INDICE
«Tascabili Marsilio» periodico mensile n. 191/2003 Direttore responsabile Cesare De Michelis Registrazione n. 1138 del 29.03.1994 del Tribunale di Venezia Registro degli operatori di comunicazione-Roc n. 6388
PARTE PRIMA. CHE COS'E' IL DENARO?
9 I. L'orsetto e la Lollo (a mo' di prefazione) 15 II. Che cos'e il denaro PARTE SECONDA. LA LUNGA MARCIA DEL DENARO
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III. IV. V. VI. VII. VIII.
L'Eden Interludio La nascita del denaro «In sonno» Il tempo del denaro La societa virtuale
PARTE TERZA. IL DENARO COME FINE E LA FINE DEL DENARO
© 1998, 2003 by Marsilio Editori® spa in Venezia Prima edizione: aprile 2003 ISBN 88-317-8247-9 www.marsilioeditori.it
213 IX. Il denaro come stile di vita 239 X. Il denaro come forma della politica 265 XI. Il denaro come fine e la fine del denaro
Senza regolare autorizzazione e vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia
281 Bibliografia 286 Indice dei nomi
Stampato da Grafica Veneta s.r.l., Trebaseleghe (PD)
PARTE PRIMA CHE COS'E IL DENARO?
I. L'ORSETTO E LA LOLLO (a mo' di prefazione)
Frequentavo la terza alle elementari di via Galvani, a Milano. Un ragazzo di quinta mi agganciò ai gabinetti. Aveva adocchiato un orsetto bruno che i miei mi avevano regalato a Natale insieme ad altri animali e soldatini di terracotta. Mi propose un affare: lo scambio con la foto formato tessera di una testina di Gina Lollobrigida. Avevo otto anni e delle donne non mi importava né sapevo nulla. Nemmeno delle bambine perché allora alle elementari, alle medie e persino nei licei vigeva la più rigorosa apartheid. Guardai la foto e dissi che non mi interessava. «Ma è un'attrice. È considerata la donna più bella del mondo, tutti vorrebbero avere una sua fotografia» insistette il mio Lucignolo. Cominciai a essere tentato e alla fine mi lasciai convincere. Il ragazzo di quinta agguantò il mio orsetto di terracotta e a me rimase la foto della Lollo. La conservai a lungo, in un cassetto segreto, solo perché mi ricordava l'orsetto perduto. Racconto questo aneddoto non tanto per sottolineare la mia dabbenaggine ma perché in quel semplice atto c'è parecchio che ha a che fare col denaro sia pure allo stadio primordiale. C'è lo scambio, il baratto, il riferimento a un elemento «terzo», il valore che la comunità attribuisce a un determinato oggetto, e quindi un'allusione al prezzo, al mercato, al meccanismo della domanda e dell'offerta. Inoltre nel mio infantile rimaner legato,
attraverso la foto della Lollobrigida, all'orsetto si ritrova la concezione primitiva che gli oggetti mantengono qualcosa della persona che li aliena e hanno essi stessi un mana, un'anima. Concetto che nella storia dell'uomo ha impedito per un certo tempo che il trasferimento di beni fosse una mera partita burocratica, una semplice compravendita basata sulla pura razionalità, sbarrando così a lungo il passo allo sviluppo del denaro. Il lettore osserverà, forse, che uno che, sia pur a otto anni, si dimostra così sprovveduto negli affari e si fa buggerare con tanta facilità è il meno indicato a trattare questioni che riguardano i quattrini. Effettivamente non mi è mai interessato il denaro. Provengo da una famiglia borghese dove di soldi non ce n'erano né tanti né pochi così da doversene preoccupare. A questo disinteresse contribuì molto anche mio padre che, nel suo puritanesimo, non volle mai darmi del denaro e solo verso i miei quindici o sedici anni si decise a pagarmi una «mancia» settimanale («Perché tu impari ad amministrarti», disse con solennità) che era ridicola anche per quei tempi, venti lire, e che fu occasione di infinite irrisioni da parte dei miei compagni. Devo dire però che allora, negli anni Cinquanta e nei primissimi Sessanta, per noi ragazzi il denaro aveva pochissima importanza. Fossimo figli di borghesi o di proletari conducevamo tutti, più o meno, la stessa vita, ci vestivamo nel medesimo modo, facevamo le stesse cose. Negli ambienti circoscritti in cui vivevamo, la scuola, la strada di sotto e, d'estate, i Bagni, era molto difficile apprezzare le differenze perché, anche se c'erano, non si vedevano. A volte, raramente, c'era qualche «figlio di papà» che mostrava un po' di lusso ma in luogo di essere ammirato, adulato e circuito era disprezzato come individuo tendenzialmente poco virile. Un «fighetta». Quel che contava fra noi era chi giocava meglio al pallone, tirava
con precisione di cerbottana e, più avanti, filava con le ragazze più belle. Anche fra gli adulti ostentare la ricchezza era considerato disdicevole. Il buon Giovanni Borghi, il patron della Ignis, un self made man cui piaceva pavoneggiarsi peraltro in modo molto naif e in definitiva innocente («S'el custa? Cumpri mi»), era bersaglio di feroci prese in giro. In ogni caso era ancora largamente diffusa «l'etica della povertà dignitosa»: il povero non era considerato un reietto, un paria, un relitto della società. Non si dubitava che si potesse essere poveri e felici. Esistevano altri valori che non erano legati alla forza del denaro. Nel corso degli anni e di pochi decenni ho visto questa cultura essere spazzata via e il denaro diventare l'unico valore realmente condiviso. La cosa, ovviamente, non riguarda la società italiana in particolare (noi anzi abbiamo imboccato questa strada più tardi di altri) ma tutti i Paesi industrializzati e ormai, nella globalizzazione e nell'interdipendenza delle economie, anche non industrializzati. Oggi tutto, o quasi, è denaro, tutto dipende dal denaro, tutto si riconnette al denaro. Il denaro, con la sua straordinaria fluidità, si infila in ogni anfratto della nostra esistenza. E tanto più si smaterializza e diventa quasi invisibile tanto più incombe, determina gli stili di vita, diventa il fine primario. Non è possibile ignorarlo. Per cercare almeno di comprenderlo, mi sono gettato quindi, con la voracità del neofita, nello studio di testi di economia, di storia, di antropologia, di filosofia, di sociologia, di psicologia, di diritto, di numismatica, perché il denaro attraversa tutte queste discipline e forse molte altre ancora. Ho letto, o riletto, Smith, Ricardo, Malthus, Sismondi, Galiani, Mandeville, Walras, Marx, Bùcher, Rostow, Schumpeter, Sombart, Simmel, Weber, Dopsch, Malinowski, Mead, Polanyi, Heichelheim, Keynes, Bloch, Braudel, Cipolla, Samuelson, Mathieu, Soros e tanti altri. Sarei presuntuoso oltre che un illuso se
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dicessi che ho completamente digerito questa full immersion. Probabilmente gli specialisti, e non solo loro, troveranno approssimazioni, inesattezze, errori e forse anche autentiche sciocchezze e tautologie di cui del resto la storia del denaro è piena. Me ne consolo pensando alle castronerie che sono riusciti a dire in materia non solo uomini sommi ma antichi come Aristotele, cui va comunque l'attenuante, e il merito, di essere stato il primo ad affrontare l'argomento, ma anche specialisti moderni e modernissimi a cominciare da Lord Maynard Keynes per finire ai teorici delle «aspettative razionali» che sono l'ultimo grido dell'economia, anzi della macroeconomia1. Di una cosa però sono certo: con il denaro è andata come con tutto il resto. Da utile mezzo è diventato fine, da servo si è fatto padrone, crediamo di maneggiarlo e invece ci manipola, crediamo di usarlo e invece ci usa, crediamo di muoverlo e invece ci fa muovere, anzi trottare, crediamo di possederlo e invece ci possiede. Inoltre, considerato globalmente, il denaro ha raggiunto un tale stratosferico volume e lo abbiamo caricato di tali aspettative che, prima o poi, gonfiato a dimensioni oniriche, imploderà con conseguenze devastanti. È la storia del rapporto fra uomo e Tecnologia (o, se si preferisce, fra uomo e Cultura), dove finiamo immancabilmente per essere soggiogati dai meccanismi che abbiamo creato, ragni prigionieri della propria tela. E il denaro è forse il più raffinato strumento della tecnica perché è puramente concettuale. Ha scritto Vittorio Mathieu, autore di una pregevole Filosofia del denaro: «Né sulla Terra né in cielo troviamo un'altra istituzione umana o realtà naturale che si avvicini al modo di essere e di agire del denaro. Esso agisce senza essere una cosa fisica e senza essere neppure legato alla materia se non come simbolo»2. Il denaro, che va distinto dalla moneta in cui si incarna, così come lo Spirito nell'ostia consacrata, anche se
insieme formano un unico corpo mistico, è un concetto, un'idea, una logica, un'astrazione, che però, come ognuno di noi sperimenta nella pratica quotidiana, ha una sua inequivocabile concretezza. Alfred Sohn-Rethel, con efficace ossimoro, lo ha definito «un'astrazione reale»3. Ed è questa doppia natura che rende il denaro ambivalente, ambiguo, sfuggente, enigmatico, indefinibile, inafferrabile. Tanto da far dire a Gladstone che «nemmeno l'amore ha fatto impazzire tanti uomini quanti ne sono impazziti scervellandosi sulla natura del denaro»4. Ma, a differenza dell'amore, il denaro è un fatto esclusivamente umano. Più del linguaggio, cui viene spesso apparentato, perché questo appartiene anche agli animali. Forse solo la scrittura e la matematica possono essergli paragonate. Ma il denaro le supera perché le ricomprende entrambe, infatti è segno ed è numero. Essenzialmente umano (forse troppo umano, direbbe Nietzsche), il denaro è anche sovrumano o oltreumano perché, essendo fuori dalla materia, ha una natura metafisica. Non è un caso che in tutti i libri che se ne occupano in senso non strettamente economico siano frequenti gli accostamenti al divino o al diabolico. Dice Martin Luterò: «Il denaro è parola del diavolo, per mezzo della quale egli crea ogni cosa nel mondo, proprio come Dio crea attraverso la parola di verità»5.1 teologi, cristiani e musulmani, soprattutto medievali, sono sempre rimasti impressionati dalla capacità di possessione del denaro e dalle devastazioni che può compiere nell'animo umano. Più laicamente i marxisti ortodossi l'hanno dannato perché sarebbe «lo strumento per appropriarsi del lavoro altrui»6. Gli psicoanalisti lo apparentano allo sterco, per il piacere che se ne trae sia nell'espellerlo che nel ritenerlo. Ma se è sterco è uno sterco molto speciale, trascendente e metafisico: è, per dirla ancora con Lutero, lo sterco del Demonio7.
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1 Per la verità è già il penultimo. La teoria delle «aspettative razionali», che ha dominato la scena negli anni '70 e '80, influenzando statisti, governi, politiche, era di moda fino all'altro ieri, quando cominciai a concepire questo libro. Nel frattempo le cose sono cambiate. Attualmente, come spesso, per non dir sempre, accade in economia, che pur ha preteso, e pretende, di porsi come scienza, basata addirittura su «leggi naturali», la teoria delle «aspettative razionali» è considerata perfetta dal punto di vista dottrinario ma completamente disattesa dalla realtà. Insomma una patacca. Cfr. J.P. Fitoussi, 11 dibattito proibito, Il Mulino 1997, pp. 73-81. 2 V. Mathieu, Filosofia del denaro, Armando 1985, p. 31. Nel prosieguo ci serviremo spesso, come antiesi, dell'opera di Mathieu, benché egli non sia un economista ma un filosofo, perché è una sorta di paradigma e di résumé, scevro da dubbi, del pensiero economico classico, il che ci ha evitato di insistere troppo sul raffronto diretto con autori lontani nel tempo e dallo stile ostico per il lettore moderno. 3 A. Sohn-Rethel, Il denaro, l'apriori in contanti, Editori Riuniti 1991, p. 32. 4 C. Boffito, Enciclopedia Einaudi, voce Moneta, 1980, voi. ix, p. 451. 5 M. Lutero, Tischreden (Discorsi a tavola), Weimar 1921, voi. i, n. 391. 6 K. Marx, Il Capitale, III, V, 36. 7 M. Lutero, Opere, Weimar 1883.
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II.
CHE COS'È IL DENARO
Tradizionalmente le funzioni del denaro sono quattro: 1) Misura del valore; 2) Intermediario nello scambio; 3) Mezzo di pagamento; 4) Deposito di ricchezza. Niente da dire sulle prime tre. Ma togliamoci dalla testa che il denaro sia ricchezza o che la rappresenti. Da questo punto di vista il denaro non è nulla, un puro Nulla. Se ne accorsero gli spagnoli agli albori del xvn secolo quando, dopo aver rapinato agli indios d'America tutto quanto poterono d'oro e d'argento (la moneta dei tempi, in Europa), si trovarono più poveri di prima. Nel suo Memorial del 1600, Gonzales de Collorigo scrisse con icastica lucidità: «Se la Spagna è povera è perché è ricca»1. E Pedro de Valencia, nel 1608: «II male è venuto dall'abbondanza di oro, argento e moneta, che è stato sempre il veleno distruttore delle città e delle repubbliche. Si pensa che il denaro è quello che assicura la sussistenza e non è così. Le terre lavorate di generazione in generazione, le greggi, la pesca, ecco quel che garantisce la sussistenza delle città e delle repubbliche. Ciascuno dovrebbe coltivare la sua porzione di terra e quelli che vivono oggi della rendita e del denaro sono gente inutile e oziosa che mangia quello che gli altri seminano»2. Si dirà che sono balbettii di economisti alle prime armi, nemmeno consapevoli di esserlo, ancora cultural-
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mente ed emotivamente legati al mondo medievale in cui il denaro, oltre ad avere scarsa circolazione, fu sempre tenuto in gran sospetto. Ma Sismondi, che è attivo due secoli dopo, quando l'economia classica, con Smith, con Ricardo, con Malthus, con Say, ha già fatto irruzione nella Storia e si è posta come scienza, scrive: «Aumentando il numerario di un paese senza aumentarne il capitale, senza aumentarne il reddito, senza aumentarne il consumo, non lo si arricchisce, non se ne stimola il lavoro» 3 . E per capitale Sismondi intende, come Collorigo e Valencia, terra, bestiame, strumenti, abitazioni, lavoro, cioè beni materiali. Nel 1929 gli americani che avevano investito nella Borsa di New York si ritenevano ricchissimi ma bastò che qualcuno non credesse più nel valore di quelle azioni (che, come vedremo, sono denaro a tutti gli effetti), trascinando a valanga gli altri, perché quella ricchezza si rivelasse per ciò che era: carta straccia. L'unico utilizzo ragionevole che se ne potè fare fu di incorniciarla a ricordo di una follia collettiva. Il valore di una mucca invece, per quanto possa variare, non può essere ridotto a zero, ci ricaverò sempre del latte o, alla mala parata, ne farò bistecche. Della inconsistenza del denaro, inteso come ricchezza, si era già reso conto Aristotele, che nella Politica scrive: «Taluni ritengono la moneta un non senso, una semplice convenzione legale senz'alcun fondamento in natura, perché cambiato l'accordo fra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denaro può spesso mancare del cibo necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza che, pur se posseduta in abbondanza, lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida»4. Ma torniamo ai giorni nostri. I primi 385 miliardari del mondo posseggono un patrimonio che è pari al reddito
complessivo di Paesi che rappresentano il 45% della popolazione mondiale5, e Berlusconi con i suoi cinque miliardi di dollari, secondo le stime di Forbes, ha un patrimonio pari al reddito di tutti gli abitanti del Niger. Ma se riversassimo sul Niger non solo il patrimonio di Berlusconi ma anche quello degli altri 384 miliardari questo Paese, se lo ipotizziamo come una monade chiusa, non sarebbe, per ciò solo, più ricco di un ette. Si scatenerebbe semplicemente una formidabile inflazione6. Il risparmio è ritenuto una fonte fondamentale della ricchezza di una nazione. Prendiamo allora i Bot (denaro anch'essi) che sono in assoluto la forma più comune e diffusa di risparmio degli italiani. Cosa sono i Bot? Rappresentano un credito che i cittadini hanno verso lo Stato, ma poiché lo Stato altro non è che la comunità dei cittadini, i Bot sono un credito che gli italiani hanno verso se stessi. Si tratta di una partita di giro. Per il sistema-Italia la somma è zero7. Si comprende forse meglio il senso degli esempi eterogenei e un po' abborracciati che abbiamo affastellato fin qui se invece di una singola somma consideriamo il denaro nel suo complesso. Io posso essere certamente disposto a scambiare la mia mucca per denaro ma non cambierei mai tutti i beni del mondo con tutto il denaro del mondo. Perché non saprei cosa farmene. Spiega Georg Simmel, autore di una fondamentale Filosofia del denaro: «La scelta fra la totalità dei concreti oggetti di valore e la totalità del denaro rivelerebbe subito la sua interna mancanza di valore, perché avremmo soltanto un mezzo e nessun fine per cui utilizzarlo»8. Se prendo un individuo singolo e lo privo di tutto il denaro costui, in una società strutturata come la nostra a economia monetaria, muore di fame, ma se prendo tutto il denaro del mondo e lo butto nel cesso l'umanità vive lo stesso. Il denaro non aumenta di nulla la ricchezza del mondo, perché può acquistare unicamente ciò che c'è già, può
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Abbordiamo la questione da un'altra angolazione e prendiamo per buona la classica distinzione di Marx fra
valore d'uso e valore di scambio12 che discende, nella sostanza, dall'altrettanto classica dicotomia formulata da Aristotele fra produzione per l'uso e produzione per il guadagno 13 . Il valore d'uso è l'utilità che la cosa ha per chi la possiede e direttamente la consuma, il valore di scambio è quello che la cosa acquista trasferendola ad altri. Ogni cosa per avere un valore di scambio deve avere prima un valore d'uso (in altri termini deve avere un'utilità intrinseca). Il denaro ha un valore di scambio senza avere un valore d'uso (e questo è il primo dei tanti paradossi che il denaro porta con sé). Il denaro può essere consumato solo scambiandolo, si risolve cioè nella sua funzione, che è appunto quella di intermediario nello scambio. Non bisogna farsi fuorviare dal fatto che il denaro, soprattutto agli inizi della sua lunga storia, si sia incarnato in oggetti, animati o inanimati, che avevano anche un'utilità intrinseca e quindi un valore d'uso (bestiame, pelli, riso, tabacco, sale, metalli nobili come l'oro e l'argento14: la cosiddetta moneta-merce). Bisogna cioè distinguere il denaro, dalla moneta che è il suo supporto materiale. Il denaro svolge tanto meglio la sua funzione di intermediario nello scambio quanto minore è il valore del materiale che gli fa da supporto. Spiega Mathieu: «Una mercé diviene denaro nella misura in cui il suo valore di scambio diverge dal suo valore d'uso... Al limite se una moneta fosse così buona che ciascuno si attaccasse ad essa come a un bene in sé, essa non servirebbe da moneta»15. Non servirebbe da intermediario nello scambio, cioè da denaro, non sarebbe denaro. Il denaro raggiunge la sua perfezione e la sua purezza quanto più si smaterializza. Perché il denaro in quanto tale non esiste in natura: è un'astrazione. Infatti in qualsiasi forma si presenti (moneta-mercé, oro, monete metalliche, cartamoneta, banconote, azioni, obbligazioni, registrazioni in conto corrente, impulsi elettronici, tacca
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trasferire solo la titolarità della proprietà delle cose. Può spostare ricchezza, non è esso stesso ricchezza. Considerato in maniera statica il denaro sembra quindi privo di qualsiasi valore. Ma, obbietta Vittorio Mathieu, il valore del denaro non va misurato sul passato e nemmeno sull'esistente: «il valore del denaro dipende dal futuro» 9 . Perché, come vedremo meglio fra poco, il denaro ha la capacità di far lavorare qualcuno a favore di chi lo possiede10 o, per dirla più brutalmente con Adam Smith, di «comandare lavoro»11 e quindi è uno stimolo a produrre ricchezza. Non è una ricchezza attuale, ma eventuale, potenziale, aleatoria. Ma anche considerato sotto questo punto di vista il denaro non fa che sollecitare energie che già ci sono (e solo se ci sono) e che potrebbero benissimo attivarsi anche senza di esso. Al massimo un buon lubrificante. Il fatto che il denaro abbia questa particolare e indubbia capacità di «far lavorare» non ci dice quindi che esso è di per sé una ricchezza, nel senso materiale e comune in cui generalmente la intendiamo, ma un'altra cosa: che gli uomini, almeno nella loro maggioranza, credono al denaro. E a sua volta questa fede nel denaro non ci dice nulla nemmeno sulla sua reale esistenza. Così come il fatto che gli uomini credano in Dio non dimostra l'esistenza di Dio. Ciò non toglie che la credenza in Dio, come quella nel denaro, e come ogni grande illusione, abbia il potere di muovere il mondo. E questo è il punto. Che cos'è che dà al denaro, che non è ricchezza, che di per sé non ha valore, se non quello, modesto, di strumento, di cui gli uomini potrebbero benissimo fare a meno, e di cui, in realtà per lungo tempo hanno fatto a meno, la forza di muovere il mondo? In altre parole: qual è l'essenza del denaro?
con cui il barista segna che gli devo un caffè) il denaro è una promessa. Funziona da intermediario nello scambio non perché è un valore materiale ma in quanto è una promessa. Altrimenti si tratterebbe di un baratto, di un semplice scambio di cosa contro cosa. Chi detiene il denaro è in possesso di una promessa che qualcuno, per il momento indefinito, farà qualcosa per lui (gli fornirà una mercé, un servizio, eccetera). La moneta invece è il segno dell'esistenza di questa promessa e, nel migliore dei casi e per quanto possibile, la certificazione che ha i titoli per essere onorata. È per questa funzione di garanzia che sulle nostre mille lire sta ancora scritto, anacronisticamente, «pagabili a vista al portatore» nonostante ciò che è «pagabile» non sia che... un altro biglietto da mille lire. Se il denaro è una promessa, la moneta è una convenzione con la quale si concorda che un determinato oggetto funziona come garanzia di tale promessa, come titolo di credito16. Infatti, seguendo Schumpeter, il denaro, quale che sia la sua forma, è sempre un creditoll. E il credito, nella accezione specifica e tecnica del termine, è denaro nel suo stato più puro. Rende esplicito ciò che nella moneta è implicito: essere il denaro una promessa di pagamento. La differenza è che il denaro in forma di moneta è un credito erga omnes, finché non lo spendiamo non sappiamo chi è il debitore. In quanto promessa e credito il denaro si basa sulla fiducia laddove la moneta, che lo garantisce, o pretende di farlo, esprime piuttosto la diffidenza. Scrive Mathieu che la moneta serve «per coprire i movimenti di denaro che sarebbero resi impossibili dalla diffidenza»18. Se può quindi esistere una moneta che non è fiduciaria, in quanto il suo valore è coperto, in tutto o in parte, dalla sua utilità intrinseca (moneta-mercé o oro, per esempio), il denaro allo stato puro è sempre fiduciario. In quanto promessa e credito basati sulla fiducia il
denaro si lega al tempo, a quel tempo particolare che è il futuro. La fiducia nel denaro è fiducia nel futuro. Il denaro è, attraverso la fiducia, il trait d'union fra presente e futuro. E qui sta il nocciolo duro dell'intera questione-denaro. È questo aggancio col futuro che dà al denaro la sua forza, la sua devastante capacità di attrazione e di azione. Perché l'uomo, soprattutto l'uomo moderno, è un essere che si progetta, si proietta, coltiva illusioni. Per contro da questo legame col futuro, dal suo essere futuro, il denaro deriva anche l'inafferrabilità, l'indefinibilità, il carattere sfuggente, la natura metafisica. Perché il futuro è solo una rappresentazione della mente: è un tempo inesistente. Che le cose stiano in questo modo lo ammette, nella sostanza, anche Mathieu: «II passato c'è, quanto meno nei suoi risultati; il presente c'è in atto come risultato del passato. Ma il futuro, che è poi il denaro, non c'è, né in sé, né nei suoi effetti che "non ci
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mal interpretando, un economista belga dei primi del Novecento, Silvio Gesell, proponeva di applicare ogni mese sui biglietti di banca un bollino che ne decurtasse il valore dell'uno per cento21. Pound confonde il denaro con la moneta. In effetti per la moneta sono sempre stati privilegiati materiali il più possibile inossidabili al tempo. La fortuna dell'argento e soprattutto dell'oro come monete, almeno in Europa, è dovuta al fatto che durano nel tempo senza subire apprezzabili alterazioni fisiche. Sui mercati d'Africa e d'Oriente l'oro ha vinto, sia pur dopo una lotta secolare, la concorrenza della conchiglia cauri non perché più «prezioso» (erano gli europei a ritenerlo tale, gli africani gli preferivano di gran lunga i cauri) ma perché le conchiglie si usurano e si spezzano. E anche quando fu introdotta una moneta piuttosto volatile come la banconota, essa, fino a tempi recentissimi, rimase legata a un materiale durevole come l'oro sia pur nelle varie versioni che ha assunto il gola standard dal 1800 al 1971, anno del definitivo abbandono di qualunque convertibilità aurea. La moneta quindi è, almeno tendenzialmente, inalterabile. Il denaro invece patisce gli insulti del tempo, si deteriora. Ed è un altro dei suoi paradossi. Perché un'astrazione è, per definizione, indistruttibile. Il denaro invece deperisce più o meno lentamente a causa dell'inflazione, che è un fenomeno costante che lo accompagna dalla nascita, o della svalutazione. Ma poiché il denaro non esiste, è un credo, una fede, un'illusione, può sparire anche di colpo o in pochissimi giorni. Sismondi fa un divertente elenco di casi, a lui vicini nel tempo, in cui il denaro si volatilizzò: l'antica Banca di Copenaghen fu costretta a sospendere i pagamenti nel 1745; rifondata nel 1791 collassò nuovamente nel 1831; la Banca di Vienna sospese i pagamenti nel 1797; e la Banca di Stoccolma, la prima Banca centrale comparsa al mondo, nel 1762 pagava soltanto 1/96 dei suoi debiti originari22. Più recentemente si possono
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ricordare la grande inflazione che colpì gli Stati Uniti dopo la guerra di secessione (al Sud la moneta perse il 98,4% del suo valore) e quella, ancor più devastante, di Weimar che in pochi mesi cancellò l'intero risparmio tedesco, o il crollo di Wall Street del '29. Ma è soprattutto il caso di Weimar a essere estremamente significativo perché dimostra, con nitidezza, oserei dire, classica, che il denaro non esiste, è un fatto puramente psicologico, un atto di fede. Il primo gennaio del 1923 un dollaro vale già la rispettabile somma di 7340 marchi (Papiermark). A metà mese è salito a 10 mila, il 18 gennaio a 23 mila, il 31 a 41 mila. C'è un breve periodo di respiro, ma a maggio si riparte. Il 15 maggio il dollaro quota 46 mila marchi, il 31 maggio 70 mila, il 15 giugno 108 mila, il 31 giugno 154 mila. In questo momento la paga settimanale di un operaio è di 632 milioni di marchi, ma deve essere aggiornata ogni 24 ore. Il 31 luglio il dollaro tocca la quota di un milione di marchi, il 15 agosto di 4 milioni , il 31 di 10 milioni. Una cartolina postale costa 40 miliardi di marchi. A metà novembre si scambiano 1260 miliardi di marchi per un dollaro. Ma non è ancora finita: il 24 novembre il dollaro vale 4210 miliardi di marchi. Sono in circolazione 400.338.326.350.700.000.000 Papiermark, vale a dire 400 miliardi di miliardi. Il marco non esiste più. A questo punto la Reichsbank emette, accanto al vecchio Papiermark, una nuova moneta, il Rentenmark, e fissa il cambio: un dollaro vale 4,2 marchi, come prima della guerra. Il vecchio Papiermark, ancora formalmente in vigore, viene definitivamente polverizzato. Invece il Rentenmark regge la prova. Cos'è successo? Ce lo racconta Roberto Giardina nella sua bella Biografia del marco tedesco: «II governo garantisce la valuta con terreni e foreste il cui valore in realtà non potrebbe mai essere realizzato. Si tratta - è evidente - di una copertura simbolica, che non offre la
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minima garanzia [..] ma scatta una molla nell'animo dei tedeschi affamati. Si ha fiducia nel Rentenmark semplicemente perché si è deciso di avere fiducia, una tautologia che salva la Germania»23. Il Rentenmark è lo stesso, stessissimo marco di sempre, ha solo cambiato nome e colore. Ciò che realmente è mutato è l'atteggiamento mentale dei tedeschi che hanno deciso di tornare a credere nel futura. Cioè nel denaro. Certo oggi l'economia monetaria è più avvertita, più scaltra e smaliziata di quanto non fosse nel '23 in Germania e nel '29 negli Stati Uniti. Ma, soprattutto, è molto più integrata ed è estesa all'intero pianeta. Così quando si apre una falla in qualche punto del sistema si interviene dall'esterno. Come? Immettendovi altro denaro, cioè rilanciando sul futuro. Così è stato fatto col Messico nel gennaio del '96, nella crisi del Sud-Est asiatico dell'estate-autunno del '97, con quella russa del luglio '98 e, cercando di prevenirla, con quella brasiliana dell'agosto-novembre del '98, sfociata poi, nonostante un prestito di 41,5 miliardi di dollari, nel crack del gennaio del '9924. Ciò vuoi dire semplicemente che il giorno in cui non si riuscisse a turare la falla (e con le minacciose crisi del Giappone e della Russia quel giorno potrebbe non essere lontano) la deflagrazione, invece di essere circoscritta a questo o a quel Paese, a questa o a quell'area, sarà planetaria. Un assaggio di ciò che prima o poi, probabilmente più prima che poi, accadrà si è avuto proprio con la crisi delle «piccole tigri», lo scorso anno, il processo è partito da un Paese che non era nemmeno una «piccola tigre» ma solo un aspirante, e quindi economicamente di poco rilievo, la Thailandia che nel luglio del '97 fu costretta a svalutare la propria moneta, il baht, nome allora del tutto sconosciuto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Dopo il baht toccò al ringgit malese, al dollaro di Singapore e, per ultimo, a metà ottobre, al dollaro di
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Taiwan, forse la più tigre di tutte le «piccole tigri». La caduta di Taiwan provocò l'immediato crollo della Borsa di Hong Kong che dopo un momento di suspense, si trasferì a quella di Tokyo. E fu il finimondo. Lunedì 27 ottobre, nel giro di 24 ore o poco più, crollarono Wall Street, le principali Borse europee con una punta di -19% a Mosca, le Borse latino-americane (Brasile, Argentina, Messico) finché il turbine arrivò in Nuova Zelanda e in Australia completando il giro del globo25. Alla fine della smazzata i risparmiatori avevano perso l'equivalente di due milioni di miliardi di lire, una ricchezza enorme quanto inesistente salvo il particolare che loro, i risparmiatori, se ne accorsero solo in quel momento. In seguito, dopo gli interventi di Bill Clinton, del presidente della Federai Reserve Usa, Alan Greenspan, del direttore del Fondo Monetario Internazionale, Michel Camdessus, e i cospicui aiuti concessi con discrezione alle ormai ex «piccole tigri», la faccenda si è un po' ridimensionata, il Crack si è mutato in una Big Correction, come la chiamano gli esperti, il che sta a significare che a lasciarci le penne erano stati alcuni dei Paesi più deboli del Terzo Mondo e i risparmiatori dell'intero pianeta (com'è giusto, anzi salutare, che sia), ma che il sistema per il momento era salvo e poteva continuare a macinare e a vendere le sue illusioni26. Fino alla prossima volta (vedi Russia e Brasile). Fino al giorno del Big Bang. A ogni buon conto non è necessario pensare ad eventi catastrofici. Più frequentemente non crolla la fede in tutto il denaro, ma solo in alcune sue forme. Io ho ancora in casa delle azioni Liquigas: sono di carta bella e consistente, color azzurro carico, e hanno le loro brave cedoline, quelle che, nell'iconografia ottocentesca e dei primi del Novecento, il rentier taglia con le forbici traendone un torbido piacere. Assomigliano irresistibilmente ai soldi di un Monopoli sofisticato. E infatti non valgono
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di più. Mia madre le aveva ricevute in eredità da mio padre e un giorno mandò me, ragazzetto, in Liquigas perché sul titolo c'erano state delle voci e voleva sapere che cosa doveva farne. «Incorniciarle» mi disse, con un ghigno beffardo, il funzionario in una luccicante sede ormai deserta. «E un fatto che i debiti, alla lunga, non sono pagati». La promessa non viene mantenuta. Il denaro scotta quindi fra le mani e bisogna liberarsene prima che cominci a bruciare le dita. Come il famoso cerino acceso. L'abilità consiste, come nel gioco, nel tenere il cerino in mano fino all'ultimo momento. Per questo gli imprenditori e i finanzieri, che sono gli individui che meglio hanno capito la natura del denaro, lo fanno girare vorticosamente, cambiandogli di continuo impiego e trattenendo solo quel minimo di liquidità che è loro indispensabile, pronti a disfarsene del tutto. Il gran gioco del denaro è tutto qui: far ricadere, al momento opportuno, la sua inesistenza sui troppo creduloni. Naturalmente si tratta di un gioco ad alto livello, perché la stragrande maggioranza delle persone il denaro è costretta a subirlo e basta. Infatti chi ha redditi medi e bassi, anche quando riesce ad avere un po' di denaro in più rispetto allo stretto fabbisogno non può, a differenza di chi ne ha molto, investirlo, farlo girare, velocizzarlo (come il denaro vuole che si faccia con lui sia perché frutti davvero sia per mettersi al riparo dal rischio che scompaia), ma deve trattenerlo presso di sé, sia pure con la mediazione della Banca. La persona di medio reddito, proprio perché i suoi margini sono ristretti, ha infatti necessità di avere del denaro da parte per garantirsi (almeno così egli crede) un po' di tranquillità per il futuro. Inoltre c'è un'altra ragione per cui è il povero e non il ricco ad aver bisogno di contante, di liquidità. Se infatti il denaro è credito il ricco, soprattutto il grande ricco, se lo porta addosso. La sua stessa
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persona è credito, cioè denaro. Scrive Mathieu: «Nessun notorio miliardario (in dollari) si troverà a mal partito se, a mille miglia da casa, perde il portafoglio o il libretto degli assegni. Questi strumenti gli servono per pagare il taxi o il fioraio... ma se vuole comprare un'azienda è più facile che ricorra al baratto»21. La ricchezza notoria è il «superadditum», come lo chiama Simmel28, che permette ai ricchi di non aver bisogno di denaro liquido e di mettersi nella condizione privilegiata di debitori senza nemmeno, quando usano la propria persona come credito vivente, doverci pagare sopra gli interessi29. Il denaro (ma in questo caso sarebbe molto più esatto dire la moneta) serve a chi non ha credito personale, cioè all'assoluta maggioranza degli individui i quali, per i loro acquisti, devono cacciare subito fuori la lira30. Sono costoro che hanno bisogno di mettere da parte il denaro per averlo pronto ad ogni evenienza e sono quindi costretti a risparmiarlo, a tenerlo inerte, fermo, facile bersaglio pronto a essere impallinato. Perché è sul risparmiatore che si scarica, nel tempo o nell'espace d'un matin, l'inesistenza del denaro31. Il sublime è poi raggiunto dall'imprenditore dei nostri tempi, il quale non utilizza nemmeno più denaro proprio ma quello risparmiato dalla massa dei cittadini. Per cui il rischio della volatilità del denaro è scaricato a priori su altri. Il risparmio è funzionale a chi spende, non a chi risparmia. I più grandi debitori sono gli imprenditori. Perché sanno che il denaro non esiste. È un'idea nella testa. Il modo più ragionevole di usare il denaro è quindi disfarsene. E anche piuttosto in fretta. E qui si gioca il paradosso dell'avaro. L'avaro è colui che meno ha capito la funzione del denaro. Perché trattenendolo con sé all'infinito non lo usa come denaro. D'altro canto, e all'opposto, l'avaro è forse colui che ne ha penetrato più profondamente l'essenza squisitamente spirituale. L'ava-
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ro ritiene il denaro e trova in ciò il suo godimento. Egli fa di questo mero mezzo un puro fine. Con la conseguente, ulteriore, stranezza che il denaro diventa un bene (acquista un'utilità intrinseca) solo quando non svolge più la sua funzione di denaro, quando è desiderato in sé e per sé. In tal mcdo il denaro si ricongiunge alla sua natura metafisica. Contemplando il denaro l'avaro raggiunge il suo piacere non ha bisogno d'altro, così come nel Paradiso (almeno in quello di Dante) i Beati raggiungono l'estasi nella contemplazione di Dio32. Ma c'è anche unipotesi in cui il denaro funziona come mezzo pur non essendo mai speso. Poniamo che io abbia vissuto aver.do dieci miliardi in Svizzera e che non abbia mai toccato né il capitale né gli interessi. Sono stato ugualmente un uomo ricco? Sì, perché quel denaro, che non ho mai maneggiato, che non ho nemmeno mai visto, ha funzionato come rassicurazione psicologica, consentendomi, se del caso, scelte esistenziali rischiose che se non lo avessi avuto non mi sarei potuto permettere. In questo caso, a differenza dell'avaro classico, di Arpagone o di Shylock, che lo concepiscono come fine, ho utilizzato il denaro come mezzo anche se ho rinunciato alla sua funzione primaria di intermediario nello scambio. Il denaro infatti, come intuì per primo Aristotele, serve all'uomo anche come garanzia (èy33 γύη) per il futuro , «è un bene che soddisfa il bisogno 34 di certezza» . E poco conta che tale bisogno sia soddisfatto da una delle cose più volatili dell'universo e che la certezza sia soltanto psicologica e nient'affatto reale. L'importante è crederci. Tanto è vero che io mi sarei comportato ugualmente da uomo ricco anche se quei dieci miliardi non li avessi effettivamente avuti, ma avessi solo creduto di averli. Ma, uscendo da queste ipotesi estreme e di scuola, ci sono anche altre motivazioni psicologiche che, in un'economia monetaria, possono spingere un individuo a
trattenere il denaro piuttosto che spenderlo. Infatti il possesso del denaro da una soddisfazione piena, pura, proprio perché è astratto, impersonale, privo di forma e di carattere («astrazione da ogni particolarità» lo definisce Hegel35) e si piega quindi completamente alla nostra immaginazione, non oppone resistenza, laddove il possesso delle altre cose che con quel denaro si potrebbero avere è incompleto, perché si scontra con i limiti dell'oggetto, che non è mai esattamente quello che avevamo desiderato, e lascia sempre, come sappiamo bene, un po' di amaro in bocca. Inoltre col denaro io posseggo idealmente tutte le infinite cose che potrei comprare con esso, mentre nel momento in cui effettivamente lo spendo limito la mia scelta, rinunciando a tutte le altre («La scelta è un'ecatombe di possibili» dice Epicuro). Questo procedimento psicologico lo possiamo verificare anche a contrario quando, per esempio, perdiamo al gioco una somma abbastanza consistente. Poniamo di aver lasciato un milione al tavolo verde. Subito ci mettiamo a pensare che con quella cifra avremmo potuto comprare, che so, un videoregistratore, un buon vestito, un viaggio alle Baleari, e ci sembra di aver perduto tutte queste possibilità mentre, evidentemente, con quella cifra avremmo potuto soddisfarne una sola. Così la perdita ci appare molto più cocente di quanto non sia. Perché il denaro è un sacco vuoto che noi possiamo riempire con la nostra fantasia. Purché se ne possegga una certa quantità è tutte le cose, o quantomeno molte di esse e, insieme, ogni singola cosa. Omnium rerum compendium lo chiamava Spinoza. Come scrive Simmel: «Tutte le merci più varie possono essere convertite in un solo valore, cioè in denaro, mentre il denaro può essere convertito in tutte le varietà delle merci»36. Ciò spiega il paradosso per cui il denaro, che non ha valore, ha più valore di qualsiasi altro oggetto o, per essere precisi, è più desiderabile.
