrorismo, cospirazione contro lo Stato, uso di armi, ma ormai i tempi della giustizia sono scaduti. Nella pratica, non era più ricercato da molti anni. Marcos intanto ha anche cessato di esistere come personaggio: il 26 maggio del 2014, il professore universitario Rafael Sebastian Guillen Vicente, questa la sua identità reale, ha annunciato la “fine” politica del leader dell’Ezln, anche se la sua residenza attuale resta ignota. Nel 2001, molti anni dopo la rivolta nel Chiapas e ad armi già abbassate, Marcos percorse il Messico con una carovana per chiedere al Congresso l’applicazione dei diritti dei popoli indigeni. Anche in quel caso non venne arrestato. I zapatisti non ottennero alcun risultato e decisero di ritirarsi nelle loro comunità del Sud, cessando di fatto ogni attività politica. Le imputazioni contro Marcos e altri 12 leader zapatisti erano state presentate dai giudici nel febbraio del 1995, quando si annunciò la scoperta dell’identità del leader. Per alcuni mesi si cercò di catturarlo sulle montagne del Chiapas dove era nascosto, poi l’allora presidente Ernesto Zedillo promulgò una legge di dialogo con i rivoltosi del Chiapas che si trasformò di fatto in una amnistia. Ma la prescrizione arriva solo adesso.

uruguay

calciatore Carlos Tevez ha rilanciato il tema sulla sua pagina Facebook, chiedendo l’identificazione dei colpevoli. Nelle stesse ore è circolato in rete un altro video, dove si vede un uomo che preleva un delfino dal mare e passeggia con lui sulla spiaggia. Si tratta in entrambi i casi di rari esemplari di delfini francescani o del Plata, una specie in estinzione della quale rimangono solo 30.000 esemplari tra Argentina, Uruguay e Brasile. E’ uno dei delfini più piccoli del mondo, misurando tra 1,3 e 1,7 metri. Gli esperti hanno spiegato che non bisogna mai togliere i delfini dall’acqua e, se spiaggiati, occorre chiamare esperti di fauna della regione. L’ultima cosa da fare, ovviamente, è giocarci.

Il progetto Bingo, una mappa delle galassie fra oggi e il Big Bang Nel secondo semestre di quest’anno un progetto scientifico internazionale costruirà in Uruguay un grande radiotelescopio per creare una “mappa” delle galassie in una tappa intermedia tra il big bang e il presente. Il progetto Bingo, così si chiama, vedrà la luce nel nord del Paese: la scelta dell’Uruguay è dovuta

al fatto che per questa ricerca specifica lo strumento deve trovarsi tra i 30 e i 35 gradi di latitudine Sud, lontano da interferenze di onde radio e dalle città. Due antenne saranno installate in una piattaforma dal diametro di 40 metri con 50 elementi riceventi larghi un metro ciascuno. L’investimento è di circa 5 milioni di dollari , finanziati principalmente dall’istituto brasiliano di ricerca spaziale.

portorIco

La prima lesbica dichiarata presidente della corte Suprema Il Senato di Portorico ha approvato la nomina come presidente del Tribunale supremo di giustizia della giudice Maite Oronoz Rodriguez, decisione considerata storica sull’isola in quanto è la prima donna a dichiararsi apertamente lesbica e a raggiungere questa carica. Alla cerimonia, la Oronoz si è presentata con i genitori e la compagna, una professoressa. Nel discorso la donna ha parlato di «tempi di cambiamento e rinnovamento nell’amministrazione della giustizia», ma la decisione è stata accompagnata da polemiche nel Paese. © riproduzione riservata

Sette | 09— 04.03.2016

43


mediorienti / di Davide Frattini

@dafrattini

il Califfato di piccolo taglio

Getty Images (2)

Con le finanze sotto attacco, l’Isis è passata ai contanti. Che talvolta vanno in fumo iraq

oman

quel Sultano così ospitale In gennaio il Pentagono ha spostato in Oman dieci tra i detenuti considerati meno pericolosi del carcere di Guantanamo. Il sultanato ha già accolto metà dei prigionieri rilasciati dalle celle allestite quattordici anni fa come parte della lotta al terrorismo di George W. Bush. Non è l’unico favore che il leader Qaboos bin Said ha concesso in questi anni agli americani. Lo Stato che si affaccia sul Golfo e sul mar Arabico non è più l’impero che possedeva la forza navale per competere sulle rotte con i britannici e i portoghesi. Ha bisogno della protezione militare degli Stati Uniti, in cambio offre un’alleanza discreta, un ruolo non sbandierato ai venti del Medio Oriente per evitare rappresaglie dei vicini e proteste interne. Così il Sultano ha permesso ai negoziatori americani di incontrare gli iraniani in segreto nella capitale Muscat, quando l’accordo sul nucleare era solo un’idea e il presidente Barack Obama non poteva permettersi di rendere pubbliche le trattative durante la corsa del 2012 per la rielezione al secondo mandato: al voto gli elettori americani non avrebbero perdonato l’approccio morbido verso Teheran, ancora non hanno superato l’umiliazione inflitta dagli ayatollah a Jimmy Carter negli anni Ottanta.

I bombardamenti americani contro lo Stato islamico in Iraq colpiscono anche le finanze dell’autoproclamato Califfato. Che siano i depositi di contanti (dallo scorso ottobre una decina sono stati distrutti, valore centinaia di milioni di dollari) o i camion che trasportano il petrolio da rivendere sul mercato illegale. Per cercare di ripianare il bilancio i capi dell’organizzazione hanno tagliato gli stipendi mensili dei miliziani e a Mosul, la città nel nord del Paese sotto il loro dominio, manipolano il mercato dei cambi. Controllano l’economia locale, dal produttore al consumatore, vendono ai distributori in dollari e pagano in dinari le migliaia di impiegati pubblici ormai loro dipendenti come in una provincia ufficiale. Guadagnano dalla differenza tra le monete, un valore imposto con i kalashnikov – come racconta l’agenzia Reuters che ha raccolto le testimonianze dei cambiavalute di Mosul. Al tasso ufficiale indicato dal governo centrale di Baghdad 100 dollari valgono 118 mila dinari. Nel Califfato per avere la stessa cifra gli iracheni devono sborsare 125 mila dinari, ancora di più (155 mila) se si presentano con i biglietti da 250, il taglio più piccolo. Perché i faccendieri del Califfo preferiscono i pezzi

da 25 mila, occupano meno spazio, sono più facili da trasportare. I tassi manipolati permettono al gruppo di ottenere profitti attorno al 20 per cento, la concorrenza non preoccupa: chi prova a offrire valori vicini a quelli di mercato viene minacciato, ai trasgressori sono stati requisiti tutti i soldi in cassa. Il Dipartimento del Tesoro americano considera lo Stato islamico l’organizzazione terroristica più ricca del pianeta, fino ai bombardamenti di ottobre guadagnava 47 milioni di dollari al mese solo dallo smercio del petrolio. Le autorità internazionali hanno bloccato qualunque accesso finanziario, così l’economia del Califfato si è sviluppata in contanti, quelli blindati nel palazzo della Banca Centrale a Mosul sono andati in fumo in uno dei raid della coalizione occidentale.

Siria

il nuovo fronte dei cyber attacchi I russi avrebbero aperto un nuovo fronte nella campagna militare in Siria e hanno schierato le squadre di informatici per condurre cyber attacchi. I servizi segreti gestiscono un’operazione simile a quella allestita in Ucraina per colpire e screditare il governo ucraino tra il 2013 e il 2014. In Medio Oriente i bersagli sono le organizzazioni per i diritti umani (come l’Osservatorio siriano che ha base a Londra) e i gruppi di oppositori locali che testimoniano al mondo quel che sta succedendo nel Paese. Sono anche rimasti gli unici – le Nazioni Unite hanno rinunciato – a tenere la contabilità della morte, a calcolare le vittime di una guerra che va avanti da cinque anni: sarebbero quasi 500 mila. Il virus malware usato dagli agenti russi – rivela il quotidiano britannico Financial Times – può distruggere i dati nei computer assaltati e soprattutto raccogliere informazioni dalla lista dei contatti memorizzata. L’obiettivo è anche diffondere false informazioni da account che sembrano ufficiali per rendere ancora più confuso il caos siriano. © riproduzione riservata

44

Sette | 09— 04.03.2016


AfrAsia / di Edoardo Vigna

@globalista

Via i distretti a luci rosse

Il piano del governo è di chiuderli entro il 2019. E dare “nuova vita” alle prostitute INDONESIA

NIgErIA

Piccoli ladri di petrolio a lezione di e-commerce Corsi di formazione per “piccoli pirati” degli oleodotti. Così la Nigeria vorrebbe fermare i ragazzi che – da sempre – partecipano al saccheggio di oro nero, di cui il Paese è fra i primi produttori al mondo. Almeno 10 mila minorenni, nelle intenzioni del governo, dovrebbero seguire lezioni in 9 diversi centri per imparare un mestiere nel campo della pelletteria, della produzione di telefonini o dell’e-commerce. Da quando il governo ha emesso mandato di

cattura per uno dei capi delle gang che “succhiano” il petrolio estratto prima che giunga alle petroliere, i furti sono aumentati a dismisura, mentre le aree coinvolte restano spesso inaccessibili alla polizia. Da qui, la svolta governativa. Che dovrebbe andare di pari passo con la costruzione di ospedali e strade. Un buon piano: quando e come sarà realizzato, però, è ancora tutto da definire.

Seimila poliziotti sono arrivati di mattina armati di mazze ferrate per sfondare porte e sequestrare centri massaggi/karaoke e appartamentibordelli: quelli dello “storico” quartiere a luci rosse di Kalijodo, forse il più famoso di Jakarta, attivo fin dal tempo dei coloni olandesi. Un raid deciso dopo un incidente mortale in cui quattro persone erano state uccise nella capitale indonesiana da un ubriaco che aveva passato la sera nei locali della zona. In realtà, questa è stata non tanto la classica goccia che fa traboccare il vaso, ma soprattutto lo spunto per un’operazione più vasta. Il governo indonesiano ha lanciato infatti un piano per spazzare via una volta per tutte le zone a luci rosse del Paese: 68 sono già state “spente”, le altre 100 lo saranno entro il 2019, come ha annunciato la ministra degli Affari sociali Khofifah Indar Parawansa. Tempi duri, dunque, per la prostituzione che qui è illegale ma finora era stata ampiamente tollerata. Stavolta il governo sembra voler dare un segnale forte per sradicare, una volta per tutte, un’immagine del Paese stereotipata ma anche consolidata dal boom del turismo

sessuale in isole come Batam e Bali. Ora l’idea è di radere al suolo tutto il distretto a luci rosse di Kolijado per trasformarlo in un parco, offrendo alle 500 prostitute che vi lavoravano una formazione per una nuova professione e ai circa 3 mila residenti (di cui molti lavorano nei night della zona) una nuova casa in una zona periferica della capitale. Programma che si affianca al progetto di avviare la castrazione chimica dei colpevoli di reati sessuali che da quattro anni sono aumentati esponenzialmente, arrivando a quota 16 mila. Le associazioni per i diritti civili, in quest’ultimo caso, si oppongono. Ma il piano di “moralizzazione” a 360° è partito.

gIAPPONE

Sfruttati e “schiavi”, i lavoratori stranieri Certo, in Giappone, l’industria ormai va verso la fabbrica totalmente automatizzata, come quella che entrerà in funzione entro l’anno a Kyoto, in cui 30 mila lattughe al giorno verranno irrigate, trapiantate e raccolte dai robot (foto), senza che nessun essere umano sia coinvolto nel processo, tranne che nel momento iniziale della semina. Ma intanto, a cominciare dai dati economici sempre più deboli, è tutto il sistema dell’occupazione a mostrare continue crepe. Grave, in particolare, è l’accusa, rivolte a un certo numero di imprese, di “sfruttare” una parte dei 180 mila stranieri accolti da Paesi in via di sviluppo, con regolare permesso di soggiorno. In particolare, quelli inseriti in un programma di governo rivolto alla loro formazione. Molti di questi, invece di svolgere uno “stage” (retribuito) previsto per poi tornare in patria riportando competenze in settori come agricoltura, edilizia e tessile, si sono trovati col passaporto “sequestrato”, non pagati e costretti a faticare per un numero di ore superiore a quanto previsto dalla legge. Quasi “schiavi”, insomma. Sì, perché i datori di lavoro hanno aggirato la legislazione che in materia di lavoro, in Giappone, è assai rigida. «La realtà è questa», ha ammesso il ministro della Rivitalizzazione regionale, Shigeru Ishiba, «gli stagisti si sono trovati a dover lavorare in condizioni durissime». La consapevolezza spingerà Tokyo, che intendeva ampliare il programma da 3 a 5 anni, a creare un nuovo organismo di controllo per supervisionare con più forza l’intero sistema. © riproduzione riservata

SEttE | 09— 04.03.2016

45


Europa / di Donatella Bogo

Quanto costa abolire Schengen La Fondazione Bertelsmann fa i conti e avverte: sarebbe un disastro gErmania

norvEgia

Contro i rifugiati tirano in ballo anche il dio odino Si fanno chiamare Soldati di Odino, hanno fatto il loro debutto in Finlandia, ma si stanno rapidamente espandendo in Norvegia (come pure in Svezia e Danimarca). Negli ultimi due weekend hanno pattugliato le strade di alcune città norvegesi affermando di voler proteggere i connazionali dai profughi che sempre più numerosi giungono nel Paese. Vestono giubbotti neri con l’elmo vichingo (il logo del movimento) disegnato sulla schiena. «Vogliamo liberarci della delinquenza che vediamo crescere intorno a noi e alla quale la polizia non sa rispondere. Crimini che sono il risultato dell’immigrazione illegale», ha detto il loro portavoce Ronny Alte. Già noto per essere membro di organizzazioni islamofobiche come la Norwegian Defence League e Pegida, Alte sostiene che il movimento dei Soldati di Odino (il dio della sapienza e della poesia, ma anche della guerra, nella mitologia nordica) rappresenta l’intero arco politico, ma a tutti sono ben chiari i loro legami con alcuni movimenti neonazisti del Nord Europa. E forse per questo la scorsa settimana la polizia di Kristiansand si è premurata di controllare che non avessero armi e alla fine ha autorizzato solo due tipi di munizioni: caffè e pasticcini da offrire ai cittadini.

Schengen sì, Schengen no. Davanti all’imponenza del flusso migratorio al quale stiamo assistendo in Europa, alcuni tra gli Stati membri della Ue valutano l’ipotesi di chiudere le frontiere e dire addio agli accordi del 1985 sulla libera circolazione di persone e cose. In Germania, la Fondazione Bertelsmann ha fatto i conti per capire quanto una simile decisione costerebbe all’economia europea e a quella tedesca in particolare. I risultati dello studio, resi noti la scorsa settimana, fanno paura: 470 miliardi di euro tra il 2016 e il 2025 il prezzo per la Ue nel suo complesso, 77 per la sola Germania. Ma è un calcolo ottimistico, che considera un aumento dei prezzi dei beni – che sarebbero nuovamente sottoposti a dazi doganali – nella misura dell’uno per cento. Una valutazione più realistica che calcola un aumento del tre per cento influirebbe in negativo per 235 miliardi di euro in Germania, 148 miliardi in Italia, 1.400 miliardi di euro nell’intera Europa (all’incirca l‘equivalente dell’intero pil italiano). «L’economia tedesca dipende molto dalle esportazioni, e il danno economico per i tedeschi sarebbe enorme», ha detto Thiess Petersen, della Fondazione Bertelsmann. «Tra la gente, quello dei confini è un tema caldo in questo momento storico, e le opinioni delle persone sono sicuramente dettate dalle emozioni, dalla paura soprattutto. Ma mi auguro che i politici tengano in maggior conto l’aspetto economico e i risultati del

nostro studio». La ricerca, ha sottolineato Petersen, ha tenuto conto solo degli effetti che una eventuale soppressione degli accordi di Schengen avrebbe sul movimento dei beni. Ma altri costi andrebbero sommati se si considerassero anche i limiti alla circolazione delle persone: meno turismo interno all’Europa, soprattutto quello di breve periodo; minori flussi anche da Paesi extraeuropei, dato che ogni Paese richiederebbe un suo visto, mentre ora è possibile averne uno per tutte le nazioni Ue; meno lavoratori che si trasferiscono quotidianamente da un Paese all’altro; altamente probabile anche la sospensione e i ritardi delle costruzioni di infrastrutture che coinvolgono più Paesi Ue. Ma non basta. Tra gli “effetti collaterali” dell’abbandono di Schengen ci sarebbe anche la fine dello Schengen Information System, ovvero lo scambio automatico di informazioni di sicurezza relative ai viaggiatori. E salterebbe quello che ad Angela Merkel sta molto a cuore, ovvero un piano comune europeo per gestire il flusso dei migranti.

franCia

al ristorante l’igiene non è nel menu Un’indagine che fa scappare l’appetito quella condotta tra luglio e dicembre 2015 dalla Direzione generale dell’alimentazione, istituzione simile ai nostri Nas, che ha effettuato controlli sull’igiene di 1.500 ristoranti a Parigi e 200 ad Avignone. È risultato che solo il 34 per cento dei locali ispezionati a Parigi hanno un livello igienico “buono”, poco più della metà hanno ottenuto un livello “accettabile” mentre l’8 per cento sono stati segnalati come “da migliorare”, il che significa che saranno obbligati a effettuare sostanziali interventi per rientrare negli standard igienici. Va meglio ad Avignone, con il 62 per cento di “buono”, un 37 per cento di “accettabile” e solo l’1 per cento “da migliorare”. © riproduzione riservata

46

SEttE | 09— 04.03.2016


BuonIncontri / di Andrea Milanesi

sette.buonincontri@gmail.com

Una “madre” in musica per i più deboli

La cantante Neripè con i Guappecartò raccoglie fondi con un tour

C’

è un denominatore comune, un lungo “filo rosa” musicale che lega tra loro le figure e le storie di donne che... hanno fatto la storia, ma non solo; dall’icona del movimento per i diritti civili degli afroamericani Rose Parks alla scienziata premio Nobel per la Fisica Marie Curie, dall’artista messicana Frida Kahlo all’astrofisica Margherita Hack, dall’astronauta Samantha Cristoforetti alla premio Nobel liberiana per la pace Leyma Gbowee, passando idealmente anche attraverso le vicende anonime di mamme, spose e donne comuni, icone emblematiche dell’universo femminile. A tutte quante loro sono dedicati il disco e lo spettacolo intitolato Amay (“madre”, in

birmano) che la cantante, attrice e danzatrice Neripè ha ideato con il gruppo italoparigino Guappecartò, con l’intento di portare lungo la nostra penisola un messaggio forte e un aiuto concreto, affidati a voci e suoni, melodie e parole ispirate e rivolte allo sguardo e al cuore delle don-

ne. Ogni tappa del tour promuoverà infatti in giro per l’Italia una raccolta fondi dedicata ad alcune associazioni impegnate sul fronte della tutela dei diritti, del supporto legale e dell’ospitalità. Si parte simbolicamente l’8 marzo dal Teatro Verdi di Milano, con una serata (a ingresso libero) dedicata alla Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) – luogo di ascolto, di relazione e di sostegno attivo fin dal 1986 – per poi proseguire il 12 marzo al Teatro Toselli di Cuneo (a favore della Casa rifugio Fiordaliso, che offre asilo “segreto” alle donne vittime di violenza e ai loro figli) e il 22 marzo al Teatro Sala di Roma (in appoggio della Casa internazionale delle donne).

DirittiDesiderabili

QuartieriTranquilli

Carceri, una buona legge c’era. Ma...

Manuel, il giardiniere che rende i boschi felici

di Paola Severini Melograni

Riccardo Arena, art. 3 dei Diritti paradossali: «Il diritto a una rieducazione umana». Manuale dei Diritti fondamentali e desiderabili, Oscar Mondadori.

N

el caso delle carceri italiane, dopo la condanna dell’Europa nei nostri confronti perché la funzione rieducatrice della pena era stata oscurata dalle condizioni degradanti nelle quali i detenuti vivevano, le cose cominciano a cambiare... oppure no? Le carceri sono meno sovraffolate, ma il calo delle persone detenute, che c’è stato (8 mila unità), è dovuto alla bocciatura della legge Fini-Giovanardi da parte della Consulta che ha determinato in effetti la dimissione di tanti. Se si visitano oggi gli istituti di pena, si vedono topi e scarafaggi. E l’ozio forzato al quale la maggior parte dei detenuti è costretto. Poi celle sovraffollate, senza acqua potabile e senza riscaldamento. Dobbiamo fare un’apertura di credito – a tempo però – agli “Stati generali” organizzati dal ministro della Giustizia e dare la possibilità a questi 18 tavoli di studio di redigere, velocemente, le loro soluzioni. Il contrasto in questo campo tra impegno appassionato e mala gestione è sottolineato anche da iniziative speciali, come il progetto Co2 in quattro istituti di pena, realizzato dal musicista Franco Mussida. Un mese fa è morto Alberto Simeone, autore insieme a Luigi Saraceni di una buona legge risalente al 1998, la 165, sull’accesso alle misure alternative e che in ogni caso è stata applicata in minima parte: Simeone era una persona specchiata e un politico integerrimo, per questa sua legge di civiltà e di umanità non è stato più ricandidato dalla suo partito di allora (An) e non è stato “recuperato” da nessun altro schieramento politico: chiediamoci il perché.

di Lina Sotis

È una gran bella storia, che piace tanto a Quartieri Tranquilli. Lui è Manuel Bellarosa (nel tondo), giardiniere certificato presso la Scuola agraria di Monza. Iniziò nei primi anni Ottanta come responsabile della manutenzione verde della Montagnetta di San Siro a Milano. Poi giardini e orti in Lombardia e Liguria. Dal 1993 è giardiniere all’Orto botanico di Brera dell’università degli Studi di Milano: ha collaborato alle fasi di recupero dello storico giardino e si occupa della gestione ordinaria e straordinaria di piante e grandi alberi. Impagabile è che Manuel, guardate che bel personaggio, operi anche come volontario e aiuti enti e associazioni, dal Centro per la forestazione urbana di Italia Nostra-Boscoincittà all’Hub Giambellino di Milano. Per il Boscoincittà ha inoltre creato un gruppo di volontari che, da tre anni, lo rende un paradiso. Manuel è pure progettista di orti produttivi gestiti da cittadini volontari e di giardini condivisi. È stato nominato il “Giardiniere condotto” che aiuta i volontari del verde in tutta la città. È sposato con Paola Caccia che lavora anche lei all’Orto botanico come giardiniere. È lì che si sono incontrati, partecipando a un concorso pubblico dell’università Statale. Manuel è il “giardiniere condotto” più ambito. Le prenotazioni per questo suo impegno si fanno al Bosco: 02 4522401. Q.T. lo ha chiamato, lui ha risposto. Adesso, immersi nel verde, siamo felici. Grazie Manuel!

dirittifondamentali@gmail.com © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

47


Un ricordo speciale Chi è stato e che cosa rimane davvero del grande intellettuale

Umberto Eco, maestro della mossa del cavallo Non organico al sistema, ironico, velocissimo di pensiero, irrituale, di cultura smisurata e rigorosa, eclettico, “buon maestro”, mai snob. La densa vita di un uomo che credevamo immortale di Roberto Cotroneo -foto di Massimo Zingardi

C

i sono state due Italie in bianco e nero. Quella di tutti e quella di Umberto Eco. Quella che poi è diventata a colori è figlia dell’Italia di tutti. Quella di Umberto Eco, la migliore, è rimasta in bianco e nero. E doveva accadere il contrario. Nella confusione che avviene tutte le volte che muore una persona importante escono sempre dettagli, storie, letture che definiscono le cose. È una nebulosa confusa di riflessioni, di pensieri, di tributi, ma poi quella polvere che si alza finisce per depositarsi in modo piuttosto ordinato, e allora le cose sembra che si capiscano, diventa tutto troppo semplice. Ma con Eco la polvere finirà per depositarsi in un modo diverso: vertiginoso e affascinante. L’uomo delle liste e dei cataloghi, delle strutture narrative, delle impalcature, delle architetture concettuali, l’uomo della biblioteca di Babele, del sapere sconfinato eppure rigoroso, lascia un sistema di pensiero, una filosofia del mondo quantistica e inafferrabile. Perché diversa da tutte. La morte di Umberto Eco è già di per sé un’accezione non prevista. Lo credevamo immortale, e non avevamo torto. La morte ha a che fare con la finitezza, ed Eco non aveva nulla a che fare con la finitezza. Perché era sempre capace di fare la mossa del cavallo. Di scartare, di saltare i pezzi avversari, di prolungare le partite, di muovere in un modo imprevedibile. Di allungare gli scaffali della sua biblioteca e del suo sapere portando tutti a perdersi. Colpiva la sua straordinaria erudizione, ma non era l’unico erudito. Colpivano le sue competenze eclettiche, ma non era l’unico eclettico; colpiva la sua

sensibilità verso i nuovi saperi e modernità, ma anche altri avevano questa particolarità; colpiva la sua passione per la maieutica e per l’insegnamento, ma anche altri erano e sono eccellenti professori; colpiva la sua sapienza narrativa, ma ci sono scrittori nel mondo (non molti, certo) che possono dialogare con lui alla pari. Ma nessuno possedeva tutte queste cose assieme. E soprattutto nessuno aveva quel microprocessore, quella capacità di elaborazione del sapere, dell’uso dell’intelligenza, come il suo. Star con 50 lauree. La velocità di pensie-

ro di Eco era una cosa talmente tangibile, talmente fisica che ti sembrava che la sua mente avesse ingranaggi, suoni, consistenza da poterla sentire. La rapidità, la sintesi, la velocità e lo spiazzamento erano una dote che doveva esserci ancora prima che Eco diventasse l’uomo celebre, l’intellettuale famoso che poi è diventato. Se c’è stato un momento in cui Eco non era ancora colto, e di certo almeno nella sua infanzia c’è stato, doveva esistere ugualmente quella velocità, quella rapidità di elaborazione, quella mente sorprendente che lasciava ammirati. Perché, per tutti quelli che lo hanno pianto e omaggiato a Milano, per il suo ultimo saluto, Eco era qualcosa di meno di ciò che era, e allo stesso tempo qualcosa di più. Qualcosa di meno perché non puoi conoscere Eco in tutte le sue declinazioni: lo scrittore, e lo scrittore del best seller in giallo come Il nome della rosa, e ancora lo scrittore di libri più complessi come L’isola del giorno prima e Il pendolo di Foucault. E il semiologo, l’autore del Trattato di semi-

otica generale o dei Limiti dell’interpretazione. E il giornalista, l’opinionista, l’uomo che collaborava con i giornali. E ancora: il presemiologo, con i saggi di Opera aperta e Apocalittici e integrati. E il filosofo: perché quella è la sua formazione e a quella stava tornando negli ultimi anni della sua vita. E non è ancora finita: il medievista. Nel 2012, Bompiani ha raccolto i suoi saggi di medievistica di una vita in un solo volume. Erano 1.500 pagine. E inoltre: il dirigente editoriale, l’uomo che ha fatto pubblicare centinaia di autori, e non tutti dello stesso tipo. Per intenderci: da Paolo Villaggio a Roman Jacobson, da Charles Schultz ad Achille Campanile. E il traduttore. La Sylvie di Gerard de Nerval e soprattutto quel colpo di genio della versione italiana degli Esercizi di stile di Raymond Queneau. E non è ancora finita. L’autore di libri per bimbi e di filastrocche, e mi riferisco ai libri con Eugenio Carmi. E poi la collaborazione con Luciano Berio, la musica, il flauto traverso, la didattica, la Rai. Tutto questo ha portato Umberto Eco a diventare per tutti l’uomo dalla cultura smisurata, l’uomo di successo. Perché un uomo che fa tutte queste cose è un uomo di successo. Solo che lui era molto più di un uomo di successo: era un star. E con i milioni di copie del Nome della rosa, le lauree honoris causa, quasi 50, e peraltro di Oxford, Harvard, Cambridge, Complutense, Torino, e via dicendo. Eppure non è solo qui la grandezza di Umberto Eco, perché la sua grandezza non è una somma. È una lunghissima nota a margine, un marginalia, come si sarebbe detto nel medioevo, di quelli che piacevano pro-

«La sua grandezza non è una somma, è una lunghissima nota a margine, un marginalia, come si sarebbe detto nel Medioevo, di quelli che piacevano proprio a lui»


In cattedra ma non barone Umberto Eco, nato il 5 gennaio del 1932 e morto a Milano il 19 febbraio 2016, è stato semiologo, filosofo e scrittore. Era socio dell’Accademia dei Lincei. Il suo ultimo libro è Pape Satàn Aleppe (nave di Teseo). A sinistra, è ritratto nella sua casa milanese.

ni. Che non hai mai creduto che la cultura dovesse essere retorica rivoluzionaria, attrezzo sociale per il riscatto delle masse. Per nulla organico, certo, ma allo stesso tempo capace di polemizzare con forza anche con autori come Elémire Zolla, intellettuali élitari, reazionari, e staccati dal mondo. Scriveva sull’Espresso, è vero. Ma l’Espresso era un giornale conservatore dal punto di vista culturale. Non certo un avamposto della rivoluzione. Firmava sul Manifesto, ma il Manifesto, negli anni Sessanta e Settanta era tutto, non soltanto la sinistra. Contribuì a svecchiare l’uno e l’altro. Il fatto che Eco sia diventato un intellettuale di riferimento già negli anni Sessanta, in un Paese come l’Italia, spiega moltissime cose del suo talento. Senza tessere, senza farsi intellettuale organico, e con l’uso dell’ironia in un mondo che l’ironia non l’aveva mai avuta era qualcosa di prodigioso. Italo Calvino lo rimproverava, negli anni Sessanta, e severamente, di occuparsi di fumetti e di festival di Sanremo, vantandosi di non sapere neppure che cosa fosse. Buona parte degli intellettuali di sinistra, di sinistra come era lui intendiamoci, lo avrebbero voluto trattare come un perditempo, troppo impegnato in calembour e in cose sospette come questi strani nuovi saperi, e poco incline al materialismo storico.

prio a lui. La sua capacità di tenere staccate le cose e di unirle in un modo tutto suo, che non era il modo degli altri. Qui c’è il vero punto, il miracolo che ha compiuto. Polemico, non ideologico. Nei giorni immediatamente successivi alla morte sono stati mandati in onda dalle televisioni vecchi filmati dove si vede un Eco giovane che parla di temi culturali, con quella erre,

con quell’accento leggermente snob, con quella capacità di ragionare con proprietà ed eleganza. Un Eco che non ha mai suonato il piffero della rivoluzione (il flauto lo suonava, ma preferiva la musica barocca), che non ha reso omaggio alla cattedrale gauche di Einaudi, che non si è degnato di occuparsi troppo di Antonio Gramsci, che probabilmente lo annoiava assai, che ha polemizzato duramente con Pier Paolo Pasoli-

A lezione con la neve. Era un guru della comunicazione, un esperto di mass media, parole dette con rispetto e sospetto. Forse i due termini del suo pendolo del gradimento culturale. Rispetto e sospetto. Niente, c’era ben poco da fare, mentre l’Italia si riempiva di cattivi maestri, lui continuava a fare il buon maestro, non va in cattedra quando dovrebbe, ci arriva un po’ dopo. Ma ci arriva come nessuno. Facendo il docente, e non quello che è arrivato alla nomina di ordinario e poi fa il barone distaccato. Tutti sanno che arrivava a lezione anche sfidando nevicate e bufere di vento e pioggia, oppure con la febbre. Ma il punto, ancora una volta, va oltre tutto questo. Il punto è in che cosa diceva, è in come spostava quel pezzo degli scacchi, quel cavallo che gli permetteva di vincere le partite. Professore esimio, anche. Per niente barone, certo. Ma neanche di quelli che la prendono in modo troppo facile. I cazziatoni di Umberto erano proverbiali. Niente a che vedere con un uomo sempre mite e sempre accomodante. Con lui tutto funSEttE | 09— 04.03.2016

49


zionava al contrario. Il successo planetario del Nome della rosa ha tenuto lontano gli invidiosi. Quando invece di norma il successo genera invidia. Non dico che non ci fosse gente invidiosa di Eco. Ma era troppo difficile farlo contro di lui, era come andare alla guerra con un mestolo al posto della spada e uno scolapasta per elmo. Era troppo lontano dall’invidia per temerla. È stato la modernità. Il più moderno di tutti. Senza mai mostrare il fianco a chi associa moderno con superficialità, con leggerezza (e non nel senso buono), con inconsistenza. Come fai a snobbare quell’Eco che scrive di James Bond, che scrive di Peynet, quello dei fidanzatini, che racconta della scrittrice di romanzi di appendice come Carolina Invernizio, o dei feuilleton di Eugene Sue, se poi devi ammettere che sa tutto di filosofia, che fu allievo di Luigi Pareyson, che ha studiato san Tommaso d’Aquino, che è in grado di scrivere saggi degni di una bibliografia accademica? Com’è possibile questo strano abbigliamento culturale fatto di smoking rigorosi e t-shirt con scritte fosforescenti, che peraltro abbinava benissimo? Non potevi, certo che non potevi. Negli anni Settanta, quando tutti gli intellettuali scrivono cose di cui pentirsi a lungo, lui studia Charles Sanders Peirce, la linguistica, Saussure, Greimas, e la semiotica. Quando il mondo culturale si alleggerisce, si libera del piombo, e si dà al privato, al cosiddetto edonismo reganiano, lui pubblica romanzi medioevali di seicento pagine, testi pieni di ossessioni e di complotti, racconti di luoghi irraggiungibili dove si trova il punto del cambio di data. E non si concede affatto al privato. Non lo fa per calcolo, ma perché la sua mente funziona in quel modo. E procede a salti. Ma la scacchiera la conosce bene. Più timido di quanto si pensi, non ha frequentato salotti se non per caso. La famosa frase di Groucho Marx, «non farei mai parte di un circolo che accetterebbe uno come me», poteva farla sua, se non altro per ironia. A Roma scendeva poco. Ma con il primo romanzo riesce persino a vincere il premio Strega. Una cosa impossibile per chiunque non fosse avvezzo a salamelecchi, inginocchiamenti, e senso dell’elogio espletato all’universo mondo, intellettuale s’intende, e per di più romano. Eppure scende da Milano e gli danno lo Strega. Cultura alta cultura bassa. La celebrità,

prima ancora del successo, gli permette di continuare a fare quello che gli piace. Ovvero studiare, raccontare e sentirsi libero. Era un uomo intelligentissimo con un’etica ferrea. Un uomo che non obbediva a compromessi, che non ha usato l’arma della lusinga. E lusingarlo peraltro, non funzionava. Qualcuno può anche averlo trovato antipatico: perché poteva essere brusco e 50

sette | 09— 04.03.2016

Origini umili Figlio di Giulio Eco, impiegato alle Ferrovie dello Stato, e di Giovanna Bisio, Umberto si è laureato in filosofia a Torino nel 1954, anno in cui vince un concorso in Rai aperto a funzionari e giornalisti. Dal 1959 al 1975 è stato direttore editoriale della Bompiani, mentre dal 1961 ha iniziato la carriera accademica. Qui sotto, è fotografato nella casa-museo di Alessandro Manzoni a MIlano.

