ANTEPRIMA
Adriano Amati
BALLATE storie in versi
LA CLESSIDRA EDITRICE
ANTEPRIMA Adriano Amati
BALLATE
Storie in versi
Adriano Amati - Ballate. Storie in versi. Š La Clessidra 2013. Tutti i diritti sono riservati, nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma e mezzo (elettronico, meccanico, digitale) se non nei termini previsti dalla legge a tutela dei diritti d’autore. La Clessidra snc - tel 0522 210183 Redazione: via XXV Aprile, 33 - 42046 Reggiolo (Reggio Emilia) Sito web: www.clessidraeditrice.it
ANTEPRIMA Fate canzoni di questi versi e date musica alla rima perchÊ lo sguardo d’occhi diversi non veda il piede ma la cima.
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Prima parte
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Introduzione
Q
uesto poetare cerca la sua rima la metrica d’un bel verso regolare dove il dopo combacia con il prima e la parola sa sempre dove stare. Libero sì, ma per nulla casuale anzi costruito con regolarità richiede un’attenzione puntuale che l’autore con cura applicherà, lui lo sa che il suo cimento è duro come duro è restare nella gabbia dove non basta un pensiero sicuro né la passione che brucia con la rabbia. Perché il poeta è un uomo nudo senza certezza che questa nudità sia solamente il cimento più crudo non già poesia
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d’eccellente qualità, ma spogliato di pudore e ritrosia allestisce la propria esibizione e mette a frutto tanta maestria - come disse Pessoa con la finzione: certo, il poeta è un fingitore finge così bene e completamente che ogni volta crede sia dolore il dolore che - ahimè davvero sente. Malgrado ciò si torna a poetare ovvero a questo lento denudarsi: l’intimità è un libro da sfogliare la vetrina di chi ama raccontarsi. Qualcuno sa dir l’idea da dove viene e come nasce un’intuizione, dal limbo dove giace e si trattiene la magia di ogni ispirazione? E che cosa ci sospinge
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a rimare e cercare con la rima l’assonanza il suono della parola da sposare per cancellare dell’altra la distanza? È forse il mistero dell’invenzione tutte le ore vuote e solitarie o l’antico viaggio della narrazione che arriva da contrade millenarie? C’è il rischio del banale con la rima con la metrica e la musicalità ma non c’è alcun impegno che redima dalla colpa di questa sciocca vanità. Ciò nonostante qui si scrive in versi e già queste righe lo dicono chiaro vi si narra di personaggi diversi vite rubate da un fato corsaro, tutte vere o solo immaginate ricordi letti
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o davvero vissuti, innocenti dalle anime dannate incontrati o del tutto sconosciuti. Sono storie di vita a volte crude ma scritte in versi sembrano leggere come l’autore sono anime nude ma al contrario di lui proprio sincere. Cammino in via della desolazione che porta dritta alla fine del mondo dove angeli senza consolazione ballano tutti un triste girotondo: “giro giro tondo, qui casca il mondo la mattina ci si veste per la guerra poi si vivacchia a strisciare sul fondo e quando è notte... tutti giù per terra!” Ma rima vuol dire anche fenditura varco, taglio, di simile a crepaccio e dunque è sinonimo
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d’apertura non solo di catena briglia o laccio. Così il racconto diventa ballata apre un ventaglio di musicalità prende ritmo e con la rima baciata si lascia leggere con gran facilità. Sembra una filastrocca per bambini scioglie la lingua col gioco del richiamo qualcuno dirà: è cosa da cretini, come avere in fronte un bel ricamo! Ma per questo la si legge con piacere è più leggera e quasi divertente, non sempre serve l’erudito sapere a volte basta poco quasi niente. Perciò buona lettura caro amico (o forse sei una lei non posso dirlo) cosa ti offro adesso non lo dico ma se ascolti davvero puoi capirlo.
