La moderna Divina Commedia

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LA MODERNA DIVINA COMMEDIA (Edizione della Divina Commedia in HD) In memoria dei 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri

Introduzione Nato da un concorso organizzato dalla pagina Facebook “La Divina Commedia in HD”, questo ebook è una raccolta delle poesie che hanno partecipato. Il concorso è stato realizzato il 20 novembre 2015 in omaggio ai 750 anni dalla nascita di Dante Alighieri, ed era intitolato “Spediscilo all’Inferno”: chiedeva ad ogni autore di mandare all’Inferno un personaggio dell’epoca odierna. Ogni canto è una poesia che ha partecipato, con il relativo autore; l’ordine dei componimenti prescinde dalla classifica finale, che ha avuto il primo (Elsa Giancola), il secondo (Marcello Concoli) e il terzo classificato (Greta Tropeano) come vincitori di premi.


INFERNO, CANTO I (a cura di Manlio Marano)

"Pallida era e pareami fina molto una femmina germanica sola in quella via che già più volte il respiro m'avea tolto.

I' vedea lei con tutta attenzion mia, e vidila non in piedi stare, ma come can ch'a quattro piedi stia.

Intorno a lei c'eran tante bare, e ciascuna avea un eroe grieco in piedi, intentola a guardare.

Poi era un uomo bieco. Questi avea un mustacchio nero, piccolo era e mi parea cieco.

Più che omo avea forma di pero, e tutto il suo costato all'aria era scoperto. Ciò che poscia vidi non parvemi pur vero.


Ciascun ellenico che ivi stava erto, dal corpo gli staccava ardentemente un osso, e al can lo lanciava con tiro certo.

Allora il can teutonico subito era mosso, e dietro andava al macabro diletto in quel pesante e livido aere rosso.

Ma poi che quasi era a quel disiato oggetto, il collo suo peloso, ispido e possente, subitamente da un collar parvemi ristretto.

Allor ciascun ellenico, dal passo suo vincente, s'appropinquava per riprendere da terra, l'osso distaccato dell'altro penitente.

Poi come quel che fintamente erra, ma che perfettamente sa la direzione, va dall'altro rio, e la costola gli serra.

Un altro greco dunque ripete poi l'azione, lanciando un'altra costa ancora e sempre quella, che credeva aver per fine trovato colazione.

Ma il can che volea forte l'osso e la scodella, ancor una volta e poi per sempre ancora, venia al col privato della misera parcella."


INFERNO, CANTO II (a cura di Elisa Baggiarini)

Poscia che la favella acuta e mesta di Ciacco, mio concittadin, percosse l'animo mio pel mio destin funesto, guardommi 'l buon Maestro, e 'l suo pie' mosse e spinse me a pur far lo simigliante. Noi andavam per le grandini grosse del terzo cerchio, quando un riluttante fetor d'escrementi sentì venire da un loco da lì non troppo distante, perch'io dissi: «Maestro, ho gran disire di mirar quelli spirti che si stanno in quel melmoso puzzo, e ché patire debbano un sì gran vergognoso danno». Ed elli a me: «Seguimi, e canoscente sarai di loro e di ciò ch'essi hanno». Con lui m'appropinquava prestamente


a la scoscesa fetida lordura com'io vidi accasciata certa gente in quella terra che pute sì dura, ma 'l guardo mio fu subito rapito da tre cotali insiem ne la sventura. Ei si pascean in modo sì ardito di quella lorda smerdata fanghiglia, ch'i' ne rimasi alquanto sbigottito e subito gridai: «Un colpo mi piglia!» e mi si rivoltò 'l sacco nel casso, e 'l viso mio sbiadì di maraviglia. Insieme al mio Maestro fermai 'l passo al conspetto d'un tal crapa pelata che col suo strano accento fè 'l gradasso. Mostrocci la lingua ch'era marchiata d'un simbol ch'i' parea che conoscessi: un' ‘emme’ nera tutta chiocciolata. O cotidian lettor, s'io ti chiedessi d'indovinare l'anima golosa tra tutti quegli altri spiriti oppressi, i' credo che sarebbe facil cosa: ché quello fu Giovanni Bastianicco, di culinar competizion famosa. Come lo viso mio verso lui ficco, el sollevò dal suo fïero pasto la bocca, ch'era d'orgoglio sì ricco, e disse: «A colazione et antipasto,


