photo credit: Nicola Cericola
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ValVIBRATA life TERRITORIO CULTURA ECCELLENZE AMBIENTE SOCIETA’
LA “FORMOSA” DELLA LAGA
CHE sia Pasqua Di avvento
DIRETTORE RESPONSABILE Alex De Palo HANNO COLLABORATO Alfonso Aloisi, Federica Bernardini, Valeria Conocchioli, Anna Di Donato, Martina Di Donato, Noemi Di Emidio, Alessandra Di Giuseppe, Francesco Galiffa, Giordana Galli, Virginia Maloni, Stefania Mezzina, Nando Perilli, Andrea Spada, Paride Travaglini EDITORE Diamond Media Group s.r.l. Via Carlo Levi, 1- Garrufo di Sant’Omero (TE) Tel. 0861 887405 - redazione@diamondgroup.it VAL VIBRATA LIFE Reg. Trib. di Teramo n° 670\2013 GRAFICA Diamond Media Group s.r.l. STAMPA Arti Grafiche Picene s.r.l. PUBBLICITA’ info@diamondgroup.it RESPONSABILE TRATTAMENTO DATI Dlgs 196/03 Alex De Palo Riservato ogni diritto e uso. Vietata la riproduzione anche parziale
SOVRAPPENSIERO
Proviamo a toglierci il lutto: quello dell’economia che non va, quello della politica “selfie” che mostra sorrisi che sanno tanto di presa in giro, quella dei tristi pensieri. C’è stato nella storia solo uno che si è fatto povero ed è morto per noi: Nostro Signore. Il politico, al contrario, che si era manifestato com il “salvatore”, si è fatto ricco ed ha fatto morire noi. Ma Cristo è risorto e l’Italia ce la può fare. Basterà, per iniziare, covare la speranza che si possa cambiare. Se lo vogliamo, ovviamente. La primavera è risveglio, la natura vince sempre sull’uomo e l’uomo sul pessimismo. Ciclicamente lei rifiorisce sfoggiando colore, bellezza, profumi. Che a contemplarla rinfranca lo spirito. Lo stesso spirito che nessuno deve spegnerci.
EDITORIALE
ALEX DE PALO
SOMMARIO
Aprile 2014 08
INTORNO A un chicco di grano
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la cappella della misericordia di tortoreto
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IL CERAMISTA DI CIVITELLA
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VAL VIBRATA BABY
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LA SATIRA DI PERILLI
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CROWDFUNDING
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DAMCO: NEW JOBS
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ASPARAGI...CHE DELIZIA
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SELFIE
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BELLEZZA
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MODA
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EVENTI
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CINEMA
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RICETTE DELLA MEMORIA
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La Patata Turchesa di Campli
IL VADEMECUM DELLo Spiaggiante
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I COMPARI CHE VENGONO dalla Campagna LE Mummie di Monsampolo
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ALLA riscoperta dell’arte tessile
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La Pasqua e le sue tradizioni
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DMC: L’analisi del sistema turistico
SONO LADY TURCHE E VENGO
La patata in “ab della Laga. Era i
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DA CAMPLI
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tava per scomparire, ma grazie ad un anziano agricoltore di Isola del Gran Sasso e all’impegno di un gruppo di arditi agricoltori, la patata Turchesa può ancora dire la sua, e metaforicamente parlando, compiacersi e vantarsi per il grande successo che sta ottenendo, dopo il suo ritorno in scena. Sicuramente sarebbe stata una grande perdita, perché se la sua forma bitorzoluta era ed è esteticamente poco apprezzata, nonostante il suo nome quasi regale, sul fronte del gusto e per la resa in cucina può dirla lunga; in particolare è acclamata protagonista nella realizzazione di gnocchi, così come per lo straordinario contenuto di antiossidanti, senza dimenticare che si tratta di un prodotto che non ha subito miglioramenti genetici. Per anni, la patata Turchesa è stata tra i principali prodotti di consumo delle popolazioni montane
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d’Abruzzo, ma il suo seme stava cadendo nell’oblio, per la scarsa richiesta dovuta proprio alla sua estetica, e la Turchesa (o Viola, per via del colore della buccia), sarebbe presto scomparsa. Se non fosse stato, appunto, per questo pugno di arditi che hanno creduto in lei, che grazie ad un anziano agricoltore di Isola del Gran Sasso, del quale purtroppo non ricordano il nome, sono riusciti a riportare in auge questo straordinario prodotto; un prodotto che oggi è addirittura tutelato da un marchio registrato, mentre la sua produzione è tracciata e autocertificata, fino a poter risalire al numero di lotto. Filiberto Cioti è uno degli arditi, tra i pochi che inizialmente ha creduto a questo progetto. All’avvio del mese di aprile nei sui campi, a Paterno di Campli, ha seminato la Turchesa, (si semina infatti da marzo a giugno, a seconda dell’altitudine e dell’andamento stagionale) che raccoglierà ad agosto. Cioti è il vice presidente dell’Associazione Produttori della Patata Turchesa del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, e con gli altri componenti dell’associazione ha condiviso la certezza di una rinascita della Turchesa. E giusto definire rinascita o rivalutazione di un prodotto tipico, quanto accaduto con questa specialità? I termini sono esatti; parliamo di una produzione storica, che però stava scomparendo ed è stata ritrovata, di conseguenza anche rivalutata. E’ successo dieci anni fa, grazie ad un anziano agricoltore di Isola Gran Sasso che la coltivava ancora. Aveva pochi tuberi, lui non si rendeva conto della loro preziosità, avendola sempre coltivata per se stesso, mentre, al contrario,
bito da sera” popola l’agro in estinzione Stefania Mezzina tanta gente preferiva dedicarsi ed acquistare ulteriori tipi di patata, in quanto l’estetica della Turchesa non era e non è sicuramente il massimo. Da quel punto, dunque, siamo ripartiti ed abbiamo avviato un percorso che si è rivelato importante e che ha dato i suoi frutti. Cosa contraddistingue la Turchesa nelle forma, nelle proprietà nutrizionali e nel gusto? La forma bitorzoluta e la colorazione della buccia, viola, il contenuto è a pasta gialla e poi per proprietà nutrizionali in quanto è a basso contenuto di acqua e contiene più antiossidanti; inoltre non è mai stata toccata geneticamente e questo è un fatto importantissimo. Insomma, è rimasta,tale e quale alla scoperta. Da evidenziare anche che l’associazione non usa prodotti di sintesi chimici per coltivarla meglio. Mentre dal punto di vista dell’utilizzo in cucina, la “morte” della Turchesa è nella realizzazione degli gnocchi. Tutti sono d’accordo che si tratta della patata ideale per realizzarne ottimi, ma se si avessero dubbi in merito è sufficiente provare per credere. Altro impiego apprezzato e di gusto, è la cottura al cartoccio, mentre si presta meno ad essere fritta. Dove sono reperibili le patate Turchesa? Si possono trovare negli ortofrutta specializzati, in sacchetti da 2 o 10 kg, sacchetti che sono forniti di relativa scheda tecnica e tracciabilità, mentre dal 2012 è inserita nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali d’Abruzzo. Attualmente, il nome “La Turchesa” ed il relativo logo sono un marchio registrato dal Parco Associazione Produttori della Patata Turchesa Si produce solo in un determinato punto del territorio? Per volere dei soci dell’Associazione dei Produttori della Patata Turchesa del Parco, l’area di produzione è limitata ai 44 comuni i cui territorio ricadono completamente o, in parte, all’interno dell’area protetta; dentro i confini amministrativi del Parco della Laga del Gran Sasso, affinché questa coltivazione possa contribuire a far rifiorire l’economia montana.
Quali sono i termini numerici della produzione di tutti gli associati? Attualmente siamo 17 associati, sul versante aquilano, teramano e reatino, per una produzione intorno ai 500 quintali, o poco più, che attualmente non basta a soddisfare le richieste. In ogni caso, molti agricoltori la producono per uso familiare. All’inizio di questo progetto, quindi nel 2008, eravamo solamente in 5 o 6, a crederci; tra questi ci sono stati dei giovani dell’aquilano che attivandosi subito sono stati e continuano ad essere avvantaggiati, in quanto sono in grado di soddisfare maggiori richieste, anche fuori l’Abruzzo, nel Lazio. L’Associazione Produttori della Patata Turchesa del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga è nata nel 2008: inizialmente contava 5/6 produttori, vuoi per la mancanza di seme della Turchesa, vuoi per lo scetticismo. Attualmente i produttori sono 17: il Presidente è Massimiliano Rosati, produttore di Amatrice, mentre Filiberto Cioti ricopre la carica di Vice Presidente. La vita della patata Turchesa è affidata esclusivamente ai produttori dell’Associazione e quanti si dedicano prevalentemente a tale attività possono contare sull’acquisto incondizionato di tutto il tubero da riproduzione da parte dell’Associazione, previa programmazione dei quantitativi. La patata da riproduzione viene scambiata tra i produttori aderenti all’Associazione grazie alla Legge
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ESA
46/2007, che consente la libera vendita e, quindi, il libero scambio, tra coltivatori, di sementi per varietà da conservazione che siano coltivate da almeno 50 anni e che siano iscritte in apposito Registro Nazionale. Una particolarità dell’Associazione è quella di avere tra i propri soci anche ristoranti e punti vendita locali, che in questo modo acquisiscono l’esclusività della vendita e della trasformazione in cucina della Turchesa.
Foto di Nicola Cericola 7
Intorno a un chicco di grano Lo spettacolo della trebbiatura: i protagonisti
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Francesco Galiffa
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a quando è stata inventata la fotografia, la trebbiatura è stata il lavoro agricolo più impresso sulle lastre di vetro, prima, e poi sulle pellicole; la presenza contemporanea di diverse macchine e di tantissime persone rendeva, infatti, questo momento molto scenografico. Nel corso delle ricerche condotte sulla civiltà contadina, ho riscontrato che nessun altro lavoro ha lasciato testimonianze iconografiche così copiose; la stessa considerazione può essere fatta per quelle rintracciabili sul web. Negli ultimi anni, poi, si sono moltiplicate le feste popolari che hanno inserito nel loro programma la rievocazione storica della trebbiatura, facendola assurgere al ruolo di spettacolo; a fruirne non sono solo i nostalgici ultrasettantenni, che hanno vissuto quei momenti, ma anche un pubblico più giovane, attratto dalla
La binda - immagine di Fausto Camaioni
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curiosità. Il persistere nell’immaginario collettivo dei ricordi legati alla trebbiatura rafforza l’importanza che la gente di campagna, e non solo, le attribuiva nel passato; essa rappresentava l’atto più solenne dell’anno agricolo per il valore del grano nell’alimentazione e nell’economia in genere delle famiglie dei contadini, di quelle dei proprietari dei terreni e dell’intera comunità; da un buon raccolto dipendeva la loro agiatezza e la disponibilità di denaro per soddisfare le esigenze più disparate, dalla dote per le figlie al mantenimento agli studi dei figli, quelli dei padroni naturalmente. Si può ben comprendere, quindi, quanto il contadino attendesse quel momento e solo quando la trebbiatrice, con tutti i suoi accessori, era arrivata sull’aia, egli tirava un bel sospiro di sollievo perché sentiva che stava per raccogliere i frutti di una lunga ed estenuante fatica, iniziata col dissodamento del terreno. In quel frangente riavvolgeva nella sua mente la pellicola e gli ritornavano in mente le soddisfazioni provate nel veder crescere bene e maturare le piante di grano ma anche tutti i patemi d’animo provocati da condizioni climatiche e atmosferiche sfavorevoli, come il vento e la grandine, il nemico numero uno del raccolto. Gli adulti, comunque, presi com’erano nell’organizzazione del lavoro, non lasciavano trasparire le emozioni che covavano nell’intimo del loro animo; i bambini, invece, si lasciavano andare alla gioia più sfrenata perché per loro la trebbiatura era un avvenimento straordinario; la vista degli imponenti mezzi, in particolare la “vaporiera”, e soprattutto il suono cadenzato delle macchine in funzione, li elettrizzava. Per loro era anche l’occasione di gustare dei cibi diversi dal solito, a cominciare dalla colazione, quando mangiavano gli stessi biscotti riservati agli operai. Se avanzavano, andavano a mangiarsene alcuni di nascosto, ammollandoli magari nel vino cotto e scappando, poi, di corsa per paura di essere scoperti. La trebbiatura era un lavoro complesso e prevedeva una manodopera considerevole, costituita dalle persone di famiglia, dai vicini, con i
Per quanto riguarda il primo, la preparazione iniziava durante la notte; la caldaia, che era sempre vuotata alla fine di ogni sezione di lavoro per alleggerirla in vista del suo trasporto, era riempita d’acqua; il “fuochista” accendeva il fuoco e lo alimentava col materiale più disparato messo a disposizione dal cliente; al sopraggiungere delle prime luci dell’alba la pressione del vapore era sufficiente per muovere gli ingranaggi della trebbiatrice. Agli addetti erano richieste competenze specifiche in fatto di meccanica e per esercitare il mestiere dovevano munirsi del patentino di “motorista”. Altre figure professionali erano i “macchinisti”, addetti al funzionamento e all’eventuale riparazione della trebbiatrice, della quale conoscevano ogni pezzo e ogni “vizio”. Altri due specialisti erano “lu taiarì” e “lu paiarì”. Il primo aveva la mansione di recidere con la falce la legatura dei “manocchi” e di passarli nelle mani del secondo, che, sistemato nella fossa prospiciente il battitore, aveva il delicato compito di infilare nella buca il fascio di grano; doveva dosare bene l’alimentazione e quando, per la fretta, “lu vazze” non era tagliato o la quantità imbucata era eccessiva, si sentiva uscire dalla trebbia un rumore profondo, sintomo di sofferenza, che faceva arrabbiare parecchio il proprietario del mezzo. Egli doveva anche rimanere sempre concentrato e non si poteva assolutamente far prendere dalla concitazione neppure quando, per esempio, l’arrivo di lampi e tuoni annunciava un improvviso e poco rassicurante cambiamento di tempo, che consigliava di accelerare i ritmi di lavoro; rischiava di incocciare la mano nella lama della falce usata dal suo collaboratore o di farsi risucchiare qualche arto dal battitore. I loro turni di lavoro erano massacranti, nonostante fossero in tre ad
Sistema di bloccaggio delle ruote del motore a scoppio
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quali ci si scambiavano le giornate di lavoro, e dai dipendenti delle imprese che possedevano i mezzi; era il lavoro agricolo che, per organizzazione, somigliava di più a quello di una fabbrica in quanto gli operai svolgevano dei ruoli ben distinti, assegnati in virtù della loro forza fisica e delle loro abilità. I primi soggetti a entrare in azione erano il proprietario della trebbia e i suoi dipendenti, che provvedevano a sistemare i vari macchinari sull’aia. Nell’effettuare l’operazione, si teneva conto della posizione della serra del grano e del posto destinato alla realizzazione del mucchio o della serra della paglia. La trebbiatrice era provvista d’indicatori di livello e la prima manovra era quella di disporla perfettamente in piano; se l’aia pendeva, era necessario scavare buche anche abbastanza profonde per far scendere le due ruote situate più in alto, oppure usare degli spessori per sollevare quelle posizionate più in basso. Nel compiere questi interventi si ricorreva spesso alla binda, molto simile al cric, usata per il sollevamento a modesta altezza di carichi anche rilevanti, dell’ordine delle tonnellate. L’ultima operazione consisteva nel preparare la “piazza”, il piano superiore della macchina, su cui dovevano disporsi gli operatori addetti a imbucare i covoni; essa si poteva ampliare con l’apertura di elementi mobili sui quali erano fissati dei ripari. Anche il carrello su cui era montato il motore a scoppio andava fermato; per paura che si spostasse per le sollecitazioni del motore in funzione, gli venivano bloccate le ruote, avvitando su di esse due spranghe di ferro incrociate. Tra il personale alle dipendenze del padrone, un ruolo importante era ricoperto dal motorista, che doveva mettere in funzione e badare al perfetto funzionamento del motore a vapore, prima, e poi di quello a scoppio.
