>sinuoso, fluido e sorprendente. Ecco lo spazio secondo Zaha Hadid
di Sarah Sagripanti
È la signora indiscussa dell’architettura mondiale. I suoi progetti hanno cambiato il modo di percepire lo spazio urbano: non più una serie ordinata di edifici razionali ma un organismo leggero e fluttuante «dove gli elementi possano contrarsi ed espandersi». Zaha Hadid, architetto di origini irachene ma londinese di adozione, premio Pritzker per l’architettura nel 2004, è chiamata in tutto il mondo per ripensare spazi, edifici e infrastrutture. E il suo tocco è arrivato anche in Italia: a Cagliari, Milano, Roma, Salerno e Napoli. Spesso però i suoi progetti lungo lo Stivale trovano difficoltà nella realizzazione. Questo perché «in Italia ogni cosa è lenta e bisogna avere molta pazienza». Ma oggi le cose sembrano muoversi. Finalmente gli architetti potranno tornare ad esprimersi pienamente in un Paese dove «è bellissimo lavorare, perché esiste un equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve». Parola di Zaha Hadid
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foto di Steve Double
STORIA DI COPERTINA
KARTAL-PENDIK MASTERPLAN, ISTANBUL
MAXXI, ROMA
TERMINAL MARITTIMO, SALERNO
GUGGENHEIM HERMITAGE, VILNIUS
Zaha Hadid, Bagdad, 1950. Maxxi, Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, 1998-2008 (in costruzione)
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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects
Kartal-Pendik Masterplan, Istanbul, 2006 (proposta progettuale per un nuovo centro urbano nella zona est di Istanbul)
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SONO INNAMORATA DELLA COMPLESSITÀ DI ISTANBUL, UN LUOGO DOVE NON SAI MAI COSA TI ASPETTA DIETRO L’ANGOLO. LA CITTÀ È FORMATA DA TANTI STRATI DIVERSI, TUTTI PIENI DI RICCHEZZA. NON MI STANCO MAI DI ANDARCI PERCHÉ È PIENA DI TESORI INATTESI
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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects
L’universo spaziale di Zaha Hadid è perennemente in movimento. Un linguaggio fatto di fluidità dinamica attraversato da linee curve e sinuose, da direttrici spezzate che si rincorrono e si intersecano, da contrapposizioni di concavo e convesso. Strutture che si armonizzano con l’ambiente in cui sono pensate. Come il Museo nazionale delle Arti del XXI secolo di Roma, pensato come un tutt’uno con il contesto ambientale circostante. «Qui il luogo diventa parte integrante della città. La città fluisce verso l’interno, mentre il progetto verso l’esterno» spiega Hadid. Quello di Roma è solo uno dei progetti che lo studio dell’architetto iracheno sta realizzando in Italia. Lavori che però stanno incontrando difficoltà realizzative. Signora Hadid, quali sono secondo lei le maggiori difficoltà nel fare architettura in Italia?
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Qui ogni cosa è più lenta e bisogna avere molta pazienza. Ogni progetto sembra essere destinato a permanere in una costante situazione di stallo. Credo dipenda dal fatto che non è successo niente per tanto tempo. L’architettura non era contemplata tra le questioni di interesse pubblico. Adesso, invece, c’è un revival ed è positivo il fatto che questa inversione di tendenza sia voluta dall’alto, dalle istituzioni. Dobbiamo però ancora fare i conti con un rodaggio lento e faticoso, anche se oggi senza dubbio le cose vanno meglio. Lavorare in Italia, in un territorio ricco di patrimoni artistici e architettonici, è limitante per un architetto contemporaneo? Sostenere che la tradizione è un limite è solo un alibi. Anzi, per noi architetti è bellissimo lavorare in Italia perché c’è un
STORIA DI COPERTINA
Terminal marittimo, Salerno, 2006 (in costruzione)
DIRE CHE LA TRADIZIONE È UN LIMITE È UN ALIBI. PER NOI ARCHITETTI È BELLO LAVORARE IN ITALIA PERCHÉ ESISTE UN EQUILIBRIO TRA CIÒ CHE SI DÀ E CIÒ CHE SI RICEVE. DEL RESTO MODERNITÀ SIGNIFICA APRIRSI A QUALCOSA DI NUOVO E NON CERTO DISTRUGGERE IL PASSATO grande equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve. Modernità significa cercare di aprirsi a qualcosa di nuovo e non certo distruggere il passato. Qual è l’approccio necessario per conciliare progetto e contesto in un Paese dove gli spazi urbani sono fortemente caratterizzati da storia e tradizione? C’è una linea veramente sottile tra il credere nel nuovo e comunque pensare che non bisogna demolire per forza tutto e ricostruire da capo. Infatti credo sia un peccato perdere la storia. Non ritengo però che le città debbano essere sempre
come Venezia, senza crescere né cambiare per niente. È importante intervenire con un approccio contemporaneo, ma occorre farlo in una maniera precisa. Ed è quello che abbiamo provato a dimostrare con i nostri progetti urbani. Tra i suoi progetti italiani quale ritiene più significativo? Un buon esempio è la progettazione del Maxxi di Roma. Una cosa interessante a proposito di questo Museo è che non si tratta più di un edificio-oggetto, ma piuttosto di un campus aperto alla città. Non più solo un museo, ma un vero centro urbano. Qui abbiamo tessuto una densa trama
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Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects
di spazi interni ed esterni. È una mescolanza di gallerie per le mostre permanenti, temporanee e commerciali, che irrigano un vasto campo urbano con superfici espositive lineari. Ciò significa che, attraverso il diagramma organizzativo degli spazi, si potrebbero tessere diversi programmi espositivi. Ad esempio, creando collegamenti tra il Museo dell’Architettura e quello dell’Arte: i ponti possono avvicinarli e proporli in un’unica soluzione. In questo modo si crea l’interessante possibilità di avere un’esposizione che si estende da una parte all’altra del campus. Per visitare gli spazi, infatti, si può camminare attraverso un intero segmento della città. Pensando invece al suo lavoro per CityLife a Milano, come
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commenta l’infinito iter del progetto? In questo caso tocca ai privati trasformarlo in qualcosa di veramente importante. Il lavoro per la vecchia fiera è il risultato di mediazioni e di una forza di volontà che hanno poco a che fare con noi. Non c’è dubbio che la vecchia struttura fosse veramente orribile. Cantieri eternamente aperti, progetti fermi alla fase iniziale, continui ritardi. Cosa si prova a non vedere mai realizzato un progetto? Ci sono momenti in cui mi sento decisamente giù, ma il mio scoraggiamento non dura mai molto a lungo. Sono fondamentalmente un’ottimista e so che alla fine si uscirà dalla situazione di stallo.
