il sentiero del bosco vecchio

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Dino Buzzati IL SEGRETO DEL BOSCO VECCHIO


I

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essuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me.

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Almeno non schiacciava il naso contro il vetro. Non ancora. Scattò il verde e nella fretta di fuggire affondai il piede sull’acceleratore senza pensarci, come avrei fatto al volante del mio decrepito Chevy. Mentre il motore ringhiava come una pantera a caccia, l’auto schizzò in avanti così veloce che mi ritrovai incollata al sedile di pelle nera, con lo stomaco schiacciato sulla spina dorsale. «Accidenti», ansimai mentre annaspavo alla ricerca del freno. Recuperata la calma, mi limitai a sfiorare il pedale. Uno scossone e l’auto tornò per-fettamente immobile. Non osai controllare le reazioni intorno a me. A quel punto non c’erano più dubbi su chi fosse al volante. Con la punta della scarpa abbassai il pe-dale dell’acceleratore di mezzo millimetro e di nuovo la macchina scattò in avanti. Riuscii a raggiungere il traguardo: la stazione di servizio. Se non fossi stata in riserva non mi sarei nemmeno azzardata a tornare in città. Ormai pur di non apparire in pubblico facevo a meno di parecchie cose, compresi biscotti e stringhe delle scarpe. Come fossi al gran premio, in pochi secondi aprii lo sportello, svitai il tappo, strisciai la carta di credito e infilai la pompa nel serbatoio. Ovvia-mente non potevo far nulla perché i numeri sul display accelerassero il passo. Ticchettavano pigri, quasi lo facessero apposta per infastidirmi. Fuori non c’era un raggio di sole, il solito giorno piovigginoso di Forks, ma continuavo ad avere la sensazione di portarmi dietro un riflettore pun-tato sul delicato anello che brillava sulla mia mano sinistra. In momenti come quello, quando percepivo degli

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II

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ubito bloccai quel pensiero, decisa a non spingermi oltre. Meglio ascol-tare le voci dei due uomini, attutite dalle pareti dell’abitacolo. «...in rete, il video del tizio che l’attacca con il lanciafiamme. E non fa nemmeno un graffio alla vernice». «Certo che no. Potresti passarci sopra con un carro armato. Un bel po’ fuori mercato qui da noi, no? È fatta per i diplomatici in Medio Oriente, i mercanti d’armi e i narcotrafficanti, soprattutto». «Secondo te, lei è...?», domandò il più basso sottovoce. Abbassai la testa, le guance in fiamme. L’altro abbozzò una risposta. «Forse. Non riesco a immaginare che bisogno ci sia di vetri antimissile e due tonnellate di blindatura da queste parti. Probabilmente sta andando in qualche posto più pericoloso». Blindatura. Due tonnellate di blindatura. E i vetri antimissile? Bello. Che fine avevano fatto i cari vecchi vetri antiproiettile? Be’, tutto questo aveva senso, se possedevi un perverso senso dell’umorismo. Darmi molto più di quanto avrebbe ricevuto. 4

Quando ero stata costretta ad ammettere che il pickup era diventato poco più che la natura morta di un classico Chevy parcheggiato sul marciapiede, sapevo che la sua idea di sostituzione mi avrebbe creato un certo imbarazzo. E trasformata nell’oggetto di sguardi e sussurri. Ci avevo azzeccato. Ma nemmeno nelle mie previsioni più nere avrei pensato di ricevere due auto. Quella del “prima” e quella del “dopo”, aveva spiegato vedendomi imbufalita. Questa era l’auto del “prima”. Mi aveva detto che era in prestito e che aveva promesso di restituirla dopo il matrimonio. Non ne avevo capito il senso. Fino a quel momento. Ah ah. Dal momento che ero così fragile e umana, così portata a cacciarmi nei

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L’auto del “dopo” non l’avevo ancora vista. Era nascosta sotto un telo, nell’angolo più buio del garage di casa Cullen. Magari tanti altri avrebbero cercato di sbirciare, io invece non ne volevo proprio sapere. Probabilmente non era blindata, perché non ne avrei avuto bisogno dopo la luna di miele. L’essere praticamente indistruttibile era uno dei tanti bo-nus che non vedevo l’ora di ricevere. La parte migliore del diventare una Cullen non erano né le auto di lusso né le carte di credito appariscenti. «Ehi», disse lo spilungone tenendo le mani a coppa sul vetro per cercare di sbirciare all’interno. «Abbiamo finito. Molte grazie!».

