Neuroscienze anemos - Apri-Giu 2015

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ISSN 2281-0994

Trimestrale culturale a diffusione gratuita - Apr-Giu 2015 ♦ anno V - numero 17

Anemos neuroscienze

Trimestrale INTERDISCIPLINARE PER L'INTEGRAZIONE TRA NEUROSCIENZE E ALTRE DISCIPLINE

PENSIERO AL FEMMINILE

SOCIOLOGIA E PSICOLOGIA

eleonora fonseca pimentel La vita della politica e patriota italiana

isolamento del malato

Il disagio fisico, in caso di malattia cronica, può diventare anche psicologico PSICHIATRIA

il "CATTIVO GENITORE"

Il ruolo dei genitori nella creazione degli stati di vergogna e colpa dei propri figli

La civiltà della vergogna Colpa e vergogna tra psicologia, storia e sociologia

Chirurgia e psicologia

Letteratura

Il bossing è una variante del mobbing. Cosa accade quando la violenza e la vergogna avvengono in sala operatoria?

La contrapposizione tra civiltà di vergogna, tipica della cultura greca antica, e la moderna civiltà di colpa.

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Potrete contribuire così con le vostre idee


CENTRO DI NEUROSCIENZE ANEMOS Direttore sanitario: Dott. Marco Ruini

PSICOLOGIA CLINICA Psicodiagnosi (Dott.ssa Laura Torricelli) Psicoterapia di coppia e famigliare (Dott Federico Gasparini) Psicotraumatologia e EMDR (Dott.ssa Federica Maldini) Mindfulness (Dott.ssa Laura Torricelli) Psicopatologia dell'apprendimento (Dott.ssa Enrica Giaroli) NEUROPSICOLOGIA ADULTI

(Dott.ssa Caterina Barletta Rodolfi, Dott. Federico Gasparini)

NEUROPSICOLOGIA dello SVILUPPO (Dott.ssa Lisa Faietti, Dott.ssa Linda Iotti) AREA DI PSICHIATRIA Dott. Giuseppe Cupello Dott. Raffaele Bertolini

AREA DI OCULISTICA Dott. Valeriano Gilioli Dott. Vicenzo Vittici

SERVIZIO DI NEUROCHIRURGIA Dr. Marco Ruini: Responsabile Dr. Marco Ruini: Neurochirurgo, Patologia del rachide e cerebrale Dr. Andrea Veroni: Neurochirurgo, Patologia del rachide nell’anziano Dr. Andrea Seghedoni: Neurochirurgo, Instabilità del rachide Dr. Nicola Nicassio, Neurochirurgo, patologia del rachide e cerebrale Dr Raffaele Scrofani, Neurochirurgo, patologia del rachide e cerebrale

Collaborazioni

Dr. Ignazio Borghesi, Neurochirurgo Prof. Vitaliano Nizzoli, Neurochirurgo Prof. Lorenzo Genitori, Neurochirurgia Pediatrica Dr. Bruno Zanotti, Neurochirurgo

SERVIZIO DI TERAPIA ANTALGICA

Dr. Roberto Bianco, Anestesista, Terapia infiltrativa, Agopuntura Dr. Ezio Gulli, Anestesista, Terapia infiltrativa

SERVIZIO DI RIABILITAZIONE E RIEDUCAZIONE FUNZIONALE Dr. Aurelio Giavatto, Manipolazioni viscerali Dr. Nicolas Negrete, Fisioterapista Dott.ssa Maela Grassi, Osteopata SERVIZIO DI NEUROLOGIA E DI NEUROFISIOLOGIA Dr. Mario Baratti, Neurologo, Elettromiografia e Potenziali evocati Dott. Devetak Massimiliano, Neurologo, doppler tronchi sovraortici e transcranico Dr.ssa Daniela Monaco, Neurologia, Doppler transcranico per Parkinson ANEMOS | Centro Servizi di Neuroscienze Poliambulatorio Medico | Libera Università | Ass. Culturale Via Meuccio Ruini, 6 | 42124 Reggio Emilia tel. 0522 922052 | Fax 0522 517538 | www.anemoscns.it info@anemoscns.it | www.associazioneanemos.org

Centro di riferimento: Centro di Neuroscienze Anemos, Reggio Emilia. Centri Ospedalieri per la Neurochirurgia del rachide e le tecniche mininvasive: Casa di Cura Salus Hospital (Re), Ospedale di Suzzara (Mn), Casa di Cura San Clemente (Mn), Casa di Cura Villa Maria Cecilia di Cotignola (Ra). Ambulatori: Reggio Emilia, Correggio, Suzzara, Poggio Rusco, Mantova, Carpi, Modena, Fiorenzuola, Olbia e Agrigento.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

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Una visione interdisciplinare critica

l tema di questo mese è la vergogna. I testi pubblicati in questo numero miravano a mettere a fuoco è un atteggiamento mentale e un comportamento sociale per certi aspetti caratterizzante della nostra contemporaneità. Per una panoramica più esaustiva rimandiamo all'Introduzione al tema a pagina 16. Questo procedere per temi generali, concetti ampi, spesso familiari, ampiamente impiegati nella lingua quotidiana e quindi non sempre definibili con precisione, fa di «Neuroscienze Anemos» uno spazio, più che di ricerca, di proposta di discussione e punto di partenza per un dibattito. Rimane certamente la volontà divulgativa di alcune tematiche che altrimenti rimarrebbero confinate nella letteratura specialistica, ma si può tranquillamente affermare che questa finalità riveste la stessa importanza rispetto ad una proposta di dibattito problematico sui temi proposti. Paradossalmente, proprio dall'incontro di autori, professionisti e operatori culturali che operano in ambito specialistico (e quindi concettualmente delimitato) che deriva una proposta di interconnessione critica tra il sapere e l'osservazione della società, dell'uomo in genere. Questa esigenza di un sapere, o meglio di una visione, generale e certamente superficiale, risponde ad un'esigenza esistenziale e sociale al tempo stesso. Non è forse questo il concetto di formazione umana che si rivendicava in epoca rinascimentale? Non è forse una visione curiosa, non da specialisti,

che fa del cittadino oggi un individuo critico, capace di capire il mondo che gli sta intorno senza cadere nelle semplificazioni e negli stereotipi? Questa, forse, è l'epoca che più di ogni altra viene concepita come libera e sapiente. La rete e le comunicazioni globali contribuiscono a questa illusione. Una recente ricerca, del resto, mostra come proprio la possibilità di avere a disposizione una conoscenza potenzialmente infinita reperibile da internet crea l'illusione che porta a sopravvalutarci sul piano cognitivo. In altre parole, pensando di avere un archivio infinito a disposizione, ci riteniamo più sapienti di quello che in realtà siamo, non comprendendo lo scarto tra dati e comprensione degli stessi, tra fruizione passiva e sua visione critica. I mass mediologi, inoltre, sottolineano come quantità non sia per forza qualità. Produrre notizie false, teorie curiose e inverosimili, persino promuovere metodi terapeutici non scientifici e dannosi, è diventata cosa facile nell'era del web 2.0. Ecco, dunque, ancora una volta l'esigenza di un approccio critico, informato ma non in modo passivo e da fonti che non fanno altro che confermare le nostre idee. Una discussione interdisciplinare può contribuire a creare un atteggiamento più critico e prudente. Gli Editori La Clessidra Editrice Libera Università di Neuroscienze Anemos

Editoriale

Si possono inviare proposte di articoli, segnalazioni di eventi, commenti o altro all’indirizzo redazione@clessidraeditrice.it

Ci trovate anche su Facebook https://www.facebook.com/Rivista.Anemos https://www.facebook.com/LaClessidraEditrice

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SOMMARIO

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

La civiltà della vergogna Colpa e vergogna tra psicologia, storia e sociologia

Editore: Editrice La Clessidra / Anemos Redazione Via 25 aprile, 33 42046 Reggiolo (RE) redazione@clessidraeditrice.it Tel 0522 210183 Direttore Responsabile Davide Donadio davidedonadio@clessidraeditrice.it Direttore Scientifico Marco Ruini info@anemoscns.it Redazione: Marco Barbieri, Catia Corradini, Tommy Manfredini, Paola Torelli. Comitato scientifico* Adriano Amati Laura Andrao Mario Baratti Paola Barbati Mauro Bertani Raffaele Bertolini Vitaliano Biondi Sergio Calzari Ilenia Compagnoni Giuseppe Cupello Pinuccia Fagandini

Lorenzo Genitori Enrico Ghidoni Franco Insalaco Giovanni Malferari Antonio Petrucci Sara Pinelli Ivana Soncini Leonardo Teggi Laura Torricelli Bruno Zanotti Maria Luisa Zedde

Rubriche e notizie 06

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Registrazione n. 1244 del 01/02/2011 Tribunale di Reggio Emilia Iconografia: alcune immagini presenti in «Neuroscienze Anemos» sono tratte da siti internet contenenti banche dati di immagini di libero utilizzo. Qualora vi fossero stati errori e omissioni relativi al diritto d’autore l’editore rimane a disposizione per sanare la sua posizione.

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* Il comitato scientifico è composto da persone che partecipano a vario titolo e con continuità differente alle attività organizzate dalla Libera Università di Neuroscienze Anemos e di La Clessidra Editrice.

L'uomo macchina Il pensiero chiuso

Hanno inoltre collaborato:

Luogo di stampa

Ricordare o dimenticare?

▪ Come funziona il cervello degli innamorati? ▪ Ricordi artificiali ▪ L'incertezza dell'ansioso

Aurelio Giavatto, Morena Landini, Enrico Meglioli, Danilo Morini, Roberto Rossi.

E.Lui Tipografia - Reggiolo (RE)

Neuronews

di Davide Donadio

Incontri 12 Convegni Prossimi incontri al Centro Anemos


Anemos neuroscienze

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Vergogna

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Psichiatria / Psicoterapia La voce del "cattivo genitore"

I temi della vergogna e della colpa, indagati tra psicologia, storia e sociologia

I genitori hanno un ruolo nella creazione degli stati di colpa e vergogna dei propri figli?

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di Raffaele Bertolini

Psicologia / Medicina L'espressione della vergogna secondo Charles Darwin

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Arrossire: attenzione concentrata su se stessi, vergogna, timidezza, modestia di Aurelio Giavatto

Letteratura / Sociologia Civiltà di vergogna

La contrapposizione tra civiltà di vergogna e di colpa di Roberto Rossi

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Psicologia / Chirurgia Surgeon Bossing

Violenza e vergogna in sala operatoria di Bruno Zanotti

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Psicologia / Sociologia Pudore, questo sconosciuto che abita in noi

La nostra è stata definita la "società senza vergogna". Ma è possibile pensare ad una società senza un'emozione così fondamentale?

di Morena Landini

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Sociologia / Psicologia L'isolamento sociale del malato

Il disagio fisico, in caso di malattia cronica, può diventare anche psicologico. Inadeguatezza, disabilità e inattività pongono l'infermo ai margini della collettività: ne scaturisce un senso di vergogna spesso vissuto in solitudine

di Adriano Amati

Chiodi aguzzi e giuste spine Musica / Psicologia

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di Enrico Meglioli

Altri Approfondimenti

Il "prete rosso"

di Lorenzo Genitori

Eleonora Fonseca Pimentel: il personaggio

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Eleonora Fonseca Pimentel www.clessidraeditrice.it

di Danilo Morini


Neuronews

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Rassegna di notizie tra neuroscienza, filosofia e scienze cognitive

Come funziona il cervello Un esoscheletro degli innamorati? per tornare a camminare

Quando si è innamorati nel cervello si accendono una dozzina di aree cerebrali

Allo studio una struttura robotica per chi è affetto da disabilità

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ermettere di camminare a chi è costretto su una sedia a rotelle a causa di traumi o di malattie neurodegenerative. È questo l’obiettivo alla base della struttura robotica allo studio nel progetto riabilitativo intrapreso anche dall’Irccs San Raffaele Pisana di Roma. La struttura è composta da un esoscheletro indossabile che, grazie a sensori applicati sul corpo, permette al paziente con lesioni midollari di governare la protesi, camminare e muoversi. Il robot è stato ideato negli Stati Uniti per la terapia riabilitativa di pazienti affetti da patologie neurologiche come lesioni midollari, ictus, sclerosi multipla, lesioni cerebrali traumatiche e sindrome di Guillain Barrè. Inoltre, permette a persone colpite da paralisi o con scarsa forza negli avambracci di reggersi in piedi e di camminare. In questo modo non solo si assiste ad un enorme impatto positivo sulla vita dei pazienti, ma li si aiuta ad acquisire una migliore forza e resistenza. Come hanno spiegato i progettisti, l’esoscheletro robotico è realizzato in carbonio e acciaio e viene indossato dal paziente come se fosse una normale tuta. Ad azionarlo sono quattro motori elettromeccanici, alimentati da due batterie che permettono un’autonomia di circa quattro ore. Le intenzioni del paziente vengono trasformate in veri e propri movimenti delle gambe grazie a sedici sensori collegati al corpo.

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uò un sentimento irrazionale, come l’amore, essere spiegato dalla scienza? È quello che ha cercato di fare una ricerca della University of Science and Technology of China di Hefei in collaborazione con la Ichan School of Medicine di Mount Sinai di New York. Per la prima volta lo studio ha ottenuto prove empiriche delle alterazioni cerebrali legate all’innamoramento, attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale a imaging (fMRI). I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista «Frontiers in Human Neuroscience» e hanno mostrato come una dozzina di aree del cervello delle persone innamorate presentino un aumento della loro attività. Lo studio è stato compiuto su un gruppo di cento studenti volontari dalla Southwest University di Chongging di entrambi i sessi che sono stati divisi in tre gruppi: gli innamorati, quelli che avevano appena chiuso una relazione e quelli che non avevano mai avuto una storia d’amore. Tutti i soggetti sono stati sottoposti alla fMRI ed è stato chiesto loro di non pensare a nulla

in particolare mentre venivano sottoposti all’esame. Dai dati raccolti è emerso come gli innamorati presentassero un aumento dell’attività di una dozzina di aree cerebrali, tra cui corteccia cingolata anteriore dorsale, insula, amigdala, giunzione temporo-parietale, nucleo caudato e lobo temporale. Inoltre, questa maggiore attività era proporzionale alla durata della storia d’amore e collegato alla ricompensa, alla motivazione, alle relazioni sociali e alla gestione delle emozioni. Al contrario, in quei volontari che avevano concluso una storia d’amore, maggiore era il tempo trascorso senza amore e minore era l’attività di quelle aree cerebrali. I risultati ottenuti dai single nelle loro reazioni cerebrali erano simili a quelle ottenute da chi non aveva mai vissuto una storia d’amore. Secondo Xiaochu Zhang, capo della ricerca, lo studio ha fornito per la prima prova delle alterazioni dell’architettura sottostante al cervello correlate all’amore e i risultati hanno gettato una nuova luce sui meccanismi dell’amore.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

Ricordare o dimenticare? Il riportare alla memoria un evento passato porta a dimenticarne altri

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icordare e dimenticare sembrano essere due attività più legate tra loro di quanto si possa credere. Uno studio, compiuto dai ricercatori dell’Università di Birmingham e di Cambridge e pubblicato sulla rivista «Nature Neuroscience», ha dimostrato come il richiamare alla memoria un aspetto di un evento passato porti a dimenticarne tutti gli altri. Il degradarsi dei ricordi sarebbe, quindi, un fenomeno fisiologico dovuto un meccanismo cerebrale di controllo che porta a far emergere una singola traccia mnestica e ad inibire tutte quelle che potrebbero entrare in competizione con essa. La ricerca, condotta da Maria Wimber, ha evidenziato come il ricordo di un evento passato sia costituito dalla memoria dei singoli elementi che lo com-

Ricordi artificiali

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Creati ricordi artificiali durante il sonno grazie ad una stimolazione transcranica

i possono creare ricordi artificiali? Sembrerebbe di sì secondo quanto dimostrato da uno studio condotto da Gaetan de Lavilléon dell’Ecole Supérieure de Physique et de Chimie Industrielles de la Ville de Paris e dai colleghi di altri istituti francesi e pubblicato su «Nature Neuroscience». La ricerca è stata condotta su topi da laboratorio e ha dimostrato come durante il sonno sia possibile creare dei veri e propri ricordi artificiali usando

pongono. Quando cerchiamo di ricordare un evento, questi singoli elementi entrano in competizione tra loro, attivando un meccanismo di controllo che porta uno di loro a prevalere su tutti gli altri, che vengono soppressi e poi di conseguenza dimenticati. Per dimostrare ciò l’equipe di ricerca ha sottoposto un gruppo di volontari ad una serie di test di memoria, monitorando in contemporanea l’attività

una stimolazione transcranica di alcune aree del cervello durante una particolare fase di attività dell’ippocampo. In questo modo i topi sono stati portati a ricordare un determinato punto dell’ambiente dove in realtà non erano mai stati prima. L’ippocampo è la regione del cervello che fa da substrato neuronale alle mappe mentali che ci permettono di muoverci in un dato ambiente. A giocare un ruolo importante in questo processo sono le cellule di posizione, una specie di “GPS biologico”, che rilevano le coordinate spaziali del corpo. Durante il sonno i mammiferi riproducono l’attivazione che hanno avuto questi neuroni nella fase di veglia e, attraverso un particolare schema di onde cerebrali (SPW-R), viene consolidato il ricordo degli input spaziali.

cerebrale tramite una risonanza magnetica funzionale. Si è così scoperto come alcune tracce mnestiche venissero in un primo momento riattivate per poi venire infine soppresse. Come ha spiegato Michael Anderson, autore senior dello studio: “generalmente, si ritiene che pensare o dimenticare siano processi passivi: la nostra ricerca rivela che le persone sono più coinvolte di quanto ritengano nel dare forma a ciò che ricordano della propria vita. L’idea che l’atto stesso di ricordare possa causare l’oblio è sorprendente, e ci può fornire utili indicazioni sui meccanismi che controllano la memoria selettiva e sui fenomeni di creazione di falsi ricordi”.

I ricercatori hanno, quindi, condotto alcuni test per verificare se interferendo nella fase di consolidamento dei ricordi fosse possibile modificare il comportamento dei topi: a cinque topi addormentati sono stati stimolati, mediante elettrodi intracranici, i cammini neurali connessi ai processi di ricompensa, due topi hanno invece ricevuto una stimolazione non legata ai processi di ricompensa. Una volta svegli, gli animali che avevano ricevuto la stimolazione trascorrevano più tempo in un punto dell’ambiente in cui non erano mai stati, mostrando così che nel loro cervello si erano formati dei ricordi artificiali. Al contrario, questo comportamento non si manifestava nei topi in cui la stimolazione non era legata ai cammini di ricompensa.

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Rassegna di notizie tra neuroscienza, filosofia e scienze cognitive

L’incertezza dell’ansioso

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Le persone ansiose hanno particolare difficoltà a valutare gli esiti delle decisioni

uando devono prendere una decisione con un esito difficile da prevedere, gli ansiosi presentano una particolare difficoltà nel valutare in modo corretto la possibilità che si verifichi in futuro un evento avverso. È quello che è emerso dal nuovo studio pubblicato sulla rivista “Nature” ad opera di Michael Browning del John Radcliffe Hospital di Oxford e colleghi di istituti tedeschi e statunitensi. Secondo i dati raccolti, l’ansia sarebbe correlata all’incapacità di valutare in modo corretto la statistica degli eventi avversi e la probabilità che questi si verifichino in futuro. Questo porterebbe alla

difficoltà di prendere decisioni in situazioni che possono sfociare in un esito negativo e non farebbe altro che accrescere il livello di ansia nei soggetti. I ricercatori hanno quindi ideato uno studio per esaminare in che modo si comportano i soggetti con i livelli di ansia più elevati in quelle situazioni in cui le scelte possono portare ad esiti imprevedibili e spiacevoli. Il test a cui sono stati sottoposti prevedeva che i soggetti dovessero scegliere tra due forme geometriche visualizzate su uno schermo: in base alla scelta, i soggetti ricevevano con una certa probabilità una scossa elettrica, d’intensità variabile e dopo un intervallo

di tempo variabile. I soggetti sono stati sottoposti più volte a questo test ed è stata data loro la possibilità di cambiare le proprie scelte sulla base di una valutazione della probabilità di ricevere una scossa elettrica. È così emerso che i soggetti più ansiosi erano meno in grado di adattare le proprie scelte sulla base delle informazioni disponibili. Inoltre, misurando la dilatazione delle pupille dei soggetti, parametro legato alla risposta neurofisiologica del sistema locus coeruleus-norepinefrina, i ricercatori hanno notato che questa era minore nei soggetti più ansiosi quando la correlazione scelta-scossa era più imprevedibile. Un ulteriore conferma, quindi, del fatto che l’ansia ha un ruolo importante nell’influenzare la capacità valutativa e l’apprendimento in situazioni stressanti.

Raffreddore addio?

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Identificato il codice genetico del virus

na ricerca condotta da due università inglesi, e pubblicata su «Pnas», potrebbe aprire la strada a nuove cure contro il virus del raffreddore: gli studiosi hanno, infatti, identificato il codice genetico del virus e hanno impedito che questo potesse replicarsi. I ricercatori delle università di Leeds e York hanno studiato, tramite computer, la struttura dell’acido ribonucleico (Rna) di una molecola di rinovirus, il virus del raffreddore, e all'interno della sua sequenza genetica hanno trovato una sorta di codice nascosto. Come già sappiamo, il rinovirus attacca le cellule delle prime vie respiratorie provocando un’infiammazione che porta alla dilatazione dei vasi sanguigni che irrorano la mucosa nasale. In questo modo viene ostacolato il passaggio

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dell’aria e si ha una eccessiva produzione di muco. I risultati della ricerca, che necessitano tuttavia di ulteriori test prima di portare alla creazione di un farmaco specifico, potrebbero aiutare la persone a difendersi non solo dal raffreddore, ma anche da un vasto gruppo di virus infettivi. Come ha spiegato il biofisico Roman Tuma: “abbiamo capito da decenni che l’Rna trasporta i messaggi geneti-

ci che creano le proteine virali ma non sapevamo che, nascosto all’interno del flusso di lettere che usiamo per indicare le informazioni genetiche, c’è un secondo codice che governa l’assemblaggio del virus. È come trovare un messaggio segreto fra tante notizie ordinarie ed essere in grado di rompere l’intero sistema di codifica che si nasconde dietro di esso”. “Queste nuove informazioni ha specificato Peter Stockley, professore di Chimica della Facoltà di Scienze biologiche di Leeds - risolvono una specie di “codice Enigma” e permettono di avere un’idea di come funzionano i virus. Abbiamo dimostrato che possiamo leggere i messaggi di questo enigma e in futuro potremo trovare una soluzione per fermare la diffusione del virus”.