EDI-
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NELL’ATTIVITÀ PROGETTUALE NON PRENDIAMO SEMPLICEMENTE INDICAZIONI, MA CERCHIAMO DI INTERPRETARE LE INTENZIONI DI UN’ISTITUZIONE. NON CI INTERESSA SOLO LA FORMA DI UN EDIFICIO, MA IL MODO IN CUI PUÒ ESSERE REALIZZATA UNA NUOVA ORGANIZZAZIONE DELLA SUA VITA
Museo Guggenheim Hermitage, Vilnius, Lituania, 2008
Altrove le cose vanno decisamente meglio. La funicolare di Innsbruck è stata progettata e realizzata in meno di due anni. In quale Paese lavora meglio? La Germania è fantastica, perché c’è un sistema di lavori pubblici che funziona veramente bene, così come in Austria. Anche lavorare in Francia si è rivelata un’ottima esperienza, ma da qualche tempo anche questo Paese sta vivendo una fase di immobilismo. Al contrario della Spagna dove, invece, esiste una grande vivacità. E guardando al futuro, dove le piacerebbe realizzare un nuovo progetto? Sono innamorata della complessità di Istanbul, un luogo dove non sai mai cosa ti aspetta dietro l’angolo. La città è
formata da tanti strati diversi e pieni di ricchezza. Non mi stanco mai di andarci perché è piena di tesori inattesi. Oltre a edifici e infrastrutture ha progettato anche scenografie e mobili. Cos’altro le piacerebbe progettare? Non posso proprio dire quale sarà il mio prossimo progetto. Dipende da quello che mi chiederanno di fare. Credo però che tra ciò che abbiamo sviluppato in questi ultimi trent’anni, manchino progetti su larga scala. E non intendo esclusivamente progetti che riguardino un’intera città, ma anche parte di essa. Sono interessata alle modalità con cui si può effettivamente agire su spazi ampi, nei quali non si deve per forza intervenire con un unico edificio di grandi dimensioni, ma si può progettare un’ampia
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LA VITA 31 ottobre 1950. Nasce a Bagdad, Iraq 1971. Master in matematica all’Università americana di Beirut 1976-1978. Fa parte di Oma, con Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis 1977. Si laurea all’Architectural association di Londra 1979. Apre il suo studio professionale a Londra 1983. Con la vittoria al concorso The Peak (Hong Kong, 1983) inizia la notorietà internazionale 1988. È tra gli architetti che espongono al Moma di New York nella mostra sull’architettura decostruttivista 1994. Insegna alla Graduate School of Design della Harvard University
Rendering courtesy of Zaha Hadid Architects
2004. È la prima donna a vincere il premio Pritzker per l’architettura 2006. Il Guggenheim di New York le dedica una retrospettiva 2007. Riceve la medaglia Thomas Jefferson in Architettura
Museo Guggenheim Hermitage, Vilnius, Lituania, 2008, particolare di un interno
serie di strutture. La fluidità è uno dei tratti distintivi della sua architettura. Da dove viene questa predilezione? Il fluido dinamismo del disegno a mano libera è una fedele scelta per la nostra architettura, che è allo stesso tempo guidata dai nuovi sviluppi del design digitale e intensificata dalle capacità manifatturiere. Nell’attività progettuale, non prendiamo semplicemente indicazioni, piuttosto cerchiamo di interpretare le intenzioni di un’istituzione. Non ci interessa solo la forma di un edificio, ma il modo in cui può essere realizzata una nuova organizzazione della sua vita. Dal suo osservatorio, negli anni come è cambiato l’approccio alla progettazione?
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La complessità e i progressi tecnologici dei software di grafica digitale e delle tecniche costruttive hanno consentito linguaggi architettonici moderni, nuovi ed eccitanti, ai quali credo, insieme ai miei collaboratori, di aver dato un contribuito. Il computer ha semplificato le cose e allo stesso tempo ha permesso di raggiungere un alto grado di complessità. Quello che mi manca del periodo antecedente all’era informatica è la ricchezza della cultura materica. I modelli fisici offrivano qualcosa di diverso dalle prospettive disegnate, che a loro volta erano differenti rispetto alle piante o ai dipinti. Ora c’è una sostanziale uguaglianza e mancano le sorprese. Non ci sono, insomma, più strati da scoprire.
>allenar si alla cr eati vità È uno dei più grandi progettisti italiani. La sua esperienza spazia dal design applicato all’industria alla realizzazione di prototipi fino all’engineering. La sua Italdesign compie 40 anni e lui, Giorgetto Giugiaro, è pronto a intraprendere una nuova sfida: lavorare sugli spazi pubblici. Cercando la giusta miscela tra estetica e funzionalità. Ma con un unico obiettivo: essere originali di Laura Pasotti
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«Il design è progetto e invenzione, non solo poesia per gli occhi o cambiamento di forme. È un contenuto che deve tener conto della riproducibilità». Risponde così Giorgetto Giugiaro, una delle firme italiane più prestigiose nel mondo del design applicato al settore industriale, a chi gli domanda di dare una definizione al suo lavoro. Un background artistico, il suo, (una famiglia di pittori e gli studi di Belle Arti alternati ai corsi di progettazione tecnica) che lo ha portato, all’inizio, a voler emulare i grandi maestri. Poi la passione per le tre dimensioni ha avuto il sopravvento. Ed è nata la Italdesign. «Le Belle Arti sono cultura – spiega Giugiaro –, il mondo del design è molto più complicato perché coinvolge ingegneria ed economia. Che sia una sedia o un’automobile, quello che stai progettando ha una parte economica fondamentale. Perché non stiamo realizzando una scultura o un pezzo unico ma un oggetto da produrre in serie». Dopo 40 anni di attività nel settore dell’industrial design, dall’engineering alla realizzazione di prototipi, Giugiaro ha deciso di investire nell’ambito dell’architettura, dell’interior design e dell’arredo urbano. Una scelta che ha portato alla nascita di Giugiaro Architettura, sotto la direzione del figlio Fabrizio. «Siamo ancora agli inizi nel settore – afferma Giugiaro – ma intendiamo continuare seguendo la nostra esperienza. Con i tempi giusti. E tenendo conto di aspetti che in genere gli architetti sottovalutano». Un esempio di questa nuova avventura? La struttura espositiva per gli eventi
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di Torino 2006 in piazza Solferino. «Atrium – spiega Giugiaro – non è nato per essere in armonia con la piazza o le case circostanti ma come “contenitore” provvisorio». La struttura è divisa in due padiglioni di 19mila metri quadri nel cuore della città con strutture portanti in legno lamellare, acciaio e vetro e luce netta coperta in un’unica campata di circa 60 metri. Elementi che hanno reso necessarie analisi di idoneità dei siti e del verde per evitare che il risultato fosse troppo evidente e finisse per offendere lo spirito della piazza. Un progetto però eseguito «sempre con estrema attenzione alla razionalità – continua Giugiaro – e rispettando gli standard economici». Perché quando si lavora su spazi pubblici è indispensabile organizzare visivamente ed ergonomicamente un’opera, sia essa una panchina, una pensilina o un semplice pannello di richiamo. «Ancora una volta si deve porre attenzione alla razionalità – chiarisce – per facilitare la lettura e l’approccio visivo di chi poi dovrà interagire con questi oggetti». L’estetica deve scendere a patti con la funzionalità, senza dimenticare che anche l’occhio vuole la sua parte. «È difficile distinguere cosa è bello da cosa non lo è – dice il designer –. Le opinioni sono tante e servirebbe un tribunale super partes per stabilirlo. Certo possiamo anche guardare solo alla bellezza di un oggetto come accade per certe
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In alto, Giorgetto Giugiaro, uno dei più grandi designer italiani. Qui sopra, rendering del progetto per l’Università degli studi di Torino e, sotto, l’organo della Cattedrale di Losanna in Svizzera
I GRANDI ARTISTI HANNO FATTO UN ENORME PERCORSO PER RIUSCIRE A TOGLIERSI DI DOSSO IL CLASSICISMO E TORNARE A ESSERE INGENUI COME BAMBINI. IN REALTÀ SIAMO NOI A ESSERE OTTUSI PERCHÉ DOVREMMO ESSERE APERTI A RICEVERE MESSAGGI DIVERSI sedie da decoro con lo strascico o per i cucchiai con il manico rotondo progettati da Joe Colombo. Ma quando si parla di arredo urbano non si può certo trascendere dagli aspetti funzionali». Nascono così le pensiline e i sistemi di affitto biciclette pensate per Cemusa, prodotte in serie grazie all’uso di un numero ridotto di stampi con materiali impiegati al “naturale” perché
