sytybpla
alfabeti smaterializzazione progressiva verso la Torah
di Rosa Tricarico relatore: Andrea Branzi
correlatore: Christian Galli
Politecnico di Milano FacoltĂ di Design | Corso di Design degli Interni
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Premessa
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atto primo
sommario
Una sinagoga presso i gasometri della Bovisa Il gasometro Esempi di riqualificazione dei gasometri Lo spazio della Sinagoga Il progetto
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parte seconda In principio era l’immagine Il concetto di immagine presso Platone L’Ebraismo come cultura aniconica Pro e contro le immagini Le immagini fonetiche Le lettere ebraiche e la Qabbalah La lettera come segno Origini dell’alfabeto ebraico Scrittura e fonetica Relazioni tra alfabeto e giudaismo La manipolazione delle lettere La lettera tra arte e architettura I testi pittografici
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atto terzo Progetto drammatico in tre atti Andreij Rubliov, Andrej A. Tarkovskij - 1965 Atto unico. Jannis Kounellis, 1998 Il logocentrismo di Peter Eisenmann Richard Serra. Clara Clara 1983 Il progetto decorativo e la superficie attiva La parete di “caratteri mobili” Il punto e la composizione dell’alfabeto De Young Museum. Herzog and de Meuron, 2005 Il rigo grafico del carattere Il “Cimitero per gli ignoti”. Hideki Yoshimatsu, 1998 Drammaticità nascosta The Feral Works. Becky Beasley, 2004 L’evanescenza di Francesca Woodmann
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Bibliografia
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progetto drammatico in tre atti
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Premessa
Lettere che si impongono nello spazio, che attraversano le pareti e che le compongono, che prendono mosse dal concreto per raggiungere l’astratto e che si combinano per creare parole. Sono immagini libere di poter danzare nello spazio della Sinagoga, le uniche concesse. Sono l’elemento di contatto tra Dio e uomo. Nella cultura ebraica incarnano le energie divine che dirigono e creano l’Universo materiale. Riuniscono in sé una serie di insegnamenti racchiusi nella triade “suono, forma, numero”. Creano vita e ogni uomo può creare il mondo componendo le lettere del tetragramma nell’ordine stabilito dalla Kabbalah.
Si dispongono su tre pareti, tre elementi scultorei che dividono gli spazi, variando progressivamente in altezza, curvatura e inclinazione. Operano un passaggio graduale dalla parete inclinata, protagonista dell’intero spazio, alle paratie metalliche, “elementi superstiti” della struttura industriale del gasometro. Esaltano l’espressività del materiale di cui sono composte, comparendo prima come volumi, poi come fessure e infine come semplici elementi pittorici. La loro distribuzione e conformazione è un’opera di decontestualizzazione di schemi ed elementi che appartengono al mondo della tipografia, da sempre legata al contesto culturale-religioso.
L’atmosfera che le avvolge è un misto di drammaticità e precarietà che richiama simbolicamente la storia tragica dell’Olocausto e del Nazismo. Si tratta di spazi in cui si esplica la presenza dell’assenza, in cui gli oggetti sembrano abbandonati, dimenticati, come se la loro collocazione fosse del tutto casuale. Talvolta sono coperti da feltro, talaltra da garza; talvolta sono esili, talaltra si impongono per la loro fisicità. Sono però oggetti reali, utilizzabili, pur nella loro pericolosa inagibilità, che tralasciano le loro mansioni per poter passare inosservati.
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Le pareti dominano l’intero spazio della Sinagoga grazie al gigantismo che le caratterizza, spostando così l’attenzione sugli elementi decorativi. Le variazioni di inclinazione e curvatura disorientano il visitatore, lo conducono in una “promenade meditativa” in cui la tensione spirituale lo porta a spingersi sempre più in là, verso la luce e verso lo spazio della Torah.
Il lavoro di ricerca parte dall’analisi dello spazio: prima quello industriale, ovvero il contesto in cui si interviene, e poi quello della sinagoga. Si passa successivamente alla definizione dell’ebraismo come cultura aniconica, per poi approfondire le tematiche legate al tema dell’alfabeto e della composizione grafica dei testi. L’ultima parte, dedicata al progetto, descrive gli ambiti di intervento citando i riferimenti architettonici, artistici, fotografici e cinematografici che ne hanno ispirato le idee.
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Atto primo Una sinagoga presso i gasometri della Bovisa
Il progetto, sviluppato durante il laboratorio di sintesi, parte dall’approfondimento di due tematiche fondamentali per l’attuale cultura del progetto di interni: quella del riuso dei grandi contenitori industriali dismessi (i gasometri di Bovisa), e quella della realizzazione nel loro interno di uno spazio dedicato alla cultura e ai riti della religione ebraica. Si tratta della progettazione di un luogo dall’alto contenuto spirituale, attraverso l’uso di materiali che si caratterizzano per la loro espressività, ma anche di tutte quelle strutture immateriali (luce, vuoto, tonalità di colore) in grado di concorrere a creare un livello spaziale di alta qualità emotiva. Il fenomeno di dismissione urbana, in corso da una decina d’anni, si è diffuso, e continua a diffondersi, in tutte quelle città che appartenevano al mondo industriale. Contemporaneamente si sta sviluppando un uso “improprio” di tutte le strutture esistenti. Le fabbriche, i magazzini, i depositi industriali, le cantine si sono progressivamente trasformati in spazi per la cultura, atelier di moda, teatri, gallerie d’arte, uffici, abitazioni e così via. Sono cambiate le funzioni dell’abitare e del lavorare, e ,con loro, le destinazioni d’uso
di determinati spazi. All’interno delle città si assiste ad un processo di riorganizzazione delle funzioni, che tende a valorizzare quelle aree un tempo soggette a degrado e scarsa integrazione con il resto dell’abitato. Qualcosa di simile era accaduto durante il XIX secolo nelle città durante le campagne napoleoniche, con la soppressione dei beni ecclesiastici, che immisero sul mercato un gran numero di conventi, abbazie, certose, trasformate successivamente in caserme, prigioni, scuole. A distanza di cento anni il vasto patrimonio edilizio non era stato ancora del tutto assorbito, e molte di quelle dismissioni non sono state ancora risolte. Quello attuale è un processo di deregulation, dove ogni gesto progettuale concorre a creare le condizioni di un sistema flessibile, policentrico, reversibile, che vede la graduale scomparsa delle cosiddette “cattedrali nel deserto”.
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Il gasometro I gasometri di Bovisa, che un tempo facevano parte di un vasto sistema industriale oggi dismesso, si trovano al centro di un vasto distretto dedicato all’innovazione, dove sono presenti le Facoltà tecniche e del progetto del Politecnico, il Conservatorio musicale, la Triennale e vari altri organismi culturali, e confina con quartieri di immigrati, diventando una delle cerniere della nuova realtà multietnica, e di conseguenza multi-religiosa, di Milano. Il gasometro è una struttura destinata ad immagazzinare il gas a temperatura e pressione quasi naturali. Il volume del serbatoio si adatta alla quantità di gas immagazzinata, mentre la pressione a cui il gas è sottoposto all’interno di esso deriva dal peso di un tetto mobile. Si presta ad un uso come serbatoio per l’immagazzinamento a breve termine tra produzione e consumo. Attualmente i gasometri sono sempre meno usati e rappresentano più dei monumenti di archeologia industriale che delle vere e proprie infrastrutture. In passato infatti i gasometri venivano utilizzati per accumulare il cosiddetto “gas di città”, essenzialmente Syngas che veniva prodotto prima per gassificazione del carbone e successivamente tramite cracking del petrolio. Tale gas veniva utilizzato sia per usi domestici, sia per l’illuminazione pubblica delle città. Con la diffusione del gas metano però l’utilizzo del “gas di città” è gradualmente scomparso 12
e così anche i gasometri hanno perso il loro ruolo. Queste strutture venivano utilizzate anche in ambito industriale in molti impianti tra cui le acciaierie. Il gasometro di Bovisa, in cui si colloca il nostro progetto, appartiene alla tipologia ‘a campana’. È costituito da un contenitore cilindrico chiuso sulla faccia superiore ed aperto su quella inferiore, il contenitore era libero di scorrere verticalmente e la porzione inferiore era immersa in una vasca d’acqua. Il serbatoio dunque galleggiava sull’acqua ed emergeva o affondava in base alla quantità di gas stoccata all’interno. La presenza di acqua impediva al gas di uscire dal serbatoio e il gas stesso veniva immesso e prelevato mediante tubi che emergono dall’acqua. L’uso di una campana telescopica ha consentito un aumento della capacità del serbatoio senza dover realizzare vasche molto profonde. La campana necessitava di una struttura esterna dotata di guide lungo le quali scorrere, tali guide assicuraravano che il movimento avvenisse in modo verticale e che fosse uguale da ogni lato, evitando quindi sia gli effetti del vento sia la possibilità che la campana si “storcesse” e smettesse di scorrere incastrandosi, rischio presente in misura maggiore nelle campane telescopiche. I gasometri in acciaio si presentano solitamente come un reticolo di travi molto permeabile che permette di osservare la
Esempi di riqualificazione di gasometri campana interna e, quando questa è quasi vuota, di guardare attraverso. I gasometri con struttura esterna tralicciata, sono tipici della prima metà del 1900, il movimento verticale delle campane avviene per scorrimento su apposite guide alloggiate direttamente nei montanti della struttura.
All’estero, un importante e interessantissimo esempio di recupero industriale è sicuramente quello del bacino della Ruhr, la più vasta area industriale tedesca; proprio qui si registrano due originali esempi di riuso di gasometri. Il primo, su progetto degli architetti Heinrich Boll e Hans Krabel, riguarda quello di Oberhausen (d 68 m, h 117 m), che nel 1994 venne salvato dalla distruzione e adibito a spazio espositivo da utilizzarsi, per una questione di risparmio energetico, solo nei mesi estivi. Nel secondo caso, il gasometro in oggetto è quello di Duisburg Nord (d 45 m, h 13 m) che, costruito nel 1920 venne trasformato nel 1993 in vasca per le immersioni. Altri esempi di recupero conservativo sono invece quelli del gasometro di Dresda, convertito ad albergo su progetto di Heinrich Boll e Hans Krabel e dell’allestimento provvisorio per il gasometro di Copenhagen in occasione della rappresentazione intitolata «The Mahabharata» diretta nel 1995 dal regista americano Peter Brook. Il caso più straordinario di recupero all’estero, anche per l’entità dell’operazione che coinvolge l’officina del gas più grande d’Europa, è sicuramente quello di Vienna. Gli obiettivi del progetto, che portano a indire nel 1995 un concorso a inviti, consistono nel prevedere la destinazione dei quattro gasometri in oggetto a residenze e servizi annessi, qualificanti tutta l’area urbana; in questa occasione non vengono poste limi13
tazioni ai progettisti, salvo alcune direttive sulle possibilità di creare nuove necessarie aperture nel paramento murario tali però da non compromettere gli originari decori. Per i gasometri A, B e C vengono scelti rispettivamente un progettista di grande fama come Jean Nouvel e due studi austriaci, Coop Himmelbau e Manfred Wedhorn. Il progetto del gasometro D, invece, è assegnato all’architetto Wilhelm Holzbauer, vincitore di uno specifico concorso di idee a libera partecipazione. Anche l’Italia ha mostrato negli ultimi anni i primi timidi approcci ad alcune delle numerose officine del gas presenti sul territorio. Significativa a questo proposito, è l’esperienza concorsuale per il riuso del gasometro di Firenze situato in un’area al margine est del centro storico. Costruito nel 1885 circa da una ditta lionese e ultimo sopravvissuto di un sistema di quattro, questo gasometro è del tipo a guar dia idraulica (d 35 m, h 4 m). Inserito finalmente nell’elenco dei beni ambientali e architettonici, del suo riuso si è iniziato concretamente a parlare solo nel 1996, quando l’area industriale in cui è collocato viene proposta tra i temi della quarta edizione del concorso per giovani architetti «European 4», intitolata «Costruire la città sulla città». Su esplicita richiesta del bando di concorso la «conservazione tramite il riuso» della gabbia d’acciaio del gasometro 14
diviene l’essenziale tema con cui i progettisti sono invitati a confrontarsi. Notevole è la varietà delle soluzioni architettoniche proposte, anche tra i primi tre progetti premiati: l’architetto spagnolo Inigo De Viar Fraile, primo arrivato, riprogetta il volume delle pareti telescopiche all’interno della gabbia; Pierre A. Wanner, secondo classificato, propone nel recinto metallico una piazza coperta con funzione di bazar; il terzo, Rosario Martinez Cueto - Felgueroso, procede inserendo nel vuoto del gasometro un cortile alberato, sopraelevato a livello del basamento.