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BREVI Le false memorie dei bombi Proprio come gli esseri umani, il bombo può fondere diversi ricordi in uno solo

A Il narcisismo nei bambini I bambini costantemente sopravvalutati dai genitori sarebbero più narcisisti

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n nuovo studio condotto sui bambini conferma ciò che ipotizzava la teoria psicologica dell’apprendimento sociale sull’origine del narcisismo: a manifestare maggiormente questo tratto di personalità sarebbero i bambini costantemente sopravvalutati dai genitori. A condurre la ricerca, pubblicata sui «Proceedings of the National Academy of Sciences», sono stati Eddie Brummelman e colleghi dell’Università di Amsterdam. Il narcisismo si struttura fin dall’infanzia. È un tratto della personalità presente in tutti i soggetti in modo più o meno lieve e nei casi più estremi può sfociare nel disturbo di personalità narcisistica. Il narcisista pensa di essere superiore agli altri e ritiene di meritare un trattamento speciale in ogni occasione. Se si sente umiliato, può comportarsi in modo aggressivo o violento e presenta un rischio più elevato di incorrere in problemi di salute mentale come dipendenza da sostanze, depressione e ansia. Esistono due teorie che cercano di spiegare la nascita di questo tratto di personalità, sempre più in aumento nei paesi occidentali. La prima, quella dell’apprendimento sociale, ritiene che più i genitori sopravvalutino il bambino, suggerendogli fin da piccolo l’idea di essere migliore rispetto agli altri, maggiori siano le probabilità che diventi narcisista. Secondo la teoria psicoanalitica, invece, svilupperebbero il narcisismo quei bambini che hanno genitori che dimostrano loro poco affetto e uno scarso apprezzamento. Il bambino, quindi, reagirebbe mettendo se stesso su un piedistallo, in modo da ottenere dagli altri quella approvazione che non riceve dai genitori. Per verificare quale di queste due teorie sia vera, l’equipe di ricerca ha esaminato 565 bambini olandesi di età compresa tra 7 e 11 anni. Ai bambini e ai loro genitori sono stati sottoposti alcuni questionari nell’arco di un anno e mezzo. Scopo delle domande era valutare il grado di narcisismo dei piccoli, la loro autostima e il rapporto coi genitori. Le risposte ottenute confermerebbero la teoria dell’apprendimento sociale: secondo i dati raccolti, infatti, la sopravvalutazione da parte dei genitori era correlata al tratto narcisistico dei bambini, mentre anche la mancanza di calore nelle cure genitoriali promuoverebbe l’autostima dei bambini.

nche il bombo, un insetto della famiglia degli apidi, presenta gli stessi problemi di memoria degli esseri umani. A dimostrarlo, uno studio pubblicato su “Current Biology” da Kathryn Hunt e Lars Chittka della Queen Mary University di Londra. Il bombo, infatti, può fondere diversi ricordi in uno solo, in modo molto simile a quanto fanno gli esseri umani e presentare per questo motivo problemi di memoria, come ha dimostrato lo studio, in cui alcuni insetti sono stati addestrati a ricevere una ricompensa dopo aver riconosciuto fiori di colori diversi. Questo, che a prima vista potrebbe sembrare un malfunzionamento, ha tuttavia, un preciso significato dal punto di vista adattativo: dimenticare alcuni particolari e ricordare solo le caratteristiche principali di un oggetto fa risparmiare risorse cognitive.

Depressione post partum Al via uno uno screening per prevenirla

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n recente studio italiano, STRADE (Screening e Trattamento precoce della Depressione post partum), coordinato dal reparto di Salute mentale del Cnesps-Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto Superiore di Sanità, con il supporto del Ccm-Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie del Ministero della Salute, ha permesso di ideare un test per individuare i sintomi della depressione post partum. In questo modo è possibile iniziare subito le terapie per alleviare i sintomi di questa patologia. La ricerca è durata due anni e ha coinvolto circa duemila donne. A quelle che sono risultate positive alla depressione post partum è stato proposto un trattamento psicologico efficace ideato da Jeannett Milgrom, una dei maggiori esperti mondiali dell’argomento. Questo consiste in un intervento con approccio di tipo cognitivo-comportamentale di gruppo o individuale che sfrutta le potenzialità dell’auto-mutuo aiuto tra donne e coinvolge anche i partner. I risultati ottenuti sono stati incoraggianti: circa i due terzi delle donne sottoposte al trattamento ha riportato miglioramenti clinicamente significativi.

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L'uomo macchina

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Appunti liberi tra filosofia della mente, divagazioni antropologiche e letterarie

Il pensiero chiuso

Ideologia politica e religione, due esempi di pensiero “escludente”

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di Davide Donadio

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'attualità è spesso spunto per discorsi più ampi intorno all'uomo e alla società. In questi anni di rinnovato scontro con l'Islam, per l'Occidente si presenta l'ennesima occasione di sperimentare il ruolo delle religioni e dei pensieri “totalitari” nella società umana. Purtroppo pare che la reazione collettiva sia tutt'altro che “illuminista”. L'Occidente, e l'Italia in particolare, si riscopre religiosa e cattolica in tanti fatti di cronaca riguardanti in particolare la separazione tra stato e chiesa negli spazi pubblici. La reazione, dunque, piuttosto che di razionalizzazione, diventa contrapposizione e difesa. Ad un pensiero chiuso, si risponde con pensiero chiuso. Vorrei dare una definizione di pensiero chiuso, intendendo con questo termine non solo una formula potenzialmente polemica di discussione laica, ma una definizione, per così dire, filosofica. Nel definire il “pensiero chiuso” si può dire che i primi spazi sociali e mentali dove è possibile constatarne la presenza, sono proprio la religione e la politica. Le ideologie, qui intese come insieme di principi assunti come dogmi che non si possono mettere in discussione, sono per loro stessa natura forme di pensiero chiuso ed escludente.

Si elabora una giustificazione delle cose, una spiegazione del mondo, e si traccia una “norma” e una verità sostenute da valori accettati come dati. Fuori da questi c'è la mancanza di verità, c'è il male e in qualche caso c'è il nemico da distruggere fisicamente. È interessante notare come i presupposti del "pensiero chiuso" possano essere persino opposti, come avviene per la religione e per ideologie politiche quale fu il materialismo marxista che nel periodo della guerra fredda assunse il ruolo di corpus dogmatico nei paesi del blocco comunista. In un presente che, nonostante la crisi economica pluriennale, concepisce se stesso come avanzato e potente in seguito al progresso tecnologico impetuoso dell'ultimo mezzo secolo (che sembra svelare via via ogni mistero e risolvere problemi un tempo insormontabili), il “pensiero chiuso” rimane come pensiero dominante del nostro modo di relazionarci come esseri umani. E questo avviene nella tribù remota, come nella metropoli postindustriale. L'universalità di questo atteggiamento mentale nel tempo e nello spazio

porta qualche volta la riflessione antropologica e filosofica a sostenerne l'inevitabilità determinata dalla stessa natura umana. Secondo una tale concezione - che qui non vorrei delineare attraverso autori o correnti di pensiero, ma in modo intuitivo proprio per la nostra natura sociale siamo portati a formare gruppi che per sopravvivere hanno bisogno di compattarsi e di assumere visioni escludenti e proteggersi da potenziali nemici esterni o, come nel caso delle religioni, dall'idea della morte e dalla sofferenza.


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

Immagini - A destra, foto del filosofo Karl Popper. In alto, foto di propaganda del sedicente stato islamico, gruppo armato che tenta di imporre l'islam integralista in vari paesi del Medio Oriente.

Ma è veramente così? Chi scrive queste note di riflessione pensa che la risposta sia negativa. Che il “pensiero chiuso” domini e abbia dominato spesso la storia umana è un dato difficilmente smentibile, ma che sia una cosa inevitabile è falso. Non lo dimostra solo il fatto che alcune brevi epoche della storia sono divenute insolitamente consapevoli di questi meccanismi (si pensi al relativismo dei sofisti e degli illuministi), ma anche la possibilità di comprendere il funzionamento del “pensiero chiuso” e quindi di porvi in parte rimedio. Di rimedio, si parla, perché il “pensiero chiuso” diviene anche problema sociale, qualche volta politico, e persino militare. Una società in cui il “pensiero chiuso” è presente contiene all'interno sempre un fattore di deflagrazione. Si pensi alla patria tradizionalmente intesa come terra di libertà, gli Stati Uniti d'America. I più pericolosi tentativi del fanatismo cristiano di condizionare la vita sociale si verificano proprio in terra americana, come avviene ad esempio nella pretesa di insegnare il creazio-

nismo nelle scuole pubbliche ponendolo sullo stesso piano della visione scientifica. Ovviamente la contraddizione di questo discorso è dietro l'angolo. Impossibile (e “ingiusto” in un senso che andrebbe spiegato) pensare di vietare ad un individuo di abbracciare un qualsiasi credo politico o religioso. Un atteggiamento di questo tipo finirebbe esso stesso per divenire “pensiero chiuso”. Karl Popper, nella sua nota opera La società aperta e i suoi nemici, individuava le cause del totalitarismo nella persistente presenza nella società del pensiero magico e del tribalismo, elementi che impediscono di applicare metodi razionali e critici per la risoluzione dei problemi. Una via d'uscita egli la vedeva nel pensiero scientifico inteso solo come descrizione dei fenomeni, e non come approccio essenzialistico (cioè finalizzato a scoprire la vera natura delle cose, quindi supponendo una verità di fondo indiscutibile). Il passo ulteriore che forse Popper non ha voluto fare è la necessità di

una visione sociale relativista. Popper intendeva la verità, anche assoluta, come ideale regolativo e meta ideale, ma nella realtà sempre ipotetica e congetturale. Il relativismo e lo scetticismo, da sempre ritenuti pericolosi e contraddittori da chi per mestiere cerca di trovare la “verità”, sono però rimedi, o almeno tamponi, per i danni del “pensiero chiuso” se vengono assunti in chiave sociale e non ontologica o metafisica. Sopra, infatti, si è parlato di visione sociale relativista, intendendo prima di tutto la necessità di pluralismo e la presenza di strumenti (questi sì coercitivi, ma in termini consensuali nati da un patto sociale) atti a garantire che un “pensiero chiuso” divenga norma e fattore escludente per coloro che non vi si riconoscono. Forse, tirando le somme di queste brevi note, tutta la questione si risolve ad un problema di politica dell'istruzione e di pedagogia. Solo così riusciremo ad educare noi stessi all'apertura. ♦

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Incontri

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

Nuovi aspetti della normalizzazione viscerale Corso pratico, 24-27 settembre

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i svolgerà dal 24 al 27 Settembre presso il Centro Anemos Reggio Emilia il corso teorico pratico di Medicina Manuale su "Nuovi aspetti della normalizzazione viscerale: le due medicine a confronto tra esperienze somatiche ed emozionali, dialogo non verbale e disfunzioni viscerali". Il corso è tenuto da Benjamin Katz, Terapista Manuale, con il contributo del dr. Marco Ruini, Neurochirurgo e Neurologo. Argomenti trattati: - Tra Soma e Psiche: la diagnosi differenziale delle disfunzioni somatiche ed emozionali ed il dialogo non verbale con il paziente. - La diagnosi Termica Manuale per le disfunzioni viscerali somatiche e/o emozionali. - L’approccio manuale al viscere cervello: la percezione palpatoria della sua motilità e delle sue principali disfunzioni. - I neuroni a specchio e nel riconoscimento dell’altro; la teoria polivagale e la neurocezione di Porges (dr. Marco Ruini). - La Motilità Intrinseca ed Estrinseca dei visceri nella diagnosi delle disfunzioni intraparenchimali (endodermiche o ectodermiche) verso quelle extraparenchimali (mesodermiche). - Red flags in Medicina Manipolativa dal punto di vista del Neurologico-Neurochirurgico (Dr. Marco Ruini). Il corso è rivolto a medici, osteopati, fisioterapisti e operatori sanitari che si occupano di terapia manuale. È un corso teorico-pratico per un massimo di 20 partecipanti con dieci lettini a disposizione. Il corso sarà in lingua inglese con traduzione simultanea. Assistente: Jonni Skiaevold Organizzatore: Dr. Aurelio Giavatto Sede: Centro Anemos, Reggio Emilia, Via Meuccio Ruini Costo: 500 euro + IVA Iscrizioni: per informazioni di tipo amministrativo rivolgersi alla segreteria: Centro Anemos - info@anemoscns.it - tel. 0522-922052 per informazioni di tipo tecnico rivolgersi al dr. Aurelio Giavatto: Aurelio.giavatto@gmail.com - cell. 3466682612.

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Giochi mimetici dell'io

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Un percorso alla scoperta del soggetto e dell'identità

i svolgerà tutti i giovedì di maggio presso il Centro Anemos di Reggio Emilia (via Meuccio Ruini, 6) alle ore 20,30 il seminario dal titolo "Giochi mimetici dell'io. Un percorso alla scoperta del soggetto e dell'identità" a cura del filosofo e autore Franco Insalaco. Argomento degli incontri sarà l'invisibile formazione del soggetto che si attiva dal momento in cui siamo "gettati nel mondo". Nei primi due incontri si esaminerà il processo di costruzione del soggetto attraverso un approccio filosofico, psicoanalitico, linguistico e neuroscientifico. Si comprenderà perché il soggetto è formato, casualmente, dalle condizione materiali in cui l'infante viene al mondo. Poesia e letteratura, uscite dal periodo romantico con un atto di rottura, hanno messo al centro, invece di Dio e dell'umano, il soggetto. In altri due incontri insieme ai poeti Mallarmé, Lautremont e ad altri autori di opere letterarie del Novecento si seguirà la decostruzione sintattico logica dell'identità. La mimesi classica diventa così rivoluzionaria. È gradita la preiscrizione. Gl incontri sono a carattere gratuito. Per maggiori informazioni si può contattare il Centro Anemos a questi recapiti: e-mail: info@anemoscns.it tel. 0522 922052.


A Il tema del numero

La civiltĂ della vergogna

Colpa e vergogna tra psicologia, storia e sociologia

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Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

La civiltĂ della vergogna

Colpa e vergogna tra psicologia, storia e sociologia

Mappa concettuale: il Tema del numero

Percorsi interdisciplinari

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PSICOLOGIA e medicina

Arrossire: attenzione concentrata su se stessi, vergogna, timidezza, modestia

letteratura e sociologia La contrapposizione tra civiltĂ di vergogna e di colpa

1 psichiatria e psicoterapia I genitori hanno un ruolo nella creazione degli stati di colpa e vergogna dei propri figli?

Dalle neuroscienze alle scienze umane e sociali 14


Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

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Strumenti di lettura I testi di «Neuroscienze Anemos» sono idealmente suddivisi in In - Interdisciplina App - Approfondimenti R/Np - Ricerca e nuove proposte Agli articoli viene inoltre assegnato un numero che indica la complessità di comprensione del testo da 1 a 5.

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psicologia e chirurgia

PSICOLOGIA e sociologia sociologia La nostra è stata e psicologia definita la "società senza vergogna". Ma è possibile pensare ad una società senza un'emozione così fondamentale?

Il disagio fisico, in caso di malattia cronica, può diventare anche psicologico. Inadeguatezza, disabilità e inattività pongono l'infermo ai margini della collettività: ne scaturisce un senso di vergogna spesso vissuto in solitudine

Altri approfondimenti

Ovvero sia della violenza e della vergogna in sala operatoria

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Musica E PSICOLOGIA Antonio Vivaldi: il "prete rosso"

PENSIERO AL FEMMINILE Eleonora Fonseca Pimentel

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Approfondimenti interdisciplinari e altri punti di vista 15


Psicologia Sociologia

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lla voce del vocabolario Treccani, nella sua accezione principale, la vergogna è definita come “sentimento più o meno profondo di turbamento e di disagio suscitato dalla coscienza o dal timore della riprovazione e della condanna (morale o sociale) di altri per un’azione, un comportamento o una situazione, che siano o possano essere oggetto di un giudizio sfavorevole, di disprezzo o di discredito”. I significati per così dire secondari della vergogna, d'altra parte, vengono associati a “ritegno suggerito da senso di discrezione o da timidezza” o a un “fatto o situazione che costituisce o che reca disonore e discredito”. Queste poche note lessicografiche fanno capire che il termine “vergogna”, come sempre accade per i temi trattati su «Neuroscienze Anemos», è concettualmente molto ampio. Il lavoro di “circoscrizione” operato dagli autori dei testi che seguono ha dunque il ruolo di mettere in risalto le questioni principali di questo atteggiamento mentale/comportamento sociale e darne una visione interdisciplinare. Raffaele Bertolini (Psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale) analizza la vergogna dal punto di vista delle aspettative genitoriali, dei progetti di vita falliti che possono innescare conseguenze in coloro che subiscono la condizione di pressione sopra citata. Queste situazioni sono generatrici potenziali di stati di disturbo depressivi e di “colpa depressiva” che molto si avvicinano alla concezione della vergogna del linguaggio comune. Si tratta di una credenza patologica di colpa che si riverbera pesantemente nei rapporti interpersonali. L'articolo analizza anche singoli casi clinici. Aurelio Giavatto (Medico specialista in dermatologia e venerologia con interessi neuroscientifici) analizza i meccanismi fisiologici del rossore che compare in particolari stati di disagio psicologico, tra cui la vergogna, e i presupposti psicologici dello stesso. Nel testo il Dott. Giavatto suggerisce che le reazioni di timidezza e vergogna abbiano anche una funzione evolutiva, almeno di tipo sociale, nel determinare un'attenzione dell'individuo su se stesso rispetto al comportamento morale e alla società nel quale esso si svolge. Considerazioni che hanno come

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punto di partenza Darwin e la sua analisi sull'espressione delle emozioni. Roberto Rossi (Dottore di ricerca in filologia greca e latina) fa una digressione storico-culturale, prendendo in considerazione i presupposti della cultura greca, in particolare nel testo omerico, che fanno della cultura occidentale una “civiltà della vergogna”, forma psicologica e sociale profondamente legata nell'antichità ad un'etica guerriera e ai concetti di rispetto, virtù, prestigio. Si sottolinea, inoltre, che la “vergogna” evolve in “colpa” anche grazie alla tematizzazione della colpa nella tragedia greca e poi nel cristianesimo. Bruno Zanotti (Neurologo e neurochirurgo, Dottore di ricerca in Scienze e tecnologie cliniche) argomenta come spesso la vergogna sia conseguenza di comportamenti violenti subiti, per esempio nella violenza sessuale e nel mobbing. Si analizza, in particolare, la variante del mobbing detta bossing, ovvero del mobbing praticato non da colleghi, ma da chi occupa posizioni gerarchicamente superiori in ambito lavorativo su un subalterno. Uno dei contesti in cui ciò può accadere, è il contesto medico ospedaliero, preso in esame dal testo. Vengono ipotizzate cause psicologiche di coloro che mettono in atto questo particolare tipo di mobbing e alcuni “consigli pratici” per difendersi da questa situazione. Morena Landini (psicologa) affronta il tema della vergogna declinato nella sua variante di pudore, in particolare relativamente all'ambito sessuale e in generale del corpo e al mutamento degli stereotipi sociali in relazione ai comportamenti individuali. Adriano Amati (giornalista e scrittore) affronta la tematica della reazione sociale alla malattia, in particolare alla condizione di malato cronico. Si affronta la sensazione di isolamento e disagio culturale, volontario o involontario, causata all'ammalato da individui sani. L'argomento viene affrontato anche dal punto di vista sociologico, cercando di delineare le linee generali di una “sociologia della malattia”. Conclude il tema, un approfondimento di Enrico Meglioli, laureato in Lingue e Culture Europee, che affronta il tema legato all'ambito scolastico: la vergogna del "secchione". ♦


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Il tema del numero

Anemos neuroscienze

INTRODUZIONE AL TEMA

vergogna I temi della vergogna e della colpa indagati tra psicologia, storia e sociologia

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Psichiatria

Psicoterapia

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LA VOCE DEL “CATTIVO GENITORE”

I genitori hanno un ruolo nella creazione degli stati di colpa e vergogna dei propri figli? App 2

di Raffaele Bertolini

parole chiave. Vergogna, genitori, aspettative, senso di colpa, disturbo depressivo maggiore.

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Abstract. Aspettative genitoriali, progetti di vita falliti possono innescare conseguenze in coloro che subiscono la condizione di pressione sopra citata. Ne possono derivare stati di disturbo depressivi e di “colpa depressiva” che molto si avvicinano alla concezione della vergogna del linguaggio comune. Si tratta di una credenza patologica di colpa che si riverbera pesantemente nei rapporti interpersonali. L'articolo analizza anche singoli casi clinici. Si conclude con l'interrogativo della legittimità di un approccio “colpevolizzante” della prassi educativa nei bambini.


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ntroduzione. La colpa e la vergogna sono tematiche che attraversano la storia dell’uomo, così come le storie della sua vita e le sue vicissitudini di credente. Ma nell’ambito della sua dimensione psicopatologica accade che risultino stati interni aberrati, retaggio delle istanze irrealizzabili di genitori iperesigenti, delle

Il tema del numero

condanne senza appello di genitori “criticisti” che introiettati diventano poi le parti autodistruttive del sé, evocanti sentimenti di indegnità e credenze di disvalore personale, senza alcun substrato realistico dimostrabile. Così il senso di colpa si genera dall’analisi di presunte condotte sbagliate, operata sempre in termini di severità irrealistica,

Anemos neuroscienze

mentre la vergogna si identifica con l’umiliazione del sentirsi giudicati sempre male dagli Altri. Così la colpa si deve espiare attraverso la sferza dell’auto-punitività del disturbo depressivo, che ne rappresenta la giusta condanna morale, e il ricordo bruciante della vergogna patita ieri impone da oggi, condotte di evitamento di ogni esposizione, affin- ◄

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Psichiatria

Psicoterapia

◄ chè gli Altri non percepiscano la propria condizione di persona “difettosa”.

