Babel

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annuario di arti visive contemporanee

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Spirito momenti del sacro nell'arte contemporanea



annuario di arti visive contemporanee DIRETTORE

Vincenzo Trione

GUEST EDITOR

Gregorio Botta

REDAZIONE

Andrea Amerio Anna Luigia De Simone Stefania Vadruci 01 | 09

ART DIRECTORS

Francesco Fioretto, Antonio Galassi

PROGETTO GRAFICO Cromazoo

TRADUZIONI

Spazi di preghiera – Tadao Ando, conversazione con Luca Molinari; L’arte è spirito – Brian Eno, conversazione con Mario Codognato; Il monocromo come arte spirituale (trad. dall’ inglese Valentina Vogliolo); Reinventare il sacro – Bernar Venet, conversazione con Déborah Laks (trad. dal francese Mariacristina Bonini); Segno di vittoria e di morte (trad. dallo spagnolo Andrea Amerio).

GLI AUTORI

Tadao Ando; Mario Biraghi; Gregorio Botta; Mario Botta; Mario Codognato; Felix De Azúa; Massimo Donà; Gillo Dorfles; Brian Eno; Jannis Kounellis; Dèborah Laks; Nino Longobardi; Luca Molinari; Giuseppe Montesano; Ermanno Olmi; Gianfranco Ravasi; Barbara Rose; Pierangelo Sequeri; Adriano Sofri; Vincenzo Trione; Bernar Venet; Vincenzo Vitiello




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Presenze

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Iceberg

Incipit

Editoriale

INDEX

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Mario Biraghi

Architetture erranti

La costruzione contemporanea del sacro

Félix de Azùa Segno di vittoria e morte

Gregorio Botta La bellezza non ha causa

Sulla spiritualità dell’arte contemporanea

Vincenzo Trione senza mondo

La dimensione spirituale dell’arte contemporanea

Vincenzo VItiello Nelle rovine il sacro

Tra arte, religione e scienza

Massimo Donà Salvezza e/o Salute

Variazioni extracanoniche su religione e arte

Pierangelo Sequeri La bellezza � da salvare?

Gianfranco Ravasi Una nuova «alleanza Feconda»

Adriano Sofri Sullo spirituale dell'arte

Vincenzo Trione Per un modernismo antimoderno


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Indice autori

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Icone

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Exit

Agone

Focus

Versus

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Spazi di preghiera

Tadao Ando

Biografie

Nino Longobardi

Giuseppe Montesano Il bene deve essere fatto da tutti, non da uno solo

conversazione con Luca Molinari

Monumento e religione

conversazione con Luca Molinari

Mario Botta

conversazione con Déborah Laks

Bernar Venet Reinventare il sacro

conversazione con Gregorio Botta

Jannis Kounellis Lo Spirito va e viene

conversazione con Mario Codognato

Brian Eno L'arte � spirito

Gianfranco Ravasi idolatria della parola dialogo Ermanno Olmi

Barbara Rose Il monocromo come icona sacra

Gillo Dorfles � possibile un'arte spirituale?


Editoriale Per un modernismo antimoderno di Vincenzo Trione

presente disegna geografie instabili, precarie, liquide. Somiglia a Iunal tempo superficie su cui ogni elemento scorre via. Non può essere rappresentato

nelle sue incessanti metamorfosi: riusciamo a trattenere solo qualche granello. Proviamo ad abbracciarlo, ma subito si disperde: come l’aria. È sostanza che si disfa tra le mani. «È l’istante, è quell’uccello che sta da tutte le parti e in nessuna. Vorremmo afferrarlo vivo, ma apre le ali e svanisce, trasformato in una manciata di sillabe», ha scritto Octavio Paz. È figura magnetica ed elusiva: oceano e abisso, luce e oscurità. Un fiore estremo e ultimo. In sé, racchiude memorie e attese, slanci e contemplazioni. È compimento: approdo di una lunga avventura. È arresto: la storia sembra interrompersi per un attimo, offrendoci un velocissimo fermo-immagine, destinato a essere sostituito subito da altri fotogrammi. Ed è proiezione in avanti. È un barlume: l’assoluto momentaneo. L’eternità che si dà in un istante. Una costellazione dai confini mobili, che chiede di essere attraversata. Non incontreremo punti saldi, ma solo sentieri inesplorati e passaggi a vuoto.


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ÍBabelÍ indaga la dimensione teorica dei linguaggi visivi e restituisce un ritratto labirintico della contemporaneit�

Per sfiorare i nodi di questo tessuto che si fa e si disfa ininterrottamente, esistono tanti artifici possibili. Si può stare dentro il presente: coincidere con ciò che si delinea dinanzi a noi, e subito si cancella. Ma si possono seguire anche altre traiettorie. Addentrarsi negli interstizi di una temporalità complessa e stratificata, che non è impedimento, ostacolo o barriera, ma straordinaria sfida, stimolante occasione. Decifrare segni, rintracciare oscillazioni, scorgere la logica sottesa a quel che sta accadendo. Confrontarsi con emergenze e rivelazioni, densità e durezze. Consegnarsi a un divagare controllato e razionale, che non insegue mete, ma si districa tra anfratti, rive, contrade. Affidarsi a un indugiare sempre incerto. Ricorrere a uno sguardo che interroga eventi, riannoda esperienze, connette differenze, per comporre i contorni di quella che potremmo definire una filosofia dell’attualità: una filosofia che voglia comprendere le ragioni delle apparenze procedendo attraverso ferite e lacerazioni porta alla luce il fondo da cui nascono le cose. Non si sottragga alle richieste profonde che l’ora impone. Mostri radici implicite e intenzioni segrete. Sveli il perdurare del medesimo nel nuovo. Problematizzi, contraddica e arrivi finanche a negare ciò che si sta facendo. Che ordisca, infine, tracciati provvisori, fitte trame, mappe di viaggi.

«Babel» vuole porsi in ascolto del presente: talvolta, difendendo una certa distanza da esso. Non si limita a fotografare la cronaca. Coglie – e rappresenta – un topos dinamico, soffermandosi soprattutto sugli scenari dei linguaggi visivi. Cerca di restituire un ritratto labirintico della contemporaneità: un ritratto sempre problematico, teso non a risolvere questioni, ma a porre domande ulteriori. «Babel» non è concepita come carrellata o come défilé di immagini. Non asseconda le seduzioni delle mode e del mercato. Vuole far emergere il pensiero visivo: le idee e i concetti nascosti dietro le opere. È resoconto lucido, in cui le arti sono “frequentate” nella loro dimensione teorica. Territorio su cui, intorno a specifiche categorie estetiche, si intrecciano saperi (critica, filosofia) e modalità espressive (arte, architettura, cinema, letteratura). «Babel» è un annuario che vuole saldare audacia militante ed equilibrio metodologico. Parla di quest’epoca: accettando anche la sfida dell’inattualità. Aspira a diventare testimonianza di quello che, con Milan Kundera, potremmo definire un “modernismo antimoderno”.


Incipit Sullo spirituale dell'arte di Adriano Sofri

catena fortuita di circostanze ho visitato per la prima volta la Russia P soloer una alla fine degli anni Ottanta. E fortunata: era troppo tardi perché fossi

tentato di commuovermi per qualche cimelio sovietico, se non addirittura per la mummia di Lenin. Del resto erano già gli anni in cui si discuteva se cambiargli la cravatta, e di lì a poco di trasferirlo senz’altro via dalla pazza folla. Desideravo più di tutto vedere la Trinità di Rublev. Chissà perché, ho cominciato a pensare in qualche momento della mia vita che la Trinità di Rublev fosse il quadro più bello del mondo. Certo contò il film meraviglioso di Tarkovskij, e anche l’ottusità sovietica. Il film infatti è del 1966, ma la censura sovietica lo tenne fermo per sei anni, e in Italia fu distribuito solo alla fine del 1975. Penso che nel 1966 – o, ancora di più, nel 1969, quando ebbe una proiezione privata a Cannes – non ne sarei stato altrettanto colpito. Quando lo vidi, era il momento giusto. Si lasciavano cose, se ne cercavano altre, nuove, o vecchie e trascurate. Per esempio si lasciava l’Urss – non dico quella, da me mai amata, del potere, ma anche quella idolatrata della rivoluzione – e si tornava alla Russia. La patria – la madre – dello spirito, dell’arte e del sacro. Il luogo dal quale – in esilio dal quale – si era potuto proclamare che la bellezza salverà il mondo. L’equivoco sovietico aveva sequestrato mezzo mondo. Forse anche l’equivoco russo? E c’è forse un equivoco irrisolto nelle polemiche sullo spirituale nell’arte? Comunque, vidi la Trinità di Rublev, alla galleria di Tret’jakov a Mosca, e ci tornai più volte. Andai anche al monastero di San Sergio a Zagorsk, che ne contiene innumerevoli copie, più commoventi, forse, per i secoli di devozione popolare che le ha investite delle proprie speranze e delle proprie pene. Per parte sua la Chiesa ortodossa dichiarò fin dal Cinquecento che la pittura di Rublev era il modello di ogni iconografia sacra.


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Il mondo salvato dalla bellezza

C’è un tumultuoso e prezioso periodo europeo nell’opera di Dostoevskij chiuso fra due grandi quadri. Il primo, la Madonna detta Sistina di Dresda. Il secondo, la Madonna della Seggiola di Palazzo Pitti a Firenze. Si tratta sempre di Raffaello, ma la fama e la suggestione della Madonna Sistina sono incomparabili con quelle dell’altra. (Cito solo, in una bibliografia enorme, il saggio di P.C. Bori, La Madonna di San Sisto di Raffaello. Studi sulla cultura russa, Bologna, Il Mulino, 1990, e lo scritto toccante di V. Grossman, Madonna a Treblinka, trad. it. di M.A. Curletto, Milano, Medusa, 2007; Grossman aveva visto il quadro a Mosca, nel 1955, in una mostra allestita prima della restituzione alla Ddr). Dostoevskij non rinnegò mai l’impressione ricevuta a Dresda, e una riproduzione della Madonna Sistina era appesa al muro della sua stanza di morte. Ma il quadro non ebbe sempre la stessa sorte. Fu oggetto di un vero culto fino a che passò di moda, come succede. Più significativamente, suscitò in alcuni fra i suoi devoti russi (che compresero Puškin – forse – e Belinskij, Zukovskij, Herzen, Ogarëv, Turgenev, Tolstoj, Lermontov, Goncˇarov, Solov’ev, Florenskij, Sergej Bulgakov) sentimenti contrastanti nel tempo, da un’esaltazione sconfinata a una specie di distacco e di delusione. La cosa ci interessa perché, al di là delle predilezioni

personali, testimonia del conflitto fra il soffio del divino nell’arte rinascimentale e nella pittura di icone. La Madonna Sistina è la bellezza assoluta, pura, gratuita: e tuttavia è, a una successiva ricognizione, la bellezza terrena. (Un aneddoto riferito al Bramante vuole peraltro che Raffaello l’avesse dipinta grazie a una visione miracolosa). O piuttosto, è un varco aperto – alla lettera, dai tendaggi tirati – sul sacro, sulla bellezza divina, dallo sguardo umano e dai suoi espedienti, prospettiva compresa. Nella pittura di icone è Dio a spalancare una finestra – alla lettera, nell’iconostasi – sul nostro mondo, e a mostrarsi. Dostoevskij non mutò la venerazione per la Vergine Sistina, e fece un ricorso simbolico senza riserve ad altri quadri della tradizione europea, come il Cristo morto di Holbein nell’Idiota. Ma adattò quella devozione per le icone occidentali alla persuasione del compito messianico della Russia. «L’essenza dello spirito religioso – dice il principe a Rogožin accanto alla copia del quadro di Holbein – è nel cuore dei Russi che la riconosci prima e meglio». Ecco: il fatto è che per molto tempo molti di noi hanno condiviso in qualche misura quella mistica convinzione di Dostoevskij. Che si chiamasse “anima russa”, che avesse a che fare con l’idea di quel popolo, la sua religiosità, le sue arti e soprattutto la sua


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letteratura, la Russia è apparsa come la depositaria dello spirito. E siccome i tempi cambiano, l’occidentalismo, ai tempi di Dostoevskij incarnato dall’Europa e ripudiato come materialista e ottuso, si era via via trasferito oltre Atlantico, e il contrasto fra slavofilia e occidentalismo era scivolato impercettibilmente – un trapasso consapevole era impensabile – in quello fra Russia comunista e America capitalista. Quando ci si chiede come il regime comunista sovietico abbia potuto sedurre così profondamente e a lungo tanti intellettuali occidentali – come fosse loro possibile, secondo la domanda recente di Martin Amis, ridere di Stalin in modo oscenamente complice (Koba il Terribile. Una risata e venti milioni di morti, trad. it. di N. Gobetti, Milano, Einaudi, 2003) – bisogna ammettere che abbia pesato molto il filtro dell’anima russa, di Tolstoj e di Dostoevskij, mutati e contraffatti quasi in precursori dei Soviet. Attenuante infima, se pure lo sia. Che ebbe anche dalla sua l’arte, sacra a suo modo, dell’Ivan il Terribile di Ejzenstejn. Il retaggio di quell’equivoco non è affatto superato. La riduzione – vera o presunta – dell’arte a ripetitività, a parodia e a espediente ha ancora un timbro “americano”: e l’antiamericanismo politico ha attinto largamente a quel luogo comune. Fondato quanto basta, del resto, come molti luoghi comuni. È nell’Idiota che quella profezia sul mondo salvato dalla bellezza – pronunciata da uno che perderà se stesso – viene ripetuta. Ho una predilezione per l’Idiota – confortato da una nota di Dostoevskij, che aveva lui stesso una predilezione per gli affezionati a quel romanzo. È facile obiettare con la grandiosità dei Demonii, o dei Karamazov (e del Grande Inquisitore). E tuttavia è proprio la figura “perfetta” del principe, emersa quasi contro i propositi iniziali dello scrittore, a mettere l’Idiota in una posizione straordinaria. E a farne il modello di quella febbrile esaltazione dello spirito che era insieme dell’autore e dei suoi personaggi. Voglio ripercorrere questa vicenda esemplare, prima di riformulare la domanda su quel possibile equivoco circa lo slancio spirituale e l’intelligenza meccanica. Lo faccio – sia detto a scanso di accuse di plagio – ripercorrendo pedissequamente il breve tempo, 1867-1868, della stesura dell’Idiota nella vita di Dostoevskij, sulla scorta di uno dei suoi migliori biografi, Joseph Frank (Princeton 1995). A metà settembre 1867, a Ginevra, dove Dostoevskij e sua moglie Anna Grigorievna hanno affittato una singola stanza, lei annota nel diario: «Oggi, Fedia ha cominciato ad abbozzare il piano del suo nuovo romanzo». Dostoevskij è continuamente oppresso dal pensiero di morire durante una crisi epilettica.


Adriano Sofri | Sullo spirituale dell'arte

E, come sempre, dalla povertà. Anna ha impegnato le sue cose, lui chiede anticipi e prestiti, torna a giocare e ricade nella disperazione e nel senso di colpa dopo aver perduto tutto... Lei è incinta. Quello stesso giorno scrive: «Stasera abbiamo parlato di Cristo e dei Vangeli, e abbiamo discusso a lungo. Io sono sempre felice ed emozionata quando lui non mi parla solo delle cose di tutti i giorni, dello zucchero o del caffè, ma mi crede capace anche di ascoltarlo e di parlargli di cose più importanti e più astratte». Il futuro dipende dal nuovo romanzo. Il nuovo romanzo è l’Idiota. Dostoevskij lavora ai suoi appunti, ma non padroneggia ancora la storia che racconterà. Ha paura lui stesso di diventare idiota. «Questa epilessia – scrive al suo medico – finirà per uccidermi. La mia stella declina – me ne accorgo fin troppo. La mia memoria si è completamente offuscata (completamente!). Non riconosco più le persone. Dimentico quello che ho letto il giorno prima. Ho paura di diventare pazzo o di sprofondare nell’idiozia». Il romanzo non va avanti. Una notte Anna lo trova bocconi sul pavimento, che prega. «Quello che temo di più – scrive in una lettera – è la mediocrità: per me, l’opera dev’essere eccellente o pessima. Trenta fascicoli di mediocrità sarebbero imperdonabili». Compila e butta via un lungo schema per il libro. Sarebbe stato mediocre, dice. I mesi passano, e si avvicina la scadenza per la consegna dei primi capitoli. Lavora accanitamente, ma non smette mai di leggere i giornali e specialmente quelli russi – «fino all’ultima sillaba» – la fonte prima del suo legame con la patria e della sua ispirazione. Raccomanda alla nipote la lettura dei giornali, perché, dice, «tutti gli affari, pubblici e privati, sono legati fra loro». Così come sono indissolubilmente legati «il generale e il particolare». È attratto dalle “varie”, e soprattutto lo impressionano le cronache del caso Umetski: la quattordicenne Olga, brutalmente maltrattata in famiglia, dopo aver

tentato il suicidio cerca più volte di dare fuoco alla casa – ma dopo aver avvertito i famigliari. Dostoevskij vorrebbe esser lì, e influire sul processo. Trasfonderà alcuni tratti di Olga in Nastasija Filippovna. Quanto a Rogožin, l’ispirazione iniziale gli è forse venuta dalla vicenda del ricco mercante moscovita Mazurin, processato per l’omicidio di un gioielliere. Mazurin l’aveva ammazzato in casa sua, poi ricoperto di una cerata e circondato da vasi di disinfettante, come farà Rogožin con Nastasija. Lo spostamento dall’assassinio di un uomo a quello di una donna, e della donna amata, è evidentemente rilevante. (È più difficile tenerne conto, perché si trattava di due povere vecchie, ma in Delitto e castigo, uscito un anno prima, Raskolnikov è un assassino di donne). L’assassinio della donna – per gelosia, per amore – questo abominio della storia umana, che comincia appena a essere spogliato della sua mitizzazione romantica, è anch’esso un aspetto della passione russa. «Bisogna che il lettore e tutti i personaggi del romanzo capiscano che egli è capace di ammazzare l’eroina e che tutti si aspettano che l’ammazzi». La conclusione è prevista dall’inizio: è solo trasferita dal primitivo Idiota – immaginato a quel punto come l’assassino della donna! – a Parfén Rogožin. «Vecchio credente», lui, o quasi, il cui padre ammirava gli skoptsy, che praticavano la castrazione come forma suprema di spiritualità. Quando, poco dopo l’uscita del libro (della sua prima parte), è la realtà a imitare la letteratura, e il nobile e colto A.M. Danilov commette degli omicidi che lo assimilano al Raskolnikov di Delitto e castigo, Dostoevskij annota la raccomandazione che il giovane, desideroso di sposarsi, aveva ricevuto da suo padre: «Il fine giustifica i mezzi: la felicità passa per il denaro, e per arrivare al denaro tutto è lecito, anche il delitto». La devozione al denaro spinta fino all’istigazione paterna al crimine, sembra a Dostoevskij la misura della

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degradazione dello spirito russo. Ma c’è un altro omicidio che lo colpisce, e tornerà nel romanzo: quello dell’uomo che ha scherzato con un conoscente, e a un tratto gli ha tagliato la gola per derubarlo dell’orologio d’argento, pronunciando una specie di preghiera: «Benedicimi, mio Dio, e perdonami in nome di Cristo». Il principe Myskin, e Dostoevskij con lui, commenterà che sono fatti come questi, implausibili se li avesse inventati un romanziere, a mostrare nonostante tutto la verità religiosa del popolo russo. Dostoevskij non può pensare di separare la propria vocazione di scrittore dalla Russia: e non solo perché è russo. Lo scrittore non può restare troppo a lungo all’estero, osserva, senza perdere l’essenziale, che è la realtà. «E la realtà, qui, è svizzera». (È in Svizzera che viene mandato l’Idiota bambino, per tornarne uomo). Gli svizzeri, dice, benché siano molto meno stupidi dei tedeschi, non sono riusciti nemmeno a inventare le doppie finestre, sicché per tre mesi all’anno da loro si muore di freddo. Svizzera a parte, è l’intera Europa a diventargli sempre più ostica, e le fondamenta morali della Russia a crescere nella sua nostalgia. Il contraltare della sua Russia idealizzata è la Germania, quella del “tedesco” Turgenev – o quella dell’attivo Stolz contro il sonnolento Oblomov – ma anche l’intera Europa, e i suoi ammiratori russi, “francesizzati”, i liberali in realtà retrogradi e nemici della patria. È l’uso magnanimo del potere di grazia da parte dello zar a sembrargli moralmente così russo, e così superiore all’intellettualismo umanistico ginevrino e occidentale. Il principe Myskin, l’Idiota, incarnerà il cristianesimo russo, la sua missione messianica, opposta alla debolezza cattolica e alla fallacia luterana. La questione della giustizia è per Dostoevskij il banco di prova della superiorità russa. «La moralità dei nostri giudici e soprattutto dei nostri giurati è infinitamente più alta che in Europa: i nostri considerano il crimine da cristiani». «Tutti i concetti morali e tutti gli obiettivi dei russi sono, in generale, superiori a quelli del mondo europeo. Noi abbiamo una fede più diretta e più nobile nel bene, e lo facciamo discendere dal cristianesimo e non dalla risposta borghese al problema del confort». Il mondo intero deve attendersi un radicale rinnovamento ad opera del pensiero russo, nel giro di un secolo. Panslavismo, e più esattamente nazionalismo grande-russo. Bisogna ammettere che non si tratti di una millanteria, nel giro d’anni in cui escono a turno, mese per mese, su una stessa rivista, i capitoli di Delitto e castigo e di Guerra e pace. Maikov, l’amico poeta e corrispondente assiduo di Dostoevskij dalla Russia, gli riferisce i giudizi estasiati sul romanzo di Tolstoj: «È l’essenza dell’anima russa». È lo stesso Maikov a riassumere l’anima russa nella formula felice dell’amore del popolo e per il popolo: «Che cosa non è capace di sopportare il popolo russo per amore? L’amore del


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popolo: ecco la nostra Costituzione!» Dostoevskij ne è entusiasta, e presterà il concetto al principe Myskin. Una Costituzione del cuore contro le Costituzioni di carta. La figura di Myskin passa, negli appunti successivi di Dostoevskij, attraverso modificazioni che la mutano radicalmente, e la mettono al centro del romanzo. Di questa tormentata metamorfosi mi pare da trattenere un elemento essenziale: la rinuncia a un carattere dubbio o torbido – un orgoglio smisurato, una passionalità furente, un gusto d’essere umiliato, una malignità da calunniatore… – o a un passato da riscattare, in favore di un’innocenza primigenia, una perfezione morale e una grata e felice sensazione della vita, che assimilano Myskin a Cristo. È proprio questa la parola che, dopo infinite peripezie dei caratteri, Dostoevskij impiega: innocente. «Se don Chisciotte e Pickwick quali personaggi virtuosi sono simpatici ai lettori, e riusciti, è grazie alla loro comicità. L’eroe del romanzo, il principe, non è comico ma possiede un altro tratto simpatico: è innocente». (La parola “innocente”, sottolinea il biografo, è circondata da un cerchio nel manoscritto). Torna ancora quell’idea della giustizia, temperata dalla compassione, e anzi subordinata alla compassione: «La compassione – prima di tutto. La giustizia – subito dopo». Ancora a novembre Dostoevskij è combattuto fra due disegni opposti – «Enigma. Chi è lui? Un mostro spaventoso, o un ideale misterioso?» – prima di inclinare decisamente verso il secondo. Cessa il dilemma protratto – figlio bastardo o legittimo? – ma Myskin è ora senz’altro principe. Con questa promozione – da “figlio della serva” (Strindberg) a principe – se ne va la rivalsa e le subentra la follia in Cristo, la fanciullezza. Le qualità negative trapassano a Gania. Dostoevskij può annotare: «Da questa sera,

cominciare». A dicembre, dopo aver spedito i primi capitoli, Dostoevskij descrive la nuova figura come la realizzazione di un’ambizione antica e che gli era sembrata troppo ardua per trarne un romanzo: «rappresentare un uomo interamente bello». Ora ha «rischiato, come alla roulette». E, questa volta, ha vinto. Ancora: «Un uomo assolutamente eccellente. Niente è più difficile al mondo, soprattutto in questo momento […] Il bello è l’ideale, e l’ideale, il nostro o quello dell’Europa civilizzata, è ancora lontano dall’essersi cristallizzato. Non esiste al mondo che un essere assolutamente bello, il Cristo, sicché l’apparizione di questo essere immensamente, infinitamente bello è certo un miracolo infinito (tutto il Vangelo di Giovanni va in questo senso: egli trova il miracolo nella sola incarnazione, la sola apparizione del bello)». Per Dostoevskij, questa perfezione non è il miracolo dell’incarnazione, ma una creatura terrena. Chi gli si è avvicinato di più è don Chisciotte, ma al prezzo del ridicolo. Più volte Dostoevskij annota, in margine ai suoi appunti: «Il principe – il Cristo». Durante la stesura del romanzo, con le pressioni assillanti dell’editore che lo pubblica in appendice al «Messaggero russo», i Dostoevskij cambiano casa tre volte a Ginevra e Vevey, poi trascorrono due mesi a Milano, e infine alloggiano per tutto il 1868 a Firenze, dove l’Idiota sarà completato. E intanto, nascerà e morirà la loro bambina adorata. A Ginevra, mentre Anna ha le doglie, Fjodor è in preda a una grave crisi epilettica. Quando si riprende, è così turbato ed esaltato dall’avvenimento che madre e levatrice lo chiudono fuori dalla stanza con un lucchetto, che lui infrangerà appena sentito il pianto del neonato fra i lamenti della partoriente. È la scena che racconterà nei Demonii, quando Marie va a partorire da Šatov. Dostoevskij

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diventa pazzo per la piccola Sonia: «Passo metà della giornata ad abbracciarla senza riuscire a staccarmene». È agitato per la salute di Anna e per la povertà, ambedue danno in pegno i loro abiti, lui ha anche a carico in Russia la famiglia – esosa – di suo fratello morto, va avanti col romanzo in preda a quell’agitazione che minaccia di sconfinare in ogni momento nell’epilessia. Ottiene la dilazione di un mese alla pubblicazione della nuova parte. Non sa ancora – dopo sedici capitoli – quale corso prenderanno le vicende dei suoi personaggi. In questo senso, essi hanno, come lui e la sua famiglia, un futuro. «Non sa ancora se Nastasija Filippovna sposerà Rogožin o il principe; se il matrimonio col principe, quando si faccia, sarà segreto o pubblico; se Nastasia si suiciderà, sarà assassinata, o morrà di morte naturale; se Aglaija sposerà Gania o no; se Nastasija e Aglaija si odieranno o si riconcilieranno; se Rogožin sarà un assassino o se le raccomandazioni del principe lo salveranno» (Edward Wasiolek). In aprile, in una nuova incursione al casinò di Saxon–les–Bains, Dostoevskij perde tutto quello che ha in mezz’ora. Nuova disperazione, richieste di perdono, autodenigrazione, propositi di conversione. Il 12 maggio la piccola Sofia muore di una polmonite. Il padre è distrutto. «Sarei stato pronto ad affrontare il supplizio della croce purché vivesse», scrive. Si legge con una strana impressione il rapporto della polizia segreta zarista che ne sorveglia i movimenti: «Fra i russi sovreccitabili al momento presenti a Ginevra, il nostro agente indica Dostoevskij…». Sovreccitato è quasi un eufemismo per lo scrittore, che del resto protesta il suo patriottismo e la sua adorazione per lo zar. Il suo amico e corrispondente Maikov scrive qualcosa del genere dei personaggi dell’Idiota: anche i più banali e comuni sembrano attraversati da una “scintilla elettrica”, che li mette in una luce d’eccezione e di fantasia – e non è esattamente una lode, o almeno, non solo. Dostoevskij continua col cuore spezzato a lavorare al libro, maledicendolo, in una rincorsa sempre più affannata alle scadenze mensili. Più tardi osserverà: «Mi tormenta l’idea che se avessi potuto scrivere prima il romanzo, in un anno, e impiegare poi due o tre mesi a copiarlo e correggerlo, sarebbe tutta un’altra cosa». Odia la Svizzera ogni giorno di più. Partono per l’Italia – attraversano il Sempione a piedi, raccogliendo stelle alpine – Milano prima, per due mesi, ma piove troppo, e “non è l’Italia vera”, “vita lugubre e monastica”, gli piace solo il Duomo; poi Firenze, di cui lui serba un grato ricordo dal 1862. Ci arrivano nel novembre del 1868. Affittano due stanze in piazza Pitti – una lapide lo ricorda, e ricorda l’Idiota. Lui si “chiude a chiave” – ma non senza restare folgorato dalla Madonna della Seggiola di Raffaello, proprio lì di fronte. La visita assiduamente. Passa ogni mattina dal Gabinetto Vieusseux, a leggere i giornali russi. Lavora, dice, «giorno e notte, in una spaventosa angoscia». Ha due nuove crisi


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di epilessia mentre scrive gli ultimi capitoli. È colpito anche dai bassorilievi del Ghiberti sulla Porta del Paradiso. Dice ad Anna che «se mai dovesse diventare ricco, comprerebbe delle fotografie della porta, per appenderle nel suo studio». È una bella idea della ricchezza. Firenze, dice, «quando c’è il sole, è quasi il paradiso. Non si può immaginare niente di più bello di questo cielo, di quest’aria e questa luce». Nel primo, memorabile incontro di Myskin con la madre Epancina e le sue tre figlie, lui accetta di dire, a loro che lo burlano, che effetto gli facciano i loro visi. Ad Adelaida dice che ha un viso dolce e triste, che gli ricorda quello di una Madonna di Holbein. Arrivato all’ultima, Aglaia, non trova paragoni possibili. «Voi siete così bella che fate paura a guardarvi... È difficile giudicare la bellezza: io non sono ancora pronto. La bellezza è un enigma». Più bella, dunque, della Madonna di Holbein. Il bello è un enigma. Il bello è l’ideale. Un enigma, dunque, un ideale misterioso, salverà il mondo. Danilo Kiš in un paragrafo (il 21) delle sue Variazioni sul tema dell’Europa (1986) (ora in Homo poeticus, ripubblicato da Adelphi), esprime la questione così: Il nazionalismo serbo si nutre delle mitologie slava e russa, anche quando rifiuta il bolscevismo: l’ortodossia e la tradizione letteraria russe, il panslavismo e Dostoevskij, o il vecchio Pimén del Boris Godunov di Puskin (nella versione di Musorgskij) possiedono oggi lo stesso potere di attrazione delle poesie di Blok sugli Sciti o di quelle di Esenin e di Majakovskij. Se poi vi aggiungiamo le generazioni di intellettuali che hanno studiato a Mosca e che si sono impregnate di cultura europea e insieme delle culture socialiste moscovite, è facile comprendere quale magia eserciti la Russia: era

una “finestra sul mondo” così come lo fu l’Europa per la Russia di Pietro il Grande, ma rappresentò anche la diga innalzata contro l’Europa cattolica e “decadente”. Qui si incrociano dunque due miti: il panslavismo (l’ortodossia) e il mito rivoluzionario. Il Komintern e Dostoevskij.

Le conseguenze di questa ambiguità le ha tratte con una nettezza coraggiosa (forse troppo: forse un’ambiguità deve resistere) Wlodek Goldkorn nel suo La scelta di Abramo. Identità ebraiche e postmodernità (Torino, Bollati Boringhieri, 2006). Goldkorn si chiede come sia potuto avvenire che una parte (ingente) della sinistra italiana ed europea non si sia schierata con tutto il cuore dalla parte di Sarajevo, di una città offesa che cercava di conservare una propria identità cosmopolita e meticcia, e abbia invece esitato, o addirittura simpatizzato con un nazionalismo etnicista e aggressivo come quello serbo. Quel movimento che continuava a vedere nel nazionalcomunismo dei Milosevicˇ l’eredità della Serbia partigiana e si opponeva all’intervento in favore della città assediata dichiarandosi “contro la guerra”, era in realtà, dice Goldkorn, “contro l’America”. E l’America di Clinton, non di Bush. Per loro, l’America è il luogo del denaro, dello Zio Sam e di Wall Street; il paese senza antichità, senza genealogia, «un paese di gente sradicata che arriva da un altro mondo e cambia nome», che se è brava emerge, ma può emergere anche grazie al denaro; e ancora, è il paese del Libro, della Bibbia che sta a fondamento dell’ethos americano. «Mettendo insieme questi connotati – conclude Goldkorn – l’America è l’ebreo, o meglio la sua metafora». E «tutto ciò che l’antisemita odia nell’ebreo – il commercio, il Libro, il cosmopolitismo – oggi è odiato da una certa sinistra quando si misura con l’America». Goldkorn rimanda alla divergenza fra una sinistra erede

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dell’illuminismo e della rivoluzione francese, e una che discende dal romanticismo di Herder e Fichte, esaltatore della differenza e odiatore della somiglianza e dell’omologazione. L’hamburger è omologazione, dice Goldkorn, ma l’hamburger è meglio della pulizia etnica. Anche Goldkorn richiamava il Boris Godunov di Musorgskij, «consacrazione dell’impero zarista e della dinastia regnante, contrapposizione totale fra la santità e la serietà della Russia e della sua ortodossia (quando manca lo zar sono l’ordine cosmico dell’universo e il popolo che soffrono) e la fatuità dell’Occidente. L’Occidente vi è incarnato dalla principessa polacca Mniszech, che vuol conquistare Mosca perché “si annoia”, e perché cerca partner per le sue imprese sessuali». La conclusione di Goldkorn è drastica: «L’attrazione per la Russia che la sinistra comunista ha avuto per tanti e così lunghi decenni non è stata un’attrazione per il comunismo, ma esattamente per la Russia in quanto contrario dell’Occidente». Ma anche l’Occidente si definisce, fin dal Seicento, in opposizione alla Russia. L’Occidente è il luogo del diritto, e per questo appare a uno slavo filorusso come minaccioso e incomprensibile. «In Russia il mugik che ha sbagliato si getta ai piedi del padrone che lo vuole frustare, gli bacia gli stivali, piange e lo scongiura, che sua moglie resterà vedova, che i suoi figli moriranno di fame, ed ecco che il padrone, nella sua bontà, lo perdona». È, detto dall’altro punto di vista, quello che Dostoevskij dice della compassione che precede la giustizia, della magnanimità cristiana del potere di grazia, dell’amore del popolo come vera Costituzione. Viene in mente la complicazione dei sentimenti di papa Wojtyla nei confronti del comunismo e del capitalismo – dell’americanismo. Wojtyla era polacco mariano e anticomunista, dunque con una doppia ragione di ostilità alla Russia. Ma quando il comunismo crollò al suolo, fu spaventato dalla perdita dell’anima, che gli sembrava assimilare l’est europeo all’Occidente e all’America esanime. I punti di vista sono due, e contrapposti. Sicché non si può contentarsi di additarne le rispettive grandezze possibili. Hanno società, gerarchie, famiglie, individui, valori e abitudini – e idee dell’arte, diverse fino a diventare opposte e, alcune, esclusive. La differenza ultima è forse là, nella pretesa dell’esclusione. Prima di quel confine, un eclettismo è lecito e anche prezioso, se non per l’artista, che può scegliere il proprio posto e accamparvisi e scavarvi anche attorno una trincea, per lo spettatore e l’ammiratore. Del resto, quando, nel 1911, uscì il testo del russo Vasilij Kandinskij Sullo spirituale nell’arte (che a sua volta compendiava teoria dei colori e teosofia, spiritualismo e spiritismo...) le sue più tempestive ed efficaci traduzioni vennero in America, fino alla trasposizione delle sue connotazioni musicali sui colori nelle jamsessions jazzistiche. E benché molto tempo sia trascorso, e siano arrivati – nella stessa data, il 1895 – il cinema e i raggi X, la polemica “antimaterialistica” di Kandinskij


e la sua rivendicazione della coincidenza fra pura astrazione e puro realismo richiamano l’insistita e appassionata difesa di Dostoevskij: Io ho della realtà e del realismo un’idea del tutto diversa da quella dei nostri realisti e critici. Il mio idealismo è più reale del loro realismo! Dio mio! Non credete che se si raccontasse, in modo fedele, quello che noi Russi abbiamo vissuto in questi ultimi dieci anni di sviluppo spirituale, i nostri realisti si metterebbero a gridare che non si tratta che di fantasie! Eppure è realismo, e di quello vero! È proprio questo il realismo, solo che è profondo mentre il loro resta alla superficie […] Col loro realismo non si spiegherebbe nemmeno un centesimo dei fatti reali, effettivamente avvenuti. E noi, noi col nostro idealismo abbiamo predetto i fatti come dei profeti.

E in un’altra corrispondenza, sempre a difesa della verità dei suoi personaggi: Ho un’opinione peculiare sulla realtà nell’arte: quello che i più dichiarano eccezionale e pressoché fantastico rappresenta spesso per me la sostanza stessa del reale. Il fatto che le cose si ripetano quotidianamente e che si lascino registrare contabilmente non è affatto realismo per me, al contrario. In un qualunque numero di giornale, si trova il resoconto dei fatti più reali e più bizzarri […] Come se davvero il mio Idiota fantastico non fosse la realtà, e anche la più quotidiana. È proprio adesso che caratteri simili sono destinati a incontrarsi negli ambienti della nostra società staccata dalla terra – ambienti che diventano davvero fantastici.

Come un cavaliere blu.



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Una nuova «alleanza feconda» di Gianfranco Ravasi

«Questo mondo in cui viviamo ha

bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani». Ero presente anch’io, allora studente di teologia, in piazza San Pietro, l’8 dicembre 1965, quando i Padri del Concilio Vaticano II lanciarono questo messaggio agli artisti, un messaggio ripreso e rielaborato poi in molteplici forme da papa Paolo VI, che aveva voluto costituire


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una Galleria d’arte moderna e contemporanea all’interno dei Musei Vaticani, un messaggio rinvigorito dieci anni fa quando, nella Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II aveva indirizzato una sua Lettera agli artisti, nella consapevolezza che fosse necessario riannodare «un’alleanza feconda» tra Vangelo e arte. Quest’alleanza era durata per secoli, tant’è vero che «i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia», come affermava Chagall, considerandola una sorta di «atlante iconografico» o di «immenso vocabolario» (e quest’ultima era un’espressione di Claudel). Basterebbe solo sfogliare i tre grossi tomi che Louis Réau pubblicò a Parigi tra il 1955 e il 1959 sull’Iconographie de l’art chrétien, per documentare questo incessante connubio tra arte e fede. E, come giustamente suggeriva Ernst Hans Gombrich, questa iconologia rispondeva a criteri ben precisi che non erano solo di indole estetica, ma toccavano anche il cuore del messaggio. Ne era consapevole la stessa teologia quando, con uno dei primi cantori del valore spirituale delle immagini, Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo), invitava il non credente desideroso di conoscere la fede cristiana non a un dibattito teologico, bensì a entrare in una chiesa e a contemplare i dipinti e le statue là presenti.

Si codificava così quella via pulchritudinis che conduceva dalla bellezza artistica alla suprema Bellezza divina, «all’etterno dal tempo», per usare un’icastica formula dantesca (Paradiso XXXI, 38). Questa via, che nell’arte ha la sua argomentazione più efficace, è stata una sorta di fil rouge teso lungo i secoli e anche recentemente riproposto, a livello teologico e quindi teorico-tematico, da quella monumentale sintesi che è Gloria di Hans Urs von Balthasar. Certo, il rischio idolatrico, che è sempre in agguato, rende spesso sorvegliato ed esitante il nesso arte e fede, sulla base del celebre monito biblico del Decalogo di «non farsi immagine alcuna» di Dio (Esodo 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d’oro. Questa precauzione si esaspererà e degenererà nell’iconoclasmo, a partire dall’VIII secolo in Oriente o, più tardi, in Occidente con la Riforma protestante nelle sue espressioni più radicali (si legga, ad esempio, il romanzo Fratello Jacob del danese Henrik Stangerup). Queste ondate bianche aniconiche e spiritualistiche non potevano, però, cancellare il cuore del messaggio cristiano, ossia l’Incarnazione. Essa rende visibile Dio, che in Cristo – come dichiara san Paolo (Colossesi 1, 15) – ha la sua eikón, la sua “iconaimmagine” perfetta. Ma già la Genesi riconosceva nell’uomo e nella donna “l’immagine (eikón) e la


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L'arte presenta l'Invisibile trascendente

somiglianza» divina. È sulla base di questo principio cristologico e antropologico che l’arte acquista un rilievo non solo estetico, ma anche teologico. Come in Gesù Cristo si ha «il visibile dell’Invisibile», per usare l’espressione di Dionigi l’Areopagita (pseudonimo di un teologo del V-VI secolo), così l’arte per analogia presenta non tanto ciò che si vede, ma l’Invisibile trascendente che si annida nella realtà, parafrasando Miró. In questa luce si comprendono le parole suggestive della citata Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II: In un certo senso, l’icona è un sacramento: analogamente, infatti, a quanto avviene nei sacramenti, essa rende presente il mistero dell’Incarnazione. Proprio per questo, la bellezza dell’icona può essere soprattutto gustata all’interno di un tempio con lampade che ardono e suscitano nella penombra infiniti riflessi di luce.