Gasometro di Oberhausen Heinrich Boll e Hans Krabel
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Lo spazio della Sinagoga Il termine ebraico Sinagoga sta per ‘assemblea, luogo di riunione’. Col tempo è passato a definire il luogo di culto della religione ebraica, essendo la parola stessa la traduzione in greco del termine ebraico Beit Kenneset, appunto casa di riunione. In yiddish il termine è šul, il quale corrisponde all’usanza ebraico-italiana di riferirsi alla sinagoga come “scola”, dal quale, ad esempio, la Piazza delle Cinque Scole nel vecchio ghetto di Roma. Si ritiene che la sinagoga abbia avuto inizio come istituzione durante l’esilio babilonese (597-537 a.C.), dopo la distruzione del primo Tempio, e portata in Israele dagli ebrei tornati dall’esilio. Secondo una leggenda ebraica poco diffusa, tuttavia, la sua origine sarebbe molto più antica: sarebbe esistita già ai tempi del patriarca Giacobbe che, ancora nel ventre di sua madre, tentava di uscirne ogni qualvolta la madre oltrepassava una sinagoga. Resti archeologici attestano che tali edifici esistevano già nel periodo successivo all’epoca erodiana, pertanto all’epoca del secondo Tempio. Fra il III secolo e il IV secolo, sorgono numerose sinagoghe, spesso con ricchi ornamenti, affreschi, e mosaici, in Giudea, in Galilea e nelle città della diaspora. In quanto istituzione, la sinagoga rappresenta una innovazione rivoluzionaria nella vita religiosa dell’antico Oriente: è il primo edificio del culto in cui i fedeli possono assistere al complesso dei riti. Principio che
verrà ripreso dalle chiese cristiane e dalle moschee musulmane. La comparsa delle sinagoghe segna una profonda ristrutturazione interna della religione ebraica, non più incentrata sul culto sacrificale, ma sullo studio, l’insegnamento e la meditazione della Legge. Era proibito agli ebrei vivere in una città dove non c’erano sinagoghe. Esse inoltre venivano usate dai viaggiatori come alberghi, dove si poteva trovare sempre un posto per dormire su una panca o in un angolo; in effetti, si svolgono attività sia laiche che religiose nella sinagoga, perciò sta sempre al centro di tutte le comunità ebraiche, ed è spesso un punto di riferimento per le comunità. La sinagoga ha per secoli assolto tre funzioni: quella di casa di riunioni e preghiera (beth ha Kenéseth), quella di casa di studio (Beth Midràsh), e la funzione sociale di luogo di incontro e di commercio. Sebbene l’architettura delle sinagoghe non sia mai stata uniformata, a causa della diffusione delle varie comunità ebraiche all’interno di contesti e territori profondamente diversi tra loro, l’organizzazione dello spazio interno delle sale di preghiera prevede la presenza di determinati arredi e oggetti, collocati in modo tale da rispettare i canoni imposti dalle Sacre Scritture. L’ arca-armadio (aròn hakkodeš), contenente i rotoli della Torah, è incastrata nella parete orientale, che guarda verso Gerusalemme, mentre il pulpito del lettore ( ammùd) gli 17
sta di fronte, al centro della sala o al capo opposto, sopra una piattaforma leggermente alzata ( bimàh). Sopra l’aron è posta una luce sempre accesa — il ner tamìd, ossia la “lampada eterna” — che ricorda la menorah del Tempio a Gerusalemme, la quale è rimasta miracolosamente accesa per otto giorni, nonostante la sconsacrazione dei saccheggiatori Seleucidi. Solitamente, all’interno dello spazio del culto, è previsto uno spazio distinto per le donne, il matroneo. La pianta della maggior parte di queste costruzioni è quella di una basilica a tre navate, orientata in modo che i fedeli, in conformità al principio contenuto nella Bibbia (Dn 6,11), recitino le preghiere rivolti verso Gerusalemme. Tale pianta e orientamento sono stati mantenuti anche nelle sinagoghe costruite nel Medioevo. Come precedentemente accennato, la Sinagoga non è solo uno spazio di culto, ma integra al suo interno diverse funzioni, che prevedono rituali, tradizioni e attività comunitarie. Il mikvè è l’area per l’immersione rituale: immersione che, secondo il rito ortodosso, deve essere e in stato di totale nudità. Il mikvè deve corrispondere a criteri ben precisi: è necessario, anzitutto, che sia costruito nel terreno o che, per lo meno, vi sia connesso. Deve contenere la quantità indispensabile per una immersione tota18
le. L’acqua deve essere piovana e non può essere veicolata in nessun modo attraverso tubature o contenitori (cioè, non portata artificialmente). L’immersione rituale può avvenire altresì nell’acqua del mare, in quella di un fiume e, in casi molto particolari, anche in neve o ghiaccio liquefatti. Tutte queste regole hanno un valore simbolico profondo che ne è alla base. Attualmente sono osservate solo dalle comunità ortodosse. Non si tratta di semplici atti purificatori, ma di momenti di radicale e profondissima trasformazione. Per il popolo ai piedi del Sinai era l’incontro con la Torah, l’ingresso nel patto fra Dio e Israele; per il Sommo Sacerdote, il Kohèn Gadol, era ogni volta l’incontro con il Nome: quel Nome che egli solo, e solo in quel giorno, poteva pronunciare. Era il momento del grande mistero in cui tutto muore e rinasce. Attualmente, l’immersione nel mikvè è prescritta, come nell’antichità, per i proseliti, cioè per coloro che si convertono all’ebraismo: senza questo, la conversione non è valida. Altri casi in cui si pratica l’uso del mikvè, a tutt’oggi, sono: per molti osservanti dopo il periodo mestruale per la donna, prima del Yom Kippùr e anche prima dell’ingresso del Sabato. In tutti questi casi, non si può parlare solo di purificazione, ma di un vero e proprio cambiamento di stato, di una
Particolare Sinagoga de la Ghriba, Djerba
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La Grande Sinagoga Tel Aviv
trasformazione: dopo un ciclo mestruale concluso, ne ha inizio un altro, che è ancora apertura verso la vita; nello Yom Kippur e nello Shabbàt, in accordo con le più antiche tradizioni, vi è una profonda esperienza di rinnovamento dell’anima. Le sinagoghe sono anche provviste di uno spazio all’aperto, o semi-aperto, in cui si celebra la festa delle Capanne, o Succot. Il termine Sukot o Succot si riferisce ad una festa di pellegrinaggio della durata di 8 giorni (7 giorni in Israele). È conosciuta anche con i nomi di “Festa delle capanne”, “Festa dei tabernacoli” e “Tabernacoli”. È una delle festività ebraiche più importanti. Il termine fa riferimento, inoltre, ad una località di cui si parla nella Bibbia Ebraica. La parola “sukot” è il plurale della parola ebraica sukah che significa, per l’appunto capanna. Il termine sukah nel linguaggio comune indica proprio la capanna che viene costruita appositamente per la celebrazione della festa. La festa di Succot ricorda la vita del popolo di Israele nel deserto durante il loro viaggio verso la terra promessa, la terra di Israele. Durante il loro pellegrinaggio nel deserto essi vivevano in capanne (“sukot”). La Torah ordina agli ebrei di utilizzare, per la celebrazione della festa, quattro specie di vegetali: il “lulav”, (un ramo di palma), l’”etrog” (un “ (un cedro), un ramo di mirto ed un ramo di salice. Il cedro viene im pugnato separatamente dai rami che invece
sono legati assieme. La halakha impone per la costruzione di una sukah che il soffitto sia coperto di rami - chiamati s’chach - in modo che almeno metà della luce diurna entri nella capanna creando all’interno un effetto di ombra prevalente. Inizialmente era una festa a carattere agricolo; questo è evidente dal nome di “Festa del raccolto”, dalle cerimonie che la caratterizzano, dalla stagione in cui viene celebrata. Si configura come un ringraziamento per i frutti del raccolto (vedi Giudici 9;27). Rappresentando la fine dei raccolti, è considerata come un ringraziamento alla natura per i frutti che ha donato nell’anno trascorso. Alcuni edifici templari sono dotati di una zona separata per lo studio della Torah, chiamata Beth Midrash (letteralmente “casa dello studio”). Generalmente al suo interno sono disposti banchi o sedute, e leggii o tavoli, su cui si collocano i libri. Centinaia di libri sono custoditi all’interno di questi spazi, incluse differenti copie dell’intero Talmud, della Torah, del siddurim (libri di preghiera), il Shulchan Aruch, il Mishneh Torah, l’Arbaah Turim e altri libri da consultazione. Attualmente il Beth Midrash è uno spazio adibito alla yeshiva, centro di studio della Torah e del Talmud del ebraismo ortodosso, o al kollel, comunità-alloggio, associata ad accademie religiose. 21
Non mancano sinagoghe che presentano al loro interno spazi ‘sociali’, utilizzati dalla comunitĂ in occasione di pranzi e feste di vario genere. A questi sono correlati servizi cucina, in quanto la cultura ebraica ha una tradizioni e regole culinarie ben definite. Si tratta di ampi spazi che necessitano di ampie cucine e aree adibite alla preparazione dei pasti.
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Sinagoga Santa MarĂa la Blanca Toledo
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Il progetto Il termine “ebreo” richiama inevita-
bilmente alla mente scenari drammatici, seppur la cultura ebraica di per sé si stacchi parecchio da questo immaginario. Gli eventi storici hanno segnato indelebilmente la cultura di questo popolo sin dalle origini: dalla diaspora alla Shoah la storia degli Ebrei è sempre stata molto tormentata, e le rivendicazioni dell’attuale movimento sionista sembrano esserne la conferma. Una storia fatta di persecuzioni, di conflitti, di intolleranza e di pregiudizio. Un fenomeno che ha visto il proliferare degli spazi “della memoria”, spazi della commemorazione che rispondono alla necessità del non dimenticare la drammaticità dell’accaduto. Artisti del calibro di Boltanski (artista francese di origini ebraiche) hanno cercato di archiviare e ricostruire le tracce del passato, mettendo in luce la contraddittorietà e inaffidabilità propria della memoria, attraverso installazioni metonimiche di foto sfumate e ingiallite e di abiti dismessi e ammassati, che ci conducono in un universo ambiguo e fittizio, in cui l’assenza fa da protagonista. Oggetti d’uso quotidiano, insignificanti, di poco conto e di nessun valore estetico, se non fosse per quella nostalgia che trascende il quotidiano e lo mitizza attraverso le lenti deformanti del tempo, conferendo ad esso quel fascino che riveste ogni prodotto d’antiquariato. Scelti non casualmente, ma perché testimoni di una determinata vicenda e adoperati non per se stessi, per la loro forma o per ciò che rappresentano, ma
per la loro capacità magica d’evocare…una storia, un’assenza, un ricordo qualsiasi. Gli spazi della memoria si caratterizzano per la presenza di questi oggetti testimoni del passaggio all’assenza. Ci si avventura nell’oscurità, interrotta talvolta da flebili luci inquisitorie tra dubbi mentali e sensoriali, nell’acre odore diffuso nell’aria, già di per sé tetra e irrespirabile. Un aut-aut senza sosta e senza soluzione di continuità che sottintende una doppia volontà e il costante fluttuare tra i due poli: memoria-oblio; luce- ombra; vita-morte, presenza -assenza. Una memoria emotiva, dunque, tragicomica, densa di doppi sensi, di struggente tenerezza, di quesiti irrisolti, e in fondo infine di disarmante bellezza. La percezione dello spazio diventa un vero e proprio esercizio spirituale, tale da ridestare nel ricordo attualizzato l’orrore del passato. Essa ci conduce alla riflessione, all’anamnesi, ad una pausa, una una ricerca nel proprio mondo interiore, nella storia di cui facciamo parte, nei luoghi che percorriamo, nella storia dell’arte e della cultura, nella mitologia e nel tempo che passa.