La colpa patologica di Pietro. Pietro ha 36 anni; in seguito al fallimento di un progetto lavorativo a cui teneva moltissimo, ha sviluppato una recidiva di un disturbo depressivo maggiore, che si era già manifestato in precedenza sempre in concomitanza di insuccessi personali; il quadro clinico in corso è dominato dall’umore stabilmente depresso significativamente più basso al mattino, di fronte al vivere della giornata intera, incentrato sul distacco emotivo-affettivo (“Mi sento svuotato dentro”), che viene da lui spiegato come inaridimento affettivo nei confronti dei familiari e come indifferenza verso il mondo, convinzione che gli attiva un sentimento di colpa, che sente come dolore morale e disperazione (“Non amo più i miei figli […] sono un padre indegno e snaturato […] i valori morali e religiosi su cui avevo basato la mia esistenza hanno perso di significato, sono diventato un amorale agnostico”); nel suo vissuto “depressivo”, la “colpa”, rincarata dal peso dei suoi errori precedenti, dai suoi egoismi, evolve ineluttabilmente nell’idea suicidiaria: “il suo genitore interno” (schema maladattivo precoce) ha, infatti, deciso di infliggergli una “pena capitale” proporzionata al “suo peccato”! La pena di morte. La “Colpa depressiva per gli errori commessi non prevede né il perdono, né l’espiazione, come via di redenzione. Pietro non sente più nessuno richiamo alla vita, sta vivendo l’atmosfera del condannato a morte in una condizione di distacco emotivo da sé stesso. E allora X, “per il bene di tutti” eseguirà la sentenza del suo giudice-supremo… il suo “Genitore Cattivo”!

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La pretesa di essere sempre l’arbitro degli eventi. Ma quale percorso cognitivo porta Pietro dalle sue credenze patologiche di colpa, all’atto suicidario? L’incipit dell’iter depres-

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sivo nasce dalla sua pretesa irrealistica di “dover essere responsabile” di ogni cosa con cui ha a che fare e per questo di doversi impegnare per fare tutto perfetto: è una pretesa frequente nelle “personalità depressogene” di tipo assertivo” come lui, che qui è soggettivamente testata sui parametri dell’autonomia e della competenza, su cui Pietro si misura, imponendosi standard eccessivamente severi, quindi difficilmente raggiungibili: il goal sullo standard sarebbe la prova del suo impegno, del suo atteggiamento di dedizione esistenziale ai problemi in corso e sancirebbe un grado accettabile di autostima, appunto perché, nel suo personalissimo codice etico, essere un uomo di successo è un “dovere morale”, una responsabilità concretamente agita a favore di chi gli dà fiducia, di chi si aspetta che agisca così; è comprensibile, quindi, come Pietro si sia spiegato lo smacco lavorativo in cui è incappato, in chiave di colpa per irresponsabilità: Tp (terapeuta) significato attribuito alla situazione condizione personale “Che cosa significa per lei, “vivere in questa condizione (vivere da depresso)? Non riuscire a lavorare, sentirsi nella condizione di non essere utile a nessuno?” Pz (paziente) rap-

presentazione di sé nella situazione “Essere una persona che non fa il proprio dovere !” Tp laddering “in che senso? Non sta bene in questo periodo?” Pz rappresentazione di sé nella situazione “Sono un padre di famiglia e mi sento in colpa perché non sono all’altezza delle mie responsabilità!” Nella depressione in cui c’è la tendenza distorta a cogliere solo i tratti negativi di sé e i fatti negativi della vita, la “Personalizzazione” è una visione altrettanto distorta di spiegarsi che questi fatti negativi sono successi per “propria responsabilità”. Ciò è di fatto, un’auto-attribuzione di colpa! È dunque il suo modo di ragionare iperresposabilizzato sugli eventi contingenti (visti sempre con le lenti della negatività), che rappresenta un fattore di costante rischio di ricaduta depressiva soprattutto perché in lui, è complicato da un’altra distorsione cognitiva: il pensiero dicotomico, cioè il ragionamento “tutto niente” sulle cose). Tp intervento psicoeducativo sul “pensiero dicotomico”: “La convinzione di colpa personale che Lei trae dagli eventi è ulteriormente distorta dal suo modo di ragionare dicotomico tutto-niente, il cui assunto esemplare è “Se tutto non risulta perfetto,


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significa che è hai sbagliato tutto!” applicato ai domini del valore personale e dell’ etica. Un solo errore o una debolezza autorizza a dare su di sé il più negativo dei giudizi possibili, nell’ambito di questi costrutti valoriali. Nel suo caso il fatto di non ottemperare a tutti i suoi doveri, significa essere un’irresponsabile! Occorre riconoscere il valore premiante dei risultati positivi… ma il perfezionismo è la distorsione del “dover fare sempre tutto perfetto” per mascherare la propria inadeguatezza, è l’intolleranza dell’errore che ne sarebbe la prova provata! La dimensione Sé-Altri. Nell’ambito di ogni esperienza in-

Il tema del numero

terpersonale, Pietro riverbera il sentimento della colpa in sé percepito sull’interlocutore, dando vita a un ciclo interpersonale di distanziamento emotivo da lui, dove il Sé si sente estraniato ed escluso e vive l’Altro, come persona “che si rifiuta”, di stringere un rapporto di prossimità con lui, nell’esperienza in corso, in quanto lo giudica, a ragione una persona indegna. TP rapporto sé-altri “La condizione di crisi personale che sta attraversando ora, cosa Le fa pensare dei suoi familiari?” Pz “Che non mi comprendono e non mi vogliono vicino, si sono stancati ma hanno ragione!” La dimensione Sé-Mondo.

Anemos neuroscienze

In seguito al bisogno etico di pensarsi sempre arbitro degli eventi che lo toccano, Pietro adotta un approccio perfezionistico-procedurale a tutto ciò con cui ha a che fare, che gli rende arida ed estenuante ogni esperienza interattiva; per questo, si è costruito una rappresentazione interna della realtà esistenziale (intesa come vita, genere umano, società, azienda, contesti ambientali, gruppo di appartenenza), di “luogo dei problemi insolubili, delle difficoltà insormontabili, delle situazioni emotivamente insopportabili, per una persona priva di doti e di energie” quale lui si vive e si pensa: è questa la rappresentazione formalizzata del suo rapporto col Mondo che ◄

Figura 1.1 e 1.2 - L'iter depressivo nasce dalla pretesa irrealistica di dover essere responsabile di ogni cosa. Il

soggetto si impegna per far sì che tutto sia perfetto, ciò lo porta ad imporsi standard eccessivamente severi, difficilmente raggiungibili. Il raggiungimento di tali obiettivi sancirebbe per lui un grado accettabile di autostima, perché, nel suo personalissimo codice etico, essere un uomo di successo è un “dovere morale”.

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Psichiatria

Psicoterapia

PSICOTERAPIA E SCHEMI DI PERSONALITà

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li schemi di personalità sono alla base dello “Schema Therapy”, un approccio di psicoterapia creato da JeffreyYoung e colleghi (1990) e sono nati in risposta a quelli che Young definiva bisogni emotivi di base. Questi ultimi sono specifici di ciascun uomo e consistono, tra gli altri, nei bisogni di sicurezza e stabilità e nel sentirsi autonomi nelle proprie azioni e nella libertà di esprimere le proprie emozioni e bisogni. Questo approccio è una nuova integrazione della psicoterapia cognitivo-comportamentale, che integra modelli e tecniche cognitive-comportamentali dell'analisi traslazionale, della Gestalt, dell'attaccamento e delle psicodinamiche. Il modello così creato ha rivelato un particolare successo nel trattare quei pazienti che presentano tratti di personalità disfunzionali. Fulcro di questo approccio è il concetto di “schema maladattivo precoce”, cioè un insieme di ricordi del soggetto, ma anche emozioni e sensazioni fisiche sia su se stessi che sugli altri che ha avuto origine nell'infanzia e che poi si è sviluppato durante il corso della vita. Lo schema rappresenta la visione del mondo del soggetto e racchiude tutto ciò che egli conosce e gli è familiare. Il problema dello schema è che questo risulta essere disfunzionale e, quindi, non più adeguato alla vita della persona e alle richieste che le vengono fatte dall'ambiente in cui vive. Nonostante il soggetto percepisca lo schema come causa di sofferenza, lo considera familiare e di conseguenza inapellabile e da mantenere. I comportamenti disfunzionali dei pazienti sono, quindi, una riposta coerente a questo schema. A causa del bisogno dell'uomo di rafforzare i propri schemi e i propri bisogni, si genera una situazione difficile da cambiare in quanto il soggetto è portato a rafforzare i propri schemi e difficilmente riconosce la loro disfunzionalità.

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◄ ispira e sottende l’espressi-

vità patologica dell’inerzia e dell’apatia depressive del quadro clinico. Tale posizione esistenziale di base è stata comunque fortemente accentuata dalla recente delusione patita sul lavoro, in cui la sua pretesa “utopistica” rivolta “al Mondo” di vedere soddisfatte le proprie aspettative autorealizzative, come riconoscimento alla sua dedizione, era stata brutalmente frantumata dallo scacco personale subito. La dimensione Sé-futuro. Come abbiamo già visto, nell’ambito della dimensione di una colpa che non contempla la sofferenza dell’espiazione e il sollievo della redenzione, non ci può essere per lui la dimensione del futuro: la proiezione del sé si interrompe nell’idea del suicidio. Tp “Cosa si immagina del Suo Futuro la situazione?” Pz: “Per me non c’è un futuro! È finita per me.” La vergogna paralizzante di Arianna. Arianna ha 20 anni; negli ultimi mesi dopo la morte della nonna aveva progressivamente ridotto tutte le occasioni di svago, la frequentazione di compagnie, la palestra, le gite in bicicletta con le amiche e si era ritirata sempre più, in casa, a leggere e a sentire dischi. È ulteriormente peggiorata da un mese, dopo un episodio di tensione con una collega, tanto che non si sente più di andare a lavorare, per timore di riceverne le ulteriori critiche; si è così ritirata nella sua stanza quasi stabilmente; lì, abitualmente, consuma i suoi pasti fatti di tre gallette e passa ore ed ore a letto, “pensando a niente” ma di notte si alza in preda ai suoi attacchi bulimici, svuota il frigorifero mangiando ogni cibo d’impulso, crudo o cotto che sia, poi in preda a disgusto di sé, si provoca il vomito, svuotan-

do il contenuto dello stomaco nel water. Ogni mattina, di fronte ai rimproveri allarmati dei genitori, aumenta il suo carico di vergogna e si chiude nel suo abituale mutismo (distacco emotivo) o piange per la disperazione e per la rabbia autoriferita, della sua vergognosa impresentabilità al mondo: per questo deve auto-imporsi un ciclo di distanziamento da tutti, per sottrarsi allo spettro dell’umiliazione esterna, al sentimento di vergogna di fallire sempre, ai vissuti di incompetenza e di inabilità; si confina in casa, ma anche qui, vive esperienze familiari inquietanti, attraverso stati interni di non amabilità, d’impotenza e di costrizione, i cui arousals cerca di neutralizzare attraverso l’impulsività bulimica per poi rendersi drammaticamente conto, che tale comportamento “abnorme” ribadisce e rinforza la sua immagine di persona carica di difetti universalmente inacettabili. Il quadro psicopatologico del suo disturbo evitante di personalità è incentrato su credenze disadattive di inadeguatezza, di diversità deficitaria dagli altri implicitamente giudicati più dotati verso i quali nutre sentimenti di inferiorità e di intolleranza al giudizio, pensandoli costantemente orientati a criticarla e ad escluderla e si declina attraverso gli evitamenti di ogni esposizione, cioè attraverso le innumerevoli modalità dell’impossibilità di avere rapporti con gli altri, che non siano umilianti. La famiglia di origine di Pietrino. Dalla storia di vita di Pietro emerge che nel suo sistema familiare d’origine, (così come in quello attuale) vigeva un clima di generale freddezza, una sorta di pensiero operativo, che non prevedeva mai gratificazioni dei suoi bisogni emotivi ed affettivi, per il fatto che non erano


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rappresentabili; quindi i sentimenti di solitudine e d’isolamento personale, che l’ambiente suscitava in lui, così come in ciascun altro membro familiare, nel tempo, si sono strutturati nei suoi schemi depressogeni di oggi, incentrati sul tema del “distacco e del rifiuto del contatto”, che concettualmente ritroviamo surrogati nella sua convinzione che la solitudine sia la condizione basica del vivere umano e che gli impediscono appunto di provare l’esperienza umana della sintonizzazione interpersonale. Da parte della madre, alla cui figura era assemblata quella paterna, lo stile educativo adottato per lui, era basato sulla “approvazione condizionata”, di cui aveva sviluppato la logica nel senso della “doverizzazione alla tensione costante verso il raggiungimento degli alti standard richiesti”; applicando questo modello esistenziale, si sentiva “un bambino speciale” in quanto degno di ammirazione o di biasimo assoluto ma comunque sempre speciale (nucleo narcisistico). L’ammirazione e il premio. Dalla prima infanzia a tutt’oggi, Pietro è stato idealizzato al rango di figlio perfetto da parte della madre, a condizione che soddisfacesse i suoi bisogni di donna frustrata, in

Il tema del numero

famiglia e nella società, in campo affettivo (ruolo di coniuge sostitutivo), lavorativo (la carriera manageriale), sociale (censo), economico (ricchezza): quindi quando lui la ripagava positivamente nelle sue aspettative di amore e di successo differito, lei lo gratificava sul piano della stima attribuita e questo spiega perché tuttora Pietro veda l’ammirazione come lo scopo unico di ogni rapporto interpersonale. Quando realizzava gli scopi della famiglia era elogiato, premiato con doni materiali, gratificato, accordandogli l’implicita autorizzazione alla pretenziosità, alla soddisfazioni immediata di richieste futili o incongrue, al non rispetto di norme e regole sociali. Ma la permissività verso ogni atteggiamento e condotta censurabili, riguardava aree di non appartenenza al giudizio genitoriale e alla mission familiare in cui vigeva il giudizio inflessibile del tutto-niente! L’inadeguatezza e la colpa. Quando nell’ambito delle aree di gratificazione narcistica della mamma e quindi anche del papà, Pietrino, non riusciva a raggiungere gli standard imposti dai genitori, veniva disprezzato riguardo al valore personale, privato dei suoi privilegi, trat-

Anemos neuroscienze

«Nella depressione in cui c’è la tendenza distorta a cogliere solo i tratti negativi di sé e i fatti negativi della vita, la “Personalizzazione” è una visione altrettanto distorta dallo spiegarsi che questi fatti negativi sono successi per “propria responsabilità”» tato tout cout come membro familiare inadeguato, deludente se non addirittura indegno: i suoi insuccessi quindi segnavano per lui un terribile periodo di tragedia familiare in cui era investito dalla delusione genitoriale, che lievitava progressivamente nel raffreddamento interpersonale, quindi nella lamentela e nella violenza verbale, nell’azione rabbiosa subita, fino a provare il dramma della colpa per irresponsabilità, infine nel dolore della punizione. Il modello educativo e

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Psichiatria

Psicoterapia

il sistema di attaccamento. Il comportamento dei genitori di Pietrino rientra in un sistema motivazionale di accudimento non responsivo, privo di empatia, basato solo sull’operatività autoreferenziale: pertanto di fronte a un care giver indisponibile, il sé rimane bisognoso di conforto, ingabbiato in un modello di attaccamento di tipo A-evitante, privo di sintonizzazioni e orientato all’autocura, quindi è prematuramente (rispetto alla norma) abbandonato e sostituito dal sistema motivazionale agonistico, nell’ambito del quale risulta più comprensibile e praticabile il sistema relazionale genitoriale dell’“accettazione condizionata”, su cui Pietro sviluppa i tratti della personalità narcisistica e struttura il suo modello relazionale competitivo dominante; l’“accettazione condizionata”, è disadattiva per lui perché gli propone continui input al perfezionismo patologico e alla ricerca di approvazione (SMP) come unici strumenti efficaci di autostima, perché lo porta a vivere ogni suo errore in termini di inquietudine e di colpa ancor più ango-

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sciante in carica anche dell’angoscia della punizione imminente, un indizio di inadeguatezza personale da vivere sul versante della scarsa amabilità. “L’accettazione condizionata”, è il metodo educativo immorale del “cattivo genitore”, perché pone come cornice di riferimento al giudizio sul proprio operato e alla strutturazione della propria autostima, il codice privato della famiglia e del sé, basato sulla soddisfazione narcisistica di scopi autorealizzativi a qualsiasi prezzo, negando per converso ogni valore di riferimento ai codici morale e sociale (oltre che giuridico) del rispetto delle regole e delle persone. Nel mondo interno di Pietro l’errore non è riparabile, la colpa trova sbocco solo nell’autodistruttività, non c’è una cornice etica a cui riferirsi, ma solo il codice privato di un “cattivo genitore” introiettato. La famiglia di Arianna. Annina, la figlia delle fate. Nei “racconti immaginativi”(tecnica dell’imagering: Schema Therapy), Arianna rivisita in chiave fantastica la sua prima infanzia trascorsa in

montagna, nella casa della nonna e della mamma, in cui emergono ricordi di luoghi incantati, scenari di dolci paesaggi innevati e il fuoco del camino, i glicini e le rondini della tarda primavera, le cicale e i grilli dell’estate, il profumo dell’arrosto, lei, serena, che sta giocando con le “barbie”, e sa che la mamma sta tornando a casa dal lavoro in una Latteria del posto. Allora Annina si chiedeva spesso se aveva come mamma una fata, perché la vedeva bella e perché le diceva che l’aveva trovata su una nuvola e poi ti ho portata a casa dalla nonna”. In quella casa, in effetti c’erano solo mamma e nonna, il nonno era già morto. Arianna oggi “Il papà non c’è mai stato non l’ho mai visto credo che abbia lasciato mia madre subito. Allora però mi chiedevo perché mai solo io, ero nata senza avere un padre!” La realtà è un brutto sogno. Tutto finisce in un giorno di settembre quando Arianna e sua madre entrano ufficialmente nella casa di città, dove ancora vivono. Non ha giardino, non c’è la nonna che è rimasta nella sua casa in montagna,

Figura 1.3 - Negli esempi riportati nel testo, il quadro psicopatologico del Disturbo Evitante di Personalità di

Arianna è incentrato su credenze disadattive di inadeguatezza e di diversità deficitaria dagli Altri, che giudica più dotati e verso i quali nutre sentimenti di inferiorità e di intolleranza al giudizio, ritenendoli costantemente orientati a criticarla e ad escluderla.

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non ci sono le rondini, né i fiori, perché è sempre inverno. È sempre buio, c’è la luce sempre accesa anche di mattina. Annina non vuole frequentare la “scuola materna”, e rimane a casa gestita da una giovane vicina, che le fa da baby-sitter, passa la giornata aspettando che la mamma rincasi. Ma lei è cambiata, è stanca irritabile, non gioca più con lei, la critica in continuazione, la maltratta non sopportandone “la timidezza esasperante” Note anamnestiche del periodo della prima “scolarizzazione”. Annina trascorre questo sesto anno di vita confinata in casa e sviluppa comportamenti clinicamente riferibili ad una “Sindrome ansiosa da separazione dell’infanzia”: al mattino piange pensando che la mamma non torni più a casa, si rifiuta di andare alla Scuola dell'infanzia, non vuole più dormire nella sua cameretta e si infila nel letto della mamma, ha incubi notturni, ha sintomi somatici gastroenterici e turbe dell’appetito, sviluppa un disturbo a tipo tic transitorio. L’anno dopo, con l’ingresso nella Scuola Elementare sviluppa un “Sindrome di ansia sociale dell’infanzia”: stato di ansia persistente a scuola, con una costante e consapevole preoccupazione (imbarazzo e vergogna) in merito all’adeguatezza dei comportamenti relazionali mantenuti, comportamenti di evitamento sociale verso gli adulti e il gruppo dei pari, fino a un grado di vero ritiro sociale nelle occasioni di sollecitazione all’esposizione implicita o esplicita, tale quadro clinico si approfondisce e si struttura nella direzione dell’espressività dei Disturbi di Personalità Evitante e Borderline, tutt’ora in atto. L’autobiografia di Arianna prosegue

Anemos neuroscienze

Il tema del numero

con i ricordi dei primi anni della scuola elementare, i cui scenari sono quelli angoscianti tipici dell’“evitante” dove la maestra appare sarcastica e critica e gli altri bambini la prendono in giro. Lei si sente in balia dei rimproveri e delle derisioni di tutti”. Il commento. In questo racconto emerge come Arianna abbia idealizzato la sua prima infanzia nell’ambito di un racconto fantastico, favorito dalla tecnica immaginativa adottata nell’assessment, ma è evidente che in tale fase da parte degli adulti, non ha ricevuto alcun indirizzo o modello esplicativo della sua condizione e della lettura del mondo. Pertanto quando è stata chiamata a gestirsi il passaggio da uno stato di isolamento dereistico, a vivere la sua condizione di bambina che inizia la scuola primaria, l’impatto è stato devastante (insorgenza del disturbo psicopatologico). Ma anche in questi frangenti e vicissitudini, ancora una volta la madre e gli altri adulti (vicina di casa, maestra) non si soffermano a chiederle di che cosa ha bisogno, non si prendono cura di lei, considerandola una bambina vulnerabile. Non spiegano cosa le sta succedendo, non la consolano per i suoi incubi. ma si attivano per rimproverarla aspramente, per umiliarla, per criticarla, per punirla, dimostrandosi dei “cattivi adulti”: in un contesto che doveva essere di accudimento affettivo, adottano modalità e linguaggi tipici dei contesti agonistici. Su questo maltrattamento e abuso degli adulti Annina è andata incontro alla paralisi emotiva che il mondo soverchiante e giudicante degli altri le attiva tuttora: struttura così uno schema maladattivo precoce di “Inadeguatezza- vergogna”, attraverso il quale vive se stessa sba-

Indicazioni bibliografiche Brenè Brown. Credevo fosse colpa mia… 2014. ULTRA marchio di Lit Edizioni SRL Kemali, Mai, Catapano. Giordano, Saccà ICD-10 1996-2001, 2003 Ed. Masson Lorenzini, Sassaroli La mente prigioniera 2000. Raffaello Cortina Editore Procacci, Popolo, Marsigli Ansia e ritiro sociale 2011 Raffaello Cortina Editore Riso, Du-Toit, Stein, Young Schemi cognitivi e credenze di base 2007, 2011

Eclipsi Young, Koslo, Weishaar Schema Therapy… 2003, 2007 Eclipsi Wells Terapia metacognitiva dei disturbi… 2009, 2012 Eclipsi

gliata, difettosa, impresentabile e così si giudica. Da allora ad oggi per lei, è stato un proseguo di esperienze traumatiche in campo interpersonale e sociale, una sequela infinita di incomprensioni familiari, di esperienze umilianti ed imbarazzanti con i coetanei, sul piano delle performaces scolastiche, che sul confronto dell’aspetto estetico che hanno attivato vissuti di imbarazzo e vergogna, così come sul piano della propria amabilità percepita è tuttora impossibile ogni suo debutto amoroso. Un monito conclusivo. Ognuno di noi penso sappia che usare la vergogna e la colpa per correggere i comportamenti sbagliati dei bambini. È un metodo incisivo, per produrre in essi danni personologici seri e talvolta irreparabili. Allora dovremmo chiederci perché si utilizza l’umiliazione o la colpevolizzazione, molto spesso, per cambiare le persone, “per il loro bene”?. Forse perché la “voce del cattivo genitore” è spesso la voce ufficiale delle nostre cattive istituzioni! ♦

Raffaele Bertolini. Psichiatra, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, relazionale, schema therapy; esperto nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare; già Direttore dei Servizi di Salute Mentale e del Centro per la cura dei disturbi del comportamento alimentare di Guastalla e di Correggio (RE).

