Lost in translations

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Lost in translations a cura di Letizia Rustichelli e Monica Valcavi. Si ringraziano i dirigenti scolastici: Luciano Caselli, Davide Chiappelli, Maria Rosa Ferraroni, e Franco Gallo. Copyright Š degli autori.

Editore Tecnograf Via Fabo Filzi, 34 - 42100 Reggio Emilia www.tecnograf.biz Progetto grafico Francesco Tacchini Isbn




Premessa di Rossella Crisafi, Donatella Bartoli

Il libro che avete in mano è l’ultimo prodotto in ordine di tempo, e il più completo, di un progetto didattico su base triennale, esteso progressivamente da uno a quattro istituti. Il Liceo classico-scientifico “Ariosto – Spallanzani” di Reggio Emilia ha dato vita all’attività nell’anno scolastico 2008/2009 con un ciclo di conferenze sulla letteratura post-coloniale quali “Salman Rushdie” tenuta dalla prof.ssa Silvia Albertazzi, “Peter Weir e la letteratura Australiana” dal professor Matteo Baraldi e sul tema della letteratura come riscrittura della tradizione dal titolo “La riscrittura e la letteratura di genere: mad woman in the attic, analisi di Wide Sargasso Sea di J. Rhys” tenuta dalla prof.ssa Rita Monticelli. In seguito, nell’anno scolastico successivo al ciclo di conferenze tenute dal prof. Franco Nasi, “La traduzione: l’infinito movimento”, dalla prof.ssa Federica Zullo, “Indias abroad: la diaspora indiana in lingua inglese” e dal professor Matteo Campagnoli, “Tradurre Walcott” si è affiancato un workshop di traduzione. Gli studenti hanno tradotto un racconto inedito dell’autrice nigeriana Chimamanda Ngozie Adichie dal titolo “La storica cocciuta”, dedicandosi ad un lavoro che ha permesso loro di sperimentare nuovi modi per applicare concretamente metodi e studi intrapresi nei primi anni di frequenza del liceo. Scopo, obiettivo didattico del lavoro non era il prodotto fine a se stesso, quanto apprendere un “miglior modo di leggere” e verificare l’attualità del


metodo di traduzione, che di solito i ragazzi applicano alle lingue antiche, trasferendolo ad altri contesti: un esercizio di logica, che unisce al sistema del problem solving, la sensibilità letteraria nel cogliere e traghettare all’altra lingua i sottintesi e le sfumature di un testo. Gli studenti hanno messo, così, alla prova le proprie competenze linguistiche in inglese, strumento che la scuola ha offerto loro, una chiave dalle molte possibilità. L’attività del secondo anno di lavoro si è concretizzata nella pubblicazione di un libro dal titolo “La storica cocciuta”, che contiene saggi sulla letteratura postcoloniale, sul significato del “tradurre”, sulla Nigeria e sull’autrice oltre, naturalmente, al racconto in lingua originale e al lavoro degli studenti. Gli insegnanti, sostenuti dall’entusiasmo con il quale gli studenti hanno abbracciato l’iniziativa, e dall’aiuto di studiosi come la Dott.ssa Basso, traduttrice per Einaudi, il Prof. Nasi e altri docenti universitari, hanno deciso di dare un più ampio respiro al progetto, allargandolo a licei di altre province. Dunque si sono associati in rete il liceo classico “Rinaldo Corso” di Correggio, il liceo classico “San Carlo” di Modena ed il Liceo “Da Vinci” di Crema. Ogni scuola ha affrontato la traduzione di uno o più racconti di Chimamanda Ngozie Adichie e ha partecipato ad un ulteriore ciclo di conferenze che si sono svolte tra novembre 2010 e febbraio 2011: “Tradurre Chimamanda Ngozie Adichie” di Susanna Basso, “Il workshop di traduzione come spazio della riscrittura” di Monica Valcavi e Letizia Rustichelli, “La traduzione poetica” di Attilia Lavagno. L’attività in rete si è rivelata una nuova ricchezza per le scuole partecipanti, poichè oltre a confrontarsi con il testo ogni studente ha potuto vedere come coetanei di diverse esperienze hanno affrontato problemi simili. Mantenere la fedeltà al contesto culturale, al livello stilistico, al registro lessicale, alla presenza e resa di vocaboli inesistenti nella nostra lingua, e unire a questa traduzione fedele, a volte apparentemente pedissequa o colloquiale, la capacità di appropriarsi del testo, di suonare insieme ad esso. Oltre a ciò le insegnanti hanno contribuito con le proprie conoscenze ed esperienze ad arricchire il progetto. Anche in questo caso l’attività non è confinata ai banchi della scuola, benchè di più scuole, ma vuole aprirsi ad un pubblico più ampio, presentandosi con l’edizione di questo volume, oltre alla pubblicazione online. In calce al presente volume sono riportate le osservazioni degli studenti; ci rimettiamo alla loro voce e al vostro giudizio di lettori per ottemperare a quel compito di verifica finale dei risultati che ogni progetto didattico impone.



letterature post coloniali 10 26 40 44

English e englishes Monica Valcavi Indias Abroad: scrittori e storie della diaspora indiana di lingua inglese Federica Zullo Nigeria, il contesto letterario Monica Valcavi The Single Story: la narrativa di Chimamanda Ngozi Adichie Letizia Rustichelli

lo spazio della riscrittura 48 52

Invito (cicogne) Elisabetta Grisendi L’Infinito movimento: nota sul tradurre

Franco Nasi

workshop di traduzione 66 76 80 84 90 104

Un’esperienza privata Liceo “Da Vinci” di Crema Chinasa Liceo “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia Capelli Liceo “Ariosto-Spallanzani” Quality Street Liceo “Corso” di Correggio La storica cocciuta Liceo “Ariosto-Spallanzani” Tu in America Liceo “S. Carlo” di Modena

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Il pensiero degli studenti Traduttori Appendice

conclusione Liceo “Ariosto-Spallanzani”


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English e englishes di Monica Valcavi | letterature post coloniali

Nel 1989 tre studiosi australiani, Bill Ashcroft, Gareth Griffiths e Helen Tiffin, pubblicavano quello che ancora oggi è considerato un testo canonico nell’ambito della letteratura postcoloniale, The Empire Writes Back, volume che, unitamente a Colonial and Postcolonial Literature, di Elleke Boehmer del 1995, definisce l’ambito di studio in relazione all’analisi delle letterature postcoloniali. L’indagine degli studiosi australiani introduce il campo di ricerca nell’area anglofona determinando la nascita e lo sviluppo delle letterature postcoloniali come definitiva abrogazione dell’imposizione linguistica del potere imperiale, attraverso un processo opposto di appropriazione che ha permesso ai diversi autori di trasgredire dall’interno delle stesse strutture linguistiche, creando in questo modo nuove forme e nuovi usi della lingua inglese. La forza delle letterature postcoloniali si sprigiona dall’originalità linguistica, rielaborando quella stessa lingua che si riflette nel passato imperiale. La sfida di molti autori postcoloniali si delinea pertanto come la capacità di creare nuove metafore, diversi meccanismi linguistici e originali forme comunicative sfruttando quell’idioma che per secoli è stato simbolo dell’imponente presenza coloniale. Ed è proprio attraverso questa “nuova” lingua, creata dal dinamismo di abrogazione e appropriazione che si sviluppa il discorso sull’identità ibrida e migrante dell’autore postcoloniale. Come evidenziano gli autori di The Empire Writes Back il ruolo della riformulazione linguistica è centrale nelle letterature postcoloniali. Non a


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caso il secondo capitolo del loro volume è interamente dedicato allo studio del processo di rimodulazione della lingua che si verifica nel testo postcoloniale: “Re-placing language: textual strategies in post-colonial writing”. Il dinamismo linguistico dei testi postcoloniali è caratterizzato dall’ambivalenza e dalla tensione tra la lingua ufficiale e quella locale, a loro volta riflesse della polarizzazione coloniale tra centro e margine/periferia, tra la monolitica eredità culturale dell’Impero e l’ibridismo variegato delle colonie. ‘This literature is therefore always written out of the tension between the abrogation of the received English which speaks from the centre, and the act of appropriation which brings it under the influence of a vernacular tongue, the complex of speech habits which characterize the local language (…)’ I La complessità del rapporto tra lingua ufficiale e lingua locale si evidenzia maggiormente a seconda che ci si trovi di fronte ad una variante dell’inglese ufficiale, come ad esempio nei Caraibi, oppure si tratti di comunità bilingue, come l’India, i paesi africani, dove l’inglese standard si identifica come la lingua delle istituzioni e delle transazioni commerciali e – in particolare in epoca coloniale – come idioma dell’autorità centrale imposta esternamente. Le strategie adottate degli scrittori postcoloniali spesso evidenziano la tendenza a polarizzare diverse realtà linguistiche – sottolineando la tensione tra centro e margine, tra potere imperialista e realtà dell’ex-colonizzato – ma, allo stesso tempo, anche ad integrare i due estremi. In molti casi si può assistere ad un adattamento di alcune forme sintattiche della lingua locale a quella inglese o all’inserimento di parole indiane o africane nella frase, oppure all’alternanza di stili e registri linguistici (code switching). In rapporto all’autore, al genere che adotta per la sua espressione artistica, sia esso poesia, narrativa o teatro, gli autori di The Empire Writes Back ne riconoscono la forza culturale nella volontà di rappresentare linguisticamente lo spazio delle colonie. Citando George Lamming II e la sua lingua creola si dimostra come la variante linguistica, articolata in forma letteraria, assuma una forza e una valenza culturale tale da spostare in maniera significativa il concetto di autorità culturale associato al centro. In questo modo le periferie entrano prepotentemente nella cultura, formulando una lingua, che sebbene sia inglese, presenta nuovi meccanismi linguistici, formulati I Bill Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin, The Empire Writes Back, Theory and Practice in Postcolonial Literatures, Routledge, New York, London, 1989, p. 39. II George Lamming è uno dei massimi autori della letteratura caraibica in lingua inglese. E’ nato a Barbados nel 1927 e il suo romanzo In the Castle of My Skin del 1953 è considerato un testo classico della letteratura delle Antille. Ha scritto diversi romanzi trattando spesso il tema dell’esilio e della migrazione (The Emigrants, 1954, The Pleasure of Exile, 1960, Natives of my Person, 1972). Assieme a K. Braithwaite, poeta delle Barbados, Derek Walcott di St. Lucia, Lamming rappresenta una delle più importanti voci della letteratura dei Caraibi anglofoni.


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attraverso i diversi registri e inedite metafore. La rappresentazione letteraria della variante linguistica, secondo quanto si legge in The Empire Writes Back rende problematica, in maniera definitiva, la centralità dell’inglese standard. Sebbene l’inserimento della variante potrebbe apparire, metaforicamente, come l’ingresso della cultura periferica all’interno dell’autorità testuale definita dal canone, la trasformazione artistica e letteraria della variante linguistica resta sempre una parte, o meglio, un interstizio che assume un valore di notevole spessore culturale. Ciò che deve essere considerato in relazione al testo postcoloniale e alla sua lingua, è pertanto la sua specificità, la sua tendenza a rappresentare una realtà locale, che solo come tale deve determinare una diversa percezione della cultura intesa come possibilità di articolare e di rappresentare la differenza. In questa prospettiva, il riferimento al pensiero di Homi Bhabha appare del tutto calzante: ‘The importance of the metaphor/metonymy distinction to post-colonial texts Is also raised by Homi Bhabha. His point is that the perception of the figures of the text as metaphors imposes a universalist reading because metaphors makes no concession to the cultural specificity of the texts. (…) The variance itself becomes the metonym, the part which stands for the whole.’ III Similmente, Elleke Boehmer riconosce l’incisiva forza manipolatrice che riaffiora nella lingua del testo postcoloniale. La scelta di scrivere e pubblicare in inglese non è solo legata alla possibilità di raggiungere un’ampia ricezione di pubblico (come d’altra parte riconobbe lo stesso scrittore nigeriano Chinua Achebe), ma è anche data da una precisa realtà socio-culturale conseguente sia alla colonizzazione sia al processo di decolonizzazione. Scrive infatti Boehmer: ‘(…) the English language itself, shared amongst a varied group of postcolonial nations, is showing signs of its transcultural migrations. English in India, spoken by over 20 million people, coexists and intermingles with regional languages.’ Il consolidarsi di diverse voci, che, seppure in lingua inglese, traboccano di culture e identità diverse, induce a concepire in modo diverso lo spazio della narrazione: disseminato e diasporico. Il critico postcoloniale Homi Bhabha nel saggio, “Dissemination”, individua proprio nell’eterogeneità culturale di questi spazi disseminati e interstiziali, una nuova possibilità di articolazione culturale. Nel saggio in questione Bhabha riflette sul concetto di “nazione” smantellandone l’immagine definita da una prospettiva geopolitica e storicista. L’idea di nazione che propone Bhabha è modulata dalla lingua e dalla percezione di una spazio dinamico liminale e microscopico, un’idea di nazione ibrida e caotica, dove i confini spesso si modificano, si allargano e, contemporaneamente, si annullano. Bhabha parla infatti della forza III

Ibid. p. 51.


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performativa che costruisce la sua idea di nazione, liberata da ogni concetto di potere e autorità. Il “performativo” altro non è che la narrazione, e per spiegare questo concetto il critico non ricorre ad un’autore delle ex colonie, bensì a Goethe e al suo bellissimo libro Viaggio in Italia (Italieniche Reise). L’esperienza del viaggio, della dislocazione – anche se volontaria – e della migrazione si riflette sul linguaggio e su quella che Bhabha, riprendendo Bachtin, definisce “national vision of emergence”.IV Il realismo dello scrittore tedesco riproduce infatti il microcosmo della quotidianità italiana, che “rivela la profondità della storia nel suo spazio, (Lokalität), la spazializzazione del tempo storico” V. Quello che Bhabha ci vuole trasmettere è che il senso dello spazio e della storia possono trasparire dal linguaggio artistico e dalla capacità dell’autore di calarsi in un realtà microcosmica e liminale tale da rappresentare la sua totalità. Questa localizzazione letteraria, sempre secondo Bhabha, crea la vera storia della nazione. Pertanto l’idea di nazione si trasforma nella sua possibilità di essere narrata e articolata in forma artistica e letteraria in realtà spaziali che non sono necessariamente circoscritte e definite da parametri squisitamente geografici e storici. Opponendosi all’idea di uno storicismo statico e predeterminato culturalmente, Bhabha riprende anche l’idea di “comunità immaginate” di Benedict Anderson in cui si storicizza continuamente e dinamicamente la nascita del “segno arbitrario della lingua” (la variante linguistica), e in cui si definisce la potenza narrativa del moderno concetto di nazione.VI In questo senso, la differenza culturale, attraverso la narrazione, entra nello spazio nazionale, sempre diversamente storicizzato e spazializzato; contemporaneamente la variante linguistica è la metonimia che rappresenta il luogo e la storia di coloro che appartengono a tale “diversità”. Questo nuovo concetto di spazio-nazione si coniuga con l’idea di cultura transnazionale a cui faceva riferimento la citazione tratta da Elleke Boehmer. Lo spazio-nazione è transnazionale in quanto i confini debordano in un incontro di culture e voci narranti, e come scrive Silvia Albertazzi, “la nazione viene scritta da quanti ne occupano le zone marginali: donne, immigrati, lavoratori migranti, soggetti coloniali”; VII inoltre, la traccia transculturale e transnazionale della letteratura postcoloniale e della migrazione storicizza la differenza e la visione dell’altro attraverso continui processi di ibridazioni culturali e linguistiche. Un’osmosi che presuppone la perenne negoziazione tra lingue diverse: l’inevitabile passaggio da una lingua IV Homi Bhabha in “DissemiNation”, Nation and Narration, a cura di H. Bhabha, Routldge, London, 1990, p. 294. V

Ibid. p. 294 (citazione tradotta)

VI Ibid. p. 308, il testo a cui fa riferimento Bhabha è Imagined Comunities, Benedict Anderson, Verso, London, 1991. VII

Silvia Albertazzi, Lo sguardo dell’altro, Carocci, Roma, 2000, p. 128.


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all’altra, ovvero un processo traduttivo, continuo, forzato, tale da generare un linguaggio diverso, modulato sulla capacità traduttiva dell’essere migrante e diasporico, il soggetto coloniale, appunto, il traduttore e il tradotto. LA TRADUZIONE COME METAFORA DELLA MIGRAZIONE Tra le più interessanti definizioni del concetto di traduzione nell’ambito della teoria postcoloniale, significativa è quella formulata da Salman Rushdie nel romanzo Shame e nei suoi saggi. Del termine “tradurre”, l’autore osserva e enfatizza l’accezione desunta dal significato di “trasportare”, “condurre”, inglobando il senso del passaggio e della conduzione di un determinato oggetto da un luogo all’altro. Rushdie afferma che il migrante è un uomo tradotto, in quanto “trasportato” culturalmente, oltre che in senso geografico, da un punto all’altro, così come uomini tradotti sono coloro che sono stati colonizzati, e quindi trasportati forzatamente verso l’assimilazione di un cultura diversa. La traduzione è pertanto il trasporto dell’io tra due diversi piani del linguaggio, includendo così non soltanto la lingua ma anche la cultura. Il migrante, o il soggetto colonizzato/ex-colonizzato, vive l’ambivalenza linguistica e culturale data dalla dinamica centro/periferia, agendo all’interno di uno spazio-nazione interstiziale in cui collidono la sua identità locale e quella coloniale. Ed è proprio in questo spazio-nazione, in bilico tra due lingue, costantemente tradotto, che si articola e si autodefinisce la narrazione, ora espressione della differenza e dell’alterità integrata in tale spazio, rappresentata non più come distanza, bensì come parte che compone la totalità delle culture e delle lingue. Lo scrittore migrante riformula la propria identità linguistica e culturale in un luogo narrativo che, metaforicamente, riproduce il mondo ibrido e frammentato del migrante, spazio-nazione o patria “immaginaria”. Osserva infatti Salaman Rusdhie: ‘It may be that writers in my position, exiles or emigrants or expatriates, are haunted by some sense of loss, some urge to reclaim, to look back, even at the risk of being mutated into pillars of salt. (…) that we will, in short, create fictions, not actual cities or villages, but invisible ones, imaginary homelands, Indias of the mind.’ VIII Il pensiero di Rushdie permette di comprendere il processo di abrogazione/ appropriazione linguistica di cui si accennava all’inizio. La realtà è infatti necessariamente rielaborata, in quanto la memoria agisce sulle immagini (“Indie della mente”) e sulla capacità di formularne nuove attraverso un diverso linguaggio. La lingua dell’artista rinomina in maniera del tutto inedita il suo spazio, sia esso la metropoli dell’ex madrepatria o il suo spazio nativo, percepito in maniera “indipendente” senza più la presenza dell’autorità coloniale. Così accade per Rushdie in Midnight’s Children dove la lingua inglese VIII Salman Rushdie, "Imaginary Homelands", Essays and Criticism, 1981-1991, Penguin Book, London, 1991, p. 10.