Era talmente consolidata questa concezione estetico-teologica che il monaco e teologo Teodoro Studita (VIII-IX secolo) giungeva al punto di affermare che, «se l’arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato». Ed è significativo, in questa linea, che la prima immagine più alta e amata sia in Oriente il leggendario mandylion, cioè il volto di Cristo «non dipinto da mano d’uomo», che avrà la sua variante occidentale nel “Velo della Veronica”. È questo intreccio tra motivazioni teologiche e istanze artistiche a dare origine all’alleanza tra fede e bellezza, un’alleanza destinata a durare per secoli con epifanie altissime ed espressioni popolari (si pensi solo a quel piccolo oceano cromatico e iconografico che è costituito dagli ex voto) e che ha la sua formalizzazione programmatica nella citatissima considerazione di Dostoevskij: «L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui». Negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede». Ora, si deve riconoscere che da tempo questa alleanza si è infranta. L’arte ha lasciato il tempio, l’artista ha relegato su uno scaffale polveroso la Bibbia e si è avviato lungo le strade “laiche” della contemporaneità, rifuggendo da ogni figura, simbolo, narrazione, parabola sacrale. Nello stesso tempo il teologo si è dedicato esclusivamente alla sistematica speculativa che crede di non aver bisogno di segni e metafore; il pastore d’anime si è accontentato dell’artigianato; le chiese disegnate da modesti costruttori di condomini si sono popolate di oleografie e di brutte raffigurazioni. Il grande archeologo dell’Oriente cristiano Guillaume de Jerphanion aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia Voix des monuments: ecco, questa “voce

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Gianfranco Ravasi | Una nuova «alleanza feconda»

dei monumenti”, che per secoli ha cantato nelle chiese, nei palazzi episcopali, negli edifici cristiani, ora o tace oppure risuona in modo sgraziato e sgangherato. È da qui che nasce il desiderio di un incontro tra due mondi un tempo così “sovrapponibili”, overlapping, per dirla con una curiosa formula adottata per il dialogo tra scienza e fede, e oggi reciprocamente estranei. Si tratta di un percorso arduo e complesso, che deve superare sospetti ed esitazioni, timori di strumentalizzazione, paure di degenerazioni. È un percorso, però, che è già stato avviato con l’architettura, che ha visto una piccola folla di “archistar” cimentarsi – non sempre con successo – nell’edificazione dello spazio sacro, a partire dal gioiello di Ronchamp con Le Corbusier, per scendere giù verso Aalto, Michelucci e approdare a Meyer, Siza, Ando, Botta, Piano, Fuksas e così via elencando. La fatica di questo incontro è spesso dovuta al fatto che non si compie un pieno dialogo tra architettura e liturgia, tra istanze formali estetiche ed esigenze funzionali sacre, tra la stessa struttura architettonica e il necessario “arredo” artistico, essendo appunto l’immagine una componente capitale nel culto cristiano. Più distante è, invece, la collocazione attuale e quindi il rapporto tra le altre arti e la fede: quando entrano in collisione, è il più delle volte per una provocazione, come è accaduto per soggetti sacri sottoposti a una più o meno intenzionale rielaborazione “blasfema”. È proprio per ritentare un primo, pacato e rigoroso confronto che ho voluto – nella mia attuale funzione specifica di responsabile di due dicasteri della Santa Sede dedicati alla cultura e ai beni culturali della Chiesa – prospettare la possibilità di un padiglione vaticano nella Biennale di Venezia, non nell’edizione di quest’anno (considerati i tempi troppo ristretti), ma in quella del 2011. Si tratta ovviamente di un esperimento iniziale che di necessità risulterà limitato e definito solo

sulla base di alcuni modelli ed emblemi, sia a livello di artisti sia a livello di tipologie. Un inizio di percorso, perciò, che cercherà di sollecitare personaggi di rilievo internazionale distribuiti nelle varie aree continentali a rimeditare e a ricreare i grandi simboli, temi, soggetti religiosi, prescindendo per ora da una diretta applicazione liturgica. L’idea ha già sollevato un forte interesse soprattutto nell’area anglosassone e in quella nordamericana, ma è mia intenzione coinvolgere ugualmente ambiti asiatici, africani e latino-americani, sempre con la consapevolezza di essere di fronte a un itinerario erto e irto di asperità, anche a causa della difficoltà di delineare una proposta tematica che è ancora più intuita e abbozzata che sviluppata. Rimane, comunque, ferma la convinzione che da questo incontro entrambi, artista e credente, usciranno arricchiti, sollecitati e affrancati da stereotipi, diffidenze ed equivoci, pronti a ritrovare forse una consonanza ideale, se è vero, come scriveva Jules Laforgue che «L’Art, c’est l’Inconnu», o come esplicitava Hermann Hesse nel suo Klein und Wagner, quando sosteneva che «arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio».

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La bellezza � da salvare? Variazioni extracanoniche su religione e arte di Pierangelo Sequeri

Libertà espressiva e canone antignostico ella sua importante Lettera agli artisti (1999), Giovanni Paolo II ha enunciato Nlapidariamente che la Chiesa, in quanto tale, non ha un suo proprio “stile

artistico”. L’asserto, che esprime sinteticamente la “coscienza transculturale” della fede cristiana, corrisponde in effetti a una evidenza di fatto che è piuttosto agevole da cogliere storicamente. Eppure, un simile pronunciamento formale, nella perdurante inerzia delle tensioni innescate nei secoli della tarda modernità, non può mancare di sorprendere.


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L’apertura, ormai assodata, andrebbe in verità più generosamente sviluppata in termini di impegno teorico (teologico, filosofico, estetico); e anche nell’esuberanza di più liete avventure dello spirito creativo. Non si tratta qui semplicemente della coerenza dell’immagine devozionale con la fede confessante, o con la dignità del culto. È questo un tema che ogni spirito non fazioso può ben comprendere, naturalmente, in quanto capitolo dell’ethos ecclesiale dell’arte che riguarda la formazione della fede, la celebrazione del rito sacro, la spiritualità popolare. Ma rimane il fatto che, nella logica del cristianesimo, il ripensamento artistico del divino e del sacro è destinato a occupare uno spazio ben più ampio. Il confronto fra l’invenzione creativa e l’immaginario religioso deve arricchire certamente, oltre i confini dell’opera destinata per l’espressione della fede confessante, l’ampio orizzonte del confronto dell’umano e del divino. Le innumerevoli varianti della sensibilità, dell’interrogazione, della ricerca e dell’emozione personalmente vissuta, che fanno la storia dei tratti più alti dell’arte, sono le tracce di una reciproca frequentazione dell’umana esperienza e della tradizione religiosa che pervade l’intero habitat della cultura e della fede. La genuinità dell’invenzione e la sincerità dell’espressione, che vengono

investite in questa frequentazione, diventano un patrimonio generale della ricerca del senso. Ormai, il cristianesimo stesso si è aperto uno spazio per questa frequentazione che va generosamente oltre l’area specifica delle sue funzioni liturgiche e catechetiche. L’ampiezza di questo orizzonte stimola la stessa coscienza credente. Fra lo spazio specificamente liturgico e quello puramente profano, un ampio spessore della storia degli effetti nel nesso del sacro e dell’arte occupa infinite gradazioni delle dialettiche in transito tra invenzione estetica della fede religiosa (non necessariamente artistica) ed esercizio creativo dei sensi spirituali (non necessariamente confessante). Le sue dialettiche vitali esaltano interrogativi in movimento, risonanze inesplorate, sensi nascosti, esperienze inedite della ricerca di Dio. Naturalmente, affinché questo immenso territorio possa essere indagato e apprezzato criticamente, anche dal punto di vista teologico, si deve supporre che il cristianesimo stesso non sia l’oggetto passivo, più o meno disponibile e interessante, di un approccio estetico o di una interpretazione artistica. Esso deve al contrario essere percepito (dagli stessi credenti e da tutti) come una religione non soltanto affettivamente coinvolgente, ma anche riflessivamente attrezzata. In altri termini, è necessario considerare il cristianesimo


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L'arte antignostica cristiana lavora sulla bellezza della creativit� divina

1 | Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti, n. 16.

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come una fede animata, sin dall’inizio, da un’insopprimibile vocazione ad interagire – attivamente e anche dialetticamente – con le forme dell’ethos contestuale mediante la condivisione di vere e proprie grammatiche del logos, e non soltanto di inafferrabili mistiche del pathos (o addirittura del nomos). Considerata da questo punto di vista, la storia del pensiero cristiano appare interamente abitata da una straordinaria complessità di elaborazioni teoriche e pratiche dell’espressione, nei più diversi registri e domini del pensiero esteticocreativo. In larghissima parte, questa storia coincide con la storia dell’Occidente. Dopo tutto, se l’Occidente ha una coscienza storica del significare, e ha sviluppato una coscienza evolutiva delle espressioni del pensiero e dell’arte, lo deve alla legittimazione cristiana dell’impulso creativo in cui l’umano si appropria delle modalità ermeneutiche – e non puramente dogmatiche, o disciplinari, o rituali – dell’esperienza del sacro. Sullo sfondo di questa lunga tradizione occidentale opera un gesto di vera e propria rifondazione teologica dell’estetico, che appare inestirpabile dal destino del cristianesimo: come anche delle tradizioni artistiche che esso ha nutrito nella nostra cultura, comprese quelle che si sono separate dall’identità confessante della fede. Il gesto di cui parlo è la miracolosa decisione antignostica del cristianesimo, audacemente formulata sin dal principio della sua elaborazione culturale. Una simile decisione può ben essere intesa come l’atto di fondazione di una teologia del sensibile. Dico decisione “miracolosa”, perché l’improbabilità del gesto teorico non finirà mai di stupirci. La decisione antignostica è pura invenzione controcorrente nei confronti del pensiero filosofico e religioso più alto dell’epoca contestuale agli inizi cristiani. Il suo fondamento è, anzitutto, il più roccioso realismo della veritas hebraica circa la bontà della creazione, compreso il mondo materiale. Il suo vertice è il realismo della notitia evangelica dell’incarnazione umana del Figlio, che non si scioglie neppure in Dio. E il suo approdo la convinzione della risurrezione dei morti, che misteriosamente riscatta e trasfigura in pura bellezza l’elemento sensibile, nel quale hanno preso “corpo” le più alte invenzioni della mente e le migliori affezioni dello spirito. Emozioni indisgiungibili dalla vita eterna, che la vita dell’arte incide nell’anima per la sua destinazione. Decisione improbabile, dicevo, per un cristianesimo assediato dalla nobile tradizione delle più antiche religioni del mondo, che avevano affinato le loro pratiche di rimozione del sensibile come via della redenzione e della luce dell’anima. Decisione culturalmente imbarazzante, per un cristianesimo osservato dall’alto di una sapienza filosofica illuminata, che raccoglieva nella vita della mente, e nella via di una theoria affatto indifferente al logos del sensibile (oggi ereditata dall’ideale


Pierangelo Sequeri | La bellezza � da salvare

della mathesis scientifica). Ebbene, il cristianesimo, sollecitato dalla cultura dominante a nobilitarsi per la via di una trasformazione in religione dello pneuma incorruttibile, ostile nei confronti della irredimibile volgarità dell’aisthesis mondana, rifiutò semplicemente l’alternativa. Nel lunghissimo metabolismo di questo sconvolgente passaggio (fosse più generosamente ripercorso in questa chiave, nell’ambito delle stesse discipline ecclesiastiche) si potrebbero scorgere i segni, tutt’altro che timidi, del germe della singolarità cristiana di un’estetica teologica virtualmente al lavoro.

La Íterza viaÍ: moderno e contemporaneo La storia dell’arte, indagata lungo questo solco, è infinitamente più eloquente della convenzionale storia della teologia e della spiritualità, considerate separatamente e selettivamente, in base alle convenzioni di un codice scolastico (filosofico come teologico) ormai palesemente inadeguato a dar conto della realtà. Purché la storia dell’arte, a sua volta, incominci di nuovo a raccontarsi in tutta la sua larghezza, altezza, profondità: come storia di sensi e sensibilità delle passioni più intime e più alte, e non semplicemente come storia di invenzioni stilistiche e di espedienti tecnici. Nel flusso di questo racconto, troverebbe facile collocazione anche la liquidazione di una memoria stereotipa che ha ridotto a spenta citazione – apologetica o subalterna – i sobri canoni ecclesiastici sull’argomento. L’ispirazione antignostica è quella che fornisce infatti l’impulso decisivo alla risoluzione del Concilio Secondo di Nicea, del 787, che sancisce l’illegittimità del principio iconoclasta, pur riconoscendo la verità dei fraintendimenti che

esso colpiva (idolatria, superstizione, manipolazione e mercanteggiamento dell’icona sacra). La fedeltà alla logica dell’incarnazione del Figlio è il fuoco dell’argomentazione risolutiva. L’esito dell’ortodossia, come del resto l’intero contenzioso della polemica iconoclasta, non ha comunque nulla a che fare con il tema della qualità tecnica e stilistica dell’immagine artistica, nel senso in cui noi lo intendiamo ora, nella maturata libertà cristiano-occidentale dell’espressione estetica. È vero d’altra parte, come ormai la cultura della religione riconosce di nuovo chiaramente, che il pronunciamento in favore della rappresentazione sensibile del sacro, ha dignità di teologia. Il mondo non è una caduta del divino nelle regioni della corporeità spregevole, bensì il riflesso dell’amorevole condiscendenza divina che lo mette a disposizione di una creatura che porta la sua “immagine e somiglianza”. L’artista è sempre alla ricerca del senso recondito delle cose, il suo tormento è di riuscire ad esprimere il mondo dell’ineffabile. Come non vedere allora quale grande sorgente di ispirazione possa essere per lui quella sorta di patria dell’anima che è la religione? Non è forse nell’ambito religioso che si pongono le domande personali più importanti e si cercano le risposte esistenziali definitive?1

L’espressione artistica, nel regime antignostico della verità cristiana della creazione e dell’incarnazione, lavora al livello della bellezza – ineffabile, irraggiungibile, inimmaginabile – della creatività divina. Perché è proprio quella bellezza, e non meno che quella, il punto generatore di ogni azzardo dell’immaginazione creativa, che cerca il suo lampeggiare nel visibile È l’asintoto radicalmente sfuggente di questa utopia teologica che rende

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illimitata l’audacia dell’immaginazione umana. La storia degli effetti di questa apertura, indagata anche da un punto di vista specificamente estetico-teologico, sarebbe assai istruttiva. Essa anticipa sistematicamente il lungo processo degli sviluppi del principio antignostico nella dottrina e nell’ethos religioso medesimo. È nel passaggio fra Ottocento e Novecento che si è realmente prodotta la frattura dei mondi, e il contatto fra arte alta e religione-di-chiesa ha conseguito assetto prevalente di estraneità e conflittualità. Le responsabilità, con i relativi effetti di azione e reazione, possono essere certo condivise, senza comodi esoneri. Rimane il fatto che ci sarebbe anzitutto da conoscere e capire, con strumenti di storia della cultura differenziati. Nello spazio intermedio fra l’arte funzionale all’esercizio del culto e l’arte che celebra la bellezza dell’invenzione del senso, è nondimeno apparsa una terza costellazione: indispensabile allo sviluppo dei sensi spirituali, che sono il punto di sovrapposizione fra l’incarnazione del sacro e la trascendenza dell’umano. Le opere di questa costellazione estetica del sacro, relativamente autonoma nei confronti della concentrazione liturgica e della laicità civile, non si lasciano agevolmente ricondurre alla rigidità degli opposti. Ne rappresentano piuttosto uno stimolante ed enigmatico “effetto di soglia” (da entrambi i lati). La stessa romantica “religione dell’arte”, per esempio, con il suo investimento musicale di elezione (Wackenroder), è certamente euforia sostitutiva della religione confessante. Ma mira pur sempre a sostituirla in vista del migliore conseguimento del suo scopo ultimo, che è quello della mistica comunione con l’Assoluto. Nell’ampio spazio degli esperimenti guidati da questo progetto, talora francamente dialettici e critici nei confronti dell’istituzione religiosa, è pur sempre il canone religioso che viene sondato e convocato nel regime del senso. In questa regione, per altro, conducono la loro onesta ricerca presenze soggettività convintamente religiose, che percepiscono il nuovo spazio estetico come un’opportunità per la dilatazione dei sensi spirituali della fede medesima. Pensiamo al passaggio della nuova pittura fra Ottocento e Novecento, o alla densità di “opere della soglia” che abita la musica di tutto il Novecento (ricca di capolavori assoluti). Per non parlare della letteratura, del teatro, del cinema stesso (soprattutto a confronto con l’invariante mediocrità del medium televisivo, nel frattempo divenuto egemone). Dobbiamo continuare ad iscrivere questo enorme volume di arte-pensiero, nel suo serrato corpo-a-corpo col sacro, nella sfera dell’ibrido senza definita collocazione e conciliazione? O non dovremo piuttosto salutare in esso l’avvento del luogo realmente universale dell’incontro e della sperimentazione, dell’interrogazione e della supplica, del grido e della testimonianza, dove si raccoglie l’ipersensibilità dell’umano a tutti i passaggi sensibili del divino? Forse dovremo abitare più rigorosamente e più generosamente il tratto sperimentale di questo laboratorio spirituale del genio artistico, che si è costituito nel passaggio fra

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Pierangelo Sequeri | La bellezza � da salvare

Ottocento e Novecento. Nel momento in cui la ragione divenuta perfettamente “in-sensibile”, e la religione incongruamente “an-estetica”, le forze dell’anima intenzionate a resistere alla dissociazione fra logos e pathos hanno trovato nell’arte lo spazio che veniva loro negato dalla filosofia, dalla scienza, dalla stessa teologia. In attesa di tempi migliori. Lo ha riconosciuto Paolo VI, nei memorabili interventi che hanno spregiudicatamente dato voce e riaperto il bisogno – reciproco – di sconfiggere l’estraneità dei mondi. Le opere di questa costellazione moderna e contemporanea, che sono per lo più le migliori, e in ogni caso quelle più appassionatamente condivise dalle molte tribù del contemporaneo, interpretano – non senza contraddizione, talora, con la loro stessa istruzione ideologica di complemento – una funzione indispensabile dell’arte: che è quella di tenere aperta, persino drammaticamente, la soglia della speranza di non aver abitato la terra invano. Lo ha riconosciuto Giovanni Paolo II, continuando nel solco di un impulso alla ricerca di nuova conoscenza e nuova alleanza che proprio il magistero papale del Novecento – è giusto riconoscerlo – ha inopinatamente acceso fra le chiese. Molti, anche ecclesiastici, deplorano oggi l’eccessiva sobrietà del canone ecclesiastico nel campo dell’arte. Personalmente la ritengo, invece, un tratto di stile. E un’eccellente premessa ad una nuova stagione di reciproca ospitalità e di felice frequentazione a tutto campo fra creativi e studiosi, di ogni tendenza. Nel frattempo, molti segni incoraggianti sono già apparsi a premiare la pazienza dell’attesa di generazioni più intelligenti e appassionate. Nell’ambito della riflessione, anche teologica, come nell’ambito di nuovi percorsi formativi, anche istituzionali. Le vesti strappate di un’ossessiva estetica della “morte di Dio” non si addicono all’arte. Né portano al cristianesimo forme migliori, le isteriche lamentazioni sull’ineluttabile “irreligione dell’arte” che caratterizzerebbe in blocco la cultura della contemporaneità.

Nota Bibliografica Diamo soltanto scarne indicazioni essenziali, utili a circoscrivere documentalmente l’orizzonte di riflessione presentato nel testo. Per una visione d’insieme della storia del “canone ecclesiastico”, con preciso inquadramento dei suoi momenti storici determinanti, e istruttiva antologia dei documenti, rimane insostituibile il lavoro di D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai giorni nostri, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995. Ampi strumenti di consultazione, relativi rispettivamente al magistero recente e alla riflessione teologica: Chiesa e Arte. Documenti della Chiesa. Testi canonici e commenti, a cura di G. Grasso, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001; Arte e Teologia. Dire e fare la bellezza nella Chiesa: un’antologia su estetica, archittettura, arti figurative, musica e arredo sacro, a cura di N. Benazzi, Bologna, Dehoniane, 2003. Per la storia del movimento di pensiero che si riferisce alla storia degli effetti della decisiva vittoria sulla tendenza iconoclasta: Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto delle immagini, a cura di L. Russo, Palermo, Aesthetica, 1999; Atti del Concilio Niceno Secondo Ecumenico Settimo, traduzione e cura di P.M. Di Domenico, 3 voll., Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2004; H. Belting, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medio Evo, Roma, Carocci, 2001. Documenti dei papi recenti: Paolo VI, Su l’arte e gli artisti. Discorsi, messaggi e scritti (19631978), a cura di G. Ravasi, P.V. Begni Redona, Brescia-Roma, Istituto Paolo VI-Editrice Studium, 2000; G. Borgonovo, A. Cattaneo, Prendere il largo con Cristo. Esortazioni e Lettere apostoliche di Giovanni Paolo II, Siena, Cantagalli, 2006. Per un’esposizione più analitica e circostanziata del punto di vista espresso in questo intervento, e delle linee di sviluppo teorico conferente, sia permesso rimandare a più specifici saggi dello scrivente: L’estro di Dio. Saggi di estetica, Milano, Glossa, 2000; Sensibili allo Spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Milano, Glossa, 2001; Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2006.

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Salvezza e/o Salute Tra arte, religione e scienza di Massimo Donà

la religione cristiana si sia affacciata sulla scena del mondo come messaggio 1.diChe “salvezza” è noto. Ma che anche l’arte possa essere concepita come tale… è forse un po’ meno scontato. Eppure per Paul Klee, ad esempio, «la creazione vive come genesi sotto la superficie dell’opera. (E, se) rivolta al passato la vedono tutti gli intellettuali, volta all’avvenire soltanto chi sa creare»1. Un avvenire che destina all’incompiutezza ogni supposta definitività. E che solo per questo promette


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“salvezza” – ma si tratta di capire in che senso… D’altro canto, cos’è la verità se non inizio? Quello in cui, solamente, l’opera può essere “in divenire”… anzi, in cui essa è sic et simpliciter “divenire”. Solo l’inizio, infatti, dice la radicale negazione di ogni koinonia tra il “prima” e il “poi” – quelli stessi che, in ogni altra determinazione del divenire, sembrano invece tranquillamente rinvenibili. Perché solo l’inizio dice un divenire puro... in cui nulla davvero “sta” – ogni determinazione dello “stare”, infatti, depotenzierebbe la novitas implicata dal divenire in quanto tale. Fermo restando che, senza novitas, nessun divenire potrebbe in qualche modo costituirsi. Eppure, in qualsivoglia forma del divenire, la novitas sembra essere sempre relativa e parziale. Qualcosa, cioè, sembra comunque rimanere, del prima – e d’altro canto, se non fosse così, non si potrebbe neppure riconoscere l’essere divenuto del diveniente. Ad ogni modo, non può non esser riconosciuto il fatto

che, nonostante questo, proprio là dove qualcosa, del prima, dovesse effettivamente rimanere (quello stesso che non può “non-rimanere”, affinché venga appunto riconosciuto l’esser-divenuto del diveniente), non potrebbe esserci data alcuna esperienza del “divenire”… ché, davvero, nel divenire, nulla, del poi, può essere così com’era nel suo supposto prima. Infatti, là dove qualcosa dovesse essere cambiato, tutto finirebbe per cambiare (anche solo per i legami che connettono quel che appare nel poi alla novitas costituente il poi in quanto “poi”)… ma, per ciò stesso, non dovrebbe essere più possibile rinvenire qualcosa come un “divenire” – se è vero che, affinché possa esser riconosciuto l’esser divenuto, deve nello stesso tempo palesarsi l’esser “quello stesso di prima”, da parte del divenuto (quello stesso che ora, per l’appunto, una volta divenuto, sarebbe in qualche modo diverso da come era prima). Ciò che peraltro tutti noi sperimentiamo quotidianamente. Dunque: da un lato, se qualcosa rimane, non possiamo


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La creazione, manifestazione del divino

1 | P. Klee, Diari (1898-1918), trad. it. di A. Foelkel, Milano, il Saggiatore, 1976, p. 313. 2 | P. Klee, Confessione creatrice, in Confessione creatrice e altri scritti, trad. it. di F. Saba Sardi, Milano, Abscondita, 2004, p. 17. 3 | Ivi, p. 13. 4 | Ivi, p. 18 5 | Klee, Diari (1898-1918), cit., p. 314. 6 | Ivi, p. 311.

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non riconoscere che, in quanto unito all’ora, quel che dovrebbe essere rimasto (del prima) non può più essere quel che è stato. E dunque che nulla di fatto rimane; che nulla rimane, proprio là dove qualcosa deve nello stesso tempo esser rimasto… e, in quanto rimasto, non può che connettersi a quel che fa, dell’ora, qualcosa di diverso dal prima. Smentendo così d’essere quel che, in quanto momento del prima, non dovrebbe poter essere ancora connesso a quel che finirà per fare, del poi, un poi. E, dall’altro, se nulla rimane (neppure l’esser prima del prima – che ora non può certo essere quel che era “in quanto non ancora connesso al poi”), nulla di quel che appare può essere riconosciuto come risultato di una modificazione, di un divenire. Eppure, tutti noi siamo normalmente persuasi di aver a che fare col “divenire”. Fermo restando che, il fatto di sperimentarlo non significa se non che tutto è davvero cambiato; per quanto non sembri così… per quanto, cioè, sembri che qualcosa “di quel che era prima” sia davvero rimasto. Certo, la situazione appare alquanto problematica; e dunque difficilmente risolvibile si mostra la sua aporeticità. A noi, infatti, sembra che le cose mutino e insieme non mutino; ossia, che da un punto di vista mutino e da un altro non mutino. Ma il fatto è che tutto può esser davvero cambiato solo in quanto, a manifestarsi, in tale esperienza, sia appunto il divenire costituente l’inizio in quanto tale. Non altrimenti può farsi significante il divenire di cui facciamo tutti quotidianamente esperienza – nel cui orizzonte nulla, davvero, rimane, neppure “in parte”, di quel che sarebbe stato prima del suo esser divenuto. Insomma, il vero divenire è solo quello caratterizzante l’inizio. Perché, solo alla luce del “primo”, nulla può esservi di quel che prima… non avrebbe neppure potuto esserci – altrimenti il prima non sarebbe il prima dell’inizio. Ossia, non sarebbe quel non-essere che non può stare prima (altrimenti si tratterebbe di un “essere”), e che dunque destituisce la stessa principalità del “primo”. L’inizio è insomma “divenire” (nel senso che né diviene né è divenuto) perché in esso l’essere non-è. E a essere è, sempre in quello stesso, sempre e solamente il non-essere. Perciò, chiunque abbia a che fare con il divenire in senso proprio, non potrà aver a che fare se non con l’inizio. Dunque, anche l’artista; che proprio nel divenire trova il proprio originario elemento di appartenenza. È lo stesso Paul Klee a sottolinearlo: «L’opera d’arte è in primo luogo genesi; mai se può aver l’esperienza (soltanto) come di un prodotto»2. Ecco, ciò che viene reso visibile dall’arte (tenendo per buono il fatto che «l’arte non ripete le cose visibili, ma, per l’appunto, rende visibile»3). Insomma, l’arte rende visibile la genesi. Ecco perché, sempre secondo Klee «la


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relatività delle cose visibili è oggi resa manifesta… e rispetto all’universo, il visibile costituisce solo un esempio isolato – ché esistono latenti, ben più numerose verità»4. Si chiede infatti l’artista svizzero: «Quando lo spirito è più puro?»… e risponde «all’inizio. Là l’opera è in divenire; qui l’opera in essere»5. «Il divenire prevale sull’essere» – «Produttività è appunto la via, l’essenziale»; perciò «ogni volta che, nel creare, dallo stadio della genesi sorge un nuovo tipo e raggiungo quasi la meta, l’intensità si disperde assai rapida e devo cercare altre vie»6. Solo guardando all’inizio, dunque, l’artista incontra e fa esperienza del vero divenire… ovvero, di ciò che rende in-compiuta ogni realizzazione, e di fatto ci aiuta a smascherare la falsità di ogni supposto compimento. Solo così egli riesce a salvarci e a salvarsi dall’idolatria; liberandosi e liberandoci dall’illusione relativa alla possibilità di un qualche improbabile “compimento”. Solo tale consapevolezza ci fa pro-cedere… ovvero, ci fa andare sempre “oltre”; e dunque ci spinge in avanti. Insomma, mentre per Hegel «l’andare avanti è un tornare indietro al vero e al fondamento», per la fede e per l’arte, è proprio nel tornare indietro che si va avanti – perché, solo con il tornare indietro, all’inizio, ci si potrà trovare in un sempre possibile futuro. Solo là dove nulla-è (e dunque non ci si affaccia sull’essere, a partire dal nulla) il divenire non si fa fagocitare da quella permanenza che lo trasfigurerebbe in “mera parvenza”. E quindi riesce a dire ciò che mai è stato; e che ancora non-è. E che perciò ci invita ad attenderlo… ossia, ci fa sperare quel che ancora non è stato – ma, per l’appunto, dovrà esserci. Dato che quel che ora non-è si dà come comunque de-terminato; cor-rispondendo per ciò stesso adì un futuro il cui attuale non-esserci disegna una impossibile ma perfettamente irrinunciabile “promessa”.

Ecco perché la via seguita dall’artista si configura come un vero e proprio procedere; o anche, come una radicale liberazione dalla fissità che sempre ogni guadagno e ogni meta di fatto costituiscono, o meglio fanno credere di poter essere. Solo guardando al creatore, insomma – ossia, solo volgendo lo sguardo a ritroso, verso l’inizio – troviamo un “poi” sempre ancora possibile… (perché solo l’inizio è autentica libertà). Solo ripetendo l’inizio, cioè, potremo inaugurare una nuova epoca… senza doverci adeguare ad una astratta ripetizione. Ovvero, destituiremo il suo stesso ri-petersi. Solo così – ossia solo ripetendo l’inizio – non saremo mai costretti a ripetere qualcosa di determinato. Ma di quest’ultimo (o meglio, di ogni determinato) potremo richiamare e ricordare piuttosto l’originaria “indeterminatezza”. E riattualizzarla. Dove, a venire messo in questione sarà, ogni volta, il fatto stesso che possa essersi trattato di una semplice “ripetizione”. 2. Cosa sia davvero “la salvezza” promessa dalla religione cristiana pochi lo sanno. Eppure, dobbiamo cercare di capirci qualcosa. Cominciamo dunque dalla seguente citazione. Diceva Paolo, nella lettera ai Romani, che «il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco» (Lettera ai Romani 1, 16). Una salvezza che il cristiano può riconoscere solo per “grazia”; quella stessa che proprio Cristo ha voluto liberamente inscrivere nel presente storico della propria venuta. «Eccolo ora il tempo favorevole; eccolo ora il giorno della salvezza!» (Corinzi II, 6, 2), esulta infatti Paolo. Ma… salvezza da cosa? Gesù è senz’altro venuto sulla terra con una promessa di liberazione integrale dalle varie forme di sofferenza

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7 | Cfr. P. Coda, Il logos e il nulla. Trinità religioni mistica, Roma, Città Nuova, 2003, p. 275. 8 | Ibidem. 9 | Ibidem.

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che da sempre affliggono l’umana esistenza – ossia la vita su questa terra. È Piero Coda a ricordarcelo, nel suo bellissimo Il logos e il nulla7. A ricordarci cioè che «Dio si prende cura e intende liberare l’uomo dalla situazione di sofferenza in cui si trova, quale che ne sia l’origine»8. Certo, la promessa del Figlio di Dio rinvia a una definitività che potrà concretizzarsi solo nel regno dei cieli, ma diventa comunque «operante nella storia attraverso il Messia e coloro i quali son chiamati a seguirlo»9. L’escatologia cristiana, insomma, a differenza di quella giudaica, non abbandona il presente storico a un’attesa insipiente; ma, anche nell’orizzontalità del tempo storico, dispensa infiniti segni della fine dei tempi. E li offre in primis proprio in quel dono di sé che Dio stesso, nel corpo del Figlio, avrebbe deciso di fare agli umani. E in modo specifico li offre nel momento più tragico della vicenda terrena patita da Gesù, ossia nella passione. O meglio, nel momento dell’abbandono. Quello in cui Gesù perde ogni ragione di speranza. “Vuota” elpis diventa infatti in quel momento la fede di Gesù. Quando, anche il legame con il Padre non è più in alcun modo assicurato. Quando Gesù, cioè, si ritrova uomo sino in fondo; quale mortale che potrebbe anche essere solo ed astrattamente mortale. Ecco, proprio in quel momento, ovvero nella sua assoluta paradossalità, la “salvezza piena e perfetta della fine” avrebbe attraversato la storia. Ossia, quando, rimasto davvero senza motivi per sperare, Gesù continuò a credere, rimettendosi a un Padre che poteva anche non esserci mai stato. Là dove, come indicato dal Vangelo di Marco, il Nazareno finì per accettare la morte, non volendo essere salvato – ecco, solo allora la salvezza si sarebbe fatta “presente” e il male della storia sarebbe stato pienamente salvato. D’altro canto, anche nel Vangelo di Marco si dice che «chi vorrà salvare la propria anima/vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Marco 8, 35). Insomma, la religione cristiana è una religione assolutamente “paradossale”. Nella cui prospettiva, solo chi perde la propria vita, può salvarla. Solo chi la perderà, e soprattutto alla luce di una fede perfettamente infondata, solo costui la salverà. Perché, proprio il voler salvare la propria vita è, al contrario, condizione irreparabile di perdizione e di morte. In ogni caso, per quale motivo ci si dovrebbe convincere che solo così una piena salvezza (realizzabile, peraltro, solo nel regno dei cieli) potrà farsi riconoscibile agli umani e alla loro inguaribile finitezza? Il fatto è che il cristianesimo, come mostra molto bene ancora una volta Piero Coda (sempre in Il logos e il nulla), è originariamente caratterizzato da una doppia


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tensione, i due corni della quale sono entrambi viventi e pulsanti nel suo corpo storico. 1. Da un lato esso non ha nulla a che fare con il contemptus mundi caratteristico ad esempio di un certo platonismo, ma fa del corpo del mondo il luogo privilegiato della manifestazione divina; da cui la rilevanza e la centralità del mistero dell’incarnazione; e il farsi fango di Dio, per dirla con san Bonaventura; e la sconvolgente realtà della resurrezione dei corpi. 2. Ma dall’altro, esso non riduce il messaggio divino a una promessa volta ad assicurare il destino della carne. Nell’ultimo giorno, infatti, Cristo consegnerà il regno a Dio Padre, si dice in Corinzi I (15, 23). Ossia il mondo dovrà comunque trasfigurarsi nella perfetta attuazione di quell’ordine trinitario che in hoc saeculo può dire solo la propria impossibilità. Perciò l’aspetto di questo mondo dovrà “passare”; dovrà passare cioè la sua deformità – ossia il peccato che ne ostacola la vera e piena manifestazione. Quella che solo una terra nuova potrà procurarci nella forma di un’abitazione radicalmente nuova. Guai, insomma, a dimenticare la natura escatologica del messaggio cristiano! Ma soprattutto… guai a fare di tale destinazione il prospettarsi di una dimensione semplicemente “altra”. Trascendente, cioè, in senso “astratto”. Altrimenti finiremmo per trasformarla in un fantasma di salvazione; ossia nel prospettarsi di un’altra umana, troppo umana abitazione. Solo alla luce di tale doppiezza possiamo cioè cercare di spiegare le ragioni del modo assolutamente paradossale con cui la “fine” sarebbe stata annunciata nella storia. E comprendere, conseguentemente, in che senso la salvezza promessa dal messaggio evangelico sia davvero totalmente altra dalla “salute” che l’umana finitezza in quanto tale sembra destinata a cercare.

