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Il Caso Welsh di Vittoria Maria Passera Ass. Culturale presentARTsì - Bottega di prodotti culturali associazionepresentartsì@gmail.com Tel. 0376 636839 - Fax 0376 1818203 Cercaci su FACEBOOK - presentARTsì Copertina - Nina Grafica © graficapura.com Stampa In Italia via web per conto di presentARTsì Castiglione delle Stiviere (MN) - 2020 presso Atena.net (VI) Tutti i diritti sono riservati, è vietata la riproduzione del testo, o parti di esso, senza l’autorizzazione dell’autore e dei curatori. Le vicende e i personaggi di questo romanzo sono frutto di fantasia e della libera elaborazione dell’Autore.
VITTORIA MARIA PASSERA
IL CASO WELSH
Gordon Welsh era seduto immobile con le braccia appoggiate al tavolo. Pesanti occhiaie rendevano il suo sguardo ancora più vacuo e assente. I riccioli biondi erano arruffati, privi di vita e non portavano più il ricordo del sollazzo dei giochi infantili. Alcune ciocche gli coprivano gli occhi, ma Gordon non fece alcun gesto per allontanare i riccioli ribelli. La maglietta bianca non mostrava alcun segno di stiratura, solo le pieghe di una notte insonne, trascorsa fra le mura dell’incubo. “Cos’è successo?”, chiese Nadin Anazar, cercando di fare breccia nel suo sguardo assente, ma non ottenne alcuna risposta. Il silenzio gravava pesante, più pesante di una colpa atavica. Nadin sapeva aspettare, non metteva fretta, sapeva come risvegliare i ricordi più atroci e tremendi, anche quelli messi sotto chiave nello scantinato buio dell’oblio. Era stata chiamata per quello: per risvegliare i ricordi di Gordon. Nadin era una giovane e brillante psichiatra di origini palestinesi, con studi americani e master in Europa. Era una donna molto apprezzata nell’ambiente e le sue pubblicazioni l’avevano fatta conoscere anche 1
ai “profani”, che spulciavano i suoi saggi nelle librerie e nelle biblioteche. Qualche apparizione in televisione, inoltre, l’aveva consacrata definitivamente, imprimendo sul piccolo schermo il suo sguardo berbero impreziosito da un trucco curato ed estremamente raffinato. A frapporla a Gordon c’erano un tavolo spoglio, un registratore che ingoiava il silenzio o le proprie domande rimaste a mezz’aria. Ma sapeva che al primo incontro non avrebbe dovuto esagerare. Sarebbe risultato inconcludente, oltre, che poco proficuo. Non poteva certo fare finta di nulla. Rimase ferma per parecchi minuti, che sembrarono un’eternità, nella posizione che più la contraddistingueva: le gambe accavallate, il braccio appoggiato al tavolo e, ogni tanto, stuzzicava la pashmina dai colori sgargianti. Poi azzardò a lanciare un cuneo per scalfire il muro di silenzio. “Ha già provato, in altre occasioni, sensazioni come quelle che provi adesso?”. Il suo timbro di voce era caldo, le parole scorrevano seguendo un invisibile binario ovattato fino a raggiungere il capolinea, nel labirinto di Gordon. Non ebbe alcuna risposta verbale. Il giovane alzò leggermente lo sguardo e lo inchiodò a quello di Nadin, stuzzicò le pellicine delle dita e contrasse la mascella. Con un gesto lento allungò il braccio e spense il registratore, si alzò e si fece accompagnare da 2
un agente, fuori dalla stanza. Nadin non cambiò neppure di un millimetro la sua postura, rimase immobile, seguì solo con lo sguardo l’uscita di scena del giovane Welsh. Si drizzò sui braccioli della sedia e si alzò velocemente. Portò con sé il materiale, inclusa la cassetta. La riavvolse nel mangianastri che aveva nel cassetto della sua scrivania e riascoltò il silenzio, le risposte rimaste inevase, il fruscio del movimento del corpo di Gordon, l’impercettibile scricchiolio della sedia. Socchiuse gli occhi e le parve di sentire persino l’aria pesante della stanza, l’odore di sudore di Gordon, di percepire il grigiore della sua esistenza. Ma non era da lei lasciarsi