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Psicologia

Medicina

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L'espressione della Vergogna

secondo Charles Darwin Arrossire: attenzione concentrata su se stessi, vergogna, timidezza, modestia

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di Aurelio Giavatto

parole chiave. Vergogna, rossore, evoluzione, Darwin. Abstract. L'articolo analizza i meccanismi fisiologici del rossore che compare in particolari stati di disagio psicologico, tra cui la vergogna, e i presupposti psicologici dello stesso. Si suggerisce che le reazioni di timidezza e vergogna abbiano anche una funzione evolutiva, almeno di tipo sociale, nel determinare un'attenzione dell'individuo su se stesso rispetto al comportamento morale e alla società nel quale esso si svolge.

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ossore involontario. Il rossore è l'espressione più caratteristica dell'uomo e la più umana di tutte le espressioni. Il rossore della faccia è dovuto al rilassamento della tunica muscolare delle piccole arterie, dalle quali passa il sangue che va a riempire i capillari. Tale rilassamento dipende da un'azione diretta portata sul centro vasomotore specifico. Non c'è dubbio che se nello stesso tempo ci fosse una forte eccitazione della mente, la circolazione generale risulterebbe al-

terata comunque. L'attività del cuore non è responsabile del fatto che i piccoli vasi, che formano tutta una rete sulla parte superficiale del volto, diventino gonfi di sangue quando si prova un sentimento di vergogna. Noi possiamo provocare il riso sollecitando la pelle; possiamo provocare il pianto o l'aggrottamento delle sopracciglia con uno schiaffo, il tremito con la minaccia di una sofferenza e così via; ma, come osservato da Burgess, non possiamo provocare il rossore con nessun mezzo fisico, cioè con nessuna azione sul corpo. ◄


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Figura 2.1 - A fianco il naturalista e geologo britannico Charles Darwin (Shrewsbury, 1809 - Londra,1882). A renderlo celebre è stato il libro L'origine delle specie (1859), in cui ha pubblicato la sua teoria dell'evoluzione delle specie animali. Raccolse molti dei dati su cui basò la sua teoria durante un viaggio in nave intorno al mondo, in particolare durante la sua sosta alle Isole Galápagos. ◄ È la mente che deve essere col-

pita. Il rossore non è volontario, ma anzi il desiderio di reprimerlo lo fa addirittura aumentare, perchè concentra l'attenzione su noi stessi. I giovani arrossiscono molto più facilmente dei vecchi, non però durante l'infanzia e questo può destare meraviglia perchè sappiamo che i bambini diventano rossi per la collera fin dalla più tenera età. Molti bambini ad un'età più avanzata arrossiscono in modo particolarmente evidente. Sembra che le facoltà mentali dei bambini molto piccoli non siano abbastanza sviluppate da riuscire a provocare il rossore. Le donne, inoltre, arrossiscono molto più degli uomini. Nella maggior parte dei casi, le uniche parti del corpo che diventano rosse sono la faccia, le orecchie e il collo; ma molte persone quando arrossiscono intensamente sentono diffondersi un senso di calore accompagnato da un certo formicolio in tutto il corpo.

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Movimenti e gesti che accompagnano il rossore. Sotto un vivo senso di vergogna esiste un forte desiderio di nascondersi. Giriamo indietro l'intero corpo, specialmente la faccia che tentiamo di nascondere in qualche modo. Una persona che si vergogna non può sostenere lo sguardo dei presenti e perciò quasi sempre abbassa gli occhi o guarda di traverso. Ma, dato che allo stesso tempo si ha generalmente un gran desiderio di non far vedere che si prova vergogna, si fanno vani tentativi di guardare direttamente negli occhi la persona che ci provoca quel sentimento; e il contrasto fra queste due opposte tendenze ci provoca irrequietezza e instabilità nello sguardo. Ho notato due signore che, forse in conseguenza di ciò, hanno acquisito lo strano vezzo di battere

di continuo le palpebre con straordinaria velocità ogni volta che arrossiscono, cosa che fanno con molta facilità. Un intenso rossore è talvolta accompagnato da un leggero flusso di lacrime e ciò è dovuto, io credo, al fatto che le ghiandole lacrimali sono anch'esse interessate dall'aumento dell'afflusso di sangue che, come sappiamo, investe i capillari della zona circostante compresa la retina. Molti scrittori antichi e moderni hanno notato i movimenti di cui abbiamo parlato fino a qui, ed è stato già detto che gli aborigeni di varie parti del mondo manifestano spesso la loro vergogna guardando in basso e di traverso o con movimenti inquieti degli occhi. Esdra esclama (9.6): “Mio Dio, io arrossisco e mi vergogno, o mio Dio, di alzare a te il mio sguardo”. In Isaia (50.6) leggiamo queste parole: “non ho occultato la mia faccia dagli improperi”. Seneca (Epistola 11.5) osserva “che gli attori romani, quando devono rappresentare la vergogna, chinano la testa e tengono gli occhi bassi guardando per terra, ma sono incapaci di arrossire”. Secondo Macrobio, che visse nel quinto secolo (Saturnalia, 7.11), i filosofi della natura sostengono che l'organismo, sotto la spinta delle vergogna, spande il sangue sulla

superficie come un velo; allo stesso modo vediamo che chi arrossisce spesso si copre il viso con le mani”. Shakespeare fa dire da Marco a sua nipote (Tito Andronico, atto 2, scena 4), “Ahi volti il viso dall'altra parte: la vergogna... t'imporpora le gote di un rosso fuoco!”. Una signora mi informa che trovò nel Lock Hospital una ragazza che aveva già conosciuto prima e che era diventata donna. Quando la signora si avvicinò a quella povera creatura, essa nascose il viso sotto la coperta e non fu possibile persuaderla a farsi vedere. Spesso vediamo che i bimbi piccoli, quando sono timidi o si vergognano, si voltano indietro e, restando in piedi, nascondono la faccia nel vestito della madre, oppure si gettano con la faccia in giù nel suo grembo.


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Figura 2.2 - Ad arrossire sono più spesso i giovani rispetto agli anziani. Questo però non accade durante

l'infanzia, mentre molti bambini ad un'età più avanzata arrossiscono in modo particolarmente evidente. I gesti tipici di questa condizione si riconoscono facilmente: i bambini si voltano indietro e, restando in piedi, nascondono la faccia nel vestito della madre, oppure si gettano con la faccia in giù nel suo grembo.

Confusione mentale. La maggior parte delle persone, che arrossisce intensamente, perde il pieno controllo delle proprie facoltà mentali. In letteratura si esprime questo concetto con espressioni quali: “essa rimase sconcertata”. Le persone che si trovano in questa condizione perdono la loro presenza di spirito e fanno osservazioni ridicolmente inopportune; spesso sono tremendamente angosciate, balbettano, fanno movimenti maldestri e smorfie strane. In certi casi si può osservare una contrazione involontaria di certi muscoli facciali. Sono stato informato da una giovane signora, che lei stessa aveva una

esagerata tendenza ad arrossire e in simili circostanze essa non sa neppure quello che sta dicendo. Quando le fu suggerito che questo poteva essere dovuto al disappunto per la consapevolezza che il suo rossore veniva notato, essa rispose che non poteva essere così perchè qualche volta si era sentita altrettanto scioccamente confusa arrossendo per un pensiero che le era venuto in mente, pur essendo sola in camera sua! Natura degli stati mentali che producono il rossore. Questi stati mentali sono la timidezza, la vergogna e la modestia; l'elemento essenziale presente in tutti è l'attenzione che rivolgiamo

Indicazioni bibliografiche Charles Darwin L'espressione delle Emozioni nell'uomo e negli animali (1874) p.381-387. 1982 Ed. Boringhieri

su noi stessi. Possono essere indicate molte ragioni a favore dell'opinione secondo cui in origine la causa che provocava il rossore era l'attenzione rivolta al nostro aspetto personale in rapporto all'idea che ne hanno gli altri, quindi una causa per così dire evolutiva, riguardante il nostro essere sociale; più tardi, per il meccanismo dell'associazione, lo stesso difetto fu prodotto dall'attenzione rivolta alla nostra persona in rapporto al nostro comportamento morale. ♦

Aurelio Giavatto. Medico chirurgo, specializzato in dermatologia e venereologia, esercita medicina manipolativa: viscerale, craniale, neurale e miofasciale.

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CiviltĂ di vergogna La contrapposizione tra civiltĂ di vergogna e civiltĂ di colpa

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di Roberto Rossi

parole chiave. Antica Grecia, vergogna, colpa, Omero, Odissea, Iliade, Eschilo, Sofocle, Ruth Benedict, Eric Dodds. Abstract. Il testo prende in considerazione i presupposti della cultura greca, in particolare nel testo omerico, che fanno della cultura occidentale una “civiltà della vergogna”, forme psicologiche e sociali profondamente legate nell'antichità ad un'etica guerriera e ai concetti di rispetto, virtù, prestigio. Si sottolinea, inoltre, che la “vergogna” evolve in “colpa” anche grazie alla tematizzazione della colpa nella tragedia greca.

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iviltà di ver gogna e civiltà di colpa. Prendendo le mosse dagli studi dell’antropologa americana Ruth Benedict sui modelli culturali della società giapponese, il filologo irlandese Eric Dodds (1893-1979), nel suo ormai classico saggio I Greci e l’Irrazionale (1951), ha applicato al mondo greco lo stesso schema interpretativo, ascrivendo la cultura omerica alla categoria sociologica della “civiltà di vergogna” (shame culture). Come è noto, la nozione di “civiltà di vergogna” è contrapposta alla “civiltà di colpa” (guilt culture), destinata a diventare centrale con l’avvento del cristianesimo, che nel mondo

greco si manifesta a partire dall’età arcaica, per delinearsi in maniera più evidente nel V secolo a.C. con la stagione della tragedia e più avanti con Platone. Il modello interpretativo adottato da Dodds, decisamente innovativo negli anni in cui è stato formulato, ha goduto di meritata fortuna e ancora oggi, dopo più di un sessantennio, risulta fecondo di suggestioni e imprescindibile per la comprensione della società rappresentata nei poemi omerici (cioè il mondo aristocratico delle monarchie micenee dei secoli XII-VIII a.C.). Entro questo orizzonte si inscrive e si può interpretare il comportamento

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Figura 3.1 - A fianco, il dipinto Achille uccide Ettore (1630) del pittore fiammingo Pieter Paul Rubens (15771640). Negli ultimi anni della sua vita, il pittore realizzò una serie di otto arazzi raffiguranti la storia di Achille.

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Letteratura Sociologia ◄ dell’eroe omerico, che altri-

menti rischierebbe di risultare incongruente (o comunque inconcepibile) agli occhi della nostra mentalità. Lo scopo di questo excursus è soprattutto di verificare e approfondire la nozione di “civiltà di vergogna” individuandone caratteri e peculiarità attraverso il confronto diretto con il testo di Omero. L’esame di alcuni passaggi significativi (soprattutto di Iliade) risulta, a questo proposito, particolarmente proficuo e rivelatore. La vergogna (aidós). L’uomo omerico risulta condizionato da un acuto senso di vergogna (aidós) nei confronti dei propri simili: «Ho vergogna davanti ai Troiani e alle Troiane dal lungo peplo», osserva Ettore in due momenti cruciali del poema: la prima volta di fronte alla moglie Andromaca che lo esorta alla prudenza e lo invita a non esporsi al pericolo (VI 442-446), la seconda volta poco prima dello scontro decisivo con Achille (XXII 104-110), quando l’eroe in qualche modo cerca di esorcizzare la paura della morte e la tentazione della fuga. È evidente la funzione di controllo sociale che il senso di vergogna esercita sugli atteggiamenti dell’individuo: si tratta come osserva O. Taplin, di un «senso di compunzione che inibisce gli uomini dal comportarsi male». Tutto ciò che, secondo la nota formulazione di E. Goffman, fa «perdere la faccia» di fronte alla comunità, è sentito come insopportabile, al punto tale che, nel momento in cui si accorga di aver sbagliato, l’eroe imputa l’errore a una forza esterna, come ad esempio ate, un «accecamento» di natura divina, contro il quale l’uomo non può nulla e che per questo risulta deresponsabilizzante.

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In ogni caso, il disonore è quanto di più l’eroe voglia allontanare da sé. Le azioni (e le conseguenze che ne derivano) vanno pesate non sul loro valore “intrinseco” (che implicherebbe un richiamo alla “coscienza”, a un imperativo morale o alla legge divina), ma sono subordinate all’apprezzamento sociale, che di volta in

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volta ne riconosce il valore e ne sanziona la violazione attraverso il discredito. Le azioni non sono “buone” o “cattive” in quanto tali, ma lo sono nella misura in cui sono ritenute tali dalla collettività. La pubblica stima (timé) e il valore individuale (areté). Il motivo dell’aidōs, un senso di «vergogna» misto a «rispetto» nei confronti della collettività e del sentire comune, è fortemente radicato nell’eroe e ne determina il codice comportamentale, che, mentre impone di fuggire il disonore, per converso orienta le azioni verso l’acquisizione di una «pubblica stima» (timé), che costituisce un bene supremo. Non è la tranquillità della coscienza (che Figura 3.2 e 3.3 - Sopra, il filologo, antropologo anzi è nozione to- e grecista irlandese Eric Robertson Dodds (1893talmente estranea a 1979). Nei suoi studi sul pensiero filosofico greco e questo orizzonte) a sulla spiritualità antica, Dodds si servì di metodi attinti giustificare le scelte dal campo dell'antropologia e dalla psicanalisi. esistenziali dell’uo- A fianco, ritratto immaginario del poeta greco Omero, mo, ma una intima autore dei due massimi poemi epici della letteratura necessità di «distin- greca, l'Iliade e l'Odissea. La statua raffigurata nella guersi sempre al di foto è una copia romana del II secolo d.C. di un'opera sopra di tutti gli al- greca del II secolo a.C. conservata al Museo del tri e non macchiare Louvre di Parigi. di vergogna la stirpe dei padri, che furono prio «valore personale» si accede grandi» (Iliade VI 208-209: sono le alla «pubblica stima» (timé): «Glauparole che Glauco rivolge a Diomede co, tu lo sai perché noi godiamo di nel momento in cui lo sfida al com- onore in Licia e tutti ci offrono il battimento). Nel quadro ideologico posto di riguardo, coppe piene e ci congruente di una società fondata considerano come dei?». Sarpedone sull’esercizio delle armi, l’individuo rivolge questa domanda all’amico in sente viva l’urgenza di affermare il un momento di pausa dal combattiproprio «valore personale» (areté), mento (Iliade XII, 309-320, passim). per dimostrarsi degno della propria La risposta non tarda a venire ed è lo famiglia (e quindi della propria co- stesso Sarpedone a offrirla: l’onore e munità) e conseguire prestigio. i posti di riguardo derivano dal coraggio che i capi dimostrano «comSolo dando prova tangibile del pro- battendo in prima fila», ricevendo in


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cambio il pubblico riconoscimento da parte dei sudditi:

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«Non sono privi di gloria i nostri re, che governano la Licia e mangiano grasse pecore e bevono vino scelto, soave, ma hanno grande vigore, perché combattono in prima fila tra i Lici».

inoppugnabile dell’impresa portata a compimento con successo. In un momento di difficoltà per i Greci, dopo il ritiro di Achille, il re cretese Idomeneo ostenta davanti allo scudiero Merione le armi conquistate al nemico (Iliade XIII 260265):

Il valore individuale (ma potremmo anche tradurre areté con «capacità personali») non è intrinseco: esiste solo nel momento in cui si rende riconoscibile attraverso le azioni gloriose.

«Lance, se vuoi, ne trovi una e anche venti nella tenda, appoggiate al lucido muro: sono dei morti Troiani, giacché io non amo combattere stando lontano dai miei nemici. Per questo ho tante lance e scudi convessi, elmi e corazze che mandano luce».

Gli controbatte Merione sulla stessa lunghezza d’onda, confermando il vanto per le armi sottratte ai nemici uccisi, a garanzia del proprio valore (Iliade XIII 267-271): «Anch’io nella mia tenda e nella mia nave ho molte spoglie troiane, […] e anch’io posso dire che non scordo il mio valore, ma sto in prima fila nella battaglia gloriosa, quando sorge il tumulto di guerra».

Un segno tangibile, il premio (ghéras). D’altra parte, però, l’azione eroica non è autosufficiente per ottenere il riscontro della «pubblica stima»: per essere ratificato dalla comunità il valore personale necessita di un riscontro concreto e visibile. Ad esempio un trofeo, quale può essere l’armatura strappata di dosso al nemico ucciso, segno

L’impresa gloriosa, dunque, non è che un presupposto necessario, ma la conquista del pubblico riconoscimento (il prestigio della timé) esige un segno tangibile ed evidente a tutti: può essere - come abbiamo visto - l’arma sottratta al nemico, oppure un «premio» (gheras), derivato dalla spartizione del bottino fra tutti coloro che hanno preso parte a un’impresa collettiva conclusa con successo. Il «premio» costituisce la certificazione visibile del valore dimostrato nel combattimento, è una sorta di “carta di identità” dell’eroe. L’Iliade rappresenta in modo evidente la relazione che intercorre fra «valore personale» (areté), «premio» (gheras) e «pubblica stima» (timé),

dimostrando come un’alterazione all’interno di questa dinamica produca un “corto circuito” dagli effetti devastanti. Ed è proprio dalla “reazione a catena” scaturita dall’alterazione di questo equilibrio che germina il conflitto attorno al quale ruota tutta la vicenda del poema. La trama è ben nota: Agamennone, costretto a rinunciare al proprio gheras (la schiava Criseide restituita obtorto collo al padre Crise, sacerdote di Apollo), pretende un immediato risarcimento, per non subire lo smacco di vedersi privato del segno del proprio prestigio, con la conseguenza del disonore: «preparate per me un altro premio (gheras)», impone nell’assemblea degli eroi, «che io non sia il solo tra i Greci a restarne privo, che non sarebbe giusto: lo vedete tutti che il mio premio (gheras) se ne va altrove» (Iliade I 118-120). Vittima di questo risarcimento sarà Achille, colpevole di lesa maestà nei confronti di Agamennone, che per questo si vede privato del proprio gheras (la schiava Briseide), e deve subire l’umiliazione pubblica da parte del sovrano, che rincara la dose: «verrò io stesso alla tua tenda a portarti via Briseide, il tuo premio, così che tu impari quanto sono più potente di te» (Iliade I 184-186). L’umiliazione di vedersi privare in pubblico del «premio» con un’aggressione verbale esplicita, costituisce per Achille uno smacco che non lascia possibilità di mediazione. A nulla servirà il tentativo operato dal vecchio Nestore, che propone considerazioni comunque interessanti a conferma della rigida organizzazione gerarchica della società omerica: non si può contendere con l’onore (timé) di cui gode un sovrano, il cui potere discende da Zeus (Iliade I, 280-281): «Se tu sei forte, e ti ha partorito una dea» osserva, rivolgendosi ad Achille, «lui (cioè Agamennone) è più potente, perché comanda a più uomini». Gheras contro gheras, prestigio contro prestigio: Agamennone pretende il risarcimento e, specularmente, Achille non può tollerare l’af-

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◄ fronto di vedersi privato della

propria parte di bottino: la sottrazione della schiava Briseide (gheras) coincide per lui con la perdita dell’onore (timé) e l’esposizione alla «vergogna». Da qui la decisione irrevocabile di ritirarsi dal conflitto. Quella che ai nostri occhi potrebbe apparire quasi come una ripicca infantile, un rincorrersi di dispetti fra due autorità, ha nella mentalità della “civiltà di vergogna” implicazioni ben più profonde: venuto meno il riconoscimento sociale è vanificato lo statuto stesso dell’eroe. Immortalità ed eterna giovinezza. C’è però dell’altro, alla radice delle motivazioni comportamentali dell’individuo: l’orizzonte ideologico della “civiltà di vergogna” non rimane circoscritto entro quel triangolo “valore-premio-onore” ai cui vertici sta la timé, che abbiamo individuato come valore di riferimento. Il realtà, l’aspirazione più vera e inconfessata dell’uomo omerico è qualcosa di ben più impegnativo, come emerge nella parte finale del dialogo fra Sarpedone e Glauco da cui abbiamo preso le mosse (Iliade XII, 322-328). Osserva infatti Sarpedone, formulando un’ipotesi per assurdo:

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«Mio caro, se noi, fuggendo da questa battaglia

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dovessimo vivere sempre immuni da morte e da vecchiaia, io non vorrei combattere in prima fila, e non ti spingerei alla guerra gloriosa; ma attorno a noi stanno sempre in gran numero le dee della morte, che noi mortali non possiamo evitare. Andiamo: o noi daremo gloria al nemico, o lui a noi».

Nel paradosso di un’ipotesi irreale, Sarpedone esprime quelle che, in modo non del tutto consapevole, sono le due massime aspirazioni dell’eroe: l’immortalità e l’eterna giovinezza, al cui conseguimento tutto sarebbe subordinato, anche il valore militare e l’onore. «Se, salvandoci oggi, potessimo essere immortali e sempre giovani, sarebbe meglio darsela a gambe». Ma poiché non è in nessun modo possibile trovare scampo dalla morte e dalla vecchiaia, non rimane che l’alternativa di combattere alla ricerca della gloria. Quella timé individuata come massimo bene, si rivela in realtà nient’altro che un valore sostitutivo, rispetto a un’aspirazione verso l’assoluto (immortalità ed eterna giovinezza) che risulta inesorabilmente frustrata. Non è un caso che immortalità ed eterna giovinezza siano proprio i tratti specifici che distinguono la

«L’uomo omerico non conosce proiezioni verso la trascendenza: solo la vita terrena ha significato e valore, mentre, per contrasto, l’aldilà è concepito come una sede informe di ombre inconsistenti»


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divinità dall’uomo, in un implicito confronto nel quale l’uomo risulta schiacciato da questo senso di frustrazione, che può in qualche modo dar ragione di certi suoi atteggiamenti estremi. È una possibile chiave di lettura per interpretare la rabbia o certe reazioni spropositate (addirittura ferine) di Achille, eroe nel quale sono compiutamente incarnati i canoni della “civiltà di vergogna” (non per niente fin dall’inizio del poema l’attenzione ricade sulla sua menis, un’«ira» devastante e durevole, che si manifesta coi tratti della follia).

il senso del limite della condizione umana (Iliade IX, 412-415):

Di fronte alla consapevolezza di non poter essere, in assoluto, né immortale né sempre giovane, si prospetta la possibilità di una compensazione attraverso una forma sostitutiva di immortalità, che si può conseguire attraverso il «prestigio personale» conquistato a prezzo di gesta eroiche. È un’immortalità che procede parallela rispetto all’immortalità divina e consiste nella «gloria imperitura» (kleos aphthiton), che per un essere umano è l’unica forma di sopravvivenza possibile dopo la morte: il rimanere vivi nel ricordo di coloro che sono vivi.