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Helga Cantico dell’Olocausto I
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cendeva la cenere sopra la neve. Il vagone strideva nella foschia tra il gelo e gli sterpi d’un inverno breve verso un destino d’oscura malia. Appesa al pertugio Helga guardava (1) quell’anno bisesto senza primavera mentre nel carro la gente supplicava le mani sul petto, come in preghiera. Bocconi di nebbia dietro quel cancello col fiato grosso il sibilo dei cani sagome scure, guardiani col cappello e un fremito nervoso nelle mani. Dal treno un vomito di bocche riarse un groviglio di cappotti e di braccia cercavano intorno le facce scomparse con un ricordo che non aveva faccia. I primi passi dicevano paura i primi suoni dicevano terrore la prima mano una presa sicura che spingeva sulla soglia del dolore. “Benvenuti clandestini europei a questo impegno di pane e lavoro, poiché siete tanti e non solo ebrei 1 La storia di Helga Deen, deportata e uccisa nel campo di concentramento di Sobibòr, è stata raccontata in un diario - Kamp Vught - dato alle stampe nel 2007. La studentessa diciottenne, uccisa assieme a tutta la sua famiglia nel 1943, qui è presa a simbolo della Shoah. Il 27 gennaio 2010 i versi di questo Cantico sono stati recitati al Teatro d’Arco di Mantova in occasione delle celebrazioni previste per il Giorno della Memoria.
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indosserete un piccolo decoro, e non vi sembri un gesto di dispetto questo numero da non dimenticare e il triangolo da mettere sul petto è solo per potervi organizzare: per Eva e Luz due gialli e rovesciati il verde è dei comuni criminali viola per Jahvé e blu per gli immigrati nero e rosa per gli omosessuali”. Cominciò così e sembrava un gioco come sedere al tavolo del poker ma il sospetto sopraggiunse poco a poco che il mazziere biondo fosse un joker: mischiava due carte di pane e lavoro poi le serviva sopra un piatto di latta e quando il banco valeva un tesoro lui d’improvviso calava la sua matta. II Nell’ospedale delle finestre rotte al petto delle madri, dietro una tenda furono le nenie dell’ultima notte le ossa sbiancate di quella vicenda: lei che s’oppose senza trovare il modo l’acuto dolore senza più franchigia le calze a terra, la veste appesa al chiodo l’indirizzo di gesso sulla valigia. Nuda e scavata tra le madri vicine v’inciampò un generale americano appena fuggite le scimmie assassine da quel male assoluto e già lontano. Helga ha vinto la sua ultima battaglia come un lampo ha afferrato il suo destino, l’ha scambiato con un lampo di mitraglia
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sottraendolo al delirio d’un camino. In un fiume di fango e di retorica che gonfia il ricordo come una marea la storia accoglie nella sua discarica l’ultimo gesto d’una magra giudea. Se guardi attentamente tutt’intorno e t’impegni a lucidare le sue ossa le panche, le docce, la bocca d’un forno la fede d’oro caduta nella fossa, sappi che altrove nei luoghi della storia un saggio presidente o un generale ha lucidato medaglie alla memoria e inviato corone al suo funerale. Che c’è nel baule sepolto in cantina che foto sorride da quel medaglione? Non più gli anni incerti di quella bambina né il sole d’agosto di quella stagione. Guardalo bene l’ovale luminoso il suo sorriso appena abbozzato che una stilla ha reso più umettoso ed un cattivo presagio rassegnato: ci trovi la forza e la fragilità un chiaroscuro accenno di speranza e un ampio orizzonte di possibilità che si nasconde e tace la distanza. III Una musichetta dagli altoparlanti una carezza sul volto raggelato come miele alle labbra più esitanti o la coppa di fiele al condannato. La follia è la noia d’un mattino d’un capitano armato sul balcone che punta dritto al petto d’un bambino