non risultino alterati nel loro aspetto. O ancora gli impianti pubblicitari per Avip, fortemente innovativi rispetto all’attuale panorama del settore, caratterizzati da linee curve e proporzionate che ben si prestano all’inserimento lungo percorsi turistici e paesaggistici. O i progetti per il nuovo complesso universitario delle Facoltà di Scienze politiche e Giurisprudenza di Torino,
affacciato sulle rive della Dora. E ancora la ristrutturazione della sede centrale di Confindustria a Roma in cui l’intervento di Giugiaro Architettura ha ridato luminosità agli ambienti, rinnovando la distribuzione interna e la dotazione tecnologica o il Parco Commerciale e per il tempo libero “Mondovicino” di Mondovì dove troveranno spazio un outlet, un cinema multiplex, un ipermer-
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cato, un complesso alberghiero e una struttura commerciale specializzata. Il modello di riferimento? Giugiaro non ha dubbi: «Tokyo è un bell’esempio di cultura diversa dalla nostra in cui architetti e designer hanno imparato a razionalizzare». Ma in che modo è possibile ripensare una struttura “anonima” come una pensilina per gli autobus o un traliccio? «Disegnare oggetti di uso quotidiano è estremamente compli-
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cato – conferma Giorgetto Giugiaro –. Un traliccio o una maniglia richiedono molto più lavoro rispetto a elementi di valore artistico maggiore. Bisogna tener presenti il supporto tecnologico e la funzionalità della struttura». Costruire un oggetto funzionale richiede un’analisi precisa e accurata. Al contrario, secondo il designer, in giro c’è molta, forse troppa, distrazione. Essere capaci di creare qualcosa di originale è
altrettanto fondamentale. Ma dove si trova l’ispirazione dopo 40 anni di attività? «L’ispirazione è un allenamento – spiega Giorgetto Giugiaro –. È come per i vignettisti dei quotidiani. Li guardiamo ogni giorno e ci chiediamo dove riescano a trovare sempre idee nuove. Siamo come computer – continua – che ricevono percezioni anche a livello inconscio. Oggi però la cosa più difficile è fare qualcosa di diverso dagli altri». Per
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Dall’alto in senso orario, Mondovicino, impianto pubblicitario realizzato per Avip, pensilina realizzata per Cemusa, lampione ecologico per Disano e sistema di affitto per biciclette realizzato per Cemusa
questo si perde più tempo a guardare ciò che è stato già realizzato da qualcun altro che a farlo e basta. Ma un margine di originalità c’è sempre. Un po’ come nella musica, arte nella quale persiste ancora la possibilità di trovare ritmi e motivi nuovi. «Quello che conta – allarga le braccia Giugiaro – è l’allenamento giornaliero». La libertà di pensiero fa inventare all’uomo cose insospettabili e, a volte, le idee arrivano in
modo assolutamente imprevisto. «Amo visitare le mostre dei ragazzi delle elementari e delle medie – svela il designer sorridendo – perché rivelano una creatività sorprendente. Lo stesso vale per le mostre d’arte africana, che raccolgono opere meravigliose che non sono frutto né di studi né di accademie». «I grandi artisti – spiega – hanno compiuto un enorme percorso per togliersi di dosso il classicismo e tor-
nare a essere ingenui come i bambini. Siamo noi a essere ottusi perché siamo abituati al vino buono e vogliamo solo quello». Mentre si dovrebbe essere pronti e aperti a ricevere messaggi diversi. «È un po’ come la cucina – conclude –. La prima volta che sono andato in Giappone non ho mangiato nulla. Oggi, al contrario, mangio cose che di primo acchito qualche anno fa non avrei mai nemmeno toccato».
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Dall’interior al fashion design. Dall’automobile all’architettura. Chi pensa che sia finita qui sbaglia. Perché la nuova frontiera è il building. Il design che migliorerà l’ambiente e la qualità della vita firmato Pininfarina di Lara Mariani
>in principio fu la mat it a
Un design che sia soprattutto emozionale. Dove la funzione estetica prevale sulla funzione d’uso. «Perché la funzionalità fine a se stessa è assolutamente riduttiva. Indiscutibilmente meccanica. Io sono un ingegnere approdato al design e come tale non potrò mai tralasciare, dimenticare, trascurare la funzione d’uso. Ma sono convinto che l’oggetto debba parlare soprattutto un linguaggio estetico». Paolo Pininfarina mette in evidenza le priorità che il design deve rispettare, perché «l’estetica rappresenta il progresso, il futuro». E non solo per quanto riguarda l’oggettistica, l’arredamento e le automobili. Perché l’espansione del design ha prospettive molto più ampie. Lei si è definito un ingegnere approdato al design. Come riesce ad adattare le esigenze tecniche alle priorità estetiche? Il segreto è capire quali sono le funzioni che si vogliono soddisfare: la sostenibilità di un edificio, il raffred-
La sorpresa dell’uovo di cioccolato realizzato con Gobino, “N’Uovo”: una scultura in alluminio che raccoglie e avvolge con le sue forme essenziali e dinamiche gli strumenti del designer, le matite
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Paolo Pininfarina, Presidente e AD di Pininfarina Extra e Vicepresidente di Pininfarina SpA
damento di un motore di un’automobile, l’inserimento di un televisore in un letto. Partendo dalle necessità funzionali che fanno la differenza, che segnano l’innovazione di un prodotto, bisogna arrivare a esaltarne l’estetica e la funzione emozionale. Quindi si parte da un’esigenza pratica e successivamente questa viene investita dalla preponderante funzione estetica ed emozionale. Esattamente. A proposito vorrei citare le parole del mio amico Aldo Coretti, filosofo prestato al design, che una volta disse “non c’è etica
senza estetica”. Ma estetica è anche ispirazione. Da cosa viene alimentata la sua capacità creativa? Poco tempo fa mi è capitato di ascoltare un’intervista a Luciano Ligabue che ha fatto una dichiarazione che condivido assolutamente: “Non credo ci siano momenti magici in cui con la facilità di uno schiocco delle dita possa maturare una bella canzone”. Come nella musica, dietro ogni progetto c’è un grande lavoro, un grande studio. L’ispirazione immediata o innata non esiste.
Allora a chi o a cosa si riferisce quando è in cerca di idee? Alla storia, alle grandi vetture del passato, ai problemi risolti e alle soluzioni tecniche trovate in certi ambiti e poi trasportate in altri. E poi alla natura, alle sue forme, ai suoi materiali e ai suoi colori. Ma la vera fonte di ispirazione è il lavoro di squadra, perché oggi l’architetto o il designer non possono pensare neanche lontanamente di portare avanti singolarmente un progetto altamente complesso. Per ogni lavoro servono competenze specifiche di tipo inge-
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Gli interni di Torre Mexico, a Città del Messico, progettati da Pininfarina per la società messicana Gicsa
gneristico, ambientale e tecnologico. Compensabili solo con il lavoro d’équipe. Cosa caratterizza il progetto di squadra? L’attitudine mentale ad analizzare la concorrenza, a sviluppare la creatività in libertà e riportarla nei binari della fattibilità. Con la capacità di svilup-
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parla e definirla attraverso la tecnologia, renderla prototipo e infine realizzarla. Il design ormai è ovunque. Gli oggetti, le auto, persino l’edilizia. C’è ancora qualcosa che non è ancora stato investito da quest’onda? Gli ambienti in senso lato. Manca armonia nei centri urbani. Ci sono an-
cora troppi problemi di integrazione tra trasporto pubblico e privato, di parcheggio e di arredo urbano. Il futuro dovrà propendere verso il miglioramento degli ambienti e gli urbanisti, gli architetti e i designer dovranno impegnarsi a migliorare soprattutto la qualità della vita nel suo complesso.
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L’EDILIZIA VERTICALE È MOLTO PIÙ SOSTENIBILE RISPETTO A QUELLA ORIZZONTALE: OCCUPA MENO SUPERFICIE, RIDUCE LA MOBILITÀ DELLE PERSONE, CONSENTE DI DARE PIÙ SPAZIO ALLE AREE VERDI Si parla tanto di qualità della vita e dell’ambiente. Ma le soluzioni prospettabili sono fattibili? Questo è il secolo dell’ambiente. Ogni progetto, ogni azione vengono valutati in termini di impatto ambientale. Ma io non aderisco alla visione catastrofista. Voglio pensare
che dobbiamo reagire, mettere la tecnologia, i cervelli e la creatività a servizio del globo. Abbiamo come obiettivo le emissioni zero? Allora rivediamo tutta l’architettura dell’automobile per realizzare un oggetto completamente nuovo come l’auto elettrica.
Paradossalmente il problema ambientale si può trasformare in un’opportunità per fare innovazione. È vero. Il design e l’architettura devono cogliere le esigenze attuali per poi svilupparle e dare una forma estetica ai bisogni individuali e collettivi.