travolgere dai casi. Si destò d’improvviso come se un rumore l’avesse fatta sobbalzare e riavvolse il nastro. Schedò la cassetta e la mise nell’apposita busta. “Miss Cleen, sarebbe così cortese da farla archiviare? Sto uscendo per un appuntamento”. Non fece in tempo a raggiungere la fermata della metropolitana che le squillò il telefono. “Cos’è successo? Ma siete sicuri? Ci siamo lasciati poco fa… Va bene, non c’è problema, disdico l’appuntamento e in una ventina di minuti sono lì”. Chiuse il cellulare e si guardò attorno, come se facesse fatica a inquadrare o incasellare quell’atteggiamento di Gordon. Perché chiedere di lei proprio nel momento in 3
cui aveva deciso di immergersi nel silenzio? Voleva condurre lui il gioco? No, non era una persona così. Mise da parte le supposizioni e cercò di capire di persona, tornando sui suoi passi, cosa potesse essere successo. Quando entrò nella sala trovò il giovane nella stessa posizione e, se in quel momento lui non fosse stato lì, davanti ai suoi occhi, avrebbe potuto pensare che la seduta non fosse mai stata interrotta, come invece era accaduto diversi minuti prima. Si sedette davanti a lui e gli abbozzò un sorriso. Lui non contraccambiò. Ma Nadin conosceva bene quei segnali. Non disse nulla e aspettò che arrivasse il momento in cui Gordon avrebbe iniziato a raccontare la storia: la sua storia. Gordon si alzò, diede le spalle a Nadin, e fissò un punto sul muro. Come se lì trovasse il fulcro dell’ispirazione o la forza per iniziare a raccontare. Rimase immobile per alcuni minuti che a lui parvero un’eternità. Nadin non pronunciò alcuna parola, il registratore assimilava il silenzio. “Mio padre era da poco rientrato dalla guerra in Iraq. Ero fuori a giocare in giardino quando mi venne incontro e mi strinse forte a sé. Piangeva, mi accarezzava il volto e sorrideva. Non riusciva a dire uno straccio di parola. Era come se mi guardasse, ma non mi vedesse, i suoi occhi erano assenti”. 4
“Mio Dio, Ector, sei tu?”. “Mary, amore mio”. I due si strinsero in una morsa e in un unico pianto. Ector strinse la moglie e incominciò a farla girare come fosse una bambina. Le grida di gioia fecero uscire i vicini di casa, che si raccolsero subito attorno ai coniugi Welsh. Trovarono Ector scarno, ma felice e nello stesso tempo impaurito. Qualcosa nel suo sguardo era cambiato, era freddo, come se racchiudesse tutto l’orrore che la guerra gli aveva indelebilmente cucito addosso. “Cosa ricorda di quella giornata?”, chiese Nadine con voce pacata. Gordon si voltò di scatto e si sedette, fissando con lo sguardo Nadin. “Da allora mio padre non è più stato lo stesso. Ero felice di rivederlo, tutti quanti lo aspettavamo. Non si parlava d’altro. Qualcuno era già tornato, altri arrivavano con il contagocce. Ma tutte queste famiglie non erano che le più fortunate. Una delle nostre vicine di casa vide arrivare il marito in una cassa di legno. Mia madre iniziò a piangere a dirotto. Continuava a ripetere che se anche a lei fosse accaduta una cosa simile non sarebbe riuscita ad andare avanti”. “Lei cosa le disse?”. Sorrise con uno sbuffo e abbassò lo sguardo. “Come un ingenuo le dissi che c’ero io e che le sarei 5
sempre stato vicino”. “Avanti Gordon vieni a tavola, la cena è pronta”. “Cosa mangiamo?” “Lo stufato che piace tanto a papà”. “Papà, papà, mi racconti della guerra?”