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Catena di alimentazione della trebbiatrice alternarsi; a volte non dormivano per quarantotto ore di seguito. Questi lavoratori, poi, che erano generalmente piccoli proprietari o mezzadri con poca terra da coltivare, quando, ultimato il proprio turno, tornavano a casa, non potevano permettersi nemmeno di riposare qualche ora perché li attendevano delle faccende da sbrigare. Svolgevano quel lavoro per guadagnare quelle lire che permettevano di far quadrare il bilancio famigliare. Sulle trebbiatrici col battitore superiore ai 90 cm, potevano operare contemporaneamente due “paiarì”, assistiti da altrettanti “taiarì”. Prendevano posto sul piano di lavoro della trebbiatrice ampliato con l’apertura delle sponde; agivano in condizioni di sicurezza precaria perché, come si può riscontrare nelle foto, i ripari erano bassi e bastava un giramento di testa per ritrovarsi per terra. La posizione occupata, poi, li esponeva a due inconvenienti di ordine ambientale: l’eccessiva insolazione, che pativano maggiormente nelle ore più calde del giorno e dalla quale si riparavano con cappelli di paglia traforati, e la polvere, che risaliva dalla bocca della macchina. Per proteggersi da quest’ultima, usavano un grosso fazzoletto a pois, simile alle moderne bandane, disposto a protezione delle vie respiratorie; ma ben presto lo dovevano far scivolare sul collo perché la polvere intasava i forellini della stoffa ostruendo il passaggio dell’aria. Tutti gli altri addetti erano “operai generici” di diversa estrazione sociale: i famigliari, i vicini di casa, i piccoli proprietari e, non di rado, gli artigiani del paese, che, spinti dal bisogno, si adattavano anche a svolgere lavori agricoli. La loro destinazione alle varie mansioni era determinata in base alle caratteristiche di ognuno: a stendere i “manocchi” e al trasporto dei sacchi di grano andavano i più giovani, dotati di una maggiore forza fisica; si sobbarcavano i lavori sicuramente più pesanti, ma anche più puliti, perché stavano lontano dalla polvere della paglia e della “cama”. Alcuni si affrettavano a raggiungere l’aia con largo anticipo e conficcavano la forca sulla serra del grano per prenotare il posto. Una volta piazzata la trebbiatrice, il macchinista faceva suonare la sirena, azionata da una specie di dinamo accostata alla puleggia del motore; era il segnale che si poteva incominciare e che tutti gli operai dovevano raggiungere la propria
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postazione. Quasi per incanto, l’aia era invasa da una folla d’operai, provenienti da ogni direzione, tutti muniti di una forca di legno, uno strumento strettamente personale, frutto della produzione autarchica dell’economia contadina. La consistenza del gruppo era proporzionale alla quantità di grano da trebbiare. Nelle campagne più grandi, quelle per intenderci che producevano tra i 150 e i 180 ql, erano necessarie dalle 30 alle 35 unità lavorative; in quelle più piccole il numero diminuiva. Nei giorni cruciali della trebbiatura, quando circolavano tutte le macchine, era difficile raggruppare tante persone, soprattutto per i coltivatori diretti, piccoli “proprietari”, che non godevano una buona fama, o per quei contadini che erano in cattivi rapporti con il vicinato; in tali occasioni era necessario che anche le donne si rimboccassero le maniche per dare una mano; queste, naturalmente, erano destinate ai lavori più leggeri, che però a volte coincidevano con quelli più fastidiosi e perciò rifiutati dagli uomini, come il maneggiare la “cama”. Nell’economia del lavoro della trebbiatura, alle donne, comunque, era affidato principalmente l’importante e delicato compito di provvedere al sostentamento degli operai. Gli impegni meno gravosi erano riservati ai soggetti cosiddetti “deboli”, i vecchi e i bambini; i primi spostavano con un rastrello la paglia e la “cama” depositate sotto la macchina e nei suoi paraggi; i secondi portavano in giro la brocca dell’acqua e il fiasco di vino per rifocillare gli operai. Una figura “passiva” era quella del padrone, spesso rappresentato dal fattore, senza la cui presenza non si poteva dare inizio alla trebbiatura; egli raggiungeva la casa del mezzadro, più che per controllare, per il gusto di assistere allo “spettacolo” e si lasciava coinvolgere volentieri nel clima della festa; il fattore, poi, si mostrava anche disponibile a chiudere un occhio al momento della pesa. A costoro era riservato, al pari dei macchinisti, un trattamento privilegiato per quanto riguardava la sistemazione e l’alimentazione: godevano di
Immagine di Fausto Camaioni Buca di introduzione del fascio di grano un posto all’ombra, di un piano d’appoggio e di una sedia per consumare i pasti; anche il vitto era particolare e se la donna poteva disporre in casa di un po’ di “caffè buono”, a colazione, lo offriva solo a loro! La squadra era ormai al completo, ma, prima di dare inizio al faticoso lavoro, la padrona di casa faceva servire una prima colazione, sulla quale ci sarà modo di soffermarci in una prossima puntata!
BENE LA TALASSO ATTENTI AL SALASSO ARRIVA L’ESTATE, AL SOLE E IN ACQUA SI STA SECONDO REGOLA TERRITORIO
I 10 “comandamenti” della guardia costiera
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er la prossima stagione balneare, la Regione Abruzzo è già intervenuta in maniera specifica a febbraio 2014, puntualizzando che la stagione balneare, per la predisposizione di ciò che è necessario per il miglior svolgimento delle attività estive sul litorale, viene compresa tra il giorno 8 marzo ed il 26 ottobre. Viene altresì precisato che le attività commerciali possono essere effettuate durante l’intero anno in linea con i piani commerciali e modalità delle relative licenze rilasciate dai comuni competenti per territorio come previsto dalla legge. Dal primo marzo invece è possibile avviare le attività preparatorie e di allestimento delle aree demaniali in concessione e delle spiagge libere. Tali interventi deve essere ultimati entro il 31 maggio. Per cause collegate ad avverse condizioni meteo, sono necessarie autorizzazioni specifiche per l’effettuazione di questi lavori oltre tale termine. Ma gli obblighi per i concessionari non sono terminati. Infatti, le strutture mobili e le attrezzature balneari devono essere rimosse entro il 15 novembre. Per quanto concerne l’apertura al pubblico, i titolari delle concessioni sono autorizzati dall’8 marzo al 26 ottobre per l’elioteapia e dall’1 giugno al 7 settembre per la balneazione (attività di talassoterapia con servizi di balneazione). Per quanto concerne il servizio di salvataggio i titolari degli stabilimenti hanno
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ALFONSO ALOISI
l’obbligo di attenersi al regolamento predisposto dalla Capitaneria di Porto anche in ordine alla fascia oraria di sorveglianza a mare. Il servizio di salvamento può essere assicurato anche in forma collettiva/associata, mediante elaborazione di un piano organico, tra stabilimenti balneari e spiagge libere contigue e deve essere comunque comunicato entro il 31 maggio. E’ fatto obbligo a ciascun assistente bagnanti di segnalare tempestivamente all’Ufficio Circondariale Marittimo di Giulianova eventuali incidenti o eventi straordinari in corso o conclusi attinenti la sicurezza della balneazione. Per quanto concerne l’attività specifica, i concessionari devono garantire l’assistenza almeno nei mesi di luglio ed agosto. Ma c’è anche una prescrizione per il periodo invernale, ma solo per chi svolge attività commerciale. Nelle aree in concessione di questi stabilimenti aperti per la prestazione di servizi di ristorazione, gli spazi destinati a giochi possono essere mantenuti ed utilizzati. Occorre introdurre anche il discorso del posizionamento degli ombrelloni la cui prima linea non può essere inferiore a cinque metri rispetto alla battigia. Tale disposizione si applica anche per le spiagge libere i cui fruitori sono tenuti al rispetto della distanza. Qualche problema si ha nelle zone ad evidente erosione. In questo caso si applica una regola non scritta che è quella del buon senso.
Divieti e obblighi 1-Non fare il bagno se non sei in perfette condizioni psicofisiche; 2-Anche se sei un buon nuotatore non forzare il tuo fisico; 3-Dopo una lunga esposizione al sole entra in acqua gradualmente; 4-Lascia trascorrere almeno tre ore dall’ultimo pasto prima di fare il bagno; 5-Non entrare in acqua quando è esposta la bandiera rossa; 6-Se non sai nuotare bagnati in acque molto basse; 7-Non allontanarti oltre i gavitelli che delimitano la zona di sicurezza per la balneazione;
Chiunque esercita attività subacquee, al di fuori della zona di mare riservata alla balneazione, ha l’obbligo di segnalarsi in superficie secondo le modalità previste. In particolare, deve segnalare la propria presenza con un galleggiante di colore rosso recante una bandiera rossa con striscia diagonale bianca; di notte, con una luce lampeggiante gialla visibile in superficie a giro d’orizzonte, con una visibilità non inferiore a 300 metri. Il subacqueo deve operare entro il raggio di 50 metri dalla verticale del segnale. Se vi sono più subacquei in immersione, è sufficiente un solo segnale qualora tutti i subacquei operino entro un raggio di 50 metri dalla verticale del segnale. Qualora esista un mezzo nautico d’appoggio alle immersioni, lo stesso dovrà essere munito di un salvagente e di una cima di lunghezza sufficiente. Il predetto segnale dovrà essere posizionato sull’unità, dove dovrà altresì stazionare una persona pronta ad intervenire in caso di necessità. Il nuotatore che si trovi al di fuori delle acque riservate alla balneazione, ha l’obbligo di utilizzare il medesimo segnalamento previsto per l’attività subacquea (pallone galleggiante di colore rosso recante una bandiera rossa con striscia diagonale bianca), con sagola non più lunga di 3 metri) o – in subordine – di indossare una calottina di colore nettamente contrastante con l’ambiente marino, per rendersi ben visibile. Ma esiste anche qualcosa che riguarda i fruitori delle spiagge. Infatti, per il programma “Mare Sicuro”, è stato stilato un decalogo del bagnante.
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8-Non allontanarti dalla spiaggia oltre i 50 m. usando materassini, ciambelle, galleggianti o piccoli canotti gonfiabili; 9-Evita di tuffarti dagli scogli; 10- Osserva quanto previsto nelle ordinanze per la disciplina delle attività balneari, in particolare: - non recare disturbo alla quiete dei bagnanti (schiamazzi, giochi, radio a volume elevato); - non portare animali sulla spiaggia, ad eccezione delle zone ove espressamente previsto; - non montare tende, accendere fuochi, campeggiare sulla spiaggia. Materiale di primo soccorso: in ogni stabilimento balneare, il materiale di primo soccorso deve essere custodito in idoneo locale all’uopo destinato, sito nell’ambito dello stabilimento, adibito esclusivamente a locale di primo soccorso, opportunamente segnalato con apposita cartellonistica.
Sandro Pezzuto Comandante Circomare Giulianova
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LA CAPPELLA DELLA MISERICORDIA DONO DEI TORTORETANI SCAMPATI ALLA PESTE Martina Di Donato sivamente fu adibito ad ospedale, attivo fino al 1800. Successivamente con il terremoto del 1939 la piccola struttura ospedaliera crollò, mettendo a repentaglio anche la sorte della Cappella, precedentemente ristrutturata per problemi al tetto, legati alle incurie della costruzione ( attorno al ‘600 venne abbandonata). I lavori di restauro definitivi risalgono ad epoca recente, sono infatti datati attorno al 1983. Entrando in questa piccola opera d’arte si avverte una sensazione di misticismo che probabilmente i dipinti volevano trasmettere e nonostante questi portino il segno del passare del tempo, che inevitabilmente logora le pareti, si avvertano ancora le sensazioni di grazia che gli abitanti rivolgevano alla Madonna per lo scampato pericolo o almeno per aver aver messo in salvo gran parte della popolazione.