irrituale. Ma era anche di una simpatia senza paragoni. Divertire gli altri era la cosa che prendeva con maggiore serietà. Lo scherzo, il motto di spirito, il comico erano una cosa serissima, e anche in questo c’era una di quelle sue cose che negli altri chiameremmo contraddizione, e in lui chiamiamo complessità. Per giorni, dopo la sua morte, tutti si sono esercitati nell’equazione più approssimativa del mondo. Eco aveva mescolato cultura bassa e cultura alta. Aveva sdo-

ganato, termine mai così in voga da quando le dogane sono sempre meno frequenti e le merci circolano liberamente, il fumetto, il romanzo popolare, il telequiz, e non so che altro. Così, dopo di lui tutti hanno pensato di poter leggere e interpretare la cultura bassa, quella popolare, con gli strumenti della cultura bassa. Con un risultato patetico. Ma lui non ha mai sdoganato nulla. Ha soltanto riletto la cultura popolare con gli strumenti della cultura alta, ha usato Aristo-


Per giorni, dopo la sua morte, tutti si sono esercitati in un’equazione approssimativa: Eco aveva mescolato cultura bassa e alta, aveva sdoganato il fumetto, il telequiz... Ma lui non ha mai sdoganato nulla. Ha solo riletto la cultura popolare con gli strumenti della cultura alta, ha usato Aristotele per capire Ian Fleming

tele per capire Ian Fleming e Duns Scoto per arrivare a Superman o Flash Gordon. Ma i piani restavano diversi e lontani. In questo non solo fu modernissimo, ma anticipò molte cose. Il dualismo tra apocalittici e integrati, il concetto di opera aperta, il monito contro le derive interpretative, la semiotica come disciplina del futuro, l’abduzione, la capacità di leggere la realtà, il suo rifiuto di ogni forma di snobismo intellettuale nei confronti della letteratura popolare, dei media, anche della televisione. Ma queste sono cose che si sanno. Quello che va detto è che in un certo senso con Umberto Eco ci è andata bene. Lui, assieme a Federico Fellini, è l’italiano più famoso nel mondo. Rappresenta la ricchezza culturale del nostro Paese, rappresenta un’idea di umanesimo, che dal medioevo di Petrarca in poi ha un suo filo e una sua ragione. Eco ha retto questo testimone, in un modo tutto suo, è stato quel filo perché sapeva leggere il presente nelle diverse lingue della modernità. E ha rappresentato pienamente questa modernità. Una modernità distante, molto distante dal mondo culturale italiano, che Eco rispettava ma probabilmente non amava. Parlare con cognizione. La folla che lo ha

salutato l’ultima volta a Milano era fatta di gente che non sarebbe quello che è se non

ci fosse stato Umberto Eco. Perché Eco ha cambiato il modo di pensare, di leggere il mondo e la cultura di molte generazioni. Gente che ha imparato da lui il gusto del paradosso e del calembour, l’intreccio narrativo e la cultura nel senso più largo del tempo. Che non ritiene di essere né apocalittica e neppure integrata, che ha assimilato il fatto che la cultura sia indagine, e che la lettura del mondo si regga sulla forza del dubbio, sul saper guardare. E ha imparato che i segni contano, e non sono tutti uguali. E che i complottisti sono gente da evitare, perché i complotti non fanno bene al pensiero e alle cose della vita. Ma ora che Umberto Eco non c’è più, il suo sguardo, la sua lettura del mondo resta nelle parole scritte, nei libri, negli articoli giornalistici, nelle interviste. E rimane una domanda formidabile, che sarebbe stata la domanda centrale anche per lui. Perché in un Paese piegato dal nulla culturale come quello che abbiamo attraversato in questi anni, dentro un mondo culturale essiccato e intristito da furie ideologiche, da snobismi dell’ultima ora, da battaglie prive di spessore lui ha continuato a essere seguito e amato in un modo così vasto? Perché il sapere e il carisma di Umberto Eco è stato come una luce accesa: un modo per orientarsi, un’intermittenza nel buio. Confortava e conforta

sapere che c’era qualcuno che conosceva le cose che servono, che le ha insegnate, che le ha scritte, che non si è risparmiato, e che ha sempre parlato sapendo quello che diceva. Uno che non ha mai voluto imporre niente, che non ha mai pubblicato qualcosa se non ci credeva davvero, che non ha scritto per narcisismo. Uno che non aveva bisogno di pensarsi importante, perché lo era importante, e che non si è mostrato se non era proprio necessario. Uno che non ha mai rinnegato le sue passioni, le sue idee, ma senza retorica, senza supponenza. Uno che ha difeso la sua vita privata, i suoi affetti, da un mondo che si nutre di informazioni da poco e di gossip. Uno che non ha mai parlato di cose che non fossero pertinenti al suo ruolo e alle sue competenze. L’ultima avventura. Mentre invece attorno

tutto si sbriciolava. Gli scrittori si facevano sempre più insignificanti e più narcisi, i professori diventavano sempre più baronali e assenti, e tutto andava in una direzione che non era certo quella che si sarebbe augurato Umberto Eco. Il Paese era cambiato: lo sapeva, lo capiva e probabilmente aveva anche qualche momento di malinconia. Aveva reagito al pericolo di concentrazione editoriale data dall’unione del gruppo Mondadori con il gruppo Rizzoli contribuendo a fondare una casa editrice, La nave di Teseo. A 83 anni è un segno di quelli che spiegano tanto. Ma Eco era un uomo che andava, che camminava a passo svelto (non solo metaforicamente, ma anche realmente), che aveva un’idea del giusto e del dovere. Era un retaggio della sua famiglia piemontese molto all’antica. Dove la misura contava. E andava trasmessa. Adesso molti si dovranno mettere al lavoro. Gli istituti italiani di cultura, le università, i lettori, i critici. Fare quello che si deve. Continuare a leggere, capire quelle pagine, i romanzi; c’è un patrimonio immenso, di testi diversissimi, dal saggio accademico, alla narrativa, al pastiche. Una carta geografica per capire questo tempo, il presente e il tempo futuro. Un’enciclopedia eccentrica, fatta di punti diversi, saperi che si formano e si ricompongono in modi inaspettati. È il proprio modo per tenerci tutti incollati alle sue pagine. La sua ennesima mossa del cavallo. Nelle Sei passeggiate nel bosco narrativo, le lezioni tenute ad Harvard, ha scritto: «È solo nel Paese dei Romanzi che le cose sembrano avere qualche scopo, o provvidenza». In realtà nella sua rapsodica capacità di tenere assieme tutto, Umberto Eco ha smentito questa sua profezia. Anche nella sua storia intellettuale e in tutto quello che ha fatto si legge uno scopo e una coerenza. E più cose da scoprire di quanto si possa immaginare. Roberto Cotroneo © riproduzione riservata

sette | 09— 04.03.2016

51


Vite sul palcoscenico Riccardo Cocciante, quattro decenni dopo Bella senz’anima

«Detesto ripetermi, ma torno a Quasimodo perché mi rispecchio in lui» A 70 anni, dopo 4.047 repliche di Notre Dame, l’artista rievoca i tempi delle canzoni “feroci”, l’esempio di Battisti e difende il suo musical. «Il duetto con Mina? Non girava, ma poi, durante la registrazione...» di Mario Luzzatto Fegiz

A.F. DODICI

«

52

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

M

i rivedrete quando avrò qualcosa da dire o da fare», aveva promesso Riccardo Cocciante qualche anno fa. Ed eccolo riapparire in Italia (vive ormai stabilmente a Dublino) a riprendere le fila del suo Notre Dame de Paris che torna alla ribalta nel nostro Paese fino ad autunno, forte di 4.047 repliche in otto lingue in mezzo mondo. Per questa edizione, che girerà tutta la penisola e toccherà a settembre l’Arena di Verona, sono già stati venduti 190 mila biglietti. Protagonisti principali Lola Ponce e Jo di Tonno, rispettivamente Esmeralda e Quasimodo, coppia consacrata anche con una vittoria a Sanremo nel 2008. Pochi giorni fa Riccardo Cocciante ha compiuto settant’anni ed è in piena attività, con Notre Dame da ora in Italia, da giugno in Corea da settembre in Polonia e da novembre in Francia. Cocciante, quali sono state le sfide principali della sua vita? «Fra le tante, le più difficili sono state due. La prima: smettere di nascondermi dietro


Da Ho Chi Minh al sogno parigino Nell’altra pagina, Riccardo Cocciante. L’artista è nato nel 1946 a Ho Chi Minh (già Saigon), in Vietnam, da madre francese e padre aquilano. A sinistra, la Corte dei miracoli durante lo spettacolo Notre Dame de Paris. Sotto, Cocciante con i suoi collaboratori del musical portato in giro in mezzo mondo.

al pianoforte e cantare a centro palco senza barricarmi dietro lo strumento; la seconda mettere in scena Notre Dame, qualcosa a cui nessuno credeva. Io posso vantarmi di avere rivoluzionato il musical con qualcosa di non previsto. Il progetto più azzardato della mia vita, dove ho rischiato di perdere la credibilità conquistata nella mia lunga carriera. I miserabili – spiega Cocciante, come musical in Francia era stato un fiasco – aveva funzionato invece a Londra. Io ho creato con Luc Plamondon qualcosa di diverso dalla commedia musicale con alcune caratteristiche peculiari: anzitutto niente recitati, ma solo canto dall’inizio alla fine; poi un soggetto tragico senza il lieto fine che nei musical era un obbligo. E ancora: nessuna concessione allo schema anglosassone dello swing, cantanti che si esibiscono al naturale con microfono amplificato. Poi uno stile di canto lontano dallo stile Broadway o West End, dove l’artista deve cantare con l’anima e non solo coi polmoni. Con protagonisti che devono essere prima di tutto cantanti e poi attori». Giulietta e Romeo, da lei scritto successivamente, non ha però ripetuto i fasti di Notre Dame. «Non ne ha avuto ancora il tempo: dopo un anno di repliche ho deciso di fermare la produzione per rimaneggiare la scenografia affidando regia e coreografia a Micha

van Hoecke (braccio destro di Bejart). È un gran bel lavoro che con il tempo sarà capito, dominato dal contrasto fra l’odio di branco e l’amore dei due giovani. Ma poi – si accalora Cocciante – che senso ha stilare una classifica di merito? Quando un artista, un autore, un compositore ha portato a casa un grande successo, tutto deve fare meno che ricopiare quello schema per inseguire quel risultato. L’autore deve continuare a essere se stesso, con rigore e coerenza. Non tutte le opere di Verdi o Puccini hanno avuto successo pur avendo classe e valore. In ogni repertorio ci sono le cosiddette opere minori che tuttavia illuminano la carriera e completano il discorso complessivo e aiutano a lumeggiare il percorso creativo. Io sono un appassionato del melodramma. All’inizio si cantava di re e di regine, con un linguaggio epico e storie a tinte forti. Poi arriva il verismo di autori come Leoncavallo o Donizetti che propongono storie povere, senza re o regine. Il massimo esempio è Bohème di Puccini, o Cavalleria rusticana di Mascagni dove la grandezza della scrittura supporta eroi perdenti». Come Quasimodo, nel Gobbo di Notre Dame? «Sì, è il personaggio che io amo di più perché in lui m’identifico. La natura non ha voluto aiutarmi nel fisico. Ma Quasimodo, come Riccardo, riesce a farsi amare e a ri-

scattarsi non per quello che è all’esterno, ma per tutto ciò che ha dentro». Che differenza c’è fra il Cocciante di Bella senz’anima e quello di oggi? «Ogni epoca della vita esprime uno stile. Io ho cominciato puntando sull’irruenza espressiva. Cercavo di trasmettere rabbia, cercavo un mio modo di comunicare. Poi è subentrata una fase più equilibrata, meno vistosa e più tranquilla con una canzone come Margherita. Più avanti una scelta più sofisticata, una sorta di rifondazione del mio stile con un brano come Cervo a primavera in cui la voglia di rinascere artisticamente è esplicita e palpabile. Certe mie composizioni del passato mi piacciono proprio per la loro durezza e la loro immaturità. Trasudano ferocia. È chiaro che in Bella senz’anima sono un cavallo a briglia sciolta, con un’emozione non calcolata, né calibrata. Fra Bella senz’anima e il canto di Quasimodo per Esmeralda c’è di mezzo una vita. Nel frattempo è subentrata una sorta di consapevolezza e di rotondità. Il canto cru-

Fra le sfide principali della mia vita, una è stata quella di smettere di nascondermi dietro a un pianoforte, di barricarmi. Alla fine sono riuscito a cantare a centro palco


OLYCOM (5)

do di un album come Mu (1972) è lontano. Un artista deve sapersi accettare nelle varie fasi della sua vita creativa. Nel mio caso chi ricorda chicche trascurate come Non è stato per caso o Il tagliacarte? Ma i pezzi minori sono la prova che un compositore non è mosso dall’interesse, ma dall’amore. Insomma da un afflato che non ha nessun rapporto con la commercializzazione». Che cosa pensa dei talent show? «Ho partecipato a una edizione di The Voice e ho capito subito che non faceva per me. Bella l’idea di scegliere i concorrenti solo in base alla voce, giudicare voltando le spalle al cantante. Ma per il resto... Troppe cose non mi piacevano: trasformare in spettacolo la vera emozione dei concorrenti, l’illusione di questi ragazzi pieni di speranze fatalmente delusi dal meccanismo spietato di eliminazione. Pochissimi hanno qualche chance, il meccanismo che li brucia è velocissimo... Senza contare che, anche in caso di affermazione, rischiano di finire in secca per mancanza di autori: sì gli autori, una razza in estinzione per colpa di internet. Ma questo è un altro discorso. Il rischio dei talent show è quello di creare artisti che non durano. Inseguire un progetto non vuol dire mettere dei brani uno dietro l’altro. La rigidità della scuola Rca ci ha consentito lunghe e durature carriere (a me a Zero a Dalla e a Venditti), perché prima del riconoscimento c’era il castigo. Un artista si crea gradualmente e prende forza anche commettendo, all’inizio, degli errori. Per quanto mi riguarda non entrerò mai più in un meccanismo di concorsi canori in tv. Quando prometto mantengo: dopo aver vinto Sanremo con Se stiamo insieme (1991) scritta con Mogol ho giurato che era l’ultima volta in gara, e così è stato». Ma, in buona sostanza, lei ha individuato la ricetta del successo di una canzone? «Sì e no: il segreto sta nell’equilibrio fra testo e musica. Una grande musica può essere 54

SETTE | 09— 04.03.2016

Qualche pezzo in coppia e una colonna sonora In alto, da sinistra: Riccardo Cocciante nel 1983 insieme a sua moglie Catherine Boutet; al pianoforte a fianco di Gianni Morandi; Cocciante vincitore del Festival di Sanremo del 1991, accanto a Marco Masini e Renato Zero. Dopo il primo posto, ottenuto con il brano Se stiamo insieme, il cantante ha deciso di non voler tornare più all’Ariston. Nel tempo, Cocciante ha duettato con Mina, Mietta, Scarlett von Wollenmann. Nel 1995 ha tradotto e cantato tre brani per la colonna sonora del film Toy story.

rovinata da un testo sbagliato e viceversa. A volte un ritornello o due parole giuste memorizzabili in una canzone in inglese diventano una sorta di amo cui il nostro orecchio abbocca facilmente. È il primo passo di una canzone che entrerà sotto la pelle». Le piace il rap? «Sì. Graffia. Come graffiavano Janis Joplin o Jimi Henrdix. Rivoluzionari. Come lo è stato anche Lucio Battisti». Battisti? «Sì. Lui era riuscito a fondere la musica anglosassone con quella italiana. Il capolavoro in questo senso è Il tempo di morire, dove intorno a quella motocicletta 10 Hp viene proposta una via italiana al blues. Altro campione di blues all’italiana è stato Pino Daniele. Adoro il Battisti con versi di Mogol, ma amo anche il Battisti del periodo con Pasquale Panella (che firma il testo italiano di

Notre Dame). Battisti è stato un pittore che è passato dal verismo all’astratto. Sono percorsi che nascono dall’interno della nostra mente». Che cosa è per lei la maturità? «Uno stato di grazia che consente di dar vita a cose nuove. È l’ansia di voler sempre dimostrare qualcos’altro». Vinicius De Moraes diceva che la vita è l’arte dell’incontro. Quali sono stati determinanti nella sua carriera? «Luciano Luberti che ha scritto per me testi magnifici (come pure Mogol), Luc Plamondon per Notre Dame e la traduzione di alcune mie canzoni, come la versione francese di Questione di feeling e Il mare dei papaveri), Jean-Loup Dabadie, letterato francese con cui ho composto poche grandi canzoni, Gaio Chiocchio con cui ho scritto La nostra lingua italiana.


Il successo di una canzone sta nell’equilibrio tra testo e musica. Una può rovinare l’altra. A volte un ritornello o due parole giuste e memorizzabili in un brano inglese diventano una sorta di amo a cui il nostro orecchio abbocca facilmente. È il primo passo di una canzone che entrerà sotto la pelle

LAPRESSE

Questione di feeling In alto, in senso orario: Cocciante con Lucio Dalla; insieme a Ornella Vanoni, la quale inciderà anche una canzone del collega, Canto popolare; esibizione del 12 dicembre 2015 all’Auditorium della Conciliazione, nel corso del concerto di Natale trasmesso su Canale 5.

Lei ha anche duettato e collaborato con Mina. «Sì, sono stati due episodi di segno opposto. Le consegnai una canzone che si chiamava Donna Donna Donna. Avevo mandato un provino molto ritmico, e in sede di realizzazione non ne hanno tenuto conto. L’arrangiamento era proprio sbagliato. Le cose sono andate diversamente nel duetto con la mia Questione di feeling. Sono entrato in sala di registrazione con lei e il risultato in prima battuta non era esaltante. Ho chiesto una riflessione di 15 minuti, durante i quali ho messo a punto un arrangiamento con una tonalità che non era congeniale né a me né a lei, ma ci consentiva di esprimerci con

grande semplicità e immediatezza. L’abbiamo riprovato e Questione di feeling aveva acquistato una magia indescrivibile. Lei lo ha capito immediatamente è ha detto: «Questo è il singolo di lancio». A dimostrazione che a volte l’autore in sala è utile e che talora basta un nonnulla per cambiare il destino di un brano». Che cosa la rende felice? «Lavorare in tanti Paesi, soprattutto in quelli di lingua spagnola come Argentina e Spagna. E poi scoprire che molte scuole mettono in scena Notre Dame come recita di fine anno». Dunque l’onda lunga di Notre Dame di Cocciante continua. Lui e la dolce e instancabile

moglie Cathy girano il mondo per addestrare “Esmeralde” e “gobbi” russi, polacchi coreani, cinesi. Il figlio della coppia, Davide, nato a Miami 25 anni fa, ha preso una strada diversa dal padre. «Per fortuna! – commenta Cocciante – ci mancava un altro figlio d’arte! È già un grande nel suo campo, l’arte grafica. Ha frequentato le scuole più selettive a Parigi e già lavora a New York. Siamo fieri di lui». L’unica ombra in questo quadro felice è una annosa vertenza che si trascina da un decennio con il fisco francese, in passato già foriera di una condanna, ma che, nel corso dell’anno, dovrebbe avviarsi a soluzione. Mario Luzzatto Fegiz © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

55


Avventure spaziali La sonda Schiaparelli decollerà il 14 marzo dal Kazakhstan

Gli italiani vanno su Marte con un disco volante per “trivellare” il pianeta A Torino è stata realizzata la stazione che studierà temperature, venti e tempeste in vista del futuro atterraggio di un robot incaricato di scoprire i misteri nascosti sotto la superficie del pianeta rosso di Giovanni Caprara

È

previsto tempo pessimo su Marte, quando “Schiaparelli” sbarcherà nella grande pianura Meridiani Planum il prossimo 19 ottobre. Sarà stagione di tempeste di sabbia, ma la sonda dell’Esa europea viaggiando come un proiettile alla velocità di 21 mila chilometri orari si tufferà nell’atmosfera sfidando ogni condizione climatica. Anzi, uno degli obiettivi è proprio quello di studiarla. Intanto Schiaparelli è sulla rampa di lancio della base russa di Baikonur, in Kazakhstan, pronta alla partenza fissata per il 14 marzo. Allora inizierà la sua lunga traversata e tre giorni prima dell’arrivo in orbita marziana la capsula si staccherà dalla sonda madre battezzata Trace gas orbiter a cui era aggrappata iniziando una rapida discesa verso l’area scelta all’equatore. La sonda, invece, resterà a orbitare intorno al Pianeta rosso, indagandolo almeno sino al 2022. L’obiettivo di Schiaparelli è dimostrare che l’Europa ha le tecnologie necessarie per arrivare sicura nelle lande marziane ed esplorarle come mai era avvenuto in precedenza nemmeno da parte dei rover della Nasa. Questa spedizione fa parte del programma Exomars e, se tutto andrà bene, darà il via a una seconda missione nel 2018 che porterà un robot su ruote dotato di una trivella in grado di perforare il suolo sino a due metri di profondità. Un’operazione del genere mirata a cercare tracce di possibile vita sopravvissuta mai era stata tentata prima. La

Nasa, con la sonda InSight rinviata al 2018 (doveva partire quest’anno) perforerà il suolo ma solo per misurare la trasmissione del calore. Le due missioni dell’Esa sono realizzate assieme all’agenzia spaziale russa Roscosmos che mette a disposizione anche il razzo Proton. Ma buona parte dell’ambizioso piano nasce in Italia sostenuta dall’agenzia spaziale Asi che del programma ne fa una delle sue bandiere più importanti. Non a caso la capsula è stata battezzata con il nome dell’astronomo che dall’osservatorio milanese di Brera scopriva i famosi canali marziani nella seconda metà dell’Ottocento, poi da alcuni interpretati come costruzioni di esseri intelligenti. Schiaparelli è una sorta di disco volante largo 2,4 metri che porterà sulle sabbie rosse una stazione meteorologica progettata al Cisas dell’Università di Padova sotto la direzione di Stefano Debei. Con questa ci racconterà il clima del luogo dello sbarco. «Oltre a registrare temperature, pressioni, umidità, ci concentreremo soprattutto sul vento che solleva le polveri», spiega Francesca Esposito dell’osservatorio dell’Istituto nazionale di astronomia di Napoli, responsabile delle

La capsula ha il nome dell’astronomo che nell’Ottocento ha scoperto i “canali marziani” dall’osservatorio di Brera 56

SETTE | 09— 04.03.2016

indagini. «Queste, infatti, possono innescare processi atmosferici di cui ignoriamo i meccanismi e che da eventi locali sono talvolta in grado di trasformarsi in fenomeni estesi sull’intero pianeta. Venti e polveri, però, sono altrettanto importanti da conoscere per i futuri sbarchi umani soprattutto per pericoli che possono presentare». Nel film The Martian, il regista Ridley Scott ci ha fatto vivere con ansia proprio questa dimensione del rischio per gli astronauti. Prima dello sbarco, inoltre, i sensori della capsula durante la discesa rileveranno dati con i quali Amelia Francesca Ferri del Cisas traccerà l’identikit dell’atmosfera marziana. Giunto in superficie, Schiaparelli disporrà anche di un retro-riflettore laser dell’Istituto nazionale di fisica nucleare per ricerche geologiche. Intanto, dall’orbita saranno entrati in azione gli strumenti della sonda


Superficie trivellata A sinistra, Marte il pianeta rosso. Sotto, nel tondo, il “rover” da utilizzare nell’ambito del programma Exomars. In basso, a sinistra il laboratorio di preparazione degli strumenti di analisi; a destra, le trivelle di perforazione capaci di bucare il suolo per due metri.

Trace gas orbiter cercando, tra i vari compiti, di risolvere il mistero del metano. La sua presenza è intrigante perché potrebbe essere il frutto di alcuni fenomeni geofisici ma anche la produzione di un’attività biologica. Alcune sue tracce erano state individuate per la prima volta dalla sonda europea MarsExpress e in seguito altre sonde indiane e americane, data l’importanza del ritrovamento, avevano cercato conferme. Ma con alterne fortune e altrettanti dubbi. Lo stesso Curiosity della Nasa, ora in viaggio nel cratere Gale, ha prima trovato e poi smentito l’individuazione nell’aria di molecole del prezioso gas. Il compito è quindi arduo. Metà degli sbarchi è andata male. La capsula Schiaparelli con i vari strumenti e alcune parti arrivate da altri Paesi europei è nata a Torino. «La sua realizzazione», nota Donato Amoroso alla guida di Thales Alenia space Finmeccanica, «ha richiesto uno sviluppo tecnologico considerevole. La scelta dei materiali, per esempio, o lo studio del

paracadute supersonico fabbricato poi da sfida Aerosekur è stata una sfi da che produrrà vantaggi in altri campi». Mentre entre Schiaparelli inizia la grande e semdifficile pre diffi cile avventura (è bene ricordare che la metà degli sbarchi marziani russi e americani è andata male) in Asi e in Esa si lavora alacremente al “rover” che dovrà correre nei deserti rossi dopo il 2018. E qui entrerà in scena di nuovo l’Italia con uno strumento eccezionale per la tecnologia e per l’indagine che dovrà compiere. La trivella costruita a Milano dalla divisione sistemi avionici e spaziali di Finmeccanica è, assieme ad altri strumenti, un vero braccio robotizzato del rover capace, da solo, di comporsi da pezzi separati e allungarsi nelle profondità del sottosuolo indagandone le caratteristiche. Per l’intero programma Exomars, l’Esa ha investito 1.250 milioni di euro. «Nella missione marziana abbiamo sempre visto una grande opportunità scientifica e tecnologica per il nostro Paese», sottolinea Roberto Battiston, presidente dell’Asi. «Per questo abbiamo investito 400 milioni di euro partecipando con una quota di maggioranza pari al 35 per cento, al grande piano europeo. Cercare tracce di vita sul Pianeta rosso e studiare il suo ambiente oggi rappresenta l’obiettivo più importante di tutte le agenzie spaziali dedicando a tale scopo ingenti risorse». «Come si può rilevare anche sulla Terra», continua Battiston, «basta scavare di poco nel

suolo per trovare forme di vita. Altrettanto potrebbe essere accaduto su Marte dove, invece, la superficie sterilizzata dalle radiazioni impedisce ogni tipo di sopravvivenza. A questo obiettivo di ricerca si aggiunge la necessità di conoscere l’ambiente per preparare lo sbarco dell’uomo e qui dobbiamo procedere per gradi al fine di maturare le conoscenze necessarie. Bisogna, per esempio, investire in tecnologie affidabili capaci persino di autoripararsi per garantire la massima sicurezza agli astronauti. Simili tecnologie potranno essere trasferite sulla Terra, diventando preziose anche nei mezzi della nostra vita quotidiana». Battiston, tra l’altro, oltre a essere come scienziato uno specialista dell’antimateria, ha condiviso un programma di ricerca rivolto alla progettazione di astronavi per viaggi interplanetari dotate di sistemi elettromagnetici in grado di proteggere gli equipaggi dalle mortali radiazioni cosmiche. «È comunque evidente», conclude il presidente dell’Asi, «che si tratta di una visione globale e di uno sforzo da compiere insieme a livello internazionale. Ma partecipando a missioni come Exomars possiamo maturare conoscenze preziose ai nostri scienziati e nello stesso tempo anche per le nostre industrie che devono competere tecnologicamente sulla scena mondiale aiutando, così, pure la nostra economia». © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

57


Controstorie Due libri indagano su una delle figure mito in Gran Bretagna

Lawrence d’Arabia? Un patriota, bugiardo, spietato e sadomaso Reso celebre dal film dov’era impersonato da Peter O’Toole, il colonnello e agente segreto britannico divenne un eroe in Medio Oriente. Ma la realtà dei fatti era un po’ diversa

A

Cloud Hill, nel Dorset, il 13 maggio 1935 si annuncia come una splendida giornata. Il colonnello, agente segreto, archeologo e scrittore Thomas Edward Lawrence si alza presto. L’ex capo della rivolta araba, chiamato il “Principe della Mecca”, va prima all’ufficio postale e poi dal macellaio dove acquista del maiale per il giorno dopo. Da parecchi anni ha buttato alle ortiche pubbliche responsabilità, come la carica di consigliere politico per gli Affari arabi, ha rifiutato importanti onoreficenze e ha cambiato più volte nome. Con la stravaganza e il caratterino rissoso che lo connota, Lawrence d’Arabia è diventato il soldato carrista T.E. Smith, l’aviere T.E. Shaw ed infine l’aviere meccanico John Hume Ross arruolato nella Raf. Dall’aeronautica di Sua Maestà sarà espulso due volte e due volte riaccolto. A febbraio di quello stesso anno è entrato a far parte del servizio del controspionaggio britannico MI5, nella stessa sezione in cui opera Ian Fleming, futuro autore delle opere dedicate all’agente 007. Quella fatidica mattina Lawrence sta rientrando sulla sua rombante Brough Superior Ss 100 ma, incrociando due ciclisti, sbanda e finisce contro un albero. Muore dopo qualche giorno. Il cordoglio in Inghilterra è enorme: Lawrence è una star fin da quando un reporter americano, Lowell Thomas, ha messo in scena uno spettacolo itinerante in cui celebra le gesta dell’autore dei Sette pilastri della saggezza. Nel resto del mondo sarà destinato a diventare famoso con il volto emaciato e gli splendenti occhi azzurri di Peter O’ Toole, nel 58

Sette | 09— 04.03.2016

film del 1962 di David Lean a lui dedicato che conquista ben sette Oscar. La pellicola lo dipinge come un valoroso guerrigliero emotivamente instabile, con tendenze sadomasochiste. Ma chi fu veramente Lawrence d’Arabia? Alla sua personalità appartengono zone buie e inspiegabili: perché dopo aver raggiunto picchi di notorietà e successi, come la conquista del porto di Aqaba, si condanna ai ranghi di semplice recluta, alle camerate piene di cimici e pidocchi, alla pulizia delle latrine? Ma non solo: fu veramente l’eroe romantico che sosteneva le ragioni degli arabi? Adesso, a ripercorrerne l’esperienza politica ed esistenziale e soprattutto a ricollocarlo all’interno dei suoi rapporti con la diplomazia britannica e con i suoi superiori, è il bel libro di Fabio Amodeo e Mario José Cereghino, Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente (Feltrinelli, pp. 202, 17 euro). I due saggisti rivisitano la complessa attività politica del colonnello nel complicato scacchiere mediorientale dove si era scatenata la corsa delle maggiori potenze industriali per assicurarsi l’oro nero e per controllare le rotte navali. Il comandante solo apparentemente sposò la causa degli arabi. Di fatto, molto ben foraggiato da abbondanti contributi economici, perseguì gli interessi del suo Paese che, insieme alla Francia, aveva a cuore il controllo dell’immensa

AlAmy

di Mirella Serri

Caratterino rissoso Sopra, Thomas Edward Lawrence in moto. A destra, le copertine delle opere di Fabio Amodeo e Mario José Cereghino, e di Phillip Knightley e Colin Simpson.

area tra il Mediterraneo, il Golfo Persico e il Mar Rosso, sede dei giacimenti petroliferi. E le potenze coloniali cercarono di tener nascosti i propri obiettivi. Una tesi che peraltro è presente anche nella ricca e suggestiva biografia di Phillip Knightley e Colin Simpson, Le vite segrete di Lawrence d’Arabia (che ora viene riproposta da Odoya editore, pp. 365, 22 euro). I due giornalisti scrivono che «lungi dal nutrire un profondo attaccamento per gli arabi, a Lawrence non importò nulla di loro; lungi dal dedicarsi al compito di unire le loro tribù divise affinché sorgesse una nazione araba unita, credeva invece che l’interesse dell’Inghilterra fosse nel tener diviso il Medio Oriente; lungi dall’appoggiare la causa della libertà e dell’indipendenza


contrAsto Hulton ArcHive/Getty imAGes

Quel giornalista che lo lanciò a teatro A sinistra, Thomas Edward Lawrence vestito secondo l’abbigliamento arabo. In alto, Peter O’Toole e Anthony Quinn nel film Lawrence d’Arabia. Sopra, ancora Lawrence insieme al reporter inglese Lowell Thomas.