3. La parola della “fine” annuncia cieli nuovi e terra nuova; e dunque una pace che non è quella di questo mondo. A Pilato, infatti, Gesù disse: «Il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni 8, 36). Non a caso, in questo mondo Gesù sarebbe venuto a portare la spada; invitandoci a rompere i legami umanamente più sacri (come quelli familiari), e a farlo nel nome di Dio – come se, solo così, ci si potesse fare veraci testimoni dell’indissolubilità e dell’irrinunciabilità del legame testimoniato da Gesù. Nel Vangelo di Matteo, infatti, è sempre Gesù ad ammonire: «Non pensiate che io sia venuto a metter pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me» (Matteo 10, 34-37). D’altronde, è solo nell’orizzonte peraltro intrascendibile di questo mondo che possiamo immaginare una pace semplicemente opposta alla guerra; implicante cioè una semplice rinuncia alla spada. Una pace da cui i legami terreni verrebbero comunque consolidati e in qualche modo “assicurati”. E, almeno temporaneamente, non minati da tutto ciò che potrebbe scaturire dalla riemersione della potenza di polemos – fonte, in quanto tale, di perenne insecuritas. Ma, lo diceva già Eraclito: che in questo mondo polemos è Padre di tutte le cose. Anche la pace, infatti, per essere tale, in questo mondo, deve “contra-porsi” alla guerra. Ossia, deve lottare contro la guerra; deve cioè dichiarare guerra alla guerra, per affermarsi come tale. Rimanendo, anche qualora dovesse rischiare di vincere temporaneamente lo scontro, comunque a rischio. In quanto messa costitutivamente in questione dalla guerra; che già

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per tale contrapposizione, vede in qualche modo confermato il proprio invincibile imperium. Quale condizione di possibilità dello stesso mantenimento di ciò che chiamiamo e ri-conosciamo come “pace”. Perciò la pace annunciata da Gesù non può essere ridotta a mero segno di una condizione opposta a quella della guerra. Altrimenti sarebbe una pace ab origine fagocitata dall’intrascendibilità di polemos, e dunque dalla “guerra”. Perciò, quando Gesù annuncia il non esser di questo mondo da parte del regno annunciato dalle sue parole e dalla sua vivente testimonianza, non si riferisce al possibile instaurarsi di un “altro mondo”. Ma a un modo specifico d’essere da parte nostra in questo mondo; ossia ad un modo del non-esser di questo mondo che non implichi, sic et simpliciter, il nostro farci indicazione di un “altro”. Gesù si riferisce al suo non portare pace così come la pace può darsi in questo mondo; al non portare spada così come la spada viene portata e utilizzata in questo mondo! Gesù annuncia qualcosa che gli umani possono comprendere solo de-terminandone la sperabilità in un tempo “futuro”; ma che in sé “non-è-tale” (ossia, “futuro”). Ché, se fosse astrattamente futuro, sarebbe sperabile solo a determinate condizioni – quelle capaci di renderlo appunto ragionevolmente sperabile. E non gratuitamente o infondatamente (cioè insensatamente) sperabile. Ossia quelle che potrebbero, nel presente, esser interpretate come possibili aitìe (cause) di qualcosa che sembra ragionevole pre-vedere quale loro futuro “effetto”. Gli umani ragionano per distinzione; non a caso quello di non contraddizione è il loro irrinunciabile “principio”. Ma tale principio è sostanzialmente aporetico. Anche solo per il fatto che, a ben vedere, è proprio la sua incontrovertibilità a farsi condizione originaria del suo stesso naufragio. E proprio in quanto capace di mostrare l’impossibilità della propria negazione (lo mostra molto bene Aristotele nel quarto libro della Metafisica); e dunque di rendere falsa la convinzione secondo cui tutto si distinguerebbe dal proprio altro (secondo quanto viene sancito dallo stesso nomos veritativo in quanto intrascendibile e quindi rigorosamente incontrovertibile). Almeno il principio, infatti, proprio se quel che dice “è vero”, “non si distingue da altro” – un altro di cui esso medesimo costituisce appunto l’inconfutabile condizione di impossibilità. Perciò rende falsa la convinzione secondo cui tutto si distinguerebbe dal proprio altro. Proprio perché tutto così si distingue, ossia anche l’errore si distingue dalla verità, si dovrà infatti riconoscere che anche l’errore parla il linguaggio della verità; ossia che l’errore non è errore. Ossia che l’errore non si distingue. E che dunque non è affatto vero che tutto si distingue dal proprio altro. Ossia non è vero quel che comunque appare: ossia il distinguersi, da parte di


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ogni determinatezza, da tutto ciò che è altro dalla medesima. Stante che anche l’errore appare come il “distinguentesi”. Insomma, proprio per ciò la verità dice il falso; ossia da ultimo non c’è distinzione tra verità ed errore. E dunque tra il distinguersi e il non distinguersi. Perciò non potremmo mai esperire un non distinguersi distinto dal distinguersi! Perciò diventa quanto mai opportuno imparare a riconoscere il non distinguersi nel distinguentesi. Ma il conoscere, appunto, “deve distinguere” (l’intelletto è necessariamente de-terminante – avrebbe detto Kant). Deve distinguere anche per poter – là dove sia in grado di farlo – riconoscere il non-distinguersi nel distinguentesi. Deve cioè “porre” ciò di cui riconoscere da ultimo il non-esser-ciò-che è. Deve far questo, ma non può de-terminare, oggettivare, tale negarsi! Ovvero, non può tradurlo in un qualche “significato”. Altrimenti trasfigurerebbe la stra-ordinarietà, ovvero la potenza e il mistero di tale “negazione” – riducendole all’ordinarietà caratterizzante appunto la forma noncontraddittoria sancita dall’esser-altro. Ricondurrebbe cioè il me on all’eteron! Da ciò la sorprendente chance rappresentata dalla “fede”. E dalla fede cristiana in particolare. Ché, il credente può definirsi tale solo là dove abbia riconosciuto la straordinarietà del messaggio annunciato da Cristo; ovvero il risuonare in esso di un’altra “negazione”! Di una “negazione” che lascia risuonare il paradosso di una verità abissale; la cui forma non contraddittoria parla già da sempre della propria originaria distruzione (per dirla con Roberto Grossatesta). Una verità che la filosofia può sì riconoscere, ma che la medesima è nello stesso tempo condannata a lasciare al di fuori del proprio campo d’azione (in cui tutto ha senso nella misura in cui si lascia appunto de-finire). Che la

filosofia può cioè riconoscere, limitandosi comunque a testimoniarne l’inconoscibilità; potendo al massimo rilevare (e comunque non è poco!) che non si tratta di “qualcosa” di escluso dall’orizzonte del conoscibile – ché altrimenti potremmo comunque proporci (in quanto “altro”… ma solo ora, in questo tempo, altro) di ricomprenderlo nell’ordine del determinato. Perciò la sua inconoscibilità deve vivere tutta all’interno del conosciuto, come suo specifico modo d’essere. In ogni caso, alla filosofia è concesso guardare alla testimonianza vivente di una esperienza tutta condotta all’insegna di tale “altro senso della negazione”. Il filosofo può guardare all’esemplarità della vita di Gesù e agli effetti concreti di un messaggio, come il suo, tanto eversivo perché razionalmente privo di ragioni o motivi che sostengano una qualche forma di “speranza”. La filosofia può farsi interrogare da tale “esemplarità”. Ma non può altro. Perché la fede, come lo “spirito”, soffia dove vuole; ovvero, non la si può razionalmente guadagnare. Cosa resta dunque ai non-credenti? Forse la acquiescente accettazione di tale gratuità? No, perché anche il vero credente può non esserne capace. Anzi, non ne è mai davvero capace; e non potrebbe in alcun modo esserlo. Anche il credente, infatti, “dubita”. Si pensi al dramma vissuto da Giobbe; che chiede disperatamente al Signore Dio suo le ragioni di tanto patimento! Certo, egli crede (per definizione); ma anche la sua fede, in quanto autentica fede, in quanto fede non fondata su alcuna ragione probante, è assolutamente problematica. Ovvero, sospesa sulla possibilità che nulla sia davvero ancora accaduto. 4. Nel tempo presente, peraltro, la ragione sembra aver ormai rinunciato a fare seriamente i conti

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con le pro-vocazioni della fede. Quasi esclusivamente impegnata a rivendicare un peraltro legittimo spazio di reale autonomia, la ragione interrogante, un tempo naturalmente disposta ad articolare l’aporeticità di un “vero” comunque ineludibile, sta progressivamente conformandosi alle istanze imposte da un principio d’efficacia cui sembra sempre più “ragionevole” affidarsi – stante la ripetibilità degli esperimenti, e dunque la discreta probabilità caratterizzante le previsioni conseguentemente elaborate. La forma propria dell’umano conoscere s’è fatta dunque una vera e propria ragione dell’intrascendibilità della propria finitezza; del principio di distinzione e dunque del rapporto di de-terminazione. Rifiutandosi, però, di fare i conti con le aporie connesse alla “metafisica” (per dirla con Kant) indeterminabilità caratterizzante tutto quel che risulta in qualche modo determinato. Il sapere s’è trasformato in scienza; e conseguentemente, se una salvezza si vuole comunque continuare a sperare, ci si dovrà necessariamente assoggettare alle istanze di quello che si va configurando come un crescente e sostanziale bisogno di “efficacia”. Comprensibilmente, a essere auspicati, e con sempre maggior convinzione, sono cioè risultati concreti; risultati che devono essere raggiunti in questo mondo… d’altro canto, se è vero che ogni “altro” promesso in futuro dovrà comunque conformarsi al modo in cui solo questo mondo rende possibile il costituirsi di una qualche alterità, allora come non proporsi una “salvezza” che risolva il dolore connesso alla presente condizione “finita” caratterizzante appunto l’umana esistenza? Che lo risolva prefigurando la sua perfetta sostituzione con una condizione diversa e dunque priva di ogni male e di ogni dolore, e per ciò stesso di ogni limite: quella che potremmo definire una condizione di salute perfetta – in quanto riflettente ciò che, in chiave filosofica, è sempre stato pensato in relazione al concetto di “totalità”. Che però, in quanto evocante una salutare liberazione dal dolore e quindi dalla finitezza, di fatto perseguibile nella forma “escludente” propria dell’esserci di questo mondo, deve per un verso caratterizzarsi in analogia con la pace di cui si parlava prima, ossia come stato contra-posto al dolore e al male (e dunque vigile e perennemente in guardia contro una possibile riemersione della passata condizione), e per un altro – figurandosi come “definitivo” (anche quella di definitività è una caratteristica conforme alla finitezza, dove tutto è appunto de-finito rispetto al proprio altro) – dovrà comunque supporre che sia possibile quel che, solo, sembra poter rendere, uno “stato de-finito”, per l’appunto “definitivo”: ossia, il suo configurarsi come senz’altro totalizzante. Insomma, la volontà di salute non può che ad-tendere a farsi acquisizione totalizzante. A fare cioè del “sano” un essere sì privo di dolore, e conseguentemente bene-stante,

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ma anche e soprattutto onni-potente (in grado cioè di dominare la totalità – sì da poter rimediare a ogni eventuale riemersione del dolore e del male). Capace, da ultimo, di sconfiggere finanche la morte; unico inequivocabile ed estremo segno di finitezza. In questa prospettiva ci troviamo dunque agli antipodi rispetto alla salvezza chiamata in causa dal messaggio cristiano e dalle sue promesse; che invita appunto a non cercare di salvare la propria vita; ossia quella vita finita, contrapposta alla morte, che solitamente viene intesa nel modo che abbiamo appena descritto. Ecco perché la volontà di salute e di totalità, di ben-essere e di eternità, concernente la volontà e il desiderio dell’uomo finito (mosso da una intenzione specificamente scientifica), non può che determinarsi come mera volontà di durata. L’uomo della scienza cerca l’immortalità come perenne, ossia continuativa, esclusione della possibilità di una morte che peraltro rimane sempre incombente già per il modo in cui la vita vi si contrappone – ossia per quella forma polemica in virtù della quale la vita stessa sa bene di non poter vivere se non in virtù di una morte che è morte di quell’altro dalla vita che di fatto rimane sempre in agguato (e che è sempre in agguato in primis per la natura escludente della perdurante condizione di salute – in quanto la malattia e la morte, in virtù della forma oppositiva instaurata dall’esclusione operata nei loro confronti dall’imperium della salute, sono sconfitti solo in quanto messi a morte… ossia in quanto venga lasciato trionfare, in verità, proprio quel principio di morte che il gesto escludente avrebbe al contrario voluto mettere definitivamente al bando). Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, per quali motivi la durata tanto agognata dall’homo scientificus non possa avere nulla a che fare con la paradossale possibilità di “salvezza” donata per grazia e dono ingiustificati al vero credente.

5. Ma la cosa interessante è che di tutte queste complesse questioni ci ha parlato, in una recente mostra veneziana, un artista come Damien Hirst. Ce ne ha parlato con le sue opere, evidentemente. In una mostra tenutasi a Palazzo Pesaro Papafava nel 2007, e intitolata New Religion. Negli spazi del mirabile palazzo veneziano l’artista inglese ha scelto di tematizzare in senso specifico proprio la progressiva trasfigurazione (caratterizzante appunto la contemporaneità) della possibilità di salvezza in volontà di salute. Quasi trenta opere, tra stampe, fotografie, installazioni, sculture e una sorta di trittico, tutte volte a tematizzare l’attuale ambiguità che tiene unite religione e scienza, impegnate entrambe a promettere salute (materiale e/o spirituale) e a garantire un futuro apparentemente impossibile. Ossia, tendenzialmente eterno. Pillole e croci, simboli farmacologici e biblici si alternavano e si confondevano, negli spazi del palazzo veneziano, sì da produrre un prevedibile stato di confusione nel fruitore. Ironia, critica, senso del sacro…? Quale, in questo caso, la vera cifra delle opere, come sempre “pro-vocatorie”, dell’artista inglese? Ecco, io credo che non sia affatto un caso che proprio un artista abbia avvertito l’esigenza di riflettere intorno a una trasformazione tanto radicale – che non comporta affatto, lo si dovrebbe ormai essere inteso, un semplice processo di progressiva immanentizzazione. Quasi una sorta di secolarizzazione di quella salvezza che la religione sembrava essersi sempre limitata a prospettare su un piano di astratta trascendenza, quale futuro comunque immaginabile e ragionevolmente sperabile. Solo un artista avrebbe potuto comprendere la portata della posta in gioco. Perché proprio nell’arte anche il non credente ha sempre avuto la possibilità di rinvenire qualcosa che nulla ha davvero a che fare con la salute tanto affannosamente ricercata dall’uomo della scienza e della tecnica.

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10 | V. Kandinskij, Sguardi sul passato, a cura di M. Milani, Milano, SE, 1999, p. 41. 11 | Ivi, p. 43. 12 | Ivi, p. 40. 13 | Ivi, pp. 40-41. 14 | F. Marc, Due quadri, in V. Kandinskij, F. Marc, Il cavaliere azzurro, trad. it. di G. Gozzini Calzecchi Onesti, Milano, SE, 1988, p. 30. 15 | V. Van Gogh, Lettere a Theo, a cura di M. Cescon, Milano, Guanda, 1984, p. 139. 16 | Ivi, p. 87. 17 | Ibidem. 18 | Ivi, p. 59. 19 | Ibidem. 20 | Su tale questione ci siamo soffermati nel nostro Il mistero dell’esistere. Arte, verità e insignificanza nella riflessione teorica di René Magritte, Milano, Mimesis, 2006. 21 | Klee, Vie allo studio della natura, in Confessione creatrice e altri scritti, cit., p. 26. 22 | Klee, Diari (1898-1918), cit., p. 349. 23 | Ibidem.

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Perché, proprio in relazione all’arte, io credo, diventa possibile riconoscere un altro messaggio – così straordinariamente affine, di fatto, a quello già consegnato all’intera umanità (ai giudei e ai greci) da una vicenda, tanto paradossale quanto universale, come quella cristiana. Ecco perché, forse, i grandi artisti hanno sempre avvertito di doversi fare carico di un compito che nulla avrebbe potuto aver a che fare con i bisogni e i desideri dell’uomo della conoscenza, in quanto essenzialmente animati dal desiderio di sconfiggere la morte e dominare la totalità. Perché gli artisti hanno sempre avuto a che fare con un compito sostanzialmente analogo a quello della religione. Ne era perfettamente consapevole già Kandinskij; che riconosceva esplicitamente come «l’arte, per molti punti, sia simile a una religione»10. Ma non solo; l’artista russo avrebbe addirittura affermato che l’esigenza di esprimere la vita interiore dell’opera era sorta in lui «sulle basi che il Cristo erige a fondamento dei valori della Morale, che questa visione dell’Arte è una visione cristiana e contiene in sé al tempo stesso gli elementi necessari per ricevere la terza rivelazione, la rivelazione dello Spirito»11. Kandinskij sapeva bene che la Verità testimoniata dall’arte richiede da parte nostra una radicale messa in questione del principio originario che muove il desiderio (che è sempre desiderio dell’uomo “peccatore”… dell’uomo che fa di Polemos la radice di tutto, senza rendersi conto che, ad uno sguardo innocente e puro, tale radice appare intrinsecamente aporetica; che essa parla da sé della propria impossibilità, ossia del proprio naufragio). D’altro canto, ogni artista di fatto lo sa (anche senza esserne consapevole)… sa bene che è proprio la verità – quella tematizzata dal logos distinguente e affamato di totalità – a comportare l’originaria falsità del vero e l’originaria verità del falso. Anche agli occhi di Kandinskij, dunque, la Verità appariva capace di movimenti assolutamente paradossali: tali per cui «l’inverosimile diventa vero e il vero diventa falso»12. Egli sapeva bene, insomma, che ogni determinazione del “vero” avrebbe dato luogo alla seguente scena: «una nuova verità cade dal cielo, sembra così precisa, così ferma, così infinitamente altra che più d’uno vi si aggrappa e vi si arrampica come lungo una pertica, sicuro, questa volta, di raggiungere il cielo. Ma la pertica si spezza e gli arrampicatori ricadono nell’ignota confusione come le rane nella melma»13. Ma anche Franz Marc, compagno di Kandinskij nella grande avventura del Blaue Reiter, vedeva bene la direzione caratterizzante il procedere di un tempo che era poi già il nostro; in cui «la scienza lavora negativamente, au détriment de la religion…


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(e riconosceva:) quale pessima ammissione per il lavoro spirituale del nostro tempo!»14. 6. Il fatto è che all’artista non importa nulla dell’opinione del mondo, della doxa e delle sue vane aspettative; anche Van Gogh lo diceva senza mezzi termini: «Non mi importa nulla dell’opinione del mondo»15. Infatti, al vero artista – essere para-dossale per definizione – interessa solo la parola contenuta nei capolavori dei veri maestri; perché lì «vi si troverà Dio»16. A Van Gogh, d’altro canto, leggere la Bibbia e il Vangelo, serviva a stimolare il pensiero; «e quanto pensare e quante cose pensare. Ecco – continuava il nostro – pensate questo tutto, e il pensiero si solleverà al di sopra del livello ordinario nonostante voi stessi»17. Maius quam cogitari possit! Tanto per ricordare Anselmo. A destituire il pur intrascendibile nomos della finitezza. A mostrarne l’originario esser negato. Cosa difficile, che pochi sanno davvero intendere… così come pochi davvero “credono” e “intendono” sul serio la portata eversiva del messaggio di Gesù. Come sapeva bene lo stesso Van Gogh; che, forte di questa consapevolezza, non disdegnava di chiedere che il proprio compito nella vita fosse «quello di diventare povero nel regno di Dio, servo di Dio»18. Lo chiedeva, perché conosceva la reale difficoltà di ogni autentica imitatio Christi. E sapeva di essere ancora e sempre troppo lontano da tale capacità; perciò pregava; pregava «affinché il suo sguardo potesse diventare chiaro e allora il suo corpo irradiare luce»19. In ogni caso, l’artista sa anche che la propria fatica e il proprio sforzo sono tali perché rivolti non a decifrare una situazione eccezionale e imprevista, ma a fare i conti piuttosto con il semplice esserci di ogni esistente; con la normalità costituente l’esserci anche delle cose più insignificanti. Anche di una pipa; che ai suoi occhi –

l’avrebbe lucidamente compreso René Magritte – non è una pipa. L’artista, dunque, non cerca l’eccezionale e lo straordinario (da cui qualcuno sarebbe stato comunque abbagliato – si pensi alla declinazione bretoniana del Surrealismo, contro cui si sarebbe espresso con durezza il belga Magritte); l’artista cerca la povertà e la semplicità. Quelle che, sole, possono farci incontrare il puro esserci; facendocene assaporare il “mistero”20. Consentendo all’oggetto di dilatarsi al di là del proprio volto fenomenico (per dirla con Paul Klee), mostrandoci così che «la cosa è più di ciò che la sua apparenza dà a vedere»21. Consentendo alla sua (sempre dell’oggetto) determinatezza di lasciar emergere il puro e indeterminatissimo essere in cui (anche per Rosmini) si manifesta agli umani l’esistente assoluto, il creatore. La sua in-finita libertà. Sia pur, per dirla sempre con Rosmini, come essere oggettivo e ideale, che conserva nascosto il modo d’esistere subiettivo e personale – del quale si può comunque dire che deve esistere. All’artista, dunque, è totalmente estraneo il senso faustiano della vita – è sempre Klee ad esprimersi in questi termini. L’artista non vuole dominare il mondo, non vuole sconfiggere la morte. Anche per lui non c’è né verità né errore; in quanto non può credere alla loro astratta opposizione – essendo perfettamente consapevole del loro originario con-fondersi (implicato dalla struttura aporetica del vero). Perciò il suo amore – come confessa Klee – «è distaccato e religioso»22. «Non c’è per me né verità né errore […] soltanto la fede vive in me, creando»23, avrebbe scritto l’artista svizzero nei suoi Diari. Una fede che lo avrebbe dunque convinto a rinunciare all’hybris della “totalità” e a rapportarsi davvero a quell’Unità cui la “conoscenza” può sempre e comunque consegnarsi, consapevole che, già nel

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24 | K. Malevicˇ, Dio non è stato detronizzato. L’Arte. La Chiesa. La Fabbrica, in Scritti, a cura di A.B. Nakov, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 280-281.

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mistero incancellabile che fa del molteplice l’annuncio del proprio irrisolvibile non esser quel che è, si profila la chance di una vera e propria “salvezza” dalla insistente tentazione della “salute perfetta” e della durata tendenzialmente infinita (che la scienza oggi promette con sempre maggior presunzione). Quella stessa “salvezza” che, mentre l’arte disegna e proietta sul corpo del mondo, disseminando potentissime tracce di un operare tanto inefficace quanto ineludibilmente sacralizzante, la fede cristiana riconosce realiter nell’esemplarità di un uomo, che di nome faceva Gesù – il quale seppe, come nessun altro, dischiudere una finestra eloquente oltre l’aporetica comunque oggettivante e definitoria di cui è comunque capace l’umano intelletto. Anche Malevicˇ ne sarebbe stato lucidamente consapevole; perciò avrebbe potuto dire: «mi sembra che sarò in grado di analizzare, studiare e conoscere, solo quando potrò astrarre l’unità che non ha alcun rapporto con il tutto del mondo circostante, libera da tutte le influenze e da tutte le dipendenze: se saprò fare questo – concludeva l’artista russo –, conoscerò, altrimenti non conoscerò nulla, nonostante la massa di esempi e di conclusioni ottenute»24. Aveva dunque ragione il grande poeta-pittore romano Virgilio Guidi (1891-1984), quando invitava a riscoprire Dio, pur senza aspettarsi da Lui alcun soccorso; affidandosi dunque alla necessità di un fare capace solo di esporci al miracolo della libertà. Egli era lucidamente consapevole di poterla esperire solo al di fuori «dell’imbecillità paludata / che legifera o guerra o pace / che negozia fame e benessere». Da ciò una “salvifica” attitudine alla disposizione autenticamente cristiana del “dubbio”, caratterizzante in primis ogni vero atto filosofico – così come la libertà a esso intrinsecamente connessa. Dubbio radicale nei confronti di chiunque, quella libertà, la volesse per sé, «per il suo potere, / la sua cupidigia, / la sua pretesa» e la invocasse quindi solo «per farla prigioniera».



La dimensione spirituale dell'arte contemporanea di Vincenzo Vitiello

Se dovessi indicare il gesto originario, fondativo dell’arte contemporanea, 1.indicherei l’epoché della memoria. Un gesto che prima di venire a coscienza, è

maturato “naturalmente”, al di fuori di qualsiasi intenzionalità. Ed è maturato su un terreno pieno di memoria, forse sin troppo pieno. Quando la pittura volle mettere da parte la storia – rectius: la celebrazione della storia – per entrare in rapporto più diretto e intimo con le cose, col presente, portandosi nelle campagne e nelle strade, a mirare un golfo o una montagna, una stazione ferroviaria o l’interno di un restaurant, una cavallerizza o una fanciulla al bagno…, allora la memoria prevalse su tutto. Si ritenne di vedere con gli occhi,

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e si vedeva invece con la mente. Mutava l’oggetto della memoria – non più colonne, archi di trionfo, templi o eserciti, ma alberi, cavalli, uomini, donne… –, non la memoria. Mutava il “contenuto” del linguaggio, non il linguaggio. Le immagini cambiavano, restava immutata l’iconologia della mente, attraverso la quale non conosciamo soltanto, ma viviamo il mondo. Quando accadde qualcosa di strano, di straordinario, di estraneo – e accadde nell’ordine, il più usuale e solito. Déjeuner sur l’herbe, uomini vestiti alla foggia del tempo, pose e atteggiamenti conformi, e cose: alberi, cibi, tovaglia, prato… Tutto assolutamente ordinario, comune, quotidiano. E più comune e ordinario di tutto, il colore degli alberi, dell’erba, dei cibi, delle barbe, degli abiti... Tranne una “cosa”: il bianco della donna nuda seduta tra gli uomini. Lo straordinario, l’estraneo, non era la nudità della donna, che attrasse lo sguardo dei non vedenti – degli incapaci di vedere con gli occhi e non con la mente, con sensi puri (non moralmente, visivamente puri) e non con la memoria –; fuori dell’ordine, strano ed estraneo, era il bianco, quel bianco che irrompe nell’immagine. Non è un colore, è più e meno. Non luce che illumini la scena, perché al contrario la contrasta assolutamente. Tutti i colori del quadro sono quelli che ci aspettiamo di vedere quando guardiamo un albero, un frutto, l’erba…; quel bianco no,

non è un colore disteso sulle cose, non è superficie, è la “cosa” stessa. Un colore materiale, un grumo di luce opaca. Ove l’opacità non è il digradare della luce, ma la luce stessa. Luce non lucente. Del pari il luogo che occupa non è propriamente un luogo. È più e meno. L’occhio ne è completamente attratto; a trattenersi a lungo su di esso si ha la strana sensazione che tutti i colori – i colori degli alberi, dei vestiti e delle barbe, dei cibi e dell’erba e del cielo – acquistano altro carattere, come se non appartenessero più alle cose, ma fossero affatto accidentali, occasionali, “superficiali”. Nessuno di essi è “cosa”: il nero della barba non è la barba, il colore del frutto non è il frutto. Quel bianco attrae come un buco nero. In esso s’annuncia qualcosa che nega ogni qualcosa. Uno spazio che non è luogo, un vuoto origine e negazione dei luoghi, di ogni luogo. Origine e negazione pur della vista. Sfogliando l’atlante della pittura, troviamo, qualche pagina innanzi, altro esempio di inintenzionale epoché della memoria. L’artista dipinge fiori e acqua, fiori acquatici, Ninfee, un lavoro immenso, via via che procede, la vista si perde nei colori, i colori nella vista. Il pennello prova la verità di Aristotele: nella sensazione soggetto e oggetto si distinguono in potenza, in atto sono il medesimo. Ma la distinzione tra potenza e atto è della mente, non dei sensi. Nei sensi è solo la cosa, il visto. E cosa vede


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L'arte contemporanea, ascesi dei sensi e nei sensi

1 | E. Husserl, Cartesianische Meditationen, in Id., Gesammelte Schriften, 8, Hamburg, Meiner, 1992, § 11, pp. 26-27. 2 | Dalla lettera del 19 agosto 1912. Cfr. A. Schönberg, V. Kandinskij, Musica e pittura. Lettere, testi, documenti, Torino, Einaudi, 1988, p. 41. 3 | Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra, in Id. Werke, Kritische Studienausgabe, 4, München, dtv, Berlin-New York, de Gruyter, 1988, pp. 201-202. 4 | I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, Akademie Textausgabe, Berlin, de Gruyter, 1968, A 346, B 404. 5 | G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, in Id., Werke in zwanzig Bänden, Frankfurt/M, Suhrkamp, 1969, 6, p. 27.

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l’occhio? Acqua e ninfee? I colori dell’acqua e delle ninfee? No, vede colori. Acqua e ninfee sono aggiunte del pensiero, del pensiero che è tanto penetrato nei sensi, da essere la memoria del sentire. Quella che denominiamo immaginazione, Einbildung, la cui potenza (Kraft) consiste nel determinare i sensi secondo il pensiero. Il gesto fondativo dell’arte contemporanea è la liberazione dei sensi dall’immaginazione: è un’ascesi dei sensi e nei sensi – un esercizio tutto sensibile – di purificazione del senso dal pensiero, dalla memoria del pensiero. Quello che in Manet e Monet accade in modo affatto inintenzionale (se non, addirittura, contro i loro stessi propositi) diviene in Kandinskij compito. Per indicare questa ascesi ho usato il termine epoché, al fine di evidenziare il terreno comune su cui operano filosofia e arte all’inizio del Novecento: terreno comune a operazioni diverse, quando non di senso opposto. 2. Husserl e Kandinskij. Ovvero: epoché come atto del pensiero che si libera dal mondo, epoché come Weltvernichtung, negazione del mondo in quanto negazione dei “significati” attraverso cui il mondo è stato pensato, negazione dei pensieri del mondo. Epoché del pensiero che si libera di sé, dei suoi “contenuti”, delle sue “categorie”, del suo passato, per pensare più originariamente. Ed epoché del sentire dall’immagine, dalla storia, dal pensiero. Il pensiero si libera di sé, i sensi si liberano del pensiero. Entrambi si liberano della memoria. Husserl fa un passo indietro rispetto al cogito: se l’Io ridotto non è un pezzo di mondo (das reduzierte Ich ist kein Stück der Welt)1, è perché ego dice, prima che cogito, sum, e tra cogito e sum v’è un salto. Kandinskij fa un passo indietro rispetto ai sensi – ai sensi come il pensiero li ha concepiti: prima di vista, udito, gusto, tatto, olfatto, è il sentire. Si sente (un “si” che è puro neutro) con la vista e l’udito... Schönberg comunicherà all’amico Kandinskij tutta la sua ammirazione per il “suono giallo”: «Lei va più lontano di me nella rinuncia ad ogni idea consapevole, a ogni azione di tipo naturalistico»2. Se si vuole capire qualcosa dell’arte contemporanea – e pur dell’imbarazzo di usare ancora la parola “arte” per prodotti che appaiono e sono il contrario di quanto fu inteso come arte lungo i secoli – si deve partire da qui: da questi gesti fondativi, comuni all’arte come alla filosofia, gesti che hanno azzerato il passato – e non solo il passato “storico”, ma il passato essenziale, pre-storico e pre-umano, quel passato da cui è sorto come l’umano così la storia. Quel passato che è (presente aoristico!) il salto da natura a storia, da animale a uomo. Ed è bene tener presente che dietro questi gesti v’era, consapevole o inconsapevole poco interessa, il ricordo del naufragio esistenziale e filosofico di Nietzsche. Aveva sputato lontano la testa del serpente che gli era entrato in gola, come il pastore de La Visione e l’enigma3, ma la natura in cui si era precipitato gli aveva donato non un volto di luce, ma la smorfia del folle. È possibile


Vincenzo Vitiello | Nelle rovine il Sacro

– questa la domanda, l’inquietudine che è dietro quei gesti e li motiva – un rapporto con il “naturale”, il “prestorico”, con ciò che è “prima” della nostra umana, troppo umana, iconologia della mente e dei sensi, che non sia negazione dell’umano, mera follia, pura e sola negazione? L’epoché è un gesto fondativo, perché non solo nega, sì anche af-ferma, “pone”. Husserl procede con un eccesso di fretta. Appena negato, anzi nell’atto stesso della negazione, il mondo risorge innanzi a noi con tutte le caratteristiche che aveva prima dell’epoché. La novità filosofica consisterebbe nel mostrare la “genealogia” di questo mondo – una genealogia che desta non poco sospetto, dacché viene costruita con quelle medesime categorie e concetti e metodi che l’epoché aveva “messo tra parentesi”. Non meno di Kant – e anzi senza le cautele di Kant – Husserl non ha saputo fermarsi nel luogo di quell’Ich, oder Er, oder Es, das Ding, welches denkt, su quell’Io = X, cui l’analisi trascendentale l’aveva condotto4; presto ha fatto di quella X molto più che “il veicolo di tutti i concetti”, il fondamento stesso del mondo – e non del mondo della coscienza epistemica, della scienza, bensì della coscienza vivente: il fondamento del mondo-della-vita. Troppo presto Husserl ha voluto dare forma al mondo: così l’ha fermato sulle antiche immagini. L’epoché ha perduto così ogni originarietà. Non così Kandinskij. Con perseveranza è rimasto legato alle sue forme “astratte” dalla figura tradizionale, dalle immagini della tradizione. I suoi colori, e segni, i suoi giuochi armonici vogliono conservare la libertà e l’originarietà del gesto iniziale. E le conserva entrambe: in quei colori e segni e ritmi v’è altro. V’è altro – non alludono ad altro. L’altro che è lo spazio vuoto, l’altro che è la chôra, l’Aperto che tutto accoglie, e nulla nega. Che è le cose, le cose tutte, che è l’essente, senza essa medesima “essere”. Il bianco come luogo di tutto.

Il Nulla non ponente, accogliente. Non l’universale concreto, il concetto che vive nei e dei particolari e singolari; ma il più astratto universale che mai puoi identificare col singolo e singolare, né mai lo puoi opporre ad esso. La differenza che si nega come altro nell’atto stesso di porsi come tale – assoluta alterità, altra anche da se medesima. Se ancora volessimo usare la terminologia della dialettica hegeliana dovremmo fermarci all’absoluter Gegenstoß in sich selbst5. Ma anche l’epoché dell’arte non si arresta qui, è spinta ad andar oltre “questo assoluto contraccolpo in se stesso”. Non in Kandinskij – in Klee. Non seguiamo filiazioni, né storiche, tanto meno logiche. Ci limitiamo ad osservare l’accaduto. E l’accaduto ci dice che da quei colori, e segni, e spazi vuoti ed esercizi ritmici di colori-suoni, è risorta l’immagine, la figura, dapprima incoata, poi sempre più definita: umanamente definita. L’Angelo, il Folle, la Testa d’atleta, il Pesce d’oro, il Carnevale sul monte... Come tutto questo? e perché? Un fatto, un puro fatto – certamente no, basta guardare ciò che è avvenuto dopo, il ritorno nei modi, i più diversi e distanti, della figura, della figura umana – ovvero: del modo in cui le cose si danno all’uomo, appaiono al vedere-sentire-avvertire proprio dell’uomo, dell’uomo “storico”. Tutto questo non può inquietare chi ha scorto nell’arte contemporanea prima la consapevolezza dell’esaurimento della grande tradizione della cultura europea, quando non anche la premonizione dell’abisso cui quella tradizione si destinava, poi il più alto e sofferto sforzo di reagire alla crisi, sperimentando nuove forme di linguaggio, e cioè un diverso modo di rapportarsi al mondo. Cosa significava, e cosa significa ancor oggi, il ritorno della “figura” – case, alberi, cieli e montagne, animali e volti umani – il ritorno del passato, questa volta col sembiante della necessità? O quelle figure, solite, comuni all’apparenza, esprimevano, ed esprimono, altro?

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6 | M. Heidegger, L’arte e lo spazio, ed. bilingue, Genova, Il Melangolo, 1984, p. 33. 7 | Cfr. P. Celan, Ausgewählte Gedichte, Frankfurt/M, Surkamp, 1968, pp. 125-129. 8 | Cfr. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, Hamburg, Meiner, 19526, Vorrede, p. 15. 9 | Cfr. P. Celan, Gespräch im Gebirg (1959), in Id., Gesammelte Werke, III, Frankfurt/M, Surkamp, 19922, pp. 169173. Sul tema rinvio a V. Vitiello, I tempi della poesia. Ieri / Oggi, Milano, Mimesis, 2007, pp. 123-138. 10 | P. Celan, Die Silbe Schmerz, in Id., Niemandrose, Gesammelte Werke, cit., I, pp. 280-281. 11 | Cfr. M. Heidegger, Holzwege, Frankfurt/M, Klostermann, 19725, pp. 69-104.

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3. Un filosofo, tra i massimi del Novecento, parlando di scultura, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, ricordava Goethe: «Non è sempre necessario che il vero prenda corpo (sich verkörpere); è già sufficiente che aleggi tutt’intorno come spirito e operi un accordo, come quando il suono delle campane si diffonde amico nell’aria»6. Un decennio innanzi, Paul Celan, nell’allocuzione che tenne a Brema, in occasione del premio letterario che la città anseatica gli aveva conferito, tornando con la memoria agli anni della sua gioventù a Czernowitz, ai confini dell’Impero austro-ungarico, parlò della sua aspirazione di allora: andare a Vienna – la città rappresentava l’esito più alto della civiltà e della cultura d’Europa. Disse: «Loro sanno come poi andò a finire». Quindi, trattando della sua poesia e del legame che la poesia – non solo la sua – ha col tempo, non pronunciò la parola “storia”, non poteva farlo. Disse Uhrzeigersinn: “il senso delle lancette dell’orologio” – se non proprio un movimento meccanico, un movimento naturale7. Il discorso del filosofo parla del passato: no, non quello di Goethe, bensì del passato di Kandinskij e di Celan, di Mallarmé e di George. La citazione goethiana è palesemente contra Hegel. Alla teologia hegeliana della Offenbarung der Tiefe, secondo cui il Profondo è tanto profondo per quanto osa esporsi e pur perdersi nel mondo8, ovvero: al concetto hegeliano di Dio, che è spirito in quanto comunità, ekklesía, storia, Heidegger oppone la meta-teologia del Sacro come Apertura alla rivelazione degli dèi, passati, presenti, futuri. Il Sacro è lo spazio bianco in cui il dio può apparire, il Vuoto, che la scultura custodisce e protegge nei pieni delle sue figure, il Silenzio che la parola poetica salvaguarda. Alla necessità della rivelazione del Profondo, Heidegger oppone il dettato goethiano: non è sempre necessario… La citazione è significativa per due aspetti, almeno: quanto al primo, perché oppone a Hegel un poeta – il poeta – del suo tempo, come a testimoniare, che già nell’età di Hegel si pensava “oltre” Hegel; quanto al secondo, perché mostra il limite della visione heideggeriana dell’arte: il vero che aleggia tutt’intorno come spirito che opera un accordo…, esprime una concezione ancora legata al “significato”, al “contenuto” dell’esperienza artistica, a “ciò che l’arte dice” – e non alla “materialità” del dire. Una concezione, cioè, ancora “spirituale”, “concettuale”, “logica”, dell’arte, nella quale il “materiale” conta in quanto ha “significato”. In quanto incarna un logo. È la non superata eredità hegeliana e cristiana – cristiana nel senso paolino della kenosis – di Heidegger. Logos sàrx eghéneto (Giovanni 1,14) – il detto evangelico definisce bene tanto la concezione di Hegel dell’arte, quanto quella di Heidegger. La parola del poeta parla del presente, al presente, spingendo lo sguardo oltre l’orizzonte. Non del tempo, dello spazio. Estraneo alla tradizione, al passato – e non per scelta, ma per destino: è giunto troppo tardi a Vienna – è condannato a parlare, a far poesia, nella lingua della terra in cui la morte è maestra: altro non gli era rimasto fuor della lingua apportatrice di morte (todbringende Sprache). La parla da estraneo,


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da straniero. Non si cura dei “significati”, che nelle parole sono inscritti per lunga, e fatale, memoria; bada al suono, alla materialità della voce, del fonema, non alla spiritualità dello schema fatico. L’azzeramento della logica è per lui opera già compiuta, anche se la “ripete” e rinnova a più alto livello. Il lavoro a cui si dedica è la ricerca nelle macerie della lingua dai morti significati – e mortiferi, ché hanno prodotto morte – di quegli elementi (nel senso originario del termine: elemento come ambiente in cui qualcosa vive e muore) materiali, animali, corporei, inintenzionali, che sono stati all’origine della significazione, ma non per ritornare al significare logico tradizionale, ma per aprirsi a un diverso significare, a un diverso parlare: prossimo alla lingua della natura, della terra, delle cose, degli alberi e delle montagne, e pur della pietra e del bastone9 – lingua certo umana, ancora umana, ma non troppo umana. Celan ha presente il naufragio di Nietzsche – la sponda opposta del naufragio del concetto – perciò non fa getto della coscienza, ma cerca di far parlare nella coscienza il linguaggio dell’inconscio, della natura e del corpo. Invero è difficile distinguere quanto in lui è agito e quanto invece subito. La sua poesia è fatta di frammenti di parole, versi talora di una sola sillaba, che testimoniano una volontà di rompere i frammenti stessi, di frantumare le macerie del linguaggio come per sentirne il rumore puro, ma testimoniano insieme una mancanza di voce, e prim’ancora di respiro, per dire intera la parola. Talora, consapevole di questa carenza di voce, di respiro, il poeta imita l’atleta, prende la rincorsa per saltare, e cioè: aggruma le parole, e le dice d’un fiato, attaccate, indistinte; ma il salto non riesce, estenuato torna a sillabare, e anche questo gli è difficile: Buchbuch-buch / stabierte, stabierte, stabierte. Il sillabare si rompe in sillabe. Resta una sola sillaba, pronunciata intera: Schmerz – che non dice “dolore”, è dolore10.

4. Torniamo all’arte “visiva”. Riprendiamo la domanda lasciata in sospeso. Quale il senso della ricomparsa della “figura”: il ritorno del passato, questa volta con l’inquietante sembiante della necessità? O quelle figure, solite, comuni all’apparenza, esprimono altro? Non è certo possibile rispondere a questa domanda esibendo una fenomenologia dell’arte contemporanea, e non perché qui manchi lo spazio per farlo – sempre manca lo spazio, qualsiasi fenomenologia è votata all’incompletezza, il problema è sempre quello di saper scegliere –, ma perché è del tutto estraneo allo scopo di questo scritto, che è di segnare linee di interpretazione, non di presentare una fenomenologia. Questo, chiaramente, non ci esenta dal fare riferimenti a precise esperienze e ricerche artistiche, ma solo a fini esplicativi, non sono che esempi. Non dico di De Chirico e Carrà, Morandi, De Pisis, Savinio… Questi artisti appartengono totalmente alla tradizione, in essi, con essi la figura non ricompare, per il semplice fatto che non è mai scomparsa. Costoro appartengono alla contemporaneità cronologicamente, anagraficamente, non dal punto di vista dell’arte, della loro arte. Questo non toglie nulla alla loro grandezza d’artisti, ne definisce però la collocazione “topologica”: l’appartenenza, cioè, del loro lavoro a uno specifico strato di senso. Sia ben chiaro che qui non si discute dei “contenuti”: le piazze dechirichiane esprimono la Heimatlosigkeit dell’uomo contemporaneo non meno bene del saggio di Heidegger sull’Epoca dell’immagine del mondo11, ma dal punto di vita dello specifico pittorico non appartengono al Novecento. Al limite appartiene al Novecento la “seconda” pittura di De Chirico, il suo secentismo, in cui s’avverte tutta l’ironia dell’arte che non avendo più nulla da dire rifà se stessa, “copia” il passato esagerando: copia anche se stesso, il se stesso prima maniera. Qui con i mezzi della pittura del passato De Chirico tocca l’orlo della

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12 | Euripide, Baccanti, v. 861. 13 | M. Zambrano, El hombre y lo divino, Madrid, Fondo de Cultura Económica, 1993, p. 325 (trad. it. di G. Ferraro, Introduzione di V. Vitiello, Roma, Edizioni del Lavoro, 2001, p. 297); cfr. altresì il cap. Las ruinas, pp. 246-255 (it., pp. 224-233). Sulla centralità della “rovina” come tema di riflessione e di ispirazione dell’arte contemporanea, cfr. la ricca fenomenologia critica tracciata da Félix Duque ne La fresca ruina de la tierra (Del arte y sus desechos), Palma de Mallorca, Calima, 2002, trad. it. di L. Sessa, Napoli, Bibliopolis, 2007. 14 | M. Proust, À la recherche du temps perdu, Le côté de Guermantes, tr. it. di M. Bonfantini, Torino, Einaudi, 1978, III, p. 321. 15 | Euripide, Baccanti, v. 329.

