Nel paese dei Makers e dei Fab Lab. La rivoluzione che nasce dalla rete.

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NEL PAESE DEI MAKERS E DEI FAB LAB LA RIVOLUZIONE CHE NASCE DALLA RETE

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO CARLO BO DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E DISCIPLINE UMANISTICHE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN COMUNICAZIONE E PUBBLICITÀ PER LE ORGANIZZAZIONI RELATORE: CHIAR.MA PROF.SSA ROBERTA BARTOLETTI - TESI DI LAUREA DI LAURA ANORI MATR. 251656 ANNO ACCADEMICO 2013/2014



UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI URBINO CARLO BO DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE E DISCIPLINE UMANISTICHE

CORSO DI LAUREA: Magistrale in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni

Nel paese dei Makers e dei Fab Lab. La rivoluzione che nasce dalla rete.

Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Roberta Bartoletti

Tesi di laurea di: Laura Anori Matr. 251656

ANNO ACCADEMICO 2013-2014



Nel paese dei Makers e dei Fab Lab. La rivoluzione che nasce dalla rete.



Nel paese dei Makers e dei Fab Lab. La rivoluzione che nasce dalla rete.

INDICE

Introduzione

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Capitolo 1. Dall’avvento del Prosumer al movimento degli artigiani digitali: i MAKERS 6 1.1

Il consumo come agire sociale

6

1.2

La società dei consumi

9

1.3 Dal consumatore (finto) sovrano al consum-attore, un sovrano illuminato

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1.4 Il potere rivoluzionario del web 2.0 e l’avvento di nuove logiche di consumo (e produzione): la Sharing Economy 15 1.5

Il fenomeno del Crowdsourcing

27

1.6

Il movimento dal basso degli artigiani digitali: i MAKERS

33

1.7

La Terza rivoluzione industriale

40

Capitolo 2. Il futuro della produzione: i FAB LAB (Fabrication Laboratory)

59

2.1

Cosa sono i Fab Lab?

59

2.2

The Fab Charter

67

2.3

I Fab Lab nel mondo

71

2.4

Il Fab Lab itinerante

75

2.5

I Fab Lab in Italia

76

2.5.1 Il fenomeno maker in Italia oggi: Makers’ Enquiry

82

2


2.6

2.7

Case Study: il Fab Lab di Reggio Emilia

83

2.6.1 Una Urban Factory

83

2.6.2 Learn by Doing: dai banchi di scuola ai tavoli del Fab Lab

84

2.6.3 Idea challenge: la collaborazione tra aziende e Fab Lab

84

2.6.4 Il Fab Lab scende in piazza

86

Se faccio, capisco. La comunicazione dei Makers e dei Fab Lab

91

2.7.1 Maker Faire Rome

93

2.7.2 Make in Italy

95

2.7.3 Maker Book Club

99

Conclusioni

100

Bibliografia

105

Sitografia

108

3


INTRODUZIONE Da un po’ di tempo ormai si sente parlare di una nuova rivoluzione industriale in corso. L’invenzione della stampa e del modello industriale sono stati fondamentali per la nascita dell’epoca moderna. Allo stesso modo sta operando Internet nel passaggio verso l’epoca post-moderna: le possibilità offerte da questo mezzo hanno invaso ogni campo del nostro quotidiano, stravolgendo la società ed il modo nel quale ci approcciamo ad esso. Il filosofo francese Pierre Lévy (2002) sostiene che il fine più elevato di Internet sia “l’intelligenza collettiva”. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l’una con l’altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Gli schermi dei computer divengono quindi i luoghi in cui il pensiero viene condiviso e elaborato da persone che possono incontrarsi quando vogliono e indipendentemente dal posto in cui si trovano, per dare il proprio contributo a un processo di pensiero comune, come sottolinea il sociologo belga Derrick de Kerckhove (1997) nella sua teoria dell’intelligenza connettiva. Questo strumento non è soltanto una rete di computer, ma anche e soprattutto una rete di persone che si scambiano informazioni ed emozioni, idee e progetti, beni e servizi. Il suo potere rivoluzionario è dato dal fatto di aver potenziato esponenzialmente un bene di cui tutti disponiamo: la collaborazione. La cultura digitale dopo aver rivoluzionato il mondo dei bit, della musica, dell’editoria e dei video attraverso Internet, ora si appresta a trasformare quello degli oggetti fisici. Come nella prima rivoluzione fu una macchina, quella a vapore, a innescare il grande cambiamento, anche oggi sono nuovi mezzi (come le stampanti 3D, Arduino, i Kinect, le laser cutter, le fresatrici a controllo numerico, ecc.) che stanno lentamente insinuandosi nel nostro quotidiano, a guidare il cambiamento. In Italia, come in altri paesi, si stanno diffondendo a macchia d’olio officine innovative che offrono servizi personalizzati di fabbricazione

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digitale e che prendono il nome di Fab Lab. Si sta definendo inoltre una nuova figura dell’artigiano che trova in questi spazi il suo campo di lavoro privilegiato e su cui si stanno riversando le speranze di riuscire a risollevare le sorti del paese dalla crisi economica e sociale che questo sta vivendo: i Makers. Ma chi sono i makers e in che modo le loro attività contribuiscono a trasformare la nostra economia e la nostra società? Perché artigianato e web 2.0 sono strettamente legati? Da marzo 2012, quando all’Acquario Romano è stata realizzata la Maker Edition del World Wide Rome, ho iniziato a seguire in varie città italiane conferenze, eventi e incontri sul tema. Ho visitato Fab Lab, parlato con makers di tutte le età e partecipato all’edizione europea della Maker Faire tenutasi a Ottobre 2013 presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma. Questa tesi nasce dall’interesse che ha suscitato in me questo universo così vario e vivace e dall’intenzione di condividere l’entusiasmo che mi è stato trasmesso da tutti i makers che ho incontrato, pieni di passione, voglia di fare e con uno sguardo ottimista rivolto verso il futuro. Il mio obiettivo con questo elaborato è di portare in luce il profondo cambiamento che ha investito la figura del consumatore, ma anche far emergere il vero senso della rete, capirne a fondo le sue potenzialità ed esplorare, in tutti i suoi aspetti, il nuovo movimento degli artigiani digitali che progressivamente sta emergendo e sta invadendo la nostra società a livello economico, sociale e culturale.

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Capitolo 1. Dall’avvento del Prosumer al movimento degli artigiani digitali: i MAKERS 1.1

Il consumo come agire sociale

L’espressione “società dei consumi” per lo più è stata utilizzata per sottolineare un fatto oggettivo: il forte e continuo dilatarsi del mondo delle merci, che contrasta vistosamente con la penuria delle epoche precedenti l’età moderna; prevalse dalla necessità di soddisfare i bisogni primari. Nonostante nell’era della modernità si parlasse già di società dei consumi, il consumo in quell’epoca non costituiva altro che un’area marginale. L’etichetta di società dei consumi indicava per lo più una società del benessere, caratterizzata dalla scomparsa della pressione dei bisogni ma non ancora rivolta al soddisfacimento dei desideri. Con il progresso della scienza e l’avvento delle nuove tecnologie, per la maggior parte della popolazione europea occidentale e statunitense i bisogni come la fame, il freddo e la malattia persero i loro connotati più urgenti. Il bisogno non cessò di esistere ma sembra appartenga ormai solo a poche categorie della popolazione, quali i poveri o gli emarginati, ed essere limitato ad aree diverse come i Paesi del Terzo Mondo. Il consumo, nell’era della modernità, era però considerato il linguaggio della produzione e, pertanto, manipolazione più o meno manifesta operata dall’industria. Nella nuova fase della postmodernità in cui si è entrati, il consumo assume invece un’inedita centralità e crucialità. Halliday, linguista britannico dell’Università di Londra, definisce il consumo “come consistente di significati”.1 Egeria Di Nallo (1997), sociologa dei consumi, osserva come “le società post-industriali portano, tra le loro caratteristiche definitorie, quella di allontanarsi dalla centralità della produzione. Si apre allora al consumo la possibilità di allargare il proprio potenziale 1

Così definito da M. A. K. Halliday, citato in R. Paltrinieri, Il consumo come linguaggio, Milano, Franco Angeli, 1998, p.123.

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di autonomia. Accade così che il consumo, che era stato il linguaggio delle società della produzione, si liberi del riferimento alla logica della produzione, tutto sommato limitante e insoddisfacente, e dalla preponderanza degli schemi relativi ai simboli di status e si ripropone come linguaggio di se stesso. I termini utilità, individualità e convenienza, che avevano connotato la ricerca sul consumo, vengono a perdere il loro monopolio di quadri d’analisi, a favore di categorie più vaste e soddisfacenti; a favore di valori simbolici, sociali e culturali”. Secondo Roberta Paltrinieri (1998), il consumo è un linguaggio semantico, un prisma tramite il quale il consumatore vede il mondo. Riconosce in esso un sistema di scambio per la costruzione e ricostruzione di mappe cognitive, collocandolo tra i luoghi del dipanarsi del rapporto tra significati, segni e realtà sociale. Roberta Bartoletti (2002), definisce l’anima delle cose e il loro significato come “intimo”. Il consumo e l’uso di un prodotto entrano quindi nel profondo dell’animo del consumatore. Da queste diverse prospettive emerge che il valore comunicativo delle cose è sempre maggiore e più importante rispetto al loro valore d’uso nel quadro della società dei consumi contemporanea. Questa posizione contrasta la visione portata avanti da diversi autori appartenenti alla scuola di Francoforte, dove il consumo è considerato nei suoi aspetti estremi, come strumento di omologazione degli individui e quindi di riduzione delle loro coscienze. Ma all’interno della società postmoderna, contingente e tendente all’ipercomplessità, l’identità individuale trova nell’ambito del consumo uno strumento per formarsi, esprimersi, agire. Secondo Michel de Certeau (2001), i consumatori utilizzano qualsiasi cosa possano trovare nel contesto che li circonda per dare vita a un incessante lavoro di “fabbricazione” di significati personali. I risultati di questo lavoro del consumatore non sono oggetti concretamente visibili, né tanto meno prodotti che possano essere venduti sul mercato. Si tratta di rielaborazioni che rimangono generalmente nascoste e silenziose, anche perché coperte dalla grande quantità di messaggi parallelamente sviluppati dai sistemi della produzione.

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Giampaolo Fabris (2003) sottolinea che i concetti di bisogno e utilità, cari agli economisti, non trovano più che parzialissimi riscontri nella complessità dei mercati odierni. Nell’attuale società postmoderna il consumo risulta essere inoltre un campo privilegiato

dell’azione

rituale

moderna,

come

sottolinea

Roberta

Bartoletti2; diventa un fattore decisivo, creatore di senso per l’individuo e per ampie corti sociali assumendo la funzione esercitata in passato dalla tradizione, dalla famiglia, dalla religione e dal lavoro. Questo tipo di rituale non solo è in grado di rinnovare e consolidare mondi simbolici, ma anche di crearli. L’ipotesi secondo cui il consumo costituisca un processo fondamentale attraverso cui gli individui esperiscano la loro identità individuale, se non addirittura la creino, è fondata. Non sono più determinanti come un tempo l’appartenenza ad una specifica classe, lo status o il gruppo di riferimento. Gli individui della società contemporanea, contraddistinti come risaputo da una personalità aperta e flessibile, usufruendo di una vasta gamma di prodotti e avendo la possibilità di cambiarli frequentemente, come la società attuale permette, sono reiteratamente coinvolti nel processo di creazione della loro identità, adottando e successivamente scartando identità e stili di vita, con la stessa facilità con cui cambiano d’abito. “Ciò è possibile perché come sostengono Ewen e Ewen (1982) <<oggi non ci sono regole, soltanto scelte>>, quindi <<ognuno può essere chiunque>> (Featherstone, 1991)” (Fabris, 2010).3 Come sottolineano la Douglas e Isherwood nel loro libro “Il mondo delle cose” (1984), “la funzione primaria del consumo è di dare un senso al flusso indistinto degli eventi”, che “utilizza beni per rendere chiaro e visibile un particolare insieme di giudizi nei fluidi processi di classificazione delle persone e degli eventi”. Il consumo dunque consente di contenere la fluttuazione dei significati e di fissare un sistema di classificazione che permetta ad ogni individuo di costruire un mondo dotato di senso e di 2

v. l’articolo di R. Bartoletti, L’efficacia simbolica delle cose: forma e significato dei rituali di consumo contenuto in V. Codeluppi, R. Paltrinieri (a cura di), Dalla produzione al consumo, Sociologia del lavoro, Franco Angeli, vol. 116, 2009.

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condividerlo con gli altri. In questa prospettiva gli oggetti del consumo vanno a configurarsi come oggetti rituali. La continuità, pur nella differenza, tra il mondo del consumo moderno e il mondo degli oggetti sacri primitivi è evidente dal punto di vista della prospettiva culturale: in entrambi i casi “i rituali sono convenzioni che tracciano definizioni collettive visibili” (Douglas, 1979).4 Andando ad analizzare la parola ‘consumo’, notiamo che già l’etimologia della parola stessa svela l’importanza di tale atto quotidiano. Il prefisso ‘cum’ è il prefisso della compagnia, dell’unione e della socialità. Non si consuma da soli nell’isolamento ma con gli altri. E ‘sumere’ designa un’azione connotata positivamente, dunque cum sumere indica una connivenza, “una compartecipazione tra il soggetto che agisce con altri soggetti o con oggetti. L’oggetto non viene rapito ma assunto in una sorta di abbraccio del quale diviene elemento integrante; e di questo abbraccio possono far parte anche altri soggetti una pluralità rintracciabile nelle radici di sumere, summa”.5 Il consumo dunque all’interno del processo sociale, cessa di essere soltanto il risultato del lavoro e della produzione per divenire metafora del rapporto dell’uomo con il mondo: l’uomo è comunicato dalle cose e attraverso di loro è percepibile agli altri uomini. Diventa un atto sociale per eccellenza: consumo come comunicazione, per creare e conservare i rapporti sociali, come scrive Mary Douglas: “i beni sono neutri, ma i loro usi sono sociali: possono essere utilizzati come barriere o come ponti” (1984). 1.2 La società dei consumi Prima della rivoluzione industriale, in quella che Alvin Toffler definisce il periodo della Prima Ondata, corrispondente alla rivoluzione agricola del Neolitico, quasi tutte le persone consumavano ciò che loro stesse producevano, nonostante conservassero piccole quantità di produzione per 4

Così definiti da M. Douglas, citato in P. Faccioli, In altre parole: idee per una sociologia della comunicazione, Milano, Franco Angeli, 2001. 5 E. Sassoli, Ridefinire il consumatore, in «Centri Commerciali Magazine», n. 4-5, 2009, p. 53.

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lo scambio o il mercato. Non erano né produttori né consumatori bensì Prosumer. Fu con la rivoluzione industriale che avvenne una netta scissione tra le due funzioni che determinò una rapida diffusione del mercato o della rete di scambio, ossia quella moltitudine di canali all’interno della quale vengono veicolati beni e servizi. Durante la seconda ondata si assiste al passaggio da una società agricola basata sulla “produzione per l’uso” ad una società industriale basata sulla “produzione per lo scambio”. La produzione di beni e servizi destinati alla vendita o al baratto divenne ampiamente superiore rispetto a quelle attività non retribuite svolte dalle persone per se stesse, il che portò gli economisti a dimenticarsi dell’esistenza di quelle attività gratuite e a ridefinire la stessa parola “economia” in modo da escludere tutte le forme di lavoro di produzione non destinate al mercato, e il prosumer divenne invisibile. Ciò portò tutto il lavoro non retribuito, per esempio quello della vita domestica (dalla pulizia all’organizzazione della vita famigliare) ad essere considerato “non economico”, però senza tener conto del fatto che in assenza di attività dell’economia invisibile non sarebbero state

possibili

quelle

dell’economia

visibile.

Sebbene questa connessione sia stata altamente ignorata durante la Seconda Ondata, il fatto è che i due settori dipendono fortemente l’uno dall’altro. Oggi, politici ed esperti preoccupati per il declino dello sviluppo e della produttività, esitano ancora a considerare il prosumerismo come parte integrante dell’economia ma questo rischia di compromettere la corretta gestione dell’andamento economico; infatti si sta cominciando sempre più a produrre una fondamentale modificazione nelle forme di produzione. In quella che viene definita dall’autore la Terza Ondata, la linea che demarca il confine tra produttore e consumatore diviene sempre più indistinta. Il prosumer assume sempre più importanza. A partire dagli anni Settanta fecero la loro comparsa sul mercato nuovi prodotti che secondo Toffler rappresentano nuove forme di prosumerismo, come ad esempio il test di gravidanza. Sempre in quel periodo iniziarono a comparire movimenti di self-help, organizzazioni che fanno esclusivo affidamento su quella che si potrebbe chiamare “consulenza reciproca”, i primi distributori di benzina self-service, nei supermercati i carrelli

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andarono a sostituire la figura dei commessi che conoscevano tutte le merci e le procuravano ai clienti, nacque la cassa automatica che andò a sostituire in alcune operazioni il personale di banca e iniziarono a diffondersi le prime linee telefoniche per l’assistenza clienti, come la “Cool-Line” di Whirlpool. Questi fenomeni videro in breve una loro diffusione rapidissima. In superficie tutto ciò potrebbe sembrare niente più che una moda, ma ad una lettura più attenta emerge la reale importanza storica di questo fenomeno. Dal consumatore passivo si passa al prosumer attivo, il cui significato si riflette pertanto anche sull’economia. Ciò a cui assistiamo non è soltanto un crescente trasferimento all’esterno del costo del lavoro e un crescente coinvolgimento del consumatore in compiti che erano in precedenza svolti da altri, tendenza che ora interessa molti comparti industriali, ma anche e soprattutto il cambiamento in atto dei valori in direzione dell’autosufficienza. I consumatori tendono ad apprezzare maggiormente i prodotti alla cui creazione sentono di aver partecipato in qualche modo, assemblando un kit o anche solo limitandosi a incoraggiare i creatori via Internet. Il più noto e autorevole economista comportamentale, Dan Ariely e i suoi colleghi, parlano del cosiddetto “effetto IKEA” 6 . Le motivazioni che spingono le persone a creare qualcosa non necessariamente hanno a che fare con il successo o il denaro, bensì con l’esperienza. In un saggio dedicato all’argomento i ricercatori scrivono: “Negli anni Cinquanta, quando vennero lanciati i preparati per torte nell’ambito di un trend più vasto inteso a semplificare la vita alla casalinga americana minimizzando il lavoro manuale, le massaie opposero una significativa resistenza iniziale: quei preparati rendevano troppo facile il compito, portando a una sottovalutazione del loro impegno e delle loro capacità. Di conseguenza, i produttori modificarono la ricetta originaria rendendo necessaria l’aggiunta di un uovo; pur essendoci verosimilmente diverse altre ragioni che possono spiegare perché questo cambiamento portò a una maggiore accettazione del prodotto, l’imposizione di una quota di lavoro manuale appariva una componente cruciale.”7 6

Così definito da D. Ariely e colleghi nel saggio The “Ikea Effect”: When Labor Leads to Love, Boston - MA, Harvard Business School Working Paper 11-091, 2011. 7 Ibid.

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Negli esperimenti sui mobili IKEA, ai partecipanti allo studio illustrato nel saggio veniva data la possibilità di acquistare mobili costruiti da loro stessi o mobili identici costruiti da altri; il risultato è stato che gli intervistati erano disposti ad offrire il 67% in più per le proprie creazioni. Simili risultati sono stati riscontrati con il Lego e con gli origami di carta. In tutti i casi, i partecipanti erano disposti a pagare un sovrapprezzo per dei prodotti che erano costati loro un po’ di sudore. “E’ il cosiddetto premio del produttore, e costituisce l’antidoto più potente contro la commoditizzazione. Esaminate qualunque mercato di nicchia e andate a vedere chi sono i nuovi produttori. Componenti per mountain bike, accessori per auto d’epoca, cover in vinile per cellulari: per tutti questi prodotti c’è una nuova categoria di microimprenditori che vendono su Internet. Ogni mercato è a sé, ma l’elemento comune a questa nuova classe creativa è che si tratta di ex consumatori alla ricerca di qualcosa che non esisteva prima. Così, invece di accontentarsi di quello che c’era sul mercato, hanno prodotto direttamente qualcosa di meglio. E una volta realizzato il primo, è diventato sempre più facile fabbricarne altri. Dall’entusiasmo dei consumatori più appassionati è nato così un piccolo business” (Anderson, 2012). Il lavoro manuale che un tempo era disprezzato, oggi è motivo di orgoglio. Le persone vanno fiere dei lavori che fanno da sé. Sempre di più investono non solo sapere e competenze ma anche e soprattutto creatività e passione. La creatività che qui entra in gioco “è qualcosa in più della semplice capacità di risolvere problemi consolidati a priori. E’ la capacità di inventarsene di nuovi o di guardare a problemi vecchi con occhi diversi” (Micelli, 2011). Alla figura del prosumer di Toffler, si accosta quella del Craft Consumer di Campbell, un manipolatore competente. Questo tipo di artigiano non è inteso esclusivamente come colui che ‘fa a mano’, non riguarda soltanto il fatto che lavori in un contesto dove siano assenti i macchinari. Si tratta di un individuo che ha un controllo sul consumo; su tutto il processo di

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produzione e consumo, che porta amore e competenze, proprio come fanno gli artigiani: sceglie progetti e materiali, dirige la fabbricazione del prodotto investendo il proprio sé in ciò che viene generato. Tipicamente prende tanti articoli, prodotti in massa e li utilizza come materie prime per crearne degli altri nuovi. All’interno di questa nuova forma di artigianato, articoli standardizzati si trasformano in articoli umanizzati. Il consumatore-artigiano fonde in maniera del tutto personale il suo estro e la sua auto-espressione, comunicando qualcosa di sé. Sotto questa luce, il consumo appare come qualcosa di più nobile della distruzione e il consumatore di più di un soggetto che utilizza fino in fondo i beni di cui dispone. 1.3 Dal consumatore (finto) sovrano al consum-­‐attore, un sovrano illuminato Il processo di maturazione che ha interessato negli ultimi decenni i consumatori, rendendoli sempre più esperti e consapevoli del loro ruolo grazie al continuo contatto con i beni e i loro linguaggi, non ha però consentito loro di ribaltare quel rapporto di subordinazione che hanno sempre avuto nei confronti della produzione. E’ risaputo infatti come sia scarsamente attendibile il concetto di “consumatore sovrano”, a lungo sostenuto e difeso durante il Novecento all’interno della riflessione economica (Fabris, 1995). “Se il consumatore era sovrano, certo – nel fordismo maturo – era un monarca a ‘sovranità limitata’. Il consumatore, in realtà, era relegato in una posizione di irrimediabile passività dallo strapotere di un’industria che cercava di modellarlo sulle sue esigenze e di farlo agire secondo le sue previsioni. Anche quando non era possibile standardizzare il prodotto, toccava agli esperti ‘catturare’ la sua attenzione, il suo tempo, il suo concetto di qualità e di differenza. Non avevano più lo standard classico del Modello T di Henry Ford, ma – nella gestione della varietà dei modelli e del loro avvicendamento nel corso del tempo – disponevano dello stesso modo di comportamenti prevedibili, governati a distanza da uno stuolo di abili professionisti: gli uomini del marketing, della

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pubblicità, della vendita, che erano capaci di mettere ordine nei capricci e nei desideri latenti del consumatore. (…) Insomma: sovranità sì, ma avvolta in sottili e luccicanti catene” (Fabris, 2010).