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Nel cuore di Tortoreto alto, tra Torrevecchia e Torrenovs, sorge la Cappella della Misericordia. Fu costruita nel 1348 come segno di gratitudine nei confronti della Madonna che aveva preservato la cittadinanza di Tortoreto dalla peste nera, che colpi l’Italia intera nel 1347. All’interno della chiesa possiamo trovare i dipinti di Giacomo Bonfini ( ma molti sono dell’opinione che si chiamasse Confini) pittore di Patrignone, risalenti al 1526 e quindi ad un’ epoca di gran lunga posteriore rispetto alla costruzione della Chiesa. Bonfini era allievo di Cola dell’Amatrice, il fu Nicola Filotesio, e probabilmente ha avuto un ruolo di collaborazione accanto a Michelangelo nell’affrescazione della Cappella Sistina e con Raffaello. La parte esterna della Chiesa è fatta con mattoncini, donandole un aspetto omogeneo con quello delle altre Chiese. Le pareti sembrano narrare una storia a tappe, raggiungendo lo scopo che gli affreschi avevano sin nelle loro prime apparizioni risalenti al Medioevo. Gli affreschi sulle pareti raffigurano la passione di Cristo. Sulle pareti laterali e sulla parte sopra l’ingresso sono dipinte le scene dall’orto Getzemani, la cattura di Cristo, l’apposizione della corona di spine, Cristo fatto andare in processione con la croce in spalla davanti al popolo e l’andata al Calvario. Nella parte posta in fondo, invece, sono presenti i dipinti che raffigurano la messa in croce di Cristo, con tutte le tappe. La storia prosegue per terminare sulla volta, dove è dipinta la Resurrezione di Cristo, raffigurato insieme ai Quattro Evangelisti ( Marco, Matteo, Luca e Giovanni) e una Sibilla , la profetessa che nella tradizione culturale- religiosa annunciò la nascita di Nostro Signore. Essendo una Chiesa nata come ex-voto per la scomparsa della peste, non potevano mancare le raffigurazioni dei Santi tradizionalmente legati alla peste,come San Giobbe, Santa Caterina d’Alessandria, San Rocco, Sant’Antonio di Padova e della Madonna della Misericordia. Sono presenti anche affreschi dedicati alla nascita di Gesù. Accanto alla Chiesa, nasceva un ospedaletto, probabilmente utilizzato come lazzaretto in cui ospitare i cittadini colpiti dalla peste nera, succes-
Madonna della Misericordia
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E BUONANOTTE SUONATORI. MA NON TROPPO
I Compari di Campagna non seguono lo spartito, vanno a orecchio. Ecco chi sono
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Stefania Mezzina
rima eccezionale. Una canzone abbastanza lunga, che però i Compari di Campagna spesso suonano solo in parte, in quanto non usando spartiti non la ricordano completamente e proprio per questo il testo è molto, molto variabile, così come è a braccio anche ogni esibizione. Diciamo che, parlando di artisti, “nulla è lasciato al caso”, questo non rispecchia certamente lo spirito delle esibizioni del sanguigno gruppo. Che però, proprio per la loro genuinità è ricercatissimo e in tanti fanno a gara per averli alle loro feste. La loro fama è arrivata in tv e due dei Compari, Giuliano e Nello, nel 2011 e qualche mese fa sono stati chiamati e hanno partecipato con successo come attori a “Forum” la trasmissione delle reti Mediaset.
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na band dal repertorio molto particolare, impazza e riscuote consensi tra la Val Vibrata e la Valle del Tronto. Sono “I Compari di Campagna”, parenti fra loro, decisamente un po’ fuori del comune. Con risultati entusiasmanti si improvvisano suonatori, armati di strumenti, alcuni dei quali realizzati dallo stesso gruppo, nonché cantanti e barzellettieri. I Compari sono: Giuliano Maurizi, di Controguerra, Domenico Pasqualini, nato e residente ad Acquaviva Picena, in provincia di Ascoli Piceno, Nello Di Emidio, nato a Controguerra ma vive a Nereto, Sandro Pichilli nato e residente a San Benedetto del Tronto, ma i genitori sono di origine teramana e Giuseppe (detto Peppe) Di Emidio, nato a Controguerra ma residente a Pagliare del Tronto. Non sono professionisti, anzi nella vita fanno tutt’altro, non sono conoscitori di musica, vanno a orecchio, bisogna dire molto buono, fino ad essere capaci di comporre una canzone, che ha il titolo del gruppo, nella quale si racconta il mestiere e il territorio di ogni componente, il tutto con una
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Giuliano Maurizi, (suonatore di du bott), quando nascono i Compari di Campagna? “Siamo nati nel 2004 prendendo spunto dal tradizionale momento di aggregazione del dopo vendemmia, avvenuto a casa mia. Proprio con lo spirito della tradizione, al termine di ogni vendemmia si realizza una festa. Ci siamo ritrovati, come sempre, un gruppo di amici, alcuni dei quali parenti tra loro (due fratelli, Nello e Peppe e i loro cognati Sandro e Domenico ndr) e ci è venuto in mente di costituire questo gruppo popolare. Siamo partiti utilizzando il dubott, poi ogni anno al termine della vendemmia abbiamo aggiunto uno strumento”. Quali sono gli ulteriori strumenti musicali? “Il cembalo, che suona il compare Peppe, successivamente lu rbbcò, suonato dal compare Sandro, e infine due zrriò, utilizzati da Nello e Domenico”.
Lo Zrriò lo realizzano gli altri compari, utilizzando un secchio di plastica, di quelli che contengono la vernice da pittura, ponendolo capovolto e infilando nel foro centrale un filo di nylon, di quelli utilizzati per le tende, reso rigido da un bastone di legno. Lu rbbcò è fatto con un barattolo di latta il cui fondo è vuoto, mentre la parte superiore viene tappata da una pelle di daino o agnello, quest’ultima più difficile da trovare, e al centro viene legata una canna lunga 50/60 centimetri con un diametro da 1,5 a 2 centimetri. Queste spiegazioni sono rivolte ai più giovani, perché quanti sono più avanti con l’età conoscono certamente queste caratteristiche”. Si arriva così alla prima foto ufficiale, scattata nel 2008 in occasione del matrimonio di Melissa Di Emidio, figlia del compare Peppe, dalla quale prende spunto anche l’idea di realizzare un calendario. Circostanza che si ripete ad anni alterni. I successivi calendari dove sono stati ambientati? “Gli scatti fotografici del secondo calendario sono stati effettuati a Bassano del Grappa, dove siamo andati in occasione di un gemellaggio con gli alpini, perché il compare Domenico è uno di loro e il terzo, nel 2013, è frutto di una caricatura dell’artista neretese Francesco Perilli”. Per quale motivo siete così ricercati e applauditi? “Sicuramente perché lo spirito che ci unisce è quello del sano divertimento, tra noi e rivolto agli amici e ai familiari. Infatti i nostri incontro sono le-
gati ai momenti della vendemmia, di vita familiare, conviviali con amici. I nostri strumenti musicali ci accompagnano sempre e sono parte integrante della nostra vita. L’ulteriore è perché nel nostro piccolo cerchiamo di mantenere vive le tradizioni popolari abruzzesi e marchigiani, essendo rappresentativi dei due territori”. Per le vostre esibizioni chiedete un pagamento? “ Il motto del gruppo è “chiamate solo se ci si beve e ci si magna”, che rappresenta lo spirito dei Compari di campagna e le eventuali offerte che qualcuno vuole fare sono devolute in beneficenza ”. Il loro pezzo forte? Le serenate, anche queste in omaggio alle tradizioni. Perché all’ottanta per cento sono proprio le serenate alle coppie in procinto di sposarsi, o che festeggiano ricorrenze importanti ad entusiasmare i loro fan, e la loro presenza ai matrimoni è ambita. Naturalmente a quelli di amici e parenti, ai quali il gruppo fa la sorpresa di una esibizione. Il gruppo sta maturando, in tutti i sensi, e se in precedenza, a seguito di nascite di bambini si diventava zii, ora si comincia a diventare nonni. Vuole la tradizione, avviata dai compari, che in caso di nascita di bambini nell’ambito della famiglia gli stessi strumenti utilizzati dal gruppo, vengano donati al neonato, dopo essere stati realizzati dagli stessi compari, ma in miniatura. Quasi un incitamento a proseguire il percorso intrapreso dai parenti, per mantenere questa tradizione popolare. Un incitamento che si è rinnovato recentemente in occasione della nascita di Giada, prima nipote del Compare e nonno Giuliano Maurizi.
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Alcuni di questi li costruite voi?
LE MANI…PARLANO Sono quelle di Gaetano Mario Ronchi pittore e ceramista
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Valeria Conocchioli
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a sua parola d’ordine è sperimentare usando sempre materiali diversi. Lui è Gaetano Mario Ronchi, artista di Civitella del Tronto. Dopo gli studi liceali artistici, si laurea presso l’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila, specializzandosi in scenografia. Nasce quindi come grafico e disegnatore e pian piano, grazie alla frequentazione di botteghe e ceramisti di Ascoli Piceno, approda a questa nuova forma artistica. Utilizzando i materiali più diversi, realizza oggetti e tele seguendo la sua ispirazione o su commissione. Nel suo laboratorio abbondano soprattutto le opere in ceramica che nascono seguendo una precisa lavorazione. Dapprima viene acquistato il materiale grezzo (“biscotto”) che poi è smaltato, decorato con colori (ossidi) e cotto in forno a 920° per otto ore e mezza. Prima di tirare fuori l’oggetto
è necessario aspettare un paio di giorni per far sì che la temperatura scenda gradualmente e non si creino shock termici. Una volta raggiunti gli 80° è possibile aprire il forno e tirare fuori le opere che, a questo punto, hanno assunto un aspetto diverso poiché lo smalto si è vetrificato e il colore si è definitivamente fissato sull’oggetto. Per quanto riguarda le tele, l’artista realizza una pittura ad acrilico, abbastanza moderna e materica. Aggiunge infatti all’opera i più svariati materiali come carta, colla, corde, sabbia e segatura. In questo modo modifica il supporto della tela e su questo va poi a dipingere, seguendo molto le emozioni del momento e creando opere di getto.
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Artista a tutto tondo, ama anche dipingere su legno con acrilici o china, sui coppi e sui vasi, o realizzare sculture con la terra. Tra i soggetti delle sue opere si distinguono molti paesaggi, scorci e fiori. Non mancano poi le figure sacre, come quella che ogni anno realizza sul piatto in palio alla lotteria del Santo Patrono di Civitella, Sant’Ubaldo, festeggiato il 16 maggio. Immancabile anche la presenza del suo paese: sono infatti molti gli oggetti che riproducono i suggestivi scorci del borgo civitellese. È questo il soggetto più apprezzato, non solo dai nativi del luogo ma anche dai turisti che possono apprezzare le sue opere in bottega o durante i mercatini. Ancora una conferma, quindi, che i punti di forza del nostro territorio sono proprio le bellezze del suo paesaggio e il fascino storico dei suoi antichi borghi.
“Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l'opportunità in ogni difficoltà.” Winston Churchill
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TERRITORIO
QUANDO NINA FILAVA, FILAVA LA CANAPA A Civitella del Tronto c’è la storia della tessitura che Guido Scesi ha ereditato dalla nonna Martina Di Donato
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ome è a tutti noto la Val Vibrata ha sempre avuto una forte produzione di tessuti, basti ricordare che fino agli anni ’60 c’erano delle grandi coltivazioni di canapa, poi divenute illegali, ma andava anche la coltivazione della seta. In età moderna è stata l’industrializzazione a fare da padrona nei nostri territori, non fosse altro che la Val Vibrata era conosciuta come uno dei più grandi centri industriali di Italia, e poi il declino. Ma cosa c’era prima ancora della canapa, delle industrie? Come si vestivano le persone? Le donne, i bambini, gli uomini? Nel cuore di Civitella del Tronto c’è un luogo che ha le risposte a queste domande, si tratta del NACT. L’acronimo sta per “ Nina museo delle Arti Creative Tessili ”, un vero e proprio museo delle fibre; qui infatti è raccolta la storia del tessuto, o almeno gran parte di essa. A presentarcelo è il responsabile di gestione Guido Scesi, che ha creato questo museo con gli abiti appartenenti alla sua famiglia e con quelli che per passione ha recuperato un po’ da tutte le parti d’Italia. Un vero e proprio tesoro gli è stato lasciato in eredità dalla nonna, Nina appunto, che gli ha trasmesso l’amore per la moda del passato. All’interno del museo è possibile trovare la storia della tessitura, non solo nei manufatti ma anche nelle macchine da cucire, nelle macchine per tessere. Sono conservate infatti, in ottimo stato delle macchine da cucire risalenti alla seconda metà dell’Ottocento, del ‘900, c’è anche un più moderna magliatrice, che ha lavorato fino a qualche anno fa. Sono conservati anche dei timbri nepalesi e italiani,
ed i corpetti da donna. L’idea che nasce con questo museo è quella di recuperare la nostra tradizione tessile, riportando alla luce i manufatti storici, che ci permettono di conoscere anche quale lavoro svolgevano le nostre donne magari che lavoravano la seta o lavoravano al tombolo, realizzando delle fantastiche coperte, chi poteva permetterselo le cuciva alle proprie figlie per corredo, lavorando giorno dopo giorno solo per realizzare un piccolo punto, sembra strano per noi che siamo abituati al tutto , ma entrando in questo piccolo tempio della storia del costume si riesce a capire l’importanza della storia. All’interno è stato creato uno spazio didattico per le scuole, in cui viene spiegata tutta l’evoluzione della moda e dell’artigianato, inoltre sono in vendita anche prodotti realizzati da artigiane locali.
