L’INDUSTRIA CHE VERRÀ. FUTURI POSSIBILI PER IL MANIFATTURIERO REGGIANO SINTESI DELLA RICERCA Lo scenario industriale di riferimento: opportunità lontane geograficamente…e non per tutti Le enormi risorse messe in campo dai governi dei Paesi di vecchia e nuova industrializzazione per arginare gli effetti della crisi finanziaria innescata dal fallimento di Lehman Brothers se, da un lato, hanno inizialmente impedito/limitato l’avvitamento dell’economia reale, hanno contemporaneamente ipotecato ogni ipotesi di policy a sostegno delle prossime generazioni: il depauperamento di fondi è stato infatti tale da ridurre per molti anni gli spazi di manovra della politica fiscale. Ma quali sono stati – a distanza di tre anni – i principali riflessi di questa crisi da debito sull’industria? Innanzitutto, la crisi ha provocato un’accelerazione nel divaricarsi dei ritmi di crescita tra le aree più industrializzate del mondo e le economie emergenti. Ciò ha, a sua volta, comportato un ri-orientamento cospicuo dei flussi di commercio da un baricentro eurostatunitense ad un baricentro asiatico, modificando profondamente le catene di creazione di valore industriale internazionale: ad esempio con un’intensificazione degli scambi nell’area intra-asiatica fonte di grandi opportunità di crescita ed innovazione, ma a quasi esclusivo appannaggio delle imprese presenti in loco. Molti grandi Paesi emergenti (Brasile, Russia ed India) inoltre, risanate le proprie finanze dopo le crisi degli anni ’90, sono oggi in grado di destinare all’istruzione ed all’innovazione risorse molto più elevate rispetto ai Paesi di più antica industrializzazione. La capacità innovativa di questi player è quindi enormemente accresciuta e si traduce in produzioni, la cui competitività non è più determinata da meri vantaggi di costo. L’altra “novità” emersa con prepotenza con la crisi ha a che fare con l’acuirsi del grado di incertezza e prevedibilità dei cicli economici. Ci troviamo oggi di fronte a cicli sempre più brevi e più profondi nell’ampiezza delle oscillazioni, più simili, volendo fare un paragone visivo, ai cicli meteorologici che non alla matematica confortevolezza e prevedibilità dei cicli economici del passato. L’avvento di quest’era della turbolenza è determinato da due fattori: uno di ordine macroeconomico, l’altro di matrice industriale. Il primo driver ha infatti a che fare con la sopramenzionata insufficienza di fondi che – rispetto al passato gli stati sovrani possono oggi mettere in campo per le politiche di fine tuning (ovvero, da un lato per attenuare l’intensità delle fasi negative del ciclo e, dall’altro, per evitare un successivo surriscaldamento delle economie nelle fasi espansive); il secondo driver origina invece all’interno di un’industria mondiale che si trova a fronteggiare onde di innovazione tecnologica sempre più brevi (oggi stimate della durata di 6 mesi, rispetto ai 50 anni di un secolo fa). Complessivamente queste tendenze di fondo non mettono affatto fuori gioco le aziende italiane che, in passato, hanno già fornito numerose prove della loro capacità di sopravvivere (e prosperare) ai vari cambiamenti di contesto che si sono registrati. Di questa consapevolezza, abbiamo trovato tracce evidenti anche nelle aziende reggiane che, tuttavia, sono altrettanto consapevoli che approcciare mercati più lontani, gestire la sistematica erraticità dei cicli economici e continuare a cavalcare le onde di innovazione tecnologica richieda un forte irrobustimento del tessuto manifatturiero della provincia. Una fotografia aggiornata dell’industria reggiana A circa tre anni dall’inizio di una fase di cambiamento, la cui profondità è almeno pari all’incertezza che ancora ne caratterizza i contorni, l’industria reggiana avrebbe non pochi motivi di (auto) compiacimento. Certo, la grande crisi ha lasciato tracce evidenti anche nei conti delle imprese della provincia: nel 2009 ovvero nella fase più acuta della recessione fin qui sperimentata fatturato e redditività industriale erano scesi su livelli “impensabili” solo qualche mese prima: 4 imprese su 5 vedevano ridursi le vendite (e spesso i cali erano a doppia cifra) ed 1 azienda reggiana su 3 non riusciva ad estrarre valore dalla propria attività di trasformazione. In un contesto in cui le oltre 5700 aziende manifatturiere attive (che generano un fatturato annuo di circa 15,5 miliardi ed impiegano circa 18 mila addetti) sono responsabili, direttamente o indirettamente, del 60%