. “Non ora Gordon, papà deve essere lasciato tranquillo e deve riprendersi. Poi la guerra è una cosa brutta, dimentichiamola e torniamo a vivere come prima”. “Nulla tornerà più come prima – urlò Ector alzandosi di colpo, facendo cadere la sedia. Non si possono dimenticare il sangue, la morte, i corpi dilaniati e…”. “Ector, ti prego, c’è Gordon. È poco più che un ragazzino. Ti pregherei di non entrare in simili particolari”. “Come pensate che mi sia sentito in questi anni? Eh? – sbattè violentemente i pugni contro il tavolo e fece oscillare le stoviglie - Mi è passata la fame. Bevo un whisky e vado a letto”. “Gordon, forse è il caso che tu vada in camera tua a giocare con il computer, cosa ne dici? Oppure potresti leggere i fumetti”. In cucina piombò un silenzio irreale e pesante, Ector guardava fuori dalla finestra senza vedere nulla e trangugiava whisky senza neppure assaporarlo. Le sue espressioni mostravano il disgusto per ciò che stava bevendo, ma nello stesso tempo la necessità di bere qualcosa che lo stordisse, lo anestetizzasse non tanto nel corpo quanto nella mente. 6
“Che ti succede amore”, lo accarezzò sulla tempia. “Lasciami stare - urlò allontanando bruscamente il braccio della moglie – non voglio la tua compassione. Vattene a dormire che è meglio”. “Dopo tanto tempo è soltanto questo ciò che hai da dirmi?”. “Scusa se non ti ho portato dei pasticcini o un mazzo di fiori, sai, sono stato abbastanza occupato…”. “Sai perfettamente che cosa voglio dire…”. “Non so nulla invece, so solo che voglio essere lasciato in pace”. Gettò il bicchiere a terra e i vetri schizzarono ovunque, il suo sguardo era iniettato di sangue e la voce impastata. “Ma si può sapere che cosa vuoi?” “Ector volevo solo…” “Solo cosa eh? Che cosa? Ah… forse volevi una notte romantica…” “Ma che cosa stai dicendo”. La paura pervase la donna che venne afferrata dal braccio del marito, che la strattonò e la gettò sul divano. “Ora vediamo se i risultati sono all’altezza delle aspettative...”. “Ector che cosa vuoi fare?”. “Secondo te che cosa voglio fare? Allora brutta puttana, così va meglio?” “Lasciami Ector, che cosa fai, lasciami”. “Tu farai quello che ti dico io. È così che dai il benvenuto a tuo marito?”. “Non sai quello che stai facendo, sei ubriaco...”. “Non sono mai stato tanto lucido, voglio scoparti adesso, su questo 7
fottutissimo divano, non osare lamentarti”. “Lasciami Ector… No, no, no…”. Le strappò i vestiti di dosso, iniziò a muovere le sue labbra sul collo, Mary oppose resistenza con tutte le sue forze, il corpo di suo marito si muoveva violentemente su di lei, l’alito di whisky la stava stordendo e conati di vomito iniziavano a salirle fino alla gola. Poi smise di opporre resistenza, lasciò cadere le braccia, mollemente, mentre il marito le stava tenendo il capo reclinato con le mani fra le i capelli, come un avvoltoio con gli artigli conficcati nella preda. Un ultimo colpo di bacino, poi un rantolo di piacere ed Ector rovesciò il corpo della moglie giù dal divano. Le braccia della donna non ebbero la forza si sorreggersi, cadde sbattendo il viso contro la gamba del tavolinetto. Un rigagnolo di sangue le colò dalla guancia e fece tutt’uno con le lacrime. In cima alle scale Gordon, accovacciato, aveva assistito alla scena. “Hai ripensato spesso a quella scena?” “Non l’ho mai dimenticata. Per anni l’ho rivissuta quasi tutte le notti. Mi svegliavo completamente sudato e volevo correre in camera dei miei genitori. Ma avevo paura e allora mi nascondevo sotto al letto. Quando sentivo i passi di mio padre in corridoio, pregavo Dio che non entrasse e che si allontanasse da mia madre”. 8
“Hai mai assistito ad altre scene di questo tipo?” “Scene di questo tipo? La violenza era diventata il suo unico modo di farsi sentire. Non conosceva altri linguaggi. E mia madre non ha mai avuto la forza di reagire, doveva andarsene, doveva far marcire quel cane lontano da casa. È sempre stata una debole, non so neppure perché se lo sia messo in casa, quel brutto bastardo...”. La cassetta continuava a registrare le parole del giovane Welsh, Nadin lo guardava con mal celato distacco. Non aggiunse una parola, il suo silenzio fece proseguire il ragazzo nel suo racconto. “Il giorno dopo chiesi a mia madre che cosa si fosse fatta – riprese giocherellando con il polsino della maglietta - Mi disse di essere scivolata sul tappeto e di aver picchiato contro il mobile. Mi disse di stare tranquillo, che sarebbe stata solo questione di pochi giorni e poi i lividi sarebbero scomparsi. La sua risposta non mi convinse, ma feci finta di nulla e lei fece altrettanto.”