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antenati delle nostre macchine da stampa. Non rimane difficile immaginare quelle donne che confezionavo vestiti per le ricche signore o magari cuffiette da giorno o da passeggio. C’è poi una seconda sala dedicata per lo più agli abiti da donna (mi spiega Guido che gli abiti da uomo venivano riutilizzati per altro, magari per realizzare coperte, o magari abiti da lavoro, mentre gli abiti femminili si tramandavano di generazione in generazione ndc). Sono presenti all’interno della sala abiti risalenti al ‘700, che dipingono chiaramente gli usi ed i costumi della classe nobiliare e dell’epoca barocca. I manichini, appositamente fatti arrivare dall’estero, mostrano figure esili, con delle vite da vesta che sembrano fuori dal normale, ogni epoca poi ha la sua particolarità: dalle accollature quasi soffocanti del ‘700, all’accenno di scollatura degli abiti dell’800, in cui si iniziavano anche ad intravedere le caviglie. Ci sono anche gli abiti delle occasioni, e quello di una sposa risalente al 1912 donato da un privato a quello funebre del ‘900. Un accessorio che non manca quasi mai è l’ombrello, che donava quel tocco in più all’abito. Ma in questo 400 pezzi di storia del costume sono presenti anche articoli maschili, interessanti sono il frac del ‘900 e gli abiti appartenenti a ufficiali. Sono presenti anche articoli di biancheria intima, particolarissimi le mutande maschili, lunghe come pantaloni per evitare il contatto con la lana,
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RITORNO DAL PASSATO Le mummie di Monsampolo stregano turisti e scienza TERRITORIO
pARIDE TRAVAGLINI
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n un museo unico di provincia, a Monsampolo del Tronto, sono conservati 20 corpi perfettamente mummificati. Sono stati trovati con vesti, manufatti ed oggetti come rosari, medaglie ed anelli rinvenuti durante lo scavo archeologico. Il museo con la cappella della Buona Morte, della Chiesa Maria SS Assunta, inaugurato il 22 giugno 2013, è stato realizzato grazie ai fondi messi a disposizione dal POR Marche. Il progetto magistralmente condotto grazie al contributo della Provincia di Ascoli Piceno e del Comune di Monsampolo del Tronto, ha arricchito la cultura del territorio, grazie al responsabile comunale alla cultura, Mario Plebani, a Franco Ugo Rollo, ordinario di Antropologia all’Università degli studi di Camerino, docente di mummiologia, a Thessy Schoenholzer Nichols esperta di tessuti e costumi antichi, a Daniele Diotallevi della Sovrintendenza BSAE di Urbino e all’archeologa Mara Militello. Il museo accoglie ed espone le opere d’arte rinvenute durante i lavori di restauro o attinenti alla Confraternita della Buona Morte. È utile segnalare le opere devozionali esposte ed utilizzate nei riti della Settimana Santa: l’Ecce Homo e Gesù Crocifisso delle “Tre ore di agonia”. È stato restaurato l’affresco della “Pietà” e sono state aggiunte due sculture devozionali: “La Madonna del Rosario” ed il simulacro di “S.Teopista”. A gennaio, Italia Uno aveva presentato nel programma “Mistero”, il museo ed i percorsi ipogei sotto il castello medievale.
Ci turba ancora il danno alla volta del Cimabue nella Basilica Maggiore di Assisi per un sisma che toccò il cuore di due regioni (Umbria e Marche) e tra i comuni anche Monsampolo del Tronto, nel 1997. Nel 2003, per il recupero dei beni culturali lesi dagli eventi sismici la Sovrintendenza archeologica delle Marche, con l’archeologa Mara Militello è intervenuta per lavori di riparazione e restauro della cripta della Chiesa di S. Maria Assunta. In tale occasione è stato individuato un sistema di 18 fosse circolari, in argilla, con andamento est-ovest aventi varie dimensioni, siti di conservazione di derrate alimentari. Questi erano stati chiusi nella seconda metà del 500 per l’edificazione della chiesa. Le fosse, erano state in parte distrutte dalla costruzione della chiesa con annessa la cripta ed in parte trasformate in ossari rinvenuti durante lo scavo. Gli ossari molto compromessi, all’inizio del 1800 furono svuotati dei corpi che vennero traslati nell’attigua cappella della Buona Morte e lì murati. La Buona Morte era una delle Confraternite del paese, quella più umile, che si occupava del cimitero. Portava alla sepoltura tutti i defunti sia del paese che quelli residenti nelle campagne vicine, accompagnandoli liturgicamente e suffragandoli con il Santo Uffizio della Messa. Caduto il muro, si è avuta l’eccezionale scoperta delle 20 mummie naturali perfettamente conservate tra ossa umane sconnesse, con ancora gli abiti addosso. Quando si parla di mummie il pensiero va a quelle egizie, le cosiddette mummie antropo-
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Responsabile Mario Plebani
geniche o artificiali in cui il processo di mummificazione avviene per intervento diretto dell’uomo (imbalsamazione). Le mummie di Monsampolo, tranne un esemplare, appartengono invece all’altra tipologia, quella delle mummie spontanee cioè mummie prodotte per eventi del tutto naturali (ecofatti). Rollo e Thessy Schoenholzer Nichols concordano sull’eccezionalità del ritrovamento sia dal punto di vista del processo di mummificazione che della storia del costume per via della conservazione degli abiti. È raro infatti rinvenire bustini in canapa, ginestra e cotone, fibre vegetali che generalmente non resistono al degrado derivante da tanti anni di sepoltura. Come scientificamente dimostrato, nelle sepolture ordinarie per interramento, i tessuti a componente proteica, così come nel corpo umano i capelli e le unghie a base cheratinica, essendo a ph acido, in particolari condizioni di idoneità del microclima, resistono al naturale degrado. Se dunque le condizioni climatiche delle sepolture sono favorevoli e il tasso di umidità non è elevato, la seta e la lana, fibre di origine animale, resistono al degrado così come gli strati epidermici, i capelli e le unghie del corpo del defunto, perché uguali sono le caratteristiche di costituzione chimico-fisica. Il caso del ritrovamento delle mummie nella cripta di Monsampolo presenta condizioni opposte a quelle sopra citate, per quanto riguarda i livelli del ph riferibili ai luoghi delle sepolture, difatti la cripta della chiesa e le rispettive fosse granarie sono state ricavate direttamente nella pietra calcarea, a ph basico, lo stesso dunque di quello naturalmente riscontrabile nelle fibre vegetali. Sono queste condizioni che hanno favorito l’ottima conservazione dei manufatti tessili, realizzati con tali fibre. Ed è proprio la semplicità dei tessuti che tradisce l’origine umile dei cadaveri, si tratta di gente povera, molto probabilmente contadini piceni. Soltanto una delle mummie indossava con tutta probabilità abiti di seta, dei quali ovviamente, viste le premesse sulle condizioni microclimatiche, non è rimasta traccia alcuna. Il corpo, che potrebbe appartenere ad un alto prelato o un nobile, è stato rinvenuto privo di vesti ed è evidente la condizione di mummificazione artificiale alla quale è stato sottoposto in seguito al decesso. La qualità della ricerca ed il valore degli esperti hanno consentito di definire un “quadro”unico al mondo, per quanto riguarda la compresenza di così tanti elementi di questo periodo e di questo luogo geografico; la corretta datazione restituirà un’immagine completa del contesto storico, sociale ed economico. La nascita, la morte, il lavoro, la prole, i matrimoni, le vedovanze; varie classi sociali con i rispettivi abiti e le loro decorazioni, ora sontuose ora semplici, in uno spaccato completo della società del tempo. Vale la pena di aprire questo libro di storia speciale, del territorio che rappresenta anche una rarissima occasione per studiare e testimoniare la vita contadina di un’epoca della quale riappropriarsi
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con nuovi dati da aggiungere alle pochissime tracce già reperite. Il museo della cripta sarà aperto dal 18 al 21 aprile, dal 25 al 27 aprile e dal 1 al 4 maggio con orario 16-19, il 18 aprile dalle ore 20 alle ore 23. Per il periodo giugno-agosto osserverà l’orario 20-23. Info3939787891
I percorsi Ipogei Terra Vecchia, è il nucleo più antico di Monsampolo del Tronto (XIII secolo). Al di sotto c’è un mondo tutto da scoprire con passaggi, cunicoli, grotte, scalinate, botole, nicchie, pilastri, capitelli e archi di vario genere utilizzati nel medioevo per far fronte all’emergenza in caso di assedio. Attualmente ci sono 120 metri di camminamenti ipogei percorribili, aventi orientamento uno NS l’altro EW, situati sotto il colle di Terra Vecchia, disposti a strati fino a 20 m sotto la piazza. Il percorso NS ha l’ingresso in via del Castello, nell’edificio che ricorda la forma di una torre quadrangolare. Tra le varie curiosità, la presenza di uno scivolo che arrivava fin dentro un armadio con un fondo finto all’interno di una stanza del palazzo Guiderocchi (una delle famiglie nobili di Ascoli che insieme alla famiglia Malaspina costruì tra il 1500 ed il 1600, il palazzo a ridosso delle mura). Lo scivolo rappresentava una via di fuga in caso di bisogno. Camminando si arriva al luogo più misterioso di tutto il percorso: la zona presenta portali in muratura, intonacati, rifiniti con una strana forma. Sono di media altezza, hanno un ripiano intermedio ed in particolare troviamo dei gocciolatoi . Il luogo è freddo,umido, difficilmente fa pensare ad un magazzino di conservazione di derrate alimentari, ma consente di ipotizzare situazioni misteriose, di personaggi della massoneria. Dei gocciolatoi alcuni storici ipotizzano sacrifici umani del mondo dei templari . A supporto di questa teoria, la testimonianza data da una formella di fattura templare presente sul portone d‘ingresso del palazzo Guiderocchi.
BIBLIOGRAFIA
1- Dott.ssa Thessy Schoenholzer Nichols : Atti del convegno- “Le mummie di Monsampolo tra scienza e costume: analisi, studi e restauro” del 29 settembre 2012.
Foto di Paride Travaglini
TESTO CLASSE IV, SCUOLA ELEMENTARE DE VALENTINI DI CALLIANO (TN) ILLUSTRAZIONI DI GIORDANA GALLI
ara mamma e caro papĂ vi auguro Pace e felicitĂ , e questo augurio lo vorrei fare a tutto il mondo che vuole amare. Soprattutto vorrei che la guerra sparisse per sempre da tutta la Terra. Vorrei trovare fiori e colombe al posto di fucili e bombe.
Vorrei vedere bambini felici e che non ci siano piÚ nemici, cosÏ la Pace regni nel mondo e ovunque ci sia un bel girotondo. E Pasqua sia il ricordo migliore di Chi ci ha insegnato il perdono e l’amore
RITAGLIA E COLORA
La SATIRA DI PERILLI
IMPRENDITORIA
Crowdfunding il finanziamento nell’era digitale Piattaforme on line per finanziare progetti e società di capitali alessandra di giuseppe
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n Europa ci sono 20 milioni di piccole e medio imprese (PMI), che fatturano meno di 50 milioni di euro e con meno di 250 dipendenti. Sono imprese che danno lavoro a 90 milioni di persone, la loro sopravvivenza è quindi fondamentale per l’economia dell’Unione. Il credit crunch, la difficoltà di accesso al credito, è una costante in negativo degli ultimi anni. L’80% dei finanziamenti continua a derivare dalle banche, ma il Parlamento europeo guarda con favore al crowdfunding, o finanziamento collettivo, come forma di finanziamento alternativa potenzialmente migliore. Il termine crowdfunding deriva dall’inglese “crowd”: folla e “funding”: finanziamento. E’ un processo di raccolta fondi per sostenere progetti di persone ed organizzazioni attraverso l’utilizzo di siti internet (“piattaforme” o “portali”). Tutto ha inizio da un’idea creativa, in qualsiasi settore dell’economia: dalle sturt up innovative ai partiti politici, dal mondo dell’arte al volontariato; occorre, inoltre, stabilire delle ricompense e prefiggere un traguardo in termini di budget e tempo.
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“Il termine crowdfunding deriva dall’inglese “crowd”: folla e “funding”: finanziamento” pria partecipazione nella società si parla di equity-based crowdfunding, il quale necessita di maggiore attenzione. In Italia ci sono circa 41 piattaforme, attive e non (alcune ancora in fase iniziale). Andiamo per ordine I modelli di crowdfunding sono fondamentalmente quattro: - Reward based - Donation based - Equity based - Lending based 1)Reward based crowdfunding. Persone che finanziano un progetto attraverso donazioni con in cambio una ricompensa o premio. 2)Donation based crowdfunding. Donazioni a titolo gratuito per esempio per sostenere progetti sociali o di volontariato, senza ottenere nulla in cambio. 3)Equity based crowdfunding. In cambio del denaro investito si ottengono partecipazioni azionarie. 4)Lending based crowdfunding. Raccolta fondi che si basa su micropresiti tra privati. Le due parti possono contrattare il finanziamento su piattaforme create ad hoc. Interessante, ma il modello che necessita di ulteriore approfondimento è l’equity crowdfunding, in quanto caratterizzato da rischi maggiori nonché strettamente connesso alla realtà delle sturt up innovative ovvero piccole società di capitali (spa, srl o cooperative), nascenti e impegnate in settori innovativi e tecnologici. La disciplina normativa sull’equity crowdfunding
in Italia. L’Italia vanta un record una volta tanto. E’ stato, infatti, il primo Paese in Europa a dotarsi di una normativa specifica per il solo equity crowdfunding. Il decreto legge n. 179/2012 (convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221) recante “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese” (noto anche come “Decreto crescita bis”) ha dedicato alcune norme all’equity crowdfunding per la crescita delle start up innovative. La Consob recentemente ha emanato un regolamento recante disposizioni sulla raccolta di capitali di rischio da parte di start up innovative tramite portali on line” ai sensi dell’articolo 50-quinquies e dell’articolo 100-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e successive modificazioni. In seguito all’adozione del Regolamento Consob i finanziamenti tramite crowdfunding sono aumentati cospicuamente perché è aumentata la fiducia degli investitori, anche se in Italia il fenomeno è ancora molto ridotto rispetto al resto d’Europa ed al Nord America. Come funziona. In primis, bisogna consultare i portali on line che si occupano di equity crowdfunding ovvero piattaforme vigilate dalla Consob che facilitano la raccolta del capitale di rischio. I portali contengono delle schede standard previste dal Regolamento Consob che forniscono le informazioni sulle start up innovative. I portali possono essere gestiti soltanto da due tipologie di soggetti: 1. Autorizzati dalla Consob ed iscritti in un apposito registro. 2. Banche ed imprese di investimento autorizzati e annotati nella sezione speciale del registro Consob. Come completare l’investimento. Deciso l’investimento (l’impresa che ci interessa), il gestore del portale trasmette l’ordine di adesione ad una Banca oppure ad una impresa di investimento. Le offerte di capitali on line emesse da start up innovative sono offerte “speciali” disciplinate dalla legge e dalla Consob. Attenzione ai rischi. L’investimento in start up innovative presenta rischi maggiori di quelli tradizionali. La normativa interna in tema di equità crowdfunding, consente di sottoscrivere partecipazioni solo delle start up innovative, un investimento rischioso visto che si diventa soci, quindi, è consigliabile diversificare gli investimenti, con percentuali del portafoglio da dedicare alle attività tradizionali. Una raccomandazione: per qualsiasi offerta o proposta o interessamento personale rivolgersi alla Consob!!!!! Sul sito della Consob c’è l’elenco di tutti i gestori dei portali on-line.