per pranzo, uno spuntino e anche per cena io mangio merda insieme a questo impasto, ché per me questa è sola giusta pena. A ‘Master Cocus’ giudice severo i' fui sempre con la mascella piena, e quasi mai è stato lusinghiero un mio giudizio e se ora qui divoro quintali di questo letame vero è perch'io dissi allora "Vuoi che muoro?" mangiando pïetanze prelibate che chiamai 'merda' con gran disonoro». Poi ch'ebbe 'ste parole dichiarate, i' cominciai : «Dimostrami chi sono l'anime âltre teco sventurate». E come al lampo segue greve truono, fece el de la bocca tal forte grido che se ci penso, più non vi ragiono. «Serïamente vuoi tu che io rido! Non hai mai visto la televisione? Lui con gli occhiali è mio compagno fido: Bruno Barbier che insulta il mappazzone. L'altro è il fascinoso e pluristellato Cracco, altro giudice della tenzone culinaria» - così disseci irato quello spirto, de la sua compagnia. Ahi gente sì viziata di palato molti nulla hanno, e voi buttate via!


INFERNO, CANTO III (a cura di Lino Tumminieri)

Dell'italica lingua, ch'i'amai tanto, non v'è essere in terra nè 'n cielo che a deturpar fu avvezzo e con vanto! Io mi copria d'impietoso velo quand'ei apparìa allo teleschermo, dannando sua stirpe a bruciapelo! Chi è costui e qual ingan' malfermo move lo spettator, ipnotizzato, a udir lo sproloquio d'un uomo infermo, che a pronuncia e sintassi è negato? Invoco or lo giudice Minosse ché sua coda cinga Luca Giurato. Com'ei ebbe, senza pudor, percosse e ingiurie inferto a l'alto Volgare, sia posto tra color che fan più tosse


che sospiri e gli dolga lo parlare! «Ditemi, Duca, anche a voi rintrona le tempra l'udire cotal giullare che il sì non suona, bensì frastuona?». Diss'io lui ansimando. «Non si puote oltre sopportare, indi abbandona siffatte trasmissioni più che idiote, prima che ti abbuffo di mazzate!» rispuose adirato,«Ah, riscuote ascolti lo ciarlare per più fiate come fosser dislessici pupazzi... Fosse per me, li prenderei a pedate! Vedi quel balbuziente, tale Razzi, l'han titolato perfin senatore: vien pagato per canti e sollazzi.» Mentre elencava lo mio autore li più strambi peccatori nostrani, una voce d'oca al televisore suonò: Laurenti, con batter di mani. «Buonasera Bonolis», ei farfugliò. «Spengi quello aggeggio da villani!», lo maestro mio contra me si scagliò, «o lo vedrai tosto all'acheronte!». Andavam, quando di colpo si stagliò un dannato dalla Crusca in fronte, che belava 'na lingua scura e rozza.


Allor lo Duca invocò: «Caronte, vien tosto e gettalo nella pozza!». Giunta la barca, lo nero nocchiere udì che quegli a stento singhiozza ed esclamò: «Virgilio, che maniere! Chi è, un vivente o un dannato?». «Sai che sono restìo alle preghiere; ti priego, suo destin è il fossato,» disse il Duca, «dov'erran favelle assurde e costui è il Giurato.» E quegli, ch'avea irta la pelle al sol sentir lo cognome, aggiunse: «Morrà là ove mai brillan le stelle!»


INFERNO, CANTO IV (a cura di Elisa Pomarico)

In quello girone maledetto S'udiva un romor continuo e costante Di fondo ed un tonfo netto; Al che allo mio maestro mi rivolsi interrogante "Duca mio, che pena i dannati devon qui scontare?" E lui rispuosemi "qui giace chi fece gran scempio dell'altrui lingua, dovendo in ruol di prestigio parlare. Costretti saranno, per l'eterno, come medioeval monaci, a vergar con lor sangue e sudore Vocabolari anglosassoni ed esser capaci Di decorarli con illustrazioni di grande splendore Dovranno infine ripeterli correttamente a memoria Per pi첫 e pi첫 fiate, in vero,


Tante quante le parol di cui in vita han fatto scoria". Io, qual color d'un candido cero Mi feci per l'orror che provai all'udir cotal verbi. Proseguimmo per lo girone e distinsi banchi Su cui cadevan grossi libri acerbi. I dannati scrivevan copiosi e prelevavan stanchi Inchiostro dalle loro ferite causate Dalla frusta di Beowulf che li colpiva. Un dannato mi colpĂŹ parendomi fiorentino nelle sue espressioni dannate Vicino mi feci a lui e il mio orecchio l'udiva: "Signori miei sappiate che mai mader u crai bicouse ai em in infern #shish" diceva