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contemporaneità. Contemporanea è qui la mimesi, la ripetizione, l’esagerazione, in cui s’esprime l’ironia della pittura – di tutta la pittura – su se stessa. L’ultimo De Chirico annuncia la morte della pittura attraverso la pittura. Non è paradossale l’accostamento, ma l’erede di questo De Chirico è Botero. La morte di Dio – del Sommo Pittore: l’Universo è Sua Immagine, non perché gli somigliasse, ma perché immaginando Dio creava – ha liberato lo spazio del Sacro per l’avvento di nuovi dèi. Di questo sacro vuoto è poesia la poesia contemporanea, pittura la pittura contemporanea, scultura la scultura contemporanea, musica la musica contemporanea, teatro il teatro contemporaneo... Le varie arti hanno occupato questo vuoto con parole, immagini, suoni… consapevoli dell’alterità del vuoto, dello spazio, dell’aperto. Artista sommo di questo vuoto, per averne espresso in pittura la piena consapevolezza critica, è stato Fontana: il pittore che ha fatto dello spazio, rectius: degli spazi, il tema essenziale del suo lavoro e della sua ricerca. Spazi, ho detto, e non spazio, perché Fontana ci ha dato varie immagini dello spazio, in tutte evidenziandone la “materialità” costitutiva. Se uno spazio non c’è nella pittura di Fontana è lo spaziosuperficie, lo spazio geometrico, che è solo astrazione, astrazione intellettuale. Lo spazio di Fontana è materia, rugosa, porosa, liscia, fratta talora, colorata o incolore, ma sempre materia. Il fatto che le sue tele presentino tagli, vere e proprie “ferite” della materia, sta ad indicare che dello spazio-vuoto si può avere solo immagine, che esso non si dà mai in sé. La chôra resta altra e altrove, nella sua medesimezza con gli spazi che accoglie. Vi è nell’opera di Fontana il respiro del Sacro: deinótatos anthrópoisi d’epiótatos, il più tremendo per gli uomini e il più mite12. Il medesimo afflato avverto in Kounellis, i materiali di risulta che la sua arte povera usa sono il segno di una materia che non ha bisogno di farsi logo, significato, sapere, per essere investita dal Sacro. È sacra essa stessa, per come è, di per sé. Come gli animali che non ritrae, non rappresenta, ma esibisce. Siamo con Fontana e Kounellis – gli accostamenti sono tra estremi, ma qui non faccio né storia, né fenomenologia – già fuori l’umanesimo e l’antropocentrismo. Impallidiscono al paragone le immagini di quanti tornano alla cura formale della figura, sia essa cavallo o fontana, o dello spazio, levigando un marmo, o rendendo bianco il bianco, azzurro l’azzurro. Esercizi, questi, fors’anche “belli”, ma privi dell’inquietudine del Sacro. Conoscono ed esprimono la mitezza di Dioniso, non s’accostano al tremendo. Non osano, o non l’avvertono. Resta ancora in Fontana, e se non m’inganno anche in Kounellis, il senso dell’opera “finita”, compiuta dall’artista. Il senso dell’artista unico autore dell’opera. Ultimo residuo di un culto dell’umano difficile da superare. Aiuta a superarlo l’esperienza de las ruinas. Uso la lingua spagnola in omaggio a quella pensatrice che di questa esperienza ha dato la più alta espressione filosofica:


Vincenzo Vitiello | Nelle rovine il Sacro

[…] il tempio distrutto copre con la sua bellezza l’azione distruttrice e fa sentire persino la sconfitta di coloro che la compirono, quando si tratta di azioni storiche o storicizzanti. E se è stato soltanto opera del tempo – di un tempo dell’oblio e anche del disprezzo –, il tempo sembra avvolgerli, rendendoli così templi del tempo, del tempo divino-umano che logora senza distruggere, come se il tempo restituisse ciò che avvolge a un regno indefinito, dove l’essenza non ha bisogno di concretarsi in cosa per manifestarsi, portandolo così a una specie di nascita che è restituzione. E, altre volte, a una consunzione liberatrice. Come se il tempio dimenticato, in piedi a metà, a stento presente, si liberasse dall’architettura che un tempo gli fu necessaria per esistere, e adesso alcune colonne, vestigia, qualche capitello a terra, bastassero per sostenere la presenza del divino13.

Las ruinas non parlano solo al passato. Parlano anche al presente, forse persino al “futuro” del nostro presente. Penso a Peines del Viento di Eduardo Chillida: barre di ferro conficcate come lame nel cuore di pietra della Terra, sulle pareti rocciose del golfo di San Sebastián, esposte alla furia del mare e dei venti, alla vampa estiva del sole, alla corrosione della salsedine, della ruggine, degli escrementi animali. (L’esatto rovescio di quanti inseriscono nella “propria” opera frammenti di vita, manufatti, cose, e i colori stessi trattano come oggetti di natura, e penso a un grande: Rauschenberg). Suprema hybris e suprema umiltà d’uomo, questi Pettini del Vento osano segnare un orizzonte di significati umani entro la natura e in lotta con essa, insieme si consegnano al tempo senza scopo della Terra. 5. Ma non v’è solo la natura come spazio circostante, v’è una natura più intimamente legata a noi, e pure estranea – prossima e remota. Il nostro corpo, che sperimentiamo al contempo come proprio ed estraneo,

il più proprio e il più estraneo, pur esso nella rovina. Nella rovina del corpo che è malattia e dolore. Così un finissimo fenomenologo dell’anima e del corpo: […] quando siamo ammalati, noi ci rendiamo conto che non viviamo soli, ma incatenati a un essere di una specie differente, da cui ci separa un abisso, che non ci conosce e dal quale è impossibile farci comprendere: il nostro corpo. Qualunque assassino che potessimo incontrare in aperta campagna, potremmo forse arrivare a renderlo sensibile al suo proprio interesse, se non alla nostra avventura. Ma domandar pietà al nostro corpo è come parlare a una piovra, per la quale le nostre parole non possono aver più senso che un rumor d’acque, e con la quale noi saremmo atterriti d’essere condannati a vivere14.

E anche qui, quando si parla dell’arte visiva, è allo specifico artistico che bisogna far riferimento, non al contenuto, al significato. Alla sárx che s’esprime nel gesto, non al corpo figurato. Non Francis Bacon, dunque, o peggio la Body Art (la Abramovicˇ, o Nitsch, o la Horn…, a non dire delle imitazioni italiane), ma Pollock. In lui la pittura è gesto e il corpo stesso è gesto, gesto pittorico. L’artista non entra nella pittura, è la sua pittura, ma non nel senso, banale e ideale, ideale e banale, che l’artista è le sue creature; bensì nel senso reale e concreto che il suo corpo, la sua sárx, è quello che dipinge. Non è, non vuole essere una metafora: il dripping è lo scorrere, il gocciolare, del sangue dell’artista. E quando s’afferma la monocromia del nero, quando il sangue si fa scuro, allora s’intende non che l’artista agisce, ma il suo corpo, la sua carne, il suo sangue, che non appartengono a lui, perché è lui che appartiene a essi. In questa arte, l’artista non si consegna all’Altro, non si affida alla Terra, non si rimette alla carne e al corpo, alla sua carne e al suo corpo – perché è già da sempre a essi consegnato. Questa arte è sacra perché patisce la potenza del mégas theós15.

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PRESENZE


Senza Mondo Sulla spiritualit� dell'arte contemporanea di Vincenzo Trione

Ogni epoca deve reinventarsi un progetto di spiritualità Susan Sontag, Stili di volontà radicale


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Profanazioni L’arte […] anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha una profonda affinità col mondo della fede; sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco dalla Chiesa, proprio l’arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa. […] Essa è, per natura, una sorta d’appello al Mistero1.

Così si legge nella Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II, che indica un momento di importante apertura. Alludendo a un netto cambio di prospettiva culturale rispetto alla tradizione, Karol Wojtyla disegna territori inattesi. In profonda sintonia con le ragioni del nostro tempo sempre più secolarizzato, delinea uno scenario caratterizzato dalla crisi della pittura religiosa, legata a un piano esclusivamente rappresentativo, sottolineando in maniera implicita la connessione tra arte sacra e arte profana. Possiamo muovere da qui, per attraversare una vasta e rigorosa esposizione tenutasi nel 2008 al Centre Georges Pompidou di Parigi, in cui è stata ordinata una ricca cartografia di traces du sacré. In particolare, ci si è soffermati sulle esperienze pittoriche e plastiche moderne e contemporanee: dal Settecento

all’inizio del Duemila. È stata allestita una mappa di invocazioni, di cerimonie e di provocazioni. Squarci, paure. Si susseguono opere realizzate da artisti – Goya e Friederich, Kandinskij e Mondrian, de Chirico e Dalí, Rothko e Newman, Bacon e Warhol, Nauman e Viola, Nitsch e Serrano, Hirst e Cattelan – che, liberi da obblighi “ecclesiastici”, vogliono indagare e rivelare le ragioni della spiritualità. Nella maggior parte dei casi, essi si sottraggono a ogni vincolo descrittivo. A volte, acquisiscono il “divino”, per deriderlo e sbeffeggiarlo. Altre volte, imboccano le traiettorie dell’evocazione: rimandano a un’ulteriorità ignota, con soluzioni aniconiche e astratte2. L’atteggiamento prevalente – soprattutto negli esiti più recenti – è quello dell’appropriazione indebita. Ci si misura con la trascendenza ricorrendo a gesti blasfemi e irridenti, che possono essere considerati come il frutto di un «secolo spietato»3. Ci si affida a operazioni che non rispettano, ma disgregano solennità, trasgrediscono simmetrie. Sono profanazioni, rivolte a disincantare e a restituire a un uso diverso ciò che il “divino” aveva separato e impietrito4. Nelle opere di Nitsch, di Serrano, di Hirst, di Cattelan e di Kippenberger il religioso, progressivamente, viene spogliato, indebolito, immesso in un disinvolto gioco di risonanze: in un processo di “irrevocabile

1 | Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti,

della spiritualità nelle esperienze

Roma, Libreria Editrice Vaticana, 1999,

artistiche contemporanee, si rimanda a

p. 22.

E. Heartney, Art & Today, London-New

2 | Traces du Sacré, a cura di M. Alizart,

York, Phaidon, 2008 (in particolare il

Paris, Centre Pompidou, 2008. Per una

capitolo Art & Spirituality, pp. 265-289).

lettura dell’itinerario critico della mostra

3 | P. Virilio, L’arte dell’accecamento

tenutasi da maggio ad agosto del 2008

(2005), Milano, Cortina, 2007, p. 52.

al Centre Georges Pompidou di Parigi, si

4 | Sul concetto di “desacralizzazione”,

rinvia alla conversazione tra C. Millet, J. De

si legga G. Agamben, Profanazioni,

Loisy, Traces du Sacré, in «Art Press», 345,

Roma, Nottetempo, 2005, in particolare

maggio 2008, pp. 36-43. Per una presenza

pp. 83-106.


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Il sacro � un'ombra da evocare in una bellezza priva di mondo

5 | G. Agamben, Homo sacer (1995), Torino, Einaudi, 2005 (2^ ed.), pp. 88-89. 6 | G. Dorfles, L’intervallo perduto (1988), Milano, Skira, 2006 (2^ ed.), p. 87.

desacralizzazione”. Subisce la sorte di quei concetti forti che, in alcune fasi storiche, smarriscono la loro immediata intelligibilità, caricandosi di molteplici significati5. Spesso, i motivi mistici vengono filtrati attraverso una tecnica – tipicamente novecentesca – come quella dello straniamento, inteso come stratagemma che consente continue interruzioni. Artificio per smontare un sistema e una sintassi: per favorire separazioni, pause. Modo per alimentare dislocazioni semantiche di “vocaboli” consueti. Salto linguistico, nesso fluttuante, distorsione morfologica, modificazione nella linearità della rappresentazione. Si infrangono i naturali nessi associativi, per donare «vivezza, originalità, nuova capacità informativa, a un elemento altrimenti automatizzato». Si compiono mutamenti dei punti di vista: deformazioni ritmiche e tonali, che rendono irriconoscibili i materiali acquisiti. Alcuni dati sono estratti dalla loro “fonte”, per essere inseriti in regioni differenti. Si esalta l’«inaspettatezza e novità d’un messaggio». Si contaminano icone “alte”, che sono sottratte ai loro consueti contesti di riferimento. «Una singola unità morfo-semantica viene utilizzata in maniera da assumere una “funzione” diversa da quella originaria»6.

7 | H. Bloom, Il Canone occidentale (1994), introd. di A. Cortellessa, Milano, Rizzoli, 2008 (2^ ed.). La quarta parte

The Age of Anxiety

del libro di Bloom – intitolata L’età caotica – è una ricognizione attraverso alcuni momenti cruciali della letteratura occidentale novecentesca.

li straniamenti di Nitsch, di Serrano, di Hirst, di Cattelan e di Kippenberger sono Gl’esito di quella che, con W.H. Auden, si potrebbe chiamare the age of anxiety.

8 | A. Badiou, Il secolo (2005), Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 183-196. 9 | U. Galimberti, Orme del sacro, Milano, Feltrinelli, 2000. 10 | A. Badiou, Ontologia transitoria (1998), a cura di A. Zanon, Milano, Mimesis, 2007, p. 145. Sul “ritorno differito” della presenza di Dio, si rimanda a C. Taylor, L’età secolare (2007), a cura di P. Costa, Milano, Feltrinelli, 2009. 11 | M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro (1972), trad. it. di R. Gibellini, Brescia, Queriniana, 2008 (6^ ed.). 12 | C. Magris, Relativismo, una maschera del nulla, in «Corriere della Sera», 12 dicembre 2008.

presenze

Nell’età caotica7, il divino si è ritirato dal mondo. L’uomo è rimasto solo, come un viandante che percorre strade senza meta: di volta in volta, si adatta a ciò che scopre. Indugia in provvisori luoghi di transito: tappe sulla via del ritorno. Viaggia in un’Odissea senza Itaca. Non vi sono direzioni, né fini. Ogni approdo è occasionale, in un tragitto lungo il quale si incontrano zone d’emergenza, tra macerie di templi crollati. Si percepisce il silenzio di oracoli impossibili, sotto un cielo che non ha più stelle fisse, ma è solo polvere. Nietzschianamente, l’individuo si sente come il precursore di se stesso: spogliato di ogni difesa, impegnato esclusivamente nella cognizione di sé, può enunciare solo il «programma infinito della propria assolutezza»8. Definitivamente congedato dal mondo, Dio ha lasciato in noi un infinito desiderio di conforto, di rassicurazione: ma oramai viene percepito soltanto come il resto esangue di una millenaria tradizione, incapace di governare un tempo segnato dall’incalzante succedersi delle scoperte tecnologico-scientifiche9. Si è compiuta la sparizione senza ritorno degli dèi, che costringe noi – «abitanti del soggiorno infinito della terra» – a non avere più alcuna protezione celeste, perché tutto è solo e sempre qui10.


Vincenzo Trione | Senza Mondo

«Che ne è dell’uomo, se Dio è morto? Può esistere un uomo “senza Dio”?», si chiedeva Dostoevskij. Da analoghe domande è partito Max Horkheimer, il quale, in una delle sue ultime interviste, ha affermato che il mondo finito e contingente in cui viviamo è l’unico di cui possiamo parlare, ma non necessariamente è il solo a esistere. La nostra realtà ordinaria può essere oggetto di una onesta conoscenza razionale, ma è la sua stessa finitezza a evocare un inattingibile altrove: una dimensione irriducibile che dona senso alla nostra vita, tra mancanze da colmare, ferite da suturare, esigenze di felicità sempre deluse. Per la tradizione ebraica – di cui Horkheimer è erede – il Messia non è ancora venuto. Ma anche chi è senza fede deve porsi in ascolto delle promesse di una possibile redenzione, sperando in un’ulteriorità impenetrabile11. Ed è proprio nell’ulteriorità che abita quel Dio di cui, secondo la mistica apofatica, non si può dire nulla. Perché dire Dio significherebbe ricondurlo nei confini della misura umana, «bestemmiando la sua assolutezza». Le parole di Horkheimer invitano a ripensare la fede non come un muro atto ad allontanare dubbi e incertezze, ma come «un violento squarcio del consueto sipario quotidiano che ci protegge con tutte le convinzioni e le convenzioni passivamente acquisite, uno squarcio che ci espone a venti ignoti»12. Cos’è accaduto? Siamo nel tempo del disincanto. Eppure, continuiamo a essere sedotti da quegli orizzonti che Deleuze definisce interstellari.

Il ritorno del rimosso el Novecento, «il valore si è frantumato in valori». Quello che è andato Nprogressivamente scomparendo è l’Assoluto, ha osservato Andrè Malraux. Ma, forse, non la tensione verso l’Assoluto… Di questo slancio si è fatto interprete Vassilij Kandinskij, che ha scritto:

Quando religione, scienza e morale vengono scosse […] e i pilastri esterni minacciano di crollare, l’uomo distoglie lo sguardo dalle cose esteriori e lo rivolge a se stesso. La letteratura, la musica e l’arte sono i campi più sensibili, nei quali questa conversione spirituale si palesa in forma concreta. Sono campi che riflettono subito il fosco quadro del presente e intuiscono la presenza di qualcosa di grande, anche se a tutta prima è visibile, come un puntino, solo a pochi e per la massa non esiste. Riflettono la grande oscurità che, da principio a mala pena avvistata, viene poi in risalto. Si oscurano e si rabbuiano essi stessi. D’altro canto, si

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allontanano dal contenuto senz’anima della vita contemporanea e si rivolgono a cose e ambienti che lasciano via libera alle aspirazioni […] non materiali dell’anima assetata13.

La pagina kandinskijana è di grande attualità: e ci introduce in certe ambiguità del nostro tempo, caratterizzato da violente oscillazioni tra laicismi radicali e spiritualismi segreti. Sembrerebbe una contraddizione. Invece, stiamo assistendo a una sorta di ritorno del rimosso. Nell’epoca della modernità liquida, nella quale ogni fondamento sembra sgretolarsi, le tematiche religiose stanno tornando al centro del dibattito culturale e mediatico. È il segno di un’inquietudine crescente. Si è turbati da ansie e da paure; ci si rifugia dentro dimensioni ancestrali; spesso, si ha il timore di proiettarsi verso il futuro. Ci si interroga sui cambiamenti dell’economia, sulle mutazioni finanziarie, sui disastri ambientali. E, insieme, sul senso della vita e della morte, sui valori mondani e su quelli trascendenti: sul destino stesso dell’umanità. In questi scenari, si inserisce la ricerca di alcuni protagonisti dell’arte contemporanea, i quali hanno avvertito il bisogno di misurarsi con una sfera altra. Si tratta di un bisogno che, ora, sembra esplodere con nuova intensità. È vero: il Novecento è stato il secolo della definitiva frantumazione del religioso. Che, però, ha lasciato impronte, orme. Sono tessere che alcuni artisti hanno voluto recuperare, salvare, difendere.

La fine di Dio i è irrimediabilmente compiuta la fine di Dio, potremmo dire con il titolo di un ciclo di Sopere eseguito da Lucio Fontana nei primi anni Sessanta. Nessuna immagine, nessun

13 | V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte (1912), introd. di L. Spezzaferro, Bari, De Donato, 1968, pp. 59-60. 14 | J.-L. Nancy, Le Muse (1994-2001), trad. it di C. Tartarini, Reggio Emilia, Diabasis, 2006: il saggio Il vestigio dell’arte, che riprende il testo di una conferenza tenuta da Nancy a Parigi, a Jeu de Paume, nel 1994, è alle pp. 113-136.

presenze

rimando esplicito. Solo superfici monocromatiche, attraversate da fori di diverse dimensioni. A emergere è la carica decostruttiva di un gesto estremo: che ha la forza della semplicità e l’imprevedibilità della violenza. “The man of the border” – per servirci della definizione che Lawrence Alloway ha dato di Fontana – si pone su una soglia. Dapprima, sembra iscrivere la sua esperienza poetica rigorosamente all’interno dei generi tradizionali dell’arte. Rispetta sapientemente l’identità della superficie pittorica. Salvaguarda la pelle dell’opera, che viene trattata come un velluto consistente e levigato: solo da sfiorare. In seguito, l’equilibrio si incrina. Ed è un terremoto formale: una scossa lieve che disarticola armonie. Il piano si offre a tanti attraversamenti. I quadri dapprima vengono ricoperti di spessi strati di colore, per consegnarsi, poi, a colpi netti. In quell’attimo, quasi per magia, possiamo intuire qualcosa che è oltre. È come un barlume o una crepa. Oppure come un urlo che interrompe il silenzio.


Vincenzo Trione | Senza Mondo

Fontana costruisce territori di passaggio: indica transiti. Nell’omogeneità, dischiude interstizi. Ci fa guardare il dipinto. Ma ci fa anche accarezzare un non-so-che situato al di là. È come se il sipario di un teatro si squarciasse, facendoci sentire una scena posta oltre. Si pensi anche alla Crocifissione (del 1959). Una superficie interamente nera, spezzata da un crocefisso: una fascia dorata posta in diagonale, interrotta al centro da una fenditura simile a una virgola, che conduce verso l’ignoto. Non pieghe, che alludono ai modi attraverso i quali la materia si piega e si dispiega. Ma ferite e buchi, che nascondono tante correspondances. Il bisogno di richiamarsi al gusto per le variazioni tonali caro a larga parte della storia dell’arte italiana. La scelta di conservare uno stringente rapporto con le culture dell’informale. Ma anche un’intensa tensione analitica, basata sul ricorso a un sistema linguistico, fatto di segni finiti e costanti, elementari ed essenziali, privi di ogni rapporto con la realtà. Il sacro è presenza inafferrabile, per Fontana, il quale è minimalista e barocco insieme. Con eleganza, egli deposita tracce primarie su un ghiaccio incontaminato. Sono tracce, però, che non dicono solo se stesse, ma hanno la funzione di trasformare la creazione in un evento teso a sgretolare i limiti tradizionali della cornice, per stabilire connessioni tra lo spazio interno e quello esterno. L’obiettivo è quello di rimanere dentro il perimetro aureo della pittura. Ma anche di allargare quello stesso perimetro. La tela accoglie temporalità in movimento, proiettate verso l’aperto del mondo e della vita. Ecco opere compatte dal punto di vista coloristico, che chiedono di essere penetrate. Costellazioni nelle quali lo sguardo può inoltrarsi, fino a lambire l’invisibile.

Il vestigio l sacro – sembra dire Fontana – non è più un tema da Iraffigurare, ma un’ombra da evocare. Non è una certezza, ma uno stato d’animo. Cosa è rimasto nel tempo del disincanto? Solo un vestige, potremmo dire con Jean-Luc Nancy. Ovvero, qualcosa che non identifica un modello dotato di peso e di consistenza. Il vestigio è ciò che resta, dopo il naufragio. Quel che rimane, quando tutto è irrimediabilmente svanito. Ciò che resiste: l’enigma manifesto. È il calco in cui si custodisce il puro gesto rinchiuso in se stesso. Ha un’evidenza pura, scissa da ogni imperfezione. È fumo senza fuoco. Ogni richiamo viene celato. In un mondo senza immagine si dispiega una grande quantità, un vortice d’immagini in cui non ci si trova più […] Un proliferare di vedute, il visibile o il sensibile stesso in frammenti multipli, che non rinviano a nulla. Vedute che non fanno vedere nulla, che non vedono nulla.

Si registra un’andatura, uno slancio, una ricaduta. Nell’istante in cui il sacro si è ritratto, resta soltanto il vestige, che non è un simulacro, né un fantasma. Non descrive qualcosa. È il “resto di un passo”: ciò che si intuisce, quando l’origine è sparita. È testimonianza di una finitura infinita, sempre in divenire: non meta finale, ma topos che «non ammette progressione da un’entelechia all’altra». È passaggio, «scomparsa di ogni venuta-in-presenza»14. Gli ultimi bagliori della trascendenza si sono insinuati in significative penisole delle poetiche postmoderne, disegnando i contorni di una sorta di storia parallela dell’arte, i cui protagonisti sono, tra gli altri, Frank Stella, Bernar Venet, Jannis Kounellis, Anish Kapoor, James

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Turrell, Bill Viola, Olafur Eliasson, Wolfgang Laib, Ettore Spalletti e Hiroshi Sugimoto. Si tratta di personalità di diverse generazioni, legate a varie modalità linguistiche, accomunate però dalla necessità di ricorrere a soluzioni espressive senza contenuto: libere da ogni riferimento contingente. Nei loro lavori, non vi sono echi della cronaca o dell’attualità. Vi è una forte distanza dal canone del realismo, nel quale si iscrive la ricerca di molte voci dell’arte contemporanea, che si collocano in una posizione laterale rispetto al vero, soffermandosi, prevalentemente, su indizi minimi. Piuttosto che delineare grandi affreschi, i postrealisti compiono mappature, in cui raccolgono spostamenti. Non vogliono disporre le loro percezioni in un ordine immobile. Elaborano una prosa lacerata, indugiando su episodi e barlumi. Nel ricorrere a semplici dispositivi, rendono visibili bisogni e comportamenti. Elaborano una filosofia tesa a cogliere le ragioni di quel che accade. Scelgono di stare nel presente, inteso come spazio difficile, da contrastare, da combattere, finanche da negare15. Kounellis, Kapoor, Turrell, Viola, Eliasson, Laib, Spalletti e Sugimoto non si adeguano a quello che Hal Foster ha definito the return of the real. Senza mai arrestarsi alla contemplazione dell’esistente, marcano una forte cesura con il nostro tempo, dominato da quell’“(in)cultura dell’optional”, che avvolge strati, annulla differenze, smussa contraddizioni, elimina squilibri e disordini16.

Templi del silenzio

15 | Sull’orientamento realista della ricerca artistica contemporanea, si rimanda a V. Trione, Testimonianze infedeli, in «Parametro», Codice genetico, a cura di C. Gambardella, XXXVII, 270-271, luglio-ottobre 2007, pp. 162-163. 16 | Magris, Relativismo, una maschera del nulla, cit. 17 | M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (1959), a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano, 1990, p. 131. 18 | Sulle valenze del monocromo, si veda Monocromos, a cura di G. Fabre, Ch. Ho, B. Rose e V. Trione, Documenta, Madrid, 2004.

presenze

un piccolo catalogo di vestigia e di reliquie: gli acciai, le resine e i metalli curvati Eperccotrasmettere il senso della Passione (di Stella), le monocromie radicali

(di Venet), gli assemblaggi ordinati e simmetrici di materiali consunti (di Kounellis), le superfici di colore dentro le quali si può cadere con lo sguardo (di Kapoor), le stanze illuminate sullo sfondo da strisce di luce intensa (di Turrell), le attese prolungate e ammalianti (di Viola), le improvvise apparizioni solari (di Eliasson), le sequenze di piccole montagne di colore (di Laib), gli uniformi ambienti avvolgenti (di Spalletti), gli orizzonti concreti resi astratti (di Sugimoto)… Non vi sono voci, informazioni, emergenze. L’opera d’arte spirituale si rifugia nello spazio dell’ammutolimento. Vive nel silenzio. Che si oppone al rumore, senza annullare il linguaggio. Ha la capacità di precedere, e di contenere, ogni cifra. È un attimo, che va posto sempre in relazione con qualcosa: deve avere confini. Sta in un intervallo prolungato. È esito radicale di un brusio, che diviene indistinto. Fonte di pensiero, è strumento per svelare verità che non hanno suoni, ma si manifestano attraverso un sillabario di linee, di punti, di colori.


Vincenzo Trione | Senza Mondo

La scrittura dell’opera d’arte mistica procede per apofasi, perché il dire è insidiato da una sottrazione. Nel troppo della comunicazione, si scava quel meno di cui la grammatica della pittura e della scultura hanno terrore, perché proprio nel meno si annidano divergenze: quella soglia della voce che la decifrazione non controlla, ma teme come possibilità implosiva. Si innalzano muri per allontanare il caos di una realtà fatta di lampi fugaci e di immagini istantanee. Si aprono brecce negli scenari convulsi della quotidianità. Si generano cavità vuote, che distolgono dai vortici del presente. Gli “spirituali del XXI secolo” si fanno interpreti di un’epoché che nasconde ferite e aporie: l’impossibilità di afferrare ciò che è altrove. Essi sanno che non vi può essere una parola giusta per narrare le densità, le tortuosità e le sinuosità del non-conosciuto. Muovono sempre dalla consapevolezza secondo cui il sacro non può mai essere racchiuso in un perimetro. Non deve essere trattato come una lapide che sigilla una tomba. Non si lascia esaurire dagli sforzi per rinominarlo: traspare solo attraverso il suo essere inesprimibile. Per offrirsi nel suo non farsi afferrare compiutamente: nel suo custodirsi come allusione a eccedenze incolmabili. L’arte sacra è sempre orlata del silenzio, nel quale risuona il senso di gesti che non possiamo pronunciare. Accoglie, in sé, un topos che non ha un volto preciso, ma è in bilico tra il detto e il non-detto, tra il sensibile e il non-visibile. Non si consegna a significazioni definite: è qualcosa che non si farà mai perlustrare nelle sue pieghe. Per dialogare con lo spirituale, gli artisti contemporanei risiedono ai bordi del linguaggio. Si sottraggono alle descrizioni esatte, per rintanarsi nell’insondabilità delle negazioni, nell’impenetrabilità dei segreti, in quei recessi dove la profondità non sia esplicita. Misurano l’insufficienza dei segni pittorici e plastici nel dire la trascendenza.

Non si tratta di povertà espressiva: perché l’orizzonte dei sentimenti è molto più ampio dell’orizzonte dei significati. E proprio là dove i significati si sgretolano e si consumano dobbiamo capire che siamo nelle prossimità di geografie non ancora raggiunte nella loro abissalità. «Dove il linguaggio si fa parola? Pare strano, ma là dove noi non troviamo la parola giusta per qualche cosa che ci tocca, ci trascina, ci tormenta o ci entusiasma»17, ha scritto Heidegger.

Iconografia senza icone ospensione, attesa, distanza. SL’arte spirituale del nostro tempo si porta al di

là di ogni logica televisiva, trasgredendo il piano dell’esperienza. Non offre testimonianze. Si allontana da imperi consolidati, per determinare l’eclisse delle figure e l’esodo dei significati. L’opera presenta se stessa. Nessun luogo, nessuna storia. Non vi sono rinvii. Non c’è niente da comunicare. Non vi sono fatti, né volti. Solo costruzioni che non rispecchiano nulla: non raccontano vite, né svolgono temi. L’immagine viene emancipata dal logos. Nella maggior parte dei casi, si esibisce solo il colore, nella sua fisicità. Il senso intimo dell’inventio è in una bellezza priva di mondo. Si pensi a quel che accade nelle stazioni della via crucis dipinta da Barnett Newman (tra il 1958 e il 1966): un viaggio mistico, «a human scale for the human cry», fatto di superfici omogenee tagliate da strisce bianche o nere, simili a fasce lineari che attraversano pianure piatte. Ma si pensi anche alle architetture monocromatiche dei minimalisti e dei postminimalisti, che rappresentano la soglia ultima. Sono il punto oltre il quale non è possibile andare. L’istante in cui l’opera vuole dire solo se stessa. La barriera che non si può valicare. Si sfiora la purezza, nella sua semplicità, per

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19 | Cfr. P. Florenskij, Le porte regali (1922), a cura di E. Zolla, Milano, Adelphi, 2002 (8^ ed.), pp. 125 e ss. 20 | M. Cacciari, Icone della legge (1985), Milano, Adelphi, 2002 (2^ ed.), p. 197. 21 | C. Taylor, Perché torna il bisogno del sacro, in «Corriere della Sera», 15 gennaio 2009. 22 | Di “atei osservanti” ha parlato A. Arbasino in una nota (Village, in «la Repubblica», 6 giugno 2009). 23 | M. Tournier, Il vento Paracleto (1977), Milano, Garzanti, 1992, p. 134. 24 | E. Tadini, La distanza, Torino, Einaudi, 1998, pp. 61-66. 25 | Su queste tematiche, si veda G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive

raggiungere una visione oggettiva e imperturbabile18. Per cogliere il valore delle opere “spirituali”, possiamo richiamarci ad alcune riflessioni di Pavel Florenskij intorno al concetto di icona. Che è figura in grado di spingere lo spettatore al di là del “limite del colore e della tela”. Solleva la coscienza fino alla “manifestazione sensibile dell’essenza metafisica”. È espressione di uno stile nel quale tutto è uno: la superficie, il disegno, l’oggetto e il significato. Tinte d’oro, prive di opacità, di torbidezza, di mescolanze. L’energia divina che si insinua nelle nostre percezioni. Si varcano le porte regali dell’iconòstasi, che è linguaggio sublime, «assenza dalle realtà del mondo tecnico». Su fondi dorati, il pittore crea immagini nelle quali il divino si manifesta e, insieme, si nasconde dietro un velo di silenzio, nello sfavillio dei materiali. Rende magnificente ogni motivo, restituendolo a un’occulta grandezza. Dipinge quel che non è accidentale, ma è riflesso dell’universo degli archetipi. Mette in scena un evento «al di là della sua attualità». Conduce verso una dimensione inaccessibile ai sensi, che si può accarezzare solo con l’intelletto. Ritrae un campo di forze in azione: il «lato invisibile del visibile, […] nel senso alto e ultimo della parola»19. Ogni dato è sciolto dal suo immediato esserci: per abbracciare in sé la propria negazione. Le memorie della natura sono condotte oltre se stesse: per diventare composizioni pure. Come una finestra, l’opera d’arte si apre all’inesprimibile: a ciò che non si farà mai afferrare. «Il mistero non si spiega, non si disvela – e, dunque, mai cessa di essere tale –, ma si vede, poiché esso si dà a vedere, o, meglio, è la Luce che dà a vedere, condizione stessa del vedere, in quanto theoria»20. Anche l’opera d’arte spirituale è un varco. Tratta il sacro come prodotto luminoso. Ha la segreta forza di un magnete, che assorbe energie esterne, per azzerarle in sé. Indaga sul non-visibile, che è meta estrema della trascendenza. Per farsi, infine, iconografia senza icone.

(2007), Milano, Bruno Mondadori, 2007, in particolare pp. 252-259.

Lo spirito soffia dove vuole

26 | V. Mancuso, L’anima e il suo destino, Milano, Cortina, 2007, pp. 100-101. 27 | Galimberti, Orme del sacro, cit., p. 145.

di scorgere la dimensione spirituale della vita umana ci rende incapaci «L’diincapacità esplorare temi vitali. Ora si tratta di riportare la spiritualità al centro e in domini

28 | P.A. Sequeri, L’estro di Dio, Milano, Glossa, 2000. 29 | R. Arnheim, Il pensiero visivo (1969), trad. it. di R. Pedio, Torino, Einaudi, 1974, p. 369.

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aperti in cui sono possibili scoperte decisive»21, ha scritto Charles Taylor. Da questa necessità muovono Stella, Venet, Kounellis, Kapoor, Turrell, Viola, Eliasson, Laib, Spalletti e Sugimoto, i quali vogliono sottrarsi a un tempo di dimenticanza dell’essere. Atei osservanti22, essi ritengono che la più grande esperienza dell’uomo e della creazione artistica non consista nell’abitare l’eterno, ma nel tendere verso di


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esso. Nelle loro opere, respira un’idea precisa del sacro, inteso come edificio di tanti piani, «ognuno dei quali riproduce il medesimo schema ma a livelli di concreta astrazione»23. Il sacro. È una potente forza di attrazione, che conduce irresistibilmente verso una sfera alta. Consuma le lontananze accidentali e capovolge «una volta per tutte, dentro di noi, la Distanza in valore assoluto». È onnipotenza che irradia nell’incalcolabile. Umilia la nostra ragione. Destruttura i “piccoli sistemi di misurazione”. È come un uragano che ci trascina senza uno scopo. Ci libera del peso degli accidenti della storia, escludendo ogni vicenda particolare. Tiene in sé il nostro oscuro desiderio dell’innominabile. Conduce l’individuo verso il niente, in una totale solitudine. Allude all’enigma dell’alterità. Somiglia a un luogo collocato in un continente inattingibile, al quale vorremmo accedere: ma non potremo mai farlo. Lì risuona il richiamo di qualcosa che ci domina, senza mai respingerci. Siamo invitati a entrare negli anfratti del mistero, smarrendoci in essi. Dinanzi a questo enigma, il nostro sapere entra in crisi, per offrirsi nella sua limitatezza. Assistiamo a «un ritorno della Distanza, sul nostro orizzonte». È il ritorno definitivo, ultimo e conclusivo di una maestà onnipotente24. Riprendendo motivi di una lunga tradizione, larga parte dell’arte spirituale postmoderna è invocazione e desiderio. È non-discorso di visioni senza nome. Artificio che sa annodare, in maniera indissolubile, il segno e l’assenza, spingendo il simbolo fino ai confini di un’iconografia anti-narrativa25. Per Stella, Venet, Kounellis, Kapoor, Turrell, Viola, Eliasson, Laib, Spalletti e Sugimoto, l’arte è un dispositivo che consente di superare la realtà: custodisce la tensione dell’uomo per portarsi al di là

della fragilità delle cose. È oltrepassamento: disperato – e inarrestabile – tentativo per sgretolare gli spessori opachi della materia. Tentativo destinato, tuttavia, a rimanere sempre inappagato. L’opera si pone in ascolto dello spirito, che non è sostanza separata dal corpo: soffia dove vuole. È stupore, aspettazione. Il telos verso cui tendono i pittori e gli scultori “religiosi”, per i quali l’arte non è un mero resoconto di segno fenomenologico. Il loro lavoro è costruito come ricerca rivolta a scoprire realtà permanenti. Le loro forme – che non hanno nulla in comune con le oscillazioni del gusto – aspirano a essere tracce dell’eterno26. Pittura e scultura muovono nella consapevolezza delle indecifrabilità dell’altrove. Abbandonano la condizione solamente intellettuale che sa dell’esistenza dello Spirito, ma non lo sente, e la condizione mistica che traduce l’estetica in estatica, e se ne va solitaria per vie indecifrabili e soprattutto incomunicabili, dove indiscernibile è il confine con lo straniamento e la scissione della personalità27.

Le loro opere sono composizioni, nelle quali sono in dialogo il dato e ciò che lo trascende. L’emozione dell’intelligenza viene trasferita nella fitta trama dei colori e delle linee. Lo spirituale è ricondotto nella sfera dell’esperienza poetica28. Su questa strada, il pittore giunge a quell’approdo di cui ha parlato Rudolf Arnheim in Visual Thinking: L’arte opera al suo livello migliore quando resta inavvertita. Osserva che le forme […] dispiegando la propria natura, possono evocare quelle potenze più profonde e più semplici, in cui l’uomo riconosce se stesso. Ed è una delle ricompense che ci spettano perché pensiamo mediante ciò che vediamo29.

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L'arte assoluta n un tempo sempre più assordante e caotico, la creazione – almeno nel lavoro di I alcuni artisti spesso “inattuali” – aspira a farsi esperienza metafisica. Tensione verso

30 | M. Cacciari, Tre icone, Milano, Adelphi, 2007, p. 22. 31 | Tournier, Il vento Paracleto, cit., p. 215. 32 | J. Genet, L’atelier di Alberto Giacometti (1957), in Il funambolo e altri scritti, a cura di G. Pinotti, trad. it., Milano, Adelphi, 1997, p. 142. 33 | M. Vargas Llosa, Giacometti. Quella Parigi anni ’60, in «la Repubblica», 2 agosto 1997. 34 | J.-P. Sartre, La Ricerca dell’assoluto (1948), in Pensare l’arte, a cura di F. Marcarino, introd. di M. Sicard, Milano, Marinotti, 2008, pp. 89-102. 35 | G. Didi-Huberman, Il cubo e il volto (1993), Milano, Electa, 2008.