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si dilata in un groviglio di periodi interminabili e intricati, in un complesso narrativo che colora di elementi magici e soprannaturali la ricostruzione storica dell’indipendenza indiana. Così l’intreccio barocco della lingua e della narrativa di Rushdie contaminano il paesaggio della capitale britannica in The Satanic Verses, metafora della trasformazione del migrante in terra inglese, ma anche del cambiamento dello stesso concetto di cultura British. ‘The Satanic Verses celebrates hybridity, impurity, intermingling, the transformation that comes of new and unexpected combinations of human beings, cultures, ideas, politics, movies and songs. It rejoices in mongrelization and fears of absolutism of the Pure. Mélange, hotchpotch, a bit of this and of that is how newness enters the world.’ IX La necessità di rinominare – e quindi tradurre – le peculiarità ibride del proprio ambiente, adottando nuove metafore è una costante di molti grandi autori postcoloniali. Abandoning Dead Metaphors è il titolo di un saggio dedicato al poeta caraibico, premio Nobel, Derek Walcott X. L’autrice, Patricia Ismond, analizzando i versi di The Castaway sottolinea la forza trasgressiva della lingua data dalla capacità dell’autore di riformulare poeticamente la percezione della prepotente bellezza del paesaggio caraibico: ‘God-like, annihilating godhead, art And self, I abandon Dead metaphors…’ Per Walcott, il ruolo del poeta è quello di elaborare una nuova percezione dello spazio dell’isola nativa, manipolando la mitica figura del naufrago Crusoe, prototipo del colonizzatore europeo, ma anche di un nuovo Adamo che rinomina l’ambiente che lo circonda. La poesia deve fare udire e fare visualizzare la magia del paesaggio dei Caraibi, resa unica dalla sua luce, dal suono e dal colore del mare, dai toni accecanti e crepuscolari del cielo. La poesia diventa lo strumento per tradurre il fascino scolpito nella bellezza sublime dell’isola e per esprimere la visione estatica della purezza dei Tropici. Tuttavia Walcott, come Rushdie, è ben lungi dall’essere un autore romantico. La traduzione in versi del suo mondo ne riflette l’incanto ma anche la IX Imaginary Homelands, op. cit. p. 394. Qui Rusdhie cita Homi Bhabha, l’espressione “honewness enters the world”, altro non è che il titolo di un saggio di Bahbha in The Location of Culture, dove lo studioso, sempre esaminando il rapporto tra spazio e cultura, analizza il linguaggio poetico di Derek Walcott e la sua forza trasformatrice e trasgressiva data proprio da quel “mongrelismo” di cui parla Rushdie. A tale proposito si rimanda anche alla lettura del poema di Derek Walcott Tiepolo’s Hound, celebrazione di tale concetto di “mongrelismo” culturale e linguistico. X Patricia Ismond, "Abandoning Dead Metaphors", The Caribbean Phase of Derek Walcott’s Poetry, University of the West Indies Press, Kingston, 2001.


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sofferenza, la cicatrice storica, il marchio della colonizzazione. Il mare dei Caraibi è, come scrive nella poesia The Sea is History, il luogo che nasconde la storia sommersa del popolo caraibico, la tragedia del Middle Passage e il dramma dello schiavismo. ‘Where are your monuments, your battles, martyrs? Where is your tribal memory? Sirs, in that gray vault. The sea. The sea has locked them up. The sea is History.’ Il nuovo linguaggio poetico e narrativo degli autori postcoloniali è pertanto il mezzo per tradurre e trasportare il significato di un’esistenza sommersa, il suono di una voce mai udita, il senso di una vita migrante la quale ritrova parte della propria identità proprio in quella lingua ibrida, e nella sua possibilità di essere tradotta. LA TRADUZIONE COME METAFORA DELLA MEMORIA Una caratteristica che accomuna buona parte delle opere postcoloniali è ossessiva presenza del ricordo, memoria personale o sociale. Nel tessuto tematico del testo postcoloniale emerge l’urgenza di riscrivere la storia per tradurre il senso di ciò che è stato rimosso dal processo di colonizzazione. Osservano a questo proposito Ashcroft, Griffiths e Tiffin: ‘The seizing of the means of communication and the liberation of post-colonial writing by the appropriation of the written word become crucial features of the process of selfassertion and of the ability to reconstruct the world as un unfolding historical process.’ XI Nel saggio The Muse of History di Derek Walcott, l’autore elabora l’idea di una storia mitica tradotta dalla voce del poeta viandante che porta dentro di sé tutte le culture e di conseguenza tutte le lingue.XII In questo modo l’arte della parola si rafforza della sua capacità di trasportare e di diffondere la voce di chi non è mai stato ascoltato, di colui al quale, come al Friday di CoetzeeXIII, è stata negata la possibilità di articolare la propria identità, di chi si è visto cancellare la propria storia e quella del proprio popolo. Il poeta e lo scrittore postcoloniali sono quindi traduttori, i traduttori a loro volta creatori di nuove XI

The Empire Writes Back, op. cit. p. 82.

XII Derek Walcott, The Muse of History in Critics on the Caribbean Literature, a cura di Edward Baugh, George & Allen Unwind, London, 1978. XIII J.M. Coetzee è lo scrittore sudafricano, noto autore di grandi opere della letteratura postcoloniale del Sud Africa, tra cui Waiting for the Barbarians e la riscrittura di Robinson Crusoe, Foe. Opera di fondamentale importanza per le implicazioni postmoderne oltre che postcoloniali, in cui l’autore immagina un Friday completamente assoggettato all’uomo bianco e al meccanismo dello schiavismo. Figura simbolo della sofferenza della colonizzazione e dell’abnegazione forzata della propria identità, Friday è completamente muto, in quanto gli è stata tagliata la lingua da un mercante di schiavi.


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storie. Il romanzo/documento autobiografico di Daud Hari, sudanese, si prefigge questo scopo. The Translator è l’autore stesso che vaga nel Darfur e, accogliendo dentro di sé le storie dei pastori tribali della sua terra, le traduce con l’intento di denunciare le atrocità perpetrate al suo popolo, coro di voci tragiche il cui orribile destino è stato per anni avvolto dal silenzio. La voce di quel popolo, la sua sofferenza penetrano nella storia e nel mondo grazie al suo traduttore, simulacro di un sacro protettore della sua memoria. Rivolgendosi prima a Dio, a cui consegna la sua opera come un’offerta, e al proprio lettore, il traduttore si affida alla volontà divina e ringrazia coloro che leggeranno le sue parole, come in un patto di fede, accettando di percorrere un cammino, lungo e difficile, nella memoria del popolo del Darfur, nella ricostruzione della loro storia mai raccontata e mai ascoltata prima d’ora. ‘Ecco, Signore, ora con il mio cuore io sono lassù, e lascio questo libro sulla montagna come offerta. E Ti invoco con tutti i Tuoi Nomi e prego la nostra Madre Terra e tutti i profeti e gli uomini e le donne dotate di saggezza e gli spiriti del Cielo e della Terra di aiutarci ora nel momento del bisogno. Quanto a te, amico mio, mio lettore, ti ringrazio per avere intrapreso questo viaggio: è una storia dura, ma vi troverai cose che ti sorprenderanno e ti renderanno felice di avere camminato insieme a me.’ XIV In questo modo la scrittura, come traduzione della sofferenza, si carica di una forza mitica e sacrale, che avvolge anche chi legge. L’arma di Dauod come egli stesso scrive, è la lingua, la sua capacità di mediare tra un documentarista inglese e i ribelli del Darfur. Nel 2006, durante queste missioni fu catturato, imprigionato, torturato e più volte sul punto di essere fucilato. Il suo umile contrattacco si è rivelato nell’instancabile fiducia nella parola, nel dialogo e nella conoscenza della lingua inglese che gli ha permesso di urlare al mondo le tragiche conseguenze della politica sudanese di Bashir. La scrittura postcoloniale è quindi denuncia, ricostruzione della memoria sociale e di una storia mai raccontata. Per questo molto spesso la scrittura postcoloniale è anche traduzione di un’identità ibrida, frammentata, modulata dal caotico incontro/scontro di culture e lingue. LA TRADUZIONE COME METAFORA DELL’IDENTITÀ James Joyce, terminando il suo romanzo autobiografico A Portrait of the Artist as a Young Man, dichiarò attraverso il ben noto “non serviam”, di volere abbandonare definitivamente la sua patria, la sua famiglia e la sua religione; decisione dettata dal desiderio di evadere dalla soffocante paralisi XIV Daoud Hari, Il traduttore del silenzio, Piemme, Milano, 2009, p. 8. Traduzione italiana di The Translator.


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del mondo dublinese e da un provincialismo culturale, che, a suo avviso, non gli avrebbero mai permesso di esprimere la sua arte, e con ciò di trasformare il suo linguaggio artistico in maniera esemplare. L’esilio che si impose lo condusse a creare una forma narrativa rivoluzionaria e unica e ciò fu reso possibile solo dall’incontro/scontro tra il suo indelebile background irlandese e la traccia mitteleuropea incisa dalla migrazione. Joyce non abbandonò mai veramente l’Irlanda, sempre con lui sia attraverso la presenza dell’affascinante Nora Barnacle, ma anche attraverso quella “patria immaginaria” che delimita lo spazio narrativo dei suoi capolavori. Così infatti la lettura dei racconti in The Dubliners e le pagine di Ulysses conducono il lettore attraverso i paesaggi urbani dell’ambiente nativo dello scrittore irlandese. La distanza dalla città amata e odiata allo stesso tempo, gli ha permesso di tradurne la sua essenza, ovvero la percezione di una Dublino marchiata da un inquietante immobilismo politico e culturale e da un’inesorabile assenza di una qualsiasi traccia eroica che infesta l’individuo moderno, per sempre trasformato da un crollo totale di valori e certezze. Tuttavia, anche se è eternamente Dublino che solca la mente dello scrittore irlandese, la sua identità e la sua lingua, non si può dimenticare la presenza di Trieste, altra città che ebbe su Joyce l’energia di trasformare la sua interiorità di uomo e artista. Pochi conoscono il testo in prosa Giacomo Joyce, enigmatico scritto costruito interamente sullo sfondo triestino, dove si narra di un giovane insegnante d’inglese coinvolto in una relazione amorosa con una studentessa. Tutto il testo trasuda di elementi triestini: l’irredentismo, il marchio dell’ebraismo, il paesaggio, i colori, le donne, come afferma Schneider, studioso ed esperto degli scritti joyceiani.XV Il breve racconto, la cui data di stesura resta incerta tra il 1912 e il 1914, ritrae, in una prospettiva autobiografica, un uomo che ha reso Trieste la sua seconda patria, luogo di opportunità professionali ma anche sentimentali. L’opera è la traduzione di una nuova identità trasformatasi attraverso l’incontro con uno nuovo spazio urbano. La doppiezza che cela lo scrittore, in bilico tra due identità, è già racchiusa nel nome: Giacomo, l’uomo “tradotto”, trasformato e pronto a lanciarsi in un’avventura morbosa con una donna triestina, e Joyce il cognome irlandese, che rimanda all’altra identità di padre di famiglia e devoto compagno di Nora. La presenza della cultura triestina è inoltre documentata dalla scelta di tradurre parte del proprio nome, titolo dell’opera, così come nella vita reale, lo scrittore decise di chiamare i propri figli con nomi italiani: Giorgio e Lucia. Come osserva Marsan in “Giacomo Joyce” or James Joyce in Trieste, la lingua italiana e

XV Erik Schneider, Joyce attraverso lo specchio: Trieste & Giacomo Joyce in R. S. Crivelli e John McCourt, Le donne di Giacomo, Hammerle Editori, Trieste, 1999.


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la variante del dialetto triestino erano comunemente usati in casa Joyce.XVI La traduzione, nel quotidiano e nel letterario, conferma la trasformazione identitaria dello scrittore irlandese, la volontà di assorbire ed esprimere i due mondi a cui apparteneva contemporaneamente: quello dublinese e quello triestino, fusi in quello spazio, unico e mitico, che fa da sfondo anche al peregrinare di Bloom in Ulysses. Riscrivere la propria identità, ritradurla in un contesto di ibridazione linguistica e culturale, riformularne la peculiarità linguistica in bilico tra due o più mondi di appartenenza, esemplificativa di una condizione esistenziale transitoria è quanto si cela ed emerge nella magnetica e affascinante narrativa di autori “migrant” anglofoni di seconda o terza generazione, tra cui non possono non comparire nomi come Zadie Smith, Hanif Kureishi e Jumpha Lahiri. Accomunati da una traccia diasporica inscritta nel loro linguaggio e nelle loro storie, queste voci non nascondono mai le loro origini. Al contrario, la loro narrativa trasforma e traduce il loro spazio ampliandone e rimodellandone i confini. Kureishi in The Buddha of Suburbia dipinge una Londra multiculturale e ibrida dove la britishness del protagonista si fonda sulla completa integrazione tra la matrice britannica (la madre) e quella indiana (il padre). In White Teeth, Smith ritrae il crogiuolo culturale della metropoli londinese attraverso il nuovo trend che induce genitori britannici a battezzare i propri figli con nomi di altre culture e di altri luoghi e nel caotico intreccio di rapporti affettivi e familiari in cui collidono lo spazio caraibico, l’indiano e quello londinese. I protagonisti delle sorprendenti storie di Jumpha Lahiri sono quasi tutti americani di origine bengalese, le cui esistenze si modulano come il movimento ondeggiante del mare, in un gioco chiaroscurale di ricordi, reminescenze ataviche, incontri casuali di persone conosciute nell’infanzia, suoni e voci di una terra lontana che ritorna e risucchia la vita stessa; così accade, ad esempio, nel racconto Going Ashore, che chiude la raccolta Unaccostumed Earth, dove la giovane protagonista americana, studiosa di lettere antiche, solo alla fine si rende conto di amare profondamente un giovane indiano di Bombay, naturalizzato americano, conosciuto durante l’adolescenza. Mentre capisce che è con lui che vorrebbe vivere per tutta la vita, un infame destino glielo sottrae, conducendo l’uomo in una dimensione ultraterrena, verso la madre morta prematuramente. Tuttavia la colpa non è solo del fato, bensì di scelte sbagliate e da parametri d’identità confusi. Da un lato Hema resta imprigionata nella scelta di sposarsi in India con un uomo che conosce appena, dall’altro Kaushik, fotoreporter di zone di guerra, trascorre una vacanza a Pukhet, forse per dimenticare quell’amore cancellato da falsi valori. Annullato dalla potenza malvagia XVI Giorgio Marsan, “Giacomo Joyce or James Joyce in Trieste”, Englishes, Letterature inglesi contemporanee, no. 27, 2005, pp. 83-93.


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dello tsunami, Kaushik resta per Hema, che apprende la notizia del disastro naturale il giorno del suo matrimonio, un desiderio lontano, un ineffabile e inafferrabile Streben, verso un’identità sommersa e misteriosa. La traduzione della propria identità nel caos di questo spazio narrativo, simbolo del caos esistenziale, concorre tuttavia a disciplinare la frustrazione e la rabbia di chi fatica a riconoscere a quale cultura appartiene. ‘...forse la più grande rabbia e la più grande frustrazione derivano invece dalla sensazione di non appartenere a nessuna cultura perché sei lacerato tra culture diverse, tra simboli incompatibili. Come puoi esistere se non sai dove sei, se devi accogliere nello stesso tempo la cultura dei pescatori thailandesi e quella dell’alta borghesia parigina, quella dei figli di immigrati e quella dei membri di una vecchia nazione conservatrice? Allora bruci le macchine, perché non appartieni a nessuna cultura.’ XVII La citazione dal libro di Muriel Barbery, attraverso le profonde riflessioni della piccola Paloma, permette di individuare nella scrittura (celebrata nel testo in senso metalinguistico anche come fuga dalla morte e ricerca del sublime), la volontà di creare un luogo narrativo che esemplifichi il caos-mondo, che disciplini l’incongruenza delle culture, la sofferenza che scaturisce dal sentirsi diverso, la frustrazione di chi non si sente adeguato. Ma è proprio l’accettazione di questo mondo caotico, in cui è possibile incrociarsi, unirsi, relazionarsi e conoscersi, che genera, secondo la visione del filosofo martinicano Edouard Glissant, la profonda consapevolezza di appartenere al tutto e quanto tutto possa essere meraviglioso nell’accattivante dimensione del caos-mondo: ‘Credo che ci sia una solidarietà di tutte le lingue del mondo e che ciò che crea la bellezza del caos-mondo è questo incontro, sono questi scoppi, queste esplosioni di cui non siamo ancora riusciti a capire né l’economia, né i principi.(…) ciò che io chiamo caos-mondo, questo incontro conflittuale e magnifico delle lingue(…) di cui, ripeto, non abbiamo neanche cominciato a cogliere realmente l’immaginario o a capire i principi.’ XVIII Glissant ci parla di un mondo basato sulla relazione, sulla reciprocità, sulla conoscenza dell’altro e sulla sua integrazione. Un mondo dove l’identità si crea nella relazione e non attraverso il possesso del territorio e la proprietà. La traduzione dell’essere migrante, della storia mai narrata e dell’identità lacerata si sprigiona dalla volontà di esprimere la differenza culturale e la XVII Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, Roma 2007, p. 251, traduzione italiana di L’élégance di hérisson, Gallimard, Parigi, 2006. XVIII Edouard Glissant, Poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998, p. 87, traduzione italiana di Introduction à une poétique du different, Gallimard, Parigi, 1996.


