Adotta un'ode

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ADOTTA UN’ODE – II C Valentina Lamarucciola La fuga degli anni, II, 14 L’ode è caratterizzata da due temi principali: il senso d’angoscia derivante dalla fuga inarrestabile del tempo, e l’invito epicureo a godere dei beni presenti e delle gioie della vita terrena. Nella prima strofa la riflessione è incentrata sulla fugacità degli anni e sulla brevità della vita; nella parte centrale Orazio ricorda che tutti incontreranno le figure suggestive e paurose dell’ Averno. Il tempo è ciò che conduce alla vita e poi alla morte, così nelle strofe finali il poeta consiglia all’amico Postumo di cogliere la bellezza dei momenti e di godere dei beni, per vivere felicemente e dimenticare la fugacità inevitabile della vita. Le tematiche •

Inutilità delle pratiche religiose per ritardare la morte : Orazio riflette sulla concezione epicurea secondo cui gli dei non hanno incidenza sulla vita umana; così emerge il risvolto negativo della pietas, intesa come una distrazione dalla vita quotidiana. Le preghiere e il culto degli dei non possono portare sollievo all’esistenza degli uomini, in quanto sono solo un modo di perdere il senso di limitatezza della vita, e non permettono di vivere con serenità e equilibrio l’accettazione della morte.

Luogo infernale: l’Ade è descritto come un luogo lugubre e pittoresco. La descrizione della morte non è eccessivamente cupa e disperata, ma meditata e triste, perché è accompagnata da figure che popolano l’Averno. Sono nominati il mostro Gerione, il gigante Tizio e il signore e padrone Plutone, con lo sfondo del fiume infernale del pianto, Cocito.

La morte, una livellatrice che colpisce tutti : Orazio accetta la teoria epicurea che la morte è una semplice cessazione dei dolori, che colpisce tutti senza distinzioni. È inutile preoccuparsi e vivere turbati, l’importante è saper seguire il carpe diem, sfruttando ciò che la vita offre e valorizzando i piaceri, perché per tutti arriverà il momento di dover lasciar andare tutto.

Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni, nec pietas moram rugis et instanti senectae afferet indomitaeque morti, non si trecenis quotquot eunt dies, amice, places illacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi

compescit unda, scilicet omnibus quicumque terrae munere uescimur enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni.

Ahimé fugaci, Postumo, Postumo, scorrono gli anni, e nemmeno la fede negli dei ritarderà le rughe , la vecchiaia incalzante, la morte mai sconfitta; neppure, amico, se ogni giorno, quanti sono i giorni che se ne vanno, con trecento tori tu placassi l'inflessibile Plutone, che il triplice Gerione e Tizio

-allitterazione della U -lamentatio, espressione di lamento -indomabile morte, anni fugaci che scorrono

-inutilità dei sacrifici agli dei -Plutone implacabile, che non conosce lacrime, non può essere commosso -insensatezza di ogni sforzo umano teso a evitare la morte e lo scorrere del tempo (periodo ipotetico) egli tiene chiusi oltre -gerundivo: inevitabilità quell'onda tetra che tutti noi, -inesorabile morte che colpisce quanti la terra nutre con i suoi tutti gli uomini, senza considerare doni, dobbiamo attraversare, la loro condizione non importa se re o povera gente di campagna.


Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: visendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris: linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter inuisas cupressos ulla brevem dominum sequetur: Absumet heres Caecuba dignior servata centum clavibus et mero tinget pavimentum superbo, pontificum potiore cenis.

Invano eviteremo la guerra (Marte)sanguinosa e nel mare Adriatico il sordo frangersi dei flutti, ci guarderemo invano, nell'autunno, dallo scirocco che danneggia la salute. Si dovrà vedere l'onda nera del Cocito dalla pigra corrente, l'infame stirpe di Danao e il figlio di Eolo, Sisifo dannato alla lunga fatica. Si dovrà lasciare la terra, la casa, la moglie amata, e degli alberi che ora tu coltivi nessuno, solo il cipresso odioso, seguirà te, padrone dalla vita breve Il Cecubo, che con cento chiavi tu hai riposto, lo berrà un erede più degno di te e il pavimento bagnerà con il vino squisito, superiore a quello riservato alle cene dei pontefici.

-inutile evitare le guerre, le tempeste e lo scirocco, perché la morte colpirà tutti

-inevitabilità di vedere i luoghi dell’Ade e chi lo popola

-inevitabilità di dover lasciare i beni e la famiglia, come simbolo della vita terrena -padrone di una breve vita -carpe diem -vino pregiato ha aperto, in occasioni -absumet, Rimandano a all’uomo -carpe diem

che Postumo non attesa di migliori tinget: futuro. un futuro negato

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Paolo Gilardoni La morte di Cleopatra, I,37 Testo (Odi, I, 37, 1) 1Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, nunc Saliaribus ornare pulvinar deorum tempus erat dapibus, sodales!

Traduzione d’autore Ora si deve bere, ora battere la terra a piede sciolto, ora il tempio dei numi con banchetti degni dei Salii andava adornato, amici.

5Antehac nefas depromere Caecubum cellis avitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat,

Da celle avite attingere il Cècubo era empio prima, quando fanatiche rovine al Campidoglio e lutto una regina tramò all’impero,

9contaminato cum grege turpium morbo virorum, quidlibet inpotens sperare fortunaque dulci ebria. Sed minuit furorem

con il perverso gregge suo d’uomini da morbo infetti, pronta a promettersi di tutto, e ubriaca della sorte lieta. Però ne fiaccò il furore

13vix una sospes navis ab ignibus, mentemque lymphatam Mareotico redegit in veros timores Caesar ab Italia volantem

la sola nave ai fuochi superstite, la mente ubriaca del Mareòtico gliela svegliò a giusti timori Cesare, a remi incalzò il suo volo


17remis adurgens, accipiter velut mollis columbas aut leporem citus venator in campis nivalis Haemoniae, daret ut catenis

via dall’Italia –come le tenere colombe il falco o ai campi d’Emonia nevosi il cacciatore insegue l’agile lepre –a gettare il mostro

21fatale monstrum, quae generosius perire quaerens nec muliebriter expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras,

fatale in ceppi. Lei, cuore nobile, cercò la morte, né come femmina temé la spada, né su navi agili andò per nascosti lidi,

25ausa et iacentem visere regiam vultu sereno, fortis et asperas tractare serpentes, ut atrum corpore combiberet venenum,

ma con sereno volto osò assistere al crollo del palazzo, e inflessibile toccare le aspre serpi, a imbere d’atro veleno le proprie membra,

29deliberata morte ferocior: saevis Liburnis scilicet invidens privata deduci superbo, non humilis mulier triumpho.

superba nella morte, scegliendola: sfuggendo alle nemiche liburniche, negò così d’essere tratta, lei fiera donna, al trionfo altero

Riassunto L’ode ha un andamento circolare: all’inizio sono descritti i banchetti e i festeggiamenti dei Romani alla notizia del suicidio di Cleopatra, regina che follemente minaccia la salvezza dell’impero romano (vv.1-12). La parte centrale (vv.12-20) è invece incentrata sulla figura di Cleopatra sul suo scoraggiamento in seguito alla sconfitta, mentre la conclusione (vv.21-32) tratta della dignità delle regina nella scelta di morte per suicidio, per evitare la prigionia. Tematiche •Elogio della felicità dopo la guerra. L’incipit riprende un carme di Alceo (fr. 332 Lobel-Page), che esprime con irruenza passionale la propria gioia alla notizia della morte di Mìrsilo, tiranno di Mitilene: “Ora bevete tutti, ubriacatevi,/ magari a forza: è morto Mirsilo!”. Il riferimento al vino nella produzione lirica di Orazio percIò è rilevante, in quanto esso viene considerato dal poeta una bevanda in grado di scacciare la tristezza dell’animo, ma anche uno strumento di gioia sfrenata. •La celebrazione epica di Ottaviano (deus ex machina), che caccia la cupa regina Cleopatra, che ha osato tramare la rovina dell’Impero. L’intento propagandistico-patriottico di Orazio traspare anche dalla deformazione di alcuni dati storici (vix una sospes navis: in realtà Cleopatra era riuscita a fuggire con sessanta navi)-“ab Italia”- in realtà il combattimento avvenne in acque greche), la figura della regina-preda che non si lascia vincere, ma preferisce darsi la morte, esce vera vincitrice di questo duello, e si evita di menzionare Antonio, con la guerra fratricida •Il panegirico della regina sconfitta: il tono impetuoso dei primi versi si attenua, per poi distendersi nel ricordo di antiche cerimonie e, soprattutto, per spostarsi sulla figura principale dell’ode, Cleopatra, da cui è affascinato lo stesso Orazio. Le parole-chiave del carme sono da ricercarsi nel “fatale monstrum” posto in incipit di strofa, dove Monstrum sta ad indicare “segno divino, prodigio” ,mentre fatale è riferito anch’esso ad una volontà superiore, il Fato. Cleopatra non appare quindi più come la nemica da vincere, ma si staglia isolata come un essere superiore, unico ed invincibile, che non teme la spada e non si piega ad alcuna vigliaccheria per aver salva la vita, anzi preferisce darsi la morte con le proprie mani. Naturalmente l’elogio a Cleopatra rientra sempre all’interno dell’ottica propagandistica, dal momento che Roma è riuscita a far fornte a una minaccia tale Orazio e i canti civili Nell’ode prevalgono chiaramente i motivi propagandistici, dal momento che si ricorre ad un tono di solennità ed elevatezza stilistica e le tematiche sono strettamente politiche. Il carmen I 37 è contenuto nei venti carmi in cui


Orazio tratta argomenti di ispirazione civile (il canto civile). I temi sono suggeriti dalle recenti guerre civili, eventi specifici (come in tal caso la morte di Cleopatra) e la necessità di richiamare i romani all’osservanza del “mos maiorum”, denunciando i vizi e la corruzione dilaganti a Roma. D’altra parte i temi civili erano ben congeniali al carattere e alla statura morale di Orazio, incline a un ideale di vita semplice, assertore del giusto mezzo e mai sconvolta dalla paura della morte, pure ineluttabile. Da questi valori traspare il ruolo di Orazio nella società, elevandosi a poeta “vates”, colui che si innalza al di sopra delle altre voci per denunciare o esortare. ______________________________________________________________________________________ Mazzone Liber I, Carmen XIV O navis, referent in mare te novi fluctus. O quid agis? Fortiter occupa portum. Nonne vides, ut nudum remigio latus non di, quos iterum pressa voces malo. Quamvis Pontica pinus, silvae filia nobilis, iactes et genus et nomen inutile nil pictis timidus navita puppibus fidit. Tu, nisi ventis debes ludibrium, cave. Nuper sollicitum quae mihi taedium, nunc desiderium curaque non levis, interfusa nitentis vites aequora Cycladas. et malus celeri saucius Africo antemnaeque gemant ac sine funibus vix durare carinae possint imperiosius aequor? Non tibi sunt integra lintea,

Libro I, Ode 14

flutti. O che fai? Rientra con forza

O nave, ti riporteranno in mare nuovi

nel porto. Forse non vedi come


il fianco (sia) nudo di remi

vanterai una famiglia e un nome inutile,

e l’albero maestro (sia) ferito per l’Africo violento

se il marinaio impaurito non si fida delle poppe dipinte.

e le antenne gemano e senza funi

Tu, se non vuoi cadere in balia dei venti,

a stento le carene possano

sta’ in guardia.

sopportare un mare troppo tempestoso? Non hai vele intatte, né dèi da

Tu, che tempo fa per me fosti motivo di disgusto, ed ora sei nostalgia e preoccupazione non lieve,

invocare, se sarai stretta di nuovo dalla sciagura.

evita le acque che scorrono

Per quanto costruita in pino pontico,

tra le Cicladi luminose.

figlio di illustre foresta, Commento Nel carmen 14 Orazio propone l’immagine di una nave che versa in pessime condizioni: l’impetuoso Africo ha distrutto i suoi remi e troncato il suo albero, il mare infuriato ha distrutto le funi attorno alla chiglia, mentre le vele sono state squarciate, così come le immagini degli dèi sulla poppa della nave. Il poeta invita pertanto l’imbarcazione a rientrare in porto per salvarsi. L’immagine della nave, su cui è costruito l’intero componimento, è un’allegoria: Orazio, ispirandosi al poeta lirico Alceo, che proprio delineando i tratti di una nave in tempesta racconta il dramma delle lotte civili della sua patria, Mitilene, al tempo del tiranno Mirsilo, è intenzionato a rappresentare il grave pericolo in cui versa Roma, per la quale è assai preoccupato. I critici eventi a cui il poeta si riferisce riguardano la guerra civile fra Ottaviano e Antonio e la guerra contro Sesto Pompeo (44-31 a.C.): dietro l’allegoria dunque, che non è un mero esercizio letterario, si

nasconde una situazione politica reale. Così Orazio, che in precedenza aveva provato disgusto per la vita politica e militare, dimostra la sua ansietà rivolgendo un affettuoso monito alla sua patria, che richiama all’ordine ed alla disciplina. Il tema dell’allegoria della nave esercitò poi grande fascino sui poeti più celebri, da Dante a Petrarca, fino al Carducci. Questa ode si inserisce a pieno titolo nei canti civili e propagandistici del poeta, dominati dall’esecrazione delle recenti guerre civili o dalla necessità di richiamare i suoi contemporanei ad una più stretta osservanza delle regole morali e del mos maiorum. Questi temi si rivelano consoni al alla personalità ed allo spessore di Orazio, fautore dell’aurea mediocritas ed invulnerabile ai colpi della fortuna. Egli, prendendo le mosse da questi valori, legittima il suo ruolo di vates, voce che dall’alto e con toni elevati denuncia i vizi ed esorta i concittadini a recuperare i comportamenti corretti.

_________________________________________________________________________ Ciccardini

Persecos odj, puer, adparatus, displicent nexae philyrb coronae, mitte sectari, rosa quo locorum sera moretur.