"Egli" disse lo duca mio " a capir non riusciva Che l'Italia alle sue parole rideva, Ogni bambino di lui si beffava e la sua nazione ha reso burla Sindaco della tua Firenze e del consiglio le redini teneva. Ma ora il corretto inglese per l'inferno urla" Lo udimmo mentre frasi ripeteva. La loro grammatica mi fece rabbrividire. Lo duca mio allor mi prese e mi disse "non ti curar di lui, ma guarda e passa"


INFERNO, CANTO V (a cura di Greta Tropeano)

Ed ecco che giungemmo ad una sorgente, che bolle e si riversa in un fossato, e percorremmo una via accidentata discendente. Questo ruscello Stige era chiamato, le sue acque erano torbide e scure, tanto che subito ne fui spaventato. Nella fangosa palude vidi delle figure, che si trovavano in essa conficcate e tra loro si infliggevano torture. La mia guida, vedendo le mie espressioni preoccupate, disse: 'figliuolo, queste anime peccatrici in vita, dall'ira furon dominate'. E mentr'egli parlava delle sorti degli infelici, io fui rapito dal singolar aspetto di una di esse, il cui volto era coperto da orribili cicatrici.


D'un tratto qualcosa di inaspettato successe, la stessa anima iniziò a mutare illuminandonsi sì tanto che la vista non resse. Appena mi fu possibile guardare non più un uomo vidi, ma un ovino e un nome, tre volte, sentii riecheggiare. Egli aveva le corna ed un parrucchino, gli occhiali e il manto maculato. 'Costui fu emiliano, di Ferrara cittadino', disse il buon maestro vedendomi interessato. 'Fu una persona di spicco del moderno mondo, cinto del tuo stesso lauro: in filosofia dottorato. Critico d'arte e conoscitore profondo, anche nella cosa pubblica si impegnò, con un fare spesso iracondo. Qualche condanna la sua via segnò, ma anche qualche assoluzione e le arti figurative mai disdegnò. Perciò Minòs scelse questa collocazione: la pena si costui è speculare alla sua tipica espressione. Ed ecco che vede il proprio corpo trasformare in una capra, che per tre volte bela quel che è il suo nome familiare'. Allora con calma e con cautela


osai: ' oh spirito tormentato, è vero, contro Pluto, della tua querela?' Egli si avvicinò e spiccato un salto, giunse, belando sí forte al mio cospetto, che io caddi, dinnanzi al vate, terrorizzato. E persi le capacità del mio intelletto.

INFERNO, CANTO VI (a cura di Luca Corti)

Quando la penna del mio ingegno spinsi a scriver l'ultimo dei neri canti pietà mi giunse, sì che non m'accinsi a immortalar che mi trovai davanti pria che Lucifer mi fu manifesto.


Ogni cerchio spirti n'accoglie tanti quanti vi son ne l'altri, ma di questo spazio poco so dir, ché non si vede. Lo duca a me: «Dimentica lo testo, e libera la mente al suon che lede questo silenzio». E subito mi disse: «La mala gente che quivi risiede, o paga 'l fio da prima che nascesse, o non è nata ancor su ne la vita, ma soffre tuttavia». Or s'indugesse, lettor, non biasmerei, ma non dubìta. Colui che tutto sa sol può capire come tal doglia sia da uomo uscita o uscirà nei tempi a venire, ma certo è che quelle grida spente erano umane, e tal ch'al sol ridire angoscia mi rapisce cuore e mente. «Quivi soffron color che fanno strage d'innocenti poi che morale stente», disse 'l maestro a me, e parol sage per confortarmi poi aggiunse, sì che i miei pensier raggiunser calme piage. Allor distinsi un grido che così infra quell'altri si faceva strada: «O voi due ch'ascoltando state lì, restate a parlar meco, se v'aggrada. Nato sarò nel millenovecento


in luogo a nord de l'Alpi, e alta grada ricoprirò per un ch'a passo lento mi renderà colpevole di cose che già m'è concesso capir, ma a stento. Lo re dei Ciel ci prese e poi ci pose in altra dimension, che d'aria grigia e densa è pregna, sì che respirare più facil'è per chi 'n palude Stigia si trova, per accidia, ad affogare. Dinanzi alle mie colpe cupidigia è assai men grave, ché...». Ma l'ascoltare fu d'un tratto impedito dalla pièta che mi pervase, sì che come ubrìco io caddi a terra in un sonno che queta. Ei disse molto più ch'i' non ridico.