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E spiega an:he, in parte, la posizione del venditore. Chi infatti vende per denaro è, in teoria, un fesso. Perché cede qualcosa che c'è (un bene, un lavoro) per qualcosa che ron c'è ed è mera aspettativa di qualcosa che forse ci sarà. Scambia la certezza del presente con l'incertezza del futuro. Non per nulla l'artigiano della società preindustriale, ma già monetaria, si separava sempre malvolentieri dal suo prodotto. Questa ritrosia dipendeva certamente dal fatto che l'oggetto usciva direttamente dalle sue mani, era frutto della sua creatività, ed egli lo sentiva come qualcosa di personale e di vivo, da cui riluttava a staccarsi, ma anche da un'altra circostanza: gli uomini di quel tempo vivevano sostanzialmente nel presente e diffidavano del futuro. Le cose naturalmente cambiano quando con la Rivoluzione industriale si afferma pienamente l'economia monetaria e di mercato. Da una parte in questa nuova società, tutta orientata verso il futuro, il grande e vario affluire di beni fa emergere la maggiore desiderabilità del denaro in quanto, a differenza di ogni altro oggetto concreto, offre infinite possibilità di scelta. Dall'altra muta radicalmente la posizione del venditore. A differenza dell'artigiano dell'ancien regime il commerciante o l'imprenditore dell'era industriale non solo non ha alcun rapporto affettivo con l'oggetto che aliena ma questo non gli serve assolutamente a nulla se non a essere ceduto (un venditore di spazzole non sa che farsene, personalmente, delle spazzole). L'oggetto gli è utile solo in quanto, e se, gli procura del denaro. In un certo senso nella figura del venditore la situazione è invertita: non è il denaro che gli serve per procurarsi gli oggetti (se non in seconda battuta) ma sono gli oggetti che gli servono per procurarsi il denaro. Diversa è la condizione di chi vende il proprio lavoro. Costui a differenza del commerciante e dell'imprenditore continua a vendere qualcosa che non solo gli serve nna gli è indispensabile (l'energia) per
qualcosa che forse gli servirà. Scambia il certo per l'incerto. Resta un fesso. Come abbiamo detto, il denaro è impersonale, indeterminato, privo di forma, di carattere, di particolarità e proprio questa sua indifferenza lo rende fungibile con qualsiasi altro oggetto. Tanto più è amorfo tanto meglio realizza la sua funzione di intermediario nello scambio (dall'oro, che ha una sua personalità e certe caratteristiche, faccio già più fatica a separarmi). Il denaro, insomma, è un essere senza qualità. Tranne una. La sua qualità è la quantità. È un sacco vuoto ma la dimensione del sacco è decisiva. Questa entità amorfa, quando si presenta in quantità relativamente modeste non è in grado di dirci nulla sulla personalità di chi la possiede. Un uomo che ha in tasca 50 mila lire non ci appare, per ciò, né diverso né uguale rispetto a un altro che ha in tasca le stesse 50 mila lire. Mentre due cravatte che valgono entrambe 50 mila lire ci possono dire qualcosa non solo sul gusto estetico ma sull'intera personalità delle due persone che le indossano. Ma quanto più si sale verso somme meno modeste tanto più la diversa quantità di denaro segnala differenze e scava abissi. Anche qualora fossero per tutto il resto identici, due gemelli monozigoti, un uomo di cui si sa che ha un patrimonio di miliardi appare in una luce molto diversa da un altro che è nullatenente. Le loro potenzialità sono drammaticamente divaricate. Il denaro, se è davvero molto, potrebbe addirittura dare all'uomo la libertà. Tutti gli altri, invece, li rende schiavi. A dire il vero il denaro ha anche un'altra qualità oltre alla quantità. E discende dalla sua indeterminatezza, impersonalità, mancanza di carattere e di individualità, cioè proprio dalla sua assenza di qualità: ed è la duttilità. Il denaro si presta a quaìsiasi finalità. Poiché è un puro mezzo che non ha in sé un fine può essere usato per quaìsiasi scopo mentre tutti gli altri oggetti, incorporan-
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do in sé caratteristiche precise che li predispongono a determinati fini, e che li rendono in qualche modo essi stessi dei fini, lanno destinazioni necessariamente limitate. Quando è molto il denaro può raggiungere qualsiasi scopo. O per dirla più comunemente: col denaro si può comprare tutto, tutto può essere ridotto a mercé. Il denaro apre un processo all'infinito. Se io pago un debito o una qtalsiasi altra obbligazione con un bene in natura la cosa finisce lì. Se pago con denaro si chiude un credito ma se re apre immediatamente un altro. Il denaro è quindi perennemente in moto. Si può affermare anzi che il moto perpetuo è la condizione o, per meglio dire, l'ambizione del denaro e il presupposto stesso della sua esistenza. Contrariamente a ciò che pensa Vittorio Mathieu. Mathieu scrive che il moto perpetuo economico, come ogni moto perpetuo, è un'illusione, un autoinganno, una follia. E porta l'esempio, famoso fra gli economisti, di Law. John Law, vissuto a cavallo del 1700 (1671-1729), fu una bizzarra figura di finanziere e di awenturiero. Convinto che i metalli preziosi fossero una forma troppo rozza e inefficiente di moneta ideò un sistema in cui l'oro e l'argento erano sostituiti da biglietti di carta garantiti in un primo tempo dal valore della terra e, successivamente, da azioni di compagnie commerciali operanti nelle Colonie37. Propose il suo sistema a vari governi europei che lo respinsero. Fu accettato invece dalla Francia che attraversava una grave crisi finanziaria dovuta alle enormi spese belliche di Luigi xiv. Il cosidetto sistema-Law si struttura, in estrema sintesi, nel seguente modo. Nel 1716 Law creò una Banca privata (Banca generale) cui venne concesso dallo Stato francese di emettere biglietti di carta pagabili al portatore e che, da un certo momento in poi, furono accettati anche dalle casse pubbliche per saldare le imposte. Le azioni della Banca (capitale sei milioni di livres) erano
acquistabili pagando per un quarto in moneta metallica (oro e argento) e per il resto in titoli del debito pubblico (titoli di Stato). Insieme alla modesta quota in moneta tali titoli costituivano quindi la garanzia dei biglietti. I quali ottennero la fiducia del pubblico tanto che Law ne emise prima per 20, poi per 100, infine per 800 milioni (nel gennaio del 1720 ce n'erano in circolazione per più di un miliardo). Nel frattempo Law aveva fondato, o, più precisamente, riesumato, la Compagnia d'occidente per lo sviluppo dei possedimenti francesi nel bacino del Mississippi (Compagnia del Mississippi). Tale Compagnia aveva un capitale di cento milioni in azioni acquistabili in origine solo con titoli del debito pubblico e in seguito anche con i biglietti emessi dalla Banca di Law. Queste azioni andarono a ruba e il loro prezzo salì in breve tempo da 500 a 20.000 livres38. Nel 1719 Law si fece dare l'appalto della riscossione delle imposte dirette e indirette e unì Banca e Compagnia in un unico organismo. A questo punto il cerchio era chiuso. Con i biglietti della Banca, garantiti per la maggior parte dai titoli di Stato, si potevano comprare azioni della stessa Banca-Compagnia costituite dai titoli di Stato. Cioè, come scrive Mathieu, «il denaro poteva acquistare la propria garanzia»39. I biglietti di Law erano garantiti da ciò che acquistavano. Quando alcuni intuirono in qualche modo il marchingegno e, volendo disimpegnarsi prima che fosse troppo tardi, si presentarono alla Banca chiedendo in cambio dei biglietti non titoli di Stato ma moneta sonante, l'ingegnoso castello di Law crollò miseramente, la bancarotta fu quasi immediata e di tali dimensioni che in Francia una Banca centrale, autorizzata a emettere banconote, fu fondata solo nel 1801, sotto Napoleone, più di un secolo dopo la Banca d'Inghilterra. Osserva Mathieu: «In verità, la circolarltà del processo è essenziale al delirio di onnipotenza di tutti i moti
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perpetui»40. Ma l'errore di Law non fu affatto di credere al moto perpetuo del denaro, anzi con ciò il finanziere scozzese centrava perfettamente quel processo ad infinitum cui tende lecessariamente il denaro41, tanto che in seguito il sistema creditizio e della circolazione fiduciaria di banconote si modellerà sostanzialmente, sia pur con alcuni accorgimenti, su quello di Law, espandendosi ovunque. Né il suo torto fu di chiudere il denaro in un moto circolare, di autogaranzia, perché, in definitiva, il denaro è sempre garantito da nient'altro che da se stesso, dalla fiducia che si ripone in lui. Lo svarione, o piuttosto l'imprudenza, di Law fu di far cortocircuitare il processo del denaro, di chiudere cioè la sua circolante troppo presto, in un unico passaggio fra Banca e Compagnia, svelandone così il meccanismo e il carattere illusionista, poiché l'illusione in luogo di allargarsi ed essere trasferita in mani sempre diverse, rimbalzava fra gli stessi individui e gli stessi organismi, in tempi ristretti e in un campo limitato. Invece il processo ad infinitum del denaro ha bisogno, proprio come una catena di Sant'Antonio, di apparire aperto in tutte le direzioni e di raggiungere il maggior numero di persone, possibilmente lontane fra loro, in modo che la sua sostanziale circolarità, il suo carattere illusorio, la sua intima inconsistenza, la sua follia automoltiplicatoria, non siano percepibili. Naturalmente questo moto, il passare dell'illusione di mano in mano, non può resistere all'infinito; prima o poi, per quanto la prenda alla larga, il denaro finisce per ricadérsi addosso, per rivelare, proprio come nel sistema di Law, che è garantito solo da se stesso, cioè dal nulla. Quando questo avviene, e nessuno è più disposto a credere al denaro o a quel denaro, la frittata è fatta, ma se la catena di Sant'Antonio è stata sufficientemente lunga e articolata, i suoi inventori e anche molti di coloro che sono stati più rapidi nel seguirli, hanno avuto tutto
l'agio, a differenza di Law che finì in miseria, di intascare il grisbi lasciando il cerino acceso in mano agli altri42. L'attività finanziaria è un moltiplicatore della circolarità e un acceleratore del processo ad infinitum del denaro. Quando infatti io col denaro non acquisto una mercé ma un'altra forma di denaro lo libero, per così dire, su due lati. Nel primo caso infatti rimane in circolazione un solo credito, nel secondo due che naturalmente, dopo aver sostato quanto basta nelle mani dei loro possessori, dovranno cercare altri impieghi. Poiché però la presenza sul mercato di merci appetibili e rimunerative è limitata, la tendenza del denaro, venuta accentuandosi sempre più nell'era moderna, è di andare a cercare altro denaro. Anche perché, data la fluidità e la duttilità del denaro, è la forma più facile e rapida di impiego (e di disimpiego), mentre il trasferimento delle merci, a causa della loro fisicità, è sempre molto più lento e problematico. Non per nulla l'attività del finanziere è un vorticoso far girare il denaro da una sua forma a un'altra: dalla lira al marco al dollaro all'azione ai Derivati al future al Bot per tornare ancora al dollaro al marco alla lira in un movimento parossistico che non trova altro senso che in se stesso. Ma i lamenti di molti autori contemporanei che, impressionati dalle dimensioni che ha preso il fenomeno, imprecano contro l'attività finanziaria e il «denaro facile», sono velleitari oltre che ipocriti43. Il meccanismo che mette in orbita l'attività finanziaria è infatti lo stesso, assolutamente lo stesso, che ha messo in orbita il denaro. È solo portato alle sue logiche ed estreme conseguenze. Se il denaro è una promessa, una scommessa sul futuro, una fiducia, un'illusione, non c'è alcuna ragione al mondo per cui non si debba e non si possa promettere un'altra promessa, scommettere su un'altra scommessa, acquistare con la fiducia altra fiducia, illudersi o illudere con un'altra illusione, moltiplicare insomma il miraggio
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per quanto e ino a quando è possibile. Se qualcosa non esiste, è solo una proiezione della nostra mente, non è che non esiste di più o di meno se noi la moltiplichiamo. Il risultato è sempre zero. Lo stesso discorso vale per l'interesse. Pistone, Aristotele, la Chiesa, i tornisti, i profeti musulmani, Luterò, fino ai marxisti e a certi economisti «eretici> del primo Novecento, come Frederick Soddy e Silvio Gesell44, hanno combattuto una lunga, e perduta, battaglia contro l'interesse. La massima di Aristotele secondo la quale il denaro è sterile e quindi non può produrre altro denaro45 ha avuto molti seguaci. Più modernamene si dice che il denaro in quanto puro segno non può procurre ricchezza. E questo è assolutamente vero. Ma può benissimo produrre altro denaro. Un credito può creare un altro credito, una promessa un'altra promessa, un simbolo un altro simbolo, una superfetazione un'altra superfetazione, un'illusione un'altra illusione (o, se si preferisce, un surplus di illusione), un nulla un altro nulla. Decisivo è solo che gli uomini credano a questa promessa, a questo credito, a questo segno, a questo simbolo, a questa illusione, a questo nulla. È inutile quindi mettere in discussione l'interesse o l'attività finanziaria se non si mette in discussione il denaro. Nel principio ordinatore del denaro, da quando fece la sua prima comparsa sulla Terra, è contenuto in nuce, e irrimediabilmente, quanto è avvenuto dopo. Tutto è cominciato lì. È una marcia partita migliaia di anni fa, lenta all'inizio, contrastata, che ha conosciuto battute di arresto, ritorni all'indietro, periodi di sonno. Per molti secoli, durante il Medioevo, il denaro scomparve. Ma, come la Bomba atomica, una volta creato non poteva più essere disinventato. Riapparve, come una profezia, intorno all'anno Mille. Da allora la sua marcia è diventata una scorribanda trionfale e, al pari di un immenso fiume che, avanzando, gonfia sempre più la sua piena, ha finito per travolgere tutto, uomini e cose.
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' Ρ. Vilar, Oro e moneta nella storia, Laterza 1971, p. 222. Ibid., p. 223. ' J.C.L.S. de Sismondi, Nuovi principi di economia politica, Isedi 1975, p. 286. 4 Aristotele, Politica, i, 9, 1259 a-b, 10-17. 5 Dati Gnu, 1996. 6 Scriveva l'insospettabile «Corriere della Sera» il 17.7.96: «Se i 385 supericchi, domani decidessero di devolvere le proprie ricchezze all'umanità, guadagnerebbero certamente il Paradiso (nonché il plauso dell'Onu) ma non risolverebbero i problemi del pianeta. In particolare non cambierebbero un sistema economico che continua - è innegabile - a creare una "sottoclasse" mondiale. L'Africa è il caso più clamoroso». 7 Naturalmente, per semplificare, si prescinde qui dalla quota di Bot in mano a investitori esteri. 8 G. Simmel, Filosofia del denaro, Utet 1984, p. 317. 9 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 61. 2
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Ibid., pp. 59-60.
A. Smith, La ricchezza delle nazioni, I, V. K. Marx, // Capitale, I, I, 1. 5 Aristotele, Politica, i, 1-23, 9, 1252a-1260a. 4 Per la verità anche il valore dell'oro (o dell'argento), quando è usato come moneta, è in larga misura convenzionale. È anch'esso una moneta fiduciaria che non si basa tanto sul suo valore materiale quanto su quello che gli viene concordemente attribuito dagli uomini (per tradizione, consuetudine, legge). Non c'è insomma proporzione fra il suo valore intrinseco e quello che assume come moneta. La sua utilità infatti è modesta. Molti popoli, come gli indios d'America, non lo hanno mai considerato un bene prezioso e tanto meno hanno pensato di usarlo come moneta. E per secoli, fuori d'Europa, in Africa, negli arcipelaghi dell'Oceano Indiano, l'oro, in quanto moneta, è stato in concorrenza con i cauri, delle conchiglie di colore biancoazzurro (K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi 1980, pp. 271-73). Il valore dell'oro non dipende dal suo essere oro ma dall'essere denaro. Gli economisti classici, che vissero in un'epoca in cui i metalli preziosi erano moneta corrente, pensavano (come molti pensano ancora oggi) che il valore dell'oro non fosse una convenzione ma derivasse dal suo valore intrinseco, dalla sua utilità, e che quindi il suo prezzo fosse determinato dal costo di estrazione combinato con la domanda. Il prezzo dell'oro avrebbe quindi dovuto essere relativamente stabile. Ma i classici si trovavano poi a mal partito dovendo constatare che il prezzo dell'oro fluttuava assai più del prevedibile e non riuscivano a capacitarsene. Ma l'oro fluttuava non in quanto oro bensì in quanto moneta. In questo equivoco cade, fra gli altri, il pur acuto Sismondi, Nuovi principi di economia politica, cit., p. 274. 15 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., pp. 33 e 47. 16 Bacone definisce le monete «Simboli correnti e accettati come valori», The Advancement of learning, in Works, Boston 1860-64, voi. ix, p. 110. 17 Scrive Schumpeter: «La moneta, a sua volta, non è altro che uno strumento di credito, un titolo che da accesso agli unici mezzi di pagamento definitivo, ossia i beni di consumo». J.A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, Bollati Boringhieri 1990, i, p. 392. 18 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 132. 19 Ibid., p. 171. 2
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Ibid., p. 262.
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21 E. Pound, Abc dell'economia, Shakespeare and Company 1994, pp. 18-19. 22 f.C.L.S. de Sismondi, Nuovi principi di economia politica, cit., pp. 330-31. 23 R. Giardina, Biografia del marco tedesco, Giunti 1996, p. 44. 24 La crisi russi è stata tamponata con un prestito di 11,5 miliardi di dollari, quella messicana con 50, quella del Sud-Est asiatico con 150. Su queste ultime due, che portarono il sistema finanziario mondiale a un passo dal tracollo vedi pp. 243-46. 25 II 23 ottobre, giorno del collasso della Borsa di Hong Kong, Renato Ruggiero, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), definito di Arrigo Levi «una delle massime autorità dell'economia mondiale», dichiarava al «Corriere della Sera»; «La crisi del Sud-Est asiatico e gli squilibri finanziari che l'hanno segnata, sono ormai parzialmente sotto controllo, nel senso che non c'è più il pericolo di un'amplificazione globale della crisi, i suoi lirriti sono contenuti a livello regionale» (Corriere della Sera, 23.10.97). Otto mesi dopo Ruggiero dichiarava, sempre al «Corriere»: «Non solo non siamo alla fine della crisi asiatica ma si iniziano a percepire i suoi segni negativi sul commercio mondiale» (Corriere della Sera, 15.6.98). 26 In genere, a parte casi eccezionali come quello del Messico, dove peraltro alla fine furono salvati dall'intervento delle Organizzazioni internazionali e dai Paesi di punta dell'economia monetaria, cioè con i soldi dei contribuenti del mondo industrializzato, è molto difficile che i finanzieri e i grandi speculatori ci lascino le penne in un Crack e, a maggior ragione, in una Big Correction. Quando arriva il collasso gli speculatori se ne sono già andati portando altrove il toro denaro. Anzi quasi sempre è proprio il loro disimpegno a dare il via al crack. Sul terreno rimane il piccolo e medio risparmio. È vero che dopo la crisi del Sud-Est asiatico c'è stato un recupero di tutte le Borse mondiali, ma ad avvantaggiarsene non sono stati i risparmiatori, che in linea di massima, presi dal panico, hanno venduto durante il crollo, ma gli speculatori che hanno ricomprato a prezzi stracciati ciò che avevano venduto quando i listini erano alle stelle. I risparmiatori quindi, nonostante il recupero, hanno effettivamente perduto i due milioni di miliardi di lire, che sono in parte rifluiti nelle tasche degli speculatori. Se poi, come in questo caso, c'è un intervento delle Organizzazioni internazionali e dei principali Paesi industrializzati che non elimina la tosatura ma ridimensiona il Crack ad una più innocua, per il sistema, Big Correction, il risparmiatore è gabbato due volte: come risparmiatore e come contribuente. 27 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 239. 28 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 317-320. 29 Susanna Agnelli mi raccontò una volta che suo fratello, Gianni, girava sempre senza un soldo in tasca e non conosceva il valore delle diecimila lire (M. Fini, Gianni Agnelli visto da un'Agnelli, «L'Europeo», 20.2.75). 30 La carta di credito, che non è moneta sonante ma nemmeno denaro allo stato puro, è una via di mezzo fra chi ha un autentico credito personale e chi non ne ha nessuno. È un «voglio ma non posso», l'850 coupé del credito, lo status symbol delle mezze calzette. 31 Mi sono chiesto spesso che cosa sia nella realtà quel gruzzolo che io, come milioni di altri come me, ho messo da parte lavorando. Si dice che quel denaro è «energia accumulata». E certamente rappresenta l'energia che ho speso per accumularlo. Ma quell'energia se n'è andata per sempre. Certo io posso, entrando nel gioco, scambiare la mia energia passata con quella attuale
di altre persone, sotto forma di prodotti e servizi. Ma non è più la mia energia, che è morta allora. Nessuno me la può restituire insieme al tempo impiegato a spenderla in quel modo, con l'occhio incollato al futuro invece di godermi il presente. Il denaro ha divorato il mio tempo (sempre che, prima, il tempo non abbia divorato, insieme all'energia, anche il mio denaro). Più realistica mi pare quindi la definizione che del denaro da Robert Kurz come «lavoro morto accumulato». R. Kurz, La fine della politica e l'apoteosi del denaro, Manifesto Libri 1997, p. 55. 32 Poiché, come vedremo più avanti (parte terza), il denaro ha l'incoercibile tendenza ad emanciparsi dalla sua condizione di mezzo per porsi come fine autosufficiente, asservendo gli uomini, a prima vista l'avaro sembra uno che si è arreso a priori a questa fatalità. È vero il contrario. Assumendo il denaro come fine di godimento estetico e sensuale del tutto estraneo a quello suo proprio, l'avaro lo riconduce alla condizione di strumento (del suo piacere), laddove gli altri, credendo di usarlo come mezzo, ne finiscono asserviti. L'avaro patologico, in grande stile, è il vero, mortale nemico del denaro monetario, materiale: lo toglie dalla circolazione, lo esautora come mezzo monetario, ne stravolge il fine, lo annulla. 33 Aristotele, Etica Nicomachea, v, 8, 1133b, 10-15. 34 L. Federici, La moneta e l'oro, Casa editrice ambrosiana 1943, p. 20. 35 G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza 1971, p. 198. 36 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 311. 37 J. Law, Moneta e commercio, 1705. 38 «Uomini che all'inizio dell'anno avevano investito poche migliaia di lire, si trovarono ricchi a milioni nel giro di poche settimane o di qualche mese. Coloro che subirono questa trasformazione furono chiamati millionnaires; è quindi, evidentemente, a quell'anno che dobbiamo questa parola francese, calcata poi in varie lingue». J.K. Galbraith, Soldi, Rizzoli 1997, p. 31. Sulla vicenda di Law vedi soprattutto E. Paure, La banqueroute de Law, Gallimard 1977. 39 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 235. 40 Ibid. 41 Come, in altra parte del suo saggio, scrive lo stesso Mathieu: «II denaro è sempre in moto». Ibid., p. 36. 42 Che il meccanismo sia questo finisce per ammetterlo anche Mathieu: «Paradossalmente il guadagno attuale dipende da ciò che non c'è e, forse, non ci sarà mai, perché il futuro non durerà in eterno. A un certo punto, prima o poi, non ci sarà più nessun lavoro umano [cioè denaro nell'interpretazione del Mathieu, ndr] capace di far lavorare ulteriormente». V. Mathieu, ibid., p. 265. 43 Vedi, fra gli altri, A. Mine, II denaro pazzo, Spirali 1993 e V. Forrester, L'horreur économique, Fayard 1996 (trad. it.: L'orrore economico, Ponte alle Grazie 1997). 44 G.D.H. Cole, Che cos'è il denaro? (cap. Quattro eretici dell'economia), Sansoni 1936, pp. 316-339. 45 Aristotele, Politica, i, 10, 1258b, 5-10.