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una theía aisthesis: verso il divino percepire. È rappresentazione dell’îdein, concepito come pienezza del vedere. Si fa noeîn, ovvero «meditazione sulla Realtà prima e ultima»30. L’opera d’arte spirituale della nostra epoca non ostenta segni di riconoscimento. Suggerisce “parole” sussurrate senza immediati richiami. È varco per precipitare visivamente verso altre dimensioni. Una sorta di realtà seconda, che si spalanca dietro le fessure di quell’altra realtà nella quale trascorriamo la nostra quotidianità. È il palcoscenico sfuggente e instabile, che si apre dietro ogni fondo, non indugiando mai in enunciati descrittivi. Una metafisica irreprimibile, che si basa non su catene di concetti, ma su assonanze. Gesto sacro e insieme provocatorio. Una forma di preghiera laica che non invoca più alcuna figura precisa, ma è in ascolto di presenze lontane. L’opera d’arte si fa avventura verso l’assoluto. Che, ha scritto Michel Tournier, è come un’isola deserta o un giardino chiuso. È ciò che non ha rapporti, né relazioni: «blocca semplicemente l’attività spontanea, alienata, scientifica della nostra mente». Spezza i legami che ci portano a tessere reti di corrispondenze, di relazioni e di rinvii: «il nostro sguardo rimbalza continuamente da un punto all’altro non potendo fermarsi su nulla, non vedendo alla fine più nulla». Ciascuna traccia si connette ad altre tracce, ad altre ancora. «Considerate ogni viso e ogni albero senza riferimento ad altro, come se fosse solo al mondo, come indispensabile pur non servendo a nulla, secondo il motto che Cocteau applicava alla poesia»31. L’assoluto, dunque. È l’ossessione poetica di uno tra gli artisti più “spirituali” del XX secolo, Alberto Giacometti, il quale costruisce personaggi che si contraggono, sembrano sfuggire, quasi disintegrarsi; si riducono a poco più di un filo, sostenuti da sottili e precari residui materici. Siamo di fronte a una statuaria negativa, fatta di piccole larve allungate, che alludono alla permeabilità dei contorni umani. Il volto non è più delimitato da una forma definita e stabile, ma è un continente interiore agitato da emergenze incontenibili e contraddittorie. Giacometti propone visioni penose e tragiche. Stilizza la faccia, prosciuga il corpo, per farsi interprete delle fragilità dell’esistenza. Mostra ciò che resterà quando «ogni apparenza fallace sarà caduta»32. Lavora sui resti. Senza rinunciare al rigore dei classici, riflette sul destino dell’individuo, che, sciolto da ogni rapporto con il mondo, è «trasformato in un pezzo di ricambio, in un semplice utensile da lavoro, [...] prigioniero in se stesso, sospeso durante la sua esistenza sopra l’abisso del tempo»33.


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In tal senso, si rivelano illuminanti alcune pagine critiche di Jean-Paul Sartre, il quale ha parlato di Giacometti come di un artista che si situa all’inizio della creazione, incurante dei falsi miti del progresso e della cultura. Non vi è nessun riferimento. Tutto deve ancora essere compiuto: ci si sente come l’uomo che, per la prima volta, inizia a lavorare un blocco. Non vi sono ingombri, né decorazioni. Primitivo del Novecento, Giacometti scolpisce sculture ambigue. Ossessionato da pensieri solidi, ricomincia ogni volta. Rompe e inizia di nuovo, incessantemente. Si propone di iscrivere il movimento nell’immobilità, la cronaca nell’eternità, il chiacchiericcio nel silenzio. Fa convergere la molteplicità nell’unità. Modella l’individuo con la pietra: senza, però, pietrificarlo. Porta dinanzi ai nostri occhi sagome imprendibili: vicine, eppure poste in una distanza incommensurabile. Scolpisce “attori” che sembrano collocati a pochi passi da noi. La lontananza è a portata di mano: è sotto i nostri occhi. Le silhouette sono vicine, ma anche distanti. Giacometti giunge al limite del linguaggio plastico, per dimostrare che la scultura è possibile. Plasma il gesso, che è docile e leggero: come la farina o la polvere. «Si aggrappa alle sue statue come un avaro al suo gruzzolo; invano indugia, temporeggia». Solidifica i suoi “schizzi mentali”, in bilico tra l’Essere e il Nulla: sempre modificati, “distrutti e ricominciati”. Realizza sculture che si dispongono in uno spazio senza parti. Si presentano a noi in un istante, per intero, in una sola volta: ma non si lasciano catturare. Sono opere relative e, insieme, definitive. Fuggono dal nostro campo visivo, come idee dotate di “immediata traslucidità”, per disporsi in un movimento privo di durata. Scorrono apparenze situate: uomini già visti, «come una lingua straniera che cerchiamo di imparare è già parlata».

All’origine di questa ostinata avventura, vi è la disperata ricerca dell’assoluto. È una sfida impossibile, assurda. Ogni scultura giacomettiana, infatti, non è monumentum aere peremnius. È destinata, invece, a perire la notte stessa in cui è stata concepita: è fatta per «durare solo qualche ora». Come un’alba, una tristezza o il volo di una farfalla… Oscilliamo tra eternità e transitorietà. Ecco esseri minimi e scarnificati, ritagliati in materiali rarefatti, che hanno la “grazia inaudita di sembrare perituri”. Corpi emaciati, che si schiudono con la fragilità dei fiori. Personaggi filiformi e dolenti che, con slancio mistico, sembrano innalzarsi verso il cielo. In essi, scopriamo «un involo d’Ascensione»34. Il vertice è costituito da Il cubo (del 1934). Qui Giacometti parte dalla figurazione per approdare a esiti drammatici, estremi, addirittura preminimalisti. Un poliedro irregolare, chiuso in se stesso, che custodisce una “faccia sepolta”, espressione di una sorta di antropomorfismo astratto35. Forse, Il cubo è soprattutto questo: un ritratto interrotto. Che nasconde la memoria di una spiritualità struggente, necessaria, eterna.

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La bellezza non ha causa di Gregorio Botta

orii per la bellezza, ma ero appena Mcomposta nella tomba

che un altro, morto per la verità, fu disteso nello spazio accanto. Mi chiese sottovoce perché ero morta gli risposi «Per la Bellezza». «E io per la Verità, le due cose sono una sola. Siamo fratelli» disse. Così come parenti che si ritrovano di notte parlammo da una stanza all’altra finché il muschio raggiunse le labbra e coprì i nostri nomi.


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Tra i poeti Emily Dickinson non è stata né la prima né l’ultima a giurare sulla relazione tra bellezza e verità, anche se l’ha fatto in una delle sue poesie meno riuscite. D’altronde il kalos kai agathos di liceale memoria ha pervaso per secoli il tessuto culturale dell’Occidente: dove il buono di agathos sta per giusto, vero, autentico (ovviamente non verosimile). In base a quest’assioma la bellezza (e dunque l’arte che la persegue) si giustifica perché è vera, è una rivelazione. E anche quando è sgradevole, fastidiosa, antigraziosa («Non è che il tremendo al suo inizio», secondo l’elegia di Rilke) la sua verità le garantisce lo statuto di bellezza. Ma come tutti sanno, qualche decennio fa – chissà esattamente quando e dove – il kalos kai agathos è improvvisamente scomparso, dissolto come neve al sole. La prima a sparire è stata la bellezza: messa in crisi dalla rivoluzione duchampiana prima e cancellata dall’estetica pop dopo, la parola è addirittura scomparsa dal dizionario della critica d’arte, sostituita da concetti come forza, precisione, presenza, conseguenza, innovazione, provocazione e naturalmente e soprattutto, contemporaneità. Ma anche la parola verità si è perduta. Dissolta dal crollo delle ideologie, dalle utopie precipitate in un orrore totalitario. La sua rovina ha trascinato con sé

l’idea di storia come progresso lineare, di un futuro dalle magnifiche sorti e progressive: e così è andato in frantumi il concetto stesso di avanguardia che aveva nutrito il primo Novecento. Nell’episteme postmoderna non esistono più grandi verità, si entra definitivamente nell’epoca delle verità relative, momentanee, minime: siamo nell’universo del pensiero debole, del piccolo è bello. Niente più grandi sistemi che spiegano da soli la complessità del mondo. E in arte niente più grandi illuminazioni, niente più manifesti artistici, niente più grandi battaglie tra astrazione e figura, niente più risse ideologiche, passioni, furori, niente più rotture di amicizie solo per l’inclinazione di una linea: la leggenda vuole che Mondrian ruppe il suo lungo sodalizio con Van Doesburg, compagno in De Stijl, perché questi praticava l’eresia delle diagonali, invece di attenersi all’ortodossia ortogonale del neoplasticismo. Vera o esagerata che sia questa versione (recentemente messa in dubbio da qualche storico) il solo fatto che sia verosimile ci dice cosa si era capaci di fare, in quella straordinaria tempesta culturale di inizio secolo, in nome di un’idea. Ma tutto il portato rivoluzionario dell’arte novecentesca è diventato improvvisamente come un enorme catalogo di relitti spiaggiati da una tempesta sulla riva della contemporaneità. Bellissimi e privi di vita.


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L'arte che dice troppo inganna

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Magnifiche forme adatte ad abbellire le case, ad arricchire i design dei grattacieli, a innestarsi nei progetti delle nostre auto, a formare pattern per i tessuti degli stilisti, a essere citate, come reperti, nelle opere contemporanee. Della carica spirituale che li aveva generati (il manifesto forse di maggior rottura del secolo scorso si chiamava, appunto, Lo spirituale nell’arte) non è rimasta memoria. Questa crisi ha prodotto molta arte che sembra ripiegarsi su se stessa: nutrendosi, come un parassita, del proprio passato, citandosi addosso, assemblandosi in un compost postmoderno, in cui tutti i linguaggi sono possibili, ogni verità è bene accetta, tutte le forme hanno diritto di cittadinanza, – basta che siano benedette dal mercato. Il multiculturalismo contemporaneo si traduce in un multilinguismo orizzontale sempre mutevole, sempre instabile, che produce eternamente piccole variazioni sul tema ma con un fantastico dispiegamento di mezzi (mai così tanti a disposizione del demiurgo creatore) e con un enorme numero di protagonisti. La produzione artistica infatti non è mai stata così ricca, nuovi soggetti entrano in scena a ogni stagione (i russi!, gli africani!, i cinesi!, gli indiani!) allargando lo sguardo dell’occidente in una visione sempre più globale: il sistema dell’arte occupa il centro del palcoscenico, i suoi prodotti sono oggetti del desiderio e status symbol per vecchi e nuovi miliardari, mai gli artisti sono stati tanto ricchi da giovani. Eppure – e non è un caso – proprio nel periodo di massimo glamour e di maggior trionfo economico si ricomincia a parlare di Fine dell’arte. È il titolo del libro in cui Arthur C. Danto, ripesca la civetta di Minerva hegeliana che «inizia il suo volo solo sul far del crepuscolo», per rinverdire la teoria dell’agonia del sistema creativo: «La filosofia dell’arte è praticabile solo quando l’arte stessa ha perso la sua forza propulsiva». E certo non c’è periodo come oggi in cui l’arte faccia tanta filosofia su se stessa cercando di scoprire la propria natura: arrivando al paradosso di una prevalenza del testo, dell’interpretazione, del discorso, sulla realtà dell’opera. George Steiner ha scritto parole di fuoco contro il testo secondario (quello della critica) che divorava la verità del testo primario (quello dell’opera). E vedeva la comunicazione che gli soggiaceva come l’avversaria dell’espressione. Si riferiva soprattutto alla letteratura, ma il discorso può essere trasferito di peso all’arte visiva. «La comunicazione – diceva Steiner – è la tara e la gloria della falsa scientificità della critica letteraria. Né la letteratura, né la poesia sono verità dimostrabili. Le cose importanti – l’angoscia per la morte, l’incontro con uno sconosciuto all’angolo della strada – non sono dimostrabili. La dimostrazione è il sintomo della volgarità». Qualche anno più tardi Mario Perniola ha scritto un libello contro la comunicazione, distruttrice della nostra società, cercando una via di salvezza – guarda un po’ – proprio nell’estetica. Il fatto è che lo sguardo filosofico ha scavato un solco sempre più profondo tra i due


Gregorio Botta | La bellezza non ha causa

fratelli della poesia dickinsoniana, lasciandolo ognuno solo sulla riva a contemplare l’abisso del proprio ombelico. Così, generalizzando, esagerando, – e ovviamente fatte tutte le debite eccezioni – a me sembra che siamo precipitati in uno zeitgeist che produce molta bellezza senza verità – quindi elegge il kitsch, il falso a categoria esistenziale – e soprattutto verità senza bellezza. Prendiamo ad esempio i due campioni dello star system artistico. Due vere e proprie artstar, opposte e identiche: Jeff Koons, americano, piacente, piacione, facile, ultimo epigono della scuola Warholiana, e Damien Hirst, inglese, papà negli anni Novanta della Young British School, intellettuale, ruvido, provocatore campione prediletto di Saatchi. Dalla fabbrica di Koons escono oggetti piacevoli, ben fatti, gigantografie di icone industriali: in sostanza mega-giocattoli visivi. Ultima edizione di una weltanschauung neo-neo-neo-pop che proclama la riduzione della vita a una pantografia da centri commerciali, a una esistenza da superficie (le statue di Jeff e Cicciolina alla Biennale di Venezia), allo scintillio di un laminato che gonfia a dismisura un palloncino (il famoso cuore). Sotto il vestito di Koons non c’è niente: la tautologia è la forma finale della conoscenza. Un pallone da basket è un pallone da basket. Punto. Damien Hirst invece produce oggetti anestetici oppure sgradevoli, in cui il discorso diventa decisivo per la definizione del loro status di opere d’arte. An-estetici: in senso formale e letterale. Le famose farmacie, le teche con decine e decine di pillole vanno spiegate con il discorso – persino banale – che la scienza, anzi la farmacopea, è la nostra nuova religione, l’unica che letteralmente sia capaci di “Liberarci dal male”. Sgradevoli: l’interrogazione sulla morte – ossessione dell’artista – lo porta a creare delle nature, non morte, ma assassinate. Che altro sono le vasche di formaldeide, che racchiudono animali sezionati? E che senso hanno se non vi leggiamo la tragica manifestazione dello sguardo occidentale, che nella dialettica tra soggetto e oggetto uccide ciò che vuole conoscere, perseguendo invano una scienza della vita e della morte che gli si sottrarrà per sempre? Ma legioni di mosche o di farfalle sterminate non daranno a Hirst neanche l’ombra della percezione del mistero. Però forse possono rendere più estetico – sopportabile? – l’orrore. L’estetizzazione dell’orrore è un derivato della verità senza bellezza. Se è il discorso sull’arte – e cioè la parola, il sottotitolo, la spiegazione – a donare lo statuto di arte all’opera, la sensazione è che spesso il discorso si faccia prevalente, e si divori l’opera. Verità relative per opere piccole. Opere che denunciano l’orrore della guerra, della fame, della povertà del mondo, delle cattive società farmaceutiche che non regalano i medicinali anti-Aids, delle cattive multinazionali che manipolano il codice genetico del mondo, opere che mettono alla gogna il maschilismo, Bush e Guantanamo, le

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religioni. E via denunciando con video, foto (moltissime), pitture (soprattutto se sei un artista africano), assemblaggi vari, eccetera eccetera: quante opere simili avete visto alle ultime Biennali? Opere, insomma, che si riducono a comunicazione: dicono quello che già sappiamo e che viene quotidianamente diffuso da un sistema di mass media molto più vasto ed efficace. Ma ne trasportano il contenuto sul territorio artistico. (Non è un caso che molti campioni dell’arte contemporanea siano specialisti nell’intervenire proprio nei gangli dell’universo mass-mediatico). Ed ecco allora l’arte politica. Sociologica. Linguistica. Tecnologica: i campi di applicazione del discorso sono infiniti, e altri se ne produrranno. Ma per tutti varrà sempre la stessa obiezione: il discorso è la didascalia dell’opera o viceversa? Quante riusciranno a librarsi oltre la semplice illustrazione di una teoria per provocare uno choc percettivo, per manifestare l’epifania di una realtà esistenziale? Ancora di più. L’ultima Biennale di Venezia ha premiato con il Leone d’oro per gli artisti sotto i 40 anni la palestinese Emily Jacir. La sua istallazione era il risultato di una lunga ricerca sulla storia e la fine di Wael Zuaiter, uno scrittore membro di Al Fatah assassinato da un commando israeliano perché sospettato ingiustamente di essere uno dei mandanti della strage di Settembre Nero. In Munich, Steven Spielberg racconta anche il suo omicidio, senza spiegare che fu un errore. La Jacir nel tentativo di riscriverne la storia raccoglie ed espone foto, lettere, libri, la traduzione di Dante scritta da Zuaiter, un articolo dell’«Espresso» su di lui. È un’inchiesta giornalistica svolta con grande accuratezza, destinata a diventare un film o un documentario, alla quale – per qualche misterioso motivo – è stata assegnata la categoria di arte. L’opera praticamente non c’è: è solo un insieme di reperti, un collage di testimonianze e ha la stessa struttura narrativa – addirittura la stessa impaginazione – del giornalismo. Non c’è nessun salto in più, nessuna trasformazione. Leggere un articolo sull’argomento sarebbe stato lo stesso. È il passo definitivo del paradigma contemporaneo: la scomparsa dell’opera. Ovvero: la verità senza l’opera. Pura comunicazione. D’altra parte. Sia chiaro: nessuno crede che sia possibile un salto indietro, un ritorno al paradigma della modernità, con tutti suoi annessi e connessi. Ma c’è un’altra faccia della medaglia: la rottura postmoderna ha reso un grande servigio alla libertà espressiva, la convivenza dei linguaggi, dei campi di intervento, la enorme disponibilità di mezzi espressivi ha messo gli artisti in una condizione di possibilità invidiabile, forse mai posseduta prima. E nel sistema dell’arte oggi convivono anche correnti che sfuggono ai vari mainstream e parlano una lingua – a mio avviso – più profonda, silenziosa, forte.

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Gregorio Botta | La bellezza non ha causa

Ci sono grandi individualità al lavoro: un lavoro che non dimentica le ragioni fondative del fare arte, la carica spirituale che c’è all’origine della ricerca e dell'esperienza estetica. Non sono una scuola, non hanno un manifesto – sarebbe impossibile – non c’è niente che accomuna, formalmente, le loro opere. Forse alcuni di loro non si piacciono neanche. Chissà. Ma chiunque le conosce, se si pone in ascolto, può percepire uno stesso alito che soffia dietro le loro creazioni e che spinge questi artisti a cercare di colmare il divario tra la bellezza – cioè tra la forma – e la verità, cioè la necessità di crearle, l’autenticità del percorso creativo, l’efficacia del risultato. Le loro opere – come diceva Steiner – sono irriducibili a un mero discorso. Potete spiegare, ovviamente, un lavoro di Anish Kapoor: potete parlare delle simbologie orientali che sono il suo territorio di provenienza, potete parlare del vuoto-pieno della meditazione buddista, potete parlare della luminosità del buio, e quindi dei paradossi visivi, filosofici ed esistenziali di cui una sua opera – come un koan – è espressione. Potete e dovete farlo. Ma nessuna filosofia si sostituirà all’esperienza, alla sospensione del tempo, alla percezione dell’incanto e del mistero che una sua scultura vi comunicherà. Oppure: dietro il lavoro di Bill Viola ci sono anni di pratica zen, c’è la lettura di testi sufi e di grandi mistici come san Giovanni della Croce, c’è una straordinaria padronanza tecnologica, c’è un’amorosa conoscenza dei grandi pittori del passato, c’è un’idea di mondo. Ma sono cose che potete anche non sapere, quando guardate un suo video: grazie al suo occhio, grazie alla sua attenzione, possiamo percepire l’inesorabilità del tempo che passa, partecipiamo alla compassione, accettiamo il passaggio della soglia della morte. Partecipiamo a un’esperienza inevitabile. È come essere posti davanti all’essere nel tempo.

Ci possono essere artisti – dice Viola – che rappresentano un vasto numero di aspetti del mondo e per molte differenti ragioni, e tutto questo è arte. Ma se guardiamo al contenuto, a cosa c’è nel contenitore che chiamiamo arte, allora per me è una cosa molto particolare e precisa. Non sono interessato a tutto. A me interessa l’aspetto dell’esperienza umana che riguarda la natura del movimento del fluire della coscienza, la consapevolezza, la possibilità di perfezione e di liberazione del sé.

Ecco. Nella terra liberata dell’arte contemporanea – dove tutto è possibile e l’immaginazione è già al potere – non si tratta più di decidere chi ha diritto di cittadinanza e chi no. Tutti ce l’hanno. Ognuno può però scegliere: anzi sarebbe doveroso farlo. E capire che non è tutto uguale, o equivalente, che Giuseppe Penone e Luca Vezzoli fanno fatica a condividere lo stesso tetto, come è accaduto a Venezia. C’è un’arte che va in direzione ostinata e contraria, come una canzone di De Andrè: è un’arte che richiede tempo e silenzio, che tenacemente resiste al cinismo posthuman e alla superficialità pop, che indaga la radicalità dell’esperienza umana ed è capace di restituire l’incanto, il dolore, la meraviglia dell’essere al mondo e il mistero della morte. È un’arte spirituale non perché abbia verità da vendere, o evochi simboli delle varie professioni di fede, ma perché esprime un anelito a creare uno spazio altro nel mondo: uno spazio in cui l’uomo sia sottratto per un minuto al turbinio sensoriale della sua vita quotidiana, e sia posto sull’orlo di una profondità che altrimenti non avrebbe modo di manifestarsi. È un’arte che se è religiosa lo è nel senso più antico e vero del termine, che vuol dire tenere insieme, mettere insieme: è una religiosità senza contenuti, come quella dei Makom, monumenti momentanei che la Rovner va costruendo nel mondo.

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È un’arte non di cordata o di scuola perché è necessariamente individuale, perché autentica. Ma è diffusa, non nascosta agli occhi del mondo: basterebbe metterla insieme. È un’arte che produce sempre una forma che possa bastare a se stessa. Perché incarna non una filosofia del mondo, ma una visione: e la differenza non è di poco conto. Non è il caso qui di dire: il catalogo è questo, non è il mio compito e sarebbe impossibile. Ma mi piacerebbe vedere una mostra intitolata Spirito che fosse diversa dalle Tracce del sacro ospitata al Beaubourg. Mi piacerebbe trovarvi artisti che abbiamo la compassione antropologica, quasi religiosa di Michal Rovner, che percepiscano e trattino come sacro il respiro della natura come Wolfgang Laib e Giuseppe Penone, che sappiano restituirci l’antica radicalità, la tragedia e il mistero dell’essere al mondo come Jannis Kounellis, che portino la forma alle sue estreme conseguenze, sublimandola in un’esperienza di luce come Ettore Spalletti. Per non parlare di Viola e Kapoor, già citati. Faccio i nomi controvoglia, ma li faccio – naturalmente sono solo alcuni dei tantissimi possibili – per dimostrare che esistono. Artisti non post, ma tenacemente human. Della cui opera si può dire – senza che sia un’eresia temporale – “bella”. Non è un caso che la poesia citata in epigrafe sia tra le meno felici della Dickinson: troppo didascalica e programmatica. L’arte che dice troppo inganna. Il peso del discorso la uccide. La stessa poetessa lo sa. Lo dimostra un altro suo verso formidabile e definitivo: «La bellezza non ha causa: esiste».

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Segno di vittoria e morte di Felix De Azúa

XX secolo gli ultimi prodotti artistici propriamente ascrivibili Pallaensosferachedelnelsacro, o che possano aspirare a uno statuto di sacralità avendo

manifestato una qualche relazione con il trascendente – con una vita, o con poteri ultraterreni (senza perciò cedere alla superstizione) – siano stati realizzati in campo musicale; e che tra le arti, grazie all’eredità degli Schnittke, Pärt e Gubaidulina, solo la musica si sia dimostrata capace di trattare del sacro e del sogno di una vita dopo la morte. Diversamente, venendo alle arti visive, ormai da molti anni la possibilità di raggiungere la trascendenza servendosi di immagini è stata abbandonata,


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soprattutto una volta comprovato il fracasso dei vari addobbatori di chiese, da Matisse a Rothko, o di monasteri trasformati fin dal giorno della loro inaugurazione in luoghi di attrazione turistica o estetica senza il minimo legame con una qualsivoglia funzione sacrale. A mio parere l’ultimo serio tentativo di sacralizzare l’arte che ancora conservi un qualche interesse (benché sovraccarico di un romanticismo atroce che divinizza la sessualità umana) è stata la peraltro poco convincente esperienza di quella parte del Surrealismo che si rifà al pensiero di Georges Bataille. Indubbiamente in alcune nazioni, come la Spagna (e suppongo, per ragioni diverse, l’Italia), la presenza di oggetti artistici religiosi di qualità più o meno buona imponeva durante l’infanzia un’esperienza iniziatica che cominciava con l’assimilazione inconscia del simbolismo sacro della tradizione, specialmente la croce e i tanti, onnipresenti crocifissi, minacciosi e ossessivi. Lo si consideri un bene o meno, è fuori discussione che le generazioni che si trovarono a studiare in Spagna tra il 1940 e il 1980 il loro primo contatto “artistico” lo ebbero con le differenti figurazioni del crocifisso; inesplicabili al di fuori del loro carattere di “opere d’arte scolpite o dipinte”, giacché in nessun modo è possibile per un bambino

vedere nel crocifisso la raffigurazione storica di un’esecuzione, un documento penale o giudiziario. Di certo per quarant’anni, quel cadavere sacro ha esercitato un’influenza determinante per diverse generazioni. Ignoro se Francis Bacon raffigurasse la medesima esperienza traumatica nelle sue frequenti allusioni pontificie, ma mi pare assolutamente chiaro che Antonio Saura, per citare solo un caso tra cento, non riuscì mai a sradicare dalla sua immaginazione questa spoglia grandiosa e patetica scavata in un pezzo di legno. Ciò che più sorprende è che per la particolare senescenza dell’educazione spagnola, quelle figure crocifisse erano per noi qualcosa di astratto e privo di senso, un segno del potere nudo e crudo, inconcepibile, il potere di un capo di stato o di un prete autoritario e osceno. Le crocifissioni si potrebbero accettare o comprendere come illustrazioni di un racconto, quello della Passione, che peraltro si dava in forma parziale ed edulcorata, senza relazione con la violenza estrema delle immagini visive; ma il racconto della Passione (e una volta di più è tipica la sagacissima intuizione di Hegel) non si sarebbe espresso nelle sue forme più mature e perfette se non dopo molti anni. Così che la croce che pendeva sui muri di tutte le aule e che vediamo in un’infinità di chiese assistenziali, negli


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Il crocifisso, traccia incancellabile dell'inconscio

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ospedali, commissariati, spazi politici o palazzi pubblici risulta inscritta in un universo flottante di intimidazioni; separata dai suoi contesti tradizionali, infinitamente potenti e dunque, questi sì, in verità magici, la croce non può che essere vista come un’inesplicabile minaccia. Se per lo meno avessimo avuto accesso al mondo magico del crocifisso qualcosa di poetico e di originale si sarebbe potuto anche costruire, come accadde nella pagana Andalusia con le sue innumerevoli vergini e santi protettori, ma nella fredda astrazione della croce come segno di un potere senza contenuto, non c’è sostanza, solo vuoto e orrore panico, la presenza costante, implacabile, di una morte violenta imposta dall’insensatezza e dalla viltà. Gli studenti di oggi forse saranno i primi bambini spagnoli per cui la croce non sarà più la costante, il basso continuo di tutto il visibile. Dall’VIII secolo fino a circa un decennio fa, la croce è stata il segno più ripetuto e più presente nello spazio e nel tempo degli spagnoli. Oggi non è più così. Anche in altri luoghi, come negli antichi Stati Vaticani, suppongo che questa presenza fosse tanto onnicomprensiva, ma non credo possedesse la fiera intensità con cui si impone tra gli spagnoli, come se fosse la firma in calce ad un permesso di vita o di morte. Che tale peculiare intensità si debba alle sue connotazioni arcaiche riscoperte dagli ideologi di Franco o meno, resta un fatto che in Spagna la croce, la croce impenetrabile, sia nata in risposta all’affilata mezza luna orientale, a quell’arco bianco contro cui si scagliò Santiago Matamoros. E anche se noi, i moderni, già l’abbiamo dimenticato, la croce in Spagna continua a mantenere la sua forza militare, e ci affligge nel silenzio della notte. Per questo sconvolge, dopo anni, constatare che la croce ancora tarderà tanto ad essere riconosciuta come il segno cristiano per eccellenza, e quanto la sua storia sia romanzesca ed enigmatica. Perché quella croce di legno da quattro soldi che segnò il nostro sguardo per sempre a scuola, in principio fu una croce di luce sopra il cielo bianco di mezzogiorno. Nell’anno 312 poco prima della battaglia decisiva, l’imperatore Costantino, accecato, si coprì gli occhi con una mano, stupito dalla veemenza di una luce ostinata che rischiarava il mattino. E vide una croce luminosa che per intensità sovrastava la luminosità del cielo. La sua ragione gli diceva che quel fenomeno, luce su luce, non poteva essere visibile, e tuttavia lo stava vedendo. Oppure non andò così perché un’altra versione tramandata da Eusebio di Cesarea, suo biografo (mai sapremo quanto veritiero e se ciò che scrisse gli fu confessato dall’imperatore, o invece fu una sua invenzione truffaldina, una frode), narra che Costantino non vide una croce bensì una scritta: “In hoc signo vinces”. Ma in fondo che importa? L’imperatore profetizzò che quello era il segno di un dio potente, e avvertito che un certo mago orientale era morto giustiziato, poiché i suoi discepoli lo credevano un dio che chiamavano “l’unto”, ovvero il Cristo, mandò


Félix de Azúa | Segno di vittoria e morte

a incidere sugli scudi dei suoi soldati le iniziali del martirio Chi Rho, che scritte in maiuscolo davano luogo a una X e una P; le quali il giorno seguente figuravano su decine di migliaia di scudi incisi dalle spade, e nello stendardo imperiale, il Labaro, ore prima che Costantino, con forza rabbiosa, debellasse le truppe di Massenzio e conquistasse il potere assoluto. Il segno dell’unto, il Crisma, fu da quel momento l’amuleto personale di Costantino, quello che lo proteggeva nelle battaglie. Nonostante ciò, di questa origine magica del segno, nessuno ci ha mai detto niente. Ma non fu per queste ragioni che i cristiani, già “istituzionalizzati” e inclusi favorevolmente nel potere dello stato, usarono la croce come segno comune. A malapena usavano tracciarla sulla fronte degli indemoniati per cacciare gli spiriti e si riconoscevano l’un l’altro mediante quello scongiuro magico mediante il quale ottenevano la benevolenza di quel potente mago che era stato capace di rendere cristiano l’imperatore. Poiché allora il segno cristiano di riconoscimento era la figura di un pesce, più lieve, e propizio di questo patibolo, di questo legno macchiato di sangue che nessuno avrebbe potuto riconoscere come sua insegna se non un imperatore delirante, dalle colossali ambizioni, e assassino dei suoi parenti. Prenderà dunque piede la leggenda, falsa o quantomeno problematica, sulla madre di Costantino, la quale si dice dissotterrò la croce del Golgota per ridurla in quella miriade di sottili schegge che poi figureranno in tutti i reliquiari della cristianità; tanto che riunite quelle schegge avrebbero un peso eccezionale, quasi che la croce della passione di Cristo fosse d’uranio. Solo così, quasi cento anni più tardi, a Bisanzio, con l’imperatore Teodosio la croce comincerà la sua prodigiosa ascesa fino a ripulirsi del sangue e dimenticare la tortura, fino a presentarsi semplice e nuda. Braccia aperte ad accogliere chi soffre o è vittima dell’ingiustizia, i semplici, i perduti, i derelitti. Mai avremmo sospettato questo passaggio dalla magia guerriera alla serenità augusta e che entrambi questi aspetti fossero presenti nel medesimo segno indipendentemente, e senza alcuna relazione con la morte violenta dell’Unto del Signore. Ho davanti agli occhi la grande croce di Giustino II, la Crux Vaticana conservata nel Tesoro di San Pietro, una delle poche sopravvissute allo sterminio del cristianesimo orientale, e senza dubbio un pezzo di grande valore nella Costantinopoli del VI secolo. Il reliquiario interno contiene una frammento della Santa Croce e la croce stessa è ricoperta di grandi gemme. Dovevano servire come protezione contro la sterilità, il malocchio, la possessione, i bubboni della peste, i giudici corrotti, la cicuta. Queste grandi pietre, ma anche le piccole, esercitavano un grande potere benefico contro i demoni, ovvero contro gli dèi antichi che, anche se vetusti, continuano a perseguitare pagani e cristiani. Senza dubbio, questa croce non è fatta per sostenere nessun cadavere.

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Il Cristo apparirà come un dio morto solo molti anni più tardi. Nelle prime immagini bizantine, coperto di una tunica porpora, in maestà, Cristo vola con le braccia aperte come grande volatile nel cielo; e quelle immagini conservarono il loro potere magico per molti anni. Tuttavia è possibile vedere anche oggi, in alcune parti dell’Andalusia più popolare e contadina, piccole figure in legno o in pietra che ancora posseggono un’efficace forza nello scacciare i demoni, guarire la tubercolosi, o lenire i dolori dei figli nati idrocefalici, o che guariscono dall’influenza o proteggono le donne incinte abbandonate. Forza magica di antica energia greca e romana che è di quei demoni ora imprigionati nelle viscere della terra, però sempre pronti a risalire da una falda per attaccarci, e confonderci. Tutto ciò pulsava contratto nelle croci della nostra infanzia, e noi non lo abbiamo mai saputo. Eravamo soltanto gli involontari testimoni di un’esecuzione capitale che ci seguiva ovunque andassimo, minacciandoci con la sua ripetitività istantanea e arbitraria. Oggi è troppo tardi per cavarcela fuori dalla memoria. Come l’albatros del vecchio marinaio di Coleridge, la croce penderà per sempre dal nostro collo non per proteggerci, ma per condannarci.

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Architetture erranti La costruzione contemporanea del sacro di Marco Biraghi

oltanto a una prima apparenza architettura contemporanea e architettura Ssacra si presentano come inesorabilmente antitetiche. A dispetto di tutti i

discorsi sulla “caduta del sacro”, e nonostante l’inarrestabilità dei processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo attuale in quanto evoluzione “logica” di quello moderno, la sacralità sopravvive mutando nel tempo le forme che danno ad essa espressione. Da questo punto di vista, le consuete lamentazioni in merito all’abbandono delle modalità tradizionali di manifestazione del sacro risuonano inopportune, oltre che sterili.