della ricchezza prodotta annualmente a Reggio Emilia, il bilancio del 2009 generava ovviamente molta apprensione. L’impossibile stava accadendo: una provincia “ricca e ottimista” dove, accanto ad alcune grandi imprese leader nei settori tipici del “Made in Italy” (dalla meccanica al sistema moda, dalle piastrelle all’alimentare), un sistema costituito al 60% da PMI annoverava altrettanti successi “di nicchia” vedeva, per la prima volta, profilarsi la (concreta) possibilità di un (rapido) declino. Il grado di “sofferenza” non aveva senz'altro raggiunto a Reggio Emilia un'intensità analoga a quella sperimentata da altri territori nazionali a vocazione manifatturiera (ad esempio quelli più dipendenti dalle relazioni con la filiera automotive e/o quella dell’abitare), ma anche la quarta provincia manifatturiera d'Italia stava accusando il colpo. Già l'anno successivo, il quadro sembrava però essersi modificato in positivo. Nel 2010, le vendite (+10%) avevano recuperato la metà del terreno perso nel biennio precedente, i mercati esteri – dove il sistema reggiano genera circa il 50% dei ricavi avevano infatti ricominciato a “tirare”, consentendo all'80% delle aziende reggiane di riportare “in nero” i risultati dell'attività caratteristica. Tutto era tornato come prima? Se qualche stakeholder territoriale era tentato dal rispondere positivamente a questa domanda (con tutte le conseguenze del caso in termini di rapporti, posizioni assunte e richieste al mondo delle imprese), gli imprenditori reggiani avevano invece maturato la profonda convinzione che, no, nulla sarebbe mai più stato come prima: il futuro dell'industria reggiana era tutto da costruire perché la crisi aveva accelerato o deviato le traiettorie competitive sulla base delle quali le imprese avevano, fino ad allora, impostato le loro strategie. Una chiara evidenza di questo mismatch proveniva dai bilanci aziendali: nonostante il recupero delle vendite registrato nel 2010 avesse riportato il giro d’affari complessivo su valori solo del 10% inferiori rispetto al precrisi, la redditività industriale risultava ancora inferiore del 50%. Era quindi opportuno riflettere sui mutamenti connessi alla crisi, delineare alcuni scenari possibili e valutare, per ciascuno di questi scenari, gli effetti di scelte effettuate (o non effettuate) oggi. I ritmi con cui i cambiamenti stavano impattando sui mercati avevano infatti assunto una velocità sconosciuta solo un paio d'anni prima e dovevano portare ad una approfondita analisi dei modelli di business, apportando (velocemente) tutti i correttivi necessari a competere con successo anche nel mondo “dentro e oltre la crisi”. A che punto siamo?: lo stato di salute competitivo del sistema industriale reggiano Dopo aver scattato una fotografia il più possibile aggiornata della struttura manifatturiera provinciale (i cui tratti salienti, sopra sinteticamente riassunti, sono descritti in dettaglio nel capitolo 3), il terzo step dell'analisi ha riguardato la valutazione dello stato di salute competitivo attuale dell'industria reggiana. Tale valutazione ha riguardato l'intera catena del valore, ovvero i tre mercati in cui un'impresa è chiamata ad operare, creando o distruggendo valore: mercato delle risorse (sourcing), mercato della trasformazione industriale (manufacturing) e mercato finale (vendita/distribution). Quest'approccio “globale” deriva dall'assunto che, se fino a ieri le criticità presenti in una o più fasi della catena, potevano essere compensate dai vantaggi competitivi presenti nella fase “core” dell'impresa (di norma il manufacturing nel caso delle aziende reggiane), negli scenari che si profilano per il prossimo decennio, i punti di debolezza presenti anche in una sola fase della catena del valore, oltre a riflettersi negativamente sulla capacità di generare reddito, possono arrivare a mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa delle imprese. Per ciascuna fase è stata quindi sviluppata un'analisi di tipo SWOT (punti di forza, punti di debolezza, minacce ed opportunità) finalizzata a dare risposta alla domanda “a che punto siamo?” L’analisi sourcing manufacturing distribution ha ovviamente tenuto conto anche dei grandi driver macroeconomici che delineeranno i contorni dell’ambiente competitivo sopra descritti. Le risorse a disposizione Per quanto riguarda l'accesso alle risorse competitive (materie prime, capitale, lavoro, tecnologia e fattori esterni abilitanti), il quadro che emerge per l’industria reggiana è ancora complessivamente confortante in termini di skill manifatturieri e dotazione tecnologica, mentre diversi punti di attenzione si evidenziano con riferimento a materie prime, risorse finanziarie e ai fattori esterni abilitanti.