Come acutamente osserva G. Paduano, la scelta della «gloria imperitura» (kleos aphthiton), contrapposta alla crisi di identità conseguente alla perdita del gheras-timé, proietta Achille in un’esperienza di double bind che ha come esito la scelta “schizofrenica” di ritirarsi dalla guerra, rinunciando all’areté e alla gloria su cui ha fondato la propria scelta di vita. Si determina un “circolo vizioso” intollerabile, di cui l’eroe recrimina di fronte alla madre Teti (I 352-356):

Nella figura di Achille emerge in modo drammatico e contraddittorio

«Mia madre Teti, la dea dai piedi d’argento, mi dice che al termine della morte due destini mi portano: se resto qui a combattere attorno alla città dei Troiani, è perduto per me il ritorno, ma avrò gloria immortale (kleos aphthiton): se invece torno a casa, alla mia patria, è perduta per me la nobile gloria, ma la mia vita durerà a lungo e la morte non mi colpirà così presto».

«Madre che mi hai generato a una vita brevissima, almeno Zeus olimpio tonante dovrebbe concedermi gloria, ma adesso non mi ha onorato.

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Il figlio di Atreo, il potente Agamennone, mi ha offeso, mi ha tolto il mio premio, e se lo tiene».

In questo spasmodico anelito verso la «gloria imperitura», come valore sul quale ha investito tutta la propria esistenza, Achille è eroe emblematico, nel quale si riassumono le tensioni e le contraddizioni della “civiltà di vergogna”: la scelta di morire giovane gli garantisce infatti, in modo surrettizio, l’immortalità e l’eterna giovinezza nell’unica forma concessa a un essere umano. L’uomo omerico non conosce proiezioni verso la trascendenza: solo la vita terrena ha significato e valore, mentre, per contrasto, l’aldilà è concepito come una sede informe di ombre inconsistenti (si ricordi l’incontro fra Odisseo e il fantasma di Achille, in Odissea XI, 489-491: «illustre Odisseo, non mi abbellire la morte» osserva quest’ultimo, «preferirei da bracciante servire un altro uomo, piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti»). La scena straziante della morte del giovane guerriero lascia dietro di sé, nel mondo che veramente conta, cioè il mondo dei vivi, un «ricordo indelebile» (kleos aphthiton) inattaccabile dalla vecchiaia: egli rimarrà

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Figura 3.4 - Sopra, dipinto del pittore francese Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) Achille riceve gli ambasciatori di Agamennone, 1801, Ecole des Beaux-Arts, Paris. Ingres è considerato il maggiore esponente della pittura neoclassica. A fianco copertina dell'Iliade di un'edizione Rihel databile attorno al 1572.

◄ giovane e immortale, perché tale

sarà nel ricordo di coloro che perpetueranno la sua memoria.

Concludendo in sintesi questa carrellata, il testo omerico evidenzia l’importanza ideologica di alcune parole: valore personale (areté), sancito attraverso il segno tangibile del dono (gheras), dal quale deriva il riconoscimento sociale (timé) che si traduce in una gloria (kleos) che consente di sopravvivere nel ricordo dei vivi (anche dopo la morte).

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Non si pone il problema della felicità: l’eroismo ha come premio unico

e sufficiente la fama. Come anzi osserva Achille (Iliade XXIV, 525-526): «questo è il destino che gli dei assegnarono ai miseri mortali: vivere nel dolore; ed essi sono senza affanni». Dalla “vergogna” alla “colpa”. Fin qui arriva Omero, in una dialettica fra condizione umana e divina dalla quale si istituisce un confronto angosciante che rimane irrisolto: proprio in questo confronto fra uomo e divino, che in età arcaica diventerà conflittuale, si può forse individuare lo snodo cruciale verso quello che Dodds definisce un «vero e proprio cambiamento di

civiltà», nel passaggio dalla “vergogna” alla “colpa”. Se da una parte la “vergogna” riguarda i rapporti con i simili, la “colpa” implica una proiezione verso l’interiorità e l’assoluto, in un mutato rapporto con la divinità: l’individuazione di ciò che è “buono” o “cattivo” ha valore in sé, a prescindere dalla sua rilevanza sociale. L’età arcaica propone un contesto caratterizzato, secondo la definizione di Pfister, da un «aumento di ansia e di timore nella religiosità greca», condizionato probabilmente


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dalle tensioni sociali di un mondo in evoluzione (nell’epoca della seconda colonizzazione si profilano all’orizzonte i valori di una borghesia che sovvertirà l’assetto istituzionale), suscitando nell’io un senso di profondo disagio morale. Secondo Dodds, però, c’è un’altra chiave di lettura più convincente, per spiegare le ragioni di questo mutamento, da individuarsi negli sconvolgimenti subiti dalla famiglia, chiave di volta della struttura sociale arcaica, nella quale l’auto-

Anemos neuroscienze

Il tema del numero

rità del capo famiglia viene posta in discussione, mettendo a repentaglio i vincoli interni e indebolendo la struttura della famiglia stessa. A partire da Solone, per arrivare al mondo della tragedia, il proliferare di storie di maledizione paterna e di violazione della gerarchia famigliare (incesto) è indizio di un contesto in cui il ruolo del padre non è più sicuro, con tutte le conseguenze che tale dato comporta. Da questa tensione si genera un senso di colpa che fa leva altresì su un diverso modo di concepire la divinità, che viene purificata dei connotati antropomorfi (Senofane) e viene individuata come depositaria e garante di una giustizia destinata a colpire inesorabilmente, anche nello spazio di più generazioni (Esiodo, Solone, Eschilo).

nazione» (míasma), d’altra parte proprio l’idea della contaminazione che ristagna insidiosa ammorbando le radici della società (è il caso ben noto dell’Edipo Re), individua un senso talora opprimente della colpa che, secondo Kardiner, in seguito all’interiorizzazione della coscienza si tradurrà poi nel senso del peccato.♦

L’affermarsi del senso della giustizia e la fiducia nei confronti della divinità quale entità riparatrice avranno un ruolo decisivo in questo cambiamento di civiltà: da una parte ha funzione rassicurante la fiducia nell’intervento divino a punizione dei colpevoli, una volta che si sia consumata la «contami-

Indicazioni bibliografiche Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese, Laterza, Bari 2009. Eric Dodds, I Greci e l’Irrazionale, (trad. it.) La Nuova Italia, Firenze 1973. Abram Kardiner, The Psychological Frontiers of Society, Columbia University Press, New York 1939. Guido Paduano, Le scelte di Achille, in Omero, Iliade, a cura di G. P., Einaudi, Torino 1997.

Guido Paduano, La nascita dell’eroe, Rizzoli, Milano 2008. O. Taplin, Homeric Soundings, Oxford 1992.

Roberto Rossi. Docente di lettere classiche presso il liceo “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia. Dottore di ricerca in filologia greca e latina, si occupa principalmente di lirica greca arcaica, poesia parodica e gastronomica e di epigramma ellenistico. Ha all’attivo numerose pubblicazioni scolastiche ed è coautore di una storia della letteratura greca. Ha fondato e dirige il portale http://www.grecoantico.it, nel quale gestisce attività didattiche online.

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Psicologia Chirurgia

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Surgeon Bossing Violenza e vergogna in sala operatoria

di Bruno Zanotti

In 1 parole chiave. Violenza e vergogna, mobbing, bossing, ospedale, chirurgia.

Abstract. L'articolo mette in rilievo il fatto che spesso la vergogna sia conseguenza di comportamenti violenti subiti, per esempio nella violenza sessuale e nel mobbing. Si analizza, in particolare, la variante del mobbing detta bossing, ovvero del mobbing praticato non da colleghi, ma da chi occupa posizioni gerarchicamente superiori in ambito lavorativo su un subalterno. Uno dei contesti in cui ciò può accadere, è il contesto medico ospedaliero, preso in esame dal testo. Vengono ipotizzate cause psicologiche di coloro che mettono in atto questo particolare tipo di mobbing e alcuni “consigli pratici” per difendersi da questa situazione.

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a vergogna è un’emozione a due facce: pertinente ed auspicabile se provata in chi è colpevole di un delitto, ma indotta ed ingiusta in chi è invece vittima. Quest’ultima può subire, infatti, un doppio danno, quello realmente inferto (pensiamo, ad esempio, alla violenza sessuale subita da una donna) e quello che nasce ed attanaglia chi la violenza l’ha subita in quanto prova “vergogna” per il suo stato. Violenza e vergogna sono spesso un binomio inscindibile dove la prima è la causa e la seconda la beffa. Vergogna che è alimentata dal silenzio e dall’omertà sia di chi ne è vittima, ma anche, colpevolmente, di chi ne è spettatore. La violenza è pervasiva. Solitamente la si rileva senza difficoltà. Non vi sono molti dubbi che quanto fa l’integralismo islamico sia violenza. Facile suscitare nei più, riprovevole condanna di chi fa violenza sulle donne. Gli analisti della mente ci hanno però anche abituati a saper individuare forme di violenze, come quelle psicologiche, molto più subdole, ma altrettanto sconvolgenti per la persona che le subisce. Ma c’è una forma di violenza spesso sottaciuta o misconosciuta o sottovalutata che può indurre a devastanti sensi

di colpa e di vergogna. Ci riferiamo al bossing Bossing. Quando il mobbing viene praticato su un subalterno da un una persona gerarchicamente più in alto si parla più propriamente di bossing. “Il bossing è definibile come una forma di mobbing "dall'alto" (mobbing von oben, nella letteratura in tedesco sull’argomento), ossia attuato non da colleghi di lavoro (o compagni di scuola, di squadra sportiva ecc.), bensì da un superiore gerarchico, come ad es. il capufficio, il dirigente, il manager, il direttore tecnico della squadra, l'ufficiale responsabile di un reparto militare o, più in generale, da una direzione aziendale.” (Wikipedia) (www.bossing. org). Il bossing in chirurgia. L’organizzazione ospedaliera ha trasformato nominalmente, ma non di fatto, tutti i medici in “dirigenti”. Questo lo dobbiamo alla cosiddetta riforma Bindi del 1999. Non esiste più la vecchia suddivisione in “assistenti”, “aiuti” e “primari”, ma si è tutti “dirigenti”. L’essere “dirigenti” dovrebbe comportare, tra l’altro, che si può “dirigere” il proprio operato, ma non è così. In alcune realtà è esclusivamente il Diret-

tore (identificabile solo lontanamente con il cosiddetto Primario) che decide la lista operatoria, chi mettere o non mettere in sala chirurgica come operatore e quali interventi chirurgici far fare e quali no ai suoi collaboratori (definiti “dirigenti” solo nominalmente in quanto, in queste realtà ospedaliere, nulla possono contro la discrezionalità del Direttore). Se il Direttore decide (a suo insindacabile giudizio) di non inserirti come operatore di sala poco o nulla il dirigente chirurgo ha per opporsi. Non solo, quest’ultimo, è destinato, verosimilmente, a precipitare sempre più in basso nella sua professionalità di chirurgo. Infatti, il Direttore, redige (con qualche varabile da una Azienda ospedaliera ad un’altra, ma sostanzialmente con la stessa strutturazione), ogni anno, un giudizio per ogni suo sottoposto dirigente chirurgo. Esprime giudizi sulle sue capacità chirurgiche, su come si relaziona con i pazienti e con i colleghi, quale è la sua costanza di aggiornamento scientifico e quale è la sua aderenza alle linee guida e se riesce a raggiungere gli obiettivi aziendali prefissato. Ma se il giudicante (Direttore) è lo stesso che decide se mettere o non mettere in sala il chirurgo (dirigente) è ►


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Consigli pratici per resistere al mobbing e non farsi travolgere da esso

bbiate pazienza: Il viaggio contro il mobbing è lungo, duro e difficile: organizzatevi per una lotta nella quale, alla fine, sarete voi i vincitori. Il tempo gioca a vostro favore: dopo un periodo iniziale di scoraggiamento e di depressione ritroverete la forza di vivere, di sorridere, di sconfiggere i vostri mobbers, di essere giustamente risarciti per i danni subiti. Non cedete allo scoraggiamento e alla depressione: Il mobbing cui siete sottoposti non avviene per colpa vostra: le motivazioni socio-psicologiche alla base del mobbing sono molteplici e complesse, oggetto di studi approfonditi di sociologi, psicologi e giuristi. Voi siete solo un capro espiatorio di una situazione che non dipende da vostre colpe. Non pensate alle dimissioni: La prima cosa alla quale un mobbizzato pensa è quella di fuggire e di liberarsi dalla situazione stressante, abbandonando la scena. In effetti spesso il mobbing ha solo lo scopo di “poter licenziare impunemente”. Dare le dimissioni vi libera, è vero, dal mobbing ma con le dimissioni “la date vinta al mobber” e vi precludete qualsiasi successiva azione risarcitoria nei vostri confronti. Ricorrete ad un periodo di malattia solo per il

► facilmente comprensibile che se

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decide di “far fuori” professionalmente un suo sottoposto prima non lo mette in lista chirurgica e poi ha pure la giustificazione redigendo un giudizio negativo. Il giudizio annuale negativo giustifica, a sua volta, l'ulteriore riduzione dell'accesso del dirigente in sala chirurgica come operatore facendolo precipitare, di anno in anno, ai livelli più bassi della professionalità (molto, molto meno di un chirurgo in formazione, quale è uno specializzando). Precludendogli

tempo strettamente necessario: utilizzate preferibilmente i periodi di ferie non godute o i recuperi orari. Tenete però ben presente che al ritorno sul luogo di lavoro dopo un periodi più o meno breve di assenza potreste trovare che molte cose sono cambiate in peggio: durante la vostra assenza il mobber ha avuto tutto il tempo per organizzarsi meglio. Raccogliete la documentazione delle vessazioni subite: Poiché il mobbing, anche se non vi è una legislazione precisa e ad hoc contro di esso, rientra in fattispecie di reati previsti e penalmente perseguibili, è necessario che voi documentiate nel modo migliore possibile le azioni mobbizzanti messe in atto nei vostri confronti. Pertanto: trovate colleghi disposti a testimoniare (anche se è difficile); tenete un diario di ogni azione mobbizzante contenente: data, ora, luogo, autore, descrizione, persone presenti, testimoni; tenete un resoconto delle conseguenze psico-fisiche sul vostro organismo delle azioni mobbizzanti. Questo vi faciliterà nel documentare il danno biologico che il mobbing ha determinato su di voi, al fine della richiesta di risarcimento dei danni psico-fisici. Cercate degli alleati: È questa la cosa più difficile. Non così anche avanzamenti di carriera, attribuzione di “alta professionalità” e riconoscimento dei “progetti obiettivo”. Il danno subito dal dirigente chirurgo non è solo di tipo professionale, ma anche economico, con decurtamento dello stipendio che, a sua volta, si ripercuoterà nel trattamento pensionistico. Quindi, il chirurgo vittima di bossing entra in un girone infernale dove la coazione a ripetere da parte del Direttore è la regola. Bossing endemico. Che il bos-

sempre i colleghi sono dei “cuor di leone”. Spesso si ritirano in disparte per evitare che il mobbing messo in atto nei vostri confronti possa estendersi anche ad essi. Oppure, nel mobbing trasversale, sono essi stessi i vostri mobbers. Non vi isolate: Coltivate le vostre relazioni sociali, frequentate gli amici, rinsaldate i rapporti familiari spesso impoveriti dal punto di vista affettivo e sessuale. Spiegate ai vostri familiari cos’è il mobbing e quello che state subendo. Non vergognatevi della vostra situazione, parlate con le persone che vi sono vicine per acquistare consapevolezza della vostra situazione, per rafforzare l’autostima ma non passate all’estremo opposto perché parlare incessantemente del vostro problema, focalizzare l’attenzione unicamente sul vostro dramma, può stancare amici e familiari e quindi potreste trovarvi ancora più soli. Il vostro matrimonio, la vostra famiglia, le vostre amicizie potrebbero andare in crisi. Denunciate il mobbing: È questa una attività da attuare con ponderata attenzione: evitate che le denunce possano esporvi a ritorsioni. www.mimamobbing.com [citato 15.12.2014].

sing produca dei danni diretti (economici e sulla salute) in chi lo subisce è ormai acclarato. Scarsa stima di sé, fallimenti reiterati, abuso di droghe ed alcool, depressione fino al suicidio, somatizzazione fino a vere e proprie malattie organiche. E su questo non ci dilungheremo. Ma il bossing non si limita a “distruggere” chi ne è vittima, ma “contamina” anche tutto il mondo di relazione che il chirurgo dirigente ha attorno a sé (sia in ambito familiare che nel tessuto sociale). E qui sta la “grande trappola”. Se la vittima


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Il tema del numero

lo dell’essenza vitale.

«Solo se il chirurgo vittima di bossing è psicologicamente ben attrezzato a metabolizzare lo stress, se ha una personalità ben strutturata ed ha dimestichezza con i meccanismi psicologici ha la possibilità di “salvarsi” e contrastare efficacemente il tiranno» è indotta ad essere “psicologicamente fragile” il Direttore avrà un motivo in più per affermare che, in fondo, aveva visto giusto: il dirigente è un elemento debole, inaffidabile, instabile e, quindi, chirurgicamente “a rischio”. Solo se il chirurgo vittima di bossing è psicologicamente ben attrezzato a metabolizzare lo stress, se ha una personalità ben strutturata ed ha dimestichezza con i meccanismi psicologici (soprattutto controllo dello stress e capacità di elaborazione della mancanza e del lutto) ha la possibilità di “salvarsi” e contrastare efficacemente il tiranno. Non si è sempre sostenuto che la miglior difesa è l’attacco? Altrimenti, persa l’autostima, restano solo psicofarmaci, depressione, isolamento sociale. Bossing e vergogna. Chi pratica il bossing lo sa: la vittima predestinata ben difficilmente avrà la forza di denunciare i fatti vessatori in quanto

è bloccato e condizionato dalla vergogna. La vittima si vergogna con i colleghi, si vergogna in famiglia e nell’ambiente che abitualmente frequenta nelle relazioni sociali. Tenderà quindi a fare in modo che trapeli il meno possibile al fine di non perdere il ruolo sociale. Ritiene, a torto, che un chirurgo senza il “bisturi in mano” non sia più degno di godere della stima altrui. La vergogna della vittima è il più grande alleato del persecutore. Quest’ultimo è come un vampiro che cerca di succhiare e distruggere la personalità, la vitalità e la capacità di reagire della sua vittima. Ma come la luce scaccia il demone, la trasparenza, l’informazione, la divulgazione di quanto si sta subendo può fermare l’avanzata del persecutore e, successivamente, il tribunale può indurlo all’impotenza. La legge è l’aglio ed il paletto di frassino a disposizione del mobbizzato per annientare il vampiro che cerca di privar-

Indicazioni bibliografiche V. Iacovino, S. Di Pardo, G. Di Pardo, C. Izzi: Mobbing. Tutela civile, penale ed assicurativa. Casi giurisprudenziali e consigli pratici. Giuffrè Editore, Milano, 2006. L.R. Huntoon: The Psychology of Sham Peer Review. «Journal of American

Physicians and Surgeons» 2007; 12 (1): 3-4.

Contrastare il bossing. Si può. E si deve. Chi pratica il bossing è molto spesso un gigante che poggia sull’argilla. È vocato all’impudenza contando sull’impunità. Ma non è sempre così. Il chirurgo vittima di bossing ha il dovere (non solo il diritto) di denunciare nelle opportune sedi il carnefice. Ed alle volte i risultati si ottengono. Chi pratica il bossing conta molto sul silenzio e sulla “vergogna” alla quale la vittima è portata. Si entra così facilmente nel tunnel senza uscita di quella che Martin E.P. Seligman definiva “l’impotenza appresa”. Se si arriva alla consapevolezza che è impossibile controllare chi ci fa del male si può essere portati ad accettare acriticamente le conseguenze spiacevoli (dequalificazione professionale ed emarginazione sociale). Condizionati a tal punto da non vedere neppure, anche se ve ne fossero, le possibili vie d’uscita. Come per gli altri tipi di violenza un presidio per controllarla è parlarne ed intraprendere attività di denuncia. Dispendiose in termini di impegno psicologico, di impegno di tempo e di denaro, ma se si è e ci si sente “Persona” che ha anche dei diritti e non solo doveri, l’ingiustizia, il sopruso, la violenza vanno sempre e comunque combattuti. Bisogna saper differenziare se stessi dalla causa che arreca danno e saper elaborare, in continuazione, strategie per affrontare il tiranno. Se vergogna ci deve essere deve leggersi negli occhi di chi pratica il bossing e non in chi lo subisce. Spesso chi pratica il bossing è seriale, lo esercita su più persone anche se in periodi differenti. Alle volte basta che una vittima dica no, che abbia il coraggio di opporsi perché il castello di omertà si sgretoli ed il denunciante, da singolo, diventi moltitudine. ♦

Bruno Zanotti. Ph.D. in Scienze e Tecnologie Cliniche. Specialista in Neurologia e Neurochirurgia. Segretario Nazionale “Società Neuroscienze Ospedaliere” (SNO). Editorial Assistent del periodico “Progress in Neuroscience”.

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Psicologia Sociologia

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Pudore, questo sconosciuto che abita in noi La nostra è stata definita la “società senza vergogna”. Ma è possibile pensare ad una società senza un’emozione così fondamentale?

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di Morena Landini

parole chiave. Pudore, vergogna, sessualità, società. Abstract. L'articolo affronta il tema della vergogna declinato in particolare nella sua variante di pudore, relativamente all'ambito sessuale e più in generale del corpo e del mutamento degli stereotipi sociali in relazione ai comportamenti individuali.