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“… Si, passeremo tutti e tutto passerà. (…) Tutto è ombra e polvere agitata, e non c’è altra voce se non il rumore di ciò che il vento innalza e trascina, né altro silenzio se non quello di ciò che il vento lascia (…) Tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho fatto e che non ho fatto: tutto se ne andrà in autunno, come i fiammiferi usati che ricoprono il pavimento in diversi sensi, o i fogli di carta appallottolati in palline false, o i grandi imperi, tutte le religioni, le filosofie con le quali si sono baloccati i bambini sonnolenti dell’abisso…tutto se ne va in autunno, tutto nell’autunno, nella tenerezza indifferente dell’autunno” F. Pessoa Progettare la drammaticità si traduce così nello sfruttare le proprietà espressive dei materiali e nel rompere le tradizionali logiche di conformazione dello spazio. Si abbandonano gli stereotipi antropocentrici per sviluppare una ‘promenade architecturale’ carica di suggestioni e inquietudine. La prima scelta effettuata, a livello progettuale, è stata quella di mantenere solo alcune delle componenti del gasometro. Queste 26
sono: il tamburo, le pareti telescopiche, la griglia metallica che protegge la struttura interna, e il grigliato metallico che chiude la struttura superiormente. Successivamente l’intero volume del gasometro è stato suddiviso in due parti, entrambi interne alle pareti telescopiche. L’ elemento utilizzato per la suddivisione è una parete inclinata che attraversa complessivamente lo spazio interno. Essa è caratterizzata da una struttura metallica composta da elementi modulari, alla quale vengono sovrapposte, da entrambi i lati, lastre di ardesia a spacco. Il risultato è un elemento scultoreo, di notevoli dimensioni, che esplica la forte espressività del materiale. Collocando la parete al centro dello spazio, si determinano così due aree: la prima, lo spazio semi-aperto, ha una base poco estesa e il suo volume aumenta gradualmente verso l’alto; la seconda, lo spazio chiuso, ha una superficie molto estesa che culmina con un’apertura minima (rispetto alla base), da cui penetra la luce naturale. Il carattere simbolico di questo intervento fa riferimento alla dualità luce-tenebre; la luce perfetta si trova in alto, distante da chi attraversa lo spazio, ma pur sempre visibile. In basso c’è il mondo terreno, il caos originario. In una concezione verticale della fede c’è un Dio che sta sopra e la sua creatura mortale al di sotto. Ma ad amplificare la drammaticità del rapporto con il divino
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contribuisce la luce, che è dinamica, scende dall’alto in forma di raggio puntato verso un eletto su cui converge in terra la massima intensità emozionale. Si ha sempre la sensazione di stare sotto una fonte, ma rivolti verso il cielo, perché la luce proviene dall’alto e scende in forma di raggio. È un interno che è in dialettica con l’esterno in termini di differenza di intensità luminosa, di temperatura (escursioni termiche significative), di direzione del suono (che rimbalza echeggiando all’interno verso un punto di fuga sonoro che è fuori, all’infinito). La sensazione epidermica è di freddo, mentre i suoni esterni arrivano amplificati, distorti, mai reali. È la verticalità che si muove lungo un asse che parte dalla fonte emittente e termina nella sua proiezione. È il modo del chiaro in antitesi allo scuro, dei poli opposti che ingenerano magia, tensione, in cui esistono sempre due polarità emozionali. Le due aree, così definite, hanno destinazioni d’uso differenti. L’area che si apre verso l’alto è uno spazio filtro tra l’esterno del gasometro e l’interno della sinagoga; potrebbe essere definito un ‘cortile interno ’, atto ad ospitare la Festa delle Capanne, che, secondo il rituale, va svolta in uno spazio aperto. L’area che si chiude verso l’alto, invece, è uno spazio chiuso, all’interno del quale
sono collocate le funzioni relative al culto e alle attività culturali e sociali della comunità ebraica. Lo spazio filtro anticipa la drammaticità degli interni con un ‘gesto di violenza’, poiché il fedele incontra subito due elementi suggestivi: il primo è la parete inclinata in ardesia, sui cui è inciso il testo della Shemah, come se piovesse dall’alto; il secondo è il craquelé della pavimentazione, che va diradandosi verso l’interno. L’effetto lapideo della parete contrasta con il terzo elemento che arricchisce lo spazio, una vasca d’acqua, che occupa una parte del craquelé. Si tratta di una scelta simbolica, che introduce il tema delle abluzioni, presente all’interno. Il craquelé è realizzato sovrapponendo uno strato in pietra lavica all’intero basamento del gasometro. Le lastre di pietra vengono incise in modo da definire il disegno della pavimentazione. Le venature e la profondità delle crepe, tipiche del terreno argilloso particolarmente secco, vengono qui realizzate attraverso un intervento scultoreo. La scelta di questa tecnica fa riferimento ai ‘cretti’ di Alberto Burri e, al contempo, al lavoro di Giuseppe Penone, che esalta le proprietà espressive dei materiali lavorando sul trattamento materico delle superfici. Alla parete inclinata sono affiancate lateralmente due ‘vele’ di vetro, che riempiono il vuoto tra la superficie trapezoidale e le paratie. In corrispondenza di queste due vele 29
sono collocati, diametralmente opposti, i due ingressi allo spazio interno della sinagoga. Dai due ingressi partono due percorsi simmetrici, che consentono di accedere a tutte le aree. L’intera area è scandita dalla presenza di tre pareti in acciaio brunito. È una citazione del lavoro di Richard Serra, che, tramite la curvatura delle lastre in cortain, riesce a creare spazi che si caratterizzano per la loro volumetria e per il percorso da seguire. C’è anche un richiamo a Kounellis per ciò che riguarda la scelta del materiale e il suo trattamento. Questi tre elementi variano progressivamente in curvatura, altezza e inclinazione, creando un ‘dialogo’ tra la parete inclinata e le pareti telescopiche, che definiscono il limite volumetrico dello spazio. Per cui dalla scultura lapidea le pareti aumentano la loro curvatura e la loro perpendicolarità al suolo, diminuendo la loro altezza. L’intento di un intervento di questa portata è quello di riuscire ad ottenere volumi che risultano sempre diversi, la cui logica è percepibile solo nel momento in cui siano stati visitati tutti gli spazi. Si crea così nel visitatore una sensazione di smarrimento e allo stesso tempo si disattendono quelle che sono le sue aspettative, rendendolo progressivamente smanioso nell’esplorare le diverse aree.
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Un altro tema architettonico del progetto è il sovradimensionamento degli elementi. Dalla parete inclinata alle superfici metalliche, già di per sé elementi notevoli a livello di dimensioni, si definiscono degli spazi che si estendono sproporzionatamente su una delle due dimensioni (la dimensione minore tra le due si estende dai 9 ai 5 m, dimensioni minime rispetto alla lunghezza delle pareti che varia tra i 38 e i 45 m). Gli spazi sono percepiti come ampi corridoi, creando una sensazione di disorientamento. Il primo spazio che si attraversa entrando nella sinagoga è l’area studio o biblioteca, collocato tra la parete inclinata e la prima parete curva. Successivamente, percorrendo i corridoi laterali, si passa al mikvè, dove viene compiuto il rito delle abluzioni. Lo spazio successivo si scompone in due livelli: rampe di scale collocate tra la seconda e la terza parete curva, consentono di passare al livello superiore, in cui c’è il vero e proprio spazio di culto. Al livello inferiore è invece collocata l’area conviviale, in cui sono organizzati anche i differenti servizi. Entrambi i livelli sono attraversati dalla terza parete curva, appositamente forata per consentire la comunicazione tra matroneo e la restante parte del luogo di culto, e tra i servizi (cucina) e la sala da pranzo. La scelta di collocare lo spazio del culto ad un livello superiore è di natura simbolica,
ovvero eleva questa area rispetto al livello ‘terreno’ , quasi a rappresentare un avvicinamento al divino attraverso la preghiera. L’aròn e il pulpito sono collocati in prossimità della parte centrale delle paratie. I fedeli sono rivolti verso questi due elementi, poiché è in prossimità di questi che vengono svolti i rituali delle varie celebrazioni. La disposizione delle sedute dell’area sacra prosegue allo stesso modo anche nel matroneo. L’assetto della sinagoga è quindi ‘polare’ ovvero concentra l’attenzione in un’unica direzione.
Il gasometro viene trattato come enorme volume vuoto in cui si ottiene il massimo dell’espressione con il minimo gesto, sfruttando le proprietà delle sorgenti di luce e di materiali quali l’acciaio brunito, l’ardesia, la pietra lavica e il metallo della struttura industriale preesistente.
La luce è elemento chiave per la lettura degli spazi; agisce su questi modellandoli e svelando l’espressività dei materiali. La luce naturale colpisce direttamente solo l’area sacra, poiché è collocata in corrispondenza di questa. Negli altri spazi incontra l’ostacolo delle pareti, motivo per cui ci arriva di riflesso, dando luogo ad un’atmosfera diffusa che immerge il credente in una promenade meditativa e drammatica. C’è inoltre da tenere in considerazione l’altezza a cui è collocata l’apertura del gasometro, ovvero a più di 45 metri dalle superfici fruibili. La luce artificiale, invece, e caratterizzata da punti luce collocati sulle paratie in maniera ritmica. Inoltre per l’aròn è previsto un sistema di illuminazione che possa dargli un degno risalto rispetto alla totalità del volume.
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Needle Tower Kenneth Snelson
Atto secondo In principio era l’immagine
“I miei quadri parlavano forse di una visione del mondo, d’una concezione che si trovava fuori del soggetto e dell’occhio. Ora pensare così, in quell’epoca “tecnica” dell’arte vi valeva l’accusa di cadere nella letteratura.” M. Chagall La pulsione al vedere è un fattore importante nell’arte e nell’architettura, sapientemente sfruttato nell’imprevedibile rapporto con il fruitore. Alcune opere d’arte hanno la caratteristica di essere dotate di un’esteriorità che, oltrepassando le intenzioni dell’artista, copre il concetto che voleva essere espresso nell’oggetto creato ed esposto. A questo proposito cito un artista che ha iniziato il suo lavoro partendo da una profonda riflessione sul valore dell’immagine. Si tratta di Gino De Dominicis, che intitolò una sua opera In principio era l’immagine, confutando la tesi biblica per cui “In principio era il Verbo” e proponendo una diversa prospettiva interpretativa. È bastato poco a Gino De Dominicis per svelare la superiorità dell’immagine rispetto al concetto nel momento visivo; oltre a dichiararla nell’opera
In principio era l’immagine, l’ha indicata nelle sue opere invisibili, azioni, fotografie, installazioni e sculture fatte di nulla, ma che, grazie ad una sorta di allucinazione collettiva, godono della più autentica aura. Questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare in merito alla ‘celebrazione dell’immagine’ come oggetto di culto. Non a caso la nostra è definita “civiltà delle immagini”. E non a caso tutto ciò che si schiera contro di essa, culture, religioni, tradizioni, ci appare datato, retrogrado, conservatore, tradizionale, antico. La cultura oggi dominante, il mondo culturale in cui navighiamo, sembra non avere niente a che fare con il problema dell’irrappresentabilità di Dio. Sembra che tale interdetto sia caduto, che sia stato separato. Sembra che la trasformazione del mondo ebraico in mondo laico-cristiano ci abbiano condotti in una situazione tale per cui sembrerebbe non aver più senso anche la semplice posizione di una questione di questo genere. La nostra civiltà delle immagini ha consacrato in maniera definitiva il primato dell’occhio. Tale primato è stato messo in discussione in ambito filosofico molto frequentemente. 33
Per Heidegger l’altro elemento che avanza è l’ascolto. Egli usava l’espressione “ascolto del linguaggio”, laddove l’ascolto è ascolto della parola; e ciò chiama in causa tutta una dinamica di strategie conoscitive, psicologiche e pedagogiche che sono addestramenti all’ascolto. Si parla di “capacità di ascolto” e l’uso del silenzio, delle pause, è di fondamentale importanza per renderla possibile. In una delle città invisibili di Calvino la distinzione tra giusti e ingiusti sta nel modo in cui i primi pronunciano le parole, riuscendo a pronunciare anche le parentesi e le virgole: è questo il modo in cui il silenzio diventa parte dell’ascolto. Queste riflessioni portano alla decostruzione dell’oggetto come elemento puramente visivo. L’ascolto diventa così elemento ‘critico’, un elemento correttivo in quella dimensione di impatto violento che è il “visivo”. Altri filosofi contestavano l’immagine per la sua “dualità”. Questa concezione dell’immagine fa riferimento al divino: l’immagine si sdoppia, ha un retro e un verso, ha un fuori e un dentro, si fa portatrice di un gioco bidimensionale. E questa dualità definisce l’immagine come “diabolica”. Nell’immagine si definisce il desiderio dell’altro, proprio del doppio, della duplicità, dell’ambivalenza. La questione relativa all’importanza dell’immagine non è stata affrontata solo in tempi recenti: platonici e islamici, ebrei 34
e cristiani, differenti forme di iconoclastia si sono avvicendate nella storia e hanno contribuito a plasmare e definire il nostro modo di guardare il mondo e rappresentarlo. In particolare, le religioni abramitiche, ebraismo, cristianesimo e islam, hanno ripetutamente affrontato la questione della natura dell’immagine e del suo ruolo nella società, contribuendo a un assetto teorico che non può essere dimenticato se ci si vuole occupare in termini consapevoli della comunicazione visiva nella società contemporanea.