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In quanto luogo di riunione della comunità dei fedeli (ekklesía) e della celebrazione del rito liturgico, l’edificio di culto cristiano non possiede sacralità propria; non è che un’immagine del tutto “virtuale” della «nuova Gerusalemme», la Gerusalemme celeste, il cui tempio sono Dio e l’Agnello (cfr. Ap. 21-22). Ciò, di fatto, priva di qualsiasi stringente ragione analogica le forme concrete della “Gerusalemme terrena”: nessuna di esse è sacra a priori, nessuna è più sacra di altre. In questo senso l’architettura ecclesiastica, ben lungi dal limitarsi a replicare un “modello” ideale, è l’espressione della storicità del rapporto tra liturgia, simboli, forme e materiali. Essendo storico, tale rapporto va soggetto a modificazioni. Come si legge in una nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana del 1993 a proposito della progettazione di nuove chiese, «l’edificio di culto cristiano corrisponde alla comprensione che la chiesa, popolo di Dio, ha di se stessa nel tempo: le sue forme concrete, nelle varie epoche, sono immagine di questa autocomprensione». È soltanto per ragioni di “antropologia culturale” – oltre che di diffusione e di frequenza d’uso – che alcune forme nel corso del tempo hanno assunto un’autorità tale da risultare “canoniche” ai nostri occhi. Ciò vale per la forma circolare, utilizzata nell’organizzazione planimetrica di numerosi edifici paleocristiani (martyria, battisteri,

chiese), in diretta continuità con l’architettura sacra antica, oppure come elemento plastico, nelle cupole di innumerevoli edifici bizantini, romanici, rinascimentali, in un’inesausta ripresa delle stesse soluzioni proseguita fin dentro il XX secolo. E ciò vale ovviamente per la configurazione cruciforme. In questi casi la forma, ancorché una risposta a problemi meramente costruttivi, è espressione di un superiore senso dell’ordine, della simmetria, dell’armonia. Di tutti questi aspetti si fa depositaria la perfezione della geometria. Secondo la concezione antica della sacralità, la forma significa. La forma significante è forma fondata, e perciò stesso forma essenziale, necessaria. Storicamente, la necessità di utilizzare determinati materiali e forme per la costruzione della chiesa è stata espressa nell’opera di due grandi liturgisti del Medioevo, Sicardo da Cremona e Guglielmo Durando. Nel Mitrale (fine del XII secolo) del primo e nel Rationale divinorum officiorum (1283-1292) del secondo, tutti gli elementi della chiesa vengono analizzati e interpretati secondo il metodo allegorico, in base al quale a ciascuno è attribuito un significato simbolico intenzionale, ogni volta diverso, che non chiarisce la natura dell’oggetto, né riguarda il suo valore spirituale o morale. Così per Sicardo, la forma a croce fa riferimento al fatto che ogni uomo in Cristo è crocifisso al mondo; la forma circolare allude alla diffusione terrena della


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Progettare la religione, verso la fantasia formale

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chiesa, ma anche al Regno dei Cieli; la porta rappresenta Cristo; le colonne devono essere sette come i doni dello Spirito Santo. Per Durando la disposizione materiale della chiesa ricalca quella del corpo umano: il santuario, o presbiterio, rappresenta la testa; il transetto le braccia e le mani; l’estensione della navata verso ovest la parte restante del corpo. La chiesa è fondata sulla prima pietra che è Cristo; le quattro mura che la racchiudono sono composte dalle pietre che rappresentano i fedeli predestinati alla vita eterna e simboleggiano a loro volta i quattro evangelisti, così come pure le quattro virtù cardinali; il cemento che tiene insieme le pietre è composto da calce (carità fervente), sabbia (azioni intraprese per il bene) e acqua (segno dello Spirito Santo che unifica il tutto attraverso la preghiera); le pietre stesse sono levigate dallo spirito della carità; il legame della pace tiene unite tutte le pietre. Le fondamenta della chiesa sono la fede «che è familiare con le cose invisibili», la volta è la carità che copre tutti i peccati, la porta è l’osservanza e i comandamenti, il pavimento è l’umiltà. La disposizione della chiesa significa anche le tre età o i tre stati della vita: verginità, celibato, matrimonio. Lunghezza, larghezza e altezza richiamano rispettivamente la forza che sopporta con pazienza, la carità per i fratelli e l’amore di Dio, e il coraggio quale ricompensa celeste. E ancora: le basi delle colonne sono i vescovi apostolici che sostengono il corpo della chiesa, i capitelli dei pilastri sono le opinioni dei vescovi e dei dottori, e così via. Per l’allegorismo medievale, dunque, tutti gli elementi, le forme, i materiali sono dotati di un senso (e spesso, come visto, di più d’uno). Se ciò non costituisce un infrangibile vincolo alla configurazione concreta dell’edificio ecclesiastico, fornisce quantomeno un programma ben preciso e dettagliato per la sua costruzione, il cui puntuale riflesso è il rito di consacrazione e dedicazione della chiesa. Anche gli aspetti liturgici, tuttavia, sono passibili di evoluzioni storiche. Esemplari, da questo punto di vista, le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae (1577) di Carlo Borromeo, elaborate in stretta relazione con il Concilio di Trento, capaci di dare un nuovo impulso ad architetti e artisti del tardo Rinascimento. Ma è con il Concilio Vaticano II – e con il successivo Pontificale sull’Ordo dedicationis ecclesiae et altaris del 1977 – che si registra un radicale mutamento nei rapporti tra chiesa e moderna comunità dei fedeli, mutamento che conduce a una profonda revisione della liturgia, e di conseguenza anche dell’organizzazione dello spazio fisico destinato ad accoglierla. La centralità dell’altare e il raccogliersi dei fedeli intorno al rito officiatovi, anche quando non si traduce immediatamente in una configurazione architettonica, diviene però lo spunto per l’abbandono di ogni rigidità liturgica e spaziale. In tal modo, se per gli architetti facenti capo alle correnti funzionaliste del Novecento la soluzione al problema della costruzione sacra finiva per coincidere con «panche comode e acquasantiera igienica», per riprendere le parole ironicamente usate da Massimo Cacciari in Dallo Steinhof, nei migliori esempi di architettura ecclesiastica moderna la


Marco Biraghi | Architetture erranti

sacralità è espressa in forme più libere, prossime a un senso della spiritualità quasi “naturalistico”. La cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-1955) e la chiesa di Sainte-Marie-de-la-Tourette a Eveux (1952-1960) di Le Corbusier, le chiese di St. Anna a Düren (1954-1956) e di St. Maria Königin a Saarbrücken (1954-1961) di Rudolf Schwarz, la chiesa delle Tre Croci a Imatra (1955-1958) di Alvar Aalto, le chiese di San Marco a Björkhagen (1956-1964) e di San Pietro a Klippan (1962-1966) di Sigurd Lewerentz, la chiesa di Bagsvaerd (1973-1976) di Jørn Utzon (per limitarsi a pochissimi casi largamente noti) dimostrano tutte come il sacro moderno si serva di preferenza – piuttosto che di astratte simbologie e geometrie – di luce, materia, colori, effetti atmosferici. Per i suoi interpreti attuali la sacralità della chiesa sembra invece realizzarsi facendo ricorso a una “fantasia” formale che nulla ha a che vedere con la ferrea necessità dell’architettura antica, e che affonda piuttosto le sue fluttuanti radici nella casualità apparente e nella sostanziale infondatezza cui soggiace la gran parte dell’architettura contemporanea. Ciò non fa che rimarcare la spiccata soggettività che domina la stagione architettonica odierna, in cui l’edificio è di sovente equiparato a un’opera d’arte, e l’architetto a un artista. In tale condizione quest’ultimo, se gode dei “privilegi” di una presunta libertà creativa, è costretto però a farsi carico individualmente di un’incombenza un tempo condivisa a livello sociale. Ne discende che la chiesa oggi, al pari di molti altri edifici con destinazioni “profane” – e senza sostanziali differenze da essi –, diviene il campo di sperimentazione di linguaggi e di “effetti” il cui senso, quando pure è presente, ruota integralmente intorno all’evocazione dell’immanenza delle cose del mondo: evocazione che non implica automaticamente la negazione della trascendenza, quanto piuttosto dà ad essa sostanza, per quanto necessariamente accidentale e terrena. È questo il caso della recente chiesa di San Giacomo a Foligno (2003-2008) di Massimiliano Fuksas: si tratta di un volume squadrato in cemento armato prossimo al cubo, chiuso all’esterno su due lati (a eccezione di una bassa e larga apertura nella parte inferiore di una delle pareti) e bucato da tagli irregolari sparsi senza alcun ordine sugli altri due lati. Tali fessure di luce sono proiettate fisicamente verso l’interno in forma di profonde strombature diagonali che, a una distanza di circa 3 metri dal muro perimetrale, incontrano e attraversano un secondo involucro composto da pareti a struttura metallica intonacate, sospese da terra per mezzo di travi di acciaio posizionate in corrispondenza della copertura piana. Si viene così a determinare uno spazio dentro un altro spazio, separati da un’intercapedine parzialmente occupata dalle strombature, tra le quali filtra una luce zenitale in cui il volume sospeso sembra galleggiare. Questo volume riceve luce – oltre che attraverso i citati “cannocchiali” laterali – dall’alto, mediante un’apertura praticata nella copertura. In tal modo gli elementi tradizionali della chiesa (l’aula centrale, le navate laterali, il presbiterio, le vetrate) sono richiamati non

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in senso letterale bensì “perifrastico”, ovvero allusi per aenigmate, attraverso lo specchio oscuro di una deformazione che permette tuttavia di continuare a riconoscerli, e che anzi costituisce la condizione quasi esclusiva della loro sopravvivenza. È la medesima trasfigurazione che avviene – pur con differenti mezzi ed esiti – nelle cappelle di Sogn Benedetg a Sumvitg, in Svizzera (1985-1988) e di Bruder Klaus a Mechernich nell’Eifel (1997-2007), entrambe di Peter Zumthor. La forma della pianta a lemniscata e il rivestimento esterno in scandole di legno, nella prima, e la scabra e scannellata superficie in cemento dell’interno, ottenuta mediante la combustione di tronchi usati come casseforme, nella seconda, rappresentano configurazioni e procedure non convenzionali, capaci però di rapportare la sacralità della chiesa a una spiritualità concreta, percettibile e tangibile. In altri casi, la ripresa di forme maggiormente legate alla tradizione non implica una loro ripetizione meccanica, priva di anima: così, il gioco degli archi e dei tiranti d’acciaio, nella Grande Mosquée di Strasburgo (2000-), oppure l’inserimento del tiburio eptagonale, al centro della chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a Calcata, presso Viterbo (2002-), danno alle architetture religiose di Paolo Portoghesi una caratteristica e ricorrente forma stellare; forma che ha risonanze organiche e vegetative e che, nelle parole di Rudolf Schwarz citate dallo stesso Portoghesi, significa «illuminare, far beato e attrarre il mondo». Le innumerevoli variazioni su coni, cilindri, piramidi, archi e volte caratterizzano invece la copiosa produzione ecclesiastica di Mario Botta, dalla chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, in Val Maggia (1986-1998), alla chiesa Giovanni XXIII a Seriate (1994-2004), passando per la chiesa parrocchiale Beato Odorico da Pordenone (1987-1992), per la cattedrale della Resurrezione a Evry, in Francia (1988-1995) e per la cappella di Santa Maria degli Angeli al Monte Tamaro, in Svizzera (1990-1996) – ma anche per la sinagoga Cymbalista e centro dell’eredità ebraica a Tel Aviv (1996-1998). Tanto negli edifici ecclesiastici di Portoghesi quanto in quelli di Botta il sacro si lascia identificare assai meno in segni o figure esteriori che non in un ordine intrinseco che si erge a barriera contro la frammentazione e la dispersione della vita attuale, offrendo ad essa l’inaspettata possibilità di un luogo. L’ekklesía in questo modo torna a simboleggiare un’unione che al giorno d’oggi risuona quasi come una sfida: la stessa che sembrano lanciare edifici come la chiesa di Santa Maria a Marco de Canavezes, vicino a Porto (1990-1996) di Álvaro Siza, o la chiesa Dives in Misericordia nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma (1996-2003) di Richard Meier: ambedue inserite in contesti suburbani disordinati o degradati, dove assumono la parvenza di oggetti misteriosamente caduti sulla terra per parlare agli uomini dell’esistenza di un’altra realtà possibile. Isole “aliene”, che accettano d’immergersi nella condizione di erranza che contraddistingue il mondo contemporaneo, per rendere testimonianza – nonostante tutto ­– del messaggio spirituale di cui sono portatrici.

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VERSUS


� possibile un'arte spirituale? di Gillo Dorfles

on è un caso che di “spiritualità nell’arte” si sia Noccupato soprattutto Vasilij Vasil’evicˇ Kandinskij, il grande artista russo. Non è un caso, perché di spiritualità in Russia (e anche in Germania, ricordiamo che il titolo originale dell’opera è Das Geistige in der Kunst) si può ancora parlare, mentre In Italia, parlare ancora di spirito pare quasi essere diventato qualcosa blasfemo. Dopo la parentesi idealistica, in effetti, in Italia


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la parola spirito è obsoleta e suona ben diversa da quella impiegata da un artista russo di formazione culturale anche tedesca come Kandinskij. Ciò non toglie che l’arte da sempre abbia, debba e possa avere un contento spirituale. Per cui non c’è dubbio che in un certo senso parlare di spiritualità nell’arte sia un fatto estremamente positivo. Quello che diventa non necessariamente negativo, ma particolarmente dubbio o aleatorio, è il fatto di parlare di spiritualità a proposito dell’arte contemporanea. Da tempo ho affermato che oggi parlare di spiritualità a proposito della cosiddetta arte sacra è quasi impossibile. E questo per una ragione abbastanza ovvia, e cioè che l’arte sacra delle nostre chiese, dal Medioevo al secolo scorso, è sempre stata ovviamente un’arte figurativa; oggi sappiamo che le maggiori tendenze dell’arte contemporanea sono tutt’altro che figurative. D’altro canto un’arte astratta che voglia sostituire la figurazione negli edifici religiosi cattolici è del tutto impossibile o perlomeno è accettabile solo parzialmente, perché il fedele è da sempre abituato ad avere delle immagini sacre a cui rivolgere le sue preghiere. Ecco perché nelle nostre chiese la presenza di un’arte sacra è quasi impossibile. Naturalmente esiste una spiritualità dell’arte al di là di quella che è la figurazione; per cui abbiamo moltissime forme artistiche astratte surreali, non


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realistiche, che possono partire dalla mente di un artista profondamente religioso o comunque da un artista che consideri l’arte non solo da un punto di vista affaristico e di mercato, ma anche da un punto di vista effettivamente spirituale. A questo punto dobbiamo ricordare come si diano dei casi di “arte spirituale”, però anche questi da considerare con molta ambiguità: intendo parlare di tutte quelle tendenze più o meno esoteriche che sono fondate indubbiamente sopra un concetto di spiritualità e quindi di non materialismo, ma che sono lontane dalla pratica religiosa ufficializzata. Ad esempio posso fare il caso di correnti buddiste o di altre fedi religiose che sono lontane dal cristianesimo; o posso anche fare l’esempio di tendenze teosofiche e antroposofiche. A questo punto non dimentichiamo che proprio Das Geistige in der Kunst, La spiritualità dell’arte di Kandinskij è stata tradotta in italiano la prima volta da un interessante intellettuale molto vicino all’antroposofia e cioè il duca Colonna di Cesarò, figlio della famosa baronessa De Renzi, “famosa” perché era in quell’epoca, negli anni Trenta e Quaranta, la presidentessa della società antroposofica di Roma. Ora, nel salotto della baronessa si tenevano spesso delle riunioni a cui partecipavano non solo antroposofi ma anche personaggi religiosi (come Bonaiuti per esempio); in queste riunioni si parlava anche dell’arte antroposofica perché come è noto il fondatore dell’antroposofia, Rudolf Steiner, è stato il progettista di quel Goetheanum sorto a Dornach, che è un esempio direi positivo di come la “spiritualità nell’arte” possa prendere forma sotto gli aspetti di un edificio laico, ma versus

fondato su una corrente spirituale. Naturalmente anche in molte chiese abbiamo avuto dei tentativi di introdurre l’arte contemporanea: posso fare il caso del duomo di Cefalù oppure di San Vincenzo in Prato a Milano, o ancora della chiesa di Richard Meyer a Roma. Purtroppo questi esempi sono per conto mio quasi sempre dubbi o mediocri oppure non tali da giustificare questa figuratività che vuole impadronirsi di temi spirituali senza arrivare a un risultato sicuro. Per cui possiamo dire che oggi come oggi un’arte spirituale o una spiritualità dell’arte contemporanea è possibile soltanto in un’altra arte che non sia la pittura o la scultura, ma proprio l’architettura. Naturalmente è un discorso che vale in linea di massima perché ad esempio nella cappella di Mendrisio realizzata da Mario Botta ci sono pitture di Cucchi che effettivamente presentano un’atmosfera mistica abbastanza efficace. Significativo per contro il caso di Rauchenberg, chiamato a realizzare un’opera di soggetto apocalittico per il grande oratorio di Padre Pio, a San Giovanni Rotondo, progettato da Renzo Piano. Rauchenberg presentò un bozzetto raffigurante un ordigno atomico; bozzetto che fu giustamente bocciato, ma che offre comunque uno spunto per riflettere sui problemi di un serio artista moderno nei confronti della spiritualità. Sempre riguardo la pittura ci sarebbe poi da citare il caso, penso unico, di Vittorio Matino, che ha decorato personalmente alcune chiese, e una in particolare in Arabia Saudita, l’unica in tutta la nazione. Gli interni sono interamente decorati con l’aerografo, creando anche delle figurazioni. Mi pare un caso pressoché unico nella pittura contemporanea. E


Versus

I monocromi, rimando allo sconosciuto, al sacro, al mistero di Dio

qualcosa su un tema del genere potrebbe dirla anche Gianni Pisani, che ha dipinto una Madonna nella sagrestia della chiesa di Napoli della Madonna della Sanità, realizzando una serie di dipinti sacri in uno stile attuale. Tornando però all’architettura, sia a partire dalla famosa Notre-Dame-du-Haut, a Ronchamp, di Le Corbusier, fino ad arrivare alla chiesa dell’autostrada di Michelucci, abbiamo molti edifici religiosi che, proprio per le loro caratteristiche, pur essendo architettonicamente del tutto attuali, hanno in sé un’evidente spiritualità. Si dimostra così che l’architettura, a differenza di quanto accade per la pittura e la scultura contemporanee, può aderire a una fruizione spirituale con esiti senz’altro convincenti.

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Il monocromo come icona sacra di Barbara Rose più grandi mistici […] distinguono chiaramente la Irealtà ineffabile che percepiscono dall’immagine

con cui la descrivono. Essi ci ripetono, citando Dionigi e Eckhart, che l’oggetto della loro contemplazione «non ha immagine» o, con le parole di San Giovanni della Croce, che «nel corso della vita, l’anima non può mai raggiungere un’altezza tale da unirsi a Dio servendosi di una qualsiasi forma, o figura». Evelyn Underhill, Mysticism


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Una tela monocroma priva di immagini, pur impiegando, come le opere del passato, un solo pigmento per tutta la superficie, si pone fuori dal tempo. Nessun aneddoto o iconografia, nessun elemento narrativo ci permette di risalire alla personalità dell’artista o al momento storico in cui l’autore o l’autrice hanno vissuto. Certamente l’impulso verso una pittura monocroma rappresenta un desiderio di sommergere l’individuale e il personale, annullare il sé in nome di una trascendenza più alta che abbandoni l’ego e il mondo materiale. È collegato piuttosto a una domanda di esperienza dell’infinito e del senza tempo. L’impersonalità del monocromo ha incoraggiato gli artisti con temperamento mistico a evitare le distrazioni e le associazioni tra immagini. Il monocromo crea un mondo purificato dalla personalità individuale. Inoltre un’opera monocroma crea uno spazio letteralmente amorfo (nel senso che manca di una morfologia formale) in cui la mente fluttua libera da orizzonti o referenti a misura d’uomo. In effetti un singolo colore definisce uno spazio pittorico diverso rispetto all’arte figurativa, ma anche rispetto all’arte astratta che raffigura relazioni tra la figura e lo sfondo. Questo spazio implica l’infinito, richiama l’ignoto. Inevitabilmente il vuoto evoca il nulla. Il cane di Goya e i clown del periodo rosa di Picasso che fissano un punto indefinito, le grand large – il grande

oltre –, rievocano un senso di solitudine acuta che si definisce come un sogno poetico a occhi aperti. Così il desiderio utopistico di andare al di là del quadro rivela le sue radici essenzialmente mistiche. L’infinito, che per definizione è una caratteristica dell’aldilà, implica che lo spirito trascenda la realtà materiale. L’interazione di un luminoso campo di colore con la spiritualità spiega in pratica l’attrazione di Matisse e di Miró per il monocromo, ed è anche la ragione della mancanza di interesse, tutta terrena, per questa particolare forma di radicalità da parte di Picasso. Non essendoci nei dipinti monocromi forme rappresentate, non esistono elementi in scala: uno spazio non misurabile è infinito. Nell’opera di alcuni artisti che dipingono monocromi questo mistero metafisico fa da contraltare all’enfasi che viene posta sulla superficie e sul disegno che riporta l’osservatore sul piano della realtà fisica e della sensazione materiale. Sebbene Kandinskij non fosse propriamente un artista monocromo, nel suo famoso saggio del 1911 Lo spirituale nell’arte, che aprì la strada all’astrazione, descrisse l’effetto psichico di osservare i colori: «Emerge allora la forza psichica del colore, che fa emozionare l’anima. La forza fisica primaria, elementare, diventa la via del colore verso l’anima»1.

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I monocromi, rimando allo sconosciuto, al sacro, al mistero di Dio

1 | V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, Milano, SE, 1989 e 2005, p. 44.

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Essendo la nostra un’epoca di scienza e non di fede, gli artisti che vogliono giustificare l’uso del colore come una forma di comunicazione emozionale hanno bisogno di una contro ragione razionale. Per dare fondamento a una teoria essenzialmente soggettiva di comunicazione estetica, Klee, Kandinskij e coloro che sono venuti dopo hanno elaborato complicati sistemi che collegassero forme e colori specifici ai diversi stati d’animo. Come il cerchio cromatico di Chevreul ispirò gli impressionisti, così sembra che questi schemi anticipino, anche solo per pura coincidenza, i dipinti monocromi del recente Minimalismo. Inevitabilmente il concetto di monocromo è contrario all’idea di progresso e di evoluzione: le tele di un singolo colore rappresentano la fine, il momento in cui il tempo si ferma. In senso escatologico è sempre una delle “ultime cose”, mai la “prima”. Essendo correlata con l’escatologia, l’opera monocroma ha un significato specifico che sfida il contesto storico dissociandosi da esso. Un rettangolo pieno monocromatico indica chiusura. Il monocromo rappresenta una cesura. Questo strappo o rottura segna anche un rifiuto del passato. In tal senso il monocromo aspira alla purificazione, esprimendo una spinta verso una riduzione essenziale. Paradossalmente è sia una negazione del progresso sia un atto radicale che ripulisce le tele dalle immagini. Il monocromo, inflessibile, proclama la propria staticità senza tempo in un eterno presente e cancella il passato. La storia dell’arte ci fornisce numerosi esempi di tutti i potenziali significati dei dipinti monocromi. A volte questi significati sono combinati insieme, come nell’arte dei costruttivisti russi. Ad esempio il famoso Quadrato nero su fondo bianco di Malevicˇ del 1915 è una tela senza immagini che ha segnato una rottura radicale con il passato, una tabula rasa. Quest’opera è anche un’icona statica che induce alla contemplazione mistica. Un segno visivo, messo in un angolo come un’icona sacra ma svuotata. Se si considera il periodo in cui il monocromo si è sviluppato, verrebbe da dire che il concetto della morte della pittura è in qualche modo correlato all’idea della morte di Dio in Nietzsche. Entrambi implicano un vuoto e un ribaltamento dei valori. Un dipinto astratto ha risolto il problema della religione perché non rappresenta nessuna icona ma evoca uno stato di contemplazione immobile. Non collabora con la storia perché, essendo senza tempo, si pone fuori dal disastro delle vicende umane. Il colore del nulla è inevitabilmente neutro: spesso il nero sottende la negatività o il rifiuto. Goya, Tàpies, Motherwell e Reinhardt così come Stella sono consapevoli di questa connotazione del nero. Gli altri colori creano associazioni di idee diverse. Sin dal Medioevo il color oro ha simboleggiato l’illuminazione divina: i retabli d’oro e le tavole, le aureole d’oro che emettono una luce dorata indicano la presenza divina. Diversi artisti contemporanei, da Lucio Fontana a Yves Klein e Agnes Martin, hanno realizzato


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opere dorate monocrome che brillano di una luce ultraterrena. I monocromi sono eloquenti nel silenzio che trasmettono. I monocromi possono irradiare luce dall’aldilà, oppure possono essere avvolti da tenebre implacabili, muti testimoni del terrore delle persecuzioni, degli orrori della guerra o possono presentarsi come tenaci risposte alla censura ufficiale, in Italia e in Germania, oppure nella Spagna di Franco o nell’America di McCarthy. Sono un aspetto stranamente persistente della modernità che mitiga il dolore dell’alienazione aprendo un varco alla contemplazione trascendente, una via di fuga dal tempo attraverso la negazione del progresso. Il paradosso e l’ambivalenza sono l’essenza di questi monocromi; nella loro ambiguità sospesa rispecchiano il nostro mutismo. L’astrazione crea un silenzio che erige un muro contro l’esegesi. Il monocromo è una sorta di rifiuto; coloro che lo praticano sono ipso facto dei sovversivi. I dipinti monocromi non parlano di niente, si tengono lontani dal flusso del mondo decontestualizzandosi. Non sono dei quadri, ma delle presenze. Hegel, per esempio, dichiarò che alla base dell’arte romantica c’è la negazione e che il mondo finito e tutti i suoi aspetti particolari sono nullità. I mistici orientali come Krishnamurti, il cui credo fu seguito da Jackson Pollock, predicavano che il solo modo per superare il lato tragico dell’esistenza è l’introspezione che porta alla pace. Le tele concitate di Pollock potrebbero suggerire l’idea del cosmo, ma mai potrebbero raggiungere quel senso di pace trasmesso dai campi di colore, sostanzialmente monocromatici, dei suoi contemporanei Barnett Newman e Mark Rothko. Poiché l’epoca attuale si è concentrata sugli elementi formali dei dipinti, tralasciando o denigrando le altre categorie di significato, siamo portati a ignorare tutti quei cambiamenti, anche fondamentali, che non riguardano l’alterazione di elementi strutturali. Ad

esempio, pensiamo a come si è trasformata la funzione dell’opera d’arte. Come tutte le rivoluzioni, quella scientifica ha scalzato le tradizionali credenze religiose non verificabili in termini empirici e ha provocato una rapida diffusione della conoscenza. A partire dalla fine del XIX secolo i progressi scientifici hanno causato una crisi profonda della fede e hanno scosso le fondamenta della cultura occidentale; da questo stravolgimento non ci siamo ancora ripresi. Dopo che Nietzsche ha proclamato la morte di Dio, l’assenza di un principio regolatore attorno a cui l’umanità potesse autodisciplinarsi non è stata colmata. Un tale ribaltamento dei valori implica che non possiamo più tornare a un precedente stato di coscienza primitiva. La storia della pittura monocroma è cominciata nel 1915 con Malevicˇ che, su un piano, ha isolato i singoli colori. Tuttavia i precedenti sono la pittura tonale di Whistler e soprattutto le ultime opere di Monet, in cui sono le sfumature armoniche piuttosto che i contrasti di colore a dar vita a un’atmosfera onirica. Le ninfee fluttuano e noi con loro. Mancando la linea d’orizzonte che ci permetta di orientarci, ci proiettiamo nello specchio d’acqua sotto di noi; in quel momento veniamo sollevati, parallelamente al piano, e ondeggiamo senza peso sulla superficie, proprio come le ninfee. Questa sensazione di fluttuare è tanto intrinseca a questi quadri quanto lo è il senso di essere inondati in pieno dalla luce, il nostro stesso corpo assorbito in un altro corpo. L’obiettivo è di eliminare il corpo solido o il volume e raggiungere la sensazione di fluttuare nello spazio, senza tempo e senza limite. Nel 1960 Ad Reinhardt, che faceva parte dell’associazione American Abstract Artists, decise programmaticamente di dipingere dei black paintings. I dipinti monocromi sono uno strumento per evitare i personalismi stilistici,

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esempio, pensiamo a come si è trasformata la funzione dell’opera d’arte. Come tutte le rivoluzioni, quella scientifica ha scalzato le tradizionali credenze religiose non verificabili in termini empirici e ha provocato una rapida diffusione della conoscenza. A partire dalla fine del XIX secolo i progressi scientifici hanno causato una crisi profonda della fede e hanno scosso le fondamenta della cultura occidentale; da questo stravolgimento non ci siamo ancora ripresi. Dopo che Nietzsche ha proclamato la morte di Dio, l’assenza di un principio regolatore attorno a cui l’umanità potesse autodisciplinarsi non è stata colmata. Un tale ribaltamento dei valori implica che non possiamo più tornare a un precedente stato di coscienza primitiva. La storia della pittura monocroma è cominciata nel 1915 con Malevicˇ che, su un piano, ha isolato i singoli colori. Tuttavia i precedenti sono la pittura tonale di Whistler e soprattutto le ultime opere di Monet, in cui sono le sfumature armoniche piuttosto che i contrasti di colore a dar vita a un’atmosfera onirica. Le ninfee fluttuano e noi con loro. Mancando la linea d’orizzonte che ci permetta di orientarci, ci proiettiamo nello specchio d’acqua sotto di noi; in quel momento veniamo sollevati, parallelamente al piano, e ondeggiamo senza peso sulla superficie, proprio come le ninfee. Questa sensazione di fluttuare è tanto intrinseca a questi quadri quanto lo è il senso di essere inondati in pieno dalla luce, il nostro stesso corpo assorbito in un altro corpo. L’obiettivo è di eliminare il corpo solido o il volume e raggiungere la sensazione di fluttuare nello spazio, senza tempo e senza limite.

2 | Gioco di parole intraducibile che si fonda sull’espressione “it sure paints a pictures”, che indica una descrizione particolarmente vivida, tanto da indurre nell’ascoltatore l’impressione di vedere l’oggetto della descrizione “come in una foto”.

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Nel 1960 Ad Reinhardt, che faceva parte dell’associazione American Abstract Artists, decise programmaticamente di dipingere dei black paintings. I dipinti monocromi sono uno strumento per evitare i personalismi stilistici, la firma dell’artista che è esclusivamente individuale e rivelatoria. Nelle opere più puriste la tela è uno spazio vuoto incontaminato. In tal senso, l’idea della purezza è connaturata con il monocromo. Infatti Reinhardt intitolò un’ironica intervista a se stesso Pure paints a picture2. Reinhardt aveva una vasta conoscenza della storia dell’arte; è probabile che scelse il nome delle sue ultime opere per evocare l’atto di accusa di Goya contro la follia umana. Reinhardt non era il solo idealista deluso d’America. Uno dei princìpi non detti della New York School, l’identificazione dell’etica con l’estetica, è rintracciabile nei primi movimenti dell’arte moderna che facevano coincidere l’avanguardia con la rivoluzione sociale. L’impulso originale che stava dietro al big picture – tele di dimensioni tali da occupare un muro – era la creazione di arte per spazi pubblici anziché privati. Tuttavia si è realizzato l’effetto opposto: le loro opere sono state vendute come merci internazionali e sono diventate degli status symbol per i nuovi ricchi. Lo studio sui campi di colore in Newman e Still, e la stringente definizione di astrazione


più chiaramente fissata dalle ultime opere di Rothko e Reinhardt, ci porta a concludere che il colore – e la luce che esso trasmette – non viene considerato piatto solo perchè non è delimitato da una forma. Piuttosto lo percepiamo come un volume indefinito e indefinibile nello spazio, le cui reali dimensioni non sono misurabili: questo spazio-luce-volume è l’essenza irriducibile della pittura. Al di là del desiderio di precisarne l’essenza, le opere di questi artisti possono essere interpretate come affermazioni esistenziali circa la solitudine e le possibilità limitate per l’uomo di agire in «Un mondo senza contesto», secondo la definizione di George W.S. Trow. I monocromi non dipendono da alcun contesto e proclamano la loro autonomia. Vivere in questo mondo senza contesto non necessariamente annulla i valori sia estetici sia morali. In fondo è una questione di fede. Il problema è che la fede può essere messa alla prova con l’azione, ma l’autenticità dei sentimenti non è più verificabile della sincerità. Possiamo credere che l’artista ci stia dicendo qualcosa di importante, ma non possiamo provarlo. La natura della comunicazione tra l’artista e lo spettatore, così come la buona fede di entrambi, non vengono qui chiamate in causa. Il problema del giudizio universale, sia esso umano o divino, è che ultimamente tocca questioni come la fede, la salvezza, la grazia.



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Idolatria della parola Conversazione con Ermanno Olmi di Gianfranco Ravasi si pensava a questa conversazione ho espresso il desiderio di parlare Q: uando non con uno specialista del mestiere ma con un interlocutore col quale potessi confrontarmi per misurare la mia trasgressione e capire se il gesto che compie il protagonista del mio film (Centochiodi) è recepibile come atto d’amore e non come ribellione puramente isterica.


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R: Vorrei cominciare proprio da quel gesto, da quella scena così forte, emozionante: la crocifissione dei libri, un’immagine davvero impressionante, un colpo, un guizzo di genio. Tu lì hai operato una desacralizzazione della cultura, del libro, quindi anche, se vuoi, di una sorta di ritorno all’autentica spiritualità. Una desacralizzazione che non è dissacrazione, anche se qualcuno, forse, la leggerà così. Platone non privilegiava la parola scritta ma la parola detta e raccontava un episodio che prendeva spunto da un evento. L’evento è questo: quando si celebra la festa di Adone, nelle case i devoti prendono delle conchiglie e ci mettono dentro il terriccio, lo bagnano, mettono dei semi dai quali spuntano erbe, fiorellini che durano lo spazio di una settimana. Fuori, nella campagna, c’è invece il contadino che nella terra depone un seme che

cresce, si sviluppa… Secondo Platone la differenza tra la parola scritta e la parola detta è quella tra la conchiglia di Adone (parola scritta), una parola cioè un messaggio che è cristallizzato, isterilito, che diventa un oggetto idolatrico, rinchiuso, e il seme piantato dal contadino (la parola detta), la libertà della parola che corre, che vaga per i campi, ha spazio e vitalità. O: È un’immagine bellissima. R: Quindi la stessa tradizione greca, che è la tradizione della cultura, è vicina alla tradizione semitica, la quale affermava che ciò che conta è la parola detta, la parola vivente rispetto alla parola scritta, che è oggetto di culto.


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La parola � vita

Spesso si afferma che le tre religioni monoteistiche sono le religioni del Libro; questo è sicuramente e profondamente vero per l’Islam con il suo Corano, lo è abbastanza per l’Ebraismo, tanto è vero che la Torah viene incoronata e, quando è logora, seppellita come fosse una creatura vivente in una sorta di cimitero, una genizah, che ha costituito la fortuna degli archeologi (la genizah del Cairo ha permesso di scoprire persino un’ampia porzione dell’originale ebraico del libro deuterocanonico del Siracide). Il Cristianesimo invece non è strettamente parlando la religione del Libro – anche se lo è indirettamente –, è la religione di una persona, di un evento, della parola fatta carne. Idealmente tu hai fatto un commento anche al prologo di Giovanni in cui il Logos, la parola, è certamente all’inizio, ma non significa che alla fine diventi libro: il Logos si è fatto carne. O: Il Verbo incarnato. R: Il Verbo incarnato. In questa luce, come religione non del Libro ma della persona e della storia, la tua operazione – per quanto riguarda almeno la parola, che poi diventa il simbolo di tutti i valori dello spirito – è una desacralizzazione, che ci dice di non adorare il libro, l’eredità che abbiamo ricevuto, perché una volta che quest’eredità, o questo messaggio o questa spiritualità, viene adorata diventa un oggetto che possiedi, controlli, manipoli, ma non vivi. In una bella frase di Musil, dell’Uomo senza qualità, si dice che la verità non è come una pietra preziosa da custodire in uno scrigno ma è come un mare nel quale ci si getta. Ecco, il libro è evidentemente un mare in cui ci si getta ma quando tu lo possiedi solo come strumento di potere o strumento di affermazione di te non è più qualcosa in cui ti immergi, in cui trascendi. o: Queste tue osservazioni, supportate da esempi così importanti, da Platone a san Giovanni, in qualche modo corrispondono a quella piccola didascalia che ho messo all’inizio del film, tratta da una riflessione di Raymond Klibansky: “Ma pur necessari, i libri non parlano da soli”. Il libro può – per me almeno – aiutarti ad avere memoria di una parola detta che, perché non vada del tutto perduta, è appuntata su una pagina, perché possa poi tornare viva nel momento in cui la rinvieni dalla pagina. Desacralizzare, come hai ben spiegato, vuol dire togliere alla parola quella crosta che la mummifica. E direi che Cristo ha compiuto quest’operazione per sua missione divina: la parola che diventa viva nel quotidiano, che a volte parla secondo il lessico, a volte parla invece con la presenza stessa di ciò che trasferiamo poi in parola. Se io

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scrivo “sasso” ho scritto una parola che fa riferimento a un oggetto ben identificabile, ma se vedo il sasso, il sasso parla ben più della parola e quindi, nella ribellione che Cristo compie, nel disturbare la vita del tempio, dove invece si tende a mummificare la legge dello spirito come fosse una pratica amministrativa o burocratica, si rivolge proprio allo scorrere della vita che in mille forme diventa parola, Verbo incarnato. Se io dico “Verbo” penso soltanto alla definizione di tipo grammaticale, ma se dico “incarnato” quella stessa parola diventa l’universo cosmico. Guai se rinunciassimo a guardare oltre le finestre dei luoghi dove si conserva la memoria di un passato. Noi non possiamo vivere all’interno di questa memoria come se fosse la vita vera che invece abbiamo il dovere di rispettare vivendola. La religione non salva più il popolo, la religione non è più rifugio antiaereo, luogo in cui ci nascondiamo per difenderci rinunciando alla lotta di vivere. Se Cristo fa una cosa è quella di non rinunciare, di far vivere le sue creature. Tutte le religioni che ci sono in questi libri non salveranno mai il mondo se noi, come dice Klibansky, non facciamo diventare viva la parola. R: Potremmo parlare di un’allegoria sulla differenza tra fede e religione – la famosa distinzione di Karl Barth. Sicuramente la religione ha i suoi riti e la sua grandezza, è indubbiamente un fenomeno importante che, però, se non avesse al suo interno la fede, sarebbe un guscio, una conchiglia vuota. O: Come molte ideologie. R: E chi vive veramente la fede? Tutti i puri di cuore… O: I semplici.

R: Tutti quei personaggi che sono straordinari… L’Idiota di Dostoevskij, che è il vero credente, non è assolutamente lo stupido ma colui che vede di più, che vede in profondità e non solo nella superficie, che riesce subito a intuire la bellezza e il senso di tutta la realtà. Fede e religione quindi… con la celebrazione del primato necessario della fede. O: Non c’è dubbio. R: Secondo elemento è il recupero della celebrazione dell’amore rispetto alla prassi, rispetto alle relazioni, quelle normali, perché la società intanto continua con le sue relazioni codificate e aride. La celebrazione dell’amore autentico, cristiano, di donazione, attraverso il calore della mano, la carezza che vale… O: … Più di qualsiasi libro. R: E poi … O: … Un contatto diverso rispetto a quello fisico, no? Il calore della vita, un moto dell’animo, un’azione. R: … Non è un’azione istintiva, della sessualità o dell’eros, ma della libertà, della verità e della “personalità” dell’amore. O: Bere un caffè con un amico… R: Ecco un altro tema importante, che va oltre il discorso sulla cultura per entrare anche nelle esistenze… C’è una frase di Paolo: «La lettera uccide, è lo spirito che dà la vita» (2 Cor 3,6). Da una parte la lettera, il libro scritto, il fondamentalismo in pratica, i sacralismi delle religioni, delle ideologie, delle istituzioni fini a se stesse,

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che non riescono a capire, che più si difendono più diventano deboli e quindi pronte anche a morire. Dall’altra parte la vita che riaffiora… lo spirito che dà la vita. Mi sembra adatto citare a questo punto Auto da fé, di Canetti, che ci permette di vedere anche un aspetto antropologico in senso stretto; finora siamo rimasti in ambito teologico ma non si scinde mai il teologico dall’antropologico. Il dottor Kien, il protagonista di Auto da fé, è colui che non vive ormai la sua vita genuina, ma è la realtà morta della sua biblioteca. E tra l’altro sai come è intitolato in tedesco il romanzo? Die Blendung che vuol dire “l’accecamento”. Pensa al paradosso: colui che legge continuamente libri è cieco, non sa più vedere, non sa più leggere. O: Un po’ come i dottori del tempio. R: Il colto è accecato, sa ma non comprende… Potremmo dire che il tuo è un film contro tutte le idolatrie: idolatria della cultura che sembrerebbe quella più immediata, idolatria della religione rispetto alla fede, idolatria della tecnica. È la tua una critica serrata alla cultura contemporanea che celebra la tecnica con l’illusione che essa riesca a risolvere tutto, a essere la grande risposta. O: A questo punto direi che dobbiamo arrivare alle battute forti, quella di «Dio, il massacratore dell’umanità» e l’altra: «Il giorno del giudizio sarà Lui a dover rendere conto della sofferenza dell’umanità». È chiaro che è una sorta di ribellione come l’inchiodatura dei libri. R: Matteo e Marco, da una parte, Luca dall’altra, descrivono la morte di Cristo in due maniere diverse; Luca dice: «“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, e detto questo spirò». Dall’altra parte Matteo e Marco: «“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e, lanciato un forte urlo, spirò». Quindi una brutta morte, la morte con un urlo, il modello perfetto dell’incarnazione, secondo me: se Cristo deve essere veramente fratello degli uomini, deve provare non solo il dolore, la solitudine, la morte ma anche la difficoltà di trovare Dio, quel Dio che ci sembra – come dice Giobbe – «il generale trionfatore che sfonda il cranio», «un leopardo che affila gli occhi su di me». Anche il discorso di papa Benedetto XVI ad Auschwitz è su questa linea, quando dice: «Dio, dov’eri allora? ». Il Cristo che muore, quindi, sperimenta il mistero di Dio come mistero di oscurità, come scandalo anche, come lontananza, come silenzio. Ma c’è un altro aspetto: in quel momento quell’urlo, quel grido, quell’atto di accusa

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è in un certo senso anche l’atto d’accusa contro il Dio falso, il Dio dell’equivoco fondamentale. O: Contro il libro che toglie la vita alle parole. R: Esatto, contro il Dio dei teologi. O: È la battuta: «Lei ha amato più i libri degli uomini». «I libri servono qualsiasi padrone e qualsiasi Dio». Che Dio era il Dio dei nazisti? Che Dio è quello che porta la sofferenza nel mondo? Eppure è un Dio! R: È proprio il tentativo di usare Dio per riuscire a risolvere lo scandalo dell’esistere. O: Dio come pretesto alle nostre debolezze. R: Il Dio tappabuchi, che dovrebbe risolvere tutti i drammi, un Dio fasullo, che puoi accusare, il Dio degli amici di Giobbe che cercano in tutti i modi di riuscire a giustificarlo, a difenderlo, come fa nel film il vecchio monsignore. E allora in questo senso anche quel momento che è apparentemente blasfemo è di grande purificazione teologica. È la ricerca tesa e drammatica del vero Dio. Non è bestemmia ma blasfemia. Tra bestemmia e blasfemia c’è la stessa differenza che tra dissacrare e desacralizzare. La blasfemia è anche in Giobbe, ma è solo una via forte e radicale per esprimere la fede al suo livello ultimo ed estremo. Il messaggio non è “il libro non serve a nulla”; ciò che è pericoloso è il libro feticcio, il libro che è, come si diceva prima, la conchiglia di Adone, il libro del bibliofilo… Io conosco bibliofili che non leggono una riga dei contenuti ma posseggono libri preziosissimi, che acquistano, di cui sanno tutto, ma che non leggeranno mai perché hanno valore solo in quanto oggetti materiali. Al contrario, l’italiano medio

mantiene una sorta di distacco dal libro perché lo considera un oggetto sacrale, irraggiungibile quasi, un affare di gente colta. Bisogna, invece, capire che il libro contiene un messaggio, non da scoprire con venerazione e rimetter via, ma un messaggio che ti permette di vivere veramente. Mi vengono in mente due versi di Mallarmé; il primo: «Il mondo è fatto – ma lo diceva ironicamente – per finire in un bel libro»; il mondo, così bello, così mutevole, così fluido, così incandescente non può finire in un libro. L’altro (me lo ricordo in francese): «La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres» («La carne è triste e io purtroppo ho letto tutti i libri»); leggere tutti i libri non ti salva dalla tristezza, non ti libera; racchiudere il mondo in un libro non ti fa capire il mondo, è necessario ritornare nel mondo. Agli italiani che non leggono si potrebbe dire: non abbiate paura del libro, non è quel codice fine a se stesso, che deve essere crocifisso; il libro contiene la vita, ti rimanda alla vita. O: Appena letta l’ultima pagina, alzati e cammina. Nel finale del film solo il bambino vede “Cristo”, e dice: «Si è voltato e s’è messo a ridere». L’attesa degli uomini viene però disattesa perché di quel Gesù Cristo non si sa più nulla. Non dobbiamo più aspettare che ritorni, perché non ritornerà. Se dovesse farlo commetterebbe un errore grave, perché vorrebbe dire impedirci di assumerci la responsabilità di continuare. Cristo non ritorna perché noi dobbiamo andare avanti, diventare presenze vive, in relazione col mondo. Lui è come un libro che abbiamo letto, e dopo l’ultima pagina ci dice: “E adesso camminate, figli miei”. R: Ma vedi che questo è ancora cristiano secondo la

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tradizione, perché Lui – come racconta l’Apocalisse – verrà alla fine per il suggello alla storia dell’uomo, non per risolvere i pasticci. Il vero Dio non è il Dio tappabuchi. O: Però quell’attesa non si conclude [nel film]… Gli uomini attendono. R: «Vieni Signore Gesù», anche l’Apocalisse finisce così, con l’attesa che non suppone una venuta scontata. La nostra pienezza, quando la storia sarà compiuta, sarà la sua venuta. Ma solo allora. Tu sai che nel romanzo di Bradbury Fahrenheit 451 ci sono persone che, per salvare i libri che vengono bruciati, diventano libri viventi, cioè ognuno impara a memoria un libro, in modo da conservarne la memoria, ma pensa che una cosa simile è avvenuta davvero: c’è la testimonianza di un esule, un uomo uscito dai lager sovietici in Siberia che racconta di un gruppo di cristiani che, nel lager, avevano potuto avere per un certo periodo un pezzo di Bibbia, non tutta, solo la parte finale, qualcosa delle Lettere e l’intera Apocalisse. Se fosse stata scoperta, l’avrebbero senz’altro sequestrata, decidono allora di imparare un capitolo a testa a memoria e così, ogni sera, lo mettono in scena, vivendo non solo la fantasia ma anche la loro fede attraverso il libro che è in loro. Diventano la Bibbia vivente. O: Come la Bibbia in origine, che veniva trasmessa solo oralmente. Ognuno conosceva una parte, tant’è vero che i primi capitoli addirittura si ripetono. R: Sì, perché nascono da versioni e tradizioni orali differenti. E qui torniamo al discorso di apertura, alla differenza tra parola detta e parola scritta. La parola scritta è solo funzionale; quando è idolatrata, è feticcio, allora diventa morte, fino al dramma di coloro che si ammazzano per il libro, per la lettera… “la lettera uccide”. O: E così come per altri simboli – la bandiera, il velo… – che se diventano oggetti di idolatria possono produrre effetti nefasti. Ricordo che durante la guerra del ’15-’18 un pastore di Asiago, esperto conoscitore di tutti i sentieri dell’altopiano, viene scelto da un generale come una sorta di scout. Durante la Strafe-Expedition, quando gli austriaci occupano l’altopiano, ci sono battaglie cruente tanto che bisogna cedere le posizioni, ma il comandante si impunta: «Salviamo la bandiera!». E il pastore: «Salviamo noi stessi! ». R: È una parabola veramente suggestiva.