Il consumatore nel secolo scorso si lasciava ingenuamente affascinare con facilità dal mondo del consumo perché piacevole e in grado di offrire costantemente novità accattivanti e sorprendenti. Aveva dunque scarsissimo potere, costretto a scegliere all’interno di un’offerta rigidamente definita dalle imprese, un sistema che stimolava intensamente la sua partecipazione ai processi produttivi e comunicativi, ma nel contempo la limitava istituendo appositi vincoli. “Se oggi il consumatore ha recuperato la sua soggettività, che lo rende in parte imprevedibile, e perso le sue catene, è perché questo equilibrio si è rotto. E questo significa discontinuità, cambiamento dello schema del gioco. Agganciarsi al mito del consumatore sovrano nella tradizionale accezione, per dire che niente di veramente nuovo è successo, è come chiudere gli occhi di fronte alla minaccia del cambiamento del mondo e dei suoi rapporti di forza. Una minaccia che non è solo culturale: prima o poi diventerà infatti anche un fattore di instabilità per gli equilibri di mercato e per gli assetti organizzativi prestabiliti” (Fabris, 2010). Se guardando al Novecento non si trovano reali riscontri della figura del tanto acclamato consumatore sovrano, poiché, come abbiamo visto, aveva potere di scelta ma comunque dentro una gamma finita di possibilità dettata dall’obbligo di utilizzare determinate risorse, oggi invece il convergere di due fenomeni, sinora paralleli, rende più verosimile questa concezione. “Da un lato l’individuo che ha ormai terminato il suo apprendistato nel mondo del consumo - consumare è anche un lavoro come tanti altri che si apprende col tempo - ed è divenuto più competente, più esigente, più in grado di valutare, più diffidente, più difficile da soddisfare. Dall’altro le straordinarie opportunità che il mondo Web con la sua pervasiva rete, soprattutto nelle sue ultime evoluzioni del 2.0, mette a disposizione per acquisire un livello di conoscenze, di opportunità, di scelte inimmaginabili al suo comparire. (…) L’asimmetria informativa, che ha sempre caratterizzato i rapporti tra

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chi produce e chi acquista, tende così ad attenuarsi e il consumatore dispone di una fonte finalmente non interessata per orientare le proprie scelte, consentendogli una crescente autonomia e di una discrezionalità di giudizio” (Fabris, 2010). Negli ultimi anni, il consumatore si è fatto più maturo e consapevole; come lo definisce Fabris “il consumATTORE, più attento e selettivo, più competente ed esigente, ha ormai conquistato un potere e una discrezionalità inimmaginabili sino a un recente passato. L’empowerment e la discrezionalità nuova del consumatore vengono esponenzialmente potenziati dalle tecnologie digitali che lo riscattano dal suo tradizionale ruolo passivo. Egli trova un ruolo più dialettico e rivendica, nei confronti di chi produce e vende, una proattività che intende esercitare fino in fondo” (Fabris, 2010).

1.4 Il potere rivoluzionario del web 2.0 e l’avvento di nuove logiche di consumo (e produzione): la Sharing Economy Lo scenario attuale è ormai pervaso dall’irrompere di nuove rivoluzionarie tecnologie e in cui il consumo si mostra, con sempre maggiore trasparenza, come «agire sociale dotato di senso» (Max Weber). “I nuovi supporti informatici e di comunicazione potrebbero consentire ora, se gestiti e finalizzati, di ampliare a dismisura la capacità di ascolto dell’impresa, di realizzare per la prima volta, nei fatti e non a parole, inedite forme di collaborazione, di co-creazione e partnership con il consumatore. Un consumatore che sta cambiando pelle e che – lasciato ormai alle spalle il periodo storico dominato dai bisogni, in fase di superamento quello orientato alla soddisfazione dei desideri – si sta inoltrando lungo i sentieri dell’economia delle esperienze. In questa società produzione e consumo non sono solo facce di una stessa medaglia ma anche dimensioni profondamente interconnesse, per cui le suddivisioni di un tempo non hanno più alcuna ragione di esistere; una società – quella della postmodernità – dove la vita quotidiana acquisisce una centralità del tutto particolare e dove il consumo, che della quotidianità «è la frazione quantitativamente più

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rilevante» (Alberoni), è destinato ad assumere un ruolo e un’importanza incomparabili rispetto al passato” (Fabris, 2008).

Le nuove tecnologie sono espressione e al tempo stesso artefici dei grandi cambiamenti a cui stiamo assistendo. La loro rapidità di sviluppo e la loro pervasività portano la conoscenza a divenire il nuovo fattore di produzione e l’impresa a rete la nuova protagonista del mondo dell’economia e dei mercati. Il mondo digitale se da un lato modella il mondo del consumo e degli acquisti, dall’altro plasma la nostra vita, ampliandone le prospettive a nostra disposizione e rendendoci più liberi e più partecipi. Cartesio, nella prefazione di “Cogito ergo sum”, scriveva di essere fortunato perché, grazie ai libri, riusciva ad entrare in contatto con le menti più illuminate di tutti i tempi, nel momento in cui tali menti esprimevano il meglio. Il web oltre a regalarci analoghe possibilità che i libri regalavano al filosofo francese ci può formare, ci può far crescere, e ci può connettere in tempo reale con il pensiero delle persone che riteniamo degne del nostro tempo. Con l’avvento di Internet dunque si diffonde più velocemente la conoscenza e parallelamente aumenta la consapevolezza individuale e il diritto di proprietà, di possesso, dell’avere in senso tradizionale inizia a perdere valore. Una volta per alcuni era una certezza irrinunciabile, oggi invece quello che inizia a contare davvero non è più il possesso bensì l’accesso, l’utilizzo, l’esperienza di un bene: non possedere nulla ma poter usare tutto. Internet, luogo per eccellenza dove tutto è noleggiabile e la proprietà non esiste o quantomeno è ridotta al minimo, crea dunque le basi per il delinearsi di un nuovo modello di economia fondato sulla condivisione tra pari (peer-to-peer). La cosiddetta Sharing Economy, a cui il prestigioso settimanale The Economist ha dedicato una copertina nel 2013.

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La copertina del settimanale The Economist dedicata alla Sharing Economy (2013) [Fig. 1] Nella concezione più o meno canonica e diffusa, l’economia altro non è che un sistema attraverso cui dei soggetti sociali (gli attori economici) provvedono al soddisfacimento delle proprie esigenze (bisogni) all’interno di un contesto in cui, essendo limitati gli strumenti per soddisfare queste esigenze (beni economici), è possibile attribuire ad essi un’importanza (valore economico). Il denaro è il modo più veloce, più intuitivo, tangibile. E’ anche la forma più rapida e quella storicamente forse meglio radicata per attribuire un valore economico a un bene. Ma non è l’unica. Internet generato dal web 2.0 è ricchissimo di fenomeni in cui il funzionamento di alcuni servizi e di alcune applicazioni è interpretabile grazie all’esistenza di meccanismi sociali non basati sullo scambio di denaro. Tutto questo rappresenta un cambio di vista epocale sotto molti punti di vista. Alla base di tutto ciò c’è il principio dell’economia del dono, uno dei più importanti lasciti alle scienze sociali da parte del grande antropologo Marcel Mauss (2002). Con questo termine in antropologia si identifica un meccanismo con cui le tribù instaurano un sofisticato insieme di relazioni

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sociali basate sullo scambio reciproco di doni che preparano il terreno a un legame più duraturo nel tempo. Alla luce dei fatti, l’economia del dono è di fondamentale importanza nel web sociale e partecipativo poiché consente di interpretare quei meccanismi, altrimenti difficili da comprendere, che sono la condivisione di oggetti multimediali – musica, film – nel file-sharing (si pensi a software come eMule o Bittorrent) o la libera contribuzione a progetti collaborativi come Wikipedia etc. Che la proprietà sia di ostacolo allo scambio è cosa nota ma che la mobilità e la maggiore flessibilità siano figlie della precarietà che contraddistingue la nostra fase storica, lo è altrettanto. Il lavoro o meglio, la sua scarsità, ci sta insegnando a non zavorrarci di beni materiali perché da noi pretende agilità e flessibilità. Più cose abbiamo, più è difficile e costoso ma anche molto stressante spostarci per seguire opportunità professionali sempre più capricciose. Dunque lo sharing appare come la via più utile da perseguire a questo scopo. Ma la Sharing Economy è anche una conseguenza diretta del downshifting, quello “scalare la marcia” metaforico e culturale che invita a vivere con più semplicità e che negli ultimi anni si è affermato come uno stile di vita ben delineato: togliere a lavoro-carriera-guadagni il ruolo principale e riassegnarlo alla famiglia, agli amici, al tempo per sé. Il down shifter non insegue più la scalata economica, sociale, lavorativa; smette di affannarsi, vuole ristabilire un contatto solido e intimo con il resto del mondo e sceglie la condivisione e il consumo collaborativo per arricchire le sue relazioni e continuare a godere di molti beni che magari non si può più permettere, o che per scelta non gli interessa più possedere. Un cambiare passo decelerando dunque. Un concetto che si sposa bene con un altro concetto cult, quello della decrescita. Tema affrontato dal noto scienziato sociale Serge Latouche nel suo saggio intitolato “Breve trattato sulla decrescita serena” (2007) nella quale illustra le ragioni e l’urgenza di dover abbandonare il sistema della crescita illimitata che, puntando solo al profitto, genera conseguenze disastrose per l’ambiente e per la società.

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Se è ormai riconosciuto che il perseguimento indefinito della crescita è incompatibile con un pianeta finito, le conseguenze (produrre meno e consumare meno) sono invece ben lungi dall’essere accettate. La decrescita di cui parla Latouche, mette al centro il bisogno di dialogo sia tra individuo ed individuo, sia tra culture differenti quanto tra uomo e natura.

Occorre,

secondo

il

suo

pensiero,

abolire

il

sogno

universalista/prevaricatore ed accettare un pluriversalismo, una vera e propria democrazia delle culture tornando a rivendicare valori come l’altruismo, la collaborazione, il piacere e il locale a discapito di valori diventati vuoti simulacri perché ormai sostituiti da individualità, egoismo e rifiuto della morale. In quest’ottica, l’economia collaborativa sembrerebbe fornire una valida risposta ai problemi sollevati da Latouche; infatti non significa solo un consumo più responsabile, ma anche una produzione sostenibile da un punto di vista ambientale e sociale. Secondo un campione di oltre 500 utenti del web8 presi in considerazione nella ricerca “The new sharing economy” da Latitude9, oltre al semplice risparmio di denaro, il campione oggetto di studio reputa la pratica dello sharing uno strumento efficace per rendere il mondo un posto migliore, trovando proprio in quest’ultimo aspetto una “retribuzione immateriale” che va ben oltre la sola e semplice “retribuzione economica”. Un aspetto dalla grande valenza simbolica.

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Gli utenti considerati nel campione hanno aderito da tutto il mondo (fonte: http://www.shareable.net/blog/the-new-sharing-economy) in modo spontaneo alla ricerca e sono stati ricompensati con una gift card di Amazon del valore di 10$ per il tempo e l’attenzione concessa alla compilazione del questionario (fonte: http://latd.com/2010/06/01/shareable-latitude-42-the-new-sharing-economy/) 9 http://latd.com/ Centro di ricerche e consulenze per società di comunicazione con sede a Boston

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La ricerca “The New Sharing Economy” condotta da Latitude (2010) [Fig. 2] La sharing economy rappresenta non solo la possibilità di sentirsi protagonisti del ciclo economico non solo come consumatori, ma dunque anche di accedere a forme di socialità altrimenti inaccessibili. Tutti le piattaforme online di sharing non offrono soltanto servizi ma sono volte al recupero del senso di comunità in tutte le sue accezioni. Una comunità non solo da un punto di vista locale e globale, ma soprattutto più umano e sociale, una comunità che risponde alle proprie esigenze e non a quelle del mercato. Si sta diffondendo una tipologia di nuovi cittadini che offrono la possibilità di utilizzare beni, servizi, informazioni senza rivendicarne un “diritto d’autore” o la proprietà esclusiva degli stessi e che vanno smentendo il luogo comune che li vede pensare solo a se stessi e al proprio soddisfacimento. Il segnale che questo nuovo modello economico non sia soltanto una moda temporanea, ma una tendenza piuttosto inarrestabile, è la sua migrazione dal virtuale al reale. E’ ormai possibile condividere e utilizzare senza possedere beni materiali non digitabilizzabili. Come per esempio un’automobile con il car-pooling o il ride-sharing, una bicicletta con il bike-sharing, un posto letto con Couchsurfing; o ancora, abbigliamento, luoghi di lavoro, una pensione per il

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cane, un parcheggio o vari tipi di utensili e attrezzi per specifiche attività grazie alla Biblioteca delle cose10. In tutti questi casi, la rete, gli smartphone, i social media e i sistemi di geolocalizzazione favoriscono significativamente l’incontro tra domanda e offerta, riducendo costi e distanze. E se la domanda è in crescita – per ragioni di economia, opportunità e/o (come nel caso del downshifting) scelte di vita – anche l’offerta è sempre più ampia: monetizzando beni generalmente non redditizi (come per esempio un posto libero in auto su BlaBlaCar o una stanza in più in casa su AirBnB), la Sharing Economy apre fonti di reddito supplementare di estrema importanza, quando il lavoro “vero” diventa un’incertezza. Rispetto alla ricerca sul tema presa in considerazione fino ad ora, è interessante analizzare quella condotta dall’agenzia americana Campbell Mithun11. La ricerca svolta nel gennaio 2012 con un questionario online, ha raccolto 383 risposte da ogni parte del mondo. Seppur l’indagine sia stata condotta distinguendo alla base i benefici in razionali ed emotivi, ciò che colpisce è che comunque la prima ragione che porta a condividere, in entrambi i casi, risulta essere l’importanza del denaro. Un dato che contraddice i risultati raccolti dalla ricerca svolta sul tema da Latitude due anni prima.

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L’idea della Biblioteca delle cose nasce in Germania nel giugno 2012 grazie al Leila Project. Si tratta di un piccolo negozio a nord-est di Berlino dove è possibile portare gli oggetti non più utili e prendere in prestito, gratuitamente, quello che serve. Il progetto dal momento del suo avvio, ha ispirato medesimi negozi in diversi distretti di Berlino ma anche in altre città europee come Kiel e Vienna. Si veda l’ articolo “Berlin ‘borrowing shop’ promotes the benefits of sharing” su http://www.theguardian.com/world/2014/mar/17/berlin-borrowing-shop-benefits-shareleila 11 http://www.cmithun.com/ Si veda la ricerca “National study quantifies reality of the ‘sharing economy’ movement”

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Le 5 motivazioni razionali secondo cui le persone condividono Fonte: Campbell Mithun (2012) [Fig. 3]

Le 5 motivazioni emotive secondo cui le persone condividono Fonte: Campbell Mithun (2012) [Fig. 4] Alla luce delle risposte rese note dal Campbell Mithun, i docenti di economia internazionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Mario A. Maggioni e Simona Beretta, commentano in un articolo pubblicato sul sito doppiozero.com così: “Quello che è interessante, non sono tanto le risposte, pur rivelatrici, ma il modo stesso in cui sono poste le domande: ragione ed emozione sono separate già in partenza! Viene il sospetto che alla base dell’entusiasmo per la sharing economy si trovi ancora una volta quell’errore antropologico di stampo utopistico, le cui radici affondano nell’illuminismo à la Rousseau, per cui esiste una condizione – che il filosofo francese

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identificava nello stato di natura – non corrotto dalle convenzioni e dalle istituzioni sociali. In realtà non basta l’oggetto a decidere della bontà di un’azione; non basta la condivisione materiale per poter dire davvero ‘noi’. In fondo, si tratta di una saggezza antica: non c’è spazio umano in cui non rilevi l’eredità del peccato originale. Anche nella sharing economy rimane aperto il dramma della libertà umana: non c’è rete che tenga, non c’è social che salvi.”12 Dunque secondo gli autori dell’articolo, bisogna essere cauti e guardare con occhio critico al grande entusiasmo che circonda la sharing economy poiché è da ingenui pensare che liberandosi dal vincolo delle regole e delle istituzioni sarà più facile riappropriarsi di uno stile di vita più sereno ed equilibrato. Inoltre se apparentemente lo sharing sembra essere diventato la nuova filosofia alla quale la società occidentale si sta ispirando, in realtà condividere dipende sempre dalle scelte individuali e non tutti sono disposti a farlo o non sempre i motivi che spingono i singoli a praticarlo sono ispirati a ideali etici e morali. A livello internazionale, è vero che le piattaforme di condivisione online sono nate, in parte, come conseguenza della crisi economica che ha spinto la popolazione a trovare soluzioni creative per affrontarla. Quindi per una ragione più di stampo economico; di risparmio e guadagno. Ma come si evince dallo studio più recente, pubblicato in “Sharity” (2013) dal Gottlieb Duttweiler Institute 13, anche in paesi come la Svizzera, dove la crisi non si è fatta particolarmente sentire, la condivisione ha trovato terreno fertile e non solo per ragioni finanziarie. Attraverso un questionario online, l’istituto di ricerca ha chiesto a circa 1100 persone, in Svizzera e in Germania, cosa sono disposte a condividere e per quali ragioni.

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Si veda l’articolo “Non c'è rete che tenga, non c'è social che salvi” http://www.doppiozero.com/materiali/chefare/non-c%C3%A8-rete-che-tenga-nonc%C3%A8-social-che-salvi di Mario A. Maggioni e Simona Beretta del 24 Gennaio 2014 13 GDI – Gottlieb Duttweiler Institute Organizzazione no-profit svizzera che si occupa di ricerche scientifiche nell’ambito economico e sociologico http://www.gdi.ch/en

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Dai dati risulta che le donne condividono più spesso degli uomini; i bambini, gli studenti e in generale i giovani fino a 29 anni condividono molte più cose con gli altri; i pensionati sono coloro che lo fanno meno. Le cose che vengono condivise senza esitazione si contraddistinguono per il fatto che, condividendole, non diminuiscono materialmente ad esempio informazioni, idee, foto e musica; che sono scambiabili e che non rappresentano un particolare valore personale ad esempio gli attrezzi, la lavatrice o l’auto oppure che in generale si tratta di qualcosa di consueto come il cibo. Le cose che hanno un valore materiale o immateriale più elevato, vengono condivise con riserva; per lo più con le persone con cui vi è un legame stretto. Altri fattori che dissuadono le persone dalla condivisione sono igiene e pulizia. I vestiti, le scarpe oppure le cuffie vengono condivise solo in via eccezionale.

Infografica tratta dalla ricerca “Sharity” condotta dal GDI (2013) [Fig. 5] Ma ciò che emerge dallo studio e appare l’aspetto più interessante, mette in risalto che per gli utenti la priorità appare essere una questione sociale. Si divertono di più a stare in compagnia e il fatto di condividere l’auto li fa stare meglio poichè diventa un’esperienza di socievolezza, rafforza le relazioni esistenti schiudendo nuove possibilità di contatto e secondo una visione più ampia, darebbe l’impressione di rafforzare la coesione all’interno della società. Si evince dunque che le persone siano indotte a condividere perché attratte dal forte benessere psicologico che ne deriva.