Il knowhow manifatturiero su cui storicamente si sono fondati molti dei successi delle aziende reggiane è stato (finora) eroso solo in parte: la sostanziale tenuta delle filiere (in ambito meccanico, ma non solo) ha consentito di salvaguardare l'arte industriale del “saper fare” in un contesto in cui alcuni dolorosi interventi sul piano occupazionale sono stati spesso compensati da azioni di labour hoarding, ovvero riduzioni di organico meno che proporzionali rispetto al calo della domanda, finalizzate a salvaguardare competenze in vista della futura ripresa. Alcuni rapporti di filiera si sono tuttavia pericolosamente sfilacciati e soprattutto le piccole realtà della subfornitura meccanica – se non portatrici di know how altamente distintivi e quindi difficilmente sostituibili – scontano ora ritardi competitivi (ad esempio nell'adozione delle tecniche di lean production) potenzialmente fatali. In termini di dotazione tecnologica – forti anche di più di un'esperienza positiva di collaborazione UniversitàImpresa – l'industria reggiana è ancora all'avanguardia: anche negli anni della crisi la ricerca rivolta all'innovazione “di nicchia” non si è certo attenuata (com'è invece avvenuto in altri contesti) e, anzi, si sono moltiplicati gli sforzi per passare dalla (semplice) co-progettazione alla co-innovazione con le aziende clienti. Per quanto riguarda la dotazione finanziaria, il quadro si fa invece più preoccupante e lascia intravedere la possibilità di pericolose “rotture” rispetto al passato. Come noto, il sistema reggiano ha da sempre privilegiato logiche di crescita profittevole che si sono storicamente riflesse in livelli di autofinanziamento sensibilmente superiori (e percentuali di leva debitoria inferiori) alla media nazionale. Questo tratto caratteristico viene però ora messo in discussione: una marginalità sulle vendite strutturalmente inferiore rispetto al passato ed una contestuale necessità di aumentare la scala degli investimenti espongono ora anche le imprese reggiane ai rischi legati alle modifiche delle condizioni (quantità e prezzi) di accesso al credito bancario. La (strutturale) compressione delle marginalità riduce anche gli spazi – in passato sufficientemente ampi – di compensazione rispetto agli extracosti pagati per l'accesso alle materie prime: sia per problemi di “taglia” (che, mediamente, hanno sempre messo in posizioni di debolezza negoziale le aziende reggiane vis a vis dei grandi produttori di commodity), che legati al quasi monopolio che caratterizza alcuni mercati delle materie prime (es. energy), le imprese della provincia continuano infatti ad evidenziare importanti criticità competitive rispetto ai concorrenti esteri sui mercati delle materie prime. Per ciò che attiene, infine, alle condizioni di contesto, come noto, la crisi ha fatto emergere non poche criticità nei rapporti fra il mondo delle imprese e gli altri stakeholder territoriali: la logica del “conflitto distributivo” fra capitale e lavoro si è esacerbata, il dialogo con il sistema bancario si è fatto più problematico (pur senza raggiungere il grado di incomunicabilità che ha caratterizzato altri contesti territoriali), e anche i rapporti con l'operatore pubblico non hanno più, almeno su alcune tematiche, quelle caratteristiche WINWIN che tanta parte hanno avuto nel configurare Reggio Emilia come uno dei migliori territori in cui fare industria in Italia. La trasformazione industriale La fase manifatturiera è quella in cui storicamente le imprese reggiane hanno evidenziato i maggiori vantaggi competitivi comparati....e a tre anni dallo scoppio della crisi questi tratti sono ancora del tutto evidenti. Le news più confortanti emerse dall'indagine sul campo hanno a che fare, non solo con la sopramenzionata salvaguardia delle competenze/risorse manifatturiere “core”, ma anche con la tensione all'innovazione e con l'estensione anche a molte realtà medio piccole di pratiche finalizzate a migliorare flessibilità operativa, produttività e controllo dei costi. Il fattore che ha probabilmente a contribuito ad innescare tutte e tre queste modificazioni è individuabile nella riduzione pressoché generalizzata dei prezzi benchmark sui mercati internazionali che ha interessato molti beni complessi: il “combinato disposto” dell'eccesso di capacità produttiva legato al ciclo di investimenti dei primi anni 2000 (basati su scenari di domanda ben diversi rispetto agli attuali, si pensi ad esempio al settore dell'automotive), e del catchingup qualitativo dell'offerta dei paesi emergenti si è infatti tradotto in una sostanziale riduzione dei prezzi di vendita sui mercati internazionali, ed in un contestuale