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i fu un tempo – non così remoto, mia cara – in cui la caviglia di una signora, appena intravista, faceva cadere in deliquio gli uomini per strada. In quell’epoca, la sessualità non costituiva argomento di conversazione, se non tra medici o nei fumoir, fra uomini, all’ora dell’avana e dell’acquavite di Borgogna… Al giorno d’oggi, è già da tempo che - almeno sulle spiagge - le donne non ci nascondono più nulla. E per tutto l’anno, per strada, nel metrò o persino nella nostra dilettata intimità - quotidianamente violata con il nostro ipocrita consenso grazie alla complicità del televisore, dal videoregistratore e del minitel - siamo assaliti mitragliati, sedotti, resi saturi da informazioni o sollecitazioni relative al sesso. In breve siamo così disincantati che se, per caso strano, poniamo nell’eroico e generoso intento di dissipare il terrore dell’AIDS - le signorine del Crazy Horse Saloon decidessero di offrire ai passanti, in place de la Concorde, le proprie considerevoli anatomie, la cosa non provocherebbe nemmeno un assembramento: al massimo un ingorgo.” “

Storia del pudore. Così apre il primo capitolo de “Archivio surrealista della sessualità” (Archivio Surrealista - Ricerche sulla Sessualità gennaio 1928 – agosto 1932); Josè Pierre 2013. La storia del pudore, inteso come sentimento e come comportamento, si presenta ricca e sfaccettata nelle diverse epoche storiche, dalla licenza sessuale illimitata nell’antica Roma al suo regolamentarla ► tramite il mos maiorum, dall'imperiosità

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Psicologia Sociologia

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«Ci sono certi sguardi di donna che l'uomo amante non scambierebbe con l'intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza, non sa la più alte delle felicità umane…» Gabriele D'Annunzio ► della “decenza” fra i puritani,

alla spregiudicatezza tra i licenziosi della culture del permissivismo sino all'impatto omnipervasivo dell'eros ai nostri giorni. Con la battaglia al “comune senso del pudore”, che attraversa i decenni, il corpo viene sempre più esibito, messo in mostra e, con l’intento di liberarsi dalle oppressioni maschiliste, anche il femminismo trova spazio nello strumento del corpo, lo espone e lo esalta nelle sue nudità e nelle sue provocazioni. Ma oggi siamo ben lontani da quell’intento femminista, la rivolu-

zione sessuale sembra sia avvenuta molto più nelle parole che nei fatti ed il corpo oggi è per lo più solo un oggetto, mezzo di comunicazione senza troppe pretese di significati. Ci ritroviamo a vedere esibiti corpi e sessualità in ogni attimo della giornata, siamo contornati dal sesso e dall’erotismo, nelle trasmissioni televisive, nel marketing pubblicitario, nella società intera stiamo assistendo ad un uso efferato del corpo e della sessualità. Società senza vergogna. Deve essere mancato qualcosa

nell’educazione degli ultimi decenni, un passaggio fondamentale che potesse renderci in grado di accogliere un salto così grande senza esserne travolti; e sì, forse è mancato il foglietto di istruzioni, che mettesse al corrente di come e quando usare un così grande strumento, che ci avvisasse di quali effetti collaterali potevano verificarsi, con e senza interazioni tra elementi vari. Perché ci troviamo in una collettività dicotomica: da una parte ci invita a mostrare, esibire secondo i suoi modelli e stereotipi, illudendoci che tutto sia facile e semplicemente scimmiottabile: “basta fare così” è il messaggio che arriva per lo più ai nostri adolescenti; ma dall’altra parte non ci aiuta o insegna a difendere in modo adeguato il nostro spazio di intimità, a capire dove esso si colloca e di cosa sia composto. La nostra è stata definita la “società senza vergogna” (Belpoliti M.), ma di fatto non è possibile pensare una società senza un’emozione basilare, un sentimento inoltre che è intrinse-

Figura 4.1 - Il "timido" si omologa ad un modello comportamentale che crede essere quello gradito ed accettato dall’altro con cui si relaziona sessualmente. I vissuti dominanti sono l’attesa di giudizio, la sensazione di inadeguatezza e il non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo.

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Anemos neuroscienze

Figura 4.2 - Immagine

di uno spettacolo del Crazy Horse di Parigi, locale di cabaret famoso per il suo carattere innovatore ed anticonformista, fondato nel 1951.

camente collegato all’incontro con l’altro, fondamentale per i legami sociali. Allora forse semplicemente non siamo più abituati o nessuno ci insegna più a riconoscerla come emozione, fatichiamo a collocarla nella nostra sfera emotiva e quindi ad esprimerla. È mancata l’educazione del pudore. Ma le emozioni sono così, non chiedono permesso, e se non trovano accesso dalla porta principale, girano e rigirano finché scorgono un varco, lo squarciano e passano. Vergogna e sessualità. In ambito clinico-sessuologico sovente lo sfuggente dialogo fra vergogna e sessualità si sbilancia da una parte nell'esibizionismo, dall’altra nell’eccessivo sentimento di vergogna. Dalla verecondia più difesa e controllata all'oscenità più manifesta, dalla tenerezza erotica alla pornografia più lubrica, dalla sessuofobia totale al massimo permissivismo: sono questi gli estremi di un discorso che percorre da sempre tutta la vita dell'uomo (de Vaissière 1935) La sessualità ha come finalità il pia-

cere ma nella dimensione del senso della vergogna ne prende il posto la de-finalizzazione, ovvero la sostituzione della finalità propria della sessualità con altri obiettivi; colui che prova vergogna, senza saperla riconoscere e ricondurre alle sue cause, si da all’incontro con l’altro, in particolare nell’interazione sessuale, senza un’identità precisa, poiché definisce se stesso solo attraverso la rappresentazione o meglio il giudizio dell’altro e si concentra per interpretare le modalità in cui pensa che l’altro vorrebbe si comportasse, secondo i canoni dettati dal contesto sociale di quel momento. Il “timido” si omologa così ad un modello comportamentale che crede essere quello gradito ed accettato dall’altro con cui si relaziona sessualmente. I vissuti dominanti qui sono l’attesa di giudizio e la sensazione di inadeguatezza, il non sentirsi a proprio agio nel corpo; il comportamento prevalente è l’autoosservazione, il risultato è ansia e stress. L’inidoneità, che costituisce la prospettiva di un individuo eccessivamente timido e scaturisce dal dilagante incalzare della società odierna

Indicazioni bibliografiche Marco Belpoliti, Senza vergogna, Guanda, 2010. Pierre J., Archivio del Surrealismo. Ricerche sulla sessualità. Gennaio 1928-agosto 1932, ES, 2013.

all’esibizione e alla perfezione nella forma e nella performance sessuale, conduce la sessualità in un ambito disfunzionale annullando le possibilità di una naturale eccitazione. In tal modo, ad esempio, per l’uomo si avrà difficoltà ad ottenere l’erezione e nella donna difficoltà di lubrificazione, in entrambi i casi si mina l’attività sessuale dall’inizio e qual anche tale fase venisse superata, l’attesa del giudizio porterebbe a perdita d’erezione nell’uomo e anorgasmia nella donna (ansia da prestazione). In conclusione il sentimento di vergogna che oggi spesso accompagna gli individui nella sessualità, è un sentimento strettamente collegato agli stereotipi approvati dalla società ed ha la capacità di svuotare la sessualità del suo originario proposito: il piacere. ♦

Morena Landini. Psicologa e Sessuologa Clinica. Interviene su adolescenti ed adulti seguendo metodologie di derivazione cognitivocomportamentale. Da Febbraio 2010 esercita la libera professione come psicologa, psicodiagnosta e consulente in sessuologia clinica. Dal 2014 è socio onorario dell’associazione Cipm Emilia: coordina le attività di prevenzione e trattamento del Centro Italiano Per la Mediazione di Reggio Emilia. Dal 2004 al 2006 ha lavorato come educatrice professionale presso la Cooperativa Sociale Zora, svolgendo mansioni di assistenza e riabilitazione con pazienti psichiatrici. Dal 2006 al 2012 ha collaborato a tempo pieno con la cooperativa sociale “Pangea”, con mansione di sostegno educativo a bambini ed adolescenti con problematiche cognitive e/o familiari. Dal 2006 al 2012, presso l’O.P.G. di Reggio Emilia mediante collaborazione con il Ministero di Grazia e Giustizia, ha lavorato come psicologa.

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L'ISOLAMENTO SOCIALE DEL MALATO

Il disagio fisico, in caso di malattia cronica, può diventare anche psicologico. Inadeguatezza, disabilità e inattività pongono l'infermo ai margini della collettività: ne scaturisce un senso di vergogna spesso vissuto in solitudine

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di Adriano Amati

parole chiave. Malattia, disagio sociale, vergogna, sociologia della malattia. Abstract. L'articolo affronta la tematica della reazione sociale alla malattia, in particolare alla condizione di malato cronico. Si affronta la sensazione di isolamento e disagio culturale causato all'ammalato da individui sani. L'argomento viene affrontato anche dal punto di vista sociologico, cercando di delineare le linee generali di una “sociologia della malattia”

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ancanza, isolamento, limitazioni. Qualcuno ha detto che la malattia è un buon punto di vista sulla salute. Infatti è con la sua mancanza che questa viene presa in considerazione come stato ottimale delle condizioni in cui condurre l'esistenza. Quando manca la forza, l'energia per le normali attività quotidiane, e di conseguenza l'entusiasmo di affrontare la giornata, allora si riesce a individuare lo standard di benessere necessario per svolgere i compiti cui siamo chiamati, il cosiddetto stato “normale” del nostro corpo. Insomma, la mancanza è uno dei connotati della malattia. Qualcosa è venuto meno, oppure un dolore impedisce lo svolgersi dei movimenti abituali – interni o esterni – del nostro fisico; il risultato è l'incapacità di vivere secondo le nostre abitudini giornaliere, il dover rallentare o fermarsi. Dunque la malattia comporta che a mancare (socialmente parlando) alla fine sia proprio il malato, costretto a isolarsi dal consorzio umano per un periodo più o meno lungo. Questo di solito accade per le malattie temporanee, episodiche, stati acuti che nel giro di una o più settimane si risolvono senza lasciare traccia. Ma il discorso cambia quando si tratti invece di una malattia cronica, cioè di uno stato di malessere o invalidità radicata e permanente; se nel breve periodo, infatti, l'isolamento è fenomeno transeunte, nel caso di una malattia che non si risolve, alla già citata mancanza si aggiunge il connotato di una stabile esclusione sociale, cioè di una condizione di vita appartata: ri- ►

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Sociologia Psicologia ► dotte o nulle frequentazioni, scar-

so movimento, poca vita all'aria aperta, e spesso impossibilità di svolgere una qualsiasi attività lavorativa. La ragione di questa particolare condizione di vita è duplice: da un lato c'è la situazione dell'individuo malato che, come si è detto, non è oggettivamente nelle condizioni di affrontare la propria esistenza con le normali capacità psicofisiche, dall'altro si può individuare una sostanziale diffidenza, quando non si tratti invece di fastidio o timore, da parte della società. Fastidio e timore rendono l'idea del perché amici e conoscenti, colleghi e parenti, attuino nei confronti del malato una forma, più o meno velata, di ostracismo; ma forse non sono questi i termini pertinenti a spiegare un fenomeno – quello dell'allontanamento dal malato – ben più complesso, che investe ambiti culturali, psicologici ed esistenziali dei quali parleremo più avanti. Un terzo elemento che si somma alla mancanza e all'isolamento è la terapia, o meglio le sue complicanze. Il malato cronico, poniamo un diabetico con insufficienza renale (patologia assai frequente), ha una terapia complessa da affrontare quotidianamente: innanzi tutto la prova della pressione arteriosa, quindi la misurazione della glicemia e la relativa assunzione di insulina e pastiglie. Poi la dialisi, tre sedute a settimana di tre ore e mezzo l'una, che con gli spostamenti e le attese portano via una mezza giornata; l'altra mezza il malato la trascorre a letto, o comunque a casa, poiché la dialisi comporta uno stress fisico che necessita di molto riposo. Ciò significa che per tre giorni alla settimana il paziente è fuori gioco. Inoltre va considerato che il diabetico ha spesso crisi ipoglicemiche, che in molti casi azzerano improvvisamente la sua capacità di movimento per un periodo limitato, in qualsiasi luogo e

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5.1 - Tra i modelli culturali odierni, non si può non citare l'esigenza di "invecchiare bene". Ad essere celebrati sono il corpo e l'efficienza delle sue prestazioni (lavorative, sportive, sessuali). L'esigenza di “invecchiare bene”, anzi, di non invecchiare affatto, pone in modo ancora più marcato l'accento sulle deficienze del malato.

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situazioni si trovi; solo dopo aver trascorso il tempo necessario per riprendersi (con l'assunzione di zuccheri), solitamente un'ora, il malato può tornare alle sue normali funzioni. Ebbene, questo è solo un esempio delle complicanze di una patologia e della relativa terapia, ma molti altri esempi di disabilità e invalidità potrebbero essere portati per sostenere la tesi che la malattia non è solo dannosa per l'organismo del malato ma è anche fortemente limitante la sua vita sociale. Le circostanze cui si accennava poc'anzi mostrano con evidenza le limitazioni che la malattia impone, e tra queste il tempo parziale e comunque ridotto di partecipazione alle attività sociali, l'impossibilità di mantenere frequentazioni costanti, la necessità di non allontanarsi troppo da casa o da un luogo assistito. Disagio culturale. La necessità di chiarire le circostanze in cui versa il malato cronico, per quanto intuiti-

ve se non addirittura banali, servono a ribadire le sue particolari condizioni di vita, che le persone “sane” tendono a sottovalutare o, peggio ancora, a non considerare affatto. Ma è evidente che la malattia non comporta solo una deficienza fisica, in quanto le complicanze cui si è accennato – mancanza, isolamento, limitazioni – finiscono per incidere non poco sulle atmosfere mentali, sull'umore e sulle condizioni psicologiche generali dell'infermo. La sorte avversa, per così dire, e l'isolamento sociale – di cui il malato prende presto coscienza – in che modo influiscono sulla sua sfera emotiva? Ci sono le premesse per poter parlare di una doppia malattia, non più solo fisica ma anche psicologica? E ancora: è il caso di ipotizzare un senso di vergogna per la diversità di condizione in cui si trova il malato cronico rispetto alla cosiddetta normalità parenti, amici e conoscenti? Di certo i modelli culturali sembrereb-


Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

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Il disagio del malato è sia individuale che sociale: all'umiliazione per le sue invalidanti condizioni fisiche si aggiunge la diffidenza, se non il timore, di quanti ne evitano la frequentazione per non dover subire alcuna (perturbante) condivisione emotiva. bero suggerire una risposta affermativa: la cura del proprio corpo – ora non più solo femminile ma anche dei giovani maschi – sempre più celebrata e praticata, l'efficienza delle prestazioni (lavorative, sportive, sessuali) cui si viene sollecitati di continuo, nonché l'esigenza di “invecchiare bene”, anzi, di non invecchiare affatto, pongono l'accento sulle deficienze del malato che, su tutti questi piani, è all'evidenza in difficoltà, e di conseguenza costretto ad auto-emarginarsi: la vergogna del malato nasce dall'impossibilità di stare al passo degli altri, cioè di non poter condividere anche le più banali attività quotidiane con le persone a

Il tema del numero

lui più vicine. Ben presto poi il malato si rende conto che la malattia ispira in chi l'avvicina diffidenza se non paura; allo stesso modo del vecchio, che in molti casi viene trattato con sufficienza o fastidio – a causa dei modelli culturali citati – egli vede allontanarsi da sé le persone attive che prima (della malattia) lo frequentavano e che ora vivono con disagio quel suo stato fisico compromesso. È perché molti percepiscono, spesso inconsapevolmente, la malattia come l'anticamera della morte? Sappiamo bene quanto la cultura occidentale – all'insegna del “tutta vita” – abbia isolato se non cancellato completamente l'idea della morte, e qualsiasi prospettiva che ne favorisca l'accettazione; dunque non è così strano che la malattia, specie quella cronica, con il suo decadimento fisico e il forzato rallentamento dalla vita attiva, la ricordi da vicino e in qualche modo la evochi. Il malato se ne rende conto, ed è lui stesso a introiettare questa idea mortifera della propria condizione, a vivere l'inadeguatezza come un fallimento, l'isolamento come sottrazione alla vita collettiva e partecipata; e la cronicità della malattia rende questa percezione, inappellabile, definitiva. Se di vergogna si tratta, essa non riguarda solo il turbamento e la morti-

Anemos neuroscienze

ficazione che solitamente si provano per circostanze ritenute sconvenienti, bensì di imbarazzo per uno stato che si considera poco decoroso e rispettabile, un senso di soggezione e timore – quasi una forma di timidezza – nei confronti del giudizio della società, che (tacitamente) stigmatizza tanta inadeguatezza. La vergogna del malato è un disagio vissuto sia a livello individuale che sociale: sentirsi inadeguato alla cosiddetta normalità, cioè non poter vivere secondo le modalità quotidiane più praticate a livello sociale, è fonte di una frustrazione esistenziale che l'infermo vive intimamente. Ed è sociale, nel momento in cui il confronto con i suoi simili “sani” lo vede in evidente difficoltà, incapace di sostenere il loro stile e il loro ritmo di vita; inoltre, la discriminazione (anche involontaria) che costoro gli infliggono, è fonte di una sottile, impalpabile umiliazione. È una vergogna senza responsabilità né colpa, che il paziente vive anche in ospedale, ogni qual volta subisce l'equazione “ti sei ammalato =hai sbagliato qualcosa”, che lo pone in uno stato di soggezione psicologica nei confronti del medico che ha accertato i suoi “sbagli”, ovvero tutto ciò che lo ha portato, più o meno colpevolmente, nello stato in cui si trova: alimentazione inadeguata, poco attività fisica, cattive abitudini, postu- ◄

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Sociologia Psicologia ◄

re sbagliate, terapie inopportune, attività rischiose (come alcol, fumo, ecc.) sono alcune delle concause che spesso vengono attribuite al degente; solo raramente infatti si pone in evidenza la rilevanza della questione ambientale o genetica. Non importa che l'accusa sia espressa o implicita, l'esperienza dice che l'atteggiamento della scienza medica non assolve mai completamente il paziente dalle sue responsabilità, vere o presunte che siano.

Sociologia della malattia. Quanto detto si può condensare in tre concetti, correlati ma distinti, che un breve saggio di Rocco di Santo, sociologo del DINPEE* sintetizza così: la componente biomedica (disease), la componente soggettiva (illness) e la malattia intesa come riconoscimento sociale (sickness). In altre parole: una persona si sente male (ill), il medico certifica la malattia (disease) e la società gli attribuisce l'etichetta di malato (sick). Questi tre elementi di solito coesistono, ma si dà anche il caso che essi si combinino parzialmente tra di loro o che alcuni manchino completamente. Vi sono cioè malanni temporanei e lievi (raffreddore, mal di denti, ecc.) che il soggetto avverte e il medico certifica ma che non sono riconosciuti socialmente; malanni che il soggetto non percepisce; malattie che il soggetto avverte e non trovano né certificazione medica né riconoscimento sociale (malinconia, ansia, ecc.) e malattie che la scienza non riconosce come tali ma che la società riconosce (come l'omosessualità in alcune società). In sostanza la malattia rientra nel novero dell'esperienza umana e la medicina, ogni tipo di medicina, è un sistema culturale, ovvero un insieme di significati simbolici che modellano sia la realtà clinica che l'esperienza vissuta dal malato. “Salute, malattia e medicina – afferma Rocco di Santo – divengono così sistemi simbolici costituiti

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da un insieme di significati, di valori e di norme comportamentali, nonché delle reciproche interrelazioni fra queste componenti che, in tutte le società, funzionano come dei sistemi di significato che strutturano l'esperienza della malattia”. Naturalmente un (lungo) capitolo a parte va dedicato alla malattia mentale, che presenta aspetti socialmente più rilevanti di quelli menzionati, spesso anche giuridicamente rilevanti, e che pertanto va affrontata in altra sede. Qui vi si accenna per sottolineare che solo una parte delle questioni sollevate in questo scritto Figura 5.2 - In alto, dipinto di Vincent Van Gogh hanno una qualche (1853-1890) dal titolo "Sulla soglia dell'eternità" (1890). corrispondenza con Il quadro è un ritratto ad olio realizzato da Van Gogh, la malattia mentamentre si trovava presso l’ospedale di Saint-Rémy de le. Essa infatti, pur Provence per delle cure psichiatriche dovute ai suoi rientrando a pieno costanti disturbi. La malattia mentale presenta aspetti titolo nelle pertisocialmente più rilevanti di quelli descritti dalle malattie nenze della scienza trattate nell'articolo. medica, postula ben altre problematiche: toformi o psicosomatici – secondo si tratta infatti di uno stato di soffe- l'approccio psicoterapeutico prescelrenza psichica, prolungato nel tem- to: psicoanalatico, comportamentista, po, che incide sul vivere quotidiano cognitivista, umanistico, gestaltista e dell'individuo, causando molti altri sistemico-relazionale. ♦ problemi sul piano affettivo, sociorelazionale e lavorativo. *= Dipartimento Internazionale di Si dovrà dunque affrontare in uno Neuropsichiatria per l'Età Evolutiva. spazio apposito il tema delle psicosi - schizofrenia, disturbi dell'umore, depressione, mania – e il tema delle Adriano Amati. Scrittore. Oltre a libri di nevrosi – isteria, ansia disturbi somaturismo ed arte ha pubblicato: Turista a

Indicazioni bibliografiche Bibliografia a cura della redazione

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R. Di Santo, Sociologia della disabilità. Teorie, modelli, attori e istituzioni, Franco Angeli, 2013. S. Kanizsa, L' ascolto del malato. Problemi di pedagogia relazionale in ospedale, Guerrini e asso-

ciati, 1999. A. Maturo, Sociologia della malattia. Un'introduzione. Franco Angeli, 2010. L. Sandrin, Capire il malato. Lo sguardo della psicologia, Edizioni Camilliane, 2014.

Tebaide (1991) e Bertrand il matematico (1994) per Paolini Editore; Dialoghi del namoro (1997) per Severgnini Editore; Domicilio Mantova (2003) per l'Editoriale La Cronaca; Detto tra noi (2005) per Prospecta Editore; I miei (2006) per il Cartiglio Mantovano; Una voglia di Sur (2008) e L'iride azzurra (2010) per Lui Editore; Ballate (2013) per Clessidra Editrice; Nebbia a teatro (2014) per Paolini Editore. Partecipa attivamente alle iniziative editoriali di Clessidra Editrice.