degli arabi, mirava invece a estendere sui loro paesi l’Impero britannico. Promise agli arabi la libertà perché sapeva che questa era la maniera migliore per indurli a combattere ma era consapevole che non l’avrebbero mai ottenuta». E rivelano anche la profonda scissione di Aurans Iblis, ovvero di “Lawrence il diavolo”, così lo definivano i beduini del deserto: spietato, determinato, lucido nelle operazioni militari, come lo ricorda anche Winston Churchill, fragilissimo invece nel privato, fin quasi al limite estremo della pazzia. Negli ultimi anni fu sempre più segnato da un forte squilibrio psichico: nel suo cottage da eccentrico scapolo non c’erano letti ma solo due sacchi a pelo, di cui uno destinato all’ospite di turno; per evitare i bucati

non indossava i calzini e calzava babbucce di pelle di capra; sciacquava i piatti in una vasca di mattoni inclinata versandovi sopra acqua bollente, mangiava direttamente nelle scatolette. Ma, soprattutto, alternava periodi di ottimismo, quando era pieno di progetti per il suo futuro letterario, e tremende depressioni. Knightley e Simpson mettono in dubbio anche i fatti narrati dallo stesso Lawrence, come la violenza sessuale subita da parte del bey di Deraa durante la guerra contro i turchi. Pubblicano i memoriali del giovanissimo John Bruce, suo intimo amico che fu da lui stipendiato perché periodicamente eseguisse un infernale rituale: colpire il colonnello con una frusta formata da fibbie di cuoio alle cui estremità erano legati

artigli metallici che laceravano le carni. Tutti gli autori però concordano: in lui albergano genio e follia. Fu un fedele servitore del proprio Paese, un colonialista pronto a estendere l’influenza dell’impero britannico ma anche un acuto analista, persino preveggente. Abbandonò sdegnato i suoi impegni pubblici dopo aver denunciato tutti i limiti dell’accordo segreto, di cui a marzo di quest’anno ricorrono i cento anni: i negoziati del 1916 condotti dal francese François Georges-Picot e dal britannico Mark Sykes delusero tutte le aspettative del mondo arabo mentre sancivano la logica spartitoria e definivano le sfere di influenza delle grandi potenze. Esattamente un secolo fa, osservano poi Amodeo e Cereghino, è stato così inventato il Medio Oriente contenitore di una serie di bombe a orologeria etniche, religiose, politiche e economiche che ne hanno fatto la terra della guerra perenne, dei conflitti insanabili. Un disastro da Lawrence annunciato con la sottolineatura dei gravi errori compiuti dagli ex imperi coloniali. Che proprio per questo cercarono anche di distorcere la memoria e il senso più profondo e genuino del suo pensiero e delle sue azioni. © riproduzione riservata

Sette | 09— 04.03.2016

59


Personaggi leggendari / 11 Clodia, tanto bella quanto immorale

Mille e più baci per Lesbia non posson bastare

Per l’innamorato Catullo era dedita a ogni vizio. Cicerone la definì: «svergognata». In realtà, era solo diversa dal modello femminile romano

B

asta dire il suo nome – Lesbia – e subito, inevitabilmente, il pensiero va a Catullo e ai mille baci (e poi ancora mille, e mille altri ancora) che il poeta le chiede, nei momenti più felici del loro amore. Che la donna chiamata con questo nome debba la sua fama al fatto che il giovane poeta si fosse perdutamente innamorato di lei è cosa indiscutibile. Così come il fatto che a lui ella debba la fama di donna volubile e infedele. Ma come era, veramente la donna che ispirò alcune delle più belle poesie d’amore mai scritte? Per cercare di capirlo cominciamo con l’identificarla: il suo vero nome era Clodia, ed era certamente una donna molto bella e molto affascinante: la grandezza e lo splendore dei suoi occhi era tale – diceva tutta Roma – che amici e nemici la chiamavano Boopis “grandi occhi” (letteralmente “dagli occhi di giovenca”, allora il massimo dei complimenti). Ai limiti della depravazione. Nata attorno

al 94 a.C., la cosiddetta Lesbia era sorella di Clodio, ex tribuno e capo di una banda che appoggiava violentemente la politica dei popolari, e in particolare di Cesare. In data imprecisata aveva sposato un uomo politico molto noto, Quinto Cecilio Metello Celere, e poco dopo la morte di questi, nel 59, aveva incontrato Catullo, di circa dieci anni più giovane di lei, sulla cui opera sono tradizionalmente basati i tentativi di conoscerla. Ma Catullo, di Clodia, era follemente innamorato e altrettanto follemente geloso: convinto (probabilmente non a torto, si direbbe) di essere tradito, come dice un suo celebre verso, al tempo stesso l’amava e la odiava (odi et amo). Non era e non è, insomma, 60

sette | 09— 04.03.2016

una fonte oggettiva. Così come è ben lontana dall’essere obiettiva l’altra importante fonte alla quale possiamo attingere, vale a dire Cicerone. Per ragioni non solo diverse, ma opposte a quelle di Catullo: l’inimicizia, in questo caso, era legata – in primo luogo – al fatto che il nemico politico più odiato da Cicerone era il fratello di Clodia. In città, inoltre, si diceva che questa avesse tentato di corteggiare Cicerone, mettendolo in difficoltà con la moglie Terenzia. Se vogliamo credere a Plutarco, infatti, Terenzia «arrivò a odiare Clodio per colpa della sorella di questi Clodia, che avrebbe voluto sposare Cicerone» (Plut., Cic., 29). Pettegolezzi, certo, che danno comunque l’idea di rapporti a dir poco decisamente difficili. E a tutto questo si aggiunge il fatto che, nel 56, Cicerone difese in giudizio Celio Rufo, ex amante di Clodia, accusato tra l’altro di aver tentato di commettere un omicidio. Clodia, in quel processo, era stata chiamata come testimone, perché aveva accusato Celio di averle sottratto dei gioielli e di aver poi tentato di ucciderla. Le ragioni per dubitare dell’imparzialità del ritratto a fosche tinte che Cicerone fece di lei sono del tutto evidenti. Ma su Cicerone torneremo. Cominciamo da Catullo. La storia che egli racconta è quella di un amore vero? Secondo alcuni, i suoi versi sarebbero il frutto di un’immaginazione poetica, che descrive l’oggetto d’amore ricalcando dei modelli letterari. Di conseguenza, ricostruire il personaggio di Clodia dalle sue poesie sarebbe impossibile. Ma a me sembra che se di Catullo si deve diffidare non sia perché egli non descriva un vero amore. Catullo è inattendibile, piuttosto, perché è un innamorato che non riesce a capire la donna

bridgemanimages (2)

di eva Cantarella

Occhi di giovenca In alto, Catullo legge i suoi poemi nella casa di Lesbia, in un dipinto su olio del 1870. Qui sopra, il quadro Lesbia e il suo passerotto, di Edward John Poynter.

che ama. E bisogna ammettere che Clodia doveva essere una donna difficile da capire non solamente da lui, e probabilmente da qualunque altro uomo dell’epoca, ma forse anche da molti uomini assai più vicini a noi nel tempo. È per questo, perché non riesce a capirla, che Catullo la insulta, descrivendola a volte come un personaggio ai limiti della depravazione. Clodia, insomma, è certamente un topos, ma non necessariamente letterario. È lo stereotipo, ben radicato nella mente maschile, della donna che respinge o delude ogni pretesa di esclusività. La


testimonianza di Cicerone (alla cui ostilità e alle ragioni della quale abbiamo già accennato), al quale il processo contro Celio Rufo offrì la possibilità di distruggere definitivamente l’immagine di Clodia. Da grandissimo avvocato qual era, Cicerone, davanti ai giudici, ribaltò la verità. Da testimone dell’accusa, Clodia divenne l’accusata. Le accuse di Clodia a Celio, disse Cicerone, erano false: come si poteva dar credito a una simile donna? Una moglie che appena morto il marito si era data alla bella vita, frequentando le persone più indegne. La sua casa di Roma, le strade stesse erano state testimoni di una condotta svergognata. Come potevano i romani permettere che uno dei loro migliori concittadini (come abilmente presentò Celio) fosse vittima di una vendetta ignobile, ordita da una donna inqualificabile? Celio venne assolto. Di Clodia, che allora aveva trentotto anni, da quel momento non si ha più notizia. Una vedova fuori dal tempo. Che conclu-

storia che emerge dalle poesie di Catullo è quella della totale incomprensione, che peraltro non impedisce ai due amanti di vivere momenti di passione intensissima. A dimostrarlo basta il celeberrimo, bellissimo carme dei mille baci: «Vita e amore a noi due Lesbia mia / e ogni acida censura di vecchi gettiamo via. / Il sole che muore rinascerà /ma questa nostra luce fuggitiva / Una volta abbattuta, dormiremo/ una totale notte senza fine. / Dammi baci cento baci mille baci / e ancora baci cento baci mille baci...» (traduzione di Guido Ceronetti, come quelle che seguono). Ma, alla passione, si alternano freddezze e abbandoni che a volte sembrano definitivi: «O pazzo basta! Povero Catullo / quel che è perduto è perduto... / amore mio, addio. Catullo è ora insensibile, / non ti cerca, non corre a supplicarti...». Ma i proponimenti non durano a lungo: «Odio e amo / Come sia non so dire /Ma tu mi vedi qui crocifisso /al mio odio e amore». Ci sono momenti in cui Catullo accusa Lesbia di tradimenti seriali,

descrivendola come dedita a ogni vizio: lussuriosa, immorale, affamata di piacere e di potere. Ma depurati dal veleno della gelosia e delle incomprensione, dai versi di Catullo emerge una donna che – si direbbe – a sua volta lo amò: a modo suo, però, non come voleva Catullo. Lo amò come ama una donna indipendente e, si direbbe ancora, felice di vivere; forse crudele, ma alla maniera in cui accade agli innamorati di esserlo, volontariamente o involontariamente. Le infamie di cui Catullo accusa Lesbia rientrano nel quadro e nel gioco che spesso contrappone due combattenti in una guerra d’amore. Uno chiede amore eterno ed esclusivo, l’altro offre un amore se non occasionale, meno impegnativo. Succedeva e succede. Dietro allo stereotipo della mangiatrice di uomini, insomma, sembra di scorgere una figura reale: una donna forte, autonoma e, in amore, certamente volubile: sia durante sia dopo il rapporto con Catullo, terminato il quale diventa l’amante di Celio Rufo. Ed è su quella fase della sua vita che abbiamo la

sioni trarre su di lei, alla luce di queste testimonianze? Una cosa, una sola appare certa: Clodia-Lesbia era una donna radicalmente diversa dal modello femminile che i romani proponevano alle loro donne sin dall’inizio della loro storia. Non era (come Lucrezia o come Virginia) una donna carica di ogni virtù: silenziosa, obbediente, figlia, moglie e madre esemplare, pronta a morire per difendere il suo onore... Per non parlare della sua radicale diversità dall’immagine della vedova. Per i romani, la vedova perfetta era quella che limitava a tempi brevissimi lo spazio della vedovanza, suicidandosi immediatamente, o poco dopo la morte del marito. Così aveva fatto la vedova repubblicana per eccellenza, la celebre Porzia, figlia di Catone: nel 42, dopo la definitiva sconfitta dei repubblicani a Filippi e la morte del marito Bruto, Porzia (alla quale parenti e amici avevano sottratto le armi con le quali avrebbe potuto uccidersi) aveva risolto il problema inghiottendo carboni ardenti. A celebrarne la gloria era intervenuto persino un autore come Marziale, abitualmente non poco critico del comportamento (per lui malcostume) femminile: «Udì Porzia la morte di Bruto / E il suo dolore di sposa cercò un‘arma / (tutte gli erano state sottratte)». «E ancora non sapete, gridò, / che non si può proibire di morire?... / Tacque, e con frenetica bocca inghiottiva / rovente bragia. Via via / piccola gente fastidiosa: provati / adesso a rifiutarle un ferro». Tentando di concludere: quel che sappiamo con certezza di Clodia è che rifiutò di adeguarsi ai modelli che le venivano imposti, e che la cosa non le venne perdonata. Da nessuno. In vita e per molto tempo dopo la sua morte. 11- continua © riproduzione riservata

sette | 09— 04.03.2016

61


Viaggio nelle fragranze /10 Il mito dei creatori del profumo di “stile”

Ernest Beaux e Coco inventarono uno spartiacque, una strada verso il fascino. Perché, dicevano: «L’abito fa il monaco». Dopo di loro, scoppierà l’età dell’oro delle essenze intese come moda

HULTON ARCHIVE / GETTYIMAGES

«Una donna deve odorare di donna». E nacque Chanel n. 5 di Aldo Nove

62

SETTE | 09— 04.03.2016

AFP / GETTYIMAGES

I

l mito di Chanel n. 5, come ogni mito, ha diverse versioni. Certi sono i protagonisti della storia, Coco Chanel e Ernest Beaux. Su Coco Chanel ci sarebbero pagine da scrivere, e nessuna di queste esulerebbe dal tema che stiamo trattando. Coco ha inventato quello strano spartiacque, su cui ambiguamente e saldamente il profumo moderno si colloca, che è l’idea popolare di “stile”. Coco ha rivoluzionato l’idea di donna, l’ha sottratta a una tradizione millenaria e locale e l’ha lanciata a livello mondiale. Marketing e raffinatezza. Un crogiuolo di opposti e una stella polare: il fascino, e la sua continua ricerca. In tedesco, al contrario che in italiano, un noto proverbio dice che “l’abito fa il monaco”. In chiave più schiettamente laica, laicis ssima, potremmo dire, con Coco, che “l’abito fa la donna”. Ma “abito”, sappiamo dagli antichi, significa non solo vestito, ma tutto un insieme di atteggiamenti, di modi di essere, che sommariamente possiamo chiamare “stile”. Ma torniamo al celeberrimo profumo. La leggenda forse più celebre vuole che questa fragranza, frutto del quinto esperimento di Beaux, debba il suo inconfondibile carattere cipriato e violento, l’aggressività d’impatto delle sue note di testa, a un errore di miscelazione. Tutta la storia dei profumi è fatta di errori felici, ma è così anche per la scienza e per ogni manifestazione umana. Beaux, nel tentativo di rettificare la sontuosità soffocante delle note di gelsomino, esagerò con le aldeidi che, abbiamo imparato, sono le composizioni chimiche che richiamano i bouquet di fiori. Coco era ansiosa di creare un profumo che si contrapponesse al sentore dolciastro dei profumi prevalenti in quell’epoca. E il flacone n. 5 funzionava benissimo proprio in quel senso. Chanel n. 5 ha inoltre il pregio non indifferente di reagire in modo molto marcato con il ph della pelle di chi

lo usa, mantenendo così una nota personale (eppure universalmente riconoscibile) in ogni donna che lo utilizza. E i nuovi profumi di sintesi, spesso molto più audaci dei profumi tradizionali, hanno soppiantato le note leggere dei profumi in voga nell’Ottocento, che volevano esprimere un’idea di leggerezza e vaghezza ora esplosa in un tripudio di concetti e d’incessanti novità. Dall’essenza all’idea. Dall’idea alla sua moltiplicazione merceologica. Chanel, dichiarando che voleva un profumo artificiale come un abito, ossia frutto di una fabbricazione, si spinse a dichiarare che ne desiderava uno femminile che odorasse di donna, perché una donna deve odorare di donna

Tutta la storia dei profumi è fatta di errori felici. Nel tentativo di rettificare la sontuosità delle note di gelsomino, si esagerò con le aldeidi contribuendo a scoprire la nuova sintesi


CONTRASTO

Vestita solo di una goccia Qui a lato, Coco Chanel (18831971). Sotto, il flacone di Chanel n. 5. Nell’altra pagina, Jean-Claude Ellena al lavoro per Hermès. In basso, Marilyn Monroe e la boccetta del celebre profumo.

GBB / CONTRASTO

e non di fiore. Era l’epoca dei Picasso, di Stravinskij, del surrealismo e del dadaismo. Al messaggio olfattivo non era più richiesto di testimoniare la pulizia e l’attenzione alla cura di sé, ma piuttosto di creare nell’immaginario una nuova figura di immaginario femminile. Niente più sdolcinatezze, ma nuovi concetti, nuove idee da “indossare”. Il profumo diventa una visione del mondo che si oppone a quello egemonico diventandone parte integrante, con tutta l’ambiguità della moda. A proposito di moda, già il secolo precedente il grande filosofo G. W. Hegel, in una sua corrispondenza, scrisse: «E tu ti ostini a chiamare “moda” ciò che non è altro che movimento dello Spirito nel tempo». In termini meno altisonanti, potremmo dire che la moda è l’espressione del mondo che lo crea, e ne fa un proprio segno distintivo. E il profumo, come un abito, diventa elemento di elaborazione formale dell’immagine di un individuo che ci tiene a essere individuo: sia nella sua fissità (adottando quindi sempre la stessa essenza), sia mostrando la propria versatilità. L’attitudine a cambiare profumo, inimmaginabile decenni prima, vista la capacità delle essenze di rivelare il carattere e l’umore, per quanto variabile, di una per-

sona, ne manifesta tutta la gamma di essere umano poliedrico e meravigliosamente complesso. Come in un caleidoscopio impazzito, le fragranze (non più essenze) iniziano a moltiplicarsi in modo esponenziale. Nasce l’età d’oro del profumo “di marca”. Nascono Femme di Rochas (1944) e Ysl (1975) e Kouros (1981) di Yves Saint Laurent. Anteus ancora di Chanel (1981) e Minotaure di Paloma Picasso, in un gioioso connubio di richiami classici alla dualità maschile/femminile e ai loro corrispettivi mitologici. C’è poi il richiamo alla magia, all’alchimia con Opium di Yves Saint Laurent (1977), Mystére di Rochas (1978), Poison di Christian Dior (1985), Samsara di Guerlain (1989) e Trésor di Lancôme (1990). Non manca l’ironia, in Cabotine di Grès (1990) e in l’Eau d’Yssey Miyake (1992), mentre Anaïs Anaïs di Cacharel (1979) e Angel di Thierry Mugler (1992) evocano purezza e dolcezza. Sempre più importante diventa l’attrattività dell’“oggetto” profumo, questa volta su scala planetaria. Madonna inguainata. E se Chanel punta, snobisti-

camente, su una boccetta quasi neutra, non rinuncia all’eleganza marcata del tappo. Mentre celeberrima è la linea di Jean Paul Gaultier con le sue boccette plasmate sul busto dell’uomo (impreziosita dalla rappresentazione di una maglietta bicolore, alla “marinara”, o bianca; e della donna: in questa variante femminile, il profumo riproduce le forme della cantante Madonna inguainata in uno stretto bustier (ma la boccetta “a forma di donna” ebbe già un illustre precursore in Youth Dew di Estée Lauder, del 1953). C’è inoltre

SETTE | 09— 04.03.2016

63


un’idea che non muore mai e telluricamente risorge nel corso di quest’ultimo secolo, che è quella della freschezza e della giovinezza, quasi ancora indistintamente indistinta. Caso esemplare è stato Egoïste di Chanel (1990), profumo da uomo che si propone però (il richiamo è al mito di Narciso) come «sottratto alla bellezza e all’attrazione femminile», tanto da diventare decisamente bisex. Ck, di Calvin Klein (1994), del naso Alberto Morillas, si propone immediatamente e vigorosamente come del tutto unisex. E poi, c’è la pubblicità, dagli anni Sessanta specialmente quella televisiva. Si tratta di rappresentare, in pochi secondi, un intero mondo. Prendiamo come esempio l’onnipresente pubblicità attuale di Miss Dior, profumo lanciato originariamente nel 1947 e riformulato poi nel 1982 e 1992. Nella pubblicità che tutti abbiamo visto, la bellissima Natalie Portman è un’inquieta sposa che, nel momento del matrimonio, fugge a gambe levate tra una folla che l’osserva allibita (e immobile) trasformandosi, in pochi attimi, buttato il bouquet di nozze e rimasta in sottoveste nera, in creatura totalmente libera, e come libera e terrena divinità si lancia, quasi in un micro percorso iniziatico che è segno forte quanto inconscio di liberazione, in una sorta di foresta dove, sull’orlo di un precipizio che porta al mare, l’attende un elicottero sul quale si arrampica sotto una magica tempesta di petali bianchi. A bordo, l’aspetta il suo “vero” uomo che, dopo averla baciata sul collo, la porta a... Parigi, con tanto di ripresa da cartolina della Tour Eiffel. Il tutto, sotto le trascinanti note di Janis Joplin. In una vera sintesi di post-moderno, si succedono citazioni de Il laureato e dei film di James Bond, ma innanzitutto viene delineata l’immagine di una donna forte, libera e soprattutto... francese. Come la celebre marca. Il nostro viaggio nei profumi e nelle fragranze che hanno accompagnato nei secoli l’umanità sta per finire, ma ci sarebbero ancora molte cose di cui parlare, non fosse altro che questo scorcio di millennio ha visto un’accelerazione esponenziale di tutte le sue risorse tecniche. Accenneremmo quindi agli enormi sviluppi dell’aromaterapia, alla diffusione delle spa dove, con riprese di antiche o la creazione di innovative tecniche di massaggi con balsami aromatizzati, l’idea di profumo si associa

Sniffare per credere Sopra, Alessandro Gualtieri che crea per Nasomatto e Orto Parisi. Sotto, la cantante americana Madonna, che ha ispirato Jean Paul Gaultier. Nell’immagine in fondo a sinistra, ciò che poi ne è scaturito.

a quella di salute. E poi all’(ancora) fallito progetto del cyberprofumo: in era di stampanti 3d, per quanto si studino sistemi di compatibilità tra odori e informatica, i due campi non riescono ancora a incontrarsi: il computer non ha odore. Stercus, come le stalle. Ci piace invece chiudere invece con la figura del “naso” come viene vissuta nella contemporaneità: una vera e propria star. Per non fare torto a nessuno, accenneremo ad Alessandro Gualtieri, che crea per Nasomatto e, da qualche anno, per la nuova casa Orto Parisi. Gualtieri, pose da dandy e personaggio originalissimo, crea profumi particolarissimi “di nicchia”: come l’ormai celeberrimo Black Afghano (speziato con forte prevalenza di hashish), Duro (quintessenza del profumo maschile) e Nuda (quintessenza del profumo femminile). Ma anche il delizioso Boccanera (prevalenza cioccolato, ricordo delle sue scorpacciate da bambino), il raffinatissimo Viride (che sa di campi e “biancheria pulita”) e il provocatorio Stercus (non spaventatevi: ricorda l’odore buono delle stalle, dei campi, della pelle conciata, dei giochi infantili sull’erba). Ma mi piace chiudere con una frase stupenda di un altro “naso”, uno dei più famosi di tutti i tempi, Jean-Claude Ellena (creatore tra l’altro di Eau de Champagne di Sisley, Eau Parfumée di Bulgari e Déclaration di Cartier): «L’odore è una parola, il profumo è la letteratura». 10 - fine

Ci piace chiudere con la figura del “naso” come viene vissuta oggi: una vera e propria star. E con Jean-Claude Ellena, che disse: «L’odore è una parola, il profumo è la letteratura»

Le altre puntate

I precedenti articoli sono stati pubblicati: 1) n. 24 del 12/06/15; 2) n. 25 del 19/06/15; 3) n. 26 del 26/06/15; 4) n. 27 del 3/07/15; 5) n. 28 del 10/07/15; 6) n. 31 del 31/07/15; 7) n. 33 del 14/08/15; 8) n. 36 del 4/09/15; 9) n. 5 del 5 febbraio 2016.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

64

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Parola Chiave / di Giorgio Dell’Arti

Tramezzino

Torinese, classe 1926, figlio di due emigrati di ritorno, fu battezzato da d’Annunzio. Ma per gli inglesi, la ricetta perfetta prevede sempre cetriolo e cheddar Il tramezzino ha appena compiuto novant’anni. Lo inventarono al caffè Mulassano di Torino, nel gennaio 1926. A battezzarlo così fu Gabriele d’Annunzio che osservando la forma di pane a cassetta da cui si ricavava il sandwich pensò alle «tramezze» della sua casa di campagna. STorIa Ancora sulla storia del Mulassano: Angela e Onorino Nebiolo, dopo essere emigrati in America per qualche anno, rientrarono a Torino, la loro città natale, e comprarono un locale storico a piazza Castello, pagandolo 300 mila lire. Furono i primi a proporre in Italia il toast, portando dagli Stati Uniti il tostapane. Con lo stesso tipo di pane inventarono il tramezzino, che originariamente era farcito con burro e acciughe. I tramezzini all’inizio vennero serviti come rompidigiuno insieme con l’aperitivo, ma in capo a pochi mesi il successo fu tale che i titolari di Mulassano decisero di proporli a mezzogiorno come pranzo veloce.

Paniere Il tramezzino al bar entrò nel paniere dell’Istat nel 1988. record Il tramezzino più lungo del mondo, 356,10 metri, realizzato da cittadini e commercianti di via Garibaldi a Mestre il 16 febbraio 1999 e registrato nel Guinness dei primati. Ingredienti: un quintale di maionese, un quintale e mezzo di mozzarella, due quintali di pancarrè, un quintale e 800 grammi di prosciutto. La preparazione, iniziata alle 16.35, terminò dopo 40 minuti.

Italiani Il centro studi FipeConfcommercio ha stimato che il 34% degli italiani che pranzano fuori casa scelgono tramezzini o panini (il 33,8% preferisce la pizza, il 29,8% un piatto di pasta). BoIa Secondo la leggenda, il pancarrè che ha portato alla nascita del tramezzino è legato alla storia dell’ultimo boia di Torino, vissuto nella prima metà dell’800. Essendo i boia in odio alla popolazione, tra i panettieri c’era l’abitudine di porgere loro il pane, in segno di disprezzo, al contrario. Il boia, offeso dalla scortesia, si rivolse all’autorità e fece emettere un’ordinanza che vietava ai panettieri di perseverare nella pratica. I panettieri inventarono allora un nuovo tipo di pane, di forma simile a un mattone. Uguale sia sotto che sopra, poteva essere servito al boia capovolto senza che quest’ultimo potesse lamentarsi e segnalare l’accaduto alle autorità.

Perfetto La formula del tramezzino perfetto secondo gli esperti del gruppo inglese Campden and Chorleywood Food Research: 28 grammi di formaggio “cheddar” maturo, 17 grammi di sottaceti, 3 grammi di margarina e pancarrè tagliato spesso da consumare sul divano davanti alla tv.

Mini Il mini tramezzino di Matteo Baronetto, chef stellato del ristorante “Del Cambio”, a base di maionese, mascarpone, prezzemolo, acciughe, capperi e un goccio di panna montata. Il vero segreto, però, è il pane, fatto in casa e lievitato in massa per ben 12 ore. Inoltre, per ottenere un ripieno il più possibile compatto e non far sporcare le mani di chi lo mangia, il suggerimento è mettere della colla di pesce nel ripieno.

Cetriolo La ricetta inglese del tramezzino prevede sempre l’uso del cetriolo.

Consegna Tramezzino.it prepara e consegna a domicilio tramezzini di tutti i tipi: tra i più originali, quello con mortadella al tartufo nero e quello con gorgonzola e mela. InCroCIo Il «trapizzino», incrocio tra pizza e tramezzino inventato dal romano Stefano Callegari. Tra le farciture: pollo alla cacciatora, polpo al sugo, coda alla vaccinara, brasato, polpette al sugo, alici e burrata, zucchine alla scapece e mozzarella di bufala, melanzane alla parmigiana, lingua in salsa verde, salsiccia e broccoli.

Feste Durante le feste a Capri della marchesa Casati, la cocaina si scioglieva nello champagne o si spargeva sui tramezzini. © rIproDuzIone rIservATA

SeTTe | 09— 04.03.2016

65


Giornali Quattroruote ha 60 anni, il ricordo dell’editore Mazzocchi

Crisi o non crisi, l’importante è volare alto archivio quattroruote

Suo padre Gianni inventò il mensile di auto. Lei, Giovanna, editrice, nonna e pilota di aerei, dice: «Teniamo la barra dritta» di Maurizio Donelli

A

lfonso ha solo tre anni e chi non lo conosce può pensare che abbia un po’ troppa fantasia. Perché quel piccoletto potrebbe raccontare una cosa così: «Io e mia sorella siamo andati al mare in Corsica con l’aereo e sai chi guidava l’aereo? La nonna!». Un’innocente bugia? No, la pura verità. Perché quella di Alfonso e di Agata, cinque mesi, non è una nonna qualunque. Ai loro occhi deve apparire come un super eroe con le ali. A quelli di tutti gli altri invece come un super editore che festeggia quest’anno una ricorrenza importante: i sessant’anni di uno dei suoi giornali, il mensile Quattroruote. Ed eccola davanti a noi Giovanna Mazzocchi Bordone, 69 anni, presidente del gruppo editoriale Domus, di cui la figlia Sofia è amministratore delegato. Non un filo di trucco, niente gioielli, sorriso sincero. Il ritratto della concretezza. L’aereo che pilota è un Citation C525, un jet tanto per intenderci, parcheggiato a Linate e sempre pronto al decollo per viaggi di lavoro o di piacere. Il volo nell’editoria lo aveva cominciato suo papà, il leggendario Gianni Mazzocchi, che

Donne al comando Sopra, Gianni Mazzocchi (con la mano alzata). A sinistra, Giovanna Mazzocchi Bordone con la figlia Sofia, amministratore delegato del gruppo.

nel 1929 fondò la casa editrice Domus e diede vita a tante testate tra le quali il Mondo e l’Europeo, poi cedute ad Angelo Rizzoli. Super appassionato di auto, nel 1956 s’inventò, tra lo scetticismo generale, Quattroruote. «Da allora le copie tirate, messe una accanto all’altra, farebbero 2.172 volte la circonferenza della terra» spiega divertita Giovanna Mazzocchi. «I chilometri percorsi nelle prove sono pari a 36,56 volte la tratta Terra/Luna. Il numero dei lettori è uguale agli abitanti di tutte le Americhe (nord,

centro, sud), dell’Europa inclusa la Russia, dell’Oceania, di Algeria, di Tunisia, di Libia e di Egitto. Il peso della carta utilizzata per stampare il giornale è 21,25 volte quello della Tour Eiffel...». Sessant’anni dopo, Quattroruote è ancora vivo e vegeto seppure in un mondo della mobilità completamente trasformato. «Radicalmente direi. Nel ’56 l’auto rispecchiava tutti i valori positivi. Rappresentava la possibilità di muoversi per andare a esplorare l’Italia. Metteva in collegamento il Nord con il Sud. Era bellez-

A Monza, un viaggio nel tempo per parlare dei veicoli del futuro

I

l Serrone della Villa Reale di Monza ospiterà, dal 12 aprile al 12 settembre, la mostra Road to Revolution, realizzata da Quattroruote nell’ambito della XXI Esposizione internazionale della Triennale di Milano dedicata al tema del “design after design”. La mostra, strutturata in una serie d’installazioni, è un viaggio nel tempo che parte dal passato per parlare del futuro dell’auto;

66

sette | 09— 04.03.2016

del futuro come lo s’immaginava già nella prima metà del secolo scorso e di come, invece, lo prefiguriamo oggi, sia dal punto di vista dello stile sia da quello delle tecnologie. Patchwork che si specchiano nel pavimento, filmati e videowall permetteranno ai visitatori di compiere questo cammino, accompagnati dalle immagini e dalle parole di scrittori, artisti, registi e designer.