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Chiunque ha un’idea, un progetto, può effettuare una vera e propria raccolta fondi on-line: tante piccole somme (da poche decine o migliaia di euro) a fondo perduto sfruttando la viralità del web. Quando attraverso l’investimento si ottiene, non una semplice ricompensa, bensì una vera e pro-
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DAM.CO DAL CUORE DIGITALE New jobs: arte e valorizzazione di nuovi talenti la mission dell’azienda teramana che assume Stefania Mezzina
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omunicazione, ricerca e valorizzazione dei nuovi protagonisti: sono i tasselli che compongono il mosaico della Dam.Co di Martinsicuro. Ne parliamo in quanto realtà del territorio, i cui vertici e staff sono tutti giovani, andando a rappresentare una iniezione di positività, in questi tempi di crisi. Certamente seppur costola della più storica Martintype di Colonnella del sambenedettese Giuseppe Damiani, i figli Emanuela, amministratore delegato della Dam.Co ed Enrico, direttore commerciale, sono stati avvantaggiati dall’essere stati già parte integrante, attiva, nella realtà operativa da oltre 30 anni operativa nel campo delle arti grafiche, ma questo è un altro fatto. Certamente non da demerito ma bensì da lodare, per quel voler proseguire una tradizione familiare che non tutti i giovani accettano, cercando, al contrario, nuova linfa, altrove, quasi a non voler posizionarsi sotto un’ala protettiva familiare, e cercando nuovi canali per un futuro imprenditoriale proprio, che di conseguenza offre opportunità occupazionali.
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Bisogna spiccare il volo, e i giovani Damiani lo hanno fatto, coinvolgendo quali collaboratori altri giovani, in questa avventura iniziale, che sta dando i suoi frutti, e in tempi di crisi come quelli odierni certamente non è di poco conto. Con il Direttore Commerciale, Enrico Damiani, parliamo di questo progetto professionale, partendo da quando è nato. “Il progetto Dam.Co nasce nel 2011, e si è sviluppato in due anni; si è concretizzato alla fine del 2013, anche se la realtà imprenditoriale è nata ufficialmente nel 2012. Si potrebbe definire una costola della Martintype, ma in realtà non è così, perché seppure nata come spin off dell’azienda, in quanto la precedente era sviluppata nel cartaceo, la Dam.Co guarda al futuro, andandosi a collocare nel digitale. Dam.Co ha esteso e integrato i tradizionali servizi di comunicazione alla multicanalità, dando vita ad un’azienda e un team che fanno dell’evoluzione e dell’innovazione le loro caratteristiche distintive”.
ati che hanno una specifica competenza nel settore dell’evoluzione grafica e creativa, nell’ambito dei servizi di comunicazione e della multicanalità. La collaborazione con la scuola, in particolare con l’Accademia delle Belle Arti dell’Aquila e con la Facoltà di Architettura dell’Università di Ascoli Piceno, si è concretizzata attraverso periodi di formazione specifica di diversi giovani laureati, presso la Dam.Co. Giovani che attualmente sono in forza nell’azienda, occupandosi di grafica digitale, di web, grafica tridimensionale e classica e di sviluppo delle applicazioni mobili. Dello staff fa parte anche Carla Santucci, che alla Dam.Co ricopre la carica di account manager, e la sua presenza risale all’avvio del progetto. Inoltre, abbiamo recentemente inserito un ulteriore giovane di Teramo, in ambito grafico designer, e stiamo definendo due figure commerciali indispensabile per il nostro lavoro. Il primo anno abbiamo seminato formazione, ora abbiamo bei progetti e la percentuale di probabilità di vedere commissionato un nostro progetto è altissima, va anche oltre l’80%. Il nostro lavoro non realizza pacchetti standard, ma personalizzati secondo la categoria e le esigenze del cliente stesso. Il punto forza è proprio questo: il progetto è finalizzato alle opportunità dell’azienda, ognuna ha le sue esigenze, bisogna guardare al territorio in cui sui opera e al mercato e al target a cui è rivolto. Tocchiamo vari campi, attualmente contiamo varie aziende sull’arredamento in genere, dalle cucine ai mobili da bagno, sono percentuali altissime, offriamo pacchetti completo, dal prodotto cartaceo, catalogo, discorso applicativo, di ambientazione, ormai la fotografia si costruisce al computer, si costruisce la comunicazione e noi vorremmo estendere ad altre aziende. Si può passare dal cartaceo al digitale o entrambe. La forza vendita passa ancora per il cartaceo mentre il digitale ha qualcosa in più e prenderà sempre più piede”.
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In cosa consiste il vostro lavoro? “L’azienda progetta e realizza soluzioni personalizzate di comunicazione integrata, generando contenuti multicanale, offrendo servizi e strumenti attraverso canali di comunicazione che supportano e completano quelli tradizionali della grafica. In sintesi, sviluppa comunicazione in digitale, realizzando in tal senso cataloghi, brochure e altro, avviando così una collaborazione con aziende evolute nell’ambito della comunicazione delle rispettive professionalità”. Come si è concretizzato il vostro lavoro e come pensate di proseguire in futuro, in quali paesi state operando e andrete a operare? “Il nostro impegno si è concretizzato con la collaborazione avviata con numerose aziende, quali la Melluso, Selta, Time Office, Euromobili, Las, Aran cucine, Marcuzzo From Italy”. Un mercato esclusivamente italiano? “Attualmente si, ma ci stiamo muovendo anche verso l’estero. Per farlo bisogna creare una rete commerciale, un passo importante ma impegnativo; in ogni caso, parliamo di comunicazione integrata e attualmente il mercato permette di lavorare dalla propria sede e comunque un impegno del genere non può essere immediato, ma bisogna strutturarsi bene. Premesso questo, collaborando con aziende tipo la Las, ma anche con ulteriori, siamo già operativi con l’estero, non figuriamo in prima battuta, ma lo siamo proprio tramite la collaborazione con queste aziende. Un esempio: abbiamo effettuato un applicativo per la Selta telecomunicazione di Tortoreto, che ha sede a Piacenza, e il nostro lavoro anche se in questo caso non figura, è andato a confluire in un progetto di Telecom di prossima uscita”. Quali opportunità occupazionali avete creato e andrete a creare? “Il nostro progetto nasce insieme ai giovani, alla determinante collaborazione con il mondo scolastico, culminata con le assunzioni di giovani laure-
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LA PASQUA VIBRATIANA Giochi, gastronomia e storia religiosa nella tradizione
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foto di Pasquale Rasicci
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econdo la tradizione, la mattina di Pasqua, mentre si sentivano le campane “sciogliersi”( cioè suonare a festa alla fine della funzione. Dal giovedi Santo le campane non suonano fino al giorno di Resurrezione) si percorreva la strada del ritorno verso casa, dove ad attendere c’era una ricca colazione a base di uova sode, mazzarelle , pizza dolce e taralli a “strozzo”, così chiamati perché veniva definito un cibo antipatico. All’ora del pranzo, invece, ci si riuniva tutti attorno alla tavola per magiare la stracciatella in brodo con la invidia, le mazzarelle, l’agnello al forno, lo spezzatino di agnello con la salsa d’uovo, la spianata di Pasqua e dei dolci particolari come la “pupa” ed il ”cavalluccio”, fatti con farina, uova, olio,
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latte, zucchero e lievito che portavano in grembo un uovo sodo, simboleggiante la rinascita. Il giorno di Pasqua segnava la chiusura del periodo quaresimale, caratterizzato da pasti scarsi, simboleggianti il sacrificio di Cristo sulla Croce, ma serviva anche a propiziare il rigoglio dei campi. Il Lunedi dell’Angelo, cioè Pasquetta, la tradizione strettamente vibratiana prevedeva una bella scampagnata a Santa Maria a Vico. Il grande prato, antistante la chiesa era un grande punto di incontro per gli abitanti di Sant’Omero, Nereto e Corropoli, che pellegrinavano con tanto di cesta di vimini in cui mettevano le cibarie. Una volta imbandita la tavola con l’immancabile Piazza di Pasqua, pane, affettati e quant’altro, si prendeva posizione per
Chi ha la fortuna di essere legato alle tradizioni non sarà digiuno di informazioni sulle Spianate di Pasqua. La ricetta originale, almeno del territorio vibratiano, si preparava quando ancora in casa si era in tanti e il cibo poco, quando la vigilia era quasi un obbligo morale e quando le uniche uova di Pasqua che si conoscevano erano quelle sode, che non avevano sorprese dentro, ma se si era for-
tunati e il tempo era propizio, si potevano dipingere con i fiori. Soprattutto è una ricetta che risale ai tempi in cui non si pesava nulla, ma le massaie si “regolavano ad occhio” con le quantità. Questa è una ricetta è tramandata di generazione in generazione, ma che con il passare del tempo ha visto alcuni cambiamenti forzati. RICETTA SPIANATE: Latte, lievito ( un tempo si utilizzava il lievito madre, preparato in casa), farina, uova, zucchero, olio, canditi, scorza d’arancia, anice. Il procedimento è abbastanza lungo a causa della lievitazione; infatti si impiegavano circa due giorni per poter realizzare una buona quantità di Spianate. Il primo passaggio è quello di preparare il lievito, sciogliendolo in acqua calda e aggiungendo le uova, successivamente si prepara una “fontana” per l’impasto. Qui si aggiungono tutti gli ingredienti (anice e canditi tagliati compresi), si impasta fino a creare una palla da porre in una teglia calda per la lievitazione, una volta coperta bene si lascia riposare per almeno 3 o 4 ore. Il secondo passaggio è la lavorazione dell’impasto, poi posto in pentole di alluminio oleate ed infarinate. Qui inizia la fase della seconda lievitazione che sarà più lunga della prima, durerà infatti tutta la notte. La mattina seguente in origine ci si svegliava all’alba per cuocerle nel forno a legna o in pietra. Una volta ultimata la cottura le Spianate sono pronte da gustare.
SPECIALE PASQUA
giocare a “scoccia ova”, non rimane difficile capire la dinamica del gioco. I due contendenti sbattevano le loro uova ( colorate per differenziarle) uno contro l’altro, con l’intento di logorare o “scocciare”, appunto, quello dell’avversario. Perdeva chi rimaneva con l’uovo rotto. C’era chi escogitava il trucco di farle bollire completamente, in modo tale che non si creasse il vuoto d’aria in apice che poi portava alla rotture dell’uovo. Questa tradizione non è in uso solo in Val Vibrata, ma anche in India, in Bulgaria, in Romania, nei Paesi Bassi e in Grecia. E così tra il gioco dello “scoccia ova”, i bambini che saltavano la corda, le donne che imbandivano la tavolata a cui si attingeva tutti insieme, si trascorreva il giorno di Pasquetta. Per il martedi dopo Pasqua, invece, ci si recava (e ci si reca tutt’oggi) a Corropoli, per “l’incontro di Pasqua”. La storia di questo rito risale all’incirca al ‘300. Allora la Badia era ancora un centro religioso. Il Sabato Santo per impressionare gli animi si decise di fare una rappresentazione teatrale dei misteri. Successivamente, dopo la Controrifoma, venne vietato dall’Ordinario della Badia di impersonare la figura di Cristo e della Madonna. Allora si passò alle statue in ceramica, inoltre il rito venne spostato al martedi dopo Pasqua ( data che tutt’oggi rimane). Così a mezzogiorno la statua della Madonna esce in precessione, trasportata in spalla, insieme alla statua del Cristo Risorto e di San Giovanni ( originariamente veniva portata in processione anche quella di San Pietro). La rappresentazione prende inizio con l’inchino della statua di San Giovanni verso la Madonna. Il Santo poi percorrerà di corsa le vie del paese dopo aver trovato il sepolcro vuoto. Successivamente San Giovanni rincontrerà nuovamente la Madonna per darle notizie e seguiti dai fedeli in processione si spostano insieme alla ricerca del Cristo, verso la piazza principale del paese. La statua della Madonna Addolorata rimane ferma in piazza, mentre San Giovanni continua le sue ricerche, fin quando trova Cristo Risorto. Il passaggio del cambio del velo nero della Madonna con una corona d’oro simboleggia la fine del mistero doloroso e l’inizio di quello gaudioso. Dopo l’inchino della Madonna e del Santo, inizia la vera processione delle statue trasportate in fila: prima quella della Madonna, poi quella del Santo ed infine quella del Cristo risorto. Ad un certo punto del percorso San Giovanni si stacca per riprendere la sua corsa di annunciazione. Infine le tre statue si ricongiungono per proseguire la processione verso la chiesa di Santa Agnese, dove le sta dopo l’ultimo inchino fanno rientro.