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Se per i singoli questi nuovi approcci al consumo costituiscono vantaggi economici e soprattutto sociali, il sistema produttivo, restio a radicali cambiamenti e ancorato a logiche tradizionali, nonostante assista alla costante diffusione del fenomeno, cerca di capire fino a che punto questa tendenza possa rappresentare un vantaggio per sé. Per esempio, in molti paesi, le autorità si preoccupano del successo del “social travelling”, perché nel sistema attuale sfugge a ogni tassa e imposta. E in molti altri, come in Italia, le imprese o i rappresentanti di categoria guardano a questa trasformazione con timore e sospetto che possa recare loro danno. Note sono le polemiche mosse dai taxisti verso Uber, l’applicazione che consente di prenotare via smartphone un'auto privata con conducente. Un rischio che spesso viene tenuto poco in considerazione poi, è anche quello del Digital divide. Apparentemente tutti possono avere accesso ai servizi di sharing ma essendo per lo più tutti online, nel concreto può usufruirne soltanto chi dispone di una connessione, di uno smartphone o di un pc e di adeguate competenze digitali. Inoltre, di fronte al diffondersi di questa nuova forma di economia, non manca chi sostiene che dietro questi neologismi in lingua inglese ci siano in realtà delle dinamiche e delle istituzioni che vantano una lunga tradizione nel substrato culturale del nostro paese: “che cosa ha il crowdfunding in più rispetto alla più casereccia ‘colletta’? In che senso il co-working è più affascinante di una cooperativa? Ma soprattutto: non è ingenuo pensare che, con la Sharing Economy, si sia finalmente risolta la tensione fra l’io e il tu, fra l’io e il noi? Che l’economia e l’etica si siano efficacemente saldate, solo perché condividendo si possono anche fare dei soldi?.”14

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Si veda l’articolo “Non c'è rete che tenga, non c'è social che salvi” http://www.doppiozero.com/materiali/chefare/non-c%C3%A8-rete-che-tenga-nonc%C3%A8-social-che-salvi di Mario A. Maggioni e Simona Beretta del 24 Gennaio 2014

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In un’intervista di EconomyUp.it 15 , la sociologa e organizzatrice di Sharitaly16, Ivana Pais, alla domanda: “perché molte aziende italiane hanno ancora resistenze verso l’economia della condivisione?”, risponde così: “I motivi sono sostanzialmente tre. Il primo è l’ignoranza, nel senso che ci sono tante aziende che ancora non conoscono questo fenomeno. Il secondo è la paura di perdere il controllo sul proprio business: la condivisione è molto orizzontale e poco verticale, quindi più difficile da gestire in modo tradizionale. Il terzo è il timore che queste formule rappresentino un danno per la propria attività, mentre spesso è un’opportunità da cogliere. Alcuni studi, soprattutto nell’ambito turistico, dimostrano che il valore economico creato da aziende attive nella sharing economy, può essere anche maggiore di quello distrutto facendo concorrenza ai business tradizionali: per esempio, se Airbnb ha messo in crisi gli alberghi a 2 e 3 stelle, dall’altra parte ha fatto crescere i b&b e i privati, sia nei centri che nelle periferie”.17 Per creare fiducia intorno al tema bisogna, prima di tutto, fare informazione, come sottolinea Marta Mainieri18, fondatrice di Collaboriamo.org19: “Per diffondere l’economia collaborativa e sfruttarne a pieno le opportunità che offre, bisogna però creare fiducia intorno al tema che significa, prima di tutto, fare informazione: continuare a spiegare e a diffondere i vantaggi di questa nuova economia a tutti i possibili interlocutori (privati, aziende, PA) cercando di arrivare anche in parti di Italia più isolate. Un’efficace e capillare comunicazione, tuttavia, non è più sufficiente. Per creare fiducia bisogna anche iniziare a lavorare su progetti concreti in modo da costruire casi di studio che poi possono essere presi da esempio in altri contesti. (…) In questo senso l’expo di Milano è un’occasione ghiotta. Siglando degli accordi con i servizi collaborativi, per esempio, l’amministrazione milanese potrebbe garantire durante la manifestazioni ospitalità (senza dover ricorrere alla costruzione di 15

Il più grande database delle startup italiane Il primo evento dedicato all’economia collaborativa in Italia svoltosi a Milano il 29 novembre 2013. 17 http://www.economyup.it/startup/493_che-cos-e-la-sharing-economy-e-perche-e-ilponte-fra-aziende-e-startup.htm 18 Autrice di “Collaboriamo! come i social media ci aiutano a lavorare e a vivere bene in tempo di crisi” (Hoepli, 2013) e fondatrice di Collaboriamo.org. 19 Sito web che ha lo scopo di riunire tutti i servizi collaborativi italiani per dargli visibilità e farli conoscere e usare a un numero sempre maggiore di persone. 16

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nuove strutture), trasporti alternativi, percorsi culinari e culturali differenti da quelli tradizionali.”20 In Italia (come nel resto del mondo) esistono leggi, molto spesso obsolete, che non prevedono transazioni fra pari come quelle che dovrebbero regolare le piattaforme collaborative. “La fiducia nell’economia condivisa deve essere alimentata anche con le regole. La mancanza di una normativa chiara spinge i servizi a non innovare fino in fondo e gli utenti ad avere remore a utilizzarli.”21 Un’opportunità dunque che se ben sfruttata può costituire una grande risorsa non soltanto per i singoli ma anche per le istituzioni e le imprese. 1.5 Il fenomeno del Crowdsourcing Mentre la vecchia rete era fatta di siti web dai contenuti statici, è un dato innegabile che la nuova rete sia fatta di comunità, di partecipazione, di condivisione. Il filosofo francese Pierre Lévy (2002), parla di una vera e propria “intelligenza collettiva”. La partecipazione degli utenti, caratteristica principale del 2.0, ha permesso uno sviluppo delle potenzialità del web incontenibile, imprevedibile, ed in continuo flusso. Se ne possono prevedere i passaggi, ma non le conseguenze. L’utente scopre, col 2.0, di poter collegare il suo pensiero con ogni individuo del mondo e l’informazione, la diffusione, la creazione di contenuti, diventa partecipativa: nel 2003 assistiamo al boom dei social networks. Il sociologo belga Derrick de Kerckhove (1997) rende bene questo processo nella sua “teoria dell’intelligenza connettiva” che richiama il meccanismo della teoria di Lévy e adattandola al contesto tecnologico delle reti, sottolinea come gli schermi del computer divengano quindi i luoghi in cui il pensiero viene condiviso e elaborato da persone che possono 20

http://www.chefuturo.it/2013/12/e-la-sharing-economy-la-grande-occasione-di-expo-locapiranno/ 21 http://www.chefuturo.it/2013/12/e-la-sharing-economy-la-grande-occasione-di-expo-locapiranno/

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incontrarsi quando vogliono e indipendentemente dal posto in cui si trovano, per dare il proprio contributo ad un processo di pensiero comune. Ma oggi navigare su internet non significa più soltanto conoscere persone nuove, creare community, condividere i propri interessi, pubblicare un proprio video su YouTube. Internet si è avvalso delle grandi potenzialità mutuate dall’esempio dell’open source grazie al quale i programmatori di software indipendenti si sono uniti in una collaborazione globale per sviluppare software sulla base dell’accesso libero ai codici sorgente, su cui ogni utente poteva porre modifiche per realizzare continui aggiornamenti. Il fenomeno dell’open source ha costretto le grandi aziende monopolizzanti come Apple e Microsoft ad adeguarsi ad una nuova collaborazione di massa che ha abbassato notevolmente i costi di sviluppo ed accelerato il progresso del mercato di settore. Permettere agli utenti di partecipare alla creazione e all’innovazione dei prodotti ha dato vita alla nuova forma collaborativa della peer production collaborazione tra pari - che permette di sfruttare la competenza, l’inventiva, l’intelligenza umana con efficacia ed efficienza. Questo modello di produzione partecipativa che coinvolge i campi dell’economia, dell’informazione, della produzione cinematografica e molti altri campi, viene oggi definito Crowdsourcing. Il neologismo – nato dall’accostamento delle parole “Crowd” (folla di gente comune) e “outsourcing” (affidare al di fuori della propria impresa parte dei processi produttivi) - è stato coniato dal giornalista Jeff Howe che nel 2006 pubblicò un articolo sulla rivista Wired dal titolo “The Rise of Crowdsourcing” 22. Howe lo descrive come “l’affidamento di un’attività tradizionalmente svolta all’interno” di un nucleo organizzativo, “ad una comunità di persone non legate da vincoli organizzativi e che generalmente non si conoscono fra loro.” Il motore del crowdsourcing è alimentato dall’energia e dalla dedizione di coloro che mettono a disposizione il proprio tempo e le loro capacità per collaborare ad un progetto che apparentemente non restituisce loro un corrispettivo economico, ma da cui traggono comunque vantaggio in 22

Howe J., “The Rise of Crowdsourcing”, Wired, Giugno 2006, http://archive.wired.com/wired/archive/14.06/crowds.html

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prestigio personale, spesso tramite le quotazioni e il sistema di punteggi che vengono assegnati dai fruitori del web ai contributi migliori (ad esempio Yahoo!Answers). Questi appassionati volontari sono persone con un background e con abilità estremamente eterogenee che vengono messe in connessione da uno scopo comune attraverso il web. Nella maggior parte dei casi sono persone che nella vita sociale si occupano di mansioni diverse da quelle che curano su internet come un hobby, e sono spinti dalla passione per alcuni ambiti in cui non sono occupati professionalmente. Si definiscono hobbisti, oppure amatori e da quando il web ha fornito loro la possibilità di riunirsi in una forma di collaborazione organizzata, competono con successo con i professionisti nella realizzazione di un progetto o nello svolgimento di un compito. Quasi tutti non sono motivati dall’incentivo economico ma mettono a disposizione le loro capacità extra per collaborare in progetti di cui condividono le intenzioni. Questo anche perché seppur abbiamo avuto una maggior istruzione e sono nate nuove figure professionali, spesso gli individui non raggiungono una collocazione nel mondo del lavoro che soddisfi i loro bisogni ed il loro livello di istruzione per cui si sentono sotto realizzati e cercano attività più significative fuori dagli orari lavorativi. In un articolo pubblicato sul New York Times Magazine, Adam Davidson23 sostiene che i bisogni fondamentali della classe medio-alta nella società attuale siano stati tutti abbondantemente soddisfatti: “Uno dei principi su cui si fonda quella nuova materia che è l’economia della felicità afferma, piuttosto persuasivamente, che una volta raggiunto un certo livello di benessere, le persone sono disposte a – se non addirittura desiderose di – rinunciare ai potenziali benefici economici di un lavoro ben pagato ma poco stimolante in cambio di una retribuzione inferiore (ma comunque dignitosa) per un lavoro più soddisfacente. Le ricerche effettuate dall’economista dell’università di Chicago Erik Hurst indicano che metà degli imprenditori avviano un’azienda con il duplice obiettivo di cercare la felicità e di fare soldi.”24 23

Giornalista americano presso la NPR (National Public Radio), esperto del settore economico-finanziario 24 http://www.nytimes.com/2012/02/19/magazine/adam-davidson-craft-business.html

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Il tasso d’insoddisfazione personale nel proprio lavoro oggi è più elevato, come rivela l'ultima indagine Eurobarometro 25 pubblicata lo scorso 24 aprile, che esamina come la crisi abbia inciso sulla qualità del lavoro. Del campione italiano ascoltato da Eurobarometro (circa mille interviste), il 73% reputa "negative" le proprie condizioni di lavoro, e l'85% ritiene che siano peggiorate con la crisi negli ultimi cinque anni.

Flash Eurobarometer reports (2014) [Fig. 6] Ciò è coerente con il boom di attività amatoriali a cui stiamo assistendo in questi anni. Su YouTube sono sorte vere e proprie web TV tramite i quali le nuove web celebreties stanno riscuotendo notorietà. Emblematici sono i casi di ClioMakeUp e Willwoosh, intraprendenti video blogger italiani che hanno riscosso così tanto successo sulla rete da raggiungere in tempi brevi la conduzione di programmi televisivi e radiofonici su importanti emittenti nazionali. 25

http://ec.europa.eu/public_opinion/flash/fl_398_fact_it_en.pdf

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I proprietari dei siti che ospitano i network personali ricavano utili semplicemente affidando al crowdsourcing la creazione di contenuti, destinando anche parte del ricavato ai creatori stessi che ricevono un incentivo maggiore, oltre all’aspettativa di successo. Il fenomeno del crowdsourcing come abbiamo detto precedentemente non riguarda soltanto l’ambito dell’entertainment; negli ultimi anni anche le aziende hanno teso una mano al lavoro collaborativo delle masse. La piattaforma InnoCentive26 ne è l’esempio più lampante; tra i suoi clienti infatti

risultano

prestigiose

aziende

come

Boeing,

Dupont

e

Procter&Gamble.

InnoCentive.com (2014) [Fig. 7] La società di crowdsourcing con sede a Waltham, nel Massachusetts affida lo svolgimento delle ricerche che commissiona ad un’ampia rete di scienziati amatoriali. Il concetto che sta alla base di questa piattaforma è l’Open innovation, che consente di aggregare le menti più qualificate nell'ambito della R&S, con l'obiettivo di ridurre i costi e di rendere più rapida la soluzioni dei problemi. Grazie a InnoCentive, infatti, le aziende possono attingere ai talenti di una community globale di oltre 140.000 ricercatori scientifici in più di 170 paesi nel mondo, senza doverli assumere a tempo pieno. InnoCentive garantisce l’anonimato ai suoi collaboratori e 26

https://www.innocentive.com/

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non rivela a quale società sia destinata la ricerca anche perché i solutori spesso non hanno compiuto studi specialistici nei campi in cui si dilettano, ma questo non comporta una discriminante poiché nessuno ne conosce l’identità. Il crowdsourcing si rivela fortemente meritocratico e globale. Nessuna discriminante razziale, territoriale, politica o data dal titolo di studio entra in gioco ed il fatto che ci siano tante persone dal background diverso, crea un’osservazione sull’oggetto di studio non condizionata dai classici approcci di ricerca dello specifico settore all’interno della quale normalmente viene svolta. E’ ormai abitudine per i consumatori, personalizzare i prodotti che acquistano e scambiarsi consigli tramite il web. I fruitori non si accontentano di utilizzare un prodotto senza potenziarne l’utilizzo e, nel caso di prodotti tecnologici, in alcuni casi sostituiscono i software in dotazione con software open source per aumentarne le potenzialità, si pensi per esempio a chi ricorre a schede Arduino27 per modificarne o ampliarne le funzionalità. I consumatori in questo caso vengono interrogati per partecipare al processo di produzione delle merci in modo tale da poter prevedere quali saranno i limiti del prodotto immesso sul mercato, e le future modifiche che i consumatori tecnologizzati vorranno ottenere. I consumatori non sono più passivi, bensì attivi. Ma è grazie al Crowdsourcing che il fenomeno del prosumerismo ha uno sviluppo esponenziale e acquista un’identità ed un ruolo fondamentale capace di ispirare tutti i campi della produzione umana. Mai come in questo momento storico, la società ha avuto a disposizione mezzi che passando dall’ambito dei media e dell’intrattenimento giungono a rivoluzionare completamente anche la struttura economica. Possiamo dunque definire questi nuovi mezzi come vere e proprie “armi di collaborazione di massa” 28 , a cui dobbiamo riconoscere il potenziale 27

Scheda elettronica con microcontrollore, dotata di software libero. Si veda per approfondimenti il paragrafo dedicato nel cap. 2 28 Così definite da Don Tapscott e Anthony D. Williams, rispettivamente economista e ricercatore, autori del saggio Wikinomics 2.0: La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, nella quale mettono in evidenza le potenzialità in chiave produttiva degli attuali strumenti tecnologici a costi contenuti che consentono la collaborazione a distanza tra gli individui.

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sovvertitore e a cui dobbiamo riconoscerne la portata di vaste opportunità che fino ad oggi erano disponibili soltanto alle grandi aziende. 1.6 Il movimento dal basso degli artigiani digitali: i MAKERS ”L’esperienza di condividere gli oggetti e le cose materiali prende le mosse da quello che abbiamo vissuto in campo informatico: è il frutto maturo di aver lavorato per anni con i software open source ma anche di tutta la storia che ha visto la nascita dei Creative Commons”.29 La filosofia open source e lo spirito di collaborazione tra le persone, di cui abbiamo parlato fino ad ora, sono tratti distintivi di un movimento dalle implicazioni filosofiche e sociali molto ampie, che è emerso negli ultimi anni ed è in rapida espansione. Si tratta del movimento dei Makers. Secondo il giovane sociologo Bertram Niessen “non esiste una definizione univoca di ‘maker’ se mai una, forse positiva, confusione terminologica. Una confusione positiva perché riflette una molteplicità di pratiche, valori, tipologie organizzative, soggetti coinvolti molto diversi tra loro. Al cuore di tutto c’è un forte interesse per l’intersezione tra cultura, tecnologia e società, e la convinzione che ci sia il bisogno di nuove forme di azione sociale e politica. Tuttavia, per essere concreti il termine maker – in senso stretto – si riferisce a un movimento subculturale americano.”30 La Maker Culture infatti nasce e cresce negli Stati Uniti, e affonda le proprie radici in un retroterra culturale già forte di istanze quali la Do It Yourself Ethic e più in generale il DIY Movement. Il concetto, tutto americano, di “etica del DIY” non va confuso con il semplice hobbismo di stampo europeo. E’ un vero e proprio tratto caratteristico della cultura degli Stati Uniti e riassume quella tendenza verso un’autosufficienza tecnologica (nel senso etimologico del termine) che valorizza la conoscenza e 29

Aa. Vv., Maker A-Z, Milano, Altreconomia Edizioni, 2014, p.23. Intervista a Bertram Niessen su Aa. Vv., Maker A-Z, Milano, Altreconomia Edizioni, 2014. 30

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l’applicazione di un sapere manuale grazie al quale l’uomo comune può evitare di ricorrere al pagamento di persone esperte per completare un lavoro domestico, una riparazione o, più in generale, un progetto che prevede il ricorso a strumenti specialistici31. Riguardo a questa tendenza, penso all’esempio della “Cool-Line”, servizio nato negli anni Settanta proprio in America e menzionato da Toffler ne La terza ondata (Toffler, 1987). Un modello elementare di un sistema di assistenza clienti nella manutenzione e riparazione degli elettrodomestici che forniva la Whirlpool telefonicamente. In questo modo la diffusione di tali sistemi portò a riservare sempre più l’intervento diretto di un tecnico specializzato solo nelle operazioni più complesse, contribuendo a trasformare i clienti in prosumer. Il movimento del “DIY” era intimamente legato all’estetica della “craftmanship” che si può ricollegare all’influenza negli Stati Uniti dell’Arts & Crafts Movement della prima metà del secolo. Negli anni ’40 e ’50 il successo del movimento era riconducibile a vari fattori: la disponibilità di nuovi strumenti tecnologici e nuovi materiali alla portata della classe media e le conseguenti operazioni di marketing in un mercato nuovo e in forte espansione; l’estetica dell’abilità manuale nel riparare, modificare e ristrutturare la casa, fortemente legata al mito della “suburbia”, le comunità residenziali lontane dai centri cittadini; le possibilità di risparmio offerte a chi sapeva “fare da sé” e in questo modo poteva permettersi agi fino a poco tempo prima preclusi alla classe media. Come ricorda Nepori, i due decenni successivi furono caratterizzati da un’inversione di rotta e si fece sempre più forte la giustificazione politicosociale. Negli anni Sessanta e Settanta la DIY-Ethic divenne così risposta critica e di protesta nei confronti dell’industrializzazione crescente e, in senso più ampio, alle evoluzioni alienanti della società dei consumi. In entrambi i casi a convalidare presso il grande pubblico americano l’etica e la cultura del fai-da-te furono in larga parte delle pubblicazioni popolari e molto diffuse che celebravano l’operosità, l’inventiva e più in generale la cultura e soprattutto l’estetica del “saper fare da sé”. Popular Mechanics e 31

v. Cap 1 della tesi online “Arduino - La rivoluzione dell’open hardware” http://camillomiller.com/arduino/capitolo1.html#fn:4 di Andrea Nepori

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Mechanix Illustrated sono solo due delle riviste “mainstream” più famose; attraverso di esse “l’uomo della strada” poteva tenersi aggiornato costantemente sulle evoluzioni degli strumenti tecnologici, imparando ed assimilando nuove capacità e possibilità creative attraverso esempi di progetti più o meno complessi e più o meno realizzabili da chi ne avesse le capacità. La vivacità culturale del settore era inoltre alimentata da un’ampia diffusione di “zines” ad opera di un nutrito sottobosco di case editrici indipendenti. Epitome di questa autoproduzione editoriale fu senz’altro il Whole Earth Catalogue, una “zine” indipendente fondata da Stewart Brand (scrittore, attivista e, più debitamente, visionario) per diffondere i “tools”, gli strumenti, nel senso più ampio del termine, ad un pubblico di studenti, hippy e attivisti assetati di condivisione del sapere e di novità tecnologiche che avrebbero potuto migliorare il futuro dell’uomo.