Mi conviene? Prima guardo Alcune copertine di Quattroruote nei vari decenni. Il mensile è rimasto un punto di riferimento per gli italiani che intendono acquistare o vendere un’auto.

za, potenza. Uno status symbol, indicatore di progresso economico e industriale. Era un mezzo di conquista e con quel mezzo si conquistavano le ragazze. Rispecchiava l’andamento della società insomma. Oggi per molti diciottenni la patente è l’ultimo dei desideri. E sa perché?». Dica. «Perché oggi mantenere un’auto è esageratamente costoso. Occorrono fino a 5-6 mila euro all’anno. E allora si punta su altre priorità. Anche perché con le compagnie low cost si può girare il mondo spendendo meno». Le auto hanno perso fascino. «Beh, anche perché sono tutte uguali, senza personalità. Sono disegnate con il computer. Scontate. Non attraggono più per la loro bellezza». E sono considerate nemiche della società. «Inquinano, è il luogo comune. Ma si tratta di demagogia. Credo non ci sia industria che sia progredita come quella dell’auto nel cercare di abbattere, con successo, le emissioni. Si parla di smog solo in inverno e mai d’estate, perché il vero problema sono gli impianti di riscaldamento, non le auto». Altro scenario aveva davanti suo papà, ai tempi. «Sembrava un visionario. Ma ha avuto una

grande intuizione. Allora le auto non stavano in strada – penso alla Simca – e mancava qualcuno che prendesse per mano gli automobilisti e consigliasse loro il miglior acquisto. Oggi le auto vanno tutte bene, sono sicure. È difficile trovare difetti. L’interesse si è spostato sui gadget tecnologici a cominciare dai sistemi di connettività. Si cerca di personalizzare l’auto il più possibile». Lei avrà vissuto questo cambiamento anche nell’aeronautica. «Verissimo. Ho ancora un monomotore che uso per piacere e per curiosare a volo radente sulle case, scoprire magari chi ha la piscina e chi no, oppure seguo il corso di un fiume. E allora mi diverto. Invece con il jet il volo è, tolti decollo e atterraggio, del tutto strumentale. Meno emozionante». La storia di suo papà, ma anche la sua personale, dimostrano che voi avete sempre azzardato scelte editoriali andando controcorrente. Quanto conta il coraggio nel mestiere di editore? «Non è coraggio. Abbiamo semplicemente sempre creduto nei progetti, è diverso. Io credevo in Meridiani, Volare, Ruoteclassiche, Quattrosoldi... e allora li ho lanciati. E così ha fatto mio padre ai suoi tempi. Se

credi profondamente in un giornale, e trovi la persona giusta che lo realizza, non sbagli. Perché un giornale è figlio del suo direttore. È lui il monarca assoluto. Papà era editore e direttore. Io non ho questa pretesa e questa capacità. Nonostante sia anche giornalista». Crede ancora nel giornale di servizio? «Oggi più di prima. Ma all’interno di un sistema che non può prescindere dal web. Perché il bisogno informativo è cambiato e si è diversificato. È dura soddisfare tutti. Ma è una sfida che stiamo vincendo. Perché siamo un brand di valore e per questo sul web ci distinguiamo». Negli ultimi anni lei ha dovuto reggere a una doppia crisi parallela: quella dell’editoria e quella dell’auto. Roba da stendere un toro. «E invece siamo ancora qui. Certo, anche noi abbiamo dovuto ridimensionarci e riorganizzare l’azienda in un altro modo. Ma la barra è rimasta dritta». Lei è un editore puro. Razza rarissima. Ha mai preso in considerazione un’alleanza? «Francamente no. Anzi, qualche anno fa ho rilevato le quote di mia sorella perché aveva intenzione di cederle e mi ha confessato che c’era già qualcuno pronto ad acquistarle. Lascialo perdere, le compro io, le ho detto». Su quale aeroporto atterrerà prossimamente? «Ho il brevetto da quando avevo 18 anni. Ormai in Europa sono atterrata ovunque. Che ridere: ricordo che la prima volta a Mosca pensavo di aver fatto una specie di record. Poi l’Unione Sovietica si è disgregata e allora ho dovuto ricominciare daccapo: Ucraina, Bielorussia, Moldavia... Ho finito con quell’area del pianeta, mi sono detta. Ma un giorno, mentre in televisione stavo guardando i campionati europei di sollevamento pesi, hanno presentato un atleta dell’Azerbaijan. Baku, la capitale, mi mancava. Ma ora, con un po’ di orgoglio, posso raccontare ad Alfonso e Agata che la loro nonna è atterrata anche lì». © riproduzione riservata

sette | 09— 04.03.2016

67


I grandi marchi italiani - seconda serie / 36 Tasca conti d’Almerita

Quei “separatisti” siculi nel Pantheon di Indro

Bisnonno e nonno legati alla tradizione. I nipoti votati allo sviluppo innovativo. Tra generazioni opposte (e un po’ litigarelle), che attirarono l’attenzione di Montanelli, la casata conta ora 430 ettari e 32 etichette di Enrico Mannucci

U

na volta, finì addirittura nei cruciverba della Settimana Enigmistica. «Storico territorio siciliano vocato al vino», recitava la domanda. «Regaleali», era la risposta giusta, al 53 orizzontale. Con quel nome, che figurerebbe bene nelle pagine dei Viceré di De Roberto, a Regaleali si arriva attraversando un paesaggio senza particolari pregi. Brullo. Rare le case: i contadini vivevano – e vivono – raccolti nei paesi in cima ai cocuzzoli. Siamo al confine fra le provincie di Palermo e Caltanissetta, nella cosiddetta contea di Sclafani. A sud est di Valledolmo, cambia tutto. Si entra in una specie di oasi. Boschetti, campi e vigneti (ma un tempo qui era tutto frumento: il granaio dell’Impero Romano). In mezzo, sentieri e stradine a salire e scendere colline che vanno dai 4 ai 900 metri sul livello del mare (da queste parti, non arriva la torrida estate siciliana).

Il nome Regaleali, probabilmente, deriva dall’arabo: Rahl Alì, ovvero dominio di Alì. Nella tenuta ci sono due grandi masserie: ampie strutture a quadrilatero, la corte centrale si chiama “baglio”, e su questa affacciano la residenza padronale e le abitazioni di operai, fabbri e mugnai, le mura alte e spesse (tipiche dell’entroterra siciliano, a differenza della costa, in modo da creare una specie di fortezza contro i briganti). Wagner in villa. Intorno – quando i con-

ti Tasca d’Almerita (radici nei Nebrodi, a Mistretta, altre proprietà ad Angimbè) la comprarono da Alvarez de Toledo, nel 1830 – c’erano 1.200 ettari, prevalentemente coltivati a cereali, tranne una trentina con dei vigneti e alberi da frutta, il cosiddetto “girato” – corrispondente al francese “clos” – cinto da muri a secco. I due fratelli Tasca si spartirono le masserie. A don Lu-

cio toccò Case Grandi, a don Carmelo Case Vecchie. Fu un buon anno per il casato, il 1830. Grazie al matrimonio di Lucio con Beatrice Lanza Branciforti, arrivò anche la splendida villa Camastra, all’epoca, poco fuori dalle mura di Palermo, oggi nota come villa Tasca (ospitò Richard Wagner che completò lì la stesura del Parsifal). I primi vigneti, i Tasca li piantarono proprio nella tenuta palermitana, ma con il tempo la loro fama enologica – da protagonisti della riscossa del vino siciliano – si sarebbe inesorabilmente legata a Regaleali. Questa è una storia che comincia col ’900, con Lucio, bisnonno della generazione attuale, cioè di Giuseppe e Alberto, rispettivamente classe 1963 e 1971, che oggi guidano anche altre quattro tenute per complessivi 430 ettari coltivati a vite: Tascante (sull’Etna), Capofaro (nell’isola di Salina), Sallier de la Tour a Monreale e Whitaker nell’Isola di Mozia. Don Lucio,

1

68

SETTE | 09— 04.03.2016

Tenuta dimezzata dalla riforma agraria 1 - La tenuta Capofaro sull’isola di Salina (Messina). 2 - Le cantine di Regaleali. 3 -Bottiglie di Chardonnay prodotte dai Tasca conti d’Almerita.


1

2

In piedi dall’alba 1 - Uva prodotta dai vitigni dei Tasca. 2 -Giuseppe Tasca negli anni Trenta. 3 - Lucio Tasca (in mezzo) con i figli Giuseppe e Alberto. 4 - Immagine storica del lavoro nei campi dell’azienda di famiglia.

4

3

2

ormai anziano, è stato descritto da Indro Montanelli in un capitolo di Pantheon minore (Longanesi; 1950): «In piedi all’alba e instancabile fino al tramonto nonostante i settanta suonati, magro, adusto, energico e volitivo». Un tipo deciso e appassionato: sarà sempre sensibile al tema dell’indipendentismo siciliano. Già nel 1920, è lui a diffondere un manifesto in questo senso, usando come firma un fantomatico “Comitato degli isolani”. Gli alleati, dopo lo sbarco in Sicilia, lo nominano sindaco di Palermo il 27 settembre 1943. Si dovrà dimettere un anno dopo, il 6 settembre 1944, con le prime elezioni democratiche, non senza aver avuto occasione di incontrare una missione sovietica capeggiata da Andrej Vishinskij, il cosiddetto “martello di Stalin”. Il quale gli chiede se davvero i siciliani vogliono creare uno stato sovra-

no provvisto di esercito «e di cannoni». La risposta di Tasca è secca e repentina: «Certamente di cannoni! Ma tutti sulla costa dello stretto di Messina per difenderci dalla penisola...». Del resto, anche negli anni successivi, il conte sarà sensibile al movimento separatista, spesso coinvolto nelle tortuose manovre del Mis di Finocchiaro Aprile e dell’Evis, il braccio armato del movimento. Quando queste vicende sono ormai sullo sfondo, ne riparla con Montanelli che, sul tema, è stato assai ostile. Indro riferisce la frase di Tasca: «L’Italia è molto lontana da qui: solo per via radio ci giunge la sua voce, la sua roca voce di protesta e di minaccia contro di me, latifondista, protettore e impresario di briganti, nonché affamatore di contadini. E allora il separatismo mi parve...», la frase resta incompiuta. In

3

Al conte capitò di ritrovare a New York un’antica bottiglia di vino prodotto a villa Camastra: il suo sogno divenne quello di creare un “cru” del livello dei marchi francesi

famiglia Tasca d’Almerita c’è una tradizione: nonni e nipoti vanno d’accordo, padri e figli, invece, bisticciano. La norma prevede, è ovvio, delle eccezioni, ma quando vale si manifesta nei campi più diversi: dalle scelte vinicole al comportamento in situazioni di drammatica emergenza. Eccezione è il rapporto fra Lucio e il figlio Giuseppe sul piano politico: il giovanotto è ben coinvolto nelle manovre separatiste del dopoguerra. Meglio autoctoni. Presto, comunque, si trova a gestire (anche grazie all’aiuto finanziario della consorte, Franca, una borghese abbiente di Corleone) le proprietà ancora molto rivolte ai cereali: tuttora, sulla facciata di Casa Grande è fissata la targa meritata per i successi nella “Battaglia del grano” del 1935. A metà degli anni Cinquanta, Giuseppe vuole cambiare molte cose, innova, sperimenta. Soprattutto, si appassiona al vino. La tenuta è stata più che dimezzata dalla riforma agraria, ma nei 500 ettari rimasti, le viti cominciano a espandersi. Anni dopo, questa mutazione verrà ricostruita da Luigi Veronelli in I vignaioli storici (Nichi Stefi editore; 1986): «Oggi Giuseppe Tasca d’Almerita non vuole che il suo vino, di cui ha scoperto stoffa e potenzialità, esca sfuso e anonimo come usava quando prese in mano le redini dell’azienda: applica tecniche vitivinicole di puntuale attenzione, si appoggia a tecnici, famosi e capaci, e adotta vitigni nuovi, come il nerello mascalese e il sauvignon, piantandoli a fianco agli inzolia SETTE | 09— 04.03.2016

69


1

2

Nelle antiche masserie 1 - La masseria di Case Grandi. 2 - Trasporto via mare dell’uva raccolta sull’Isola di Mozia. 3 - Immagine storica della fase d’imbottigliamento gestita nelle aziende della famiglia Tasca. 4 - Una bottiglia di Rosso del Conte, della contea di Sclafani.

3

e catarratto della tradizione, col preciso proposito di ottenere il “gran vino di Sicilia”». Il destino pare spingerlo in questa direzione. Gli capita di ritrovare a New York un’antica bottiglia del vino prodotto a villa Camastra. Il suo sogno diviene quello di creare un “cru” capace di rivaleggiare con le più celebri etichette francesi, tipo Romanée Conti, e per questo punta con decisione sui vitigni autoctoni, anche i più dimenticati. Così, nel 1970, darà vita alla Riserva del Conte: da un alberello – chiamato San Lucio – di Perricone e Nero d’Avola. Sequestro di persona fallito. La tradizione Tasca della sintonia che salta una generazione, qui si manifesterà appieno. Intanto, però, non succede con il vino. La contingenza è molto più drammatica. Una banda – non dev’esser stata troppo esperta – assalta Regaleali per sequestrare Lucio, il patriarca. Si trova anche un ragazzino di mezzo: è Lucio junior, il nipote, figlio di Giuseppe. Luciddu, come fa di soprannome, è curioso e coraggioso. S’intromette, domanda che cosa succede, proclama deciso che con il nonno viene anche lui. I rapitori vengono presi in contropiede, la situazione si complica per loro: il ricatto si sgonfierà senza conseguenze gravi. Tornando in campo enologico, invece, la sintonia sarà meno forte – per usare un eufemismo – fra Lucio e il padre Giuseppe. Qui, ormai, siamo agli anni Sessanta e oltre. Il capofamiglia, si è detto, è tradizionalista, semmai punta a recuperare 70

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

vini siciliani dimenticati. Il figlio vuole innovare, competere con i vitigni internazionali. Qui le versioni divergono un po’. Una ricostruisce un contrasto duro. Lucio porta di nascosto a Regaleali barbatelle di cabernet e chardonnay, le pianta e arriva a produrre dei vini, sempre in gran segreto. Quando li presenta al padre, questi si arrabbia talmente da chiudersi in villa per una settimana. «No, non andò così. Discutevamo spesso, ma su altre cose...», corregge oggi Lucio, che spiega: «Mio padre, sicuramente, non introduceva vini nuovi, ma a fine Sessanta decise di imbottigliare quelli che produceva e cominciai a lavorare con lui: li vendevo e tenevo i conti; detto per inciso, la parola “lire” era bandita, non mi dava nulla... A lui, comunque, bastavano i vini che adorava. Io ero innovativo: porterò in azienda il primo pc, sarò il primo a sperimentare un barrique... Certo, solo grazie all’intervento di mia madre, mio padre mi affidò mezzo ettaro di terreno, comprai 200 piante di vitigni francesi (chardonnay, sauvignon blanc, cabernet, pinot nero) e li piantai lì. Tre anni dopo feci il primo vino: quattro damigiane. Ma non è vero che mio padre se la prese a morte. È vero, invece, che s’incavolò con me quando chiusi con l’equitazione. Alle Olimpiadi del 1960 mi ero piazzato dodicesimo

nel “Concorso completo”, il primo degli italiani. Lui sperava vincessi le Olimpiadi successive. Io, al contrario, con i cavalli cominciai a sentirmi una persona inutile e mi ritirai. Ed è vero anche che voleva facessi il bancario dopo essermi laureato in economia e commercio, mentre io non ci pensai proprio. Però abbiamo avuto anche momenti di grande empatia. A ricordarne uno mi commuovo ancora: senza che l’avesse mai dichiarato, sentii che avrebbe tenuto moltissimo a diventare Cavaliere del lavoro. E compresi di aver avuto ragione quando l’anno dopo la nomina arrivò». Sarebbero arrivati anche tanti altri riconoscimenti in campo enologico. Oggi, i Tasca producono 32 etichette diverse provenienti da 42 vitigni. «La nostra “mission” è condividere quello che abbiamo conosciuto e scoperto nei vari territori: varietà di cibo e facce, tradizioni, persone e culture. Il punto di riferimento è quello, più che le varietà, sia autoctone che internazionali», spiegano Alberto e Giuseppe, raccontando anche della vigna organizzata assieme alla Regione Sicilia dove si curano le “varietà reliquie”, visto che Regaleali – grazie alle sue variabili di suolo, altitudine ed esposizione – è un vero e proprio laboratorio vitivinicolo. Tanto che, alludendo ai celebrati “Supertuscan”, fra gli enologi è invalso il vezzo di parlare dei “Supertasca”. © RIPRODUZIONE RISERVATA

4

Oggi i Tasca propongono prodotti provenienti da 42 vitigni. «Ma la nostra “mission” è condividere ciò che abbiamo scoperto nei vari territori: tradizioni e culture»


Il mio eroe / di Salvatore Giannella

@SGiannella

Piero Gobetti, ispirazione per i giovani

«Dedicò la sua breve vita alla giustizia e all’intelligenza», dice Evelina Christillin, «oggi mi ricorda Giulio Regeni»

GIACOMO GIANNELLA / STREAMCOLORS

S

ignora Christillin, le presidenze del Museo Egizio a Torino e dell’Enit (l’Ente nazionale per il turismo) le comportano un frenetico pendolarismo tra Torino e Roma e tra vari settori della vita civile. Si fermi un attimo e rifletta ad alta voce sulla figura che le è stata da faro. «È una riflessione che scaturisce dalla lettura dei quotidiani. Essendo io torinese e cadendo in questi giorni il 90° anniversario della morte le dico: il torinese Piero Gobetti. Un nome che mi viene rafforzato dalle cronache sull’uccisione di Giulio Regeni, perché nella storia di quel giovane italiano andato in Egitto a studiare e difendere sindacati e operai, vedo tanta cultura gobettiana. Piero è stato un ragazzo che ha dedicato la propria vita alla formazione, alla giustizia e all’intelligenza, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle violenze fasciste, ne provocassero la morte a soli 24 anni, durante l’esilio francese. Sembra incredibile che abbia potuto concentrare in pochi anni una crescita culturale e politica così alta. E pensare che veniva da una condizione familiare povera. Era figlio unico di due piccoli commercianti piemontesi di Andezeno poi trasferitisi a Torino dove avevano aperto una drogheria. Ha lasciato scritto: “Mio padre e mia madre lavoravano 18 ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante…

Radice comune In alto, Evelina Christillin (Torino, 1955). Sotto, Piero Gobetti (Torino, 1901-Neully-sur-Seine, 1926).

pensavano di dovermi dare un’istruzione, quella che essi non avevano potuto avere”. Lui ce la mette tutta, è bravissimo, comincia addirittura a 17 anni a fare l’editore, frequenta il liceo classico Gioberti (lo stesso frequentato da me, con il D’Azeglio e il Cavour sono tre licei torinesi che hanno sfornato i cervelli dell’Illuminismo piemontese, da Bobbio a Galante Garrone), aveva un prof splendido, Umberto Cosmo. Comincia a confrontarsi con grandi pensatori come Prezzolini, Luigi Einaudi e Salvemini, Gramsci e Togliatti. Ha come bussola la difesa dei lavoratori. Anche durante i disordini a Torino nel 1920 si è schierato con i lavoratori, in base ai princìpi espressi in Rivoluzione liberale, il secondo giornale che lui pubblicò dopo Energie nove, manifesto dell’allora meglio gioventù». Quando ha incontrato le idee di Gobetti? Sui banchi del liceo, immagino… «L’ho incontrato prima. Il Centro Studi Gobetti ha sede in via Fabro a Torino, in un edificio di proprietà di mia nonna paterna alla quale pagavano un affitto simbolico. In quell’edificio sono stata più volte da bambina e mi era diventata familiare quella targa del Centro Gobetti. Così dalla curiosità sono passata ad approfondire la storia della vita di Piero, ricca di maturità e di abnegazione in un periodo ristretto di anni che ne fa un’eccezione simbolica per tutti i giovani di ogni tempo».

di Simone Fanti

La “Guida” per pellegrini con disabilità Pietro Scidurlo, dopo Santiago, parte per la Via Francigena. Per scovare ostacoli e trovare il modo di eliminarli

Oltre 700 chilometri da completare in 15 giorni a forza di braccia. Il percorso è quello della via Francigena che dal colle del Gran San Bernardo portava i pellegrini fino a Roma. Il mezzo di trasporto è una handbike, sedia a rotelle sportiva spinta, appunto, con le braccia. Il protagonista di questa avventura è Pietro Scidurlo, 37 anni, una delle prime persone con paraplegia ad aver completato il cammino di Santiago in Spagna. Dalla mappatura del tracciato è nata la Guida al Cammino di Santiago per tutti edita da Terre di mezzo. Per questa impresa, il varesino partirà da Somma Lombardo, dove vive, il 28 di marzo e arriverà a Roma il 10 aprile. Lungo il “cammino”,

quasi ogni sera sarà dedicata a incontri con operatori del territorio, politici ed esperti per parlare di accessibilità, accoglienza turistica e cultura della disabilità. L’itinerario è la prima parte di un progetto di mappatura dei tracciati e valutazione dell’accoglienza. «Free Wheels onlus», spiega Scidurlo fondatore dell’associazione, «punta a suggerire soluzioni alle difficoltà che si incontrano nei lunghi cammini, adatte a chi ha esigenze speciali: disabili motori, sensoriali, cognitivi. E per persone soggette a dialisi, celiaci, diabetici gravi. Ma anche vegani e persone con figli in tenera età». Il prossimo anno il viaggio sarà prolungato lungo tutta la via Francigena. © riProduzione riSerVata

SEttE | 09— 04.03.2016

71



MODA

Sette Stili di vita MILANO MODA DONNA — Vagabonde,

MODA UOMO — Veleggiando verso

regali e governative: ecco le sfilate made in Italy tenute a battesimo da Renzi.

74

l’estate. Con tutte le sfumature del mare, anche per gli accessori.

Emilio Pucci

76

A Parigi, su una passerella da chef. Tutti a tavola con le ricette di Monsieur Dior, là dove nacque il New Look

SE ROSSINI E DIOR si fossero incon-

trati sarebbero divenuti amici inseparabili. Parigini d’elezione, uomini di cultura e di stile avrebbero avuto in comune anche la passione per la cucina. Due gourmet eccellenti, Rossini cuoco provetto, Dior golosissimo. Quest’ultimo, però, le prelibatezze non le gustava ovunque: luogo d’elezione era l’Hotel Plaza Athénée, a un soffio dal 30 di Avenue Montaigne, l’indirizzo del suo atelier. Per Dior il Plaza, non era un hotel, ma un simbolo: la storica collezione del 1947, il New Look, sfilò due modelli, Plaza e Bar, entrambi legati all’alcova del gusto di Monsieur (nel disegno: il Plaza Athénée e, sulla destra, il tailleur Bar). Non si poteva certo, nel momento dell’apoteosi dei menu stellati, prescindere da una così gloriosa tradizione. Il Plaza ha scelto di offrire, ma solo durante le fashion week parigine di pret-à-porter (ora in corso sino al 9 marzo; modeaparis.com) e d’haute coututre, un menu legato al mondo Dior e al suo libro di ricette Cuisine Cousu-Main. Lo chef Philippe Marc – supervisione di Alain Ducasse – ha dato vita a un “cahier gourmand” (a lato uno dei piatti), da scoprire alla brasserie Le Relais Plaza. Irrinunciabili manicaretti di stile. Gian Luca Bauzano © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

73


Stili di vita Milano Moda Donna Inverno 2017 / a cura di Gian Luca Bauzano PRADA

TOD’S

Qualche riflessione bordo passerella.

Puntati i riflettori su una situazione da ripensare. Milano brinda al made in Italy, ma medita anche su come organizzare il domani

M

omento di riflessione e analisi. La fashion week milanese nei suoi primi giorni con tal sentimento ha preso avvio (Sette dedicherà a Milano Moda Donna un servizio sul numero dell’11 marzo). Gran cassa di risonanza con l’arrivo a Milano del premier Renzi per tagliare - prima volta che avviene - il nastro di partenza della kermesse con colazione a Palazzo Reale alla presenza del gotha degli stilisti italici; occasione durante la quale il Sindaco milanese Pisapia dichiara di comprendere appieno l’importanza della moda, per la città, per il Paese... Nel frattempo da Londra lanciato il grido di battaglia: visto in passerella subito comprato e indossato; Milano risponde più cautamente e gioca di sponda: si, certo, va bene. Però partiamo con gli accessori. Più semplice il meccanismo di produzione e

vendita. Sullo sfilato e venduto: il caso di aspettare. Anche perché come lo scardini al volo un Sistema produttivo come il nostro e poi come lo rimetti in moto? Vien da dire un salto nell’iperspazio... Ma la galassia che trovi al di là? Si riflette sul da farsi. Nei dietro le quinte, pre sfilata, aleggia l’umore di voler tornare alla più rigida divisione dei ruoli: bimbe con le bimbe e bimbi con i bimbi. Ognuno sfili per sé. Lo dice Miuccia Prada, e poi porta in pedana la figura della donna vagabonda. Forse traducibile in un errare alla ricerca di se stessi e di qualcosa di nuovo che ne soddisfi vanità e condizione. Dal canto suo Massimo Giorgetti per Emilio Pucci guarda all’heritage del fiorentin marchese, al debutto sulle piste da sci alla fine degli anni Quaranta; lo rilegge e nel contempo indica la necessità di un meno frettoloso e onnivoro consumo – attraverso social

DA CAPO A PIÉ: LEGGEREZZA E ROBUSTEZZA

Hogan 74

SOLIDITÀ E TRASPARENZE. Sulla carta la stagione è quella invernale. Ma non è più definita, lo si sa. Inno di battaglia, convivere. Sempre più. Così scarpe robuste di ascendenza maschile, dalla suola importante dialogano amichevolmente con silhouette in punta, capaci di valorizzare piede e caviglia. Se il tacco non fa rima con stiletto è importante e architettonico. I materiali sono abbinati, preziosi i pellami e colorati. E ciò vale anche per le borse. Leggere e molto capienti, di grande carattere. Imponenti all’apparenza, ma servizievoli.

SETTE | 09— 04.03.2016

Le Silla

Gherardini

Bianchi e Nardi 1946 Casadei

Church’s


MESSER BRUNELLO ALLA CORTE DI RE SOLE

Versailles si mette in cashmere

R

GUCCI

EMILIO PUCCI

iflettori puntati sulle passerelle, rutilante mondo della moda. Vecchia e vetusta storia. C’è molto altro che va al di là del prodotto finale. In special modo se si tratta del lusso. Accusato di essere troppo caro. «L’accento va posto più che sul prezzo finale, sul costo intrinseco di ciò che si produce. Costo legato allo sforzo creativo e nella scelta accurata dei materiali. Ma anche etico e sostenibile. Ecco chiarito e spiegato il valore e il contenuto. Ciò che fa unico e ambito il lusso italico». Giusta osservazione di messer Brunello Cucinelli, in (quasi) partenza per la corte di Re Sole. Sarà tra i protagonisti dell’attesa Conferenza internazionale sul lusso, organizzata in quel di Versailles dal New York Times e coordinata dalla sua fashion director Vanessa Friedman (4-6

aprile; luxurybeyondproduct.com). Titolo: Luxury beyond product. Una teoria di imprenditori internazionali che parleranno di ciò che va al di là del mero concetto di lusso. L’esempio di messer Brunello è sinonimo di un lusso sostenibile, attività proiettata alla salvaguardia e sostenibilità dell’ambiente, quello legato al borgo quartier generale di Solomeo. Il cuore del filosofo del cashmere è palpitante di passione per il proprio lavoro. Rosso passione, colore che domina la sua collezione donna inverno 2017 (sotto, al centro Cucinelli tra le modelle durante la presentazione a Milano). Pennellata di colore energico, segnale importante, all’interno di capi dall’ascendenza british, apoteosi di capisapalla, dai capotti (al centro) alle giacche. Simbolo di international GentleWoman.

e piattaforme digitali – della moda. Artigianalità: fondamentale. L’artista Vanessa Beecroft la mette in scena per Tod’s. Pelli pregiate. «L’artigianalità va tramandata ai giovani. Il nostro tesoro», afferma il patron del Gruppo Diego Della Valle. Basi e creatività le abbiamo. Giunta forse l’ora di una “conferenza” globalizzata, dove invece di rimescolare le carte, le si rimetta ai giusti posti. Noi ci si aggiudichi una scala reale vincente.

Alviero Martini

Orciani

10x10 Anitaliantheory Baldinini

Santoni

Elena Ghisellini

Ballin Alberto Guardiani Harmont & Blaine

© RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

75


Stili di vita Moda Uomo BEAUTY

Veleggiando verso l’estate. Con indosso tutte le sfumature del mare, anche per gli accessori

Aspettando Rio, siamo tutti sportivi

1

T

A sinistra, dall’alto: Legno Marino parfum deodorante, Bottega Verde (14,99 euro); Assenzio shampoo doccia, L’Erbolario (11 euro); Eau de Raisin Bio, Caudalie (6,70 euro).

76

SETTE | 09— 04.03.2016

1 Cappellino 100% cotone, logo tartaruga ricamato su visiera e finiture in pelle e cinghietta regolabile posteriore, Vilebrequin (55 euro). 2 Cronografo Stealth 300 metri, con cassa in accaio e titanio, rivestita in Pvd Gun, pulsanti a vite, cinturino in silicone anallergico, Locman (660 euro). 3 Maglia GD Hoodie full zip con cappuccio in jersey di cotone tinto capo, tasche frontali, cappuccio con coulisse. Vestibilità regolare, Woolrich (149 euro). 4 Zaino in tessuto tecnico bicolore, chiusura dall’alto e spallacci imbottiti e regolabili, North Sails (250 euro). 5 Polo multicolor a righe in

OLYCOM

La bellezza scende in gara. Merito anche delle Olimpiadi Di Rio de Janeiro 2016, ma soprattutto di un cambio di tendenza: gli sportivi ora sono veri e propri sex symbol, invidiati (e imitati )dagli uomini , ammirati (e sognati ) dalle donne. Perché come sottolinea Alberto Noé, Presidente Shiseido Italia, vivere lo sport significa anche vivere la bellezza. Il marchio Giapponese ha scelto cinque campioni, cinque discipline e un unico obbiettivo: raccontare l’eccellenza e la scientificità dei prodotti attraverso un linguaggio universale, la bellezza appunto. Alex Giorgetti (sotto), campione di pallanuoto è un esempio: energia e controllo sono nel suo Dna, caratteristiche che contraddistinguono la linea cosmetica Shiseido Men. Filippo Magnini (in alto), il miglior stileliberista italiano, partecipa con la fidanzata, Federica Pellegrini, alla campagna Head&Shoulders Apple Fresh, per capelli profumati con un aspetto naturale. Cristina Milanesi

essuti tecnici e leggeri sono perfetti per chi sceglie una gita in barca. E se il tempo regala qualche folata di vento in più, ottimo il piumino impunturato da sovrapporre alla maglia in jersey di cotone con cappuccio.

Principe delle onde Appassionato di vela, Pierre Casiraghi (qui sopra, al Rolex Trophy Portofino 2013) ha fatto parte del team di Maserati, imbarcazione guidata dallo skipper Giovanni Soldini.

Fitness Apple Watch Sport Smartwatch con cassa in alluminio anodizzato da 38 o 42 mm in quattro finiture, display Retina con vetro Ion-X rinforzato, cinturino in fluoroelastomero in diversi colori (da 419 euro, apple.com/it).

Garmin Fe−nix 3 Sapphire Hr Sportwatch Gps con lente in zaffiro antigraffio, rilevazione della frequenza cardiaca al polso, Smart Notification e connettività wireless Bluetooth (600 euro, garmin.com/it).


Alessandro Calascibetta

EN VOGUE

Riconfermati i fiori, tornano gli Anni 50

2

3

5

8

4

6

7

9

cotone stretch con logo ricamato, Marina Militare Sportswear (79 euro). 6 Pantalone skinny fit lungo in denim beige con cinque tasche. Apertura frontale con bottone e zip, Sisley (49,95 euro). 7 Piumino slim in tessuto tecnico impunturato a coste blu navy, Erreà Republic (64,90 euro). 8 Mocassino scamosciato bluette con

I

l trend è stato lanciato oramai un bel po’ di anni fa da Prada, Dolce & Gabbana e Valentino: le stampe floreali. La lunga scia creata dalle tendenze più forti – che normalmente resta in vita per almeno quattro anni buoni – riconferma il flower power anche per la stagione primavera/estate in arrivo. I disegni sono meno vistosi, giocati più sul tono su tono che sul contrasto vivace, e lo styling che consiglio (adatto ad un uomo al di sotto dei 30 anni), è quello che vedete nella foto. In altre parole, le fantasie vanno abbinate a capospalla e pantaloni in tinta unita, in tinte neutre o scure. Un grooming ben studiato, ciuffo verso l’alto e pettinato comme il faut, regalerà un’aria vagamente retrò che rimanda agli Anni Cinquanta. Un po’ alla Elvis Presley.

10

laccio davanti e suola gommini, Car Shoe (295 euro). 9 Slip-on in pelle traforata con fondo pari in gomma, CafèNoir (125 euro). 10 Slip-on in pelle scamosciata con finitura in tessuto sul bordo della suola con cucitura a vista e suola in gomma a cassetta con grip antiscivolo, FRAU Verona (55 euro). Styling Elena Formenti

Foto di Giovanni Gastel per Style. Giubbotto Malo, camicia Valentino. di Andrea Milanesi

Polar A360 Fitness tracker impermeabile con lettura ottica frequenza cardiaca, monitoraggio dati attività fisica e analisi sonno, App Polar Flow (iOS e Android), funzioni smartwatch (200 euro, polar.com/it).

Suunto Kailash Copper Orologio con ghiera in titanio e vetro in cristallo zaffiro, aggiornamento automatico di ora e posizione tramite Gps, telefonate, messaggi e notifiche push (900 euro, suunto.com/it).

Tomtom / Spark Cardio + Music Orologio con funzionalità MultiSport, sensore Gps, lettore musicale integrato, memoria 3 Gb, rilevazione frequenza cardiaca al polso, connessione Bluetooth (249 euro, tomtom.com). © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

77



scuola / MusIca / televIsIone / lIbrI / arte / MeDIcIna / benessere

Sette Piaceri&Saperi CINEMA — Bergamo intitola

una retrospettiva ad Anna Karina (foto), musa di Godard.

TEMPO AL TEMPO — Showcooking, incontri letterari ed enogastronomici: tre giorni di buon cibo a Milano.

VIAGGI — Per un anno Toledo (foto)

80

92

96

sarà capitale del food e intanto Venezia ricorda il ghetto sorto nel 1516.