foto di Pasquale Rasicci Bibliografia: 1. Sviluppo locale, a cura di Everardo Minardi e Rita Salvatore 2. Gastronomia Teramana, Rino Faranda 1977
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SPECIALE PASQUA
GROTTAMMARE PORTA LA CROCE DI CRISTO La Passione secondo la Confraternita dell’Addolorata rivive ogni tre anni Stefania Mezzina
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a sacra rappresentazione del Cristo Morto si svolge a Grottammare ogni tre anni, con l’organizzazione della Confraternita della Passione e Morte di Gesù Cristo e dei Dolori di Maria Vergine di Grottammare, nota come Confraternita dell’Addolorata, il cui assistente spirituale è il parroco della Chiesa di San Giovanni Battista di Grottammare, don Giorgio Carini. La prossima rappresentazione è fissata al 2015, essendo stata allestita nel 2012. Il Cristo Morto è una Processione molto sentita dalla popolazione di Grottammare ma anche dagli abitanti dei territori vicini e conta la partecipazione di circa 500 figuranti in costume. E’ la più antica della zona, fu fondata nel 1738 da Padre Antonio Petrocchi O.F.M. da Castignano, con l’approvazione del Vescovo dell’epoca, Monsignor Francesco Correa. Il corteo si raduna la sera del Venerdì Santo in piazza Peretti al Paese Alto, intorno alla chiesa di Grottammare di San Giovanni Battista e da qui scende verso il mare, verso la parte bassa di Grottammare ed effettua un percorso di circa due ore, infine, la risalita al paese alto. Tre cori composti rispettivamente da bambine, ragazze e donne vestite completamente di nero, al suono di tamburi e chiarine cantano inni religiosi, accompagnano i partecipanti durante tutta la rappresentazione. La processione inizia con la cavalleria romana, segno del potere sotto il quale Gesù fu condannato a morte, seguita da quattro soldati che suoneranno le chiarine, quindi la Croce, maestosa e portata da un confratello. Quindi il primo coro delle pie don-
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ne, il Cristo caricato dalla pesante croce, il cireneo che aiuta Gesù a portare la Croce, i sacconi con i simboli della processione: il Calice, la borsa di Giuda, le funi, il sasso, il gallo, la veste bianca, i dadi, la tunica rossa. Il secondo coro, la colonna dove Gesù fu flagellato, i flagelli, la corona di Spine, la Veste rossa, il Sacro volto. Gli arazzi con le quattordici stazioni della Via Crucis, poi i chiodi il martello, le tenaglie, l’anfora e la spugna. Le sette parole pronunciate da Gesù durante la passione, l’agnello, il terzo coro delle pie donne, la banda musicale, il diplomatico e il gonfalone del comune, il clero, la Confraternita dell’Addolorata e la sacra bara; in processione anche le statue dell’Addolorata velata a lutto, la Veronica, la Maddalena e San Giovanni Evangelista. Il corteo si conclude con i fedeli e le autorità. All’origine la rappresentazione era organizzata dalle Confraternite del Santissimo Sacramento, della Madonna di Loreto, del Santissimo Rosario e dei Sacconi, che sono scomparse. Dal 10 febbraio 1757, anno di fondazione della Confraternita della Passione e morte di Gesù Cristo e dei Dolori di Maria Vergine, nota come Confraternita dell’Addolorata, ne cura la preparazione. Si tratta di una Confraternita che fu riunita nel 1758 alla Compagnia del Santissimo Sacramento, già esistente presumibilmente prima del 1568 e il 19 aprile del 1758 vi fu aggregata inoltre anche la scomparsa Confraternita della Morte; in realtà, quindi, si tratta di tre antichissime confraternite riunite in quella dell’Addolorata.
A MONTEPRANDONE RIVIVE IL RITO DELLA BARA La Processione del Venerdì Santo: segno di fede e tradizione
Foto di Paride Travaglini
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onteprandone, la Processione del Cristo Morto, è il tradizionale appuntamento del Venerdì Santo. Dal 1500, tanti fedeli si ritrovano nella chiesa parrocchiale di San Nicolò di Bari di Monteprandone per vivere questo alto momento spirituale. Provenienti dai comuni limitrofi e da altri luoghi, per tradizione storia e fede, seguono la storica bara, per le vie del borgo storico illuminato. Le fiaccole creano una suggestiva atmosfera che incornicia persone e corteo. Da oltre 150 anni, la processione si è arricchita di un elemento: la bara, che ha integrato i simboli della Passione quali la croce, le Sette Parole dette da Gesù ricamate in oro su splendidi gonfaloni rossi, le vergini vestite di bianco, le pie donne con i loro lamenti,le ragazze con le sette spade, la banda musicale con i mantelli neri, le autorità civili e religiose, la statua di San Giovanni, la bellissima e preziosa statua della Madonna Addolorata. L’elemento centrale della bara rappresenta l’orgoglio dei cittadini monteprandonesi per la preziosità e la bellezza di un’opera commissionata all’artista Emidio Paci. Quest’opera divenne il vanto del paese e lo è an-
cora, grazie alla committenza della confraternita della Pietà e della Morte nel 1845. Emidio Paci realizzò in legno la bellissima statua del Cristo e l’anno successivo Sante Morelli preparò la bara realizzandola in legno e a misura delle stradine paesane. Nel 1851 si commissionò a Tito Boccachiodi la doratura e nel 1855 con il velluto, le stoffe, le frange d’oro e d’argento, i cuscini e i fiocchi si completò l’ornamento. La spesa, considerevole per l’epoca, fu di 200 scudi romani. La bara era terminata e così nel 1859 per la prima volta uscì in processione incantando coloro che la videro: maestosa, splendente, misteriosa, imponente e mistica. La bara, del peso di 400 chili, viene portata a spalle da quattro giovani vestiti di nero. La squadra di portatori, lungo il percorso si dà il cambio con altre squadre. La tradizione vuole che portare la bara fosse una benedizione per il portatore perché come diceva il vecchio parroco Don Giuseppe Caselli “chi avrebbe portato la bara si sarebbe sposato felicemente”. E c’era forte competizione tra i giovani del paese per essere un portatore.
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SPECIALE PASQUA
PARIDE TRAVAGLINI
SPECIALE PASQUA
IL PATOS DI MONSAMPOLO NELLA FLAGELLAZIONE DI CRISTO I simboli delle offese al Salvatore riecheggiano nella tradizione pasquale Stefania Mezzina
E
’ molto sentita e molto suggestiva, nel territorio piceno la processione del Cristo Morto, Sacra Rappresentazione voluta per permettere ai fedeli di rivivere le sofferenze e la morte di Nostro Signore. Si tratta una processione che in maniera puntuale fa scorrere tutti gli elementi della passione di Gesù così come li ha tramandati la testimonianza dei vangeli. Attraverso canti, statue, apparati decorativi e costumi, è possibile provare a rivivere le sofferenze, l’agonia e la morte di Gesù come un fatto reale e con un forte impatto emotivo. Risalgono al ‘500 le sacre rappresentazioni della Passione in Italia e Spagna, organizzate dalle locali “Compagnie”, in cui i confratelli percorrevano le strade delle città con lumi accesi, cantando salmi e recando una croce spoglia tra due lance. Ma è solo successivamente, nel ‘700 che i cortei si arricchiscono con corpi illuminanti, fiaccole o lampioni, con i simboli delle Confraternite, stendardo e pannetto, e si inseriscono i famosi “Misteri” o “Martiri”, ovvero i simboli delle offese materiali subite da Cristo. A Monsampolo la rappresentazione del Cristo Morto si tiene annualmente e si snoda per tutte le vie del centro storico e la tradizione si rinnova anche nel 2014. Il corpo del “Cristo Morto” è deposto su un prezioso catafalco ligneo con baldacchino risalente alla fine del XVIII secolo, restaurato all’inizio del ‘900; “La bara” pesa più di sei quintali ed è trasportata da 12 persone. La processione si svolge in modo solenne e vi partecipano le cinque Confraternite che ancora oggi, pur non assolvendo a nessuna obbligazione, partecipano allo svolgimento del rito liturgico. Sono le Confraternite della Buona Morte, della Madonna del Rosario, del Nome di Gesù, del SS. Sacramento, dei Servi di Maria o dell’Addolorata.
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I confratelli indossano tuniche con i colori che li contraddistinguono e portano in processione le insegne, i vessilli, i lampioni e le croci processionali, relativi ai propri ordini, risalenti ai secoli XVII-XVIII. Il tragitto è suggestivamente illuminato da fiaccole e lampioncini di legno coperti ai lati con carta sulla quale sono disegnati i simboli della Passione e sui colli circostanti il paese sono allestite manifestazioni piriche e luminarie raffiguranti croci ed altri soggetti sacri. Ogni tre anni, inoltre, si celebrano anche le “Tre ore di agonia”, con il Crocifisso di Gesù, una scultura lignea policroma del XVIII secolo nella bara, che viene custodita nella Museo della Cripta a Monsampolo, con ulteriori opere d’arte, tra le quali l’Ecce Homo, altra opera devozionale utilizzata nei riti della Settimana Santa. Le Tre ore di agonia è un rito di antichissima tradizione che viene proposto con cadenza triennale nella chiesa parrocchiale; sull’altare maggiore viene allestito un suggestivo scenario che ripropone il calvario con Gesù e con i due ladroni crocifissi. Ai loro piedi sono poste le statue della Madonna Addolorata, San Giovanni e Santa Maria Maddalena. Sette candelabri e sette cartigli neri ricordano le ultime “sette parole” dette da Gesù prima di morire. Al termine della celebrazione del venerdì santo il sacerdote sale sul calvario toglie i chiodi dalle mani e dai piedi del Crocifisso per deporlo nella bara che sarà portata in processione. Si ringrazia per la collaborazione il responsabile dell’Ufficio Cultura del comune di Monsampolo, Mario Plebani.
Foto di Paride Travaglini
IMPRENDITORIA
NASCONO LE DMC PER ESSERE VACANZA TUTTO L’ANNO Le ha imposte l’Europa: a privato e pubblico il compito di promuovere il territorio ANNA DI DONATO
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ate come risposta ad un’esigenza turistica rilevante e che ha come scopo l’obiettivo di dotare le singole destinazioni di una struttura ben organizzata, le DMC (Destination Management Company) avranno il compito di analizzare il sistema turistico autoctono e di sintetizzarlo in promozione ed accoglienza.Fondate in Abruzzo nel maggio 2013 ed aderenti alle PCM (Product Management Company), si occupano, nel complesso, del coordinamento turistico da sviluppare attorno a quattro versanti: mare, montagne, borghi, congressuale (business e grandi eventi). Al presidente della DMC “Gran Sasso Laga”, Cesare Crocetti, abbiamo chiesto di illustrare i progetti realizzati.
Cosa è successo dal maggio 2013 ad oggi? “Partiamo dal presupposto che per poterci mettere all’opera, è stato necessario attendere prima la comunicazione dell’avvenuto finanziamen-
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to filtrato dai fondi FAS, prima, e dalla Regione Abruzzo, poi, giunta nel dicembre scorso e, poi, la firma della Convenzione con la Regione risalente a marzo. Nonostante il lungo iter burocratico, ci siamo costituiti in società consortile favorendo l’adesione di 104 soci ed abbiamo iniziato a stilare i progetti e partiti con Eco Tour nella prima settimana di aprile; il primo appuntamento era rivolto alla scoperta dei nostri gioielli naturalistici e con la presenza di 10 tour operator provenienti da Italia, Spagna, Belgio, Russia ed Inghilterra”. A quanto ammonta il capitale a vostra disposizione e quali sono le direttive impartite dall’Europa al fine di poter usufruire del famoso Fondo per le Aree Sotto Utilizzate? “Ad oggi, il nostro capitale sociale è di 100.500,00 euro con possibilità di ricevere 500.000 euro per 3 anni di cui 250.000 a fondo perduto. Il 50% dei finanziamenti giunge comunque dalla Regione. Ciò che siamo chiamati a rispettare è il principio guida della Destination Management Company ossia: organizzare incontri territoriali con soci e
potenziali tali alla scoperta dell’esigenza di ogni socio e della comunità di riferimento, focalizzare l’attenzione su attività promo-commerciali e creare in rete una tipologia di pacchetti ad hoc”. Come DMC Gran Sasso Laga, in che modo avete impostato la vostra politica di marketing? “Seppure indipendenti, tutte le DMC teramane, “G.S.L.”,“Costa Dei Parchi” , “Riviera dei Borghi d’Acquaviva”, così come le abruzzesi in generale, hanno concentrato e proseguiranno a concentrare la sponsorizzazione di attività ed eventi utilizzando un esaustivo portale web da terminare entro ottobre, il buzz marketing, più cliccati motori di ricerca presenti in rete, fiere e congressi”. Chi sono i vostri soci e qual è il loro ruolo? “I soci possono appartenere a qualsiasi categorie facente riferimento ad attività turistiche ma anche culturali. Vanno dagli albergatori ai tour operator fino alle agenzie di viaggio, attività commerciali di artigiani, le cantine, le aziende e quant’altro. Il loro ruolo è quello di mettere in tavola le proprie esigenze e nel contempo fornire supporto ai progetti proposti dal Consiglio d’Amministrazione, nel
quale ogni socio ha potere decisionale in base alla quota versata per entrarvi. Il minimo di ciascun socio per l’adesione è di 500 euro”. Come rispondete a coloro che in passato hanno definito le DMC come uno dei tanti “carrozzoni” della politica? “Rispondiamo anzitutto dicendo che in quanto società consortile, ogni DMC si sviluppa grazie all’adesione di singoli privati, di soggetti, dunque, istituzionalmente distaccati dalla politica. Il fatto che per partire fosse necessaria l’avvalersi di soldi pubblici si spiega con la finalità che le stesse hanno, ovvero la riqualificazione e lo sviluppo del territorio a livello regionale, nazionale ed internazionale. Per di più, nei prossimi 3 anni contiamo di riuscire ad autofinanziarci non più al 50 ma all’80%”. Prossimo progetto in cantiere? “Ce ne sono diversi ma il più importante sarà sicuramente quello che riguarderà la Val Vibrata, probabilmente il più grande che sia stato mai realizzato su quel territorio e che si avvarrà della partecipazione e dell’aiuto di due DMC”.