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Non era stato il padre di Jacob a inventarsi i volan-

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tini con la scritta «RAGAZZO SCOMPARSO». Era stato Charlie, mio padre, a stamparli e a diffonderli in tutta la città. E non soltanto a Forks, ma anche a Port An-geles, Sequim, Hoquiam, Aberdeen e in ogni altra cittadina della Penisola Olimpica. Aveva anche fatto in modo che la foto comparisse nella bacheca di tutte le stazioni di polizia dello Stato di Washington. Nella sua, un inte-ro pannello di sughero era stato dedicato alla ricerca di Jacob. Pannello quasi totalmente vuoto e fonte di grande delusione e frustrazione. A deludere papà non era tanto l’assenza di risposte. La delusione più grande veniva da Billy, il padre di Jacob nonché il miglior amico di Char-lie. Il fatto era che Billy non s’impegnava molto nella ricerca del “fuggitivo” sedicenne e si rifiutava di affiggere i volantini a La Push, la riserva sulla costa in cui Jacob era cresciuto. Billy sembrava rassegnato alla scomparsa del figlio, come se non potesse farci nulla, e diceva: «Ormai Jacob è un adulto. Tornerà a casa se ne ha voglia». La frustrazione, invece, era dovuta a me perché stavo dalla parte di Billy. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapeva-mo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapeva-mo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. I manifestini mi provocarono il solito, pesante groppo in gola, le solite lacrime pungenti agli occhi, e fui lieta che Edward, quel sabato, fosse uscito a caccia.

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III

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el branco dei Quileute di La Push, Seth era l’unico che non si facesse problemi a chiamare per nome i Cullen, oltre a scherzare su argomenti come la mia quasi onnisciente futura cognata. «Lo so». Esitai qualche istante. «Come sta?». Seth sospirò. «Come al solito. Non spiccica parola, ma senz’altro ci a-scolta. Cerca di non pensare da “umano”, capisci in che senso? Segue solo l’istinto». «Sai dov’è adesso?». «Da qualche parte nel Canada del Nord. Non so in quale provincia. Non bada molto ai confini». «Ha dato qualche segno di...». «Non è intenzionato a tornare a casa, Bella. Mi dispiace». Deglutii. «Tranquillo, Seth. Lo sapevo già. Ma non riesco a non sperar-ci». «Già, è così per tutti noi». «Grazie che mi dai notizie, Seth. Immagino che gli altri te lo stiano fa-cendo pesare». «Non sono certo tuoi fan accaniti», confermò lui al-

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Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. «Scusi se la disturbo, ma potrebbe dirmi che macchina è?», domandò il più alto dei due. «Ehm, una Mercedes, giusto?». «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera.

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«RAGAZZO SCOMPARSO». Era stato Charlie, mio padre, a stamparli e a diffonderli in tutta la città. E non soltanto a Forks, ma anche a Port An-geles, Sequim, Hoquiam, Aberdeen e in ogni altra cittadina della Penisola Olimpica. Aveva anche fatto in modo che la foto comparisse nella bacheca di tutte le stazioni di polizia dello Stato di Washington. Nella sua, un inte-ro pannello di sughero era stato dedicato alla ricerca di Jacob. Pannello quasi totalmente vuoto e fonte di grande delusione e frustrazione. A deludere papà non era tanto l’assenza di risposte. La delusione più grande veniva da Billy, il padre di Jacob nonché il miglior amico di Char-lie. Il fatto era che Billy non s’impegnava molto nella ricerca del “fuggitivo” sedicenne e si rifiutava di affiggere i volantini a La Push, la riserva sulla costa in cui Jacob era cresciuto. Billy sembrava rassegnato alla scomparsa del figlio, come se non potesse farci nulla, e diceva: «Ormai Jacob è un adulto. Tornerà a casa se ne ha voglia». La frustrazione, invece, era dovuta a me perché stavo dalla parte di Billy. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapeva-mo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapeva-mo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. I manifestini mi provocarono il solito, pesante groppo in gola, le solite lacrime pungenti agli occhi, e fui lieta che Edward, quel sabato, fosse uscito a caccia.

