A short interview with Prof. Peter Eisenman

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NYC/Meeting Peter Eisenman a cura di Alessandro delli Ponti

Questa Intervista è il frutto del caso, della giovinezza, del caldo estivo. E della grande generosità di Peter Eisenman. Realizzata durante un viaggio post-laurea in compagnia dell'Arch. Ilaria Novielli,in una bollente New York agostana, l'intervista si é strutturata come una provocazione. Pur conoscendo i testi e l'opera del Prof. Eisenman, pur avendone apprezzato i meandri più criptici e le rivelazioni più destabilizzanti, ho scelto di fare un passo di lato. Ho voluto evitare la surenchère concettuale per ricercare un contatto più immediato con i paradossi esistenziali dell'autore. A distanza di anni mi appare come una provocazione indebita verso l’interlocutore, amato e studiatissimo, ma alla fine affrontato con domande basiche, “da incolti”, per valutarne più chiaramente le volontà, la capacità di cambiare campo da gioco e di illustrarci il proprio mondo.


NYC, 6 Agosto 2009, Ore 12.00 Nel cuore di Manhattan c’è un palazzo per uffici privo di concierge , si entra per una porta anonima, quattro passi e sei sul montacarichi; una targa molto Eighties illustra una corrispondenza binaria quanto aleatoria tra attività e piani. Eisenman Architects è all’ undicesimo. Non senza una certa inquietudine premiamo il fatidico tasto. Nel breve viaggio ci interroghiamo circa il senso di un’ eventuale intervista e prendiamo in rassegna i temi da trattare, le posizioni critiche da rilevare, perché sia davvero uno sguardo “out of the box” che possa illuminarci per una volta. Si aprono le porte , ci ritroviamo d’improvviso nel cuore dello studio, tra tavoli da disegno, plastici , dettagli affissi alle pareti e lavoratori indifferenti alla nostra presenza, nessun filtro, nessuna segretaria allarmata, nessun rampante mediatore. Un simpatico architetto cinese ci porta dal Prof. Eisenman, a lavoro dietro una libreria intento a bere un caffè di starbucks coi suoi collaboratori. Il coraggio di presentarsi senza un appuntamento per “una chiacchierata” con annessa intervista non sorprende piu’ di tanto. Eisenman, evidentemente abituato a questo genere di incursioni, ci accoglie, assolve e benedice nell’arco di dieci minuti e l’intervista è presto accordata. Il giorno dopo, microfono alla mano, ci ripresentiamo a studio per raccogliere il dialogo che segue. Alessandro delli Ponti


L’Intervista: AdP: In questi anni il dibattito sullo sviluppo sostenibile sembra aver precettato la discussione architettonica europea. Spesso ci si limita a immaginare nuove soluzioni tecniche alla piccola scala, più raramente ci si lancia nel progetto di strategie territoriali incentrate sull’autarchia energetica e produttiva di determinati comparti regionali. Tutto questo porta a interrogarsi circa il rapporto tra “gnosi del contesto” e progetto contemporaneo, che posizione prende l’architettura?

PE: Io non so cosa sia lo sviluppo sostenibile ! Non sono certo l’interlocutore cui rivolgere una domanda del genere, e vi chiedo piuttosto se Borromini o Michelangelo si occupassero di questa “disciplina” che a mio avviso è del tutto estranea a ciò che potrei definire come Architettura. Quanto all’autarchia, io non sono mai stato a favore di una architettura autarchica né di un pensiero autarchico. Anche per me il contesto, come il programma, giocano un ruolo importante in ogni progetto, ma non in quanto limiti o vincoli all’azione; li consideriamo piuttosto come delle occasioni che ci vengono date per leggere condizioni e possibilità nuove rispetto al


sito in sé o al contesto locale attuale. Pensando alla nostra Stazione per Pompei, ad esempio, il valore contestuale emerge, in fase di definizione progettuale, dalla ricomprensione dei tre momenti della storia urbana della città. Vi è una Pompei Greca, una Pre-Romana e una Romana, ciascuna è stata costruita a partire da contesti pregressi molto diversi tra loro. Partendo da questa consapevolezza, abbiamo immaginato una “Pompei per analogie successive”, una città in cui si sovrappongano tre organismi: la città presente, la passata e la futura (la parte agraria).