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faticosa comprensione della dimensione dell’altro, generando un’energia di voci e culture che si incontrano in un mondo caotico e relazionale. LA TRADUZIONE DELLA CULTURA Ciò che emerge da quanto analizzato fino ad ora è la forza traduttiva delle letterature postcoloniali, intesa come la volontà di riformulare attraverso un linguaggio diverso – la variante linguistica – uno spazio identitario mai articolato prima, in sintesi come la possibilità di dare voce a tutte le minoranze, a tutti coloro che compongono gli spazi liminali di un mondo globalizzato e multiculturale. Ciò non ha mai significato annullare le specificità e le differenze culturali, bensì ciò ha significato articolarle, narrarle, e con ciò ascoltarle e conoscerle. Questo è il primo passo verso un’antropologia della reciprocità che si basa sul dialogo e sulla relazione. La traduzione è pertanto un potente mezzo di conoscenza, uno strumento che permette la relazione e il dialogo interculturale. La traduzione della cultura è un altro grande contributo delle letterature postcoloniali, che da una lato hanno tradotto la condizione esistenziale del migrante attraverso un riposizionamento linguistico, e dall’altro hanno contribuito a diffondere e fare conoscere culture diverse che coesistono in più luoghi. Come osserva Peeter Torop il concetto di cultura è strettamente legato al processo di traduzione. ‘Culture operates largely through translational activity, since only by the inclusion of new texts into culture can the culture undergo innovation as well as perceive its specificity. After the expansion of postcolonial and the related field of gender studies into translation studies, the borderline between culture studies and translation studies has become fuzzier, yet at the same time there has emerged a visible complementarity.’ XIX Definendo così da un lato l’interesse dei cultural studies nella genesi dell’identità culturale, Torop analizza I vari segmenti nella prassi traduttiva individuati dalla scienza della traduttologia: interlinguistica, intralinguistica e intersemiotica, tra l’altro basata sulla distinzione approntata dal linguista Jakobson. Il punto d’incontro che Torop individua tra la traduzione e la cultura – sia nell’ambito semiotico che in quello dei cultural studies – non è tanto la semiotica della cultura, ovvero la formazione dei processi comunicativi in dati contesti culturali, bensì la realtà del linguaggio di un dato testo, la sua lingua come passaggio e formazione di cultura.

XIX

Peeter Torop, “Translation as Translating as Culture”, Sign System, 30.2. 2002


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‘Culture has its own sign system or languages on the basis of which the members of the culture communicate. Thus, one possibility to understand a culture is to learn the languages of the culture, the sign systems operating within the culture.’ La traduzione, in questo senso, progredisce sempre di più verso l’apertura e la creazione di nuovi spazi culturali, modificando le prospettive della cultura del testo che è la fonte della traduzione. Considerando le riscritture un particolare tipo di traduzione, (interlinguistica o intersemiotica) l’esempio di The Odyssey, A Stage Version di Derek Walcott si offre come tra i più semplici e significativi. L’autore caraibico, già abituato a “tradurre” il testo omerico come ha dimostrato con Omeros, ha optato per una scelta intersemiotica dell’epica greca, spettacolarizzando il testo poetico. Ammettendo che lo stesso percorso è stato scelto anche da Joyce nel suo romanzo Ulysses, lo scopo non è solo un’ulteriore versione della manipolazione del mito di Ulisse, bensì quello di tradurre la cultura di un dato luogo per appropriarsene. Come la lingua inglese si è decolonizzata, sfaldandosi in varianti metonimiche, così la “cultura ufficiale” si frantuma in voci e spazi disseminati. Il valoroso Ulisse omerico si traduce nell’ordinary man dublinese, mentre dalla penna di Walcott ne esce un viaggiatore caraibico, alter ego dell’autore, la cui identità si plasma nell’incontro con la gente e i paesaggi del suo continuo peregrinare. Pur rispettando la dinamica dell’intreccio, oscillando tra le implicazioni dell’essere un “onesto traduttore”, Walcott lo manipola nelle sfumature linguistiche, dense di rimandi alla tradizione orale Anansi delle Antille, oppure nei numerosi riferimenti autobiografici che si celano negli episodi di Tiresia, nel ritorno a casa di Ulisse, o, infine, nell’inserimento di figure tipicamente caraibiche, come il cantastorie cieco Billy Blue, a sua volta, reminiscenza di Omero. Buona parte del teatro di Walcott può apparire come una maestosa traduzione, intesa come riscrittura, di grandi autori occidentali, da Shakespeare, Marlowe a Tirso de Molina e Daniel Defoe. La sua traduzione è in questo caso l’appropriazione e la manipolazione della cultura coloniale, rimodellata in terra caraibica, la creazione di uno spazio interculturale che celebra l’incontro di diverse tradizioni: quella occidentale e quella caraibica. Il caso Walcott permette di tracciare un vero e proprio filo conduttore tra i postcolonial e i translation studies, come dimostrano, in ambito teorico, i volumi di Susan Bassnett Constructing Cultures e Postcolonial Translation: Theory and Practice. In quest’ultimo Bassnett cita il pensiero di Octavio Paz, relativo alla traduzione come metodo per comprendere la cultura di tutto il mondo.


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‘Octavio Paz claims that translation is the principal means we have to understand the world we live in. The world, he says, is presented to us as a growing heap of texts.’ XX L’autrice sottolinea come il pensiero di Octavio Paz individui nella scrittura creativa la tendenza a riformulare testi del passato, a tradurli in nuove forme e varianti linguistiche e come la traduzione sia un mezzo di conoscenza ma anche di innovazione e creazione. La traduzione postcoloniale diventa pertanto una creazione, la scultura linguistica di un nuovo testo. Tradurre, come sostiene Franco Nasi, non è un’operazione neutra, un semplice transito da una lingua all’altra, sterile e vuoto: ‘Il traduttore letterario interviene nella struttura del tessuto, studia i modi in cui i fili sono intrecciati, prova a ricostruire la trama e l’ordito servendosi di altri fili. La sua operazione non è mai neutra (…) Il traduttore si mette in gioco con la propria poetica e interviene attivamente nel processo di formulazione del nuovo testo attualizzandolo.’ XXI Il testo di Bassnett esplora la letteratura postcoloniale come trasformazione della differenza culturale attraverso il linguaggio. In Constructing Cultures ci si pone immediatamente nella prospettiva definita da Torop, all’interno del meccanismo di creazione/trasformazione culturale attraverso la traduzione. Bassnett si interroga sull’evoluzione degli studi di traduttologia, in particolare rilevandone l’attuale articolazione e lo sfaldamento della scienza della traduzione verso altri campi di ricerca. Infatti, tradurre oggi non significa la ricerca dell’equivalenza linguistica, bensì la volontà di creare un testo che nella lingua d’arrivo trasmetta il valore culturale del testo originale. Susan Bassnett cita il metodo di San Gerolamo, primo traduttore della Bibbia dal greco al latino (la Vulgata). Grande studioso e conoscitore sia della lingua greca che di quella latina, San Girolamo affermò con la sua prassi traduttiva verteva non tanto la ricerca del termine equivalente, bensì del senso globale della frase: ‘Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’uno contro l’altro [...]. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell’Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto: “Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele.”’ (Epistulae 57, 5, trad. R. Palla) XX 1999, p. 3.

Susan Bassnett, Harish Trivedi Post-colonial Translation: Theory and practice, Routledge, London,

XXI

Franco Nasi, Poetiche in transito, Medusa, Milano, 2004, p. 18, p. 22.


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Sebbene il criterio dell’equivalenza resti centrale nella traduzione della Bibbia, come sottolinea Bassnett, l’affermazione di San Girolamo individua una prassi mediatrice che tende a rendere più problematica la funzione del traduttore “fedele”. Analizzando, successivamente, il metodo impostato dal poeta latino Orazio, in realtà antecedente a quello di San Girolamo, Bassnett considera l’importanza socio-culturale della lingua latina e, conseguentemente, la tendenza ad omologare la differenza attraverso la traduzione. Effettivamente non si può negare il ruolo del latino come “lingua franca” nelle zone del Mediterraneo, durante gli ultimi secoli del periodo repubblicano, molto simile a quello dell’inglese da ormai più di mezzo secolo.XXII La prassi traduttiva verso la lingua latina, secondo l’interpretazione del metodo di Orazio, è quindi un addomesticamento delle lingue appartenenti a culture diverse da quelle del mondo classico. Più o meno è ciò che è avvenuto con le traduzioni verso la lingua inglese di testi scritti in paesi in via di sviluppo.XXIII L’urgenza di trasmettere quello che Bassnett definisce il “capitale culturale” del testo tradotto si pone già nell’Ottocento con il filosofo tedesco Friedrich Schleirmacher, il quale affermava la necessità di trasmettere la specificità locale e linguistica nella traduzione.XXIV L’attenzione e il rispetto della peculiarità culturale che emerge dalla griglia testuale è un elemento fondamentale dell’odierna pratica traduttiva. ‘We also need to learn more about the texts that constitutes the cultural capital of other civilizations in a way it preserves at least part of their own nature.’ XXV Questo non è tanto un punto d’arrivo dei translation studies, bensì la constatazione che non ci può essere traduzione testuale senza quella culturale; ciò è forse uno dei tanti punti di partenza che presuppone la necessaria riflessione e conoscenza della cultura che precede ed integra la traduzione. La traduzione dei testi postcoloniali si pone come continua sfida per i traduttori, i quali sono costretti a relazionarsi a diverse culture allo scopo di riformulare e rivedere gli stessi canoni traduttivi. In un mondo caotico, in un magma esplosivo di lingue e culture che annulla completamente il concetto di autorità culturale, il traduttore di opere postcoloniali dovrebbe “ascoltare” la voce che per secoli è stata sommersa, avvertire l’ibridismo dell’identità e scoprire la traduzione che vibra dalle parole da “ri-tradurre”. Più che mai il traduttore di storie di scrittori provenienti dalle ex-colonie, come la Nigeria e quindi come quelle della giovane scrittrice Chimamanda Ngozie Adichie, XXII

Susan Bassnett, André Lefevere, Essays on Literary Translation, p. 4.

XXIII

Ibid. p. 4.

XXIV

Ibid. p. 8.

XXV

Ibid. p. 11.


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deve capire le ragioni delle scelte linguistiche, le connessioni interculturali che si sottendono nella lingua, la forza della variante linguistica e, con ciò, la necessità di farla udire al pubblico che legge, in modo tale da, come afferma sempre Susan Bassnett, condurlo verso il testo stesso, allo scopo di renderlo parte anche del suo mondo, sempre piÚ multiculturale, frammentato e caotico.


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Indias Abroad: scrittori e storie della diaspora indiana di Federica Zullo | letterature post coloniali

IDEE DELL’INDIA, EREDITA’ COLONIALE E MIGRAZIONI In principio leggevamo l’India esotica e favolosa immaginata dai narratori europei. Oggi, a sessant’anni dall’indipendenza, ecco quella raccontata dalle scrittrici e dagli scrittori indiani. Rushdie e gli altri: tante voci diverse, tante storie intrecciate e un unico miraggio, trovare una lingua comune. In origine, per noi occidentali, è un universo di favola e sogno: sete preziose intessute di fili dorati e corpi di donne avvolti da profumi e gioielli; maharaja di immense ricchezze e scenografiche tigri congelate nell’atto di aggredire, sullo sfondo di foreste improbabili e lussureggianti; e poi palazzi dalle mura tempestate di gemme, come quel Taj Mahal che risplende nel buio durante le notti di luna piena: è su questa India, parziale nel segno dell’eccesso, scaturita dalla penna dei narratori europei, che si disegna, già a partire dal secolo scorso, l’immaginario occidentale su un mondo che a noi arriva non come frutto di testimonianze dirette ma della fantasia letteraria degli europei. Per l’India – ma questo vale per l’Africa come per il mondo arabo – la proiezione fantastica si porge al posto dell’oggetto reale, l’Orientalismo (come recita il titolo di un famoso saggio di Edward W. Said) come surrogato di un irraggiungibile Oriente. Salgari accanto a Kipling, Gide e E. M. Forster, ma anche a Orwell e Aldous Huxley. Più tardi, nel cuore degli anni Sessanta e Settanta, quello stesso mondo si fa meta di viaggio, anzi del viaggio, di iniziazione spirituale e conoscenza.


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È l’Oriente eletto a meta di un moderno Grand Tour, universo da cui trarre energia, in cui ritrovare se stessi, ritemprandosi fra gli incensi degli ashram per poi tornare, come nuovi, a casa propria. Infine l’India che affascina intellettuali fra loro diversi, come Mircea Eliade e Hermann Hesse, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia o Giorgio Manganelli, che di quell’incontro, spesso prolungato nel tempo come nel caso di Eliade, ci restituiscono opere a metà fra reportage e narrativa, tra filosofia e saggistica, opere che già a partire dai titoli non fanno mistero circa l’intensità dell’esperienza vissuta: La biblioteca del maharaja, Il pellegrinaggio in Oriente, L’odore dell’India, Un’idea dell’India, Esperimento con l’India. Per parte sua, intanto, quel mondo sembrava tacere, offrendosi muto, poverissimo e splendente a un tempo, agli occhi dei suoi interpreti fantasiosi. Ma questo muto non lo era affatto; esempi di narrativa indoinglese esistevano già dalla metà del diciannovesimo scorso, mentre fin dagli anni Trenta del Novecento si era formata una generazione di scrittori che da vari angoli del subcontinente indiano avevano cominciato a scrivere romanzi, nelle numerose lingue locali e in inglese, lingua odiata e amata, emblema del colonialismo ma anche veicolo di comunicazione, la cui diffusione ne aveva fatto uno strumento più agevole rispetto alle diciotto lingue “ufficiali” e alle centinaia di altre lingue e dialetti del subcontinente. E proprio in inglese l’India parlava di sé, ponendo in una forma narrativa che molto doveva alla ricchezza dell’oralità, le mille e mille storie che affondano le radici in una mitologia ricchissima e complessa, rintracciabile nelle grandi epiche del Mahabharata e del Ramayana, per non citare che le più famose, e che da lì si dipartono come i rami di un albero, per intrecciarsi a una realtà fatta anche di lotte politiche e di endemiche povertà, di un sistema di caste che non accenna a indebolirsi, come ad antichi e spesso violenti rituali rivolti verso i più deboli, prime fra tutte le donne. Dalla metà del diciannovesimo secolo scrittori, intellettuali, politici e viaggiatori provenienti dal subcontinente indiano iniziano a raccontare e a descrivere il loro rapporto con l’Occidente, in particolare con la Gran Bretagna, potenza imperiale e colonizzatrice, facendo uso dell’inglese. La figura dell’intellettuale riformatore Ram Mohan Roy (1772 circa – 1833) rivela in modo esemplare lo stretto legame che venne ad instaurarsi fra la lingua dell’Impero e il suo apparato culturale e le istituzioni indiane che la assorbirono, la fecero propria, esaltandone il carattere internazionale e le possibilità di grande apertura verso l’esterno. Roy, un brahmano figlio dell’aristocrazia terriera bengalese che ricevette un’educazione basata sulla lingua e la cultura araba, sulle Upanishad lette in persiano e sull’apprendimento del sanscrito, divenne funzionario della Compagnia delle Indie Orientali e si impadronì completamente della lingua e cultura britannica, conquistandosi


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l’appellativo di “padre dell’India moderna”. Roy si impegnò in un’accesa critica ai costumi sociali indiani dell’epoca e alle pratiche della religione. I suoi insegnamenti furono il punto di partenza per una tradizione indiana illuminata, basata sul principio della ragione, un criterio di riferimento ultimo, svincolato dal principio dell’autorità e parte integrante delle riflessioni dei filosofi, politici e letterati che seguirono la sua lezione. La lingua prescelta dal grande riformatore per la vasta produzione culturale che lo caratterizzò fu appunto l’inglese, in sostituzione del persiano che non poteva più considerarsi la lingua degli scambi e delle relazioni. Roy definì la lingua prescelta come il regalo più importante della Corona agli indiani, grazie alla possibilità di accedere al mondo esterno, di comunicare facilmente con altri paesi e di avere visibilità su un piano internazionale. L’intellettuale bengalese sosteneva che nessun popolo poteva dichiararsi unico detentore di una lingua e che il sanscrito non aveva più il diritto di custodire esclusivamente le interpretazioni delle sacre scritture: queste dovevano essere tradotte, come lui stesso fece, in bengali e in inglese. L’operazione linguistica portata avanti con tale convinzione ebbe grande effetto sulla vita intellettuale del paese, suscitando anche numerose polemiche. Il dibattito fra Tagore e Gandhi in merito alle idee di modernità di Roy è testimonianza dell’influenza enorme di questa figura negli anni del movimento per l’Indipendenza. Gandhi riteneva che l’esaltazione dell’inglese da parte di Roy fosse anche di tipo ideologico e politico, lo considerava un westerniser che valutava in modo troppo positivo la presenza britannica in India. Tagore non condivideva questo giudizio, in quanto riconosceva in Roy il sommo poeta, l’uomo erudito che aveva saputo interpretare dal profondo la religione ancestrale dell’India e aveva accolto ciò che di positivo proveniva dal mondo culturale britannico, stabilendo con esso un dialogo assai proficuo sul piano dello scambio di conoscenze e di arricchimento intellettuale. Se lo spirito dell’Occidente era, secondo il poeta, degno di rispetto e ammirazione, al contrario, la nazione occidentale, ovvero l’apparato di governo e organizzazione dello stato, si poteva considerare solamente in termini negativi. Tagore amava la razza britannica, ma detestava la nazione degli inglesi, che, ovviamente, significava il progetto imperialista, gli interessi economici e di sfruttamento che caratterizzavano la politica della Corona. Il poeta e compositore si dedicò all’internazionalismo della cultura e durante l’ultimo periodo di vita divenne non solo un tenace viaggiatore, ma un esploratore della dimensione internazionale dell’esistenza, una causa che perseguì con entusiasmo e convinzione. Il premio Nobel per la letteratura nel 1913 contribuì a rafforzare tale progetto e già nei primi decenni del Novecento la cultura indiana iniziò a farsi strada sulla scena mondiale, marcando il suo carattere transnazionale e plurale quale componente di distinzione per