Odio, ragazzo, lo sfarzo persiano, Libro I, Ode 38 “Congedo” non mi piacciono le corone intrecciate con fili di tiglio, smetti di cercare in quale luogo indugi la rosa tardiva. Desidero che tu non ti adoperi ad aggiungere nulla al semplice mirto: il mirto non è inadatto né a te che mi servi a tavola né a me che bevo sotto un breve pergolato.


Simplici myrto nihil adlabpres sedulus curo: neque te ministrum dedecet myrtus neque me sub arta vite bibentem. Orazio, nell’ode conclusiva del primo libro di Carmina, si rappresenta nel chiedere al proprio servo che gli sia preparato un pasto semplice: egli non ama gli sfarzi e le smodatezze, cui preferisce la sobrietà, che si addice ugualmente al signore come al suo domestico, non solo a tavola, ma anche nella vita di tutti i giorni. Il tema principale,tra i più importanti nella poesia oraziana e ampiamente trattato in tutta la raccolta dei Carmina, è quello del simposio, che Orazio rielabora, associandolo alla semplicità, qualità da estendere anche allo stile di vita e punto fermo della filosofia dell’autore. Il tema del simposio deriva dalla lirica greca arcaica, da cui Orazio trae anche il metro utilizzato, l’ode saffica, ed è rivisitato in modo da esprimere un duplice significato simbolico: da una parte esso rinvia al valore della semplicità della vita, dall’altra implica un riferimento alla poesia stessa, improntata su uno stile semplice, che consente al poeta di rispecchiarsi pienamente in ciò che scrive. Alla semplicità, tematica chiave del carmen, è infatti votato anche il registro espressivo scelto dal poeta, che opta per un lessico colloquiale, tipico della quotidianità familiare, senza, però, tralasciare l’eleganza formale. Grazie a un’accurata rifinitura del proprio lavoro, Orazio, pur attingendo ad espressioni del sermo cotidianus, riesce a selezionare i termini e i costrutti più adatti in ogni singola circostanza, come testimoniano gli iperbati nella prima strofa, tra persicos e adparatus e tra rosa e sera, e la corrispondenza “verticale” tra neque te e neque me. Questa ode è un chiaro invito alla mediocritas; dunque, si pone in linea con la filosofia epicurea, cui il pensiero di Orazio è riconducibile. Mediocritas è il giusto mezzo, il perfetto equilibrio tra due estremi, in questo caso specifico abbondanza smisurata e inedia, da cui è bene tenersi lontani. Per raggiungere la felicità non è necessario fruire di ciò di cui non si ha bisogno, oltrepassando il limite della giusta misura, ma è sufficiente saper valorizzare la propria esistenza terrena godendo dei piaceri mondani con semplicità. E’ inutile abbandonarsi alla smodatezza e a un lusso sfrenato quanto privo di senso, poiché la felicità dell’uomo non scaturisce dagli eccessi, ma dalla capacità di vivere in pace con se stessi, senza lasciarsi pervadere dal turbamento. NESSI PRIMAVERA E MORTE (Carm. 4,7) traduzione???? Diffugere nives, redeunt iam gramina campis arboribus comae; mutat terra vices et decrescentia ripas flumina praetereunt; Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet ducere nuda choros: Inmortalia ne speres, monet annus et almum quae rapit hora diem. . Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas, interitura simul pomifer autumnus fruges effuderit, et mox bruma recurrit iners. Damna tamen celeres reparant caelestia lunae: nos ubi decidimus quo pater Aeneas, quo dives Tullus et Ancus, pulvis et umbra sumus.


Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae tempora di superi? Cuncta manus avidas fugient heredis, amico quae dederis animo. Cum semel occideris et de te splendida Minos fecerit arbitria, non, Torquate, genus, non te facundia, non te restituet pietas; infernis neque enim tenebris Diana pudicum liberat Hippolytum, nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro vincula Pirithoo. La primavera, come tutte le stagioni, ha una durata breve, ma si ripresenta ciclicamente: muore e poi rinasce. Noi uomini, invece, una volta terminata la nostra vita, non possiamo tornare indietro, ma diventiamo prede della morte. Per questo motivo bisogna cogliere e approfittare dei momenti presenti. L’ode inizia con il sciogliersi delle nevi (diffugere nives) che fanno posto alle erbe dei prati e alle chiome degli alberi. Dai primi versi emergono i temi principali ovvero l’inesorabilità della fuga del tempo, ma soprattutto la morte: il passare rapido delle stagioni ricorda che niente è eterno e perciò dominano i toni tristi (inmortalia ne speres, monet annus). Il pensiero più drammatico emerge nella frase “pulvis et umbra sumus” che evidenzia il destino della sorte umana: siamo cenere e ombra. Questa immagine è un topos tradizionale che ricorre spesso nei tragici greci come Euripide. Nel verso 15 (pius Aeneas, Tullus dives et Ancus) Orazio sottolinea come nemmeno la pietas di Enea, rispettoso degli dei e degli uomini, e nemmeno la ricchezza dei due re servono ad allontanare la morte. In questa ode emerge lo stile di Orazio, il quale utilizza un’ampia varietà di registri stilistici a seconda del tema affrontato. Il lessico tende alla precisione, superando quello del sermo cotidianus delle Satire, infatti un termine nelle Odi ha una sola valenza e non si presta all’ambiguità. Nelle odi del quarto libro, di cui questa fa parte, il poeta ha raggiunto la stabilità psicologica poiché ha superato molti degli ostacoli che la vita gli aveva precedentemente presentato (atteggiamento analogo a quello che assume nella composizione delle Epistole). L’esigenza che ha è quella di scrivere per se stesso e non più per gli altri. Le tematiche che affronta sono a lui familiari e usuali, ma si avverte un senso di stanchezza, collegato sicuramente all’età del poeta, e una profonda spiritualità. Il carme è arricchito da temi mitologici volti a celebrare la gloria di Roma e della sua virtus, insistendo su motivi patriottici e politici.

Marcolli IL MONTE SORATTE

Vidès ut àlta stèt nive càndidum Soràcte nèc iam sùstineànt onus silvaè labòrantès gelùque flùmina cònstiterìnt acùto. Dissòlve frìgus lìgna supèr foco largè repònens àtque benìgnius depròme quàdrimùm Sabìna, ò Thaliàrche, merùm diòta.


Permìtte dìvis cètera, quì simul stravère vèntos aèquore fèrvido deproèliàntis, nèc cuprèssi nèc veterès agitàntur òrni. Quid sìt futùrum cràs, fuge quaèrere, et quem Fòrs dièrum cùmque dabìt, lucro adpòne, nèc dulcìs amòres spèrne puèr neque tù chorèas, donèc virènti cànitiès abest moròsa. Nùnc et càmpus et àreae lenèsque sùb noctèm susùrri cònposità repetàntur hòra, nunc èt latèntis pròditor ìntumo gratùs puèllae rìsus ab àngulo pignùsque dèreptùm lacèrtis àut digitò male pèrtinàci. Traduzione: Vedi come si elevi candido di neve abbondante il Soratte, e (come) non reggano più il peso (della neve) i boschi affaticati, e (come) per il gelo acuto si siano fermati i fiumi. Sciogli il freddo aggiungendo legna sul fuoco in abbondanza, e con più generosità (del solito) versa dall'anfora sabina, o Taliarco, il vino di quattro anni. Lascia il resto agli dèi: appena essi1 hanno fermato i venti che sul mare in tempesta s'azzuffano, né i cipressi né gli orni vetusti si agitano (più). Che cosa accadrà domani, non chieder(telo), ed ogni giorno che [qualunque2 dei giorni] la sorte (ti) darà, ascrivilo a guadagno, e i dolci amori e le danze non disprezzarle, tu, ragazzo, finché (da te) che sei nel fiore (degli anni) è lontana la vecchiaia [canizie] noiosa. Ora devi cercare [siano ricercati (da te)] il campo (Marzio) e le piazze e i dolci sussurri sul far della sera all'ora dell'appuntamento [stabilita], ora (devi cercare) il riso gradito della ragazza nascosta, che tradisce (la sua presenza) dall'angolo appartato, e il pegno strappato alle (sue) braccia o al dito che resiste invano [malamente ostinato]


Ed ecco che ancora una volta è giunto l’ inverno, stagione fredda e a volte triste, poiché rappresenta un momento buio, in cui la natura si ritira in un lungo sonno per dimenticare le insidie del gelo e della fame. Orazio descrive il paesaggio invernale sul monte Soratte, promontorio ben visibile da Roma. Interessante è la personificazione delle “silvae” (selve) che sopportano a fatica il grande peso della neve posatasi su di esse (“laborantes”). Orazio interagisce con un interlocutore immaginario di nome Taliarco (nome che significa re del banchetto) a cui consiglia di sconfiggere il freddo ponendo della legna sul focolare e disponendo sulla tavola del buon vino. Dal verso 13 l’autore esorta l’amico a non preoccuparsi del domani e di lasciar perdere tutto ciò che riguarda gli dei, le preoccupazioni che vanno oltre il presente, e vivere appieno la sua giovinezza perché presto, la vecchiaia, non gli permetterà più di gioire i dolci amori e le danze. Nell’ ultima parte del brano Orazio crea un’ immagine dai toni puramente ellenistici: un appuntamento basato sulla dolcezza di due innamorati. Due sono le tematiche trattate in quest’ode: la prima è quella del destino, della sorte, rappresentata dagli dei e che l’ uomo è impossibilitato a controllare; la seconda e la più importante è la tematica dello scorrere del tempo. Tipicamente oraziano è l’accostamento delle stagioni dell’anno alla vita; le stagioni sono brevi e proprio per questo motivo bisogna viverle intensamente sfruttandole al massimo. In questo caso l’ autore ha scelto l’ inverno, che ci spinge a rimanere coperti in un luogo caldo e in compagnia di un amico sincero e di un bicchiere di vino; ciò che rincuora Orazio è il fatto che presto ci sarà l’ arrivo della primavera che, al contrario dell’ inverno, incita l’ uomo e la natura alla rinascita, a cercare nuovi incontri e amicizie, rappresenta un momento di nuovi amori e fantasie anche se l’autore è pienamente consapevole che proprio come la vita,anche la primavera è un momento di passaggio. Importante notare come, per una volta, Orazio si stacchi dalla necessità di richiamare le regole morali e del mos maiorum e si dedichi alle stagioni della vita; evidente è anche il riferimento all’epicureismo, nel momento in cui dice a Taliarco di approfittare della sua giovinezza e godere ciò che ha intorno, senza però cadere nell’ eccesso.

Beatrice Sedda INNO A MERCURIO (Orazio, Carmina Libro 1, ode 10) castra fefellit. Mercuri, facunde nepos Atlantis, qui feros cultus hominum recentum voce formasti catus et decorae more palaestrae, te canam, magni Iovis et deorum nuntium curvaeque lyrae parentem, callidum, quicquid placuit, iocoso condere furto. Te, boves olim nisi reddidisses per dolum amotas, puerum minaci voce dum terret, viduus pharetra risit Apollo. ** Quin et Atridas duce te superbos Ilio dives Priamus relicto Thessalosque ignes et iniqua Troiae

Tu pias laetis animas reponis sedibus, virgaque levem coerces aurea turbam, superis deorum gratus et imis.


Mercurio, estroso nipote di Atlante, che svelando la parola e l'armonia dei gesti hai col tuo genio ingentilito le abitudini primitive degli uomini, ti voglio cantare, messaggero di Giove e degli dei, ideatore della lira, che sai nascondere con lo scherzo di un furto tutto ciò che ti piace. Mentre una volta cercava di spaventare te, ancora neonato, se non gli avessi restituito le giovenche rubate con l’inganno, vistosi spogliato della faretra Apollo scoppiò a ridere. E ancora, sotto la tua guida, uscito da Troia carico di doni, Priamo eluse gli arroganti Atridi, i fuochi Tessali e tutti gli accampamenti nemici a Troia. Tu conduci le anime dei giusti in luoghi beati e con la verga d'oro, come un gregge, guidi la folla delle ombre, tu caro agli dei del cielo e del Averno (=Inferi).

L’argomento presentato sembra strano nel contesto poetico di Orazio: egli infatti seguiva il filone filosofico dell’epicureismo, il quale predicava un distacco dell’uomo dalla tradizionale religione e dagli Dei. Il poeta tuttavia scrisse quest’ode, ispirandosi al già presente “Inno a Hermes” del greco Alceo,


perché si sentiva in dovere di lodare la divinità che lo proteggeva in quanto poeta, che lo aveva salvato in battaglia a Filippi e che era da lui considerata la più vicina all’uomo, in quanto Dio dalle molte forme. Inizialmente si descrive la provenienza e la figura generale del Dio, poi vengono esposti due episodi specifici riguardanti la divinità, e infine Orazio scrive il principale ruolo per la quale Mercurio è conosciuto. L’ode presenta la tipica struttura dell’inno religioso, quello dell’elencazione: 1) Le prime due strofe presentano alcune prerogative di Mercurio, e ruotano entrambe intorno a “TE CANAM” (=io ti canterò) anche se si leggono in ordine inverso (dalla seconda strofa alla prima). NEPOS ATLANTIS: Mercurio era nipote del titano Atlante. Il fatto che Orazio si sia riferito alla genealogia del Dio è un chiaro esempio del legame che il poeta aveva con l’arte poetica greca. FACUNDE e VOCE: voce è un ablativo strumentale, e insieme a facunde esprime un altro motivo dell’ Inno di Orazio: facunde e voce sono riferiti infatti all’abilità di Mercurio nell’uso della parola, e Orazio gli riconosce di aver influenzato e aiutato con essa la civiltà umana, salvandola dall’ignoranza. Da CURVAEQUE a FURTO: Mercurio è rappresentato come inventore della lira, cosa che gli conferì il titolo di protettore dei poeti, e come maestro dei furti non per guadagno, ma per divertimento. Callidum (=maestro) è un aggettivo che, come nella lingua greca, regge un infinito, “condere”.