Invisibile Giovanni Anselmo, 1961
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The Javascriptorium Chronotext, 2006
Il concetto di immagine presso Platone Andando ancora indietro nel tempo si scopre che già con Platone sono nate forme di iconoclastia e iconofilia, unificate dal senso dell’immagine come tramite con un mondo altro. Coloro che imitano le cose ottengono solo phainomenon dei singoli oggetti, un’apparenza che somiglia poco all’oggetto reale, una contraffazione. Platone diffida dell’aspetto mimetico delle arti. L’arte è mimesis, che nell’imitare inganna, finge di possedere conoscenza, ma si limita a riprodurre oggetti e situazioni. Eikòn è ogni rappresentazione sensibile del reale, ogni mimésis; e in un mondo che nella sua materialità è solo ombra del mondo sovrasensibile, l’eikon è imitazione di un ombra, copia di una copia. Gli artisti imitano lo stesso con lo stesso con colori, forme, suoni, movimenti, materiali diversi e rappresentano ciò che anche nell’oggetto ritratto è colori, forme, suoni, movimenti, materia. Chi per ispirazione divina e capacità tecniche gioca con la materia si occupa di questo, di un gioco per il nostro piacere, divertimento, paignon. Per arrivare alla luce bisogna ritirarsi dal molteplice dell’apparire sensibile e cercare in se stesso l’unificazione intellettuale, abbandonando il sensibile per il soprasensibile. Quindi abbandonare il sensibile e il molteplice e tutto ciò che ne è imitazione. Esiste l’idea di letto, creata da Dio, che il falegname coglie e si fa demiurgo nel costruirlo. Il pittore non è né creatore né demiurgo, è solo imitatore. I pittori riescono a dipingere qualsiasi cosa,
perché di ogni cosa colgono una piccola parte, un ingannevole eidolon. L’imitatore non avrà né vera scienza né retta opinione della cosa che imita. L’artista imitatore si indirizza alla parte più debole dell’anima umana: non quella razionale, ma alla sensibilità. I pittori usano la prospettiva come gli illusionisti i loro trucchi. Esistono due generi di immagini: eikon, la fedele immagine che è simile all’idea; ed eidolon. Eikon rivela dal suo modello per similitudine, non è vera ma somiglia al vero. L’eidolon è un tipo di imitazione prodotta dall’uomo e allontana sempre dal vero. I platonici successivamente interpreteranno come eikon anche l’immagine prodotta dal pittore, trasformando l’iconoclastia di Platone in iconofilia e iconodulia. L’eikon è realmente pur non essendo realmente. È vero ritratto dipinto di un uomo perché non è vero uomo. Esistono modelli eterni e immutabili, il vero essere. Esistono copie di tali modelli prodotte da Dio, ciascuna è eikon di un modello. Esistono uomini capaci di seguire un modello e costruire qualcosa, producendo a loro volta un eikon. Esistono altre cose simili agli eikones prodotti, ma con la sola consistenza dell’essere simili: sono eidola prodotti da Dio le ombre, i riflessi, i sogni; sono eidola i prodotti degli artisti che imitano un eikon e ingannano presentandolo come se fosse un eikon. 37
Tuttavia l’eidolon come ogni immagine è in quanto ha una somiglianza. Principali ingannatori i sofisti, che imitano senza avere conoscenza, così come gli artisti della mimesis, attori e pittori. Vicino a Dio sono i filosofi che invece fanno di sé stessi un eikon dei modelli eterni e diventano simili a dei. Perché gli artisti possano avvicinarsi al divino bisognerà attendere le interpretazioni del platonismo, che nell’Accademia e nello stoicismo trasferiranno nell’artista la possibilità di vedere il modello che Platone collocava nell’iperuranio. La mente dell’artista potrà guardare ai modelli eterni, libera dalla mimésis naturalistica. In Cicerone l’originale si può conoscere solo con la cogitatio e la mens non sensorialmente. Fu il primo a considerare l’opera d’arte costruita su imitazione di una realtà ideale con sede nella mente dell’artista. Questo venne da una lettura contraria ai testi platonici dipendente da una crescente stima verso i pittori. Le idee platoniche non più enti dell’iperuranio ma logoi nella mente dell’uomo. Gli universali, le idee, sono “detti” dall’uomo, sono nella sua mente, nel suo linguaggio. Per Seneca le idee sono “esemplare eterno di tutto ciò che nasce in natura”. Le idee per Seneca sono nella mente divina, secondo Cicerone nella mente umana. Da qui il passaggio a una visione positiva dell’immagine artistica, come oggettivazione di un ideale presente nella mente dell’artista. 38
The Javascriptorium Chronotext, 2006
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Pi Greco, Il Teorema del Delirio 40 Darren Aronofsky, USA, 1997
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L’ebraismo come cultura aniconica “Noi, il popolo ebreo, non siamo pittori, non sappiamo rappresentare le cose in modo statico; noi vediamo tutto in un flusso, un cambio permanente. Non siamo pittori, siamo narratori”. F. Kafka La Bibbia riserva all’idolatria le sue espressioni più forti: aborrire, detestare, ribellione, ostinazione, disobbedienza, brutalità. L’idolo, il Dio in pietra o legno non ha le fondamenta nel divino: Dio è eterno e non collocato nel tempo, Dio è creatore e non creato. Dio non accetta che una cosa creata occupi il cuore dei suoi fedeli. Dopo aver trovato il suo popolo ad adorare gli idoli e dopo aver distrutto le tavole delle leggi, Mosè chiede a Dio di vedere la gloria del Signore. Dio risponde: “Non puoi vedere il mio volto, perchè l’uomo non può vedermi e vivere”. Dio acconsentirà a farsi vedere di spalle “ma il mio volto non si vedrà”. Dio ha un volto ma rimane nascosto. Questo passo dell’esodo sarà usato dagli iconoclasti per giustificare l’impossibilità di ritrarre Dio, dagli iconoduli per sostenere la differenza tra un Dio che ha un volto nascosto e un Dio che sceglie di incarnarsi facendo suo un volto umano.
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Mosè Maimonide, considerato il massimo filosofo ebreo medievale, sosteneva che sul Sinai il popolo ebraico non avesse udito nessuna parola. Un passo del Deuteronomio in cui Mosè dice “avete udito il suono delle parole senza vedere nessuna figura”, sembra confermare questa tesi. Non fu udito nulla, non furono udite neppure parole, fu udito un suono, solo un suono. Da qui partono una serie di riflessioni sul tema della rappresentazione. A proposito di questo, un cabalista dell’Ottocento, rabbi Mendel di Rymanov, sosteneva che non fossero stati uditi neppure i suoni dei primi due comandamenti. Che cosa fu udito allora? Il primo comandamento inizia dicendo “Io sono il Signore”. In ebraico Io, ‘anokhì, comincia con la Alef, che è una consonante impronunciabile: è la posizione assunta dalla laringe per pronunciare una vocale. Quindi è interpretabile come l’elemento da cui deriva ogni suono articolato, addirittura la radice spirituale di tutte le altre lettere, la radice del logos. La radice della parola, così, viene interpretata in modo mistico, come la prima lettera dell’alfabeto, alef. Udire alef significa non udire nulla, soltanto la radice di un discorso percepibile ma che non viene effettivamente udito. Il secondo comandamento dice testualmente “non vi saranno per te dei altri davanti alla mia faccia” e prosegue con “non ti farai
idoli, né immagini qualsiasi di ciò che è in alto nel cielo, o in basso sulla terra o nelle acque o al di sotto della terra, non ti prostrerai ad esse, non le adorerai”. La prima parte del comandamento viene spesso tradotta con “non riconoscerai gli dèi degli altri”, ovvero gli dèi dei popoli pagani. Un’altra interpretazione è “dèi stranieri”, nel senso che gli idoli sono come degli stranieri per chi li adora, perché gli idolatri invocano i loro dèi quando sono in pericolo e questi non rispondono. Sono statue che non hanno nulla da dire, e quindi non rispondono a chi le invoca: sono estranee, straniere. Altre intrepretazioni intendono per “dèi altri” tutto ciò che è riconducibile alla natura: costellazioni, essenze angeliche, forze celesti (da qui la formula di Spinoza “Deus sive natura”). L’espressione “davanti alla mia faccia” viene invece interpretata come “per sempre e dovunque”: si tratta dell’eternità delle generazioni umane e non di un’eternità astratta, così come la concepiamo oggi. Quindi l’espressione “non ti farai immagine di Dio” in realtà nel comandamento non c’è, perché è pleonastica, si tratta di un corollario dell’affermazione dell’unicità di Dio. Un Dio unico ed eterno non può essere rappresentato, ed è irrapresentabile per la sua stessa definizione, per il suo stesso carattere di assoluta e indiscutibile unicità. La venerazione di un Dio privo di immagine ha un’implicazione molto forte. Essa
costituisce una messa in discussione diretta della visibilità, che è il carattere proprio di ogni creatura. Nulla di creato appare degno di rappresentare ciò che in realtà è al di là di qualsiasi riflessione possibile. Quindi il rifiuto dell’idolatria è strettamente connesso al divieto dell’immagine e dipendono dall’idea dell’assoluta unicità di Dio. C’è inoltre da specificare che il comandamento è rivolto solo ed esclusivamente al popolo ebraico. Non si trovano nella Bibbia condanne nei confronti di coloro che adorano idoli. Il richiamo è rivolto esclusivamente al popolo ebraico, che è investito della missione di dover presentare l’immagine dell’assoluta unità e irrapresentabilità di Dio. Su questo aspetto vi è un midrash che racconta della balbuzie di Mosè. Pare infatti che egli inizialmente non fosse balbuziente. Ma un giorno, passando per una via vide un egiziano prostrato davanti al suo idolo, che pregava. Mosè s’infuriò, lo bastonò e fracassò l’idolo. La punizione divina per questo gesto fu la balbuzie poiché Dio stabilisce un patto per cui chiama il popolo a rappresentare l’idea di monoteismo assoluto, ma non condanna in sé la molteplicità delle vie per cui uno può entrare in contatto con Dio, la quale è infinita. Questa negazione così forte, non solo della rappresentabilità di Dio, ma delle imma43
Tired 44 Catarina Lina Pereira, 2008
gini, conduce all’idea di un mondo la cui essenza sarebbe al di là della rappresentazione. Ne nasce l’idea di un mondo spogliato di ogni evidenza visibile. Tuttavia la religione ebraica si stacca sia dall’approccio oggettivista del Cristianesimo, sia dalla posizione teologica dell’Islam, che vede il mondo come espressione di Dio istante per istante. La tradizione teologica ebraica si rifà all’idea di un mondo fatto di strati, di tanti mondi, di cui alcuni sono retti da forme di oggettivismo (ad esempio le leggi naturali), altri appartengono sempre di più alla volontà divina. La cultura ebraica è una cultura della parola, non dell’immagine. Della parola scritta, perché il suo testo sacro ispirato è un testo scritto e perché i commentari della Bibbia sono scritti. Della parola detta, perché per scelta e destino, si è trasmessa oralmente.