Copertine delle principali riviste americane che promuovevano temi di scienza e tecnica (1930-1950) [Fig. 8] Un rivolo di questa diffusa e forte connotazione culturale negli anni ’70 porterà un gruppo di appassionati di DIY elettronico a fondare

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quell’Homebrew Computer Club che è riconosciuto come la culla della rivoluzione informatica di fine anni ’70 e inizio anni ’80. E’ interessante notare come la diffusione del Personal Computer e in generale dell’informatica domestica, nate in fondo dal coraggio e dall’intraprendenza di DIY-elfers un po’ hippy dalle notevoli capacità elettroniche, porterà, negli anni ’80 e ’90 ad un parziale allontanamento da quella cultura del fai da te attivista non appena furono chiare le implicazioni economiche della “rivoluzione”. La fortissima accelerazione tecnologica del settore e l’estrema complessità della materia per il non addetto ai lavori, inoltre, resero l’informatica poco permeabile ad un approccio del DIY, se non per sparuti gruppi di esperti e appassionati spesso già impiegati in ambiti professionali affini. Nel ventennio 1980–2000, il DIY movement più attivista sarà sempre più associato agli ambienti della protesta e delle culture di opposizione, mentre la nicchia del DIY in senso stretto, legata principalmente al rinnovamento domestico, perderà completamente qualsiasi

connotazione

di

“movimento

sociale”,

per

diventare

semplicemente materia per gli appassionati. Come negli anni ’40 e ’50 fu la nuova e ampia disponibilità di strumenti e materiali a contribuire allo sviluppo di una nuova cultura del DIY, così nel corso del primo decennio del nuovo millennio è stata l’accessibilità alle nuove tecnologie e la sempre maggior disponibilità di soluzioni hi-tech a prezzi decrescenti a rendere possibile una nuova rinascita digitalizzata, globale e connessa di quelle istanze di autarchia tecnologica che possiamo riassumere sotto la definizione di Maker Movement. Il Maker Movement è, oggi, la continuazione ideale e digitalizzata di quella DIY ethic e del DIY movement che le nuove generazioni stanno riscoprendo e adattando all’era digitale, grazie soprattutto alla ormai ampia disponibilità di soluzioni tecnologiche complesse e potenti a prezzi irrisori. La nascita della Maker Culture si può associare e far coincidere con la nascita e la diffusione, a cavallo fra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, degli Hackerspaces, spazi condivisi e comunitari in cui geek, appassionati di elettronica e informatica e quelli che in maniera più

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informale vanno sotto l’ampia definizione gergale di “smanettoni” possono lavorare a progetti di varia natura, condividendo strumenti e conoscenze.32 I makers dunque sono un’evoluzione contemporanea del DIY tecnologico. Grazie a Internet e alla condivisione della conoscenza, il maker entra a far parte di una comunità digitale composta da migliaia di appassionati, una comunità, fondata sulla filosofia dell’open source e del DIT, ossia del Do-ItTogether, all’interno della quale si condividono i propri interessi, i progetti e le informazioni. Rifacendoci al discorso affrontato dall’inizio di questo capitolo, nell’ottica del consumo, il movimento maker segna, secondo Anderson (2012), anche e soprattutto il ritorno dei produttori. La riattualizzazione del Prosumer di Toffler. Quel consumatore che è a sua volta produttore o che nell’atto stesso che consuma, contribuisce alla produzione. Secondo la definizione di Alessandro Ranellucci, fondatore di Slic3r, il software più semplice e famoso per la stampa 3D nonché attuale direttore della neo-fondazione “Make in Italy”, i makers “sono persone che riscoprono la possibilità di realizzare idee in proprio, senza limitarsi a essere l’anello terminale di una catena manifatturiera e commerciale di cui non si percepiscono dimensioni, odori, processi. Sono l’edizione aggiornata di un atteggiamento storicamente sempre presente nell’uomo, ovvero il gusto di risolversi i problemi con l’inventiva e il mai tramontato piacere istintivo del fai-da-te. In questo vi è un fascino che va oltre l’utilità: rappresenta un ritorno alla manualità e all’artigianato per generazioni di nativi digitali o di lavoratori del terziario inurbati, ormai distanti dalle tradizioni perse con i mestieri dei loro nonni e genitori. Ma più che di ritorno tout court si tratta di una combinazione di queste tecniche tradizionali con il bagaglio culturale e tecnologico proprio della contemporaneità: l’elettronica (fortemente interpretata e astratta in chiave software), l’interazione, il web, l’open source. Negli ultimi decenni l’attenzione è stata posta interamente sulla rappresentazione virtuale del reale: dai film 3D immersivi ai rendering, da Second Life a Facebook. Ora avviene il processo inverso: un insieme di tecnologie e processi culturali stanno rendendo facile il passaggio da un contenuto virtuale, digitale ad un 32

v. Cap 1 della tesi online “Arduino - La rivoluzione dell’open hardware” http://camillomiller.com/arduino/capitolo1.html#fn:4 di Andrea Nepori

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oggetto fisico. E’ la reazione alla “modernità liquida”: è il consumatore che ritorna produttore, e non importa se effettivamente vi sia un prodotto perché ciò che conta è il processo di riappropriazione degli strumenti e di apprendimento in cui l’individuo è nuovamente parte attiva. Il maker non si limita a risolver(si) un problema, ma impara dal processo: quel che gli resterà è soprattutto il bagaglio di conoscenza acquistato cercando la soluzione. La novità è che tutto anziché rimanere confinato in un laboratorio, in un garage, in una casa, viene condiviso in rete: le soluzioni si cercano insieme, si collabora a distanza, si prende ispirazione e si migliora il lavoro già fatto da qualcun altro. Di questo fermento è ancora presto per tracciare mappe o estrapolare numeri: studi professionali, università, scuole di design, singoli creativi e grandi aziende si aggiungono ogni settimana a quanti vedono un potenziale in tutto questo e decidono di avviare propri progetti.”33 Nel gennaio 2005, Dale Dougherty, a cui si deve l’espressione “web 2.0”, fonda la rivista Make Magazine, che segna l’inizio del movimento dei Makers. La pubblicazione, a cura dell’editore O’Reilly, diventa ben presto un punto di riferimento, una vera e propria cassa di risonanza del movimento, favorendone la conoscenza e promuovendo iniziative come la Maker Faire, un evento dedicato al mondo della creatività tecnologica che raccoglie tutti i makers, gli inventori e gli hobbisti tecnologici con lo scopo di “celebrare le arti, l’artigianato, l’ingegneria, i progetti scientifici e la forma mentis del Do-it-Yourself” (Anderson, 2012). Evento arrivato anche in Italia per la prima volta a ottobre 2013 al Palazzo dei Congressi dell’Eur di Roma e che ha raccolto più di 35mila visitatori, dimostrando l’interesse e la curiosità che questo tema suscita anche nel nostro paese ma anche e soprattutto come una risposta alla crisi si trovi proprio nel voler fare. Se il movimento è noto dal 2005 e viene considerato un fenomeno recente, in realtà come abbiamo visto poco prima, è sempre esistito sottotraccia, per venire alla luce a livello mondiale non appena sono stati disponibili strumenti di condivisione, di comunicazione, di collaborazione, nonché 33

Aa. Vv., Maker A-Z, Milano, Altreconomia Edizioni, 2014, p. 43.

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strumenti che hanno democratizzato la disponibilità di tecnologie di prototipazione e di produzione abbastanza facili e a buon mercato da poter essere assimilate e usate rapidamente. 1.6.1 Un oggetto-simbolo del movimento dei makers: Arduino Sempre nel 2005, parallelamente alla nascita di questo fenomeno, in Italia, esattamente all’Istituto di Interaction Design di Ivrea, Massimo Banzi34 e i suoi tre soci lanciavano il Programma 2003 o meglio conosciuto come Arduino, una scheda di prototipazione elettronica basata su un hardware molto semplice e su un software altrettanto semplice e flessibile.

La scheda di prototipazione Arduino (2012) [Fig. 9] “Arduino permette di costruire prima le cose e poi di capirle”35 come cita uno dei principi fondanti della filosofia, dettato dal suo fondatore. Nata per aiutare gli studenti nella fase di progettazione e di prototipazione di prodotti, ha come obiettivo quello di trasformare la tecnologia in uno strumento creativo alla portata di tutti e ben presto si rivela un progetto destinato al mondo intero, divenendo l’oggetto-simbolo del movimento dei makers. Nonostante sia partito tutto da Ivrea, è invece all’estero che riscuote i primi successi, in particolare negli Stati Uniti e nell’ambito artistico-culturale nordeuropeo. Solamente anni più tardi vedrà la sua riscoperta in patria. Nel 2011 arriva la sua “consacrazione” da parte di Make con la pubblicazione del numero 25 della rivista che include una sezione di 39 pagine interamente dedicata a progetti basati su Arduino, ma la chiave del 34

co-fondatore Arduino, esponente movimento makers in Europa v. citazione di Massimo Banzi contenuta in Aa. Vv., Maker A-Z, Milano, Altreconomia Edizioni, 2014. 35

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suo successo è sicuramente la vasta comunità che si è raccolta intorno al progetto. Il motivo che unisce Arduino al movimento dei makers va ricercato nelle caratteristiche di fondo del progetto: nella volontà (o addirittura necessità) di diffondere pubblicamente il sapere e nel rifiutare schemi tradizionali di protezione della proprietà intellettuale. In due parole: openness e condivisione. Come afferma Davide Gomba, amministratore delegato di Officine Arduino, azienda torinese che promuove, commercializza e sviluppa Arduino in Italia: “Il concetto di sviluppo tecnologico con il quale siamo cresciuti ha fatto i suoi giorni e pensare a schede e sistemi tecnologici aperti al dialogo significa immaginarsi un mondo aperto al dialogo, trasparente e sincero.”36 1.7 La Terza rivoluzione industriale Nel 2011 il noto economista, attivista e saggista americano Jeremy Rifkin, famoso per la sua capacità visionaria riguardo al futuro, ha pubblicato il libro dal titolo “La terza rivoluzione industriale” nella quale profetizzava un futuro no carbon e un’era basata sul capitalismo distribuito.

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Intervista a Davide Gomba, CEO delle Officine Arduino tratta da http://www.chefuturo.it/2013/02/davide-gomba-cosa-festeggiamo-oggi-con-un-anno-diofficine-arduino/

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Il saggio “La terza rivoluzione industriale” di J. Rifkin (2011) [Fig. 10] Annunciava una totale trasformazione dei sistemi di sfruttamento e di trasformazione delle risorse in chiave economica e industriale in contemporanea ad un cambio di paradigma economico e sociale completamente nuovo, basato sulla sostenibilità e sulla collaboratività, il Lateral Power. Sostanzialmente secondo Rifkin nel prossimo mezzo secolo assisteremo alla progressiva sostituzione dei modelli tradizionali di business, centralizzati e gerarchici, con nuovi modelli di business, distribuiti e collaborativi: il Lateral Power appunto. Se tutto questo poteva sembrare una previsione pretenziosa e quasi fantascientifica, basta pensare ai veloci cambiamenti che si sono susseguiti in questi ultimi anni. Attraverso Internet, miliardi di persone si sono connesse in maniera orizzontale e con costi bassissimi. “Il cambiamento trasformativo si determina quando i settori si democratizzano, ossia quando vengono sottratti al dominio esclusivo di aziende, governi e altre istituzioni, e si aprono alla concorrenza. (…) Ecco qual è la vera forza della democratizzazione: mette gli strumenti nelle mani di coloro che sanno usarli meglio. (…)

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Internet ha democratizzato l’editoria, il settore radiotelevisivo e le comunicazioni, e la conseguenza è stata un fortissimo incremento sia del livello di partecipazione sia del numero di partecipanti a tutte le possibili attività digitali: la coda lunga dei bit“ (Anderson, 2012). Questa democratizzazione delle comunicazioni ha permesso rapidamente ad un terzo dell’umanità di condividere informazioni, conoscenza e vita sociale in uno spazio aperto e accessibile, di fatto attuando uno dei passaggi evoluzionistici più straordinari in tutta la storia dell’umanità. Secondo Rifkin, con la diffusione dei nuovi modelli collaborativi e distribuiti, saremmo andati e andremo sempre di più verso microproduzioni personalizzate, locali, basate su investimenti minimi di capitale. A riguardo scriveva: «La Terza rivoluzione industriale è, insieme, l’ultima fase della grande saga industriale e la prima di una convergente era collaborativa. Rappresenta l’interregno tra due periodi della storia economica: il primo caratterizzato dal comportamento industrioso e il secondo dal comportamento collaborativo. Se l’era industriale poneva l’accento sui valori della disciplina e del duro lavoro, sul flusso dell’autorità dall’alto al basso, sull’importanza del capitale finanziario, sul funzionamento dei mercati e sui rapporti di proprietà privata, l’era collaborativa è orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali» (Rifkin, 2011). Secondo le ottimistiche previsioni dell’autore, questa rivoluzione porterà a milioni di nuovi lavoratori e microimprese. Le grandi aziende non scompariranno ma cambierà il loro ruolo: da produttori e distributori primari ad aggregatori. Nella nuova era economica la loro funzione sarà quella di coordinare e gestire le reti multiple che muoveranno commerci e scambi attraverso la catena del valore. Questi sistemi, come si può intuire, renderanno infinitamente più bassi i costi di marketing e logistici. Miliardi di produttori e di acquirenti s’interfacceranno direttamente su Internet, comprando e vendendo in tempo reale, senza bisogno di intermediazioni se non quelle delle società che saranno in grado di

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organizzare gli spazi di vendita e acquisto su questi immensi, praticamente infiniti, mall virtuali che tuttavia non saranno non-luoghi spersonalizzati, ma al contrario spazi di relazione, social, dove le persone avranno contatti personali e prodotti personalizzati, insieme a tutta una serie di servizi personalizzati collegati ai prodotti. “Per quasi tutto il secolo scorso, la sovrabbondanza e l’eterogeneità che caratterizzavano naturalmente prodotti come la musica registrata, i film e i libri sono state nascoste dalla limitata ‘capacità di supporto’ dei sistemi distributivi tradizionali: punti vendita, canali radiotelevisivi e cineplex. Ma nel momento in cui questi prodotti si sono resi disponibili su mercati digitali che offrivano uno ‘spazio espositivo’, per così dire, illimitato, la domanda si è modificata di conseguenza: era finito il monopolio del grande successo. Il mass market della cultura si è trasformato in una coda lunga di micromercati (…). In poche parole, la nostra specie si sta rivelando molto più eterogenea di quella che riflettevano i mercati del XX secolo. La scelta limitata che avevamo di fronte nella nostra giovinezza rifletteva le esigenze economiche della distribuzione al dettaglio di allora, non la vera gamma dei gusti umani. Siamo tutti diversi, con bisogni e desideri differenti, e oggi Internet è in grado di soddisfarli tutti quanti, cosa che i mercati fisici non potevano fare. Naturalmente non è un fenomeno soltanto digitale. Internet ha allungato anche le code dei mercati fisici su cui si vendono i beni di consumo. Ma lo ha fatto rivoluzionando la distribuzione, non la produzione“ (Anderson, 2012). A tre anni dalla pubblicazione del saggio, alcune intuizioni di Rifkin sembrano rivelarsi valide. Un grande cambiamento sta investendo la nostra società, le nuove tecnologie e le reti interconnesse danno accesso a saperi in modo rapido e massivo permettendo di risolvere problemi progettuali o di produzione con costi molto contenuti rispetto al passato. Grazie a Internet non solo è più facile consumare beni e servizi senza muoversi da casa ma anche produrli. E’ più facile creare conoscenza e quindi valore. Non solo attraverso siti web, indispensabili alle aziende, ma persino producendo oggetti fisici: lo disegni sul tuo pc, lo invii via mail a un

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laboratorio e in un paio di giorni ti arriva a casa. Se poi ti piace puoi metterlo in vendita su un altro sito web. Diventando così noi stessi una ‘fabbrica’, senza muoverci dal pc di casa. “Per i beni fisici, i limiti alla scelta nel XX secolo si basavano su tre colli di bottiglia del sistema distributivo; si potevano acquistare solo i prodotti che rispondevano a tutte e tre le seguenti condizioni: 1. erano abbastanza popolari da giustificare la fabbricazione; 2. erano abbastanza popolari da giustificarne la tenuta in assortimento da parte dei rivenditori al dettaglio; 3. erano abbastanza popolari da essere facilmente reperibili per il consumatore (tramite la pubblicità o l’esposizione in bella vista nei negozi della zona). Come ha dimostrato Amazon, il web poteva agevolarne la tenuta in assortimento e l’esposizione. (…) Ricordatevi che la vera rivoluzione del web non è stata tanto nella più ampia possibilità di scelta, quanto nella possibilità di produrre articoli che altri potevano acquistare” (Anderson, 2012). Chiunque ora può fabbricare qualunque cosa se ha abbastanza talento. C’è chi dice che l’unico limite rimasto sia la fantasia. L’accesso a strumenti sofisticati e a mezzi distributivi efficaci non è più una barriera alla partecipazione. Se si possiede talento e inventiva, c’è la seria possibilità di trovare un pubblico anche se non si lavora per l’azienda giusta o si ha il titolo di studio adeguato. Nel caso del web, i prodotti erano e riguardano prevalentemente la creatività. Ma ora ciò sta accadendo anche con i beni fisici. Le stampanti 3D e gli altri strumenti per creare prototipi al pc consentono a chiunque di creare pezzi unici a proprio uso e consumo. “Il più grande cambiamento a cui abbiamo assistito nel decennio scorso concerneva il tempo trascorso dalla gente a consumare contenuti amatoriali anziché professionali. L’ascesa di Facebook, Tumblr, Pinterest e tutti gli altri siti dello stesso tipo non è altro che un gigantesco spostamento di attenzione dai contenuti commerciali offerti dalle aziende del XX secolo ai contenuti amatoriali offerti da quelle del XXI” (Anderson, 2012).

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Rufus Griscom, imprenditore online che ha fondato Babble.com, magazine online e blog rivolto ai giovani genitori trattando temi legati all’infanzia e all’educazione dei figli, definisce i cambiamenti in atto come il “Rinascimento del dilettantismo”. Nell’aprile 2012 il settimanale britannico The Economist, riprendendo la definizione dell’economista americano Jeremy Rifkin, dedica l’articolo di copertina alla cosiddetta “Terza rivoluzione industriale”. I settori maggiormente influenzati da questo cambio di modello sono quello informatico, quello dell’informazione, quello dei trasporti e quello delle telecomunicazioni ma anche e soprattutto quello della produzione che vede come nuova protagonista la stampa 3D.

La copertina del settimanale The Economist dedicata a quella che definisce “la terza rivoluzione industriale” (2012) [Fig. 11] Dopo decenni in cui la delocalizzazione era divenuta l’unico metodo per ridurre i costi di produzione, ora assistiamo a una sorta di ritorno al prodotto artigianale, fortemente localizzato seppur con diverse differenze.

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Molte aziende che erano abituate a spostare la produzione in paesi con salari bassi per contenere i costi del lavoro, ora fanno un cambio di direzione puntando alla produzione offshore verso paesi ricchi per essere più vicini ai clienti in modo da poter reagire più rapidamente ai cambiamenti della domanda. Alcuni prodotti sono così sofisticati che per l’azienda risulta un vantaggio avere le persone che li progettano e quelle che li producono nello stesso posto.37 I limiti della produzione artigianale vengono superati. In passato risultava difficile raggiungere fisicamente l’artigiano per acquistare i prodotti. Oggi con Internet le barriere fisiche vengono abbattute e la merce può essere spedita dappertutto in tempi brevi. Le geografie del mercato globale cambiano con una velocità difficilmente monitorabile con certezza. Un altro aspetto da prendere in considerazione è relativo ai costi delle materie prime, estremamente alti in caso di piccole produzioni manifatturiere che oggi, sempre con l’aiuto di Internet e dell’innovazione tecnologica, possono essere acquistate a costi impensabili fino a pochi anni fa. “La fabbricazione digitale inverte la logica economica della manifattura tradizionale. Nella produzione di massa, quasi tutti i costi vanno a coprire l’attrezzaggio iniziale della macchina, e più complicato è il prodotto, e più cambiamenti vi si apportano, più costa. Con la fabbricazione digitale, invece, è esattamente il contrario; le cose che costano care nella produzione tradizionale diventano gratuite: 1. la varietà è gratuita: differenziare ogni singolo prodotto non costa di più che fabbricarli tutti uguali; 2. la complessità è gratuita: un prodotto estremamente complesso, con tanti piccoli dettagli complicati, si può stampare in 3D allo stesso, bassissimo costo, di un semplice blocco di plastica. Il computer non ha problemi a svolgere tutti quei calcoli; 3. la flessibilità è gratuita: modificare un prodotto dopo l’avvio della produzione significa solo cambiare il programma di istruzione. La macchina rimane tale e quale. 37

cfr. l’articolo “The third industrial revolution – The digitalisation of manufacturing will transform the way goods are made-and change the politics of jobs too” su http://www.economist.com/node/21553017/print

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Non dovete ricorrere alla stampa tridimensionale per vedere questo fenomeno in atto. Lo vediamo con una categoria limitata e familiare di ‘piattaforme standardizzate’ per la customizzazione: magliette e altri semplici capi di abbigliamento, tazzone del caffè, adesivi ecc. Aziende come Threadless, CafePress e altre hanno sviluppato un grandissimo business dalla stampa customizzata di questi prodotti. Qui la tecnologia facilitante non è la stampa 3D, ma solo la stampa bidimensionale su forme e materiali complessi; l’effetto, tuttavia, è il medesimo: un ricco mercato per prodotti che non potrebbero mai potuto funzionare in un mercato dai grandi volumi. I tipici ordini ricevuti da Threadless e CafePress sono nell’ordine di una dozzina di pezzi: non uno solo, ma neanche 1.000. Ma a livello collettivo, questa coda lunga può aggregare volumi rilevanti” (Anderson, 2012). Quando intorno al 1984 cominciarono a circolare i primi macchinari per la stampa 3D, pochi erano pronti a scommettere che quella tecnologia potesse segnare una vera e propria rivoluzione in ambito manifatturiero. Al tempo l’unica tecnica disponibile era la stereolitografia, che consisteva nello stampare strati di fotopolimeri modellati attraverso l’utilizzo di luce ultravioletta e via via sovrapposti a formare la riproduzione più o meno fedele di un oggetto tridimensionale. Si trattava di un processo lento e costoso (un macchinario infatti poteva arrivare a costare anche 500mila dollari) e dunque poco appetibile per un’applicazione su vasta scala. Veniva usata come tecnologia per realizzare prototipi soprattutto nei settori dell’automotive e dell’industria aerospaziale. A quasi trent’anni di distanza la situazione è drasticamente cambiata. Oggi viene utilizzata anche in settori come architettura, design industriale, ingegnerie varie, industria biomedicale, farmaceutica, chimica, moda, calzature, gioielleria, occhiali, alimentare e arte. “Lo stampaggio commerciale in 3D si effettua solo con poche decine di materiali, in prevalenza metalli e plastiche di vari tipi, ma si comincia a lavorare anche su altri. I ricercatori stanno effettuando esperimenti con materiali più esotici, dalla polpa di legno ai nanotubi di carbonio, che danno già un’idea della portata di questa tecnologia. Alcune stampanti tridimensionali possono stampare circuiti elettrici, realizzando dispositivi elettronici complessi partendo da uno schizzo.