2) Nelle seguenti due strofe sono presentate due eventi specifici della vita del Dio; inoltre la struttura è diversa rispetto alle precedenti, poiché in questo caso le strofe non son collegate, ma separate. La prima è basata sul verbo “risit” , mentre la seconda si fonda su “fefellit” ** Orazio da’ vita ad un piacevole quadretto, nel quale compare Mercurio ancora bambino e Apollo, presentato alla fine della frase che coincide con la fine dell’evento descritto. Il poeta non si limita solo ad una descrizione del Dio adulto, ma lo raffigura bambino affinché il lettore entri nel contesto dell’Ode. PRIAMUS: Orazio si dimostra ancora molto abile nell’informare il lettore, presentando un evento appartenente alla tradizione epica greca, altro simbolo del rispetto del poeta per quella cultura e civiltà; si racconta di quando Mercurio scortò Priamo affinché egli potesse uscire da Troia, ingannando ed eludendo i nemici della città. 3) Nell’ultima strofa c’è ancora un cambiamento nella struttura: i verbi “reponis” (=conduci) e “coerces” (=guidi) si curvano entrambi nel verso successivo, per enjambement. ANIMAS REPONIS: Viene proposto un altro ruolo di Mercurio, quello dello Psycopompòs, ovvero accompagnatore delle anime nel regno degli Inferi. GRATUS: Uno dei tanti aggettivi che Orazio attribuisce a Mercurio. Ciò sottolinea l’abilità del poeta nell’uso della parola, evidenzia la sua volontà di lasciare delle forti immagini nella mente del lettore affinché venissero ricordate eternamente; inoltre l’ampio uso di aggettivi, riferiti alla divinità, conferisce vivacità all’ode.

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Irene Benincasa I GIURAMENTI DI BARINE (II, 8) Ulla si iuris tibi peierati poena, Barine, nocuisset umquam, dente si nigro fieres vel uno turpior ungui,


crederem: sed tu simul obligasti perfidum votis caput, enitescis pulchrior multo iuvenumque prodis publica cura. expedit matris cineres opertos fallere et toto taciturna noctis signa cum caelo gelidaque divos morte carentes. Ridet hoc, inquam, Venus ipsa, rident simplices Nymphae, ferus et Cupido semper ardentes acuens sagittas cote cruenta. Adde quod pubes tibi crescit omnis servitus crescit nova nec priores inpiae tectum dominae relinquunt, saepe minati. Te suis matres metuunt iuvencis, te senes parci miseraeque nuper virgines nuptae, tua ne retardet aura maritos.

TRADUZIONE Se mai ti avesse colpito una sola pena per i tuoi falsi giuramenti, o Barine, se diventassi un po’ più brutta per un dente annerito o per una sola unghia, io ti crederei. E tu invece, non appena hai impegnato a testa spergiura con le tue solenni

promesse, risplendi ancora più bella e te ne vai così, tormento di tutti i giovani. Ti giova offendere le ceneri di tua madre e le silenziose stelle della notte con tutto il cielo e gli dèi che il gelo della morte non conoscono. Di questo sorride, io dico, pure Venere, sorridono le candide Ninfe, e anche il feroce Cupido, che sempre aguzza le sue frecce infuocate sulla pietra insanguinata. E intanto cresce la gioventù tutta per te, cresce la folla di nuovi schiavi, e quelli vecchi non lasciano la casa della loro spietata padrona pur avendolo spesso minacciato. Te le madri temono per i loro figli, te i vecchi avari (temono), e le fanciulle da poco tempo sposate (temono) che il tuo fascino faccia tardare i loro mariti.

COMMENTO: L’ode, intitolata “I giuramenti di Barine”, tratto dal libro II, è concentrata sulla figura di una donna mentitrice, Barine (probabilmente una liberta o cortigiana, visto che il nome significa “ragazza di Bari”). Secondo gli antichi, il giuramento è sacro e credono che sugli spergiuri piombi l’ira degli dei. Tuttavia, non vale per gli innamorati, che senza correre rischi possono venir meno alla parola data: “i giuramenti d’amore non arrivano mai agli orecchi degli immortali” –Anth. Pal. V,6-; questo, secondo il mito, vuole Zeus, poiché intende nascondere ad Era il suo amore per Io. Anche Catullo afferma: “Ciò che una donna dice a chi l’ama bisogna scriverlo nel vento o sopra l’acqua che fugge” (LXX 3 s.). Così, Orazio, affronta la tematica dell’amore.


L’autore si introduce nell’ambito della tradizione e presenta, su uno sfondo di vita galante della capitale, la bella Barine, che non esita a giurare su ciò che vi è più sacro. Ciononostante, dopo ogni spergiuro, la donna risplende più desiderata che mai: aumentano gli schiavi al suo seguito, vittime pronte ad esser sacrificate alla dea. Il suo fascino è irresistibile, oltre che motivo di affanno per “trepide madri e sospettose amanti”. Vi sono dei riferimenti ad antiche credenze popolari: l’allusione dell’autore alle macchie bianche che compaiono sulle unghie sono solitamente collegate alle bugie. Sono presenti inoltre elementi ironici, quale l’uso del verbo Obligo (“obligasti..votis caput”), appartenente al linguaggio sacrale-giuridico, qui presente come se Barine avesse sacrificato la sua vita (“devotio capitis”); ancora, l’ironico accostamento di CURA, termine che nella poesia erotica indica la “pena d’amore”, e PUBLICUS, solitamente riferito alla sfera politica. La falsità di Barine è tale che nemmeno gli dei, Venere e Cupido, possono prendere sul serio i suoi giuramenti; quegli stessi dei oramai ridono indulgenti pur essendo stati tante volte ingannati. L’anafora e il poliptoto alla fine della composizione (“te..te..tua..”), tipiche dell’inno religioso, innalzano Barine a divinità spietata, capace di sottrarre padri, madri e spose ai loro cari; nella conclusione vi è il riferimento ai padri preoccupati che i loro figli possano spendere troppo per Barine: la figura del vecchio padre avaro è ricorrente nella commedia e nella vita. In linea generale, il componimento non possiede un contenuto solenne e recupera reminiscenze poetiche risalenti all’epigramma ellenistico; rivela però la piena maturità artistica di Orazio. Vi è un perfetto equilibrio nella distribuzione e nell’avvicendamento di segmenti contenutistici con uno spazio poetico riservato per ciascuno. L’ode, strutturata in sei strofe saffiche minori, segue quindi lo schema: (strofe 1-2) impunità di Barine per i suoi spergiuri, centralità della sua bellezza e della sua conseguente desiderabilità, il tutto accentuato da figure retoriche quali chiasmo, antitesi, variatio, allitterazione del suono (Primo segmento); (strofe 3-4) la tipologia degli spergiuri della donna e la “complicità” degli dei, Venere, le Ninfe e Cupido. La terza strofa conclude con due elaborati versi riguardanti quest’ultima divinità: è descritta accentuandone l’indole violenta, con riferimenti al sangue delle ferite d’amore, quando gli innamorati sono colpiti dalle sue frecce, non in senso metaforico (secondo segmento); (strofe 56) le schiere di amanti, nuovi e vecchi, la preoccupazione delle madri e delle spose; le figure retoriche utilizzate sono una ripetizione, una antitesi, un’anafora e un gioco fonico (terzo segmento). Orazio in tal modo assegna a ciascun segmento una coppia di strofe, aderendo alla simmetria che è uno degli elementi fondamentali del suo classicismo lirico.

Peterlin – III, 13 – Alla Fonte Bandusia


O fons Bandusiae splendidior vitro, dulci digne mero non sine floribus, cras donaberis haedo, cui frons turgida cornibus primis et venerem et proelia destinat. Frustra, nam gelidos inficiet tibi rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis. Te flagrantis atrox hora Caniculae nescit tangere, tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes et pecori vago. Fies nobilium tu quoque fontium me dicente cavis inpositam ilicem saxis, unde loquaces lymphae desiliunt tuae.

O fonte di Bandusia, più limpida del cristallo, degna di dolce vino puro, non senza fiori, domani tu riceverai in dono un capretto al quale la fronte sporgente per le (<gonfia dalle) prime corna destina amori e contese; inutilmente: infatti il figlio dell'allegro gregge macchierà le tue gelide acque di sangue rosso. L'ora atroce (>la stagione) della bruciante Canicola non riesce a toccarti, offri amabile frescura ai tori stanchi di arare (<dell’aratro) e al gregge errante. Diverrai anche tu una delle nobili fonti perché io celebro (< grazie a me che parlo dei) i lecci posti sulla cavità rocciosa da cui si tuffano le acque chiacchierine/mormoranti.

Questa è l’ode tredicesima del libro III e sembra sia stata composta durante la vigilia delle festività dette Fontanalia (cras), nelle quali si celebravano e onoravano fonti e corsi d’acqua. Orazio, dalla sua, dedica il carmen a una fonte, chiamata Bandusia, probabilmente collocata nella sua residenza Sabina, segna di una reminiscenza infantile. L’autore invoca la fonte quasi fosse una persona, ne elenca i pregi e la bellezza, inserendo il tutto in una cornice di sacralità; Orazio, tuttavia, non compie chiari riferimenti a divinità, come è tipico della sua persona (non si rivelò mai un assiduo proselita della religione dell’Impero), ma semplicemente si limita a citare il rito celebrativo, di ovvia origine rustica. Possiamo suddividere l’ode in due parti: la prima (1-8) in cui l’autore promette il sacrificio, la seconda (8-16) che comprende l’inno di invocazione alla fonte. Nel carmen possiamo inoltre ritrovare la filosofia epicurea adottata da Orazio, che seguiva fedelmente; in tutto il testo emerge infatti un apprezzamento verso le semplicità della vita, in particolare verso le piccole cose agresti al quale è sempre stato legato, che permettono all’autore di perseguire la felicità. Oltre a ciò la descrizione del luogo sembra richiamare l’elemento classico del locus amoenus, seppur in questo caso sia un luogo reale, che insieme all’elemento del sacrificio, all’invocazione e allo zampillare delle fonti, mostra l’interesse di Orazio verso la cultura greca e di conseguenza anche il suo impegno per far sì che vi sia una grande eleganza stilistica nel componimento, una perfezione formale e un grande rigore nella costruzione dei versi. Sempre dalla cultura letteraria ellenistica, l’autore riprende il concetto per cui un poeta, in virtù della sua grandissima arte, possa eternare ciò che tratta, nel suo caso la fonte Bandusia. Il componimento sulla fonte Bandusia assume poi la forma di un inno religioso e quindi l’azione del poeta diventa nobilitante perché, avvicinandosi al mondo divino, supera ulteriormente il livello lirico.


Ferrari Libro I ode 30 “ Inno a Venere”

O Venus regina Cnidi Paphique, sperne dilectam Cypron et vocantis ture te multo Glycerae decoram transfer in aedem!

O Venere Regina di Pafo e di Cnido, lascia la cara Cipro e vai da Glicera che nelle belle stanze ora t’invoca bruciando incensi.

Fervidus tecum puer et solutis Gratiae zonis properentque Nymphae et parum comis sine te Iuventas Mercuriusque!

Si affrettino con te anche le ninfe e il fanciullo di fiamma e le discinte Grazie e Mercurio e Giovinezza, senza te meno lieta.

Commento Orazio scrive questa ode con lo schema della preghiera per invocare con un vero e proprio inno il soccorso di Venere e del corteo che l’accompagna. Nella prima strofa il poeta chiede alla dea di lasciare Cipro, isola sulla quale era particolarmente diffuso il suo culto, per trasferirsi nella casa della fanciulla da lui amata, Glicera; nella seconda questi rivolge lo stesso invito alle divinità legate a Venere: Cupido, le Ninfe, le Grazie, la Gioventù personificata ed infine Mercurio. Orazio con questa preghiera sembra andare contro la concezione teologica, di cui era seguace, che vede gli dei estranei e indifferenti alle vicende degli uomini; il poeta invece si serve delle figure divine per trasmettere ai suoi lettori altri messaggi. Nell’ode Orazio esalta la bellezza della semplicità e propone un approccio sereno alla vita, che deve essere sempre vissuta secondo il senso della misura e dell’equilibrio e non deve mai aspirare al perseguimento di piaceri futili e non necessari. Il poeta invita Venere a preferire ciò che è semplice a ciò che è di troppo, così le chiede di lasciare Cipro per trasferirsi nella casa della donna amata, che potrà essere un nuovo tempio in cui alla dea sarà lecito dedicarsi ad un esistenza più semplice e serena. Altra tematica affrontata è la fugacità del tempo e la difficoltà nel sapere riconoscere il momento opportuno; Orazio sostiene che senza amore la giovinezza non sarebbe tanto lieta, così fa intendere che la gioventù è il momento ideale della vita per accogliere Venere. Il poeta invita dunque il lettore a saper cogliere l’attimo e a trovare la felicità nel presente piuttosto che attenderla in un futuro povero di certezze. Il “carpe diem” è presentato non come uno stile di vita edonista, ma come un mezzo per sapere godere della vita con moderato equilibrio e per imparare ad accontentarsi ed essere felici.

Ruggeri


Maecenas atavis edite regibus, o et praesidium et dulce decus meum! Sunt quos curriculo pulverem Olympicum collegisse iuvat metaque fervidis

evitata rotis palmaque nobilis; terrarum dominos evehit ad deos hunc, si mobilium turba Quiritium certat tergeminis tollere honoribus,

O Mecenate che discendi da antenati regali, o mia difesa e dolce mio onore! Vi sono quelli a cui piace sollevare con il carro la polvere di Olimpia e che la meta evitata dalle ruote infuocate e la palma che dà gloria innalzano fino agli dei, signori della terra; a questo (fa piacere) se la folla dei Quiriti incostanti fa a gara per innalzarlo con i triplici onori,

illum, si proprio condidit horreo quidquid de Libycis verritur areis. Gaudentem patrios findere sarculo agros Attalicis condicionibus

a quello se accumula nel proprio granaio tutto quanto che viene raccolto dalle aie libiche. Chi è felice di fendere con la zappa i campi paterni non riusciresti mai, neppure con offerte degne di Attalo

numquam demoveas, ut trabe Cypria Myrtoum pavidus nauta secet mare. Luctantem Icariis fluctibus Africum mercator metuens, otium et oppidi

a smuoverlo perché solchi, marinaio pauroso, il mare Mirtoo con una nave di Cipro. Il mercante che teme l’Africo in lotta con i flutti Icarii, loda la tranquillità dei campi e del suo paese;

laudat rura sui; mox reficit rates quassas, indocilis pauperiem pati. Est qui nec veteris pocula Massici nec partem solido demere de die

ma subito fa riparare le navi rovinate dalla tempesta, incapace di rassegnarsi a una modesta condizione. C'è chi non disprezza capici di Massico invecchiato né di sottrarre una parte alla giornata di lavoro

spernit, nunc viridi membra sub arbuto stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae. Multos castra iuvant et lituo tubae permixtus sonitus bellaque matribus

detestata, Manet sub Iove frigido venator tenerae coniugis immemor, seu visa est catulis cerva fidelibus seu rupit teretes Marsus aper plagas.

ora con le membra sdraiate all'ombra di un albero, ora presso la lieve sorgente di una fonte sacra. A molti piacciono gli accampamenti e il suono della tromba misto a quello del corno e le guerre odiate

Me doctarum hederae praemia frontium dis miscent superis, me gelidum nemus Nympharumque leves cum Satyris chori secernunt populo, si neque tibias

dalle madri. Rimane sotto un cielo di ghiaccio il cacciatore, dimentico della tenera sposa, sia che una cerva sia stata avvistata dai cani fedeli, sia che un cinghiale marsico abbia rotto le reti ritorte.