sensibile innalzamento dell'asticella della “qualità utile” per il riconoscimento di un premium price. In questo contesto, sono addirittura cambiati, in molti casi, gli stessi meccanismi di formazione dei prezzi, da markup rispetto ai costi di produzione a markdown rispetto alla “disponibilità a spendere” del mercato. L'esigenza di trovare nuovi equilibri fra differenziazione di prodotto e vantaggi di costo legata a questi mutamenti ha innanzitutto indotto le imprese reggiane ad aumentare il valore estraibile dalla propria attività “core”, ovvero la trasformazione industriale: per questo si sono dispiegate molte energie per salvaguardare e, ove possibile, potenziare il know how manifatturiero distintivo presente in ogni catena di fornitura. In termini di “saper fare” manifatturiero, l'unica preoccupante criticità emersa in questo percorso ha a che fare con le tensioni di filiera ormai evidenti nei casi in cui le imprese leader – sempre più proiettate verso i nuovi mercati “lontani” e guidate da logiche market driven non sono state seguite in questi percorsi da una parte del proprio sistema di subfornitura. Ora questo ricompattamento geografico si fa più impellente perché, nelle parole di un imprenditore intervistato “pensare di assicurare velocità di risposta, elevati standard tecnologici, qualitativi e di servizio postvendita ad un cliente asiatico con il 100% di componenti provenienti dall'Italia è semplicemente impossibile”. Quindi, se fino a ieri per le aziende di sub fornitura seguire i propri clienti sui nuovi mercati era semplicemente un'opportunità addizionale (che si poteva anche tralasciare, stante le buone condizioni di domanda sui mercati tradizionali), ora gli interventi di adeguamento della capacità produttiva locale (es. acquisto di nuovi macchinari) e di investimento diretto all'estero (magazzini per il service postvendita, ma anche presidi produttivi) assomigliano sempre di più ad una necessità, non solo per le imprese di subfornitura, ma per tutto il sistema reggiano. Sono infatti le sinergie di filiera che hanno spesso consentito – nelle opinioni prevalenti anche fra le aziende leader – di mantenere a distanza di sicurezza, sia i competitor tradizionali sui mercati maturi, che i player emergenti locali/regionali attivi sui nuovi mercati. Rispetto a questi ultimi, ad esempio, in molte nicchie di specializzazione c'è attualmente un gap di circa cinque anni in termini di mix d'offerta complessivo (qualità/prezzo/servizio), ma come segnalato da un opinion leader intervistato “la velocità del cambiamento è ora impressionante…e temo che cinque anni, fra un anno saranno diventati due”. La minaccia più insidiosa insita in queste dinamiche ha ovviamente a che vedere con la delocalizzazione produttiva: quello che, a livello di sistema reggiano nel suo insieme, non è mai stato preso seriamente in considerazione in base a logiche di riduzione dei costi, diventa ora molto meno improbabile se valutato in base a logiche di approccio ai nuovi mercati. Proprio questa consapevolezza diffusa è probabilmente alla base di un altro dei punti di forza più incoraggianti emersi dall'indagine: lo sforzo innovativo messo in campo durante l'ultimo biennio. A differenza di altri contesti manifatturieri nazionali, in cui la logica del “primum vivere” da un lato, e la scarsissima capacità di assorbimento dei mercati dall'altra, hanno indotto le imprese ad interrompere e/o rinviare i progetti per l'immissione sul mercato di nuovi prodotti, l'indagine sulle aziende reggiane ha fatto all'opposto emergere un'accentuazione degli sforzi innovativi: si tratti del lancio di nuove serie/collezioni/linee di prodotto nei settori del Made in Italy, dell’immissione di nuovi macchinari per l’efficientamento della raccolta agricola e/o di nuove soluzioni “di nicchia” (in coinnovazione) per l’automotive e gli altri settori clienti della meccanica provinciale, gli esempi di questi sforzi sono stati numerosi. Infine, ma non ultimo, in tema di manufacturing, segnaliamo l'evidenza di uno sforzo di dimensioni analoghe – in verità, il primo che è stato messo in campo per aumentare flessibilità (riduzione dei punti di breakeven) ed efficientare processi e meccanismi di formazione dei prezzi di vendita; obiettivi non banali in generale, che diventano molto sfidanti quando riguardano, come in numerose realtà della componentistica meccanica, migliaia di referenze a catalogo. L’approccio al mercato: ovvero cosa farà davvero la differenza Sulla base delle considerazioni finora svolte, è possibile delineare almeno quattro tendenze di fondo relativamente “certe”, che caratterizzeranno l’ambiente competitivo di questo decennio. Tali tendenze riguardano lato della domanda, offerta, prezzi e risorse finanziarie: •
bassa dinamicità dei Paesi maturi e contestuale spostamento del baricentro della crescita verso
mercati “lontani”; •
aumento della qualità media dell’offerta manifatturiera globale, soprattutto nelle componenti legate alla fase di trasformazione industriale;
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riduzione dei prezzi di riferimento, modifica dei meccanismi di pricing ed aumento delle soglie di differenziazione abilitanti in termini di premium price;
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aumento dei fabbisogni finanziari delle imprese, strette fra la necessità di effettuare investimenti di scala superiore al passato, riduzione di marginalità e maggiori difficoltà di accesso al credito.