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essuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me.

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. «Scusi se la disturbo, ma potrebbe dirmi che macchina è?», domandò il più alto dei due. «Ehm, una Mercedes, giusto?». «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera.

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L’auto del “dopo” non l’avevo ancora vista. Era nascosta sotto un telo, nell’angolo più buio del garage di casa Cullen. Magari tanti altri avrebbero cercato di sbirciare, io invece non ne volevo proprio sapere. Probabilmente non era blindata, perché non ne avrei avuto bisogno dopo la luna di miele. L’essere praticamente indistruttibile era uno dei tanti bonus che non vedevo l’ora di ricevere. La parte migliore del diventare una Cullen non erano né le auto di lusso né le carte di credito appariscenti. «Ehi», disse lo spilungone tenendo le mani a coppa sul vetro per cercare di sbirciare all’interno. «Abbiamo finito. Molte grazie!».

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

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«No! Certo che no!», avrei voluto dare una gomitata nelle costole a Edward, ma sapevo che la mossa mi sarebbe costata un livido. Gliel’avevo detto che tutti sarebbero subito saltati a una conclusione del genere! Quale altra ragione poteva spingere due diciottenni sani di mente a sposarsi? (La sua risposta mi lasciò basita: «L’amore». Bravo). Lo sguardo di Charlie si fece meno torvo. Di solito mi si leggeva in faccia se dicevo la verità e in quel caso lui si fidò. «Ah. Scusa».

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iurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor

Marshall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. 16

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. Soprattutto, però, non

riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile.

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Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. 20

Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. «Scusi se la disturbo, ma potrebbe dirmi che macchina è?», domandò il più alto dei due. «Ehm, una Mercedes, giusto?». «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera.

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esalato l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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L’auto del “dopo” non l’avevo ancora vista. Era nascosta sotto un telo, nell’angolo più buio del garage di casa Cullen. Magari tanti altri avrebbero cercato di sbirciare, io invece non ne volevo proprio sapere. Probabilmente non era blindata, perché non ne avrei avuto bisogno dopo la luna di miele. L’essere praticamente indistruttibile era uno dei tanti bo-nus che non vedevo l’ora di ricevere. La parte migliore del diventare una Cullen non erano né le auto di lusso né le carte di credito appariscenti. «Ehi», disse lo spilungone tenendo le mani a coppa sul vetro per cercare di sbirciare all’interno. «Abbiamo finito. Molte grazie!».

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

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Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottenne-ro il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile.

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A deludere papà non era tanto l’assenza di risposte. La delusione più grande veniva da Billy, il padre di Jacob nonché il miglior amico di Char-lie. Il fatto era che Billy non s’impegnava molto nella ricerca del “fuggitivo” sedicenne e si rifiutava di affiggere i volantini a La Push, la riserva sulla costa in cui Jacob era cresciuto. Billy sembrava rassegnato alla scomparsa del figlio, come se non potesse farci nulla, e diceva: «Ormai Jacob è un adulto. Tornerà a casa se ne ha voglia». La frustrazione, invece, era dovuta a me perché stavo dalla parte di Billy. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapeva-mo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. Anch’io mi ero rifiutata di affiggere i volantini. Sia io che Billy sapevamo dov’era Jacob, almeno a grandi linee, e sapevamo perché nessuno aves-se visto il “ragazzo”. I manifestini mi provocarono dolore.

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Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottenne-ro il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile.