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PARTE SECONDA LA LUNGA MARCIA DEL DENARO
III. L'EDEN
In principio era l'Eden: il denaro non esisteva. Per la semplice ragione che non c'era nemmeno lo scambio. E se è possibile un'economia di scambio senza denaro, non si dà invece il contrario. Nel mondo dei cacciatori e delle raccoglitrici di cibo, in quell'evo paleolitico che va dalla comparsa dell'homo sapiens all'8000 a.C. circa e che dura più di ventimila anni, si viveva rigorosamente di autoconsumo. Gli uomini andavano a caccia, con archi e frecce, con fionde, con lance, con arpioni, forse con boomerang, a volte costruivano grandi trappole per grandi animali, le donne raccoglievano da terra, con un aguzzo bastone di legno o di osso, tutto quanto fosse commestibile. Questa, basata sul sesso, era la sola divisione del lavoro conosciuta e praticata. I frutti della ricerca quotidiana di cibo erano equamente distribuiti fra tutti i membri del gruppo, che viveva esclusivamente della propria produzione. I piccoli oggetti artigianali che questi nostri progenitori si fabbricavano erano d'uso domestico, per colui che li faceva, la sua famiglia, la tribù. Il grande studioso dell'economia preistorica Fritz Heichelheim spiega così la totale mancanza di scambio intertribale: «Non esisteva alcun oggetto di scambio che non si potesse altrettanto facilmente procurare senza ricorrere al commercio»1. Quella dei paleolitici era, secondo la definizio-
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ne di Karl Bùcher, una «economia domestica chiusa»2. L'uomo aveva scoperto l'impiego del fuoco, la pietra focaia per accenderlo, il braciere, aveva inventato rudimentali strumenti musicali - assai simili al piffero e al flauto - con i quali accompagnava i riti religiosi e le feste, i maschi indossavano pelli, si ornavano con gioielli, braccialetti, anelli, le femmine, già tali in tutto e per tutto, portavano gonnelle e veli, si truccavano con sapienza e si davano il rossetto. Insomma la società paleolitica, almeno a partire dal 30.000 a.C, aveva già raggiunto una certa evoluzione ma del denaro non c'era nemmeno l'ombra. Con l'agricoltura, praticata per la prima volta, a quanto pare, nel Turkestan3, e l'allevamento del bestiame si entra nel periodo neolitico. Le popolazioni da nomadi diventano stanziali. Mentre prima le varie tribù si trovavano a grande distanza l'una dall'altra per l'enorme territorio di cui avevano bisogno e si incontravano solo quando qualcuna di esse si muoveva alla ricerca di nuovi spazi, e quindi con disposizione d'animo tutt'altro che amichevole, adesso si stabiliscono anche in aree vicine, in condizioni di relativa tranquillità. Ciò introduce, in campo sociale, la principale novità rispetto al periodo precedente: lo scambio, preludio necessario del denaro. Per comprendere però la natura dello scambio primitivo bisogna tener presente che le comunità tribali del neolitico sono autarchiche per scelta (dipendere da altri è troppo rischioso) e autosufficienti per natura, almeno nei bisogni essenziali. Ciò di per sé non sarebbe un impedimento assoluto né allo scambio né all'uso del denaro. Per esempio fra gli odierni Paesi industrializzati si scambiano spesso beni senza una vera necessità dato che in molti casi si tratta di beni simili se non addirittura identici. Il fatto è che, come vedremo, nello scambio primitivo, tranne casi sporadici, assai malvisti, manca il guadagno, non c'è il fine di lucro e può essere addirit-
tura assente, o comunque indiretto e secondario, lo scopo economico. La cosa può sorprendere noi che viviamo totalmente immersi nell'economia e nella dimensione del profitto e che abbiamo reso mercé quasi tutto, Ma in passato era diverso. L'homo oeconomicus è un'invenzione di Adam Smith e dei suoi epigoni. L'idea che l'uomo sia naturaliter economico, cioè che fin dai primordi si muova, nel campo del lavoro, della produzione, dello scambio dei beni, secondo criteri di pura razionalità, di economicizzazione, di massimizzazione del risultato col minimo sforzo, di utilitarismo, di guadagno è un'idea falsa generata dalla falsa prospettiva in cui si sono posti, per lungo tempo, gli storici e i teorici moderni dell'economia. I quali, avendo davanti agli occhi il trionfo del mercato e dell'economia monetaria, hanno ritenuto, con ottuso determinismo, che l'intera storia dell'uomo ne fosse una preparazione e una propedeutica. Sono quindi inclini a vedere mercato e denaro dappertutto e a dare all'economia un'importanza che nelle società primitive certamente non ha. Lo stesso Marx, che pur è l'avversario storico del mercato, cade in questo equivoco quando giudica «sovrastruttura» tutto ciò che non appartiene all'economia. Ora è ben vero che ogni azione dell'uomo si prefigge un utile. Ma quest'utile non è necessariamente economico anche se l'azione si svolge in campo economico e ha effetti economici. Se io compro dei fiori per la mia fidanzata compio un atto economico che non ha motivazioni economiche. Questo è ovvio. Però tra i primitivi anche chi scambia fiori non ha motivazioni economiche ma d'altro genere. Cioè nelle società di cui ci stiamo occupando, come hanno accertato l'antropologia e l'etnologia, le motivazioni non economiche di atti che noi chiameremmo economici (e che per noi sono economici) sono assolutamente prevalenti. Nella vita tribale l'economia si diluisce, si confonde, si incorpora in una così
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fitta rete di rapporti sociali, religiosi, magici, interpersonali, di parentela, di amicizia che è pressoché impossibile isolarla ed enuclearla dal resto. Non è un caso che il termine oikonomia (che peraltro ha il significato letterale, e riduttivo, di «economia domestica») sia usato per la prima volta solo nel iv secolo a.C., da Aristotele, quando il mercato in senso moderno, pur se limitato, e il denaro hanno già fatto la loro comparsa da quattrocento anni. Prima di allora non si era mai percepita l'economia come qualcosa che potesse essere concettualmente separata dal resto dell'esistenza, non perché, come oggi, la dominasse e la pervadesse ma, al contrario, perché era sommersa, nascosta, relegata in secondo piano da altre componenti della vita. Per dirla con Karl Polanyi, nelle società tribali, antiche e moderne, «la produzione e la distribuzione dei beni materiali erano incorporate in relazioni sociali che non avevano natura economica»4. E tale inglobamento di elementi economici in altri di diversa natura, che hanno la preminenza, si protrarrà oltre le società tribali anche in stadi più avanzati e complessi dell'evoluzione. Rimarrà nell'era immediatamente successiva, quella cosiddetta degli antichi Imperi orientali (che fan la loro comparsa alla fine del periodo neolitico, verso il 3000 a.C.), conserverà un certo rilievo anche nella Grecia e nella Roma classiche che pur si organizzano, almeno in parte, in società di mercato a economia monetaria, tornerà in auge nel Medioevo europeo e durante il feudalesimo. Finché con la Rivoluzione industriale il rapporto si invertirà e sarà l'economia a invadere tutte le altre attività umane arrivando a confonderle con essa. La vicinanza di tribù e popolazioni diverse, resa possibile dal passaggio dal nomadismo all'agricoltura, favorisce dunque lo scambio. Una importante ragione di trasferimento di beni nelle società neolitiche e tribali è la
guerra, con i relativi saccheggi. Ma non si fa la guerra per saccheggiare, la si fa per torti ricevuti, per paura, per sfogare la propria aggressività e poi, se del caso, si saccheggia. Esistono però anche modi meno brutali di scambio fra tribù. La prima forma conosciuta di scambio pacifico è il cosiddetto commercio muto. Una tribù ammucchia in una radura le cose di cui si vuoi disfare, quindi va a nascondersi fra gli alberi. Gli altri fan la stessa cosa, depositano i propri oggetti e poi si ritirano. Allora ritorna il primo gruppo che aggiunge o toglie dal proprio mucchio quanto ritiene opportuno e così via fino a quando le due parti si ritengono soddisfatte. Per quanto in questo baratto muto ci sia una certa idea di equivalenza le sue funzioni economiche sono marginali se non inesistenti. Si tratta soprattutto di un modo per mettersi in relazione, per manifestare una disposizione d'animo non ostile, per stringere amicizia. Appena si comincia ad avere un po' meno paura reciproca e le cose si affinano si ha fra tribù diverse uno scambio vero e proprio. Avviene però nella forma del dono, il modo in assoluto prevalente con cui si fanno i trasferimenti di beni nel mondo neolitico. Siamo in grado di conoscere nei dettagli il complesso regime del dono presso questi nostri lontani progenitori perché gli antropologi (soprattutto Malinowski, Boas, Thurnwald, Mead) lo hanno potuto studiare presso i cosiddetti «primitivi moderni», cioè presso le società tribali, preletterate, rimaste tali nel corso dei secoli e fin quasi ai nostri giorni, il cui stadio di sviluppo corrisponde, appunto, a quello del periodo neolitico5. Il sistema del dono è stato accertato in Polinesia, in Malesia, in Australia, in Nuova Zelanda, in Nuova Guinea, fra le tribù pellerossa nordamericane, fra gli eschimesi dell'Alaska, in Siberia, fra i pigmei, sulle coste indiane e quindi in un'area vastissima che comprende in
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particolare tutte le popolazioni primitive che si sono affacciate sull'Oceano Pacifico. Per capire appieno il sistema del dono è necessario premettere che presso tutti i popoli primitivi gli oggetti non solo sono personalizzati, nel senso che anche se regalati o comunque alienati, mantengono sempre qualcosa del loro possessore originario (esattamente come se io, oggi, do vìa il mio cane, questi conserva comunque un rapporto di appartenenza con me), ma hanno una propria anima (chiamata bau fra i Maori e mana fra gli altri polinesiani). Là dove i moderni hanno la tendenza a mercificare tutto, anche gli uomini, i primitivi hanno invece quella opposta di spiritualizzare, o quantomeno personalizzare, tutto, anche le cose. Il trasferimento di oggetti, anche modesti, non è mai quindi una fredda partita contabile, di dare e avere, ma implica un coinvolgimento emotivo del tutto particolare e ha significati simbolici, rituali, religiosi. Quando l'uomo tribale aliena un oggetto dona qualcosa di sé e di vivo. L'atto ha una grande pregnanza per chi da e per chi riceve, proprio perché, come spiega bene Marcel Mauss nel suo Saggio sul dono, «la cosa ricevuta non è inerte»6. Stabilisce un legame fra persone, fra anime e fra le cose stesse. Ciò fa sì che il dono richieda, pressoché obbligatoriamente, un controdono che, per essere emotivamente soddisfacente per entrambi i soggetti, deve avere un valore equivalente o possibilmente superiore. A dispetto infatti del termine e delle apparenze il dono primitivo non è disinteressato, anche se l'interesse qui in gioco non è quello economico. Lo scambio intertribale nella forma del dono è sempre collettivo (non esiste in alcun modo la figura individuale del «mercante»), avviene cioè con la partecipazione dell'intera tribù o di una sua parte significativa o comunque del capo che la rappresenta. È accompagnato da una serie di riti religiosi e magici, da prestazioni
militari, da cerimonie, da danze, da feste, da banchetti. Ed è quasi sempre inserito in un contratto più generale e più ampio col quale si intrecciano o si rafforzano rapporti di alleanza, di amicizia, di cortesia. Insomma c'è innanzitutto uno scambio che noi chiameremmo politico o diplomatico all'interno del quale si innesta, in modo inestricabile dal resto, il dono. Caratteristica fondamentale del sistema del dono è che il controdono non avviene contestualmente ma a distanza di tempo, a volte di anni, in un altro incontro, un'altra ricorrenza, cerimonia, festa, banchetto. E non è nemmeno detto che riguardi la stessa tribù: il controdono può essere anche fatto a un soggetto «terzo» purché sia inserito nel sistema circolare del dono. Oggetto di scambio sono, in linea di massima, beni preziosi che potremmo anche definire superflui. E, come scrive Polanyi, ciò che governa il regime del dono non è «la propensione al baratto, bensì la reciprocità nel comportamento sociale»7. Ci sono però eccezioni come quando tribù marittime scambiano il loro pesce (sempre nella forma del dono restituito a distanza di tempo in grandi cerimonie rituali) con i prodotti agricoli delle tribù dell'interno. Qui lo scambio sembra assumere una valenza più direttamente economica se per economia si intende tutto ciò che ha a che fare con la sussistenza dell'uomo. Ma manca completamente il fine di lucro, di guadagno, di profitto, come noi lo intendiamo, che anzi se fosse presente in forma esplicita sarebbe motivo del più profondo disprezzo. Nel dono infatti bisogna dimostrare la più ampia e apparentemente disinteressata generosità per aumentare la propria autorità, il rango sociale, il prestigio che è l'autentico fine di tutta la faccenda. Tanto è vero che nel caso che al dono non segua un adeguato controdono la sanzione non è materiale ma morale: il gruppo, il clan, la famiglia, l'individuo perdono la fac-
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eia, la persona nel senso antico di maschera, il diritto di incarnare uno spirilo e quindi l'anima, che è la cosa peggiore che possa capitare a un primitivo e che trascina con sé l'autorità, il prestigio, il rango. Che il motiva dell'onore sia assolutamente fondante nella civiltà tribale lo si vede in quell'istituto straordinario che è il potltch dove, puramente e semplicemente, si distruggono voluttuariamente dei beni per non dare nemmeno l'impressione di volere qualcosa in cambio e mettersi quindi in una situazione di assoluta superiorità. Nel potlach il capo è tanto più grande quante più cose di valore distrugge: «Si bruciano cassette di olio di olachen e di olio di balena, si bruciano le abitazioni e migliaia di coperte, si mandano in pezzi gli oggetti di rame più cari, li si getta in acqua, per schiacciare, per "annientare", il rivale»8. Il potlach infatti, come lo scambio dei doni, è innanzi tutto un gioco, una partita, una sfida. Perché al potlach seguirà, a tempo opportuno, un contropotlach in cui bisognerà essere ancora più grandiosi nella distruzione. Le società tribali, neolitiche o «moderne» che siano, conoscono quindi il significato della ricchezza, la apprezzano perché è motivo di prestigio e anche la usano in quelle che i primitivi stessi chiamano «guerre di proprietà» 9, ma è loro totalmente estraneo il concetto dinamico di capitale. Il capitale viene infatti investito per accumulare altro capitale, la ricchezza dei primitivi viene accumulata per dilapidarla alla prima buona occasione: nel potlach, in feste, in banchetti, nei matrimoni. La ricchezza è fatta per essere spesa a fondo perduto. Nulla è più lontano dalla mentalità dei primitivi dei concetti di risparmio, di investimento, di calcolo economico. Scrive Mauss che fra gli eschimesi «in occasioni di matrimoni, di rituali vari, di promozioni, si spende senza risparmio tutto ciò che è stato faticosamente ammucchiato durante l'estate e l'autunno»10.
Secondo qualche economista il sistema del dono e del controdono, spogliato dei suoi aspetti rituali e folcloristici, non sarebbe altro che una compravendita camuffata, sia pur differita nel tempo. Ma l'ipotesi non regge. Perché qui non sarebbe il compratore (donatario) a scegliere quel che vuole acquistare e il momento in cui vuole farlo ma il venditore (colui che dona) a imporglielo. Anche perché il dono non può essere rifiutato senza recare una gravissima offesa11. Lo stesso si può dire per chi, come l'antropologo Franz Boas, ha individuato nel sistema del dono un prestito a interesse, anzi a usura, dato che il controdono deve essere, possibilmente, più importante del dono12. A parte che ciò contrasta con l'intera mentalità primitiva che spregia tutto ciò che sa di guadagno13, si tratterebbe di un prestito davvero singolare perché l'iniziativa non verrebbe presa da chi ha davvero bisogno del prestito ma da chi vuole l'interesse. Inoltre poiché lo scambio non si esaurisce col controdono ma postula un nuovo dono in una catena teoricamente infinita, dove a ricevere sono gruppi o individui che quasi sempre non ne hanno alcun bisogno, parlare in questo contesto di prestito non ha alcun senso. Infine, tenendo anche conto che si tratta di società preletterate dove non esiste unità di misura né possibilità di calcolo esatto, il valore del dono non è quantitativo ma qualitativo, non è oggettivo ma soggettivo, non è materiale ma emotivo. Il valore della cosa donata non è intrinseco e non è nemmeno legato all'utilità che ne trae la controparte (che può anche non esistere, come nel potlach), ma al sacrificio affettivo che costa il separarsene. L'oggetto donato è caro non nel senso moderno del prezzo ma di quello antico del «ci è caro» perché siamo ad esso emotivamente legati. Bisogna quindi rassegnarsi al fatto che il primitivo non è un homo oeconomicus e che la storia non è una
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inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro i cui presupposti sarebbero stati presenti fin dalle età più antiche. Le motivazioni profonde che muovono i primitivi sono l'onore e il prestigio, la ricchezza viene «investita», cioè in realtà distrutta, per avere un onore e un prestigio ancora più grandi. Quindi i primitivi non disprezzano la ricchezza, la valutano come noi, ma sempre come mezzo e mai come fine. Piuttosto il dono è ambiguo da un altro punto di vista. Perché obbliga colui che lo riceve, lo tiene in stato di minorità, di soggezione, di sudditanza psicologica nei confronti del donante fino a quando non lo si è restituito e la situazione si rovescia. I Tlingit, indiani del Nord America, dicono che «si mettono i doni sul dorso della gente che li riceve» 14. E questa ambivalenza è conservata nelle lingue di ceppo germanico dove gift vuoi dire dono ma anche danno. Il dono può diventare un peso insopportabile ed è per questo che i primitivi, come hanno notato, stupendosene, gli antropologi, possono passare repentinamente da un clima di amicizia e di festa alla rissa e alla guerra. Quella del dono è una sfida ritualizzata, un gioco pesante, come l'odierno poker15, e basta un nonnulla perché salga di un gradino, si tolga la maschera e diventi conflitto cruento. Lo stesso schema opera nell'ambito della tribù fra clan e clan, famiglia e famiglia. Anche qui lo scambio avviene nella forma del dono e controdono collettivo e spostato nel tempo. All'interno del clan e della famiglia ci sono poi rapporti di reciprocità, che implicano trasferimenti di beni, che seguono complicatissimi itinerari parentali. Scrive Polanyi: «Un abitante maschio delle isole Trobriand è responsabile verso la famiglia di sua sorella. Egli non gode però dell'assistenza del marito della sorella ma, se è sposato, di quella del fratello di sua moglie, membro di una terza famiglia, la quale a sua volta si trova inserita in un analogo sistema di rapporti»16.
A meno che non si tratti di cose rapidamente deperibili, cibo per esempio, e quindi da consumarsi subito, il dono non viene, in genere, conservato per sé ma è ridonato a qualcun altro in un giro vorticoso di scambi, per cui accade di frequente che gli oggetti passino così velocemente di mano in mano da ritornare all'originario possessore, magari nella stessa giornata. A conferma che il motivo del guadagno è estraneo a questo genere di transazioni. Al di fuori dello scambio collettivo, fra tribù e tribù, clan e clan, famiglia e famiglia, e dei complessi rapporti di assistenza reciproca che si instaurano all'interno di questi gruppi, esiste, in posizione del tutto marginale, anche la transazione individuale, che è ammessa purché avvenga nella forma del baratto «puro», cioè senza badare al valore degli oggetti e quindi senza fine di lucro. Così uno scrittore del regno africano del Dahomey ricorda, con nostalgia, la natura del baratto «puro» quando il denaro, che in quella parte del Continente nero fece la sua comparsa piuttosto tardi, nel XVIII secolo, non esisteva ancora: «In quei giorni non vi era moneta. Se volevi comprare qualcosa e tu avevi sale e un altro aveva grano, tu gli davi un poco di sale e lui ti dava un poco di grano. Se tu avevi pesce e io avevo pepe, io ti davo pepe e tu mi davi pesce. In quei giorni esisteva soltanto il baratto. Niente moneta. Ciascuno dava all'altro ciò che aveva e ne riceveva ciò di cui aveva bisogno» 17. Il baratto con fine di lucro e guadagno di una delle parti - che pur dovette esistere perché va incontro a divieti - è socialmente malvisto e scoraggiato in tutti i modi perché incrina la solidarietà del gruppo che è il valore primario in queste società. Invece il baratto individuale senza fine di lucro accompagnava spesso, per esempio, le cerimonie del Kula, che è il nome che gli abitanti della Melanesia davano al commercio fra le tribù dell'arcipelago18. Il Kula intertri-
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baie si svolge nella consueta forma del dono e del controdono collettivo, però accanto ad esso i singoli possono dar luogo a scambi individuali che prendono il nome di gimwali, un termine che ha un sapore vagamente dispregiativo. In ogni caso la maggior parte degli oggetti scambiati nel gimwali viene poi trasferita, al ritorno, ai capi dei villaggi o dei clan, difficilmente rimane in possesso del soggetto che ha fatto lo scambio. La realtà tribale è quindi attraversata da una corrente ininterrotta di scambi, rivolti in tutte le direzioni, che non hanno però un contenuto propriamente economico, come noi modernamente lo intendiamo, anche se a volte (seppur marginalmente, perché ogni gruppo è tendenzialmente autosufficiente) hanno a che fare con la sussistenza, per esempio quando riguardano beni di prima necessità. Scrive Mauss che tale regime «deve essere stato quello di una grandissima parte dell'umanità durante una assai lunga fase di transizione... il principio dello scambio-dono deve essere stato caratteristico delle società che non sono ancora pervenute al contratto individuale puro, al mercato in cui circola il denaro, alla vendita propriamente detta e, soprattutto, alla nozione del prezzo calcolato in moneta»19. Infatti tutti gli scambi di cui abbiamo parlato finora avvengono in natura. Eppure sia nel neolitico che tra i cosiddetti «primitivi moderni» è esistita una forma di moneta: la moneta-mercé. Praticamente tutto ciò che aveva un apprezzamento collettivo e diffusione adeguata poteva essere moneta-mercé: conchiglie, ostriche, sale, perle, braccialetti, catenelle, certi tipi di pietre, zanne di cinghiale e di elefante, denti di cane e di capidoglio, pesce essiccato, pelli. Alla categoria della moneta-mercé appartengono anche la moneta-utensile e la moneta-bestiame (buoi, vacche, pecore). La moneta-mercé però non è ancora denaro in senso proprio o, per essere più precisi, completo, perché ha
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solo alcune delle sue funzioni e non le più importanti. È segno di ricchezza e mezzo di pagamento ma non misura di valore e intermediario nello scambio. Con questa moneta si pagano i tributi ai capitribù e ai capiclan e costoro retribuiscono alcune prestazioni che non rienirano nel sistema della reciprocità. La moneta-mercé non è invece ancora usata come misura di valore, mancando a queste civiltà preletterate gli strumenti concettuali e tecnici per «far di conto». E non risulta che sia stata utilizzata come mezzo di scambio. Mancando la moneta come misura di valore e intermediario nello scambio non si potè creare nel neolitico, così come nelle civiltà tribali, un mercato basato sul meccanismo domanda-offerta-prezzo. Il valore attribuito ai beni, non diventati ancora mercé in senso moderno, è sempre consuetudinario, tradizionale, convenzionale, fisso. Ciò riguarda anche, e soprattutto, il lavoro. Esistono dei salari per i rari servizi che esulano dal regime di reciprocità ma sono fissi e non sottoposti quindi alle fluttuazioni determinate dal variare e dall'incontrarsi della domanda e dell'offerta. In questo tipo di comunità, dove non esiste nemmeno un mercato in senso proprio delle merci, un mercato del lavoro è assolutamente inconcepibile. La terra da coltivare, quella da pascolo, gli animali più importanti sono di proprietà collettiva20, appartengono alla tribù o al clan, mentre il possesso e il godimento sono individuali o, piuttosto, familiari. Le terre agricole sono suddivise il più equamente possibile fra le famiglie della tribù. Esiste poi un sistema di redistribuzione della ricchezza che diventerà ancora più pregnante e incisivo nel periodo successivo, quello degli Imperi, quando il territorio appartenente alla comunità, costituitasi in Stato, sarà molto più vasto e la figura del re, con la sua burocrazia, acquisterà una posizione centrale e decisiva. Comunque
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anche nel periodo neolitico alcuni beni convergono nella forma consueta del dono o in quella del tributo in natura, verso i capi delle tribù e dei clan e vengono da questi redistribuiti ai membri del gruppo come controdono o pagamento in natura di determinati servizi e prestazioni. La divisione del lavoro è ancora limitatissima. Tutti, in linea di massima, fanno tutto e se c'è chi si dedica a lavori artigianali non ne fa un mestiere esclusivo ma continua, come gli altri, a occuparsi della terra. Anche perché, non esistendo un mercato, non potrebbe trarre da questa specializzazione i mezzi di sussistenza. Del tutto sconosciuta è poi la divisione fra lavoro manuale e intellettuale. Quella neolitica è quindi una civiltà comunitaria e fortemente solidarista che sarebbe azzardato però definire comunista, perché la parte economica riservata al potere centrale, cioè al capo tribù, è tutto sommato marginale. Inoltre anche il potere del capo è più formale e rappresentativo che reale, limitato com'è da usi e da tradizioni invalicabili che sono il vero collante del gruppo. Queste società non conoscono nemmeno la povertà individuale. L'uomo non è mai solo, segue, nel bene e nel male, il destino collettivo del gruppo, con esso prospera o con esso deperisce o si estingue.
talli scavando pozzi anche di venti metri con picconi non più tanto rudimentali, ci si serviva di una vasta gamma di utensili, c'erano le medicine e i veleni, si facevano audacissimi interventi chirurgici di trapanazione del cranio che a volte riuscivano, la produzione artistica era niente male, si praticava la magia ed esisteva un'intensa e raffinata vita spirituale. Ma il denaro non si vedeva ancora. Sfuggente, com'è nella sua natura, aveva fatto qualche apparizione fugace, come il bagliore di un lampo improvviso in un caldo pomeriggio d'estate: all'interno del sistema del dono (il dono apre infatti un credito, sia pur di natura morale), in certe operazioni di pagamento, nella segnaletica della ricchezza. Ma per il momento il suo spirito non si era ancora incarnato in qualcosa di riconoscibile e di inequivocabile. E, soprattutto, l'uomo non era consapevole della sua esistenza. Sarebbero passati ancora tremila anni prima che l'evento si compisse.
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Alla fine del periodo neolitico il bilancio dell'homo sapiens era ragguardevole. Aveva inventato la ruota, la ruota del vasaio, l'aratro (verso il 4000 a.C.), usava il carro, la zappa, sapeva tessere, filare, cucire, rammendare, conciare le pelli, si vestiva con indumenti tenuti insieme da bottoni e spilli d'osso, la donna andava in giro con mantelle, mantelline, giacchette, e aveva il beauty, si conosceva il sapone e la pulizia intima, l'arte di far fermentare i vini e la birra, si beveva acquavite, si fumava oppio e hascisc, si costruivano dighe, canali, strade, porti, navi, castelli, fortificazioni, templi, si estraevano me-
F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, Laterza 1979, p. 44. 2 K. Bùcher, Le origini dell'economia politica, 1904. ' F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 60. 4 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, Einaudi 1983, p. 80. 5 M. Mauss, Teoria generale della magia, cap. Saggio sul dono, Einaudi 1991, p. 277. " Ibid., p. 1%. 7 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 14. 8 M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 214. In certe ostentazioni di lusso sfrenato si può ritrovare il gusto del potlach anche nella società attuale. Per fare un piccolo esempio una Cadillac è potlach: perché ha un costo spropositato e prestazioni, in proporzione, modeste, limitate dalla sua stessa lunghezza. La sua funzione vera è di mostrare agli altri che si è così pieni di soldi da poterli buttar via. Mi viene in mente, in proposito, un fumetto di Topolino in cui Paperone e un altro riccastro si sfidano dilapidando il loro denaro. Fanno a chi finisce prima. La vittoria sembra arridere al riccastro perché nel suo forziere rimane un nichelino mentre quello di Paperone è desolatamente vuoto. Ma Paperone preme un pulsante e si apre una botola che rivela un enorme sottofondo zeppo di dollari. Il riccastro si ritira, umiliato, rovinato e vinto.
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Ibid., p. 212, n. 5. Ibid., p. 208. " Ibid., pp. 172, 173, 22;, 223. 12 F. Boas, Report• on theNorth Western Tribes of Canada, citato da M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 210. " Ibid., p. 214. Espressioni come «desideroso di fare fortuna rapidamente», «avido di cibo» hanno ui connotato fortemente dispregiativo nella lingua degli Indiani del Nord Anerica. Del resto agli Indiani sono sconosciuti anche termini come «scambio» e «vendita» che sono i presupposti del guadagno: non esistono rella loro lingua. 14 Ibid., p. 218, n. 5. 15 II gioco d'azzardo è tutora intensamente praticato dagli Indiani nordamericani. I loro racconti sono pieni di leggende di gioco e di capi che hanno perduto tutto. Ibid., p. 21. 16 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 65. 17 S. Herskovits, DahomenNarrative, Evatson 1958, p. 364. La moneta fu introdotta alla creazione del regno di Dahomey dal re Te Agbanli (16881729). Il re veniva da fuori e uno degli autoctoni, un Akono, osò protestare contro quella stravagante novità. Fu subito impiccato e immolato sull'altare del denaro. 18 M. Mauss, Teoria generile della magia, cit., pp. 186-202. Nel Kula, che significa circolo, la dilazione dello scambio nel tempo, che caratterizza il regime del dono e del controdono, è particolarmente evidente. Un anno una tribù parte dalla sua isola a bordo di una nave vuota e fa il giro dell'arcipelago tornando carica di doni. L'anno successivo un'altra tribù fa lo stesso giro in senso inverso. E così via. Non necessariamente la tribù da i suoi doni a quella da cui li ha in precedenza ricevuti, capita che li dia a una tribù «terza», ciò che conta è che questa sia inserita nel giro del kula. 19 Ibid., p. 239. 20 Come vedremo in seguito, la vendita del suolo è stata per millenni un tabù. E anche fino a tempi molto recenti l'alienazione della terra è stata sottoposta a forti restrizioni che trovano origine nell'antico comunismo del suolo: «Poiché la famiglia si identifica col focolare e con la terra è naturale che la terra sfugga al diritto dell'economia del capitale». Ibid., p. 268, n. 1. 10
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IV.