Milano dedica tre giorni agli antichi volumi. Edizioni di pregio, incunaboli, e libri miniati. Da guardare o acquistare

Un rAro IncUnAbolo fIGUrAto del 1497 contenente i Trionfi e

il Canzoniere di Francesco Petrarca (nella foto). La prima edizione del 1809 dell’orazione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura di Ugo Foscolo. O ancora, il celebre Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile dell’Abate di Saint-Non, un capolavoro tra i libri illustrati del Settecento francese. Sono alcuni dei testi più particolari e preziosi esposti alla Mostra Internazionale Libri antichi e di pregio a Milano (Salone dei Tessuti, dall’11 al 13 marzo; eventi.alai.it) il più importante evento del

mercato librario d’antiquariato in Italia che riunisce oltre 30 librerie antiquarie italiane e internazionali. C’è spazio per tutti i gusti – libri miniati, incunaboli, documenti rari ed edizioni di pregio contemporanee – e per tutte le tasche, dato che i prezzi partono da meno di cento euro e arrivano ad alcune decine di migliaia. Affianca la mostra un ricco programma di conferenze e incontri, tra i quali Geografia reale e mondi fantastici: libri e sogni all’epoca di Bosch con Stefano Zuffi e Le peripezie dei codici di Leonardo Da Vinci con Marco Carminati. Micaela De Medici

Usi&Abusi di Maurizio Cucchi

Il Papa rischia il rosso per l’entrata a gamba tesa

F

rasi come «il ministro è entrato a gamba tesa» sono sempre più frequenti, come se il modo migliore per esprimere le vicende dell’esistenza fosse mutuabile dal linguaggio del calcio. come se il calcio fosse il paradigma ideale, lo schema metaforico dello stare al mondo. e troviamo altre formule e parole, tipo “fuori gioco”, “cate-

naccio”, “autorete”, “scendere in campo” ecc. magari usate anche da chi non sa niente di calcio, e quindi ignora il senso letterale di ciò che dice. Del resto il comune parlare è sempre più una specie di delirio metaforico. Di recente ho letto di un’entrata di «papa Francesco a gamba tesa sulle elezioni usa». sarà stato espulso? tra

l’altro, Gambatesa è un comune del Molise, che potrebbe opporsi all’uso impoprio del suo nome. Meglio tornare al normale concetto di aggressività, e visto che sono partito dalla politica, cito cavour: «dopo il congresso di Parigi la nostra politica non mutò. non divenne né aggressiva, né provocatrice». non entrò ... a gamba tesa. © riproduzione riservata

SETTE | 09— 04.03.2016

79


Piaceri&Saperi Cinema / di Paolo Mereghetti

Anna Karina, da Godard a Bergamo

Musa del regista francese, la “signorina gioventù” lavorò anche con Rivette, Visconti e Fassbinder. Dall’11, una retrospettiva

I

l nome gliel’ha dato Coco Chanel, il battesimo al cinema l’ha officiato Jean-Luc Godard di cui è stata anche moglie dal 1961 al ’68, poi ha recitato – tra gli altri – per Rivette, Visconti, Brusati, Tony Richardson e Fassbinder: mi sembra che ci sia più di una ragione per non perdere l’omaggio-retrospettiva ad Anna Karina che le dedica il Bergamo film meeting (bergamofilmmeeting.it). Questo festival, che quest’anno si svolgerà dal 5 al 13 marzo, si è conquistato negli anni un ruolo di tutto rispetto nel panorama cinematografico per la sua determinazione nel voler mettere a confronto le tendenze più stimolanti del cinema contemporaneo con i generi e gli autori di quello del passato. Senza dimenticare l’attività del suo «braccio operativo», Lab 80, che s’incarica di dare una vita (distribuendoli) ad alcuni dei film visti al festival (il prossimo sarà La canzone perduta). Per questa edizione il Bfm presenta sette lungometraggi di nuovi autori tra cui il pubblico premierà il proprio preferito, una quindicina di documentari scelti tra il meglio del panorama internazionale, un viaggio nel cinema europeo alla ricerca delle opere più significative della produzione indipendente, due incontri sui rapporti tra cinema e arte contemporanea (che vedranno la proiezione delle opere del lituano Deimantas Narkevicius e dell’israeliana Keren Cytter), workshop seminari e incontri indirizzati ai giovani e, last but not least, due retrospettive dedicate a Miklós Jancsó e, appunto, Anna Karina.

Nata Hanne-Karine Blarke Bayer a Copenaghen nel 1940, figlia di un capitano di lungo corso che abbandonò la famiglia quando lei aveva quattro anni e di una mamma direttrice di un grande magazzino di abiti che si risposò un paio di volte, la giovane danese lascia la sua città a 18 anni per trasferirsi a Parigi dove viene notata, seduta ai Deux Magot, da una fotografa che la convince a posare per Balmain. La copertina

Le recensioni / di Claudio Carabba

FUOCAMMARE di Gianfranco Rosi con Samuele Puccillo, Mattias Cucina, Pietro Bartolo

80

SETTE | 09— 04.03.2016

Ma spogliarsi no Sopra, una scena del film Pierrot le fou, con Anna Karina. In alto, l’attrice danese nella pellicola Vivre sa vie.

Lampedusa e le storie minime. Gianfranco Rosi come Rossellini

L’isola è lontana e sola; il mare d’inverno è cupo. I giorni sembrano passare uguali e fissi. Il viaggio dei migranti disperati spesso finisce qui, su queste spiagge su cui si compie ogni destino. Rosi si è fermato per un anno a Lampedusa e la narra con lo sguardo di un bambino, che ama giocare con la fionda. Di qua la vita quotidiana con il suo lento procedere. Dall’altra le voci d’allarme e di morte che arrivano via radio nella notte. Orso d’oro a Berlino, il film suscita perplessità negli scettici; i giurati si sono lasciati prendere dall’urgenza del tema. A parte che questo non è certo un difetto, in Fuocammare contano l’ispirazione e lo stile. Come già aveva fatto girando per il raccordo anulare di Roma (Gra, Leone d’oro 2013) il regista costruisce un racconto dal vero attraverso le avventure, anche minime, dei personaggi. Torna in mente il ragazzino che passeggia fra le macerie in Germania anno zero di Rossellini. La tensione di un cinema che cerca di andare oltre, senza vincoli.


Scuola / di Giovanni Pacchiano giovanni.pacchiano@alice.it

Che Italia trasformista Per Manzoni, guerra e fede ci differenziano dalla Spagna di Elle la fa conoscere sia a Coco Chanel (che le proporrà di chiamarsi Anna Carina, poi cambiato in Anna Karina dall’interessata) sia a Godard che le offre una piccola parte in Fino all’ultimo respiro, rifiutato perché avrebbe dovuto spogliarsi. Ma il regista non si arrende: torna alla carica per il suo secondo film, Le petit soldat, e una sera, durante le riprese in Svizzera, le fa avere sotto il tavolo un tovagliolo di carta su cui c’è scritto: «Je vous aime. Vi aspetto a mezzanotte al Café de la Paix». Lei molla il fidanzato, si presenta all’appuntamento e inizia una delle storie d’amore più rappresentative della Nouvelle Vague: il giovane cineasta di successo che trova la sua musa nella ragazza che i giornali hanno chiamato “Mademoiselle Jeunesse”, signorina gioventù. Le petit soldat, che parla della guerra d’Algeria, avrà molti problemi con la censura (bloccato per due anni, uscirà solo nel 1963) ma la carriera di Anna Karina è ormai esplosa: otto film con Godard, tra cui Vivre sa vie, Pierrot le fou e Band à part, poi La Religieuse con Rivette (altro film che la censura cercherà di bloccare), Lo straniero con Visconti, Pane e cioccolata con Brusati, Roulette cinese con Fassbinder e anche due film come regista, Vivre ensemble del 1973 e Victoria del 2008. Per non parlare del teatro, delle canzoni, dei romanzi, di cui si potrà discutere direttamente con l’interessata che sarà a Bergamo dall’11 al 13 aprile.

IL CASO SPOTLIGHT di Thomas McCarthy con Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams Il grande scandalo dei preti pedofili scoppiato a Boston nel 2001, ricostruito con gli occhi dei cronisti che aprirono il caso. Classico schema da “prima pagina”, senza eccessi epici. Gli attori sono bravi, i giornalisti tenaci e ben stirati, ma non eroi. Da vedere, magari insieme al cileno The Club: per chi non ha fede (o ne ha troppa) nella Madre Chiesa. SUFFRAGETTE di Sarah Gavron con C. Mulligan, H. Bonham Carter, B. Gleeson La lotta delle libere donne inglesi che all’inizio del Novecento volevano il voto e altri diritti. La battaglia fu lunga (sino al 1918) e Sarah Gavron la narra con legittima passione, secondo le regole del melodramma classico. La tenera (ma dura) Carey Mulligan guida un gruppo di celebri attrici. Ma a me piace anche Brendan Gleeson, l’ispettore cattivo.

H

modanti. Una superiore saggezza o ricordato a Lucio Sesfrutto di disincanto “filosofico”, sa, valoroso professoavrebbe detto il Leopardi? Forse: re di storia e filosofia il rovescio della medaglia è il rial liceo classico e linguistico di voltante trasformismo gattoparMercato San Severino (Salerno), desco, anticamera del cinismo le parole con cui ha chiuso il diche percorre la nostra storia». scorso sul Manzoni nello scorso numero: «In lui vedo il volto dolce dell’accomodamento, croce e Conseguenze nefaste. Sorge a delizia della nostra storia». Ce lo questo punto una curiosità: non vuole spiegare? «Certo. Mettenho mai trovato un insegnante di do a confronto I Promessi sposi storia e filosofia così appassioe Doña perfecta, il romanzo di nato di letteratura. Forse perché Pérez Galdós, si può leggere la nei grandi autori dalla letteratura storia di due Paesi solo appaspesso emerge immancabilmenrentemente simili, l’Italia e la te la Storia? «Amo di per sé, e proSpagna. Nell’Ottocento spagnolo fondamente, la letteratura. Ma il cattolicesimo liberale era un mi capita sovente di fare riferivero e proprio ossimoro, si stava mento al Manzoni, visto che neldi qua o di là, con nettezza, e la le sue opere di argomento storico Chiesa spagnola era sostanzialripercorre le occasioni mancate mente una. Si sono avute tre picdall’Italia, a partire dalla possibicole guerre civili nell’Ottocento le unificazione sotto i longobardi spagnolo, prodromo di quella (la Longobardia comprendeva grande del 1936-39; la Chiesa ibenon solo il nord, ma anche il cenrica era col potere, con la traditro – Spoleto – e il sud, con Benezione. Quella italiana era invece vento e Salerno, dove non c’è solo plurale, e l’intesa fra Mussolini il castello di Arechi a dominare e il Vaticano ebbe la città, ma addicome vittima illurittura lo stadio stre un sacerdote, porta il nome del Nello Stato don Sturzo. I catprincipe longoiberico i tolici stavano nel bardo). Nessuno, cattolici Vaticano, stavano meglio del Manstavano con i con la tradizione e zoni, ha descritto latifondisti e il con il potere, ma le conseguenze formavano anche nefaste delle guerpotere. Da noi le “leghe bianche”, re fratricide del c’erano fronti organizzavano i Quattrocento, che differenti braccianti nell’ocaprirono le porcupazione delle te alle invasioni terre, in Lombardia franco-spagnole e in Veneto. In Spagna stavano del secolo successivo e alla domisempre e solo con i latifondisti nazione spagnola del Seicento, e dall’altra parte gli anarchici le su cui, com’è noto, è incentrato il chiese le bruciavano e fucilavano romanzo. Il tutto, considerando le statue dei santi». Ora ho capiil periodo risorgimentale in cui to: in Italia una cosa del genere è vissuto lo scrittore, col mininon potrebbe mai succedere. mo sindacale di retorica. Ma c’è «Certo che no. Noi siamo quelli un ultimo punto: la prima opera di Peppone e don Camillo, la sodella nostra storia della letteralita commedia all’italiana, ma c’è tura leggibile dai non letterati fu anche del buono in questo noproprio il romanzo manzoniano. stro essere paciosamente accoNon è poco, vero?». Non è poco. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

81


Piaceri&Saperi Musica / di Matteo Persivale

Bianco e pro-gay, quel rapper così delicato

Torna l’irlandese Macklemore, slegato dalla cultura media dell’hip-hop e vicino all’impegno su temi sociali scomodi potessero essere protagonisti di una canzone di successo. Eppure Same Love – il video ha più di 150 milioni di clic su YouTube – nonostante l’enorme successo non ha aperto una stagione nuova: bravo Macklemore, sembrava essere il tono generale dei commenti nell’ambiente, però nessuno l’ha seguito (un po’ come nessuno fece particolarmente caso alla ritrattazione, tanti anni fa, da parte dei Beastie Boys, del maschilismo presente nelle loro canzoni degli esordi). Il rispetto di Macklemore per lo “stesso amore”, quello di gay e lesbiche degno degli stessi diritti di quello etero, ha cambiato la sua carriera e la sua musica, da emulo di Eminem a artista famoso nel mondo. E ora, con This Unruly Mess I’ve Made, ecco ancora temi importanti: la ricaduta che il rapper ebbe, raggiunto il successo, nella dipendenza dalle droghe dalla quale si era liberato. E poi, ancora una volta, un tema sociale: il razzismo, visto dalla parte dei bianchi, i privilegiati. Macklemore parla di Black Lives Matter, il movimento contro gli abusi della polizia, facendo il nome del poliziotto, mai punito, che ha ucciso un ragazzo disarmato. Attacca Elvis Presley, Miley Cyrus, Iggy Azalea come simboli degli artisti che attraverso i decenni hanno preso in prestito idee, temi, stili, dalla cultura afroamericana. Sette anni fa, la presidenza di Barack Obama cominciò con l’auspicio, centrale nella sua campagna elettorale del 2008, di una “società post-razziale”. Ci voleva un rapper bianchissimo e con i capelli strani per cantare forte e chiaro, negli ultimi mesi della presidenza Obama, che quel sogno non si è mai realizzato. GUSTAVO CABALLERO/GETTY IMAGES

È

facile farsi beffe di Macklemore, della nuca rasata a zero e del ciuffone ingellato, dei manierismi da rapper afroamericano che su di lui, bianchissimo irlandese di Seattle, fanno un po’ sorridere. Facile ironizzare sulla sua lampante carenza dello stile modaiolo di Jay-Z – amico di Riccardo Tisci, stilista di Givenchy – e del genio dell’autopromozione di Kanye West – Macklemore semplicemente posta su Instagram dei numeroni grandi grandi per dare l’idea del conto alla rovescia fino all’uscita del suo nuovo disco, 6, 5, 4, 3... Ma This Unruly Mess I’ve Made, appena uscito, ancora in collaborazione con Ryan Lewis, conferma quello che Macklemore aveva dimostrato quattro anni fa con The Heist. Che conteneva Same Love, la canzone che per la prima volta ha portato il rap nel 21esimo secolo, con il tema dei diritti delle coppie gay al posto dei soliti peana del hip-hop sulle donne – definite generalmente “bitches” – i vestiti firmati e le auto di lusso. Perché Macklemore all’attività Macklemore preferita del rapper medio, il “ballin” (cioè la vita da giocatore di basket: feste possibilmente in piscina, donne probabilmente facili, macchine sicuramente costose, come gli abiti firmati) ha sostituito l’impegno: negli anni Ottanta e nei primi Novanta il rap – non ancora scandalosamente commercializzato come adesso – affrontava temi seri come la violenza nei ghetti delle grandi città americane e gli abusi della polizia, ma da un ventennio il clima è cambiato, e la chiave di violino delle canzoni è irrimediabilmente su una nota inconfondibile, il consumo di beni di lusso. Sconosciuta, prima di Same Love, l’idea che anche i gay – generalmente invisi a una cultura fortemente machista come quella del hip-hop – e i loro diritti

di Stefania Ulivi

I DISCHI DELLA SETTIMANA

Italiana ACROBATI di Daniele Silvestri

Cinque anni di silenzio discografico sono lunghi ma nel nuovo album del cantautore romano si sentono e si apprezzano tutti. Diciotto brani selezionati che raccontano il presente ma anche le radici. Tra gli ospiti Caparezza per La guerra del sale, Diodato, i Funky Pushertz. 82

SETTE | 09— 04.03.2016

Rock HIDDEN CITY di Cult

Ian Astbury riporta i Cult nel cuore di un hard rock da suonare e consumare tutto d’un fiato come il pezzo che apre il nuovo disco, Dark Energy. Via via l’album schiude pieghe più nascoste (Birds of Paradise) e Astbury e Billy Duffy regalano momenti di grande intensità.

Ai confini SIDE PONY di Lake Street Dive

Arriva da Boston il quartetto di musicisti – Rachael Price (voce), Mike Calabrese (batteria), Mike Olson (chitarra e tromba) e Bridget Kearney (contrabbasso) – pronto a spaziare al di là dei confini ribaditi con Mistake. Sonorità soul, disco, country. Riscrivono il funky con la title track Side Pony.


PARENTESI JAZZ

Pizzarelli “pizzica” McCartney

N

questo album che mischia ritmi bossa on è la prima volta che John nova (Silly Love Songs, My Valentine) Pizzarelli si avvicina a Paul a impasti orchestrali dove tutto sembra McCartney. Lo aveva già fatto – è – studiato nei minimi particolari vent’anni fa, nel 1996, ma allora le (My Love), divertimenti jazz (Heart of canzoni riviste e reinterpretate erano The Country, Coming Up, Let ‘Em In ) a firmate in coppia con John Lennon e ballad dolci e confidenziali (Warm and il disco che ne uscì – John Pizzarelli Beautiful, Junk). La chitarra e la voce Meets the Beatles – fu uno dei più belli di Pizzarelli si appropriano tra quelli dedicati alle cover così delle inconfondibili del quartetto di Liverpomelodie di McCartney (che ol. Oggi, il chitarrista e lo ospitò qualche anno fa cantante statunitense, classe nel suo disco Kisses on 1960, manolesta e voce the Bottom e nel relativo impeccabile, rilegge invece video-concerto) e, intersoltanto le composizioni pretandole, le esaltano. dell’autore di Yesterday, Non traggano in inganno il concentrandosi esclusi“facile ascolto”, l’atmosfera vamente sul suo periodo John Pizzarelli patinata, i cori, i violini e da solista e con gli Wings. le luci della metropoli che Midnight McCartney, fa da sfondo e scenario a queste note questo il titolo dell’album, diventa così notturne. L’omaggio è sentito e studiaun viaggio nella seconda, lunga vita di to. Nato magari già negli anni Sessanta McCartney, una carrellata sulle tappe quando un giovanissimo Pizzarelli con fondamentali (ma in alcuni casi anche chitarra di cartone in braccio ascoltava meno “battute”) del suo repertorio di la musica di un quartetto che avrebbe beatle senza Beatles. Eleganza, suoni cambiato il mondo. E che mai, forse, perfetti, arrangiamenti mai banali avrebbe sperato di reinterpretare. sono le caratteristiche di ogni lavoro Lorenzo Viganò di Pizzarelli e si ritrovano anche in

di Mario Luzzatto Fegiz

Effetto Note / Il tenace Meta alla prova delle “favole”

C

i sono cantanti che nascono come interpreti puri, altri che non hanno eccezionali doti vocali, ma grandi capacità di scrittura e rinunciano alle luci della ribalta per alimentare il repertorio di voci affermate. Ermal Meta è fortunato: possiede un timbro riconoscibile e versatile, che ben si adatta a un repertorio pop, ma anche a quello cantautorale e alternativo. E sa comporre. Classe 1981, origine albanese, un nome-cognome che per assonanza sembra un genere musicale. Di gavetta ne ha fatta tanta. È approdato al palco dell’Ariston di Sanremo prima come chitarrista degli Ameba 4 a metà degli anni Duemila e poi come frontman della band La Fame di Camilla nel 2010. Ma qualcosa va storto e la formazione si scioglie. In questi casi ci si trova davanti a un bivio: mollare tutto oppure continuare? Ermal non perde la speranza e continua a scrivere canzoni, che vengono portate al successo da colleghi come Francesco Renga, Emma, Marco Mengoni, Lorenzo Fragola, Fedez e Patty Pravo. Ma la voglia (e l’ambizione) di tornare a interpretare le proprie canzoni non si è mai spenta. E il terzo posto da poco conquistato al Festival con Odio le favole nella categoria “Nuove proposte” gli rende giustizia. Ma per fortuna le favole hanno un lieto fine, contrariamente a quanto lui afferma: «È un pezzo che parla di quanto a volte, vivendo una determinata situazione, ci sembra grandissima ma poi, a distanza di tempo, finisce per rivelarsi una cosa da poco». Un brano in cui le chitarre sono usate quasi come dei synth e un album (Umano) che riporta l’elettronica anni Ottanta al 2016. Ma soprattutto una voce che affascina nella sua elegante leggerezza esotica.

Tecnologia / di Andrea Milanesi

Altro che accessori Custodie e kit ad alte prestazioni Custodia multi-speaker.

L’Audio cover è un accessorio realizzato appositamente da Asus per aumentare la potenza di diffusione sonora del tablet ZenPad 8.0; integra infatti un sistema audio a 5.1 canali certificato Dolby ed equipaggiato con quattro speaker principali, un centrale e un subwoofer, pesa 255 grammi, è disponibile nei colori bianco e nero, è dotato dell’applicativo di equalizzazione Audio Wizard e di batteria ricaricabile (80 euro, asus.com/it). Cover-tastiera. Con la Create backlit keyboard, Logitech ha progettato una custodia-tastiera per iPad pro compatibile con il nuovo Smart connector di Apple, l’attacco magnetico che non necessita di collegamenti Bluetooth o Wi-Fi; caratterizzata da tasti full-size da 19 mm e da un sistema a retroilluminazione regolabile, si accende automaticamente non appena s’instaura il collegamento e viene alimentata direttamente dal tablet (155 euro, logitech.com). Chiamate satellitari. Il

Thuraya SatSleeve+ è un accessorio in grado di trasformare qualsiasi modello di smartphone (iOs e Android) in un telefono satellitare; si compone infatti di un adattatore universale e di una base satellitare – con antenna e alloggiamento per una speciale Sim card Thuraya – ed è dotato di un pulsante Sos per le chiamate di emergenza a un numero predefinito, anche quando lo smartphone non è connesso (540 euro, intermatica.it).

Kit action cam. Optrix pro kit by Body Glo-

ve è un set con custodia impermeabile e kit fotografico composto di quattro lenti intercambiabili (lente 0° basso profilo, grandangolo 165°, teleobiettivo con zoom 2x e Macro) per garantire prestazioni da action camera ai modelli iPhone 5, 5s, 6 e 6s, grazie anche a una vasta gamma di supporti e connettori opzionali, adatti a qualsiasi tipo di superficie e attività sportiva (140 euro, bodygloveoptrix.com/it). © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

83


Piaceri&Saperi Telepatici / di Paolo Martini

Che Castello di carte, la nuova tv

Il caso di House of Cards, primo prodotto del nuovo mondo dell’online, può spiegare come sta cambiando la serialità Usa

I

l primo prodotto seriale in grande stile della tv-dopo-la-tv è House of Cards e la quarta stagione in Italia viene festeggiata con la messa in onda nella notte tra il 4 e il 5 marzo da Sky Atlantic, che dal 9 trasmetterà regolarmente ogni mercoledì sera una puntata (negli Usa la serie è interamente disponibile su Netflix dal 4 marzo). Ormai si può forse dire che la serialità americana abbia imboccato una nuova fase. E viene da chiedersi se non stiamo assistendo a un vero e proprio giro di boa della televisione in generale, che ricomincia ad abbassare lo sguardo dinanzi alla realtà, come un sistema troppo avvoltolato su se stesso. In realtà, l’ambizione del telefilm di Netflix con Kevin Spacey e Robin Wight, sulla carta era altissima: muovendosi addirittura tra la Casa Bianca e Shakespeare, House of Cards sembra voler fare i conti, in un colpo solo, con l’autorità politica e il potere della rappresentazione. Questa, come si suol dire, è la prima lettura: ma, in realtà, dopo una più attenta considerazione, si può notare quanto questa serie proponga una narrazione metaforica della situazione televisiva stessa. Già, la tv sganciata dalla natura originale di tele-visione, di sguardo che porta vicino il lontano, che apre alla realtà insomma, è come la politica di oggi, senza scrupoli e inutile. Un castello di carte, suggerisce il titolo stesso, per non dire una materia “sporca” come ai tempi di Johnson e di Nixon. E quel rivolgersi direttamente verso la telecamera al pubblico, da parte di un protagonista da sottobosco (traduzione del cognome stesso, Underwood, preceduto da un inequivocabile Frank), suona falsamente come campanello del disinganno DOCUMENTARI

QUEI DIRITTI IN NOME DI MALALA In occasione della festa della donna, martedì 8 marzo alle 21, Nat Geo People propone Malala, il documentario dedicato alla giovane studentessa pakistana, vincitrice del Premio Oscar per la Pace. Nell’ottobre 2012, la vicenda di Malala Yousafzai ha scatenato l’indignazione dei media internazionali. La ragazza, allora quindicenne, stava tornando a casa da scuola quando un gruppo armato di talebani assaltò il bus su cui viaggiava ferendola gravemente. La sua colpa era quella di aver difeso il proprio diritto all’istruzione sfidando apertamente l’integralismo religioso. Da allora è diventata la voce di milioni di giovani donne nel mondo a cui è proibito studiare. Il regista premio Oscar Davis Guggenheim (Una scomoda verità, 2007), traccia un profilo intimo e potente dell’attivista, ma il tono da agiografia, con cui è descritto, indebolisce il valore esemplare della storia di Malala. Fabio Bottiglione 84

SETTE | 09— 04.03.2016

della rappresentazione: il che dichiara la svolta della tv stessa. Del resto è inevitabile che gli autori, quando scrivono, soprattutto in un contesto di prim’ordine come l’industria hollywoodiana, abbiano come riferimento primario l’universo dei media in cui sono così immersi. Se si guarda alla posizione editoriale della rete americana Hbo, che ha segnato la svolta della serialità dagli anni Novanta in poi, questa tensione al ripiegamento lascia ancora spazio, seppur faticosamente, a produzioni con lo sguardo rivolto decisamente verso l’esterno. C’è appena stato il caso da premi, per esempio, della mini-serie political-drama Show me a hero, impegno congiunto di due autori di livello come Paul Haggins e David Simon (The Wire), ma la linea prevalente resta pur sempre quello dello scivolamento sul “prodotto” di facile impatto, che sia un kolossal fantasy come Game of Thrones o una splendente riverniciatura dello “scorzesismo” firmata da un Martin Scorzese più “rock” che mai (vedi sotto, la recensione di Vynil). Su Sky Atlantic i telespettatori italiani possono trovare anche altre nuove serie americane presentate come “cult” ma pur sempre così platealmente “marketing-oriented”: per esempio, un po’ tutta la pur eccellente produzione degli ultimi anni targata Fx, per non dire del goffo tentativo d’inseguire ancora, dopo Teen Wolf, il successo della fantasy da parte di Mtv Usa, con The Shannara Chronicles. L’imprevedibile esplosione di un mercato talmente ricco e mutevole com’è questo della tv nel mondo-dopola-televisione, sta riportando la serialità americana alle dinamiche dominanti prima della stagione del rinascimento realistico. SERIE TV

MARTIN SCORSESE, UN SOGNO DA PISOLINO La vita dell’appassionato di serie tv non sarà molto salutare (tutto quel tempo sul divano...) ma di certo non può dirsi noiosa. O almeno così è stato sino alla desolante implosione del cosiddetto “rinascimento”. Era un mondo pieno di tipi interessanti, dalle storie sempre originali. Anche quando somigliavano parecchio alla realtà, non era alla maniera dei film, dove tutti sono più belli e più magri, e perciò alla fine avranno la meglio su qualsiasi evento o avversità. Nel fantastico universo parallelo delle grandi serie, invece, c’era e

c’è, nella verosimiglianza, quel piccolo scarto di diversità che accende la curiosità, tiene vivo l’interesse, genera empatia. Diversità dal vero, ma anche dall’ovvio e dal già visto. Da qui l’insaziabile fame di novità dei produttori, che ha prima stimolato e poi stremato le menti dei poveri sceneggiatori. Al continuo strepitare di: «Di più: più strano, più cattivo, più idiota, più retrò», ci hanno riportato all’età della pietra. E hanno trasformato un sogno, cioè Scorsese che gira il pilot di una serie sul rok’n’roll (Vinyl, Sky Atlantic, il lunedì), in un placido pisolino postprandiale. arnalda Canali


Telescherno / di Stefano Disegni

Vediamoci (in) chiaro / di Chiara Maffioletti

Belén versione “nanny”, 8 marzo con la Magnani

F

ilm, serie tv, programmi inspiegabili e ricorrenze. È la settimana dell’8 marzo. Chi non vuole dirlo con un fiore può variare con un programma in tv. VENERDÌ 4 Pequenos gigantes è un mistero. Non fa tenerezza, non fa ridere, eppure il programma di Canale 5 con Belén versione “nanny” sembra piacere. Difficile pensare che sia merito dei bimbi. SABATO 5 Il 5 marzo 1876 usciva il primo numero del Corriere della Sera. Quattro pagine e quindicimila copie. Stasera alle 21.30 su Rai Storia, Gianni Riotta ripercorre con il direttore Luciano Fontana gli eventi (e i personaggi) che ne hanno segnato la storia. DOMENICA 6 Su Iris, in prima serata, un film del 1993 firmato Clint Eastwood, Un mondo perfetto. Racconta del rapporto – a metà tra Freud e la sindrome di Stoccolma – tra un bambino e il suo rapitore. Il fatto che il criminale abbia il volto di Kevin Costner anni Novanta forse aiuta. LUNEDÌ 7 Su Giallo (canale 38 del digitale) alle 21 c’è una serie, Detective Mclean, che per i 30enni ha come punto forte il ritorno di uno dei divi di Beverly Hills 90210, Luke Perry (Dylan). Venticinque anni dopo ce lo ritroviamo scapestrato

e in carcere. Bisogna accontentarsi. MARTEDÌ 8 Festa della donna. Sia che si appartenga al partito mimose oppure no, è interessante seguire la 24 ore che Rai Cultura dedica alle donne che hanno reso grande il nostro Paese. Come Anna Magnani, al centro del documentario inedito di Simona Fasulo proposto da “Italiani”, con Paolo Mieli, alle 21.30 su Rai Storia. La giornata si chiude alle 23.30 con Marisa Della Magliana, un film-intervista del 1975 sulla vita di una ragazza-madre. MERCOLEDÌ 9 La pop religione è una chiave che da Papa Francesco in giù stanno sperimentando in diversi. Su Tv2000, dal martedì al venerdì alle 19.35, va in onda Revolution – Pregate per me, programma in cui gli ospiti di Arianna Ciampoli, famosi o sconosciuti, chiedono appunto che si preghi per loro dopo aver raccontato almeno un motivo per farlo. Amen. GIOVEDÌ 10 Sono la Gialappa’s 2.0. Solo che si vedono eccome le facce di questi due ragazzini – Noah e Chris – che commentano video e scherzi in un flusso più internettiano che televisivo. La trovata? In Beccati questo (alle 21.35 su Super! canale 47 del digitale) i due sembrano ripresi nella loro cameretta, da perfetti youtubers. Ai ragazzi piace. © riproduzione riservata

SETTE | 09— 04.03.2016

85


Piaceri&Saperi Libri / di Antonio D’Orrico

Il grande Romanzo Italiano (e milanese)

Dai salotti radical chic ai ristoranti alla moda, al racket del Cimitero Monumentale, torniamo con un bis su una storia Anni 70

È

vece, praticano «l’innamoramento pieno di microsaggi di assoluto ma temporaneo, per quevaria umanità il grande sta o per quella categoria». Negli romanzo La provvidenanni Settanta si succedettero, come za rossa di Lodovico Feospiti d’onore dei salotti snob, gli sta, sul quale faccio volentieri un bis architetti di sinistra, i sindacalisti dopo averlo già ampiamente lodato LA della Cgil, i sindacalisti della polila volta scorsa. zia (si trattò di una breve, bruciante Uno di questi saggi è dedicato alla PROvvIdENzA infatuazione), i funzionari del Pci, i storia della ristorazione milanese. ROssA Si parte dalla strana e straordinaria di Lodovico Festa teatranti socialisti e i leader terroristici. Poi sarebbe venuta la stagione transumanza negli anni Cinquanta (Sellerio) degli stilisti e dei magistrati. dei cuochi di Altopascio, che invaMa Festa non si limita al cast. Dei salotti rasero la città e dettero vita a una dinastia di dical chic anni dell’epoca ricostruisce perfino vivandieri che sono andati per la maggiore le conversazioni. Ecco quello che si diceva di fino a poco tempo fa, e si chiude con la nouItalo Calvino («Diventa sempre più sofisticavelle cuisine anni Settanta rappresentata, nel to», «Insulso?), di Sergio Leone («Meglio di romanzo, da un locale che fece epoca e che è Fellini», «No, meglio di Visconti»), di Claudio evidentemente “Aimo e Nadia”. La moda della Abbado («La mafia degli orchestrali farà scapnouvelle cuisine è stroncata, da un punto di pare via Claudio») e delle Brigate rosse («Stanvista contenutistico, da uno dei personaggi, no crescendo», «Stanno declinando»). un capo comunista con un passato da bracFesta rispolvera la figura ottocentesca del ciante agricolo, che, in quel tempio della ganarratore onnisciente. Chi racconta sa tutto stronomia d’avanguardia, rimane deluso e afdel mondo raccontato. Sa cosa disse Palmiro famato dopo essersi visto servire a pranzo «un Togliatti quando gli sottoposero il progetto raviolo, sia pure abbastanza grande, ma pur della sede milanese dell’Unità: «Era un edifisempre uno, con su mandorle tritate e miele». cio di sei piani, tutto vetro e ferro come la feUn altro microsaggio ha per argomento i saderazione milanese, con due grandi alberi di lotti milanesi. Festa stabilisce con precisione fronte, voluti da Palmiro Togliatti in persona. la fondamentale differenza tra i salotti roVisto il disegno del palazzo del giornale, aveva mani e quelli milanesi. I primi propongono sentenziato: “Qui ci vuole un paio di tigli”». Sa un «eterno assemblaggio di tutti – di destra com’era l’arredamento standard della stanza e di sinistra, del cinema e del mattone, delle del segretario di sezione, «di serie B ma molguardie e dei ladri». Le Verdurin milanesi, in-

Ritratto d’autore Lodovico Festa, nato a Venezia nel 1947, ex dirigente del partito comunista, ha scritto Ascesa e declino della Seconda Repubblica. A destra, Edna O’Brien.

IN 25 PAROLE

fINE dEL cARAbINIERE A cAvALLO di Leonardo Sciascia Adelphi

Secondo Brancati, citato da Sciascia, viaggiando da Catania a Palermo la capacità di sorridere, il senso del ridicolo dei siciliani si perdono all’altezza di Caltanissetta.