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Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

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VIII

Subito bloccai quel pensiero, decisa a non spingermi oltre. Meglio ascol-tare le voci dei due uomini, attutite dalle pareti dell’abitacolo. «...in rete, il video del tizio che l’attacca con il lanciafiamme. E non fa nemmeno un graffio alla vernice». «Certo che no. Potresti passarci sopra con un carro armato. Un bel po’ fuori mercato qui da noi, no? È fatta per i diplomatici in Medio Oriente, i mercanti d’armi e i narcotrafficanti, soprattutto». «Secondo te, lei è...?», domandò il più basso sottovoce. Abbassai la testa, le guance in fiamme. L’altro abbozzò una risposta. «Forse. Non riesco a immaginare che bisogno ci sia di vetri antimissile e due tonnellate di blindatura da queste parti. Probabilmente sta andando in qualche posto più pericoloso». Blindatura. Due tonnellate di blindatura. E i vetri antimissile? Bello. Che fine avevano fatto i cari vecchi vetri antiproiettile? Be’, tutto questo aveva senso, se possedevi un perverso senso dell’umorismo.

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Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Nessuno ti guarda. 31


Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

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IX

Nel branco dei Quileute di La Push, Seth era l’unico che non si facesse problemi a chiamare per nome i Cullen, oltre a scherzare su argomenti co-me la mia quasi onnisciente futura cognata. «Lo so». Esitai qualche istante. «Come sta?». Seth sospirò. «Come al solito. Non spiccica parola, ma senz’altro ci ascolta. Cerca di non pensare da “umano”, capisci in che senso? Segue solo l’istinto». «Sai dov’è adesso?». «Da qualche parte nel Canada del Nord. Non so in quale provincia. Non bada molto ai confini». «Ha dato qualche segno di...». «Non è intenzionato a tornare a casa, Bella. Mi dispiace». Deglutii. «Tranquillo, Seth. Lo sapevo già. Ma non riesco a non sperarci». «Già, è così per tutti noi». «Grazie che mi dai notizie, Seth. Immagino che gli altri te lo stiano fa-cendo pesare». «Non sono certo tuoi fan accaniti», confermò lui al33


Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor

Marshall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Nessuno ti guarda. Deglutii. «Tranquillo, Seth. Lo sapevo già. Ma non riesco a non sperarci».

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Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottenne-ro il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

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shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. Soprattutto, però, non

riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale. Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto.

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«No! Certo che no!», avrei voluto dare una gomitata nelle costole a Edward, ma sapevo che la mossa mi sarebbe costata un livido. Gliel’avevo detto che tutti sarebbero subito saltati a una conclusione del genere! Quale altra ragione poteva spingere due diciottenni sani di mente a sposarsi? (La sua risposta mi lasciò basita: «L’amore». Bravo). Lo sguardo di Charlie si fece meno torvo. Di solito mi si leggeva in fac-cia se dicevo la verità e in quel caso lui si fidò. «Ah. Scusa». Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con

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Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

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In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose pronto Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta. Ne avevo viste di peggio, altroché. Su una guancia c’era un’ombra appena accennata, le labbra erano un po’ gonfie, ma tutto sommato la faccia era a posto. Il resto era decorato da macchie blu e viola. Mi concentrai sui lividi più difficili da nascondere, quelli sulle spalle e sulle braccia.«E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?»

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XI

In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose pronto Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? 40

Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottennero il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guardare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile.

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esalato l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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«Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.

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Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Nessuno ti guarda. «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io?

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XII

Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene».Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.

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La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward. Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?».

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Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guardare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile.

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XIII

Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guardare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli. 49


Nel branco dei Quileute di La Push, Seth era l’unico che non si facesse problemi a chiamare per nome i Cullen, oltre a scherzare su argomenti come la mia quasi onnisciente futura cognata. «Lo so». Esitai qualche istante. «Come sta?». Seth sospirò. «Come al solito. Non spiccica parola, ma senz’altro ci ascolta. Cerca di non pensare da “umano”, capisci in che senso? Segue solo l’istinto». Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante . 50

Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi.Non spiccica parola, ma senz’altro ci ascolta. Cerca di non pensare da “umano”, capisci in che senso? Segue solo

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La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi.

XIV

Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. 52

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Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esalato l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari.

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Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottennero il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi.

I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile.