INFERNO, CANTO VI (a cura di Nicolò Gennari)

E mentre io e la mia guida Somma Ragione proseguivamo pel ponte distrutto, scrutando la IX Bolgia con profonda afflizione, osservando le vittime soprattutto, vidi una figura femminile congelata dalla tremenda ghiccia infernale e da un demone terribilmente torturata che sul volto avea una smorfia animale; seppi che ella Maria si chiamava, ma alla Vergine per nulla assomigliava e col guardo l aere nero e denso infuocava. Esortato dal Duce ad interrogarla provai, ma non parola o verso pronunciò e la sua pena di molto aggravai,


cosi' ella a singhiozzar incominciò. Il mio Lume allora la via mi indicò ma io dal demone i titoli pretesi, suo e di lei, cosi' la sua voce le urla dei dannati sovrastò rispondendo :- son Randacan; uncinator di costei, che nella vita di discordie il seme gettò e doppio supplizio le costa poiché tra il ghiaccio dei traditori già in vita si gelò, e del Male della serpe ella trabocca.

Il suo nome è e fu Maria Giulia Sergio, abbandonò la terra dei gemelli divini per andare la guerra santa a combatter con coraggio per seguire di Allah i mortali gradiniE io cominciai con ira focosa a tempestarla di parole di ferro, ed a attaccarla con prosa bellicosa: -Gela,o perfida donna, nel tuo tradimento, e della Discordia gli uncini nella carne prova; e tu demone randagio colpiscila con accanimento, affinché lei non veda più un'alba novaCosi' Virgilio per la via si incamminò


e il demone sulla vittima ancora si inchinò e di andar via mi ordinò.

INFERNO, CANTO VII (a cura di Marcello Concoli)

“Degli anglici Guglielmi fui e Robino. Molti visi mi vestirono addosso: dottore fui di infelice bambino

e all’invito dell’attimo fui mosso e a cercar sempre l’umano fui volto come furono i risvegli che ho scosso.

Ora mi vedi qui, chino e stravolto, serrato al tronco ma sciolto di bocca,


che folle a me si muove qui sepolto.

Smorfie penose son quel che mi tocca fare a ogni passo d’anima che viene e crede di non restare e a me abbocca.

Ma poi resta, si fissa e quindi sviene e lì in terra s’impiglia e nell’inganno e allora il riso mio non si trattiene.

Se vuoi sapere perché qui m’impanno, fu per fuggir l’attesa fino in fondo di disfarmi ad un sinistro malanno.

Dura mi fu la maschera nel mondo. Ma la mia fuga, lo so ora, fu invano se la devo scontar qua nel profondo.

Vorrei addïare con un nano nano”. Più non aggiunse al dolente parlare che ritornò lo sguardo triste insano.

E fu bene procedere oltre e andare.


INFERNO, CANTO VIII (a cura di Alessandro Madeddu)

Taciti, soli, sanza compagnia n'andavamo l'un dinanzi e l'altro dopo come i frati minor vanno per via. Pensavo alla decina di diavoli impacciati sguazzanti nella pece e me li figuravo prometterci vendetta oltremodo arrabbiati.

Ma da tali pensieri presto mi liberai, preso da nuovi casi.

Attraversava la nostra strada


una traccia vischiosa di pece che portava dietro uno scheggione: lì scovammo un'anima nascosta, sfuggita all'eterna punizione che in terra meritò con quel che fece.

“Chi sei, tu che malamente cerchi scampo ai tuoi tormenti nascosto in mezzo agli scheggioni? Non aver di noi temenza alcuna, rei non siamo e tu lo vedi e vedi pure che non siam demòni.” Così il maestro disse a lui.

Quel lessato, di rimando: “Con quelle facce e quelle vesti fareste un po' paura solo al sarto. E un poco anche al dottore.”

“Sei forse tu un sartore aduso a panneggiare mercanti ed usurai?” chiesi al dannato.

Molto se la rise quel lesso fuggito agli avversari suoi tanto che c'indicò col dito: “Tu e il nasone volete sapere chi sono e chi fui? I motivi per cui son qui punito?


Con voi me ne voglio vantare...

“Durante una guerra civile mi fu aperta la porta di un ufficio temuto, invidiato: l'ufficio di scovare traditori, smascherare spie presunte disseminando informatori e delatori fra i concittadini. E come spia fui conosciuto. Confessioni estorte e prove falsate, false testimonianze: così ottenni le sentenze che molti mandarono in Siberia a morire di freddo e di fatiche. E promisi assoluzioni a belle donne chiedendo come prezzo una scopata. Promessa mantenuta mai. Contenti? Ora sapete chi fu Lavrentij Berija.”