Nello studio del nostro sito abbiamo così individuato un rapporto di analogia tra la relazione della Pompei greca con la Romana e la relazione tra la Pompei Romana con l’attuale. Ma quella che si stabilisce con queste operazioni è una relazione oscura, non associabile a conseguenze formali dirette e didascaliche che ci facciano esclamare: - Ah! ecco, capisco, questo volume è in relazione a quell’elemento, questo a quell’altro ! Questo è il nostro metodo per andare al di là di un progetto banalmente funzionalista o “moderno”, perseguendo una strada anti-


ideologica e anti-autarchica. E’ il nostro modo, in un certo senso, di decostruire il significato dalla forma, per liberarla dal peso di un significato che è sempre precostituito e imposto. AdP: Che spazio lascia all’ Identità e al Contesto l’operazione di decostruzione del rapporto tradizionale tra forma e significato? Ritiene che l’Identità sia ancora una categoria valida? ?

PE:

No, io non ritengo l’Identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia una questione d’identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’ Identità in base al quale l’individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di sé medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista, o comunque, della cultura autoritaria in genere . Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei piu’ recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’ assenza di una relazione binaria, di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva J.Derrida, undecideable. L’architettura non è mai stata al servizio dell’identità.


AdP: PE:

Ma in questo modo l’architettura non rischia di perdere il suo ruolo di servizio alla comunità?

Credo ci sia un equivoco di fondo rispetto a questa tematica. Io penso che l’Architettura sia come la Cultura, e avere una vita piena implica sapere cosa significhi gustare un buon bicchiere di vino, e mangiare un’ottima pietanza, ma un ottimo Prosecco serve forse a calmare la sete o la pietanza a saziarti più a lungo? No. La Cultura, come l’ Architettura è qualcosa che serve a superare la mondanità e la trivialità del quotidiano, è un valore aggiunto, non scontato, da non confondersi con l’ordinario e il banale .


AdP: Mondanità , quotidianità e media, mi torna in mente il suo discorso a La Sapienza, in occasione della cerimonia per il ritiro della laurea Honoris Causae. Lei citò Guy Debord, “La Societé du Spectacle”, riscontrando un analogia tra la preoccupazione di Debord per l’evoluzione della comunicazione di massa, e il suo timore per l’ infatuazione formalista in architettura, a suo dire “potenziale foriera di Passività”. Si legge una preoccupazione per la dimensione sociale dell’ architettura, per come il suo significato continui a mutare una volta che il progetto avrà lasciato le mani dell’architetto e sarà vissuto dalla comunità. E si legge forse un’inquietudine per la strumentalizzazione mediatica delle “Archistar”?

PE:

Mah, io sono Peter Eisenman, sono un accademico, un architetto professionista, non mi sento una star, poi certo, se parliamo di pubblicistica e pubbliche relazioni, sono chiaramente una parte importante del lavoro, ma si evita di divenire un prodotto mediatico fin quando si tutela la propria integrità. Questo è molto importante! Quanto a Debord, io sono sempre stato molto interessato al suo lavoro e a studio stiamo lavorando proprio ora utilizzando il concetto di Detournement , che significa prendere qualcosa in una forma che ha un significato e mettere del tutto in discussione quel preciso significato per comprendere come questo poi possa agire sul dato formale in modo critico. Il progetto può battersi contro la passività evitando di comunicare secondo stilemi preconcetti, rifiutando l’a-priori autoritario del tradizionalismo, ma evitando anche di imporre una propria verità specifica. E’ quello che abbiamo cercato di fare con il nostro memoriale dell’olocausto a Berlino, non abbiamo voluto iconicizzare un evento passato e obbligare all’ascolto, il nostro punto di vista è antididascalico, è piuttosto un tentativo per sperimentare, attraverso l’induzione, la reazione libera della comunità al campo di pietre. Un anti-monumento su cui si fanno pick nick e nei cui meandri dei giovani fanno l’amore o si esprimono coi graffiti. Non mi sento il deus ex-machina o il responsabile di queste azioni


e posso pensare con piacere che un ragazzino divertito vada a dire alla sua nonna-Kapo’ che ha passato il pomeriggio a giocare a nascondino nel campo di pietre scure. L’architettura stimola la modificazione dei comportamenti, non puoi controllarli, non sai cosa li generi, non conosci le reazioni del pubblico prima che l’ architettura sia costruita e utilizzata.

Cerchi di generare un progetto che provochi molte reazioni non predeterminabili, uno spazio di libertà piuttosto che di costrizione, un induzione al libero pensiero, una provocazione verso lo status quo. La cultura è ciò che produce questo spostamento, questa alterazione dello status quo, lo status quo in sé è esistenza non vita, è trivialità, mondanità! Passività! Tuttavia anche la provocazione operativa deve sapere reggere la prova del tempo, deve avere“presentness”, ovvero, la capacità di continuare l’azione critica verso una realtà che muta perennemente. In tal senso penso alla Biblioteca Laurenziana di Michelangelo che ha ancora oggi un senso provocatorio, come lo conservano le Stanze


di Raffaello in Vaticano per il mondo della pittura. Il monumento di Berlino manterrà la sua capacità di conservare un potenziale provocatorio? Me lo auguro! Così come altri progetti diventeranno dei clichè. Serve un’abilità particolare per resistere alla tentazione di divenire clichè e iconici oggi.