Euterpe cohibet nec Polyhymnia Lesboum refugit tendere barbiton. Quodsi me lyricis vatibus inseres

Me l'edera, premio delle dotte fronti, unisce, agli dei immortali, me il fresco bosco e le danze leggere delle Ninfe con i Satiri


-----> Nei primi due versi dell'ode, Orazio esprime devozione e gratitudine nei confronti di Mecenate, che gli ha concesso vantaggi materiali e morali e che era un homo novus, all'apice della fortuna politica come ministro e consigliere di Augusto. Orazio gli dedica il primo componimento di ciascuna delle sue raccolte poetiche, perché proprio grazie a lui è entrato a far parte del circolo letterario più importante del tempo. Il tono solenne della dedica è valorizzato dall'arcaismo atavis,che indica generalmente l'antenato, precisamente l'avo di quinta generazione. Il termine praesidium è preso in prestito dal lessico militare e indica la protezione offerta dal patrono; la formalità è alleggerita dall'aggettivo dulce e dal possessivo meum. Questo elogio iniziale è ripreso nell'ultimo verso, conferendo al carme una struttura circolare. ------> Dal verso 3 al verso 28 si svolge un'enumeratio, in cui si trovano diverse scelte di vita, tra cui quella degli atleti, dei politici, dei contadini, dei mercanti, dei soldati e dei cacciatori. Orazio descrive le loro aspirazioni e i loro comportamenti in determinate situazioni, sottolineando che ogni uomo compie la scelta che più si adatta alla propria natura. Quindi si trovano coloro che vogliono essere premiati con la foglia di palma ed essere innalzati a una condizione divina, coloro che ambiscono il favore del popolo, i grandi proprietari terrieri che vogliono arricchirsi, il piccolo agricoltore, soddisfatto dal proprio lavoro dei campi paterni, i mercanti che, pur di non vedere peggiorata la propria condizione, continuano a lottare contro i venti impetuosi, i soldati che si dedicano alla guerra incuranti del dolore causato alle madri, i cacciatori che, per ottenere la propria preda, rinunciano anche al calore della famiglia. Tra tutti questi personaggi, Orazio sembra identificarsi nel lavoratore che ama la tranquillità e sa dividere il proprio tempo tra otium e negotium. Il riferimento ai versi 21-22 all'ombra degli alberi e alla sorgente che gorgoglia lievemente indica il locus amoenus, in sintonia con gli ideali epicurei. L'immagine della tromba da guerra si può invece associare a un altro strumento musicale, presente nei versi successivi a indicare una diversa professione: la lira, tipica dei poeti lirici in Grecia. --------> Dal verso 29 alla fine, Orazio parla di se stesso e distingue le sue scelte di vita da quelle degli altri uomini: come tutti, anche lui è mosso da una particolare vocazione, nel suo caso la poesia. Perché questa ambizione possa essere portata avanti, è fondamentale l'appoggio delle Muse, ma anche quello di un protettore, ovvero Mecenate. Solo lui può dare al poeta la possibilità reale di distinguersi dal popolo ed elevarsi al numero degli intellettuali e dei poeti lirici, raggiungendo un'importanza capace di durare nel tempo. Il tono solenne di questi ultimi versi viene alleggerito dall'espressione auto-ironica “sublimi feriam sidera vertice” che indica da una parte la posizione che il poeta potrebbe assumere, dall'altra la sua felicità se Mecenate gli concederà definitivamente la sua approvazione. Nel quadro precedente, Orazio non ha criticato nessuna delle attività umane, si è soltanto dimostrato consapevole che la propria scelta è la migliore per sé stesso e anche per Roma, perché gli consente di intraprendere il ruolo di lyricus vates. Contesto Nell'ode si trovano numerosi riferimenti alla Grecia, soprattutto per quanto riguarda gli atleti e la poesia. In particolare, Orazio si è basato su modelli poetici ellenici, adattandoli tuttavia al costume, al gusto e alla cultura dei Romani. Pur non essendo il primo in ordine cronologico, questo carmen apre un percorso che si completerà solo nell'ode III, 30, dove Orazio dimostrerà una “coscienza di poeta” capace di portarlo alla costruzione di un monumentum aere perennius. All'inizio di questa strada annuncia la sua scelta di vita, la motiva e precisa la direzione verso la quale intende far procedere il proprio impegno di lyricus vates.


Crabtree Crabtree



Casartelli Niccolò

“Congedo dall’amore”,Orazio,Carm.3,26 Vixi puellis nuper idoneus et militavi non sine gloria: nunc arma defunctumque bello barbiton hic paries habebit , laevum marinae qui Veneris latus custodit

: hic, hic ponite lucida funalia et vectis et arcus oppositis foribus minacis.

Sono vissuto finora idoneo alle fanciulle e ho militato più che egregiamente;ora questa parete,che protegge il fianco sinistro di Venere marina,avrà le armi e la cetra che ha già fatto la sua guerra

• Forte senso metaforico generale

Qui,qui sospendete le torce luminose,le leve e gli archi che minacciavano le porte chiuse

• “ponite”,si rivolge ai Servi,che lo accompagnano al tempio

• Vixi indica distacco col passato ,tutto in prima persona • IL“Barbiton”,la cetra,come arma(Orfeo),le arma sono offerte “ex voto” • Marinae veneris:Venere dea dell’amore e protettrice dei naviganti,il mare come metafora dell’amore

• Descrizione delle “Arma”,strumenti per conquistare l’amore, usate durante la vita. • Metafora delle porte chiuse rappresentante l’ostinazione dell’amata.

o quae beatam diva tenes Cyprum et Memphin carentem Sithonia nive, regina, sublimi flagello tange Chloen semel arrogantem

TRATTAZIONE

O dea che abiti Cipro felice e Menfi che non conosce la neve sitonia,tu,regina,colpis ci almeno una volta con lo staffile levato in aria la sprezzante Cloe

• Invocazione a Venere • Apologia della dea e dei luoghi a lei cari • “Chloen”si riferisce ad una delle tante donne di cui ci parla Orazio,forse in questo caso è quella dell’ode I,23


In questa ode Orazio si propone di illustrare la propria presa di distacco dal sentimento amoroso che lo ha caratterizzato per molti anni:l’autore, fatto ormai savio delle numerose esperienze ,decide quindi di arrendersi e di rinunciare all’amata. L’intero carme,divisibile in tre micro sequenze,contenenti rispettivamente l’intento del poeta,le azioni da lui compiute come congedo all’amore e l’invettiva contro Chloe,è molto elegante dal punto di vista stilistico e retorico. L’intero componimento presenta inoltre un forte legame con il famoso frammento di Archiloco di congedo dal servizio militare. La tematica fondamentale del componimento è ovviamente l’amore, trattato tuttavia in modo singolare in quanto un simile sentimento,in Orazio, non è che un ricordo passato,velato da malinconia ,come si evince dall’invettiva contro Chloe. Ritorna inoltre un’immagine ,già presente nei poeti elegiaci,del sentimento amoroso come una milizia,ovvero una guerra,dove bisogna combattere e resistere contro le intemperie amorose;parallelamente è anche esplicitato come la conquista dell’amore di un’amata sia un lungo percorso attraverso le difficoltà ,dove le torce,le leve e gli archi,di cui si fa menzione nell’ode,rappresentano armi per trovare la giusta strada o per combattere gli intralci:da ciò è inoltre comprensibile come il raggiungimento di un obiettivo in campo sentimentale sia cosa estremamente complicata ,motivo che avrebbe indotto il poeta a deporre le armi e quindi ad arrendersi .Da ultimo è presente ancora la tematica dell’invettiva per un amore non corrisposto,tipica di Catullo, che suscita sofferenza:nell’ultima parte infatti il poeta supplica Venere,tramite un’apologia,secondo lo schema degli inni,perché infligga una punizione alla donna che lo ha respinto. A differenza di quanto possiamo leggere nei carmi di Catullo o nei componimenti di Tibullo e Properzio,Orazio non fu di certo un poeta del’amore;al posto delle sensazioni passionali troviamo piuttosto un forte senso di autoironia e un distacco evidente ,il suo atteggiamento nei confronti di tale sentimento è quello di chi lo vive come ricordo passato nostalgico. Infatti per lui l’amore non è un sentimento totalizzante o sconvolgente,come per Saffo,,ma è piuttosto,in continuità con le altre tematiche delle Odi, un gioco gradevole con lo scopo di dilettare il pubblico e contemporaneamente un’occasione per riflettere su tematiche come la fugacità del tempo e della vita.

Michela Taborelli Orazio: Ode 30, Libro 3, “Il canto dell’immortalità”


Con il preciso scopo di rendere immortali i componimenti che hanno fatto dell’autore un importante riferimento letterario per molti poeti a lui successivi, Orazio apre il carme 30 mostrando una spiccata consapevolezza della propria “opera monumentale”, così durevole e memorabile da non poter essere intaccata, metaforicamente, dal vento, né dalla pioggia. Nonostante l’intento celebrativo emergente fin dai primi versi, Orazio non nega la consapevolezza della caducità di ciò che è umano e di ciò che è artificiale; la pioggia divoratrice, il vento impetuoso e il tempo che scorre inesorabilmente sono quelle figure visive che l’autore pone come una fotografia davanti al lettore, ammettendo questa umana debolezza. Quest’ode di Orazio è un canto trionfale, un inno di ringraziamento che il poeta innalza alla Musa che gli ha dato l’ispirazione, ma tessendo le lodi di quest’ultima egli esalta anche il proprio canto al quale assegna il compito di neutralizzare la morte; infatti lui è sicuro che non verrà mai dimenticato, e per questo il suo ricordo vivrà per sempre, grazie alla fama conseguita proprio da questa sua opera. Con un ulteriore accenno autobiografico, il poeta mette in evidenza le sue umili origini e l’altezza della gloria poetica raggiunta. Il livello stilistico è elevato; in particolare l’uso dei tempi verbali contribuisce a mettere in rilievo la forte tensione di Orazio verso la posterità : dopo il perfetto iniziale “exegi” (v. 1) , che indica il completamento dell’opera, segue una serie di futuri collocati in posizione enfatica ( “Non moriar…” , v.6; “crescam”,v.8; “dicar”,v.10), che tendono ad associare l’eternità dell’opera oraziana a quella della stessa Roma. Contestualizzazione: L’ode conclusiva del libro terzo ha la funzione di “congedo” per tutta la raccolta dei primi tre libri delle “Odi”, pubblicata nel 23 a.C. Non è certo un caso che il sistema metrico usato sia lo stesso dell’ode di apertura della raccolta, né che tale verso sia adottato solo in queste due odi, che hanno così il compito di incorniciare tutte le altre. Tematiche: Il tema dominante quest’ultima ode è l’immortalità della poesia –unica forma di sopravvivenza concessa ai mortali- che vince il tempo e la morte, e nello stesso tempo l’orgoglio del poeta per l’opera compiuta. In questo contesto Orazio espone la linea dominante del suo percorso poetico, che consiste nella trasposizione della lirica eolica di Alceo e Saffo, nella lingua e nei ritmi latini. Testo latino Exegi monumentum aere perennius ⋅ regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo impotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum. ⋅ ⋅

Analisi Monumentum: il termine indica ciò che è destinato a mantenere il ricordo; deriva da moneo, il cui significato originario è quello di “richiamare alla memoria” Aquilo è la tramontana, vento del nord Innumerabilis… temporum: il concetto è unico, quello dell’incommensurabile


Non omnis moriar multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex.

⋅ ⋅

Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium regnauit populorum, ex humili potens princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos.

⋅ ⋅ ⋅ ⋅

Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam.

⋅ ⋅ ⋅

passare del tempo, ma qui è diviso nella sua infinità (innumerabilis… series) e nella sua celerità di trapasso dalle stagioni (fuga temporum) Non omnis moriar: l’espressione non allude alla distinzione tra il corpo che muore e l’anima che sopravvive, ma alla sopravvivenza nel ricordo e nell’interesse umano dovuto alla fama conseguita Libitinam: dea dei riti funebri Usque: avverbio; si riferisce si a crescam sia a recens. Non solo la morte ma anche la vecchiaia non potrà mai sfiorare la fama del poeta continuamente rinnovata dall’ammirazione delle generazioni future. Dum… pontefex: riferimento alla cerimonie durante le quali il sommo pontefice saliva al Campidoglio con la Vestale, che rappresentava la custodia continua del focolare di Roma. Orazio, collegando la sua fama a quella di Roma, la consacra all’eternità Aufidus: Ofanto, fiume principale dell’Apuania Daunus: mitico re che diede nome alla Daunia Aegrestium…populorum: costrutto simile a quello greco usato da Orazio per innalzare il livello espressivo Ex humili potens: più volte Orazio parla delle sue umili origini; qui il poeta si vanta di aver raggiunto una posizione di gran lunga superiore alla sua nascita Princeps: Orazio rivendica il fatto di essere stato il primo a usare metri lirici, anche se in realtà già i poeti neoterici e Catullo ne facevano uso. L’innovazione di Orazio consiste nel aver dato vita a un corpus unitario. Superbiam: termine inteso in senso positivo; orgoglio Meritis: il poeta, in segno di modestia, attribuisce il merito dei propri successi alla Musa ispiratrice anche se è tutto suo Delphica lauro: allora con cui si incoronavano i poeti


Melpomene: Musa della poesia lirica, qui invocata come Musa in generale

Traduzione letterale Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più elevato della regale mole delle piramidi, che non la pioggia divoratrice, non lo sfrenato Aquilone la possa distruggere né l’innumerevole serie degli anni e la fuga del tempo. Non morrò del tutto, e gran parte di me eviterà Libitina: continuamente io crescerò, sempre giovane nella gloria dei posteri, finché al Campidoglio salirà con la vergine silenziosa il pontefice. Si dirà che io, (nato) là dove impetuoso rumoreggia l’Ofanto e dove Dauno, povero d’acque, su popoli agresti regnò, da umile diventato illustre, per primo la poesia eolica nei ritmi italici trasferii. Assumiti l’orgoglio, conquistato coi tuoi meriti, e con alloro delfico cingimi volentieri, o Melpomene, la chioma.