86

sEttE | 09— 04.03.2016

IL mONdO dI mEzzO. mAfIE E ANtImAfIE di Antonio La Spina il Mulino

Col narcotraffico in mano ai calabresi, Cosa Nostra ha problemi economici. Non riesce a pagare la mesata ai picciotti (che si trovino un lavoro vero).

dIALOgO cON bORgEs di Victoria Ocampo Archinto

L’albero genealogico di Borges era pieno di «destini violenti»: bisnonno colonnello morto esule, nonno colonnello morto durante la rivoluzione e congiure, colpi di lancia fatali…


Cameo / Un lettore vuole spedire Missiroli in serie B e una lettrice lo difende in nome di Truffaut

Franco cavassi / agF

dIffIdA. Luigi Savioli scrive su Marco Missiroli «Atti osceni in luogo pri-

guIdA ALLA LEttERAtuRA EROtIcA di Alessandro Bertolotti Odoya

1917, romanzo Mimì Bluette, fiore del mio giardino di Guido Da Verona. Mimì è una bella ragazza italiana che si è trasferita in Francia e, passando da un amante all’altro, è diventata una celebre ballerina Belle Époque. Alla fine si innamora sul serio ma il fidanzato si arruola nella Legione Straniera. Lei parte per il deserto africano per ritrovarlo e scopre che è morto da eroe. Torna a Parigi, balla meravigliosamente per l’ultima volta e si avvelena.

sOttO LA cENERE. Lorenza Govoni, sempre su Missiroli. «Atti osceni in luogo privato ha un incipit che non si scorda, che mescola in modo fulminante una soffiata sul cucchiaio degli agnolotti in brodo alla liberazione sessantottina di corpi e coscienze. Una scena di una potenza cinematografica che solo Fellini avrebbe potuto ideare. E invece è tutta farina del sacco di Missiroli che oltre a questo bellissimo attacco ci regala un racconto sulla bellezza e l’oscenità del crescere. Libero trafigge il cuore, così come tutta una serie di personaggi che rimangono lì a covare sotto la cenere delle pagine lette: su tutti per me rimangono la bibliotecaria Marie, il barista Giorgio e la madre che sembrano usciti rispettivamente da un film di Truffaut, una canzone di Guccini e dalla ragazza cattiva di Vargas Llosa». Brava Lorenza.

P.Keightley/lebrecht

to moderno-efficiente: neon, scrivania assai larga ricoperta da un vetro (tocco di classe), un tavolo ovale per riunioni con una decina di sedie stile Coopsette, una carta del mondo alla parete». Sa che nel Pci erano più astuti dell’MI6 di James Bond: infiltravano quinte colonne nella Cisnal e si lasciavano infiltrare da agenti del Sid, promuovendoli addirittura segretari di sezione per le loro manovre di controspionaggio. E poi c’era l’intelligence interna impegnata a sapere di ogni militante: «Chi lo pagasse e con chi andasse a letto». Per non parlare del saggio sul racket criminale che allignava attorno al Cimitero Monumentale. Festa ne descrive l’evoluzione dagli anni Cinquanta ai Settanta in un intreccio, tra becchini, fiorai e malavitosi, all’insegna delle truffe (alle povere vedove), del riciclaggio (fiori e lapidi), dello spaccio e della prostituzione. Un grande romanzo, lo dicevo e lo confermo. Grande anche perché (piccolo particolare che mi commuove) ci ricorda che Tirar mattina di Umberto Simonetta era un bellissimo libro. Grande anche perché c’è un personaggio strepitoso come il compagno Aldobrandini, dandy e allibratore. La più bella battuta del romanzo è sua: «credevamo in un avvenire comunista e in un presente di corse di cavalli».

vato mi è piaciuto, ma non sino al pianto, come è successo al lettore Radice. C’è una citazione che mi tenta a spedire Missiroli in serie B. Mi riferisco allo squallido e fuori luogo plagio dell’illustre conterraneo Tonino Guerra, che usò l’espressione in Amarcord. Si tratta ovviamente della “intimità posteriore”. Capisco il solito tentativo di colorire la lettura con erotismo di maniera (per altro ampliamente anticipato in copertina), ma ciò che rasenta il sublime in un professionista estivo romagnolo stride sulle labbra di un incerto onanista franco-lombardo. È inevitabile poi che qualcuno equivochi tirando in ballo Alvaro Vitali. Se Missiroli intendeva invece celebrare il dono riservato all’amore con la A maiuscola, avrebbe potuto plagiare il mirabile “Sodomizzami” di Mariangela Melato al suo Signor Carunchio, entrambi perduti in un mare d’agosto. Prego la mia guida alle letture dei contemporanei di perdonarmi». Risposta. Non la perdono e la diffido a considerarmi sua «guida alle letture dei contemporanei». Si legga la mail che segue e faccia penitenza.

vItALI NOIR. Olimpio Della Fontana:

«Due suoi beniamini monopolizzano i paginoni centrali del numero 219 della Lettura. Ho trovato splendida l’intervista a Edna O’Brien. Passati gli 85, lady Edna dimostra di avere ancora le idee molto chiare e soprattutto un’inesauribile energia e voglia di raccontare. Poi si volta pagina, e troviamo l’ennesimo 10 in pagella (abbonato?) ad Andrea Vitali. Di lui ho letto praticamente tutto. Si sta dimostrando anche assai prolifico ma riesce a mantenere un livello medio/alto. La suora storta l’ho trovato molto bello, è il lato noir di Vitali che era già emerso in Dopo lunga e penosa malattia. È vero, non c’è il lago, ma c’è quell’atmosfera cupa, quell’alone di mistero che hanno il lago e i suoi paesi quando iniziano le prime brume autunnali (glielo dice uno che Bellano la conosce bene). Però preferisco il suo lato più godereccio che si esalta in uno degli ultimi lavori, Le belle Cece. Ci vedrei benissimo un film, sullo stile di Il piatto piange, se lo ricorda? A mio parere un capolavoro, molto molto sottovalutato, con uno strepitoso Aldo Maccione». Capolavoro è, innanzitutto, il romanzo di Piero Chiara (scrittore enorme), non perdiamo di vista le priorità. C’è quella frase splendida che racconta da sola tutta la passione del gioco: «Il Nove splendeva alto come un sole». A me Vitali piace sia noir che clair. Che vuole che le dica ancora di Edna O’Brien, che ne sono praticamente innamorato? adorrico@rcs.it © riprOduziOne riSerVAtA

sEttE | 09— 04.03.2016

87


Piaceri&Saperi Saggistica / di Diego Gabutti

La Banda Cavallero, sanguinari “operaisti”

Formato nel mito della Resistenza tradita, il gruppo di fuoco aveva poco in comune con la sinistra. Ma lo fece credere

S

toria terribile, raccontata per di più da un cronista d’eccezione come Giorgio Bocca, l’avventura della Banda Cavallero, le cui rovinose imprese, tra il 1963 e il 1967, fecero da apripista sia alla stagione della nuova malavita nichilista sia agli anni di piombo, è un grande libro sul lato oscuro dell’Italia, che Leonardo Sciascia chiamava «eterno fascismo italiano». Anche se «fascismo» non è la parola esatta, e bisognerebbe forse trovarne una che renda esatto conto dell’eterna liaison italiana tra ferocia, bramosia e buone cause. Spietata e sentimentale, la Banda Cavallero (tre adulti e un ragazzino, quest’ultimo il più sanguinario dei quattro) un giorno mitraglia i passanti agli angoli delle strade per costringere le auto della polizia a desistere dall’inseguimento e un altro giorno entra nell’aula del tribunale cantando L’Internazionale e Figli dell’officina. Uno di loro, Sante Notarnicola, aderirà in carcere alle Brigate rosse e scriverà poesie peggio che brutte: smielate. Pietro Cavallero, il capobanda, che da mezzo funzionario del Pci predicava il verbo comunista nelle sezioni operaie, finirà per convertirsi al cristianesimo più bigotto, e anche in questa veste se la tirerà da leader e salirà sul pulpito. Gli altri due, brutali e inetti, spariranno subito dalle cronache. Splendido il racconto – oggi raccolto da Feltrinelli nel volumetto Il bandito Cavallero – che di tutta la storia fece sul Giorno Giorgio Bocca. Erano passati pochi mesi dalla catastrofica rapina al Banco di Napoli di Largo Zandonai, a Milano, quando la banda aveva fatto di proposito tre morti tra i passanti: due lavoratori e uno studente di 17 anni. Giornalista di rango, Bocca riuscì a intervistare la moglie e la madre di Cavallero. Parlò con i comunisti delle sezioni della Barriera

IL BandIto CavaLLero

di Giorgio Bocca Feltrinelli 2016, pp. 128, 12 euro

da leggere inoltre... I ragazzI deLLa BarrIera. La StorIa deLLa Banda CavaLLero

di Claudio Bolognini Agenzia X 2015, pp. 219, 14 euro ◆

L’evaSIone ImpoSSIBILe

di Sante Notarnicola Odradek 2015, pp. 192, 15 euro ◆

tI vogLIo Bene. Un ItInerarIo SpIrItUaLe

di Pietro Cavallero Rizzoli 2001, pp. 155, 7,70 euro ◆

StorIa dI torIno operaIa e SoCIaLISta

di Paolo Spriano Einaudi 1972, pp. XII-509, 28,40 euro ◆

La rIvoLta dI pIazza StatUto. torIno, LUgLIo 1962

di Dario Lanzardo Feltrinelli 1979, pp. 216, s.i.p.

di Milano, nella periferia di Torino, dove i duri della Banda Cavallero si erano formati nel mito della Resistenza tradita, della rivoluzione socialista, della lotta armata. Se quella di Cavallero e compagni già non era più la Torino operaia e socialista, che lo storico Paolo Spriano raccontò in un grande libro del 1958, non era ancora la Torino del Sessantotto e dell’autunno caldo. Era una via di mezzo, per metà Feste dell’Unità e per metà Quaderni rossi, la rivista operaista di Raniero Panzieri, Mario Tronti, Alberto Asor Rosa. Cavallero, più che l’Unità o gli operaisti, dei quali probabilmente sapeva niente, leggeva Nietzsche e i giornaletti anarchici, capendone poco. Lui e gli altri, che all’inizio cercavano di passare da banditi gentiluomini, stile Arséne Lupin, alla fine non esitavano a uccidere, stile Fantomas, quando veniva loro anche solo il sospetto che qualche impiegato o cliente delle banche assaltate «si stava mettendo in testa di fare l’eroe». Trucido e smargiasso, Cavallero governava la banda con la frusta; e agli ex compagni di partito, che cercavano di capire che cosa gli passava per la testa e anche un po’ che cosa stava combinando, rispondeva che «internazionalisti o anarchici sindacalisti, io me ne sbatto. È questa vita schifa che non mi va, le sigarette comprate cinque per volta, mentre sotto i portici di via Roma i cretini con le tasche piene se ne sbattono di me, di voi e del Pci». Sante Notarnicola, nella sua autobiografia dei primi anni Settanta, chiude così la storia della banda: lui e Cavallero, dopo la rapina al Banco di Napoli e la strage nel centro di Milano, sono in fuga da una settimana – è «l’ultima notte, Cavallero mi spiega che non c’è nessuna rivoluzione. I soldi li hanno spesi lui e un altro della banda. All’alba vedo arrivare i carabinieri, e non gli dico nulla».

In LIBrerIa

La SeConda gUerra CIvILe amerICana di andrew MacDonald, Bietti 2015, pp. 368, 20 euro

Libro segreto (ma nemmeno tanto) di survivalisti, antisemiti, stragisti e suprematisti bianchi americani, per metà Mein Kampf in forma di fantasia ucronica e per metà guida pratica alla guerriglia neonazista, La Seconda Guerra Civile americana (in origine The Turner Diaries, uscito nel 1978) è un libro infernale, che si legge con inquieto e divertito fastidio, come se Il pasto nudo non l’avesse scritto William Burroughs ma Osama bin Laden.

Artisti di strada e commando di spie mercenarie, i suonatori di flauto peruviani del romanzo breve di Walter Jon Williams, autore di storie «vagamente cyberpunk», viaggiano tra Praga e Hong Kong battendosi contro artisti-spia rivali, per lo più flautisti senza onore. Ci sono squadre di ninja e Vampiri Salterini campioni di kung fu. Fino alla piramide sottomarina (e nanotecnologica) della Dinastia Tang.

La pIramIde SottomarIna deLLa dInaStIa tang di Walter Jon Williams, Delos 2016, solo ebook 1,99 euro © riProDuzioNe riServata

88

Sette | 09— 04.03.2016


Passato Presente / di Lucrezia Dell’Arti

La lunga agonia di Baffone

5 marzo 1953: dopo 29 anni al potere, Stalin muore. Il “ruolo” del capo della polizia segreta Berija, arrivato ubriaco al capezzale morte

«Josif Stalin è morto alle 9.50 pm di ieri (1.50 pm dell’ora nel mondo orientale) al Cremlino all’età di 73 anni. La notizia è stata ufficialmente annunciata questa mattina. È stato al potere 29 anni. L’annuncio è stato fatto a nome del Comitato centrale del Partito comunista, del Consiglio dei ministri e del presidium del Soviet supremo […]. La Pravda è uscita questa mattina con un’ampia bordatura nera ai lati della prima pagina in segno di lutto per Stalin» (New York Times, 6 marzo 1953).

sAunA

La mattina del 28 febbraio 1953 Stalin entra nella sauna della sua dacia ai sobborghi di Mosca. I georgiani non hanno l’abitudine della “banja”, il bagno di vapori: Stalin, tuttavia, aveva cominciato a farla negli anni del suo esilio in Siberia, ancora prima della rivoluzione, e aveva continuato per tutta la vita. Due anni prima aveva dovuto smettere, su consiglio del medico, per via della pressione alta. BerijA

Secondo il generale Dmiytij Volkogonov, consigliere di Elstin e storico di professione, fu Lavrentij Berija, il capo della polizia segreta dell’Unione Sovietiva, a consigliare vivamente a Stalin di riprendere le saune. «Non posso essere sicuro al 100%, ma mi sono convinto che Stalin morì a causa del sofitisticato piano di Berija, il quale non poteva non rendersi conto dell’effetto che avrebbero avuto i suoi consigli». cAmerA

Il giorno dopo la sauna, Stalin dorme fino a mezzogiorno. Domestici e guardie sentono che si è svegliato, e cammina per la stanza.

Adoc-Photos /contrAsto

vitA

Stalin, da stal = acciaio (adattamento russo del tedesco Stahl), soprannome di Josiph Vissarionovic Dzugasvili. Georgiano, imparò il russo a nove anni. Succedette a Lenin nella guida della rivoluzione sovietica. Per imporre il metodo comunista fece fucilare un milione di persone fra il 1934 e il 1950. Altre decine di milioni morirono nel gulag e in carestie provocate ad arte.

Acciaio. Stalin a capo dell’Urss fece morire

decine di milioni di persone. Morì a 73 anni.

Aspettano che li chiami per farsi servire il pranzo, ma lui resta chiuso in camera. Alle 18 si accende una luce nella sua stanza. La servitù è preoccupata, ma nessuno ha il coraggio di entrare. Solo a mezzanotte si decidono: Stalin è steso a terra, ha una copia della Pravda in mano, fa deboli segni con l’altra, senza poter dire una parola. Viene steso sul divano. Chiamano Malenkov e Krusciov, ma nessuno dei due ha l’autorizzazione di convocare i medici. Soltanto Berija può farlo, ma Berija non si trova. sonno

Il capo della polizia segreta arriva finalmente verso le 3 del mattino, ubriaco. Si mette ad ascoltare dall’esterno della stanza gli strani rantoli che emette Stalin, rimprovera la guardie - «Il compagno Stalin sta dormendo, dorme della grossa, e non va disturbato!» - e se ne va. medici

Tornato a casa all’alba del 2 marzo, Berija convoca i medici, gli altri membri del presidium del Cc del Pcus, e tutti insieme vanno alla dacia. Arrivano alle 7 del mattino. L’ictus – accertano in seguito i medici – ha colpito il

leader intorno alle 21 del giorno precedente, il 1° marzo. Dieci ore senza assistenza medica. Dieci ore fatali. soccorso

«Se il soccorso fosse giunto al momento giusto, avrebbe potuto vivere ancora per non si sa quanto tempo» (Dmiytij Volkogonov) medici

I medici capiscono che non c’è più niente da fare. La morte è solo questione di giorni. «Rendetevi conto che la vita del compagno Stalin è nelle vostre mani!» urla Berija ai dottori, i quali, terrorizzati, tremano così tanto da non riuscire a fare neanche un’iniezione. fine

Sulle poltrone intorno al capezzale siedono gli altri membri del Politbjuro. Alle 21.50 del 5 marzo, dopo mezz’ora di respirazione artificiale, il capo dei medici, si alza sudato e stanco: «È tutto. È finita». funerALi

Ai funerali di Stalin parteciparono oltre un milione di persone. Almeno 500 morirono schiacciate nel tentativo di rendergli omaggio. Le altre notizie della giornata su www.cinquantamila.it © riproduzione riservata

sette | 09— 04.03.2016

89


In libreria Andrea Kerbaker racconta la vicenda di Giuseppe Tavecchio

Il pensionato muore ma è solo un «danno collaterale» Colpito da un lacrimogeno della polizia. Destra e sinistra non se ne curarono. Così il ricordo di quell’uomo qualunque fu rimosso di Diego Gabutti

N

on sono ancora gli anni di piombo, è soltanto l’ouverture, ma è già perfettamente chiaro dove s’andrà a parare: le manifestazioni di piazza s’imbarbariscono, piovono molotov da ogni parte, «boia chi molla», «uccidere un fascista non è reato», mentre sulle facciate dei palazzi, inscritta in una stella a cinque punte involontariamente (ma eloquentemente) satanista, compare ormai da qualche tempo la sigla «Br», al momento misteriosa. Quanto alla polizia, che mantiene l’ordine a fatica, c’è da averne paura. Spesso perde il controllo della situazione e dei nervi, fino a sparare lacrimogeni ad altezza d’uomo, come l’11 marzo del 1972 a Milano, quando al margine d’un comizio della «maggioranza silenziosa» (e della relativa, immancabile contromanifestazione indetta dai gruppuscoli della «sinistra di classe» o «rivoluzionaria», che quel giorno prendono d’assalto il Corriere della Sera) un poliziotto uccide il pensionato Giuseppe

Tavecchio, già custode del macello di viale Molise, che sta facendo due passi dopo aver comprato delle fettine di vitello nella bottega d’un amico in via Monte di Pietà, dietro via Manzoni, non lontano da piazza della Scala. Da quel giorno sono passati più di quarant’anni e per tutto questo tempo di Tavecchio non ha parlato più nessuno, e nemmeno sul momento se ne parla granché: giornali d’ordine e polizia (quest’ultima per le ovvie ragioni) preferiscono sorvolare e, quanto ai giornali di sinistra e alla «controinformazione», s’indignano soltanto quando a morire, come talvolta capita, è un manifestante – one uf us, uno dei nostri, come dicevano i marinai di Conrad. Romanziere, bibliofilo e saggista, il milanese Andrea Kerbaker, che all’epoca era poco più d’un bambino, rende giustizia dopo tanto tempo al pensionato ucciso al semaforo, questo caduto semi-ignoto della rivoluzione

L’ultima, e la più difficile, guerra di Mimmo Cándito

I

nviato su tutti i fronti di guerra degli ultimi quarant’anni, ex «vicecampione juniores di sciabola», viaggiatore instancabile e attento, Mimmo Cándito è un giornalista sobrio, della vecchia scuola, che non indulge a leziosaggini e ornamenti rococò. Da giovane, all’Hotel Commodore di Beirut, ha imparato che non si sfugge alle bombe che piovono da tutte le parti cercando scampo sotto il letto (o tirandosi il lenzuolo sopra la testa, come da bambini, con la stanza buia che si riempie di mostri). Quindi Cándito non ricorre agli eufemismi né agli scongiuri quando – sul fronte della vita quotidiana, probabile effetto dell’esposizione alle «nanopolveri» dell’uranio impoverito in un remoto teatro bellico – viene attaccato 90

sette | 09— 04.03.2016

tarocca degli anni Settanta, con un libro brillante e commosso: La rimozione. Storia di Giuseppe Tavecchio, vittima dimenticata degli anni di piombo (Marsilio 2016, pp. 128, 15 euro). «Rimozione», ma non in senso soltanto freudiano: l’oblio della morte di Tavecchio non è il semplice accantonamento in profundis d’un ricordo scomodo, che la coscienza vigile non riesce più a gestire, ma è qualcosa di peggio – è la distanza che stiamo imparando a tenere dalle vittime casuali, l’indifferenza per i danni collaterali, una speciale callosità dell’anima. Colpito dal candelotto a metà d’un passo, con un pacchetto di macelleria in mano, cadendo senza un grido e picchiando la faccia sul selciato, Giuseppe Tavecchio non funzionava da morale di nessuna favola. Non era «di destra», non era «di sinistra». Era un tizio qualunque, un vedovo che s’era risposato da poco, due figli diplomati

da quello che un tempo era «il brutto male» (oppure «l’alieno», come l’aveva battezzato Oriana Fallaci) e che lui chiama col suo nome: tumore. Un tumore cattivo, ai polmoni, che prima gliene porta via uno, poi attacca anche l’altro. 55 vasche è una storia di guerra, come le sa raccontare Cándito, che conosce i campi di battaglia meglio di quanto noi conosciamo le minuscole e imbarazzanti beghe da talk show. Nemico implacabile e spietato, che non fa prigionieri, il tumore appare invincibile quando si lancia improvvisamente all’attacco, muovendo le sue cellule cancerogene, ciascuna armata di kalashnikov e cintura esplosiva, come commandos suicidi. Ma può essere vinto, oggi è possibile, come dimostra la storia a lieto fine dell’autore, che la racconta insieme alla storia della propria vita di giornalista, entrambe esaltanti. 55 vasche. Le guerre, il cancro e quella forza dentro di Mimmo Cándito, Rizzoli 2016, pp. 227, 17,50 euro, ebook 8,99 euro.


FOTOGRAMMA

Giorni agitati Sopra, jeep della polizia in via Broletto, l’11 marzo 1972, giorno in cui venne ucciso Giuseppe Tavecchio. Nel tondo, l’autore del libro Andrea Kerbaker.

ragionieri all’Istituto Verri di via Lattanzio, una nipotina di sei anni. Si sarebbe poi saputo che era amico del sindaco Aldo Aniasi, che fu anche la sola autorità presente al suo funerale, dove non si vide una bandiera rossa o tricolore (eppure ai tempi abbondavano... non si poteva morire senza che subito qualcuno salisse sulla tua bara come su un pulpito). Disertò la cerimonia anche il questore Ferruccio Allitto Bonanno, che più tardi avrebbe cercato di liquidare i figli della vittima, Elvezio e Guglielmo Tavecchio, offrendo loro «un risarcimento di 150 mila lire», che largheggiando equivalgono «suppergiù a 2 mila euro» d’adesso. Al poker della propaganda, Tavecchio non era una mano fortunata per nessuno. Come tutte le vittime innocenti – vittime che si spiegano soltanto con la ferocia degli scontri tra fazioni, «danni collaterali» che non possono essere evocati senza autoaccusarsi – il pen-

sionato era una presenza ingombrante. Impicciava, e venne «sorvolato». Fu anche un oblio per così dire oggettivo, naturalmente. La morte di Tavecchio, in quell’alba d’una stagione apocalittica, era dopotutto un episodio minore. Pochi giorni dopo, a Segrate, l’editore Giangiacomo Feltrinelli, miliardario e guerrigliero, l’uomo che aveva pubblicato in anteprima mondiale Il Dottor Zivago e Il gattopardo, due cult della letteratura novecentesca, si fece saltare in aria mentre cercava di minare un traliccio elettrico, da quel guevarista meneghino che era diventato con il tempo e le cattive compagnie. Non passarono due mesi e, dopo una lunga e infame «campagna di fango», come diremmo oggi, il commissario Luigi Calabresi (che Guglielmo Tavecchio ricorda come uno che «se ne stava lì spaparanzato come se fosse il capo di tutto il mondo» mentre gli annunciava l’«incidente» capitato a suo padre) fu

assassinato sotto casa da un commando di Lotta continua. Calabresi, accusato (a torto) d’aver ucciso l’anarchico Giuseppe Pinelli, dopo la strage di Piazza Fontana, gettandolo dalla finestra della questura, stava ai goscisti dell’epoca come Lex Luthor a Superman, e fu proprio come nei fumetti da quattro soldi, infatti, che si cominciò da quel momento a morire. Insieme alla pietà, nell’Italia dei primi Settanta era morta anche la ragione. «Appena una settimana prima di quel sabato 11», scrive Kerbaker, si verificano altri «due episodi di eccezionale gravità: il 2 marzo, un militante di Lotta continua, Maurizio Pedrazzini, viene trovato con una pistola sotto casa di un parlamentare piuttosto in vista del Msi, Franco Servello. Lo arrestano; ma è niente in confronto a quanto accade l’indomani, venerdì 3 marzo, quando all’interno di un’azienda si svolge il primo sequestro di persona con “processo proletario” compiuto dalle Brigate rosse. È un’azione lampo, dura quaranta minuti, e la vittima è Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, fotografato tumefatto con un cartello con alcuni slogan: “Mordi e fuggi”, “Niente resterà impunito”, “Colpiscine uno per educarne cento”. Per l’Italia, una prima assoluta, modellata sull’esempio dei Tupamaros uruguaiani». Essere ingombranti, quindi presto dimenticati, è il destino delle vittime innocenti, di cui a nessuno conviene farsi carico. Tavecchio sparì dalle cronache senza nemmeno entrarci. Fu conservato artificialmente in vita per qualche giorno (il sospetto è che lo si volesse tenere lontano dai titoloni di prima pagina il più a lungo possibile). Quando gli fu permesso di morire, ormai la scena era occupata da altre emergenze, in testa l’affaire di Segrate. Condannati in un primo tempo rispettivamente a un anno e a quattro mesi di galera, il capitano che aveva ordinato di sparare il lacrimogeno e il poliziotto che aveva sparato furono assolti in appello, cinque anni dopo, nel 1977, perché «il fatto non costituisce reato». © riproduzione riservata

Senza memoria per 12 anni. Ti risvegli, ed è tutto diverso

3

1 maggio 2013. Un incidente automobilistico sulla tangenziale per Pavia, due anni di coma, e al suo risveglio Pierdante Piccioni, direttore dell’unità operativa di pronto soccosrso dell’ospedale di Lodi, ha puramente e semplicemente perso la memoria degli ultimi dodici anni. Per tutti è l’ottobre del 2015, per lui è di nuovo l’ottobre del 2001. Ricorda d’avere appena accompagnato a scuola il suo bambino di sette anni, che adesso è all’università, e tutto gli sembra bizzarro e inconcepibile, qua e là anche mostruoso, come a un viaggiatore nel tempo: l’euro al posto della lira, i social network, l’antipolitica, nuove guerre, il passaggio in serie B della squadra del cuore, un presidente nero alla Casa Bianca, lui non più medico ma paziente, gli amici invecchiati, la jihad, allo specchio la faccia di qualcun altro. Evidenziate

Meno dodici. Perdere la memoria e riconquistarla: la mia lotta per ricostruire gli anni e la vita che ho dimenticato di Pierdante Piccioni, Mondadori 2016, pp. 350, 20 euro, ebook 9,99 euro. «dalla risonanza magnetica», spiega Piccioni in un’intervista, «sono venute fuori le cicatrici a livello neurologico che evidenziano una falla nella memoria». Esperienza perturbante e terribile, vissuta ai confini della realtà, dove l’esistenza stinge nella metafisica, la storia di Pierdante Piccioni ha se non altro un happy end: il superamento della sindrome post-traumatica da stress, il ritorno dopo mille difficoltà alla professione medica, un libro nel quale raccontare la propria avventura. Rimane, a lato dello sguardo, come un’ombra sinistra sull’identità di tutti noi, la coscienza di quanto sia fragile il nostro hardware cerebrale, e di quanto sia volatile il software su cui si fondano i tumulti dell’Io. sette | 09— 04.03.2016

91


Piaceri&Saperi Tempo al Tempo / a cura di Manuela Croci

@ManuelaCroci mcroci@corriere.it

Il buon cibo è protagonista a Milano. Degustazioni stellate,

incontri con chef e scrittori, wine experience e laboratori per bimbi. Da venerdì 11, all’UniCredit Pavillon

L

MATTEO ROSSETTI

a perfezione sta in un piatto di spaghetti al pomodoro. Le specialità gourmet o le tribù alimentari durano il tempo di una stagione, ma la cucina buona e sana, fatta con cura a partire dalla scelta degli ingredienti, non teme mode né rivali. All’alimentazione e alla cucina consapevole e di qualità è dedicata la quarta edizione di Cibo a Regola d’Arte, l’evento organizzato dal Corriere della Sera, dall’11 al 13 marzo presso l’UniCredit Pavilion in piazza Gae Aulenti. Tante e stimolanti le tappe del percorso centrato sul “Good Food”, a partire dalle Masterclass con grandi chef – Niko Romito, Andrea Berton, Davide Oldani, Norbert Niederkofler, Nadia Santini, Yoji Tokuyoshi, solo per citarne alcuni – che si metteranno ai fornelli accompagnati da ospiti come Teresa Mannino, Deborah

Davide Oldani sabato 12 terrà un Food Lab sul pinzimonio (ore 16.30) e una Masterclass sul riso con Gabriele Salvatores (ore 20).

Antonino Cannavacciuolo è protagonista del Food Lab Cucine da incubo, domenica 13 alle ore 10.30.

Compagnoni e Gabriele Salvatores. Ma il pubblico non resterà solo a guardare: chi lo desidera potrà cimentarsi in prima persona nei Food Fab (incluso quello con Antonino Cannavacciuolo dedicato alla nuova serie della trasmissione tv Cucine da incubo) e

IN SCENA

Mi piaci perché sei così Fino al 20 marzo teatromanzoni.it

MILANO/1 Coppie scoppiate Vanessa Incontrada assoluta mattatrice in Mi piaci perché sei così, la nuova commedia scritta, diretta e interpretata da Gabriele Pignotta (gli attori nella foto a sinistra). I due, insieme sul palcoscenico del Teatro Manzoni, si calano nei panni di una coppia in crisi che decide di provare a risollevare le sorti del matrimonio con una terapia sperimentale. Con loro, nel ruolo di vicini di casa, Fabio Avaro e Siddhartha Prestinari.

BRESCIA Spazio a fiati e ottoni Si ispira alla tradizione delle bande di ottoni e fiati, che da decenni svolgono un ruolo fondamentale nella vita sociale e culturale delle città, En avant, marche!, la nuova produzione del coreografo Alain Platel, uno dei maestri della danza contemporanea 92

SETTE | 09— 04.03.2016

Don Chisciotte Dal 6 marzo al 1 aprile fondazionelascala.it

internazionale. Lo spettacolo, realizzato con il regista Frank Van Laecke e con il compositore Steven Prengels, coinvolge ogni volta una banda locale: a Brescia sarà il turno della banda cittadina Isidoro Capitanio. En avant, marche! - 7 marzo - ore 21 teatrogrande.it - filarmonicacapitanio.it

MILANO/2 Ricordando Nureyev Torna alla Scala il Don Chisciotte di Rudolf Nureyev su musica di A. L. Minkus, il balletto che entrò nel repertorio scaligero nel 1980 proprio con Nureyev protagonista accanto a Carla Fracci. Le avventure di Don Chisciotte e del fido scudiero Sancho Panza descritte nel capolavoro di Cervantes si intrecciano con la storia d’amore tra la giovane Kitri e il barbiere Basilio, sullo sfondo di una Spagna fantasiosa e variopinta, fatta di mulini a vento e danze di gitani. Dirige David Coleman.


Giorgia Surina sarà con lo chef Antonio Guida alla Masterclass sulla pasta fresca di domenica 13, ore 12.

PATRIZIO COCCO

CLAUDIO FERRI

CARLO FURGERI GILBERT

Eliana Liotta, autrice del libro La dieta Smartfood (Rizzoli), è protagonista con Alessandro Frassica del Food Talk “Il cibo che cura”, di sabato 12, ore 11.

IN BREVE

Angela Frenda, food editor del Corriere della sera e direttore artistico di Cibo a regola d’arte, aprirà la kermesse insieme a Teresa Mannino, sabato 12 alle ore 18.

imparare i segreti per fare i dolci da Iginio Massari o una pizza a regola d’arte da Cosimo Mogavero. Non manca lo spazio per gli appassionati di vino e liquori che ogni sera durante le Wine Experience potranno seguire una lezione sotto la guida degli esperti. E ancora, di cibo sano e buono si parlerà durante i Food Talk, momenti di approfondimento in compagnia di produttori, nutrizionisti, imprenditori e autori. E i bam-

bini? Saranno coinvolti anche loro sul tema dell’alimentazione sana nei Kids Lab a cura del centro pedagogico-educativo Reggio Children. Masterclass e Food Talk sono gratuiti e accessibili fino ad esaurimento posti; i Kids Lab sono gratuiti previa prenotazione con i coupon di ViviMilano; Food Lab e Wine Experience, a pagamento, si prenotano sul sito ciboaregoladarte.corriere.it. Micaela De Medici

MILANO/5 Fotografie I grattacieli, tratto distintivo del paesaggio urbano, sono al centro della mostra fotografica Cityscape/Presets di Lorenzo Piovella che mette a confronto due serie di immagini realizzate in luoghi e tempi diversi, Slices/ Highrise (20122014) e Oh Gold! (2015; foto). Non un reportage sugli sviluppi architettonici di Milano ma uno sguardo che evidenzia negli edifici i moduli e le griglie di costruzione ricorrenti. Cityscape/Presets Dal 4 al 18 marzo fondazionepasquinelli.org

TORINO/1 Cattivi ricordi Si chiama Abusi. Testimonianze da una comunità terapeutica: è la mostra nata dalle attività laboratoriali svolte – dal 2012 – dalle pazienti della comunità Fragole Celesti, che si occupa di donne con gravi disturbi di personalità. Le autrici hanno rappresentato il proprio dolore, gli abusi e le violenze subiti attraverso fotografie, ceramiche, sculture, installazioni. Abusi. Testimonianze da una comunità terapeutica - Dal 4 al 28 marzo - fragolecelesti.it

BARI Debutta il tour di Mika Anteprima al Petruzzelli del nuovo tour di Mika, che ha già annunciato le date estive dei live italiani. Concerto gratuito, prenotazione obbligatoria al numero 800 905 105 o su giocodellotto.it. Mika - 7 marzo - fondazionepetruzzelli.it

MILANO/3 Evoluzioni a ritmo di musica Le star della coreografia Ezralow, Parsons e Pendleton insieme per Aeros, spettacolo di danza che vede protagonisti i ginnasti della Nazionale rumena. Il tour italiano fa tappa agli Arcimboldi. Aeros - Dall’11 al 13 marzo – teatroarcimboldi.it

ROMA Dal cinema al teatro Christian De Sica e Alessandro Siani portano a teatro la commedia Il principe abusivo. De Sica è il ciambellano di un piccolo principato alle prese con un giovane napoletano un po’ scroccone (Siani), innamorato di una principessa frustrata. Il principe abusivo - Fino al 20 marzo - ilsistina.it

MILANO/4 Un classico Con testo adattato e tradotto da Francesco Niccolini e regia di Tonio De Nitto, arriva al Teatro Menotti Romeo e Giulietta: un classico shakespeariano che qui diventa commedia corale, tra scontri generazionali e adolescenti sognatori. Romeo e Giulietta Dal 10 al 20 marzo teatromenotti.org

TORINO/2 Per Buscaglione Entra nelle sue fasi finali il concorso riservato alle nuove leve della musica d’autore italiana e dedicato a Fred Buscaglione. Il premio, che porta il nome dell’artista, viene assegnato ogni due anni. Stasera semifinale alle Officine Corsare, domani finale all’Hiroshima. Sotto il cielo di Fred - Fino al 5 marzo - sottoilcielodifred.it © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

93


Piaceri&Saperi arte e oltre / di Francesca Pini

ispirazione molto femminile

A Torino Florence Henri, a Ginevra la Feinstein, a Zurigo Pipilotti. E a Roma un premio alle protagoniste della cultura

esplosione di colori Qui sopra, l’installazione realizzata da Pipilotti Rist sulla facciata esterna del Kunsthaus di Zurigo; a fianco, Gnorw dell’americana Rochelle Feinstein; e, in alto, Florence Henri nel suo studio di Saint Tropez, estate 1926.