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AMBIENTE
BONTA’ SULLE PUNTE… D’ASPARAGO Valeria Conocchioli
È
tornata la bella stagione e, con essa, si riapre la tanto attesa caccia… agli asparagi selvatici. Basta veramente poco per trascorrere un pomeriggio diverso: una bella passeggiata tra campi e boschi alla ricerca di questa prelibatezza che fa gola a molti. Pianta dalle antichissime origini mediterranee e asiatiche, l’asparago è conosciuto fin dal passato nella sua variante spontanea. È stato un alimento molto presente nelle mense dei Greci e dei Romani a tal punto da essere citato, come cibo raffinato, nelle opere di importanti autori classici. Attualmente la varietà più consumata è quella coltivata e quindi facilmente reperibile in commercio. Ottimo e dal gusto più deciso è però proprio l’asparago selvatico che cresce spontaneamente nelle regioni mediterranee. La pianta ha radici che producono germogli (le caratteristiche punte) che dovrebbero essere raccolti non appena spuntano dalla terra, perché più teneri e meno le-
gnosi. I loro lunghi steli verdi si trovano in genere seminascosti ai bordi di radure, nei pascoli incolti e nei boschi. Si distinguono dalle varietà coltivate per il sottile stelo e per il gusto più intenso e a tratti amarognolo. Ricchi di fibre, vitamine e minerali, sono molto apprezzati per le presunte proprietà diuretiche, antinfiammatorie, antiossidanti e depurative, esaltate soprattutto attraverso i decotti. Possono essere consumati nei più svariati modi, sia crudi che cotti. Ideali da aggiungere freschi ad insalate o, in alternativa, semplicemente bolliti e conditi con olio, limone e sale. Sono spesso l’ingrediente principale di frittate, risotti, minestre, zuppe e vellutate. Ottimi anche conservati sott’olio così da poter essere gustati in tutte le stagioni. Sono molti coloro che, a primavera, riscoprono questo gustosissimo alimento, ma non bisogna dimenticare di agire sempre nel pieno rispetto della natura, cercando di non danneggiare la pianta madre. In proposito, diverse regioni italiane si sono dotate di appositi regolamenti per disciplinare in modi e quantità questa raccolta. Esiste inoltre un’antica credenza secondo la quale da un asparago ben estirpato se ne produrranno altri dieci. Forse vale la pena provarci!
SELFIE-HOT, LE FACCINE DEL “VIRTUOSO” NELLA TRAPPOLA DELLA RETE Basta un click per risvegliare i sensi, per toccare l’impalpabile e superare “l’io caduto” Roberto Di Nicola temente sta ricevendo l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass-media è quello dell’erotismo sessuale spopolato online, che ha a che fare con la propria identità di genere e che è caratterizzato da comportamenti eccitanti sessualmente che lo schermo del computer, con le sue caratteristiche dell’impersonalità, sembra intensificare. La ricerca dell’anima gemella, dell’altra metà della mela è arrivata sul Web già da diverso tempo. E quando un cuore solitario vuole compagnia, oggi può trovarla con una manciata di click. E’ l’espediente ideale per un timido, un infedele o anche un pigro. Possono essere svariate le tipologie di utenti che si siedono dinanzi al pc, ma sono comuni le intenzioni: intrecciare relazioni. L’esibizionismo ed il voyerismo sembrano spiccare maggiormente nella nostra epoca post-moderna intensificandosi sulla chat, attraverso i cosiddetti “selfie” (fotografia fatta a se stessi con un telefono e poi condivisa sui social) che immortalano ciò che si sta facendo in quel preciso istante con le proprie emozioni, con il desiderio del farsi vedere, dell’esserci in quanto tali. Le location più in voga sono, ad esempio, il bagno e la camera da letto (situazioni di intimità), le discoteche ed i monumenti (situazioni di divertimento e possibilità di viaggiare in libertà). La mania dell’autoscatto richiama l’essere in primo piano, il bisogno di non essere dimenticati o comunque essere al passo con la vita degli altri, per sentirsi meno inadeguati. Uno dei selfie che si sta stratificando è il così chiamato “aftersex” (foto scattate in un momento che segue al rapporto sessua-
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DIALOGO
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iamo in pieno risveglio primaverile e, finalmente, con le ore di luce che aumentano, si passa più tempo all’aria aperta con un notevole abbassamento del nostro livello di stress quotidiano. E, soprattutto, si attivano i nostri organi di senso, si alzano i valori degli ormoni che regolano l’umore e la sessualità e aumenta l’attrazione tra uomo e donna. La sessualità, quale evento psicosomatico, ha risentito, nel corso degli anni, dei vari mutamenti sociali e culturali che si sono alternati, dei nuovi modelli che privilegiano l’apparire piuttosto che l’essere, la seduzione piuttosto che il desiderio. Un argomento che sempre più frequen-
* Virginia Maloni
le). Tale fenomeno accomuna generalmente tutti, ma attenzione a non trasformarla in “selfite”, ossia il desiderio ossessivo-compulsivo di realizzare autoscatti per poi condividerli per compensare la mancanza di autostima e coprire lacune della propria intimità. La perversione, in questo articolo, è trattata in un’accezione soft, come sinonimo di ribaltamento e rivoluzione: la perversione della visibilità, dell’esserci, del rivedersi, del sentire i commenti altrui che rinforzino il loro autoscatto ed il loro momento. La perversione è un’organizzazione psicologica complessa e, per come la stiamo descrivendo, si manifesta in una performance virtuale che mette a riparo dalle paure di fare delle brutte figure e di confrontarsi con le proprie fragilità e con i giudizi morali che albergano in noi e non ci rendono liberi. Così dietro un nickname si nasconde un mondo e l’immagine che forniamo di noi stessi sarà stata utile allo scopo in base a quanto saremo stati bravi a ‘confezionarla’. Già, perché una delle caratteristiche fondamentali dell’online dating, è che si è quello che si sceglie di essere: i più onesti e sicuri delle proprie qualità offrono un autoritratto realistico e adottano un linguaggio in linea con la propria personalità ma c’è anche chi costruisce ‘un personaggio’, un ‘abito virtuale’ che, spesso, ricorda solo vagamente colui che lo indossa: somiglia di più a chi vorrebbe essere o rappresenta qualcuno che crede più appetibile per i suoi potenziali interlocutori. A volte si sta così a proprio agio davanti allo schermo o al display del cellulare, che la chat o il sito web non sono più mezzi di comunicazione destinati soltanto ad un primo contatto tra coppie, ma diventano espressione di una realtà parallela che si fa fatica ad abbandonare. Basta il bip di una notifica per riconnettersi con il partner e riprendere un interminabile discorso a colpi di faccine, che le normali attività del quotidiano sembrano interrompere. La qualità di chi si esibisce è quella di accendere la tentazione e di creare un bisogno. Lo schermo
impersonale del pc, ci permette di nascondere le nostre debolezze ed i nostri difetti, scegliendo l’immagine migliore di noi, le foto che danno quell’immagine che noi vorremmo che passasse, un’ossessione dell’uomo moderno, l’esibizionismo ad ogni costo. La perversione della visibilità, con la fisicità, con la corporeità delle immagini, con la centralità che il piccolo schermo dà al corpo, al volto, ai gesti, alle espressioni permette di sapere di quel personaggio molto di più che se si fosse letto tutti i suoi libri. La velocità del contatto virtuale disintegra il desiderio del corteggiare, difende dalla possibilità di fallire, poiché si sopporta emotivamente di più ricevere un “no visivo” da un “no virtuale”. Il confronto vis a vis tra due persone genera più paura del giudizio, mentre lo schermo azzera la vergogna, dando spazio anche a fantasie sessuali che ancora rimangono tabù per molti. La rete del terzo millennio cambia pelle continuamente, offrendo sempre attraenti possibilità per i milioni di persone che ogni giorno si affacciano alla finestra (di dialogo) del loro browser, all’insegna del motto “virtuale è bello”. Succede così che ci si scambia informazioni, notizie, ricette, si condivide, si posta e si linka…ma quando il mouse diventa arco e scaglia frecce d’amore colpendo ora questo, ora quel profilo sui siti d’incontri, siamo sicuri di beccare il bersaglio giusto, pervasi come siamo dal furore di Cupido? I nostri bisnonni non avevano in tasca lo smartphone, ma un oggetto capace ancor di più di evocare la persona amata: un fazzoletto impregnato del suo profumo che manteneva sempre viva la connessione e alimentava ancor di più il desiderio di rivedersi, ricongiungersi con la propria compagna…bei tempi. E voi da che parte state? Siete tradizionalisti o moderni? E’ primavera e Cupido è in agguato, chissà che non scelga proprio voi! * (Psicoterapeuta)
Il futuro appartiene a chi crede alla bellezza dei propri sogni.
IL BENESSERE VIEN DAL MARE
BELLEZZA
I trattamenti al sale per gli inestetismi
* NOEMI DI EMIDIO
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l sale è un valido aiuto per la nostra bellezza, per contrastare l’inestetismo della cellulite e non solo. Definito “oro bianco “ dai popoli mediterranei, il sale è diventato un elemento essenziale per la popolazione di tutto il mondo, il suo utilizzo ha origini antichissime. Il più utilizzato in estetica è il sale integrale del mar morto, ricco di minerali quali magnesio, potassio, iodio, calcio, ferro, zolfo utili per la salute della pelle e per contrastare la cellulite, grazie alle loro proprietà detossinanti e depurative che favoriscono il drenaggio dei liquidi in eccesso e l’ossigenazione dei tessuti rendendo la pelle più liscia e luminosa. Sono molti i trattamenti con il sale: peeling al sale, massaggi, bagni di sale caldo e freddo, talassoterapia, grotte o stanze del sale. L’effetto peeling del sale abbinato al massaggio con oli caldi aiuta a riattivare la circolazione sanguigna, con un effetto benefico per gonfiori alle gambe, un effetto levigante e tonificante, che in sinergia agli oli essenziali, idrata e nutre la pelle in profondità. Solitamente viene lasciato in posa alcuni minuti per avere” l’ effetto osmosi”in quanto il sale sulla pelle facilita l’eliminazione dei liquidi in
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eccesso. Ulteriori trattamenti sono i bagni di sale secco dove ci si immerge in una vasca e si viene ricoperti di sale riscaldato ad una temperatura non superiore ai 40 gradi, esso ha un effetto distensivo e rilassante di tutto il corpo, aiuta a stimolare il metabolismo lipidico, regola l’idratazione della pelle, e ha un’ azione drenante dei liquidi; seguito dai bagni di sale freddo ha un’elevata azione riattivante la circolazione sanguigna. La talassoterapia utilizzata nell’antichità dai greci e dai romani consiste nell’immergersi in una vasca di acqua calda dove vi sono sciolti cristalli di sale, dove otre alle proprietà benefiche del sale vi sono anche effetti rilassanti sul corpo e la mente. Negli ultimi anni si è diffusa anche da noi la haloterapia che sfrutta i benefici del sale con la respirazione. Essa ricrea gli effetti positivi e benefici del tempo trascorso in riva al mare, ricreando in una stanza ricoperta di sale un clima marino adatto a tutti apportando benefici al tratto respiratorio contrastando asma, allergie e altre patologie. * (Estetista)
TONDO E’ BELLO I pois impazzano sulle passerelle e non solo
federica bernardini
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MODA
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bbandonati i rigidi schemi tipici delle stagioni invernali è arrivato il momento di sfoggiare look più fantasiosi e stravaganti con colori accesi e diverse fantasie: le righe, i fiori e soprattutto i pois. Proprio quest’ultimi rappresentano una delle grandi tendenze della primavera estate 2014 che stilisti come Burberry, Mango, Oscar de la Renta, Dolce e Gabbana hanno portato sulle passerelle. Ma qual è l’origine di questa fantasia? La storia del pois è antichissima ( il cerchio è il simbolo ancestrale della Madre Terra) ed ha avuto nel corso dei secoli connotazioni sia positive ( segni propiziatori nelle tribù africane) che negative ( nel medioevo europeo riecheggiavano cattivi presagi legati alle epidemie del tempo come il vaiolo, la peste , la varicella). Solo nel 1500 si iniziò a vedere dei cerchi di tessuto cuciti sugli abiti per nascondere macchie ostinate o strappi. La nascita della stampa a pois è legata alla danza popolare boema della polka ( pois = polka dot) e soprattutto ai costumi delle ballerine. La polka infatti si diffuse con gran successo in tutta Europa portando con sé anche la stampa a pois che entrò ufficialmente nell’immaginario collettivo con la gonnellina di Minnie, l’eterna fidanzata di Topolino. Negli anni 50 si avvertì un vero boom determinato da dive del tempo come Marylin Monroe, Audrey Hepburn, Brigitte Bardot fino alla vera consacrazione con il movimento artistico della Pop Art e in particolare delle opere di Lichtenstein. Per la stagione primavera – estate 2014 anche le catene low cost come Pimkie, H&M, Zara, Stradivarius hanno incoronato i pois come fantasia dell’anno proponendola anche su numerosissimi accessori. Naturalmente le prime ad innamorarsi della stampa a cerchi sono state le star del cinema e della musica tra cui Sarah J. Parker, Beyonce, Cameron Diaz, Kate Middleton, Eva Mendez e tante altre. E perché non imitarle? Ma sempre con buon gusto, mi raccomando!
EVENTI IN VAL VIBRATA MARTINA DI DONATO
EVENTI
GIULIANOVA Il 19 aprile, alle ore 18.30 presso l’Officina (L’arte e i Mestieri) di Giulianova Alta si terrà l’apertura della mostra d’arte dal titolo “Sfascio” dell’artista giuliese Simone Millo. La mostra sarà visitabile fino al 31 maggio. Ingresso libero. Dal 10 aprile fino al 1 maggio, presso il Circolo culturale Il Nome della Rosa sarà esposta la mostra dell’artista abruzzese Cristian Palmieri, interamente dedicata alla figura della donna e alla sua condizione nella società. La mostra dal titolo “ Una porta, una finestra,due mura” è curata da Manuela Valleriani.
COLONNELLA L’Associazione culturale PortumArtis di Colonnella organizza la prima mostra- concorso “Colonnella Art Contest, presso il Palazzo Pardi dal 13 al 19 aprile, tutti i giorni dalle 17 alle 22.
CIVITELLA DEL TRONTO Il 21 aprile a Civitella del Tronto si terrà il mercatino dell’artigianato. In tutto il paese saranno dislocato circa 90 espositori di oggettistica, articoli tessili, prodotti tipici locali e prodotti alimentari, che per tutto il giorno, dalle 10 alle 22 accoglieranno chi si recherà a Civitella per la scampagnata di Pasquetta.
SANT’EGIDIO ALA VIBRATA Il 25 aprile si esibirà il gruppo indie Ex-Otago presso il DejavuDrink and Food si Sant’Egidio alla Vibrata. Inizio ore 22, ingresso gratuito. Mentre il 2 maggio ci sarà Zibba, vincitore del Premio della critica “Mia Martini” del Festiva Di Sanremo.