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scrittori e intellettuali provenienti dal subcontinente o con discendenza familiare indiana, ma residenti in diverse parti del mondo. Gli elementi storico-politici e sociali che hanno permesso di definire il popolo indiano come diasporico nel corso degli ultimi due secoli di storia e che hanno portato alla definizione di una letteratura di riferimento trovano radici principalmente nell’eredità coloniale del subcontinente e nelle pratiche messe in atto da quella “nazione” britannica che Tagore criticava con decisione. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, in coincidenza con l’abolizione della tratta schiavista, la Corona avvia un processo di migrazione forzata dall’India verso altri possedimenti dell’Impero, allo scopo di trasferire un numero elevato di indentured labourers (lavoratori a contratto in condizione di semi-schiavitù) nelle piantagioni di cotone e canna da zucchero dei Caraibi, in particolare in Giamaica, Trinidad e Barbados, così come in Africa sud-orientale, in Sudafrica, nelle isole Mauritius, in Zambia, Zimbabwe e Madagascar. Tale processo, che nel tempo ha registrato veri e propri spostamenti di massa, avrebbe consentito all’Impero di assicurare manodopera a bassissimo costo utile alla lavorazione di materie prime da esportare in Europa, secondo un circuito economico che ricalcava il triangolo della tratta atlantica. Nei paesi in cui gli indiani si sono stabiliti, lontano dalla madrepatria e in condizioni di vita di povertà ed emarginazione, le nuove comunità hanno cercato di costruire piccole Indie di espatriati in cui venivano gelosamente conservati gli usi e le tradizioni della cultura originaria, proiezioni in esilio dei luoghi di provenienza e territori da conquistare attraverso l’affermazione di una propria identità di indiani della diaspora. Le opere di ambientazione caraibica dello scrittore premio Nobel V.S. Naipaul (in particolare A House for Mr. Biswas [Una casa per Mr. Biswas, 1961], The Mystic Masseur [Il massaggio mistico, 1957] e The Suffrage of Elvira (Elezioni a Elvira, 1958) offrono una testimonianza autentica ed efficace riguardo alle vite dei discendenti degli indentured labourers. Nato a Trinidad da una famiglia di origine indiana, Naipaul inserisce nelle pagine dei suoi romanzi e racconti parole che rimandano esplicitamente a luoghi come il Gange, Ayodhia, Benares: luoghi della mente che i personaggi rievocano con nostalgia, mitizzandoli attraverso storie e leggende, ricordi lontani e sbiaditi con il tempo. Per gli indiani giunti nelle isole caraibiche non è stato possibile mappare il nuovo ambiente utilizzando i simboli della cultura di appartenenza, come facevano i colonizzatori quando “scoprivano” questi territori. A tal proposito, come dichiara Amitav Ghosh, un altro esponente illustre della diaspora letteraria indiana: 'Trasportati via mare come strumenti del potere coloniale, sono entrati in un Nuovo Mondo che era già stato nominato secondo l’immagine della Vecchia Europa: di York, Amsterdam, Castiglia,


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Aragona, le isole Ebridi e la Caledonia. Il loro nuovo mondo non aveva posto per le realtà che vivevano nella loro immaginazione.' I Tuttavia, il loro mondo viveva attraverso la continua replica di pratiche tradizionali di appartenenza comune e lo spazio della “casa” era infinitamente riproducibile, perché sopravviveva nell’immaginazione, non tanto nella lingua o nella religione. L’India non era troppo distante, non risultava troppo separata dalle vite degli immigrati; perché nel vocabolario della routine quotidiana quello spazio vuoto era continuamente riempito di parole, segni e simboli che richiamavano la nazione madre. Nel presente contributo si cercherà di delineare i percorsi che vari autori hanno messo in atto al fine di narrare il rapporto fra l’India e le tante “Indie” che sono nate e cresciute al di fuori dei confini geografici del subcontinente, sia a causa delle pratiche coloniali, sia a seguito delle migrazioni del secondo dopoguerra per motivi economici e politici e delle scelte individuali legate alla tendenza di numerosi giovani e famiglie che hanno raggiunto la Gran Bretagna e gli Stati Uniti per intraprendere percorsi di vita ed istruzione, usufruendo della loro cultura anglofona come passaporto di accesso a questi paesi. “AT HOME IN THE WORLD?”: TRADUZIONE, SPAESAMENTO E SCITTURA MIGRANTE Nell’indagine sulle produzioni letterarie della diaspora indiana emergono alcune questioni che costituiscono il tratto comune a tante opere pubblicate negli ultimi decenni: la ricerca d’identità dei personaggi raccontati, la costruzione di una nuova “casa” o di diverse case possibili e la messa in discussione del concetto di nazione, elementi che rientrano in quella che la scrittrice Meena Alexander chiama “Poetics of Dislocation” (Chetty, Piciucco 2004: 14-20), un concetto strettamente legato al tema dello spazio, ai modi attraverso cui gli esseri umani costruiscono il senso di appartenenza ad un luogo e alle strategie che vengono messe in atto per rievocare uno spazio originario perduto, fisico e mentale. Le opere di grandi scrittori come Salman Rushdie, Amitav Ghosh, V.S. Naipaul, Samuel Selvon, Anita Desai, Jhumpa Lahiri e altri, seppur con grandi diversità di stile narrativo, linguaggio e tematiche, presentano la caratteristica generale di veicolare spesso un senso chiaro e definito di “luogo” e trasmettere, al contempo, un totale senso di dislocamento, condizione ascrivibile sia alle forme della postmodernità, sia alla soggettività postcoloniale. I

Ghosh 2002: 248


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Per comprendere la posizione dello scrittore migrante è fondamentale analizzare il concetto di traduzione che Rushdie ha utilizzato sia nella produzione saggistica, sia in romanzi come Shame (La vergogna, 1983) e The Satanic Verses (I versi satanici,1989). Il termine proviene etimologicamente dal latino “trasportare” e lo scrittore, a riguardo, sostiene che tutti i migranti sono persone tradotte, per cui è naturale che qualcosa si perda nel passaggio della traduzione, ma che molte cose vengano allo stesso tempo conquistate e l’autore ha sempre sostenuto quest’ultima caratteristica dell’esperienza migratoria. E’ indubbio che nel passaggio da un paese all’altro, oltre alla perdita di elementi legati al luogo di provenienza si acquisiscano nuove ricchezze culturali, le quali vanno a mescolarsi al patrimonio intellettuale d’origine, facendo dello scrittore migrante un archivio stratificato di culture, capace di rievocare la terra amata da una prospettiva che arricchisce ancor di più tale ricordo. In La vergogna, Salman Rushdie, riferendosi al problema del Bangladesh e al movimento di massa dei profughi scoppiato nel 1971, anno di nascita della nazione indipendente, sottolinea l’ironia della storia che colpisce il triste destino di chi è stato costretto ad abbandonare la propria casa senza sapere se ci sarà mai l’opportunità di trovare un altro posto nel mondo. Nel brano seguente, l’autore sembra offrirci la descrizione della condizione del migrante contemporaneo: 'Quando gli individui si scollano dalla loro terra natia, li chiamano emigranti. Quando le nazioni fanno la stessa cosa (Bangladesh) si parla di secessione. Qual è la migliore caratteristiche dei singoli emigranti e delle nazioni secessioniste? Io credo che sia la fiducia. Guardate gli occhi di quella gente nelle vecchie fotografie. La speranza vi sfavilla limpida attraverso le sbiadite sfumature di seppia. E qual è la caratteristica peggiore? Il vuoto del proprio bagaglio. Sto parlando di valigie invisibili, non di quelle fisiche, magari di cartone, che contengono alcuni ricordi svuotati di significato: ci siamo scollati da qualcosa di più che un paese. Ci siamo librati in aria staccandoci dalla storia, dalla memoria, dal Tempo.' II Secondo quanto scrive Silvia Albertazzi: “per Rushdie il migrante non può che frequentare il mondo attraverso la metafora, la quale, proprio come suggerisce il termine nella sua etimologia greca, è atto di trasporto, di traduzione, dal piano del reale a quello dell’immagine.” III Lo scrittore indiano in Inghilterra, rievocando il paese d’origine e facendone materia di narrazione, può solamente scrivere un libro di ricordi sul tema della memoria, creando una propria India, una versione delle centinaia di milioni di versioni possibili. L’alienazione fisica dal proprio paese II

Rushdie 1999: 101

III

Albertazzi 2000: 137


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porta inevitabilmente a non essere più capaci di riprodurre con precisione qualcosa che è andato perduto. “In breve creeremo delle fictions al posto delle vere città o paesi, fictions invisibili, patrie immaginarie, ‘Indie della mente’.”IV L’India della mente ci viene raccontata, ad esempio, in Midnight’s Children [I figli della mezzanotte, 1981], cui si deve la vera e propria esplosione sul mercato editoriale di una letteratura indiana in inglese. Il romanzo vince a buon diritto il Booker Prize, il più prestigioso premio letterario inglese, e viene rapidamente tradotto in decine di lingue; un’opera che per la ricchezza del linguaggio, la carica innovativa dello stile e l’originale trattazione della storia dell’India contemporanea, è presto destinata a fare da vero spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, cosí come tra prima e dopo l’indipendenza dell’India si colloca la storia del protagonista Saleem Sinai, che viene al mondo nel momento che segna la nascita dell’India moderna: “Sono nato nella città di Bombay il 15 agosto del 1947 allo scoccare della mezzanotte... Quando io arrivai le lancette dell’orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’indipendenza, io fui scaraventato nel mondo.” I figli della mezzanotte ha molteplici meriti: quello di aver decretato la nascita di un grande scrittore, forse il più grande scrittore in lingua inglese, vivente; quello di aver segnalato al mondo l’esistenza di una letteratura indiana di grande bellezza e maturità; di aver dato fiducia in se stessi a molti potenziali autori favorendo l’emergere di una generazione di nuovi talenti; di aver stimolato il mercato editoriale incoraggiandolo a pubblicare e a far circolare quanto si andava via via scrivendo; da ultimo, l’interesse crescente nei confronti della letteratura indiana in inglese ha conferito visibilità anche alle opere di scrittori della cosiddetta generazione di mezzo, autori che già pubblicavano, e con un certo successo, quali ad esempio Mulk Raj Anand (Intoccabile), Raja Rao (Kanthapura), R. K. Narayan, o Khushwant Singh (Quel treno per il Pakistan), consentendo loro di venire riscoperti da un nuovo e più vasto pubblico di lettori. Il mercato editoriale italiano non è rimasto insensibile a questo fenomeno, come attesta l’ampio numero di opere di autori indiani attualmente presenti in traduzione. Una caratteristica della narrativa indiana contemporanea è il bisogno da parte degli autori di unire storia a storia in complesse tessiture che richiamano i grandi poemi epici o le molte immagini che l’iconografia di quel mondo ci ha consegnate. Romanzi di ampiezze innaturali per un pubblico occidentale, con intrecci narrativi che potenzialmente potrebbero non concludersi mai, come fanno ad esempio, Vikram Seth con Il ragazzo giusto (1994) e Vikram IV

Rushdie 1991:14


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Chandra con Terra rossa e pioggia scrosciante, racconto epico che affianca quella per la tecnologia e il mondo dei computer, mentre in Giochi sacri costruisce un poliziesco di oltre 1000 pagine ambientato nel sottobosco mafioso e corrotto di Bombay, fra Bollywood e i diversi esponenti di un tessuto urbano multiforme e assai complesso. Gli scrittori che vivono fuori dall’India ammettono che la memoria può essere soggetta a continui errori e, secondo Rushdie, si può raccontare il mondo attraverso specchi rotti e alcuni dei frantumi potrebbero essere stati perduti per sempre. Saleem Sinai, il protagonista di Midnight’s Children, ha infatti una visione frammentata della realtà, compie errori in continuazione e non produce un racconto veritiero. Lavorare con pezzi di vetro significa portare avanti un’operazione decisamente complicata sul piano della memoria. Per scongiurare il pericolo della dislocazione lo scrittore immigrato si aggrappa così alla storia della madrepatria lasciata alle spalle e ricordare diventa comunque un’attività di primaria importanza, spesso legata alle vicende della colonizzazione e alla pesante eredità del dominio britannico. Per costruire il presente, occorre aver “digerito” il passato coloniale, averlo rielaborato e fatto scomparire come categoria che continua ad ossessionare gli scrittori della diaspora e a condizionare le loro narrazioni. Nel caso del romanzo d’emigrazione, “non si tratta tanto di ‘arrivare alla città’ quanto di tornare verso la periferia, seguendo un cammino tortuoso che non è riportato sulle carte, ma si struttura secondo i percorsi illogici del sogno e quelli fallaci della memoria.” V Nel linguaggio del migrante anche il significato dei verbi di movimento “andare” e “tornare” assumono significati diversi da quelli usuali: nel romanzo che ha consacrato Amitav Ghosh a scrittore di fama internazionale, The Shadow Lines (Le linee d’ombra, 1988), le parti in cui si divide il volume, “Going away” e “Coming Back”, non corrispondono a situazioni definitive di emigrazione o ritorno, perché il protagonista si muove continuamente fra India e Inghilterra alla ricerca di verità che riguardano momenti di vita della propria famiglia, fatti drammatici tenuti segreti per lungo tempo, in cui la relazione fra il mondo britannico e quello indiano risulta centrale. Per il narratore-protagonista il viaggio a Londra, un luogo della mente mitizzato fin dall’infanzia attraverso le storie del cugino, è cruciale nella definizione di un passato fortemente intrecciato con la storia politica dell’India e che è necessario rivelare per poter continuare a vivere nel presente. Solo in questo modo, Ghosh riesce ad offrire una speranza di riconciliazione con i fantasmi del passato e a comunicare al lettore quanto sia necessario V

Albertazzi 2000: 143


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oltrepassare lo specchio della memoria, compiere un salto all’indietro e poi tornare a galla, nonostante questo comporti sofferenza e la scoperta di ferite che erano mai state rimarginate. Salman Rushdie, nel suo romanzo esemplare sulla migrazione, The Satanic Verses, (I versi satanici, 1988), l’opera che lo ha condannato a morte da parte dell’Ayatollah Khomeini, racconta con la straordinaria capacità narrativa che lo caratterizza, le possibili distorsioni della diaspora e i disastri che da essa possono generare. Solamente nel finale comprendiamo quali elementi siano necessari per poter uscire dai pericoli delle chiusure culturali e delle questioni di appartenenza: Saladin Chamcha, uno dei due protagonisti del romanzo, straordinaria voce radiofonica e televisiva, l’uomo dalle mille voci che aveva sposato una donna inglese e che a seguito di un incidente aereo si era trasformato in una sorta di diavolo, fa ritorno a Bombay dopo essersi inglesizzato a Londra ed è pronto per iniziare una nuova vita in India. Saladin, tornato alle sue radici dopo averle lasciate dietro di sé ed averle ritrovate nuovamente, emerge nel finale come personaggio positivo al pari della figura di Mishal Sufyan, la giovane indiana musulmana trapiantata piccolissima a Londra che rifiuta il vecchio mondo perché ormai fa assolutamente parte di un’altra realtà, quella dei blacks londinesi alla conquista di una dignità negata. Come afferma Paolo Bertinetti “quelle di Saladin e Mishal sono due storie e due scelte diverse, ma sono entrambe “premiate” dal racconto per la loro capacità di superare il retaggio del passato.” VI Non si tratta di un’impresa facile, ma Rushdie sembra veicolare proprio questo messaggio, ovvero che coloro che non riusciranno ad avere tale coraggio intellettuale verranno prima o poi segnati dalla sconfitta. Ci sono personaggi di tante narrazioni della diaspora che hanno affrontato con difficoltà il rapporto con la loro cosiddetta “indianness”, una relazione che si è troppo spesso concentrata sulla salvaguardia della cultura di partenza, sottovalutando il problema delle modalità di contatto con la cultura d’arrivo. Kulwant, la protagonista del romanzo della scrittrice indiana Ravinder Randawa, A Wicked Old Woman, (Una vecchia signora malvagia, 1987) vive in uno di quei quartieri senza identità che sorgono alla periferia delle metropoli, ridotto dagli abitanti asiatici in “simulazione del subcontinente”. La donna subisce un grande fascino per l’Inghilterra, con il suo sistema d’istruzione e le possibilità di crescere professionalmente, ma si scontra con le problematiche derivanti dalla condizione di donna migrant, per la quale l’esperienza della “homelessness” scaturisce non solo dall’angoscia che accomuna tutti gli emigranti unita al disagio di vedersi rifiutati nel paese ospite su basi di razza e colore, ma anche e primariamente dalla perdita di un ruolo e di una realtà VI