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Pro e contro le immagini L’Occidente ha scelto la parola come via del sapere e ha inteso l’immagine come completamento o decorazione rispetto alla parola detta o scritta. L’ha scelta per contiguità tra il verbum umano e quello divino. Per diffidenza verso forme e colori che possono distrarre e di troppa facile lettura. In Oriente fu diverso: Bisanzio conobbe il furore iconoclasta come tentativo di far tacere i costruttori di immagini e le potenti icone. L’Eikon intesa non come ricordo della storia sacra ma presenza che favorisce un rapporto privilegiato e senza mediazioni con il divino. Trent’anni dopo Nicea, Bisanzio si ripropone iconoclasta: dall’813, con il regno di Leone V l’Armeno e poi di Teofilo, riprende la lotta alle immagini che termina nell’842 con la morte di Teofilo. Scontro tra concezioni artistiche e teologiche ma sopratutto tra gruppi sociali: corte, alto clero ed esercito contro, mentre basso clero, monaci e popolo favorevoli. Teodoro Studita, monaco di Costantinopoli scrisse confutazioni contro “coloro che fanno guerra alle immagini”. Per giustificare le immagini arriva a superare la relazione di somiglianza tra immagine e prototipo, e parla di identità non di materia o essenza ma di persona. Basandosi su neoplatonismo e Pseudo-Dionigi, il concetto della materia come vera immagine di Dio viene applicato radicalmente: il pittore non dipinge l’idea che ha di Dio, ma Dio stesso. Come Fidia per Zeus. Per Teodoro il modello non solo 46
può, ma deve manifestarsi in un’immagine. L’immagine è inseparabile dal prototipo, il modello ideale porta dentro di sé l’immagine e la necessità di manifestarla. Queste immagini sono dissimili per la materia, ma identiche per la forma la modello divino, che trasferisce la sua forza e grazia dell’eikon. Per questo esistono immagini miracolose e le immagini sacre devono essere oggetto di venerazione.
“Chiunque guarda il dipinto vede il prototipo, Dio è nel dipinto” Tatarkiewicz Le due posizioni, pro e contro le immagini, si basano sugli stessi presupposti teologici: esistono due mondi distinti. Gli iconoclasti non vedevano una relazione tra i due, i loro avversari ritenevano le immagini non solo capaci di ricordare un mondo all’altro, ma di mantenerli in stretto contatto tra loro. Gli imperatori iconoclasti proibirono e distrussero le immagini, e la reazione fu una teoria dell’immagine che la assimila a Dio stesso. L’Oriente prima a Bisanzio e poi ovunque sia arrivata la Chiesa Ortodossa, assume le immagini come protagoniste della vita sacramentale e religiosa. Se l’artista segue la via del naturalismo si limita ad offrire un’immagine fantastica del reale, un superfluo esemplare di vita
quotidiana. Se invece lavora sui simboli, allora incarna in immagini reali una diversa esperienza, e offrendocele crea una realtà più alta. L’icona ha lo scopo di sollevare la coscienza al mondo spirituale (Florenskij). Le icone sono cornici materiali che aprono la vista sul regno dell’invisibile, “visibili rappresentazioni di spettacoli misteriosi e soprannaturali” (Pseudo-Dionigi). Quando Andrej Rublëv dipinse l’icona della Trinità, fece dimostrazione dell’esistenza di Dio più persuasiva di quella dei manuali, perché dotata della forza della testimonianza, di chi mostra ciò che ha visto; solo i santi possono permettersi l’arte sacra, perché solo chi ha visto può tentare di riprodurre, tanto da spingere Florenskij ad affermare:”Esiste la Trinità di Rublëv, perciò Dio è”. L’Oriente conferì alle immagini un valore soprannaturale di tramite tra l’uomo e Dio. L’Occidente non sarà sfiorato da questa forza, né contro né a favore. L’Occidente si troverà occupato a combattere sul fronte del pastorale e delle distrazioni, del lusso. Sarà iconoclasta solo per distruggere immagini di un potere politico o religioso. L’Occidente aveva bisogno di una regolamentazione delle immagini. La riforma gregoriana voluta da papa Gregorio VII (1085) richiese di trasmettere gli ideali riformatori e la teocrazia pontificia attraverso cicli di pitture murali a Roma,
trasformando gli affreschi in strumenti di propaganda della dottrina cristiana e dell’ideologia dell’attuale papato. Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d’Aquino, ribadiscono lo scopo catechistico delle immagini, per l’istruzione degli ignoranti, il ricordo del mistero dell’incarnazione e delle esemplari vite dei santi; oltre a suscitare devozione dalla vista, più efficace dell’ascolto. A Ginevra invece, con Calvino (1509-1564) le immagini sacre vengono eliminate senza eccezioni. Illecite sono le rappresentazioni di Dio sotto forma visibile e abolisce il culto dei santi. Dalle immagini non si può imparare nulla, “tutto ciò che gli uomini apprendono di Dio attraverso le immagini è frivolo e abusivo”, “gli idoli sono muti” e non si può affidare loro il compito di insegnamento. La Controriforma reagì a questa nuova iconoclastia scatenando la materialità, lo splendore, la gioia del vivere terreno che è l’Arte Barocca. Il Concilio di Trento (15421563) stabilì regole che non frenavano la magnificenza delle opere ma ne controllavano l’ortodossia. Le indicazioni del Concilio sono raccolte da san Carlo Borromeo ne “Istruzioni per la fabbricazione di oggetti per le chiese”. Nelle immagini scolpite o dipinte:“non si dovrà rappresentare nulla di falso, incerto o apocrifo, di superstizioso, di insolito; si eviterà tutto ciò che sia profa47
no, turpe o osceno; che non stimoli gli uomini alla pietà o che possa offendere l’ani dei fedeli. In chiesa non troveranno posto i ritratti di uomini vivi o defunti. Nessun posto per animali a meno che la storia lo richieda espressamente. L’aureola di Cristo si dovrà distinguere, e nessuno, che non sia canonizzato, avrà il capo circonfuso di luce; ai martiri le palme del martirio, ai vescovi la mitra, a ogni santo l’attributo specifico. Seguire la consuetudine di scrivere il nome dei santi”. La fantasia dei medievali deve ritirarsi, in una figuratività che combatte l’iconoclastia protestante e il lusso dei vescovi corrotti. Splendano le immagini, ma sotto il controllo dei Padri conciliari, giochino le architetture, per custodire con grazia le specie eucaristiche; si rappresentino uomini e animali solo a fini didattici, per ricordare. Il problema di Nicea era l’idolatria, che il popolo adorasse le immagini come dei o le rifiutasse come idoli. Il problema dell’Occidente era l’ignoranza: che il popolo si divertisse con le figure e si dimenticasse il suo Dio.
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Le immagini fonetiche Quelle delle parole sono certamente immagini – potremmo chiamarle immagini fonetiche – che rompono il silenzio o meglio declinano e ricapitolano senza posa i momenti di quell’improvvisa rottura del silenzio che fu la creazione. Ma sono le sole immagini consentite. Quelle delle arti figurative, le pitture e le sculture di animali ed esseri umani, non sono tollerate: proprio in quanto sono, per definizione ed essenza, riproduttive, è costante il sospetto, nella cultura ebraica più antica, che siano – o almeno possano esserlo nell’intenzione – un diabolico tentativo di rappresentare quel che non può essere rappresentato, vale a dire il divino. Al più possono essere tollerate le immagini musicali, i canti sacri e talune intonazioni, giacché la musica è apparentata con il linguaggio, ne è in qualche modo la sorella soave. Quando, assai più tardi, negli ultimi due secoli dell’età moderna fioriranno i grandi pittori ebrei, la loro pittura oscillerà tra la esaltazione dell’astratto (il figurativo irreale dei corpi allungati di Modigliani, l’astratta purezza di Kandinskij e di Klee) e la ricorrenza di simboli musicali (si pensi alla presenza del violino nella pittura di Chagall), quasi un invito perentorio, non si sa quanto inconsaputo, ad accostarsi all’opera pittorica senza pretendere di vedere in essa il momento della riproducibilità – che sarebbe idolatrica imitazione dell’atto creativo di Dio – ma semmai nutrendo la speranza
di scorgervi la continuazione dell’opera metaforica e allusiva del linguaggio e della musica. Si può essere però anche narratori nella pittura, e Chagall è un grandissimo narratore nell’immagine, ma è chiaro che c’è un peso diverso nella parola, un peso diverso che esiste anche nel modo di scrivere, che si è trasmesso forse più nella cultura araba di quanto non sia rimasto nella cultura ebraica. Ma, per tutti e due, la calligrafia, la scrittura ha un’importanza enorme. Per gli arabi la scrittura è la voce stessa e può essere modulata. Nella scrittura ebraica non esiste la stessa possibilità di modulazione della scrittura, per cui una parola brevissima può essere scritta in una maniera molto dilatata dilatando tutti i segni. Anche nella cultura cinese la calligrafia assume la stessa importanza a livello artistico: nell’ideogramma cinese c’è l’idea che possa essere ricreata la realtà; nella pittura e nell’ideogramma in particolare, che è sempre pittorico, c’è la creazione della realtà da parte dell’artista. C’è un rispetto straordinario per i calligrafi, sia in Cina sia per gli arabi, e, anche in ebraico, ha questa valore. Quindi la pittura in qualche modo è anche sostituita dalla scrittura, completamente sostituita, perché nella scrittura e nella parola si sente il suono; ed essendo la creazione, come è stato detto, sia nella religione ebraica sia in moltissime altre religioni, un momento di suono, tutta la 51
parola è il continuo riverberarsi di questo suono originale. La calligrafia nella tradizione ebraica risulta complessa ma allo stesso tempo interessante Le lettere ebraiche, le otiot, sono parte della Cabala, sono parte del midrash (l’allegoria), menzionate nel midrashin (le parabole), come materia della creazione. C’è infatti un midrash in cui si narra che Dio giocasse con la combinazione delle lettere, prima di creare il mondo e la Torah. C’è inoltre un paradosso incredibile, che riguarda il rotolo della Torah che si trova nella sinagoga. Bisogna premettere che il rotolo è scritto completamente a mano e che la scrittura del rotolo è un’esperienza mistica di per sé. Aprendo questo rotolo si vedono le lettere, le consonanti, ma non ci sono punti (vocali), non c’è la musica, indicata nel testo stampato con dei segni chiamati teamim, ci sono soltanto le “corone”, taghim. Dunque, nel rotolo della Torah ci sono due cose: i segni, le lettere stesse, nere, consonanti, e questo disegno meraviglioso, le corone, taghim. Ma l’essenziale, i punti e la musica, mancano. Un rabbino che prende il rotolo per leggere e cantare deve conoscere totalmente la musica il sistema di vocalizzazione; ad esempio Bereshit barà si può leggere “borescì”, “briscì”, “brasciò”, “birò”, “barà”, ma lui ha appreso che si dice Bereshit barà. 52
Dunque lo scritto e l’orale sono inseparabili. L’atto del leggere le scritture del rotolo della Torah viene quindi associato all’opera della creazione proprio perché chi legge si ritrova a dare un ordine, un tono ed una pronuncia che sono parti integranti della creazione stessa, per come è definita nella Torah.
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Le lettere e la Qabbalah La cabala o Qabbaláh è parte della tradizione esoterica della mistica ebraica, in particolare il pensiero mistico sviluppatosi in Europa a partire dal VII-VIII secolo. In ebraico, Qabbaláh è l’atto di ricevere, la tradizione (la parola ebraica designa anche la ricevuta, ad esempio in una transazione commerciale, e la funzione di ingresso del sabato, la maggiore festa ebraica). Base del pensiero cabalistico è la Bibbia ebraica o Tanakh (acronimo per “Torah, Profeti, Scritti”). La secolare esegesi del Tanakh, già contenuta nella halakháh (presentazione della casistica giuridica), nella haggadáh (sotto forma narrativa), nei due Talmudím, il babilonese e il gerosolimitano, e nei molti midrashím, aveva ormai da secoli posto l’interpretazione del testo sacro al centro della vita dell’Israelita. Si fa risalire la nascita della visione cabbalistica alla pubblicazione del libro Zohar (splendore), pubblicato intorno al XIII secolo, o al precedente Sépher Yetziràh (Libro della formazione), che però è, secondo alcuni, un’opera più esegetica che filosofica.
quale veniva normalmente utilizzato sia per rappresentare le parole sia come sistema di numerazione di tipo additivo. Ad ogni parola espressa nell’alfabeto ebraico può quindi essere associato un numero, ottenuto sommando i valori numerici di ogni singola lettera. La gematria potrebbe essere stata introdotta nella cultura ebraica come sviluppo dell’isopsefia, che è lo studio numerologico delle parole scritte in greco basato sul sistema di numerazione greco. Inizialmente questo metodo fu usato da scrittori antichi come tecnica di crittografia, soprattutto per nascondere nomi di persona. Quando divenne una disciplina della Qabbalah, la gematria fu applicata per decrittare presunti significati nascosti all’interno della Bibbia ebraica tramite il loro valore numerico.