APPROFONDIMENTI ♦ testimonianze

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Il tema del numero

RACCONTI/TESTIMONIANZE

Chiodi aguzzi e giuste spine La vergogna del “secchione” di Enrico Meglioli*

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uone opere e opere ben fatte. Cosa c'è di più irrazionale, contraddittorio e assurdo del provare vergogna nel fare le cose per bene? Nulla. Una domanda, una semplice risposta. Me le sono ripetute mille volte, durante gli anni della mia lunga ed impeccabile carriera da "secchione"... ma quanto poco ho dato ascolto a quelle sagge parole! Uno scrittore, filologo e apologeta tristemente trascurato, Clive Staples Lewis, ebbe a tenere un giorno un discorso dal titolo "Far bene e fare il Bene". Con il suo inconfondibile stile limpido e cristallino, il professore del Magdalen College delineò la differenza che intercorre tra lo svolgere un compito al solo fine di occupare il proprio tempo e le proprie energie (condizione tipica della moderna società industriale, minacciata dall'ombra fosca della disoccupazione) e il prendere invece a cuore il proprio lavoro, infondendoci tutto il proprio impegno e talento, spronati dal desiderio di realizzare non solo “buone opere”, ma anche “opere ben fatte”. Quest'ultimo è il modus operandi del "secchione".

Ritengo di aver trascorso i nove decimi abbondanti della mia vita accademica provando imbarazzo e nascondendo i risultati eccellenti che ottenevo. Inutile, era più forte di me: non c'era verifica, interrogazione o compito in classe che non si concludesse con un successo clamoroso, con un cenno di apprezzamento da parte dell'insegnante e con una pioggia di sguardi di sconfortante commiserazione da parte del resto della classe. Erano situazioni al limite del paradossale. Su un "versante" della cattedra ero un fulgido esempio da seguire ed una segreta (giustificata?) soddisfazione professionale; sull'altro ero una specie di abietto untore, portatore di un qualche morbo particolarmente ripugnante e pericoloso. Nel mezzo, come in tutte le montagne che si rispettino, faceva un freddo glaciale e si raggiungevano tali quote da sentirsi girare la testa per la vertigine. Orgoglio e imbarazzo, esaltazione e condanna. Che cosa è capace di scatenare un minuscolo numero a due cifre su un foglio ingiallito! Una vera bomba atomica. “L'uomo che si vergogna del suo lavoro non può avere rispetto di se stesso”. affermò Bertrand Russel. Ed io non

solo mi vergognavo di ciò che facevo, studiare, ma, addirittura (e soprattutto), di farlo bene e con profitto. Quali le cause di questa aspra contraddizione? Dove l'origine? Quale lo scopo? Rispetto del sapere e dell'impegno. Non voglio prendermi tutti gli onori ed oneri della mia solerzia scolastica. I libri hanno sempre trovato un ambiente accogliente e confortevole a casa mia, dove erano allegramente spiegazzati fino all'ultima orecchia. Sono cresciuto respirando nell'aria l'importanza della cultura e dell'istruzione, forse perché ancora vivo era il ricordo, nella mia famiglia, di quei tempi in cui imparare era un lusso che pochissimi (non certo i miei nonni contadini) potevano permettersi. Perciò, mentre altri esploravano le meraviglie del primo, ormai mitologico, esemplare di Playstation, io posavo inconsapevolmente i binari di quella che sarebbe stata una carriera scolastica ad una sola direzione. Un'educazione al rispetto del sapere e dell'impegno non basta, però, a spiegare molte cose. Nessuno mi costrinse mai a studiare fino all'ultima virgola del libro di testo, nessuno mi disse mai che sot- ◄

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APPROFONDIMENTI ♦ testimonianze ◄ to l'eccellenza e il compito intonso c'era il baratro. Anzi, spesso ho suscitato la preoccupazione dei miei genitori, che tentavano in tutti i modi di rassicurarmi sul fatto che un voto mediocre, o addirittura insufficiente (quale orrida prospettiva), non avrebbe interrotto da un giorno all'altro le reazioni di fusione nucleare nel cuore del Sole. Ma queste sono le stranezze e le fissazioni che pochi sanno giustificare, se nessuno le avesse, saremmo bambole di porcellana tutte uguali, non esseri umani.

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Il “buon secchione”. Ma quegli sguardi no. Quelle parole acide e sarcastiche non potevano essere frutto di un'indole naturale. Il fatto che compagni di scuola di tre ordini di studio differenti mi corrodessero con un'occhiata ad ogni consegna di fogli protocollo è per me, ora che vi rifletto a posteriori, ciò che di meno personale, di più sociale e prestrutturato possa esistere. Dall'amico con cui chiacchierare a ricreazione, al quasi estraneo a cui si rivolge a malapena il saluto, tutti, al momento della correzione della verifica, si univano in una sorta di Idra a venti teste. Gli epiteti che mi si rivolgevano allora avevano il sapore tragicomico di un lancio di torte in faccia, visto e rivisto fino alla noia: “che schifo, che fai!” - “Ma tu non sei normale!” Erano per me scambi d'opinione più frequenti del buongiorno del mattino. Alcuni, però, riuscivano a spezzare il grigiore della routine e a raggiungere picchi di originalità che, quantomeno, riuscivano a strappare un sorriso. Ricorderò sempre il compagno di banco delle medie che, dopo l'ennesima verifica di matematica superata egregiamente, mi guardò con sincero sgomento ed esclamò: “però hai la testa grande come tutti gli altri! Non sei un marziano!” Fui consolato da quella constatazione: cominciavo a nutrire qualche dubbio io stesso. Quanti tentativi al limite del paradossale, quante pantomime, quante folli strategie ho architettato per cercare, almeno una volta, di “andare male” e sentirmi partecipe degli sbuffi, dei mugugni e delle imprecazioni ringhiate dai miei compagni al professore tiranno. Era lui che doveva essere isolato, discriminato, accerchiato, non io! Una volta sbagliai apposta l'ultima domanda di una verifica di scienze. Sì,

lo so, suona incredibile... ma non ne potevo più. Credo che lo dissi a mia madre. Non ne fu contenta. E neanche io, in fondo. Perché, quando ricevetti il mio voto, appena un'unghia sotto la perfezione, le battutine ironiche ci furono lo stesso e nessuno di certo venne a consolarmi per il brutto risultato e ad invitarmi per una partita a pallone. La fine del liceo arrivò e non era andata poi così male. Per cinque anni avevo scelto la parte del “buon secchione”, del grande distributore di bigliettini, del salvatore che fa copiare gli esercizi di trigonometria un minuto prima dell'arrivo del professore. Del misericordioso truffatore, che, per ricontrollare la versione, la sventola davanti agli occhi appena al di sopra della spalla destra, come George Washington con la Costituzione. Il “buon secchione”. Fu giusto? Fu corretto? Ostacolai irrimediabilmente la crescita intellettuale e morale di qualche mio innocente compagno di classe che preferiva un giro in centro piuttosto che studiare, confidando nel mio solerte aiuto? Non lo so. Di certo fu un buon compromesso. Non so quante vere amicizie guadagnai, in questo modo, ma, quantomeno, secchi e volubili ringraziamenti si mescolarono di tanto in tanto con i sospetti di complotto extraterrestre. L'eterno processo al “secchione”. Dopo il liceo, l'università, con le sue promesse di una vita nuova e i suoi retaggi del passato, tanto difficili da scrollarsi di dosso. Ora che anche l'alloro è appeso al muro, mi volgo indietro e osservo tutto con un triste sorriso. Non so quanto senso possa avere domandarsi se le scelte che feci allora siano state per il meglio o per il peggio. Ma mi piacerebbe esplorare, con una lucidità che all'epoca mi era impossibile, le ragioni, se esistono, di un fenomeno così potente e complesso. Cosa spinge un gruppo di pari ad accanirsi contro chi possiede una particolare predisposizione verso un ristretto aspetto del quotidiano? Attenzione, però, non un aspetto qualsiasi. Nessuno (per il momento, almeno) prende in giro qualcuno perché è più bello. Né perché è più atletico, simpatico, abile negli affari, astuto o talentuoso a calcio. Eppure chi è bravo a scuola è deriso con maggior spie-

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17 tatezza del ripetente più incallito. Cosa può nascondersi dietro ad una tale discriminazione selettiva? Invidia? Certo, fa la sua parte. Ma sono propenso a credere che non sia per nulla la voce più forte dell'eterno processo al “secchione”. Chi è invidioso, infatti, possiede sempre, anche se nascosto sotto un guscio di rudi offese, il desiderio bruciante di assomigliare all'oggetto del suo rancore. Nei beffeggiamenti di cui ero bersaglio, invece, non percepivo nulla di simile: solo condanna, pura e semplice. Chi mai, in fondo, potrebbe preferire i libri ad un pomeriggio al bar con gli amici o incollato ad un joystick? Già, chi mai... Mancanza di meritocrazia? La mancanza di meritocrazia nel nostro paese è un'altra amara verità spesso chiamata in causa. È innegabile che oggi, in Italia, chi fa cultura, chi si impegna nell'ampliare gli orizzonti della conoscenza, non è degno di nessun particolare rispetto. Qual è il premio per studiare a fondo, per sacrificare tempo e amicizie all'altare delle spesso irrealizzabili ed estreme richieste di docenti con forti sintomi di frustrazione? Un voto. Un numero su una pagina, un singhiozzo d'inchiostro. E non azzardarti a chiedere altro. Naturale, dunque, che, tra la prospettiva di un'insufficienza e quella di perdere gli ultimi saldi di stagione, il terrore più grande sia lasciarsi sfuggire i pezzi scontati della nostra marca del cuore! Dopotutto, cosa significano una pagella rovinosa o una splendida nella “vita reale”? Chi mai si interesserà dei risultati del tema sul Purgatorio di Dante nel momento di bussare alla porta dell'ennesimo responsabile delle risorse umane? Tutto ciò non fa che confermare che era giusto provare vergogna per aver dato il massimo in ogni momento di lezione. Suona quasi caritatevole la reazione dei compagni di classe, che, forse più consci di te della situazione sociale del tempo presente, ti sbattono in faccia, chiaro e tondo, l'assurdità del tuo affannarti. La civiltà adagiata e annoiata in cui ci stiamo trasformando non vede di buon occhio chi si dà da fare per migliorare se stesso. Un vantaggio, un beneficio, o si ha fin dalla nascita (bellezza, risata facile, qualità fisiche...) o non ti appartiene e non sei autorizzato a desiderarlo. Cercare di raggiungerlo tra-


mite il lavoro duro suona quasi sgradevole, una scelta di vita plausibile (ci mancherebbe), ma indice di avidità, di volontà di sopraffazione. Quasi un furto ai danni di chi, invece, preferisce lasciarsi trascinare, non dalla corrente, ma dalle onde che spingono ad insabbiarsi nelle paludose rive. L'umanità, oggi, si crede giunta a compimento, autosufficiente e perfettamente saggia, un ingranaggio avviato in cui ogni pezzo attende di ricevere da qualcosa o qualcuno il movimento per il suo monotono lavoro rotante. Chi si sforza di capire i significati di quel movimento, di migliorarlo ed aggiustarlo, è un “pezzo” strano e uno scocciatore. Da respingere, da isolare, da costringere ad omologarsi alla piatta bidimensionalità del materiale. E l'arma più potente, subdola e penetrante per portare a termine questa spedizione punitiva, è la vergogna, nella sua natura più distorta. Il sentimento della vergogna. La vergogna è un sentimento articolato, stratificato e complesso. È il riconoscersi in errore, è la consapevolezza (reale o presunta) di avere fatto qualcosa di sbagliato e di meritare per questo una punizione o, quantomeno, un rimprovero. Pochi sono stati, nel corso della storia del pensiero umano, della filosofia e della psicologia, gli studi al riguardo. Forse proprio per la sua complessità e volatilità, chi si pronunciò al riguardo lo fece sempre con una sorta di intimorita superficialità, come

Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17 se parlasse di un soggetto quasi mitologico. In realtà, la vergogna ha effetti e conseguenze di portata notevole sulla vita di ciascun individuo e, nel bene o nel male, è uno degli attori principali che intervengono nei processi decisionali di ogni giorno, che ne influenzano e determinano le scelte di vita. Essa si distingue nettamente da sentimenti "basilari" come la gioia, l'ira, la paura, la tristezza. La vergogna, infatti, vive di una dimensione prettamente interrelazionale: non scaturisce da noi stessi soltanto, ma è il prodotto di un intrecciarsi e sovrapporsi di punti di vista differenti, da noi cercati o subiti. È un oggetto a più dimensioni, che nasce come dall'incontro tra fasci di luce provenienti da molte lampade. La dinamica della vergogna ha un'origine e varie tappe intermedie, che conducono al sentimento vero e proprio e alle sue manifestazioni psico-fisiche: c'è un comportamento soggettivo, un'azione, un avvenimento di cui siamo direttamente responsabili (dai più semplici - movimenti, parole, atteggiamenti corporei - fino ai più complessi - stili di vita, decisioni, opinioni personali), che suscita nell'altro o negli altri una reazione da noi inaspettata e sgradita, un rifiuto spesso violento. Leggendo tale risposta sui volti dei propri pari, il soggetto-oggetto della vergogna può avere differenti reazioni, ma, tra le più comuni, vi è certo l'interrogarsi e il dispiacersi del rifiuto altrui. Il meccanismo della vergogna è così innescato: abbattimento, imbarazzo,

paura, spesso rabbia e desiderio di separarsi immediatamente dal gruppo sono conseguenze spontanee ed inevitabili, accompagnate da sintomi fisici ben visibili agli occhi del "pubblico". La vergogna assume così l'implacabilità di un riflettore acceso proprio nel momento in cui si vorrebbe rimanere celati nell'ombra. È un fascio di luce abbagliante e rovente che ci denuda davanti ad un mondo improvvisamente (e incomprensibilmente, almeno in un primo momento) ostile. È una mano gigante che ci strappa dal nostro letto caldo e sicuro e ci scaraventa, ancora in pigiama, dentro ad un autobus all'ora di punta. Vivere senza vergogna. Non può esistere nulla di più sgradevole al mondo. Per questo vi è stato chi, nel passato come nel presente, ha teorizzato la gioia estrema del "non provare mai vergogna", del non biasimare mai se stessi, vivendo (o tentando di farlo) nella completa indifferenza del giudizio altrui. Difficile, estremamente difficile, immaginare una vita vissuta nel più perfetto isolamento emotivo. L'uomo è un essere sociale e comunitario, che cresce e raggiunge la maturità piena soltanto nella relazione con il proprio simile/dissimile, con quegli universi a noi tanto prossimi, ma tanto distanti e affascinanti che sono le altre persone. "È una cosa vergognosa non avere nulla di cui vergognarsi" disse Sant'Agostino. La vergogna, infatti, è spesso sana, preziosa, giusta. Guai se non ne provassimo mai! Significherebbe che non abbiamo nesuna strada da seguire, nessuna regola, nessuna terra a sostenere i nostri passi e quindi nessuna possibilità di errore. Vivere senza vergogna sarebbe come avere i piedi d'acciaio, insensibili alle spine, che ci avvertono, invece, quando abbiamo abbandonato il nostro cammino e ci stiamo inoltrando in un bosco cupo e pericoloso. Tali spine, per quanto dolorose, sono buone ed è giusto sentirle sulla pelle. Dobbiamo sentirle, per fermarci a riflettere sulla strada che abbiamo perduto e che è l'unica che può condurci a destinazione. La vergogna "malsana", invece, quella falsa e crudele, è come una manciata di chiodi aguz- ◄

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APPROFONDIMENTI ♦ testimonianze ◄ zi gettata sul nostro cammino da

qualcuno che vuole farci soffrire e smarrire. Noi stiamo procedendo nell'esatta direzione, stiamo "facendo bene il Bene", ma qualcuno vuole trarci in inganno. Per invidia o, come abbiamo visto, per puro adattamento all'ambiente distorto in cui si trova a vivere. Sono persone e forze che si trovano fuori dal nostro cammino, che hanno già cominciato ad errare lontano dal sentiero e che vorrebbero trascinare anche noi in un fosso pieno di ortiche. Tragicità e redenzione della vergogna. Lo psicoanalista francese Serge Tisseron definì con chiarezza questi due aspetti fondamentali e opposti della vergogna: essa possiede un significato tragico ed uno di redenzione. Quest'ultimo ne farebbe un'emozione tutt'altro che condannabile. Per quanto sgradevole, la vergogna è la reazione del nostro organismo al vaccino che ci protegge, la difesa contro il rischio di cadere nell'inumano. È un vero e proprio campanello d'allarme, che ci segnala che ciò che è stato fatto è una minaccia al nostro io più vero e giusto, che il passo compiuto è stato avventato e nocivo alla nostra piena realizzazione come persone. La vergogna "buona" è il nostro naturale riconoscimento che da soli non ci bastiamo, che narcisismo ed egoismo, per quanto talvolta allettanti, sono sterili, morti. Ma come fare a distinguere queste due "sorelle" dall'aspetto così simile, ma dal cuore così antitetico? Come riconoscere le "spine vere", nel giusto luogo, da quelle strappate e gettate ai nostri piedi per farci rallentare e deviare? Tre sono le grandi forze a cui dobbiamo sempre fare affidamento:

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- Il nostro puro intelletto. Può essere chiamato ragione oppure buon senso. In ogni occasione della nostra vita, non dobbiamo mai pensare di non valere abbastanza, di non essere all'altezza di una scelta, di non essere degni di riflettere su qualcosa che ci riguarda così da vicino come ciò che ci fa provare i morsi brucianti della vergogna. Questo non significa che saremo sempre senza errore. Che ci basta meditare un po' in solitudine per capire quale biforcazione del bivio scegliere. Anzi, è solo a partire da un nostro

giudizio che ci possiamo riconoscere davvero bisognosi di aiuto, del consiglio di altri, di nuovi punti di vista ed opinioni. Il bambino cresce in saggezza quando impara a correre dalla madre e dal padre, se si è ferito ad un dito, non quando rimane seduto solo, nella polvere, piangendosi addosso. Guardare sempre con occhi lucidi ciò che avviene dentro e fuori di noi è il primo, fondamentale, passo per prendere coscienza della nostra situazione di pericolo e necessità. Non sono mai stato capace di agire di conseguenza, quando mi dicevo che era sciocco oltre ogni misura dispiacersi di un bel voto a scuola, ma sarebbe stato peggio se non avessi neppure pronunciato quelle parole dentro di me. In un angolo stretto e lontano del mio animo, almeno, qualcosa mi diceva che era giusto continuare a studiare con impegno. - I compagni di viaggio. Famiglia, amici, persone buone, le cui vite ci sfiorano solo per il tempo di un saluto e di un sorriso. Solo loro sono capaci di guardarci le spalle, di difenderci dagli attacchi dei nemici, di controllare le nostre rotte ed avvertirci nel momento in cui ci vedono barcollare e navigare verso acque impervie. A coloro che desiderano la nostra felicità, più che a noi stessi, dobbiamo affidarci come i tralci di vite ai loro sostegni. Più prezioso che mai è che ci siano adulti accanto alle giovani vite che iniziano il loro viaggio pieno di insidie; guide capaci di sostenerli sempre, di insegnare loro come evitare le buche del sentiero, come curarsi le ferite e riconoscere le stelle nel cielo che indicano il cammino. E che siano pronti a tuffarsi tra i rovi e tra le belve per venirli a salvare ogni volta che si perdono e fa notte e freddo. - "Piacere del Sole". Ciò che ci parla sinceramente e ci consiglia quando siamo nel dubbio è il "piacere del Sole". Certi giorni tutto attorno a noi sembra perfetto, armonioso e in festa. La natura e le persone che ci circondano sembrano tante note dolcissime di una grandiosa melodia. Eppure noi non siamo felici. Tutto e tutti sembrano chiedercelo, ma non riusciamo proprio ad essere soddisfatti. Dobbiamo imparare ad accorgerci di questi momenti, a percepire queste contraddizioni. Perché non sono casuali, hanno un significato ed è spesso fondamentale

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17 capirlo per superare quella barriera che ci tiene separati e lontani dalla musica, dalla gioia. Penso che l'uomo abbia un'innata consapevolezza della giustizia. Se il mondo che ci circonda assomiglia ad una ghirlanda di fiori, ad un premio squisito, ma noi non sentiamo nessun sapore e, anzi storciamo il naso, vuol dire che, anche se non lo ammettiamo neppure a noi stessi, percepiamo di non meritare un tale dono. Quando la vergogna ci assale ed è dolorosa, amara, umiliante, sia che ci si accusi di aver abbandonato nostro fratello nel momento del bisogno, sia che ci si condanni perché non riusciamo a scendere sotto un nove in pagella, il "piacere di stare al Sole" è la prova che tanto aneliamo per capire se siamo nell'errore. Quando ogni voce ci irrita, ogni sapore ci disgusta e la luce ci brucia, cerchiamo la solitudine, l'ombra, l'immobilità senza vita in un angolo della strada. Sentirci così estranei e a disagio può essere il segnale che qualcosa di sbagliato lo abbiamo commesso e che forse una parte di vergogna è meritata, non per la nostra condanna, ma, come afferma Tisseron, per la nostra redenzione, per il ritorno a camminare con la fronte alta e il sorriso sulle labbra. Quando siamo in pace con noi stessi, invece, quando ringraziamo non solo per la natura, la famiglia, le persone care, ma anche per chi ci fa vergognare, perché in fondo sono compagni di viaggio anche loro che condividono le nostre fatiche ed ostacoli, allora il Sole è una carezza calda sul volto e camminiamo leggeri, a piedi nudi. E capiamo che non c'è vergogna nel fare bene. Non c'è vergogna nel donare il bene. Non c'è vergogna nel cercare con coraggio il bene. Sempre.♦

* Enrico Meglioli. Dopo la maturità scientifica al Liceo A.F. Formiggini di Sassuolo, frequenta il corso di laurea triennale di Lingue e Culture Europee all'Università di Modena e Reggio Emilia, laureandosi nel 2014 con il massimo dei voti. Accetta poi la domanda di partecipazione al Master in Global Marketing, Comunicazione e Made in Italy propostagli dal Centro Studi Comunicare Impresa e dalla Fondazione Italia-Usa, a seguito della quale ha ricevuto la qualifica di Professionista Accreditato dalla Fondazione Italia-Usa. Attualmente si occupa di educazione, traduzione, stesura articoli e testi di vario genere, progetti di volontariato.