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Altre ancora stampano la glassa sui pasticcini ed estrudono altri alimenti liquidi, tra cui il cioccolato fuso. Nell’edilizia, esistono già stampanti 3D che sono in grado di costruire un edificio a più piani ‘stampando’ il calcestruzzo. In questo momento serve una stampante delle dimensioni di un palazzo, ma un giorno la si potrebbe incorporare nella betoniera, con un’interfaccia che utilizza la percezione del posizionamento per stabilire dove mettere il calcestruzzo, e in che quantitativo, leggendo e attuando direttamente i piani CAD dell’architetto” (Anderson, 2012). Il costo dei macchinari nel corso degli anni è letteralmente crollato, ma soltanto negli ultimi ha raggiunto costi talmente bassi da consentire una potenziale diffusione anche a livello domestico. Nel 2005 all’Università di Bath il professore di ingegneria meccanica, Adrian Bowyer, inizia a lavorare al progetto ribattezzato RepRap, che nel tempo ha raccolto al suo interno centinaia di persone da tutto il mondo che hanno collaborato a distanza per sviluppare una stampante 3D in grado di autoreplicarsi, producendo da sé la maggior parte dei suoi stessi componenti. Il tutto viene pubblicato con una licenza open source, la GNU (General Public Licence), che permette al suo possessore di replicare il prototipo per altre persone seguendo i progetti, liberamente consultabili e modificabili. Come il professore afferma, il progetto è nato ispirandosi alle strategie riproduttive degli esseri viventi e alla Teoria dell'auto-riproduzione automatica di Von Neumann, seguendo la logica Open Source e la forza della community tramite una wiki liberamente modificabile. “Le stampanti 3D sono state forse il primo modello di macchine interamente progettate da una comunità di persone che hanno lavorato a distanza, senza conoscersi. Dei “ricercatori involontari”: una massa di individui eterogenei, mossi da motivazioni individuali (lavoro, divertimento, soddisfazione personale) e interessati a ottenere risultati migliori. Ciascuno osserva la propria macchina e apporta miglioramenti, sostituendole parti di cui non è soddisfatto e poi pubblicando la modifica nella speranza che altri utenti la adottino e la migliorino ulteriormente. Questo meccanismo di condivisione e modifica è reso possibile dalle licenze open source. Il risultato è una continua, sottile

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ma incessante, ricerca di miglioramenti che ha portato ad avere macchine di buona qualità ma al tempo stesso economiche, perché basate su componenti generici di facile reperibilità basate su economie di scala e produzioni ad hoc. Una macchina aperta è modificabile, ispezionabile, riparabile, integrabile. E’ la migliore adesione all’adagio “if you can’t open it, you don’t own it”, che fa capire come la maggior parte degli oggetti elettronici (e non!) che possediamo non sia in realtà effettivamente nostra del tutto. (…) Nel mondo RepRap è nata un’economia distribuita, con centinaia di piccoli soggetti che sviluppano progetti di stampanti open hardware e li mettono in vendita. La sostenibilità del progetto RepRap sta essenzialmente in questo, e non avremmo le stampanti 3D cosiddette ‘low-cost’ se non avessimo avuto progetti open source in grado di sfruttare anche le leve economiche individuali.“ 38 Nel 2009, dopo un intenso lavoro di squadra, il professore riesce a rilasciare Darwin e Mendel (dai nomi dei padri della teoria dell'evoluzione della specie), le celebri stampanti 3D “padre” e “figlio”. I successivi cloni “personalizzati” dei primi due modelli sono chiamati RepStrap, ovvero stampanti 3D derivate dal modello originale RepRap e realizzate con componente comprati o recuperati da altri oggetti che mantengano caratteristiche di auto-replicazione. Erede di questo progetto è anche la società MakerBot Industries fondata nel gennaio dello stesso anno, che produce una stampante 3D open source a prototipazione rapida chiamata Cupcake CNC. La Cupcake incorpora le idee del progetto RepRap con l’obiettivo di portare la stampa 3D nelle case a un prezzo abbordabile, in parte in virtù della capacità di produrre alcuni dei suoi componenti.

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Aa. Vv., Maker A-Z, Milano, Altreconomia Edizioni, 2014. p. 55-56

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Le stampanti “padre” e “figlio” del progetto RepRap (2009) [Fig. 12] Alla “PhilosophyPage” del progetto RepRap, Bowyer immagina la possibilità di distribuire la sua stampante low-cost a privati e comunità dando la possibilità di progettare o ricavare dalla rete prodotti complessi senza bisogno di ricorrere all'industria, agevolando così lo sviluppo dei paesi più poveri o isolati. Il tema dello sviluppo sociale è ribadito anche nell'intervista che Lorenzo Manella 39 ha realizzato con lo stesso Adrian Bowyer per l'evento WorldWideRome40 del 9 marzo 2012 in cui afferma: “In paesi in via di sviluppo possono essere utilissime per creare ricchezza dal nulla. Penso a tutte quelle persone che vogliono trovare un modo per riscattarsi dalla povertà. Basterebbe avere una piccola biblioteca con un computer e una RepRap collegata. (…) Avrebbero tra le mani una piccola fabbrica in grado di produrre altre fabbriche. RepRap è in grado di stampare più del 50% delle sue componenti. Il resto lo si può trovare facilmente in qualsiasi spaccio. Nel giro di poco tempo anche i villaggi vicini avrebbero le loro stampanti. L’autoproduzione non conosce limiti”. Il passaggio al digitale e il cambiamento del modo di progettare stanno inesorabilmente cambiando i prodotti manifatturieri; nonostante i governi 39

Giornalista e blogger sul sito Maker Faire Rome Evento svoltosi il 9 marzo 2012 all’Acquario Romano dedicato interamente al mondo dei makers 40

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siano ancorati ai vecchi modelli di sviluppo capitalistico, i sistemi di imprenditoria a livello iper-locale sono in divenire e appaiono essere efficaci nel risolvere problemi sociali. L’avvento di nuove tecnologie ci guida verso la fabbrica del futuro; una fabbrica concentrata sulla personalizzazione di massa. Un’azienda che nelle profezie di alcuni studiosi appare perfettamente pulita e quasi deserta; dove la maggior parte dei lavori non sarà svolta all’interno di questa ma negli uffici accanto. Quello che è certo è che i lavori di produzione del futuro richiederanno sempre maggiori competenze. Oggi la stampa 3D è largamente impiegata anche nell’industria medica, in particolare nella realizzazione di protesi. Nulla di meglio che questa tecnologia riesce a soddisfare l’alto bisogno di customerizzazione e precisione che richiede la preparazione di simili oggetti.

Protesi di una mano realizzata con stampa 3D (2013) [Fig. 13] Ma anche la frontiera della stampa di bio-materiali come organi e tessuti cellulari è in esplorazione grazie agli studi di ingegneria molecolare che si crede costituiranno una svolta importante nel campo della medicina rigenerativa.

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L’obiettivo è proprio quello di produrre strati di cellule viventi formando una struttura predefinita e funzionale. Il processo attivato dalle bio-printing rimane quello delle comuni stampanti ink-jet. In questo caso le testine sono due e la “stampa” avviene usando come inchiostro o meglio bio-inchiostro cellule umane e un particolare idrogel bio-inerte che sostiene il futuro tessuto. Attualmente il prototipo per eccellenza di bio-stampante 3D si chiama Novogen MMX Bioprinter ed è di Gabor Forgacs, uno dei fondatori di Organovo e professore all’Università del Missouri. Questa stampante è stata in grado fino ad oggi di realizzare mini porzioni 3D di muscolo scheletrico, vasi sanguigni e osso, oltre che alla recentissima realizzazione di un-mini fegato 3D in grado di sopravvivere per circa cinque giorni e produrre proteine, colesterolo e anche di metabolizzare alcool. Altri studi di bio-printing condotti dal professor Yoo James all’Istituto di Medicina Rigenerativa della Wake Forest University hanno avuto come obiettivo quello di stampare pelle direttamente sulle ferite da ustione. Quello che la bio-stampante permette di realizzare non sono ancora organi completi che possono essere trapiantati nel corpo umano, ma consentono lo sviluppo di studi sperimentali che si avvicinano molto di più alla fisiologia del corpo umano. Lo scorso febbraio a Louisville, nello stato del Kentucky un bambino di quattordici mesi è stato salvato grazie alla riproduzione 3D del suo cuore. Grazie ad un software in grado di tradurre le immagini della Tac e degli altri esami in istruzioni per la stampante 3D, in venti ore e con 600 dollari di materiali il dispositivo ha realizzato un modello del cuore del bambino in tre parti uguale all'originale ma grande il doppio. ''Il modello mi ha aiutato ad effettuare l'intervento con una procedura che non mi sarebbe mai venuta in mente – ha spiegato il chirurgo che ha operato il bambino - con una grande riduzione dei tagli e delle suture necessarie e quindi del tempo di intervento''.

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Modello 3D del cuore (2013) [Fig. 14] Accanto ad un utilizzo proficuo della stampa 3D nel campo della medicina, iniziano a comparire anche mode discusse e sicuramente più frivole, come quella che arriva dal Giappone e viene chiamata “Shape of Angel”, la sagoma tridimensionale dei feti; statuette in resina che riproducono fedelmente in 3D le fattezze del futuro bebè, partendo da una risonanza magnetica alla madre in attesa. Un gadget per future mamme impazienti, disposte a pagare cara la loro curiosità, infatti il costo di queste piccole sculture si aggira intorno ai 1000 euro. L’industria che conosciamo, quella tradizionale legata al modello fordista, prende tante parti diverse per poi avvitarle e saldarle insieme. Ora invece, un prodotto può essere progettato su un computer e “stampato” con una stampante 3D, che attraverso la lavorazione additiva ossia stampando uno strato alla volta e sovrapponendolo a quelli già stampati, crea un oggetto solido. E’ possibile modificare il disegno digitale con pochi click del mouse, forgiare una riproduzione reale in materiale plastico di oggetti già esistenti o progettati a distanza abbattendo i costi per i processi tradizionali di prototipazione e lavorazione e i lunghi tempi di lavoro per realizzare il prodotto finito e perfezionato da mettere sul mercato. Non ci sarà più bisogno di ordinare pezzi mancanti per completare un progetto, i clienti che non troveranno i pezzi di ricambio per le cose che

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avevano acquistato e che si sono rotte non dovranno più perdersi in lunghe ricerche ma gli basterà scaricare il disegno e stamparlo. Hilde Sevens, Business and Development Director di Autodesk, leader mondiale nella fornitura di software di progettazione 3D afferma che “siamo in una fase storica e sociale in cui la voglia delle persone di essere protagonista della rivoluzione tecnologica e digitale, si associa al desiderio di condividere le proprie creazioni con altri, su comunità online specializzate così come sui social media” e aggiunge: “parliamo non a caso di nuova rivoluzione industriale: le opportunità offerte dalla stampa 3D permettono alle persone di esprimere la loro creatività e personalità attraverso un processo di produzione personalizzato e quindi unico. Un’esperienza completamente diversa rispetto alla tradizionale visione di massa della produzione.”41 Una produzione che continuerà comunque ad esistere ma sempre più spesso sarà affiancata da sistemi più personalizzati e creativi. “La manifattura con la nuova rivoluzione del 3D, torna nelle case!”.42 Accanto ai più tradizionali servizi online per la stampa di prototipi 3D in ambiti strettamente professionali, troviamo servizi ed app che mirano all’entertainment quali: Makie.me, dove è possibile disegnare una bambola, personalizzarla in base ai gusti e necessità, e procedere all’ordine della stampa in 3D per un oggetto che verrà poi recapitato a casa; oppure 3DPcase app pensata per personalizzare le cover del proprio smartphone, fino all’italiana Makoo, che permette di realizzare gioielli personalizzati a partire dalle tracce vocali.

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Intervista a Hilde Sevens tratta da http://www.techeconomy.it/2014/05/12/rivoluzionestampa-3d-intervista-hilde-sevens-autodesk/ 42 Intervista a Hilde Sevens

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Makie.me (2012) [Fig. 15] La rivoluzione in atto sappiamo dove è partita e che è in costante evoluzione ma non ne conosciamo tutti i possibili risvolti e implicazioni. Se presi dall’entusiasmo tendiamo a vederne gli innumerevoli effetti positivi che produce, perdiamo di vista però gli eventuali effetti collaterali negativi che potrebbe avere. Ho messo in evidenza fino ad ora, più volte, le grandi potenzialità della stampa 3D, che consente di dare forma a oggetti tridimensionali con la stessa semplicità, o quasi, con cui si stampa una foto o un documento scritto. Potenzialità che però fin troppo presto hanno esplorato anche la produzione di armi da fuoco. Se da un lato questi strumenti consentono di realizzare il sogno dell’alchimista, ossia quello di poter produrre qualsiasi cosa, dall’altro consentono anche che con esse vengano prodotti oggetti pericolosi e di discutibile utilità sociale, come le armi. A Maggio 2013 ha fatto la comparsa la prima pistola al mondo stampata in 3D e battezzata “Liberator ”. L’arma è in grado di sparare colpi standard ed è interamente realizzata in materiale plastico, a eccezione di un chiodo usato come percussore e un pezzo di sei grammi di acciaio progettati unicamente per permettere che la pistola sia rilevata dai metal detector. Il Liberator può essere scaricato e stampato in forma anonima da chiunque abbia accesso alla tecnologia di stampa 3D. Il software è relativamente facile da recuperare e usare, ma ottenere un prodotto finito può costare parecchio.

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Un ingegnere del Wisconsin, tuttavia, ha recentemente scoperto un modo per realizzare la pistola in modo molto più economico. A livello federale, in America, si stanno muovendo per arginare il fenomeno. Proposte di legge per limitare queste armi sono state presentate poiché sono armi che lasciate senza regolamentazione, sarebbero armi senza storia, potenzialmente senza segni di riconoscimento o tracce della vendita. Un problema non da poco soprattutto in America, un Paese che si confronta troppo frequentemente con il tragico fenomeno di stragi nelle scuole e altri luoghi pubblici. Sul sito LeNiùs.it43, blog collettivo di informazione, il giovane sociologo Fabio Colombo in un articolo intitolato “Stampanti 3D: nuovo artigianato o autismo sociale?”, azzarda qualche considerazione al fine di stimolarne il dibattito, ipotizzando pro e contro del nuovo fenomeno. Tra i pro ipotizza il fatto che le persone potranno riappropriarsi delle loro capacità creative e inventive assopite dalla produzione di massa, torneranno a collaborare in modo informale ma in qualche caso anche in modo formale attraverso forme di co-producing, scambiandosi reciprocamente i propri saperi per produrre oggetti diversi dal solito e tutto ciò potrebbe mettere in crisi un modello di produzione industriale già in difficoltà (ma meno visibile in quanto delocalizzato nel sud del mondo) che ci risparmierebbe così le sue esternalità negative (inquinamento, produzione di massa di bassa qualità, nessuna relazione tra produttore e consumatore…). Dall’altro lato però, di contro, le persone secondo la preoccupazione dell’autore si riempirebbero sempre più di oggetti superflui anche se autoprodotti; avrebbero sempre meno bisogno degli altri, potendo stamparsi tutto a casa; potrebbero autoprodursi, con poca fatica e a basso costo, oggetti – come abbiamo visto poco prima – di discutibile utilità sociale e verrebbe messo in crisi un modello di produzione artigianale basato su saperi unici, forniture locali e qualità dei materiali. Da una prospettiva ecosostenibile, sicuramente, a favore dell'uso di una stampante 3D, comunque, c'è un più efficiente utilizzo delle materie prime, la riduzione dei tempi di produzione, la filiera corta per le varie componenti 43

lenius.it – blog collettivo di informazioni e intrattenimenti

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e la realizzazione del prodotto personalizzato vicino al consumatore. Quindi abbattimenti dei costi di produzione, dell'inquinamento legato alla distribuzione e di tutto ciò che è connesso a tale aspetto. Ma secondo quanto stimato nell'ambito dell'Atkins Project della Loughborough University, allo stato attuale a penalizzarne la diffusione nell’utilizzo, è l'elevato consumo di energia elettrica. Il processo di stampa 3D richiede allo stato attuale, secondo lo studio, una quantità incredibile di energia elettrica visto che tali stampanti, utilizzando calore o laser usano 50100 volte più elettricità della stampa ad iniezione. All’interno di un articolo pubblicato dal sito GreenMe.it44 sull’argomento, un altro svantaggio messo in evidenza sarebbe l'enorme dipendenza dalle materie plastiche. Anche se il metodo di stampaggio a iniezione sarebbe paradossalmente più verde poiché lascerebbe dietro di sé una minore quantità di plastica inutilizzata. Inoltre, i fumi prodotti potrebbero essere pericolosi per la salute in quanto conterrebbero sottoprodotti tossici che si creano quando la plastica viene riscaldata. Le polveri ultrasottili prodotte dalla stampa 3D avrebbero diversi effetti negativi sulla vita umana, in particolare su polmoni, cuore e cervello. Infine, uno dei punti a sfavore di questa tecnica riguarderebbe per assurdo il suo punto di forza: la facilità di produzione. Dal momento che la stampa 3D permetterà di creare qualunque oggetto e in breve tempo, essa avrebbe anche il potenziale per creare una maggiore quantità di rifiuti. Per questo, l'intero ciclo di vita del prodotto secondo l’autrice dell’articolo, dovrebbe essere ripensato. Lorenzo Mannella in un autorevole articolo scritto sul blog della Maker Faire Rome, appare in disaccordo con quanto riportato nell’articolo di GreenMe.it e partendo dal motto “ricicla la plastica e avrai chiuso il cerchio” sottolinea l’impatto (quasi) zero che a suo parere contraddistingue il movimento dei Makers. Oggi, nella produzione della stampa 3D vengono infatti utilizzate materie nuove come la plastica riciclabile chiamata ABS, ma anche il biopolimero di origine vegetale PLA, derivato dal mais e biodegradabile in ambiente. 44

Sito dedicato a tematiche ambientali e promotrice di pratiche di riciclo e riuso per un mondo più ecosostenibile

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Scavare un blocco di materiale per tirarne fuori un componente, produce molti scarti di lavorazione. Nella stampa 3D a strati lo stesso oggetto prende forma granello dopo granello, e quello che avanza può essere riutilizzato. Anche nel settore alimentare potrebbero essere ridotti gli sprechi; il professore Jeffrey Lipton della Cornell University di New York

ha

sviluppato una macchina che produce cibo usando inchiostri commestibili a base di ingredienti primari. In pratica, si può stampare solo quello che si deve mangiare sul momento riducendo così gli sprechi. Non si ridurranno soltanto gli sprechi ma anche l’inquinamento poiché con una stampante 3D sulla scrivania ogni casa può diventare una fabbrica in miniatura. Se si ha bisogno di un oggetto non lo si cerca più in negozio, piuttosto si scaricano i modelli virtuali da Thingiverse45 e lo si crea da sé. In questo scenario, molte merci viaggeranno come bit da computer a computer e sulle strade circoleranno solo materie prime e prodotti difficilmente replicabili. Infine nell’articolo si parla di stampanti 3D alimentate a energia solare che secondo Harbir Kaur, professoressa di scienze e blogger su Huffington Post UK, potrebbero essere gli strumenti che rivoluzioneranno la vita nei paesi in via di sviluppo. Alla luce dei fatti, l’imperversare di queste nuove tecnologie sembra ampliare le possibilità di produzione e del consumo ma anche lasciare spazio a dibattiti che vedranno l’emergere di risposte solo tra qualche anno. 45

Sito dedicato alla condivisione di file di progettazione creati dagli utenti nato nell’ottobre 2008. Fornisce principalmente progetti di hardware open source. I progetti realizzati sono ampiamente usati nel fai da te, dal progetto RepRap, dalle stampanti 3D e gli operatori di MakerBot.