Così ci disse e io mi volsi al mio maestro per sapere nulla sapendo di questa Siberia. “Io penso che egli parli d'Iperborea” mi rispose il poeta. “Che personcine colte!” ci canzonava intanto quel dannato.


Altre battute non riuscì a fare: due diavoli, sulle ali nere, calando non visti dall'alto, l'afferrarono all'improvviso. Percossero il dannato coi mestoli che avevano per armi, mirando al cranio e al viso. “Roba da Lubjanka” gridò il lesso ritrovato. Ma quelli, sfoderato un sorriso da animali, ripresero a colpire. Uno infine lo arpionò alla gola e fece per portarlo via.

A quel punto si avvidero di noi. Si consigliarono su cosa fare: “Perquisirli prima e pestarli poi?” Si chiesero. Ma il maestro a loro: “Nessun di voi sia fello” disse spiegando che eravamo autorizzati da un certo Malacoda, centurione. “Non è bene – risposero – parlare a un nemico del popolo. Comunque, avete l'autorizzazione? Fate vedere il lasciapassare.”

Vidi il maestro mio molto confuso. Allora dal lucco trassi un foglio. Lo prese quello che pareva avvezzo alle scartoffie di cancelleria.


Scosse la testa e disse: “Quel Malacoda scrive come un cane! Girate pure, se volete, fate un po' come vi pare. Anzi, di più: fate come se foste a casa vostra. Magari un giorno...” Fra gli sghignazzi volarono via con il dannato appeso al runciglio.

“Cos'hai mostrato loro?” mi chiese allora il duca. “Una canzone che vado scrivendo, Così del mio parlar voglio esser aspro: i neri cherubini hanno scarsa o nulla conoscenza del volgare” Il maestro rise e io risi con lui. “Forse non sei proprio inesperto come a volte vuoi far credere! E ora gambe in spalla: la decina di Barbariccia sarà già sulle nostre tracce.” Allor si mosse, e io li tenni dietro.


INFERNO, CANTO IX (a cura di Alessandra Pari)

E mi diressi verso un pendÏo scosceso da cui usciva un gemito offeso. Quivi era una gigantesca fila di manichini inerti davanti a sportelli aperti. Nessuno rispondeva.... solo un'anima era attiva. Da ogni parte si affannava senza ottenere risposta alcuna, solo inviti a girare, rigirarsi da altra parte, evasivi e contraddittori ad arte. Ed io parlai a codesta figura: << Da dove provieni, rigida creatura? PerchÊ sei posta qua? Qual è la tua cura?>> Ed essa a me: << Io stetti scomoda al mondo intero complicavo ogni uman pensiero, feci girar le genti ore ed ore, invano, sportelli, file, timbri, documenti


che passavan di mano in mano; tanti uffici, corridoi e mai risposta alcuna avean coloro cui tendevo il mio piano: sono la Zia Burocra e complicai il mondo, fermai milioni di iniziative di persone anche volenterose, disposte a far del bene. Scoraggiai, rallentai, troncai anche i più semplici piani. Ma che colpa ebbi io, in fondo, mi inventaste voi umani! Or vedi, come pena dovrò sostare in eterno tra manichini che non mi lascian operare. Sanno ma non rispondono, ignorano, hanno di meglio da fare, non danno informazione alcuna mentr'io provo a girare e non trovo riscontri altrove.>> Ed io al duca mio: << Maestro, non provo pietà per questa sanzione. Vedo quanto il mondo vien complicato, dall'entità che dinanzi a noi si pone. Il buon senso da tempo fu perduto. Quindi andiamo, proseguiamo il nostro viaggio. Trovo giusto il suo eterno pellegrinaggio>>. Allor si mosse ed io li tenni dietro.....


INFERNO, CANTO X (a cura di Salvatore Padrenostro)

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telle non ci sono da rivedere qui dov’io mi trovo, nel fondo scuro della terra eterno; qui dove il mio creder

fu in difetto, luogo vuoto e insicuro.

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Solo non sono in questo punto infetto: disceso vi son seguendo il premuroso passo di chi alla vita fe’ dispetto. Adesso il cammino nostro verso il basso duro si fa e di nevoso fango pieno.

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Primo è davanti ed io gli son secondo.