. “E poi cos’è successo?”. “Un copione che si è ripetuto tante volte, troppe…”. “Mamma, mamma ho preso A nel compito di matematica”, Gordon spalancò la porta d’ingresso e fece cadere la cartella sul pavimento. “Avevi ragione, sono stato bravissimo e poi… Ma cosa ti è successo? Non puoi essere caduta ancora, mamma, ti prego, dimmi la 9
verità…”. Sua madre era inginocchiata e cercava si sollevarsi aggrappandosi al lavandino. Sul viso erano già comparse vistose tumefazioni e, da una ferita sullo zigomo, usciva del sangue. “Va’ in camera tua, tesoro. Ti prego…”. “Mamma, ma io…”. “Va’ in camera tua, ti prego, va’ via”, urlò la donna. Gordon non riuscì a staccare gli occhi da sua madre e istintivamente si avvicinò a lei, stese il braccino esile e le sollevò una ciocca di capelli. “Vattene via”, urlò suo padre che entrò in cucina, spalancando la porta. In una mano aveva un bicchiere con del whisky e nell’altra la bottiglia che oramai faceva intravedere il fondo. “Beh? Cos’hai da guardare in quel modo, vattene via. Sparisci in camera tua.” Gli tremavano le gambe, ma non voleva lasciare sola la madre, voleva difenderla con tutta le sue forze, quelle di un ometto gracile di dieci anni. Suo padre, vedendo che restava immobile, scolò l’ultimo sorso di scotch, gettò il bicchiere e la bottiglia sul tavolo e poi si scagliò sul ragazzino. Gli diede uno strattone violento e con un calcio lo fece sollevare dal pavimento; un ceffone fece desistere Gordon che, in lacrime, fece i gradini a due a due e si rifugiò nella sua stanza. Si nascose sotto al letto e si strinse forte i palmi contro le orecchie per non sentire 10
le urla del padre e il dolore di sua madre. Pianse talmente tanto che il torpore ebbe il sopravvento e si addormentò rannicchiato come fosse chiuso in un sicuro grembo materno. “Dove diavolo sei finito?”, l’urlo di suo padre che spalancò la porta. Il terrore ebbe la meglio e Gordon uscì di scatto, come se i muscoli fossero stati in tensione per ore ad aspettare proprio quell’ordine. “Stavo cercando una macchinina che pensavo fosse finita sotto al letto”, si giustificò con la prima bugia che gli venne in mente. “C’è da portare la legna per il camino. Sbrigati a scendere e dammi una mano. Smettila di fare quella faccia da donnicciola impaurita. Quando ti deciderai a crescere e diventare un uomo? Sono stufo dei tuoi capricci e dei tuoi piagnistei, sbrigati, va’ in cantina e incomincia a riempire la carriola”. “Ma papà…”. “Ho detto muoviti e mettiti sull’attenti quando parli con me. Chiaro?”. “Sì papà…”. “Devi dire Sì Signore e ubbidire senza fare storie. È chiaro?”. La domanda non prevedeva alcuna risposta e tanto meno alcuna obiezione. Ector afferrò per un braccio il figlio e lo strattonò fuori dalla camera. Lo vide scendere le scale di gran corsa e poi si diresse verso il bagno, dove sentì lo scroscio dell’acqua. 11
Trovò la moglie che si stava sciacquando il viso e stava per medicarsi il sopracciglio. “Tanto fai schifo lo stesso”, sentenziò con disgusto sputando in faccia alla donna. Girò i tacchi e si diresse verso la macchina. Corse via in gran volata, facendo stridere le gomme sull’asfalto, frenò soltanto davanti al negozio di superalcolici. “Come ti senti in questo momento?”. “Come vuole che mi senta… è sempre stato così. Poi è arrivata mia sorella e speravo che le cose andassero meglio. Speravo che la sua giovane età potesse in qualche modo proteggerla. Ma lui non si doveva permettere...”. “Cos’altro è successo in quella casa?”. Gordon scoppiò a piangere e Nadin istintivamente allungò la mano per spegnere il registratore. Non voleva consegnare al fascicolo altri singhiozzi. Voleva relegare quel momento con la scritta “pianto”. Un termine da verbale. Freddo. Indolore. Bastava il racconto del giovane per toccare con mano tutto il dolore e la disperazione nella quale la famiglia Welsh viveva da troppo tempo. Si alzò dalla sedia e allungò timidamente la mano fino alla spalla tremolante di Gordon che seguiva ritmicamente il movimento dei suoi singhiozzi. Non gli disse nulla, prese la cassetta e uscì dalla stanza. Decise che per quel giorno la seduta era 12