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XV

Il fatto era che Billy non s’impegnava molto nella ricerca del “fuggitivo” sedicenne e si rifiutava di affiggere i volantini a La Push., la riserva sulla costa in cui Jacob era cresciuto.

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Al riparo della boscaglia lasciai cadere il mucchio puzzolente e ripresi le sembianze umane. Scrollai i vestiti e li sbattei sugli alberi, per cacciare via un po’ di quel fetore. Erano abiti maschili: un paio di pantaloni marroni e una camicia bianca elegante. Forse un po’ troppo corti, ma non era il caso di protestare. Dovevano essere di Emmett. Arrotolai le maniche della ca-micia, ma non potei fare molto con i pantaloni. Pazienza. Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Esausto, salii i gradini della veranda dei Cullen, con indosso quegli stravaganti abiti usati, ma quando fui davanti alla porta esitai. Avevo bussato? Che scemo, sapevano che ero lì. Chissà perché nessuno mi dava un segno, dicendomi «Entra pure» o «Sparisci». Bah. Feci spallucce e varcai la soglia. Altri cambiamenti. In soli venti minuti la stanza era tornata alla normalità, o quasi. L’enorme schermo piatto era acceso, pure se a volume basso: passava un film sentimentale che nessuno sembrava guardare. Carlisle ed Esme erano alla vetrata che dava sul retro, nuovamente aperta sul fiume. Alice, Jasper ed Emmett non c’erano, ma li sentivo bisbigliare al piano di sopra. Bella era distesa sul divano.Sembrava un burrito.

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Esausto, salii i gradini della veranda dei Cullen, con indosso quegli stra-vaganti abiti usati, ma quando fui davanti alla porta esitai. Avevo bussato? Che scemo, sapevano che ero lì. Chissà perché nessuno mi dava un segno, dicendomi «Entra pure» o «Sparisci». Bah. Feci spallucce e varcai la soglia.

XVI

Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. 58

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir. Soprattutto, però, non

riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile.

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XVII

Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli. 62

Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Nessuno ti guarda. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. 63


«Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera.

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XVIII

Subito bloccai quel pensiero, decisa a non spingermi oltre. Meglio ascol-tare le voci dei due uomini, attutite dalle pareti dell’abitacolo. «...in rete, il video del tizio che l’attacca con il lanciafiamme. E non fa nemmeno un graffio alla vernice». «Certo che no. Potresti passarci sopra con un carro armato. Un bel po’ fuori mercato qui da noi, no? È fatta per i diplomatici in Medio Oriente, i mercanti d’armi e i narcotrafficanti, soprattutto». «Secondo te, lei è...?», domandò il più basso sottovoce. Abbassai la testa, le guance in fiamme. L’altro abbozzò una risposta. «Forse. Non riesco a immaginare che bisogno ci sia di vetri antimissile e due tonnellate di blindatura da queste parti. Probabilmente sta andando in qualche posto più pericoloso». Blindatura. Due tonnellate di blindatura. E i vetri antimissile? Bello. Che fine avevano fatto i cari vecchi vetri antiproiettile? Be’, tutto questo aveva senso, se possedevi un perverso senso dell’umorismo. 65


Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riu-scivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guardare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi.

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XIX

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto non mi sembrava tanto diversa da una qual-

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Malgrado Aro fosse certo dell’innocenza di Tanya, Kate e Irina, Caius voleva mandarle al rogo. Con l’accusa di complicità. Per loro fortuna, quel giorno Aro era in vena di dimostrarsi clemente. Tanya e le sorelle ottenne-ro il perdono, ma da allora sentono una ferita incurabile nel cuore e hanno un profondo rispetto per la legge». Non so bene quando, ma il ricordo si trasformò in sogno. Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi.

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XX

Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada.

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Con la memoria ascoltavo e vedevo Carlisle, eppure di punto in bianco eccomi di fronte a una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l’aria. Non ero sola. La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolte in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora umana. Ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi. Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli.

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Disseminati intorno a me c’erano tumuli fumanti. Riconobbi l’aroma dolce nell’aria e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guar-dare i volti dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi. I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell’intensità. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava. Era bellissimo, adorabile. Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede. 73


Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward.