La permutazione numerica è detta gimatréyah o gematria. Ogni lettera dell’alfabeto ebraico indica un numero; dunque ciascuna parola della Bibbia ha un proprio valore numerico, somma dei valori numerici delle lettere che la compongono. Una parola si può sostituire con un’altra dello stesso valore numerico. La premessa della gematria è una peculiarità dell’alfabeto ebraico, il 55
La lettera come segno “Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono, la rappresentazione che ci viene dalla testimonianza dei nostri sensi” F. de Saussure Nella discussione recente che riguarda la semiologia della scrittura i sistemi scritti hanno un ruolo parallelo a quelli parlati e manifestano strutture simili, la coincidenza delle quali è stata analizzata da linguisti, semiologi e filosofi che hanno avvicinato le forme linguistiche sulla base della necessità di comprenderne il funzionamento o la struttura o, ancora, il modo di realizzazione nei diversi contesti d’uso. Facendo un passo indietro nella storia delle riflessioni inerenti alla realtà semiologica ci sono due punti di riferimento principali, precursori degli studi contemporanei e riformulatori delle ricerche a loro vicine, che hanno segnato il termine di una riflessione che si presentava, invece, spesso frammentaria e non omogenea. Si tratta di Charles Sanders Peirce e di Ferdinand de Saussure, i cui nomi risuonano in ogni manuale e in molte delle ricerche contemporanee, e la preminenza dei quali sembra non poter essere abbandonata né ignorata. 56
Peirce delinea le categorie e dunque le relazioni triadiche (relazioni tra segno, oggetto ed interpretante) in connessione non soltanto alla significatività del simbolo, ma anche ad una grafematicità intesa come possibilità materiale di realizzazione metarappresentativa della semiosi. In altre parole il processo di comunicazione che si realizza attraverso segni, vede la sua rappresentazione fisica nell’uso della scrittura, ovvero di un sistema di rappresentazione grafica della lingua per mezzo di lettere o altri segni (grafemi). Alla luce degli studi più recenti, legati al problema peirceano della rappresentazione grafica di una scrittura configuratesi come lingua, si pone necessaria la domanda sulla relazionalità semiologica di lingua e scrittura che, in effetti, quasi in nessun caso si configurano l’una come specchio dell’altra. Peirce guarda alla dinamicità della significazione e abbandona la preminenza dell’immutabilità di senso nei processi di significazione. L’approccio di Saussure alla questione è differente, in quanto egli si occupa prevalentemente di linguistica. “La materia della linguistica è costituita anzitutto dalla totalità delle manifestazioni del linguaggio umano, si tratti di popoli selvaggi o di nazioni civili, di epoche arcaiche o classiche o di decadenza, tenendo conto per ciascun
periodo non solo del linguaggio corretto e della ‘buona lingua’, ma delle espressioni d’ogni forma. (…) non il linguaggio parlato è naturale per l’uomo, ma la facoltà di costituire una lingua, vale a dire un sistema di segni distinti corrispondenti a delle idee distinte. (…) qualunque sia il punto di vista adottato, il fenomeno linguistico presenta eternamente due facce che si corrispondono e delle quali l’una non vale che in virtù dell’altra. (…) A nostro avviso, non vi è che una soluzione a tutte queste difficoltà: occorre porsi immediatamente sul terreno della lingua e prenderla per norma di tutte le altre manifestazioni del linguaggio.”. Nei Manoscritti le sue riflessioni fanno riferimento alla parola come entità che designa “l’atto individuale del singolo di realizzare la propria facoltà all’interno della convenzione sociale che è la lingua”. Partendo dalle considerazioni fatte da Peirce e da Saussure si definiscono dunque da un lato la semiosi dei grafi esistenziali (nome che scelse per il suo sistema di notazione bidimensionale per le sue teorie) e dall’altro la scrittura come lingua generale che determina la coevoluzione e la coesistenza con il sistema semiologico di riferimento. I segni della scrittura permettono di formulare un’ipotesi di sussistenza sistemica della lingua scritta rispetto alla lingua parlata che nella comunicazione rimane trasformazione o residuo di proprietà sistemiche parallele ma non incongiungibili.
La scrittura è testimone delle età linguistiche all’interno del modello generale che è la lingua, attraverso la forma di schema complesso della relazionalità segnica che regge il pensiero verbale. La vastità della formulazione che guarda alla scrittura come ad uno strumento artificiale che si pone nella naturalità della lingua richiede l’analisi di forme diverse di scrittura e la necessità di tenere in considerazione non soltanto le sistematicità strutturali ma le incongruenze, tra le quali quella individuale del segno è la base, nelle dimensioni che ne realizzano le forme significative. Si tratta allora di de-storicizzare la simbolicità interna ad ogni contesto linguistico per poter cogliere la significatività specifica della scrittura, nella forma che supera il valore del segno grafico considerato di per sé come pura immagine o impressione. Il carattere complesso della rappresentazione scritta non può dunque essere sintetizzato dalla tradizione linguistica, né dalla posizione che la scrittura assume in un gruppo sociale; tuttavia, anche parlare di semplice strumento del pensiero risulta ridondante.
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Origini dell’alfabeto ebraico Lingua e scrittura caratterizzano le civiltà e le tradizioni culturali. Durante le ere preistoriche e protostoriche le pitture murali nelle grotte esprimevano i pensieri e i desideri degli uomini primitivi. Nell’era storica viene introdotto l’uso dei segni per rappresentare parole e idee semplici. Da allora l’uomo è in grado di trasmettere non solo oralmente i propri usi e costumi. Dalla pittografia, che si limitava alla riproduzione di enti concreti, si è poi passati all’ideografia che ha introdotto l’uso di simboli grafici utilizzati per riprodurre parole e concetti. Un ideogramma però può avere sinonimi che fanno riferimento al medesimo concetto e allo stesso tempo omonimi che indicano diverso significato e hanno diversa natura. 4000 anni fa la scrittura ideografica dei Sumeri si trasformò in scrittura cuneiforme, soluzione che modificò gli ideogrammi al punto da renderli irriconoscibili. Si incideva su argilla malleabile con una punta piatta. Parallelamente gli Egizi utilizzavano geroglifici, termine che letteralmente significa “incisione di testi sacri”. La scrittura geroglifica era composta da parole-immagini, sillabe-immagini, lettere-immagini. Il numero dei segni, inizialmente troppo elevato, fu gradualmente diminuito, fino alla definizione dell’alfabeto. Ciò avvenne nella terra di Canaan, incrocio di culture.
La scrittura Protosinaitica Risale ad un millennio e mezzo fa ed era composta da 30 pittogrammi e 150 caratteri agrofonici, in cui ogni lettera rappresentava in modo più o meno stilizzato un ente concreto e corrisponde all’iniziale dell’ente rappresentato. La semplificazione di questa scrittura ha definito la scrittura “protocananea” e il suo alfabeto fu la fonte di tutte le scritture alfabetiche che si diffusero più avanti. Lo step successivo è rappresentato dalla diffusione della scrittura fenicia, composta da 22 consonanti. Quando Ebrei e Aramaici adottarono la scrittura fenicia si ritrovarono impossibilitati a scrivere alcuni dei loro fonemi. Furono così introdotti punti diacritici affinché una lettera potesse avere due pronunce. Le tribù aramaiche, che, partendo dalla Siria, si propagarono verso la Mesopotamia e la Siria del nord, erano senza alfabeto. Dopo essersi stabiliti in Siria, adottarono la scrittura fenicia. Quando caddero sotto il dominio assiro, riuscirono a penetrare sottilmente la cultura assira, e gli Assiri sostennero la diffusione della lingua e della scrittura aramaica. La conquista della Persia da parte degli assiri amplificò la diffusione dell’aramaico.
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La scrittura ebraica e il rapporto con l’aramaico Originariamente, quella ebraica fu la lingua utilizzata dagli Ebrei quando ancora vivevano in maggioranza nel Vicino Oriente. Si stima che circa 2000 anni fa l’ebraico fosse già in disuso come lingua parlata, venendo sostituita dall’aramaico. In ebraico furono scritti gran parte dei libri della Bibbia, tutta la Mishnah, la maggior parte dei libri non canonici e gran parte dei Manoscritti del Mar Morto. La Bibbia fu scritta in ebraico biblico, mentre la Mishnah fu redatta in una varietà tarda della lingua, detta appunto “ebraico della Mishnah”. Ad un certo punto durante il periodo del Secondo Tempio, o poco dopo (non esiste consenso in merito tra gli accademici), la maggior parte degli ebrei abbandonò l’uso quotidiano dell’ebraico come lingua parlata. Centinaia di anni dopo il Secondo Tempio, quando l’ebraico non era più parlato, il Talmud venne composto in aramaico. Nonostante ciò, vi sono indizi secondo i quali ancora nell’VIII secolo della nostra era, la lingua parlata a Tiberiade dai massoreti fosse l’ebraico. Nei secoli seguenti, gli ebrei della diaspora continuarono ad adoperare questa lingua solo per le cerimonie religiose. Nella vita di tutti i giorni, gli ebrei si esprimevano invece in lingue locali o in altre lingue ebraiche come lo yiddish o il ladino, nate dall’incon62
tro tra l’espressione ebraica e altre lingue, spesso scritte con l’alfabeto ebraico. Inoltre, anche quando l’ebraico non rappresentò più la lingua parlata, esso continuò a fungere di generazione in generazione, durante tutto quello che viene detto il periodo dell’ebraico medioevale, da strumento principale di comunicazione scritta degli ebrei. Il suo status tra gli ebrei allora era analogo a quello del latino in Europa Occidentale tra i cristiani. Ciò soprattutto in questioni di natura halachica: per la stesura dei documenti dei tribunali religiosi, per le raccolte di halakhot, per i commenti ai testi sacri ecc. Anche la stesura di lettere e contratti tra ebrei veniva spesso effettuata in ebraico; poiché le donne leggevano l’ebraico ma non lo comprendevano perfettamente, la letteratura halachica ed esegetica loro destinata nelle comunità ashkenazite veniva scritta in yiddish (si pensi ad esempio al testo Tseno Ureno). Anche le opere ebraiche di natura non religiosa o non halachica, venivano composte nelle lingue degli ebrei, o in lingua straniera. L’ebraico entrò nella sua fase moderna con il movimento dell’Haskalah (l’Illuminismo ebraico) in Germania ed Europa Orientale a partire dal XVIII secolo. Sino al XIX secolo, che segnò gli inizi del movimento sionista, l’ebraico continuò a fungere da lingua scritta, soprattutto per scopi religiosi, ma anche per altri vari fini, quali filosofia, scienza,
medicina e letteratura. Nel corso di tutto il secolo XIX l’uso che dell’ebraico si fece a fini laici o mondani andò rafforzandosi. Contemporaneamente al movimento del risorgimento nazionale, iniziò anche l’attività volta a trasformare l’ebraico nella lingua parlata della comunità ebraica in Terra d’Israele (lo yishuv) e per gli ebrei che immigravano nella Palestina ottomana. Il linguista ed entusiasta che diede attuazione pratica all’idea fu Eliezer Ben Yehuda, un ebreo lituano che era emigrato in Palestina nel 1881. Fu lui a creare nuove parole per i concetti legati alla vita moderna, che nell’ebraico classico non esistevano. Il passaggio all’ebraico come lingua di comunicazione dello yishuv in Terra d’Israele fu relativamente rapido. Parallelamente l’ebraico parlato venne sviluppandosi anche in altri centri ebraici dell’Europa Orientale. Joseph Roth riporta una storiella su Herzl e Ben Yehuda. Questa racconta che, poco tempo prima del Primo Congresso Sionista, in un salotto borghese del Centreuropa, il giornalista, nonché fondatore del Sionismo, Theodor Herzl incontrò il linguista Eliezer Ben Yehuda, un ebreo lituano, che sperava di far rinascere l’antica lingua ebraica, ormai relegata al solo rituale del sabato. Ognuno dei due, sentendo raccontare l’altro circa la propria utopia, fece finta di coglierne il fascino, ma, appena lasciato l’interlocutore, ben pensò di spettegolare e malignare quanto assurdo e inattuabile
fosse il proposito di questi. A dispetto dei detrattori, entrambi i sogni furono realizzati. Con la costituzione del governo mandatario britannico nel paese, l’ebraico fu stabilito come terza lingua ufficiale, al fianco dell’arabo e dell’inglese. Alla vigilia della costituzione dello Stato di Israele, essa era già la lingua principale di tutto lo yishuv ebraico, e lingua di studio nei suoi centri di formazione. Ebraico lingua d’Israele Nel 1948, l’ebraico diventò la lingua ufficiale di Israele, insieme all’arabo. Al giorno d’oggi, pur mantenendo un legame con l’ebraico classico, l’ebraico è una lingua che viene usata in tutti i campi della vita, incluse scienza e letteratura. Al suo interno sono confluiti influssi provenienti dallo yiddish, dall’arabo, dal russo e dall’inglese. I locutori di ebraico israeliano sono circa 7 milioni, dei quali la stragrande maggioranza risiede in Israele. In Israele esiste un organo ufficiale che detta lo standard linguistico: l’Accademia della Lingua Ebraica. Sebbene la sua influenza reale sia limitata, essa opera con forza di legge. L’istituto si occupa principalmente di creare nuovi termini e nuovi strumenti lessicali e morfosintattici, attraverso decisioni che sarebbero vincolanti per gli organi istituzionali e le strutture scolastiche 63
statali. Lo sviluppo del settore dei dizionari d’uso corrente nell’Israele degli anni ‘90, ha prodotto alcuni dizionari e lessici che attestano invece la lingua ebraica israeliana reale, e che rappresentano una fonte di autorità alternativa all’Accademia della Lingua Ebraica. Gli ebrei ortodossi non accettarono inizialmente l’idea di usare la “lingua santa” ebraica per la vita quotidiana, e tutt’oggi in Israele alcuni gruppi di ebrei ultra-ortodossi continuano ad usare lo Yiddish per la vita di ogni giorno. Le comunità ebraiche della diaspora continuano a parlare altre lingue, ma gli ebrei che si trasferiscono in Israele hanno sempre dovuto imparare questa lingua per potersi inserire.