“Non s’avvertono neanche tante grida”, dico io al mio compagno; e la mia guida: “Certo, siam giunti proprio in fondo al fondo, qui nessuno parla, nessuno più domanda; 15

di Cerbero i barbarici latrati, vecchia teutonica rabbia, gl’infuriati occhi di Caronte da locomotiva, qui, si tacciono; qui tutto l’umano duolo si raduna e fa silenzio, qui si va tra la sommersa gente;


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e quella che vedi in lontananza torre con alta cima rovente è di Birchenau orrendo forno, che a laboriosa Buna risponde.” Ed io: “Qualche domanda ora dovrei porre, sicché il lume della scienza tua

25 renda perplesso meno il mio intelletto. Se quest’inferno non è per colpa al rio impartito, perché ci si finisce dentro? di chi è progetto? e perché io? E perdonami se su questo t’interpello: 30

fu vero inciampo o vero suicidio?” “Compagno mio, e non della sventura”, così m’appella il saggio torinese, “del luogo voglio, se mi riesce, spiegare la natura, di Monovizze perché nel campo

35 ci troviamo, e come fu di soglia oscura il varco. A Birchenau ritorno perché Einaudi non scordi la ristampa mai di ciò ch’io vidi, di ciò che mente non cancella. “ Questa che ci ospita”, prosegue il dotto 40 piemontese, “è fredda e buia cella, che in nessun luogo riesce, né sopra né più sotto di dove sia questa stretta burella. Le fiere ringhianti ai recinti vigilano sulle nostre catene, dall’Esse Esse 45 messe a guardia della nera prigione. Qui Minosse la stessa pena impone: pupazzi d’uomini ci rende tutti, tutti in marcia su zoccoli di legno. Qui l’orrore parla molte lingue, e


50 tutti urlano e sembrano Nembrotti; e chi mangia pingue non diventa. Qui si trema, s’ ha un sogno tutti uguale, un volto unico, un’ unica tormenta. Poveri precipitati diavoli, rituale 55 segno d’una terra amara, martiri siamo d’ignoranza raccapricciante, dell’odio umano con un movente sempre diverso per diversa gente. In Lager siam tutti disumanati, 60 vittime e carnefici insieme: tanti i sommersi, pochi i salvati. Chi ci conta come le bestie, chi, a forza d’essere contato, finisce per credere d’esser vero bestiame. 65

“Progetto non c’è al male e al bene”, prosegue, “né pure terre ci sono o impure: dunque, la bontà e la malvagità nella mente solo alberga d’ogni essere vivente. Se è pura la sua mente, la terra è pura;

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se la terra è impura, è impura la sua mente.” “Ma nobile prole sefardita”, lo incalzo io, “or perdona la parola se si fa più ardita e ti deplora. Proprio capir vorrei il ruolo mio

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nel disumano scempio e il senso del mio star con te sul cieco suolo, in questo vuoto tempio, dove s’ode unicamente un rubinetto gocciolare…” Il chimico Docktor si scopre il braccio,


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e, mostrandolo in alto, urla così: “Hundert Vierundsiebzig Funf Hundert Siebzeh”, quel che da bestia fu il suo nome; ed io taccio. “Tu ben sai che da qui feci ritorno, sebbene compagno d’Odisseo; Alberto, essendosi

85 perduto in un cammin funesto. Io son tornato, ma un mal sonno, presto, a visitarmi venne: un sogno con un sogno dentro, che del passato riaprì le trame. Così da pasto caldo e caldo domicilio 90

in fetido strame mi risveglio, in gelido giaciglio. E tu a questo sogno prendi parte: però, non Paolo, tu, Enea non sei, né Dante! Tu sei ignaro testimone, anonimo dei posteri campione, a cui, ancora

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inascoltato, un monito rivolgo: le parole nel cuore mai scolpite. Auschwitz è, a causa di un vizio secolare che non abbandonate, corrente incubo, mare che sommerge gente, ché voi dimenticate.

100 E questa gente, pochissima si salva… Barche sprofondate sono nell’Anticomare; donna senza nome muore e calva; popoli affamati o in fuga dai cannoni; rossi cimiteri in profondità; scogli come loculi. 105 Tra queste baracche non è fiume che scorre, Letè, che in voi giustifichi oblianza: sorsi di quest’acqua nessuno deve bere!...” “Quel che avverti tu, in questa buia stanza, il gocciolio è del mare che sta sopra


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e sott’ogni umana decenza: funereo,

mediterraneo, vasto mare dell’Indifferenza d’ogni specie, del Mal cronica corazza. E, come vedi, in questo mare naviga ogni razza, e, senza reti, ogni cuor v’annega. 115

A questo punto un breve spunto ti spiega

come fu e non fu che saltai il binario, come fine vita ebbi: questo ti dico, se avessi io slegato la corda del sipario, par lato tu finora avresti con un pruno 120

fitto di sterpi, che fiato emette, e non

con persona viva, ossa e pelle, carne, certo poca o niente…” Ciò detto, smette, perché un passo sente ritmato d’oca. Ed egli, seppur dolente, uno che corre 125

pare, anzi, uno che vince maratona.