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XXII

Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Esausto, salii i gradini della veranda dei Cullen, con indosso quegli stra-vaganti abiti usati, ma quando fui davanti alla porta esitai. Avevo bussato? Che scemo, sapevano che ero lì. Chissà perché nessuno mi dava un segno, dicendomi «Entra pure» o «Sparisci». Bah. Feci spallucce e varcai la soglia. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». 75


Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. Nessuno ti guarda. Non potevano essere che i Volturi, mentre io, in barba a ciò che avevano decretato il giorno del nostro ultimo incontro, ero ancora uma76

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io?

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XXIII

Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor

Marshall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Nessuno ti

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I vampiri si scambiarono occhiate inquiete. L’idea che i Volturi manipolassero la loro legge sacrosanta per motivi di opportunismo non era molto amata. Solo i rumeni restavano composti, con i loro sorrisini ironici. Sembravano divertiti del fatto che gli altri insistessero nel pensare tutto il meglio possibile dei loro vecchi nemici. Cominciarono molte discussioni a bassa voce contemporaneamente, ma io mi concentrai soltanto su quella dei rumeni. Forse perché il biondo Vladimir continuava a lanciare occhiate nella mia direzione. «Spero tantissimo che Alistair abbia ragione», mormorò Stefan a Vladimir. «Comunque vada a finire, si spargerà la voce. È ora che il nostro mondo veda i Volturi per ciò che sono diventati. Non cadranno mai se tutti credono a quell’assurdità secondo cui proteggono il nostro stile di vita». «Almeno, quando

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In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose pronto Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta. Ne avevo viste di peggio, altroché. Su una guancia c’era un’ombra appena accennata, le labbra erano un po’ gonfie, ma tutto sommato la faccia era a posto. Il resto era decorato da macchie blu e viola. Mi concentrai sui li-vidi più difficili da nascondere, quelli sulle spalle e sulle braccia.«E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?»

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Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il si-gnor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del

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«Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta.

Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede.

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«Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta. Ne avevo viste di peggio, altroché. Su una guancia c’era un’ombra appena accennata, le labbra erano un po’ gonfie, ma tutto sommato la faccia era a posto. Il resto era decorato da macchie blu e viola. Mi concentrai sui li-vidi più difficili da nascondere, quelli

Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi?

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Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. Strisciai con cautela fra due man-telli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile.

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Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o at-taccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qual-

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Faticavo a tenerle tutte insieme nella testa. D’altra parte, mi avevano insegnato a rabbrividire di fronte all’idea di un abito bianco vaporoso con strascico e bouquet. Soprattutto, però, non riuscivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward.

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Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo a ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia.

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XXVII

di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda.

Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa 90

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Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tan-to banale. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile.

XXVIII

Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esala-to l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo raggiunto il nostro compromesso zoppicante. 92

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Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche.

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Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo.

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«Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. «Ti sembro così repellente?», domandai in tono volutamente leggero. Riprese a respirare, ma non si girò, forse per celarmi la sua espressione. Andai in bagno a controllare. Guardai il mio corpo nudo nello specchio verticale dietro la porta. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? 96

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un palo del telefono o attaccati a un cartello stradale, ogni volta erano uno schiaffo. Un meritatissimo schiaffo in faccia. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. 97


Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me.

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. 98

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Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Riposi svelta la pompa e sgusciai a nascondermi sul sedile anteriore mentre l’ammiratore estraeva dallo zaino un’enorme macchina fotografica professionale. A turno lui e l’amico si misero in posa davanti al cofano, e poi accanto alla coda. «Quanto mi manca il mio pick-up», brontolai. Con tempismo davvero perfetto, anzi, fin troppo, il pick-up aveva esalato l’ultimo respiro poche settimane dopo che io ed Edward avevamo rag-giunto il nostro compromesso zoppicante, una clausola del quale gli concedeva di sostituire il mio automezzo in caso di dipartita dello stesso. Secondo Edward, avremmo dovuto aspettarcelo.detta di Edward. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del ge-

ere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

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shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob.