U

n vasto capitolo dell’arte del XX secolo è stato scritto anche da artiste protagoniste della sperimentazione che hanno ampiamente contributo, sulla scena internazionale, all’espansione del linguaggio, sia nel campo della pittura che della fotografia, quest’ultima all’inizio del Novecento considerata un genere “parallelo” rispetto ai vertici di un dipinto o di una scultura. Su una figura di spicco come quella di Florence Henri (nata a New York nel 1893), il museo Ettore Fico di Torino compie un’approfondita ricognizione, presentando, per la prima volta in Italia, (dal 10/03 al 26/06), un ritratto a tutto tondo che spazia dalle sue pitture astratte (la Henri seguì a

Parigi, all’Accademia, i corsi di Fernand Léger e Ozenfant prima di trasferirsi a Dessau per frequentare, fino al 1927, il Bauhaus) ai collage alle sue ricerche fotografiche apprezzate da Moholy-Nagy (che la portano ad inserire elementi geometrici nelle composizioni o ad utilizzare anche gli specchi nei quali poi ritrarsi) fino alla sua passione per la musica (si perfezionò nello studio del pianoforte con Ferruccio Busoni). Parigi era allora il centro di tutto, e anche Florence Henri decise d’insediarvisi, il suo studio diventò per gli amici artisti un punto di riferimento al pari di quello di Man Ray. Mutazione. Dall’universo rigoroso di Florence Henri, nei toni del bianco e nero, ci catapultiamo nel caleidoscopico mondo di Pipilotti Rist, saturo di colori, di luci, di videoschermi. Con Cindy Sherman, lei è una delle artiste visive che più ha influenzato l’arte contemporanea degli ultimi trent’anni. Il vocabolario che usa nei suoi lavori comprende soprattutto il concetto d’identità e di mutazione, quando si scava in quelle sue immagini anarchiche,

anticipazioni

scozzesi in italia Scottish National Portrait Gallery, Edimburgo 1 Queen Street Dal 5/03 al 3/03/2019 Si parla sempre degli inglesi, ma giustamente anche gli scozzesi vogliono avere il loro posto al sole nel Grand Tour. Tra cui James Byres che diventò il più grande esperto delle antichità romane, oltre che il celebre Sir William Hamilton a Napoli.

la tela Violata Lucca Center, Lucca Via della Fratta, 36 Dal 5/03 al 19/06

il nilo Museo Egizio, Torino Via Accademia delle Scienze, 6 Dal 4/03 al 4/09

La prima grande rivoluzione degli anni Sessanta fu quella che avvenne sulla tela, non più superficie piatta ma da lavorare in senso spaziale. Fontana, Bonalumi, Castellani e Scheggi (sopra) hanno dato vita un nuovo linguaggio apprezzato nel mondo.

I rapporti fra mondo romano e quello egizio ha un riscontro anche nel sito di Pompei, dove, nel II secolo a.C sorgeva il Tempio di Iside (ricostruito dopo il terremoto del 62 d.C), e gli abitanti erano dediti ai culti egizi anche nelle loro case.


atelier d’artista

Che cosa sta preparando Valie export

seducenti, ripiene di fiori, di frutti, di colori liquidi. Per lei il paradiso è sempre la realtà, mai il paradiso perduto, e la donna non è certo una soccombente Eva. La Kunsthaus di Zurigo c’invita (fino all’8/05) a perderci nel suo bosco di pixel, un’installazione formata da 3.000 led che si animano, continuamente trasformando quel paesaggio inusuale. Anche sulla facciata esterna del museo troviamo il suo segno, specificatamente su quel rilievo ottocentesco che raffigura la lotta delle amazzoni, soggetto sul quale lei interviene proiettando l’immagine di una figura liberata. Ma tutto questo sfavillio non c’inganni, per comprendere il messaggio di Pipilotti occorre penetrare meandri più profondi, quelli della paura, della sensualità, del corpo, che lei ci rende anche molto presente quando schiaccia ad esempio il suo viso contro la macchina da presa. Un’altra presenza interessante in questa panoramica tutta al femminile è quella dell’americana Rochelle Feinstein (al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, fino al 24/04). Un’artista versatile, che contempla più medium, dalla pittura, al video. Curioso quello sulla tartaruga gigante George (ultimo esemplare di specie scoperta da Darwin nel 1835 alle Galapagos), diventata la star dell’ecoturismo, però morta 4 anni fa. Infine il premio alle donne protagoniste della cultura, alla Gam di Roma: il 6 marzo, l’ottava edizione di Arte sostantivo femminile.

Negli anni Settanta la camera oscura dove sviluppava i suoi lavori era il bagno di casa. «Realizzavo anche dei grandi formati, ci stavano nella vasca, poi li appendevo alle pareti. Ho cambiato cinque/sei studi a Vienna e non è stato mai semplice, essendo una che controlla tutto», dice l’artista (nome d’arte Valie Export, per esportare le sue idee) diventata famosa anche per quella performance in cui passeggiava per strada con un uomo al guinzaglio, che gattonava. «Ma il bello dei traslochi è poi ricostruire l’atelier, rimescolando le cose, osservando i lavori con occhio nuovo. A volte ho fatto trasportare gli armadi pieni, per non svuotarli». Negli anni del movimento femminista lei è stata una grande protagonista, e oggi come siamo messi? «Pensiamo a quello che è successo a Colonia. Sessant’anni fa su questi fatti si sarebbe taciuto, il risultato positivo è che oggi almeno si parla apertamente della violenza sulle donne. Che devono però sempre sottostare agli imperativi maschili dominanti nella società. Non sono mai andata in India, proprio perché in quel Paese si ha il diritto di abusare delle donne e di lapidarle». Valie Export partecipa alla collettiva Women in action a Meranoarte (fino al 10/04), e sta preparando una serie di lavori sul dado. Il suo archivio (60 mila documenti) è stato acquistato da Linz (sua città natale) che prepara una retrospettiva.

azionisMo Viennese Mumok, Vienna Museumsplatz 1, Dal 4/03 al 16/05

Botto&BrUno Fondazione Merz, Torino Via Limone, 24 Dal 9/03 al 19/06

Vienna è stata l’epicentro di due importanti movimenti, la Secessione a fine 800 (a fianco Nuda Veritas di Klimt), e negli anni Sessanta l’Aktionismus, qui confrontati. In entrambi i casi, le opere degli artisti provocano un cambiamento nella società, e ruotano attorno al corpo, alla psiche e ai tabù. Che Hermann Nitsch ha affrontato nelle sue azioni, in cui il colore rosso è quello del sangue (animale).

Il duo torinese (maschile e femminile), lavora con occhio antropologico sulle periferie e sui luoghi degradati, rimescolando le immagini in un collage di stili e di silenzi. Quasi dei fermo immagine, in attesa che compaia una narrazione appropriata.

BUrri. il traUMa della pittUra Kunstsammlung Nordrhein, Düsseldorf Grabbeplatz 5 Dal 5/03 al 3/07 Chi avesse perso la grande retrospettiva al Guggenheim di New York, ha l’ultima chance di vederla in questo museo che, già nel 1966, acquisì un suo Sacco. Esposto qui insieme a un’altra settantina di sue opere (Ferri, Legni, Combustioni, Cretti). © riProDuzioNE riSErVaTa

sette | 09— 04.03.2016

95


Piaceri&Saperi Viaggio / di Ilaria Simeone

I 500 anni del primo ghetto

Voluto a Venezia nel 1516, è ricordato con un concerto e visite alle sinagoghe

V

entinove marzo 1516: il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia, sotto il dogado di Leonardo Loredan, decreta che «li giudei debbano tutti abitar unidi in la corte de case che sono in ghetto appresso San Girolamo» e che i cancelli della corte vengano chiusi affinché gli abitanti «non vadino tutta la notte attorno». Nasceva così, 500 anni fa, il primo ghetto ebraico del mondo. A ricordarlo, il 29 marzo 2016, un concerto al Teatro La Fenice – Omer Wellber dirigerà l’esecuzione della Sinfonia n. 1 in Re

maggiore di Gustav Mahler – e un fitto programma di eventi, che comprende convegni, rappresentazioni teatrali, il restauro del Museo Ebraico e delle sinagoghe del ghetto. Dal 19 giugno al 13 novembre a Palazzo Ducale una grande mostra Venezia, gli ebrei e l’Europa racconterà la lunga storia di questa piccola città nella città e dei suoi abitanti (veniceghetto500.org). Un posto quasi nascosto oltre la riva orientale del rio di Cannaregio, dopo il ponte delle Guglie, dove un tempo c’era una fonderia, in veneziano un “getto”, nome che i primi ebrei venuti dalla Germania, per via di

OMAGGIO AD ANDREA SCHIAVONE Fino al 10 aprile è possibile vedere al Museo Correr (correr. visitmuve.it) Andrea Schiavone: Splendori del Rinascimento a Venezia. La mostra, prima grande retrospettiva dedicata all’artista, raccoglie 80 opere tra dipinti, disegni e incisioni, provenienti da tutto il mondo. Accanto ai lavori di Schiavone, quelli dei maggiori artisti del suo tempo da Tintoretto a Tiziano, al Parmigianino.

quella loro pronuncia dura, trasformarono in ghetto e che la storia fece diventare sinonimo universale di emarginazione e segregazione. A guardarlo dall’altra sponda del canale non c’è nulla che lo faccia sembrare particolare. L’ingresso è quasi nascosto in un sotopòrtego da un angusto passaggio: qui c’era il cancello che restava chiuso dal tramonto all’alba di ogni giorno, sorvegliato dalle guardie. Poco oltre, una manciata di calli dai palazzi alti (la densità della popolazione fece sì che in questa zona le case raggiungessero i sette piani contro i tre o quattro del resto della città) e cinque sinagoghe. Un tripudio di pulpiti, paramenti, portoni, matronei che

IN MUSICA

Balli di corte. Si celebra a Vienna l’arte di “Far festa” con banchetti regali e pubbliche baldorie. Per la notte, un nuovo hotel black&white

K

unsthistorisches Museum Vienna, 8 marzo-18 settembre: è qui la festa. O meglio è qui che si celebra l’arte di “Far festa”. Balli di corte, matrimoni, banchetti regali, compleanni blasonati, carnevali, consacrazioni di chiese e pubbliche baldorie sono i protagonisti della grande mostra organizzata in occasione del centoventicinquesimo compleanno del celebre museo viennese. Un omaggio alle tante culture delle feste nate nelle corti, nelle campagne e nelle grandi città d’Europa dal tardo medioevo fino al XVIII secolo. Le sale del Kunsthistorisches accolgono una teoria di oggetti svariati e curiosi: c’è la monumentale tovaglia che l’imperatore Carlo V ordinò in occasione di una festa feudale nel 1527 e la “seggiola per bere” del XVI secolo che imprigionava gli ospiti e li liberava soltanto quando avevano bevuto, completamente, una 96

SETTE | 09— 04.03.2016

coppa di benvenuto. E poi accessori, suppellettili che vengono dalle residenze degli Asburgo e quadri a tema come la Danza contadina di Pieter Bruegel e le opere della Fete galante, un genere pittorico del XVIII secolo che rappresenta figure festanti in contesti naturali. Se cercate un albergo in zona prenotate al nuovissimo Hotel Grand Ferdinand sulla Ringstrasse: stanze di design dove domina il bianco e nero con vasche da bagno e lavandini a vista che fanno arredo, un ristorante che offre piatti della cucina tradizionale austriaca e un piccolo bistro, il Gulash & Champagne (grandferdinand. com, doppia da 187 euro). Per i gourmand ha appena aperto il Lingenhel (lingenhel.com), negozio di delikatessen e caseificio che trasforma latte di bufala e capra in camembert e mozzarelle, e che, in primavera, avrà anche un ristorante con giardino.


Confinati Nella foto grande, una parte del ghetto vicino a Fondamenta San Girolamo; sotto, un interno della sinagoga Todeschi.

finiscono l’uno nell’altro, si confondono con le case private e sono lo specchio dell’obbligata convivenza dei popoli che si dividevano il ghetto. C’è la sinagoga grande dei Todeschi (gli askenaziti), quelle dei Levantini, dei Provenzali, dei Ponentini e degli italiani. E un locale dai sapori antichi, il Ghimer Garden Kosher restaurant; il menu rispetta le regole della cucina kosher e offre piatti come hummus, falafel, babaganoush e laktes, la frittella di patate della tradizione ebraica (ghimelgarden.com, sui 35 euro). Lezioni di cucina. In occasione dei 500

anni del ghetto l’Associazione Veneziana

degli Albergatori ha creato anche pacchetti turistici ad arte che prevedono visite guidate al quartiere e alle sinagoghe, pranzo kosher, soggiorni in coincidenza di eventi legati all’anniversario e lezioni di cucina ebraico-veneziana (avanews.it). Un esempio? La Locanda del Ghetto, in campo del Ghetto Nuovo, offre due notti con visita al Museo Ebraico e alle sinagoghe, un giro al Cimitero Ebraico al Lido di Venezia e un pranzo kosher al Ghimel Garden a 404 euro (locandadelghetto.net/it).

LAST MINUTE

CABO VERDE È dedicata agli amanti di surf e immersioni l’offerta del Bravo Vila do Farol nell’arcipelago di Cabo Verde al largo delle coste del Senegal (villaggibravo.it). Il villaggio si trova sull’isola di Sal, un susseguirsi di dune sabbiose e spiagge solitarie sempre battute dal vento e da onde alte, perfette per gli appassionati della tavola. E non mancano i tesori sommersi come il relitto Kwarcit, un’imbarcazione russa che giace a 28 metri di profondità e che si è trasformata in uno straordinario reef artificiale. Una settimana in all inclusive con volo da Milano Malpensa (partenza il 9 marzo) costa 904 euro a persona. KARELIA Viaggio alla scoperta dell’altra faccia della Russia, la remota regione della Karelia. Un piccolo mondo antico fatto di minuscoli villaggi, banie (le case tradizionali) perdute nei boschi, foreste innevate. Kel 12 (kel12. com) propone un tour di otto giorni con partenza il 9 marzo e quote da 2.700 euro, compresi il volo dall’Italia ed escursioni sulle slitte trainate dai cani e in hovercraft sui laghi ghiacciati. CARAIBI

Mecca dei golosi. Per un anno, Toledo sarà capitale del buon cibo: cochifriti, sopa, tapas

P

er un anno Toledo sarà la mecca dei golosi. La città è la capitale spagnola della gastronomia 2016 ed è pronta a celebrare il titolo con eventi culinari (il concorso “Tapeando por Toledo” a giugno e le Giornate della Tapa con il Cocktail a Toledo a novembre) e un’orgia di gustosi piatti locali. Come il cochifrito (a base di carne di agnello o maiale, prima stufata e dopo fritta con olio e spezie) e la sopa castellana, un brodo cotto in una pentola di coccio a base di aglio, paprika

dolce e prosciutto con aggiunta di pane e uova. Per un assaggio delle tante delizie locali acquistate il Toldeo Pass Gormet, un tour tra i locali della città con sosta per provare in ciascuno un diverso tipo di tapas (spain.info). Il goloso pass è un’occasione perfetta per vagare nel centro storico di Toledo: un coacervo di monumenti dagli stili eclettici (arabo, mudejar, romanico, gotico, rinascimentale) dichiarati Patrimonio Unesco. Da vedere la Cattedrale, che custodisce alcune opere di El Greco tra cui la Spoliazione di Cristo, la fortezza dell’Alcazar e la chiesa di Santo Tomé. Qui attorno si allarga la Judaria, il quartiere ebraico, che conserva due splendide sinagoghe, quella del Transito, celebre per i suoi elaborati stucchi, e Santa Maria La Blanca, impreziosita da eleganti capitelli. Proprio in centro l’Hotel Abad Toledo, ricavato da un’ottocentesca fucina da fabbro, offre belle camere con vista (hotelabad.com, 125 euro).

Una crociera alla scoperta delle grandi isole dei Caraibi, Cuba, Santo Domingo e Giamaica, a bordo della goletta Star Flyer un quattro alberi che può portare fino a 170 passeggeri. Tappe all’Avana, all’isoletta di Cayo Largo e Isla de la Juventud (paradisi per i sub), e poi a Montego Bay e a Santo Domingo. Dieci giorni con sistemazione in cabina doppia esterna e trattamento di pensione completa a bordo costano minimo 2.335 euro a persona. Informazioni: starclippers.com. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

97


Piaceri&Saperi Detti & Contraddetti / di Luigi Ripamonti

Occhio ai blog “liberi”, la salute è cosa seria

Troppo spesso su internet dilagano informazioni superficiali, sbagliate o pericolose. Il caso dei bollini blu simboli d’affidabilità

I

nternet e i social media fanno bene alla salute? La domanda torna d’attualità dopo la scomparsa di Umberto Eco, secondo il quale i “social” davano parola a “legioni d’imbecilli”. Aveva ragione? Nel campo della medicina la risposta, nello spirito di questa rubrica, è duplice. Cominciamo dal “detto”: i social network, e più in generale internet, sono senza dubbio una grande opportunità per la libera informazione. Quando si tratta di temi delicati come quelli che attengono alla salute, tuttavia, questa libertà può anche trasformarsi in un pericolo. Ecco il “contraddetto”: senza invocare censure, è palese il rischio rappresentato dal piano di parità di cui può godere in rete l’opinione di chi ha orecchiato qualcosa su un argomento e quella di chi, sullo stesso, ha speso la vita a studiare. Non è un caso che già nella prima metà degli anni Novanta l’Health on the Net Foundation (Hon), un ente indipendente, avesse messo a punto un certificato di attendibilità (vero e proprio bollino da esibire sulla pagina) che poteva essere rilasciato ai siti web che trattavano di salute solo dopo un periodo di osservazione su quanto pubblicavano. Se il problema si era posto già allora, a maggior ragione si ripropone adesso, visto che il passaparola di una volta fra vicine di casa sul rimedio per la tosse può assumere la forza d’urto di uno tsunami planetario, le cui onde hanno l’aspetto di cinguettii, “quotation”, o “like”. Il rischio è allora diventare lettori di informazioni a volte superficiali, a volte sbagliate, a volte deliranti o pericolose, generate da un’ignoranza che si accompagna non di rado a proporzionale sicumera, quando non a violenza verbale. Diverse asserzioni “scientifiche” che circolano sulla Rete, pur avendo fondamenti fragilissimi, hanno, nondimeno, la capacità di influenzare in modo profondo la coscienza collettiva, con conseguenze non solo sul pia-

no individuale ma anche sociale e politico. Vale forse allora la pena soffermarsi su un problema di fondo. Molti sostenitori del “superamento” del medico e dei mezzi d’informazione “ufficiali”, fra cui i giornali con i loro siti, ritengono sia meglio fidarsi della libertà di un blogger piuttosto che della “casta” delle istituzioni e dei media “di regime”. Può essere una scelta azzeccata: blogger e social network possono essere i “cani da guardia” della libera informazione. Però, sarebbe sbagliato fare di tutta l’erba un fascio anche in questa categoria. Perché come è giusto avere un occhio severo verso l’informazione “consolidata”, lo stesso atteggiamento si dovrebbe avere verso un’informazione che non può definirsi indipendente solo per diritto statutario. E potrebbe essere allora Potrebbe essere opportuno chiedersi come campano opportuno alcuni blogger o siti d’informazione chiedersi come “contro”. Si potrebbe scoprire che talvolta sono molto meno affrancati campano alcuni da interessi di quanto non si sforzino blogger o siti di di sembrare. E non si pensi solo o a notizie “contro”. forme di finanziamento più o meno Si scoprirebbero facili da decrittare, ma anche ai vanmolte cose taggi diretti e indiretti che possono derivare, per esempio, da un’affiliainteressanti zione ideologica. Lo stesso vale per alcune “star” dei social o di YouTube, la cui “ricompensa” potrebbe essere rappresentata non solo da introiti economici legati al traffico che producono per le piattaforme sui cui agiscono, ma, magari, anche solo dall’alimentazione del proprio ego, costi quel che costi (agli altri). Il problema è che «da quando la gente ha smesso di credere in Dio ha cominciato a credere a tutto». Non so chi l’abbia detto, ma dev’essere vero: l’ho letto su Twitter.

IN LIBRERIA

«P PAZZI DA SLEGARE di William A. White Castelvecchi pp. 77 12,50 euro

azzi da slegare» non è un libro sulla legge Basaglia, ma una raccolta di scritti di William A. White, fondatore della cosiddetta “psichiatria umanitaria”, che ha rappresentato nella prima metà del secolo scorso un movimento seminale per le successive scuole che hanno poi esitato, anche in Italia, in una profonda

revisione del rapporto fra disagio mentale e tessuto sociale. White fu antesignano della rinuncia ai metodi coercitivi e della promozione di trattamenti più umani, con l’abolizione della camicia di forza e la promozione di strutture più idonee e accoglienti per i sofferenti di patologie psichiatriche. Una filosofia fondata sul riconoscimento che

la malattia mentale è definibile e comprensibile solo in chiave relazionale, e non assoluta, cioè in rapporto al tessuto sociale all’interno del quale si esprime come differenza dall’usuale. Un documento per i “cultori della materia”, ma anche una lettura stimolante per chi nutra una curiosità non professionale per l’argomento. © RIPRODUZIONE RISERVATA

98

SETTE | 09— 04.03.2016


Consigli alimentari / di Caterina e Giorgio Calabrese

Hai i crampi? Mangia una banana

Ricco di potassio, il frutto aiuta il cuore e la pressione sanguigna. Ma le quantità variano da soggetto a soggetto

Raphael Nadal

PAGINE DI SCIENZA

OLYCOM

M

olti nostri lettori sportivi ricorderanno l’immagine, in Coppa Davis, del grande campione di tennis Michael Chang, che nel 1989 disputò, al Roland Garros di Parigi, un leggendario match contro l’allora numero uno del mondo, Ivan Lendl. Questo incontro si protrasse fino al quinto set e Chang fu assalito da crampi agli arti inferiori e, per riprendersi, cominciò a mangiare, tra un game e l’altro, banane a iosa. Tanti spettatori rimasero stupiti e si chiesero il perché, la spiegazione scientifica è che la banana è ricchissima di potassio e di sodio, due oligominerali molto importanti per tutti, ma in special modo per gli atleti. Ancora oggi, campioni tennisti come Raphael Nadal continuano questa tradizione nutritiva perché, a loro dire, non riescono a farne a meno. Una banana media in genere fornisce circa 200 chilocalorie e sarebbe giusto introdurla almeno mezz’ora prima dell’incontro agonistico. È stato più volte dimostrato che il potassio fa tanto bene al cuore e al sistema cardiocircolatorio, infatti ha un ruolo fondamentale, specie se introdotto più con i cibi piuttosto che sotto forma di pillole. Il potassio introdotto con gli alimenti, d’altronde, contribuisce alla prevenzione e alla riduzione della pressione sanguigna nelle persone ipertese. Costoro devono fare più moto, ridurre il peso in eccesso, assumere meno alcol e sale e favorire il consumo di quei cibi che sono naturalmente ricchi di potassio. È utile, inoltre, nel regolare la contrattilità muscolare, nel ridurre la ritenzione idrica e nel coordinare la trasmissione nervosa. Quando si fanno grandi sforzi muscolari, il potassio è assolutamente necessario al muscolo, specie il cuore. Questo minerale si mette in equilibrio mantenendo nel cuore un apporto di sangue corrente e distribuisce l’energia a tutte le parti attive dell’organismo. Se così non fosse, l’atleta verrebbe assalito dai crampi, specie ai polpacci, impedendogli di continuare la gara. Il potassio è presente soprattutto negli alimenti vegetali: frutta, verdura, legumi, erbe aromatiche e spezie, ma lo troviamo anche nelle carni fresche che possiedono una maggiore concentrazione di potassio e un miglior rapporto potassiosodio. Il contenuto corporeo totale di po-

tassio varia però da soggetto a soggetto, in base al suo indice di massa magra perché si concentra di più nelle fibre muscolari scheletriche. Si raccomanda, per gli individui adulti sani, un livello di assunzione pari a 3,9 g/die (al giorno). In età evolutiva il fabbisogno di potassio cambia in funzione dell’età: 400 mg/die, 700 mg/die, 2,4 g/ die, 3 g/die, rispettivamente per i lattanti e i bambini fino a tre, sei e dieci anni. In soggetti con ridotta funzionalità renale va posta particolare attenzione al livello massimo di assunzione che è posto a 5,9 g/die. Se si soffre di ritenzione idrica bisogna preferire cibi ricchi di potassio, riducendo il sale. Il sodio fa trattenere liquidi e il potassio aiuta a rilasciarli e sono come cane e gatto se entra in eccesso l’uno esce l’altro mantenendo così l’equilibrio. Occorre mantenersi idratati quotidianamente, assumendo almeno 1,5 litri d’acqua, meglio se a basso apporto di sodio (non più di 20 mg/litro).

di Giovanni Caprara

Lavoro, amori e l’amico italiano di Einstein

A

ncora una volta Einstein aveva ragione. Esattamente cent’anni dopo la pubblicazione della sua teoria della relatività generale, i fisici scoprono le onde gravitazionali da lui previste nella descrizione dello spazio-tempo. Viveva a Berlino nel 1916 e proprio in quell’anno avviava la pratica di divorzio dalla sua prima moglie Mileva, di fatto separata essendo andata a vivere a Zurigo con i figli Hans ed Eduard. Il genio aveva già una relazione con la cugina Elsa che poi sposerà. La vita privata di Einstein con i suoi frequenti amori, la solitudine delle sue giornate e le mitiche (talvolta inventate) sbadataggini si fonde inesorabilmente alle tappe della scienza di cui segnò la storia. Entrambe sono ben esplorate nel libro di Vincenzo Barone, fisico teorico dell’Università del Piemonte Orientale e curatore delle edizioni italiane degli scritti einsteiniani pubblicate da Bollati Boringhieri. Curioso, tra le numerose vicende, lo stretto rapporto (raccontato e poco conosciuto) sempre mantenuto dallo scienziato con Michele Besso, figlio di un funzionario delle Assicurazioni Generali di Trieste. Ingegnere meccanico di formazione, con lui discuteva le idee scientifiche ma condivideva pure le turbolenti parentesi sentimentali che spesso si chiudevano amaramente. ALBERT EINSTEIN, IL COSTRUTTORE DI UNIVERSI di Vincenzo Barone, Editori Laterza, pp. 175, 14 euro © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09— 04.03.2016

99


Piaceri&Saperi BenEssere / di Elena Meli

E tu, di che memoria sei?

C’è chi ricorda fatti del passato con ampie sfumature e chi, invece, ha rimosso ogni dettaglio. L’importante è allenarsi

C’è chi ricorda soprattutto i dettagli delle esperienze passate e chi invece rammenta bene i fatti, ma non saprebbe scendere nei particolari. Ognuno di noi ha un suo “stile di memoria” che, a sorpresa, riflette una diversa organizzazione cerebrale: Signy Sheldon, psicologa della McGill University in Canada, lo ha appena dimostrato sulla rivista Cortex analizzando con la risonanza magnetica persone con una buona memoria episodica, cioè in grado di ricordare gli eventi del passato con abbondanza di sfumature, e altre con una memoria semantica, ovvero capaci di rievocare molto bene un fatto ma senza sapervi aggiungere dettagli specifici. Stando ai risultati, una memoria autobiografica ricca di vividi particolari si associa a collegamenti più forti e numerosi fra il lobo temporale mediale, area coinvolta nella formazione dei ricordi, e la corteccia visiva; la tendenza a rievocare il passato senza soffermarsi sulle “minuzie” invece è correlata a una maggior connessione fra il lobo temporale mediale e le zone frontali del cervello deputate al ragionamento e all’organizzazione. «Sono differenze cerebrali stabili, presenti non solo quando la persona ricorda: lo stile di memoria è perciò una caratteristica personale che può incidere sul funzio-

namento del cervello – spiega Sheldon –. Inoltre, poiché con l’avanzare dell’età una delle prime difficoltà di memoria è proprio l’incapacità di rammentare dettagli fini degli eventi trascorsi, le differenze potrebbero associarsi a una diversa “reazione” all’invecchiamento: chi ha una memoria prevalentemente episodica, per esempio, potrebbe essere più sensibile a variazioni anche minime nella capacità di recuperare i ricordi mentre persone con memoria semantica, meno inclini a rammentare i particolari, potrebbero essere più “resistenti” ai deficit correlati all’età». Secondo la ricercatrice canadese questo apre le porte a possibili nuovi approcci al trattamento di anziani con problemi mnemonici, ma per il momento si tratta di ipotesi (e speranze). È invece certo che la memoria si può allenare: secondo l’Harvard Medical School di Boston bastano sette semplici passi per rafforzarla. 1 Non smettere mai di imparare è la regola numero uno: un livello di istruzione elevato si associa a un miglior funzionamento cognitivo da anziani, ma non è mai troppo tardi

per tenere attiva la mente. Leggere, scrivere un diario, fare progetti, impegnarsi in attività nuove, studiare musica o una nuova lingua sono passatempi efficaci e adatti a ogni età. 2 Utilizzare sempre tutti i sensi aiuta ad affinare la memoria, perché la “traccia” del ricordo viene rafforzata se l’esperienza per esempio attiva vista e olfatto assieme, oppure gusto e tatto e così via: associare più di un input sensoriale quando si impara o si vive qualcosa di nuovo è un ottimo mezzo per ricordarlo meglio. 3 Non credere nello stereotipo dell’anziano smemorato: nei test mnemonici gli over 65 che ritengono ineluttabile l’oblio ottengono punteggi peggiori rispetto a AlAmy

lEggErE o STudiarE coSE nuovE: coSì la mEnTE non invEcchia

Sex & The Science / di Anne Kelly innocEnTi BugiE

EvErEtt CollECtion/ContrAsto

Molte cose, col tempo, si affinano nella vita di coppia. Dell’altro sappiamo interpretare sempre meglio gli sguardi, i silenzi, il linguaggio del corpo, perfino il significato che dà alle parole con tutte le possibili sfumature. Fino alle menzogne. Eppure c’è qualcosa che resiste a lungo a una corretta interpretazione da parte del partner ed è tutto ciò che riguarda in gene100

SETTE | 09— 04.03.2016

rale il sarcasmo, la presa in giro, la bugia innocente. Facciamo due esempi. «Come mi sta la nuova pettinatura?» «Meravigliosa». Oppure: «Dove sei stato ieri sera?» «Al calcetto, come sempre...». In entrambi i casi lui sta mentendo. Considera ridicola quella pettinatura e ha passato la sera prima in casa della collega d’ufficio... e non per lavorare. Ebbene, per strano che possa sembrare

è più facile che lei riconosca la seconda bugia piuttosto che la prima. Il motivo è piuttosto semplice: noi siamo portati a pensare “di default” che l’altro, soprattutto se è il nostro partner, dica la verità. Così in una ipotetica linea della menzogna, la seconda e più grave bugia si trova così lontana dalla verità che è facilmente distinguibile, mentre la prima, poco rilevante, si confonde facilmente e magari non viene avvertita. Siamo nell’insidioso terreno in cui si mescolano piccole prese in giro, mezze bugie di poco conto e sarcasmo, quest’ultimo


di dario oscar archetti archetti.dario@gmail.com

elena_meli@alice.it dolori addio

la spalla fa un gran male ed è rigida: colpa della tendinite calcifica

I

l dolore alla spalla è forte, fortissimo. Può tenere svegli di notte, rendere difficili i movimenti più semplici della vita quotidiana e impedire di lavorare. Lo specialista chiede una semplice radiografia e la diagnosi è “tendinite calcifica”. Tutto questo succede con una certa frequenza. Secondo uno studio francese, la patologia colpisce circa il sette per cento della popolazione; secondo una ricerca americana, il 35, ma solo nel cinque per cento dei casi dà sintomi. Si dice che colpisca più le donne, che l’incidenza massima sia fra i 30 e i 40 anni oppure tra i 40 e 50. L’unica certezza è che sia del tutto assente negli anziani. Gli studi sono rari e come avrete già capito non proprio concordi. Ancora non si sa perché si formino quelle calcificazioni su un tendine della cuffia dei rotatori, in genere il sovraspinoso. Si sa soltanto che sono la conseguenza di un’infiammazione, spesso provocata da sforzi continui: la patologia si riscontra in atleti (in particolare, nei lanciatori di peso o giavellotto e nei saltatori con l’asta) e in chi usa molto la spalla per lavoro, come muratori e fabbri. Ma sta facendo capolino anche in chi muove la spalla con pochissimo sforzo, per azionare il mouse del computer. Possono peggiorare la condizione un massaggio fatto in un momento sbagliato, cioè quando è in atto un’infiammazione, oppure un’infiammazione curata male. Ma perché la tendinite calcifica è così dolorosa? Un

particolarmente difficile da identificare. Lo conferma una ricerca della McGill School of Communication Disorders che ha realizzato quasi mille brevi video che mostrano diversi aspetti della comunicazione interpersonale e che servono da campione per identificare correttamente i comportamenti delle coppie. Particolare curioso. Se lei chiede all’amica come le sta la nuova pettinatura e l’altra (mentendo) risponde «Meravigliosa» è più facile che l’innocente bugia venga subito scoperta. È solo con il partner che si cade in errore. Attenzione.