SANT’OMERO Il 3 maggio presso la Sala Marchesale di Sant’Omero si terrà il secondo incontro di Mondo d’autore. Il tema di questo incontro: “Morire di austerità: l’Italia come la Grecia?”. Interverranno alla conferenza: L’economista Fiorella Kostoris, il giornalista del “Sole 24 ore” Riccardo Baarlam, il direttore del mensile “Altreconomia” Pietro Raitano ed il ricercatore di storia contemporanea Pericles Karavis. L’incontro sarà coordinato dal direttore de “Il Centro” Corrado Tedeschini. Durante gli incontri ci saranno intermezzi musicali di Vaghelis Merkouris. Inizo ore 18.30, ingresso libero.
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ANDREA SPADA
Il dormiglione Usa 1973 di Woody Allen
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no dei maggiori successi del primo periodo del regista newyorkese, quello della comicità gestuale ispirata dal muto (Buster Keaton , fratelli Marx), affiancato da una sublime Diana Keaton, narra le gesta di un musicista jazz combinaguai che si risveglia nel futuro dopo essere stato ibernato. La modernità fa paura fra robot maggiordomi e macchine orgasmatiche che simulano il sesso in un mondo frigido e ligio alle regole della dittatura. Solo la rivolta potrà fermare questo mostruoso destino inarrestabile e il nostro protagonista sarà affiancato dalla bella Keaton. Un film che parodizza il genere fantascientifico perfetto nel ritmo diseguale e volutamente spezzato nel ritmo da gag splendide che attingono dal muto e ne sviluppano le potenzialità verso il cinema dell’epoca; intellettuale e raffinato da una parte e dall’ altra irriverente e barocco. Lo humor spesso vira in una lettura critica in senso politico e in una sfiducia nella massificazione sociale che tende a privilegiare solo la massa a scapito del singolo individuo, cosi come nella sfiducia verso i mass media e la loro funzione manipolatrice della mente a favore del potere . Un film feroce , anarchico che fa sbellicare ancora oggi, che parla di clonazione ( il naso clonato del dittatore è il pericolo da combattere per evitare in futuro che da esso risorga un nuovo agguerrito Kapò) e di ibernazione sta anche in questo divertente dialogo che riguarda gli italiani:
“Il sesso è diverso oggi vedi, noi non abbiamo nessun problema: tutti sono frigidi. Oh ma è incredibile: gli uomini sono impotenti? Oh sì, la maggior parte … eccetto, sì, quelli che sono di discendenza italiana. Doveva essere qualcosa negli spaghetti”
NON BUTTIAMOCI GIU GRAN BRETAGNA 2013 DI PASCAL CHAUMEIL
E
’ uscito il nuovo film adattamento del romanzo del celebre scrittore Nick Horby e di aspettative, come al solito, ve ne sono tante. Con un buon cast di stelle come Pierce Brosnam e Tony Colette e una sceneggiatura ben imbastita, le premesse sono d’obbligo. Tuttavia, dalla storia di quattro perfetti sconosciuti che guarda caso si incontrano sul più alto grattacielo di Londra la notte di Capodanno per saltare giù e farla finita, ci si aspettava anche un certo tono narrativo e un tipo di humor perlomeno attinente e rispettoso più che una farsa poco credibile e quasi imbarazzante. Poiché il film pretende di evolversi dal dramma, come quello di chi al limite delle proprie sofferenze decide di suicidarsi, verso un lento epilogo positivo con tanto di luce e speranze ritrovate dopo un certo excursus psicologico, forse manca proprio questo ai vari personaggi, uno spessore , una caratterizzazione che li faccia evolvere da quelle che sono soltanto caricature se non macchiette. Così, insomma, il film perde ogni collegamento con l’opera da cui è stato tratto sembrando piuttosto una commediola in cui qui quattro amici ne combinano di tutti i colori mentre sono in vacanza, lontani anche dal fatto che sono in realtà degli ex suicidi. I toni drammatici e da commedia si azzuffano di continuo lasciando una certa confusione in merito a quello che è il tema centrale della pellicola ed anche una certa indifferenza nello spettatore che non sa se ridere o lasciarsi sprofondare dal tedio fino alla fine.
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CINEMA
RICETTE DELLA MEMORIA
La cicerchia, cenerentola dei legumi FRANCESCO GALIFFA
I
n questo numero ci occuperemo della cicerchia (Lathirus sativus), un legume da sempre poco apprezzato e quasi del tutto sconosciuto alle nuove generazioni. Si tratta di una pianta annuale, che somiglia alla veccia; nei suoi baccelli contiene semi ovali, più grossi dei piselli, un po’ schiacciati, quasi come i lupini. Reperti fossili riportati alla luce in siti archeologici della Mesopotamia ne attestano la presenza nell’8000 a.C. e fonti storiche ci dicono che fu domesticata verso il 6000 a.C. nella Penisola Balcanica e che trovò una larga diffusione nel Bacino del Mediterraneo. Si semina all’inizio di aprile e si raccoglie alla fine di luglio/inizio di agosto; non ha bisogno di colture particolari, cresce anche in condizioni difficili, resiste alla siccità, si adatta a terreni poco fertili e a temperature basse, condizioni proibitive per la maggior parte delle leguminose. Testimonianze storiche e orali confermano la sua coltura anche nelle nostre aree collinari con una produzione interessante in termini quantitativi; nella spartizione dei prodotti, un contadino di Montone, nel 1820, ne riconsegnava al padrone mezzo tomolo (circa 22,5 litri). Oggi è coltivata soprattutto in Asia e nell’Africa
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pepe, mezz’oncia di cannella, sei once di zuccaro, e zafferano a bastanza; faccisi la torta con due sfogli, e cuocasi al forno, o sotto il testo, e come è presso a cotta, facciasegli la crostata di zuccaro, e acqua rosa». Nel corso dei secoli le cicerchie sono state utilizzate per fare minestre, zuppe, minestroni e purea. La preparazione più comune, presente in molte regioni, è senza dubbio la “Minestra con le cicerchie”, molto simile a minestre realizzate con altri legumi, che M. Giuseppina Truini Palomba così descrive: «Dopo averle lasciate in ammollo per una notte intera, le cicerchie sono cotte in acqua e sale, insaporite con un soffritto di aglio, cipolla e prezzemolo in olio d’oliva, con l’aggiunta di pomodori pelati, sale. Vi si potranno cuocere dei tagliolini all’uovo oppure delle sagnette acqua e farina oppure si potrà mangiare come zuppa su fettine di pane casereccio strofinato con l’aglio. In quest’ultimo caso, irrorare con un filo d’olio d’oliva». Nel Salento si usa consumarle, più semplicemente, al naturale, condite con olio ed erbe: vogliono solo buon olio extravergine (crudo, versato direttamente sul piatto), sale, erbe aromatiche sbriciolate all’istante (timo, serpillo, santoreggia, rosmarino, ecc.). Vanno accompagnate con pane integrale fatto in casa. In quest’area dell’estremità della Puglia, dalle cicerchie essiccate e macinate si ottiene anche una farina, chiamata in dialetto “patacò”, che può essere usata per preparare polente, crespelle, focacce fritte o al forno. Anche nella Valle del Fino e in quella del Tavo, rispettivamente nelle province di Teramo e di Pescara, si usa ricavare dal nostro legume una farina finissima, che le brave e accorte massaie di una volta, abituate a fare di necessità virtù, mescolavano ad altre farine per ricavarne la “Fracchiata”, che deve il suo nome al verbo latino “frango” (frangere, pestare). La sua storia risale sicuramente a tempi molto lontani; ne fa cenno, in un’opera dei primissimi anni del 1800, anche Berardo Quartapelle, il quale, pur avvertendo che la cicerchia «dà un’alimento agli Uomini di mediocre qualità», scrive: «La sua farina mescolata con quella de’ ceci serve per farne una specie di polenta, ed anche delle fritture, e c.». La miscela poteva prevedere anche farine di altri legumi e di cereali, farro e mais soprat-
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RICETTE DELLA MEMORIA
Orientale, mentre in Italia è seminata solo in piccole aree della Puglia, dell’Umbria, della Toscana, delle Marche, del Molise e dell’Abruzzo; nell’ultima regione è stata rivalutata soprattutto nelle zone più alte dell’Aquilano, in particolare a Castelvecchio Calvisio, dove dal 1979 ha luogo la “Sagra della cicerchia”; un’analoga iniziativa è nata, allo scadere del passato Millennio, a Serra de’ Conti, nell’entroterra anconetano. La ristrettezza delle aree in cui si coltiva ne limita la produzione e, per una legge di mercato, automaticamente il suo prezzo risulta alto, anche 5-7 € al kg; esso è superiore a quello delle lenticchie e degli altri legumi, a differenza di un paio di secoli orsono, quando, nell’Abruzzo Ultra Secondo (L’Aquila), una soma di cicerchia era pagata un ducato e ottanta grani mentre lo stesso quantitativo di lenticchia piccola e di ceci bianchi costava due ducati e grani quaranta; nel passato, il costo di un prodotto era direttamente proporzionale al suo pregio! Come tutti i legumi, la cicerchia ha caratteristiche nutrizionali interessanti, sia per l’elevato contenuto di proteine, vitamine e fibre sia per la scarsa quantità di grassi. Nonostante queste proprietà, però, nell’alimentazione umana non ha riscontrato mai un grande successo per la durezza della buccia ed anche a causa di alcune proteine dannose che contiene; se consumata in grande quantità o ammollata e cotta in modo inadeguato, infatti, produce una sindrome neurotossica, il “latirismo” (dal nome scientifico della cicerchia), che provoca convulsioni e paralisi, negli uomini e negli animali. Per questi motivi, nel corso dei secoli, l’uomo si è nutrito di cicerchia soltanto quando non c’era altro da mangiare; la considerava più una biada per gli animali. A differenza di altri legumi, infatti, essa non compare nella cucina di Apicio, ma non poteva essere altrimenti se si considerano le abitudini alimentari dei ceti sociali a cui erano destinate le sue ricette; questo chiaramente non esclude che fosse consumata, in caso di necessità, dalla parte più povera del popolo romano, come di quello greco, soprattutto da «color che duran fatica», come scrive nel Trattato della agricoltura, pubblicato nel XIII secolo, Piero de’ Crescenzi, il quale racconta anche che «Gli uomini l’usano lesse, e nella torta e nel pane con altre generazioni di biade per le famiglie». Più preciso sul modo di utilizzarla in cucina è Bartolomeo Scappi, nel Cap. CCXXIIII del Quinto Libro della sua monumentale «Opera», il più attendibile testo di gastronomia dell’epoca delle Signorie: egli detta una ricetta «Per fare torta di piselli secchi, e altri legumi (cece, fagiolo, lenta e cicerchia, ndr)». Dopo averli ammollati, si fanno cuocere i legumi e si pestano nel mortaio aggiungendo «per ogni libra d’essi, quattro once d’amandole ambrosine piste con essi, e così passisi per il foratoio, et giungasegli un poco del suo brodo grasso, e quattro once di cipollette battute soffritte, e una manciata di barbuccie battute, et quattro once d’uva passa di Corintho netta, un’oncia di
RICETTE DELLA MEMORIA
tutto. La preparazione è sopravvissuta all’oblio ed è inserita nell’Atlante dei prodotti tipici abruzzesi. Essendo legato alla cultura gastronomica popolare, di questo piatto sono state codificate diverse versioni, riportate nei testi di Rino Faranda, di Luigi Braccili e di altri autori, che si distinguono soprattutto per il condimento; quella più semplice prevede una salsa realizzata soffriggendo nell’olio, rigorosamente di frantoio, aglio e peperoni dolci secchi frantumanti. Le famiglie più benestanti aggiungevano le alici sotto sale, passate nella pastella e fritte; il connubio peperoni fritti e alici sciolte nell’olio era molto usato nella cucina contadina per condire paste o, più semplicemente, per ungere una buona fetta di pane cotto nel forno a legna. Una versione, forse più moderna, sostituisce le alici sotto sale con quelle fresche. Il palato di chi scrive ha avuto la fortuna di gustare la prima versione presso il ristorante “La Bilancia” di Loreto Aprutino, dove Sergio e Antonietta la of-
frono secondo la ricetta tramandata dalla madre e prima ancora dalla nonna e bisnonna, senza le sovrastrutture di ordine cultural-gastronomico di cui fanno sfoggio molti chef stellati nel “rivisitare” le ricette della cucina tradizionale. Piatto cremoso, pieno di sapori e nello stesso tempo delicato; assolutamente delizioso! Con questa ricetta, la sapienza, la pazienza e le mani fatate delle donne di casa hanno fatto il miracolo di trasformare la cicerchia da Cenerentola in Principessa.
La Fracchiata di mamma Angela*
INGREDIENTI PER 8 PERSONE 500 g di farina di legumi (70% di cicerchia, 15% di ceci, 10% di fave e 5% di piselli); 1 decilitro d’olio di frantoio; 3 litri d’acqua; 4 spicchi d’aglio in camicia; 4 foglie di alloro fresco; 100 g circa (la dose più essere aumentata a piacere) di peperoni dolci secchi, chiamati comunemente “farfalloni”, “bastardoni” o guard’in cielo”; 8 fette di pane casereccio tostato e tagliato atocchetti; Sale q.b.
PROCEDIMENTO Riscaldare in una pentola 3 litri d’acqua, facendo attenzione che non giunga a ebollizione; salare. Nel frattempo, scaldare in una padella una parte dell’olio e dare colore all’aglio; aggiungere le foglie d’alloro e una parte dei peperoni frantumati; farli friggere per qualche secondo, avendo cura di non farli bruciare, e versare il tutto nella pentola contenente l’acqua. Iniziare a versare la farina a pioggia, girando in continuazione con un mestolo di legno o una frusta per evitare grumi; aggiustare di sale e mescolare ancora per 40 minuti circa, fino a quando il composto diventa cremoso. Nel frattempo soffriggere la parte restante dei peperoni nell’olio rimasto. Collocare una parte dei crostini di pane tostato sul fondo di un piatto da portata e versarci sopra la Fracchiata. Condire con l’olio e i peperoni fritti, che costituiscono, insieme al resto dei tocchetti di pane, la guarnizione finale. * La ricetta e la foto del piatto sono state gentilmente fornite da Sergio Di Zio, patron del ristorante “La Bilancia” dal 1974.
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