Bertinetti 2002: 110


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forte di riferimento. “Se l’emarginazione dell’emigrante-maschio è dunque il risultato della sua razza, della regione e della storia, per la donna migrant a questi tre elementi si aggiunge, come discriminante e aggravante, il genere.” VII Kulwant acquista progressivamente consapevolezza dell’invisibilità dell’asiatico all’interno della società inglese e si rende conto, allo stesso tempo, delle opportunità di emancipazione e di libertà offerte dal mondo britannico ad una donna immigrata che vive nelle tradizioni della comunità indiana di appartenenza, anche se alla fine queste risulteranno più ideologiche che concrete. Randawa evidenzia elementi di contraddizione nella salvaguardia della identità indiana e nell’apertura totale alla cultura britannica, optando per l’elaborazione di nuovi modelli che possano cancellare le forzature e permettere di conoscere le chiavi del passato utili ad affrontare un presente in evoluzione e multiforme. Le stesse problematiche investono anche numerosi personaggi di narrazioni della diaspora ambientate negli Stati Uniti d’America, in cui il tema dell’identità risulta senza dubbio centrale. In alcuni romanzi come Fasting, Feasting (Digiunare, divorare, 1999) di Anita Desai, la separazione fra India e Stati Uniti, fra due culture diverse e non comunicanti fra loro è quasi totale, il libro stesso si divide in due parti ben distinte, una corrispondente alla vita di Uma in India, in una famiglia che la opprime e la mortifica, e l’altra riguardante la vita del fratello Arun e dei suoi studi in una non precisata università americana. In entrambe le storie, il disagio del vivere è ugualmente centrale, nonostante gli ambienti e le situazioni di vita assai diverse. Le vicende degli studenti indiani che cercano di interpretare, esplorare, immergersi e mettersi in gioco nel mondo americano, all’interno e fuori dalle università, sono narrate in altre opere esemplari come The Inscrutable Americans (Gli imperscrutabili Americani, 1991) di Anurag Mathur e le parti statunitensi del romanzo di Vikram Chandra Red Earth and Pouring Rain. Anche nei racconti che fanno parte del volume di Jhumpa Lahiri, The Interpreter of Maladies (L’interprete dei malanni, 1999) il gioco di definizione delle identità è ancora un nodo cruciale del discorso diasporico, le storie si dipanano fra India e USA, e si intravedono alcuni elementi positivi di conciliazione fra i diversi mondi. Nel racconto “Il terzo e ultimo continente” il protagonista, dopo il passaggio fra India e Gran Bretagna approda a Boston per lavorare come bibliotecario e dovrà iniziare un nuovo percorso di adattamento, vivendo a casa di un’anziana signora che nutre un forte senso patriottico. I rituali legati al lento e progressivo inserimento del protagonista e di sua moglie nella società americana costituiscono i gradini necessari al compiersi di una grande impresa, non quella esaltata VII

Albertazzi 1998: 162


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dalla signora Croft in merito al raggiungimento della Luna da parte degli astronauti americani, bensì quella del riuscire a vivere in un paese lontano dal proprio, costruire una famiglia e radicarsi nel territorio d’arrivo. “Non sono l’unico ad aver cercato fortuna lontano da casa, e sicuramente non sono il primo. Eppure ci sono momenti in cui mi sconcerta ogni singolo miglio percorso, ogni pasto mangiato, ogni persona incontrata, ogni stanza in cui ho dormito. Per quanto ordinario possa sembrare, ci sono momenti in cui tutto questo supera la mia immaginazione.” VIII RACCONTARE LONDRA FRA SPAZI DI CONFLITTO E INCONTRO CULTURALE La capitale britannica rappresenta il centro di un Impero che ha subito nel secondo dopoguerra, con la perdita delle colonie, il fenomeno denominato “colonizzazione alla rovescia”, e gli abitanti delle “periferie” hanno saputo occupare spazi propri all’interno del territorio britannico, portando la loro identità diasporica a contatto con un mondo che cercava di definirli nuovamente entro rigide concettualizzazioni. Un’opera esemplare che narra l’immigrazione dai Caraibi nel secondo dopoguerra nella capitale britannica, il cui autore, Samuel Selvon ha origini indiane come il già citato V.S. Naipaul, è The Lonely Londoners, (Londinesi solitari, 1956). uno dei primi romanzi che rendono in maniera originale e autentica il senso di una Londra multietnica e postcoloniale, “invasa” dagli ex cittadini dell’Impero. La capitale inglese è descritta dall’autore, anch’egli emigrato dall’isola caraibica di Trinidad nei primi anni cinquanta del Novecento, come un luogo freddo, inospitale, immerso nella nebbia che accoglie i nuovi arrivati alla stazione di Waterloo mostrandosi in tutta la sua ostilità. I protagonisti del romanzo, appena giunti dalla Giamaica in nave, pensavano di arrivare in una città dalle strade pavimentate d’oro, nella quale avrebbero avuto un’accoglienza privilegiata in quanto cittadini del “Regno Unito e delle Colonie”. Tutto ciò si riduce ad una profonda disillusione e alle numerose difficoltà che derivano dal cercare una casa ed un lavoro, oltre all’adattamento ad un clima estraneo e insopportabile per chi proviene dai Caraibi. Il narratore non nasconde l’infelicità e la sofferenza dei suoi personaggi, ma al tempo stesso racconta con splendida ironia sia i disagi, sia la vitalità prorompente dei “londinesi solitari”. Il tono e il ritmo del racconto è stato paragonato a quello di un calypsonian, la voce solista accompagnata dal coro che, soprattutto in occasione del carnevale di Trinidad, cantava i calypsoes, dando voce allo stato d’animo e ai sentimenti popolari. La lingua di Londinesi solitari è lontanissima dall’inglese standard ed è una rielaborazione letteraria che VIII

Lahiri 2003: 229


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Selvon ha messo in atto utilizzando il creolo, la nation language caraibica, e termini derivanti dalla cultura afro-caraibica, al fine di trasmettere lo spirito, il sapore e l’originalità di esprimersi di un mondo. La ricerca di una “casa” che possa offrire nuove radici nel centro del vecchio Impero porta i londinesi solitari a contaminarsi con la metropoli, ad esplorare le sue possibilità di sopravvivenza e di vita, tentando di uscire dagli spazi assegnati agli stranieri, agli ex-colonizzati, affrontando i pericoli della discriminazione razziale e della segregazione. Tale materia di narrazione è affrontata con maestria da un altro importante autore della diaspora in Gran Bretagna, Farrukh Dhondy, nato a Poona, in India, da una famiglia parsi e trasferitosi in Inghilterra per motivi di studio all’età di vent’anni. I suoi meriti, sia come scrittore di libri e racconti per ragazzi, sia come autore di romanzi per adulti, stanno proprio nel fatto che la sua condizione di outsider e insider allo stesso tempo nella società britannica, gli ha permesso di esplorare direttamente le complessità delle questioni razziali che spesso gli scrittori di letteratura per l’infanzia bianchi non hanno considerato, aggiungendo aspetti significativi e originali. Le prime raccolte di racconti, East End at Your Feet (1976) e Come to Mecca (Vieni alla Mecca, 1978) esplorano la realtà dei quartieri londinesi di Brick Lane, Brixton, popolati in gran parte da asiatici e neri, negli anni dell’ascesa del thatcherismo e dell’inasprirsi di grandi conflitti razziali. Il mondo della scuola e dei teenagers è quello privilegiato dallo scrittore, il quale ritrae una società in evoluzione che deve cercare una nuova identità multiculturale, facendo fronte ad un contesto sociale mutato rispetto ai primi anni sessanta. Dhondy riesce a rendere il senso delle difficoltà d’integrazione, dell’odio razziale, degli stereotipi culturali e della grande distanza fra l’Inghilterra bianca e gli immigrati. Fra ironia ed episodi grotteschi e drammatici, lo scrittore inserisce elementi di riflessione sui temi più scottanti dell’epoca, ma ancor oggi sicuramente attuali. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta del 1978, “Vieni alla Mecca”, Shahid, un ragazzo di sedici anni, non riesce più a tollerare certi soprusi che continuamente vengono rivolti alla comunità di bengalesi nella quale vive. I suoi amici sono per la maggior parte operai dell’industria tessile e il loro capo è un bianco al quale chiedono un aumento di salario. A seguito di un rifiuto con l’accusa ai bengalesi di essere pigri e volgari, il gruppo decide di scioperare ed entrano in gioco due ragazze bianche che vogliono assistere e documentare la rivolta. Betty e l’amica si schierano dalla parte della working class, ma non capiscono fino in fondo i problemi delle singole comunità; i bengalesi, ad esempio, non vogliono essere associati ai neri, e neanche alla classe operaia perché non vogliono essere considerati fra gli strati sociali più bassi. Betty si avvicina alla loro lingua, le insegnano parole in urdu e


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bengali, ma ad un certo punto Shahid rimane deluso dalla ragazza e getta dal Tower Bridge i suoi volantini; questo perchè lei fraintende il suo invito al Dancing La Mecca pensando che Shahid voglia coinvolgerla in qualche gruppo religioso fondamentalista. Il ragazzo si arrabbia con la società bianca in generale, non vuole essere categorizzato, e finisce per stabilire nuovamente una distanza fra i due mondi. Nei racconti assistiamo spesso all’intervento della polizia, ma anche a scontri fra la prima generazione di immigrati, i padri più anziani e meno coinvolti nelle questioni politiche, e la seconda costituita dai figli, i giovani che vogliono ribellarsi ad un sistema che li fa sentire inferiori, emarginati, cittadini di seconda classe. All’epoca, le parole d’ordine contro gli immigrati asiatici venivano ripetute sui giornali, in TV, sui muri delle periferie; la crisi economica aveva portato ad un senso diffuso di insicurezza, persino i comici televisivi prendevano i pakistani come bersaglio per il loro umorismo. Lo scrittore Hanif Kureishi, di padre pakistano e madre inglese, racconta che la televisione aiutava ad esaltare il disprezzo per gli immigrati nei salotti inglesi; gli amici dei suoi genitori parlavano dei paki con odio, c’era molta violenza e il termine pakistano era stato trasformato in un insulto. Anch’egli si è rivelato un abile narratore di tale contesto socio-politico e nel racconto “My Son the Fanatic” (Mio figlio il fanatico), inserito nella raccolta Love in a Blue Time, ne esprime con forza le sfumature e le contraddizioni, raccontando il conflitto generazionale fra un padre immigrato dal Pakistan e dedito all’integrazione nella società inglese e il figlio affascinato da gruppi spirituali islamici che sfoceranno nel fanatismo e nell’intolleranza. Kureishi inserisce in uno scontro del genere le questioni riguardanti il bisogno e il rifiuto dell’appartenenza ad un determinato contesto sociale e ai disastri provocati dalla condizione diasporica, dall’essere continuamente sospesi fra mondi diversi che a fatica trovano zone di contatto. Tutto ciò si inserisce con forza a volte distruttiva nelle dinamiche familiari e contribuisce a modificarne la natura. Lo scrittore esplora con efficacia questa materia narrativa anche nel suo primo romanzo, The Buddha of Suburbia, (Il Buddha delle periferie, 1990) in cui il ragazzo protagonista, Karim, si definisce nelle primissime righe “un inglese dalla testa ai piedi, o quasi”, e il quasi sta a significare il fatto di essere nato in Inghilterra da genitori indiani musulmani. In tale ambiguità sta il fascino e l’interesse nei confronti di questo personaggio, il quale, come afferma Bertinetti “ci racconta una storia esemplare non solo rispetto alla realtà britannica, ma, credo, rispetto a quella di tutto l’Occidente, dei mille casi in cui i figli degli altri mondi sono nati e cresciuti come cittadini del nostro.” IX Karim fa esperienza della cultura inglese giovanile, musicale e teatrale, degli IX

(Bertinetti 2002: 128)


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anni settanta, seguendo i suoi interessi e l’esempio della cugina “femminista” Jamila, la quale si ribella alle rigide imposizioni del padre e sceglie di vivere liberamente, compiendo scelte coraggiose nel rifiuto delle tradizioni familiari. Karim e Jamila, nonostante qualche delusione e qualche compromesso, riescono a trovare un loro spazio, un po’ provvisorio e sempre potenzialmente minacciato dal possibile insorgere dell’intolleranza, ma un luogo che sembra consentire in qualche modo la coesistenza delle differenze. I temi proposti dagli autori considerati lungo questo percorso, tornano oggi a dominare i discorsi sulla migrazione, l’interculturalità e la tolleranza, mostrandosi di grande attualità e ponendo la questione di come ciò che è stato esplorato e problematizzato anni fa non abbia ancora trovato motivi di soluzione definitivi. Le società continuano ad essere in movimento e i flussi migratori caratterizzano in maniera sempre più evidente il nostro presente. Il filosofo martinicano Édouard Glissant esprime l’importanza del fatto che la creolizzazione possa continuare ad avere luogo, senza traumi e ferite culturali, in nome di quella “poetica della relazione” che risulta cruciale nelle società contemporanee. Sembra, infatti, significativo ribadire il concetto che egli ha teorizzato come manifesto della cosiddetta totalità-mondo: “La creolizzazione esige che gli elementi eterogenei si “intervalorizzino”, che non ci sia degradazione o diminuzione dell’essere, sia all’interno che dall’esterno, in questo reciproco, continuo mischiarsi.”X

X

Glissant 1998: 16


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Nigeria, il contesto letterario di Monica Valcavi | letterature post coloniali

Nel 1986 il premio Nobel per la letteratura fu conferito allo scrittore di teatro e poeta nigeriano Wole Soiynka, considerato oggi una delle voci più importanti e significative di tutto il continente africano. Autore di oltre venti drammi e commedie, Soiynka ha fondato una compagnia teatrale, “Teatro Orisun,”mettendo in scena anche le proprie opere, nell’intento di esprimere le gravi tensioni che hanno caratterizzato la storia passata e recente delle Nigeria. Oltre al nome di Soyinka si possono tuttavia elencare altri autori come Ben Okri e Niyi Osundare, Femi Osofisan, come coloro che hanno contribuito a consolidare la presenza e l’autorevolezza della letteratura e cultura nigeriana in lingua inglese nel mondo. La letteratura nigeriana in lingua inglese si sviluppa, come molte altre letterature postcoloniali, per esprimere la sofferenza di un popolo che dopo la difficile riconquista della propria indipendenza è stato costretto ad adeguarsi a spietate leggi neoimperialiste/capitaliste. L’atmosfera di inadeguatezza politica e sociale che caratterizza il paese è un problema irrisolto, così come quello legato all’identità culturale degli stessi nigeriani. Per questi motivi le più importanti voci letterarie non potevano che muoversi sul terreno della denuncia e delle protesta. In ambito poetico si possono annoverare tre importanti generazioni di poeti, e tutti, a partire da Soynka, a sua volta ispirato al poeta Christopher Okigbo, sfruttano ed elaborano temi di denuncia politica e sociale, includendo


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riflessioni su diversi scenari africani, come ad esempio le battaglie anti Apartheid in Sud Africa, la lotta per la liberazione del Mozambico negli anni settanta o la rivelazione di atroci forme di leadership che hanno martoriato diverse nazioni africane negli ultimi decenni. Le voci poetiche delle ultime generazioni, tra cui Niyi Osundare, Odia Ofeimun e Harry Garuba hanno continuato a utilizzare la poesia come strumento politico, all’interno di un attivismo che li ha visti impegnati anche in redazioni giornalistiche. Per quanto riguarda la narrativa, l’autore forse più famoso, oramai considerato un “classico” tra gli scrittori postcoloniali anglofoni è Chinua Achebe. Nato nel 1930 a Ogibi, Chinua Achebe è conosciuto per essere riuscito, nei suoi romanzi, a ritrarre gli effetti della colonizzazione sulla società nigeriana. Nato in una famiglia protestante, Achebe ha sempre espresso il forte legame con le sue antiche tradizioni Igbo, esprimendo quell’identità doppia, frammentata e ibrida riscontrabile nella quasi totalità degli autori postcoloniali. Come molti altri scrittori nigeriani, Achebe frequentò l’università a Ibadan, dove studiò inglese, storia e teologia. Sempre impegnato politicamente, Achebe lavorò per il governo del Biafra durante la guerra civile del 1967 e collaborò con l’amico poeta Okigbo con il quale fondò e gestì una casa editrice. Achebe ha insegnato in diverse università in Nigeria e negli Stati Uniti. I suoi romanzi (Things Fall Apart, No Longer At Ease, Arrow of God, Anthills of the Savannah) hanno contribuito a diffondere la cultura nigeriana in tutto il mondo. Il centro della sua narrativa è il difficile rapporto tra l’uomo nigeriano, la sua cultura Igbo e l’irruenza del mondo occidentale. La dialettica tra la tradizione e l’imposizione culturale coloniale come elemento costante dei romanzi di Achebe, si accompagna alla tendenza ad integrare nella lingua inglese la traccia della parlata africana. La questione linguistica, ampiamente dibattuta tra gli autori postcoloniali, è cruciale in Achebe in quanto tra gli scrittori africani – e diversamente dal keniano Ngugi Wa Thiong’o – comprese la necessità di scrivere e pubblicare in lingua inglese. Motivo di tale scelta fu non solo dettato da esigenze economiche e commerciali bensì dalla volontà di fare percepire ad un ampio pubblico la presenza dell’uomo colonizzato, o ex colonizzato, la sua difficile ricerca d’identità in un mondo da ricostruire ed allo stesso tempo affetto da gravi squilibri interni. Nel suo capolavoro, Things Fall Apart, Achebe mostra la distruzione interiore ed esistenziale del protagonista, Okonkwo, come riflesso dell’arrivo repentino dei missionari cristiani che sconvolgono le leggi della comunità Igbo a cui l’uomo appartiene. Sebbene la grandezza di Achebe resti indiscussa, la sua fama è stata leggermente offuscata dall’arrivo del giovane prodigio Ben Okri, che avendo pubblicato il suo primo romanzo a 19 anni, pare avere inaugurato quella