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In alto, Las Olas Marina, complesso residenziale di Cancun di cui Pininfarina sta progettando sia gli esterni che gli interni. In basso, la Ferrari P4/5 by Pininfarina, one-off realizzata per il collezionista americano Jim Glickenhaus
Secondo lei questa prospettiva è attuabile anche nell’edilizia? Dipende. Innanzitutto servirebbe un cambiamento di mentalità. Cosa intende? In Italia siamo molto meno propensi ad accettare l’innovazione. Ad esempio, nel nostro Paese c’è una inspiegabile resistenza verso l’edilizia verticale che, invece, per definizione,
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è molto più sostenibile rispetto a quella orizzontale: occupa meno superficie, riduce la mobilità delle persone, consente di dare più spazio alle aree verdi e quindi di migliorare la qualità della vita. In Italia invece i grattacieli vengono considerati mostri, enormi e inermi colate di cemento armato. Una posizione che contrasta il nuovo
stato dell’architettura e della bio-architettura che dimostra, al contrario, che l’edilizia verticale contribuisce a una maggiore sostenibilità. Sì, ma accade solo da noi. All’estero, dove forse c’è più ottimismo, e soprattutto dove hanno un passato e una storia meno incombente, sono più propensi ad accogliere il building design. A volte anche le esaspera-
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zioni, basti pensare alla penisola a forma di palma realizzata a Dubai. Se le chiedessero oggi di scegliere l’emblema del design, cosa risponderebbe? L’auto elettrica o il building design? «Risponderei, la matita. Al di là dell’analisi di mercato, al di là dei mezzi tecnologici, chi fa architettura, almeno nella fase embrionale del progetto, deve saper dialogare. E la matita è eccezionale. È il migliore mezzo di comunicazione. Un gruppo di persone che vuole elaborare un’idea non può riunirsi attorno a computer. A quel punto nessuno parlerebbe. Il disegno manuale invece stimola la discussione. È il miglior strumento di comunicazione utilizzabile nella fase iniziale del lavoro. La matita è il simbolo della creatività italiana, quella più calda nelle sue espressioni. La tecnologia viene dopo».
La reception del Keating Hotel di San Diego, California, il primo hotel firmato Pininfarina
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>il volto etico dell’estetica
foto Leonardo Céndamo
Una leggenda. Che ha attraversato mezzo secolo di fermenti culturali e sociali. Un intellettuale che ha segnato la storia dell’architettura contemporanea. Progettando università, centri culturali, teatri, stadi, quartieri e città in tutto il mondo. La firma di Vittorio Gregotti è impressa su opere collocate in 22 Paesi a testimonianza della grande tradizione dell’architettura made in Italy di Marilena Spataro
Un aristocratico sabaudo, dalle maniere schiette e leali. È questa l’impressione che Vittorio Gregotti, nato a Novara nel 1927, dà di sé al primo impatto. Ed è l’impressione giusta. Sintetico, essenziale. Dal giudizio impietoso, ma sempre garbatamente ironico. Senza mai ridondanze. Nella professione come nel linguaggio. Intelligenza sottile e sguardo acuto. Che sanno indagare dentro le cose, interpretandole con efficacia e profondità, sia che si tratti di territori o spazi da cui trarre ele-
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menti e criteri creativi per elaborare progetti architettonici o urbanistici, sia che si tratti dei vissuti storici e culturali della società. Alla base del lavoro intellettuale del professionista piemontese, uno dei migliori e più innovativi talenti dell’architettura e del design attuali a livello internazionale, c’è il rigore. «Il compito dell’architettura – ha sempre affermato – è di produrre ordine e non di evitare il caso, le virtù del progetto sono semplicità, organicità e precisione». Principi, questi, che lo hanno guidato, e
PROFILI D’AUTORE
A sinistra, Vittorio Gregotti. In questa pagina, dall’alto, l’architetto con Luca Ronconi alla Biennale di Venezia nel 1976; uno studio di fattibilità per l’Esposizione Universale di Parigi del 1989; Gregotti, Aldo Rosii, Umberto Eco e Mario Spinella alla libreria Feltrinelli di Milano per la presentazione del libro “Territorio dell’Architettura” nel 1967
MENTRE NEGLI ANNI ’70 E ALL’INIZIO DEGLI ANNI ‘80 LA DISCUSSIONE TRA I DIVERSI ARCHITETTI RISPETTO ALLE POSIZIONI DELL’ARCHITETTURA ERA MOLTO VIVA, SUCCESSIVAMENTE C’È STATA UNA FRAMMENTAZIONE DELLA TEORIA E CIASCUNO HA COMINCIATO A MUOVERSI PER CONTO PROPRIO continuano a guidarlo, nella sua attività d’architetto, docente universitario, teorico e saggista. E che caratterizzano la sua personalità e la sua figura d’intellettuale. Vittorio Gregotti traccia così le linee del suo percorso professionale, inscrivendole all’interno dei fermenti sociali e culturali di ieri e di oggi, a partire dagli anni della sua formazione giovanile, quando ebbe l’opportunità di confrontarsi e dialogare con la più qualificata intellighenzia del Novecento, non solo italiana, ma di mezzo mondo. E lo fa col medesimo tratto abile e inimitabile con cui la sua mano traccia le linee dei suoi disegni. Lei è stato tra i protagonisti degli anni più importanti e innovativi dell’architettura e del design. Come li ricorda? I fermenti innovativi sono stati diversi a secondo del periodo di riferimento. Io mi sono laureato nel ‘52 al Politecnico di Milano, e negli anni ’50 ho vissuto due tipi di esperienze: una era quella della ricostruzione dell’Italia nel Dopoguerra, animato dal fermento dell’edilizia popolare, l’altra riguardava il rapporto con la storia e con il contesto sociale. Insieme ad
(foto Elinord Studio - Milano)
altri architetti di quella generazione abbiamo cominciato a riflettere su quali fossero le relazioni da mettere in campo, senza per questo dover tradire la modernità, ma tenendo conto del clima storico e dei contesti specifici. In quello stesso periodo ho avuto la fortuna di viaggiare. Per un lungo periodo ho vissuto in Francia e Inghilterra e attraversato tutta l’Europa e gli Stati Uniti. In Italia sono tornato con un bagaglio di esperienze che mi hanno avvantaggiato rispetto ai miei coetanei. Negli anni ’60, poi, ho vissuto un’avventura culturale estremamente importante, entrando a far parte, come unico architetto, del Gruppo 63. Quel periodo fu interessato alla relazione tra poesia, pittura, musica, filosofia. Il filosofo Enzo Paci è stato uno dei miei grandi maestri, i suoi allievi avevano più o meno la mia stessa età. Gli anni ’70, furono invece caratterizzati dall’interesse per il disegno urbano, della città, del territorio, della grande scala. Fu allora che progettai i miei primi lavori interessanti: l’Università della Calabria e quella di Palermo. Quanto queste esperienze sono state determinanti successivamente nell’influenzare il modo di fare archi-
tettura sia a livello collettivo che suo personale? Questo periodo ha influenzato parecchio la mia visione dell’architettura e del mondo. Dagli anni ’70 agli ’80 ho lavorato molto in Europa: Francia, Spagna, Portogallo, Germania; ho così avuto la possibilità di coltivare e consolidare una serie di relazioni che si erano già costruite precedentemente. Queste frequentazioni, nella loro ricchezza di posizioni spesso diverse l’una dall’altra, hanno contribuito a vivacizzare il clima culturale e la discussione in un proficuo scambio di opinioni. I problemi sorti negli anni successivi sono in molti casi la conseguenza della perdita di questo rapporto tra teoria e prassi. C’è stata una frammentazione della teoria, per cui ciascuno cominciò a muoversi per conto proprio, mentre fino a tutti gli anni ’70 e i primi anni ’80 la discussione tra i diversi architetti rispetto alle posizioni dell’architettura, era molto viva. Per quanto riguarda il mio percorso personale, la maturazione professionale è arrivata tra gli anni ’60-’70. Il problema per me è sempre stato quello di dare ordine alle cose, un ordine che sappiamo benissimo essere tem-
PROFILI D’AUTORE
foto Donato Di Bello
In basso a sinistra, trasformazione delle aree Pirelli alla Bicocca di Milano, 2007. In questa foto, Grand Théatre de Provence, Aix-en-Provence, 2003-2007