Cambiamenti di questa portata non possono essere probabilmente affrontati con limitate modifiche “al margine” del proprio modello di business; la magnitudo di questi interventi “non marginali” assumerà dimensioni variabili in ogni contesto aziendale. Non sorprende quindi che l’indagine presso gli opinion leader abbia fatto emergere un ventaglio molto differenziato di reazioni, da cui è tuttavia possibile individuare alcuni tratti comuni. Questi tratti comuni hanno a che fare con gli interventi da realizzare per cogliere meglio i benefici degli sforzi di differenziazione compiuti nelle attività di sourcing e manufacturing, grazie all’individuazione di nuovi strumenti di approccio e controllo del mercato di sbocco. Si tratti di modalità di branding, marketing e commercializzazione, logistica, assistenza e servizi postvendita, apertura di show room e/o magazzini ricambi “in loco”, le attività finali della catena del valore sono probabilmente quelle che, a Reggio Emilia risultano attualmente meno allineate rispetto alle necessità legate ai nuovi contesti competitivi. Come ben evidenziato da settori – come il sistema moda – che hanno già sperimentato in passato shock analoghi a quelli attuali, sono i player che controllano le fasi finali delle filiere ad estrarre la quota parte maggiore del valore prodotto. In questo contesto, lo spostamento, fuori dai confini europei, del baricentro della domanda impone in primo luogo profondi ripensamenti ad un industria che attualmente realizza poco meno del 90% del proprio fatturato in Europa. I leader di filiera si sono spesso già mossi e stanno potenziando il proprio framework distributivo, logistico e in alcuni casi – anche produttivo fuori dai confini europei, ma buona parte della subfornitura non ha ancora mostrato tendenze analoghe. Qui le inerzie comportamentali ereditate dal passato, assieme a limiti oggettivi (non solo di tipo finanziario o manageriale, ma anche profondamente legati alla governance delle aziende) hanno fino ad oggi limitato il fenomeno a pochissimi casi (quasi tutti di successo, per altro). In questo contesto, le filiere caratterizzate dal solo terminale di filiera presente sul mercato “lontano”, ma con la parte a monte basata a Reggio Emilia, tendono fatalmente a spezzarsi. Tale risultato diventa ancora più probabile se si considera il catchingup qualitativo in corso da parte dei nuovi player emergenti, che si traduce nei sopramenzionati processi di commoditizzazione dei beni complessi, mentre il riconoscimento di premium price passa ora prevalentemente (1) dal contenuto di servizio associato ai prodotti (es. velocità di delivery, service postvendita) e (2) dal grado di customizzazione. Mentre quest’ultimo – pure fra i tradizionali asset dell’offerta reggiana – può ancora essere probabilmente assicurato con il modello attuale, nei segmenti più standardizzati (ma non solo, come dimostra l’esperienza del sistema moda) la competitività è inversamente proporzionale rispetto alla lunghezza geografica della filiera. Questa riduzione dei benchmark di prezzo è alla base del drastico calo di marginalità sopra segnalato che si traduce, fra l’altro, in una riduzione degli spazi di autofinanziamento degli investimenti necessari per modificare l’approccio al mercato nella direzione descritta. Un gap risorse fabbisogni che si allarga ulteriormente se si tiene conto anche delle radicali modifiche che interesseranno le condizioni di accesso al credito bancario. Nella duplice sfida di (1) ampliare, oltre i confini europei, il proprio bacino geografico di mercato, (2) consolidando al contempo le posizioni di leadership sui mercati tradizionali (nei segmenti “custom”), gli asset a disposizione delle imprese reggiane sono ancora tra i migliori fra quelli l’industria manifatturiera nazionale può mettere in campo, ma per “estrarre valore” da queste potenzialità i cambiamenti da operare non sono marginali. Quasi tutti queste azioni di riposizionamento presuppongono, ad esempio, una qualche forma di