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Scrittura e fonetica Per lingua ebraica (in ebraico israeliano: ivrit) si intendono sia l’ebraico biblico (o classico), sia l’ebraico moderno, lingua ufficiale dello Stato di Israele, che conta circa 7 milioni di locutori. Generalmente quello biblico e quello moderno sono considerati come due stadi evolutivi diversi di una stessa lingua (per quanto vi siano a volte difformità notevoli tra lingua antica e contemporanea). L’ebraico è una lingua semitica, e perciò appartenente alla stessa famiglia che accoglie anche le lingue araba, aramaica, amarica, tigrina, ed altre. Per numero di locutori, l’ebraico è la terza lingua semitica dopo l’arabo e l’amarico. L’ebraico si scrive da destra a sinistra. Il suo alfabeto comprende 22 lettere di valore consonantico (cinque delle quali posseggono una forma distinta in fine di parola), più altri segni grafici, questi ultimi sviluppatisi in periodo relativamente tardo, volti a rappresentare la pronuncia delle vocali. Come quello arabo, l’alfabeto ebraico non trascrive le vocali, se non sotto forma di tali piccoli segni posti al di sopra, al di sotto o all’interno delle parole. Come si vedrà in seguito, la vocalizzazione ha comunque importanza per il significato. Gli accenti oggi vengono stampati solo nei libri della Bibbia. In tutti gli altri testi viene fatto uso dei comuni segni di interpunzione sviluppati in Europa, ed impiegati in gran parte delle lingue del mondo.
La caratteristica più nota ed evidente della scrittura ebraica corrente, è la forma squadrata delle sue lettere. Il tipo impiegato a stampa, detto Frank Ruehl, è diffusissimo nonostante le critiche che gli vengono mosse per il fatto che alcune lettere sono molto simili tra di loro, il che le rende difficili da distinguere. L’alfabeto ebraico “quadrato” oggi conosciuto è una variante dell’alfabeto dell’”aramaico d’Impero”, lingua di cancelleria dell’impero persiano. A fianco alla forma a stampa delle lettere, o alfabeto quadrato, esiste anche un alfabeto corsivo per la scrittura rapida; tale scrittura si caratterizza per le linee arrotondate, ed è di uso molto comune nei testi scritti a mano. L’origine di tale scrittura corsiva è nelle comunità ebraiche ashkenazite europee. Una forma alternativa di corsivo, oggi quasi abbandonata, viene detta Rashi, e si originò nelle comunità ebraiche sefardite. Questo nome deriva dal fatto che il primo libro ad essere stampato in tale alfabeto fu il commento di Rashi. Si è soliti impiegare questo alfabeto per stampare i commenti tradizionali alla Bibbia ed al Talmud.
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Struttura Caratteristica dell’ebraico, come delle altre lingue semitiche, è la radice: un morfema discontinuo in genere tri- o quadriconsonantico, dal quale vengono derivate parole riconducibili ad uno stesso campo semantico. In italiano le radici ebraiche vengono tradizionalmente indicate scrivendone le consonanti in maiuscolo. Le consonanti della radice, scrivendo in ebraico, venivano solitamente trascritte separandole con un punto; oggi le convenzioni grammaticali imporrebbero l’uso del trattino, poiché il punto indica una pausa lunga, mentre il trattino congiunge. Le radici non compaiono mai da sole in quanto tali nella lingua, bensì come componenti delle parole, unitamente ad altri morfemi. La radice, modificata da prefissi, suffissi, ed adeguatamente vocalizzata, assume significati diversi. Ad esempio dalla radice KTV, riconducibile all’idea dello scrivere, derivano likhtov “scrivere”, mikhtav “lettera”, ktovet “indirizzo”, lehakhtiv, “dettare”; dalla radice QShR, che esprime il concetto di collegamento, derivano i vocaboli kesher, “contatto personale”, e tikshoret “comunicazione”. Il legame semantico tra parole derivate dalla stessa radice con il tempo può divenire confuso e non è necessariamente evidente o certo. Attualmente non esiste consenso tra i linguisti sul ruolo della radice nella lingua. 68
Vi è chi sostiene la tesi che essa rappresenti una parte inscindibile del patrimonio lessicale, anche se compare solo congiuntamente con altri morfemi, e vi è chi la vede come manifestazione linguistica della quale i locutori non sono necessariamente coscienti a livello intuitivo.
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Le lettere della creazione Relazioni tra alfabeto e giudaismo “Ventidue lettere fondamentali: fissate in una ruota in duecentoventuno porte. La ruota torna avanti e indietro”. Sefer Yetzirah 18 Con questa immagine, che richiama l’arcaico tornio del vasaio, l’autore del Sefer Yetzirah stabilì il modello ermeneutico di tutta la mistica ebraica. Scritto nella Palestina del VI-VII secolo dell’era volgare, il libro contiene una riflessione sul valore delle consonanti ebraiche come strumento della creazione divina. L’alfabeto ebraico viene scomposto nei suoi elementi essenziali e poi inserito in una rete di rimandi simbolici, che va dall’interiorità dell’uomo fino alle leggi fisiche del cosmo, sorta di semi che racchiudono in sé l’energia del divenire. Il movimento della ruota alfabetica evoca la prima fase dell’azione divina sul linguaggio, lo stadio germinale nel quale le consonanti erano animate da una forza di associazione o di repulsione. Allo stesso tempo, le duecentoventuno porte, che in essa si aprono, denotano le possibili combinazioni tra coppie di lettere e costituiscono il presupposto ontologico tanto della realtà esprimibile quanto della comunicazione umana. Il modello proposto dal Sefer Yetzirah portò alla creazione di un’idea di asemanticità del divino, conseguita attraverso l’alterazione
del concetto di sequenza alfabetica. Quello ebraico è forse l’esperimento più radicale di scomposizione del linguaggio. Non si tratta di una semplice alternanza dei segni della grafia, ma dell’istituzione di una vera dinamica alternativa della parola, basata su di un rigoroso principio di circolarità. Lo spazio curvo disegnato dalla ruota delle lettere obbediva cioè a una necessità essenziale di movimento e permutazione, in cui ciascun nesso di consonanti era solo un aggregato provvisorio, subito soppiantato da un nuovo connubio alfabetico. L’inedita configurazione geometrica rifletteva inoltre un principio di circolarità del divenire, che era pure criterio etico. Il cerchio delle lettere può infatti essere interpretato anche come un’archetipica ruota della fortuna, che ora innalzava nella prosperità, ora precipitava nella sventura. Per i cabbalisti le lettere dell’alfabeto incarnano le energie divine che dirigono e creano l’universo materiale. Quando pronunciamo una lettera di questo alfabeto, evochiamo la sua essenza spirituale e creiamo delle forme sante capaci di accedere alla fonte dell’emanazione dalla quale provengono. La Cabala insegna che Dio creò prima le lettere dell’alfabeto ebraico; poi con l’aiuto di queste creò l’Universo. E’ il significato esoterico della prima frase della Genesi “In principio Elohim creò z(tav) e a(alef)”, il che significa che creò le lettere dal alef a tav. L’Universo fu creato con delle combinazioni di lettere, 71
traducendo la volontà divina in realtà, e il Tabernacolo, che era il suo riflesso ridotto in scala, fu costruito secondo questa regola, così come afferma il Talmud (Berakhoth 55a):
della ventidue lettere all’origine della Creazione. In effetti la prima frase della Genesi ha come iniziali le seguenti lettere BetBet- Alef- Alef-He-Vav-He, la cui somma è uguale a 22 (2+2+1+1+5+6+5).
“Betsalel ha saputo combinare le lettere con le quali furono creati i cieli e la terra. Così è detto (Esodo 31:3) : ‘L’ho colmato con il soffio di Elohim di sapienza, comprensione e conoscenza, ed è scritto: YHWH ha fondato il mondo con la sapienza, ha creato i cieli con la comprensione”.
Le lettere dell’alfabeto ebraico formano un insieme di forme spirituali, attraverso le quali il Creatore esprime la sua volontà nella Creazione. Un modo di combinare queste forze spirituali ha prodotto i cieli, un altro la terra, un altro la luce e così via. In questo modo le 22 lettere sacre formano “la veste” della creazione. L’alfabeto ebraico rappresenta, in un certo senso, i mattoni e il cemento dell’anima universale, nella quale ogni individuo rappresenta una combinazione essenziale per l’armonia dell’insieme.