poraneo, ma al quale non possiamo sottrarci. Il disordine non è un metodo con cui l’architettura può procedere. Anche le forme più bizzarre racchiudono un ordine, in un modo o nell’altro, e questo è il destino degli architetti. Cosa pensa di quei suoi colleghi che
hanno atteggiamenti da star? Faccio l’architetto da oltre quaranta anni e ho visto passare e tramontare molte mode. Penso che le nuove generazioni siano un po’ stanche di questa situazione, dove la creatività è pensata come una bizzarria, dove i monumenti sono immagini che de-
vono comunicare un messaggio consumistico o di mercato e nulla più. Penso che un’architettura civile non debba richiedere l’applauso. Penso che molti architetti non abbiano più attitudine critica e si pongano nei confronti dell’attuale società come se fosse la migliore possibile. Mentre
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foto Mimmo Jodice
LA MAGGIORE COINCIDENZA TRA TEORIA E PRASSI SI CONCRETIZZA NEL CENTRO CULTURALE DI BELÈM DI LISBONA. MI FA MOLTO PIACERE PENSARE CHE SIA UN LUOGO DI AGGREGAZIONE SOCIALE l’arte si è sempre caratterizzata per avere uno spirito critico, pensando a quello che non c’è ancora. Il suo obiettivo non è certo quello di fare il ritratto di ciò che già esiste. L’arte deve saper mantenere la distanza dalla società, per essere in grado di anticiparla. Esiste quindi una valenza etica, oltre
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che estetica, nella progettazione? Oggi è molto difficile avere rapporti con la società perché essa stessa è in crisi, non sa più cosa vuole. Da un lato non è mai contenta, dall’altro lo è sempre, ha opinioni che diventano subito credenze e che poi improvvisamente cambiano. Per la società di oggi solo l’economia, la finanza, il
consumo e il denaro hanno valore, e questo non coincide esattamente con i valori con cui gli architetti si devono confrontare. Esistono problemi oggettivi che riguardano il servizio alla società in generale e che sono sempre connessi all’attività di un architetto. Riuscire o meno a superarli dipende dalla qualità del lavoro che poi si riesce a fare. Milano si prepara all’Expo 2015. Questo appuntamento può trasformarsi in un’opportunità per ripro-
PROFILI D’AUTORE
foto Ferdinando Rollando
Nella pagina accanto, dall’alto in senso orario, Alvaro Siza Vieira in occasione della consegna a Gregotti del “Premio alla carriera Trienal Millennium” nell’ambito della prima Triennale Internazionale di Architettura di Lisbona, edizione 2007; lo stadio Olimpico di Barcellona; il Centro culturale di Belém, Lisbona. A destra, Torre della Ricerca a Padova. Sotto, nuova città di Pujiang, Shanghai
grammare l’aspetto urbano del capoluogo lombardo? Ci sono molti modi di approfittare di queste occasioni, innanzitutto ragionando sul lungo termine. E soprattutto sottraendosi alle sirene dei grandi immobiliaristi che naturalmente cercano di impadronirsi di queste occasioni per fare quattrini. In questo tipo di appuntamenti ci sono state città come Barcellona che hanno saputo utilizzare le facilitazioni burocratiche e l’arrivo di fi-
nanziamenti per il proprio futuro; altre, invece, come Siviglia o Osaka, non ce l’hanno fatta. Gli edifici costruiti sono ora in rovina. Su Milano sono molto prudente, ma è troppo presto ancora per esprimere un giudizio. Al momento non vedo una chiarezza di prospettive, può ancora accadere che si riesca a mettere insieme un programma utile per la città in futuro. C’è qualche opera che rappresenta meglio i suoi valori o la sua estetica?
Quanto ai valori, il grande centro culturale polivalente di Belèm a Lisbona. Per l’aspetto estetico, invece, il teatro di Aix-en-Provence dove si tiene uno dei più interessanti festival di musica contemporanea. A cosa sta lavorando ora? A parte i nostri lavori in Cina, dove stiamo progettando anche una città per centomila abitanti, stiamo lavorando in Marocco, in Portogallo, e ultimando un progetto di una torre a Padova per la ricerca scientifica.
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Una suggestiva immagine della piscina a sfioro circondata da un ampio parco di cactus provenienti da tutto il mondo. Abitazione privata di Punta Lado, in Sardegna. Nel riquadro l’architetto Gianni Gamondi
L’INTERVENTO DELL’UOMO È SEMPRE UN’OPERAZIONE CHE MODIFICA QUALCOSA, MA SONO CONVINTO CHE NON SI DEBBA MAI STRAVOLGERE UN AMBIENTE. ANCHE SE CI SONO DELLE ECCEZIONI IN CUI, A VOLTE, È LECITO ANCHE INTERVENIRE CON AUDACIA
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>se guir e le for me della natur a Le sue opere sono capisaldi nell'architettura internazionale. Progetti da sogno, realizzati per il jet set internazionale. L'architetto Gianni Gamondi ripercorre le tappe che lo hanno portato al successo di Marilena Spataro
L’amore per la natura e per la vita all’aria aperta. Una laurea in architettura conseguita al Politecnico di Milano con docenti del calibro di Gio Ponti e Ernesto N. Roger. Sono stati questi gli elementi determinanti nel segnare il destino professionale di Gianni Gamondi. Che oggi, infatti, è conosciuto e stimato a livello internazionale quale uno dei migliori architetti del turismo d’élite, con la peculiarità di realizzare lussuose e raffinate strutture che si armonizzano perfettamente con l’ambiente naturale circostante. Una capacità che gli deriva, oltre che da un’innata sensibilità, anche da una profonda co-
noscenza e studio, acquisiti in tanti anni di viaggi negli angoli più sperduti del pianeta. L’amore per la natura e per gli sport naturali portano, infatti, l’architetto milanese a viaggiare fin da giovanissimo verso mete esotiche e lontane. «A 16 anni – ricorda non senza un pizzico di nostalgia – ero in Sila a pescare, a 18 anni a Capo Nord con la mia Topolino». Dal punto di vista professionale la svolta arriverà a metà degli anni Sessanta. Sarà la Sardegna, con i suoi paesaggi, al tempo assolutamente vergini, a diventare il primo banco di prova per i suoi esercizi di stile architettonico. « È stata come una scuola – rac-
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conta – che mi ha posto di fronte alle dimensioni della natura». Le prime case le realizza sulle rocce, «dove se non si calibrano bene le dimensioni di un fabbricato – sottolinea – si rischia di vedere la collina che si “sgonfia”, il che porta fuori dimensione la natura». Dopo i lavori a Porto Rotondo, dove tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta l’architetto progetterà il 90 per cento delle costruzioni site nella cittadina, le opportunità di lavoro si moltiplicano. Basta scorrere la lista dei personaggi illustri e prestigiosi, una buona fetta del jet set internazionale, che oggi costituiscono la clientela del suo studio di Milano per capire quanto il suo tocco e il suo
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gusto siano ricercati. La mappa dei luoghi paradisiaci dove ha impresso la propria firma tocca tutti gli angoli del pianeta: dall’Irlanda alla Francia, dai Caraibi alle Bermuda, da Antigua alle Hawai. Le sue opere sembrano perfettamente armonizzarsi nell’ambiente naturale in cui sono collocate. Da dove le deriva questa capacità di contestualizzare i lavori architettonici? L’intervento dell’uomo è sempre un’operazione che modifica qualcosa, ma sono convinto che non si debba mai stravolgere un ambiente. Anche se ci sono delle eccezioni in cui, a volte, è lecito anche intervenire con auda-
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cia. Ad esempio, nella pianura lombarda potrei tranquillamente fare una costruzione di 400 metri di cristallo senza creare alcun trauma all’ambiente. Ma in una collina della Sardegna questo sarebbe semplicemente immorale. Mi è capitato molte volte di modificare un progetto per salvare un ramo o un albero. Un lavoro architettonico può contribuire alla valorizzazione della località dove viene realizzato? Anche in questo caso dipende dalle circostanze e dal modo in cui si progetta. Se si realizza un campo da golf in una natura arida, quel luogo di certo si valorizza rispetto a prima. Attualmente sto mettendo a punto un