consolidamento dimensionale: al al di là dei luoghi comuni legati ad una generica e poco convinta accettazione del superamento del paradigma del “piccolo è bello” (un sentiment molto diffuso fra le imprese reggiane fino ad un paio di anni fa…), una parte rilevante delle aziende converge ora su un giudizio di complessiva inadeguatezza della scala media dell’impresa reggiana. L’individuazione delle variabili chiave per gli scenari futuri: una non scontata convergenza fra “teoria” e “pratica” Proprio in base ad ipotesi alternative su “attitudine alla crescita sistemica” e capacità di “andare più lontano, individuando nuove modalità di differenziazione e controllo dei mercati”, abbiamo delineato tre futuri possibili per l’industria reggiana al 2020. Nello step successivo dell’analisi svolta, questi due fenomeni sono infatti risultati – facendo emergere un confortante allineamento fra teoria economica e pratica aziendale – le principali variabili chiave, dalla cui evoluzione dipenderà la fisionomia futura del manifatturiero reggiano. L’algoritmo quali-quantiativo utilizzato per individuare i principali “punti di rottura” (ovvero gli eventi più impattanti ed allo stesso tempo più incerti) ha infatti consentito di assegnare un “peso relativo” alle diverse variabili che – nell’opinione delle aziende intervistate –influiranno sulle loro performance future Tali variabili sono state ordinate nello spazio bidimensionale impatto/controllo ovvero in base, da un lato, all’impatto che avranno nel determinare l’evoluzione futura delle performance aziendali/settoriali, dall’altro, all’influenza che le azioni messe in campo potranno avere nel modificare, in un senso o in un altro, il loro andamento. Questa analisi ha fornito diverse conferme “aziendali” alle tendenze di fondo individuate dall’analisi teorica: dal ruolo delle traiettorie tecnologiche al cambiamento dei baricentri di domanda, ma non sono mancate “accentuazioni” diverse in termini di peso relativo di tali fenomeni: è ad esempio il caso dell’accesso alle materie prime, una variabile ritenuta assolutamente “critica” per le aziende, che viene invece a volte sottovalutata nelle analisi “desk”. Senza entrare nell’analisi di dettaglio di tutte le variabili in gioco (per la quale si rimanda al capitolo 5), ci limitiamo qui a segnalare due “luoghi comuni” che sembrano non trovare conferma. Il primo ha a che fare con la presunta difficoltà, da parte di un sistema costituito in prevalenza da PMI a rimanere agganciato alle principali macrotraiettorie tecnologiche: su questo tema, pur nella consapevolezza di poter esercitare un bassissimo grado di controllo su tali tendenze, le aziende reggiane ritengono invece di essere ben equipaggiate e vivono il cambiamento tecnologico molto più come una opportunità che non come una minaccia. L’altra (parziale) smentita riguarda la governance delle imprese, ovvero le criticità che vengono spesso segnalate connesse ai processi di passaggio generazionale ed al basso grado di managerializzazione delle aziende. Entrambi gli aspetti sono infatti relegati, dalle aziende reggiane intervistate, nel ruolo di variabili autonome, ovvero scarsamente rilevanti nell’evoluzione futura del sistema competitivo provinciale. Questo giudizio ha probabilmente a che fare con la relativa “serenità” con cui, negli ultimi anni, sono stati gestiti questi passaggi. Più articolato il giudizio relativo alla managerializzazione: nonostante non manchino i casi di successo nei processi di progressiva separazione fra proprietà e controllo, in molti casi (e soprattutto nelle aziende medio piccole) prevale lo scetticismo sul contributo di manager esterni. Un maggiore grado di consenso si riscontra invece sulla necessità di favorire la crescita del middle management interno. Come anticipato, l’analisi delle variabili chiave opportunamente integrata con le risultanze dell’analisi quantitativa ha consentito di individuare nella crescita dimensionale e nello spostamento geografico dell’attività (con contestuale potenziamento degli strumenti di differenziazione e controllo del mercato) i due principali “portatori di futuro” per l’industria reggiana. Il secondo aspetto è stato già discusso in questa sintesi (e numerosi argomenti a sostegno dell’impellenza di questo spostamento possono essere trovati nei vari capitoli di questo Rapporto), mentre il tema della crescita dimensionale è stato volutamente fin qui solo accennato.