Approfondimenti: • Metro di quest’ode: asclepiadeo minore Il termine asclepiadeo è utilizzato a designare due versi di natura isosillabica, chiamati rispettivamente asclepiadeo maggiore e asclepiadeo minore. Il richiamo al poeta greco Asclepiade vissuto nel III secolo a. C. è del tutto improprio, visto che sia l'asclepiadeo maggiore che l'asclepiadeo minore erano stati utilizzati già nel VII secolo a. C. da Saffo e da Alceo. Nell'ambito della poesia romana Catullo e Orazio con ogni probabilità utilizzarono, dell'Asclepiadeo maggiore, uno schema leggermente diverso: Catullo non considerava strutturali le due cesure, a differenza di Orazio che sembra trattarle come obbligatorie. Asclepiadeo maggiore catulliano ˉˉˉ˘˘ˉˉ˘˘ˉˉ˘˘ˉ˘ˉ

˘

Esempio


♫ Ālfēne īmmĕmŏr ātque ūnănĭmīs fālsĕ sŏdālĭbūs (Cat. XXX 1) Asclepiadeo maggiore oraziano ‖ ‖ ˘ ˉˉˉ˘˘ˉ ˉ˘˘ˉ ˉ˘˘ˉ˘ˉ

Esempio: ♫ Tū nē quaēsĭĕrīs, ‖ scīrĕ nĕfās, ‖ quēm mĭhĭ, quēm tĭbĭ (Hor. Carm. I 11, 1) Asclepiadeo minore ‖ ˘ ˉˉˉ˘˘ˉ ˉ˘˘ˉ˘ˉ

Esempio: ♫ Maēcēnās ătăvīs ‖ ēdĭtĕ rēgĭbūs (Hor. Carm. I 1, 1) • Il tema di quest’ode, l’immortalità che la poesia dona agli uomini, si ritrova anche in Catullo e Foscolo. Catullo: Carme 101, “Estremo addio al fratello” Componimento tra i più celebri e noti del Liber catulliano, il carme 101 affronta una tematica intima e privata: il dolore per la morte del fratello, di cui il poeta visita la tomba nella regione della Troade, in Asia Minore, mentre nel 57 a.C. Catullo, al seguito del politico Gaio Memmio, si sta recando in Bitinia. Il testo è costruito così su una doppia dimensione: da un lato, la ritualità funebre tradizionale, che avvicina il carme 101 al genere dell’epigramma, dall’altro la spiccata sensibilità del poeta che, pur consapevole dell’inevitabilità del destino, cerca un’ultima possibilità di contatto con il fratello. Catullo usa la poesia come consolazione per i vivi riguardo la morte: essa allevia il dolore dalle menti dei cari del defunto e garantisce un’eredità di affetti.

Testo latino

Traduzione

Multas per gentes et multa per aequora vectus advenio has miseras, frater, ad inferias, ut te postremo donarem munere mortis et mutam nequiquam alloquerer cinerem. Quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum. Heu miser indigne frater adempte mihi, nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum tradita sunt tristi munere ad inferias, accipe fraterno multum manantia fletu, atque in perpetuum, frater, ave atque vale.

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato, o fratello, e giungo a questa mesta cerimonia per consegnarti il funereo dono supremo e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito tè, proprio tè, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. ora queste offerte, che io porgo, come comanda l'antico rito degli avi, dono dolente per la


cerimonia, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Foscolo: I Sepolcri Scritti da Ugo Foscolo nel 1806 e pubblicati nella primavera del 1807 a Brescia, i Sepolcri furono composti a seguito di una conversazione avuta con Ippolito Pindemonte nel salotto veneziano di Isabella Teotochi Albrizzi, intorno al problema, allora molto sentito, della sepoltura dei morti. Il Pindemonte aveva difeso da un punto di vista affettivo-religioso l’istituzione delle sepolture, sostenendo che la moderna filosofia inducesse a ignorare il culto dei defunti. L’editto di Saint Cloud (1804) - che imponeva che le tumulazioni avvenissero fuori dal centro abitato e (soprattutto) che le lapidi dei “cittadini” fossero tutte identiche - era stato infatti esteso all’Italia, allora sotto il dominio napoleonico: un provvedimento che aveva dato avvio ad accesi dibattiti tra gli intellettuali del tempo. Foscolo aveva fatto valere, almeno inizialmente, una concezione materialistica, della non mancò di pentirsi. I Sepolcri si presentano pertanto come una ripresa puntuale di quella discussione. Alla base della teorizzazione del poeta, vi è l’idea che nel mondo in continuo divenire, soltanto il sentimento, la “corrispondenza d’amorosi sensi” (v. 30), sia in grado di garantire all’uomo l’immortalità, attraverso il ricordo dei suoi simili. Al nulla eterno, Foscolo contrappone un sistema di valori, illusioni, ideali, in grado di resistere all’azione corrosiva del tempo. Il sepolcro è non solo luogo di affetti, ma consente la trasmissione di un intero patrimonio umano, attraverso il culto dei più grandi eroi della Storia.

Testo originale, versi dal 23 al 40 Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l’illusion che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l’armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de’ suoi? Celeste è questa

Parafrasi Ma perché l’uomo dovrebbe privarsi prima del tempo dell’illusione che, una volta morto, tuttavia gli fa credere di essere ancora fermo sulla soglia di Dite? Forse non continua a vivere anche dopo la morte, quando non gli trasmetterà più nulla l’armonia del giorno,


corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall’insultar de’ nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,

se può destare tale armonia nella mente dei suoi con un dolce moto di pietà? Divina è questa corrispondenza di sentimenti, è dono divino per gli uomini; e spesso grazie ad esso si continua a vivere in compagnia dell’amico defunto e il defunto con noi, se la pietosa terra che lo accolse neonato e che lo ha nutrito,

e di fiori odorata arbore amica

porgendo l’estremo asilo nel suo grembo materno,

le ceneri di molli ombre consoli.

renda inviolabili quelle reliquie dall’oltraggio degli agenti atmosferici e dal piede profanatore del volgo, e una lapide ne conservi il nome, e un albero amico e profumato di fiori consoli le ceneri con le sue carezzevoli ombre.


Lavinia Frediani

Libro I, 4 – IL TEMPO E LA MORTE

L’ode ha una collocazione significativa nella raccolta: è quarta dopo le prime tre dedicate alle persone che sono più care al poeta Mecenate, Augusto e Virgilio. Questa è dedicata a Lucio Sestio Quirinio, repubblicano seguace di Bruto; non venne tuttavia per questo discriminato da Augusto, che non ne ostacolò la carriera politica, fino al consolato del 23 a.C. Il carme si articola in tre blocchi principali: Il primo (vv. 1-8) racconta del ritorno della primavera, segnato dallo sciogliersi della neve e del vento Favonio, mettendo a confronto la staticità e il sentimento di pigrizia che suscita l’inverno con la vitalità e l’azione tonificante della primavera, che condiziona positivamente non solo la vita dell’agrator ma anche quella degli dei, che sembrano rinascere da uno stato di letargo insieme alla natura. La ciclicità della natura è in contrapposizione con la linearità della vita umana. il secondo (vv. 9-12) trasferisce tale ritorno alla vita dei sensi e al contatto con la natura che rinasce dopo che le terre si sono finalmente liberate dal gelo invernale. Il terzo (vv. 13-20) insiste sull’inevitabile presenza della morte nella vita degli uomini e sul fatto che essa colpisca tutti senza eccezioni. Orazio si rivolge poi a Sestio , il quale gode ancora della stagione della giovinezza, autentica condizione di beatitudine. Esorta quindi a cogliere l’attimo perché la condizione di beatitudine è inevitabilmente breve e l’uomo equilibrato deve saper cogliere le occasioni che la vita gli offre. Non si tratta di un semplice invito al godimento, come viene spesso inteso il messaggio epicureo, ma piuttosto di un’esortazione a mettere a frutto qualità e opportunità che la vita concede. L’arrivo della primavera è un motivo ricorrente nella lirica di tutte le epoche. Molti poeti hanno stabilito paragoni fra la primavera che torna e il risveglio della natura. Orazio non sfugge, almeno in parte, a questo repertorio, anche se la struttura di questo carme si regge sul motivo del contrasto tra l’uomo e le cose piuttosto che su una loro somiglianza. Le due divergenze principali sono che - Alla gioiosa venuta della primavera si oppone il senso malinconico dello scorrere del tempo - Alla presenza incombente della morte si oppone l’occasione pienamente vitale del banchetto e quella sensuale dell’amore efebico, giovanile.



TRADUZIONE

PAROLE CHIAVE

Scioglie l’inverno aspro nel gradito ritorno della primavera e del Favonio e gli argani trascinano le carene asciutte (in mare) e il bestiame non gode più delle stalle o l’aratore del fuoco e i prati non biancheggiano delle candide brine.

- Solvitur: indica lo sciogliersi delle nevi. - Favoni: vento che annuncia l’arrivo della primavera - siccas carinas: gli scafi delle imbarcazioni erano asciutti perché la navigazione cessava durante l’inverno - stalibus e igni: la primavera segna la fine della vita pigra degli animali nelle stalle e dei contadini davanti al fuoco

5 Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna, / iunctaeque Nymphis Gratiae decentes / alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum / Volcanus ardens visit officinas. /

Già Venere Citerea conduce le danze al chiaro di luna e le Grazie leggiadre congiunte alle Ninfe scuotono la terra con piede alterno, mentre l’infocato Vulcano visita le officine soffocanti dei Ciclopi

- Cytherea: appellativo della dea Venere.proviene dal nome delle isole a lei consacrate. - Choros: le danze evidenziano la vitalità della primavera che influenza anche la vita degli dei. - Vulcanus: contrasto contemporaneo fra le danze al chiaro di luna e il lavoro nelle officine infuocate.

Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto / 10aut flore, terrae quem ferunt solutae;/ nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis, / seu poscat agna sive malit haedo. /

Ora conviene cingere il capo rilucente con un verde mirto o con ghirlande, che producono le terre libere (dal gelo), ora conviene anche nei boschi ombrosi sacrificare al Fauno, sia che richieda agnelli sia che preferisca un capretto.

- Nunc: l’avverbio riprende i riferimenti allo scorrere del tempo e allude all’occasione che deve essere colta - myrto e flore: indicano la rinascita della natura -Fauno: divinità italica protettrice dei campi

Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas / regumque turris. 15 O beate Sesti, / vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam. /

La pallida Morte bussa con piede imparziale ai tuguri dei poveri e alle torri dei re. O beato Sestio, il breve scorrere della vita ci impedisce di concepire una lunga speranza

- pulsat: intensivo di pellere, esprime il sopraggiungere inesorabile della morte. - tabernas e turris la morte non fa distinzioni né per poveri né per i ricchi. - Sesti: Lucio Sestio Quirino, repubblicano seguace di Bruto. - Vitae summa brevis: il rammarico per la brevità della vita è ancora più forte di frnte alla natura che rinasce. richiamo al carpe diem

Iam te premet nox fabulaeque Manes / et domus exilis Plutonia, quo simul mearis,/ nec regna vini sortiere talis / nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus / 20nunc omnis et mox virgines tepebunt.

Ben presto peserà su di te la notte eterna e i Mani del mito e la casa incorporea di Plutone; dove una volta che sarai entrato, né potrai tirare coi dadi il titolo di re del simposio né potrai ammirare il tenero Licida, per il quale arde la gioventù tutta ora e presto sospireranno le fanciulle.

- Iam: altro avverbio che indica lo scorrere del tempo - sortiere: usanza romana di eleggere un rex convivii, che stabiliva le regole del banchetto. - Lycidan mirabere: riferimento all’amore di natura omosessuale diventa un’occasione di emulazione della poesia erotica greca. - (iuventus) calet e (virgines) tepebunt: verbi posti in contrapposizione: il primo indica un amore passionale, il secondo pudico e casto delle fanciulle.

TESTO Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni, / trahuntque siccas machinae carinas, / ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni, / nec prata canis albicant pruinis./



__________________________________________________________________________________ALBONICO

ODE 10, LIBRO II, Orazio Aurea Mediocritas


TESTO

TRADUZIONE

OSSERVAZIONI

Rectius vives, Licini, neque altum semper urgendo neque, dum procellas cautus horrescis, nimium premendo litus iniquum.

O Licinio, vivrai meglio, non spingendoti sempre in alto mare né, mentre cauto temi le tempeste, rasentando troppo la spiaggia insidiosa.

-il paragone uomo-marinaio e vita-mare richiama i versi del poeta epicureo Lucrezio; - rectius, in apertura di verso e componimento  capacità di stare diritto, propria di chi non è troppo in alto; valore metaforico  rectus cursus è una locuzione che si usava per descrivere la rotta delle navi. - costruzione simmetrica dei gerundi modali accompagnati da un avverbio negativo.

auream quisquis mediocritatem diligit, tutus caret obsoleti sordibus tecti, caret invidenda sobrius aula.