parco di 80 ettari dove intervengo a piccole macchie di leopardo, lasciando la natura totalmente intatta. Ma, pur non stravolgendo l’ambiente circostante, comunque fatalmente mi inserisco con la mia opera, che è sempre qualcosa di diverso, anche se è bella. A Puntaldia, in Sardegna, esiste una quercia che ogni qualvolta mi vede, mi dice grazie. Ho, infatti, sacrificato un pezzo di casa per non tagliare uno dei suoi antichi rami. Quanto questi suoi interventi si basano sulle tradizioni del territorio e sull’identità culturale degli abitanti? Da buon razionalista, quando ho cominciato a lavorare in costa Smeralda ho fatto case molto squadrate, utiliz-
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Nella seconda pagina il disegno dell’Agorà, un complesso polivalente composto da tre nuclei principali a tema circolare: la piazza, il teatro e la torre. Al centro un particolare della Torre degli ibiscus. L’Agorà è parte di una villa privata costruita in Sardegna, vicino Porto Rotondo. Sopra a sinistra, la serra polifunzionale. A destra panoramica di una villa privata recentemente costruito ad Antigua. Nella pagina accanto il soggiorno e un mosaico che riproduce un gruppo di sterlizie. Sotto il prospetto di una villa in costruzione nelle isole Hawai
zando pietra, legno, ginepro, selciato. Tutti materiali che si inseriscono perfettamente nell’ambiente e rispettano le costruzioni tradizionali. La componente naturale cui ispirare il mio tema la ritrovo di continuo, che sia alle Bermuda, alle Hawaii o ad Antigua. La maggior parte delle sue opere sono realizzate per una clientela ricca ed esigente. Come è arrivato a lavorare per il jet set? È dipeso dai luoghi dove ho cominciato a operare e in cui lavoro tutt’ora, come ad esempio la Costa Smeralda. Qui l’incontro con la clientela ricca è venuto quasi da sé. Poter contare su una disponibilità economica ingente indubbiamente aiuta a realizzare opere di prestigio. Posso dire, però, che ho fatto dei villaggi con costi non tra-
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scendentali, ovviamente utilizzando materiali meno nobili ma comunque belli, come un legno scabro, un tek sabbiato o tirato a lucido. Quello che più conta in tutti i casi è il modo di utilizzare i volumi e la funzionalità della costruzione. Pure nelle ville del jet set uso materiali semplici, senza indulgere troppo in ridondanze. In genere il progetto lo propone lei al cliente? Ho clienti che mi danno carta bianca, altri meno, ma è possibile fare bella architettura in entrambi i casi. Innanzitutto dialogo con loro per capirne le esigenze. La prima proposta che presento è quasi sempre quella giusta. Il 40% dei miei progetti è pensato sulla base della funzionalità, il 30-40% è frutto del mio immaginario architettonico, il resto tiene conto della natura e delle esi-
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genze della committenza. Quali sono i materiali e le tecniche di costruzione che predilige? Le tecniche di costruzione sono abbastanza semplici. Io ho la passione per le grandi vetrate, dalla casa si deve poter guardare all’esterno. Nelle mie ville più prestigiose c’è quasi sempre un patio interno. La prima cosa che segno sullo schizzo di una casa sono gli angoli visuali, i luoghi dai quali si può ammirare una montagna, il tramonto, il mare: su queste prime tre direttrici imposto il progetto. Cerco poi di progettare gli interni perché si armonizzino con quello che ho progettato per gli esterni. In genere utilizzo gli stessi materiali lavorati diversamente. L’interno è più rifinito e l’esterno più azzardato, in modo che questo interpreti il paesaggio circostante. Quali sono le nuove tecnologie che si prestano di più alla sua architettura? Utilizzo molto quelle legate alla luce. In un teatro privato all’aperto da me progettato tramite computer siamo arrivati ad ottenere
circa tremila effetti, utilizzati in maniera diversa per sottolineare ogni scena. Una buona conoscenza tecnica della luce aiuta a valorizzare i dettagli: una pianta, una roccia o un soggiorno. Adopero molto le nuove tecnologie anche per il risparmio energetico. Ho costruito ville con pozzi di cento metri per ottenere calore attraverso lo scambio termico. Lavorando ai Carabi ho capito come fare a meno dell’aria condizionata: basta individuare il riscontro d’aria, basandosi sull’esperienza fatta propria dalle tradizioni locali, oggi dette anche tecnologie appropriate. Quale valore crede lasceranno le sue opere rispetto al modo di concepire l’architettura moderna? Sono pochi i casi in cui si lasciano segni profondi esercitando una professione. Nell’arco della mia vita ho visto tanti personaggi che dopo dieci anni sono spariti nel nulla. Come architetto penso di lasciare villaggi, ville e altre costruzioni importanti. Ma se queste sopravviveranno al tempo non sarà certo grazie alla mia fama di oggi. Sulla base dell’esperienza acquisita in tanti anni di lavoro in Italia e all’estero che consiglio si sente di dare per incrementare il turismo in Italia? Da noi, per fortuna, nonostante la pesante speculazione edilizia del secondo Dopoguerra e del boom economico, sono rimasti ancora dei luoghi quasi incontaminati, come in Sardegna, dove quel fenomeno ha interessato non più del 5% della costa. Quello che serve è un piano turistico serio, che realizzi le condizioni favorevoli affinché le forze produttive del settore turistico e commerciale abbiano l’opportunità di operare al meglio per poter creare un livello qualitativo dei servizi capaci di attrarre sia il turismo nazionale sia quello internazionale
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>ta glienti sguar di d’ar tist a Per scoprire i segreti più intimi dell’esistenza ha scelto il linguaggio della scultura. Arnaldo Pomodoro, tra i nomi più famosi dell’arte contemporanea italiana, ripercorre le tappe della sua esperienza artistica di Marilena Spataro
Una lunga, brillante carriera. Il successo riscosso a livello internazionale come scultore non ha impedito ad Arnaldo Pomodoro, artista di origine marchigiana, di esprimersi in altri campi a volte anche lontani dalle arti figurative. «Fin da giovane mi sono appassionato alla lettura dei testi teatrali classici e moderni e mi sono interessato alla scenografia. Nel corso della mia attività ho progettato le scene e i costumi per numerosi lavori» spiega l’artista. Che considera questa esperienza teatrale come una porta che gli ha aperto nuovi orizzonti, incoraggiandolo e persino ispirandolo a sperimentare nuovi approcci e nuove idee per le sculture di grandi dimensioni. «In alcuni progetti per la scena, soprattutto nel caso di testi classici, dopo un lungo studio, ho realizzato grandi macchine spettacolari». Non è un caso che le sculture di Pomodoro si caratterizzino, oltre che per l’originalità e la suggestione espressiva delle forme, anche per le loro dimensioni monumentali. «La scultura diventa così il modo di mutare il senso di una piazza, di un ambiente e inventare uno spazio per la dimen-
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A sinistra, Novecento, 2000-2002 Scultura in bronzo collocata a Roma, Piazzale Pier Luigi Nervi. Sotto un primo piano di Arnaldo Pomodoro (entrambe le foto di Carlo Orsi)