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Capitolo 2. Il futuro della produzione: i FAB LAB (Fabrication Laboratory) 2.1 Cosa sono i Fab Lab? Quando nel 1998, il professore Neil Gershenfeld del MIT di Boston iniziò a tenere il corso dal titolo How to Make (Almost) Anything, lo fece rivolgendosi a un piccolo gruppo di studenti degli ultimi anni che avevano già avuto un approccio con le macchine disponibili in laboratorio; ma la sorpresa fu che non si presentarono soltanto i dieci studenti per cui era stato pensato il corso ma un centinaio di ragazzi per lo più artisti, architetti e ingegneri entusiasti e motivati dal puro piacere personale di creare e utilizzare le proprie invenzioni, motivati da un’ispirazione non professionale ma assolutamente personale. Gershenfeld rimase molto colpito dalla risposta entusiastica e inaspettata che ricevette il suo corso e iniziò a notare che questo successo non rimase il caso isolato della novità bensì iniziò a ripetersi con una certa regolarità anno dopo anno. Iniziò a realizzare che questi studenti stavano facendo molto di più che partecipare a un corso; stavano inventando una nuova nozione fisica di “letteratura”. “Il significato comune di ‘letteratura’ è ormai ridotto alla lettura e alla scrittura, ma quando il termine è nato, nel Rinascimento, aveva il significato molto più ampio di ‘padronanza dei mezzi di espressione disponibili’. In seguito, però, la fabbricazione fisica è stata esclusa in quanto ‘arte illiberale’, perseguita solo per fini commerciali. Questi studenti stavano correggendo un errore storico, usando macchine da milioni di dollari per ‘espressioni tecnologiche’, ogni bit eloquente tanto quanto un sonetto o un dipinto. Oggi non ci sono molti posti dove questi strumenti sono disponibili per giocare piuttosto che per lavorare, ma le loro capacità saranno presto integrate in versioni di consumo accessibili ed economiche. Un tale futuro realmente rappresenta un ritorno alle nostre radici industriali, prima che l’arte fosse separata dagli artigiani, quando la produzione era rivolta agli individui piuttosto che alle masse” (Gershenfeld, 2005).

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Il proposito di riportare la possibilità di costruire strumenti in prima persona, dentro le case, secondo l’autore, non vuole ricreare le difficoltà del vivere caratteristiche di un’epoca che non conosceva gli agi delle società moderne, ma piuttosto rimettere il controllo della tecnologia nelle mani dei suoi utenti. Questo pensiero e le riflessioni maturate dall’esperienza diretta con i suoi studenti, ha portato alla realizzazione del progetto di creare dei Fab Lab per esplorare le implicazioni e le applicazioni della fabbricazione personale nei luoghi dove non è possibile seguire il corso tenuto al MIT. L’idea era semplice: il passaggio da personal computer a personal fabricator, un luogo che potesse fornire conoscenze, competenze, materiali avanzati e strumenti tecnologici al servizio di imprenditori, studenti, artisti, artigiani e piccole imprese. Quindi offrire la possibilità a coloro che volessero creare qualcosa di nuovo e su misura, di poterlo fare a basso costo e in modo personalizzato in un luogo vicino a casa. Fab Lab, a seconda di come lo si voglia interpretare, può significare “laboratorio per la fabbricazione” o semplicemente, come suggerisce il suo significato letterale: “laboratorio favoloso”. Nel 2002, il Center of Bits and Atoms approvò l’ampliamento del progetto iniziato con il corso del MIT e grazie ad uno stanziamento di fondi da parte della NSF (National Science Foundation), venne inaugurato il primo laboratorio e da subito iniziarono a diffondersene altri in India, Costa Rica, Norvegia, nella città di Boston e nel Ghana. In concreto si tratta di un laboratorio in scala ridotta che offre tutti gli strumenti necessari per realizzare progetti di digital fabrication (stampanti 3D, plotter da taglio, frese a controllo numerico, macchine a taglio laser, macchine da taglio a idrogetto, scanner 3D, macchine per cucire, ecc…), in sostanza le attività che comportano la trasformazione di dati in oggetti reali e viceversa. Un laboratorio dove vi è la possibilità concreta di assistere a processi molto raffinati e interessanti nel quale si mescolano, in infinite possibilità d’interazione, atomi e bit.

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L’integrazione tra computer e macchine, fino ad ora è stata vista e vissuta soltanto nelle fabbriche, con dimensioni e costi molto alti, qui invece viene riprodotta su scala amatoriale, preannunciando quello che in futuro potrebbe diventare una realtà a livello domestico. Ma non è soltanto un’officina dove all’interno puoi trovare le nuove attrezzature e i software per costruire; bensì qualcosa di più. I Fab Lab sono una rete globale di laboratori locali nati per stimolare l’inventiva, fornendo l’accesso a strumenti per la fabbricazione digitale; si pongono come strumento di aggregazione e mezzo per dedicarsi a passioni, idee e attività; sono luoghi che possiedono un ruolo sociale, perché sono soprattutto luoghi comunitari, posti che si fondano prima sulle persone che sulle macchine; la parte tecnica ha una base umana imprescindibile. Condividere idee, progetti e know-how è il fulcro di questo nuovo genere di spazi di manifattura digitale; di queste nuove palestre di creatività. Quando si entra in un nuovo Fab Lab la sensazione che si vive è quella di non essere “soli nell’universo”, sensazione che David Lang (2013) descrive molto bene in “From Zero to Maker”: “Non appena ho rinunciato ai miei preconcetti, sono stato accolto in una comunità di possibilità. Ho realizzato di far parte di qualcosa di più vasto: un movimento maker”. A molti le attività svolte al suo interno potranno apparire come un “cazzeggio creativo”, come ironicamente lo definisce Massimo Banzi, ma ad uno sguardo più attento i Fab Lab sono un’ottima dimostrazione di come si possano realizzare ecosistemi con la vocazione esclusivamente rivolta all’innovazione, percorrendo vie e schemi non convenzionali sempre garantendo l’accesso a tutti. L’innovazione infatti si dirige sempre più verso la creazione di piattaforme che cerchino di riunire le preziose fonti di conoscenza che sono disperse tra gli individui, come Frederick A. Hayek sosteneva nel suo The Use of Knowledge in Society (1945). Negli Stati Uniti, questa potente risorsa è stata riconosciuta anche dal presidente Barack Obama che nel 2013 ha stanziato 3 miliardi di dollari per la creazione di Fab Lab in tutto il paese. Secondo un’analisi condotta dal ricercatore Peter Troxler che negli ultimi anni si è dedicato al mondo dei Fab Lab, questi spazi, seguendo i

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fondamenti della teoria delle attività di Engerström 46 , stimolerebbero l’apprendimento e lo sviluppo mediante tre caratteri principali: luogo in cui fare, nel senso più concreto del termine, innescando uno dei meccanismi d’apprendimento più potenti; luogo che persegue la ricerca di soluzioni speciali a bisogni particolari e luogo all’interno di una rete di altre comunità, dove il valore aggiunto è rappresentato dalla condivisione di esperienza e conoscenza. L’unica fonte al momento disponibile per tracciare il ritratto dell’utente medio di un Fab Lab è uno studio realizzato da quello di Amsterdam risalente a novembre 2012, condotto raccogliendo dati mediante un questionario rivolto a 190 utenti che hanno usufruito dello spazio 47. Lo scopo dell’indagine era quello di acquisire informazioni generali riguardo all’utenza che frequenta e utilizza i macchinari del laboratorio e i successivi risultati raggiunti. Dai risultati è emerso che la maggioranza degli utenti sono giovani e adulti, la fascia d’età più numerosa è 30-39 (42%); in merito al genere, vi è una leggera preponderanza dell’utenza maschile rispetto a quella femminile. Dati interessanti riguardavano l’area professionale di provenienza, la maggioranza degli utenti derivava da aree affini alla fabbricazione digitale, appena il 12% dei rispondenti non si ascriveva a queste aree: design, arte, architettura, ingegneria. Questo dato si può però spiegare anche con la scarsa attenzione che i Fab Lab al momento del sondaggio riservavano all’utenza non direttamente legata alla fabbricazione digitale e alla poca popolarità che rivestiva queste officine creative.

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La Teoria delle Attività si occupa di studiare le interazioni dell’individuo in un contesto storico-culturale. Secondo questo setting teorico, l’apprendimento è interpretato come processo attivo, volto all’elaborazione di nuove idee e strumenti. Yrio Engerström è il principale esponente e teorico dell’expansive learning. https://docs.google.com/document/d/1fQZTq8WXThU7S4eCHmMz8q13IZKFFpEcj_rjCjrSP4/mobilebasic?pli=1 47 Ricerca tratta dall’articolo “Chi frequenta i Fab Lab” nell’ebook online “Impresa Open Source – La contaminazione Maker nella manifattura” http://www.lospaziodellapolitica.com/wp-content/uploads/2014/06/MAKERS.pdf

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Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 1]

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La maggioranza dei frequentatori si colloca nella classe di una/tre visite, frequenza legata al progetto seguito oppure alla partecipazione a corsi sulla fabbricazione digitale. L’84% dei rispondenti si è dichiarato normale utente del Fab Lab mentre solo il 5% si è definito un utente esperto di fabbricazione digitale. In generale emerge dunque che si tratta prevalentemente di user non esperti, che frequentano un numero ridotto di volte il Fab Lab per un progetto specifico.

Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 2]

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Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 3]

Nel computo generale risulta che il 79% degli utenti crea e costruisce individualmente l’oggetto; però questa percentuale, secondo gli autori del report, risulta essere non del tutto veritiera in quanto molte evidenze porterebbero a dare maggior peso al fenomeno della collaborazione tra gli utenti e tra personale del Fab Lab e i suoi utenti.

Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 4]

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Riguardo alla tipologia delle creazioni, il 59% dichiara di aver prodotto oggetti funzionali o ornamentali, il 31% oggetti d’arte, il 25% mock-up (modelli).

Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 5] Infine, nonostante la maggior parte dei frequentatori del Fab Lab viva l’esperienza come un esperimento, significativo è il fatto che solo il 20% vi si sia rivolto per scopi commerciali mentre il 48% per scopi personali.

Report del Fab Lab di Amsterdam (2012) [Fig. 6]

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Proprio riguardo a questa ultima affermazione, viene da pensare che la produzione fai-da-te prenderà sempre più piede nel nostro quotidiano e come postulato nel primo capitolo di questa tesi, ciascuno di noi possiederà a livello domestico una stampante 3D e provvederà singolarmente a crearsi ciò di cui avrà necessità, come per esempio il cibo o qualunque altra cosa la nostra mente potrà immaginare, dalla semplice oggettistica fino a estrosi abiti o componenti meccanici di ricambio. 2.2 The Fab Charter Per aderire alla rete internazionale dei Fab Lab è necessario aderire alle linee-guida espresse nel manifesto originale del Center for Bits and Atoms: il Fab Charter. Stilato da Neil Gershenfeld e dai suoi collaboratori nel 2002 al MIT di Boston, da allora ha dettato i criteri alla quale ogni struttura nel mondo deve attenersi se vuole professarsi come Fab Lab. Dal 2002 ad oggi, il fenomeno dei Fab Lab si è rapidamente diffuso in tutto il mondo e attualmente si contano più di 35048 Fab Lab propriamente detti. Ogni spazio che viene a costituirsi come tale, aderisce a quattro elementi essenziali: 1.

Democratizzazione dell’accesso alle tecnologie presenti all’interno di un Fab Lab; a questo scopo il laboratorio deve garantire a chiunque si dimostri interessato, la possibilità di usufruire di open day gratuiti.

2.

Sottoscrizione della FabLab Charter, di cui si deve trovare copia sia all’interno della struttura sia sul relativo sito Web.

3.

Condivisione, all’interno della rete dei FabLab, delle pratiche di utilizzo delle macchine e dei processi produttivi, scelta che concerne in primo luogo software e hardware open source.

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Dato aggiornato a Luglio 2014 su https://www.fablabs.io/labs

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4.

Più in generale, condivisione costante e globale di saperi, processi, design, prototipi all’interno della rete dei partecipanti ad ogni Fab Lab esistente.49

La mission dell’associazione internazionale dei Fab Lab è la creazione di un network globale di laboratori per promuovere l’inventiva delle persone fornendo loro l’accesso agli strumenti per la fabbricazione digitale: dunque un fine di sviluppo e promozione sociale. Ogni spazio sottoscrive, come ho detto poco fa, alle linee-guida espresse nel manifesto. Più nello specifico, i Fab Lab in linea con il piano mondiale, mettono a disposizione un repertorio essenziale ed espandibile di strumenti e attrezzature per la realizzazione di una gamma innumerevole di oggetti, promuovendo la condivisione tra persone e progetti. L’accesso a questi strumenti è libero per qualsiasi realizzazione che non abbia potenziali utilizzi pericolosi per qualcuno. Vige infatti il divieto alla fabbricazione di oggetti con fini bellici o potenzialmente lesivi per l’uomo. Tra le altre responsabilità che riguardano gli utenti, oltre a quella della sicurezza, rientrano anche quelle inerenti la pulizia e il funzionamento; devono mantenere il laboratorio sempre pulito e ordinato e saper curare le più semplici opere di manutenzione, riparazione e documentazione degli strumenti e dei materiali, dunque assistendo nei processi operativi gli utenti più esperti. Gli utenti che accedono a queste strutture acquisiscono presto un approccio “do it yourself”, cioè imparano presto a realizzare i propri progetti in autonomia, condividendo l’utilizzo del laboratorio con altri utenti e relativi utilizzi. Un altro aspetto molto importante, è quello educativo che si basa sulla contribuzione spontanea (praticamente obbligatoria) allo sviluppo di documentazioni e formazione per realizzare progetti personali e metterli a disposizione della comunità per favorire la loro replicabilità, la creazione di nuovi progetti ed aumentare la conoscenza di tutti attraverso il “learning 49

http://www.makerfairerome.eu/2013/05/16/cose-un-fablab/

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from peers”, ovvero imparando dagli altri utenti (o nodi della rete), quindi in un’ottica di conoscenza diffusa. Un punto fondamentale della Fab Charter è la segretezza: in un mondo Open, processi e design devono essere liberamente disponibili per l’uso personale ma allo stesso tempo la proprietà intellettuale può essere protetta nel modo che si ritiene più idoneo, quindi facendo ricorso a licenze o brevetti. L’atto si conclude con la frase “le attività commerciali possono essere incubate nei Fab Lab a patto che non entrino in conflitto con la logica Open access o con altri usi. Queste attività dovrebbero crescere attorno al laboratorio piuttosto che all’interno, facendone beneficiare coloro che vi lavorano dentro, ovvero gli inventori e i network che contribuiscono al loro successo”.

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The Fab Charter Mission

Access

Education

Responsibility

safety cleaning up operations Secrecy

Business

draft: August 30, 2007

Il Fab Charter (2002) [Fig. 7]

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I principi del Fab Charter comunque sono motivo di ispirazione anche per quelle realtà non etichettabili come Fab Lab, ad esempio Hacker Spaces o Maker Space, con funzioni un po’ più ibride (ad esempio laboratori dove si riparano oggetti); impegnate tuttavia a moltiplicare i punti di accesso alla tecnologia

e

alla

sperimentazione

nel

campo

dell’informatica

e

dell’elettronica. 2.3 I Fab Lab nel mondo Per comprendere la portata globale del fenomeno Fab Lab, seguirne gli sviluppi

e

la

diffusione

è

sufficiente

visitare

il

sito

http://fab.cba.mit.edu/about/labs/, contenente la lista ufficiale gestita direttamente dal MIT. Oppure è possibile effettuare la ricerca su Google Maps “Fab Labs on earth”, che darà come risultato la seguente mappa interattiva personalizzata ed aggiornabile:

La mappa dei Fab Lab nel mondo (2014) [Fig. 8] Fino a due anni fa, la geografia dei Fab Lab escludeva quasi totalmente il Sud America e l’Asia, collocandosi piuttosto dove era presente la miglior

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spinta innovativa e diffusa la conoscenza e l’accessibilità agli strumenti informatici, ossia in Europa e Stati Uniti. Oggi le officine creative sono arrivate anche in India, Giappone, Brasile, Argentina, ecc., diventando un vero e proprio fenomeno globale. La Fab economy si sta diffondendo rapidamente e addirittura a Barcellona hanno maturato il più ambizioso progetto mondiale di Fab Lab per uscire dalla crisi socio-economica che stiamo vivendo: nella città spagnola sono già presenti quattro laboratori ed il progetto dell’amministrazione comunale intende trasformarla nella prima “fab city” mondiale allestendo un fabrication laboratory in ogni quartiere. Le “fab city” vengono definite città 5.050, in cui la fab economy si può sviluppare trasformando il commercio in un sistema just-in-time che minimizza l’impatto ambientale, sviluppa la spinta imprenditoriale e l’educazione tramite la tecnologia e genera risorse pubbliche non ottenibili in precedenza. Al fine di dar vita a nuove città parallele, dove le economie produttive possano tornare ad avere slancio perché in grado di produrre nuovi oggetti richiesti dalla collettività, il Fab Lab di Barcellona ha creato Smart Citizen, una piattaforma in grado di coinvolgere e rendere i cittadini partecipi nella gestione della città. L’applicazione infatti collega in modo intelligente tra loro dati, persone, conoscenze creando una mappa delle città grazie ai dati inseriti da questi, formando nuove cittadinanze di gross democracy, in grado di far ripartire l’economia secondo nuove logiche produttive. Interessante è notare le diverse attitudini per le quali nascano i laboratori nelle diverse parti del mondo. In Africa e Asia sorgono per lo più con l’obiettivo di soddisfare esigenze e bisogni fondamentali, come la creazione di posti di lavoro e di spazi abitabili. Nell’India occidentale, nel villaggio di Pabal, il laboratorio è stato utilizzato per sviluppare dispositivi per monitorare la sicurezza del latte e l’efficienza delle macchine agricole; in Ghana sono state create macchine alimentate alla luce solare. 50

Norris definisce città 1.0 i primi insediamenti agricoli, la città 2.0 con la comparsa delle prime infrastrutture di trasporto, 3.0 città con servizi pubblici moderni e infine le città 4.0 sono le attuali metropoli, cablate e connesse dalla rete Internet e zone dedicate a specifici servizi pubblici. http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1888/810980-1164300.pdf?sequence=2

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Mentre nell’Occidente, se finora gli strumenti di fabbricazione digitale sono stati utilizzati per lo più all’interno di industrie per ottenere prototipi di prodotti in fase di produzione in modo da coglierne gli errori prima che questi divenissero onerosi da correggere, oggi i Fab Lab e le loro strumentazioni oltre a costituire importanti risorse per lo sviluppo della produzione – emblematico è il caso di Barilla, azienda leader nella produzione di pasta e una delle prime grandi italiane a credere in questo tipo di tecnologie, ad investire nella ricerca condotta dagli ingegneri dell’Università Tecnica di Eindhoven per lavorare alla stampa 3D di spaghetti e altri tipi di pasta - vengono usufruiti per lo più per soddisfare esigenze di espressione personale e bisogni individuali che difficilmente i prodotti rivolti ai mercati di massa riescono ad appagare. In quest’ottica, il mercato viene immaginato allora come composto da una persona sola e il prototipo è il prodotto stesso. Dove questi spazi non sono ancora sorti o dove ancora non si usano macchine del genere, è perché “sempre di più, il limite maggiore all’utilizzo diffuso di tali strumenti non è il costo, né la formazione né la ricerca; è semplicemente il grado di consapevolezza di ciò che è già possibile”, come scrive Gershenfeld (2005) nel suo libro “Fab - Dal personal computer al personal fabricator” nella quale riporta casi interessanti a riguardo e di cui io di seguito riporto alcuni esempi. Kelly Dobson era concentrata sulla sua personale necessità di urlare in momenti non appropriati, come ad esempio in pubblico, quando inventò lo ScreamBody di Kelly, un contenitore da indossare in cui è possibile urlare senza disturbare all’esterno e che consente successivamente, quando se ne ha la possibilità, di riprodurne il contenuto. Il prodotto ha suscitato divertimento, ammirazione, riso ma ciò che conta è che Kelly ha progettato il prodotto per un solo consumatore finale, sé stessa. Il suo obiettivo non era riempire una nicchia di mercato, o rispondere alla domanda di un target preciso bensì soltanto perché lo desiderava. Cercando tra i prodotti disponibili sul mercato non era riuscita a trovare ciò che poteva aiutarla e basandosi sulla considerazione che difficilmente il mercato analizza e soddisfa fino in fondo i bisogni individuali, nonostante non avesse

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specifiche competenze tecniche, ha deciso di realizzare in autonomia il prodotto che voleva. “Un vero dispositivo personale di informatica è per definizione un prodotto non di massa, né di massa un po’ personalizzabile: è personalmente progettato” (Gershenfeld, 2005). Un altro progetto curioso è quello di Meejin Yoon, professoressa del dipartimento di architettura dell’Università di Boston. Impressionata dal modo in cui la tecnologia s’intromette abusivamente nel nostro spazio personale, ha iniziato a pensare se ci fosse un modo per difenderlo e proteggerlo. In un mondo dove le forme della comunicazione aumentano esponenzialmente moltiplicando le forme, i generi e l’intensità con la quale si manifestano, nessuno poteva immaginare che qualcuno avrebbe maturato il desiderio di difendersene. E invece così è nato il Defensible Dress, un abito-provocazione decorato da frange che se guardate da vicino con maggiore attenzione, risultano essere fili rigidi controllati da sensori in prossimità; quando qualcuno si avvicina e supera la distanza consentita dalla persona, questi fili si irrigidiscono e spuntano fuori come fossero aculei imitando il comportamento di un porcospino. Ancora una volta siamo di fronte ad un’autrice che non era dotata di particolari competenze tecniche ma ciò che l’ha portata a realizzare il capo è stata la determinazione nel soddisfare un’esigenza e un forte bisogno individuale. Shelly Levy-Tzedek, è una biologa che ha scelto di focalizzarsi su una delle pratiche più stressanti per uno studente: svegliarsi. Così, per aiutare chi ha difficoltà ad alzarsi la mattina, ha ideato una sveglia che non permette di essere spenta o rinviata soltanto con un bottone bensì, con cui è necessario “farci la lotta”. Nel senso che la sveglia richiede che l’utilizzatore afferri le lampeggianti protuberanze, nell’ordine casuale in cui queste si accendono e spengono. Alla presentazione del prodotto a una conferenza, la reazione è stata estremamente positiva e la domanda più frequente era dove poteva essere acquistato. Se la sveglia appare essere un oggetto interessante, risulta esserlo ancora di più il procedimento con cui Shelly l’ha messo a punto; infatti per tutta la durata dello sviluppo del progetto, ha tenuto una registrazione tecnica su una pagina web, che riportava idee, file con la struttura che man mano emergeva e le osservazioni che permettevano di far