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gettato in alto tra cento persone. (2) Un piccolo angelo s’alza volando il suo nome è gridato da un cecchino che lo centra al primo colpo bestemmiando con l’occhio azzurro fisso sul mirino. C’è un bel sole per la caccia al coniglio lui rideva e sembrava non guardare ma c’è una macchia rossa su quel giglio e una donna s’è chinata a singhiozzare. Steso bocconi accanto alla madre gli si muove tra le costole nel petto lo stesso piombo con cui morì suo padre in trincea, con un colpo di moschetto. (Buffa la vita disse l’uomo invecchiato (3) mentre si radeva con una lametta, la stessa marca che uccise l’antenato colpito al petto da una baionetta). Bestia piccola, c’è poco da mangiare pensa deluso guardando la sua preda ma un cacciatore la va a recuperare perché teme che qualcuno non gli creda. Le madri in fila, le madri senza pianto con arlecchini di pezza tra le mani, come discepoli al seguito d’un santo come un gregge di pecore tra i cani. Nessun ricordo sarà abbastanza degno per quelle donne coi figli tra le braccia gettati in alto per farci il tiro a segno Nel campo di concentramento di Auschwitz un ufficiale tedesco sparò al petto d’un bambino, dopo aver esortato allegramente la madre a farlo volare in alto per gioco.
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Riferimento a uno scritto di Jorge Luis Borges, in cui lo scrittore argentino esprime ironico stupore al pensiero che la lametta da barba che sta usando per radersi abbia la stessa marca della sciabola che uccise un antenato della sua famiglia.
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e ruzzolati giù come carta straccia. IV Lo sguardo da una torretta di controllo non è mai rassicurante come deve ombre di uomini prossimi al tracollo sotto la sferza del vento e della neve. Dalle finestre del Museo dei Gessi (4) sagome sghembe della menomazione uomini che non saranno più gli stessi nelle vetrine della desolazione. La dignità ha un prezzo assai salato come l’orgoglio non si può rinunciare ma quegli uomini cosa avranno pensato chini sulle canalette a defecare? Ecco, arriva l’angelo della morte porta un barattolo di denti d’oro e una mandibola che mastica forte perché le bocche non hanno più lavoro, mette in fila le ciocche di capelli ben ordinate come strisce di bava da lumache senza guscio, vermicelli che con un colpo di tacco poi schiacciava. Ne hanno raccolte otto tonnellate in grosse casse, a scopo industriale il feltro è tra le stoffe rinomate (5) e l’oro, si sa, è un bene assai speciale. Ciò che rimane negli stanzoni vuoti 4 Il Museo dei Gessi era una sala del campo di concentramento di Dachau che ospitava i manichini di gesso degli arti mutilati dei prigionieri sottoposti a feroci esperimenti medici. 5 I prigionieri dei campi venivano rasati a zero e i loro capelli inviati alle fabbriche tedesche che li utilizzavano per produrre il feltro, stoffa abitualmente realizzata con l’infeltrimento di pelo animale.
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che il generale riuscirà a vedere sono i camici appesi degli idioti come fantasmi dell’ariano sapere: stavano là sugli scaffali in vista trapianti e innesti su gemelli crani vuoti e mascelle da dentista feti nelle urne come indovinelli seme di padri usato per le figlie ovaie strappate alla fertilità formaldeide per strane meraviglie pillole e veleni di varia utilità. Ciò che si compie in nome della scienza o d’un falso dio che spaccia verità fa della vita vanto di conoscenza e del dolore un dogma di santità. V Ventinove aprile. Dai reticolati (6) cento pigiama a righe bianche e nere il cuore fermo e gli occhi stralunati sorridevano alle nuove bandiere: le grige pupille, il cranio rasato la bocca ferma aperta allo stupore tenere labbra da zucchero filato razza d’orfani figli d’un dio minore. Ecco gli alfieri della pace facile seduti accanto al bravo moralista (l’uomo nuovo dalla coscienza docile pronto a issare la bandiera pacifista), con il sorriso di chi non ha rivali 29 aprile 1945 è la data della liberazione del campo di Dachau da parte degli Alleati. Le fotografie scattate dalla stampa militare quel giorno mostrano un gruppo di bambini denutriti, appesi ai reticolati, con gli occhi spalancati sulla colonna dei soldati che entra nel campo.