Il Sepher Yetzirah descrive la formazione del mondo con l’ausilio delle ventidue lettere:
“Ventidue lettere fondamentali: egli le ha incise, scolpite, permutate, pesate, trasformate. Con esse ha rappresentato tutto ciò che è stato e che sarà formato”. “Ventidue lettere disposte in un cerchio...” Le ventidue lettere hanno dinamizzato il ciclo dei sette giorni della Creazione, da Alef a Tav. E’ interessante notare che 22/7= 3,14.. numero irrazionale, indica il rapporto della circonferenza col diametro del cerchio. La gematria ci consente di scoprire la presenza 72
Nella Torah, l’insieme delle individualità è indicato con il nome “Israel” che è l’acrostico di : “Yesh Shishim Ribu Othioth Latorah” Durante l’opera di Creazione, Dio chiese ad Adamo di dare un nome ad ogni creatura, ossia di confermare la loro esistenza attraverso una combinazione di lettere. In tal modo, se la potenza contenuta nelle lettere è una creatura divina, il nome e la forma della lettera sono creazioni umane e, in quanto tali, possono essere manipolate dall’uomo con alcune condizioni. L’importante è non prendere in considerazione solo
l’involucro della lettera. Solo il testo rivelato della Torah consente l’elevazione delle lettere, e dell’anima che vi si collega. L’alfabeto ebraico è composto da ventidue lettere, più cinque finali e un sistema di vocalizzazioni che avviene grazie all’uso di segni diacritici collocati in alto, in basso e dentro le lettere. Ogni lettera corrisponde a un numero secondo la sua collocazione, a un ideogramma secondo la sua forma e ad un simbolo secondo i suoi rapporti con le altre lettere. Il Sepher Yetzirah struttura le ventidue lettere in cinque livelli:
“Ventidue lettere fondamentali: Egli le ha incise con la voce, le ha scolpite con il soffio, le ha fissate nella bocca in cinque luoghi: Alef, Heth, He, ‘Ayn nella gola; Gimel, Yod, Kaf, Qof nel parlato; Dalet, Tet, Lamed, Nun, Tav nella lingua; Zayn, Samek, Shin, Resh, Tsadi nei denti; Bet, Vav, Mem, Pe nelle labbra”. E ne definisce anche una gerarchia. Si parla infatti di
“tre madri, sette doppie e dodici semplici. Le tre madri: Alef, Mem, Shin. Fondate sul piatto del merito e sul piatto del dovere e la lingua è la legge tra le due.
Tre madri, Alef, Mem, Shin. Mem mormora, Shin sibila e Alef è il soffio d’aria che equilibra le due”. Le sette doppie si combinano nei sette piani della manifestazione e simboleggiano il tempo in quanto struttura dello spazio. Si chiamano: Bet, Gimel, Dalet, Kaf, Pe, Resh, Tav e sono dette doppie perchè hanno due possibili pronunce; rappresentano le sette estremità del mondo: alto, basso, est, ovest, nord, sud, centro. Sono anche i sette pianeti, i sette giorni della creazione e della settimana, e così via. Lo scenario sul quale si evolvono le sette doppie è diviso in dodici settori, che sono le dodici semplici. Sono He, Vav, Zayn, Heth, Yod, Lamed, Nun, Samek, ‘Ayn, Tsadi, Qof). Rappresentano le 12 direzioni intermedie dello spazio, i 12 segni dello zodiaco e i 12 mesi dell’anno. Per estensione indicano lo spazio. Grazie a questo quadro concettuale, il principio combinatorio divenne nella mistica ebraica metodo fondante della conoscenza e il Sefer Yetzirah fu considerato non solo norma della dottrina linguistica ma anche guida di sapienza cosmologica. Gli eruditi che ricorrevano alla ruota delle lettere erano convinti di possedere una chiave interpretativa d’indiscussa autorevolezza, che permetteva loro di accedere al deposito dei sensi ulteriori nascosto sotto la superficie del testo e di inoltrarsi così in una contemplazione che li avrebbe portati fino alla radice asemantica del cosmo. 73
La ruota del Sefer Yetzirah assunse nel tempo i tratti di un manufatto concreto: un espediente grafico o un vero e proprio oggetto ritagliato nella pergamena, nella carta o nel legno, con cui il mistico faceva muovere davanti a sé le duecentoventuno ‘porte’ della permutazione. Il cerchio delle consonanti è riportato in un gran numero di testi di commento all’opera e interpretato da diversi autori con alcune varianti, legate a differenza di scuola o di area geografica di provenienza. La ruota è di solito disegnata come una successione delle ventidue lettere dell’alfabeto, ripetuta più volte e accompagnata da tabelle, che costituiscono una proiezione bidimensionale del suo moto e riproducono le coppie che essa genera, volgendosi in avanti e indietro. Ciascuna di queste coppie rappresenta una sorta di archetipo celeste della lingua terrena e istituisce una corrispondenza tra le lettere visibili e il loro doppio occulto. Si tratta di un vincolo inerente all’essenza della consonante, in base al quale il mistico sapeva di poter scambiare la lettera che aveva davanti a sé con quella che le era stata appaiata dal movimento della ruota. Le coppie di lettere disegnate nel modello circolare dell’alfabeto instaurarono un criterio di duplicità per cui ogni consonante era costantemente accompagnata da una continua ‘ombra’. Questa testualità dicotomica o binaria creò l’effetto di un’ininterrotta diffrazione, evocando costantemente 74
un secondo enunciato che si aggiungeva a quello letterale. Il dilatarsi del testo non si limitava ad una sola duplicazione, perché il moto continuo della ruota delle lettere dava origine continuamente a nuove sequenze di consonanti. Di permutazione in permutazione, il mistico si distaccava dal senso letterale, spingendo l’estraniamento del significato sino all’estremo statistico di tutte le combinazioni possibili, per poi tornare al punto di partenza. Con la ruota delle lettere, la riscrittura esegetica dei passi biblici fu legittimata anche in base alle ragioni dei nessi alfabetici, che instauravano un rapporto di necessità tra il punto di partenza rappresentato dal significato letterale e quello di arrivo costituito dal nuovo commento. A partire da questo schema il misticismo giudaico sviluppò numerosi criteri di permutazione, con cui intervenire sul testo biblico e produrre nuove interpretazioni. Si vennero così a fissare alcune tipologie principali di permutazione, che prevedevano lo scambio tra consonanti scelte a distanze regolari nella serie alfabetica. Ad esempio, secondo il metodo athash si poteva sostituire la prima lettera con l’ultima, la seconda con la penultima e così via, oppure secondo il metodo alham la prima andava scambiata con la dodicesima, la seconda con la tredicesima…La gematria fu uno di questi metodi e, senz’altro, il più diffuso e utilizzato.
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Tikochin Synagogue Byalystok, Poland
Un ulteriore approfondimento del significato segreto delle lettere nacque poi da considerazioni legate alla loro forma; ciascuna consonante poteva infatti essere scomposta in altre piccole lettere: nella bet era possibile vedere l’unione di una dalet con una waw, nella gimel una yod e una zayin, nella ‘ayin una nun con una zayin. Le lettere, in particolare il loro aspetto, potevano infine essere usate per scopi di meditazione e ascesi. Numerosi furono i cabalisti che praticavano un lungo cammino di astrazione attraverso la concentrazione visiva su alcune consonanti dell’alfabeto ebraico. Applicando tecniche di solitudine e rarefazione, il mistico poteva giungere a immedesimarsi nella forza spirituale di ciascuna lettera, così da divenire tutt’uno con essa. La tradizione giudaica ha trovato nella riflessione sul valore delle lettere uno strumento privilegiato di espressione. Se le raffinate teorie linguistiche appartengono ai livelli più alti della cultura, l’importanza della scrittura è un tema fondamentale per la vita ebraica nel suo complesso e si può dire che l’intera storia del giudaismo sia intessuta delle lettere dell’alfabeto. Le forme delle consonanti rappresentano uno dei simboli più tenaci dell’autonoma identità culturale giudaica. Si tratta di una vera ipertrofia della scrittura, che pervade ogni aspetto della vita religiosa, sia pubblica sia privata. Anche il più piccolo oggetto rituale ebraico reca solitamente una scritta,
quasi sempre il nome del donatore o versi di preghiera. Un gran numero di amuleti dimostra poi la diffusione delle credenze sul valore magico dell’alfabeto. Per alcuni di questi oggetti esiste un preciso precetto biblico, è il caso dei tefillin (astucci che racchiudono strisce di pergamena sulle quali sono vergati brani del Pentateuco e che vanno legati sul braccio sinistro e sulla fronte) o delle mezuzot, da fissare sugli stipiti delle porte, contenenti pergamene con passi biblici. Molti talismani che rientrano nella sfera della pietà popolare recano invece incisi i diversi nomi di YHWH, per proteggere contro il malocchio, lo smarrimento di oggetti o per favorire la fertilità. La capacità evocativa delle forme alfabetiche accompagnò la storia del manoscritto ebraico sin dalla sua fase più antica, tanto che il primo codice datato e decorato a noi giunto nell’895 reca già ampie decorazioni in micrografia. Si tratta di un processo che prevede una forte riduzione delle dimensioni delle lettere e contemporaneamente una torsione delle linee di scrittura. Si affievolisce la funzione semantica a favore di una forte accentuazione del valore allusivo dell’ornato. Ne risulta una proiezione della scrittura in un dominio paratestuale, in cui essa mantiene la generale coloritura di astrazione, propria della comunicazione scritta, ma si concede all’immediatezza della fruizione visiva. È evidente che la scelta di impiegare una parte del materiale 77
testuale in funzione decorativa comportava una strategia di lettura da parte dell’amanuense. Si istituiva una gerarchia oggettiva, una partizione del testo in una zona di pienezza semantica e in un’altra di significato declinante. Il passo in micrografia era ricondotto ad una sottoclasse di contenuto, considerata meno importante dal punto di vista espressivo e quindi sacrificabile alle esigenze dell’ornato. La decorazione ebraica micrografata ebbe esiti formali assai vari, da una rigorosa astrazione geometrica a sviluppi figurativi, che giunsero a insidiare il postulato dell’aniconismo. Le forme astratte si ispirarono qualche volta a schemi tratti da altri generi decorativi, come nel caso dei manoscritti sefarditi del XIII-XV secolo, dove i complessi arabeschi micrografati richiamano gli intrecci dei tappeti islamici. Assai spesso, invece, le linee della microscrittura vennero usate per tracciare disegni di oggetti riconoscibili. La figura della menorah, il candelabro sacro a sette braccia, compare frequentemente nelle pagine dei codici ebraici, ma non sono rare anche immagini zoomorfe o addirittura antropomorfe, come se i contorni geometrici delle consonanti avessero uno statuto diverso dalle linee continue che solitamente racchiudono i disegni e potessero essere usati liberamente, senza per questo profanare il testo sacro. La micrografia fu utilizzata in campo ebraico anche dopo l’avvento della stampa, sebbe78
ne in ambiti marginali, come per esempio nelle ketubbot, i contratti matrimoniali, che continuarono ad esser scritti e decorati a mano, Le ketubbot concessero ampi spazi di libertà creativa, nei quali le micrografie assunsero forme architettoniche, fitomorfiche e araldiche. Esistono anche esempi di micrografie a stampa, come nel caso di un poema del XVII secolo, dove la struttura stellare della composizione evoca una concezione plastica della scrittura, che sembra anticipare gli esiti della poesia concreta. Accanto alla microscrittura, gli amanuensi ebrei utilizzarono altri espedienti di deformazione creativa delle lettere dell’alfabeto. Innanzitutto la macrografia, ovvero l’ingrandimento abnorme di un sintagma testuale, che applicava un principio fisico e simbolico opposto a quello dell’ornato micrografico. Il dilatarsi delle lettere isolava l’enunciato prescelto nel campo scrittorio, con un risultato di forte accentuazione visiva e semantica. Gli interventi di macrografia non riguardavano mai una sola lettera, ma sempre parole intere o anche brevi locuzioni. Di solito si trattava dei termini iniziali del testo, sebbene vi siano ingrandimenti macrografici anche nei colofon, a significare la funzione principalmente retorica di questo tipo di enfasi grafica. La macrografia non fu tuttavia solo un corredo visivo all’interpunzione ma anche una sorta di viatico alla lettura, un nume tutelare al significato, che garantiva un nuovo avvio
o sanciva il compimento di un ciclo semantico. Non mancano infine esempi di commistione tra macro e micrografia, soprattutto in codici provenienti dall’area askenazita, nei quali a tabelle che recano grandi consonanti disegnate con dense campiture di inchiostro sono accostate zone micrografate, che si infittiscono talora di animali fantastici o grilli gotici. Nella chiusura di un machazor, uno scriba askenazita ha per esempio tracciato il proprio nome, modellando in grandi lettere la parte conclusiva del commento che stava copiando, così da estrarre l’essenza ornamentale della grafia ebraica, senza rinunciare alla sua funzione segnica. Questa scrittura che scrive sé stessa costituisce un inaspettato esito formale dell’idea giudaica di proliferazione alfabetica. Nel confondersi dei piani di lettura, le consonanti che compongono il primo testo cedono come per osmosi parte della loro energia e generarono un secondo significante. Ne risulta un’illusione visiva, che trattiene per un attimo i due testi sulla soglia tra senso e non-senso, tra l’innocenza del significato letterale e il rivelarsi dell’allusione.
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