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O: Ecco, in questo caso la bandiera non è più un simbolo che rinvia alla patria ma diventa oggetto di idolatria… R: … Di superstizione in questo caso. O: Perché devo morire per salvare uno straccetto? R: Per salvare il tempio per esempio… O: Vedi il buon senso delle persone che vivono di semplicità… R: Pensa, da quando abbiamo iniziato a parlare, quanti autori abbiamo citato, che sono fondamentali per capire il discorso… Sono libri! Vedi come alla fine la verità del film… … ritorna dentro il libro. Emily Dickinson dice: «Di solito si dice che una parola detta, una volta detta, è una parola morta e invece io vi dico che proprio allora comincia a vivere». La parola è la vita.

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L'arte � spirito Conversazione tra Brian Eno e Mario Codognato L'arte è spirito e solo la qualità spirituale dà all’arte un posto importante nella vita. Josef Albers, A Note on the Arts in Education, 1936


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rian Eno non ha bisogno di presentazioni. Il suo Bcontributo e la sua influenza sulla cultura musicale

e artistica del nostro tempo praticamente sono (senza correre il rischio di cadere nell’agiografia) incommensurabili. Proprio per questa innegabile influenza in campi storicamente associati o associabili alla spiritualità e alla ritualità religiosa, la sua visione su questo tema assume una particolare rilevanza nella sua lettura laica dell’argomento e nella sua prospettiva nel contesto delle nuove tecnologie e dei sistemi di intrattenimento e di produzione artistica più aggiornati, di cui è anche artefice. La dicotomia e la dialettica tra controllo e abbandono alla potenzialità del caso ripercorrono i percorsi della spiritualità come ricerca dell’assoluto. C: Nel corso della storia e in ogni parte del mondo, la luce e il suono sono stati i due principali strumenti per trasmettere la spiritualità e il senso di appartenenza a una comunità religiosa, per perpetuare un rito. Ma la luce e il suono sono anche due elementi fondamentali nella sua pratica di musicista e artista visivo. Quale ruolo ha la spiritualità, in senso lato, nella sua produzione artistica? E: La ringrazio della domanda perché mi permette di

collocare il mio lavoro in un contesto artistico un po’ diverso dal solito. Comincerei col dire che mi interessa sempre meno stabilire se le mie opere sono popolari o si ispirano a una cultura alta, se sono più vicine alla pittura o alla musica. Invece, vorrei capire che cosa rappresenta il mio lavoro e perché io (e apparentemente molte altre persone) vogliamo provare questa esperienza. Lasciatemi dire, prima di tutto, che sono ateo, perciò uso la parola “spirituale” con cautela. Non mi piace la definizione secondo cui “spirituale” è “ciò che ha a che fare con la sfera dello spirito” perché non credo esista un mondo dello spirito. Penso invece che ci siano molte parti della nostra psiche che capiamo solo in modo vago – anche se sappiamo che esistono – e ciò che siamo inclini a chiamare “mondo dello spirito” è il prodotto, spesso sorprendente, di questi elementi della nostra mente. Queste parti sono sconosciute ai più, sono come pianeti lontani e quando ci imbattiamo in esse sentiamo che sono a noi estranee, separate. È come quando si assume una droga che altera la percezione e si hanno delle allucinazioni visive che sembrano del tutto reali, provenienti dal mondo esterno; allo stesso modo qualcuno che fa un’esperienza mistica, di qualsiasi tipo, può convincersi che è oggettiva e non un prodotto della


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Music is a psychological message

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propria mente. Insomma, per concludere direi che, se non vi spiace, mi terrò alla larga dalla “spiritualità” perché credo che la mente sia di per sé molto interessante anche senza pensare allo spirito. Preferisco piuttosto parlare di quello che, apparentemente, succede alle persone che assistono al mio spettacolo. A beneficio di quanti non l’avessero mai visto, vorrei descriverlo brevemente: c’è una grossa stanza, piuttosto buia, sedie comode, un’immagine luminosa complessa, quasi astratta, che cambia molto lentamente, musica ambient che proviene da diversi punti della stanza. Non succede granché e tutto è molto lento. Non è che qualcosa venga ripetuto, ma niente cambia davvero. Ecco ciò che succede: le persone entrano nella stanza, si aggirano per un paio di minuti, a tratti sembrano impazienti e (se fino a questo momento non si sono ancora mosse) cominciano a notare che qualcosa sta cambiando. La loro postura si abbandona e cominciano a rilassarsi: vogliono vedere che cosa succede dopo. Prima o poi trovano un posto a sedere e sprofondano sempre di più nella poltrona. Di solito le persone stanno lì per ore e tornano nuovamente il giorno successivo. Che succede? Non è cinema – non c’è un racconto o un dramma in senso comune – e tuttavia le persone rimangono come se stessero guardando un film che non ha un finale – né un inizio né una trama. Nel libro dei visitatori ci sono spesso commenti di questo tipo: «Vorrei che questo posto rimanesse sempre qui» oppure «Non ho mai trascorso tanto tempo a guardare una cosa» «È stata l’esperienza più positiva della mia vita». Oppure occasionalmente «Come siete riusciti a far entrare questa roba così noiosa in una galleria?». Questa, per ora, è la mia teoria su che cosa accade in quel momento. Per la maggior parte della nostra vita, chi di noi vive in società industriali avanzate si serve di un grande talento proprio dell’uomo: la capacità di controllo. Come specie tendiamo a misurare il progresso in termini di capacità di gestire, sempre più efficacemente, le varie situazioni che la natura ci pone davanti. E la tecnologia ci aiuta in questo: i trasporti, la medicina, i vari strumenti, la comunicazione, la cucina, costruire dei ripari e così via sono dei mezzi per creare intorno a noi un ambiente migliore, tenere a bada la natura e controllarla. Abbiamo fatto molta strada rispetto ai nostri antenati animali da questo punto di vista: possiamo immaginare delle cose e realizzarle con un tale acume che è unico sul pianeta. Ora immaginate il mondo così come è stato per i nostri antenati, durante i milioni di anni in cui gli uomini hanno gironzolato sulla terra con scarso impiego di tecnologia. Ovviamente, quando riuscivano, usavano le loro capacità umane


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di controllo, ma c’erano molte circostanze in cui non potevano farlo. E se non si riesce a controllare qualcosa, l’unica alternativa è imparare a conviverci: arrendersi. I surfisti conoscono bene questo aspetto: l’alternanza tra lasciarsi trasportare e controllare l’onda. E penso che la mente dell’uomo si sia evoluta proprio a partire dal bisogno di sapere quando è necessario cedere. Invece arrendersi è sempre inteso come un verbo passivo – come “non fare nulla” o “lasciare che qualcosa accada”. Io voglio ripensare questo concetto e suggerisco che la resa rappresenti un’azione, una scelta, un modo positivo di avere a che fare con le cose. E vorrei anche dire che è un talento per cui, in un certo senso, abbiamo perso il necessario rispetto. Perché l’immagine che abbiamo di noi stessi è quella di “Uomo che controlla” e, siccome lasciarsi andare è visto come una mancanza di controllo, tendiamo a coltivare ed esaltare la parte vigile della nostra personalità rispetto a quella più arrendevole. Peraltro non dovrei presentare queste due forme di azione come totalmente distinte e separate. Il modo migliore di pensare al controllo e alla resa è di immaginare questi due aspetti come i due estremi di uno spettro di possibilità che abbiamo a disposizione. In certe condizioni – per esempio in laboratorio – possiamo esercitare un perfetto controllo. Nella vita quotidiana spesso uniamo il controllo alla resa e ci muoviamo avanti e indietro su questo spettro di possibili combinazioni – ad esempio per costruire una nave o un ponte occorre sapere in quali punti è necessario conferire rigidità (controllo) e in quali elasticità (resa). In alcune situazioni, comunque, per scelta o necessità, cediamo. Molto di ciò che agli uomini piace fare per “divertimento” o “illuminazione spirituale” o “piacere culturale” in realtà non è altro che un

modo di lasciarsi andare. Penso che sotto il termine ampio di resa troviamo una serie di attività che spesso collimano e talvolta non si distinguono l’una dall’altra: la religione, l’arte, le droghe, il sesso. Se si guarda ad esse si vede che hanno in comune ciò che noi chiamiamo trascendenza. Sono un modo di trascendere la nostra rigidità, di perdere – per quanto temporaneamente – il nostro senso del sé come individuo che si controlla. Tutte le società umane praticano alcune di queste forme di trascendenza/resa – e generalmente le prendono molto sul serio. Le combinano in modi diversi e ne preferiscono alcune rispetto alle altre e talvolta, se hanno fortuna, le usano tutte insieme! Quindi, che cosa ci guadagniamo – psicologicamente, biologicamente e sociologicamente – nel mettere in atto queste forme di trascendenza? Io penso che, così facendo, entriamo in contatto ed esercitiamo quella parte antica di noi, la capacità di “seguire il flusso”, di lasciarci andare. E questo perché abbiamo bisogno di poter contare su questa nostra capacità in ogni momento. Persino coloro che riescono a controllare con maestria ogni evento devono essere in grado di capire quando questo non è il comportamento giusto e deve essere abbandonato. Tutto ciò richiede pratica: non averne paura, prima di tutto. Penso che, quando le persone si lasciano trasportare da un’opera d’arte, acconsentono, per un momento, a smettere di sentirsi se stessi. È come se dicessero all’artista “Portami da qualche parte, sono con te”. Sperimentano una diversa condizione dell’essere, una condizione che è stata cruciale per gli uomini nel corso di tutta la storia evolutiva, e che ancora è piacevole, e necessaria. C: Come funziona in tal senso la combinazione di luce

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e suono, della sfera visiva e sonora? E: È importante notare che quando si utilizza la musica, si fa sapere al pubblico che questa esperienza si sta compiendo in tempo reale – e perciò le persone devono essere preparate a concedere un po’ di tempo. Non è come guardare un dipinto che è deliberatamente fuori dal tempo (questa osservazione fornisce una prova all’idea che la pittura si sia evoluta come un modo per fermare il tempo). Osservate il comportamento della maggior parte delle persone all’interno di un museo: guardano velocemente l’opera, poi leggono il cartellino, poi riguardano velocemente il quadro e se ne vanno. Ho il sospetto che il cartellino spesso agisca come uno strumento contro il disorientamento. Ti dice: “Non ti preoccupare – ecco qui qualcosa che dà un ancoraggio alla parte conscia della tua mente, così non ti senti perso”. In questo modo ti permette di archiviare, ordinatamente, l’esperienza del quadro e puoi continuare e fare lo stesso con un’altra opera. Al contrario la musica prende forma in quel momento. Psicologicamente ti chiede di essere presente. È uno strumento che permette di superare quei primi minuti [di disorientamento], e così le persone si accorgono che qualcosa sta succedendo, sta cambiando. A questo punto le persone spesso sono agganciate. Le immagini giocano un ruolo importante nell’esperienza visiva di chi guarda, ma cambiano sempre e non si ha mai lo stesso quadro. Si potrebbe dire che questo è un modo di trasportare il quadro nel tempo, che è il dominio proprio della musica. E, al contrario, poiché la musica è piuttosto statica, si potrebbe dire che essa si sposta verso la dimensione del quadro. Penso che sia proprio questo che mi sono ritrovato a fare: un tipo di pittura che si comporta come la musica e un tipo di musica che si comporta come la pittura. Io non utilizzo la musica semplicemente per convincere le persone a rimanere, ma mi sono reso conto che questo era un fattore importante nella riuscita dello spettacolo. Ha anche un altro effetto e, ancora una volta, me ne sono accorto osservando gli spettatori. Quando la musica è calma e d’atmosfera rende le persone tranquille (e in atmosfera appunto). Le persone non parlano molto durante lo spettacolo e quando lo fanno tendono a comunicare con calma. Ancora una volta penso che questo aspetto aiuti a sganciarsi dalla parte della propria mente che non vuole lasciarsi andare. Per la maggior parte del tempo parliamo per rimanere in contatto con il nostro io quotidiano. Quando smettiamo di parlare – di buttare fuori – cominciamo a ricevere. C: Quale ruolo ha l’arte oggi in relazione alla spiritualità, in particolare nel mondo occidentale, in cui sempre più persone sembrano allontanarsi dal ruolo tradizionale

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delle istituzioni religiose? E: Penso di avere già risposto a questa domanda.ù C: Mi sembra che nel suo lavoro ci sia sempre un equilibrio e, in un certo senso un dialogo, tra la razionalità (la struttura) e il caso o la creatività personale (l’emotività). Penso al suo concetto di musica generativa o a un’opera come 77 Million Paintings, ad esempio. La spiritualità, intesa come ricerca dell’infinito, come entra in gioco nel rapporto tra individuale e universale? E: Il caso è utile se si vuole essere sorpresi dal proprio lavoro. 77 Million Paintings funziona come una sorta di casualità studiata. C’è una serie di immagini predeterminate – le ho realizzate tutte io – e il software crea costantemente nuove combinazioni. Perciò la creazione delle immagini non è frutto del caso (sono state prodotte nel giro di vent’anni), ma le ricombinazioni sono casuali. E il numero delle permutazioni è enorme, molto al di là di quanto potrei vedere nel corso della mia vita anche ipotizzando di non fare altro da mattina a sera e di avere una lunga vita davanti a me. Penso che sia un aspetto interessante perché significa che consciamente sto creando un’opera che non riuscirò a vedere nemmeno in minima parte. In un certo senso mi mette nella posizione di uno spettatore qualunque. Siamo lontani da una certa visione dell’artista legata alla tradizione, per cui, ad esempio, Beethoven girava con una sinfonia completa in testa… e il suo lavoro di compositore era quello di provare a trovare un modo di concretizzarla nel mondo. Io non lavoro in questo modo. A me piace creare delle macchine che generano cose – io le chiamo Sistemi generativi – e spingermi al di là della mia immaginazione. Questa per me è la chiave, operare al

di là dei confini del mio gusto e spingerlo in territori inesplorati. Per chiarire la questione, pensiamo alla differenza tra l’architettura e il giardinaggio. Tradizionalmente l’architetto è considerato come un uomo di prestigio – si aggira immaginando gli edifici da realizzare. I giardinieri sono diversi: sperimentano la combinazione di controllo e resa. Sicuramente devono prendere delle decisioni in merito alle piante, alla loro posizione, capire cosa succederà nelle diverse stagioni, ma dopo devono arrendersi alla natura e lasciare che la pianta cresca da sé. Il giardinaggio è scolpire in tempo reale. Allo stesso modo una persona che partecipa al mio spettacolo sa che sta osservando una parte di una sequenza infinita. Sa che non potrà mai vedere “l’intera opera” e ciò a cui sta assistendo scompare e si trasforma in qualcos’altro. Forse tutto ciò aumenta il suo interesse per quel dato momento. Spesso penso al periodo in cui non esisteva ancora la registrazione – allora non era possibile sentire la musica più e più volte ed era un’esperienza totalmente connessa a quel dato momento e a quel dato luogo. Io credo che oggi le persone vogliano provare questo tipo di esperienza con ancora maggiore intensità rispetto agli ultimi cinquant’anni e la prova è data ad esempio dal grande incremento del numero di persone ai concerti. Io penso che il lavoro che sto facendo è una parte di questo movimento che va oltre la perfetta ripetibilità verso una continua trasformazione.

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Lo Spirito va e viene Conversazione con Gregorio Botta di Jannis Kounellis

ounellis parla della sacralità come di un atto eversivo, estremo e Ksoprattutto radicale: nel doppio significato della parola. E cioè che

deve andare fino alle sue ultime conseguenze e che ha bisogno di radici per manifestarsi. Senza un luogo di appartenenza, senza un legame profondo con la grande tradizione, con il nostro passato, non ha possibilità di prendere forma. «Il luogo è il miracolo», dice, e la spiritualità è momentanea: un nume che attraversa, come uno stato d’animo, la coscienza umana. Bisogna saperla accogliere, prima che vada via.


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C’è un lavoro di Jannis che parla di tutto questo molto meglio delle parole: la grande installazione che creò per la Galleria nazionale di arte moderna a Roma nel 2002, Atto unico. Tutto il padiglione centrale della galleria era stato invaso da alte mura di ferro bruno, dai cui torrioni occhieggiavano – come sentinelle – mucchi di nero carbone. Le fortificazioni di questa città dell’anima formavano un labirinto, una strada oscura ma percorribile, all’interno della quale si aprivano improvvisamente piazze o piccole nicchie di significato, dove l’artista aveva collocato le parole del suo linguaggio: sacchi di iuta, lampade a olio, polvere di caffè che emanava il potente profumo, un letto monastico con coperte essenziali. Oggetti minimi che ci riportavano all’elementarità dell’essere. Il labirinto è un luogo in cui ci si perde. In quello di Kounellis l’uomo può ritrovarsi. Questo è il “miracolo”. Jannis Kounellis siede su una vecchia poltrona della sua bella casa romana, alle sue spalle incombe – come un destino – una gigantesca serie di lamiere di ferro brunito, sulle cui mensole poggiano grandi e belle pietre: avvolte in coperte di iuta, sembrano riposare e contenere la loro grande forza. Nella cultura scintoista anche i minerali, ma non tutti, hanno un kami (uno spirito): questi di Jannis ne sembrano tutti dotati, come ogni cosa che vive nelle sue opere. Potrebbe partire da qui la conversazione sulla spiritualità nell’arte contemporanea. Dalla capacità dell’artista di svelare un abisso di senso ai nostri sguardi sempre troppo superficiali. Invece cominciamo da altre pietre, i vetri colorati e luminosi incastonati nella porta che ha realizzato


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La bellezza � doppiamente sacra

un anno fa per l’Orto monastico di Santa Croce in Gerusalemme, nel cuore di Roma. Anch’essi portatori di un’energia antica, imprigionati in una ragnatela di segni metallici: una porta aperta, luminosa, che non chiude ma apre, varco che promette un accesso gioioso, fatto di luce, all’Hortus conclusus, promessa di meditazione e raccoglimento. «Fatta quella porta, ora mi hanno chiesto di realizzare la Sedia vescovile per la cattedrale di Reggio Emilia. È strano: ma è come se le porte della Chiesa si stiano di nuovo aprendo all’arte contemporanea». B: Dovremmo capire perché si erano chiuse. K: Ma perché la Chiesa nel passato ha continuato a pensare all’arte come a un’illustrazione che raccontasse la vita dei santi. Ed è stato inevitabile che ad un certo punto, con la borghesia, l’illuminismo, la creazione di un’intellighenzia europea, le strade si divaricassero. Raccontare la vita dei santi è stato importante, ma c’è una differenza tra testo e iconografia. Pensa a che cosa ha significato dipingere la figura umana: all’inizio c’era chi la considerava un’eresia e c’è voluto un concilio – nel 700 dopo Cristo – per sconfiggere gli iconoclasti e risolvere la battaglia che si era aperta nel seno della Chiesa. Il risultato dello scontro era, io credo, inevitabile: per noi la religione è l’uomo. La nostra religiosità non è solo spirituale, si può toccare. Certo anche le icone bizantine si possono toccare, ma sono meno fisiche: io preferisco le madonne di Tiziano, i piedi di Caravaggio. La madonne di Tiziano hanno anche un valore epidermico: e sono doppiamente sante perché sono anche belle. B: Questo anche perché per la tradizione cristiana la spiritualità è la storia di un’incarnazione, di un farsi corpo, di un prendere possesso della materia. Ma ovviamente la spiritualità per esprimersi non ha bisogno per forza di raccontare la religione. Anzi. Pensiamo alla forza dei movimenti dell’avanguardia del primo Novecento, a Kandinskij a Mondrian: l’astrazione è venuta al mondo con un programma di rinnovamento spirituale… K: Sì, ma anche nell’Ottocento quest’energia già c’era. Pensa all’Origine del mondo di Courbet, quel sesso così esposto per la prima volta nella storia della pittura ha la forza di un programma, è davvero l’origine del mondo, è categorico. Parla come parla san Giovanni.

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B: Ecco, invece a me sembra che in tanta arte contemporanea quell’energia spirituale sia persa. Che abbia dimenticato da dove viene, che cosa l’ha fondata e perché agisce. K: È vero, da un po’ di tempo ormai noi raccontiamo solo perdite. E c’è un motivo: il mondo globalizzato non può essere spirituale: viaggia troppo in superficie, fa l’apologia del mercato e del denaro. Lo spirito ha bisogno di fondamenta, di radici, per esistere. B: Vuoi dire che lo spirito ha bisogno di radici, di essere radicato, di abitare un luogo? K: Certo, radici e radicalità. B: Capisco quello che dici: mi ricordo che quando inaugurasti la mostra al Madre di Napoli, parlasti del fiume di sangue che scorreva ed era scorso – come un fiume nascosto – nei sotterranei della città. E che su quel sangue era fondata la mostra. Quell’immagine mi colpì: perché racchiudeva una verità sulle radici, appunto, della mia città. Tu pensi sempre al luogo dove intervieni, e ne riveli un’anima altrimenti nascosta. K: Il luogo è fondamentale: il luogo si presenta come un miracolo. Certe cose comunicano un’unicità che non può e non deve essere soppressa. B: Ma è l’arte che dà loro questa torsione, rendendo lo spazio altro, e quindi in un certo senso sacro. K: Tutta la tradizione artistica italiana è basata sull’unicità. Questa è la questione più importante ed è la grande differenza tra noi e la scuola americana. Naturalmente non parlo dell’espressionismo astratto. Anche Pollock è unico.

Ma guarda il pop: è tutto ripetizione. Lì l’uomo non c’è, è scomparsa la melanconia, che è una forma di conoscenza, di consapevolezza, di profondità occidentale. Il pop sembra l’arte di propaganda sovietica: solo che fa pubblicità al capitalismo invece che al comunismo. Tutto è piatto, tutto è uguale, tutto è ripetuto. È una grande tragedia: moltiplicare è un atto di cinismo. B: Hai parlato di miracolo. Ma puoi dirmi quando avviene il miracolo? Quando, come e perché un’opera svela la sua forza spirituale? K: Difficile dirlo. Io non ne sono mai certo. La mattina penso che in un lavoro ci sia una sacralità, e il pomeriggio non lo penso più. La spiritualità è come la bellezza: non è stabile, ha degli orari, va e viene. La maggior parte degli uomini ha dei momenti di spiritualità nella sua giornata, anche se non ne ha l’ideologia. Non puoi essere critico e spirituale allo stesso tempo: devi essere dentro le cose. B: Prendiamola allora da un’altra parte. So che è una domanda difficile: ma come nasce un’opera? Per esempio, come sono nati i cavalli al garage di Sargentini? K: I cavalli erano un atto eversivo: fino ad allora i quadri erano stati messi a parete, e io li ho tolti dai muri, li ho messi nello spazio. D’altronde tutti i pittori che ho amato – tutti i grandi artisti – erano eversivi. Io ho amato molto Les demoiselles d’Avignon: pensa a che rottura è stata nella coscienza dell’epoca. È stato un salto. Ogni tanto la storia dell’arte compie dei salti. Per esempio: fino a un certo punto le mostre erano delle collettive, in cui ogni artista appendeva

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uno o due quadri. Poi sono arrivate le personali, e tutto è cambiato: perché le personali sono una messa in scena, hanno una vera e propria drammaturgia. Ecco, i cavalli sono stati un salto: anche loro hanno una loro drammaturgia. È stata come un’illuminazione… B: Un’illuminazione. Come se l’artista creasse in uno stato sciamanico? Come ti è venuta a Napoli l’illuminazione di appendere tutti quegli armadi nei due colonnati di piazza Plebiscito? Quei mobili vecchi, scrostati, rovesciati, ci guardavano dall’alto con il peso di tutta la loro storia, di tutta la vita che avevano visto, sembravano usciti dalle case di Napoli per incombere sulle nostre vite… K: No, lo sciamanesino non c’entra. C’entra il peso e la profondità del nostro passato, la riflessione e l’amore per la nostra tradizione di pittura. Io penso alla tradizione barocca, all’arte della Controriforma. A Caravaggio, a quegli artisti che hanno dato un peso al dramma. E allora per esempio – al contrario dei colori piatti che vanno di moda – restituisco importanza alla profondità delle ombre che stanno nella nostra tradizione: questa è autentica modernità. Io ho sempre avuto il coraggio di dichiarare la diversità della mia appartenenza e di gridarlo dappertutto. B: Tu parli ancora di appartenenza, di diversità, di tradizione. Rivendichi un percorso artistico anche in contrapposizione agli altri. Eppure, oggi sembra che viviamo in un orizzonte culturale piatto, in cui tutti i linguaggi sono uguali. Morte le avanguardie, l’arte entra nella notte hegeliana con i gatti grigi, e nessuna differenza di valore. K: L’avanguardia è un percorso in salita, altrimenti non esiste: diventa normalità. Non a caso è anche una parola militare: è la pattuglia che si spinge avanti prima degli altri. Io non so se esiste o non esiste più nel senso ideologico del termine. Ma io ti voglio parlare di un quadro. Noi siamo abituati a vedere Boccioni, un’opera come La città che sale. Ne percepiamo il cambiamento, ne avvertiamo la forza, l’energia positiva. Ecco, se non posso più immaginare tutto questo, sono triste. B: Nel senso: se non possiamo più immaginare un’opera che cambia, che innova, un’opera eversiva? K: L’eversione fa parte della sacralità, perché è estrema. E il sacro è estremo e terribile. Come la bellezza. Dobbiamo avere la forza di sostenere entrambi.

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Conversazione tra Bernar Venet e D�borah Laks

Reinventare il sacro ono molte le storie che gravitano attorno alla vita artistica di Bernar Venet. S I critici raccontano la grande modernità dei suoi primi gesti artistici, come la Performance dans les poubelles (Performance nei bidoni) del 1961 e il Tas de charbon (Mucchio di carbone) del 1963. Gli amici artisti amano parlare dell’importanza del ruolo che ha svolto presso la comunità di francesi espatriati a New York. I collezionisti e le istituzioni narrano di come, alla fine degli anni Settanta, si è fatto gioco del consenso generale rifiutando il cubo, che all’epoca assimila a una forma di accademismo.


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Tutte queste storie propongono itinerari che conducono a un’opera radicale, caratterizzata dalla monosemia. Ed è sempre attraverso una storia che Bernar Venet spiega la relazione tra il suo lavoro, la religione e il sacro.

L Possiamo dire che la tua opera ha un rapporto con

il sacro? Nonostante la forza ascetica quasi romanica della tua produzione, la direzione concettuale

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che imprimi al tuo lavoro evita questo tipo di assimilazione. Il carattere concettuale della mia opera evita infatti qualsiasi riferimento al sacro. La monosemia, aspetto fondamentale delle mie opere che tiene a debita distanza il commento, impedisce qualsiasi forma di assimilazione all’ascetismo romanico di cui parli. Il mio lavoro è essenzialmente autoreferenziale


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La luce comunica la sensazione di un universo parallelo

e tautologico. Le mie opere parlano solo di se stesse mentre il sacro implica un’aspirazione a qualcosa d’altro, una disponibilità a una presenza divina nella realtà. A prima vista, dunque, sembra difficile riconciliare l’aspetto avanguardista delle mie realizzazioni con la religione. Tuttavia, due delle mie opere, le croci di Roquebrune-sur-Argens e la cappella di Château-Arnoux, deviano da questa linea direttrice, intrecciando una relazione molto stretta con il sacro. Ma sono casi particolari della mia produzione. L: Cosa ti ha condotto a realizzare questi due progetti? V: Personalmente, non mi sarebbe mai venuto in mente di proporre questo tipo di realizzazioni alle città di Roquebrune-sur-Argens e Château-Arnoux. Le opere sono così lontane da ciò che in genere ricerco che l’impulso non poteva partire da me. Solo per caso mi sono ritrovato a rifletterci. L: Nel corso della tua carriera artistica, più volte hai detto di esserti confrontato con il caso. Gli Accidents (Incidenti), come la presentazione degli Arcs (Archi) in raggruppamenti, sono idee che ti sono venute osservando le tue opere in situazioni insolite di stoccaggio o trasporto. Questo tipo di disponibilità all’imprevisto è importante per te? V: Per un artista concettuale, il caso non può essere accantonato, fa parte dei dati con i quali dobbiamo lavorare. Sono forse uno dei pochi artisti ad avere integrato questo tipo di circostanze casuali non solo nella creazione delle mie opere ma anche nella loro installazione. Con gli Accidents, la forma dell’opera è determinata dal caso ed è rimessa in gioco a ogni nuova installazione. L: Per questi due progetti, hai accettato di rimettere in discussione le tue posizioni teoriche iniziali. Nel 1989, proponi tre nuove croci per la montagna di Roquebrune-sur-Argens e dodici anni dopo finisci di restaurare la cappella di Château-Arnoux. Com’è andata? V: Nel 1989, un incontro imprevisto mi ha spinto a riflettere su quest’opera. Sono stato contattato dal sindaco di Roquebrune-sur-Argens, un comune vicino a Le Muy, dove si trova uno dei miei atelier. Da alcune centinaia di anni, tre croci di legno, situate su una delle montagne vicine al paese, commemorano la passione di

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Cristo. La leggenda racconta infatti che la montagna di Roquebrune-sur-Argens si è divisa in tre nel momento in cui Gesù ha esalato l’ultimo respiro. Il paese voleva naturalmente celebrare la memoria dell’evento e conservare questa curiosità, nota sin dal Medioevo. Per evitare gli inconvenienti legati al legno e rendere le croci più durature, il sindaco ha pensato di realizzarle in metallo. Conosceva la mia produzione e mi ha chiesto se accettavo di fabbricare le tre nuove croci. Naturalmente la richiesta mi ha stupito e il mio primo istinto è stato di declinare l’offerta. In realtà, il sito mi interessava, perché era veramente propizio a un’opera monumentale, visibile dalla strada, che dominasse la valle. Inoltre, un artista che lavora su un repertorio di forme elementari non può accantonare indefinitamente la questione della croce. Di ritorno all’atelier, ho cominciato a riflettere sul luogo e sulle tre croci. Per alimentare la mia riflessione sulla forma, ho dato fondo alla mia biblioteca e alla fine sono arrivato a opere che parlavano di Giotto, El Greco e Grünewald. Nei quadri che avevo sotto gli occhi, ogni artista aveva rappresentato la croce in modo diverso. Per Giotto era più simile a una T, per Grünewald i bracci della croce s’inclinavano verso terra e per El Greco la forma era quella della croce cattolica tradizionale. Le tre croci del monte di Roquebrune-sur-Argens hanno allora assunto un significato diverso ai miei occhi. Riprendendo queste tre forme diverse, entravo in una sorta di filiazione, designavo una comunità artistica attraverso i secoli e rendevo omaggio a tre pilastri della storia della pittura. Il gesto mi è sembrato forte e importante, sia da un punto di vista visivo sia intellettuale. Ho quindi proposto al sindaco di Roquebrune-sur-Argens questo partito preso

referenziale. Il semplice restauro che desiderava all’inizio cambiava volto! Ha accettato con entusiasmo la proposta e le croci di Giotto, El Greco e Grünewald hanno così sostituito le tre vecchie croci di legno. Dopo un’installazione molto rischiosa con l’elicottero, sono state inaugurate alla presenza dei responsabili della regione, che in parte ha finanziato il progetto, di François Léotard e del vescovo del Var. L: In questo progetto, ti sei in qualche modo tenuto a distanza, hai trasmesso un’eredità. V: L’idea di trasmissione è stata fondamentale in questo progetto. D’altra parte, dietro mia richiesta, una targa indica che si tratta di un mio omaggio a Giotto, El Greco e Grünewald. Non volevo riprendere le loro croci solo per la forma, ma perché recano in sé il marchio del loro creatore originale e dell’epoca in cui sono state dipinte: la loro storia affonda le radici negli annali religiosi e artistici. Per questo, spero che le tre croci sulla montagna abbiano un senso sia per il cristiano sia per l’artista. Non ho concepito la mia opera come un semplice simbolo della passione, al contrario, ho voluto aprirla a un altro tipo di comunione. L’artista concettuale e iconoclasta che per molti continuo ad essere rimescola le carte, iscrivendo nel metallo per l’eternità quei tre giganti che sono Giotto, El Greco e Grünewald. Volevo mostrare l’atemporalità delle loro opere e il perdurare di un certo spirito artistico. Rendendo omaggio a questi tre pittori fondamentali, affermo ciò che devo loro e propongo una riconciliazione tra l’arte contemporanea e la storia dell’arte. L: Questo progetto nasce da un incarico ufficiale, anche se l’hai un po’ rivisto a modo tuo. Sembra che

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tu fossi particolarmente interessato a immaginare una soluzione soddisfacente da un punto di vista plastico e intellettuale sia per i fedeli sia per gli amanti dell’arte. È per questo che hai voluto lavorare a un altro progetto collegato alla religione? V: Effettivamente, mi sono molto impegnato nella realizzazione delle tre croci di Roquebrune-sur-Argens, tanto più che avevo interpretato l’incarico in termini che mi riguardavano più da vicino. Ho accolto la proposta come una nuova possibilità di cogliere il caso al volo, ma nella mia testa, rimaneva un’opera isolata e non pensavo proprio di realizzare un altro progetto collegato alla religione e al sacro. Questo secondo lavoro è stato deciso nello stesso modo del primo: accettando l’imprevisto. L: Château-Arnoux è il tuo paese natale, immagino che il progetto di restauro della cappella di San Giovanni Battista sia stato deciso su misura per te. V: Assolutamente no! Conoscevo una persona che faceva parte dell’associazione degli amici della cappella. Si è rivolta a me perché, da esperto, l’aiutassi a fare una cernita tra i quadri, le sculture e l’arredo esistenti. Data la pessima qualità dell’insieme, ho fatto buttare tutto. Una volta eliminato il mobilio accumulato negli anni, lo spazio è stato messo in risalto, lasciando intravvedere delle possibilità per la sua sistemazione. I membri dell’associazione erano rimasti sconvolti di fronte alle mie scelte radicali e allora ho cercato di far capire loro quanto fosse importante per la città ricorrere a un artista contemporaneo. Non pensavo assolutamente a me, tanto questo tipo di lavoro era lontano dalle mie preoccupazioni. Avevo realizzato le tre croci, ma non intendevo lavorare a tutti i progetti religiosi della regione. Quindi, quando l’associazione mi ha proposto di occuparmi della nuova sistemazione della cappella, all’inizio ho rifiutato. Ma, come a Roquebrune-sur-Argens, alla fine anche qui si è prospettata una soluzione interessante. La persona che conoscevo all’interno dell’associazione si è ricordata di arredi che avevo già creato e mi ha proposto di occuparmi di tutto il progetto. Mi trovavo di fronte a uno spazio completamente vuoto, da ripensare da cima a fondo. Ho quindi accettato il progetto. L: Allora hai ideato tutto l’arredo della cappella. Qual è stata la tua idea direttrice? V: Ho voluto mettermi davvero al servizio del culto religioso, creare un insieme

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Dèborah Laks | Bernar Venet

molto semplice, che potesse accompagnare le devozioni e le meditazioni dei fedeli, senza nessuno stimolo o direttiva da parte mia. Ho ripensato tutto: dai banchi all’altare, dalle vetrate alla croce. Per quest’ultima, ho proposto una quarta soluzione, strizzando l’occhio alle forme di Giotto, El Greco e Grünewald. L’ho immaginata tradizionale, perché mi trovavo in una chiesa cattolica, però inclinata, appoggiata contro il muro. Lavorando su tutte le sfaccettature della decorazione e degli arredi della cappella, ho potuto creare un’atmosfera molto particolare. Ho voluto che, una volta chiusa la porta, l’esuberanza dei colori e della luce del sud fosse sostituita da una neutralità totale al servizio del sacro. Per raggiungere questo grado di sobrietà, l’arredo è stato ritagliato con fiamma ossidrica in lastre di acciaio spesse 2 cm. Tale scelta conferisce alla cappella un carattere uniforme ed emana grande serenità. Le passioni umane, l’immaginazione, le rappresentazioni non trovano spazio in questo insieme equilibrato. La sensazione di entrare in un universo parallelo è rafforzata dalla differenza tra luce esterna e luce interna, filtrata dalle vetrate. Quest’opera totale raggiunge, spero, il suo scopo, che è quello di creare un luogo a parte, nel quale la sobrietà dell’arte contemporanea minimalista costituisce le fondamenta di una devozione solenne. L: L’inaugurazione si è svolta nel 2001, ma il tuo progetto non è terminato. V: No, infatti per me la cappella non era finita: le manca un riferimento a san Giovanni Battista, al quale è dedicata. Per rispondere all’arte religiosa tradizionale, che riveste le pareti delle chiese con rappresentazioni di santi, avrei voluto completare la mia azione con un quadro, che tuttavia non ha potuto

essere terminato ancora. Poiché non ho nessuna intenzione di ricorrere alla rappresentazione o al pennello espressionista, tendenze contro le quali mi batto dall’inizio degli anni Sessanta, mi sono rivolto al linguaggio. Ho scelto un versetto della Bibbia che desideravo iscrivere su un pannello: «Egli non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce». Questo versetto assume un significato particolare agli occhi di ogni artista e offre una prospettiva sul mio impegno in questo luogo. Infatti, sebbene non sia religioso, ho voluto realizzare un luogo calmo e sobrio, propizio alla meditazione. Ho scelto di trasmettere la mia visione di una luce che i fedeli interpretano in termini di spiritualità. Il senso di questo versetto doveva essere accompagnato da simboli forti: avrei voluto che il papa lo scrivesse di suo pugno nel fango proveniente dal Giordano. In questo modo, il quadro avrebbe fatto riferimento al battesimo di Cristo, divenendo al contempo un simbolo dell’impegno del papa in favore dell’arte contemporanea. L’opera si sarebbe situata ai margini della pittura, forse della sua preistoria, e avrebbe mostrato ciò che permane sia nell’arte che nella religione.

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Monumento e religione Conversazione tra Luca Molinari e Mario Botta

ario Botta è uno dei pochi architetti contemporanei che abbia dedicato Mun’attenzione costante e sperimentale all’architettura religiosa. Dal 1986,

anno del progetto per la ricostruzione della cappella montana di Mogno, a oggi, sono almeno trenta i progetti realizzati e pensati dall’architetto ticinese intorno a questo tema. Ma l’analisi del suo lavoro rivela che il tema religioso è diventato molto più che una semplice, fortunata, esperienza professionale: una sorta di ossessione culturale su cui Botta ha fondato una parte importante degli ultimi decenni della sua ricerca. Il nostro dialogo è cominciato quindi con la richiesta di introdurci a questo tema attraverso la sua personale esperienza di architetto.