INTERLUDIO
Con la fine del periodo neolitico si chiude la preistoria e si entra in una nuova fase chiamata età del bronzo. Verso il 3600 a.C. appare in Oriente un fenomeno del tutto nuovo nella vicenda umana: l'urbanesimo. Su alcuni degli antichi villaggi di capanne sorgono e si sviluppano grandi città in pietra. Le prime di cui si abbia notizia sono Ur e la sumera Uruk in Mesopotamia. A partire dal 3000 a.C. si formano in rapida successione gli Imperi irrigui, così detti perché si organizzano lungo il corso di grandi fiumi: Tigri, Eufrate, Indo, Nilo. Sono gli Imperi Sumero, Assiro, Babilonese, Ittita, Harappa, Egizio. Nasce la forma-Stato che ha al suo vertice la figura del monarca di origine divina o dio egli stesso e una casta di burocrati che si serve di una sconvolgente novità: la scrittura. Le strutture della società tribale si incrinano. Come nota Aristotele nella Politica le famiglie, diventate troppo numerose, si frantumano e i loro membri sono costretti a separarsi e a disperdersi sul territorio. Anche le tribù si sparpagliano e perdono parte della loro coesione interna. Si indebolisce quindi l'autosufficienza del gruppo. Adesso alle singole famiglie che in precedenza utilizzavano insieme alle altre i beni posseduti in comune viene spesso a mancare qualcosa. E non sempre si tratta di beni superflui '. Lo scambio non è più un rituale voluttuario, un donare per il
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piacere di dare e di ricevere, ma comincia a diventare una necessità. Prende perciò piede il baratto individuale, contestuale, diretto, molto diverso dal regime del dono e del controdono dove era collettivo, dilazionato nel tempo e spesso indiretto. Lo scambio muta quindi forma e struttura. E anche contenuto. Ora che i beni primari non sono più, o comunque non sono sempre, a portata di mano non è più concepibile il baratto nella sua forma «pura», indifferente al valore oggettivo delle cose scambiate. È la situazione ideale, secondo i teorici, per la nascita del denaro e del libero mercato basato sul meccanismo della domanda-offerta-prezzo. Invece le società degli antichi Imperi si regolarono secondo un criterio del tutto diverso: quello dell'equivalenza. Poiché è diventato ormai in larga misura indispensabile, lo scambio individuale, una volta osteggiato, è consentito ed è sottratto al regime faticoso e dispendioso del dono e del controdono, ma deve avvenire secondo certe equivalenze prefissate fra bene e bene in modo che non ci sia profitto di una delle parti a scapito e con danno dell'altra. Oppure, se vogliamo vederla da un'altra angolazione, il guadagno deve essere uguale per entrambe. Perché? Lo spiega bene Aristotele nell'Etica Ntcomachea: «L'esistenza stessa dello Stato dipende da questi atti di reciprocità programmata... quando essa venga a mancare non è più possibile alcuna forma di compartecipazione, mentre è proprio tale compartecipazione che ci tiene uniti»2. L'equivalenza nasce quindi da quella profonda esigenza che permea di sé tutte le società che vissero la storia più remota dell'uomo: mantenere salda l'unità del gruppo, per far fronte col massimo di coesione e di forza ai pericoli di un mondo esterno sentito come pericoloso e infido. Così anche nelle società degli antichi Imperi, come in quelle precedenti, si ritiene che il lucro e il guadagno individuali incrinino la solidità e l'unità del gruppo anche se ormai
non ha più dimensioni e strutture tribali ma statuali. Le equivalenze segnano però un notevole passo avanti verso una concezione economica, e non più ludica, della vita sociale. Non è un caso che gli antichi Imperi non conoscano la pratica puramente autodistruttiva del potlach. Inoltre l'equivalenza comporta un giudizio di valore economico sui beni scambiati che era estraneo (o appena percettibile) nelle società neolitiche e tribali. Come ancora più estranea a queste società era la misurazione di tale valore. Ma chi stabilisce la giusta misura? La tradizione, la consuetudine, la convenzione, la legge dello Stato. L'equivalenza è quindi una ragione di scambio fissa. Noi oggi diremmo un «prezzo» fisso e, in parte, politico. Una misura di frumento si scambia invariabilmente con una giara di vino, in ragione di uno a uno, un capo di bestiame di grande taglia con dieci di piccola taglia e così via. Il prezzo quindi è fisso, non può essere contrattato dalle parti, né al rialzo né al ribasso (è proibito alienare anche «sottocosto») e non dipende dall'incontro della domanda e dell'offerta. Che cosa succede quando un bene diventa scarso? Questa è la domanda, polemica, che pongono gli economisti moderni, i quali vogliono a tutti i costi cogliere l'esistenza del denaro e dell'economia di mercato anche nelle società arcaiche. Se già non provvedono autonomamente i partecipanti allo scambio sulla base della tradizione e della consuetudine, sul luogo del mercato interviene un funzionario dello Stato che, ferme restando le equivalenze, raziona il bene in modo che tutti ne abbiano la minima quantità necessaria e i ricchi non possano accaparrarselo. Il concetto di razione minima necessaria per tutti i beni essenziali alla sussistenza è infatti fondamentale negli Imperi arcaici 3 che sono, come vedremo meglio in seguito, società di tipo collettivistico. In questi Imperi, quando occorre, quando la
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tradizione e la consuetudine non bastano, è lo Stato a imporre quella solidarietà che nella società tribale era automatica e derivava dal fatto che, nella sostanza, la tribù, pur divisa in clan, era un'unica grande famiglia umana. Nel lunghissimo periodo può naturalmente accadere che le equivalenze non reggano più. Allora si provvede a mutare le ragioni di scambio in multipli di quelle originarie (2 a 1, 2 e 1/2 a 1), rifissandole. Ma la documentazione che possediamo dimostra che negli antichi Imperi i «prezzi», cioè le equivalenze, rimasero stabili per centinaia di anni. Nell'Egitto ellenistico (quindi quando in Grecia e in Roma esisteva già da tempo un'economia, almeno parzialmente, di mercato e monetaria) i «prezzi» dei tre cereali fondamentali (frumento, orzo e olyra) rimasero gli stessi per più di 200 anni4. Bisogna tener presente che negli antichi Imperi il controllo dei «prezzi» era facilitato e reso possibile dal fatto che lo Stato, sia in modo diretto che attraverso la tassazione, aveva in pratica il monopolio della produzione e anche della distribuzione dei beni principali (nella misura del 90%, secondo Heichelheim)5. In un sistema di equivalenze la moneta non è necessaria. Non solo lo scambio avviene ancora in natura ma non ha come intermediaria nemmeno quella forma primitiva di moneta che è la moneta-mercé, sia essa un bene di consumo o un metallo prezioso o ritenuto tale. Lo scambio avviene quindi nella forma di baratto diretto (una misura di frumento contro una giara di vino) o indiretto, quando l'acquirente raggiunge il suo oggetto di desiderio attraverso una serie di passaggi di mano. Ciò avveniva soprattutto al mercato al minuto. Molti dipinti egizi mostrano un uomo del popolo che va al mercato per scambiare, poniamo, la sua focaccia con una collana. Dato che chi ha la collana non è interessato alla sua focaccia deve scambiarla con un altro prodotto,
e questo con altri ancora, prima di arrivare allo scopo (nel dipinto che ho in mente lo si vede, alla fine, con la collana e, in più, un paio di sandali). Durante l'era degli antichi Imperi orientali (3000 anni arca) nessun bene, per quanto diffuso e fungibile, divenne mai intermediario privilegiato per lo scambio, conquistando così la dignità e la funzione di denaro. Il concetto di moneta come mezzo di scambio, cioè come denaro vero e proprio, sia pur nella più tranquillizzante (orma di una mercé, era troppo ostico per gli uomini del tempo. Se non esisteva ancora la moneta come mezzo di scambio c'era invece la moneta come misura di valore o moneta di conto. Era anzi indispensabile per raggiungere e valutare l'equivalenza nel caso di transazioni complesse, plurime o in cui intervenivano beni fra i quali non era stata stabilita dalla consuetudine o dalla legge (che si occupava dei beni più importanti) una ragione di scambio fissa. Max Weber parla a questo proposito di «baratto con computo di moneta»6. Per esempio nella Babilonia dell'epoca di Hammurabi (1717-1665 a.C.) un gur d'orzo valeva un siclo d'argento (cioè un pezzo d'argento di un determinato peso) che era la moneta di conto di quell'Impero. Ma se uno voleva avere un gur d'orzo non lo otteneva dando in cambio un siclo d'argento ma una giara di vino o altra mercé considerata equivalente. Nel sistema delle equivalenze la moneta di conto serve quindi per facilitare il baratto ma non lo sostituisce. Non funge da mezzo di scambio, non è mezzo di scambio, non è denaro. E ciò vale per tutti gli antichi Imperi: i testi cuneiformi e i geroglifici non registrano transazioni in cui lo scambio avvenga in moneta7. Esiste invece, come già nel neolitico, la moneta-mercé con funzione di mezzo di pagamento. Quando si può dire che una mercé è usata come mezzo di pagamento
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ed è quindi moneta? Quando lo stesso bene può essere impiegato per far fronte a diversi tipi di obbligazione (altrimenti, trattandosi appunto di una mercé, si ha una semplice transazione in natura). Negli Imperi merci di questo tipo esistono e servono per saldare quelle obbligazioni (soprattutto le imposte) che non si esauriscono, come avviene in genere in questi sistemi, in prestazioni personali. A Babilonia era l'orzo ad assolvere la funzione di mezzo di pagamento. Un'altra caratteristica del complicato sistema degli antichi Imperi è infatti che non sempre, per non dire quasi mai, la mercé che serve come moneta di conto serve anche come mezzo di pagamento o come deposito di ricchezza (tesoro). Così a Babilonia il siclo d'argento è moneta di conto, l'orzo è mezzo di pagamento, i metalli preziosi (oro, argento, rame) deposito di ricchezza. Ma il siclo d'argento non è usato come mezzo di pagamento, l'orzo non serve come moneta di conto e l'oro, l'argento e il rame non servono come mezzo di pagamento né come moneta di conto. Non basta: non sempre la moneta di conto è la stessa per misurare il valore di tutti i beni. Esiste quasi sempre un doppio regime per cui c'è una moneta che misura il valore degli oggetti modesti e un'altra che misura il valore di quelli preziosi. Per esempio nel Regno africano del Dahomey (la cui struttura ricalca quella degli antichi Imperi orientali) le conchiglie cauri sono impiegate esclusivamente per misurare gli oggetti di poco conto mentre gli schiavi sono la misura di beni consistenti. Negli antichi Imperi esiste dunque la moneta (sia pur nella forma di moneta-mercé) come misura di valore, mezzo di pagamento, deposito di ricchezza ma non ancora come intermediario nello scambio. Il lettore si stupirà, forse, che si potesse saldare un'obbligazione con una moneta con la quale non si poteva invece acquistare. Ciò è contrario a tutta la nostra esperienza di moderni. Non per nulla Max Weber definisce il denaro «un
mezzo di pagamento convenzionale che sia anche un mezzo di scambio»8. Da quando infatti è nato il denaro vero e proprio esso è essenzialmente un mezzo di scambio e il quid che in una società moderna vale come mezzo di scambio è anche mezzo di pagamento, moneta di conto, deposito di ricchezza. Nelle civiltà arcaiche non è così, non esiste una moneta «buona per tutti gli usi» ma monete diverse per le diverse funzioni del denaro. E le funzioni della moneta come deposito di ricchezza, mezzo di pagamento, misura del valore nascono prima della funzione come mezzo di scambio. Sarà solo quando apparirà la moneta coniata come mezzo di scambio che essa assorbirà anche le altre funzioni e diventerà denaro vero e proprio come modernamente lo intendiamo. Ma negli antichi Imperi ciò è ancora di là da venire. La logica degli economisti classici che vedono nel denaro un mezzo di scambio da cui derivano tutte le altre sue funzioni è ribaltata dallo studio della storia, che ci dice che il percorso fu inverso. L'altra cosa che scombussola i teorici classici, abituati a dedurre l'economia antica partendo da quella moderna, è che negli antichi Imperi orientali esistano mercati ma non ci sia un sistema di mercato. Eppure è proprio così. Esistono i mercati perché, perduta l'autosufficienza tribale, lo scambio è diventato una necessità, ma non c'è un sistema di mercato perché le equivalenze fra i vari beni sono fisse e prestabilite, non fluttuano e non rispondono al meccanismo domanda-offerta-prezzo. Durante il periodo degli Imperi ci fu un grande sviluppo del commercio estero. Si tratta però di un commercio fra Stato e Stato che non comporta la presenza del mercante individuale, privato, che opera per motivi di guadagno personale. Gli economisti e gli storici sono stati tratti in inganno dalla figura del tamkarum, il mercante assiro, babilonese, egizio che è diffusissima in
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Mesopotamia durante l'età del bronzo. Ma il tamkarum, come ha dimostrato senza possibilità di equivoco Karl Polanyi9, non è un mercante in proprio bensì un funzionario imperiale che opera al servizio del re, in base alle sue direttive e a vantaggio della collettività. Il suo guadagno non deriva dalla compravendita ma dal suo status di funzionario. Egli è cioè remunerato dal prestigio di essere un emissario del re e dai vantaggi indiretti che ne conseguono; in altri casi prende semplicemente uno stipendio. Il mercante individuale, nel senso moderno del termine, che guadagna sulla differenza di prezzo fra ciò che acquista e ciò che vende, farà la sua prima apparizione in Grecia nel VII e VI secolo a.C., solo dopo l'introduzione della moneta coniata. Sarà, in genere, un meteco o uno straniero, agirà sul mercato interno, al dettaglio, col nome di kapelos e prenderà una posizione infima nella scala sociale, disprezzato da tutti 10 . Il commercio estero negli antichi Imperi si avvale ancora in notevole misura del sistema del dono e del controdono di origine tribale. Del resto più che l'acquisizione di beni utili ha come scopo quello di stringere alleanze. E quindi oggetto dello scambio sono esclusivamente beni preziosi quali schiavi, cavalli, oro, avorio, incenso. Fuori dal dono c'è il commercio cosiddetto amministrato, basato cioè su trattati politici fra le parti con prezzi «fissi» stabiliti secondo equivalenze comunemente accettate. Si tratta anche qui di uno scambio che avviene esclusivamente in natura: la moneta, anche nella forma di moneta-mercé o di moneta-metallo prezioso, è assente. Quando, per esempio, si scambia oro lo si tratta come mercé, non funge da intermediario, è semplicemente barattato con un altro bene secondo un'equivalenza prefissata. L'intero sistema del commercio estero, basato sull'istituto del port of trade, sul quale non è qui il caso di addentrarsi11, esclude la concorrenza e quindi il formarsi di un prezzo sulla base del libero meccani-
mo domanda-offerta-prezzo. Nel commercio estero un vero e proprio sistema di mercato farà la sua comparsa solo nel III secolo a.C., nel porto di Delo, con quattrocento anni di ritardo sul commercio interno. E avrà inizialmente come oggetto i cereali (prodotto base dell'antichità) e, in seguito, gli schiavi. Il commercio, interno ed estero, rappresenta in ogni caso solo una parte, e piuttosto modesta, della circolazione dei beni negli antichi Imperi orientali. Il sistema fondamentale è in realtà la redistribuzione. Tutti i beni principali prodotti dai sudditi (cereali, lana, olio) sono tassati in natura, sulla base della decima, e affluiscono al centro dello Stato, in enormi magazzini nella disponibilità del re e dei suoi funzionari. Da qui rifluiscono per pagare, sempre in natura, la Corte, la burocrazia imperiale, i soldati, i lavoratori che non dipendono direttamente dallo Stato ma prestano ad esso saltuariamente alcuni servizi. Oppure sono utilizzati per distribuire ai meno abbienti, schiavi compresi, la razione minima necessaria alla sussistenza. È infatti preciso compito dei sovrani antico-orientali cercare di annullare, per quanto possibile, le ineguaglianze economiche ed è loro altrettanto preciso dovere che nessuno, a cominciare dai soggetti più deboli come le vedove e gli orfani, soffra la fame. Anche negli antichi Imperi, come nella società tribale, la povertà individuale è sconosciuta pur se, con il progressivo affermarsi della divisione del lavoro, cominciano a comparire, oltre a quelle di casta, notevoli differenze economiche. Per finanziarsi lo Stato antico-orientale ricorreva, come quello moderno, alle imposte che esigeva in natura e in misura assai più ridotta di quanto non faccia oggi il fisco, oppure a prestazioni personali richieste occasionalmente. Non sembra però che queste ultime pesassero più di tanto sui sudditi, nemmeno dal punto di vista psicologico. Scrive Heichelheim: «Generalmente le pre-
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stazioni di lavoro limitate a favore del re venivano accettate come un male necessario e inevitabile e non si aveva la sensazione di essere degradati: d'altra parte lo Stato antico-orientale propagandava al massimo queste prestazioni di lavoro e cercava di suscitare nei lavoratori orgoglio per le opere compiute»12. Esistono però anche dei veri e propri rapporti di lavoro fra Stato e sudditi quando costoro forniscono prestazioni che esulano dal sistema delle imposte personali. Ciò comporta dei salari che vengono pagati in natura secondo tariffe fisse, determinate anche qui dalla tradizione, dalla consuetudine, dalla legge. Non ci fu mai in tutto l'Oriente antico un mercato del lavoro e nessun uomo libero fu mai costretto a vendersi sottocosto. Un sistema del genere ha bisogno di una folta burocrazia. Spetta ai funzionari imperiali tenere su appositi registri la complessa contabilità che nasce dalle reciproche obbligazioni fra Stato e sudditi, e che è resa ancor più complicata dal fatto che la maggioranza delle imposte si risolve in prestazioni personali. Già a quest'epoca sono ideate delle «camere di compensazione» fra debiti e crediti e solo le eccedenze vengono pagate. Esiste una vasta opera di programmazione e di pianificazione. I funzionari dello Stato erano perfettamente in grado di sapere in ogni momento, sulla base delle registrazioni e dei loro organizzatissimi archivi, quali entrate sarebbero confluite nei magazzini imperiali e quali uscite lo Stato avrebbe dovuto sostenere. Esisteva inoltre un vero e proprio bilancio dello Stato. Programmazione, contabilità complesse, bilancio, computo dei saldi furono resi possibili dal progresso delle matematiche e, soprattutto, dall'introduzione della moneta di conto che serviva per valutare, sempre all'interno del sistema delle equivalenze, i beni in entrata e in uscita e a definire gli eventuali saldi. Fu a quanto pare l'Egitto a raggiungere il massimo
perfezionamento nella pianificazione. Ai tempi di Ramsete v, verso il 1150 a.C., esisteva «un "ordine di semina" che veniva di anno in anno promulgato dallo stesso Faraone. Tutti i proprietari di terre e gli agricoltori ricevevano un programma dettagliato nel quale veniva descritta e prescritta la quantità e la qualità del raccolto che erano tenuti a produrre sui loro terreni. Venivano descritte particolarmente le estensioni di terreno che andavano destinate a certe seminagioni, tanto per la valle del Nilo che per le sue dipendenze. Si prescriveva inoltre la percentuale di raccolto che si doveva consegnare ai magazzini reali sparsi per il paese. A questo scopo il terreno veniva suddiviso in diverse categorie, dal terreno desertico più desolato alle fertili terre nere soggette alle inondazioni del Nilo»13. I magazzini imperiali provvedevano poi a redistribuire, in modo altrettanto dettagliato e secondo criteri equitativi, i prodotti ammassati. Anche le miniere, le cave e la stessa produzione artigianale erano soggette a questo tipo di rigida pianificazione. «In linea di principio» scrive Heichelheim «lo sforzo collettivo di tutti i cittadini doveva garantire la sopravvivenza a tutti gli abitanti dello Stato» 14. Gli antichi Imperi orientali erano dunque delle società collettiviste. Non più però comunitarie, come le realtà tribali che li avevano preceduti (e che tuttora esistevano al di fuori degli Imperi), dove la redistribuzione avveniva in modo automatico, spontaneo, attraverso le linee parentali e di clan, partendo quindi dalla base senza che ci fosse bisogno degli ordini e della pianificazione di un capo. Gli Imperi erano delle vere e proprie società comuniste perché la produzione e la distribuzione venivano pianificate dall'alto. Il posto lasciato all'iniziativa privata era vicino allo zero. Eppure, a differenza di quello che accadrà alcune migliaia di anni dopo in Unione Sovietica e nei Paesi dell'Est europeo, pare che queste società funzionassero piuttosto bene. La storia rac-
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conta che durante l'età del bronzo le crisi economiche furono determinate dall'irruzione negli Imperi di una produzione e di uno scambio non organizzati e non programmati. La crisi cessava e le cose si rimettevano a marciare quando lo Stato riprendeva in mano le redini dell'economia. Ma la società che doveva portare alle estreme conseguenze la pianificazione comparve duemila e cinquecento anni dopo (cronologicamente se non antropologicamente) la fine dell'età del bronzo. Fu l'Impero Inca nel Perù precolombiano (1300-1400 d.C.). Quella degli Incas è l'unica società non tribale a non avere conosciuto né i mercati né, tanto meno, il sistema di mercato né alcuna forma di moneta fosse essa misura di valore, mezzo di pagamento, deposito di ricchezza, intermediario nello scambio. È la sola società cosiddetta «stratificata», cioè complessa e non esclusivamente tribale, dove il denaro non abbia mai fatto la sua comparsa in nessuno dei suoi proteiformi aspetti. L'Impero Inca fu uno strano miscuglio fra uno Stato comunista e dispotico e una società tribale. Tutta la terra apparteneva allo Stato. In ogni provincia era divisa in tre parti: la prima era per il re, la seconda per il Sole, vale a dire per i sacerdoti e gli addetti al culto, la terza per la popolazione. Su quest'ultima il clan, qui chiamato Ayllu, era organizzato secondo le forme di solidarismo familiare e parentale che già conosciamo. Però era lo Stato che provvedeva a ripartire il territorio di ogni comunità fra le singole famiglie in rapporto al numero dei loro membri, in modo che i lotti fossero equivalenti15. Le imposte, i mita, erano tutte obbligazioni di tipo personale, corvées insomma. Non esisteva una tassa sui beni. Gli Incas infatti, precorrendo Marx, pensavano che la vera ricchezza fosse la forza-lavoro. Ad ogni buon conto il tributo personale se non proprio gradito alla popolazione era di gran lunga preferito a quello reale, se
è vero come nota Metraux che: «La nozione di prestazione era tanto fortemente radicata nella mentalità Inca che gli Spagnoli constatavano con sorpresa che gli indigeni, anche nell'epoca coloniale, preferivano sottomettersi a una corvée, sia pure di quindici giorni, piuttosto che consegnare alle autorità uno staio di patate»16. Le prestazioni richieste erano di ogni tipo: l'agricoltore poteva essere chiamato sui campi del Sole e del re per il raccolto; all'artigiano poteva essere richiesto un manufatto (ma in questo caso le materie prime venivano fornite dai magazzini statali); anche il professionista doveva fornire la sua specializzazione. Ogni maschio in età adatta doveva dare la sua disponibilità, per un certo numero di giorni, a coprire un tratto del servizio di posta lungo lo straordinario sistema stradale dell'Impero (più di sedicimila chilometri di strade di montagna, spesso così ampie che potevano passarci insieme otto cavalieri). Durante l'assenza del lavoratore impegnato nel mila, o comunque nel periodo in cui stava lavorando per lo Stato ed era da esso mantenuto, l'ayllu doveva provvedere alla sua famiglia secondo le collaudate tradizioni tribali. Ciò era possibile anche perché la percentuale dei lavoratori contemporaneamente impegnati nelle corvées non era alta, probabilmente non andò mai oltre il 5% della popolazione. Ad ogni modo questo sistema consentiva allo Stato di accumulare enormi eccedenze sia in termini di forza-lavoro che di beni. Questi ultimi finivano nei magazzini imperiali disseminati per tutto il Paese. Una parte prendeva la via di Cuzco, la capitale, e andava al re e alla sua corte, un'altra rimaneva sul posto e serviva ad approvvigionare i funzionari, l'esercito e le squadre di lavoratori impegnati in qualche mita, ciò che restava veniva distribuito fra le diverse province in modo da compensare la mancanza, in questa o in quella, di certi prodotti oppure per ovviare a un cattivo raccolto. L'eccedenza della for-
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za-lavoro fu invece stilizzata per la costruzione del sistema stradale e dei sud vertiginosi ponti (la manutenzione ordinaria spettava invece all'ayllu), per l'efficentissimo servizio postale, per .a costruzione dei giganteschi templi che sono ancora oggetto di stupore, e per l'esercito. Un'idea di come funzionasse questo inusitato sistema senza commercio, senza mercato, senza moneta ce la può dare la giornata di un chasqui, il corriere di posta comandato per quella corvée. I luoghi di sosta per i chasqui erano scaglionati a distanza di un miglio e mezzo perché il corriere potesse percorrerli di corsa, alla massima velocità, come in una staffetta dell'atletica moderna (per non perdere un solo secondo il chasqui in arrivo suonava la conca in modo che l'altro fosse pronto a prendere al volo il sacco della posta). Ogni quattro o otto miglia c'erano i posti di ristoro, chiamati tampo, un incrocio fra una locanda e un moderno Grill (quasi sempre erano collegati a magazzini governativi), che in genere ospitavano funzionari in viaggio ma che erano utilizzati anche dai chasqui per rifornirsi gratuitamente di cibo e degli strumenti necessari per il loro mestiere e per dormire. Anche un sistema del genere aveva bisogno di una nutrita burocrazia, che era organizzata gerarchicamente in maniera tale che il funzionario superiore controllasse l'inferiore e ne venisse a sua volta controllato. I funzionari imperiali avevano il compito non facile di pianificare la redistribuzione dei beni e le corvées. Dovevano quindi avere una conoscenza il più possibile precisa dei flussi delle merci, della produttività delle varie zone, delle possibilità di mobilitare gli uomini. Per questo si servivano di inventari, di periodici censimenti e facevano un uso assai sofisticato della statistica. Questi conti complicati erano registrati su delle cordicelle a nodi basate sulla numerazione decimale. La scrittura, come il denaro e la moneta, era infatti sconosciuta agli Incas.
L'oro e l'argento, abbondantissimi in quelle regioni, erano semplicemente degli oggetti ornamentali e rituali, non servivano come moneta nemmeno nella forma, conosciuta anche dalle società tribali, di deposito di ricchezza e di tesoro. Perché la ricchezza, presso gli Incas, era il lavoro. Certo una civiltà del genere appare sorprendente all'osservatore odierno e anche un tantino inquietante dopo gli sfracelli combinati dal comunismo moderno. Sembra però che l'organizzazione economica funzionasse assai bene e anche con una certa soddisfazione dei sudditi. In quanto al dispotismo politico che accompagnava la rigida pianificazione, era ammorbidito dal fatto che si innestava sulle strutture tribali all'interno delle quali l'individuo trascorreva buona parte della sua esistenza. C'erano, è vero, dei tribunali speciali, delegati dal re, che avevano competenza per quei reati che noi chiameremmo «contro la personalità dello Stato». E se si trattava di ribellione si poteva arrivare alla pena di morte preceduta da tortura. Ma gran parte della legislazione penale era lasciata aWayllu. E qui, come sempre nelle realtà tribali, l'andazzo era piuttosto lasco. Solo il furto, da sempre considerato dai primitivi il delitto più infamante, era punito in modo severo. Però era perdonato se era stato commesso in stato di necessità. Altrimenti il ladro veniva lapidato, ma solo un pochino, in modo rituale e quasi simbolico, perché non si facesse troppo male. Solamente in presenza di recidiva la pena era la morte. Ma anche in questo caso occorreva pur sempre il consenso del governatore provinciale... L'arrivo degli Spagnoli e dell'economia monetaria distrusse la civiltà Inca. Per gli indigeni le cose peggiorarono drasticamente non solo dal punto di vista politico, per le consuete brutalità dei conquistadores, ma anche da quello economico. La regione non riacquistò mai più la relativa floridezza di un tempo. Scrive Me-
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traux: «In seguito, l'ordine antico apparve tanto più giusto e umano in quanto quello degli Spagnoli era caratterizzato da sventure e da crudeltà. Dinanzi agli orrori della conquista e della colonizzazione, il dispotismo degli Incas si mutò, nel ricordo, in un'età dell'oro, della prosperità e della felicità» 17.
V. LA NASCITA DEL DENARO
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Aristotele, Politica, i 9, 2257 b, 20-40. Aristotele, Etica Niamachea, v, 8, 1133 a, 3-6. K. Polanyi, La sussìiema dell'uomo, cit., pp. 97-99. 4 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 294. 5 Ibid., p. 292. 6 M. Weber, Economa e società, Edizioni di Comunità 1980, voi. i, pp. 70 ss. 7 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 215. 8 M. Weber, Economie, e società, cit., p. 70. * K. Polanyi, La sussis'enza dell'uomo, cit., pp. 122, 123, 125, 182 ss. 10 Anche per lo Heichelheim, che pur ha un'impostazione molto diversa da Polanyi e ritiene che il sistema di mercato si fosse già affacciato nell'età del bronzo, il tamkarum è semplicemente un funzionario imperiale. Scrive: «II tamkarum, assiro e babilonese dipendeva direttamente e più o meno esclusivamente dallo Stato. In Egitto doveva sempre essere considerato a tutti gli effetti un servo del sovrano». F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 210.1 mercanti individuali non esistevano nemmeno fuori dagli antichi Imperi. Non lo furono neppure i Fenici. Scrive ancora Heichelheim: «L'intensità del commercio e la perfezione delle sue forme che sono state attribuite dagli studiosi delle generazioni passate ai Fenici sono favole, come tutte le nostre fonti sul commercio estero dell'inizio del primo millennio a.C. rivelano chiaramente. I Fenici erano soprattutto pescatori». Ibid., p. 359. 11 Sui Port of trade vedi K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., pp. 132, 133 e Economie primitive, arcaiche, moderne (cap. X, I Port of trade nelle società antiche), cit., pp. 229-248. 12 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 283. 13 Ibid., pp. 297-298. M Ibid., p. 296. " A. Metraux, Gli Incas, Einaudi 1969, p. 75. 16 Ibid., pp. 72-73. " Ibid., p. 96. 2
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Nelle società neolitiche e tribali, autonome e tendenzialmente autosufficienti, lo scambio avviene nella forma del dono e del controdono oppure del «baratto puro» (tu dai una cosa a me e io una a te senza star a badare se l'una valga più dell'altra). Negli antichi Imperi, società stratificate e complesse in cui i gruppi si ingrandiscono e si sparpagliano e l'autosufficienza non è più scontata, mentre si accentua la divisione del lavoro, prende invece piede il concetto di equivalenza. Con l'equivalenza siamo ormai molto vicini al denaro. Diversamente dal regime del dono il valore dell'oggetto non deriva più dal piacere di possederlo e di alienarlo (ricevendone, in contropartita, prestigio); diversamente dal «baratto puro» la cosa non ha più un valore in sé (determinato dall'utilità che ne ricavo) ma ha un certo valore precisato non solo dal valore dell'oggetto che ricevo in corrispettivo ma da un parametro «terzo» e generale, cioè dal raffronto con tutti gli altri oggetti teoricamente scambiabili. Questo «terzo» è la moneta come misura di valore, che è già denaro anche se monco. Negli antichi Imperi alla funzione di misura del valore la moneta, in forma di moneta-merce, aggiunge poi quelle, già sperimentate in epoca neolitica, di mezzo di pagamento e deposito di ricchezza. Inoltre il denaro si era anche manifestato, sia pure in termini
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ancora molto vaghi, in alcune delle sue espressioni più astratte e pure: quelle del segno e del credito. Quando, ad esempio, i funzionari dei magazzini imperiali registrano nei loro libri un debito o un credito creano, in realtà, denaro. Però le funzioni del denaro erano rimaste divise e frammentate fra oggetti diversi, tanto che, come in un puzzle scompaginato, non c'era la consapevolezza che componessero una figura unica, che fossero emanazione della stessa entità Inoltre mancava ancora la funzione più importante e decisiva del denaro, quella di intermediario nello scambio. E anche lo spirito del denaro (la sua essenza) aleggiava qua e là, ma non si era ancora mostrato nella sua compiutezza, né aveva preso corpo in una forma univoca e riconoscibile. Il denaro era come la creatura di Frankenstein, i cui pezzi però fossero sparsi nel laboratorio, il più importante non fosse ancora stato forgiato e alla quale mancasse, a darne unità, immagine e vita, il soffio dell'Artefice. E finalmente lo spirito del denaro decise di scendere sulla Terra, di incarnarsi e di palesarsi agli uomini, che ancora ignoravano la sua esistenza anche se la presentivano. L'evento ebbe luogo in Lidia, un piccolo regno dell'Asia Minore che era nell'orbita della cultura greca. Fu in Lidia che, fra la fine dell'VIIIsecolo a.C. e l'inizio del VII, comparve, per la prima volta nella storia dell'uomo, la moneta coniata in metallo prezioso, garantita, nel peso, nella misura e quindi nel valore, da chi l'aveva battuta, cioè dallo Stato ma anche, almeno all'inizio, da privati1. Era nata la forma-denaro. Lo spirito del denaro si era fatto carne, corpo unico e mistico e i suoi adoratori, nel corso di una lunga vicenda, sarebbero diventati legione. Insieme al denaro nacque il suo fratello gemello, il mercato. E contemporaneamente fecero la loro apparizione la filosofia, la scienza, l'economia, la polis, la de-
mocrazia, la personalità, il lavoro individuale, la povertà individuale e la solitudine dell'uomo. Lacerate infatti in modo irreparabile, anche dal punto di vista concettuale, le strutture tribali, l'uomo, per la prima volta nella sua storia, si trovò a doversi procacciare i mezzi di sussistenza da solo o con la sua famiglia senza poter più contare sull'aiuto solidale del gruppo e nemmeno, com'era stato negli antichi Imperi, sull'assistenza dello Stato. «Nella situazione tribale» scrive Polanyi «la sorte economica era stata collettiva, non individuale: quando essa cambiava con l'avvicendamento dei pascoli, il corso delle stagioni, il favore del sole, il vento, la pioggia, cambiava per tutti» 2 . Ancora ai tempi di Omero appartenere (al gruppo) significava non doversi preoccupare per il cibo e non appartenere il suo contrario. Ma quest'ultima era una condizione vergognosa che riguardava esclusivamente il forestiero, l'esule, l'ospite non gradito. Adesso era di tutti. Le Opere e i Giorni di Esiodo, che risalgono alja fine del VIII secolo a.C., in contemporanea con la nascita del denaro, danno conto dell'avvenuta tragedia. In Esiodo non c'è più il parente, l'affine, il consanguineo, c'è il vicino che è già un estraneo. Il parente ha degli obblighi che sono così introiettati e automatici da non apparire nemmeno tali, il vicino no. Bisogna quindi essere fortunati: «Il cattivo vicino è una rovina, il buono un grande aiuto; ebbe in sorte un tesoro chi ebbe in sorte un buon vicino: neanche un bue morirebbe se il vicino non fosse cattivo!»3. Oppure occorre accattivarselo: «Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre e restituiscigli la stessa misura e ancora di più, se lo puoi, cosicché, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto» 4 . La fiducia, che è consustanziale al clan e al gruppo tribale, lascia il posto alla diffidenza: «Chiama sempre un testimone: il fidarsi, infatti, e il non fidarsi rovinano l'uomo»5. La fiducia, proprio perché non è più automa-
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tica come nella società tribale, acquista un'enorme importanza e con essa anche il denaro, poiché il denaro è essenzialmente credito e il credito vuoi dire fiducia. Ma la fiducia ora non è più data direttamente da una persona ma da un enigmatico cerchietto di metallo. Compare anche un atteggiamento e un concetto del tutto sconosciuto alle sacietà precedenti: la parsimonia. Secondo Esiodo un uono non dovrebbe sposarsi fino ai trent'anni, prima è necessario acquisire gli attrezzi e la servitù e, cosa che anticipa la famiglia nucleare dei nostri giorni, è bene averi un solo figlio «perché così aumenta il patrimonio»6. Se ne possono avere due solo se il padre pensa di arrivare alla vecchiaia. In questo caso il vantaggio di possedere più forza-lavoro può essere superiore all'onere dell* divisione della terra al momento della successione. Compaiono cioè preoccupazioni che erano ignote alla società tribale e fa capolino una concezione lineare del tempo, una proiezione verso il futuro, che è tipica di una società dove comincia a circolare il denaro. Un'altra novità che, con profonda intuizione, viene sottolineata da Esiodo è la concorrenza: «II vasaio gareggia col vasaio, l'artigiano con l'artigiano, il povero invidia il povero, il cantore il cantore»7. Il lavoro diventa un obbligo. Meno di un secolo ancora e la pigrizia, che era stata fin lì bonariamente tollerata, sarà considerata un crimine, che Solone punirà con pene severe. Ma, soprattutto, Esiodo, cioè l'uomo, scopre la fame, la terribile e degradante fame individuale. Solo col lavoro incessante si può evitare «il debito e la triste fame»8. Col denaro si era entrati in pieno nella brutale età del ferro. Ed è da questo momento che l'uomo cominciò a rimpiangere una mitica età dell'oro (inteso come splendore, non come moneta) in cui gli Dei lo amavano ancora e la terra dava i suoi frutti in abbondanza senza che ci si dovesse affannare troppo né scannarsi fra simili.