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Il tema del numero

Anemos neuroscienze

Aprrofondimenti

approfondimenti â–ş MUSICA E PSICOLOGIA Antonio Vivaldi e la storia degli spartiti ritrovati

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Biologia Musica

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Psicologia

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17


Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

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Anemos neuroscienze

Il tema del numero

Il “Prete Rosso” Antonio Vivaldi e la storia degli spartiti ritrovati. Guida all’ascolto del “Concerto per violino archi e basso continuo in Re maggiore RV 208, “Grosso Mogul” In

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di Lorenzo Genitori

parole chiave. Antonio Vivaldi, musica, malattia. Abstract. L'articolo indaga la vita del compositore e violinista Antonio Vivaldi (16781741) e in particolare del suo rapporto con la malattia. La malattia che lo colpì rimane un mistero, anche se già all'epoca in cui visse si parlava molto della sua indole nervosa ed esuberante.

L

a vita di Vivaldi. Esce in questi giorni per le edizioni Sellerio,uno strabiliante romanzo/saggio, L’Affare Vivaldi, scritto da uno dei massimi esperti di Antonio Vivaldi, il livornese Federico Maria Sardelli. Il libro racconta l’epopea della musica vivaldiana, dal suo apogeo fino al totale oblio, e quindi della sua ricomparsa nei nostri anni. Nato a Venezia, il padre violinista rinomato lo introduce prestissimo allo studio dello strumento, ancor prima di insegnargli a leggere. Vivaldi prese in seguito gli ordini monastici. Egli fu Lettore, Esorcista, Accolito, Suddiacono poi Diacono e fu ordinato sacerdote a 25 anni il 24 Marzo 1703; ma officiò per pochissimo tempo. Sulle cause della sua impossibilità a dir Messa si è scritto molto: malattia o proibizione vescovile? In una sua lettera autografa all’amico Guido Bentivoglio, egli descrive la sua malattia come una forte “strictura pectoris” che gli impedisce di far fronte, contro la sua volontà, al suo ministero. Per quasi 40 anni però egli fu, praticamente ininterrottamente, Maestro di Coro, Maestro di Violino e di Composizione e Maestro dei Concerti presso il Pio Ospedale della Pietà a Venezia, la più famosa Istituzione caritatevole

della città per ragazze indigenti, orfanelle o figlie naturali. Qui le giovani donne, allevate a spese dello stato e rinchiuse come delle suore, ricevevano un’educazione musicale completa ed attenta di altissimo livello, nel canto e nello studio degli strumenti più disparati. Si dice che le esecuzioni pubbliche dell’orchestra formata dalle giovani donne della Pietà di durata molto corte, ma estremamente mondane, fossero di una finezza e precisione tali da sbalordire tutti i melomani stranieri che, in visita a Venezia, puntualmente assistevano in profondo silenzio. Il Nostro dirigeva, componeva e soprattutto disponeva a suo piacimento di una orchestra di 40 elementi di qualità e, dote non di poco conto nella musica, infinitamente docili. Probabilmente, direbbero oggi le “mauvaises langues”, tutte invaghite del loro “Prete Rosso”. In questo contesto Antonio Vivaldi compose una miriade di opere, circa 600, nelle forme di concerto grosso, solistico, sonate e opere teatrali, quasi una quarantina per i più importanti teatri dell’epoca, Padova,Venezia, Mantova, Firenze. La psiche di Vivaldi. Spesso, trattando di musica e cervello su queste pagine, abbiamo messo in correlazione mente e opera del mu- ◄

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Biologia Musica

Psicologia

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

Figura 6.1 - Dipinto del pittore

veneziano Canaletto raffigurante "Piazza San Marco verso la Basilica" databile al 1723 circa. Vivaldi nacque a Venezia e si esibì nei teatri della città.

◄ sicista. La personalità nervosa ed

esuberante di Vivaldi era molto chiacchierata. Un aneddoto vuole che durante un officio, nei primi anni della sua carriera ecclesiastica, egli ebbe in mente una fuga, e preso dal nervosismo abbandonò la Messa per scrivere immediatamente la sua musica, ritornando poco dopo al suo officio come se nulla fosse. Ciò gli valse una denuncia all’inquisizione che lo giudicò pazzo e, si dice, proibì al neo ordinato sacerdote di officiare nel futuro. La sua malattia rimane però molto misteriosa. Secondo gli indizi e le testimonianze, è stata definita epilessia, rachitismo, tisi, angina pectoris. Studi più vicini a noi (Pietro Berri, La malattia di Antonio Vivaldi, Milano 1942), hanno definito il suo disturbo come un asma bronchiale allergico. Malgrado questi misteri legati alla sua personalità, la sua reputazione a Venezia ed in Europa fu grandissima. Viaggiò in Olanda, a Vienna e a Praga e le sue opere furono rappresentate nei maggiori teatri e sale da concerto. Conobbe personalmente l’imperatore Carlo VI che lo invitò formalmente a corte a Vienna. Verso la fine degli anni trenta del ‘700 però Vivaldi incappò in una brutta storia controversa tra gli studiosi. Egli aveva investito parecchio denaro in numerose rappresentazioni a Ferrara e, quando tutto sembrava pronto, egli subì la proibizione di recarsi in quella città dall’arcivescovo Tommaso Ruffo. La decisione scaturiva dal fatto che Vivaldi amava accompagnarsi da tante donne e soprattutto teneva una relazione amicale con la cantante Anna Girò a cui aveva dedicato numerose opere. A fronte di tale decisione, Vivaldi provò in tutti i modi a far revocare il divieto, ma fu completamente bloccato e boicottato. Non resistette a questo affronto e, forte dell’amicizia

e dell’invito a corte dell’imperatore, si recò immediatamente a Vienna, chiudendo definitivamente con l’Italia che lo aveva “tradito”. Era la fine estate del 1740. In ottobre Carlo VI mori e scoppiò la guerra di successione austriaca, sconvolgendo tutti i piani e tutte le opportunità del nostro compositore. Senza alcuna fonte di reddito e privato della protezione imperiale, Vivaldi svendette tantissimi manoscritti per riuscire a sostentarsi. Ma non ebbe mai in mente di tornare in Italia. Morì a Vienna, poverissimo e praticamente dimenticato, il 28 Luglio 1741 di infezione intestinale. Fu sepolto in una fossa comune. Allo stato attuale è difficile sapere se la sua personalità fosse segnata da disturbi della sfera mentale, o semplicemente fu una personalità “difficile”. La fortuna e le opere. Quasi la metà dei suoi manoscritti andarono perduti o acquistati da ignoti. La sua musica restò nel completo oblio fino alla metà del XX secolo. Si deve a Marc Pincherle il primo tentativo di riesumazione dell’opera vivaldiana ed il primo catalogo delle sue composizioni. La biblioteca di Torino e quella di Edimburgo possiedono oggi la grande maggioranza degli spartiti del Maestro grazie alla costanza e tenacia di due studiosi e musicologi, Luigi Torri ed Alberto Gentili a cui il lavoro del Maestro Sardelli è dedicato.

Indicazioni bibliografiche

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F.M. Sardelli, L’Affare Vivaldi, Sellerio, Palermo, 2015. P. Berri, La malattia di Antonio Vivaldi, «Musica d'oggi» (24), Milano 1942.

Capita ancora, spesso per la verità, che si scopra in un qualche luogo, in qualche paese lontano, uno spartito inedito, perduto, forse sfuggito ai più o collocato in luoghi poco accessibili. Importante è stato il ritrovamento del Concerto per flauto Gran Mogul da parte del ricercatore scozzese Andrew Wolley nell’ottobre 2010 nella Biblioteca Nazionale di Edimburgo. Il ritrovamento avvenno dopo aver semplicemente digitato "music” durante la ricerca dei libri contenuti nella Biblioteca. La prima rappresentazione fu eseguita nel gennaio 2011 a Perth in Australia. Ma torniamo a Livorno, dove poco tempo fa il musicista Federico Maria Sardelli, direttore d’orchestra, ma anche collaboratore del «Vernacoliere», è responsabile del catalogo vivaldiano RV (Ryom Verzeichnis). Sardelli, dicevamo è autore del testo L'Affare Vivaldi; e nel corso del libro ci racconta della sua scoperta di una antica composizione databile 1700/1703, in una biblioteca tedesca. Splendida musica eseguita per la prima volta a Firenze, agli Uffizi, diretta dal Maestro Sardelli, per l’inaugurazione della mostra su Gherardo delle Notti. Ancora un piccolo tassello per ricostruire l’opus vivaldiano andato quasi interamente perduto negli ultimi anni della sua vita. ♦

Lorenzo Genitori. Neurochirurgo, coordinatore regionale Toscana per la neurochirurgia ad indirizzo pediatrico.


A

Pensiero al femminile

Eleonora Fonseca Pimentel Un ritratto della patriota e politica italiana Pensiero al femminile. L'approccio multidisciplinare di ÂŤNeuroscienze AnemosÂť guarda anche al mondo della psicologia sociale. La questione delle discriminazioni di genere e del ruolo della donna nella societĂ rientra tra le problematiche anche della nostra epoca. Da qui l'esigenza di puntare la lente sul contributo del genere femminile ai settori importanti della scienza e della cultura.

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IL PERSONAGGIO

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Anemos neuroscienze

Apr-Giu 2015 | anno V - numero 17

In

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di Danilo Morini

parole chiave. Eleonora Fonseca Pimentel, Italia, Repubblica napoletana. Abstract. In Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), patriota e politica italina, è racchiuso tutto lo spirito eclettico ed inquieto del secolo in cui visse. Si dedicò intensamente alle grandi correnti di pensiero che esplosero nella seconda metà del 1700. Divenne la prima giornalista politica italiana e direttrice del giornale ufficiale della Repubblica napoletana: il Monitore napoletano.

eleonora fonseca pimentel Forsan et haec olim meminisse iuvabit ca Pimentel sia racchiuso a pieno lo spirito eclettico di quel secolo frizzante ed inquieto che fu il ‘700; un secolo in cui la luce delle idee, della laicità, della ricerca di un diritto insito nell’uomo e non dipendente dal volere di Dio ebbe come contraltare il precipitarsi verso un grande olocausto finale di idee e di uomini, come se dopo tanta luce il buio si facesse più forte, quasi che - per un bizzarro contrappasso - ci fosse bisogno di buio dopo lo splendore del secolo dei Lumi. Le sue doti di poetessa la proiettarono ben presto verso la corte borbonica: per il matrimonio di Ferdinando IV e Maria Carolina compose l’ode Il tempio della gloria e ne ideò un’altra ancora per la nascita del loro primo figlio maschio, intitolata La nascita di Orfeo. Eleonora e Maria Carolina d’Austria, la Regina di Napoli. Strano destino l’incontro tra queste due donne se si pensa alla fine della sua vita. Fu Maria Carolina, sorella di Maria Antonietta ed anche del Granduca Leopoldo di Toscana - il primo in Italia ad abolire nei suoi Stati la pena di morte e la tortura - che ricevette Eleonora a corte, dove le concesse un sussidio come sua bibliotecaria; il legame tra le due donne fu molto forte:

Figura 7.2 - Ritratto di Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), patriota e politica italiana. È stata una delle figure più rilevanti della breve esperienza della Repubblica Napoletana del 1799.

come amiche frequentarono i salotti degli illuminati napoletani affiliati alla massoneria, in un primo tempo sostenuti dalla regina stessa che aveva appoggiato con convinzione il di-

L

a vita e gli studi. Eleonora Fonseca Pimentel fu senza dubbio una donna del suo tempo. Nel sangue aveva quella nobiltà che le consentiva l’istruzione, quella stessa nobiltà ed istruzione che però non le permisero di capire la ragione ed i sentimenti di quel popolo che voleva liberare; come tante donne a lei contemporanee si sposò con un uomo che non amava, da cui ebbe un figlio morto precocemente e che lasciò dopo che le sue percosse le avevano provocato un aborto. Come diverse donne del suo tempo si interessò invece intensamente alle grandi correnti di pensiero che esplosero nella seconda metà del XVIII: stabilì rapporti epistolari con Voltaire e si abbonò all'Enciclopedia del Diderot, coltivò studi di carattere scientifico, giuridico ed economico e frequentò la casa di Gaetano Filangieri ove incontrò Domenico Cirillo, Ferdinando Galiani e il massone Antonio Jerocades; fu una poetessa di fama, che acquisì fin da giovanissima quando entrò dapprima nell’Accademia dei Filateti con il nome di Epolifenora Olcesamante e poi in quella dell’Arcadia dove, in virtù di questa sua innata facilità a verseggiare, entrò in relazione con Pietro Metastasio, il più famoso poeta dell’epoca. Sembrerebbe che in Eleonora Fonse-

Figura 7.1 - A fianco particolare di una cartina di Napoli realizzata nel XVI secolo e stampata nei decenni

successivi

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IL PERSONAGGIO

◄ spotismo illuminato in linea con

lo spirito riformatore del fratello Leopoldo di Toscana. Questo forte legame si interruppe però drasticamente con il sopraggiungere dalla Francia delle notizie che fecero conoscere i drammatici sviluppi della Rivoluzione: Maria Carolina si sentì tradita da quegli stessi amici che con lei avevano lavorato per una monarchia più moderna ed ora propugnavano l'avvento della repubblica, e li combatté inflessibilmente, spinta anche dall'odio verso i giacobini responsabili della morte della sorella. Tutto questo avrà il suo peso nella parabola di vita di Eleonora, ed è opinione ormai comune tra gli storici che proprio questa amicizia tradita sia stata all’origine della sua tragica fine. Ma andiamo con ordine. Eleonora Fonseca Pimentel nacque a Roma il 13 Gennaio del 1752 da genitori portoghesi, Clemente e Caterina Lopez, per poi trasferirsi con la famiglia a Napoli nel momento in cui la Santa Sede ruppe le relazioni diplomatiche con il Portogallo in seguito alla cacciata dei gesuiti dal Regno. La vita politica. Cominciata la propaganda repubblicana in Italia dopo la rivoluzione francese, Eleonora Fonseca Pimentel aderì in maniera convinta alle nuove idee che provenivano d'oltralpe e si pose immediatamente in relazione con massoni e giacobini al punto che, il 5 ottobre del 1798, la polizia borbonica perquisì la sua casa e, poiché furono rinvenute alcune copie dell'Enciclopedia di Diderot, la arrestarono e la portarono nelle dure carceri della Vicaria. Ad opera dei cosiddetti lazzaroni - che avevano aperto le carceri per avvalersi dell'aiuto dei delinquenti comuni nel sostegno alla rivoluzione napoletana nei primi giorni del 1799 riacquistò la libertà durante il periodo di anarchia popolare succeduto a Napoli dopo

la fuga del re e della corte a Palermo. Da quel momento volle cancellare dal suo cognome il "de" nobiliare e divenne una protagonista della vita politica della Repubblica Napoletana, della quale salutò l'avvento scrivendo l'Inno alla Libertà. In primo luogo partecipò alla formazione del Comitato centrale che favorì l'entrata dei francesi a Napoli; poi, come prima giornalista politica in Italia, divenne il direttore del giornale ufficiale della Repubblica, il Monitore Napoletano, che si pubblicò dal 2 febbraio all'8 giugno 1799, in 35 numeri bisettimanali. Dai suoi articoli emerge un atteggiamento democratico ed egualitario decisamente contrario ad ogni compromesso con le correnti moderate e volto soprattutto a diffondere nel popolo gli ideali repubblicani, attività nella quale la Pimentel si impegnava attivamente anche della Sala d'Istruzione Pubblica dove però i suoi tentativi di rendere popolare il nuovo regime ebbero scarso successo. L'unico effetto palese fu quello di acuire il malanimo dei Borbone nei suoi confronti e di attirarle addosso la loro vendetta quando la Repubblica, nel giugno del 1799, fu rovesciata e la Monarchia fu nuovamente restaurata. La condanna a morte. Quando cadde la repubblica napoletana Eleonora Fonseca Pimentel tentò di imbarcarsi per la Francia ma fu arrestata e condannata con giudizio sommario all'esilio dal Regno; sembra su esplicita richiesta della regina Maria Carolina, fu poi deferita alla Giunta di Stato il 17 agosto 1799, fu giustiziata tre giorni dopo sulla piazza del mercato dal boia Paradiso che, per i servigi di 124 condanne a morte eseguite in quei giorni, riceverà 860 ducati. E tra tali servigi vi fu anche quello di negare ad Eleonora la sua dignità di donna rifiutandosi di fornirle degli

Indicazioni bibliografiche

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Benedetto Croce, Eleonora de Fonseca Pimentel, Roma, Tipografia Nazionale, 1887. Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Bari, Laterza, 1976. Mario Forgione, Eleonora Pimentel Fonseca, Roma, Newton & Compton, 1999. Bice Gurgo, Eleonora Fonseca Pimentel, Napoli, Cooperativa Libreria, 1935; Maria Antonietta Macciocchi, Cara Eleonora, Milano, Rizzoli, 1993. Nico Perrone, La Loggia della Philantropia, Paler-

mo, Sellerio, 2006 Enzo Striano, Il resto di niente. Storia di Eleonora de Fonseca Pimentel e della rivoluzione napoletana del 1799, Napoli, Loffredo, 1986; Napoli, Avagliano, 1999; Milano, Rizzoli, 2001, 2004; Elena Urgnani, La Vicenda Letteraria e Politica di Eleonora de Fonseca Pimentel, Napoli, La Città del Sole, 1998. «Fonseca Pimentel, Eleonora de», in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani.

indumenti intimi o almeno una corda per legare l'orlo della sua veste che si sarebbe alzato quando il suo corpo sarebbe rimasto esposto legato alla forca al pubblico ludibrio. Lo spettacolo di Eleonora il boia lo tiene per ultimo ed inutilmente la 47enne marchesa aveva chiesto di morire di scure anziché di laccio, premura che si applicava alla nobiltà: ma lei, figlia di nobili portoghesi, era considerata straniera. Vincenzo Cuoco scrive che, prima di salire sul patibolo, chiese di bere un caffè e poi, mentre il boia le mette il cappio al collo, pronunciò la stessa frase che Virgilio mette in bocca ad Enea: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, che significa: “Forse un giorno la memoria di questi avvenimenti ci sarà gradita”. Una frase che il popolo certo non capì. Si racconta che quello stesso popolo, che per mesi aveva inutilmente cercato di convertire alla causa giacobina dalle colonne del suo Monitore, per ore abbia sghignazzato sotto il suo cadavere inventandosi anche una crudele satira: “Addò è gghiuta 'onna Lionora che cantava 'ncopp'o triato, mo abballa mmiez’o Mercato. Viva 'o papa santo ch'ha mannato 'e cannuncine pe' caccià li giacubine. Viva 'a forca 'e Mastu Donato! Sant'Antonio sia priato”. L’unica grazia al cadavere di Eleonora la concedette un improvviso temporale estivo, che obbligò i becchini a spiccare anzitempo i cadaveri esposti sulle forche, che in tutta fretta furono seppelliti nella vicina chiesa di Santa Maria di Costantinopoli. ♦

Danilo Morini. Ha un Dottorato in Storia Medioevale presso l'Università di Bologna, oltre alla laurea in Lettere Moderne. Ha collaborato con l'Università come responsabile per l'area reggiana del "Progetto Castelli, castelli medioevali dell'Emilia-Romagna" e ha tenuto lezioni sui castelli dell'Emilia Romagna. Da Giugno 2010 ad Aprile 2013 ha lavorato come collaboratore presso l'Assemblea Regionale dell'Emilia Romagna. Dal 1996 al 2002 ha ricoperto la carica di Consigliere di Amministrazione del Consorzio "I Teatri" di Reggio Emilia. Dal 2002 al 2008 è stato Consigliere di Amministrazione della "Fondazione Nazionale della Danza-Aterballetto" di Reggio Emilia. Dal 2009 al 2014 ha ricoperto la carica di Consigliere Comunale del Comune di Quattro Castella dove, dall'Aprile 2013, ha assunto anche la carica di Presidente del Consiglio Comunale. Dal 27 Maggio 2014 ha ricevuto la delega alla Cultura, promozione del Territorio, Beni Storici, Sicurezza, Sport e Trasporti nell'Amministrazione Comunale di Quattro Castella.


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’Associazione culturale e di volontariato Anemos, fondata nel marzo 2009, nasce per coordinare e ampliare le attività di volontariato sociale di un gruppo di amici di Novellara (RE), nonchè le attività culturali del Centro di Neuroscienze Anemos, l’attività editoriale scientifica in collaborazione con la casa editrice New Magazine Edizioni e con la casa editrice La Clessidra. Tra i vari campi d’attività accennati: ♦ Libera Università di Neuroscienze Anemos: organizza convegni, seminari e corsi multidisciplinari sul tema delle neuroscienze in collaborazione con La Clessidra Editrice (vedi testo sotto). Pubblicazione della rivista «Neuroscienze Anemos» ♦ “Libri Anemos”. Attività editoriale con la Casa Editrice New Magazine con una collana di Neuroscienze e una collana di Narrativa e Poesia ♦ Biblioteca di Neuroscienze Anemos ♦ Promozione e valorizzazione di giovani artisti ♦ Programmi di volontariato sociale nei paesi in via di sviluppo e in Italia

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La Clessidra Editrice Direzione editoriale: Davide Donadio Tommy Manfredini

N

ell’autunno del 2010 è nato il progetto «Neuroscienze Anemos», trimestrale di neuroscienze, scienze cognitive, psicologia clinica e filosofia della mente. Il periodico di divulgazione scientifica, distribuito gratuitamente nelle biblioteche pubbliche della provincia di Reggio Emilia e Mantova e in altri circuiti distributivi, si sviluppa in stretta correlazione con La Clessidra Editrice, giovane casa editrice Reggiana (con sede a Reggiolo, RE) nata in un contesto di associazionismo culturale nel 2004 e costituitasi come casa editrice nel 2006. ditrice La Clessidra è specializzata in editoria periodica locale e settoriale. La giovane casa editrice raduna intorno a sé un attivo gruppo di intellettuali, collaboratori abituali e occasionali, che agiscono oltre la sfera dell'editoria. otto questo aspetto, le attività promosse dall'editore contribuiscono ad alimentare il dibattito sulla contemporaneità, non solo presentando e divulgando la propria attività e quella di altri operatori culturali, ma anche promuovendo convegni e seminari (riguardanti l'ambito scientifico e le scienze umane) , divulgando l'attività di artisti, scrittori, studiosi di varie discipline.

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Le Clessidra Editrice. Redazione editrice e della rivista: via XXV aprile, 33 - 42046 Reggiolo (RE) tel. 0522 210183


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