Verso il recinto corre elettrificato; ed io lo seguo, ma dietro un masso sosto, lasso, ben nascosto, terrorizzato. Con piede ferito corre e mal calzato anche; 130

corre contro un drappello di male branche,

che a un trattamento portano speciale vecchi stracci, donne e bambini, affranta schiera, presa di schiena in un tranello. Ed io, a una roccia pressato, intuisco 135

che quelli son fantasmi pronti alla doccia.

Fermo di fronte all’amara processione, in tedesco parla il fiero camerata: “Ich bin der Letzte.” Calmo lo dice e forte. “Primo già fui, Ultimo ora sono!” E inoltre:


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“Ragionate sulla vostra scemenza,

fatti non foste a viver come bruti…” Motto più non fa, si lascia catturare. Solo un attimo, verso di me, gl’acuti occhi torce, quasi a cenno di saluto, 145

come a dire “Più non ci siano ‘forse’…”

Ossuto, svanire lo vedo dietro un vetro smerigliato; nudo verso fatal camino forse condotto, o sopra quali forche e montagne umane non so , ora, rivelare. 150

Nulla più vedo; sento come in gelatina

una stramba parola pronunciare, “WSTAWAC”, e qualcosa urtarmi la gamba. “Alzati!... Su, pigrone, è già mattina…” Qualcuno Endimione vuol risvegliare?


INFERNO, CANTO XI (a cura di Elsa Giancola)

Quando parea che 'l viaggio tra quelle strazianti pene fosse oramai concluso, feci per avviarmi verso l'alto pe' volger in loco meno furioso. Ma il dotto Virgilio m'acciaccò un lembo del vello e tirotomi verso lui m'indicò un vasto mare nel qual intravidi un ometto che cercava d'arrivare a riva; 《Laggiù, osserva: colui che tanto amava terra e ruspe, solo e sperduto si ritrova a fuggir la morte.》 Sentite anche il naufrago le parole del mio Cicerone, egli subito s'affrettò a raccontarci


quel che fu il suo destino: 縲外 poeta, che attraverso fumi strani ti ritrovi ora qui a vagare, racconta dell'orror che soffro per aver seminato odio tra le mie genti. Non m'accorgevo di quanto le parole mie causassero dolore a chi dal dolor scappava. Ogni volta che approdo ad una riva accogliente essa subito si trasforma in desolato e guerrigliero giaciglio: sempre assisto alla morte dei miei cari, impotente. Allora fuggo via mi getto in mare per scappare dal dolore anch'io. Nettuno violento m'accoglie e non appena tocco un'altra terra ricomincia il supplizio. Macerie, devastazione e morte tornano ad abitare intorno a me e nel core. Io che ho sempre respinto, ora vengo respinto come un'onda che s'infrange e poi ritorna. Poeta, amico,


scriva la mia storia, mi renda gloria! 》 A quella parola il cielo divenne ancor più cupo ed una bomba arrivò dall'alto. Sparì il naufrago di nuovo tra le onde. 《Virgilio, colui era forse proprio il verdetinto ch'io pensava?》 《Ebbene sì, caro Dante: il verdepinto Salvini è condannato a naufragar per sempre di fato in fato, in cerca di una patria che lo accolga e che curi le ferite della guerra da cui perennemente fugge.》

Ma si può davvero fuggir in eterno? La morte è morte, a volte è soltanto un lungo inverno.


INFERNO, CANTO XII (a cura di Giuseppe Bernardi)

Com’om che, vilipeso in via, l’occhio china e mal s’avvede s’alcuno arriva, procedevan sì a guisa d’un abbacchio

che fieramente ‘l gran coco condiva, allor che la battuta era finita, color che quivi in foggia lucrativa

s’arridono della fatal partita di questi ch’ora veggio sciorinare ‘l serto di compassione adempita,

lì ove in gloria siede a gubernare il Figlio redentore col Dio Padre nel divino lor Soffio a dilagare.

Sen givano ignudi e le mani ladre, in vincoli imporporati legate,


alle pudenda l’impietose squadre

battendo, il remo rendea emaciate, affidato a governo del Vasello qual scettro a genti principiate.

Ed ecco vidi far mostra d’anello un tal, ch’ivi più d’altri era battuto, non per suo volontà ma per punzello

per che percosso a mo’ di prostituto ch’altro non vole se non possessione errava, in grave sua voce, gozzuto.