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comprendere ciò che funzionava e ciò che andava modificato, facendo affiorare le opinioni degli studenti ed i loro suggerimenti. Come si può notare anche attraverso questo esempio, rifacendoci alle considerazioni fatte nel primo capitolo, logiche collaborative nella creazione di conoscenza e valore aggiunto, per un prodotto che possa definirsi realmente innovativo e personalizzato, sono onnipresenti. 2.4 Il Fab Lab itinerante Se si crede che il Fab Lab per essere tale debba disporre necessariamente di uno spazio fisico stabile, allora non si è ancora venuti a conoscenza del progetto African Fabber, un fab lab itinerante tra Europa e Africa che, ponendo enfasi su concetti quali la fabbricazione digitale e l’open source hardware, sviluppa un approccio sostenibile all’uso creativo della tecnologia. Attraverso l’interazione tra i sistemi materiali africani e le tecnologie a controllo numerico, verrà sviluppata una serie di prototipi ecologici che indagano i temi del vivere sostenibile.51 African Fabbers in particolare, nelle tappe che effettua, intende sviluppare le basi teoriche e tecniche per l’istituzione di fab lab locali ed avviare il dibattito su tali temi. Tra le prime tappe c’è stata quella di Marrakech, dove è riuscito a sviluppare una piattaforma relazionale produttiva sui temi del computational design, dell’auto-produzione e della fabbricazione digitale con materiali naturali locali; rendendo lo spazio della Biennale d’arte, da mero luogo espositivo a sito di produzione condivisa, di scambio di conoscenze specifiche, legate alle tecniche costruttive e artigianali locali e alla progettazione avanzata. Il progetto, nel corso delle differenti tappe, si prefigge lo scopo di attivare uno scambio culturale proficuo e di incentivare dinamiche di innovazione sociale. Un viaggio e uno scambio culturale che contamini e combini esperienze disciplinari apparentemente lontane, culture altre, approcci 51

Cfr. articolo “Urban FabLab lancia the African Fabbers project/the Marrakech Biennale session/Open call for makers” sul sito cittadellascienza.it

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tecnologici e tradizionali insieme in uno spazio di relazione e scambio, trasmissione (omnidirezionale) di sapere e progettazione condivisa.52

Il Fab Lab itinerante del progetto “African Fabbers” (2014) [Fig. 9] Nato e promosso da Urban Fab Lab di Napoli, è curato da Paolo Cescone e Maria Giovanna Mancini, suoi fondatori, ed è un progetto no-profit d’innovazione sociale, che ha come scopo quello di fare interagire le comunità di makers europei e africani attraverso workshop, progetti collaborativi e talks. Una lezione su come si possa fare molto con poco, su come si possa portare avanti una progettazione avanzata con materiali naturali e anche poveri, e su come si debba andare nella direzione della ricerca di un nuovo equilibrio tra tecnologia ed ecologia, tra natura e sacrificio. 2.5 I Fab Lab in Italia Considerando che il primo Fab Lab nel mondo ha aperto nel 2002 a Boston, l’arrivo delle officine della fabbricazione digitale nel nostro paese è stato 52

Cfr. articolo “Così abbiamo creato un Fablab itinerante nel deserto” sul blog di CheFuturo! – Il lunario dell’innovazione

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lento ed è avvenuto a partire dal 2012. Ma da subito hanno iniziato a diffondersi a macchia d’olio. Già nel 2011, a Torino, in occasione della mostra “Stazione Futuro” che ebbe luogo per il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, si mostrava al pubblico un’installazione contenente una stampante 3D ed una tagliatrice laser. Nel capoluogo piemontese qualche mese dopo, grazie al contributo di Massimo Banzi - già citato nel capitolo precedente, inventore del processore Arduino - nasce “Officine Arduino”, il primo Fab Lab italiano. A credere nel progetto e secondo ad aprire è stato quello di Reggio Emilia. A seguire Firenze, Napoli, Roma, Trento, Novara, ecc. Negli ultimi due anni sono arrivati ad essere 34 i Fab Lab italiani53; un numero comunque destinato a crescere ancora. Ogni Fab Lab che nasce non mantiene sempre l’utilizzo coerente con il contesto iniziale ma ognuno lo declina nel proprio; alcuni sorgono all’interno di università, altri affiancati a centri di ricerca tecnologica, altri ancora hanno invece implicazioni più sociali e taluni vivono dentro le scuole, gli istituti di formazione o in librerie e biblioteche, come il gruppo di WeMake che inizialmente veniva ospitato in quella di Cinisello Balsamo o il Fab Lab di Trento che viene accolto all’interno del MUSE, il museo della scienza di Trento.

53

Dato aggiornato a Luglio 2014 su https://www.fablabs.io/labs?country=it

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La mappa dei Fab Lab Italiani uscita su Wired di Febbraio (2014) [Fig. 10] Ciò che colpisce nel panorama italiano, è anche la diversa attitudine e i diversi obiettivi per cui sono nati. “La prima ondata si è orientata alla divulgazione delle nuove tecnologie e dei metodi di learning by doing. Adesso ognuno si sta specializzando in qualcosa di settoriale e più specifico. Nonostante questo si è mantenuto spesso l’imprinting originario di facilitare l’ingresso e favorire la condivisione. Molti stanno poi spostando la loro missione sulla creazione di meccanismi economici che garantiscano la sostenibilità senza rimanere legati solo ai finanziamenti delle istituzioni; cosa che – peraltro – deve continuare ad accadere, come avviene per biblioteche e scuole pubbliche. L’alfabetizzazione alla tecnologia va sostenuta da istituzioni pubbliche (e private) perché è un valore sociale, culturale e tecnico. Nei prossimi tempi succederà probabilmente che questi concetti verranno declinati in maniera diversa: anche all’interno della stessa città mi aspetto più luoghi differenti, con offerte complementari. Servono anche Fab Lab specializzati, che consentano non solo un’accessibilità diffusa ma anche lo sviluppo di professionalità nascenti e la crescita della consapevolezza tecnologica di quelle persone che vogliono trasformare in lavoro la propria passione”.54 54

Intervista a Costantino Bongiorno, fondatore di Wefab a Milano e tra gli organizzatori della Maker Faire in Italia, pubblicata su A-Z Makers,p. 68

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Sebbene condividano un profilo comune, abbiano prospettive eterogenee e seppur ispirati a una filosofia comune, ognuno di essi acquisisce la personalità e i progetti di chi lo rende vivo. “Il Fab Lab prende l’identità del territorio e riesce ad attrarre l’energia locale per trasformarla in sinergia” come ama ricordare sempre Fernando Arias, coordinatore del Fab Lab di Reggio Emilia. I risvolti dati dalla presenza di un Fab Lab in un territorio inoltre, sono differenti tra loro; come emerge dalla mia osservazione sul panorama nazionale, in Italia sono ricalcati sulla dimensione locale e sulle domande e risorse che le sono annesse.

I diversi settori produttivi dell’industria Italiana (2014) [Fig. 11] A tal proposito porto come esempi le direzioni perseguite in particolare dal Fab Lab di Milano e quello di Reggio Emilia.

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A Milano, da sempre tra le tre capitali europee più importanti per la tradizione stilistica e del design, Zoe Romano55 ha co-fondato il progetto pilota europeo di moda collaborativa Openwear.org attivo dal 2009 al 2012 e successivamente WeFab, una serie di eventi per la diffusione della digital fabrication e dell’open design in Italia; mentre a Reggio Emilia, culla del Parmigiano-Reggiano

ed

eccellenza

della

meccatronica,

Francesco

Bombardi56, tra le altre cose, ha dato spazio agli studi sulle applicazioni più avvenieristiche delle stampanti 3D: la food digital fabrication e la fabbricazione digitale nell’industria dell’automazione. Il Fab Lab reggiano, tra le altre cose, ha anche organizzato interessanti performance nella quale venivano realizzate le icone della zona di produzione del tipico formaggio utilizzando il prodotto stesso, tramite una fabbricazione a taglio laser che consentiva di costruire profili e sezioni in modo da ottenere elementi scenografici che, una volta montati possono costituire dei veri e propri paesaggi di formaggio.

La cattedrale di Reggio Emilia realizzata con Parmigiano-Reggiano (Maggio 2013) [Fig. 12]

55

Una delle più conosciute maker italiane, tra le fondatrici di Openwear.org, e WeFab. Si occupa di strategia digitale e tecnologie indossabili per Arduino. Dal 2014 gestisce anche lo spazio WeMake a Milano insieme a Costantino Bongiorno 56 Architetto impegnato a sviluppare unità abitative sperimentali, ad esempio in autocostruzione, di smart cities nonché fondatore del Fab Lab reggiano

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Dunque benchè aderiscano tutti al modello originale del famoso laboratorio del MIT, ogni Fab Lab declina la sua produzione e prototipazione in base al territorio

nella

quale

sorge,

lasciando

comunque

ampio

spazio

all’autoproduzione dei suoi utenti e alla eterogeneità delle idee che aleggiano al suo interno. Ciò che soprattutto le piccole e medie imprese italiane, oltre ai singoli, dovrebbero capire, è il grande potenziale che simili strutture potrebbero fornirgli, in particolare in questo preciso momento storico. Le modalità produttive possono agevolmente trasformarsi in opportunità. I Fab Lab forniscono gli strumenti e le competenze per muoversi nel mondo della digital fabrication e trasformare una buona idea in un oggetto o prodotto concreto. Pensando al nostro Paese, dove la punta di diamante della produzione manifatturiera è costituita dalla forza dell’artigianato, è presumibile immaginare che grandi possibilità potrebbero essere rappresentate da una virtuosa contaminazione tra i nuovi tecno-laboratori e gli esistenti laboratori artigiani, portatori di manualità e conoscenze uniche. Il futuro dell’innovazione italiana può essere dato da una fruttuosa collaborazione tra esperti artigiani con makers in grado di sfruttare le più nuove tecnologie disponibili per prototipare rapidamente ed efficacemente oggetti ancora più distintivi ed unici nel proprio genere. La passione per la creazione, il senso di comunità, la voglia di esprimere le proprie capacità sono tutti elementi comuni ad artigiani e Fab Lab. Seguendo una logica di rete tra tutti i soggetti, è possibile delineare un modello di business che coinvolga laboratori di fabbricazione, piccole imprese e start-up manifatturiere, combinando potenzialità, tendenze future di mercato e nicchie in cui è possibile sperimentare nuove logiche di servizio attraverso le nuove tecnologie. Vantaggi sicuramente da non sottovalutare nella collaborazione tra impresa e Fab Lab locale sarebbero la flessibilità, la riduzione dei tempi e soprattutto dei costi del prodotto finito, bassi livelli di investimenti, prodotti completamente personalizzati, più risorse per la ricerca e lo sviluppo e la pronta assistenza sul territorio.

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C’è chi, provocatoriamente, dice che “l’Italia sarà una Repubblica fondata sui Fab Lab. (…) I Fab Lab sono luoghi che (…) soddisfano due esigenze centrali per il paese: il lavoro e la ricerca. (…) Siamo il paese dell’artigianato e dei prodotti di altissima qualità (le Ferrari, i mobili, la pelletteria, l’alta moda): la possibilità di coniugare know how, gusto e passione alle nuove tecnologie ci offre un vantaggio competitivo enorme, si tratta ‘solo’ di rivitalizzare e aggiornare una cultura millenaria”.57 2.5.1 Il fenomeno maker in Italia oggi: Makers’ Enquiry A luglio 2014 è stata promossa dal Dipartimento di Design del Politecnico di Milano, dalla Fondazione Make In Italy CDB e dall’associazione Make in Italy attraverso la rete, Makers’ Inquiry, un’indagine socio-economica al fine di comprendere come sta evolvendo il fenomeno del Make in Italy ponendo una serie di domande direttamente ai diretti interessati: makers, autoproduttori e gestori di Fab Lab e altri makerspace. L’indagine si basa su un questionario online di 66 domande personalizzate da porre ai diversi profili di makers (per una stima totale di circa 250 persone coinvolte), che sarà periodicamente accessibile per consentire la partecipazione di nuove persone e il costante aggiornamento dei dati da parte di coloro che avranno già partecipato alle precedenti edizioni del sondaggio. Il format della ricerca, come insegna la filosofia maker, sarà ‘aperto e replicabile’ così che anche altri ricercatori potranno poi realizzare l’indagine nei propri paesi. Questo consentirà nel tempo di poter ampliare il database e confrontare i risultati anche a livello internazionale. I primi risultati verranno presentati durante la seconda edizione della Maker Faire Rome a ottobre 2014, il tutto con il fine di delineare il profilo dei makers italiani e capire il peso che un simile cambio di direzione può portare all’economia italiana, in particolare al settore manifatturiero, ma e soprattutto anche all’impatto sociale che va generando.

57

Si veda l’articolo “L’Italia sarà una Repubblica fondata sui Fab Lab” sul Blog “Lo spazio della Politica – Taking politics seriously”

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L’indagine è stata preceduta da numerosi testi, articoli e pubblicazioni ma fino ad ora nessuna conteneva ricerche o dati raccolti meticolosamente, questo documento costituirà il primo report ufficiale sul fenomeno. 2.6 Case Study: il Fab Lab di Reggio Emilia Conducendo la mia ricerca, ho deciso di focalizzarmi in particolare sullo studio del Fab Lab di Reggio Emilia, perchè a mio avviso rappresenta uno dei casi più interessanti. Tra i primi a sorgere sul territorio italiano, ha da subito dimostrato grande dinamismo e, ciò che più mi ha colpito, grande attenzione non solo all’interno del laboratorio ma in tutta la città soprattutto verso chi non aveva specifiche competenze tecniche o non conosceva affatto il mondo dei makers. Durante questi mesi ho raccolto materiale sulla realtà reggiana, ho incontrato coloro che l’hanno fondato, visitato la sede e seguito in prima persona eventi da loro realizzati. 2.6.1 Una Urban Factory A differenza dell’esperienza torinese, la realtà reggiana si autodefinisce una urban factory, poiché per una serie di motivi ha sempre operato in uno spazio pubblico; prima collocato all’ultimo piano dello Spazio Gerra, museo di arte contemporanea, poi trasferito a maggio 2014 all’ultimo piano dei Musei Civici, nel cuore del centro storico della città, ed è in contatto molto diretto con privati, istituzioni, scuole e aziende. Nato grazie all’entusiasmo e allo spirito propositivo dell’architetto Francesco Bombardi nell’ottobre 2012, sulle basi di un progetto da lui presentato qualche mese prima al Comune e alla Provincia di Reggio Emilia e che poi è stato gestito dal REI (Reggio Emilia Innovazione) - società partecipata che si occupa di innovazione e reti di alta tecnologia - che lo ha finanziato e si è occupato di procurargli una sede in cambio di consulenze e formazioni gratuite agli interessati. Il giorno dell’inaugurazione l’architetto ha inaugurato lo spazio con una mostra di oggetti DIY realizzati artigianalmente nei Fab Lab di tutto il

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mondo. Il titolo della mostra era “Se faccio capisco”, il motto di Confucio condiviso da Bruno Munari, il noto protagonista dell’arte, del design e della grafica del XX secolo, di cui Bombardi è grande ammiratore. Il Fab Lab “fondamentalmente è un luogo di produzione di idee. Questa espressione raffigura l’anima vera di questo spazio”.58 2.6.2 Learn by Doing: dai banchi di scuola ai tavoli del Fab Lab La struttura dispone di una stampante HP Designjet Color 3D, di una Laser Cut 60/90 80 watt, di un Plotter da taglio South AS-720SG e infine di una Fresa Roland MDX20. Il Fab Lab sorgendo in una città universalmente riconosciuta e stimata per l’alto livello formativo, non poteva che coinvolgere tra i primi, nel suo lavoro di divulgazione e trasmissione di competenze e conoscenze sul mondo della prototipazione rapida, anche e soprattutto le scuole e l’università. Uno dei progetti (gruppo clima della Ferrari 458) sviluppati da uno studente dell’ateneo reggiano che si è avvalso dell’aiuto del Fab Lab, è stato poi presentato al Centro Studi e Ricerche della Ferrari a Maranello. Ma non è l’unico caso di successo. L’intera esperienza maturata tra scuola e Fab Lab sarà presto oggetto di un documento che si intitolerà “Learn by doing fablab e un anno e mezzo di esperienze con le scuole” e sarà presentato e discusso a ottobre 2014 durante la seconda edizione della Maker Faire Rome. 2.6.3 Idea challenge: la collaborazione tra aziende e Fab Lab L’architetto è stato uno dei primi a intraprendere anche un percorso di collaborazione e co-creazione insieme alle aziende del territorio, dando avvio ad un progetto chiamato “Idea Challenge”. Nato a giugno 2013, mette alla prova talenti e creativi sui temi specifici posti dalle aziende sul territorio, con il fine di fornire soluzioni concrete a problemi dell’economia reale. 58 Intervista a Bombardi su A-­‐Z Makers, p.83

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Tra le varie formule di collaborazione questa prevede la preparazione insieme all’azienda di un brief dettagliato su il tema/prodotto da sviluppare, l’organizzazione di un paio di giornate di lavoro all’interno dello spazio del Fab Lab per sviluppare concept e soluzioni attraverso gruppi di lavoro interdisciplinari e al termine di queste una presentazione pubblica delle proposte

attraverso

la

pianificazione

e

comunicazione

di

un

evento/performance; il tutto finalizzato ad uno sviluppo esecutivo di una o più proposte consegnate all’azienda. La formula dell’Idea Challenge costituisce un’opportunità per le aziende di promuovere la ricerca su temi d’interesse attraverso azioni mirate e che abbiano un’immediata risposta nella produzione materiale di prototipi. Attraverso la contaminazione e la visione “laterale”, generata da questi gruppi di lavoro eterogenei e interdisciplinari, è possibile spostare i punti di vista e provocare stimoli e azioni che possono innescare nuovi processi d’innovazione. Questo tipo di progetto consente alle aziende di avvalersi delle competenze e delle conoscenze di risorse esterne a minime spese e contemporaneamente dà l’opportunità ai partecipanti ai gruppi, durante le giornate di lavoro, di apprendere e approfondire la conoscenza sulla fabbricazione digitale e prototipazione rapida; inoltre consente loro di conoscere da vicino le realtà d’impresa

innovative

ed

eventualmente

costruire

opportunità

di

collaborazioni successive. Il primo Idea Challenge realizzato nel 2013 aveva per protagonista una Mini-coffee machine. A partire dalla meccanica sviluppata dall’azienda Redox, il workshop si proponeva di studiare il design della macchina per il caffè per arrivare alla prototipazione di un sistema di involucri realizzabili in kit, open source, facilmente personalizzabili dall’utente finale. Un altro Idea Challenge, è stato svolto in collaborazione con l’azienda CoopBox e ruotava intorno ai nuovi prodotti in Polistirolo Espanso, con Lotokol si sono occupati della personalizzazione stencil per la pittura decorazione di interni. L’ultimo invece, è stato fatto in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia ed è stato Open Urbe. In sostanza, il Comune ha invitato un gruppo di creativi a ragionare sull’ecosistema delle startup.

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2.6.4 Il Fab Lab scende in piazza Al fine di rendere la cittadinanza attiva e stimolarne l’interesse verso il Fab Lab e le sue attività, l’architetto e il suo compagno in questa avventura, Fernando Arias, promuovono e organizzano spesso diverse attività anche in giro per la città per promulgare questo nuovo approccio al mondo dell’open source e della produzione artigianale seguendo la filosofia del do-ittogether. A novembre 2013 ho assistito alla loro performance urbana di scansione 3D aperta al pubblico, in piazza San Prospero a Reggio Emilia. L'oggetto della scansione – a cui hanno partecipato anche Officina 3D Lab, una sorta di “spin off” del Fab Lab guidata da giovani reggiani che si sono costituiti come il primo service di scansione e stampa 3D cittadino, e l’associazione culturale Leoni di San Prospero - sono stati proprio i famosi Leoni. Per la prima volta sono stati scansionati con un Kinect (scanner 3D low cost).

La loro immagine è stata poi elaborata attraverso il software

123Dcatch di elaborazione grafica 3D, per essere resa in versione digitale e successivamente riprodotta in tutte le dimensioni con la stampante 3D e con altri innovativi strumenti del laboratorio reggiano.

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Performance urbana di scansione 3D dei Leoni di San Prospero organizzata dal Fab Lab Reggio Emilia (12 Novembre 2013) [Fig. 13] [Foto di Laura Anori]

Nello stesso periodo ho visitato il Digital Garden che è stato allestito al secondo piano dello Spazio Gerra e di cui loro hanno curato l’orto indoor, il Garden Lab. Il 13 novembre 2014, Fernando Arias mi ha guidato all’interno dello spazio adibito all’esperimento e mi ha illustrato quanto riporto di seguito.