XXXI

«Sono ben millecinquecento anni che aspettiamo, Stefan. E in tutto questo tempo loro non hanno fatto altro che rafforzarsi». Vladimir fece una pausa e mi guardò di nuovo. Non mostrò alcuna sorpresa nel vedere che anch’io lo stavo osservando. «Se i Volturi vincono questa contesa, ne usciranno ancora più potenti di prima. Ogni conquista aumenta la loro forza. Pensa a cosa potrebbero semplicemente ricavare da quella neonata», fece un cenno verso di me con il mento, «e sta scoprendo i suoi talenti solo a-desso. E poi c’è quello che sposta la terra». Vladimir fece un cenno in direzione di Benjamin, che s’irrigidì. Ormai quasi tutti, come me, stavano origliando i discorsi dei rumeni. «Con i loro gemelli stregati, non hanno nessun bisogno dell’illusionista o del tocco infuocato». Il suo sguardo sfrecciò da Zafrina a Kate. Stefan guardò Edward. «E non gli serve nemmeno quello che legge nel pensiero. Ma ho capito cosa vuoi dire. In effetti, se vincono guadagneranno davvero molto».

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XXXII

In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose pronto Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? 104

Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me.

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In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose pronto Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno. 106


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Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l’oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.Edward fui rapita da un vortice di fantasie. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. ignorare i fogli sbiaditi dalla pioggia. Incollati a un

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Soprattutto, però, non riuscivo a conciliare un concetto serio, rispettabile e noioso come quello di “marito” con il mio concetto di “Edward”. Era come far recitare a un arcangelo la parte di un ragioniere: non potevo immaginarlo in un ruolo tanto banale.

XXXV

Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Edward fui rapita da un vortice di fantasie. 110

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In quell’esatto istante il mio stomaco ruggì. «Hai fame», rispose Edward. Scattò giù dal letto, alzando una nuvola di piume. Il che mi fece ripensare... «E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume. «Non sono sicuro di aver “deciso” qualcosa, stanotte», mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa,

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mormorò. «Per nostra fortuna, erano i cuscini e non te». Scosse la testa, come per scrollare via un gran brutto pensiero. Il suo volto s’illuminò di un sorriso che sembrava davvero autentico, ma che probabilmente gli costava molto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno. Lo sconosciuto dovette schiarirsi la gola per attirare la mia attenzione; si aspettava qualcosa di più preciso sul conto dell’automobile. «Non lo so», risposi sincera.

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Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede. La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. 114

Al riparo della boscaglia lasciai cadere il mucchio puzzolente e ripresi le sembianze umane. Scrollai i vestiti e li sbattei sugli alberi, per cacciare via un po’ di quel fetore. Erano abiti maschili: un paio di pantaloni marroni e una camicia bianca elegante. Forse un po’ troppo corti, ma non era il caso di protestare. Dovevano essere di Emmett. Arrotolai le maniche della ca-micia, ma non potei fare molto con i pantaloni. Pazienza. Ammetto che mi sentivo molto meglio con dei vestiti addosso, pure se puzzavano e non mi cadevano a pennello. Era dura non poter semplicemente fare un salto a casa per prendere un paio di vecchi pantaloni da gin-nastica. Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Esausto, salii i gradini della veranda dei Cullen, con indosso quegli stra-vaganti abiti usati, ma quando fui davanti alla porta esitai. Avevo bussato? Che scemo, sapevano che ero lì. Chissà perché nessuno mi dava un segno, dicendomi «Entra pure» o «Sparisci». Bah. Feci spallucce e varcai la soglia. Altri cambiamenti. In soli venti minuti la stanza era tornata alla normalità, o quasi. L’enorme schermo piatto era acceso, pure se a volume basso: passava un film sentimentale che nessuno sembrava guardare. Carlisle ed Esme erano alla vetrata che dava sul retro, nuovamente aperta sul fiume. Alice, Jasper ed Emmett non c’erano, ma li sentivo bisbigliare al piano di sopra. Bella era distesa sul divano.Sembrava un burrito.

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Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai.