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sione urbana». Realizzati in bronzo, la maggior parte di questi lavori trovano oggi collocazione nei luoghi e negli spazi più prestigiosi del mondo. Quel mondo che il fecondo immaginario dell’artista marchigiano ha tradotto in bronzee forme sferiche, tanto levigate e perfette esternamente, quanto internamente corrose, fin nel profondo delle viscere. «La sfera è la forma perfetta, magica. Tutto quello che c’è dentro è l’energia in una forma. Guardandola, si può anche visualizzare il fatto che si possa scindere, come un campo di forze. Essa può rappresentare anche la terra, il mondo, il mondo d’oggi, che può essere corroso dalla civiltà tecnologica». Qual è il suo primo approccio con l’idea? A volte l’idea mi viene dai ricordi e dalle suggestioni dei miei viaggi, in Egitto, in Turchia, in Yemen. Altre volte l’opera nasce su commissione. In tal caso studio a fondo ogni aspetto del luogo in cui deve essere collocata la scultura, ricevendone stimoli e visioni. Poi eseguo delle prove dimensionali con rilievi e sagome. Quali sono i moventi della sua ispirazione? Si tratta piuttosto di suggestioni, folgorazioni che ti vengono in diverse situazioni, in momenti non previsti. Quando ho iniziato la ricerca sui solidi della geometria era perché volevo investigare l’interno di una forma. Nel 1960 al MoMa di New York, la visione delle opere di Brancusi mi ha fatto riflettere sul valore della scultura astratta. Attraverso vari passaggi, egli arriva a una sintesi formale assoluta. Di fronte alla perfezione ideale di Brancusi a me è venuta una forte tensione, un bisogno di scavare dentro le forme geometriche per scoprirne i fermenti interni, il mistero che vi è racchiuso, la vitalità che vi è compressa. Le sue opere le concepisce con la mente o con il cuore? Il processo d’ideazione e realizzazione di un’opera è per me complesso e avviene ogni volta in modo differente, tuttavia a esso concorrono al contempo sia elementi emozionali che razionali. Le sue sculture rappresentano puntualmente delle figure geometriche, esternamente sempre perfette, ma all’interno corrose. Quali sono la poetica e il senso artistico di questa scelta espressiva? Ho lavorato su tutti i solidi della geometria euclidea: cubo, cilindro, piramide, cono, sfera, provocando tagli e lacerazioni nella superficie esterna e scavandone l’interno “come una termite”. Che ruolo gioca e quanto è importante la materia nelle sue opere? Per chi fa lo scultore il contatto con la materia è fondamentale. Con essa io ho un rapporto di estrema manualità. Imprimo nell’argilla con le mani e con tanti attrezzi diversi la forma al negativo. L'impronta si trasferisce, attraverso procedure complesse, prima al gesso, poi allo stampo in gomma siliconica, sul quale viene colata la cera, per arrivare infine alla fusione in bronzo. Insomma,
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è la terra che dà vita alla scultura. Cosa si prova nell’assistere all’idea che prende forma? È sicuramente il momento più emozionante. La lavorazione poi è complessa e impegnativa e richiede tanto tempo e pazienza. Fin quando l’opera non è finita non sono certo del risultato. La trasformazione della materia inerte in opera d’arte è un atto creativo simbolicamente paragonabile a quello della divinità. La forza dell’arte dipende dalla capacità di interpretare e sintetizzare il proprio tempo e, a volte, persino, di anticiparne le tensioni e le dinamiche. Nel mio lavoro si sente molto anche la memoria del passato. Ho avuto sempre una grande attenzione per tutti i segni misteriosi e astratti delle scritture arcaiche e anche per la semplicità delle rappresentazioni primitive della figura umana. Credo che le mie opere esprimano una sensazione ambivalente di rispetto per il passato e di ammirazione per la tecnologia e per il progresso, intesi come aspirazione a nuove scoperte e conoscenze. Quanto l’inserimento dell’opera contribuisce a caratterizzare esteticamente e architettonicamente lo spazio cittadino? L’ideale per uno scultore è ambientare le sue opere all’aperto, tra la gente, le case, le vie di tutti i giorni. Infatti, come diceva Hegel, la scultura è una presa di un proprio spazio nello spazio maggiore dove si vive e ci si muove e ha senso se trasforma il luogo in cui è posta. Insieme a Lucio Fontana, lei è stato tra i protagonisti del gruppo informale “Continuità”. Qual è il peso della lezione informale sul mondo dell’arte contemporanea? L’esperienza di “Continuità” è stata molto importante. Tra il ‘58 e il ‘59 ci furono vari incontri con Fontana, Dangelo, Dorazio, Bemporad, Turcato, Novelli, Perilli. Poi seguirono le prime mostre presentate da Guido Ballo, Giulio Carlo Argan e Franco Russoli. Ci frequentavamo moltissimo, discutendo e anche polemizzando. Per tutti noi il problema era quello di organizzare il segno in modo nuovo, più strutturato. Ho cominciato allora a muovere le mie superfici piane e segniche, a curvarle fino a realizzare la prima “Colonna del Viaggiatore” nel ‘59. Ho cominciato a capire dunque che la mia via era muovere la superficie, convessa e concava, con una mia serie di segni vari. Mi ricordo che Guido Ballo li definì “tagli di infinito”. Oggi in Europa sembra vi sia un rinnovato interesse nei confronti di forme espressive legate alla tradizione e alla figura. Cosa ne pensa al riguardo? Il problema non è quello di un ritorno o meno alla “figura”, in cui era, e deve essere, presente e forte la concezione del corpo nelle sue funzioni e nelle sue parti, ma quello di ripensare e dare un nuovo senso al Novecento per recuperare o ristabilire il percorso dei suoi valori.
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Foto di Aldo Agnelli
IMPRIMO NELL’ARGILLA CON LE MANI E CON ATTREZZI DIVERSI LA FORMA AL NEGATIVO. L'IMPRONTA SI TRASFERISCE, ATTRAVERSO PROCEDURE COMPLESSE, PRIMA AL GESSO, POI ALLO STAMPO IN GOMMA SILICONICA, SUL QUALE VIENE COLATA LA CERA, PER ARRIVARE INFINE ALLA FUSIONE IN BRONZO. INSOMMA, È LA TERRA CHE DÀ VITA ALLA SCULTURA
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Moto terreno solare, 1989-94, cemento, Marsala, Simposio di Minoa (Foto Ermanno Casasco)
Non bisogna dimenticare che, con gli sviluppi dell’astrattismo, che abolendo la figurazione fa parlare piani, segni, volumi, luci, spazi, e del costruttivismo che dà nuovo valore alla struttura e quindi all’ambientazione architettonica e spaziale, la scultura è potuta tornare all’aperto in modo nuovo riprendendo il dialogo attivo con il pubblico senza alcuna monumentalità celebrativa. Cosa pensa di una certa scultura contemporanea che si esprime attraverso performance o istallazioni? Il rapporto tra l’artista e la materia è diventato assolutamente libero e variegato. Tra gli artisti e il mezzo espressivo si è sviluppato un rapporto nuovo ed eterogeneo. Importante è escludere operazioni di pura spettacolarizzazione, ripetitive, commerciali e finalizzate a seguire
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le mode e i gusti del momento. Lei ha creato la Fondazione Arnaldo Pomodoro. Quali sono le finalità e i valori su cui è sorta? Oltre a far conoscere il mio lavoro, la Fondazione intende sostenere i giovani artisti, in particolare quelli impegnati in un lavoro di ricerca e sperimentazione sul linguaggio espressivo della scultura. La Fondazione vuole essere un laboratorio di idee e di iniziative per l’arte e la conoscenza, un luogo di incontro e di partecipazione per la vita culturale di Milano, per riprendere il discorso e la prassi della fantasia e dell’inventività. Ha trascorso l’infanzia nel Montefeltro. Che traccia le hanno lasciato quei luoghi e quella cultura? Le prime immagini che ricordo sono le rocce, le fenditure
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aspre e misteriose, la natura stessa di quei luoghi meravigliosi. Poi le opere dei grandi artisti: Bramante e Francesco di Giorgio Martini. C’è un rapporto fra una certa prevalenza "rupestre" del luogo montefeltrino e il mio stile, come ha espresso molto bene Paolo Volponi quando parla della mia marchigianità. Credo che il suo discorso sia soprattutto da intendere in relazione ai luoghi in se stessi, al loro aspetto geografico e antropologico, e anche visionario. Le mie radici sono ancora là. Nelle Marche hanno avuto luogo alcune delle mie mostre più importanti, da quella del ‘71 a Pesaro, con le sculture collocate nelle strade e nelle piazze a quella del ‘97, dedicata a Cagliostro, allestita nella Rocca di San Leo. Dalle Marche al mondo. Lei è stato recentemente no-
minato personaggio dell’anno 2008 dall’Accademia di arte contemporanea di Tel Aviv. Quali sono state le motivazioni? Riporto la motivazione ufficiale che mi ha molto emozionato e onorato: “In apprezzamento della sua statura di scultore e umanista che ha contribuito con il suo lavoro all’arricchimento delle arti e delle lettere e inoltre, con la sua attività di mecenate, allo sviluppo di un rinnovato senso civico”. Di recente ho ricevuto un altro importante riconoscimento nell’ambito della scultura mondiale, il Lifetime Achievement Award dell’International Sculpture Center. Quando il mio lavoro viene premiato, provo quasi un senso di sgomento, perché sento aumentare la mia responsabilità etica e intellettuale.