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B Solo vent’anni fa ho affrontato il mio primo

progetto per un edificio religioso, si era trattato della ricostruzione di una piccola chiesa del Seicento distrutta da una valanga a Mogno, un paese di montagna in Canton Ticino. Era la prima volta, malgrado i numerosi edifici pubblici che avevo già progettato, e mi si posero immediatamente una serie di problemi elementari e fondativi.

Innanzitutto dove ricostruire, con la scelta naturale di usare il sito e i segni delle fondazioni originari. Quindi come farlo, e questo mi pose immediatamente l’eterno tema/problema della città europea legato alla complessa stratificazione e alla ricostruzione. Decisi subito di evitare il “dov’era com’era” perché avrebbe voluto dire rimuovere la ferita della valanga, e invece appoggiai il nuovo edificio sullo stesso sedime, sullo stesso asse,


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L'architettura come occasione unica per descrivere concretamente l'infinito

insistendo sul luogo come permanenza necessaria. Cambiai le forme, perché testimoniassero il segno della nostra cultura contemporanea, usando forme e materiali altrettanto forti che marcassero l’idea di durata, stabilità, gravità capaci di resistere per molto tempo. Introdussi una nuova forma, l’ellisse invece del cerchio, e usai i materiali presi dalle cave locali, e, malgrado le scelte coerenti di tipo funzionale e materiale, mi si aprirono una serie di interrogativi che ancora oggi mi ossessionano: cosa vuol dire costruire uno spazio del sacro oggi? E come fare rinascere lo spazio sacro nel XXI secolo, dopo l’azzeramento effettuato dalle avanguardie storiche? E negli ultimi venti anni mi sono mosso all’interno di questi interrogativi che considero decisivi perché mi hanno aiutato a riformare l’idea stessa di architettura per il secolo che è appena cominciato. Posso dire che grazie alle mie continue riflessioni dedicate al sacro ho potuto riscoprire alcuni temi primordiali, centrali del fare architettura. Nella costruzione di un edificio religioso dobbiamo riflettere sul ruolo del perimetro (ecclesia vuol dire infatti dividere lo spazio interno dal mondo esterno), e insieme della soglia, del limite, della luce, della gravità e del finito come occasione unica per descrivere concretamente l’infinito. Marcare con la pietra nel suolo il limite della chiesa vuol dire segnare la separazione tra Natura e Cultura. Si tratta di gesti funzionali e insieme di metafore potenti che insistono sul valore inerziale, di resistenza dell’architettura nel tempo. A differenza di altri edifici pubblici, con una lunga storia e tradizione, i contenuti principali dell’edificio religioso non si sono quasi modificati nei secoli. L’altare marca ancora l’evento prodigioso della trasformazione del pane che diventa Cristo e il fedele vive in diretta un atto straordinario e originario senza alcun bisogno di altre mediazioni. Lo spazio sacro mantiene ancora il potere del silenzio, della meditazione e della spiritualità dove il fedele è l’unico, diretto protagonista. M: Ho sempre trovato interessante come, attraverso il progetto religioso, tu abbia riformulato l’idea di monumento contemporaneo e insieme ti sia interrogato su cosa vuol dire indagare gli archetipi in chiave contemporanea. Vorresti approfondire questo concetto? B: Credo che la forza della sperimentazione portata avanti sugli edifici religiosi oggi abbia molto a che fare con i diversi contesti con cui si confrontano. È ormai, definitivamente mancata la capacità del luogo sacro di essere un generatore urbano centrale come è stata per secoli nella storia degli insediamenti umani,

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Luca Molinari | Mario Botta

ma resta il fatto che i luoghi sacri siano oggi gli unici edifici pubblici svuotati dalla componente di consumo che ormai caratterizza tutti gli edifici collettivi. Ormai la chiesa e, forse, il museo sono gli unici due spazi pubblici in cui l’uomo può interrogarsi su contenuti centrali come la memoria e la spiritualità. Credo che si possa individuare una diversa identità dell’edificio religioso nel contesto attraverso i valori simbolici che questo ha da sempre avuto la forza di generare. La chiesa offre da più di 2000 anni risposte che per l’architettura sono fondative. L’idea di ecclesia porta con sé una memoria etico-spirituale e insieme un patrimonio figurativo e spaziale centrale per tutto il mondo occidentale. Il tessuto della memoria di cui è portatrice è un contenuto ancestrale di cui oggi abbiamo un grande bisogno, soprattutto per il confronto complesso con una società inquieta e globalizzata. Con le avanguardie storiche noi abbiamo subìto una trasformazione radicale, inimmaginabile, fino ad esperienze come quella di Schwarz che lavorava in continuità con il passato. Quindi l’interrogativo di fondo oggi è, che segni, che forme utilizzare dopo l’azzeramento del Novecento? M: Dopo più di vent’anni di progetti religiosi, e nuove committenze che sono sul tuo tavolo di lavoro oggi, quali sono le tue personali ossessioni su questo tema? B: Lavorare in questi anni su tanti, diversi edifici religiosi mi ha continuamente permesso di indagare le complesse relazioni che una tipologia ricca come questa può instaurare ogni volta con i contesti in cui si inserisce, soprattutto pensando alle forti contraddizioni che la metropoli contemporanea offre.

M: Ma come vedi il progetto di una nuova chiesa in una qualsiasi periferia urbana? B: Vedo il progetto come forma di riscatto urbano che si verifica nel confronto tra l’eccezionalità del tema e la normalità, la consuetudine del fare di cui è portatore. Se progetti una chiesa non puoi costruire un altro pezzo di periferia; è finito il tempo delle chiese in forma di fabbrica come se ne vedevano negli anni Settanta. Quando progettai la cattedrale di Evry il cardinale mi chiese chiaramente di superare lo spirito del ’68, di costruire un progetto che fosse fondativo di un nuovo frammento di città contemporanea. L’architettura non può abdicare al tema, non può pensare a una chiesa che sia banale, ma sempre pensare in termini di eccezionalità del manufatto. M: La chiesa è probabilmente ancora uno degli edifici collettivi più riconoscibili nel nostro immaginario; come vedi sviluppato questo tema oggi? B: La chiesa continua ad essere un tema simbolicamente, culturalmente e socialmente straordinario e non può essere considerato il semplice svolgimento di un tema tecnico funzionale. Se penso alle chiese progettate da Schwarz, Le Corbusier, Aalto, sento un’incredibile tensione morale che attraversa queste opere in cui il tema dello spazio del silenzio, dell’individuo e, insieme, della comunità sono esaltati. Dobbiamo creare opere per le comunità che non si consumino, resistendo al tempo che corre troppo rapido, che facciano della rilettura degli archetipi originali un elemento di identità, che recuperino il valore della durata. M: Oltre a una lunga serie di edifici cattolici tu hai avuto modo di realizzare la sinagoga Cymbalista a Tel Aviv. Come hai affrontato questo tipo di esperienza progettuale e culturale?

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Conversazione tra Luca Molinari e Tadao Ando

Spazi di preghiera


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adao Ando è uno dei pochissimi architetti T contemporanei ad aver affrontato il tema complesso

dello spazio religioso intrecciando progetti per diverse fedi confessionali in luoghi del mondo diversi.

A: Il lirismo naturale della chiesa sull’acqua (1985-1988) e le due fasi costruttive della Chiesa di Luce (19871999) ci hanno offerto un modo diverso e poetico di pensare allo spazio tradizionale di una chiesa cattolica; lo “spazio di meditazione” per il palazzo dell’Unesco a Parigi (1994-95) ha cercato di fondere idee e storie diverse in un unico, purissimo gesto geometrico; il tempio Komyo-Ji (1996-2000) a Saijo e il tempio sull’acqua Hompuku-Ji (1989-1991)ci hanno dimostrato come sia ancora oggi possibile costruire


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L'architettura religiosa come spazio per l'introspezione

un dialogo efficace tra tradizione millenaria e contemporaneità. In questo incontro Tadao Ando prova a raccontarci il suo rapporto con la religiosità filtrato attraverso il progetto architettonico visto come segno territoriale e insieme come traccia orgogliosa di contemporaneità. M: Lei è uno dei pochi architetti contemporanei ad aver lavorato continuativamente su spazi religiosi. Quali sono stati i punti chiave che ha dovuto affrontare e come ha deciso di svilupparli? A: L’architettura religiosa è definita dalla spiritualità, gli spazi per l’introspezione e la preghiera. In questo senso lo spazio dovrebbe essere essenzialmente simbolico e andare al di là della funzionalità o della razionalità. Ho sempre cercato di creare questo spazio simbolico basandomi sull’esperienza diretta e non a partire da specifiche forme architettoniche. Uno dei miei temi ricorrenti è stata l’idea della “natura astratta” che include l’uso di elementi naturali come il vento, l’acqua, la luce e il cielo. M: Che ruolo ha giocato la sua esperienza personale nella progettazione di spazi religiosi? Quali tratti della tradizione giapponese hanno influenzato il suo processo di ideazione dei luoghi religiosi? A: Personalmente sono agnostico e perciò non ho un credo religioso o esperienze in merito. Comunque sin dalla mia infanzia a Osaka, vicino a Kyoto e Nara, ho assorbito inconsciamente gli elementi essenziali dei tradizionali templi giapponesi. Questa prossimità influenza alcuni degli elementi della mia architettura, ad esempio il mio modo di avvicinarmi alle cose in maniera complessa e inconsueta e la profonda oscurità che esalta la luce naturale. Naturalmente sono stato profondamente influenzato dalle opere dell’architettura religiosa tradizionale dell’Occidente, tra cui il Pantheon di Roma e i monasteri romanici. M: Che cosa ne pensa degli spazi religiosi progettati dalle avanguardie del XX secolo e dal Modernismo? Che influenza hanno avuto sulla sua opera? A: La cappella Notre-Dame-du-Haut concepita da Le Corbusier è stata l’opera che mi ha impressionato di più. Ricordo ancora chiaramente la Messa durante la mia prima visita alla cappella, in cui la luce e il suono inondavano lo spazio scultoreo interno. L’architettura e la gente lì riunita emettevano una forte energia in totale equilibrio. Questa immagine mi ha permesso di capire non solo l’incredibile abilità

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Luca Molinari | Tadao Ando

di Le Corbusier, ma anche l’importanza, nella società moderna, degli spazi religiosi come luoghi in cui le persone si riuniscono a pregare. M: Se consideriamo l’edificio religioso come una significativa costruzione collettiva, come concepisce gli spazi pubblici collettivi nell’età contemporanea? A: Oggi la cultura consumistica di massa si è diffusa in tutta la società urbana e io spero sinceramente che gli edifici religiosi servano come veri spazi pubblici, soprattutto in Giappone che, al contrario dei paesi occidentali, ha un territorio costituito prevalentemente da isole, in cui la vita non è concentrata nelle piazze e nei parchi. In tal senso l’architettura religiosa, diffusa in tutta la città, dovrebbe diventare il fulcro della comunicazione tra le persone al di là della personale fede religiosa. M: Come crede che dovrebbe essere l’architettura religiosa in una metropoli del XXI secolo? A: Penso che gli spazi religiosi diventeranno più astratti e spirituali, superando l’architettura formale; spazi che dialogano con coloro che li vivono e ne rinnovano il senso. M: Lei spesso progetta le sue opere architettoniche come nuove parti del paesaggio; come vive questo importante rapporto in fase di progettazione degli spazi religiosi? A: Quando progetto edifici religiosi, musei o case private, sono sempre molto concentrato sui luoghi di passaggio e di connessione che dovrebbero essere immersi nella natura circostante. Siccome hanno una sola specifica funzione, le persone ci camminano,

questi spazi dovrebbero essere molto vari e piacevoli. Il mio approccio all’architettura religiosa enfatizza questa mia attitudine.

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EXIT


Il bene deve essere fatto da tutti, non da uno solo di Giuseppe Montesano

C aro Vincenzo, la realtà non sempre è lineare. Ti ricorderai che abbiamo parlato a lungo della possibilità che io scrivessi un racconto sull’arte religiosa, e delle mie perplessità su questo ossimoro. Come può la verità della religione unirsi alla menzogna dell’arte? Ma la realtà è sempre in agguato, e proprio io che non credo alle sorprese della realtà ma solo a quelle dell’immaginazione, ora sono costretto a raccontarti una storia vera. Tutto è cominciato da un vecchio aneddoto che Antonio Franchini, l’editor della narrativa italiana della Mondadori, mi aveva


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raccontato molti anni fa. La storia era quella di un giovane editor di talento, S., che dopo un brillante inizio di carriera in una grande casa editrice, si era licenziato ed era sparito nel nulla. O meglio: quasi, nel nulla. Antonio raccontava la storia strizzando nevrotico una palla di gomma tra le dita adunche, e sembrava che vedesse S. davanti a sé, in carne e ossa, in quel preciso momento… Ma non capisci? Il ragazzo ha fede, crede nella letteratura, nella nobiltà dello spirito, nella grandezza dell’arte. Ma una volta seduto in un ufficio importante deve darsi da fare per i premi, telefonare a X e a Y, implorarli, corromperli per un voto. S. deve provare l’umiliazione di vedere scrittori che riteneva superiori a tutto piangere di invidia, fingere di avere il cancro per vincere un premio miserabile, senza dignità, senza onore. Li sente parlare ore al telefono per lamentarsi di aver venduto poco, per frignare di non avere abbastanza pubblicità, per minacciare di andare da un altro editore; li sente parlare con odio di scrittori con i quali un’ora prima si sono abbracciati come fratelli; li osserva starnazzare per una camera d’albergo piccola, incupirsi per un posto d’angolo al ristorante, e sempre preoccupati di miserie: «Ma sto bene, in questa fotografia? Non si vede troppo il naso storto? Non ho l’aria un po’ invecchiata?». E i giovani! Come S. sarà stato deluso dai giovani! Prima ingenui e spaesati, nemici dei

vecchi, pieni di fuoco e di coraggio: e poi uguali a quelli che avevano disprezzato solo un attimo prima, pronti a sgomitare, invidiosi del talento dei nuovi giovani, timorosi che qualcuno scalzi il loro ridicolo potere! E una volta arrivati, pronti a specchiarsi fino alla nausea nell’applauso di quella massa che disprezzavano… Così un giorno il brillante e colto S. si era licenziato, e, diceva Antonio fissandomi incupito e artigliando la palla di gomma come se volesse farla a pezzi, pareva che fosse entrato in convento. Ma era vero? Nessuno lo sapeva con esattezza. Almeno fino a poco tempo fa. Il fatto è che meno di una settimana fa io ho conosciuto S., e ancora non ci credo. Ti parlerò poi a voce delle strane casualità che mi hanno portato a curiosare nella sua vita e a incontrarlo: dalla telefonata di Antonio che diceva di aver scoperto dov’era il convento di S., al mio invito in una grande città famosa e fin troppo raccontata dove come sai sono andato per delle conferenze sull’arte e dove si diceva che vivesse l’ex enfant prodige. Perché S. abbia accettato di parlarmi, non lo so; ma so che gli devo qualcosa, qualcosa che forse riuscirai a capire dalle poche cose che ti racconterò. S. è alto, magro e longilineo, ma dotato di una grande forza fisica. Quello che Antonio raccontava era vero: una volta abbandonato il suo lavoro, S. era entrato in convento. Ma lì ci stava male, era irrequieto,


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e aveva cominciato a dipingere. Pare che dipingesse su cartacce, cartoni, scatoli, pezzi di immondizia che raccattava dai bidoni del convento e su cui stendeva colori e parole. Nessuno di quei lavori è sopravvissuto all’autodafé di S., e quindi è molto difficile farsene un’idea. L’unico a saperne qualcosa è un Padre del convento che ha accettato di parlare con me solo dopo molte reticenze. Le “opere” di S. erano a suo dire «anonime e ordinarie», e secondo Padre Carlo avrebbe potuto farle chiunque: tranne due pezzi «molto commoventi e belli» che S. si era affrettato a distruggere e di cui Padre Carlo non voleva parlare. Perché li aveva distrutti? A sentire il vecchio monaco, la risposta di S. sarebbe stata che quei lavori erano una menzogna. Sembra che dopo aver distrutto ogni cosa S. abbia detto che fino a quel momento era stato un cieco, e che era una bestemmia «elevare l’immondizia sul piano dell’arte», perché quelle carte lacerate e storte e unte erano «già una forma perfetta di arte», ma lo erano «solo restando lì dove si trovavano», mentre portate altrove da «un artista che si faceva bello grazie alla loro morte» diventavano una forma evidente del Male, anzi diventavano, così si era espresso S., «una delle più subdole astuzie del Principe di questo mondo», e lui, S., non avrebbe mai più lavorato dalla parte del Male. Mantenne fede al suo giuramento? Forse sì, o forse no: giudica tu. S. vive, o forse dovrei dire sopravvive, in una delle periferie più oscene del nostro Occidente, uno di quei luoghi che le grandi città partoriscono come un’ombra cupa della loro ricchezza. Se dovessi dirlo seccamente, direi che S. aiuta i poveri e gli ultimi: ma non credo che sia esatto. Lui dice reciso che sta lavorando a «un’opera d’arte», e non fa della carità; dice che non ha «abbastanza energia per essere caritatevole», e che a lui in realtà interessa «la bellezza del gesto»; e sostiene che una vera opera d’arte non deve essere «per forza vissuta nei modi soliti» ai quali siamo abituati. Ma come farti capire? Immaginati che parla di queste cose in mezzo a uno sfacelo senza nome, nel quale non ho resistito nemmeno mezza giornata, in mezzo a bambini impazziti di rabbia e a dementi di ogni specie; pensa a un uomo di forse sessant’anni, bello ma trasandato, vestito come un dandy ma con un impermeabile consumato e con piccoli strappi un po’ dovunque, a lungo paziente con le richieste più assurde dei disgraziati e improvvisamente avulso da tutti, sprofondato in una specie di abulia trasognata. E quest’uomo che in realtà fa del bene, o, almeno, fa quello che noi chiamiamo “bene”, nega assolutamente di essere buono, e sostiene di essere «solo un miserabile artista»! Non è bizzarro? Tu mi chiederai, so che ci stai pensando, se è semplicemente pazzo: e io non so risponderti. Non sembra né esaltato né depresso, ma molto equilibrato. È anche capace di parlare di qualsiasi cosa, e mi ha fatto ridere con la descrizione ironica del se stesso giovanile che fugge via dalla grande casa editrice perché stava distruggendo la sua «fede bambinesca» negli artisti. Sembra conoscere con precisione

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Giuseppe Montesano | Il bene deve essere fatto da tutti

le correnti artistiche anche più recenti, e non è affatto il tipo ingenuo o genere buon selvaggio: figurati che si porta sempre appresso un piccolo computer molto sofisticato, e lo usa davvero con grande abilità. Allora, a un certo punto, lo sai come siamo fatti, io non ho resistito, e ho cominciato a pensare a quale straordinaria performance poteva essere quella che lui chiamava “la mia opera”: vedevo i titoli dei giornali e le telecamere, immaginavo i percorsi in quei suburbi orribili e in quella miseria mediocre, e pensavo già alla nuova “Arte del Bene” da lanciare come superamento della sterilità del Contemporaneo. Lo so, so già che vuoi dire, mi sono vergognato anch’io: ma come resistere alla tentazione? E così, un po’ leggermente, gli ho detto a cosa stavo pensando. E qui la mia storia è praticamente finita, amico mio. Lui mi ha ascoltato con attenzione, sorridendo non so se ironico o interessato, mi ha fatto addirittura delle domande tecniche, e poi ha detto che ci avrebbe pensato. Ti rendi conto? Quando è affondato nel mare di foschia ho pensato che non avevo capito niente. E infatti… Ti scrivo dalla camera d’albergo, e ho poco da dirti. S. si è come dissolto. Da tre giorni lo cercano tutti, ma sembra letteralmente svanito nel nulla. C’è un gruppo al quale lui faceva capo, di Padri Comboniani, ma non sanno niente. Si limitano a ripetere che è già capitato che partisse senza avvertire nessuno, e che non riesce a stare a lungo in un posto. Sarà vero? Mah! Le conferenze per cui ero venuto qui sono terminate, oggi nel primo pomeriggio parto, e francamente S. mi appare ora solo uno svitato. La carità è un’arte? Esiste un’arte della carità? Chi lo sa! L’arte dovrebbe essere un’apparizione della Bellezza, io credo: quello che fa S., la sua “opera”, è questo? Decidi tu! Ma dovresti spiegarmi poi anche perché S. insisteva tanto sul suo essere «solo un miserabile artista», e non un uomo capace di bene. Ha forse a che fare con l’arte religiosa

tutto ciò? Non so nemmeno questo. L’unica cosa di cui sono convinto da tempo è che la realtà supera di gran lunga qualsiasi immaginazione, e la storia di S. ne è una conferma. Ah, dimenticavo! Le ultime parole che S. mi ha detto l’altra sera, accompagnate da una risata, non mi escono dalla testa: «Il bene non ha bisogno di essere visto da nessuno. Capisce? Io non ci sono arrivato ancora, e forse è tardi. Il Bene deve essere fatto da tutti, non da uno solo…». Mi ricorda qualcosa, quella frase, ma che cosa? Caro Vincenzo, come sai ignoro tutto di teologia, ma temo che S. commetta un peccato di superbia. Comunque, basta su di lui! Preparati, ti ho portato una vera delizia, starà bene nella tua collezione di arte religiosa: una statuetta lignea del ’700 dipinta da un artista anonimo che mi sembra davvero un lavoro raffinato: è alta non più di 25 centimetri, ma il volto della Madonna è stupefacente, molto volage, e le mani non posso descrivertele: devi vederle! È una specie di Pietà, ma la modella ha un’aria così sensuale che sarai sorpreso. Qui si trova ancora qualche bel pezzo di arte religiosa… A presto, amico mio!

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di Nino Longobardi dell’arte è già qualcosa di sacro. Altrimenti è banale. Una volta, chi lavorava I sul gesto commissione era mosso da uno scopo teologico. Oggi quello scopo non c’è più.

Lo spirito esiste se l’artista è in un momento di grazia. Già il fare ha a che fare con il divino. È quello lo spirito. Se qualcos’altro c’è “al di là”, è molto banale. Se Dio c’è, è molto banale. I miei segni nascono dalla materia. Il segno mi chiede di esistere: prende parte dello spazio infinito dell’immaginazione. I miei disegni “mistici” non hanno titolo. Perché i titoli sono una gabbia: non si possono aggiungere dopo. Io sono contro i titoli. Sono contro lo spirito aggiunto. Le mie non sono sagome. Sono disegno e colore: e vivono in una dimensione corporale. La morte, quando c’è, è grottesca e ridondante: mi interessa come architettura della morte. Nei miei fogli, c’è anche il Cristo: che è quasi un ready made. È senza intenzione. È bello e fatto, come un albero. È una presenza dall’immobilità inalterabile. Un’idea fissa in continuo movimento. C’è una moltitudine di significati che gli si possono attribuire. C’è una moltitudine di significati che si può attribuire all’arte. Ma non si può spiegare o parlare dell’arte, altrimenti non è più sacra. Altrimenti non è più arte.

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autori


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Tadao Ando (1941) Architetto giapponese, tra le opere da lui firmate: il Naoshima Contemporary Art Museum, il Suntory Museum, il Museum of Literature and the Forest of Tomba Museum in Kumamoto, la chiesa della luce ad Osaka, la cappella sull’acqua a Tomamu, il tempio sull’acqua alle isole Awajishima, l’edificio Fabrica per Benetton a Treviso, il Giorgio Armani Theater a Milano, il Japan Pavilion all’Expo ’92 a Siviglia. Nel 1995 ha vinto il Premio Pritzker. Tra le pubblicazioni a lui dedicate: K. Frampton, Tadao Ando: Buildings, Projects, Writings, 1984; R.J. Van Vynckt, International Dictionary of Architects and Architecture, 1993; F. Dal Co, Tadao Ando: Complete Works, 1997; F. Dal Co. Tadao Ando / volume 1 1969-1994, 2008.

Marco Biraghi (1959) Dal 2003 è insegna Storia dell’architettura contemporanea presso la Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano. Ha collaborato con diverse riviste di architettura, tra i suoi libri: Hans Poelzig. Architectura, Ars Magna, 1992; Porta multifrons. Forma, immagine, simbolo, 1992; Guida all’architettura del Novecento a Vienna, Budapest e Praga, 1994; Béla Lajta. Ornamento e modernità, 1999; Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, 2005. Ha inoltre curato la riedizione dei Quattro libri dell’architettura di Andrea Palladio, 1992; l’edizione italiana di Delirious New York di Rem Koolhaas, 2001; e raccolte di scritti di Henri Focillon, Ezio Bonfanti e Reyner Banham.

AUTORI


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Gregorio Botta (1953) Giornalista e artista italiano, lavora sulla trasformazione della materia. Ha esposto in numerose gallerie e una sua scultura è stata acquisita dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Gregorio Botta: Fuori luogo, 1998 (a cura di L. Pratesi); Gregorio Botta, 2001; Gregorio Botta: opere recenti, 2001; Gregorio Botta, 2003; Gregorio Botta: dove sei. Opere 20052006, 2006.

Mario Botta (1943) Architetto svizzero, fondatore dell’Accademia di architettura di Mendrisio, è stato premiato con importanti riconoscimenti internazionali. Tra le opere da lui firmate: la galleria d’arte Watari-um a Tokio; la mediateca a Villeurbanne; il SFMoMA a San Francisco; la cattedrale della Resurrezione a Evry; il museo Jean Tinguely a Basilea; la sinagoga Cymbalista a Tel Aviv; la biblioteca di Dortmund; il MART a Rovereto; la torre Kyobo a Seoul; il centro pastorale Giovanni XXIII a Seriate; la ristrutturazione del Teatro alla Scala di Milano e la chiesa del Santo Volto a Torino. Tra le pubblicazioni a lui dedicate: Mario Botta. Architettura e progetti negli anni ’70, a cura di Italo Rota, 1979; P.L. Nicolin e F. Chaslin, Mario Botta, 1978-1982. Laboratoire d’architecture, 1982; Mario Botta. Architettura 1960-1985, a cura di F. Dal Co, 1985; Mario Botta. Il museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, 1995; M. Botta e D. Fertilio, La lingua degli angeli, 2006.


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Mario Codognato (??) Storico e critico d’arte, è capo curatore del MADRE di Napoli. Ha curato importanti mostre internazionali tra cui: Piero Manzoni (Londra, 1989), la 45a Biennale di Venezia (con A. Bonito Oliva e A. Von Fürstenberg), la 46a Biennale di Venezia (con D. Sylvester). Cura diverse edizioni delle installazioni di piazza Plebiscito a Napoli: Robert Rauschenberg, 1999; Anish Kapoor, 2000; Joseph Kosuth, 2001; Jenny Holzer 2006 (con E. Cicelyn). Dal 2002 al 2005 cura le mostre degli Annali delle Arti a Napoli. Collabora con «Il Domenicale» del “Sole 24 Ore», ed è corrispondente dall’Italia per «Artforum». Tra le sue pubblicazioni: Eco nell’oscurita. Jannis Kounellis. Scritti e interviste 1966-2002 (con M. d’Argenzio), 2002; Anish Kapoor (con E. Cicelyn e M. d’Argenzio), 2003; Jeff Koons (con E. Geuna), 2003; Roberto Caracciolo, 2004; Damien Hirst (con E. Cicelyn e M. d’Argenzio), 2004; Jannis Kounellis (con E. Cicelyn), 2006; Struth, 2008.

F�lix de Azúa (1944) Scrittore spagnolo, autore di numerosi romanzi, raccolte di poesie e saggi filosofici e letterari. Collabora con «El País» e «Periódico» e insegna Estetica alla Escuela de Arquitectura della Universidad Politécnica de Cataluña. Annoverato tra i Nueve novísimos poetas españoles, le sue poesie sono raccolte in Última sangre, 2007. Tra le sue pubblicazioni: Cepo para nutria, 1968; El velo en el rostro de Agamenón, 1970; Diario de un hombre humillado (Premio Herralde), 1987; Demasiadas preguntas y Momentos decisivos, 2000. Tra i saggi: Baudelaire, 1997; Lecturas compulsivas, 1998; Diccionario de las Artes, 1995; La pasión domesticada, 2007.

AUTORI


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Massimo Don� (1957) Professore di Filosofia teoretica, insegna presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. I suoi interessi si muovono tra l’ambito teoretico e quello estetico. Tra i fondatori di «Paradosso», scrive su numerose riviste filosofiche e di architettura. Tra le sue pubblicazioni: Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, 1992; Epifanías admirables. Apogeo y consumación de la Antigüedad, 1996; Supremazia e maledizione, 1998; Arte Tragedia Tecnica, 2000 (con Massimo Cacciari); Aporia del fondamento, 2000; L’uno, i molti (Rosmini-Hegel, Un dialogo filosofico), 2001; Joseph Beuys. La vera mimesi, 2004.

Gillo Dorfles (1910) Critico d’arte, pittore e filosofo italiano è professore di Estetica presso le Università di Trieste e di Milano; nel 1948 fu tra i fondatori del Movimento per l’arte concreta e nel 1956 diede il suo contributo alla realizzazione dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale). È autore di numerose monografie su artisti di varie epoche (Bosch, Dürer, Feininger, Wols, Scialoja), e di un noto saggio sul disegno industriale: Il disegno industriale e la sua estetica, 1963. Tra le sue pubblicazioni: Barocco nell’architettura moderna, 1951; Discorso tecnico delle arti, 1952; L’architettura moderna, 1954; Il divenire delle arti 1959; Nuovi riti, nuovi miti, 1965; Il Kitschantologia del cattivo gusto, 1972; Horror pleni - La (in)civiltà del rumore, 2008; Arte e comunicazione, 2009.


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Brian Eno (1948) Musicista polistrumentista, compositore e produttore discografico britannico, sperimenta le diverse forme espressive come scultore, pittore e video artista. Pioniere del genere Ambient, crea colonne sonore per film, tracce per videogame e musiche d’atmosfera. Tra le sue composizioni: Discreet Music, 1975; Music For Films, 1978; Music For Airports, 1979; My Life In The Bush Of Ghosts, 1981; Another Day On Earth, 2005. Ha pubblicato i libri Music For Non Musicians (1968) e Oblique Strategy (1975) in cui espone le sue teorie “non-musicali”. Tra le pubblicazioni a lui dedicate: R. Bertoncelli ,Brian Eno, 1982; E. Tamm, Brian Eno: His Music and the Vertical Color of Sound, 1989.

Jannis Kounellis (1936) Pittore e scultore greco, è stato associato al movimento dell’Arte Povera fin dagli esordi negli anni Sessanta. Tra le sue più note installazioni, Senza Titolo (12 cavalli), 1969 testimonia il rapporto tra lo spazio culturale dell’arte e quello naturale. Ha esposto alla XXV Biennale di Venezia, alla “Zeitgeist” a Berlino (nel 1982), nel 1986, al Museum of Contemporary Art di Chicago e nel 1989 all’Espai Poblenou di Barcellona e alla Reggia di Capodimonte a Napoli. Tra le pubblicazioni a lui dedicate: Kounellis, 1997 (a cura di M. Meneguzzo); Kounellis, 2002; Jannis Kounellis, 2003 (a cura di G. Moure).

AUTORI


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D�borah Laks

Nino Longobardi (1953) Pittore italiano, la sua ricerca si concentra sulla figura umana sintetizzata da pochi tratti di pennello, matita e carboncino. I temi ricorrenti sono legati alla rappresentazione del corpo e della morte, in una radicale scarnificazione della fisicità umana. Nel 1982 partecipa a Italian Art Now: an American Perspective, al Guggenheim di New York, e ad Avanguardia e Transavanguardia alle Mura Aureliane a Roma. Seguono le mostre all’Istituto d’Arte Contemporanea di Boston e alla Fondazione Mirò di Barcellona (1983), alla Nationalgalerie di Berlino (1986), al Grand Palais di Parigi (1987) e al Museo d’Arte Contemporanea di Copenhagen (1988). Personali gli sono state dedicate a Palazzo Reale di Milano (1998) a Castel Nuovo di Napoli (1999), alla Galleria Civica di Modena (2000) e al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (2001). Tra le opere a lui dedicate: Nino Longobardi: opere recenti, 1998; Nino Longobardi, 2000; Physis. Nino Longobardi, a cura di F. Gualdoni e V. Trione, 2001; Nino Longobardi, 2003.


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Luca Molinari (1966) Storico e critico dell’architettura, insegna storia dell’Architettura contemporanea presso la Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” della Seconda Università degli Studi di Napoli. È responsabile editoriale per l’architettura di Skira, direttore di “The Skira Yearbook of World Architecture” e collabora con riviste internazionali di architettura tra cui «Lotus», «Abitare», «Domus» e «L’architecture d’aujourd hui». Ha curato la riedizione dei libri di Ernesto Nathan Rogers: Esperienza dell’architettura, 1997; Tra le sue pubblicazioni: Barcellona. Architetture e spazi urbani 1975-1992, 1998; Atlante. Tendenze dell’architettura americana contemporanea. 19002000, 2001; Massimiliano Fuksas. 1970-2005, 2005; Italo Rota: projects, works, visions 1997-2007, 2008.

Giuseppe Montesano (1959) Scrittore italiano, collabora con «il Mattino» e l’«Unità». È traduttore di opere di autori francesi come La Fontaine, Gautier, Flaubert, Villiers de l’Isle-Adam e Baudelaire. Di quest’ultimo, con G. Raboni, ha curato la nuova edizione delle Opere per i “Meridiani”, 1996. È curatore di Una settimana di bontà. Tre romanzi per immagini de Max Ernst, 2007 e La nascita di Venere: scritti sull’arte (con V. Trione), 2007. Tra le sue pubblicazioni: Nel corpo di Napoli, 1998; A capofitto, 2001; Di questa vita menzognera, 2003; Magic people, 2005; Il ribelle in guanti rosa. Charles Baudelaire, 2007.

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Ermanno Olmi (1931) Regista, sceneggiatore e documentarista italiano, con il suo capolavoro, L’albero degli zoccoli (1978), si aggiudica la Palma d’Oro al Festival di Cannes e il Premio César per il miglior film straniero. Nel 2008 riceve il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. Tra i suoi film Il posto, 1961; La leggenda del santo bevitore (1988), Il mestiere delle armi, 2001; Cammina, cammina, 1982; Terra madre, 2009; Tra le sue pubblicazioni: Ragazzo della Bovisa, 2004; Centochiodi del 2007; Gli anni di Edison. Documentari e cortometraggi (19541958), 2008; Il sentimento della realtà, 2008.

Gianfranco Ravasi (1942) Arcivescovo di Villamagna di Proconsolare, è sacerdote della diocesi milanese dal 1966. Prefetto della Biblioteca Ambrosiana, docente di Esegesi Biblica alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, membro della Pontificia Commissione Biblica e Pronotario Apostolico. È presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra. Collabora con «Il Sole 24 Ore», «Avvenire», «Famiglia Cristiana» e «Jesus». Tra le sue principali pubblicazioni: Antico Testamento, 1993; Il racconto del cielo, 1995; La Buona Novella, 1996; Il Dio vicino, 1997; La Parola e le parole, 1999; Apocalisse, 1999; Preghiere, 2000; I monti di Dio, 2001; I comandamenti, 2002; Il bello della Bibbia, 2004. Breve storia dell’anima, 2003; Le sorgenti di Dio, 2005; Ritorno alle virtù, 2005.

Vincenzo Vitiello (1935) Filosofo italiano, dal 1980 è professore ordinario di Filosofia teoretica presso il Magistero dell’Ateneo di Salerno. Studioso dell’idealismo classico tedesco, ha elaborato una propria teoria ermeneutica, la “Topologia”, fondata sulla reinterpretazione del concetto di spazio. Condirettore di «Paradosso», collabora all’annuario Filosofia edito da Laterza, a «Aut Aut», a «Il Pensiero», a


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Barbara Rose (1939) Critica d’arte, docente all’American University di Washington, è direttore del programma dell’Istituto Internazionale dell’Arte e dell’Architettura a Corciano, in Umbria. Tra le principali pubblicazioni: American Art since 1900, 1967; Pavilion: Experiments in Art and Technology, con B. Klüver e J. Martin, 1972; Alexander Liberman, 1981; American Painting, The Eighties: A Critical Interpretation, 1979, Rauschenberg, 1987; Le monocrome. De Malevitch a aujourd’hui (con Cristopher K. Ho), 2004; Paradiso Americano, 2008.

Pierangelo Sequeri (1944) Sacerdote della diocesi di Milano, è un teologo, scrittore e musicista italiano. È professore ordinario di Teologia fondamentale e vicepreside della Facoltà Teologica dell’’talia Settentrionale, e incaricato di Estetica teologica presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. È direttore della rivista «L’ErbaMusica». Tra le sue pubblicazioni: Divertimenti per Dio. Mozart e i teologi, 1990; Estetica e teologia, 1991; Antiprometeo. Il teologico e il musicale, 1995; Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, 1996; Il timore di Dio, 1997; L’estro di Dio. Saggi di estetica, 2000; Sensibili allo spirito. Umanesimo e religione, 2001; Musica e mistica. Percorsi nella storia occidentale delle pratiche estetiche e religiose, 2005.

Adriano Sofri (1942) Giornalista e scrittore italiano, ex leader di Lotta Continua. A lungo titolare di una rubrica su «Panorama», collabora con «la Repubblica» e «Il Foglio». Tra le sue pubblicazioni: Memoria, 1990; L’ombra di Moro, 1991; Le prigioni degli altri, 1993; Il nodo e il chiodo, 1995; Lo specchio di Sarajevo, 1997; Piccola posta, 1999; Chi è il mio prossimo, 2007; La notte che Pinelli, 2009.

AUTORI


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Vincenzo Trione (1972) Storico e critico dell’arte, insegna Storie e progetto dell’arte contemporanea presso la Facoltà di Architettura “Luigi Vanvitelli” della Seconda Università degli Studi di Napoli. Collabora con «Il Mattino» e il «Corriere della Sera». Ha curato mostre d’arte contemporanea in Italia e all’estero. Tra le principali pubblicazioni: Il poeta e le arti. Apollinaire e il tempo delle avanguardie, 1999; Dentro le cose. Ardengo Soffici critico d’arte, 2001; Le monocrome. De Malevitch a aujourd’hui (avec Barbara Rose, Cristopher K. Ho), 2004; Atlanti metafisici. Giorgio de Chirico: arte, architettura, critica, 2005; I luoghi e l’anima. Mario Sironi / Constant Permeke, 2005; El siglo de Giorgio de Chirico. Metafísica y arquitectura, 2007; La nascita di Venere: scritti sull’arte (a cura di G. Montesano e V. Trione), 2007; Le città del silenzio. Giorgio de Chirico: arte, architettura, profezia, 2009; Confines. Passajes de las artes contempoaraneas, 2009.

Bernar Venet (1941) Artista francese, è tra i protagonisti dell’arte concettuale. La sua ricerca monocromatica, fedele all’uso del nero, esprime un rifiuto per la comunicazione immediata e banale. Ha esposto alla Biennale di Venezia (1978), alla Biennale di Seul (1995) e in numerosi musei internazionali. Nel 1994, la città di Parigi lo invita a esporre, presso il Campo di Marte, dodici delle monumentali Indeterminate Lines. Tra le pubblicazioni a lui dedicate: C. Millet, Bernar Venet, 1974; B. d’ Amore, T. Kuntzel, F. Menna, Textes Théoriques sur Bernar Venet, 1975; C. Besson, B. Venet, La Conversion du regard, Textes entretiens, 1975-2000, 2000; A. Pierre, Bernar Venet “Le discours et la méthode”, 2000; D. Kuspit, Bernar Venet. The Sublime in Mathematics, 2003; B. Venet, Art: A Matter of Context. Bernar Venet: Writings 1975-2003, 2004; L’hypothèse de l’Arc, 2005; T. Lenain, T. Mcevilley, B. Venet, Bernar Venet, 2007.


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direttore: vincenzo trione adriano sofri gianfranco ravasi pierangelo sequeri massimo don� vincenzo vitiello vincenzo trione gregorio botta f�lix de az�a marco biraghi gillo dorfles barbara rose ermanno olmi brian eno jannis kounellis bernar venet mario botta tadao ando giuseppe montesano nino longobardi


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