A quest'epoca risale anche la distinzione e la divisione Ira lavoro intellettuale e manuale. In precedenza persine il re-sacerdote degli antichi Imperi ci teneva a presentarsi, almeno formalmente e concettualmente, come un lavoratore, sia pur augusto, del braccio. Il re di Babilonia si autodefiniva «il contadino di Babilonia» e «l'irrigatore dei campi». Gli stessi faraoni si consideravano i primi lavoratori dello Stato e spesso, nei rilievi e nei dipinti, sono rappresentati nell'atto di svolgere il mestiere dell'agricoltore o dell'artigiano. Fu la scoperta del denaro a permettere la divisione fra lavoro intellettuale e manuale e certamente si deve anche a questo se parallelamente si sviluppano la filosofia e la scienza. Adesso c'è gente che, non più obbligata sui campi, può dedicarsi esclusivamente alla speculazione. Coeva alla moneta coniata è anche la nascita della polis. Scrive Heichelheim: «Fino al 700 a.C. circa la polis non era altro che un punto di riunione dei cittadini di pieno diritto e un agglomerato di castelli e palazzi del re, delle famiglie aristocratiche e dei loro dipendenti... ma non era ancora una città nel senso economico del termine. Questo significa che prima del 700 a.C. non si può ancora pensare a una maggioranza della popolazione della polis che avesse abbandonato completamente la produzione primaria o che fosse in grado si scambiare i propri prodotti in cambio di moneta o di altri prodotti finiti sul mercato cittadino. Al contrario ogni famiglia facoltosa delle città greche arcaiche possedeva ancora la sua proprietà fondiaria che veniva coltivata secondo un piano autarchico... In effetti non comparvero città greche nel senso economico del termine fino al 700 a.C. circa quando, contemporaneamente, furono inventate le monete, fu introdotta l'usura, fu creato l'alfabeto greco» 9. «Tout se tient»: la polis vuoi dire democrazia e la democrazia è legata al denaro e al mercato. Infatti in un modello come quello democratico, in cui ci si aspetta
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che i cittadini si amministrino da sé, la distribuzione degli alimenti, prima affilata in larga misura alla solidarietà tribale o allo Stato, richiede il sistema di mercato e il denaro. È documentato che moneta e mercato (inteso in senso moderno, basato cioè sul meccanismo domanda-offerta-prezzo) compaiono contemporaneamente. Ciò avviene al mercato a minuto di generi alimentari di Salamina all'inizio, appunto, del VII secolo a.C.10. La coincidenza della comparsa nello stesso tempo e nello stesso luogo di moneta e mercato non è solo storica: è logica. Denaro, come mezzo di scambio, e mercato sono pressoché indissolubili, l'uno senza l'altro non ha senso o ne ha pochissimo. Osserva Polanyi: «Un'economia di mercato... assume la presenza della moneta che funziona come potere di acquisto nelle mani dei suoi possessori. La produzione sarà poi controllata dai prezzi poiché i profitti di coloro che dirigono la produzione dipendono da essi; anche la distribuzione delle merci dipenderà dai prezzi perché i prezzi formano i redditi ed è per mezzo di questi redditi che le merci prodotte sono distribuite fra i membri della società. Sulla base di questi assunti l'ordine nella produzione e nella distribuzione delle merci è assicurato soltanto dai prezzi»11. E il prezzo di cui parla Polanyi altro non è che denaro. Infatti il prezzo viene tecnicamente definito come «la quantità di moneta che viene scambiata con una unità di un bene»12. Il denaro riceve quindi il suo massimo impulso dal meccanismo di mercato o, il che fa lo stesso, il denaro dà il massimo impulso al mercato. Il denaro spersonalizza l'oggetto che viene spogliato di quel valore emotivo, sentimentale e simbolico che aveva invece nelle società tribali e ancora, sia pur in maniera più sfumata, negli antichi Imperi orientali. Il valore economico nasce propriamente solo col denaro. Scrive Mauss: «C'è stato valore economico solo quando c'è stata moneta e c'è stata moneta solo quando gli og-
Si vuole che sia stato Gige, re della Lidia e fondatore della dinastia Mermnade, progenitore del più noto Creso, a coniare la prima moneta, l'elektron, una combinazione di oro e argento. L'esempio fu immediatamente seguito da altre città greche dell'Asia Minore: Mileto,
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getti preziosi, anch'essi ricchezza condensata e contrassegni di ricchezza, sono stati effettivamente monetati (se ne è stabilito il titolo), spersonalizzati, staccati da qualsiasi rapporto con ogni persona morale, collettiva e individuale, diversa dall'autorità dello Stato»13. Solo col denaro il bene diventa mercé, pura e semplice. Ora, almeno concettualmente, tutto, o quasi, può essere comprato e venduto, fatto oggetto di mercato, purché ci sia una domanda. Tutto ha un prezzo, tutto è monetizzabile, tutto è denaro. Per la prima volta ci si da da fare e si lavora non per necessità immediata e nemmeno per convenzione, in virtù di rapporti personali e di convinzioni religiose, morali o sociali, ma innanzi rutto per procurarsi un guadagno pecuniario. È dal denaro che dipende ora, in gran parte, la possibilità di procurarsi i mezzi di sussistenza oltre che, ovviamente, il surplus, ciò che viene prodotto in eccedenza. L'invenzione della moneta, l'avvento del mercato, la produzione per l'eccedenza e non più solo per il consumo, la comparsa dello spirito del profitto, han fatto definire quello che va dal VII secolo avanti Cristo al II secolo dopo Cristo come il periodo del «capitalismo antico». E un'espressione da prendersi con le molle. Se si ha in mente qualcosa di simile a ciò che conosciamo oggi si tratta di un'evidente forzatura: in quei nove secoli la logica del capitale rimase a uno stadio poco più che embrionale, almeno rispetto agli sviluppi che ha avuto in seguito. Troppe resistenze, e troppo forti, si opponevano ancora al denaro e al suo sviluppo. Ma dei limiti di questo «capitalismo» parleremo un poco più avanti.
Efeso, Samo, Focea, cui si aggiunsero poco dopo Chio, Smirne, Cizico e Lampsa:o. Nella Grecia vera e propria la moneta coniata arrivò solo nel 630 a.C. e fu acottata in un certo numero di città sparse nella regione dell'istmo di Corinto. Ad Atene venne introdotta una trentina d'anni più tardi, nei primi due decenni del vi secolo a.C.14: era l'obolo, una moneta d'argento di piccolo taglio e di valore limitato più adatta dell'elektron alla realtà della Grecia, assai più povera della Lidia, e soprattutto alla compravendita al dettaglio di cibo e altri prodotti di prima necessità al mercato locale, cittadino, che fu per molto tempo il solo luogo dove le merci venissero scambiate con denaro. Infatti il commercio internazionale restò ancorato per alcuni secoli ancora al sistema del baratto sulla base di equivalenze, determinate per lo più da criteri politici. Solo nel III secolo a.C. si comincia a notare nel commercio internazionale di cereali l'affermarsi del sistema monetario e dei meccanismi propri del libero mercato: l'offerta si sposta a seconda della domanda e della scarsità e i prezzi vengono determinati di conseguenza. Ciò cambia anche il regime dei mercati locali, al dettaglio. I prezzi che si formano nelle varie città greche e del Mediterraneo sono ora strettamente legati e interdipendenti. La città di Rodi tende a riflettere la media dei prezzi, cioè a formare un prezzo internazionale di mercato. Almeno per i cereali si era creato un vero sistema di mercato mondiale. Ma a quell'epoca la moneta coniata non era più un fenomeno che riguardava la Lidia e poche città dell'Ellade, era una realtà che, già dalle guerre persiane del V e IV secolo a.C., copriva quasi l'intera Grecia e si estendeva a Cirene, alla Spagna, alla Magna Grecia, a Cipro, alla Tracia, al Mar Nero e allo stesso Impero di Ciro e Dario. A Roma, nel Lazio e nell'Italia centrale la moneta arrivò solo alla fine del iv secolo, così come in Gallia e
nell'Africa del Nord. Si affermarono anche delle monete internazionali» accettate da tutti gli Stati che erano usciti, almeno in parte, dall'economia di baratto: i tetradrammi attici, la moneta d'oro persiana, le «tartarughe» di Egina, i poloi di Corinto. Con la moneta arriva il capitale. La ricchezza, da statica che era, diventa dinamica, non è più utilizzata a scopi di tesaurizzazione, di esibizione, per essere dilapidata e distrutta a maggior gloria di chi la possiede o, come negli Imperi, per essere ridistribuita, ora la si investe per procurarsi altra ricchezza. È un mutamento concettuale e psicologico favorito da un fatto tecnico: quando i beni sono scambiati in natura e molto complicato calcolare saldi, costituire fondi, speculare sul futuro. Il denaro agevola tutti questi processi. E col denaro compare, fatalmente, la sua prole: l'interesse, anzi l'usura perché in quei primi tempi non si fa differenza chiamandosi usura qualunque remunerazione del capitale prestato. Per la verità prestiti ad interesse se ne erano già visti anche prima della nascita della moneta coniata. E qui bisogna fare qualche passo indietro. Nel periodo neolilico e nella società tribale il prestito non esiste, nemmeno a titolo gratuito. È la stessa struttura di tali società a renderlo improponibile. All'interno della comunità, del clan, della tribù le cose passano di mano secondo certe linee parentali e sarebbe addirittura obbrobrioso chiederne la restituzione. All'esterno della comunità il sistema del dono esclude il prestito, anche gratuito: si dona in via definitiva, l'eventuale controdono è un'obbligazione di tipo esclusivamente morale che non ha contenuto economico ma emotivo. Nell'età del bronzo appare per la prima volta nelle società rurali, là dove si sono allentate le strutture tribali, il prestito gratuito. Si da al vicino ciò di cui ha Insogno ma si attende la restituzione se non della stessa
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cosa di un'altra dì vaore equivalente. In qualche caso fa anche capolino il prestito a interesse di beni in natura. Si tratta di una rudimentale usura agraria. Si prestano frutti (datteri, fichi) o sementi di cereali che vengono restituiti aggiungendovi una percentuale del raccolto calcolata in modo tracizionale, consuetudinario. Oppure si presta bestiame e se ne ottiene la restituzione con l'aggiunta di una percentuale dei nuovi nati. Oppure ancora si prestano attrezzi, per esempio ami da pesca, e in cambio si ha diritto a una parte del pescato. Ma si tratta di fenomeni così occasionali e sporadici che, in buona sostanza, è legittimo affermare con Heichelheim che «l'usura nelle società non urbane... non era in uso»15. Il prestito a interesse prende invece piede con le civiltà urbane degli antichi Imperi. I primi a utilizzarlo furono, a quanto pare, i Sumeri seguiti dagli Ittiti e dagli Egizi. Si presta a interesse bestiame, frutti, sementi ma anche cose inanimate come il miele, il sesamo, l'aglio, l'olio, il vino, la birra, rotoli di papiro, cuoio, indumenti, armi. Ma si prestano soprattutto metalli, preziosi e non, oro, argento, bronzo, rame, piombo. Tuttavia negli antichi Imperi il prestito a interesse era operato esclusivamente dallo Stato e si inseriva nella sua politica di redistribuzione e di pianificazione. Così se il tasso di interesse normale a Babilonia variava, per i cereali, tra il 20 e il 33%, per i sudditi più poveri e bisognosi erano invece previsti prestiti a interesse ridotto e a volte addirittura a tasso zero. In ogni caso negli antichi Imperi, che pur mostrarono per primi una certa predisposizione all'usura, il prestito a interesse, anche per motivi pratici, mancando una moneta vera e propria e dovendo scambiare con beni in natura, rimase un fenomeno circoscritto e riservato all'amministrazione statale. È con l'invenzione della moneta che si aprono le ca-
teratte. La Grecia arcaica non aveva conosciuto, in quanto società rurale, il prestito a interesse. Ancora ai tempi di Omero e di Esiodo si parla di prestiti di sementi solo a titolo gratuito. Ma già con Solone, nella seconda metà del vii secolo a.C, il prestito a interesse è praticato in maniera illimitata e incontrollata da piccoli e grandi usurai. E anche l'interesse composto è ormai un fatto comune e accettato. I tassi variano, a seconda delle operazioni, dal 10 al 33% e in ogni caso si considerava equo un tasso che andasse dal 12 al 18% che erano anche i valori su cui si aggirava la rendita fondiaria. E a Babilonia e in Egitto il tasso medio arrivò al 40%. Mentre nella Grecia classica a cagione della cultura prettamente individualistica di quella civiltà, invero precapitalistica, e in buona parte della Mesopotamia, per motivi diametralmente opposti, il prestito a interesse sfondò senza incontrare eccessiva resistenza, in tutte le altre parti del mondo la comparsa dell'usura sistematica, che rompeva totalmente con tutti i principi di solidarietà sociale, fu uno choc difficile da assorbire. E cominciò una lotta immane, e inane, all'interesse e al concetto, ritenuto perverso e quasi demoniaco, che il denaro, cosa inanimata per eccellenza, potesse produrre, partorire, altro denaro. Dappertutto si cercò di abolire la mostruosità o quantomeno di contenerla. In Israele, ai tempi di Neemia, il prestito a interesse era proibito in modo assoluto. In seguito, trovandosi gli ebrei circondati da popolazioni che praticavano l'usura, il divieto fu limitato al prestito fra israeliti16. Ancora al tempo di Erodoto, verso il 450 a.C., i persiani consideravano l'usura altamente disonorevole. Nell'India antica17 il costume vituperava l'usura e non solo proibiva alle classi superiori di praticarla sotto qualsiasi forma, ma persino di sedersi a tavola con gli usurai, considerati poco meno che degli appestati. A Roma l'usura ebbe una sorte più complessa. Sulle
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prime le novità che venivano dalla Grecia furono respinte dal mondo latino legato a una realtà esclusivamente rurale. Ma già all'epoca delle xii Tavole (fine del v secolo a.C., circa) c'è un primo cedimento: l'interesse è ammesso entro il limite dell'8%. Una lex Duilia Menenia del 357 a.C. lo abbassò al 4% e nel 342 a.C. la lex Genutia lo abolì del tutto. Ma con l'enorme crescita urbana di Roma, avvenuta in seguito alle vittorie sui cartaginesi, premeva ormai una realtà economica e sociale diversa che nessuna legge poteva contenere. Roma si avviava a diventare la società più materialista del mondo antico. Nell'ultimo secolo della Repubblica l'usura sfondò il muro del 50%. Molte delle rivolte di questo periodo, da Lepido a Catilina, sono dei tentativi di sottrarre l'aristocrazia e la plebe romana all'artiglio della nuova classe dei cavalieri (banchieri, mercanti, appaltatori delle tasse) che teneva per la gola l'una e l'altra con il prestito a strozzo. La situazione rimase identica nei due primi secoli del Principato. Solo nel tardo Impero romano, sotto l'influsso del Cristianesimo, la lotta all'usura, condotta con leggi severissime, ebbe qualche successo. Col denaro e l'usura irruppero anche molte attività finanziarie prima sconosciute o circoscritte: mutui, ipoteche, depositi a interesse, prestiti su pegno, cambi di valute. Anche la cambiale, che già aveva fatto qualche apparizione in Mesopotamia, divenne di uso abbastanza comune. Si discute se esistesse già allora la girata, ma i più accreditati storici dell'economia antica tendono a escluderlo18. Abbiamo invece almeno un precedente di quella lettera di cambio che nel Medioevo doveva costituire la prima forma di cartamoneta, cioè di moneta totalmente fiduciaria, mai sperimentata al mondo. Il fatto avvenne a cavallo del v secolo a.C., quando la moneta coniata era in uso in Grecia da duecento anni. Stratocle, un mercante di Atene in procinto di partire per il regno
del Bosforo, consegnò un'ingente somma a un giovane, originario di quella regione, che il ricco padre aveva mandato a studiare nella capitale greca. In cambio si lece dare dal ragazzo una lettera indirizzata al padre in cui gli si chiedeva di rimettere a Stratocle, al suo arrivo, una somma equivalente. Il passaggio fu reso possibile anche perché Pasione, il più importante banchiere ateniese del tempo e uno dei primi di cui si abbia notizia, garantì per il giovane qualora il padre fosse stato inadempiente19. Anche se complicata da questa triangolazione si tratta della prima lettera di cambio a noi nota, che aveva lo scopo, come poi nel basso Medioevo quando divenne di uso comune nell'ambiente mercantile, di evitare a Stratocle i rischi di viaggiare portandosi appresso un'ingente somma di denaro in oro e argento, trovando invece comodamente i suoi soldi all'arrivo. A parte questo caso, del tutto eccezionale, la cartamoneta rimase sconosciuta al «capitalismo antico». Staccare la moneta da qualsiasi valore intrinseco, vero o presunto che fosse, era operazione troppo ardita, e quasi inconcepibile, per i tempi. Gli antichi in cambio della mercé volevano mettere le mani perlomeno su qualcosa di solido: elettro, oro, argento o, per le transazioni minori, rame e stagno. Tuttavia la moneta segno, staccata cioè in tutto o in parte da un proprio valore intrinseco, fa capolino qua e là anche in questo periodo, sia pur in modo mascherato. Il primo esempio è lo statere ciziceno. Nel IV secolo a.C. questa moneta, molto apprezzata nel mondo antico, conservava lo stesso potere d'acquisto che aveva avuto all'epoca di Creso, cioè duecento anni prima, nonostante il suo contenuto in oro fosse sceso dal 75 al 25% (il resto era argento). Scrive Heichelheim: «Si tratta della prima moneta al mondo per cui siamo in grado di dimostrare che il tasso di cambio era divenuto indipendente dal suo contenuto metallico... il tasso di cambio era
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determinato dal rapporto fra la domanda e l'offerta»20. Ma anche le monete di bronzo che furono coniate in seguito per agevolare il commercio locale al minuto erano in fondo delle monete segno dato lo scarso valore che a quell'epoca avevi questo metallo. Il loro valore in realtà era fissato dall'autorità dello Stato. Lo stesso discorso si può fare, a maggior ragione, per le monete di stagno emesse da Dicnigi, tiranno di Siracusa, intorno al 400 a.C. Pare che i siracusani non fossero molto convinti ma il tiranno era il tiranno e conveniva obbedire. Chi però, con soluzione audacissima per i tempi, si avvicinò di più alla moneta fiduciaria di tipo moderno fu il generale ateniese Timoteo (inizi iv secolo a.C.) e non a caso lo scrittore Polieno ha inserito l'episodio che lo riguarda in un libro intitolato significativamente Gli stratagemmi21. Dunque Timoteo, trovandosi a corto di denaro, persuase i vivandieri che seguivano l'esercito ad accettare invece che moneta sonante, in oro e argento, dei pezzi di terraglia recanti il suo sigillo personale, garantendo che, quando fosse passato il momento di ristrettezza, li avrebbe cambiati in monete vere. Quei pezzi di terraglia erano in realtà delle «promesse di pagamento» il cui valore era legato alla fiducia che chi le aveva fatte era in grado di mantenerle, erano cioè denaro nel senso più pieno e moderno. Ma un caso del genere è pressoché unico nel mondo antico22. Intorno al iv secolo a.C., in Grecia, compaiono le banche, anche se il termine va preso in senso largo perché durante il periodo del «capitalismo antico» istituti di credito specializzati esclusivamente nel concedere e nel ricevere prestiti ad interesse non ci furono mai, ma unirono sempre altre attività a quella finanziaria. All'origine del sistema bancario greco c'è il cambiavalute (kollybistes), figura diventata indispensabile dopo l'introduzione della moneta coniata e la comparsa delle valute più disparate emesse sia da Stati diversi che all'in-
terno di uno stesso Stato23 (il che comportò il significamo affermarsi di un altro mestiere collaterale, quello dell'obolostates, aiutante del cambiavalute, che doveva saggiare le monete per controllare che avessero il peso e il titolo giusto o che non fossero addirittura false)24. Presso il cambiavalute si concentrarono, all'inizio, i movimenti di denaro e le relative attività. Ciò nonostante il cambiavalute «quasi banchiere» era un poveretto la cui attrezzatura consisteva in un tavolo e in una sedia piazzati nella zona del mercato. Solo quando i cambiavalute cominciarono ad accettare consistenti depositi di denaro le loro strutture divennero un po' più solide: per motivi di sicurezza e per far adeguata concorrenza ai templi e ai santuari (che all'epoca sono organismi pubblici legati allo Stato) che da tempo immemorabile, soprattutto negli Imperi mesopotamici, avevano la funzione di custodire le ricchezze dei sudditi che ne facessero richiesta. All'inizio questi depositi, sia presso i templi che i cambiavalute, sono dei semplici «depositi di sicurezza», come le nostre cassette: il depositante non riceve alcun interesse, anzi paga per il servizio e il «banchiere» (trapezites) non può usare il deposito per concedere prestiti. Non si creava cioè un fondo generale, tanto è vero che il trapezites collocava il denaro che riceveva dal cliente in singole borse sigillate e non poteva farne alcun uso senza una precisa disposizione del depositante. Costui poteva ordinare al trapezites di utilizzare i fondi sia per pagare un proprio debito sia per concedere un prestito a terzi, ma anche in questo caso, come nota Polanyi, il trapezites fungeva sostanzialmente da agente incaricato e non creava credito25. Le prime vere banche, intese come organismi che utilizzano i depositi dei clienti per concedere prestiti, cominciarono a funzionare solo all'inizio del iv secolo a.C. e la città a dare il via fu Delo. Questo in Grecia. In Mesopotamia pare che esistesse-
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ro banche già nel VII secolo a.C. La prima banca privata mai apparsa al mondo sarebbe stata quella dei «nipoti di Egibi», a Babilonia, seguita dai «figli di Murassu» di Nippur. In ogni ciso, come s'è già detto, né le banche mesopotamiche né quelle greche (né, in seguito, i banchieri romani) si specializzarono esclusivamente nel credito. Praticavano anche attività extrabancarie, nel commercio, nell'industria, nell'agricoltura, cosicché non è facile distinguere il banchiere di qualsiasi altro uomo d'affari del tempo. Tanto più che la banca, anche quando si strutturò in un'agenzia vera e propria, con numerosi impiegati, si identificava sostanzialmente con la persona del titolare. Era lui solo ad avere credito presso i depositanti e i finanziatori, essendo allora estraneo il concetto del «buon nome» della ditta nel suo complesso. Se il banchiere moriva senza che si fosse già affermato un successore, la banca, quasi sempre, falliva in breve tempo. I profitti del banchiere erano notevoli, dal 20 al 40% annuo sul capitale investito, ma egli rimase sempre, non solo socialmente ma anche economicamente, una figura di secondo piano rispetto al grande proprietario terriero e all'uomo politico, cioè alla classe nobiliare. Le sostanze di Pasione, il più grande banchiere della Grecia classica, erano un settimo rispetto ai più cospicui patrimoni nobiliari dello stesso periodo. Con i suoi 40 talenti, racimolati a furia di prestiti a usura, Pasione era, fra i ricchi, l'ultimo arrivato. Accanto al banchiere appaiono altre figure nuove: il rentier, l'imprenditore, l'appaltatore delle tasse. Nel frattempo, già a partire dal vii secolo a.C., e quindi in perfetta coincidenza con la nascita della moneta coniata, cioè con l'invenzione del denaro vero e proprio, si era affermata la figura, prima del tutto eccezionale, del mercante privato che, a fini di guadagno individuale, specula sulla differenza di prezzo fra il momento dell'ac-
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quisto e quello della vendita. Come il banchiere anche il mercante, chiamato kapelos se opera al dettaglio e emporos se all'ingrosso, non fu mai, nel periodo del «capitalismo antico», uno specialista, affiancando sempre qualche altra attività al commercio. E, come il banchiere, anche quando si tirò fuori dalla originaria condizione di straniero o di meteco e salì i gradini della scala sociale, il mercante non fu mai completamente accettato dalla morale del tempo. Heichelheim scrive che in Grecia «nell'età classica la classe dirigente dei cittadini, fosse democratica o no, cercava di tenersi lontana per quanto possibile dal commercio»26. E sia nella Roma repubblicana che in quella imperiale la classe dei cavalieri (cui i mercanti appartenevano insieme ai banchieri e agli appaltatori delle tasse) sarà sempre un gradino sotto l'aristocrazia, e il costume e a volte persino la legge proibivano ai senatori, cioè ai nobili, di dedicarsi alle attività mercantili anche se spesso costoro bypassavano il divieto utilizzando dei prestanome. Insomma una persona dabbene, almeno in linea di principio, non doveva sporcarsi le mani col commercio. Col denaro cominciarono naturalmente anche le truffe ai danni soprattutto della povera gente. La più semplice, la più naìf e anche, in fondo, la più innocua era di barare sul peso e sul contenuto delle monete. Lo Stato divenne un vero specialista. Scrive Heichelheim: «Provvedimenti cui si ricorreva spesso per colmare il disavanzo in situazioni di emergenza erano: diminuire il fino delle monete, coprirle con una patina d'argento e di bronzo (le cosiddette monete placcate), emettere altre monete di peso inferiore o di minor fino»27. Dal numero impressionante di monete placcate che sono state ritrovate si può dire che svalutazioni occulte di questo tipo furono frequentissime nella storia greca e romana. Poi c'era l'inflazione, fenomeno sconosciuto all'economia naturale. All'epoca di Solone (primi decenni del
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VI secolo a.C.) un medimmo di grano, alimento base nell'antichità, costava una dracma. Nel 422 a.C. era già raddoppiato due dracme. Un bue, sotto Solone, veniva pagato 5 dracme, nel 410 a.C. 51 dracme e nel iv secolo dalle 70 alle 100 dracme. Nel complesso il potere d'acquisto della moneta, in Attica e in altre regioni della Grecia, era crollato, dall'inizio del vi secolo al 400 a.C., di circa il 200% e dal 400 al 336 a.C. di un altro 400% con un decremento complessivo dell'800%. Un identico aumento dei prezzi (800%) si riscontra, per lo stesso periodo, in Mesopotamia. In compenso i salari non erano affatto aumentati, anzi diminuirono, anche nominalmente oltre che in potere d'acquisto reale. Heichelheim scrive che «tutto ciò costituiva un formidabile incentivo alla produzione, nonostante tutti gli impedimenti, tutti gli ostacoli contemporaneamente frapposti dalla politica, dalla società e dall'economia»28. E la consueta tesi per cui l'ulteriore impoverimento della povera gente è inevitabile all'inizio di ogni processo di sviluppo, in quanto è necessario per costituire il capitale. Si tratta, si dice, di periodi di transizione. Peccato che non finiscano mai. Ma la truffa più insidiosa, e più nascosta, fu rappresentata dal costituirsi, molto presto, di un regime di doppia moneta: una forte a disposizione dei mercanti e una debole usata dalla gente comune. In Grecia esisteva infatti una moneta locale (piccoli pezzi d'argento e, più avanti, in bronzo) e una moneta estera (grandi pezzi d'argento come lo statere) che valeva sul mercato internazionale. Il grande mercante, l'emporos, pagava i prodotti dei contadini e degli artigiani in moneta locale e faceva i suoi affari all'estero in moneta internazionale. Insomma il mercante paga in moneta cattiva e realizza in quella buona, che il contadino e l'artigiano non può procurarsi se non a caro prezzo. Tuttavia nel cosiddetto «capitalismo antico» tale sistema era ammorbidito dalla
circostanza che il libero mercato su base monetaria era ancora piuttosto limitato. Inoltre esisteva comunque una parziale intercambiabilità fra le due monete, quella locale e quella estera, cioè quest'ultima non era del tutto inaccessibile ai ceti più poveri. Il regime della doppia moneta, come vedremo, verrà portato al suo perfezionamento nell'Europa mercantile del basso Medioevo e del Rinascimento e vige tuttora nei rapporti fra Terzo Mondo e Paesi industrializzati. Con tali premesse (svalutazioni, inflazione, regime della doppia moneta, diversa prontezza nell'impadronirsi concettualmente di questo inedito strumento e diversa abilità nel maneggiarlo) si comprende facilmente come l'introduzione della moneta coniata, del denaro, se arricchì in modo strepitoso alcuni individui impoverì la stragrande maggioranza della popolazione. Scrive Heichelheim per il periodo che va dall'introduzione della moneta alle conquiste di Alessandro Magno (334-325 a.C.): «Durante questo periodo non si verificò alcun miglioramento rilevante del tenore di vita degli schiavi e dei ceti bassi e medi della popolazione greca che, in definitiva, anzi sì abbassò»29. Il discorso vale, in buona sostanza, per tutto il «capitalismo antico»: «Nell'età di Pericle persino gli schiavi con i loro modesti guadagni godevano di un tenore di vita più elevato dei braccianti liberi e degli operai urbani qualificati di tutta la storia successiva della Grecia e di Roma»30. Se nel VI secolo a.C. il lavoratore salariato poteva mettere da parte più della metà della paga per le spese non essenziali, già nel IV gliene restava meno di un terzo. La condizione degli schiavi, che nel mondo antico rappresentano una quota rilevante della popolazione, forse più della metà, precipitò a livelli spaventosi. Nella Grecia e nella Roma arcaiche gli schiavi erano considerati come dei figli «degradati» del pater familias, degli eterni minorenni che non avevano capacità giuridica, ma
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in linea di massima erano trattati con umanità. Con l'introduzione del denaro e del conseguente concetto di profitto le cose cambiarono radicalmente. Se gli schiavi dei piccoli proprietari continuarono ad essere trattati come sempre, nelle grandi imprese, nelle miniere e, come scrive Heichelheim, «in quei latifondi dove i sistemi patriarcali erano stati sostituiti da altri più razionali»31, gli schiavi venivano ammortizzati nel senso letterale del termine, venivano cioè sfruttati fino allo sfioramento e alla morte. Quando a poco a poco, nel periodo ellenistico e ai tempi della repubblica romana, i latifondi si ingrandirono a dismisura a danno dei piccoli e medi proprietari, queste sistema di sfruttamento selvaggio e disumano si estese di conseguenza e coinvolse una parte rilevante della popolazione servile. Il destino dello schiavò divenne quello di passare da un lavoro massacrante a una morte prematura. Che la povertà fosse diventata una condizione diffusa ce lo conferma, indirettamente, l'atteggiamento dei filosofi. A partire dal periodo dei sofisti, nel v secolo a.C, è tutto un esaltare, in linea teorica, la penia, la povertà, e i penetes, i poveri. A loro appartengono le migliori virtù sociali e politiche e si sprecano gli elogi alla frugalità e alla modestia dei costumi (Diogene vive in una botte). È evidente il tentativo di tenere sotto controllo il potenziale esplosivo contenuto nell'improvviso ed eccezionale approfondirsi delle disuguaglianze economiche, fenomeno quasi sconosciuto prima del 700 a.C., perché è il denaro che permette un accumulo pressoché illimitato della ricchezza. Così si cerca di gratificare, almeno moralmente, chi è povero. È allora che si crea quell'etica della povertà dignitosa, peraltro assai utile per dare senso e orgoglio all'esistenza dei ceti popolari, e quindi a milioni di individui, che sia pur fra alti e bassi durerà fino all'avvento della Riforma e dell'industrialismo, ma che nei Paesi cattolici giungerà
a lambire i nostri giorni, come in Italia dove era ancora ben presente negli anni Cinquanta prima che il boom economico e il denaro rompessero tutti gli argini e si affermasse definitivamente il principio che solo chi ha è. In sostanza l'arrivo del denaro, come sempre accade nel passaggio da un'economia naturale a una monetaria, portò a un certo livellamento delle caste, nel senso che si fecero un po' meno marcate le distanze segnate dalla nascita e dal sangue, ma aumentò in parallelo le disuguaglianze economiche, fra ricchi e poveri, che divennero enormi. E forse ancor più intollerabili, perché mentre non si è responsabili di non essere nati da nobili lombi, cominciò allora, nonostante i sofisti, a insinuarsi il frustrante e livoroso sospetto, che il protestantesimo doveva in seguito elevare a teoria, che se uno è povero lo è per colpa sua. Tuttavia nel periodo del cosiddetto «capitalismo andrò» il denaro non potè dispiegarsi appieno. Perché incontrava limiti di vario genere. Lo scambio in natura non scomparve affatto ma mantenne un posto rilevante. Molti nuclei familiari, clan e realtà locali rimanevano autosufficienti e non avevano bisogno dello scambio e quindi del denaro. Inoltre il popolino, vale a dire la massa, ebbe sempre una istintiva diffidenza per questo strumento e vi ricorreva solo se costretto, preferendogli di gran lunga il baratto, che continuò a praticare anche quando la moneta coniata e garantita dallo Stato esisteva ormai da secoli32. In certe realtà agricole il baratto sistematico è restato in uso fin quasi ai nostri giorni. Il commercio internazionale, fra polis e polis, fra Stato e Stato, si faceva ancora con il tradizionale scambio di doni e controdoni oppure attraverso il baratto secondo il collaudato metodo delle equivalenze. Solo una parte si svolgeva in moneta. C'erano poi i limiti posti al sistema di mercato e quindi, indirettamente, al denaro che solo nel meccanismo
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domanda-offerta-prezzo esala il proprio ruolo. Le resistenze erano sociali, ideologiche e diciamo pure morali. Per Piatone e Aristotele lo stesso luogo del mercato era sospetto, qualcosa di impuro, Piatone insisteva, con tutta la sua autorevolezza, affinchè i giuramenti fossero banditi dal mercato e fosse interdetto ai cittadini di elevato status di concludervi affari perché ciò non era degno del loro rango. Aristotele sollecitava la cacciata del mercato dall'agorà, luogo deputato della politica, e voleva addirittura che ai mercanti fosse tolta la cittadinanza. Fu Aristotele ad avvertire per primo i rischi del sistema di mercato basato sulla libertà della domanda e dell'offerta. E fu il primo a fare la fondamentale distinzione fra produzione per l'uso e produzione per il profitto, condannando il secondo in quanto fattore di disgregazione poiché «non naturale all'uomo»33. Aristotele non negò totalmente la validità del mercato e del denaro, ma sostenne che dovevano rimanere elementi accessori dell'economia familiare (oikonomia) tendenzialmente autosufficiente. Se invece denaro e mercato, e con essi la produzione per il profitto, avessero prevalso, l'economia familiare e per l'uso ne sarebbe uscita fatalmente distrutta. Sulla base di questi presupposti Aristotele elaborò una teoria del «giusto prezzo» (nella sostanza un prezzo politico) su cui si doveva fondare buona parte della dottrina economica di Tommaso d'Aquino e della Chiesa durante il periodo medievale. Il pensiero dei filosofi, che avevano una grande influenza, si trasfondeva nella politica. Sia in Grecia che poi in Roma il libero gioco del mercato era ostacolato dal sistema della pianificazione e della redistribuzione ereditato dagli antichi Imperi che non fu abbandonato nemmeno nel periodo d'oro del «capitalismo antico». Scrive Rostovtzeff: «Una delle principali caratteristiche dello sviluppo economico del mondo antico è costituito dal ruolo di direzione svolto dallo Stato... la polis pra-
ticava un'interferenza dello Stato nell'attività economica degli individui in misura che non ha uguale nello sviluppo economico moderno. E questa interferenza non è secondaria né costituiva un ostacolo insignificante allo sviluppo dell'economia privata: essa è l'attività che domina e dirige. "La redistribuzione della terra e l'abolizione dei debiti" non era soltanto uno slogan rivoluzionario; era un evento rilevante, anche se penoso, nella vita economica della maggior parte delle città greche»34. I1 controllo dello Stato si esercitava soprattutto sul grano e su altri beni di prima necessità. In Grecia una buona parte del grano importato veniva redistribuito gratuitamente alla popolazione o venduto a prezzo «politico» molto inferiore a quello «di mercato». Per esempio la città di Lagina acquistava dai mercanti privati, ai prezzi vigenti, tutti i cereali di cui aveva bisogno e li rivendeva ai suoi cittadini al «giusto prezzo» di cinque dracme per medimmo. In altre città greche i magistrati facevano invece appello all'etica, all'orgoglio, alla vanità dei mercanti (in loro onore si emanava un editto) per convincerli a vendere i cereali al prezzo convenzionale di cinque dracme. In diverse città i prezzi del grano, del frumento, della farina erano fissati per legge e funzionari delle città-stato controllavano, sul luogo del mercato, che fossero rispettati. Ad Atene, almeno per un certo periodo (IV secolo a.C), si stabilì che il profitto del mercante fra il prezzo di acquisto e di vendita non potesse superare una certa percentuale (non più di un obolo al medimmo al di sopra del prezzo di acquisto originario). Sempre ad Atene, una legge, per evitare l'accaparramento, vietava di acquistare più di cinquanta misure di cereali alla volta. In Attica erano proibite le esportazioni di grano, per chi trasgrediva c'era la pena di morte. E la morte era prevista anche per il cittadino ateniese che avesse acquistato grano in qualsiasi altro luogo che non fosse il Pireo.
