Israele fra isolamento ed emergenza “Quando gli occidentali guardano cosa sta accadendo in Egitto rivedono l’Europa nel 1989, noi invece rivediamo Tehran nel 1979”. Israele non ha mai creduto alla tesi della primavera araba. Per quanto le diverse sedi dell’intelligence, i centri di ricerca, i quotidiani impegnati analizzino costantemente l’ambiente regionale circostante, nessuno aveva previsto le rivolte e le rivoluzioni del 2011. Israele, come gli altri, ma in modo più inspiegabile di altri, è stato colta di sorpresa. Come scrive Daniel Byman, Israele è una “democrazia dello status quo”, una potenza intelligente ma conservatrice, abituata a privilegiare le preoccupazioni immediate rispetto alle conseguenze strategiche dei cambiamenti. Nel settembre 2011, mentre infuriava il confronto diplomatico alle Nazioni Unite, il quotidiano Haaretz pubblicò alcuni estratti di un documento riservato del Ministero degli Esteri e alcune memorie prodotte dallo Shin Bet e dal Mossad (i servizi di intelligence per gli affari interni e internazionali). Si descriveva una condizione di isolamento del Paese senza precedenti, invitando l’esecutivo ad assumere un’iniziativa diplomatica verso i palestinesi che potesse migliorare la propria posizione e percezione all’estero. Netanyahu non ha problemi di consenso o di popolarità. Sui temi della sicurezza, Israele la pensa come il suo Primo Ministro. Se egli avesse mantenuto la promessa, o la minaccia per altri, di andare a elezioni anticipate, avrebbe sicuramente riconquistato un altro mandato, fenomeno non frequente nella vivace politica israeliana. Il partito Kadima, guidato dall’ex Presidente della commissione difesa della Knesseth Shaul Mofaz, che ha battuto alle elezioni primarie l’ex
ministro degli esteri Tzipi Livni, ha accettato precipitosamente un accordo, durato solo dieci settimane, quando i sondaggi gli davano percentuali di consenso bassissime. La sinistra del partito laburista, decimata dall’abbandono del suo leader Ehud Barak, traghettato verso i banchi del governo, si è affidata anch’essa con elezioni primarie a Shelly Yachimovich, e ha scelto di sfidare il governo sui temi del disagio economico e sociale, cercando di interpretare la protesta del movimento “Occupy”, molto attivo anche in Israele. La pace, il negoziato con i palestinesi, sembra scomparso dal dibattito interno. Opuscoli come quello edito nel settembre 2011 dal Centro Peres di Jaffa sulle ragioni che rendono conveniente per Israele appoggiare la nascita di uno Stato palestinese, appaiono completamente dissonanti rispetto alla sensibilità
media
dell’opinione
pubblica.
Secondo
le
indagini
demoscopiche, l’obiettivo di un’intesa definitiva con i vicini è auspicato fra coloro che hanno più di cinquantacinque anni, ma scende a livelli minimi, ed è comunque ritenuto impraticabile, dalla maggioranza di coloro che hanno meno di trentacinque anni. Gli editorialisti dei quotidiani progressisti hanno provato più volte a sollecitare il dibattito attorno
a
questo
tema,
denunciando
con
preoccupazione
l’abbassamento delle “difese immunitarie” della società israeliana, così indurita da questo conflitto permanente da divenire insensibile di fronte alle notizie sugli incidenti con i palestinesi, alla vittime civili collaterali, alla disumanizzazione della vita nei villaggi circondati dal Muro di sicurezza israeliano. Benjamin Netanyahu e Barack Obama non si amano e si capiscono poco…….