terminata. Mai come in quell’occasione sentì il bisogno di togliersi di dosso quella sensazione di pesantezza e di impotenza. Uscì dall’edificio e si lasciò investire dalla frescura dell’aria autunnale. Le foglie mulinavano agli angoli della strada e Nadin venne inghiottita dagli scalini della metropolitana. “Giornata pesante?”, domandò Thomas, non appena Nadin spalancò la porta di casa e fece cadere pesantemente la borsa per terra. “Non hai idea quanto”, confermò avvicinandosi per stampargli un bacio sulla guancia. Thomas sentì tutta la tensione, appoggiò la bottiglia di vino sulla mensola e strinse a sé la moglie. Rimasero avvolti per interminabili secondi nella calda morsa dell’amore e poi Thomas la osservò sistemandole qualche ciocca di capelli dietro alle orecchie. “Non ti ho mai vista così”. “A volte è difficile lasciare fuori da casa il proprio lavoro. Una vicenda drammatica, ma ora voglio rilassarmi e sono felice di essere tornata a casa in un orario decente. Poi trovarti in cucina a preparare una cena deliziosa non può che scaldarmi il cuore”. La complicità li portò a consumare il pasto con grande tranquillità, per concludere poi la serata sul morbido tappeto del soggiorno e fra le coperte di fronte al camino scoppiettante. 13
Quella sera Nadin amò particolarmente le premure di suo marito, era come se nel suo abbraccio ritrovasse la carica vitale che, spesso, il suo lavoro le rubava a morsi. C’erano casi che difficilmente riusciva a togliersi di dosso, il pensiero dei suoi pazienti e delle consulenze le frullavano per la testa soprattutto la notte. Ma dopo aver fatto l’amore con Thomas si sentiva immortale e sapeva che, grazie alla forza che le veniva da lui, avrebbe potuto sconfiggere il mondo. Si erano conosciuti fra i banchi dell’università, durante la specializzazione in psichiatria e, da allora, erano stati inseparabili. Si erano sposati non appena erano riusciti a mettere da parte un po’ di soldi e avevano arredato gradatamente la casa, scegliendo accuratamente ogni dettaglio: Mobili in arte povera, colori caldi per i divani e i tappeti, arazzi, quadri che avevano acquistato negli anni e una libreria, che riuniva la loro comune passione per la lettura. Nell’angolo c’era un vecchio grammofono del nonno di Nadin, ancora funzionante, che emetteva dei suoni gracchianti e a volte un po’ gutturali. Ma loro amavano quella strana musicalità e, soprattutto, a lei ricordava i pomeriggi in cui il nonno la sollevava in braccio e la faceva volteggiare, trasformandola in una principessa alla corte del suo principe. Ogniqualvolta avesse bisogno di sicurezza, tornava ad ancorarsi ai ricordi legati al nonno, alla musica che aveva fatto da colonna sonora negli anni della spensieratezza, 14
quando il futuro era solo una terra lontana carica di sogni e di speranze. Il freddo pungente del mattino fece strizzare gli occhi alla psichiatra che, istintivamente, si sollevò il bavero il più possibile e si calò il cappello fin quasi sugli occhi. Un’impresa elementare che per lei era ardua, visto che viaggiava sempre carica di borse, libri, faldoni e fascicoli. Quando la metropolitana la restituì alla città, si concesse un caffè e una brioche. Giusto per assaporare il calore della vita prima di doversi nuovamente imbattere nella recrudescenza e nel gelo dell’animo umano.