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culturalmente importante ma territorialmente limitata, de1 mondo antico, quella sotto l'influenza greco-romana. E nemmeno tutta. Vaste aree rimasero sostanzialmente estranee e indifferenti al denaro e al mercato. Babilonia continuò a non avere una moneta come intermediario nello scambio, in Egitto, anche sotto Roma, resisteva un'economia in larga misura pianificata dove il denaro aveva scarsa importanza, mentre nelle numerosissime realtà tribali inglobate nell'Impero prevaleva l'economia naturale. E in tutto il resto del vasto mondo, esclusa la Cina, si continuava a vivere di baratto. Bisognerà aspettare la Rivoluzione industriale perché il denaro, in due secoli di galoppante escalation, conquisti l'intero globo.
Anche Roma importava il grano e lo distribuiva gratuitamente o lo vendeva sottocosto. Lo stesso sistema, a partire dalla fine del II secolo a.C., vale anche per il sale. Con l'ultimo secolo della Repubblica, dopo le grandi conquiste, il problema fu risolto alla radice prelevando forzosamente il grano dalle province sottomesse e distribuendone una patte gratuitamente o semigratuitamente alla plebe dell'Urbe (plebs frumentaria) la cui popolazione era aumentata a dimensioni metropolitane e non era più in alcun modo autosufficiente35. Alla luce di tutti questi dati si discute fra gli storici dell'economia se nel cosiddetto «capitalismo antico» prevalesse ancora l'economia naturale o fosse stata soppiantata da quella di mercato a base monetaria. Per Karl Polanyi «il mercato non fu mai altro che un accessorio»36. Secondo Heichelheim invece il sistema di mercato e lo scambio in denaro erano ormai dominanti, anche se al loro fianco rimaneva una consistente economia naturale. Di questa opinione è Rostovtzeff, per il quale l'ellenismo e soprattutto la Roma del Principato stavano per dar vita a un capitalismo industriale e monetario del tutto simile al nostro se non ci fosse stato il crollo dell'Impero37. In una posizione intermedia si colloca Max Weber, secondo il quale nella Grecia classica e in Roma ci fu un'economia su base prevalentemente monetaria ma non paragonabile al moderno sistema di mercato in quanto le interferenze dello Stato erano determinanti38. A me pare di poter dire che nonostante l'economia monetaria fosse indubbiamente diffusa non permeò di sé la mentalità dell'epoca e che lo spirito del denaro, soprattutto là dove è tendenza al risparmio, all'accumulo e speculazione sul futuro, coinvolse soltanto ristrette élites e rimase sostanzialmente estraneo alla maggioranza degli individui. In ogni caso il sistema del denaro e del mercato fu geograficamente circoscritto. Riguardò solo una parte,
Il «capitalismo antico» durò fino alla fine del II secolo dopo Cristo. Poi il sistema della redistribuzione centralizzata, praticata soprattutto, anche se non esclusivamente, in natura, riprese gradualmente il sopravvento. Dall'annona (il grande magazzino di Roma) il grano e molti altri beni di prima necessità, alimentari e non (olio, vino, pesce essiccato, pelli, stoffe, metalli), prelevati sotto forma di tasse dalle province, venivano distribuiti all'esercito e anche ai civili gratuitamente o in corrispondenza di servizi oppure contro altri beni39. Con Settimio Severo, agli inizi del III secolo d.C., a causa dell'inflazione permanente, i soldati non vengono più pagati in moneta ma fornendo loro alimenti e vestiario. Nacque così l'annona militaris, una tassa in natura imposta non più solo alle province ma anche agli Italici. La devastante inflazione del m secolo convinse alla fine gli imperatori ad abbandonare in buona parte la moneta coniata per sostituirla con la vecchia moneta-merce, costituita sia da metalli preziosi (soprattutto oro), valutati a peso, che da altri beni. Con Diocleziano i diritti dello Stato sulla proprietà privata, soprattutto quella della terra, mai completamente abbandonati, vennero
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1 Secondo alcuni i primi a coniare moneta sarebbero stati i Cinesi intorno al 1000 a.C., cioè con tre secoli di anticipo sui Lidi. Tuttavia è dubbio che quelle dei Cinesi fossero monete vere e proprie. Infatti nonostante portino segni che ne indicano il valore e fossero eseguite su richiesta del governo, erano fuse in stampi a forma di coltelli, conchiglie e utensili agricoli, tutti oggetti di primaria importanza nel baratto. R.G. Doty, La storia della moneta, Vallardi 1992, p. 9. 2 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 194. 3 Esiodo, Le Opere e i Giorni, w. 346-348. " Ibid., w. 349-351. ' Ibid., w. 371-372. 6 Ibid., v. 375. 7 Ibid., w. 20-25. 8 Ibid., v. 314.
'' F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit, pp. 374-375. '" K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 192. " Id., Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., pp. 27-28. '- Enciclopedia dell'economia, Garzanti 1992, voce prezzo, p. 866. " M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 89, n. 1. 14 Ad Atene, a differenza che in Lidia, furono i nobili a garantire il peso il fino delle monete d'argento emesse da numerose piccole zecche cittadine. Si deve al tiranno Pisistrato la creazione della Zecca di Stato unica e con essa Li coniazione delle monete attiche contrassegnate dalla classica civetta. F.M. I Idchelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 343. 15 Ibid., p. 175. 16 «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse... allo straniero potrai prestare a interesse», Deuteronomio, 23, 20-21. 17 In India l'economia monetaria conviveva con quella naturale a partire 'lai secoli immediatamente precedenti la nascita di Cristo. A. Dopsch, Economia naturale e economia monetaria, Sansoni 1967, p. 51. 18 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 549. 19 Isocrate, Trapezites, xvn, 35-37. 20 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., pp. 478-480. 21 Polieno, Gli stratagemmi, in, 10, 1 22 La Cina fa parte a sé. Qui la cartamoneta era in uso già nel n secolo <lopo Cristo ad opera di privati. Dal ix secolo lo Stato si impadronisce del sistema e comincia a emettere cartamoneta a suo piacimento. Nel xm secolo, all'epoca di Marco Polo, la produzione cartacea era diventata impressionante rd erano in circolazione anche dei veri e propri assegni, nel senso che intendiamo noi, che potevano essere cambiati in argento alla banca cui venivano presentati. Il tutto provocò un'inflazione dell'80% e oltre, inaudita per i tempi, e convinse la dinastia Ming, agli inizi del xv secolo, ad abolire la cartamoneta e a sostituirla con l'argento. Di banconote non si parlò più per alcuni secoli (A. Dopsch, Economia naturale e economia monetaria, cit., pp. 42-43). Storia diversissima ha il vicino Giappone dove l'economia naturale, cioè non monetaria, predominò fino al xvni secolo come del resto avviene sempre in una società a struttura feudale. Fino a quella data il popolo adottò come moneta il riso e molto spesso praticava il baratto puro e semplice senza ricorrere ad alcun intermediario. Ibid., pp. 44-45. 23 Lo stesso processo si ebbe nel Medioevo, non per nulla il termine banca viene da banco di cambio. 24 Obolostates ha anche il significato, eloquente, di usuraio. 25 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., pp. 325-326. 26 F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 647. 27 Ibid., p. 647. 28 Ibid., p. 489. 29 Ibid., p. 492. 30 Ibid., p. 494. 31 Ibid., p. 635. 32 Ibid., p. 216. 33 Aristotele, Politica, i, 9, 1254 a, 6-10. 34 M. Rostovtzeff, The Decay of thè Ancient World and Its Economie Explanations, in «Journal of Economie and Business History», n, 1930, pp. 204-206. 33 Ciò creò nella città di Roma un vasto ceto parassitario («assistito» di-
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rimodellati e rafforzati. Sotto l'influenza del cristianesimo il prestito a interesse fu osteggiato in tutti i modi. Sempre per reagire all'inflazione Diocleziano introdusse un nuovo sistema di tassazione (captatio e iugatio) per cui la maggior parte delle entrate e delle uscite dello Stato avveniva in natura. Ciò si ripercosse anche sulle contrattazioni private dove tornò in auge il baratto. Poiché in quel che restava dell'economia monetaria l'inflazione continuava a creare gravi problemi, nel 301 Diocleziano emanò un Edictum de pretiis che fissava i prezzi e i salari massimi. Malgrado le pene severissime l'editto rimase, in buona parte, lettera morta perché le merci scomparivano dal mercato. Ciò però non fece che aumentare la diffidenza verso il denaro. Insomma si stava ritornando all'economia naturale e ai sistemi pianificati degli antichi Imperi orientali. Il processo fu accelerato e, se mi è concesso l'ossimoro, reso per il momento definitivo dal crollo dell'Impero e dal suo frantumarsi in tante piccole realtà locali. Era iniziato il Medioevo. Il denaro scomparve quasi completamente dalla circolazione e conobbe un'eclisse che, in Occidente, doveva durare quasi mille anni. Ma non era morto. Era solo «in sonno».
remmo oggi), ozioso e turbolento che divenne presto un grave problema sociale e di ordine pubblico. 36 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 214. 37 M. Rostovtzeff, Storia economica e sodale del mondo antico, La Nuova Italia 1966, voi. in, pp. 594 ss. 58 M. Weber, Economia e società, cit., cap. VTII. La tesi di Dopsch è invece che non è mai esistita un'economia esclusivamente naturale, così come non è mai esistita, e non esiste, un'economia esclusivamente monetaria. A. Dopsch, Economia naturale e eanomia monetaria, cit. " M. Rostovtzeff, Sferia economica e sociale dell'Impero romano, La Nuova Italia 1965, pp. 135-Ì39.
VI.
«IN SONNO»
Con l'Impero crolla anche l'economia monetaria. Le invasioni barbariche, quella dei Visigoti su tutte, sono state devastanti. Scompaiono intere città, Milano è rasa al suolo, Roma e Napoli saccheggiate e rese deserte, altri centri, in Italia come nel resto d'Europa, si spopolano per il timore della fame. La gente torna alle campagne. Non ci sono più strade e la possibilità degli scambi è ridotta al minimo. Si sbriciola anche la sofisticata impalcatura giuridica e amministrativa che aveva tenuto insieme l'Impero, non c'è più alcun potere in grado di far rispettare le leggi, l'incolumità fisica non è garantita da nessuno. La popolazione cerca rifugio dove può. Così intorno alle poche grandi villae dei possidenti rimaste in piedi si stringono non solo i loro dipendenti diretti ma anche i piccoli proprietari, i contadini liberi e chiunque voglia trovare protezione. È questo il nucleo originario della Signoria e del feudo, un istituto che informerà l'intero Medioevo e le cui propaggini arriveranno fin quasi ai nostri giorni. Anche i monasteri assumono questa funzione di protezione. E ogni singola villa, Signoria, feudo, monastero tende, per necessità di cose, all'isolamento. Si torna quindi all'autarchia, all'autosufficienza, all'autoconsumo, alla produzione per l'uso. La descrizione della vita di un monastero ci può dare l'idea di come fossero organizzate queste unità economiche. Scri-
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ve Luzzatto: «Come la villa romana, il monastero ha i suoi granai, i magazzini, le cantine, in cui si conservano i prodotti dell'economia diretta o le quote prestate dai poderi tributari; le sue stalle, i suoi piccoli opifici artigiani, dove i monaci stessi e un certo numero di servi producono una gran parte degli oggetti che possono essere necessari alla vita quotidiana del monastero e della popolazione dipendente, raggiungendo quel minimo grado di autosufficienza economica che in un periodo di decadenza dello Stato e di decadenza delle città era indispensabile»1. All'interno del feudo, della Signoria, del monastero il flusso delle merci e dei servizi avviene esclusivamente in natura: il signore concede la terra e il contadino lo ripaga con le corvées e una quota del raccolto, l'artigiano scambia i suoi manufatti con cibo e altri prodotti, oppure il contadino e, più raramente, l'artigiano lavorano alle dirette dipendenze del signore che in contropartita li nutre e li veste, gli fornisce, come si diceva allora, la «provenda». È la cosiddetta economia curtense. Anche ad alto livello non si usa il denaro. Nel 1049 la contessa di Angiò, Agnese, per acquistare un abito sacro da un prelato e donarlo ai monaci de La Trinité de Vendome lo paga la bellezza di 200 pecore, un moggio di frumento, uno di segale, uno di miglio e alcune pelli di martora 2 . Il meccanismo economico è lo stesso in ogni gradino della gerarchia feudale. Anche il re se vuole, poniamo, assicurarsi i servigi di un alto ufficiale non ha che due vie: o lo assume direttamente e lo mantiene o gli cede la terra. Lo stesso deve fare il grande feudatario con l'uomo d'armi. Ciò creerà la filastrocca dei vassalli-valvassori-valvassini e quel proliferare dei feudi e dei castelli che porterà, alla fine, allo sfibramento e allo smantellamento della stessa economia curtense che ha bisogno, per esistere e resistere, del latifondo. Il denaro non scomparve del tutto. Era ancora usato,
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d'abitudine, nella sua funzione di misura dei valori e molto più raramente come mezzo di scambio sui mercati locali, con una circolazione limitatissima (praticamente quasi ogni feudo batteva una propria moneta che aveva validità solo al suo interno). La sua influenza sull'economia era pressoché nulla. Come scrive Mare Bloch: «La società di quel tempo non ignorava completamente la compera né la vendita. Ma non viveva come la nostra di compera e di vendita»3. Dopo l'anno Mille si assiste a una graduale rinascita delle città. Ci sono ragioni esterne come la definitiva liberazione dalla minaccia degli Arabi e degli Ungari che rende meno necessaria la protezione del signore. Ma le più importanti sono interne alla società e all'economia feudale. Il continuo frazionamento dei latifondi, dei feudi, delle proprietà ecclesiastiche e il fatto che, da un certo momento in poi, fra il signore e il lavoratore dipendente si inserisca un nuovo soggetto, cioè una numerosa e forte classe di concessionari, che non sono nobili e hanno una mentalità assai diversa da questi, molto più speculativa, incrina l'unità, la coerenza, l'equilibrio, l'autosufficienza dell'economia curtense. La situazione induce numerosi coltivatori a orientarsi verso la città. Infatti non trovano più nelle curtis tutto ciò di cui hanno bisogno e sono sempre più frequentemente costretti a rivolgersi al mercato cittadino, per quel che ne era rimasto. Inoltre la loro condizione è notevolmente peggiorata: invece di dipendere da una chiesa, da un monastero o da un feudatario lontano e in genere, com'era caratteristica della nobiltà del tempo, non particolarmente attento ai propri conti4, adesso sono sottoposti a un concessionario vicino, che gli sta col fiato sul collo, interessatissimo ad aumentare la propria rendita e quindi deciso ad esercitare i suoi diritti in modo fiscale e micragnoso. Abbiamo un'eco di questo cambio di metodi e di mentalità nelle lagnanze, che hanno inizio proprio in
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questo periodo e che diventano via via sempre più vibranti, contro le esazioni arbitrarie, le superimpositiones, le malae consuetudines. Coloro che possono, o i più volitivi, lasciano la campagna e cercano aria in città, dove diventano, in genere, artigiani. Anche parecchi signori, non i grandi ma i medi e piccoli proprietari terrieri, prendono casa in città, o stabilmente o risiedendovi una parte dell'anno. Tutto ciò aumenta l'importanza del mercato cittadino attirandovi così altra gente con un movimento che a partire dal 1100 diventa consistente. Si calcola che da questa data al 1250 molte cittadine siano salite dalle 5/6 mila anime alle 30 mila e oltre. Nasce così, in Italia, il Comune, che ai suoi inizi è un'associazione privata formata da proprietari terrieri inurbati e da mercanti che accanto alla loro attività e grazie ad essa si sono comprati della terra. Costoro mettono appunto in comune i propri diritti e poteri di carattere feudale facendoli gestire da dei rappresentanti scelti elettivamente (i consoli). In seguito, abbastanza presto, il Comune diventa uno Stato vero e proprio che non rappresenta più una consorteria ma tutti i cittadini. Nel XIII secolo il Comune è già la realtà dominante nell'Italia centrale e del Nord-Est, le regioni, insieme alle Fiandre, economicamente più attive d'Europa. Con l'affermarsi del Comune in Italia e la rinascita delle città nel resto d'Europa 5 , il denaro, dopo quasi mille anni di sonno completo, torna sulla scena e si formano due economie parallele: quella cittadina, monetaria, e quella della campagna che resta naturale. Ovviamente la separazione non è assoluta. Da una parte infatti l'organizzazione economica delle città tende a coinvolgere la campagna e a eroderne l'autosufficienza. Sempre più spesso per procurarsi certi beni e servizi il contadino deve ricorrere al mercato cittadino e quindi usare la moneta, cosa che lo costringe anche a produrre non più solo per il suo uso e consumo ma a crearsi delle
eccedenze per poter accedere allo scambio. Lo fa perché vi è obbligato. Infatti anche il contadino europeo, come già la plebe di Roma e della Grecia antiche, ha, e conserverà sempre, un'enorme diffidenza per l'economia monetaria e di mercato. Così si esprimono, nel XVI secolo, alcuni vecchi contadini bretoni: se nelle dimore contadine c'è tanto meno abbondanza è perché «quasi non si permette a polli e a paperi di giungere a perfezione per portarli a vendere al mercato della città per consegnar denaro al signor avvocato o al medico, persone... fino a ieri sconosciute; all'uno perché maltratti il proprio vicino, lo spogli dell'eredità, lo faccia mettere in prigione; all'altro perché guarisca da una febbre, ordini un salasso (che la Dio mercé non ha mai provato) o un clistere; da tutte le quali cose la buonanima di Tiphaine La Bloye guariva senza tanti scarabocchi, imbrogli, antidoti e quasi per un Pater noster»6. Questo è un sentimento comune nell'Europa rurale del tempo e rimarrà a lungo nelle campagne anche quando, con la Rivoluzione industriale l'economia monetaria diventerà egemone. Ma anche per chi noti è contadino, a meno che non si tratti di mercanti, di banchieri, di gabellotti, di gente insomma che maneggia il denaro per professione, la moneta resta «una cabala intesa da pochi»7. Non è assolutamente il caso però di esagerare la presenza dell'economia monetaria nelle campagne prima della Rivoluzione industriale. Agli inizi del 700 si può ancora affermare: «Le variazioni della moneta non interessano la maggior parte dei contadini, i quali non posseggono numerario»8. La notazione è relativa alla Borgogna ma ha validità generale. E a metà esatta del 700, nel 1751, un economista attendibile come Ferdinando Galiani scrive: «I contadini, che costituiscono i tre quarti del nostro popolo, non regolano la decima parte dei loro consumi in denaro contante»9. D'altro canto nemmeno tutta l'economia cittadina è
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monetaria: «Sfuggono alla moneta i contadini, i salari in natura (lardo, sale, carne salata, vino, olio); non vi partecipano se non di sfuggita i salari degli operai delle industrie tessili, dei saponifici, delle distillerie di alcol a Napoli e altrove. Gli operai di queste industrie partecipano sì a distribuzioni di monete che però vengono rapidamente spese, il tempo di andare "dalla mano alla bocca"»10. Ciò che Braudel osserva per Napoli e il suo contado è quando avviene in tutte le città europee. Infatti nei primi secoli del basso Medioevo e in quelli iniziali dell'età moderna la città è ancora molto integrata alla campagna, non è fatta, come ai nostri giorni, solo di cemento e di edifici, ma comprende moltissimi orti e campi che gli abitanti coltivano per il proprio consumo o scambiandone i prodotti nella forma del baratto. La divisione del lavoro fra cittadini che producono manufatti e commerciano e contadini che forniscono le derrate alimentari non è così netta come diverrà poi. Molti «cittadini» sono in realtà dei contadini che lasciano la città la mattina per andare a lavorare la terra e vi rientrano la sera. Costoro scambiano per lo più in natura. I proprietari e i grossi coltivatori che risiedono in città vivono essenzialmente dei prodotti delle proprie terre e ne dirottano solo una parte al mercato. E anche quando, più tardi, la divisione del lavoro fra città e campagna si farà più rigida, almeno per i centri maggiori, la città conserverà comunque una certa quota di economia naturale. Né si deve dimenticare che nell'Est europeo la Signoria dura fino al XVIII secolo e oltre e che qui, come sempre nell'economia curtense, la circolazione monetaria è nulla11. Inoltre nell'Europa occidentale una parte molto rilevante del commercio internazionale, almeno fino alla metà del '500, si basa sul baratto. Venezia, Genova, Pisa, le grandi città mercantili del tempo, si trovano in
questa situazione: hanno un retroterra barbaro, feudale, ad economia naturale, ma ricco di materie prime, e commerciano con l'Oriente che ha invece un'economia monetaria e produce beni di lusso. Fungono quindi da intermediari fra realtà molto diverse, fra loro non comunicanti. I mercanti quindi portano in Oriente beni non di lusso (grano, lana, vetro) e li barattano con beni di lusso (seta, spezie, aromi) che vendono, sempre nella forma del baratto, ai ricchi signori feudali e alle loro corti in cambio di grano, lana, eccetera. Per tutto il Medioevo e fin ben dentro il XVIII secolo l'economia monetaria resta quindi largamente minoritària rispetto a quella naturale. Epperò è proprio nel basso Medioevo che fanno il loro ingresso tre novità che avranno un'importanza decisiva nello sviluppo successivo del denaro. La prima, e determinante, è l'affermarsi della figura del mercante. Il mercante, come sappiamo, aveva fatto la sua comparsa più o meno in parallelo con l'invenzione della moneta coniata, cioè, in Europa, a partire dal VII secolo a.C. Ma non era mai riuscito a conquistare, come ceto, dignità sociale. Pressoché presso tutte le culture la figura del mercante era stata sempre marchiata da un profondo disprezzo. Non tanto per un ricordo atavico del fatto che i primi mercanti erano stati dei pirati12, questo poteva anzi essere, nella mentalità antica (e forse anche moderna) un motivo di appeal, quanto perché presso tutte le culture preindustriali, d'Oriente come d'Occidente, si è sempre pensato che ci sia qualcosa di marcio e di meschino nel comprare e vendere oggetti a fini di guadagno. L'attività del mercante è quindi sempre stata sentita come immorale, laida, vile e comunque indegna di un animo nobile. I primi mercanti che operano nell'Ellade non sono greci ma stranieri (tafi, fenici, lemnii, ciprioti, siculi) o meteci. In seguito i greci che si dedicano al commercio
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provengono dai ceti più poveri e diseredati e non si elevarono mai, nella considerazione sociale se non nelle ricchezze, nemmeno al livello della classe media che secondo Aristotele era formata esclusivamente da proprietari terrieri. Nell'Atene del v secolo a.C., che pur era allora il più importante centro commerciale del mondo occidentale, si disprezza il mercante perché non agisce per dovere o per onore, che sono i valori condivisi del tempo, ma per guadagno e per denaro e quindi la sua quotazione sociale non potrebbe essere più bassa. Il kapelos, piccolo commerciale al dettaglio, è una macchietta abituale del teatro di Aristofane (seconda metà del v secolo a.C.), che ne fa oggetto di ogni sorta di sberleffo da parte del popolo. Il termine kapelos ci aveva infatti messo pochissimo a diventare «sinonimo di impostore, frodatore e baro»13. In India era fatto assoluto divieto ai brahmani di acquistare alcunché con denaro, mentre era ammesso il baratto «puro», alla pari, senza guadagno. In Giappone il samurai riteneva vergognoso toccare la moneta e se gli veniva donata lo considerava un grave affronto. Addirittura il samurai non può nemmeno parlare e persine pensare in termini di denaro14. Anche nella società romana, che fu la più materialista del mondo antico e per molti versi, compresa la corruzione, la più vicina alla nostra, la classe dei mercanti non raggiunse mai il livello sociale dell'aristocrazia. Negli ultimi secoli dell'Impero i Padri della Chiesa avevano condannato senza appello l'attività dei commercianti, benché allora ce ne fossero assai pochi, e secondo San Giovanni Crisostomo dovevano essere espulsi dalla casa di Dio. Del resto aveva provveduto Gesù Cristo a dare l'esempio cacciando a frustate i mercanti dal Tempio. È scritto nel Vangelo di Matteo: «Gesù entrò poi nel Tempio e scacciò tutti quelli che trovò a comprare e a vendere; rovesciò i tavoli dei cambiavalute
e le sedie dei venditori di colombe». E concluse l'happening con queste terribili parole: «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri»15. Ma anche durante il basso Medioevo tutti i lacci e lacciuoli che la Chiesa, attraverso le elaborazioni di San Tommaso d'Aquino e dei suoi discepoli, cercò di mettere al commercio, soprattutto con l'obbligo del «giusto prezzo» e il divieto del prestito a interesse (economia tomista), obblighi e divieti che venivano recepiti dagli ordinamenti pubblici, ci dicono che l'attività dei mercanti, nonostante avesse ormai un grande rilievo economico, era vista con molto sospetto. Luterò - e siamo già fuori del Medioevo - va giù piatto, secondo lui «i commercianti rapinano tutti i giorni tutto il mondo»16. Persino Adam Smith (1723-1790), il fondatore della teoria economica moderna, non ha una grande opinione dei commercianti, almeno di quelli della sua epoca, di cui denuncia la «bassa rapacità» e le truffe a danno della collettività17. Ed è un modo di pensare che doveva essere condiviso dai suoi contemporanei se nell'Inghilterra del XVIII secolo, la più avanzata società mercantile del tempo, soltanto il grande commerciante poteva raggiungere uno status apprezzato dalla comunità e solo se si nobilitava entrando nella gentry. Fino al Reform Atc del 1832 la classe media commerciale inglese non si vide riconosciuto alcun ruolo sociale18. In verità il mercante si nobilita veramente solo dopo la Rivoluzione industriale, quando diventa imprenditore19, non solo e forse non tanto perché nel frattempo è mutata, insieme al sistema economico, la mentalità, ma anche perché alcuni elementi della sua attività, come le dimensioni e l'organizzazione dell'azienda, la trasformazione dei prodotti, il suo ruolo di capitano d'industria e di uomini, rendono meno percepibile che, nell'essenza,
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il suo resta pur sempre un comprare e un vendere. Residui dell'attica ostilità nei confronti di chi fa commercio resistoio persine oggi, in pieno trionfo del mercato, e si possono cogliere nell'accezione negativa che si da tuttora al termine «bottegaio». Ad ogni buon conto, nonostante tutte queste ostilità e diffidenze e le pesanti limitazioni poste al commercio dalla Chiesa, fra Γχι e il xn secolo si forma, per la prima volta nella Storia, una forte e organizzata classe di mercanti che si consolida ulteriormente nel xm e xiv secolo con la definitiva affermazione dei Comuni in Italia e il rifiorire e l'espandersi delle città nel resto d'Europa. La fortuna del mercante è infatti strettamente legata alla città perché questa non è autosufficiente. I suoi abitanti devono approvvigionarsi, in larga misura, sul mercato e il mercato, lo dice la parola stessa, vuoi dire mercante. Ma quello che da il tono alla categoria non è il bottegaio che esercita la vendita al minuto sulla piazza cittadina, che resta un poveraccio come già lo era stato il kapelos greco e come sostanzialmente, eccezioni a parte, lo rimane oggi (pur essendosi nobilitato a negoziante: uno cioè che ha un negozio, quattro mura fra cui esercitare la sua attività), ma il mercante che si collega alle piazze e alle fiere di altre città, anche molto lontane, portandovi quelle merci che la produzione locale e la campagna circostante non possono offrire. È insomma il cosiddetto «grande mercante», predecessore dell'imprenditore moderno. Questo soggetto appare sulla scena quando la città è costretta dall'evoluzione economica e sociale ad aprirsi via via a un mercato sempre più vasto, cioè a partire dal xii secolo. Prima infatti la città, a causa delle forti ostilità esistenti fra i vari campanili, tende a rinserrarsi in se stessa e a limitare gli interscambi alla campagna circostante o poco più. Nel xii secolo si nota che numerosi gruppi di mercanti di Asti, di Chieri, di Piacenza, di Lucca, di Siena,
cominciano a frequentare le fiere della Francia meridionale, di Parigi, della Champagne e più tardi di Bruges e di Londra. In questi primi secoli dello sviluppo mercantile è infatti l'Italia del nord il centro dell'economia europea e mondiale (in seguito verrà soppiantata dall'Olanda e poi dall'Inghilterra). Molti di questi mercanti partecipano fin dai primi tempi al governo dei Comuni insieme alla aristocrazia fondiaria, altri si aggiungeranno in seguito occupando alte cariche pubbliche. E a Firenze, a cavallo fra il xiv e il xv secolo, una famiglia di mercanti e di banchieri, i Medici, diventerà la padrona assoluta della città. È un caso unico, a questo livello, ma è il segno, come scrive Werner Sombart, che si stava passando lentamente «dalla ricchezza basata sul potere al potere fondato sulla ricchezza»20. Anche quando non sono direttamente classe dirigente i mercanti, divenuti un solido ceto medio che fa parte del cosiddetto «popolo grasso», sono pienamente in grado di far valere i propri interessi, che peraltro coincidono, almeno dal punto di vista economico, con quelli della città. Scrive Gino Luzzatto: «Di fronte alla campagna si instaura una politica di sfruttamento sistematico ad esclusivo vantaggio dei produttori e dei consumatori cittadini... considerando la campagna come un proprio dominio coloniale destinato al proprio vettovagliamento e allo smercio dei suoi prodotti industriali»21. I mercanti cercano anche di ostacolare in tutti i modi la produzione domestica delle campagne - che per il contadino significa autosufficienza - perché danneggia il mercato e quindi i loro affari. Del resto, all'epoca, i mercanti sono la classe egemone in campo economico22, sia perché la produzione industriale non è ancora sviluppata sia perché hanno il controllo di quella che c'è. È infatti quasi sempre il mercante che, per esempio nel settore laniero allora dominante, fornisce la materia pri-