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generazione di scrittori-adolescenti a cui appartiene la stessa Chimamanda Ngozie Adichie. Nata negli anni settanta, la produzione letteraria di Okri intende rappresentare le frustrazioni e il senso di dislocazione dei suoi coetanei, utilizzando una tecnica narrativa che lo pone accanto alle più grandi voci del realismo magico, tra cui Gabriel Garcia Marquez e Salman Rushdie. I suoi romanzi, tra cui si ricordano Flowers and Shadows, del 1980, The Famished Road del 1994, pur attingendo alle esperienze politiche durante la guerra civile, includono anche elementi metafisici e riferimenti alla mitologia della tradizione Yoruba. La ricchezza della letteratura nigeriana si consolida grazie alla crescente presenza di scritture al femminile. Oltre alla giovane Adichie, la prospettiva delle donne è stata narrata da autrici come Flora Nwapa e Buchi Emecheta, le quali hanno contribuito a documentare una condizione esistenziale estremamente difficile in bilico tra la massiccia presenza di una tradizione patriarcale e l’irruenza dei nuovi modelli comportamentali importati dall’Occidente. La produzione teatrale – come del resto tutti i generi che sono stati menzionati – meriterebbe una trattazione più approfondita, non solo perché buona parte della produzione drammatica nigeriana si è sviluppata attraverso le opere di Wole Soynka, ma anche perché il teatro, considerate le sue specificità da un punto di vista semiotico, veicola direttamente al pubblico le tematiche legate alla situazione sociale del paese e alle sue trasformazioni culturali. Tuttavia è opportuno indicare le più importanti opere del drammaturgo in quanto rappresentative di interessanti componenti della tradizione orale e della cultura Yoruba. All’interno di un intenso attivismo politico (si ricorda che Soiynka è stato arrestato e imprigionato per ben due anni dal ’67 al ’69 durante la guerra civile) molte sue opere di teatro si rivelano come atti d’accusa della situazione della Nigeria, sia come conseguenza della politica imperialista che di quella post-coloniale. In opere come A Dance of the Forests, rappresentata nel 1960 in occasione della celebrazione dell’indipendenza nigeriana, l’autore attacca la situazione politica a lui contemporanea, come scorretta e priva di contenuti. Nominato come ambasciatore Unesco nel 1994 Soiynka, attraverso le sue opere di teatro ha rafforzato un impegno politico, che non solo ha contribuito a denunciare al mondo la drammatica condizione di molti paesi africani, ma ha anche permesso la conoscenza e l’acquisizione di una nuova percezione dell’identità dei popoli dell’Africa e della molteplicità delle loro culture. La massiccia presenza della letteratura nigeriana nel panorama culturale anglofono dischiude un universo letterario che si è plasmato sull’esperienza della colonizzazione e dell’indipendenza, ma anche sulla profondità delle tradizioni locali della cultura Igbo e Yoruba, ancora evidenti nella matrice di


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oralità che persiste nei vari generi letterari. Le più importanti opere, infatti, e possiamo citare di nuovo di Soiynka, A Shuttle in the Crypt, pur abbracciando tecniche e temi moderni e post-moderni riverberano di reminiscenze delle più antiche tradizioni orali. L’oralità resta nella traccia dello story-telling, ovvero il raccontare intense storie che dischiudono esistenze che si affacciano a un mondo nuovo, incerto, frammentato e caotico, dove l’identità si plasma nell’incontro tra il mondo del passato e le speranze verso il futuro, proprio come leggiamo nelle short-stories della giovane Chimamanda Ngozie Adichie.


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The Single Story: la narrativa di Chimamanda Ngozi Adichie di Letizia Rustichelli | letterature post coloniali

When we reject the single story, when we realize that there is never a single story about any place, we regain a kind of paradise. Chimamanda Ngozi Adichie Giovane scrittrice nigeriana, Chimamanda, è una trentunenne africana. Appartiene all’upper class nigeriana. Il padre è professore universitario, lei studia in Inghilterra e negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio a Yale. A poco più di 30 anni è al suo secondo successo letterario, vincitrice di premi importanti con il primo romanzo del 2003, intitolato Purple Ibiscus, si è ora imposta all’attenzione del mondo letterario grazie al suo best seller di cui ha venduto cinquecento mila copie negli States. Così come Purple Ibiscus, anche il romanzo Half of a Yellow Sun è rigorosamente scritto in inglese, “l’inglese è la lingua ufficiale della Nigeria, e dell’Africa, i giovani delle città non conoscono altro idioma, guai tornare ai dialetti, sarebbero altri odii” afferma in una intervista. Il libro riceve in Italia, per mano di Claudio Magris, il “Premio Nonino internazionale 2009”. Purple Ibiscus (L’Ibisco Viola, Fusi Orari, 2006) narra di Kambili, una ragazza di quindici anni. Vive a Enugu, in Nigeria, con i genitori e il fratello Jaja. Suo padre Eugene, proprietario dell’unico giornale indipendente del paese, è considerato un modello di generosità e coraggio politico. Ma è anche


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un cattolico fanatico che impone una terribile disciplina ai suoi familiari e li punisce con castighi crudeli. Dopo un colpo di stato, che coinvolge anche il padre, Kambili e Jaja vanno a vivere dalla zia. Nella nuova casa regnano la musica e l’allegria. E i due ragazzi scoprono una nuova vita fatta di indipendenza, amore e libertà. Una rivelazione che cambierà il loro futuro. Half of a Yellow Sun (Metà di un Sole Giallo, Einaudi 2008) è un romanzo “d’amore e di guerra” con uno sfondo storico che si intreccia con le vicende private dei numerosi personaggi: la guerra tra Nigeria e Biafra che ebbe luogo tra il 1967 e il 1970 con la secessione delle province sudorientali. Il romanzo si articola in quattro parti che corrispondono a due scansioni temporali: inizio anni 60, momento in cui la Nigeria con grandi speranze conquista la sua indipendenza, e fine anni settanta, il momento in cui per tre anni il Biafra si stacca dalla Nigeria, scatenando una terribile guerra. La generazione di coloro nati negli anni ’60 ricorda molto bene le immagini televisive dei bambini biafrani con la pancia gonfia, vittime innocenti della fame. Il titolo del romanzo Metà di un Sole Giallo è il simbolo di quel Biafra esistito per tre anni: il sole nascente era sulla bandiera di un paese destinato a non sorgere. In un’intervista Chimamanda ha dichiarato che per lei il Biafra è sempre stata un’ossessione e di aver sentito la necessità di scrivere questo romanzo da quando aveva 15 anni, per dare un senso alla storia personale di lei che, nata nel 1977 in Biafra, ha perso i nonni in questa guerra: “Non avrei mai potuto scrivere il romanzo senza i miei genitori, che hanno perso parenti, amici e tutti i loro beni. A loro sono riconoscente per i racconti che mi hanno regalato”: i ricordi di chi è sopravvissuto insieme ad una seria documentazione sono il tessuto su cui sono costruite le storie di tanti personaggi per lo più inventati, con i loro amori, tradimenti, rancori e riappacificazioni. Nella prima parte del romanzo si fa fatica a sentirsi in Africa, perché non è la solita Africa delle carestie, della fame, delle malattie, ma è soprattutto l’Africa di salotti borghesi, di ambienti universitari, del circolo colto del professor Odenigbo, idealista rivoluzionario, in cui si parla di poesia, di filosofia e di politica. Egli è un personaggio importante, legato alla bellissima, ricca e sensuale Olanna,” la bruna sirena”, sorella gemella di Kainene, che è invece poco attraente, beffarda, legata ad un bianco, al biondo inglese Richard, aspirante scrittore e amante dell’arte igbo, della stessa etnia di Chimamanda. Nelle prime pagine ci viene presentata un’Africa tribale, quella dei villaggi, dell’animismo, in cui regna la superstizione, in cui conta molto ancora la magia, la stessa che ritroveremo poi nel racconto breve intitolato The Headstrong Historian. La guerra compare con maggior forza nella seconda parte del romanzo e mostra tutta la sua insensatezza e disumanità: i bombardamenti, la fame, le atrocità, la paura, la fuga. “Il mondo taceva mentre noi morivamo“: questa frase, che l’autrice utilizza per concludere i


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diversi capitoli del libro, è come un mantra che accompagna il romanzo e mette sotto accusa l’ipocrisia di un Occidente indifferente, mentre si consuma la tragedia in una Nigeria pedina nelle mani di burattinai internazionali; il Biafra infatti possiede i maggiori giacimenti di petrolio in terra nigeriana. Tale scenario politico è volutamente tenuto sullo sfondo dalla giovane scrittrice, la quale preferisce invece dare maggior spazio alla dimensione corale della sua gente. ‘Ho raccolto le testimonianze di tante persone’ dice la scrittrice in una intervista, ‘si deve sapere quello che è successo in Biafra. Non si studia neanche nei nostri libri di scuola. Troppo silenzio. Qui e all’estero. Questo è il punto. Il colonialismo ci ha tolto e ci toglie ancora la voce.’ In The Headstrong Historian, pubblicato dal New Yorker nel 2006, la scrittrice narra di una Nigeria rurale che dall’inizio del XX secolo giunge ai tempi dell’indipendenza del paese, proclamata nel’60, e che parla di quel colonialismo che a suo parere ammutolisce. E’ raro che un racconto breve riesca a coprire l’intero arco della vita di una persona ma questo è quanto Chimamanda riesce a fare: racconta la storia della vita di Nwamgba, una donna nata in Nigeria nel tardo Ottocento che sposa un ragazzo contro il parere della propria famiglia, la quale ritiene la dinastia del futuro sposo maledetta, a causa del flagello di numerosi aborti spontanei delle donne di famiglia. Dopo diverse difficoltà infine Nwamgba dà alla luce un bambino che dovrà crescere da sola poichè l’amato marito morirà prematuramente. Molestata dai cugini del marito, al fine di tutelare gli interessi del figlio, la giovane donna lo iscrive alla scuola cattolica missionaria dove il giovane, fortemente influenzato dalla nuova dottrina, inizia ad allontanarsi dalla tradizione. Successivamente il figlio, Anikwenwa, si sposa con una nigeriana cresciuta all’ombra della missione cattolica e da essa ha due figli, tra cui una ragazza che, Nwamgba crede, porti lo spirito del marito morto. La ragazza, conosciuta come Grace, sul letto di morte della nonna lancerà uno sguardo nella sua futura vita, e sarà proprio lei a raccogliere dalla nonna il “testimone” della “storica cocciuta” evidenziato dal titolo. I temi toccati da questa storia sono molti, forse persino troppi, per un racconto breve. Leggiamo di come gli europei hanno “pacificato” le tribù nigeriane, vediamo i nigeriani adottare i costumi occidentali e talvolta sentire gli stessi costumi insopportabili. Si parla di schiavitù, di sottomissione femminile, e di altre questioni tradizionali ma soprattutto si parla del clima di oppressione derivante dal colonialismo che permea le tradizioni locali, le modifica alla radice, le fagocita, rendendo nello specifico il rapporto tra madre e figlio sempre più difficile: “... ed ella lo guardò, quest’uomo che indossava pantaloni, con un rosario intorno al collo... [le pareva] come una persona che recitasse una bizzarra pantomima.” Una relazione generazionale che rinasce invece nell’intimo rapporto con il femminile: Nwamgba crede nella nipote,


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come crede nell’ amica Ayaju; rispetta entrambe per le loro doti intellettuali, il loro amore per la tradizione accompagnato da ideali femministi. E sarà proprio Grace che, in un incalzante ritmo quasi joyciano (“... ed era Grace che...” ripetuto diverse volte come lo “yes” della joyciana Molly), ci darà un’immagine del futuro della Nigeria, delle lotte per l’indipendenza, dei movimenti per la liberazione del paese. Sarà proprio Grace a dare voce alla nonna in un crescendo ritmico sorprendente e quasi tribale.


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Invito (cicogne) di Elisabetta Grisendi | lo spazio della riscrittura

If you are a dreamer, come in, If you are a dreamer, a wisher, a liar, A hope-er, a pray-er, a magic bean buyer... If you’re a pretender, come sit by my fire For we have some flax-golden tales to spin. Come in! Come in!

Se sei un sognatore, fatti avanti, se sei un sognatore, un mentitore, un desidera-tore, un compratore di elisir s’amore... se sei un fingitore, vieni al mio focolare: dobbiamo tessere storie con fili d’oro luccicanti. Vieni avanti! Vieni avanti!

Shel Silverstein

Tim ParksI dice che per tradurre bene “bisogna saper scrivere bene, anzi benissimo nella propria lingua.” Posso aggiungere con modesta consapevolezza che bisogna saper raccontare bene storie, anzi, benissimo. C’è una stanza comune in cui chiunque traduca da qualsiasi lingua, può ritrovarsi: dare vita, necromanticamente, ad una lettera morta, in quanto nel suo stato incomprensibile e dunque illeggibile. Nel terzo Sonetto ad Orfeo Rilke scrive che cantare è Essere, e Chatwin riprende questo passaggio ne Le vie dei canti, raccontando i miti creazionali aborigeni, secondo i quali nominare-cantando è un dare alla luce. Cucendo insieme queste due idee, penso che, se cantare è un modo per lasciare che le cose Siano, perdere la possibile lettura-comprensione di esse perché manchevoli di un codice comunicativo, sia una perdita grande almeno quanto il lasciare morire. Molto, tantissimo, è già stato scritto con dovizia e sagacia sulla pratica traduttiva, e le note epistemologiche spesso prendono (giustamente) il sopravvento sulle riflessioni ontologiche. L’uomo ha da sempre raccontato storie, nel piacere del narratore c’è un’etica del donoII che il traduttore si incarica di conservare con un gesto di sacrificio ecolalico, nascondendo per definizione se stesso nella scrittura di chi ha narrato prima di lui. Ma, nonostante questa modestia che fa parte di un I

Il Sole XXIV ORE, 13/02/2011, pag.4-5.

II

Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano 2009, p. 10.


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corredo involontario, c’è nell’atto di tradurre una forza poietica che protegge ogni narratore di storie e supera la volontà di traghettare i pensieri da una cultura all’altra. Quest’ultima potrebbe essere semplicemente frutto di una curiositas da naturalista, da bio-logo, che ama la vita in tutte le sue forme. Non sempre con piena consapevolezza, chi traduce conserva una creazione e, poiché per alcuni solo tramite tale sforzo la storia si lascia conoscere, anch’egli crea e rende leggibile il disegno di ogni storia di cui si comprende la configurazione solo quando essa sia passata, e dunque narrata e narrabile. Adriana Cavarero definisce cicogna uno storyteller, perché non “fa”, ma porta, trasportaIII. Poiché nel preverbio tra – di trasportare si ritrova parte del trans-lare latino, trans-lation inglese, tra-duction del francese, forse cicogna non è solo un narratore di storie, ma anche un narratore di seconda mano, il traduttore. Hannah Arendt commenta il pianto di Ulisse alla corte dei Feaci IV dicendo che ‘non aveva mai pianto prima, certo non quando i fatti che ora sente narrare erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato.’ V Senza un traduttore, in versi o in prosa, che rispetti l’esametro o liberi le parole dal metro del verso, il pianto di Ulisse sarebbe invisibile a chi il greco non lo conosca. Con esso sarebbero invisibili le parole di Hannah Arendt, ci sarebbe preclusa la riflessione illuminante che diventa filosofia, ci potremmo dimenticare che le parole sono le cose, tanto che Catullo ne temeva il potere magico e voleva mettere i baci suoi e di Lesbia al riparo da esse.VI QUERELLE DES ANCIENS ET DES MODERNES Le lingue vive e le lingue morte lottano su una scacchiera, soprattutto perché tristemente gli insegnanti di esse lottano nella scuola, dimentichi che si sta camminando verso la stessa meta, forse solo per sentieri differenti. Per questo, stanca di sofismi bizantini, raccolgo qualche riflessione sulla mia partecipazione al workshop come osservatrice del lavoro degli studenti. Il traduttore delle lingue moderne apprende da quello delle lingue antiche la necessità vitale della costruzione del milieu, perché pur essendo attualità, era attualità per gli antichi. La vivezza delle parole di Demostene, ad esempio, resta tale solo dopo che si è ricreato il mondo in cui esse siano state formulate e si senta la loro forza eversiva che si nutre di una dimensione presente, non passata. Senza questa attualità, non si potrebbe restituire la funzione delle orazioni, la possibilità di persuadere chi debba prendere una decisione politica. III

Ivi, p.9.

IV

Odissea, VIII 72ss.

V

H. Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna 1987, p. 221.

VI

Catullo 7: nec mala fascinare lingua.