AdP: A proposito del rapporto tra storia e presentness: quest’ anno a Roma, l’intelighentia del mondo dell’ architettura ha dibattuto a lungo sull’idea di lanciare un concorso per la progettazione e realizzazione del noto Arco di Libera, pensato per l’E42 e mai realizzato. Pensa che sia un’ambizione anacronistica o che possa piuttosto diventare un’occasione utile per la città di Roma?

PE:

Beh, Libera era uno dei piu’ ferventi sacerdoti dell’ ideologia fascista, dunque non sta tra le prime righe nel mio libro di eroi, e poi lo considero un architetto mediocre (gli ho sempre preferito decisamente Moretti, un ottimo architetto). Perché resuscitare un tale progetto? Per glorificare un nuovo impero? Mi sembra ridicolo e pretestuoso.


AdP: E dunque quale futuro per la progettazione del contemporaneo a Roma, dove ad esempio il progetto di Meier ha recentemente scatenato violente polemiche per la sua resa posticcia della tradizione costruttiva Romana e per il suo rigetto del contesto limitrofo?

PE:

Io penso che progettare a Roma non sia un problema. Quando dico questo penso a Moretti , alla sua Casa Girasole, al Gil di Trastevere, o alla Casa della Scherma, tutti progetti che non avevano nulla a che vedere con la Gnosi di Roma, con la sua tradizione arcaica. Non vedo perché Roma dovrebbe intimorire a tal punto da ridurci all’impotenza, in fondo, se guardiamo al quartiere Parioli, all’epoca dei progetti Morettiani, constatiamo che ancora non era sviluppato come quartiere, oggi è un area in cui prevale la tipologia residenziale e funziona! All’epoca Via Nomentana esisteva già, poco piu’ in là, piu’ breve della odierna, ma segnava il territorio con forza, e il progetto di Moretti è stata un opportunità per tutta l’area limitrofa. Ma si ricordi anche Piranesi, che nel 18° secolo pensò la sua chiesa sulla cima del colle Aventino! Rainaldi, Borromini, Bernini, tutti hanno progettato questi strani oggetti architettonici, evocativi di una cultura che si sviluppava floridamente a Roma. E oggi? Invece di un museo, perché non pensare a qualcosa che sia evocativo di una cultura in crescita? La straordinaria cinematografia Italiana ci mostra negli anni’30 dei film a senso unico, ma nei ’40 il Neorealismo, De Sica, e poi Fellini, Leone, è così, l’Arte cambia, la cultura cambia, non vedo perché preoccuparsi!



AdP: Ha mai trovato un cliente interessato al suo approccio teorico, alla teoria che informa le sue architetture, o sono piuttosto interessati all’output formale finale? Se sì, le fa piacere; se no, la infastidisce?

PE: No, normalemente non se ne interessano mai! Ma questo non mi riguarda. Vedete, il mio approccio teorico è il Mio approccio teorico, non devo piacere personalmente ai miei clienti, né devono necessariamente apprezzare i miei scritti o la mia parola, io non vendo Teoresi . Non si puo’ vivere in-teoria e piace a tutti essere amati e apprezzati per cio’ che si è veramente e per le proprie idee, ma non sempre è possibile. Ad esempio io non piaccio ai Francesi, certo ai Francesi non piaceva neanche J. Derrida e direi che a loro non piace il poststrutturalismo in genere. E’ strano, mi sono sempre interrogato su questa distanza, in fondo sono pubblicato in tutte le lingue e in moltissimi paesi, dalla Germania, alla Corea, dalla Spagna alla Russia , in Cinese, Giapponese, Italiano, Spagnolo, Olandese. Ma non in Francia. E’ il destino di Jean Pierre Melville, che considero un ottimo regista, ebbene, è stato perseguitato a lungo, hanno cercato di provare che non stesse nella resistenza, e tutto questo perché? Forse perché Melville aveva disvelato il lato oscuro della Francia resistente, si pensi a L’ armèe des ombres, per questo ritengo fosse visto come un pericolo verso un quadro culturale chiuso e controllato, incapace di autocritica . Forse le cose da allora non sono troppo cambiate.


CSR, n°5, Septembre 2009, copyright Alessandro delli Ponti


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