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Nadin era già seduta alla scrivania quando Gordon entrò nella sala. Non la degnò neppure di un saluto o di uno sguardo. Si sedette meccanicamente davanti a lei e fu lui stesso ad accendere il registratore che li divideva. Fissò il nastro che si muoveva in tutta la sua lentezza e senza attendere la domanda della psichiatra iniziò a raccontare. La memoria tornò agli anni della scuola obbligatoria e ai pomeriggi in cui avrebbe voluto giocare serenamente con i suoi amici. “Dai Gordon vieni con noi a giocare a baseball”. “Non so se mio padre mi lascia…”. “E finiscila di fare il mollaccione, esci e vieni a giocare con noi. Ti aspettiamo”. La primavera stava rendendo l’aria più calda e profumata, le urla dei bambini riempivano il silenzio che l’inverno aveva congelato. Gordon uscì di casa a gambe levate e si mise a giocare con gli altri ragazzi del quartiere. Correva a perdifiato fino all’affanno, gli faceva male il fianco, ma la gioia di quei momenti era il miglior anestetico. “Perché tuo figlio non è in camera sua a fare i compiti?”. 16
“È un ragazzino, non può stare tutto il giorno chiuso in camera sua e non può continuare ad assistere ai tuoi scatti d’ira. È soltanto un bambino che vede tutti i giorni sua madre massacrata di botte…”. “Chiudi quella maledetta bocca. Sei solo un’incapace che non riesce neppure a badare a suo figlio”. Uscì sbattendo la porta e si diresse verso il parco. Non appena Gordon vide suo padre, si fermò di colpo, rimase impietrito sulle gambette esili. Quando gli amici lo videro, presero il pallone e si allontanarono come animali che fiutano l’acre odore della paura. “Vieni subito a casa”, ordinò perentorio. “Voglio giocare”, rispose immobile, sfidando il pericolo. “Sono io che ti dico quello che devi fare, non tu”. Gli occhi di Ector si iniettarono di sangue e la sua mano avvinghiò la spalla del figlio. “Torna immediatamente a casa o ti faccio pentire di essere venuto al mondo”. Nel rientro a casa il generale Welsh manteneva il suo passo militare, come se stesse proseguendo la sua marcia verso la tana del nemico. Davanti alla porta c’era ad attenderli Mary, timorosa che l’ira del marito potesse abbattersi anche contro il figlio. Gordon si parò davanti alla madre e le fece da scudo per contenere la rabbia del padre. Ma era come un lillipuziano davanti a un Gulliver. Ector li fece entrare in casa e sbattè la porta con tutta la 17
sua forza. “Ora tu te ne vai in camera. Voglio sentirti studiare ad alta voce. Fra due ore esatte verrò a chiamarti e poi andrai a correre e fare esercizio fisico all’aria aperta. Così avrai modo di divertirti un po’, visto che ci tieni tanto…”. “Ma io non voglio andare a correre”. “Non ti ho chiesto che cosa vuoi fare. Ti ho detto quello che devi fare. E ora sparisci. Voglio sentirti studiare come si deve. Devi gridare talmente forte che devo capire parola dopo parola ogni vocabolo che esce da quella tua schifosissima bocca”. “Non puoi rivolgerti a lui in questo modo”. “Tu devi solo tacere. Non sarà certo una donna a dirmi quello che devo o non devo fare. Sono un generale e non prendo ordini, tanto meno da una sgualdrina come te”. “Lui non c’entra nulla con i tuoi problemi”. “A quali problemi ti riferisci? Allora?”. Ector afferrò per un braccio la donna scuotendola come una bambola di pezza. “Lasciala stare, non devi più farle del male…”. “Allontanati figliolo…”. Ector sollevò Gordon come fosse un sacco di patate e lo sbattè fuori dalla cucina, chiuse la porta a chiave e lasciò fuori le sue urla e i colpi dei pugni sulla porta. Mary era impietrita sapendo che avrebbe pagato a caro prezzo a quel predatore, che era suo marito, l’innato istinto materno. Ector iniziò ad eccitarsi sentendo l’odore della paura della moglie. Con estrema lentezza si ver18