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masticano gomma e bevono birra compiaciuti come chi porta regali sembrano i Magi, con oro incenso e mirra: Gaspare getta caffè e cioccolata Baldassarre dolcetti e pane nero Melchiorre biscotti con la marmellata come dai carri d’un carnevale vero. Ma i fantasmi del campo spingono via la voglia d’entrare, lo sguardo che finge magari il lampo d’una fotografia che un magnetismo soffoca e respinge. Dentro le buche cataste imputridite sorvegliate dall’inesperto becchino per un banchetto di mosche impazzite che brindano col sangue color del vino: lui ne avrà di cose da dimenticare il pianto rappreso, la morte vicina e di certo non saprà mai raccontare il lezzo dolciastro della putrescina. VI Anche Norma Cossetto nel Quarantatrè (7) infossata dai titini partigiani subì il martirio senza sapere perché insieme a istriani dalmati e giuliani: mentre cadeva sentiva d’esser viva il sangue correva dai polsi al cuore ma la linfa del giglio impallidiva 7 Norma Cossetto (Santa Domenica di Visinada, 17 maggio 1920 - Antignana o foiba di Villa Surani, 4 o 5 ottobre 1943) era una giovane studentessa laureanda in lettere e filosofia presso l’università di Padova. Arrestata, subì il martirio da parte dei partigiani titini: legata nuda ad un tavolo fu violentata a turno da 17 aguzzini. Dopo che ebbero finito, le pugnalarono i seni, le conficcarono un paletto nella vagina e con i polsi legati con il filo di ferro, ancora agonizzante, la gettarono nella foiba di Villa Surani.
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e lo stelo non aveva più colore. Ventitrè anni, la tesi, la bellezza dormono adesso sul fondo d’una fossa ma se vuoi accennare una carezza puoi ancora lucidare le sue ossa: lo fanno i profughi del quartiere accanto le associazioni dei sopravvissuti e la nipote che la ricorda tanto davanti a una platea di sconosciuti. Epistassi d’opinioni, bulimia impossibile vestire certi panni, chi sopravvive è costretto all’afasia formula umana per evitare inganni: come si può indossare un tatuaggio la tuta a righe di chi si è denudato l’umiliazione e tutto il suo retaggio che fa dell’alba un risveglio sudato? Solo la vita è sacra per ciascuno sacra e libera senza nessun tabù e non la puoi delegare a nessuno: tra la vita e la morte decidi tu. VII Ero io quel generale americano che non guardava a terra e non sapeva e tu il cecchino con il cappello in mano che mi sparava addosso e poi rideva? Dov’erano i chierici del sapere confusi nel tempio con i farisei o come i poeti del sacro dovere riuniti a Madrid nel Trentasei? (8) Come stavano i volti del buonsenso con gli occhi bassi dietro le tendine contadini e borghesi d’ogni censo
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a contare i morti come figurine? E che disse il Papa dalla capitale nei grandi saloni del pio potere stretto al braccio del Nunzio cardinale che non voleva credere e sapere? Quando il vecchio Abrahm si diede fuoco e con Sarah svanì in una fiammata, quando il rabbino fu costretto al gioco di tener stretta la figlia violentata, quando il sadico smise di giocare e la cenere si fu depositata, quando ogni padre smise d’ascoltare il respiro della figlia dissanguata, forse un’eco giunse fino a Roma ma si smorzò nella volta consacrata dove ogni volontà è presto doma per la gloria d’una cattedra dorata. Qualcuno dice che non è accaduto, qualcun altro che bisogna ricordarlo, ma c’è il ricordo del sopravvissuto che ronza nel cervello come un tarlo. VIII Perché il dolore si sa è individuale tocca ciascuno, dico ciascuno e tutti chi già si è chinato a un capezzale sa che non cessa il computo dei lutti. Una freccia o un colpo di pugnale
8 In Spagna, durante la guerra civile, molti poeti spagnoli, latino-americani e di alcune nazioni europee, parteciparono ai fermenti culturali di Madrid e si impegnarono attivamente nella lotta contro le milizie di Franco. Tra loro, Federico Garcia Lorca, fucilato dalla guardia civile franchista a Viznar, e Miguel Hernandez, morto di tubercolosi polmonare nel carcere di Alicante.