Chiunque prediliga quell’aurea via di mezzo, al sicuro, sta lontano dallo squallore di un tugurio cadente; moderato, sta lontano da una reggia che suscita invidia

-tutus e sobrius  serenità e moderazione proprie di chiunque ricerchi la condizione di medietà - auream... mediocritatem si estende per tutto il verso grazie all’iperbato ed in esso vengono accostati due termini antitetici, uno molto positivo e l’altro di solito negativo, quindi si crea un effetto di medietà anche nel significato

saepius ventis agitatur ingens pinus et celsae graviore casu decidunt turres feriuntque summos fulgura montis.

Un alto pino è molto spesso scosso dai venti e le alte torri cadono con crollo alquanto rovinoso e i fulmini colpiscono le cime dei monti.

- tre proposizioni coordinate per polisindeto, ciascuna contiene un’immagine; la prima e la terza sono tratte dal mondo naturale mentre la seconda proviene da quello antropico. - Nei primi due versi vi è un forte enjambement tra l’aggettivo ingens ed il sostantivo pinus  valore enfatico - climax ingens, celsae, summos

sperat infestis, metuit secundis alteram sortem bene praeparatum pectus: informis hiemes reducit Iuppiter, idem

Un animo ben temprato nell’avversa fortuna si augura, nella buona teme un destino diverso. Orribili tempeste scatena su di noi Giove, lui stesso le allontana

-chi sceglie l’aurea mediocritas mostra sempre un animo saldo ed equilibrato, non si esalta nella buona sorte e non si abbatte nella cattiva -estremo contrasto sperat-metuit, infestissecudis, l’atteggiamento di aurea mediocritas è esattamente in mezzo fra le situazioni opposte -unica strofe che non si conclude con conclusione del periodo, interrotto bruscamente dall’enjambement; il periodo rimane comunque connesso grazie a idem, riferito a Iuppiter e soggetto di submovet. -iperbato: sperat-pectus.

submovet; non, si male nunc, et olim sic erit: quondam cithara tacentem suscitat Musam neque semper arcum tendit Apollo.

Se ora va male, non sarà così anche in futuro: a volte Apollo con la cetra risveglia la Musa che tace e non sempre tende l’arco.

-stesso impianto della strofa precedente: riferimento reale seguito da immagine mitica esplicativa; -immagine mitologica serve a dare solennità alla poesia, come anche gli arcaismi (informis invece che informes nella strofe precedente) e i termini squisitamente poetici (quondam invece che interdum) - ridondanza di avverbi di tempo, uno per ogni verbo; quasi tutti sono indeterminati, per sottolineare l’imprevedibilità della sorte


COMMENTO E ANALISI DELL’ODE: La decima ode del secondo libro è scritta secondo il metro della strofe saffica ed è di carattere gnomico. Questa composizione è dedicata all’amico Licinio, probabilmente Lucio Licinio Morena, cognato di Mecenate e console nel 23 a.C., a cui il poeta suggerisce, nella prima strofa, di non spingersi troppo in mare aperto né tenersi troppo vicino alla riva, considerando il mare come metafora della vita; in questa prima strofe è contenuto il concetto centrale dell’ode, espresso attraverso alcune metafore: l’uomo che vuole vivere secondo virtù è paragonato ad un marinaio che deve condurre sana e salva in porto la sua nave; entrambi questi impegni sono difficili, comportano sforzi e necessitano di competenze per essere perseguiti; le immagini dell’alto mare, delle tempeste e della costa insidiosa servono a provare che l’eccesso è sempre da evitare: sia la troppa audacia sia la troppa cautela sono pericolose, quindi si deve assumere una condotta mediana ed equilibrata, in mare come nella vita; non è, però, la prima volta che viene utilizzata questa associazione, il poeta Lucrezio, epicureo come Orazio, ne aveva già fatto uso nel suo De Rerum Natura. Nella seconda strofa la metafora viene sciolta: chi sceglie di vivere tenendo conto dell’aurea mediocritas, il giusto mezzo, non ha nulla da temere, poiché sicuro e sobrio davanti alla miseria, ma anche davanti alla ricchezza. I due aggettivi tutus e sobrius, predicativi del soggetto, esprimono la serenità e la moderazione proprie di chiunque ricerchi questa condizione di medietà; come immagine esteriore di questa condizione Orazio sceglie la casa, che non sarà mai né un tugurio cadente né un sontuoso palazzo. In queste prime due strofe il poeta, per descrivere questa condizione positiva, delinea il quadro negativo come esempio da evitare: nella prima esorta a non compiere due azioni, nella seconda dichiara di cosa sarà privo chi sceglierà l’aurea mediocritas, e colloca il verbo caret («mancare», « essere lontano ») nella stessa posizione metrica, subito dopo la cesura, nei due versi consecutivi centrali; ribadisce dunque l’invito ad evitare gli eccessi, ma insiste maggiormente sui vantaggi che ne derivano a chi fa suo quest’invito. La terza strofe è incentrata sui rischi che comporta l’essere troppo in alto: il poeta ne sottolinea il numero e l’entità, che aumentano al crescere dell’altezza, con diverse immagini, e forse non a caso quest’argomento occupa interamente una delle strofe centrali del componimento. Le immagini servono a illustrare, attraverso esempi desunti dalla natura,gli svantaggi di una condizione elevata. (pino alto  più vento, torri alte  più volte colpite dai fulmini, chi sta troppo in alto  molto esposto ai colpi della cattiva sorte). Il primo periodo della quarta strofe è una breve ed efficace descrizione dell’atteggiamento di chi sceglie l’aurea mediocritas nei confronti della sorte: mostra sempre un animo saldo ed equilibrato, non si esalta nella buona sorte e non si abbatte nella cattiva; sua caratteristica fissa e propria è dunque la capacità di opporre resistenza(paratum pectus); i due predicati sperat e metuit sono due azioni contrapposte che contengono entrambe la volontà di non inclinarsi e lasciarsi trasportare dove sospinge il vento della sorte. Il secondo periodo contiene la figura di Giove; è l’unico dell’ode che non si conclude alla fine della strofe, ma il predicato di idem, summovet, si trova in apertura della quinta; vi è quindi un enjambement tra i due versi ed una pausa marcata dalla virgola in una posizione insolita, ed idem sembra stabilire un forte legame tra le due coordinate per asindeto. Orazio vuole far soffermare sulla figura di Giove, che secondo la tradizione mitica scaglia fulmini e tempeste a suo capriccio ed in modo imprevedibile, ed incarna perciò l’incostanza e la mutevolezza della sorte, alla quale nessuno può sottrarsi e cui solo chi persevera nell’aurea mediocritas, grazie alla sua natura prima descritta, non si arrende e non soccombe. La quinta strofe ha il medesimo impianto concettuale della precedente: un’affermazione di carattere generale ed un’immagine esplicativa tratta dal mito. Apollo è dio dolce e terribile ed alterna liberamente gli atteggiamenti, la sua incostanza è la stessa della sorte; ma qui l’elemento comune delle due immagini è anche il risveglio, la possibilità di un cambiamento in positivo, nel dio come nella sorte. L’immagine mitologica tra le sue funzioni ha anche quella di dare solennità alla poesia, e appaiono anche in queste due strofe i segni di un linguaggio elevato: l’arcaismo (informis per informes), i termini esclusivamente poetici (quondam equivale ad interdum usato nella prosa). Si nota nella quinta strofe l’abbondanza di avverbi di tempo (nunc, olim, quondam, non semper), uno per ogni verbo; eccetto nunc non sono ben determinati, e quindi sottolineano ancora il fatto che ad ogni istante sono possibili cambiamenti anche inattesi.


In quest’ultima strofe abbiamo una sintesi dei due temi principali dell’ode: diffidare dall’eccessiva altezza ed essere sempre in grado di porsi di fronte alla sorte in modo adeguato; le esortazioni conclusive sono le più intense perché compare per la prima volta l’imperativo e perchè l’autore passa all’affermazione, senza più ricorrere a termini negativi. Ritornano in questi ultimi versi sia i concetti sia le metafore dell’uomo come marinaio e della sua condotta come nave, presenti nella prima strofe; per tale motivo l’ode ha struttura circolare o ad anello. La sapientia a cui qui si allude è la sofrosùne, l’assennatezza nelle decisioni, altra caratteristica di chi predilige l’aurea mediocritas.

Sormani

“AMORE RITORNA” DI ORAZIO LIBRO III, ODE 9

RIASSUNTO: L'ode è un contrasto amoroso tra Orazio e Lidia, una volta amanti, ora legati da nuovi vincoli affettivi, e pur tra ripicche, finta indifferenza e nuovi amori, scoprono di volersi ancora bene:Orazio e Lidia, dopo essersi lasciati, si incontrano di nuovo. Il poeta ricorda alla donna quanto era felice al tempo del loro amore e Lidia stessa non può non condividere la nostalgia di Orazio. Quindi, l’uno e l’altra si raccontano i loro amori attuali e, anzi, Lidia si sforza di dirsi più felice di quanto in realtà non sia. Ma, benché Orazio sia pronto a morire per la bella Cloe, e Lidia a morire addirittura due volte per il bel Calais, la verità è che entrambi, Orazio e Lidia, si amano ancora come in passato. Infatti, basta che il poeta proponga una riconciliazione, perché Lidia accetti immediatamente.

STRUTTURA: Il modello può essere quello del canto amebèo ( "a botta e risposta"), attestato da un frammento di Saffo, da alcuni epigrammi della Anthologia Palatina, dall'idillo V di Teocrito e da alcune Ecloghe di Virgilio. Il contrasto come forma poetica avrà grande importanza nella letteratura romanza. Esempi molto famosi li possiamo trovare nell'opera di: Cielo D'Alcamo, Iacopone da Todi e anche in qualche sonetto di Dante e Cecco Angiolieri. Già grandi latinisti come Pasquali e La Penna, hanno ribadito l'originalità della poesia, che presuppone un'umanità più profonda del semplice gioco galante. Possiamo notare che il canto è costruito con un'inaspettata simmetria e con un'architettura armoniosa tipica del classicismo. LE ODI AMOROSE DI ORAZIO: Per quanto riguarda la tematica amorosa, per alcuni aspetti, Orazio si rifà alla poesia d’amore alessandrina e neoterica. L’amore viene trattato da Orazio senza passione, ma vi è nella tematica il ricordo della passione descritto con nostalgia e ironia. Orazio si basa perciò sull’ideale di moderazione e di autàrkeia. In questo modo Orazio guarda l’amore come una persona che se ne sia distaccata, perché secondo lui l’amore è simbolo della giovinezza ed è nella descrizione dell’amore giovanile che troviamo le descrizioni più delicate e tenere: l’amore è un gioco. La figura della donna non appare reale ma sempre sfuggente e sempre come simbolo dell’adolescenza


innocente e nello stesso tempo pudica oppure in alcune odi descrive il fascino della bellezza femminile. Considera l’amore come una delle gioie della vita terrena concesse all’uomo.

1 Donec gratus eram tibi necquisquam potior bracchia candidae cervici iuvenis dabat, Persarum vigui rege beatior.

Finché ti piacevo, e nessun giovane più fortunato gettava le braccia intorno al tuo collo candido, vissi più felice del re dei persiani.

5 Donec non alia magis arsisti, nequeerat Lydia post Chloen, multi Lydia nominis Romana vigui clarior Ilia.

Finché non ardesti di più per un'altra e non c'era Lidia dopo Cloe, io Lidia di molta fama brillai di più di Ilia romana.

9 Me nunc Thressa Chloe regit, dulces docta modos et citharae sciens, pro qua non metuam mori, si parcent animae fata supersiti.

Ora mi regge la Tracia Cloe che sa dolci melodie e sa suonare la cetra, per quella temerei di morire, se i fati la risparmieranno, lei che la mia amata.

13 Me torret face mutua Thurini Calais filius Ornyti, pro quo bis patiar mori, si parcent puero fata supersiti.

Mi brucia di fuoco corrisposto Clais, figlio di Ornito da Turi, per il quale sopporterei due volte di morire, se i fati risparmieranno il ragazzo.

17 Quid si prisca redit Venus diductosque iugo cogit aeneo, si flava excutiturChloe reiectaequepatetianuaLydiae?

E se ritorna l'antico amore i due amanti sono separati sotto il bronzeo giogo, se la bionda Cloe è scossa via, mi apre la porta Lidia lasciata?

21 Quamquam sidere pulchrior ille est, tu levior cortice et improbo iracundior Hadria, tecum vivere amem, tecum obeam libens.

Anche se quello è più bello delle stelle, tu sei più lieve della corteccia del sughero e più violentodell'agitato Adriatico, con te amerei vivere, con te volentieri morirei.


METRICA: SISTEMA ASCLEPIADEO QUARTO Si tratta di un sistema costituito da distici (una coppia di versi), costituiti da un gliconeo e da un asclepiadeo minore. Il gliconeo è composto da una base libera iniziale, seguita da un dattilo e da una dipodia trocaica (il secondo piede è costituito solo da una sillaba accentata): non ha una vera e propria cesura.

TEMATICHE: Qui vediamo un Orazio abbastanza controllato; in lui prevale l'aspirazione per l'autàrkeia di provenienza epicurea. L'ideale da perseguire è il controllo delle passioni e non la sospensione del sentimento. Compare con più forza nell'ode, perciò, la gelosia: tra le tante amanti, Lidia ha lasciato un segno molto evidente. Nel nostro poeta vi è pure la rabbia che qualcuno abbia posto le braccia attorno al collo della sua amata. Ognuno tende a rimarcare, come in una sfida, le qualità del proprio amante e a sottolineare la devozione che ha per lui, ma alla fine entrambi cedono. Solo dopo aver fatto alcune esperienze di vita, i due amanti riscoprono un amore davvero puro, rinunciando alla passione del momento, per rivisitare il loro vecchio legame. Ed è così che alla fine essi si promettono amore e fedeltà fino alla morte: si tratta di un foedus, un legame duraturo (in ultima analisi, una rivisitazione del foedus catulliano) nel quale la fedeltà e il rispetto reciproco sono alla base del rapporto sentimentale. Baffa


Carme 5, libro I “A Pirra”

Quis multa gracilis te puer in rosa perfusus liquidis urget odoribus grato, Pyrrha, sub antro? cui flavam religas comam simplex munditiis? heu quotiens fidem mutatosque deos flebit et aspera nigris aequora ventis emirabitur insolens, qui nunc te fruitur credulus aurea, qui semper vacuam, semper amabilem sperat, nescius aurae fallacis. Miseri, quibus intemptata nites: me tabula sacer votiva paries indicat uvida suspendisse potenti vestimenta maris deo.