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Le lingue antiche inoltre si occupano solo di testi letterari, che il canone ha già consacrato o che, secondo la lezione di Bloom, si sono autoconsacrati a classici, mentre quelle moderne traducono qualcosa che nel canone deve ancora entrare. Lo stile dunque, il peso di archetipi, di modelli, il loro essere polo nell’oscillazione pendolare tra tradizione ed innovazione è irrinunciabile parte del loro commento e non può essere eluso. Non vivono una sincronia con noi, e per questo manifestano la loro lontananza, la loro alterità. Come la traduzione di un postcoloniale contemporaneo è sincronicamente un “altro da noi”, gli antichi lo sono in modo bidimensionale: nel tempo (diacronia) e nello spazio (sincronia). Ma sempre di viaggi stiamo parlando. Sempre di educazione alla tolleranza della diversità stiamo parlando. Sempre del risveglio della curiosità stiamo parlando. Gli antichisti d’altro canto apprendono dai modernisti la flessibilità e una libertà rigorosa che li faccia perdere quella reverenza che spesso impedisce di ammodernare un lessico stantio, frutto di dizionari ingialliti. Imparano poi a uscire dalla gabbia della traduzione letterale, relitto da liceo, quando le uniche traduzioni ammissibili sono quelle giuste: quelle che traducono davvero, che traghettano, che portano e trasportano da una sponda all’altra, navicelle dell’ingegno. Sempre di visione plurima del reale stiamo parlando, perché non esiste la traduzione, ma ne esiste più di una. Ma questo lo fanno entrambi, senza distinzione, les Anciens et les Modernes, che potrebbero finalmente bere una tazza di tè col pane abbrustolito. UNA PROPOSTA ALTERNATIVA Da Jonathan Swift, Gulliver’s travels, III. Passammo poi nella scuola di lingue, dove tre accademici stavano a consulto sul mezzo di migliorar la lingua del paese. Dapprima venne proposto di abbreviare il discorso riducendo i polisillabi a monosillabi ed eliminando i verbi e i participi: perchè, a veder le cose come stanno, tutte le cose immaginabili non sono che nomi. Venne seconda la proposta di abolir del tutto ogni parola, e fu caldamente appoggiata come infinitamente vantaggiosa alla salute non meno che alla concisione. E’ chiaro, infatti, che ogni parola pronunziata ci logora in qualche modo i polmoni e, di conseguenza, contribuisce ad abbreviarci la vita. Fu dunque suggerito che, dato che ogni parola è semplicemente il nome di una cosa, sarebbe più conveniente a chiunque portarsi addosso tutte le cose necessarie a esprimere i particolari affari di cui vuol parlare. Tale ritrovato sarebbe stato accolto senz’altro con gran vantaggio della comodità e della pubblica salute, se le donne, d’ accordo con il volgo e gli illetterati, non avessero minacciato una rivolta rivendicando la libertà di parlar con la lingua al modo dei loro padri: il volgo è sempre stato nemico irriducibile della scienza. Tuttavia parecchi fra i più dotti e i più saggi hanno aderito a


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questo nuovo modo di esprimersi attraverso le cose; unico suo inconveniente è che, se dobbiamo trattare affari complessi e di vario genere, siamo costretti a portarci sulla schiena una montagna di oggetti, a meno che non si possa disporre di due gagliardi servitori che ci aiutino. Ho spesso visto un paio di questi saggi quasi sommersi nel cumulo dei loro fagotti come i nostri merciai ambulanti; quando s’incontrano per via, metton giù il loro carico, aprono i sacchi e chiacchierano per un’ora; poi ripongono ogni cosa, si aiutano a vicenda a rimettersi in spalla il fardello e si salutano. Ma per conversazioni brevi, si possono portare i vari oggetti in tasca o sottobraccio; e in casa propria, poi, nulla può mancare. Per questo le sale in cui si radunano coloro che praticano questo sistema son piene di cose messe lì sottomano e pronte a fornir materia a questa sorta di conversazione artificiale. Altro gran vantaggio è che l’invenzione può servire come linguaggio universale, che può esser capito in tutte le nazioni civili le quali usano in genere suppellettili e utensili dello stesso genere o molto simili, così che facilmente si può capire il loro significato. In tal modo gli ambasciatori potrebbero trattare con principi o ministri stranieri senza conoscerne minimamente la lingua.


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L’Infinito movimento: nota sul tradurre di Franco Nasi | lo spazio della riscrittura

Nel libro I Am a Strange Loop, di recente pubblicato anche in italiano con il felice titolo Anelli dell’Io, il filosofo americano Douglas Hosftadter dichiara di ricorrere nella sua argomentazione a molte immagini, trascurando intenzionalmente il linguaggio rigido delle discipline scientifiche: ‘Benché speri di raggiungere con le idee di questo libro anche i filosofi, non penso che il mio modo di scrivere sia molto simile a quello di un filosofo. A me sembra che molti filosofi siano convinti di poter davvero dimostrare, come se fossero dei matematici, le cose in cui credono e che a tale scopo cerchino spesso di usare un linguaggio estremamente tecnico e rigoroso [...] Non credo che in filosofia sia davvero possibile dimostrare alcunché; credo che si possa semplicemente cercare di convincere [...] In conseguenza di questo blando fatalismo, la mia strategia per comunicare ciò che mi preme si basa più sulla metafora e sull’analogia che sui tentativi di essere rigoroso. E in effetti questo libro è una gigantesca insalatiera piena di metafore e analogie.’ (Hofstadter 2008: 10) Prendo a modello questo modo di argomentare, sottolineando che non solo nella filosofia della conoscenza, ambito di competenza di Hofstadter, è difficile dimostrare alcunché, ma altrettanto illusorio mi sembra che lo sarebbe per la traduzione letteraria. Si può forse solo cercare di convincere le persone che si affacciano a questo campo di ricerca che le cose sono meno semplici di quanto siamo in genere portati a pensare, che tradurre un testo


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non è operazione meccanica e univoca, e che una traduzione porta con sé conseguenze poetiche, etiche e politiche non irrilevanti. Nonostante l’attività del traduttore sia, a prima vista, quella di un comprimario, una specie di assistente di un autore che per poter essere letto e compreso in una lingua straniera si avvale della sua mediazione, a ben guardare essa è decisiva, oggi come ieri, nelle relazioni fra individui e fra culture. Il traduttore sa che il suo compito è ausiliario, in qualche modo subalterno. L’atteggiamento di grande umiltà, che dovrebbe discendere da una consapevolezza di questa natura, è una virtù che ogni traduttore serio deve avere. Quando si traduce un testo importante, come un Salmo della Bibbia, una Sura del Corano, ma anche una tragedia di Shakespeare, una pagina del Chisciotte, un Canto della Divina Commedia, non si può non assumere un atteggiamento di ammirazione. Si guarderà ripetutamente il testo (il latino ad-mirari porta in sé l’azione di guardare con insistenza, stupore e rispetto). Lo si leggerà e rileggerà. E ogni lettura porterà qualcosa di nuovo alla nostra comprensione del testo: si noteranno alcune ricorrenze ritmiche, alcuni giochi fonetici, alcune variazioni di significato dei termini che inizialmente ci erano sfuggiti. Il traduttore che voglia davvero leggere il testo che deve tradurre, e non limitarsi a trovare corrispondenze meramente lessicali, parola per parola tra due lingue, non potrà non porsi di fronte al testo con un atteggiamento di massima apertura e disponibilità a lasciarsi sedurre. Solo imparando a comprendere la complessità di un testo letterario, i suoi vari strati di significato, le relazioni fra gli aspetti retorici che lo costituiscono, solo imparando a coglierne il ritmo che lo rende quello che è, un testo appunto, un intreccio, un continuum di significati lessicali e forme, solo così si potrà pensare di riscriverlo in una lingua diversa, di trasportarlo in una cultura diversa. In genere più il traduttore è capace di cogliere la complessità dell’opera, più sente che il suo compito è impossibile: conoscere le implicazioni filosofiche, storico, letterarie, retoriche, che un testo porta con sé, e conoscere altrettanto bene le convenzioni retoriche della cultura in cui lo si vuole tradurre, da una parte crea le premesse necessarie perché la traduzione abbia successo, ma nello stesso tempo rende faticosa e complicatissima l’opera del traduttore. Prendiamo una poesia breve, apparentemente semplice, toccante, scritta per bambini, dal poeta inglese Roger McGough: Snowman in a field listening to the raindrops wishing him farewell


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Una prima traduzione potrebbe essere la seguente: Un pupazzo di neve in un campo ascolta le gocce di pioggia dirgli addio Massimo Bacigalupo, fra i migliori traduttori in Italia, vista questa versione, ha notato un errore e l’ha così corretta: Pupazzo di neve in un campo ascoltare le gocce di pioggia dirgli addio Il cambiamento è minimo ma significativo: “ascolta” diventa “ascoltare”. Nella prima versione il verbo “ascoltare” coniugato in terza persona (“ascolta”) fa sì che l’azione di “listening” sia svolta dal pupazzo di neve; ma nel testo di McGough non è sintatticamente decidibile chi sia il soggetto dell’azione. Se l’azione di ascoltare è attribuita allo snowman, allora io rafforzo la personificazione e lo creo come personaggio vivente, se invece sono io ad ascoltare le gocce di pioggia, posso magari ironicamente o giocosamente “dirgli addio”. Una lettura più attenta del testo ci porta dunque a cogliere alcune sue ambiguità semantiche che sarebbe opportuno mantenere o riprodurre anche nella traduzione, se vogliamo che essa rispetti il testo e riduca al minino le interpretazioni vincolanti che portano, inevitabilmente, a limitarne e a banalizzarne la polisemia. Ma se continuo ad “ammirare” il testo di McGough, a guardarlo con curiosità, a leggerlo ad alta voce, mi accorgo che non si tratta di una semplice poesia breve, ma di una poesia breve in forma chiusa: è composta secondo i vincoli metrici dell’Haiku e cioè primo verso di cinque sillabe, secondo di sette, terzo di cinque. Posso decidere di trascurare questo aspetto, ma è certo una decisione che va fatta con consapevolezza. Si può ad esempio decidere di tradurre la Divina Commedia in prosa oppure di mantenere la struttura della terza rima. Non è la stessa cosa naturalmente e non è detto affatto che la prima versione (presumibilmente più attenta alla resa delle parole singole) sia più precisa o corretta o fedele o letterale della seconda. Vedremo come questi aggettivi, così spesso usati anche quando si danno i giudizi nelle versioni che si fanno a scuola, siano visti oggi, dalla più avveduta traduttologia, con scetticismo se non addirittura banditi come insignificanti, ambigui e sostanzialmente inutili. Se la forma chiusa della poesia diventa nella lettura attenta del traduttore uno degli elementi fondamentali da considerare nella traduzione, si dovranno rivedere le versioni già esposte. Una possibile, che partendo dalla


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forma chiusa dell’Haiku giapponese, tenti anche di restituire l’ambiguità semantica che abbiamo visto potrebbe essere la seguente: Uomo di neve in mezzo a un campo. Piove. Dirgli: addio Scompare l’azione di ascoltare (“listening”), ma, è noto, in italiano molte parole sono plurisillabiche al contrario dell’inglese che è assai più “economico” da questo punto di vista, con numerosi termini composti da una sola sillaba. Se la griglia tuttavia richiede tre versi di cui due quinari e un settenario, si farà, come si dice, di necessità virtù. Un vincolo metrico dunque può costringere alla perdita di qualche elemento verbale. Qui non è questione di “traduttore traditore”, come si dice spesso con un motto un poco logoro, in verità. Semmai, come suggerisce Hofstadter, in un luogo saggio dedicato questa volta proprio al tema della traduzione, a “translator traitor” sarebbe meglio sostituire l’altrettanto paronomasico “translator trader”, “traduttore commerciante, mediatore” (Hofstadter 2009: 18). Un esempio minimo, come l’haiku di McGough, ci porta nel mezzo del territorio nel quale opera il traduttore di letteratura: un territorio caratterizzato da sentieri che presentano continuamente bivi, rotonde, incroci, a volte anche strade senza uscita. E il traduttore avveduto, perché consapevole della complessità del testo da tradurre e delle molteplici possibilità che gli offre la lingua e la cultura di arrivo, è costretto a scegliere, procedendo fra mille esitazioni e frustrazioni. L’umiltà e la modestia che derivano da una genuina ammirazione per il testo di partenza sono virtù necessarie al traduttore che lealmente cerca di svolgere al meglio il suo lavoro. Tanto più, dicevamo, il traduttore sarà consapevole della complessità del suo lavoro, tante più saranno le sue insoddisfazioni. Ecco come il poeta irlandese Grennan introduce la sua traduzione delle liriche di Leopardi: ‘The image I found for it was that of a beautiful, brightly colored stone you see underwater, which, when you take home and set n a windowsill, turns out to be a dull, dead gray. The water – the element the colors live in – is the original language; once removed from that, there is no finding those elemental colors again; we may only seek out approximations, painting them on as carefully as we can. Since this is a dual-language version, it will be very easy for the reader to see what I mean: on one page, the stone underwater; on the other the dry, painted, “translated” stone.’ (Grennan 1997: XVIII-XIX)


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Credo che quella descritta da Grennan sia un’esperienza che abbiamo fatto tutti: un sasso visto in un ruscello di montagna è spesso luccicante e colorato; una volta tolto dal letto del fiume e messo come soprammobile in casa, perde la sua brillantezza e ci appare grigio e smorto (“dull, dead gray”). Così, apre la metafora Grennan, càpita con le grandi poesie: fino a che restano nel loro elemento vitale rifulgono di splendore, una volta trasportate in un luogo differente muoiono. Il traduttore potrà colorarle un poco, ma l’effetto non sarà mai lo stesso. Nella metafora di Grennan c’è tutta l’umiltà del poeta-traduttore. La presenza del testo a fronte mette ancor più a nudo, davanti agli occhi di tutti, l’oltraggio fatto al testo, le perdite del passaggio. Di questo denudamento, evidenziato dal confronto diretto, il traduttore sensibile prova una sorta di vergogna. L’introduzione, con l’immagine finale del sasso ricolorato ad arte, è una dichiarazione del senso di inadeguatezza, una metafora dettata dal pudore e dalla consapevolezza di un tentativo compiuto e forse riuscito solo parzialmente (su “pudore” e “vergogna” si vedano Belpoliti 2010 e Tagliapietra 2006). Secondo Ortega Y Gasset d’altronde, il traduttore, come l’essere umano nel suo passaggio nel tempo che gli è dato, “parte sempre verso il fallimento, e prima di entrare nella lotta porta già la tempia ferita” (2001: 30). Propongo tuttavia qui di riprendere l’immagine di Grennan e di virarla un poco. Non credo che il compito del traduttore sia solo quello di prendere il sasso e metterlo su una scansia come soprammobile o sotto vetro in un museo. Il fiume è un elemento che si muove continuamente e, come la lingua, si muove con ritmi e modi a volte imprevedibili. Tradurre un testo ha più a che fare con l’azione di raccogliere quel sasso per poi rimetterlo in un nuovo fiume, dove la corrente della lingua in cui si traduce, con le sue istituzioni poetiche e le sue norme lessicali e sintattiche, è in perenne movimento. Il sasso, ricollocato così nel nuovo corso, non è solo reso più luminoso dall’acqua (il suo naturale liquido amniotico), ma può far mutare il corso del fiume, anche di poco. Le grandi opere letterarie d’altronde sono grandi sassi che fanno mutare la corrente. Mettono in discussione le norme del linguaggio, le convenzioni retoriche, non si appiattiscono sull’orizzonte di attesa del lettore medio, ma forzano la lingua e le sue convenzioni retoriche in direzioni nuove. Trasportata in un altro corso d’acqua, la buona traduzione di un testo letterario significativo può far cambiare anche il corso del movimento del nuovo fiume, deviandone, anche se solo di poco, il fluire normale, consueto. Lo hanno fatto grandi traduzioni che sono diventate fondamentali non solo per la conoscenza dell’opera che è stata tradotta, ma per le stesse istituzioni letterarie della cultura di arrivo. Così la traduzione di Annibal Caro dell’Eneide, l’Iliade di Monti, Ossian di Cesarotti, I canti Corsi, Illirici, Greci di Tommaseo, I


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lirici greci di Quasimodo, sono sassi che hanno fatto cambiare il corso della corrente del grande fiume della civiltà letteraria in lingua italiana. Il testo vive solo se rimesso in un flusso, in un movimento (linguistico, poetico, culturale, esistenziale). Nulla rende più mortifero e inutile un testo che una traduzione imbalsamata, scritta in “traduttese”, in una lingua neutra, tutta preoccupata di rispettare la norma linguistica dominante, quella che rende appetibili e allo stesso tempo mediocri e omologanti i prodotti di mercato, a discapito della qualità. Una buona traduzione non deve solo “dire”, ma anche “fare”, come scrive Meschonnic (2000: 17). Friedman Apel, in un denso studio sul linguaggio, ha messo bene in evidenza questa peculiarità della lingua e la centralità della nozione di movimento, di trasformazione, di innovazione della traduzione: ‘La dialettica del vecchio e del nuovo [...] si palesa nel modo più pregnante proprio nella traduzione, e, non a caso, nell’ambito della teoria della traduzione la categoria del nuovo è diventata una categoria poetologica. Nessuna traduzione che si sia affermata in una certa epoca era semplice imitazione dell’antico. Anche qui vale il principio che Adorno descrive come impulso in ogni arte: “Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo.”’ (Apel 1997: 36-37) Il movimento non è caratteristica però solo della lingua di arrivo, cosa chiara a tutti coloro che ripercorrendo la storia delle traduzioni confrontino, ad esempio, le traduzioni ottocentesche e quelle contemporanee di Hamlet di Shakespeare. L’italiano letterario dell’età romantica non è quello che usiamo oggi né lo sono le convenzioni retoriche, quelle poetiche. I diversi traduttori, con le loro diverse poetiche, hanno moltiplicato Hamlet. Meno scontato è pensare al testo di partenza come un testo anch’esso in movimento. Cercherò di mostrare come questi due movimenti (del testo di partenza e del testo di arrivo) siano ugualmente importanti per la definizione di un testo letterario come co-testo, testo singolare e plurale a un tempo (Nasi 2009: 45-72). Alcuni diranno che il testo che abbiamo davanti e che dobbiamo tradurre è un punto di partenza fisso e definitivo. A volte forse è così, ma molto spesso non lo è. Molti, ingenuamente, pensano che quando si debba tradurre la Divina commedia in inglese si parte da un testo che è tale per tutti i traduttori; ammettono cioè che le traduzioni potranno essere diverse, ma non che lo è il testo di Dante. Come sanno bene tutti coloro che si sono occupati di filologia, e in particolare di ecdotica, uno dei problemi cruciali di questa disciplina è la cosiddetta “edizione critica” che intende stabilire il testo così come era in origine o come era voluto dall’autore. A volte è un compito infinito, a suo modo utopico. È certo rassicurante pensare di avere tra le mani “il testo” scritto da Dante, ma purtroppo, non sappiamo quale sia la versione che l’autore ha ritenuto definitiva. Molti lettori non sanno