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ma ai lavorator e alle lavoratrici a domicilio. Siamo alle soglie dell'imprenditore capitalistico, ma senza superarle, perché l'investimento è minimo, dato che i macchinari sono molto semplici e poco costosi (nel caso della lana si tratta di telai che spesso il lavoratore possiede già di suo) e il rischio è quasi nullo poiché la domanda è ristretta e il mercante può calibrare alla perfezione l'offerta23. L'ascesa del mercante significa ascesa contestuale del denaro perché, come scrive Sombart, l'attività del mercante «viene dal denaro e al denaro ritorna»24. Anzi nel mestiere del mercante il contatto col denaro è più diretto, immediato e costante che in qualsiasi altra professione (imprenditore compreso) se si esclude quella del finanziere. E in questa prima fase, in cui l'attività creditizia e finanziaria non ha ancora una sua precisa fisionomia e autonomia, il mercante è quasi sempre anche banchiere. Ma il fatto veramente dirompente è che col mercante dell'ultimo Medioevo nasce anche un tipo d'uomo completamente nuovo, una figura sconosciuta alle società precedenti: il borghese. Max Weber e Werner Sombart ci hanno fornito un elenco dettagliato delle attitudini del borghese ai tempi di quello che viene chiamato il «capitalismo commerciale» o il «primo capitalismo»25: individualista, inquieto, industrioso, attivo, anzi superattivo, doyeristico, razionale, calcolatore, metodico, ordinato nelle sue cose, costante, frugale, moderato, parsimonioso, timorato di Dio e, infine, amante del rischio ma «con juicio». E certamente queste sono le caratteristiche del borghese, ma esistevano anche prima seppur non tutte concentrate, forse, nello stesso individuo. Ciò che qualifica il borghese è altro. Non si tratta della sete di guadagno in sé e per sé. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro... si ritrova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati cor-
ruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men, in tutte le epoche, in tutti i paesi della terra; dove c'era e c'è la possibilità obbiettiva»26. La novità è che il borghese, il mercante, orienta, in modo sistematico, tutta la sua attività al guadagno attraverso il lavoro. Questo fatto, che a noi oggi sembra scontato, è la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali sui quali l'uomo aveva vissuto per migliaia di anni. Infatti nella cosiddetta società «tradizionalista» (vale a dire in tutti i tempi che hanno preceduto l'affermarsi della borghesia) gli uomini lavorano soltanto per quel che loro basta a mantenersi. Il lavoro serve solo alla copertura del fabbisogno. Il resto è vita. Non che il contadino e soprattutto l'artigiano non amino la loro attività, anzi l'attaccamento ai propri prodotti è uno dei motivi per cui riluttano a creare eccedenze e a venderle sul mercato. Infatti, a differenza dell'operaio industriale e della stragrande maggioranza dei lavoratori odierni, sentono ciò che producono parte di se stessi (un po' come i primitivi sentivano l'oggetto un prolungamento della persona), frutto della loro creatività, ci sono attaccati emotivamente e non hanno granché voglia di disfarsene. Scrive Sombart: «II lavoro del vero contadino, come quello del vero artigiano, consiste in un'opera solitària: egli si dedica alla sua attività in silenzio e lontano dal resto del mondo. Egli vive della sua creazione come vi vive un artista, e preferirebbe non cederla neppure al mercato. Tra le lacrime della contadina la mucca prediletta viene portata fuori dalla stalla e avviata al macello; il vecchio incisore lotta per la sua pipa che il commerciante vuole comprargli»27. La descrizione è un po' enfatica ma corrisponde alla mentalità dell'epoca preindustriale. Però l'affezione al prodotto creato con le proprie mani è solo un ostacolo in più al formarsi di un'economia di mercato come noi la inten-
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diamo, il fatto veramente decisivo è che i contadini e gli artigiani non intendono lavorare più dello stretto necessario. L'artigimo non va in cerca del cliente, se ne sta nella sua bottega e aspetta, «il contadino vuoi starsene sulla propria ìolla come un signore e trarre da questa la sua sussistenzi nell'ambito dell'economia diretta»28. Si accontentano di quello che hanno. Al Signore si chiede solo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Questa mentalità è talmente radicata che gli imprenditori dureranno molta fatica a scalzarla anche quando contadini e artigiani, con la Rivoluzione industriale, si proletarizzano e diventano operai. Ne è testimonianza clamorosa la vicenda del cottimo. A un certo momento gli imprenditori introdussero il cottimo per aumentare la produttività Ma ebbero una spiacevole sorpresa. Scrive Weber: «I lavoratori risposero all'aumento dei cottimi non con un aumento, ma con una diminuzione del loro lavoro giornaliero... il maggior guadagno li attirava meno del minor lavoro»29. E aggiunge: «[il lavoratore] non si chiedeva "quanto posso guadagnare se do il massimo di lavoro", ma sibbene "quanto debbo lavorare per guadagnare quel salario che ho percepito finora e che copre i miei bisogni tradizionali". Questo è un esempio di quella condotta che deve essere definita "tradizionalismo": l'uomo "per natura" non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma semplicemente vivere, vivere secondo le sue abitudini e guadagnare quel tanto che è a ciò necessario»30. Il mercante, il borghese (e, a posteriori, si può dire la razza bianca) sconvolge queste tranquille abitudini su cui gli uomini di tutti i continenti avevano vissuto per millenni. La più concisa definizione dello «spirito del capitalismo» in contrapposizione a quello tradizionale me l'ha data mio cugino Valerio Baldini, che ha vissuto a lungo in Sud Africa, una volta che percorrevamo il Ciskei, un bantustan nero, fra huts decorose e campi
ben coltivati ma solo in parte: «Vedi, la differenza fra il bianco e il nero è questa: che il nero, se ha un campo, lo coltiva per quanto gli basta, il bianco lo coltiva tutto». Il borghese, il mercante opera una rivoluzione, ribaltando la mentalità tradizionale e, per la verità, anche venti secoli di storia del pensiero occidentale e orientale: «non è una virtù accontentarsi di ciò che si ha»31. Non che lo spirito di conquista fosse mancato fino ad allora agli uomini, ma riguardava solo alcuni individui piuttosto eccezionali e soprattutto si era diretto nei settori della politica, del potere, della guerra, delle esplorazioni, del pensiero, della scienza, mentre adesso, nel mercante, nel borghese, si orienta quasi esclusivamente sull'economia e diventa spirito di acquisizione. È il denaro ciò che si vuole. Scrive Sombart: «Per costoro il denaro viene a trovarsi al centro di tutta la loro attività. Nel denaro essi scorgono il vero, anzi l'unico fattore di potere, perché non conoscono altro potere al di fuori della ricchezza. Con loro si porta a termine quel processo di permeazione del processo economico da parte dell'idea del denaro»32. Si apre «la caccia al denaro, questo simbolo di valore assolutamente astratto»33. Poiché però, come si è detto, nel borghese e nel mercante il denaro non è il sogno di un awenturiero, che cerca il gran colpo che lo metterà a posto per la vita, o l'illusione velleitaria di un fannullone, che spera di vincere alla Ruota della Fortuna, ma un orientamento sistematico e costante che ha al suo centro il lavoro quotidiano, egli introduce nella società non solo uno spirito ma anche una serie di stili di vita nuovi. Il primo è il risparmio. Il denaro non si fa solo guadagnandolo col lavoro, ma anche non spendendolo. Lapalissiano, dirà il lettore. Eppure questo concetto, per noi elementare, è sconosciuto nell'economia delle società tradizionali. E non c'è bisogno di risalire alle civiltà tribali dove, al contrario, vige il gusto della dissipazione
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della ricche:za e persine della sua distruzione gratuita (come nel potlach). Anche nella meno ludica Europa premoderna nessuno risparmia: i contadini e gli artigiani perché non possono permetterselo o perché, per farlo, dovrebbero lavorare più di quanto non gli garbi, i nobili perché per loro la ricchezza, come per i primitivi, è fatta innanzitutto per essere spesa e, possibilmente, dilapidata. «L'economia del signore» nota Sombart «era un'economia di usate: tanto gli serviva per mantenersi secondo il suo status tanto egli prodigava e sciupava»34. Adesso a un'economia di uscite subentra una di entrate. Leon Battista Alberti, che non fu solo un grande architetto ma il rampollo di una famosissima dinastia di mercanti, e mercante egli stesso, così parla ai suoi figli: «Le vostre uscite non siano mai maggiori delle vostre entrate»35. Una simile filosofia proveniva da un uomo ricco a palate. Scrive Sombart: «In questo stava la cosa nuova e inaudita: che qualcuno avesse i mezzi e facesse economia... l'idea del risparmio era entrata nel mondo, non il risparmio obbligatorio, ma il risparmio spontaneo, voluto, il risparmio non come necessità, ma il risparmio come virtù»36. Giovanni Rucellai, un mercante del Quattrocento, che aveva un patrimonio valutato in centinaia di migliaia di fiorini, fa suo il motto: «Un picciolino che egli abbia messo da parte ha fatto più onore di cento che abbia spesi»37. Motto che Benjamin Franklin, che rappresenta l'epitome vivente dello spirito borghese dei primi tempi, decodificherà nel xviii secolo in questo modo: «Chi uccide una scrofa uccide tutta la sua discendenza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo di cinque scellini uccide tutto ciò che si sarebbe potuto produrre con esso; intere colonne di lire sterline»38. E l'Alberti: «La ricchezza... non bisogna mai lasciarla inattiva: sempre essa deve accrescere il patrimonio del suo padrone»39. A differenza del nobile, che lo possiede solo, il
mercante che lo traffica e lo movimenta, sa che il denaro è fruttifero, può partorire altro denaro. Insieme al risparmio anche l'idea di investimento era entrata nel mondo. Tutto ciò introduce un ulteriore elemento poco praticato dalle società tradizionali: il calcolo. Il denaro, che è numero, agevola enormemente il calcolo. E il calcolo orientato dal denaro finisce per investire l'intera esistenza. Benjamin Franklin è il prototipo di questo modello di vita. In lui tutto è ridotto a calcolo: tot tempo per il lavoro, tot per il riordino, tot per la preghiera, tot per i pasti, tot per le letture, tot per gli svaghi, tot per il sonno, tutto è conteggiato al minuto. In quanto al sesso «raramente e soltanto per la salute e per la progenie»40. Niente deve andar sprecato. Tutto deve essere previsto, tutto deve essere perfetto. Franklin scriverà nella sua Autobiografia: «Volevo poter vivere senza commettere nessun errore in nessun tempo»41. E arriverà a questi estremi: «Mi feci un libriccino nel quale assegnai a ciascuna virtù [Moderazione, Silenzio, Ordine, Fermezza, Economia, Diligenza, Sincerità, Giustizia, Misura, Pulizia, Tranquillità, Castità] una pagina, vergai ciascuna pagina con inchiostro rosso, in modo che avesse sette sezioni, una per ciascun giorno della settimana, e segnai ciascuna sezione con l'iniziale del giorno. Queste sezioni io le traversai con tredici righe rosse e posi all'inizio di ciascuna riga le lettere iniziali di una delle virtù, per poter segnare su questa riga e nella sezione corrispondente con una crocetta nera ciascun errore di cui mi fossi trovato colpevole, dopo un accurato esame, in quel giorno riguardo alla corrispondente virtù»42. C'è in tutto questo bisogno di ordine, di razionalità, di pulizia, morale e fisica, di esami, di ricognizioni, di ispezioni una tale crudeltà e un bisogno di punirsi che mettono i brividi. E, come nota Weber, in Franklin, cioè nel borghese, nemmeno le virtù sono fini a se stesse,
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sono virtù perché sono utili: «L'onesta è utile perché da credito, e la puntualità, la diligenza, la regolatezza idem, e perciò esse sono virtù» 43 . La virtù è una cosa buona perché porta credito, cioè denaro. E per armare al denaro bisogna utilizzare, contabilizzare, razionalizzare l'intera esistenza e quindi il tempo che è «la stotfa della vita»44. L'economia non è più solo economia di denaro ma è innanzitutto economia del tempo: «Il tempo è denaro» dice Franklin a suggello del suo pensiero45. Ma se il tempo è denaro, il denaro è tempo. Il denaro è diventato il padrone del nostro tempo. E Franklin ne da un'immediata e puntuale conferma così proseguendo: «Chi può guadagnare dieci scellini al giorno con il suo lavoro e va a spasso oppure sta seduto pigramente mezza giornata, anche se spende solo una moneta da sei pence durante la sua passeggiata o il suo riposo, non dovrebbe calcolare questa come unica spesa; in effetti ha speso o piuttosto buttato via oltre cinque scellini»46. Poiché il denaro non è solo tempo, ma tempo futuro, cambia anche la percezione e il senso stesso del tempo, che non è più il «tempo di natura», ciclico, astorico, statico, presente, delle società tradizionali, ma diventa un tempo dinamico, rettilineo, un tempo di morte. È un capovolgimento totale del concetto di tempo ed è legato al denaro. Non è un caso che la civiltà contadina, cioè non mercantile e preindustriale, non avesse né il senso del denaro né quello del tempo declinato al futuro. Scrive Piero Camporesi: «L'affannoso tempo storico e lineare del mercante misurato sui ritmi della partita doppia, dei tassi d'interesse e dell'investimento produttivo non era il tempo dei contadini, serpentino, ciclico, ritmato dalle stagioni, dai soli e dalle lune. Nella letteratura popolar-carnevalesca il denaro non esiste: o è rigorosamente perseguito e bandito o viene consumato ("strusciato") immediatamente, in una zampillante pro-
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spettiva di gioioso, perenne spreco, in guerra con l'etica dell'accumulo, della "massarizia" e della "robba", per soddisfare le esigenze primarie del corpo, più che dello spirito. Il povero coniuga i verbi al presente, non conosce le lusinghe ingannevoli del futuro, contrariamente al ricco che costruisce strategie nel tempo tracciando piani e ipotetiche prospettive»47. La gente della società tradizionale, che ama la vita qui e ora, che coniuga, come dice Camporesi, i verbi al presente, che è inserita nei cicli della natura, guarda con sgomento e senza capire l'apparire della figura del mercante. Scrive Weber: «Che uno possa proporsi a scopo del lavoro di tutta la sua vita unicamente il pensiero di scendere nella tomba carico del massimo peso possibile di denaro e di beni, gli appare spiegabile solo come prodotto di impulsi perversi»48. La cultura del calcolo, della contabilità, della computisteria, dell'economizzazione, dei mezzi appropriati ai fini, del massimo risultato col minimo sforzo e, insomma, della razionalizzazione dell'intero esistente finirà per produrre qualcosa di totalmente irrazionale. Scrive ancora Max Weber che nei mercanti, nei banchieri, negli imprenditori, nei borghesi «il denaro... è presente come scopo a se stesso»49, sufficiente ad appagare una vita. È diventato un fine. Weber fotografa però la realtà dei suoi tempi, quando la Rivoluzione industriale, che darà al denaro la spinta definitiva, si era messa in marcia già da più di un secolo e mezzo. Nel basso Medioevo e agli inizi dell'età moderna il denaro che diventa fine è solo una tendenza che deve ancora giungere, anche nello stesso mondo del mercante e del borghese, a completa maturazione. Dall'attività del mercante germogliano due istituti che daranno ulteriore sviluppo al denaro. Uno è la lettera di cambio, la prima forma di cartamoneta, una moneta cioè priva, esplicitamente, di qualsiasi valore intrinseco, nem-
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meno immaginario. Una mon;ta, come si dice, fiduciaria, basata sulla fiducia. La lettera di cambio nasce dall'esigenza di trasferire denaro in luoghi lontani senza doverlo trasportare materialmente, per evitare i rischi: le difficoltà del viaggio. Funziona così. C'è un mercaite, poniamo, di Firenze che è in affari con un suo collega, poniamo, di Bruges. Il mercante fiorentino deve pigare un terzo soggetto a Bruges. Cosa fa? Spedisce a costui una lettera il cui contenuto è la richiesta al mercante di Bruges di saldare il debito in vece sua («E per me pagherete al latore della presente...» è la formula di rito). Per riprendersi i suoi quattrini il mercante di Bruges o chiede al collega fiorentino di fare un'operazione analoga oppure sconta la somma in un affare che ha con lui. Oltre a evitare i rischi del viaggio il mercante ha l'ulteriore vantaggio di conservare presso di sé il denaro liquido, che può utilizzare in vario modo, per esempio prestando ad interesse a dispetto di tutti i divieti della Chiesa. La lettera di cambio può anche essere triangolare, quadrangolare eccetera (può cioè essere ceduta a terzi e da questi ad altri ancora) e costituisce quindi la prima forma di circolante in cartamoneta. Il più antico esemplare conosciuto risale al 1155: si tratta di un documento genovese50, ma è «rara avis». La lettera di cambio è ben documentata solo a partire dal Trecento. E perché prenda piede l'uso di girarla a terzi tramite firma bisogna aspettare gli inizi del Quattrocento (la prima girata nota è del 1410)51. Con la lettera di cambio si comincia a speculare in senso finanziario, a comprar denaro con altro denaro, si comincia a scontare: se chi è in possesso della lettera ha bisogno di liquidità gliela si compra a un prezzo inferiore, scontato. Nasce anche il primo mercato finanziario: la fiera di Besancon, nel 1535, dove si traffica esclusivamente in lettere di cambio. Queste fiere di cambio, come vengono chiamate, fungono anche da camere di com-
pensazione molto simili alle moderne clearing houses. A partire dalla metà del Quattrocento ci sono quindi due tipi di moneta: a quella metallica coniata dalle zecche, in oro, argento e rame, si è affiancata, sia pur in posizione ancora marginale, di supporto, e diffusa solo nell'ambiente mercantile, la cartamoneta. Tanto che per distinguere la prima (cioè la più rassicurante e sempre ambita «moneta sonante») dalla seconda si parla di «scudi d'oro in oro». Ma per arrivare alla banconota, emessa da un istituto di credito autorizzato dallo Stato, con valore legale su tutto il territorio nazionale, bisognerà aspettare il 1694 e la Banca d'Inghilterra52. Anche la banca nasce dall'attività del mercante e col mercante. Infatti prima di arrivare alla banca vera e propria, intesa come istituto con autonoma personalità giuridica specializzato nel credito, si passa per la figura del banchiere singolo che del resto era già presente nella Grecia classica e a Roma nel periodo del cosiddetto «capitalismo antico». E il banchiere, almeno all'inizio, altri non è che un facoltoso mercante che, trovandosi per le mani denaro liquido, fa prestiti occasionali e accetta depositi da familiari e amici. Nelle città commerciali e nelle fiere il mercante-banchiere (ma in questo caso non si tratta dei grandi) assume una funzione di carattere pubblico scrivendo nei propri libri i trasferimenti di denaro dal conto di un cliente a quello di un altro e facendo le compensazioni. Ma anche quando indirizza buona parte della sua attività al credito, finanziando soprattutto re, principi, grandi signori, alti prelati53, il mercante non rinuncia al commercio e agli investimenti nell'industria. La specializzazione e la professionalizzazione del credito come attività esclusiva si ha solo con la nascita dei Banchi pubblici. Il primo in assoluto è la Taula de canvi di Barcellona del 1401, seguito pochi anni dopo dal più noto Banco di San Giorgio aperto a Genova nel 1408. I
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Banchi pubblici (che a dispetto del nome possono essere anche di proprietà privata purché muniti di licenza dell'autorità locale al cui controllo sono sottoposti) accettano depositi, concedono prestiti, su istruzione del cliente trasferiscono denaro da un conto all'altro con semplici scritture contabili. Ma i Banchi pubblici nascono soprattutto per permettere ai Comuni prima, agli Stati poi, di £»r ricorso al credito per finanziare le frequenti campagne militari. Vengono emessi dei titoli pubblici, del tatto simili ai nostri Bot e Cct anche se in alcuni casi i sudditi, quelli almeno al di sopra di un certo censo, sono obbligati a sottoscriverli in proporzione al reddito. I titoli sono commerciabili e hanno un loro corso, funzionano quindi da mezzo di pagamento, sono cioè, anch'essi, moneta cartacea e fiduciaria. Siamo molto vicini alla banconota. Quando infatti l'Inghilterra assurgerà, nel XVII secolo, a massima potenza economica mondiale le sue cartelle diventeranno moneta corrente in un ambito molto vasto. Da qui all'idea di una Banca nazionale di emissione il passo è breve. I Banchi pubblici, con gli anticipi, i prestiti, i mutui, i titoli, le girate da conto a conto, ampliano enormemente i mezzi di pagamento, gonfiano cioè il volume del denaro. L'oro e l'argento non bastano più all'arrembante «capitalismo commerciale»54. Più o meno in contemporanea con l'affermarsi dei Banchi pubblici compaiono le monete cosiddette «immaginarie», cioè monete di conto che servono da unità di misura, per calcolare il valore delle monete effettivamente circolanti, fissare prezzi e salari, tenere la contabilità commerciale, ma che non hanno alcun corrispondente materiale. Nel xvi secolo, nel xv, e in alcuni casi anche prima, la lira tornese, la lira parìsis, la lira sterlina, il ducato veneziano, il ducato di Spagna, nonostante i loro nomi fascinosi, non esistono in natura. Stanno solo nella testa degli uomini.
La comparsa della moneta «immaginaria», di quella scritturale, e la diffusione sistematica del credito tramite le Banche fanno parte di quel processo di progressiva smaterializzazione e astrazione del denaro che ha il suo culmine ai nostri giorni. Soprattutto il credito è denaro al suo stato più puro, quasi metafisico. «Nel credito» scrive Sombart «sono cancellati tutti gli aspetti corporei: l'azione economica è diventata di natura puramente spirituale»55. Inoltre «nell'attività di credito emerge chiaramente per la prima volta la possibilità di guadagnare denaro con un'attività economica senza il sudore della fronte; emerge la possibilità di far lavorare a proprio vantaggio altra gente senza l'impiego di mezzi coercitivi»56. Se la moneta coniata era guardata con grande diffidenza dal mondo tradizionale, il denaro scritturale, creditizio, fiduciario, immaginario è addirittura incomprensibile ai più. Osserva Braudel: «Queste monete, monete senza esserlo, e questi giochi di denaro mescolati alla semplice scrittura e confusi con essa, appaiono non solo complicati, ma diabolici»57. A quei tempi il riferimento a mammona, quando si parla di questo tipo di denaro impalpabile, è molto frequente: «Ho spesso desiderato» esclama la principessa Palatina «che il fuoco infernale bruciasse tutti quei biglietti»58. E un simile sentimento è comune agli aristocratici, ai contadini, ai poveri cristi e serpeggia, sia pure un po' più edulcorato, anche fra l'intellighentia, insomma in tutti coloro che, a differenza dei mercanti e dei banchieri, non maneggiano il denaro per mestiere. Ancora nel 1752 un filosofo come David Hume, economista per giunta, è un deciso avversario della «carta di nuova creazione», delle «azioni, biglietti di banca e carte dello Scacchiere», dei titoli di debito pubblico ed è scandalizzato dai dodici milioni di sterline in cartamoneta che circolano in Inghilterra accanto ai diciotto milioni di sterline in moneta sonante, tanto
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che arrivò a proporne, sic et sempliciter, l'abolizione59. All'espandersi e all'affinarsi dell'economia monetaria corrisponde l'espandersi e raffinarsi delle relative truffe, che pare siano inseparabili dal denaro. La più semplice, la più antica, per chi è così rozzo da usare ancora moneta coniata, è far ricorso alla cara, vecchia e collaudata lima: si grattano i bordi esterni della moneta e si tiene la polvere d'oro e d'argento così ricavata (da qui il moderno grattare per rubare). Ma queste sono pratiche da mentecatti cui i grandi mercanti-banchieri non rifuggono ma alle quali preferiscono di gran lunga i più sofisticati, arditi e remunerativi truffoni finanziari. Uno, di tutta sicurezza, aveva per oggetto i titoli pubblici, in particolare quella loro sottospecie costituita dalle rendite di Stato, non redimibili, che consentivano ai mercanti-banchieri, in combutta con i regnanti, di fare ottimi affari senza correre rischi. Fernand Braudel spiega così il meccanismo per quel che riguarda la Spagna: «Infinite volte Filippo II e i suoi successori soddisfecero gli uomini d'affari in juros, rendite di Stato, valutate alla pari. Così rimborsati gli uomini di affari regolavano a loro volta con questa medesima moneta i loro debiti con terzi, addossando agli altri i rischi e gli scacchi del loro mestiere»60. Più spericolato era un altro gioco. Attraverso i cambi con ricorsa e i cambi con ricambio, che sono cambiali finanziarie rinnovate ogni tre mesi, molti banchieri e mercanti arrivano a emettere spudoratamente su se stessi, cioè a mettere in circolazione ad libitum dei titoli di credito cui non corrisponde alcun credito, alcuna obbligazione tranne quella che il mercante o il banchiere ha contratto con se stesso. Si crea insomma moneta corsara, senza nessun controllo. Pare che in queste pratiche fossero maestri i Fugger di Colonia, i più grandi mercantibanchieri del tempo e, forse, i primi veri capitalisti. Poi ci sono le truffe di Stato. Anche gli Stati «gratta-
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no» le monete ma lo fanno, per così dire, in grande stile. Gradualmente e impercettibilmente diminuiscono il peso e il titolo delle monete coniate dalle loro zecche. Prendiamo per esempio il denaro: conteneva 1,7 grammi d'argento all'epoca di Carlo Magno, 0,25 grammi alla fine del XII secolo. Spiega Gino Luzzatto: «Variazioni frequenti e sempre in peggio della moneta... derivavano da ragioni fiscali, perché i principi, come i maggiori Comuni cittadini, consideravano la coniazione di monete di sempre minor valore come il mezzo di assicurarsi un'entrata che apparentemente non gravava sui contribuenti e poteva essere riscossa con la massima facilità... non è affatto da escludere che i continui e gravi peggioramenti della moneta spicciola siano stati determinati da ragioni di politica economica allo scopo di diminuire i salari che si pagavano infatti con quella moneta»61. Un'altra insidia alle tasche dei sudditi, quelle almeno in cui c'è moneta, viene, come sempre, dall'inflazione che è consustanziale al denaro. L'inflazione serpeggia per tutto il basso Medioevo ma ha un'impennata vertiginosa a metà del Cinquecento dopo che i conquistadores hanno portato via agli indios del Messico e del Perù tutto l'oro e l'argento rapinabili. È la famosa «grande rivoluzione dei prezzi» che dalla Spagna si estenderà a ondate successive e devastanti in tutto il resto d'Europa. E non sono solo l'oro e l'argento, denaro dei ricchi, a subire questo destino: «Proprio a causa della sua stessa modicità» scrive Braudel «il rame è stato, nel secolo XVII, un comodo veicolo di inflazioni elementari, potenti, attraverso tutta l'Europa»62. Ma la truffa più clamorosa e iniqua è un'altra. In Europa, fino al 1700, vige un doppio regime monetario: c'è la cosiddetta moneta grossa (o grosso), in oro e argento, e la moneta piccola, chiamata anche popolarmente moneta nera, che è in rame o in una lega dove sul rame è spruzzato un po' d'argento (biclione). Ovviamente è la
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moneta usata dai poveri. Il mercanta iaga al contadino, all'artigiano, all'operaio i prodotti o 1» mano d'opera in moneta piccola e vende quegli stessi prodotti in cambio di moneta grossa sui mercati internadorali che, come scrive Braudel, «si guardano dalle monete di rame come dalla peste»63. In sostanza il mercante paga in moneta debole e realizza in moneta forte. H :atto è che il contadino, il piccolo artigiano, non può procurarsi moneta grossa se non strapagandola, e quindi gli rimane sempre in mano un denaro senza valore che diversamente da quello dei ricchi, non è fruttifero, non partorisce spontaneamente altro denaro, che può usare solo per le piccole spese quotidiane, che non potrà nai, anche qualora lo volesse, tesaurizzare o investire. LÌ sperequazione si aggrava ulteriormente a partire dalla metà del xn secolo, quando il rapporto fra grosso e piccolo peggiora, naturalmente a sfavore di quest'ultimo, e passa dal 26 a 1 dei primi anni del millennio al 28 a 1 del 1269, al 32 a 1 del 1282 e via degenerando64. A dare ascolto ai testi letterari, già prima della metà del xiv secolo il denaro si è completamente impadronito della mente e del cuore dell'uomo. Padre Dante scaglia anatemi e scomuniche contro l'avidità di guadagno. Nella Descriptio Florentiae (1339) si dice: «Troppo sono solleciti di guadagnar denaro in modo che si può quasi dire di loro: sempre arde in essi il desiderio dell'acquisto»65. Nello stesso periodo il Beato Dominici tuona: «II denaro è molto amato dai grandi e dai piccoli, dai chierici e dai mondani, dai poveri e dai ricchi, dai monaci e dai prelati: tutto è sottomesso al denaro»66. Del resto se già più di un secolo prima San Francesco, figlio di un ricco mercante in commercio con la Francia (da qui il nome di battesimo del Santo), aveva sentito il bisogno di fare l'elogio della povertà qualche ragione doveva pur esserci. Nel Quattrocento Leon Battista Alberti consiglia: «Tutti crescano nell'industria del guadagno» e Era-
smo constata: «Pecuniae obediunt omnia», tutte le cose obbediscono al denaro. Il poeta Hans Sachs annuncia: «II denaro è in terra il dio terrestre»67. Ma forse la testimonianza più impressionante viene da una lettera di Francesco Petrarca: «Per noi, buon amico, tutto oggi è d'oro, le aste, gli scudi, i ceppi, le corone... L'oro riduce schiavo chi è libero e liberi gli schiavi, assolve i rei, gli innocenti condanna, fa i muti facondi, riduce ogni eloquenza al silenzio. Per esso principi i servi, e servi i principi, audaci i timidi, paurosi gli arditi, solleciti i pigri... asciuga i fiumi, feconda i campi, sconvolge i mari, adegua ai piani i monti, rompe ogni chiusa, assalta ed espugna fortezze, abbatte castelli... Ed è pur l'oro che le amicizie dei grandi, le illustri clientele e gli splendidi matrimoni procaccia: per virtù sua infatti vengono gli uomini in fama di nobili, di valorosi, di sapienti, di belli e (mirabile a dirsi) persin di santi: e solo i ricchi oggimai sono nelle città creduti dabbene, a essi soli quella fede che ai poveri si nega»68. Tuttavia non bisogna farsi fuorviare da queste descrizioni apocalittiche che non a caso vengono da intellettuali, letterati o da santi benedetti ma un pochino estremisti. Costoro prefigurano un futuro che sarà effettivamente molto simile a ciò che descrivono, e che forse per loro, classe dirigente, è già presente, ma che non tocca ancora la stragrande maggioranza della popolazione. Per la semplice ragione che l'economia monetaria riguarda solo l'ambiente cittadino69, e nemmeno tutto, e non intacca che molto marginalmente il vasto mondo della campagna che, prima della Rivoluzione industriale, rappresenta più dei quattro quinti della popolazione europea. Mentre fuori d'Europa, nel vasto mondo (a parte l'Isiam, assai raffinato dal punto di vista monetario, Bisanzio e altre città mediorientali e orientali) si continua a scambiare nella forma della moneta-mercé quando non del baratto puro e semplice.
