L'ultimo pensiero 1° capitolo

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Capitolo 1 Quando la sera del 9 ottobre del 1963 aspettavo sdraiato sulla branda ancora da rifare, con indosso la mimetica militare e gli anfibi di ordinanza, io già sapevo. Già sapevo, come sapevo di essere stato scelto. Sì, hanno scelto me, Luciano Basso detto Ciano, classe 1942, da Vicenza, Alpino del Settimo Reggimento. Sapevo anche che non avevo tempo né possibilità di scappare. Allora mi sono preparato, con anticipo, con calma: nello zaino ho messo un cambio, la razione di sopravvivenza, la gavetta ed il disinfettante. L’elmetto lucidato, la barba fatta ed un pezzo di cuore da buttare. Il Tonio, quello che dorme nella branda sopra di me, quello che parla bene l’italiano ed ha sempre in tasca un sacco di sghei da spendere, mi ha invitato ad andare in pizzeria stasera. No Tonio, non ci vengo, resto qua. Stasera vien giù il Toc. «Che cosa te dise, mona», mi ha risposto. Non mi crede, lui non crede mai a niente, se non all’ora in cui può andarsene in libera uscita. Dice che ha una morosa bellissima e non può farla aspettare. No Tonio, non ci vengo. Io sto qua, perché non ho altra scelta. Quand’ero bambino, seduto sul muretto di Ponte San Paolo, il mio quartiere, guardavo l’acqua che scorreva docile. Così sono diventato amico dell’acqua, sempre nuova, sempre giovane, che non offende, credevo. Ma stanotte no, ha squarciato tutto e s’è portata via il passato e il futuro. Ora tocca a me, a me che prima del Settimo Regimento guidavo i camion, su e giù dai Monti Berici, portavo l’acqua minerale, quella per la sete. Io ero amico dell’acqua, oggi non più. Mi ha girato le spalle questa sera, senza darmi tempo, né scelta. Ho aspettato, disteso sulla branda, le mani conserte sul cuore che batte forte, come ogni volta, un attimo prima di ogni attesa. Ho aspettato, girandomi la collanina d’oro che mi regalò mia madre il giorno dei miei quindici anni. L’ho sempre martoriata questa catenina, un attimo prima di ogni attesa. Ho aspettato, dando carica alla molla dell’orologio di mio nonno, unica eredità che ho diviso in anticipo. Ho aspettato…ed è arrivato. “Föra, föra!” Fuori tutti, la sirena che ulula. Sono pronto, già da un po’. La caserma Fantuzzi è in centro a Belluno. Bel posto per farci la naja, non come quelli che stanno sulle montagne, dove l’inverno lo passi a spalare la neve e lei vigliacca, non ne vuole sapere di smettere. Mi han mandato negli Alpini. La penna in testa e il freddo nel cuore. Non volevo fare il soldato. Pensavo a mia madre, e le mie braccia servivano a casa, mica qua. Ho fatto mesi su è giù per le montagne, il fucile a tracolla e il mulo da portare. Fuori tutti, e dentro nelle camionette, già pronte, in fila sul piazzale. Non ci dicono nulla, ma io già lo so.


Ci hanno addestrato apposta, mesi. Ci hanno addestrato per la guerra e per l’emergenza. Ci hanno sbalzato tante volte giù dalle brande in piena notte, ma stavolta non è un’esercitazione. Vien giù il Toc, te l’ho detto Tonio. È silenzio incredulo, disorientato. Non ci hanno dato il fucile, ci hanno ordinato di prendere lo zaino, delle pale e delle lampade a carburo. Si è rimesso a piovere, non ha mai smesso, nell’ultima settimana. Già, siamo ad ottobre, il 9 di ottobre, è la stagione. «Ci vorranno quasi due ore per arrivare», ci urla il Capitano Teodori, nel frastuono della colonna delle camionette. Due ore, il tempo tra la branda e l’ignoto, il destino che gli altri non conoscono ancora, ed io invece sì. E quasi non respiro. Volevo essere da un’altra parte, sul Ponte San Paolo, a tirare sassi nel fiume, a stringere Nives, la mia fidanzata e a darle un bacio. Lei è bella sì, ma io non lo dico, non sono il Tonio io. Mi piace parlare piano, a bassa voce e lo lascio agli altri il vanto. Da Belluno c’è una strada, un’unica strada che ti porta verso il Toc. Ci sono stato con i miei commilitoni, una domenica di fine maggio, in libera uscita. Me la ricordo bene: la domenica è l’unica cosa diversa quando sei qua. L’aspetti, se non sei di corvè o hai il turno di guardia. C’era il sole quel giorno, una palla calda, preludio d’estate. Si respira un’aria nuova alla fine di maggio, e pensavo che il maggio prossimo non sarei più stato qui. Sì, perché l’ho promesso a me stesso, quando sono salito sul treno, con in mano la cartolina per fare il soldato. L’ho urlato dal finestrino, sventolando il basco con lo sguardo fisso sulla banchina che si allontana: “Quando torno ti sposo, giuro!” e Nives mi guardava e non sentiva nulla per lo sbuffare del treno. Mi ha seguito con gli occhi fin dove ha potuto, con una mano sulle labbra, mentre con l’altra si asciugava le lacrime. Ci han caricato su questo camion, è così buio che nemmeno riconosco la strada: potrebbero portarmi sulla luna o in un buco d’inferno. Non parla più nessuno, ci han detto di risparmiare il fiato. Gli ordini si rispettano, senza discutere. Due ore, ha detto il capitano, ma potrebbero essere passati due giorni, o due minuti. Arriva l’alt e l’ordine è perentorio: scendere in fretta, adunarsi in plotone ed aspettare il prossimo comando. «Soldati, non sappiamo cosa troveremo. Forse un lago d’acqua, o forse più niente. Siamo Alpini, siamo fatti per scavalcare le montagne e scavarle, se necessario. Siate forti e non abbiate paura». Sono le ultime parole del Capitano Teodori, un uomo che ha fatto la guerra, un uomo venuto dal mare, per rastrellare le montagne. Un paradosso, come paradosso è questa strada irriconoscibile, la strada del maggio passato che ora non esiste più. Ed è buio spettrale su questa terra che improvvisamente sembra diventata di nessuno, un vaso di silenzio interrotto dagli anfibi che pestano l’acqua e dal respiro ansimante di chi va verso l’ignoto. La nuvola di fiato sospende i nostri elmetti nel cielo. Siamo diventati una tartaruga che avanza a passo lento, un rigagnolo di pioggia che cola sul viso a confondere le lacrime. Siate forti e non abbiate paura.


Ci hanno messo in testa una torcia, in mano una lampada a carburo e sulle spalle un badile e uno zaino. Siamo una lucciola che avanza nel pantano, un chiaro che non sa di stelle né di luna, ma è riflusso di pensieri, un calcio nell’anima. Vien giù il toc, nessuno lo sa ancora ed io non mi sono azzardato a dirlo al Teodori. Avrebbero riso gli altri, e il Capitano mi avrebbe zittito all’istante. È un uomo di mare, crede solo a quello che vede. E lui ancora non ha visto.


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