sò del whisky, appoggiò la bottiglia al tavolo e iniziò a sorseggiare il distillato scozzese. Fece roteare il bicchiere e poi lo scaraventò a terra. Il vetro non resse, andando in frantumi che schizzarono al suolo, come scintille d’argento. Negli occhi della donna vi era la paura allo stato puro, conosceva perfettamente quello sguardo, sapeva quello che stava provando e sapeva ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto da lì a breve. Gli occhi di Gordon, inchiodati a quelli di Nadin, erano lucidi e rabbiosi. La psichiatra reggeva il suo sguardo e sentiva tutto il suo dolore, la sua disperazione; era abituata a confrontarsi con la parte peggiore dell’animo umano, ma c’erano storie che le trafiggevano il cuore e difficilmente riusciva a togliersi di dosso. Il “caso Welsh” era una di quelle. Più di una volta si era portata a casa la rabbia del giovane, il dolore della sua gioventù, il dramma di quella famiglia. Spesso, durante la notte, si era svegliata madida di sudore con il sonno sconquassato da quella storia. Era abituata ad ascoltare qualsiasi forma di orrore, si era abituata alla cattiveria e alla bestialità degli uomini, ma la violenza fisica sulle donne era una cosa che non era ancora riuscita a metabolizzare. Sentito il dolore che pervadeva la stanza, decise di porre fine alla conversazione, allungò la mano per spegnere il registratore e sfiorò le dita del giovane Welsh. Lui la guardò con fare imbaraz19
zato, si alzò di scatto e si fermò davanti alla porta mostrando alla psichiatra soltanto le spalle. L’acqua calda scrosciava nella vasca da bagno sollevando una nuvola di vapore che ben presto appannò lo specchio. Nadin si sfilò la maglietta sudata dopo aver fatto jogging nel parco. La gettò a terra così come fece con i pantaloncini e la biancheria intima per farsi poi scivolare nella vasca. Rimase qualche istante con gli occhi chiusi a respirare il profumo di bagnoschiuma, si riempì le narici, ma non appena il suo corpo iniziò a rilassarsi e dalla mente crollò il muro eretto per contenere i brutti pensieri, davanti agli occhi della memoria apparvero le ombre della giornata. La famiglia Welsh oramai albergava nella sua mente, si era insediata abusivamente e non riusciva a sfrattarla. I racconti di Gordon avevano avuto il sopravvento quando meno se lo sarebbe aspettata. Persino Thomas aveva notato che sua moglie, nonostante fosse una grande professionista, in quel caso si era fatta travolgere dalla piena dei ricordi del giovane, che avevano devastato gli argini dell’autocontrollo e del distacco eretti negli anni con tanti sacrifici. Neppure Nadin riusciva a capire il motivo di tanto coinvolgimento e in cuor suo sperava che, una volta archiviato il caso, anche la sua mente avrebbe fatto una sorta di opera di ripulitura. Si massaggiò le tempie a più riprese e iniziò a controllare il respiro con esercizi mira20
ti, fece esercizi di visualizzazione e, piano piano, sentì il suo corpo rilassarsi. Nel frattempo un lieve aroma stava arrivando dalla cucina e il calore dei profumi familiari le riscaldarono il cuore. Avvolta nell’accappatoio fece capolino fra i fornelli dove Thomas l’accolse sollevando il mestolo con finto fare minaccioso, come fosse un cavaliere intento a fare la guardia al proprio regno. “Oh, intrusa, come osate arrivare fin quaggiù?”, pronunciò con voluta enfasi. Nadin gli abbozzò un sorriso, ma era opaco e Thomas se ne rese subito conto. Le versò un calice di vino rosso, le sistemò, dietro l’orecchio, un umido ricciolo ribelle e la guardò con sguardo interrogativo. “Non so che cosa mi stia succedendo. Non riesco a togliermi di dosso la storia del giovane Welsh”. “Non è la prima volta che ti trovi ad affrontare un contesto di questo tipo…”. “Lo so. È questo che non riesco a capire. Non è la prima volta, eppure mi sono lasciata coinvolgere troppo. Forse dovrei lasciare perdere… dovrei affidare il caso a qualcun altro”. “Non dirlo neppure per scherzo”. “Ma se non riesco a guardare a tutto questo con distacco come faccio a…”. “Sei un essere umano anche tu. Forse è ora che te ne renda conto. Gli altri casi, in base a quello che mi hai raccontato, non erano proprio identici. Perciò è chiaro 21