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Inoltre anche nell'Europa mercantile, cioè in quel quinto della popolazione che è coinvolto nell'economia monetaria, il denaro non può sviluppare pienamente le sue logiche. Vale anche qui, in buona sostanza, il discorso fatto per il cosiddetto «capitalismo antico». L'economia preindustriale incontra molti limiti che coinvolgono fatalmente anche il denaro: limiti al mercato, limiti religiosi, limiti dello stesso spirito borghese che ancora esita a fare il grande salto e a tagliare i ponti col mondo tradizionale da cui è circondato e dal quale proviene. Il mercato, che è consanguineo al denaro, che con esso si potenzia potenziandolo, in un corto circuito sinergico, è solo in parte libero. Innanzitutto vi sfuggono sostanzialmente due elementi fondamentali: la terra e il lavoro. Per tutto il periodo feudale la stragrande maggioranza della terra è inalienabile. Lo sono tutte le terre collettive. Queste comprendono non solo i boschi, i pascoli, le paludi, gli stagni, che sono di uso comune (terre indivisibili), ma anche quelle terre coltivate, dette common fields, che sono divise a strisce e distribuite ai membri della collettività. «Queste terre» scrive Felloni «sono divise con criteri che antepongono l'equità distributiva all'efficienza economica»70. Ma inalienabili sono anche quelle terre non collettive che sono però «aperte», cioè non recintate (open fields) e che costituiscono la maggioranza. Su tutte grava poi una serie di servitù comunitarie (spigolatura, pascolo, erbatico, legnatico, acquatico, eccetera) e di vincoli, il più importante dei quali è la rotazione a maggese. Sono alienabili solo le poche terre chiuse, recintate (endosures), e sempre che non appartengano allo Stato (manomorta fiscale), a enti religiosi (manomorta ecclesiastica) o non siano sottoposte a fedecommessi. La terra commerciabile è quindi ridotta al minimo. E anche in questo caso se c'è una compravendita è vissuta
in malo modo dalla comunità, come una cosa illegittima, che «non s'ha da fare» e che può essere giustificata solo se chi vende si trova in condizioni disperate71. Anche, anzi soprattutto, il feudatario ha delle terre. Ma nemmeno lui ne può disporre liberamente. Una parte è assegnata in uso perpetuo ai contadini (servi casati) che in cambio forniscono al signore un certo numero di prestazioni reali o personali (una quota dei prodotti, giornate di lavoro, corvées) e che non possono lasciare i campi perché sono elementi essenziali per coltivare la terra anche a beneficio del feudatario (da qui il nome di «servi della gleba»)72. Un'altra parte della terra signorile è data in locazione con contratti a lungo termine (in genere della durata di 99 anni) in cambio di una parte dei prodotti (colonia parziaria, mezzadria) o, più raramente, del pagamento di un canone fisso (enfiteusi, colonia perpetua). Insomma il regime feudale della terra (chiamato anche «regime delle terre aperte») è un punto di equilibrio, sofisticato e complesso, fra comunismo e individualismo che potremmo meglio definire come comunitarismo73. Infatti una parte rilevante della terra appartiene alla comunità (intesa nel suo complesso, feudatario compreso) e anche là dove esiste, la proprietà privata incontra dei limiti fra i quali, quasi sempre, l'inalienabilità. D'altro canto (tolti i pascoli, i boschi, le paludi, gli stagni che sono a disposizione di tutti) il possesso è invece individuale (su quel pezzo di terra sta solo quella famiglia, o quel gruppo di famiglie, per generazioni) ma, pur non essendo messo in alcun modo in discussione, è sottoposto anch'esso a vincoli comunitari perché il lavoro di ciascuno deve integrarsi con quello di tutti e non può andare a ruota libera. Questo è il regime della terra durante il periodo del feudalesimo classico, quello così stupendamente descritto da Mare Bloch. Il feudalesimo comincia a sfaldarsi a
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partire dal xv secolo (anche se avrà significativi ritorni nel xvi, xvn e addirittura nel xvm secolo) in concomitanza con l'affermarsi del Comune e la riurbanizzazione dell'Europa, ma la sostanziale inalienabilità del suolo gli soprawiverà a lungo. Quando infatti cadono, le servitù personali di tipo feudale sono sostituite da un tale groviglio di vincoli contrattuali e consùetudinari, fra concedente e concessionario, fra proprietario e coltivatore, che fino alla Rivoluzione industriale la maggior parte della terra rimane non commerciabile74. Nel periodo del feudalesimo classico l'assenza di un mercato del lavoro discende direttamente dall'organizzazione collettiva della terra. Se è vero infatti che i servi casati non possono lasciare liberamente la terra è anche vero che non possono esserne nemmeno cacciati. Questa parte rilevante della popolazione agricola non è quindi disponibile per il mercato del lavoro. Ma anche i coloni liberi, legati da un contratto di locazione, restano sulla loro terra e, come vedremo meglio più avanti75, in linea di massima non c'è ragione economica che possa espellerli. In quanto ai braccianti in questo periodo sono pochissimi e, in ogni caso, possiedono tutti un po' di terra, un maso, che non li lascia, a differenza del salariato d'oggi, in completa balia del mercato. Se si lavora sulla terra è quindi molto difficile rimanere a spasso. I mendichi rappresentano l'uno per cento della popolazione e quasi sempre lo sono per loro volontà. La disoccupazione è pressoché sconosciuta e non solo nel settore agricolo. Infatti limiti al mercato esistono anche nell'artigianato e nel commercio. Le corporazioni medievali delle arti e dei mestieri sono un potente ostacolo alla concorrenza. Il naturale spirito associativo che caratterizza quest'epoca assicura agli artigiani inurbati ciò che la collettività rurale, attraverso i legami comunitari e una ripartizione della terra più equa possibi-
le, garantisce ai contadini: uno spazio vitale. In questo caso uno spazio di mercato garantito. Ciò avviene tramite la creazione di un monopolio cittadino che limita la concorrenza all'esterno e la regola all'interno. Il principio, per noi inconcepibile perché è l'esatto contrario dell'odierno spirito d'intrapresa, è che nessuno deve ingrandirsi e arricchirsi a spese di un altro. Ogni artigiano e anche ogni mercante cittadino deve sapere quanta sarà la mercé che è sicuro di vendere. Ciò corrisponde sia alla mentalità del contadino-artigiano il cui scopo, come si è detto, è soprattutto di procurarsi i mezzi di sussistenza e che non ha, in genere, ambizioni di ulteriori guadagni; sia ai principi religiosi dell'epoca che, come vedremo fra poco, considerano immorale ogni arricchimento che comporti un danno altrui; sia alle esigenze della città almeno nel periodo del basso Medioevo comunale. Luzzatto spiega che le piccole industrie artigiane specializzate, di cui la città ha vitale bisogno per mantenere una propria autosufficienza, indispensabile in mezzo ad altre città ostili, «non potevano fare assegnamento che su una clientela assai ristretta, per cui sarebbero state condannate a fallire se non si fosse impedita la concorrenza fra le botteghe di uno stesso ramo»76. Lo scopo si ottiene grazie a una spartizione rigida o, se si preferisce un termine molto attuale, una lottizzazione del mercato. Gli statuti artigiani fissano puntigliosamente una serie di precisi limiti alla concorrenza: «non toglier agli altri alcuno dei suoi clienti», «nessuno deve allontanare clienti dal negozio altrui né distorglieli dall'acquisto con cenni o gesti o altri segni»77. È assolutamente vietato vendere sottocosto e ci sono istruzioni tecniche minutissime sull'acquisto e l'impiego delle materie prime per garantire la bontà del prodotto. La stessa pubblicità, la sovrana assoluta del nostro tempo, il motore di tutto il processo industriale, è molto malvista perché è giudicata concorrenza, per
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giunta sleale, e perché offende il decoro del commercio. Ancora nel XVIII secolo in Inghilterra, mentre sta per cominciare il decollo industriale, si scrive: «II fare annunci sui giornali è venuto ora più in voga. Sino a pochi anni fa i commercianti di buon nome consideravano vile e spregevole rivolgersi al pubblico per mezzo di un pubblico annuncio»78. Il regime delle corporazioni ha la sua massima espressione durante il primo periodo comunale, ma pur incrinandosi nelle città maggiori, soprattutto italiane, quando queste si ampliano ulteriormente e l'autosufficienza diventa impossibile, dura fino agli inizi del XVIII secolo79. Prima della Rivoluzione industriale non si può quindi parlare, per il settore dell'artigianato, di un mercato completamente libero né, tanto meno, di un mercato del lavoro. Né esiste, in questa situazione, la disoccupazione. La novità venne semmai dal mondo agrario. Per la verità qui la decadenza del sistema feudale e il venir meno dei suoi rigidi legami aveva creato sulle prime, almeno stando a Marx, una situazione quasi idilliaca80. In Inghilterra, ma con buona approssimazione, anche nel resto dell'Europa occidentale, la servitù della gleba era scomparsa già verso la fine del XIV secolo. Si era quindi formata una massa considerevole di piccoli proprietari sostanzialmente indipendenti (yeomen) che possedevano quattro o più acri di terra e potevano contare, come sempre, anche sull'uso comune delle terre demaniali. L'ideale. In Inghilterra, nel xv secolo, ce n'erano 160 mila che con le loro famiglie rappresentavano più della metà della popolazione81. Ma insieme alla libertà si insinuò nelle campagne quell'«individualismo agrario» che, colto al volo non tanto dai piccoli proprietari quanto dai latifondisti, doveva erodere, a partire dal XVI secolo, l'antico collcttivismo rurale, espellere dalla loro terra i contadini e molti degli stessi yeomen e creare la prima mano d'opera teoricamente disponibile per un
mercato del lavoro. Ma di ciò parleremo nel prossimo capitolo perché il fenomeno, fino all'alba della Rivoluzione industriale e all'affermazione definitiva dell'economia monetaria, rimase limitato82. Infine, in epoca preindustriale, c'era la religione a porre limite al mercato, al profitto, al denaro. San Tommaso afferma che c'è «qualcosa di vile» nel commercio, ma riconosce l'utilità del mercante se la sua attività si risolve in un vantaggio per il Paese83. La Chiesa del basso Medioevo ammetteva perciò la compravendita e anche il guadagno purché fosse onesto, «cristiano»: doveva cioè essere ottenuto con mezzi leciti e non essere sproporzionato. I tornisti, partendo da Aristotele, si sforzano quindi in tutti i modi di definire il «prezzo giusto». Fatica improba perché se si accetta il principio che un bene non ha solo un valore d'uso ma anche uno di scambio, come i tomisti furono in pratica costretti a fare davanti allo sviluppo delle attività mercantili84, il «prezzo giusto» va fatalmente a coincidere con quello di mercato. Ma il prezzo di mercato è esattamente ciò che consente di avere quel «guadagno a spese di altri» che la Chiesa considera immorale. Infatti il concetto base che muove gli scolastici in campo economico è quello della giustizia commutativa di origine aristotelica «per cui in tutti i casi di scambio di beni i valori intrinseci devono equivalersi» (equalitas rei ad rem)83. Ma il valore intrinseco di una cosa (per esempio l'acqua) può essere altissimo e il suo valore di scambio nullo o quasi. I tornisti si trovano quindi di fronte a una serie di difficoltà: da una parte il valore intrinseco non può misurare da solo l'equità di uno scambio e bisogna quindi trovare un criterio ulteriore, dall'altra il surplus che, al momento della compravendita, il valore di scambio assume su quello d'uso non deve essere tale da ledere il principio della parità nella transazione. Si cerca di aggirare queste contraddizioni affermando che il prezzo di un bene non
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è dato solo dal suo valore intrinseco (bonitas intrinseca) ma anche dal lavoro umano impiegato per la sua trasformazione che ne aumenta l'utilità e legittima quindi anche un aumento di prezzo86. Quando c'è un rapporto diretto fra produttore e consumatore la dottrina tomista potrebbe anche reggere. Ma il problema si ripropone immediatamente quando entra in scena, come intermediario, il mercante perché costui, nella mentalità medievale, «non aggiunge nulla al valore intrinseco della cosa che vende»87. Fu il teologo scozzese Duns Scoto (12661308), il «Doctor subtilis» di un'epoca di causidici, a spingersi più in là e ad ammettere, in contrasto con i tomisti, che compratore e venditore possano di comune accordo modificare il prezzo. Il prezzo di un bene quindi non è definito dalla sua bonitas intrinseca, con le sue varie aggiunte, ma da un contratto, cioè, in pratica, dal meccanismo di mercato. In questo guazzabuglio di contraddizioni la Chiesa fu perciò costretta a tenersi sul vago, a far raccomandazioni più che a imporre divieti, a mettere in guardia dal guadagno «eccessivo» senza poterlo precisare, ad ammonire a non aumentare almeno i prezzi di «quelle merci di cui i poveri non possono fare a meno»88, a scagliarsi contro l'accaparramento e l'incetta. Più preciso è invece il divieto del prestito ad interesse. Perché, almeno all'inizio, è assoluto. Per la mentalità medievale, e non solo per la Chiesa, come già per Aristotele e Piatone, è inconcepibile che una cosa inerte, inorganica, come il denaro, possa dare dei frutti e «si riteneva che acquisire denaro non già in cambio di altre cose e beni bensì di denaro di altro tipo fosse contrario alla natura umana»89. Inoltre poiché il tempo era considerato una proprietà comune, concessa gratuitamente a tutti gli uomini, si pensava che il prestatore che percepisce interesse commette una frode. La condanna all'usura è sancita dal Concilio Laterano
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del 1139 e ribadita in modo ancor più solenne dal Concilio di Vienne del 1311. Segno inequivocabile che il prestito ad interesse, pressoché scomparso, insieme al denaro, nell'alto Medioevo, si stava estendendo ed era diventato un problema sociale. Il Concilio di Vienne proibisce, puramente e semplicemente, qualsiasi pagamento che ecceda il capitale versato. È un divieto che ha forza di legge perché viene recepito dagli ordinamenti comunali o statali. Solo gli ebrei ne sono esentati. Con l'andar del tempo si ammise il pagamento di una penalità per compensare il danno sofferto dal prestatore nel caso di mancato rimborso del capitale (titulus morae). In seguito fu accettato anche un compenso per il lucro cessante, cioè per le opportunità perse per aver concesso il prestito. Finché alla metà del xvi secolo il divieto scomparve dalle leggi secolari e rimase solo come condanna morale della Chiesa. Quasi superfluo aggiungere che i mercanti ne escogitavano di ogni per eludere il divieto. In genere il trucco consisteva nel mascherare il prestito ad usura dietro due contratti che figuravano essere stati stipulati in tempi diversi. Oppure nel giocare sul cambio delle valute, come avveniva nel cambio a secco o nel prestito a cambio marittimo. Nonostante le esigenze del mercato tendessero ormai a sfondare tutti i verboten non bisogna però sottovalutare l'efficacia delle pressioni della Chiesa sul mondo economico medievale e dei primi secoli dell'età moderna. C'è innanzitutto da tener presente che in realtà molti prezzi, quelli dei prodotti artigianali per esempio, non erano già di per sé abbandonati al libero mercato ma fissati dalle corporazioni, sulle quali la Chiesa aveva una notevole influenza. Inoltre, più in generale, anche il mercante non era del tutto condizionato dal gioco domanda-offerta poiché si rivolgeva a un pubblico molto ristretto e poco mobile per cui era lui in pratica a fissare
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il prezzo. Ed è probabile che l'ammonizione di Dio si facesse sentire su questa sua libertà inducendolo a una qualche moderazione. Non si deve infatti dimenticare che quella era un'epoca di viva religiosità, che tutti erano credenti, che i mercanti non lo erano meno degli altri e, come gli altri, anzi forse un tantino di più, avevano un sacrosanto terrore, in quei tempi di pestilenze e di epidemie, del castigo di Dio. I libri mastri di Francesco di Marco Datini, il famoso mercante di Prato, erano intitolati «Cho '1 nome di Dio e di guadagno» (nel nome di Dio e del guadagno)90. «Con Dio» iniziavano i libri contabili di tutti i mercanti, usanza che si è protratta fino ai primi del Novecento anche se ormai suonava piuttosto blasfema. Insomma nel basso Medioevo e agli inizi dell'età moderna i mercanti ci sono e operano, e anche piuttosto vorticosamente, ma non hanno ancora un'etica che li supporti e li legittimi come avverrà di lì a poco con l'affermarsi del protestantesimo. E ciò li limita, li intimidisce, gli accorcia il braccio, gli impedisce di spingere le cose fino in fondo. Lo spirito del denaro non si è ancora dispiegato del tutto nemmeno nella persona del mercante. E non solo per motivi religiosi. Il denaro e il guadagno sono amatissimi e adoratissimi ma pur sempre, almeno nelle intenzioni, per potersi meglio godere la vita non per esaurirla in essi. I commercianti all'ingrosso di Bolzano chiudevano per tutta l'estate e se ne andavano in vacanza. Quello stesso terribile Benjamin Franklin, che anche per i tempi suoi è un caso limite e patologico, in fondo non lavorava più di sei ore al giorno, anche se le restanti le economizzava per poter lavorare meglio e guadagnare di più. E, in genere, il mercante preindustriale è posato, misurato, non ha fretta, non corre (non potrebbe nemmeno con quelle lunghe palandrane che indossa), non è frenetico, in perenne overdose, rimane comunque un uomo del suo tempo. La stessa velocità
del denaro che maneggia non ha niente a che vedere con quella supersonica di oggi. Ma soprattutto era convinzione comune che il mercante che aveva fatto fortuna dovesse ritirarsi ancora in buona età e vivere di rendita. Daniel Defoe (1660-1731), che non è solo lo scrittore straordinario che conosciamo, l'acutissimo osservatore della nascente borghesia, ma che si occupò anche, con competenza, di questioni economiche, nel Perfetto mercante inglese scrive che per chi ha guadagnato 20 mila sterline è giunto il momento di ritirarsi dagli affari: «Quale altra ragione, se non la pura cupidigia, può persuadere un tale uomo a precipitarsi in nuove avventure?»91. E in tutti i libri commerciali italiani di quest'epoca si trova un'acuta nostalgia per una tranquilla vita di campagna. L'aspirazione di tutti, o quasi, è la stessa: ritirarsi con un bel gruzzolo finché si è ancora in buona salute92. Che poi ci riescano è un altro paio di maniche. I più rimangono stritolati dal meccanismo che li ha messi in orbita. Anche Francesco di Marco Datini, dopo trentatré anni di «marcanzia» ad Avignone, era tornato nella sua Prato cullando l'illusione di godersi finalmente le gioie della vita. Ma non ci riuscì: «Era un uomo ricco, rispettato. Eppure non conobbe mai un'ora di pace: giorno e notte rimuginava sui pericoli che sovrastavano le sue navi e la sua mercanzia»93. La «scimmia» ormai lo possedeva e la sua vicenda è particolarmente beffarda e senza senso perché non poteva nemmeno accampare la scusa dei figli, non avendone avuti, sicché, fra una peste e l'altra, finì per lasciare tutta la sua enorme fortuna ai poveri e col dubbio, che lo rose fino all'ultimo inducendolo ad aggiungere codicilli su codicilli al testamento, che Santa Madre Chiesa, sempre presente sul letto di morte dei ricchi, non rispettasse le sue ultime volontà e incamerasse il malloppo. Il destino di Francesco Datini è quello di quasi tutti i suoi colleghi. Però dalla nostalgia per un'esistenza di-
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versa, dal programma di ritirarsi, ad un certo punto, a vita privata e in molti altri particolari si coglie che anche per costoro, per la ristretta cerchia dei mercanti, il denaro, almeno nelle intenzioni, non è ancora lo scopo ultimo. Resta un mezzo. Per ora.
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G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, Einaudi 1958, pp. 38-39 2 M. Bloch, Lineamenti di ura storia monetaria europea, Einaudi 1981, p. 36. 3 M. Bloch, La società feudale Einaudi 1982, p. 84. 4 In realtà i canoni richiesti dai signori feudali erano molto bassi, a volte perfino ridicoli. Lo ammette anche Adam Smith: «[I contadini] pagavano una rendita che non aveva alcun rapporto di equivalenza con la sussistenza che la terra forniva loro; una corona, una mezza corona, una pecora, un agnello erano pochi anni fa, nelle Highlands, una rendita ordinaria per delle terre che mantenevano una famiglia». A. Smith, La ricchezza delle nazioni, m, rv. Al signore feudale interessava il potere, il dominio sugli uomini che, proprio in virtù di quella noncurante liberalità, aveva in modo indiscusso, molto più del denaro e della ricchezza. 5 'II Comune è un fenomeno tipicamente italiano che si differenzia dalle grandi città straniere perché, a differenza di queste, comprende un vasto contado inglobandone i feudi. 6 N. du Fail, Propos rustiques et facétieux, 1856, pp. 32-34, citato da F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, le strutture del quotidiano (secoli XV-XVI1I), Einaudi 1982, pp. 406-407. 7 M. de Malestroit, Mémoires sur le faict des monneyes, in Paradoxes inédits du seigneur de Malestroit, a cura di Luigi Einaudi, 1937, p. 105. 8 P. de Saint-Jacob, Les paysans de la Bourgogne du Nord au dernier siede de l'Ancien Regime, 1960, p. 212. 9 F. Galiani, Della moneta, Archivi Edizioni 1976, p. 278. 10 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 436. 11 È il cosiddetto «modello polacco». Vedi R. Ago, La feudalità in età moderna, Laterza 1994, pp. 71-96. La differenza fra il «modello polacco», cioè fra l'economia feudale dell'Est dell'Europa nei secoli xvi-xvni e l'economia curtense dell'Occidente medievale sta nel fatto che a quell'epoca esiste un mercato internazionale perché l'Occidente europeo si è già sviluppato in questo senso. Se quindi nell'economia curtense dell'Est non c'è un mercato interno ne esiste però uno esterno. Il signore si fa dare le eccedenze dai propri contadini e le vende in cambio di denaro per potersi procurare i generi di lusso. Normalmente il denaro resta pochissimo nelle mani dei nobili, il tempo minimo necessario per farsi arrivare i beni desiderati, e ritorna quindi quasi subito ai mercanti. È del tutto estraneo a questi nobili il concetto di capitale e di investimento. 12 II primo commercio marittimo non era infestato dai pirati ma era fatto dai pirati (F.M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, cit., p. 385).
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E la cosa sarebbe andata avanti per molto tempo, si pensi ai «pirati della Corona» inglese del xvi secolo e a Sir Francis Drake. 13 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 109. 14 M. Takizawa, The penetration of money economy in Japan and its effects upon social and politicai institutions, New York 1927, pp. 333 ss. 15 Matteo, 21, 12-13. 16 M. Luterò, Del commercio e dell'usura, in Opere, cit., voi. 15, p. 311. 17 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, iv, m, n. 18 K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., pp. 121-122. 19 Ludwig von Mises, uno dei più estremi sostenitori del capitalismo, scrive negli anni Trenta del Novecento: «II disprezzo si è trasformato in un rancore corrosivo quando, coll'espandersi del capitalismo, gli imprenditori hanno conquistato grandi ricchezze e grande stima popolare». L. von Mises, Problemi epistemologia dell'economia, Armando 1988, pp. 98-99. 20 W. Sombart, // capitalismo moderno, Utet 1978, p. 135. 21 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., pp. 124125. 22 Marx parla, in proposito, di «capitalismo mercantile». 23 K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, cit., p. 34. 24 W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 259. «Il denaro è principio e fine dello scambio» dice Aristotele, Politica, i, 9, 1257 b, 20-25. 25 Questa è la definizione preferita da Sombart. 26 M. Weber, L'etica protestante e lo spinto del capitalismo, Sansoni 1977, p. 67. 27 W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 132. 28 ìbid., p. 139. 29 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 115. 30 ìbid., pp. 115-116. 51 L. von Mises, La mentalità anticapitalistica, Armando 1988, p. 25. 32 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 259. 33 ìbid., p. 174. 14 W. Sombart, // borghese, Guanda 1994, p. 83. 35 L.B. Alberti, / libri della famiglia, Edizioni Girolamo Mancini 1908, p. 242. 36 W. Sombart, // borghese, cit., p. 83. 37 G. Marcotti, Un mercante fiorentino e la sua famiglia nel secolo XV, 1881, p. 106. 38 È. Franklin, Consigli per diventare ricchi, Ibis 1993, p. 30. 39 L.B. Alberti, / libri della famiglia, cit., pp. 150-54. 40 B. Franklin, Autobiografia, Sansoni 1925, pp. 114-119. Adam Smith nota come l'avvento dello spirito commerciale si porti via quell'ospitalità generosa e spensierata che era caratteristica della società tradizionale: «Prima dell'espansione del commercio e delle manifatture in Europa, l'ospitalità dei ricchi e dei potenti, dal sovrano fino al più piccolo barone, superava tutto ciò che oggi si può immaginare». A. Smith, La ricchezza delle nazioni, m, rv. 41 B. Franklin, Autobiografia, cit., pp. 111-112. 42 ìbid., pp. 115-117. 43 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 105. 44 B. Franklin, Consigli per diventare ricchi, cit., p. 44. 45 ìbid., p. 29. 46 ìbid. 47 P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d'elite fra Medioevo ed età
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moderna, in AA.W., Storia d'ìtalia, Annali 4: Intellettuali e potere, Einaudi 1981, p. 138. Vedi anche M. Fini, "La Ragione aveva Torto?, Camunia 1985, p. 22. 48 M. Weber, L'etica protestante, cit., p. 129. 49 Ibid., p. 105. 50 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa dal Medioevo all'età moderna, Giappichelli Editore 1993, p. 172. '* F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 439. ì2 Vedi più avanti, cap. viri, p. 190. 53 Vedi M.T. Boyer-Xambeau-G. Delaplace-L. Gillard, Banchieri e Principi, Einaudi 1991. 54 È stato calcolato che nell'Europa del '500 esistevano riserve d'oro pari a 3500 tonnellate e d'argento per 37.500. La scoperta dell'America riversò sul Vecchio Continente quantità gigantesche di metalli preziosi, ma nel xvn secolo nemmeno queste bastavano più, anche perché l'Europa aveva un deficit commerciale cronico con l'Oriente. G. Parker, Le origini della finanza europea 1500-1730, in Storia economica d'Europa, i secoli XVI e XVII, Utet 1970, p. 429. 55 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 304. 56 Ibid., p. 305. 57 F. Braudel, Cvnltà matonaie, economia e capitalismo, cit., p. 438. 58 Ibid., p. 409. 59 Ibid., p. 438. 60 Ibid., p. 441. 61 G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., pp. 162163.62 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, cit., p. 427. 63 Ibid. 64 G. Luzzatto, Breve stona economica dell'Italia medioevale, cit., p. 164. 65 W. Sombart, // borghese, cit., pp. 19-20. 66 Giovanni Dominici (Beato), Regole del governo a cura familiare, Firenze 1927, p. 128. 67 Le citazioni sono tratte da W. Sombart, // borghese, cit., p. 20. 68 F. Petrarca, Epistulae de rebus familiaribus, Le Monnier 1866, voi. iv, pp. 69246-247. Non a caso Petrarca scrive che «solo i ricchi oggimai sono nelle città creduti dabbene», la campagna continua a vivere secondo i propri valori che non sono di tipo economico. Secondo Polanyi fino alla Rivoluzione industriale il denaro è affare solo di mercanti e banchieri. K. Polanyi, La sussistenza dell'uomo, cit., p. 29. 70 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa, cit., p. 107. 71 M. Bloch, La società feudale, cit., p. 157. 72 Sono questi limiti alla libertà personale che risultano indigeribili ai moderni. Perché dal punto di vista economico le prestazioni richieste al contadino sono davvero ben poca cosa. Il contadino paga prezzi molto inferiori al valore della rendita fondiaria se questa fosse sfruttata dal signore con criteri razionali e spirito di profitto, come avverrà in seguito all'affermarsi dell'economia monetaria. Vedi retro p. 140, n. 4. 73 Un ritorno al regime comunitario della terra, a un feudalesimo senza feudatari, è propugnato da alcune correnti di pensiero americane i cui esponenti di spicco sono Alasdair Mac Intyre e Robert Mangabeira Unger. 74 G. Felloni, Profilo di storia economica dell'Europa, cit., pp. 148-150.
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Gap. x, pp. 252-253. G. Luzzatto, Breve storia economica dell'Italia medioevale, cit., p. 114. W. Sombart, II capitalismo moderno, p. 355. 78 M. Postlethwait, Dictionary of Commerce, 1751, pp. 22 ss. 79 Fu l'industria cotoniera la prima a svilupparsi, nel xvni secolo, fuori dal quadro corporativo. E. James, Storia del pensiero economico, Garzanti 1963, p. 51. 80 K. Marx, // Capitale, i, vii, 24. 81 Ibid. 82 Anche se Marx, ai fini della sua tesi sulTaccumulazione originaria del capitale, tende ad amplificarlo e a anticiparlo. 83 Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, n, n, q. 87, art. 4; q. 77, art. 4. Sull'economia tomista, vale a dire sulla dottrina economica della Chiesa nel basso Medioevo, vedi K. Pribram, Storia del pensiero economico, Einaudi 1988, voi. i, pp. 5-61. 84 Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, n, n, q. 77, art. 2; Alberto Magno, Sententiae, m, 37. 85 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 23. 86 II primo ad intuire che il valore di un bene è dato oltre che disutilità dalla sua scarsità relativa fu Ferdinand© Galiani. Scrive Schumpeter: «Galiani differisce da Jevons e da Menger per il fatto che gli mancava il concetto di utilità marginale, ma il suo concetto di scarsità relativa si avvicina molto», J.A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, cit., voi. i, p. 367. 87 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 32. 58 W. Sombart, // capitalismo moderno, cit., p. 352. 89 K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit., p. 33; Aristotele, Politica, i, 10, 125 b, 5-10. In realtà la condanna dell'usura da parte della Chiesa ha motivazioni ancora più complesse che hanno a che fare con i fondamenti epistemologici della dottrina tomista che qui è superfluo richiamare; basti dire che, in questo senso, l'usura prima ancora che immorale è «un peccato di logica». Per chi voglia saperne di più cfr. K. Pribram, Storia del pensiero economico, cit. 90 Vedi la deliziosa prefazione di Luigi Einaudi a Iris Origo, // mercante di Prato, Rizzoli 1979, p. x. 91 D. Defoe, Complete English Tradesman, Londra 1745. 92 Jàcob Fugger, della grande dinastia dei mercanti e finanzieri, che proclamava di «voler guadagnare finché avrebbe potuto», era guardato, dai suoi stessi familiari e nel suo ambiente, come un tipo «bizzarro», un «anormale», quasi un pazzo. W. Sombart, II capitalismo moderno, cit., p. 364. 93 I. Origo, // mercante di Prato, cit., p. 105. 76 7
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