Evidenziando un non scontato allineamento fra le indicazioni degli economisti e l’opinione prevalente fra le aziende, l’aumento della scala d’impresa media viene oggi ritenuto un passaggio cruciale lungo la strada del cambiamento, in risposta alle sfide poste da altre variabili chiave, su cui il grado di controllo delle aziende è attualmente basso (rapporti con la banca) o virtualmente inesistente (spostamento dei baricentri di domanda, traiettorie tecnologiche, ecc.). Da segnalare, inoltre, che se fino a ieri erano soprattutto le grandi imprese capofiliera a spingere per forme di aggregazione nella propria supply chain, attualmente questa necessità è maggiormente sentita anche fra le imprese di dimensioni medio piccole. Questo gap viene stimato nell’ordine del 30% quando il bacino di riferimento è l’Europa allargata, mentre per andare “oltre” si fa strada la consapevolezza che siano necessarie forme di aggregazione per linee esterne. Da un lato dello spettro, troviamo dunque imprese per le quali la crescita dimensionale desiderata è semplicemente quella necessaria per recuperare il terreno perso con la crisi. All’estremo opposto, troviamo invece imprese che stanno assistendo ad un più deciso cambiamento del framework geografico della domanda (o che intendono attrezzarsi rispetto a questa tendenza di fondo), o che vogliono approcciare clienti di grandi dimensioni. In questo caso, le dimensioni della nicchia da presidiare si ampliano notevolmente e con essa anche la lunghezza del balzo dimensionale che, consapevolmente, ritengono di dover compiere. Sulla base di questi distinti obiettivi, cambiano anche le modalità con cui perseguirli. Nel primo caso, si privilegia soprattutto la crescita proprietariodimensionale (per linee interne e/o con acquisizioni) mentre, nel secondo caso, la presa d’atto dei numerosi limiti (patrimoniali, finanziari, organizzativi, ecc.) che rendono impraticabili le precedenti opzioni fa propendere per percorsi di crescita basati su alleanze. Queste ultime però dovranno caratterizzarsi per un grado di stabilità e commitment reciproco strutturalmente superiore al passato. Da qui il crescente interesse per le reti d’impresa, un modello di aggregazione che – salvaguardando l’autonomia di ciascun imprenditore – viene ritenuto in grado di agevolare sia percorsi di crescita di tipo relazionale (grazie all’accesso “a costo zero” alle risorse ed alle competenze condivise dai vari nodi della rete) che qualitativo (con il singolo nodo che diventa una componente di eccellenza all’interno di un sistema più ampio). Finalmente ci siamo: tre scenari per l’industria manifatturiera reggiana al 2020 Nell’ultima parte del Rapporto, i set informativi quali-quantitativi costruiti nelle fasi precedenti (scenario macroeconomico ed industriale, mappatura statistica aggiornata dell’industria provinciale, analisi dei dilemmi strategici e sistema/selezione delle variabili chiave) sono stati utilizzati per delineare alcuni futuri possibili all’orizzonte 2020 per l’industria reggiana. Tra gli “infiniti” scenari che si possono ipotizzare oggi, in un contesto caratterizzato da enormi margini di indeterminatezza (che riguarda non solo gli aspetti macroeconomici, ma anche regolamentari, geopolitici, ecc.), tali scenari illustrano alcune traiettorie possibili che hanno l’obiettivo di stimolare approfondimenti e riflessioni sulle possibili conseguenze future di scelte effettuate (o non effettuate) oggi, in primis dalle imprese, ma anche dagli altri portatori d’interesse di riferimento dell’industria reggiana (cfr. capitolo 7). Gli scenari delineati sono tre, “base” “scatto” e “transizione”, e si differenziano per l’attitudine al cambiamento che le imprese reggiane nel loro insieme mostreranno per fare leva sui propri (numerosi) punti di forza e superare le criticità che caratterizzano la dimensione prodotto/mercato, la scala ottimale e i modelli organizzativi. Il successo relativo di tali interventi viene tradotto, nei vari scenari, in una differenziata capacità di sfruttare le opportunità sui mercati esteri, da un lato, e a diverse ipotesi sull’attitudine all’aggregazione, dall’altro. Nello scenario “base”, si ipotizza che di qui al 2020 le imprese reggiane continuino ad operare in base agli attuali modelli di business, intervenendo solo con modifiche “al margine”, ma senza evidenziare significative rotture (ad esempio in termini di attitudine all’aggregazione) rispetto alle tendenze emerse negli ultimi anni. In questo futuro possibile, solo i leader e le imprese più robuste delle varie filiere reggiane continuano ad investire in strumenti di differenziazione e controllo dei mercati. Questo raggruppamento di