Chi è il ragazzo snello che tra petali di rosa, cosparso di profumi raffinati, ti vuol prendere Pirra, nella grotta accogliente? Per chi leghi all’indietro la chioma bionda con semplice eleganza? Oh quante volte piangerà la promessa e la mutata volontà divina, ed inesperto guarderà stupito il mare gonfio per i venti neri, lui che ora gode illuso il tuo splendore, lui che ti spera disponibile sempre e dolce sempre, e non conosce l’incertezza del vento. Sono infelici quelli per i quali sei splendida e intoccabile: io, lo testimonia il voto appeso alla parete sacra del tempio, ho offerto ormai le vesti del naufragio al potente dio del mare.

Riassunto Il carme, prima lirica d’amore di tutte le odi, è dedicato a una donna, Pirra, un tempo molto amata dal poeta, ma ora disprezzata e ripudiata da lui stesso per i suoi continui tradimenti. In questi versi Orazio la descrive intenta ad adornarsi per un suo nuovo amore, un giovinetto, per cui egli prova una certa amarezza, ingenuo e ignaro della volubilità, dell’infedeltà e della perfidia della donna, e compara quest’ultima all’incostanza della natura. Tematiche Numerose sono le tematiche che si affacciano in quest’ode: la mutevolezza dell’anima femminile, spesso imprevedibile, e l’illusione dell’amore, rappresentato dell’egoismo della fanciulla, che costituisce un pericolo per il giovane innamorato di lei. Il poeta ricorre alla metafora del mare per indicare l’avventura amorosa: il mare appare bello e invitante quando calmo, ma si tratta di una tranquillità apparente, perché non appena inizia a incresparsi in pochissimo tempo si scatenerà una tempesta. Tra i naufraghi si identificano tutti quegli amanti che si sono persi nella passione per Pirra. Lo stesso Orazio, come mostra l’ultimo verso, si dichiara di essere stato


sull’orlo del naufragio; e perciò, dopo aver constatato in tempo la falsità della donna, è felice di essere immune da esso. Espressioni particolari La struttura generale della poesia è chiastica: la prima e l’ultima strofa, infatti, riguardano la presenza rispettivamente di Pirra e del poeta, ciascuno nella propria solitudine, mentre la seconda e la terza sono riservate alle considerazioni di Orazio sull’amore e sulla sua crudeltà. La bellezza di Pirra è subito riscontrabile nella descrizione dei suoi capelli, (v. 4) con “flavam comam”, con l’accostamento tra oro e bellezza nella parola “aurea” (v. 9), e in seguito in un’altra espressione quale “intemptata nites” (v. 13), letteralmente “coloro ai quali splendi pura, inviolabile”. Contrapposti a quelli concernenti Pirra, gracilis, insolens, credulus, nescius, emirabitur, sono tutti termini che concorrono a delineare la figura del giovane amante come una persona pronta a farsi ferire, imprudente, incantata tanto da non capire la sofferenza a cui sta per andare incontro. Ai versi 6-7 “aspera nigris aequora ventis”, descrivono in ogni senso la bufera. Il messaggio Il messaggio dell’ode si slega per tutto il poema ed è onnipresente: l’incostanza dall’animo femminile è la tempesta che causa l’incresparsi del mare dell’avventura amorosa, e tutti gli amanti saranno naufraghi, se non sapranno far fronte a questo ostacolo, come invece mostra di aver fatto Orazio. La prudenza lo ha fatto fermare in tempo, prima che la passione potesse offuscargli tanto la mente da togliergli ogni capacità di staccarsi. Ora si sente come un naufrago che si è salvato. A sostegno di questa tesi, si può notare l’antitesi (v. 12-13) dei termini “Miseri”, che indica la condizione degli innamorati passati e futuri, e “me”, per indicare che ormai Orazio non appartiene più a questa schiera. L’espressione “suspendisse uvida vestimenta maris” ci dice che comunque egli ha conosciuto bene la tempesta, è caduto nel mare ed è stato molto vicino al naufragio. Orazio appende nel tempio di Nettuno un ex voto per la grazia ricevuta. Ora si sente felice, libero nella sua condizione atarassica.

NAVA

Orazio- 1 22 Latino Integer vitae scelerisque purus non eget Mauris iaculis neque arcu nec venenatis gravida sagittis, Fusce, pharetra, 5 sive per Syrtis iter aestuosas sive facturus per inhospitalem Caucasum vel quae loca fabulosus lambit Hydaspes. Namque me silva lupus in Sabina, 10 dum meam canto Lalagem et ultra


terminum curis vagor expeditis, fugit inermem; quale portentum neque militaris Daunias latis alit aesculetis. 15 Nec Iubae tellus generat, leonum arida nutrix. Pone me pigris ubi nulla campis arbor aestiva recreatur aura, quod latus mundi nebulae malusque 20 Iuppiter urget; pone sub curru nimium propinqui solis in terra domibus negata: dulce ridentem Lalagem amabo, dulce loquentem.

Italiano Chi è integro di vita e puro di colpe Non ha bisogno di strali dei Mauri né dell’arco né della faretra colma di frecce avvelenate, o Fusco, sia che stia per viaggiare tra le Sirti infuocate o attraverso l’inospitale Caucaso o nei luoghi che lambisce il favoloso Idaspe. E infatti un lupo nel bosco sabino, mentre canto la mia Lalage e oltre il confine vago libero da preoccupazioni, fugge me inerme; un mostro quale né la bellicosa Daunia nutre nei suoi vasti querceti né la terra di Giuba genera, arida nutrice di leoni. Mettimi in campi sterili dove nessun albero è ristorato dall’aria estiva, in quella parte del mondo che le nebbie e il cattivo Giove opprimono; mettimi sotto il carro del sole troppo vicino nella terra negata alle case: amerò Lalage che ride dolcemente, che parla dolcemente.


L’ode appare come un invito a condurre la propria esistenza in modo puro, senza cadere negli errori che spesso si possono commettere. Chi vive semplicemente saprà affrontare nella giusta ottica ogni situazione. Ciò è sottolineato al v. 1 con il chiasmo “integer vitae scelerisque purus”: chi ha la coscienza pura non è attaccabile né dalle armi (sono evocati iaculis e arcu, due termini in allitterazione, al verso 2, e all’arco è accostata la faretra ai versi 3-4) né dalla mala sorte, il che è dimostrato dall’avventura che capita al poeta in Sabinia. Orazio, infatti, racconta d’essere sfuggito ad un lupo, che gli si è presentato davanti durante una passeggiata nei dintorni del suo podere in Sabinia: chi l’ha salvato è, più ancora che la potenza del suo amore (stava infatti pensando alla sua Lalage), il fatto di essere stato senza ansie, privo di preoccupazioni, con l’animo leggero, seppure completamente disarmato. Tra i versi 9-10 c’è un’allitterazione del suono /l/ tra le parole lupus e Lalagen, cioè i due estremi dell’aneddoto: il massimo del male con tutto ciò che esso ha di minaccioso e il massimo del bene con tutto ciò che essa ha di meraviglioso. Il poeta rimane illeso in virtù della passione per la fanciulla e per il canto che le dedica, cioè grazie alla propria Musa e alla poesia. È questa scelta di vita che rende possibile tollerare tutto, così come afferma nelle ultime due strofe. Tutto è infatti possibile per via della sua donna che lo ama in modo sincero. Il suo affetto nei confronti di quest’ultima si può capire dall’anafora ai versi 23-24 (dulce…/ dulce). ai versi. 5-8 sono evocate le Sirti con nessi allitteranti (per Syrtes iter aestuosas, v. 5), il Caucaso (inhospitalem/ Caucasum, versi. 6-7) e l’Idaspe (fabulosus… Hydaspes, versi. 7-8), ciascuno accompagnato da un aggettivo che ora appare disposto chiasticamente, ora in parallelismo. A questi luoghi impervii e mitici il poeta oppone la “sua” Sabina (silva… in Sabina, v. 9). Ma, in finale, egli spiega chiaramente che la sua tranquillità non dipende dal contesto in cui si muove, ma dall’amore che lo guida: il destino potrà pure farlo finire nei luoghi più torridi come in quelli più glaciali, ma mai potrà cambiare il suo atteggiamento nei confronti della vita. Le ultime due strofe, appunto, sono costruite su quest’antitesi, risolta più a favore del deserto ai versi 21-24, immagine con cui si chiude la poesia.

ABATE

Liber I, carmen 7

“A Tivoli” Testo Latino

Traduzione


Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen aut Ephesum bimaris Corinthi moenia vel Baccho Thebas vel Apolline Delphos insignis aut Thessala Tempe; sunt quibus unum opus est intactae Palladis urbem carmine perpetuo celebrare et undique decerptam fronti praeponere olivam; plurimus in Iunonis honorem aptum dicet equis Argos ditesque Mycenas:

Altri loderanno la famosa Rodi o Mitilene Efeso o le mura di Corinto dai due mari Tebe famosa per Bacco o Delfi per Apollo la tessala Tempe; ci sono quelli ai quali è unica fatica la città di Pallade vergine celebrare con un poema eterno e mettere sulla fronte olivo strappato da ogni parte, moltissimi in onore di Giunone celebreranno Argo adatta ai cavalli e la ricca Micene:

me nec tam patiens Lacedaemon nec tam Larisae percussit campus opimae quam domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda mobilibus pomaria rivis.

me non Sparta forte né il campo della ricca Larissa mi colpì tanto quanto la grotta di Albunea risonante e l’Aniene precipite e il bosco di Tiburno e gli umidi frutteti con i ruscelli fluenti.

Albus ut obscuro deterget nubila caelo saepe Notus neque parturit imbris perpetuo, sic tu sapiens finire memento tristitiam vitaeque labores molli, Plance, mero, seu te fulgentia signis castra tenent seu densa tenebit Tiburis umbra tui.

Il rasserenante Noto spazzerà le nuvole dall’oscuro cielo spesso e non provoca piogge eterne, così tu saggio ricordati di porre fine alla tristezza e alle fatiche della vita con il delicato vino, o Planco, sia che gli accampamenti scintillanti di insegne ti trattengano sia che ti tratterrà la densa ombra della tua Tivoli. Teucer Salamina patremque Quando Teucro da Salamina e dal padre cum fugeret, tamen uda Lyaeo fuggiva, tuttavia le tempie bagnate di Lieo tempora populea fertur vinxisse corona, (vino) sic tristis affatus amicos: “Quo nos cumque feret si dice che le abbia cinte con una corona di melior fortuna parente, pioppo ibimus, o socii comitesque. così rivolgendosi ai mesti amici: Nil desperandum Teucro duce et auspice “Dovunque ci porterà la fortuna migliore del Teucro: genitore, certus enim promisit Apollo. andremo – o compagni e amici, ambiguam tellure nova Salamina futuram. non bisogna disperare sotto la guida di Teucro e sotto i suoi auspici: Apollo infallibile ha promesso infatti che una doppia Salamina sorgerà in una nuova terra. O fortes peioraque passi mecum saepe viri, nunc vino pellite curas; cras ingens iterabimus aequor.”

Analisi

O coraggiosi uomini che avete sofferto i mali peggiori con me spesso, ora scacciate le preoccupazioni col vino, domani solcheremo ancora il grande mare”.


Nei primi versi (1-9) Orazio esordisce con la figura retorica del Priamel (praeambolum), ovvero elenca città che serviranno nei versi successivi come termine di paragone; questa tecnica era già stata utilizzata da Pindaro e Saffo. I nomi delle città greche elencate sono declinate con l’accusativo proprio della declinazione greca. Atene (v. 5) viene definita “città di Pallade vergine” (vergine=intactae). Il poeta utilizza la rarissima figura retorica del “pluralia tantum” al verso 8 (“plurimus”) “…tam… …quam…” (v. 11) introducono i termini di paragone. “Albus ut…” (v. 15) in questo periodo è presente una anastrofe, ovvero l’ordine delle parole è invertito. “Imbris” (v. 16) presenta la desinenza arcaica –is (dovrebbe essere “imbres”) Sono presenti alcune endiadi nella parte finale dell’ode.

Commento

Orazio nei primi versi critica i poeti suoi contemporanei che nelle loro poesie cercavano di descrivere i luoghi attraverso la mera elencazione delle loro caratteristiche e definisce le loro opere “poemi eterni”. Questa ode è dedicata a Planco che compare nel testo attraverso un vocativo. Planco era originario di Tivoli. Tivoli viene descritta come un “locus amoenus”, in particolare sono messe in risalto le sue bellezze naturali, la sua tranquillità e l’abbondanza di acqua. Planco è esortato a lasciare Roma e le preoccupazioni (era un politico) che la grande città comporta e a ritornare alla tranquillità della sua terra. In questo passaggio traspare chiaramente l’insegnamento epicureo. Nell’ultima parte dell’ode Orazio cita un episodio mitico che viene inserito all’improvviso nella poesia e si sviluppa per 12 versi. Il mito riportato illustra la necessità di liberarsi dalle preoccupazioni e partire senza ripensare al passato.