Effetto a catena. Nell’attesa di nuove

terapie, oggi esistono comunque efficaci strumenti per trattare una patologia che non è mai da sottovalutare sia per i forti dolori che provoca, sia per l’effetto a catena: il male porta a muovere meno la spalla e la spalla diventa sempre più rigida. Si tratta di un’articolazione complessa e delicata: in caso di dolore, evitate accuratamente terapie fai da te e massaggi prima di avere una diagnosi. Se un fisiatra o un ortopedico accertano, per mezzo di una radiografia, che si tratta di tendinite calcifica, possono consigliarvi specifici laser, onde d’urto o tecarterapia. Importantissima anche la riabilitazione articolare con un fisioterapista, per non perdere il movimento, perché la spalla tende alla rigidità. Spesso le calcificazioni si riassorbono, ma in alcuni casi può essere necessario intervenire con dei “lavaggi” che eliminano i depositi di calcio o asportandoli chirurgicamente. Poi, con un po’ di prudenza e un’adeguata riabiltazione, si torna in forma perfetta.

illustrazioni di sandra franchino

chi pensa che la memoria possa essere mantenuta giovane anche in là con gli anni. «Pensare che i deficit siano inevitabili spinge a non far molto per contrastarli e li rende poi davvero più probabili», spiegano gli esperti di Harvard. 4 Non sprecare energie cognitive per ricordare dettagli insignificanti: è bene organizzare spazi fissi per gli oggetti che tipicamente vanno persi, dalle chiavi agli occhiali, e fare liste o usare calendari per segnare impegni o informazioni secondarie. In questo modo il cervello resta più libero per focalizzarsi su dati nuovi e memorie essenziali. 5 Ripetere a voce alta o scrivere ciò che si vuole ricordare aiuta a fissarlo nella mente: ribadire il nome di qualcuno che ci è appena stato presentato o appuntarsi qualcosa che si è sentito sono trucchi utili per creare una “traccia mnemonica” più forte. 6 Per imparare qualcosa di nuovo l’iterazione aiuta, ma è meglio fare intervalli sempre più lunghi fra una ripetizione e l’altra. «Distanziare i periodi di studio migliora il ricordo non solo in persone sane, ma perfino in chi ha problemi cognitivi», osservano gli esperti statunitensi. 7 Per ricordare meglio liste o simili sono utili le associazioni mentali: un acronimo azzeccato può essere il modo migliore per non scordare più un elenco di parole o istruzioni.

recentissimo studio pubblicato sul Journal of Bone and Joint Surgery ha verificato che questa condizione è accompagnata da un’anomala crescita della micro-vascolarizzazione e della micro-innervazione dell’area. Il che spiegherebbe i forti dolori e indurrebbe a nuove ricerche, dice il dottore George A. C. Murrell, ortopedico australiano autore dello studio, «sulla presenza e sul ruolo di cellule immunitarie nella tendinite calcifica».

© riproduzione riservata

SETTE | 09— 04.03.2016

101


Fondazione Corriere della Sera

Le donne e i miti (veri e falsi) sull’Islam

L’8 marzo si parla di dimensione femminile intorno al Corano di Daniele Angi

«A

gli occhi di un occidentale, una donna velata appare come il simbolo negativo dell’Islam. È l’immagine della misoginia dei musulmani, del loro essere contro le donne, della prepotenza avallata dal Corano. Ma chi pensa questo sbaglia: siamo infatti di fronte a uno, forse il più evidente, dei tanti falsi miti sull’Islam». A parlare così è Anna Vanzan, iranista e islamologa, docente di Cultura Araba e massima esperta di problematiche di genere nei paesi islamici. «In realtà il velo non è una costrizione per le donne, se non in rari casi, ma una scelta dettata dalla cultura e dalla tradizione. Quanto al Corano, parla dell’uguaglianza ontologica tra i due sessi. Non è un caso che molti teologi e teologhe partano proprio dal libro sacro dell’Islam per chiedere la parità dei sessi. Per loro, il Corano è simbolo di libertà e progresso. A interpretarlo diversamente, azzerando i diritti delle donne, sono soltanto i cosiddetti islamici radicali». Anna Vanzan, che sul tema ha scritto i libri La storia velata (2006) e Le donne

di Allah (2010), parlerà proprio di falsi miti sulle donne e sull’Islam nell’incontro con la giornalista Viviana Mazza organizzato per il prossimo 8 marzo dalla Fondazione Corriere della Sera con Ispi e Università Bocconi. «Ogni nostro giudizio sui musulmani», spiega, «è intrinsecamente legato alla posizione che la donna occupa in quel mondo, che, pur se variegato e composito, a noi appare come una nuvola omogenea. La realtà dice che nei paesi islamici esiste un forte movimento femminista, anche se con

diverse sfumature rispetto a quello occidentale: lì le donne sono infatti musulmane convinte e proprio all’interno dell’Islam cercano nuovi spazi e nuova libertà, rivendicando i loro diritti in famiglia e nella società. Non contestano la sharia, ma le leggi e la giurisprudenza, da secoli in mano agli uomini». Ciò che una studiosa come la Vanzan non può accettare è la presenza delle donne tra le fila dell’Isis. «È inspiegabile per me che alcune donne, musulmane ma anche europee, scelgano la jihad. Oggi è impossibile pensare che non sappiano quello a cui vanno incontro. Il Califfato vede la donna come moglie e madre, senza riconoscerle diritti. Eppure sembra che ci sia una corsa di certe donne ad arruolarsi, trasformandosi, nel migliore dei casi, in strumenti di sfruttamento contro altre donne: spesso diventano infatti aguzzine, o carceriere, assumendo una parte attiva nell’ingranaggio del terrore».

APPUNTAMENTI MILANESI

Lunedì 7 marzo Alimentazione, dna e salute. I 30 cibi di lunga vita Eliana Liotta, Pier Giuseppe Pelicci, Giangiacomo Schiavi, Lucilla Titti in collaborazione con Fondazione IEO-CCM Ore 18 Sala Buzzati Martedì 8 marzo Donne e Islam: oltre i falsi miti Viviana Mazza, Anna Vanzan con Ispi e Università Bocconi Ore 18 Sala Buzzati Mercoledì 9 marzo La questione curda: un nodo irrisolto Lucia Goracci, Giovanni Parigi Ore 18 Università Bocconi Ingresso libero solo con prenotazione rsvp@fondazionecorriere.it 0287387707 Le prenotazioni per l’incontro in Università Bocconi: www.ispionline.it

DALL’ARCHIVIO STORICO

Il Corriere compie 140 anni, la Fondazione 15 A destra, il primo numero del Corriere (5 marzo 1876). Nell’atto ufficiale della formazione della società editrice del Corriere si legge: «I. Sarà scopo del Giornale di promuovere lo sviluppo calmo, moderato, senza partigiane preoccupazioni e senza secondi fini delle idee liberali in tutta l’azienda politica dello Stato... II. Il capitale sociale viene stabilito in lire 45 mila diviso in numero nove carature da lire 5 mila cadauna, delle quali: N. 3 vengono assunte dal Sig. avv. Pio Morbio, N. 1 dal Sig. Duca Visconti di Modrone, N. 1 dal Sig. March. Claudio Dal Pozzo, N. 1 dal Sig. Cav. avv. Riccardo Pavesi, N. 1 dal Sig. avv. Cav. Alessandro Colombani, N. 1 dal Sig. Giulio Bianchi, N. 1 dal Sig. Comm. Bernardo Arnaboldi Gazzaniga». La società stentava, molti debiti e nessuna disponibilità dei soci a investire. Nel 1885 Benigno Crespi rileva la società e investe 100.000 lire. E il Corriere fa un balzo in avanti. © RIPRODUZIONE RISERVATA

102

SETTE | 09Ñ 04.03.2016


Piaceri&Saperi Cocktail Martini / di Paolo Martini

In viaggio con il “greco” Anacharsis

Barone di origine olandese. Autore e polemista, sul patibolo chiese solamente «di essere sepolto sotto un bel prato» CLOOTS, IL PRIMO NICHILISTA, ORGOGLIOSAMENTE ANTI-ISLAMICO Nel mare delle divagazioni e dei riferimenti di Moby Dick, Herman Melville ci fa subito trovare Anacharsis Cloots. Un nome che, peraltro, ritorna anche in altri due capolavori della narrativa melvilliana, Billy Budd e L’uomo di Fiducia, sempre a connotare la composizione internazionale, dell’ambiente narrato, imbarcazioni che sono davvero “globalizzate”. Singolarissimo personaggio, Cloots, sempre d’attualità: fu, tra l’altro, polemista autore, nel 1780, di La certitude des Preuves du Mahometisme, ou Refutation de l’esame critique des apologistes du la religion Mahométane, firmato con lo pseudonimo Ali Gier Ber (l’abate Bergier aveva appena scritto un famoso volume apologetico, La Certezza delle prove del cristianesimo). Dopo il pamphlet radicalmente anti-islamico, e anti-cristiano, Cloots diventerà un rivoluzionario propagandista della religione universale dei diritti dell’uomo e nel suo più celebre discorso, il 26 dicembre 1793, disse: «La Repubblica dei diritti dell’uomo non è né teista né atea: è nichilista» (tra l’altro, questo è il primo riferimento storico all’idea del “nichilismo”).

L’ORATORE DEL GENERE UMANO SERENO FINO ALLA GHIGLIOTTINA Jean-Baptiste du Val-de-Grâce, barone di Cloots, nato nel 1755 presso Clèves (Brandeburgo), figlio di una famiglia nobile di origine olandese, si trasferì a Parigi nel 1776, fece vita culturale partecipando anche alla compilazione dell’Encyclopédie di Diderot e poi viaggiò in Europa. Tornò in Francia per la Rivoluzione e fu un personaggio di punta dei Giacobini. Fu poi epurato e processato da Robespierre come agente straniero, soprattutto a causa delle sue convinzioni favorevoli a una più decisa scristianizzazione. «Non c’è altro Dio al di fuori della natura, altro sovrano al di fuori del genere umano, il popolo-Dio», ripeteva all’arcivescovo Gobel per convincerlo all’abiura. Alla fine Cloots venne ghigliottinato il 24 marzo 1794, a Parigi, durante la celebre esecuzione capitale dei cosiddetti “esagerati”, i seguaci di Jacques René Hébert, leader dell’ala radicale dei Giacobini. Cloots non si scompose nemmeno di fronte al patibolo, eretto di fronte a una folla enorme. «Chiese solo di esser sepolto sotto un bel prato», scrive Roberto Paura nella sua recente Storia del Terrore (ed. Odoya 2015, pp.415, 24 euro), dedicata a quel periodo della Rivoluzione «che fu senza dubbio il laboratorio politico del XX e del XXI secolo», in cui Cloots fu un personaggio di prim’ordine.

UN MITO PER LE NOVE SORELLE COME PER I RIVOLUZIONARI Leggendario anche il culto di cui Cloots è stato oggetto. Al suo sogno di “una repubblica del genere umano” avrebbe fatto riferimento la Loggia delle Nove Sorelle, di grande influenza per la nascita degli Stati Uniti, stando al letterato ed esoterista Antoine Court de Gébelin, che ne fu animatore, per formare nel mondo «un immenso circolo, un’autentica repubblica universale, il cui centro era Parigi, ma i cui raggi penetravano ovunque», come si legge nel profilo di Anacharsis Cloots, Avant la révolution, pubblicato nel 1901 dal geografo Henri Baulig. La memoria di rivoluzionario di Cloots è stata onorata dai primi bolscevichi e poi ancora rilanciata negli anni Sessanta dai rivoluzionari terzomondisti, primi tra tutti Frantz Fanon (foto; l’autore de I dannati della terra), che ebbe tra l’altro grande influenza su Che Guevara. A rilanciare questa singolare figura di super-rivoluzionario nel 1977, infine, fu il padre del Situazionismo Guy Debord, come ricorda Fausto Lupetti: Debord convinse l’editore Lebovici a ripubblicare la monografia del primo grande storico della Rivoluzione Georges Avenel, Anacharsis Cloots. L’Orateur du genre humain (L’oratore del genere umano, 1865).

Quel filo rosso che giunge all’anti-modernismo Il nome adottato da Cloots, che si rifà al filosofo greco sciita Anacharsys, testimonia la vasta influenza che ebbe a partire dalla fine del Settecento, il Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia di Jean-Jacques Barthelemy (1788), che fu anche uno dei primi veri e propri romanzi storici. «Il Viaggio d’Anacarsi», scrisse Ugo Foscolo, «ci porge luminosissimo specchio quanto possa un romanzo senza taccia di menzogna iniziare i men dotti nel santuario della storica filosofia». A Melville la vicenda di Cloots perviene invece attraverso la Storia della Rivoluzione francese del filosofo Thomas Carlyle, autentico profeta dell’anti-modernismo che ebbe grande influenza negli Stati Uniti, e anche su Melville (in Moby Dick ci sono riferimenti al pamphlet Sartor Resartus). Del resto «sebbene in alcune lettere Melville ami presentarsi come scrittore di romanzi popolari, basta dare un’occhiata alla miriade di allusioni che, spesso quasi di sfuggita, compaiono in tutti i suoi lavori, per avere un’idea del retroterra culturale, magari a volte acritico e non di rado caotico, sul quale poggiano le sue narrazioni»: così Ruggero Bianchi, traduttore, curatore e studioso dell’opera di Melville, inquadra nel suo Invito alla lettura di M., edito da Mursia nel 1997.

LA CITAZIONE Il linguaggio viene chiamato Veste del Pensiero; si dovrebbe piuttosto dire: il linguaggio è l’Abito di Carne, il Corpo del Pensiero. Le metafore sono la sua materia prima. Thomas Carlyle, 1836 Citazione da Sartor Resartus (Il sarto rappezzato), libro che il filosofo inglese, anti-modernista e primo critico dell’anti-industrialismo, pubblicò negli Stati Uniti con la prefazione del trascendentalista Ralph Waldo Emerson. La fascinazione per Carlyle, dalla seconda metà dell’Ottocento è arrivata fino a Jorge Luis Borges, che nel 1945 scrisse una “nota preliminare” all’edizione argentina, in cui tra l’altro si legge: «Nessuno ha sentito con altrettanta intensità che questo mondo è irreale (irreale come gli incubi, e disumano). Sartor Resartus spiega e giustifica questa irrealtà [...] Non esiste un libro più intrepido e vulcanico, più tormentato dalla desolazione». Si può leggere anche Borges nella nuova traduzione italiana del Sartor, qui citata, edita da Liberilibri nel 2010 (pp. 390, 20 euro) e curata da Carla Maggiori. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

103


L’edicola del Corriere

Cesare ritorna nel Foro (con le telecamere)

Piero Angela racconta la storia dell’Antica Roma in 15 dvd

di Peppe Aquaro

E dopo arriva Cleopatra. Sfogliando i titoli dei dvd delle prime 15 uscite di “Antica Roma”, leggiamo di “Augusto, il primo imperatore” e di “Annibale, il terrore di Roma”, oppure di “Spartaco, la rivolta dei gladiatori” e subito dopo di “Caligola, la follia e il caos”: è chiaro che gli appuntamenti in edicola non rispecchiano una cronologia fedele degli avve-

GettyImaGes

I

l ricordo della vittoria su Pompeo è ancora lì, tra le pietre e le colonne del tempio dedicato a Venere Genitrice, nei Fori Imperiali di Roma. Lo aveva promesso, Giulio Cesare, prima della battaglia greca di Farsalo, combattuta e vinta contro il concittadino Gneo Pompeo Magno. E così fece, realizzando il tempio da dedicare alla dea progenitrice della gens Julia. Da quelle tre colonne – ciò che oggi rimane del tempio – può avere inizio il racconto delle gesta del condottiero che si autoproclamò dittatore perpetuo: di fatto, il primo imperatore della storia di Roma. Immagini e narrazione evocativa si ritrovano nel dvd, Giulio Cesare. La fine della Repubblica, prima uscita di “Antica Roma. Storia di una superpotenza”, la collana del Corriere della Sera (in collaborazione con Rai Com) da ieri in edicola al prezzo speciale di un euro e novantanove centesimi, escluso il costo del quotidiano. La serie è a cura di Piero Angela, giornalista, divulgatore scientifico, oltre che narratore di un’altra importante iniziativa legata ai fasti dell’Antica Roma andata in scena lo scorso anno nella Capitale e che riprenderà il prossimo aprile. Nei due Fori romani, di Cesare e di Augusto, Angela, insieme a Paco Lanciano, ha creato un viaggio nel tempo: grazie ad accurate ricostruzioni visive dei templi e dei monumenti dell’antica Roma, è possibile, infatti, passeggiare tra colonnati, taberne e negozi del Foro. Si legge nella presentazione del progetto, che, Giulio Cesare, per realizzare il suo Foro «dovette espropriare e demolire un intero quartiere, e il costo complessivo fosse di 100 milioni di aurei, l’equivalente di almeno 300 milioni di euro». Sulla carta, avrebbe dovuto rappresentare il complesso architettonico del trionfo del dittatore, ma lo stesso Cesare non riuscì a vederlo ultimato, in quanto fu assassinato, vittima di una congiura, nel 44 a.C. «Anche l’ascesa e la caduta di Cesare possono essere lette secondo un leitmotiv che contraddistingue i mille anni di vita della super potenza romana: ai fasti succede immediatamente dopo un forte periodo di crisi, dal quale Roma, con il suo Impero, saprà sempre riprendersi», commenta Lorenzo Pinna, supervisore editoriale della collana del Corriere della Sera e Rai Com.

nimenti. «Nel tentativo di dare spazio ai personaggi e ai fatti più eclatanti della storia di Roma antica, ci siamo resi conto di come i salti temporali non inficiassero la forza del racconto», spiega Pinna. La stessa impostazione è stata mantenuta per “Antico Egitto. Una storia millenaria”, la serie successiva a quella dedicata all’impero romano – sempre a cura di Piero Angela, con produzione della società D4 – e che sarà in edicola con il Corriere subito dopo “Il Cristianesino. Gli eredi dell’impero”, ultimo dvd di “Antica Roma. Storia di una super potenza”. Dalla “Dinastia zero” a “Cleopatra”, passando per “I misteri dei geroglifici” e “Lo sguardo della Sfinge”, si sviluppa il racconto di un’altra superpotenza basata su una organizzazione sociale in grado di unificare le varie tribù e dotarsi di simboli di eternità attraverso la costruzione delle piramidi. Tutto questo fino all’Ultimo Faraone, Cleopatra, appunto, della quale si innamorò proprio Giulio Cesare, in un una notte d’autunno del 48 a. C., poche settimane dopo la celebre battaglia di Farsalo.

GIuLIo E PIEro In alto, una statua di Giulio Cesare. Qui sopra, “Giulio Cesare. La fine della Repubblica” – primo di 15 dvd della serie Antica Roma. Storia di una Superpotenza” – in edicola con il Corriere della Sera al prezzo speciale di 1,99 euro escluso il costo del quotidiano.

in edicola dal 4 marzo © riproduzione riservata

104

sEttE | 09— 04.03.2016


Piaceri Oroscopo / di Alessandra Paleologo Oriundi DIRETTORE RESPONSABILE

SETTIMANA DAL 4 AL 10 MARZO

Luciano Fontana

VICEDIRETTORE VICARIO

BILANCIA

Barbara Stefanelli VICEDIRETTORI

Daniele Manca, Antonio Polito (Roma) Venanzio Postiglione, Giampaolo Tucci

ARIETE

20 marzo - 20 aprile

Si annuncia successo professionale e commerciale con l’entrata di Marte in Sagittario, il 6. Marte è sexy, amore che rinasce. Luna: determinata. L’ascendente: Gemelli. Il consiglio: puntate su nuovi mercati con un Toro, non lamentatevi con un Cancro.

Supplemento della testata Corriere della Sera

DIRETTO DA Pier Luigi Vercesi

(pvercesi@corriere.it) Roberto Gobbi Caporedattore centrale (rgobbi@corriere.it)

Massimo Zingardi Art director (mzingardi@corriere.it)

Edoardo Vigna Caporedattore vicario - Attualità (evigna@corriere.it) Antonio D’Orrico Caporedattore (adorrico@corriere.it) Manuela Croci Caposervizio - Stili di vita, Piaceri&Saperi (mcroci@corriere.it) Chiara Mariani Photo editor (cmariani@corriere.it) Ferruccio Pinotti Caposervizio (fpinotti@corriere.it) Gian Luca Bauzano (gbauzano@rcs.it) Francesca Pini (fpini@corriere.it) Stefano Rodi (srodi@rcs.it) REDAZIONE GRAFICA Luca Milani Caporedattore (lmilani@rcs.it) Nicola Gandelli Caposervizio iniziative speciali (ngandelli@rcs.it) Jlenia Damiata (jdamiata@rcs.it) Carlo Davide Lodolini (clodolini@rcs.it) SEGRETERIA DI REDAZIONE Francesca Deluca (fdeluca@rcs.it) Alessandro Franco photo research (afranco@rcs.it) Cornelia Marchis photo research (cmarchis@rcs.it) DIALOGO CON I LETTORI Beppe Severgnini (www.corriere.it/italians) PROGETTO GRAFICO Leftloft

Con Venere in Acquario, dovete tastare bene il polso a tutte le proposte. Mercurio è bellissimo in Pesci, ma potrebbe voler volare troppo alto. Luna: verificata. L’ascendente: Sagittario. Il consiglio: cambiate mentalità con un Ariete, non siate troppo selettivi con un Capricorno.

Servizio clienti n. 02.63.79.75.10 Attivo dal lunedì al venerdì dalle ore 7 alle ore 18.30, sabato, domenica e festivi dalle ore 7 alle ore 15

23 ottobre - 21 novembre

SCORPIONE TORO

21 aprile - 20 maggio

Fino al 6 sentite una spasmodica forza di ricerca di opportunità, dal 6, Marte/Centauro affievolisce l’agitazione pur agendo tempestivamente. Venere in Acquario “frigge”. Luna: altruista. L’ascendente: Cancro. Il consiglio: scusatevi con un Vergine, non depistate un Leone.

Fino al 6, Marte nel segno è stato da esaurimento: poi, passando in Sagittario, agita le vostre finanze. Prudenza. Giove porta lavoro e nuovi clienti. Luna: prestigiosa. L’ascendente: Capricorno. Il consiglio: bussate a un Leone, non ipotecate il futuro con un Acquario.

22 novembre - 21 dicembre

SAGITTARIO GEMELLI

21 maggio - 20 giugno

Vi siete lanciati troppo nel business e non avete considerato l’effetto del Sole in Pesci in dissonanza. Lavoro: non rendetelo più confuso di quanto non sia già. Luna: consolata. L’ascendente: Leone. Il consiglio: diplomatici con un Pesci, non dedicate tempo ad un Cancro.

Giove in Vergine contro Saturno nel segno creano effetti fastidiosi per la salute e per lo sfumare di un affare. Pazientate. Nuovi incontri, non sempre duraturi. Luna: libera. L’ascendente: Acquario. Il consiglio: verificate un Vergine, non lanciate frecciatine ad un Ariete.

CAPRICORNO CANCRO

21 giugno - 21 luglio

L’immaginazione è al top. La realtà è più semplice: il successo e l’amore sono a due passi, portate a termine i discorsi. Luna: romantica. L’ascendente: Vergine. Il consiglio: alleatevi ad uno Scorpione, non vacillate davanti alle difficoltà con un Pesci.

LEONE

22 luglio - 22 agosto

La vostra fibra non è poi così resistente: fino al 6 dovete fare un passo indietro. Poi, passato in Sagittario, tutto riprende: energia, amore e sesso. Luna: rinnovata. L’ascendente: Bilancia. Il consiglio: sfruttate il tempo con un Acquario, non ribadite le stesse cose con un Sagittario.

22 dicembre - 20 gennaio

Chi è in cerca di un lavoro, approfitti si lanci in un Paese straniero. Marte in Scorpione fino al 6 aiuta il coraggio, mentre passando in Sagittario, richiede circospezione nell’agire. Luna: veloce. L’ascendente: Pesci. Il consiglio: scrivete tutto con un Toro, non sognate con un Bilancia.

ACQUARIO Davide Ponchia Marketing manager Ivana Catalano Product manager Giuseppe Disimino Responsabile pubblicitario (giuseppe.disimino@rcs.it) Francesca Marzotto Ufficio stampa (francesca.marzotto@rcs.it)

23 settembre - 22 ottobre

21 gennaio - 19 febbraio

Fino al 6 Marte è pronto a fare lo sgambetto. Dopo, lanciatevi in viaggi e spostamenti, contatti con gente nuova. Pure in amore, dovete riprendervi dopo le rinunce. Luna: passionale. L’ascendente: Ariete. Il consiglio: puntate il dito contro un Sagittario, non gestite un Vergine.

mail: servizioclienti@corriere.it © 2016 - RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani Sede Legale: via A. Rizzoli 8, Milano - Registrazione Tribunale di Milano n. 526 del 26/11/2009 Redazione: via Solferino 28, Milano - tel. 02/62821 Stampa: Rotolito Lombarda spa, via Sondrio 3, Pioltello (Mi) Pubblicità: RCS MediaGroup S.p.A., Dir. Communication Solutions, Sede Legale via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano, Tel. 02. 2584 6543 rcs.communication.solutions@rcs.it www.rcscommunicationsolutions.it

© COPYRIGHT RCS MEDIAGROUP S.P.A. DIVISIONE QUOTIDIANI TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI. NESSUNA PARTE DI QUESTO SETTIMANALE PUÒ ESSERE RIPRODOTTA CON MEZZI GRAFICI, MECCANICI, ELETTRONICI O DIGITALI. OGNI VIOLAZIONE SARÀ PERSEGUITA A NORMA DI LEGGE.

PESCI VERGINE

23 agosto - 22 settembre

Ottimo il lavoro, lo studio e la professione; grazie al fedele Giove nel segno e fino al 6, a Marte in Scorpione, avete tutto: energia e fortuna. Dopo, dovete essere più prudenti. Luna: giusta. L’ascendente: Scorpione. Il consiglio: tagliate con un Bilancia, non discutete con un Gemelli.

20 febbraio - 19 marzo

Una spina al fianco Giove in Vergine, segno che influenza i rapporti di collaborazione di lavoro. L’amore invece è alla ribalta con colpi di fulmine, gelosia e possessività. Luna: movimentata. L’ascendente: Toro. Il consiglio: concentratevi su di un Leone, non ammiccate ad uno Scorpione. © RIPRODUZIONE RISERVATA

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

105


Lettere al Direttore / Risponde Pier Luigi Vercesi

Le montagne russe della Borsa, tutta ‘na camurria Un lettore ci suggerisce di chiedere ai lettori di inviare immagini di “bella Italia” abbandonata. Sposiamo l’idea

S

ono d’accordo con l’analisi pubblicata nel n. 7 di Sette. Ma temo resterà vox clamantis in deserto. Avete fotografato quello che chiunque in buona fede, e appena avvezzo ai fatti economici, vede con chiarezza, e cioè che i soliti noti guadagnano bene in Borsa quando ci sono turbolenze sui mercati finanziari. La calma piatta, si sa, è nemica della speculazione. Sicché, per la bisogna, è stato messo a punto un vero e proprio meccanismo infernale fatto di indici, dati economici, politici, finanziari e soprattutto di rumors, che alimentano giornalmente e incessantemente aspettative e timori. Un bombardamento a tappeto, con conseguenti analisi puntualmente smentite il giorno dopo, in una ridda di ardite argomentazioni alla disperata ricerca di un filo logico che spieghi il toboga borsistico. Una gran confusione, ‘na camurria, per dirla alla maniera dei palermitani. Il vostro ragionamento consente all’onestuomo, nell’accezione manzoniana del termine, la seguente domanda: ma perché nessuno avverte concretamente i risparmiatori, soprattutto quelli del tutto ignari dei meccanismi borsistici, sui pericoli che i loro risparmi corrono quando immessi in un mercato sostanzialmente gasato, truccato e ormai quasi del tutto sganciato dall’economia reale? Per mesi l’informazione ha ossessivamente prospettato gli sfracelli che sarebbero derivati da una possibile uscita della Grecia dalla Ue. Ebbene, se questa è ipotesi reale, cosa dovremmo aspettarci da una più che probabile uscita del Regno Unito che sottoporrà a referendum la questione? Se conosco bene gli inglesi, le probabilità che i sudditi di Elisabetta II votino per restare

106

SETTE | 09Ñ 04.03.2016

nell’Ue sono veramente scarse. Eppure, per quella scadenza, non solo non ci sono grida d’allarme, ma nemmeno se ne parla. Lecito quindi ipotizzare che il problema Grecia sia stato esageratamente amplificato. In buona sostanza, avete ragione quando vi chiede se gli eventi temuti siano poi veramente da temere. — Rolando Francazi

D

opo aver letto il reportage di Gian Antonio Stella e Silvia Camporesi sull’Italia abbandonata, mi permetta una domanda-proposta: perché non chiede ai lettori di inviare foto con le relative informazioni di case-ville o altre bellezze (caserme, fornaci, cascine, ecc.) in Italia abbandonate a se stesse? Può essere motivo di raccolta fondi per salvarle o comunque per sollecitare una qualche iniziativa per recuperarle. Inoltre saranno fonte di altri reportage. — Ercis Graffeo

Buona idea, gentile Ercis. Lanciamo, con la sua lettera, l’iniziativa.

H

a fatto bene a denunciare il degrado che si riscontra per le vie di Milano e di tutte le altre città italiane. Mala tempora currunt, ma il degrado di Milano parte da lontano. Verso la fine degli anni Cinquanta, fatti come quelli denunciati erano semplicemente impensabili: altra epoca, altra mentalità. I delinquenti appartenevano quasi esclusivamente alla mala meneghina – che non era certo una congrega di educande del Reale Collegio delle Fanciulle – ma aveva un suo codice etico. Codice rimasto in vigore finché la mala di Milano non si imbastardì con l’arrivo della Mafia siciliana, che la fagocitò in breve tempo. Qualcuno in Lombardia si è molto stupito quando ha scoperto che la mafia-’ndrangheta era

infiltrata ovunque, anche nelle Istituzioni regionali. Forse è un qualcuno troppo giovane – o distratto – per ricordare che in quegli anni lontani i cinegiornali della Settimana Incom annunciavano con toni trionfalistici l’arrivo a Milano di alcuni mafiosi siciliani (e/o calabresi), mandati al nord in esilio, per punizione (!?!). Roba da crepar dal ridere, anche per un adolescente quale io ero all’epoca. Invece, secondo i governanti di quel tempo, l’idea fu considerata “la” soluzione ideale per estirpare la mafia dalla Sicilia! Davvero un lampo di genio, un ragionamento che non faceva un plissé. Purtroppo quegli “acuti” dirigenti politici non capirono che la loro scellerata decisione era una tombola, il gran premio della cuccagna, e non “la” punizione esemplare per quei “gentiluomini”. I quali, infatti, generazione dopo generazione, hanno conquistato tutto il nord Italia, oltre al sud che da sempre era loro dominio. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, tanto da far pensare che l’Italia sia una “Repubblica democratica fondata sul lavorìo delle Mafie”. L’Italia è disgraziatamente intrisa di cultura mafiosa, a tutti i livelli. Una piccola riprova? Qualcuno ha mai fatto caso che in Inghilterra, ad esempio, si producono splendidi sceneggiati, dedicati alla storia e alla cultura inglese (Shakespeare in primis), mentre qui da noi il tema prevalente dei nostri film e dei serial tv, sono le solite storie di polizia, di mafia, di camorra? Possibile che non ci siano altri argomenti? Che barba. E perché stupirsi se la nostra gioventù più fragile cresce con gli esempi poco edificanti di quei serial tv con il sogno di diventare aspiranti picciotti alla Gomorra? — Carlo Ferrari © RIPRODUZIONE RISERVATA

La risposta di pagina 21

Una scena, unÕimmagine appena MACBETH (2015)

regia di Justin Kurzel



SONO PASSATI DIECI ANNI E CONTINUIAMO AD ARROSSIRE COME LA PRIMA VOLTA CHE CI SIAMO CONOSCIUTI.

Arancia Rosaria festeggia dieci anni di bontà e leggerezza insieme alle famiglie italiane. Arancia Rosaria, l’arancia rossa tutta siciliana è leggera, ricca di sali minerali e soprattutto è buona. Ideale non solo per chi fa sport ma anche per chi vuole seguire una alimentazione sana ed equilibrata, Arancia Rosaria è davvero di casa, quando si parla di salute.

Seguici su


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.