imprese “esploratrici” stacca il gruppo – costituito da filiere di subfornitura, che ripropone le attuali strategie, basate sull’innovazione “al margine” ed investimenti insufficienti ad allargare il perimetro geografico della propria nicchia e a superare le criticità spesso presenti nelle fasi a monte e a valle della trasformazione industriale. Stante il buon posizionamento che ancora caratterizza l’industria reggiana, i risultati attesi connessi a questi comportamenti non sono affatto deludenti in termini di giro d’affari: con un tasso di crescita medio annuo superiore al 6% , il fatturato complessivo potrebbe raggiungere i 28,3 miliardi di euro nel 2020. A queste performance in termini di vendite non si assoceranno, tuttavia, risultati altrettanto positivi in termini di redditività: in termini di utili netti, occorrerà attendere il 2015 per ritornare su livelli complessivi analoghi a quelli precrisi, ma questo dato sarà raggiunto solo grazie al contributo delle esploratrici. In termini di redditività industriale complessiva, inoltre, nemmeno il contributo dei leader sarà sufficiente a riportare il sistema manifatturiero reggiano sui livelli (prossimi al 10%) raggiunti prima della crisi. In un secondo scenario, abbiamo invece ipotizzato che lo scatto sul fronte dell’investimento in strumenti di differenziazione e controllo dei mercati – supportato dagli adeguati correttivi dimensionali – venga effettuato dal sistema reggiano nel suo complesso. Un mix di interventi di crescita (capitale, qualità, network, ecc.) consente al manifatturiero reggiano nel suo insieme – grazie anche al traino dei capifiliera di cogliere tutte le opportunità sui mercati esteri con una extracrescita del fatturato estero (rispetto allo scenario base) del 25%: aumenta così la quota di export, grazie anche ad un miglioramento delle relazioni di filiera (soprattutto in termini di efficienza), a nuovi modelli organizzativi e a processi adeguati alle necessità del nuovo contesto. Questo scenario comporta una extracrescita del fatturato di oltre 3,7 miliardi che porterebbe il giro d’affari nominale del 2020 su un livello pari al doppio di quello del 2010. La messa a regime in tempi brevi degli interventi ipotizzati garantirebbe inoltre il ritorno degli utili aggregati sui livelli precrisi in tempi relativamente brevi, mentre al 2020 il comparto industriale reggiano nel suo insieme ritornerebbe ad evidenziare l’eccellente redditività industriale (10%) raggiunta prima dello scoppio della crisi. L’ultimo scenario delineato, riguarda una combinazione di ipotesi più “estrema” e per questo caratterizzata da una probabilità di realizzazione decisamente inferiore (almeno in base all’informazione attualmente disponibile) rispetto ai due scenari precedenti. In questo scenario “contrastato” o di “transizione” si ipotizza, infatti, una netta riduzione dell’attitudine al cambiamento del sistema manifatturiero reggiano rispetto all’esperienza degli ultimi anni. In questo contesto, anche le aziende leader faticano ad inseguire gli spostamenti della domanda sui nuovi mercati, mentre il gruppo delle PMI, prigioniero delle inerzie comportamentali e dei limiti strutturali legati alla dimensione, soffre di una progressiva erosione di quote di mercato e di marginalità, in quanto pericolosamente coinvolto in una competizione di tipo price. In questo scenario, la crescita media annua nominale nel decennio supera di poco il 5% ed il giro d’affari al 2020 rimane di 2,5 miliardi inferiore rispetto allo scenario base. A preoccupare maggiormente sarebbero però gli indicatori di marginalità e redditività: in termini di utili complessivi i livelli nominali del 2007 sarebbero forse raggiunti solo al termine dell’orizzonte di previsione, come sintesi di situazioni ancora più polarizzate fra best e worst performer che verranno progressivamente espulsi dal mercato. Anche la redditività industriale complessiva rimane depressa (6,5% al 2020), su livelli decisamente inadeguati a finanziare gli investimenti. Come si vede, a parità di scenario macroeconomico di riferimento, saranno soprattutto – in modo non sorprendente i comportamenti delle aziende a fare la differenza. La posta in gioco è alta: fra lo scenario di scatto e quello contrastato c’è un differenziale annuale di crescita di circa 2 punti che si traduce, all’orizzonte 2020, in oltre 6 miliardi di euro ed in circa 7000 posti di lavoro manifatturieri. In altri termini, in un decennio il giro d’affari complessivo dell’industria reggiana potrebbe essere del 40% superiore rispetto a quello del 2010, ma potrebbe anche evidenziare un drastico ridimensionamento del ruolo complessivo dell’industria nell’economia reggiana. Tutti questi scenari, come segnalato nel capitolo 2, scontano un ridotto supporto della politica economica, ancora focalizzata – almeno per il prossimo quinquennio – sul rientro dall’attuale crisi debitoria internazionale. Questa consapevolezza sembra ormai diffusa nell’imprenditoria reggiana che tuttavia non rinuncia ad
immaginare che nel percorso di costruzione del proprio futuro – di cui sarà ovviamente la principale artefice – la collaborazione con i principali stakeholder si modifichi in senso più proattivo, coordinato e condiviso.