Sara Moioli LEUCONOE (libro 1, ode 11) L'ode contiene la formula del carpe diem. Viene trattato il tema dello scorrere del tempo e delle relative difese che l'uomo appresta per proteggersi dall'angoscia del futuro. Leuconoe rappresenta una donna preoccupata del futuro, pronta a credere nelle profezie e facile preda dell'astronomia. Il poeta esorta a trascurare il gruppo dei seguaci dell'astrologia, per appropriarsi dell'unica forma di saggezza dell'uomo: saper apprezzare e godere pienamente il presente. LE TEMATICHE Desiderio di conoscenza del futuro: il personaggio di Leuconoe è caratterizzato dal persistente desiderio di conoscere il domani. Orazio sostiene che non conviene andare oltre nella conoscenza del futuro, altrimenti l'uomo sarà punito, non tanto dagli dei, quanto dall'impossibilità di vivere il presente, una volta che sia svelato il domani. Cogliere il presente come dono prezioso: l'espressione carpe diem è una delle più famose del lessico oraziano. Occorre sfruttare tutte le occasioni nella breve giornata della vita, che, già rare, vengono portate via dal tempo che scorre inesorabile. Il poeta invita la donna, Leuconoe, a occuparsi dei piccoli gesti quotidiani, recidere ogni speranza troppo prolungata nel futuro e di conseguenza "staccare" il dies, il tempo vissuto, dall'aetas, la totalità del tempo che non ci appartiene, su cui non abbiamo alcun potere. Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios

-Anafora (quem…quem), iperbato (quem…finem). -Allitterazione della “d”. -Mihi…tibi in antitesi, ma vicini ad indicare l’impressione di vicinanza amorosa - Il vocabolo finem sottintende probabilmente vitae. Questo spiega quanto Leuconoe sia desiderosa di conoscere il futuro.

temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati,

-Ut che introduce un’esclamativa e Orazio allude alla sensibilità epicurea: accettare qualunque cosa incontriamo nel corso della nostra vita.

seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis delibitat pumicibus mare

-Pluris hiemes: indica l’ambientazione invernale dell’ode, ma soprattutto allude agli anni che il poeta si augura ancora di vivere.

Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida

-L’aggetivo brevi è contrapposizione con l’aggettivo longam. Riassume lo stato d’animo del poeta che cerca di persuadere la donna a vivere il presente. -Sapias, liques e reseces sono congiuntivi esortativi. -Spem longam reseces è una metafora

aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

-Aetas indica il tempo continuato, una durata che appartiene più alle stagioni che all’uomo. -Carpe diem si riferisce al presente che va colto in ogni minimo dettaglio.

TRADUZIONE: Non chiedere, Leuconoe, è illecito saperlo,qual fine abbiano a te e a me assegnato gli dei, e non scrutare gli oroscopi babilonesi. Quant’è meglio accettare quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni,


oppure ultimo quello che affatica il mar Tirreno contro gli scogli, sii saggia, filtra vini, tronca lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso tempo. Afferra l’oggi: credi al domani quanto meno puoi.

ABATE LORENZO

Liber I, carmen 7

“A Tivoli” Testo Latino Laudabunt alii claram Rhodon aut Mytilenen aut Ephesum bimaris Corinthi moenia vel Baccho Thebas vel Apolline Delphos insignis aut Thessala Tempe; sunt quibus unum opus est intactae Palladis urbem carmine perpetuo celebrare et undique decerptam fronti praeponere olivam; plurimus in Iunonis honorem aptum dicet equis Argos ditesque Mycenas:

Traduzione Altri loderanno la famosa Rodi o Mitilene Efeso o le mura di Corinto dai due mari Tebe famosa per Bacco o Delfi per Apollo la tessala Tempe; ci sono quelli ai quali è unica fatica la città di Pallade vergine celebrare con un poema eterno e mettere sulla fronte olivo strappato da ogni parte, moltissimi in onore di Giunone celebreranno Argo adatta ai cavalli e la ricca Micene:

me nec tam patiens Lacedaemon nec tam Larisae percussit campus opimae quam domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac Tiburni lucus et uda mobilibus pomaria rivis.

me non Sparta forte né il campo della ricca Larissa mi colpì tanto quanto la grotta di Albunea risonante e l’Aniene precipite e il bosco di Tiburno e gli umidi frutteti con i ruscelli fluenti.

Albus ut obscuro deterget nubila caelo saepe Notus neque parturit imbris perpetuo, sic tu sapiens finire memento tristitiam vitaeque labores molli, Plance, mero, seu te fulgentia signis castra tenent seu densa tenebit Tiburis umbra tui.

Il rasserenante Noto spazzerà le nuvole dall’oscuro cielo spesso e non provoca piogge eterne, così tu saggio ricordati di porre fine alla tristezza e alle fatiche della vita con il delicato vino, o Planco, sia che gli accampamenti scintillanti di insegne ti trattengano sia che ti tratterrà la densa ombra della tua Tivoli.


Teucer Salamina patremque cum fugeret, tamen uda Lyaeo tempora populea fertur vinxisse corona, sic tristis affatus amicos: “Quo nos cumque feret melior fortuna parente, ibimus, o socii comitesque. Nil desperandum Teucro duce et auspice Teucro: certus enim promisit Apollo. ambiguam tellure nova Salamina futuram.

Quando Teucro da Salamina e dal padre fuggiva, tuttavia le tempie bagnate di Lieo (vino) si dice che le abbia cinte con una corona di pioppo così rivolgendosi ai mesti amici: “Dovunque ci porterà la fortuna migliore del genitore, andremo – o compagni e amici, non bisogna disperare sotto la guida di Teucro e sotto i suoi auspici: Apollo infallibile ha promesso infatti che una doppia Salamina sorgerà in una nuova terra.

O fortes peioraque passi mecum saepe viri, nunc vino pellite curas; cras ingens iterabimus aequor.”

O coraggiosi uomini che avete sofferto i mali peggiori con me spesso, ora scacciate le preoccupazioni col vino, domani solcheremo ancora il grande mare”.

Analisi

Nei primi versi (1-9) Orazio esordisce con la figura retorica del priamel, ovvero elenca città che serviranno nei versi successivi come termine di paragone, questa tecnica era già stata utilizzata da Pindaro e Saffo. Enumerazio per polisindeto. I nomi delle città greche elencate sono declinate con l’accusativo proprio della declinazione greca. Atene (v. 5) viene definita “città di Pallade vergine” (vergine=intactae). Il poeta utilizza la rarissima figura retorica del “pluralia tantum” al verso 8 (“plurimus”) “…tam… …quam…” (v. 11) introducono i termini di paragone. “Albus ut…” (v. 15) in questo periodo è presente una anastrofe, ovvero l’ordine delle parole è invertito. “Imbris” (v. 16) presenta la desinenza arcaica –is (dovrebbe essere “imbres”) Sono presenti alcune endiadi nella parte finale dell’ode.

Commento

Orazio nei primi versi critica i poeti suoi contemporanei che nelle loro poesie cercavano di descrivere i luoghi attraverso la mera elencazione delle loro caratteristiche e definisce le loro opere “poemi eterni”. Questa ode è dedicata a Planco che compare nel testo attraverso un vocativo. Planco era originario di Tivoli.


Tivoli viene descritta come un “locus amoenus”, in particolare sono messe in risalto le sue bellezze naturali, la sua tranquillità e l’abbondanza di acqua. Planco è esortato a lasciare Roma e le preoccupazioni (era un politico) che la grande città comporta e a ritornare alla tranquillità della sua terra. In questo passaggio traspare chiaramente l’insegnamento epicureo. Maecenas atavis edite regibus, O Mecenate che discendi da antenati regali, Nell’ultima parteetdell’ode Orazio cita un episodio omitico che viene inserito all’improvviso nella poesia e si o et praesidium dulce decus meum! mia difesa e dolce mio onore! sviluppa percurriculo 12 versi.pulverem Olympicum Sunt quos Vi sono quelli a cui piace sollevare con il collegisse iuvat metaque fervidis carro la polvere di Olimpia e che la meta evitata Il mito riportato illustra la necessità di liberarsi dalle preoccupazioni e partire senza ripensare al passato. evitata rotis palmaque nobilis; dalle ruote infuocate e la palma che dà gloria terrarum dominos evehit ad deos innalzano fino agli dei, signori della terra; hunc, si mobilium turba Quiritium a questo (fa piacere) se la folla dei Quiriti incostanti certat tergeminis tollere honoribus, fa a gara per innalzarlo con i triplici onori, illum, si proprio condidit horreo a quello se accumula nel proprio granaio quidquid de Libycis verritur areis. tutto quanto che viene raccolto dalle aie libiche. Gaudentem patrios findere sarculo Chi è felice di fendere con la zappa i campi paterni agros Attalicis condicionibus non riusciresti mai, neppure con offerte degne numquam demoveas, ut trabe Cypria diAttalo Myrtoum pavidus nauta secet mare. a smuoverlo perché solchi, marinaio pauroso, il mare Luctantem Icariis fluctibus Africum Mirtoo con una nave di Cipro. mercator metuens, otium et oppidi Il mercante che teme l’Africo in lotta con i flutti laudat rura sui; mox reficit rates Icarii, loda la tranquillità dei campi e del suo paese; quassas, indocilis pauperiem pati. ma subito fa riparare le navi rovinate dalla tempesta, Est qui nec veteris pocula Massici incapace di rassegnarsi a una modesta condizione. nec partem solido demere de die C'è chi non disprezza calici di Massico invecchiato spernit, nunc viridi membra sub arbuto né di sottrarre una parte alla giornata di lavoro stratus, nunc ad aquae lene caput sacrae. ora con le membra sdraiate all'ombra di un albero, Multos castra iuvant et lituo tubae ora presso la lieve sorgente di una fonte sacra. permixtus sonitus bellaque matribus A molti piacciono gli accampamenti e il suono della detestata, Manet sub Iove frigido tromba misto a quello del corno e le guerre odiate venator tenerae coniugis immemor, dalle madri. Rimane sotto un cielo di ghiaccio seu visa est catulis cerva fidelibus il cacciatore, dimentico della tenera sposa, seu rupit teretes Marsus aper plagas. sia che una cerva sia stata avvistata dai cani fedeli, Me doctarum hederae praemia frontium sia che un cinghiale marsico abbia rotto le reti ritorte. dis miscent superis, me gelidum nemus Me l'edera, premio delle dotte fronti, Nympharumque leves cum Satyris chori unisce, agli dei immortali, me il fresco bosco secernunt populo, si neque tibias e le danze leggere delle Ninfe con i Satiri Euterpe cohibet nec Polyhymnia distinguono dalla folla, purché ne Euterpe Lesboum refugit tendere barbiton. trattenga il fiato né Polimnia Quodsi me lyricis vatibus inseres rifiuti di accordare la lira di Lesbo. sublimi feriam sidera vertice. E se tu mi porrai nel numero dei poeti lirici, “La scelta della poesia lirica” Carmen I 1 a testa alta giungerò a sfiorare le stelle (lett. Urterò le stelle con la parte alta della testa)


-----> Nei primi due versi dell'ode, Orazio esprime devozione e gratitudine nei confronti di Mecenate, che gli ha concesso vantaggi materiali e morali e che era un homo novus, all'apice della fortuna politica come ministro e consigliere di Augusto. Orazio gli dedica il primo componimento di ciascuna delle sue raccolte poetiche, perché proprio grazie a lui è entrato a far parte del circolo letterario più importante del tempo. Il tono solenne della dedica è valorizzato dall'arcaismo atavis,che indica generalmente l'antenato, precisamente l'avo di quinta generazione. Il termine praesidium è preso in prestito dal lessico militare e indica la protezione offerta dal patrono; la formalità è alleggerita dall'aggettivo dulce e dal possessivo meum. Questo elogio iniziale è ripreso nell'ultimo verso, conferendo al carme una struttura circolare.


------> Dal verso 3 al verso 28 si svolge un'enumeratio, in cui si trovano diverse scelte di vita, tra cui quella degli atleti, dei politici, dei contadini, dei mercanti, dei soldati e dei cacciatori. Orazio descrive le loro aspirazioni e i loro comportamenti in determinate situazioni, sottolineando che ogni uomo compie la scelta che più si adatta alla propria natura. Quindi si trovano coloro che vogliono essere premiati con la foglia di palma ed essere innalzati a una condizione divina, coloro che ambiscono il favore del popolo, i grandi proprietari terrieri che vogliono arricchirsi, il piccolo agricoltore, soddisfatto dal proprio lavoro dei campi paterni, i mercanti che, pur di non vedere peggiorata la propria condizione, continuano a lottare contro i venti impetuosi, i soldati che si dedicano alla guerra incuranti del dolore causato alle madri, i cacciatori che, per ottenere la propria preda, rinunciano anche al calore della famiglia. Tra tutti questi personaggi, Orazio sembra identificarsi nel lavoratore che ama la tranquillità e sa dividere il proprio tempo tra otium e negotium. Il riferimento ai versi 21-22 all'ombra degli alberi e alla sorgente che gorgoglia lievemente indica il locus amoenus, in sintonia con gli ideali epicurei. L'immagine della tromba da guerra si può invece associare a un altro strumento musicale, presente nei versi successivi a indicare una diversa professione: la lira, tipica dei poeti lirici in Grecia.

--------> Dal verso 29 alla fine, Orazio parla di sé stesso e distingue le sue scelte di vita da quelle degli altri uomini: come tutti, anche lui è mosso da una particolare vocazione, nel suo caso la poesia. Perché questa ambizione possa essere portata avanti, è fondamentale l'appoggio delle Muse, ma anche quello di un protettore, ovvero Mecenate. Solo lui può dare al poeta la possibilità reale di distinguersi dal popolo ed elevarsi al numero degli intellettuali e dei poeti lirici, raggiungendo un'importanza capace di durare nel tempo. Il tono solenne di questi ultimi versi viene alleggerito dall'espressione auto-ironica “sublimi feriam sidera vertice” che indica da una parte la posizione che il poeta potrebbe assumere, dall'altra la sua felicità se Mecenate gli concederà definitivamente la sua approvazione. Nel quadro precedente, Orazio non ha criticato nessuna delle attività umane, si è soltanto dimostrato consapevole che la propria scelta è la migliore per sé stesso e anche per Roma, perché gli consente di intraprendere il ruolo di lyricus vates.

Contesto

Nell'ode si trovano numerosi riferimenti alla Grecia, soprattutto per quanto riguarda gli atleti e la poesia. In particolare, Orazio si è basato su modelli poetici ellenici, adattandoli tuttavia al costume, al gusto e alla cultura dei Romani. Pur non essendo il primo in ordine cronologico, questo carmen apre un percorso che si completerà solo nell'ode III, 30, dove Orazio dimostrerà una “coscienza di poeta” capace di portarlo alla costruzione di un monumentum aere perennius. All'inizio di questa strada annuncia la sua scelta di vita, la motiva e precisa la direzione verso la quale intende far procedere il proprio impegno di lyricus vates.



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