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Nelle immagini, alcune delle sette isole tematiche curate da altrettanti registi italiani allestite per la mostra inaugurale del Design Museum. Dall’alto in senso orario, I Grandi Semplici di Ermanno Olmi; I Grandi Borghesi e la Sacralità del Lusso di Silvio Soldini; Il Teatro Animista di Mario Martone e il Teatro Agorà, luogo di inconrtri ed eventi; nell’ultima immagine, il bookshop della Triennale Bovisa 252
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>l’anima della contempor aneità Contaminazione come nuova visione dell’arte. Pensare la complessità dei linguaggi, sviluppando nuove metafore. Scoprire le diverse visioni. La “T” rossa come brand da esportare nel mondo e il valore sociale dell’arte. Davide Rampello racconta la sua Triennale. Tra progetti e nuove sfide di Concetta Gaggiano Foto Fabrizio Marchesi
È uno dei protagonisti della scena milanese. Da cinque anni presidente della Triennale, Davide Rampello è uomo eclettico, docente universitario, ex regista televisivo, manager Mediaset e direttore di manifestazioni culturali. Con la vivacità di idee e l’intuito del manager ha dato al Palazzo delle Arti una nuova veste, ne ha allargato gli orizzonti fino ad arrivare a Tokyo, all’interno dello Shiodome Creative Center, dove la Triennale gestisce uno Spazio Design. «Il tema dell’internazionalizzazione è fondamentale. Oggi la sfida non è più all’interno dei confini italiani ma è una questione globale. La T rossa – spiega Rampello – deve essere un brand forte e riconoscibile in tutto il mondo. Solo in questo modo potremo competere con il Louvre, il British Museum o il Guggenheim». Da qui nascono i progetti di espansione a Shanghai e il sogno di sbarcare a New York che presto potrebbe diventare realtà. Il manager di origine siciliana ha trasformato la Trien-
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A fianco, Davide Rampello (foto di Carlo Cerchioli/Grazia Neri), presidente della Triennale; sotto, la camera da letto realizzata da Gio Ponti e Piero Fornasetti nel 1951. Nella pagina accanto, “La Dinamicità” di Davide Ferrario
nale in un grande spazio espositivo dove il leit motiv è contaminazione. Tra arte e design, fotografia e architettura, libri e cucina. Il risultato è stato un ritorno dei milanesi a frequentare di nuovo l’edificio di viale Alemagna dalla cui costola nascerà il museo d’Arte Contemporanea progettato da Daniel Libeskind. «Il progetto del nuovo museo c’è, ora bisogna mettersi intorno a un tavolo con tutte le parti e parlare della gestione». Ed è questa la parte più impegnativa. «In un momento in cui tutto si consuma velocemente, oggi si deve, più che
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mai, vivere nel tempo con una linea guida e una gestione ben precise. Il vero interrogativo è quale tipo di impronta dare al museo attraverso una gestione lungimirante che gli permetta di vivere negli anni». Il ruolo di un’istituzione culturale come la Triennale è mettere l’arte al servizio dell’uomo. «Parlare di arte – afferma Rampello – significa parlare dell’incontro tra l’opera dell’uomo e la sua creatività. L’architettura e il design sono arte così come lo sono le arti applicate e ogni altra attività umana. La creatività è una grande opportunità
che l’uomo ha per comprendere la vita». Disciplina che comunica emozione, in cui l’esperienza personale è irrinunciabile. Intimamente legata alla vita sociale perché fatta da artisti che interpretano la società nella quale vivono. Un legame che passa inevitabilmente dal rapporto con la politica. «Chi ha il ruolo di amministrare la società non può prescindere da una grande capacità di veduta e soprattutto da grande generosità – continua Rampello –. Doti che devono essere espresse attraverso due aspetti: l’individuazione di un chiaro percorso da
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seguire e la capacità di lasciare all’artista libertà di esprimere il proprio sentire. Due poli ambivalenti all’interno dei quali esiste la possibilità di fare arte. La comprensione, la generosità, l’altruismo sono qualità indispensabili». Da qui al tema caldo dell’Expo e della nuova immagine della Milano che verrà, il passo è breve. E Rampello non si sottrae. «Penso che la città sia stata ferma per troppo tempo. Nei prossimi anni gli occhi del mondo saranno puntati su Milano e sulla sua Expo. Come si fa a non capirlo? Trovo molto bello il grat-
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Accanto, il nuovo museo d’arte Contemporanea dalla Piazza 3 Torri (Studio Daniel Libeskind/New York). Nell’altra pagina, il Design Cafè all’interno della Triennale e sotto, “I Grandi Borghesi e la Sacralità del Lusso” di Silvio Soldini
L’ARTE NON È PURA, È LA CREATIVITÀ A ESSERE PURA. L’ARTE NON PUÒ ESSERE SVINCOLATA DAL MERCATO, HA BISOGNO DI COLLEZIONISTI E COMMITTENTI, DEI CRITICI PER SPIEGARE ALLA GENTE L’OPERA D’ARTE CHE, A VOLTE, L’ARTISTA STESSO NON RIESCE A SPIEGARE
tacielo di Libeskind, che non è solamente un grande architetto ma una persona dotata di una rara sensibilità. Innovare del resto significa andare avanti». Come dire che la Milano dell'Esposizione del 2015 deve puntare di più e meglio sulla cultura, sul valore dell'arte, sulla funzione positiva delle intelligenze creative e delle energie pubbliche e private. Rampello poi spiega di essere affascinato dalla cultura metropolitana, fatta di forme e linguaggi artistici che si sono diffusi dappertutto. E dai giovani talenti italiani e internazionali. «Far emergere talenti è una nostra vocazione. Aiutare il ricambio e onorare la memoria devono essere gli imperativi – continua Rampello – perché chi è giovane deve conoscere ciò che è stato e ciò che è, ma deve avere anche la possibilità di esprimersi». La Triennale ha una vocazione verso l’architettura e il design ma anche per tutto quello che è con-
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temporaneità, che negli ultimi anni ha rappresentato una fortissima attrattiva. Rampello, però, individua nell’autoreferenzialità dell’arte contemporanea il suo limite, perché porta queste opere in una cerchia molto ristretta di fruitori e compratori. «L’arte è un sistema. Non può essere svincolata dal mercato e viceversa. Essa non è pura, è la creatività a essere pura. Il sistema arte ha bisogno di collezionisti e committenti, ha bisogno di critici che spieghino alla gente il suo significato – precisa Rampello – . L’arte contemporanea non è sempre compresa ma suscita attrazione e curiosità. In certi casi non c’è niente da capire ma solo da riconoscere e riconoscersi». E sull’accusa di organizzare mostre da botteghino? «Non esiste arte facile o difficile, esiste l’arte e basta». E spiega cosa intende parlando della mostra dedicata a Joe Colombo. «La mostra ha fatto registrare
30mila presenze grazie al fatto che contemporaneamente ospitavamo una personale di Keith Haring, altrimenti ne avrebbe avuti 13mila. In questo modo abbiamo fatto conoscere in maniera più diffusa un grande maestro del design meno noto però al pubblico». Il messaggio da far passare è che un’istituzione culturale ha il compito di diffondere la conoscenza. Altro è, secondo Rampello, coltivare i circoli elitari, che servono allo stesso scopo. Le élite sono importanti purchè i protagonisti manifestino un atteggiamento di apertura, comunicando e diffondendo la cultura. Perché se l’élite resta chiusa in se stessa non serve a nulla. «La Triennale deve portare a conoscenza eventi, movimenti e problemi. Come è stato già fatto con la mostra “Le città invisibili”, in cui abbiamo fatto conoscere il territorio che va da Malpensa a Orio al Serio e le realtà che lo compon-
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gono, o quando abbiamo messo in scena il corridoio di un carcere con 14 celle, portando all’attenzione del pubblico uno dei problemi più drammatici e dolorosi della nostra società: la condizione di vita carceraria». Internazionalizzazione, una personale dedicata ad Alberto Burri, quella dedicata a Fontana nel 2009 e poi la sfida per la realizzazione del Museo d’Arte contemporanea. Sono questi i temi di discussione per il futuro della Triennale. E poi la Biennale di Fotografia in collaborazione con Il Sole 24 Ore e Motta Editore, nell’autunno del 2009. «Finalmente un tributo spiega Rovello - a una delle forme espressive più nobili di questo secolo. Valorizzeremo in questo modo le realtà che si occupano di fotografia, sia pubbliche che private, e faremo di Milano un punto di riferimento per l’intero settore».
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