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lo squarcio d’una bomba o d’un cannone con il gas od un veleno micidiale con uno sparo o un tuffo dal balcone, l’umano spesso muore anzi s’ammazza non importa lo strumento e la ragione uccidere è il marchio della sua razza pronta al fascino d’ogni suggestione: che l’Occidente non sa, non vuol sapere che l’Oriente riscopre nella storia che il Nord s’impegna ancora a non vedere che il Sud patisce senza alcuna gloria. Olocausto è una parola ambigua da usare solamente in certi lutti ma non si traduce in alcuna lingua e va bene per alcuni, non per tutti: non per i vietnamiti e gli irlandesi né per congolesi curdi e afgani non per gli armeni ed i palestinesi né per kossovari rom e tibetani. Tra tante verità unilaterali che la retorica morale ha imposto numerose omissioni madornali ed un silenzio voluto ad ogni costo. IX Lo stesso uomo che nacque a Betlemme per un destino di preghiere e riti piange la cupola di Gerusalemme (9) col volto e il nome di quanti son spariti. Riferimento alla Sala dei Nomi, presso il Museo dell’Olocausto Yad Vashem di Gerusalemme, un’ampia volta contenente le immagini degli ebrei uccisi nei campi nazisti. È un luogo di devota memoria, nel quale si recano ogni giorno centinaia di persone per onorare il ricordo delle numerose vittime.
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Poco distante nel Giardino dei Giusti (10) con gli alberi piantati alla memoria, tra colonne di pietra e mezzi busti sull’altare che celebra la storia, non ci sono canti sacri o paramenti né le mascherate dei cerimoniali ma quieti sussurri, lacrime silenti piovute da chissà quali temporali, nuvole sparse su tutti i continenti scese da un cielo infido e rancoroso. Se tu li piangerai con occhi dolenti sappi che assumi un carico oneroso: è carne macellata con le mani tue ma se proprio vuoi startene in disparte mangia la carne e non pensare al bue che il beccaio ha già fatto la sua parte. Pietre alle pietre e gesti consumati in fila indiana, lenti tra le tombe figli e nipoti con piaghe d’appestati e nella carne le schegge delle bombe, con la mestizia d’un gesto di pietà una per una quelle vite comprate depongono i sassi della verità per un domino di carte immacolate. E sul marmo del più Giusto tra i Giusti (11) 10 Dal 1963 in Israele opera una commissione cui spetta il compito di assegnare il titolo di “Giusti” ai non ebrei che, nelle diverse nazioni, aiutarono gli ebrei in uno dei momenti più bui della loro storia. 11 Così è stato definito Oskar Schindler, l’affarista che salvò la vita a 1.100 ebrei, comprandoli uno ad uno dagli ufficiali nazisti e portandoli a lavorare nella sua fabbrica: “Giusto tra i Giusti”. Per questo è stato seppellito nel Giardino dei Giusti a Gerusalemme, e ancora oggi migliaia di ebrei vanno a depositare una pietra sulla sua tomba, a testimonianza di quel ricordo incancellabile. La sua storia è narrata nel film di Steven Spielberg Schindler’s list, del 1993.
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