Danari, a frotte, ardenti sul Bertone Spargevan li diaboli a mezza via Sì che le piante eran negre d’ustione;

e lamenti e pueril pianto s’udia per l’aere istoriato di chiari marmi alti ed ampi e frali pur tuttavia.

Quei piagnea ed io ‘l pregai di parlarmi. Al che un di quei, che a Dio son sì abietti, m’intimò d’esser celer senza carmi.

E per non dispiacer que’ maledetti, lesto principiai: “So chi tu fosti, figlio di quel ch’amò li piccoletti


ed ora in gloria vive in santi posti. Deh, la tua dignità fu sì corrotta al tempo ch’occupasti gl’avamposti?”

E quegli a me: “Fui sì accanito in lotta allor che fui tra principi pastori: a quel che cercava negai pagnotta;

contro il Suo voler cercai allori, ed all’usato modo anche libido; cercai tra quei che son bestemmiatori”.

Una pioggia ardente su quell’infìdo S’abbattè lesta, pria che d’altro disse, e il tintinnar de’ soldi su quel lido

tanto invase l’aere quanto infisse, sulle membra uste di costui ch’andava, stetter le vischiose forier di risse.

Combusto, pel dolor in pianto urlava ma i bravi di Satàn con blasfemia incontro a lui cantavan ch’arrancava:

“Qui autem scandalizaverit unum…”


INFERNO, CANTO XIII (a cura di Andrea Gottarelli)

Giunto nel loco che nomò Limbo Dante, mi trovai innanzi alla clara Atene e lì conobbi lo scienziato ambulante; di nom facea Alberto e ora aliene erano a lui le scienze in cui brillante era, legato e stretto alle catene della beata... sapiente ignoranza.

Alla scuola di Democrito stava seduto, e continuava a piangere la lagnanza di non saper calcolare, il baffuto. Allora dissi: -Maron, mia unica speranza, chi è costui che rimpiange l'avuto genio? Perché si strugge le man e 'l petto?E Virgilio a me: -Chiedilo tu istesso.-.


Sanza timor, ma con lo sguardo retto, gli chiesi chi sia e questo mi fu concesso: -Alberto Ainstanio- con la smorfia dirimpetto che rese sua lingua e razio fesso.

INFERNO, CANTO XIV (a cura di Mariano De Ciampis)

"Nel girone dei ladron ecco che parve la perfida germanica. Angela era lo suo nom e col suo culon rovinò le banche de la patria ellenica.

Ne la Ellade dopo lo negativo triunfo ne la elezzion contro la europica grana unica rimase comunque fissa la situazion poichè lo ellenico capo cedette a lo culon de la perfida germanica".


INFERNO, CANTO XV (a cura della Divina Commedia in HD )

Arrivammo ad una landa desolata io e lo duca mio dopo lunga faticata e leggemmo un cartello, grande come una pianta: “Benvenuti in terra santa”.

Virgilio subito mi spiegò la situazione: “da una parte abbiamo la santa inquisizione, che con cavalieri templari e re cristiani si torturan’ a vicenda come cani!

Dall’altra abbiamo quelli che in vita…” Non fece in tempo a far la frase finita che una schiera nuda di dannati ci veniva incontro correndo come forsennati!


Urla di paura e facce terrorizzate, ma da cosa scappavano quelle anime dannate? D’un tratto due volte sentii urlar “Allah akbar! Allah akbar!”

E boom! Un’esplosione gigantesca, fece una carneficina pazzesca: quelle anime dapprima spaventate diventaron’ carni dilaniate!

Un barbuto ancora vivo, chiedeva aiuto, nonostante mezzo corpo fosse abbattuto. Mi avvicinai in procinto di vomitare e gli chiesi la pena che dovevan’ scontare.

Lui mi rispose: “sono quello delle torri Osama Bin Laden…corri!” D’improvviso tutte le carni in pezzetti, si ricomposero magicamente senza difetti;

e Osama che aveva smesso parlare, ricominciò insieme agli altri a scappare! Uno di loro con la cintura imbottita, li rincorreva con una velocità inaudita…

Io scappai per non farmi prendere,


ma di nuovo “BOOM” e mi dovetti arrendere! Le orecchie mi fischiavano e per la paura svenni sulla terra fredda e dura.

Virgilio mi raccolse e quando mi svegliai mi disse una frase che non scorderò mai: “Sciocco: aiutare coloro che non si son’ pentiti fan’ di noi dei corpi feriti!”

E mentre mi asciugavo il sangue dalla fronte, vidi Osama all’orizzonte con una cintura imbottita: era il suo turno…che Dio lo maledica!


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