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Digital Garden @ Spazio Gerra - Reggio Emilia (Novembre 2013) [Fig. 14] [Foto di Laura Anori] Fulcro del progetto è stata la relazione tra tecnologia e sostenibilità tramite l’apertura per un semestre dell’orto come laboratorio di sperimentazione di prototipi per il controllo a distanza delle piante. Si trattava di un micro-ambiente sostenibile che si autoalimentava grazie all’ausilio di supporti digitali (sensori, microcontroller, software) che consentivano un completo e costante monitoraggio in remoto delle piante, favorendone la crescita nel rispetto del loro naturale ciclo produttivo. L’esperimento si è posto l’obiettivo di dimostrare come sia possibile coltivare il proprio cibo anche nelle condizioni più innaturali e improbabili, come in vaso, dentro una stanza. L’iniziativa ha voluto sfruttare le risorse tecnologiche per avvicinare piante e uomo per sopperire a esigenze reali; d’altro canto ha anche evidenziato come sia molto difficoltoso sostituire la natura in modo impeccabile, garantendo le corrette dosi di luce, temperatura, acqua e elementi nutritivi. In senso più generale ciò su cui ci si è voluti concentrare è la necessità di diffondere una rinnovata cultura del verde in città partendo da riflessioni riguardanti i fenomeni globali dell’autosufficienza e dell’autocoltivazione

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del cibo, sfide importanti del nuovo millennio, attraverso metodi tecnologici innovativi.

Garden Lab @ Spazio Gerra - Reggio Emilia (Novembre 2013) [Fig. 15] [Foto di Laura Anori] L’iniziativa

dell’orto

digitale

controllato

in

remoto

ha

visto

la

partecipazione di Iren Energia con cui poi hanno realizzato anche un badile intelligente per spazzare la neve. Peculiarità della realtà reggiana è dunque il coinvolgimento delle aziende del territorio. A questo proposito, a giugno 2014 è stata presentata a Bologna Mak-ER, preogetto di rete, ideato da Bombardi, della manifattura digitale in EmiliaRomagna, alla quale hanno aderito quattordici realtà dislocate lungo la via Emilia, da Piacenza a Rimini. Il progetto coordinato dal Fab Lab reggiano in collaborazione con quello bolognese, si pone come obiettivo quello di “fare rete e costituire strutture che rappresentino tutti e in grado di interfacciarsi con le istituzioni, veicolando anche fondi per la ricerca”59.

59

Come ha dichiarato l’architetto Francesco Bombardi nell’intervista “FabLab Reggio Emilia - I leoni di San Prospero e i paesaggi di Parmigiano, in digitale” su http://www.makeinitaly.foundation/it/fablab-reggio-emilia/

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Il Fab Lab è “un centro di ricerca, una community capace di riunire talenti, persone che hanno molte cose da dire. Il solo fatto di trovarsi in uno spazio diverso dal solito, e non inquadrato, stimola le persone”.60

Garden Lab @ Spazio Gerra - Reggio Emilia (Novembre 2013) [Fig. 16] [Foto di Laura Anori] Chi frequenta il Fab Lab s’intende di elettronica, design, web marketing, modellazione 3D, meccanica, video-grafica, fisica. Ma non solo. Neo-diplomati, studenti universitari, pensionati, ma anche molte persone tra i 40 e i 50 anni. Quest’ultimi vengono considerati dall’architetto i “veri audaci dell’innovazione”, infatti “in molti casi si tratta di persone che escono da fallimenti, da situazioni lavorative anche drammatiche, e cercano così di rilanciarsi da sole”61. Questa pluralità ed eterogeneità costituisce una vera e propria ricchezza poiché consente la creazione di “gruppi di lavoro imprevedibili”. L’interdisciplinarità data dalla compresenza di persone di estrazione molto 60

Come lo definisce l’architetto Francesco Bombardi nell’intervista “L’innovazione non dorme mai- Da Torino a Reggio Emilia, viaggio nella cultura dei nuovi artigiani open source: i “makers”. Tra autocostruzione, stampanti 3D e posti di lavoro” pubblicata su Altreconomia 158, Marzo 2014 61 Intervista di Luca Martinelli a Bombardi su Altreconomia 158, Marzo 2014

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diversa danno ai progetti del Fab Lab quella che viene definita la “visione laterale”, risorsa preziosa da tenere sempre in considerazione. 2.7 Se faccio, capisco. La comunicazione dei Makers e dei Fab Lab Seppur il fenomeno dei makers e dei Fab Lab agisca su larga scala e sia rapido nella sua diffusione, parlando con le persone attorno a me, mi sono accorta che in molti ancora sono poco informati e che soltanto ben pochi siano realmente consapevoli del grande cambiamento in atto. Alcuni alla domanda “chi sono i makers?” o “cosa è un Fab Lab?” non sanno rispondere, altri hanno tratto qualche informazione da servizi in televisione, altri ancora rispondono con il binomio “makers/stampanti 3D”. Qualcuno è incredulo, qualcuno scettico, qualcun altro entusiasta. Durante il 2013, programmi come Report hanno cominciato a dare maggiore visibilità al tema, proponendo puntate a riguardo, le realtà più piccole hanno iniziato a promuovere iniziative per favorire la visibilità dei makers e delle nuove tecnologie, fiere del settore tecnologico hanno iniziato a riservare padiglioni interi ai macchinari di ultima generazione dedicando conferenze e workshop a questo nuovo approccio all’artigianato e alla creazione. A Parma durante la fiera MEC SPE (Fiera della Meccanica Specializzata) nel 2014, è stato dedicato uno spazio al roadshow 3DPrint Hub per mettere luce sulle grandi potenzialità della Stampa 3D nel campo manifatturiero. Tra i protagonisti, i fratelli Cantini (Luciano e Lorenzo) dei Kentstrapper (la Maker Family; come si sono autodefiniti), giovanissimi ragazzi di Firenze che, con l’aiuto di papà, nonno e cugini ma ora anche amici-stagisti hanno creato un team di sviluppo, costituendo una vera e propria piccola impresa tecnologica a conduzione famigliare che si occupa di progettare e produrre macchine per la stampa 3D nel garage di casa, che ora è divenuto un vero laboratorio.

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Lo stand dei Kentstrapper al MEC SPE di Parma tenutosi a Marzo 2014 [Fig. 17] [Foto di Laura Anori] Tutte queste iniziative e in particolare i Fab Lab hanno cercato e cercano tutt’ora di rendere sempre più consapevole ogni persona del fatto di essere un maker, un creativo in grado di trasformare una qualsiasi idea in un progetto o prodotto concreto; costruendo una visione della conoscenza più realistica e meno astratta. Per aiutare la diffusione della cultura maker, i “laboratori favolosi” hanno aperto i propri spazi e attrezzature all’organizzazione di corsi, sedute di mentoring e servizi di assistenza rivolti a curiosi, inventori, piccole imprese e liberi professionisti. Per inserirsi nel mainstream e raggiungere alti livelli di comunicazione però c’è bisogno di spingersi oltre. Gli eventi e le iniziative locali sono importantissime perché contribuiscono in primo luogo a radicare pratiche e competenze nelle comunità, ma per raggiungere un grande pubblico e fare

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breccia nella comunicazione di massa e parlare ad un pubblico ampio, c’è bisogno

di

grandi

eventi.

Da questo bisogno, è nata Maker Faire Rome. 2.7.1 Maker Faire Rome A Ottobre 2013, presso il Palazzo dei Congressi dell’Eur a Roma, si è tenuta la prima edizione europea di Maker Faire Rome; un evento strutturato in tre giornate di conferenze e workshop sul fenomeno degli artigiani digitali, e culminato poi nei due giorni successivi nella mostra vera e propria dove sono state messe in esposizione 250 invenzioni altamente rivoluzionarie, selezionate tra un ampio numero di proposte.

La Maker Faire Rome tenutasi a Roma a Ottobre 2013 [Fig. 18] A differenza della maggior parte delle fiere nel mondo, ha utilizzato un format molto innovativo; si è infatti basata su una “Call for Maker”, uno strumento aperto che mette a disposizione di progetti innovativi uno spazio espositivo gratuito. Se a prima vista, l’evento sembrava concepito per mettere in comunicazione gli “addetti ai lavori”, autocelebrando il movimento che anima queste comunità, basta dare uno sguardo ai dati che, oltre a contare quindicimila persone in più di quelle attese (dovevano essere ventimila ma alla fine sono

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state trentacinquemila), rivelano che la maggior parte dei visitatori è stata data da bambini accompagnati da genitori. La particolare attenzione ed il coinvolgimento dei più piccoli è stato voluto per metterli nelle condizioni di imparare a usare determinati strumenti che li rendano più abili e creativi sin dalla tenera età. La consapevolezza che la domanda di “spazi intelligenti”, all’interno della quale i bimbi possano sperimentare giocando, sia in crescita, ha portato durante la manifestazione a dedicare un’intera parte del programma delle attività ai piccoli. D’altronde come recita il famoso detto di Confucio, “se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. Se la facilità e la compatibilità dei prodotti stanno diventando i nuovi standard per rendere l’invenzione alla portata di tutti, la partecipazione diretta a un simile evento permette di sperimentare in prima persona questa rivoluzione in atto e di delineare le forme di un fenomeno di cui si sente molto parlare ma di cui ancora non si colgono appieno le sfaccettature e le conseguenze. Una mostra di questo tipo è pensato per somministrare un’overdose di stimoli ai suoi visitatori, che siano grandi o piccoli. E’ in questo aspetto che consiste il suo successo. E, non per ultimo, consente di infittire la rete di connessioni tra le comunità di maker già esistenti, far incontrare nuove persone e stringere tra loro legami che attraversano i confini geografici.

Le conferenze alla Maker Faire Rome [Fig. 19] [Foto di Laura Anori]

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La Maker Faire Rome tenutasi a Roma a Ottobre 2013 [Fig. 20]

Una delle applicazioni piĂš avvenieristiche delle stampanti 3D: la food digital fabrication, protagonista tra gli stand della Maker Faire Rome [Fig. 21] [Foto di Laura Anori]

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Gli stand della Maker Faire Rome [Fig. 22] [Foto di Laura Anori]

Peluches animati grazie a schede Arduino tra gli stand della Maker Faire Rome [Fig. 23] [Foto di Laura Anori]

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96 Â


Tra gli stand della Maker Faire Rome era presente anche WASP, azienda faentina che si occupa di stampare in 3D case in argilla [Fig. 24-25] [Foto di Laura Anori

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97 Â


2.7.2 Make in Italy In Italia, dagli ultimi due anni a questa parte, come abbiamo visto in questo capitolo, stanno proliferando le palestre-laboratorio di fabbricazione digitale dove è possibile migliorare le proprie competenze, mettendosi alla prova e nella quale si riversano le speranze di risollevare le sorti della nostra economia. Per rilanciare il settore portante del made in Italy, quello della manifattura; coloro che frequentano questi spazi, hanno scommesso sul valore della rete e della cultura digitale. Sulla scia della Fab Foundation, che coordina la rete dei Fab Lab a livello mondiale, all’inizio di quest’anno, nel nostro Paese è stato costituito l’Italian Fab Lab and Makers Foundation, al fine di far crescere questa rete. L’Italia è un paese popolato da makers, alcuni che si definiscono come tali, altri che lo sono (forse noi per primi) ma non ne sono ancora consapevoli e non

si

etichettano

come

tali.

La fondazione, nata per volontà di Riccardo Luna62, il padre di Arduino Massimo Banzi e Carlo De Benedetti63, nasce per dare più visibilità al fenomeno di questo movimento e dare supporto ai makers, in particolare ai Fab Lab italiani, facendoli crescere e aiutando chi volesse aprirne di nuovi. Il patrimonio “dal basso” emergente va valorizzato creando nuove opportunità e connessioni per fare in modo che vengano facilitati i rapporti tra chi ha un’idea e chi ha le competenze per realizzarla. Per questo motivo, tra gli obiettivi della fondazione c’è quello di far emergere una rete di laboratori che possano collaborare facendo massa critica su nuovi progetti. Tra i credo principali ci sono il valore dell’istruzione e della formazione continua, dai bambini agli anziani.

62

Giornalista che ha portato la rivista Wired in Italia, tra i primi promotori del movimento makers in Italia, principale organizzatore della Maker Faire Rome e direttore di Che Futuro!, giornale online sull’innovazione 63 Presidente in carica del Gruppo Espresso

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2.7.3 Maker Book Club Maker Book Club è un progetto internazionale di social hacking nato a maggio 2014 e ideato da Mino Parisi, giovane user experience designer romano, che prevede la creazione di bookclub locali ad incontro mensile per la sensibilizzazione nella cultura Maker di argomenti riguardanti la progettazione, la ricerca, l'economia, i valori del D.I.Y. 1.0 e tutti gli aspetti che vanno oltre il "saper fare manuale" ma che al contempo possono accrescere la consapevolezza degli artigiani digitali verso il futuro. Il format prevede che all’inizio del mese venga consigliata sul sito web, la lettura di un libro sul tema. Successivamente segue un incontro aperto a studenti, makers, designer, fotografi, artisti, programmatori, smanettoni e appassionati o curiosi, guidato da uno o due moderatori che stimoleranno i partecipanti a tirare fuori le tematiche salienti del libro, fare emergere le criticità, capire come inserire nella praticità di tutti i giorni i concetti del libro, riflettere sul futuro tecnologia e della cultura maker, cercare o creare una vision.

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CONCLUSIONI Nel corso della presente tesi, ho cercato di osservare, da diversi punti di vista, il cambiamento che nel tempo ha rivestito la figura del consumatore. Da ciò che emerge in questo lavoro, il consumo non è soltanto un’azione che porta al deterioramento di un oggetto o alla fine di un servizio, ma qualcosa di più “nobile”, un’attività densa di significato, un prisma tramite il quale il consumatore vede il mondo (Paltrinieri) e che lo aiuta nell’esprimere, se non addirittura a creare, la propria identità individuale. “I beni sono neutri, ma i loro usi sono sociali: possono essere utilizzati come barriere o come ponti” come scrive Mary Douglas. Se dapprima si produceva per il consumo personale, con la Prima Rivoluzione Industriale avvenne una netta scissione tra le due funzioni. Ma a partire dagli anni Settanta, quando fecero la loro comparsa sul mercato prodotti innovativi come il test di gravidanza e iniziarono a diffondersi i movimenti di self-help, assistiamo a un crescente coinvolgimento del consumatore in compiti che in precedenza erano delegati al mercato. Assistiamo a un fenomeno dall’importanza storica: i consumatori dacché venivano coinvolti in modo passivo, iniziano a essere considerati come soggetti attivi. Il consumatore diviene più maturo e consapevole, riscopre il piacere del creare, del partecipare alla produzione, che sia assemblando pezzi o incoraggiando i produttori in qualche direzione da loro desiderata. La fusione di sapere e amore si riversa nella produzione e dalla produzione di articoli standardizzati si assiste a quella di articoli umanizzati. Questo fenomeno giunge all’apice con l’avvento di Internet. La rete diviene il mezzo per eccellenza di espressione personale, uno strumento che ampia esponenzialmente la possibilità di essere ascoltati. Le aziende iniziano a tenere in considerazione il parere dei consumatori e capendo il discorso di gratificazione che sta alla base della partecipazione attiva nel processo produttivo, ricorrono sempre più a forme di coinvolgimento facendo diventare il crowdsourcing come una risorsa imprescindibile della produzione dei nostri giorni e implicitamente renderla un’evoluzione naturale delle moderne forme di pubblicità.

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Il coinvolgimento cresce e grazie alla straordinaria rivoluzione messa in atto da Internet, la collaborazione si riveste di un potere rivoluzionario. Viene a delinearsi un nuovo modello di economia fondato sulla condivisione tra pari, nasce la Sharing Economy. Il web 2.0 è costellato di esempi di cooperazione e all’interno della quale proliferano esempi di meccanismi sociali o servizi basati non sullo scambio di denaro, ma sulla condivisione e la gratuità. Alla base di questa inversione di rotta pare esserci il principio dell’economia del dono, secondo cui le relazioni sociali basate sullo scambio reciproco preparano il terreno per legami più duraturi nel tempo, come sottolineato da Mauss nella sua analisi del circuito del dono. Ma secondo altri anche come conseguenza diretta del downshifting, quello “scalare la marcia” metaforico e culturale che invita a vivere con più semplicità e che negli ultimi anni si è affermato come uno stile di vita ben delineato probabilmente come conseguenza dell’allarme di chi ci invita a ricordare che la nostra società, per profitto, punta sempre a un sistema di crescita illimitata, ma in un pianeta dalle risorse limitate. Ciò che mi preme far emergere tra i risultati della mia ricerca sul fenomeno dei maker, in particolare in Italia, è il dilagarsi di fenomeni di condivisione che non sono solo frutto di una scelta di risparmio o della crisi socioeconomica ormai nota di questi anni, ma sono figli di un consumo più critico e responsabile, di una maturazione che ha rivestito, in particolare con l’aiuto di mezzi come la Rete, le nostre coscienze. Inoltre sono la celebrazione di nuove forme di socializzazione che sottolineano il forte ritorno di quel bisogno atavico di socialità che da sempre è insito nell’uomo e che con l’avvento dei mercati di massa era stato reso più sterile, era stato messo a tacere dai bisogni individuali. La condivisione di oggetti e delle cose materiali prende anche le mosse dallo spirito open source che abbiamo vissuto in campo informatico. La riscoperta di valori quali il sapere condiviso, la condivisione e lo scambio hanno portato negli ultimi anni, al delinearsi di un nuovo movimento, quello dei Makers. Una comunità eterogenea ma coesa composta da migliaia di appassionati, di persone che hanno riscoperto il piacere del fare insieme ispirandosi agli ideali dell’accesso, della

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trasparenza e dell’apertura. Una particolare rete sociale mondiale. Uno dei principali oggetti-simbolo del movimento è diventato Arduino, una scheda di prototipazione elettronica basata su un software molto semplice e aperto, nata in Italia per la precisione a Ivrea. Parallelamente, sono scaduti brevetti e crollati i costi di macchine come stampanti 3D, laser cutter, frese digitali, kit di meccatronica e altri macchinari definiti rivoluzionari e hanno iniziato a nascere e diffondersi in tutto il mondo i Fab Lab, officine creative che mettono a disposizione di chiunque questi strumenti per consentire di acquisirne dimestichezza e di venire in contatto con persone con cui possono nascere collaborazioni per la progettazione e la realizzazione di nuovi progetti. The Economist parla di una vera e propria rivoluzione in atto. La Terza Rivoluzione Industriale. Se Internet ha democratizzato le comunicazioni, consentendo di condividere rapidamente informazioni, conoscenza e vita sociale, la diffusione di simili macchinari e spazi porta a nuovi modelli collaborativi e produttivi. Un simile cambio di direzione costituisce una svolta epocale. Come un tempo sembrava impossibile che computer grandi come intere stanze avrebbero assunto dimensioni di un quaderno o poco più e che sarebbero diventati utili non solo a ingegneri ma a tutti, stravolgendo il nostro modo di comunicare e di lavorare o più in generale la nostra vita quotidiana; oggi si ipotizza che tra qualche anno tutti possiederemo nelle nostre case una stampante 3D e si passerà a microproduzioni ma anche a macroproduzioni customizzate. Mi sono a lungo soffermata sulla tecnologia della stampa 3D, poiché se nell’immaginario collettivo realizza il sogno dell’alchimista di poter produrre qualunque cosa, realmente apre grandi possibilità in tutti i settori, da quello del design, a quello dell’edilizia, da quello del cibo a quello della medicina. Ma nel contempo solleva anche polemiche poiché renderebbe possibile anche la fabbricazione di oggetti pericolosi come le armi e un maggiore spreco di energia elettrica per il loro funzionamento. Ciò che è evidente però, è che da quando è emerso, questo fenomeno è in continua e rapida espansione in tutto il mondo.

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A uno sguardo attento non sembra trattarsi di una moda passeggera, non sembra un’adesione temporanea a un movimento, ma una vera e propria inversione di marcia a livello culturale e sociale e un completo rovesciamento del modello economico vigente. Come sottolinea Chris Anderson, è il ritorno dei produttori. Ciò che emerge è che la direzione che persegue è quella di dar voce all’esigenza di una società stanca di consumare passivamente ed essere considerata come massa. La nuova società vuole riappropriarsi delle proprie capacità creative e inventive assopite dalla produzione e riscoprire forme di socialità che il mercato di massa aveva alienato. Il Prosumer di Toffler, caduto in desuetudine, riemerge con la nuova connotazione di Maker. Riprendendo i tratti di quel consumatore competente che non si accontenta più di acquistare un prodotto standard pensato per la società di massa, ma che vuole essere attivo e coinvolto in prima linea nella produzione di ciò che userà e consumerà; il maker, riscopre dentro di sé l’attitudine al fai-da-te ma soprattutto diviene pienamente consapevole che la nuova grande ricchezza risiede nella conoscenza, motivo che lo porta a condividere in tutti i modi possibili le sue scoperte e le sue competenze. La rete in questo si rende sua complice e gli fornisce un’infinità possibilità di modi per farlo. Questo gli consente di progredire più velocemente nella sua produzione e trarne un forte beneficio anche a livello psicologico. Il consumo, oggetto privilegiato di studio della sociologia moderna, come ho cercato di illustrare nella presente tesi, è da sempre rivestito come azione densa di significato e carica di esperienza. Presente anche nella società post-moderna trova l’ennesima forma di espressione nella figura del Maker e nei suoi rituali quali gli eventi come la Maker Faire o le condivisioni di ore di lavoro in spazi collettivi come i Fab Lab. Siamo agli albori di una nuova era, tutto questo amplierà ulteriormente le possibilità di produzione e consumo, avrà un forte impatto nel settore educativo e personalmente ritengo che se solo saremo in grado di cogliere le potenzialità che racchiude il nuovo meccanismo che è scaturito, riusciremo a risollevare le sorti di un paese altamente in crisi ma ancora ricco di

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preziose idee e speranze, e riusciremo a rendere la nostra vita più ecosostenibile. Dunque fare, creare, comunicare e quindi innovare, sembrano essere le parole chiave della nuova Rivoluzione appena iniziata e che ci guideranno negli anni a venire.

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