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Nessuno ti guarda, giurai a me stessa, davvero. Nessuno ti guarda. Nessuno ti guarda. Però, siccome non riuscivo a mentire bene neanche a me stessa, decisi di controllare. Mentre aspettavo che uno dei tre semafori della città diventasse verde, sbirciai alla mia destra: sul suo furgoncino, la signora Weber era voltata verso di me. Mi lanciava uno sguardo penetrante che mi fece trasalire. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del

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ere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui». Mentre con lo sguardo percorreva il profilo della mia auto - non mi sembrava tanto diversa da una qualsiasi Mercedes, ma che ne sapevo io? - considerai brevemente le mie difficoltà con parole come “fidanzato”, “matrimonio”, “marito” eccetera. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Alle loro spalle, il signor Mar-

«E perché mai avresti deciso di rovinare i cuscini di Esme?», domandai, mentre mi alzavo scrollando altre piume dai miei capelli. Si era già infilato un paio di pantaloni larghi color kaki e accanto alla porta si scompigliava i capelli per togliersi di dosso altre piume.

shall sbirciava attonito dalla parete a vetro del suo negozietto di souvenir.

Per quanto abituata a percorrere la strada di casa, ancora non riuscivo. «Non lo so», risposi sincera. «Le dispiace se faccio una foto?». Mi ci volle qualche secondo per capire. «Sul serio? Vuole fare una foto con la macchina?». «Certo, se non ho le prove, non mi crederà nessuno». «Ehm. Okay, va bene». Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. 118

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XXXIX

Era stupido essere tanto imbarazzata e lo sapevo. Esclusi papà e mamma, importava davvero ciò che la gente diceva del mio fidanzamento? Della mia nuova auto? Della mia misteriosa ammissione a un college d’élite? Della carta di credito nera e lucida che proprio in quel momento mi sentivo scottare nella tasca posteriore? «Già, chi se ne importa di quello che pensano», mormorai a mezza voce. «Ehm, signorina?», disse una voce maschile. Mi voltai e me ne pentii all’istante. Personalmente non riuscivo a capirli. Del resto, per me era già tanto saper distinguere fra i marchi Toyota, Ford e Chevrolet. L’auto era nera metallizzata, bella, tirata a lucido, ma per me restava una semplice automobile. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. 120

Di nuovo senza dimora, di nuovo senza un posto dove tornare. E senza averi, cosa che al momento non mi creava chissà quali problemi, ma presto, con ogni probabilità, sarebbe stata una bella seccatura. Era ancora maleducazione guardar fisso qualcuno, o con me si poteva fare un’eccezione? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, figuriamoci riconoscermi o rendersi conto che mi ero accorta di lei. Cercai di consolarmi pensando che l’oggetto della sua curiosità forse non ero io, ma soltanto l’auto. La mia auto. Uffa. Diedi un’occhiata a sinistra e brontolai. Due pedoni erano impietriti sul marciapiede e anziché attraversare guardavano me. Come sempre, non appena iniziai a pensare a Edward fui rapita da un vortice di fantasie.

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XL

La mia mente fu risucchiata dal pensiero interrotto poco prima con tanta prontezza. Non potevo evitarlo su quella strada. Non se le foto del mio meccanico preferito sfilavano a intervalli regolari. Il mio migliore amico. Il mio Jacob. «Si», rispose cortese l’uomo, mentre quello più basso alzava gli occhi al cielo, «lo so. Ma mi chiedevo, è davvero una Mercedes Guardian?». Ne scandì il nome con deferenza. Avevo la sensazione che un tipo del genere sarebbe andato d’accordo con Edward Cullen, il mio fidanzato (impossibile svicolare da quel dato di fatto, a pochi giorni dal matrimonio). «In Europa non è ancora sul mercato», aggiunse l’uomo, «figuriamoci qui».Con cautela scivolai giù dall’alto letto e mi stiracchiai di nuovo, più sensibile ai dolori e ai lividi. Lo sentii trattenere il respiro. Mi diede le spalle e strinse i pugni, le nocche bianche. Che sfrontata: perché non abbassava gli occhi? Poi ricordai che i miei finestrini erano talmente scuri da impedirle di vedermi, riconobbi senza alcun dubbio che quella era la fine.

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