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neppure che il titolo che Dante aveva dato alla sua opera era semplicemente Comedìa, eppure noi tutti conosciamo quello scritto con un titolo diverso, così come conosciamo l’Orlando innamorato di Boiardo con un titolo falso, essendo quello più probabile Inamoramento de Orlando. Ancora, quando leggiamo il Macbeth di Shakespeare, pensiamo di leggere quello che ha scritto il drammaturgo inglese, ma il primo testo a stampa di cui siamo in possesso (1623) è stato redatto sette anni dopo la sua morte (1616) e alcune scene (III.5 e IV.1) sono quasi sicuramente state aggiunte da chi ha composto l’in folio, basandosi probabilmente su messe in scena del testo successive alla morte di Shakespeare. Uno dei massimi filologi italiani, Cesare Segre, ha ribadito che il compito di emendare il testo dalle “varianti erronee” o “non genuine” nel tentativo di “avvicinarsi all’archetipo” (cioè, in mancanza del testo autografo, del testo capostipite delle successive trascrizioni) vale come imperativo categorico per lo studioso dell’ecdotica, e “potrebbe essere il primo comandamento in una specie di giuramento di Ippocrate dei critici letterari” (Segre 2001: 98-99). Tuttavia non è di minore interesse e cogenza anche lo studio delle varianti, l’analisi critica cioè dei modi in cui quel testo, risignificandosi continuamente, è stato modificato dall’autore stesso (Segre 1969: 87-91) o dai trascrittori, dai critici, dai revisori editoriali, dai compilatori di antologie, dai traduttori (Lefevere 1998: 9). Forse è bene pensare, per evitare di cadere in illusorie sicurezze, che il nostro modo di leggere l’eventuale testo definitivo non lo esaurisce; è un avvicinamento, una sorta di tensione verso il testo: è bene concentrarsi sull’edizione critica, sull’utopico “testo corretto”, ma è necessario concentrarsi anche sui “testi corrotti”, cioè sulla storia del testo, sul modo in cui quel testo sia stato vissuto, si sia trasformato e sia giunto fino a noi. Quando leggiamo un testo tendiamo spesso a interpretarlo come se a una data parola corrispondesse da sempre uno stesso significato. L’esempio più illuminante e noto è il sonetto di Dante dalla Vita Nuova “Tanto gentile e tanto onesta pare /la donna mia quand’ella altrui saluta....” Contini, con dovizia di particolari, ha mostrato come queste parole abbiano assunto nel corso del tempo significati diversi: che “gentile” non vuol dire bene educata; che “onesta” non è il contrario di disonesto; che “pare” non vuol dire “sembra” ma “appare evidentemente, è o si manifesta nella sua evidenza”; che “donna” non sta per mia fidanzata, ma piuttosto per mia signora, mia domina, padrona; che “salutare” non significa “dire ciao” ma fare star bene, donare, appunto, la salute (Contini 1979: 163-64). Non solo le lingue straniere dunque sono piene di false friends. Lo è persino la lingua madre, anche se ce ne accorgiamo solo di rado. “Guerra civile”, ad esempio, per noi è una guerra intestina, tra cittadini di una stessa nazione. Nel Proemio al Trecentonovelle di Franco Sacchetti, la guerra civile è invece una guerra con


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un nemico esterno, tra stati diversi, tra civiltà (Puccini 2006: 5153), e così era non solo per Sacchetti. Per rimanere al trecento fiorentino, un brigante nel Decamerone non era necessariamente un ladro, poteva essere benissimo un buontempone, uno che faceva parte della brigata, della compagnia, come lo erano i giovani che formavano “l’onesta brigata”. Onesti poi lo erano i dieci giovani del capolavoro di Boccaccio non perché non rubassero: onesto non significava questo all’epoca, non era il contrario di disonesto, ma di utile, essi trascorrevano “onestamente” il loro tempo, senza fare cioè alcunché di utile, in pratica senza lavorare (Cherchi 2004). Il testo di partenza può essere irrequieto e in movimento non solo per le sue diverse edizioni o per gli arcaismi semantici, ma anche perché intrinsecamente ambiguo. Abbiamo visto come lo era “listening” nella poesia per bambini di McGough: in pratica indecidibile. È facile vederlo nelle poesie di Mallarmé, dove l’indecidibilità e l’ambiguità sintattica sono ricercate come peculiarità di una poetica ermetica e ontologica. Ma lo sono anche in certi versi famosissimi di Shakespeare. Si prenda ad esempio, il primo verso del famoso monologo di Macbeth quando gli viene comunicato che la moglie, la tremenda Lady Macbeth, è morta (V.5): ‘She should have died hereafter. There would have been a time for such a word. Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow...’ In due recenti traduzioni endolinguistiche (dall’inglese di Shakespeare all’inglese contemporaneo) il verso è tradotto in modi aassolutamente diversi. In un caso si legge “She would have died later anyway” (Shakespeare 2003: 203), nell’altro: “She shouldn’t have died so soon” (Shakespeare 2008: 178); cioè a dire: “tanto prima o poi sarebbe morta”, oppure “è morta troppo giovane.” Non è necessario spiegare l’abissale differenza fra le due interpretazioni: non si tratta qui di un incidente di percorso di uno dei due traduttori. Confrontando molte versioni italiane della tragedia ci si accorge che anche i traduttori italiani si sono divisi su questa interpretazione. Ecco due versioni esemplari: Cino Chiarini nel 1911 traduce: “Avrebbe dovuto morire più tardi; non sarebbe mancato il momento opportuno per udire una simile parola” (Shakespeare 1977); Gabriele Baldini invece nel 1963 legge: “Sarebbe pur morta, un giorno o l’altro. Il tempo per quella parola sarebbe pur dovuto venire” (Shakespeare 1993). Il problema, sempre che questo sia un problema e non una forza propria della poesia, è che il testo di partenza è intrinsecamente ambiguo (Empson 1965) e questa ambiguità lo rende volatile, in movimento, appunto. Più facile è mostrare come le diverse traduzioni mettano in movimento il testo nella lingua di arrivo. Nessuno che abbia un minimo di conoscenza della storia della letteratura, della lingua e delle poetiche potrà pensare che esista una e una sola traduzione corretta di una poesia. Sarà sufficiente riprendere uno qualunque dei frammenti di Saffo, ad esempio, e vedere come sono stati


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tradotti in italiano nei secoli per accorgersi di come molte delle traduzioni, diversissime tra di loro, abbiano ciascuna una motivazione, una ragione per essere quello che sono, e nello stesso tempo, proprio grazie alla loro diversità, consentano a quel frammento di continuare a “fare” qualcosa, a vivere come poesia. Per esemplificare questo punto (il movimento del testo nella lingua di arrivo) prenderò uno dei pochi testi che ancora, forse, quasi tutti conosciamo a memoria: l’Infinito di Leopardi. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare. Il testo è stato scritto poco meno di duecento anni fa e, grazie anche allo stile cristallino e innovativo di Leopardi, non dovrebbe presentare troppi problemi per quanto riguarda il lessico: forse soltanto termini come “spaura” (peraltro facilmente intuibile) o “ermo” e “sovvien” risultano ostici a chi non sia abituato alla lingua letteraria. Qualche difficoltà sarà data dalla costruzione sintattica che rende così meravigliosamente sospesa e come indefinita l’espressione poetica di Leopardi. Quando leggiamo una traduzione in un’altra lingua di una poesia che amiamo, restiamo un poco indispettiti e pensiamo, quasi inevitabilmente: “in italiano è tutt’altra cosa!”, trovando un argomento a sostegno del luogo comune che la poesia non si possa tradurre. Ecco la versione di Grennan, che ci aveva peraltro avvertiti che il sasso brillante, nella sua versione, risultava, per forza di cose, “grigio e smorto”. I’ve always loved this lonesome hill And this hedge that hides The entire horizon, almost, from sight.


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But sitting here in a daydream, I picture The boundless spaces away out there, silences Deeper than human silence, an unfathomable hush In which my heart is hardly a beat From fear. And hearing the wind Rush rustling through these bushes, I pit its speech against infinite silence – And a notion of eternity floats to mind, And the dead season, and the season Beating here and now, and the sound of it. So, In this immensity my thoughts all drown; And it’s easeful to be wrecked in seas like these. Il lettore italiano sarà subito tentato di verificare se “c’è tutto”. E subito noterà che l’avverbio “sempre” che apre la poesia e che le dà immediatamente un tono assertivo, filosofico, qui è in secondo piano, preceduto dal soggetto “Io” che “ama” (to love) la collina solitaria. Tutti sanno che non è esattamente la stessa cosa dire “amare” o “voler bene” o “avere a cuore” o “sempre caro mi fu”. E si potrebbe continuare così, meticolosamente, mettendo in evidenza quello che non c’è più nella traduzione, quello che è andato perduto. Procedere in questo modo non porta a nulla. Meglio, molto meglio, secondo Berman (2000), è sospendere ogni giudizio frettoloso e cercare di verificare se il testo di arrivo ha una sua coerenza interna, funziona come testo, e a quali ragioni, scopi, strategie traduttive risponde. Per alleggerire il discorso propongo ora una serie di trasformazioni o manipolazioni (termine che Lefevere, 1998, usa significativamente come sinonimo di traduzioni) del testo di Leopardi in italiano. Seguire le metamorfosi di un testo nella lingua madre può sollecitare reazioni di disappunto, stupore, fastidio o piacere in modo più immediato, ma non per questo meno profondo. Si tratta di un gioco, poco più. Con una premessa però: i giochi si fanno partendo da regole, da norme condivise e la storia della poesia è segnata da norme che, per un certo periodo, vengono accolte e sembrano definitive e immutabili, per essere poi sostituite da altre a volte totalmente opposte (basti pensare alla forma chiusa o al verso libero). La prima trasformazione è la parafrasi (o traduzione endolinguistica, per dirla con Jakobson) di Paolo Balboni, pubblicata in un volume con testo a fronte, edito dalla casa editrice Bonacci, in una serie di volumi di classici italiani tradotti in italiano per studenti stranieri. Ho sempre amato quella collina solitaria E questa siepe che nasconde agli occhi Una gran parte dell’orizzonte più lontano.


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Ma, seduto a guardare, mi immagino Spazi senza fine al di là della siepe, e silenzi più che umani, e una profonda tranquillità: in cui il mio animo quasi si spaurisce. E mentre ascolto il vento che fa rumore tra gli alberi, paragono questo rumore a quel silenzio infinito: e mi tornano in mente l’eternità e le stagioni passate e quella di oggi, viva, e la voce di lei. Così, in questa immensità il mio pensiero annega: e mi piace naufragare in questo mare. L’incipit è lessicalmente assai simile alla traduzione di Grennan, e simile forse è anche il senso di insoddisfazione che ci accompagna nella lettura. Credo che quasi tutti saranno disposti ad ammettere che “si capisce” meglio quello che il testo “dice”, ma manca la musicalità dei versi, che fanno dire e “fare” alla poesia anche altre cose. Sappiamo che la poesia originale è scritta in endecasillabi sciolti, mentre Balboni, nella sua riscrittura, non sembra preoccuparsi di questo vincolo. Proviamo allora a riscrivere la riscrittura di Balboni cercando di fare rispettare ai versi il vincolo dell’endecasillabo, così come per la terza versione della poesia di McGough avevamo deciso di applicare la forma chiusa dell’Haiku. Ho amato sempre il colle solitario e questa siepe che nasconde agli occhi molto dell’orizzonte più lontano. Ma io seduto a guardare mi immagino spazi infiniti al di là della siepe, silenzi più che umani, e una profonda tranquillità: in cui il mio animo quasi si spaventa. E mentre ascolto il rumore del vento tra gli alberi, paragono questo rumore al silenzio infinito: e mi torna in mente l’eternità, le stagioni passate e quella di oggi, viva, e la voce di lei. Così, in questa immensità il mio pensiero annega: e gioia è naufragare in questo mare. Non c’è dubbio che in questo modo si riporti un po’ di regolarità metrica


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alla poesia, ma basterà confrontare la indugiante lunghezza e la sospensione ritmica del verso “ma sedendo e mirando, interminati” con quello che segue e la goffaggine dell’endecasillabo sdrucciolo “Ma io seduto a guardare mi immagino” per capire che il metro da solo non fa il ritmo, che la musicalità di una poesia non è data solo dal computo delle sillabe di ciascun verso o dalla disposizione degli accenti, ma anche da tanti altri elementi, a partire dalle ricorrenze dei suoni, dalle loro qualità intrinseche ed evocative come i suoni lunghi dei due gerundi ad esempio (sul ritmo si vedano Meschonnic e Mattioli 2000, Mattioli 2001, Buffoni 2001). Per un certo periodo si è pensato che la rima fosse un elemento imprescindibile della scrittura poetica. Leopardi stesso, nei suoi esercizi giovanili, non indugiava a mettere in rima e in versi regolari forme poetiche che nell’originale non erano né in rima né in versi isometrici. Così il frammento 168B di Saffo:

Nel giovane Leopardi diventa: Oscuro è il ciel: nell’onde La luna già s’asconde, E in seno al mar le Pleiadi Già discendendo van. È mezzanotte, e l’ora Passa frattanto, e sola Qui sulle piume ancora Veglio ed attendo invan. (1988: I, 898) Leopardi vuole restituire il testo in forma chiusa (due quartine di settenari, con l’ultimo di ciascuna strofa tronco e diverse rime: onde/ asconde; ora/ ancora; van/invan); per farlo adotta la tecnica dell’allungamento, inserendo zeppe e immagini inesistenti nell’originale, ma necessari per conseguire il tipo di traduzione voluta. Supponiamo di condividere con il giovane Leopardi la convinzione che la poesia si dia solo in forma chiusa (endecasillabi rimati): il suo Infinito, potrebbe diventare più o meno così: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe che lo sguardo estolle da gran parte dell’ultimo orizzonte. Sedendo e mirando di là dal monte


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spazi in disparte oltre quelli infiniti, e profonda quiete, e Silenzi arditi mi raffiguro nel mio pensïero e il mio cuore trema e ha paura invero. Se nel vento odo stormir queste piante le comparo a quel silenzio inquietante. Allora in mente mi sovvien l’eterno e le morte stagioni, e questo inferno vivo, e il suon di lui. In questo vocio si annega proprio il pensïero mio: dolce è morire in questo turbinio. Il gioco potrebbe continuare con i vincoli più disparati. Recentemente Valerio Magrelli (2010), ripercorrendo i “travestimenti” o reincarnazioni di Recueillement di Charles Baudelaire, ha analizzato con acume alcune curiose riscritture come quella di Prévost che “trasmetrizza” il sonetto trasponendo in ottosillabi i versi alessandrini di Baudelaire, o quella di Perec che lo cita nel suo libro lipogrammatico La disparition, scritto senza utilizzare mai la lettera “e”. Si tratta di giochi non privi di interesse che possiamo applicare alla nostra poesia, riducendo ad esempio gli endecasillabi a settenari e trovando con una certa sorpresa che il metro del settenario domina come scansione non secondaria anche nella versione originale: Sempre amai l’ermo colle, E questa oscura siepe Che cela l’orizzonte. Ma sedendo e mirando penso ai grandi silenzi e agl’infiniti spazi e alla profonda quiete, e questo mi spaventa. E come sento il vento stormir tra queste piante, confronto quel silenzio a questa lieve voce: e mi sovvien l’eterno, e le stagioni morte, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio:


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E il naufragar m’è dolce in questo nero mare. oppure trasformando l’Infinito in un canto perechianamente privo della lettera “e”: In ogni stagion cara mi fu la collina qui accanto, indi l’intrico di rami i quali tanto il guardo nascondono all’ultima vista. Ma accucciato a guardar, infiniti Spazi di là dai rami, indi sovrumani Suoni zittiti, indi profondissima calma Io mi fingo in capo; sì quasi Il cor non si spaura. Quando poi il soffio d’aria odo stormir tra i grandi rami, io lo Infinito nullo-suono al vivo suono Vo comparando: mi ricorda l’immortal, I morti autunni, indi l’oggi vivo, con il suo suono. Così tra la infinità muor il cogito mio: Indi il naufragar mi par buono in siffatto campo blu. La trasmutazione potrà apparire bizzarra e inutile, forse lo è. Tuttavia, a ben guardare, quando traduciamo, a volte, affrontiamo problemi di questo tipo semplicemente perché la fonetica della lingua in cui traduciamo non ha suoni corrispondenti che potrebbero essere stati utilizzati nella poesia originale, ad esempio, con funzione onomatopeica. Si è indugiato fin troppo con queste manipolazioni e riscritture. A questo punto varrebbe la pena di confrontare le diverse versioni dell’Infinito nelle varie lingue straniere in cui è stato tradotto, per verificare come le norme poetiche, le sensibilità, le ideologie, i modi di interpretare e di leggere la natura, delle varie culture hanno trapiantato questa composizione poetica di Leopardi nella loro cultura. Questo modo di procedere ci porta molto lontano dalla banale contrapposizione, spesso citata, tra traduzioni belle e infedeli oppure brutte e fedeli. Si tratta piuttosto di vedere, come scrive Magrelli, le reincarnazioni di un testo, la sua moltiplicazione, le sue metamorfosi, gli innesti, le riattivazioni. Perché, e forse è bene ricordarlo, un testo non si dà mai come qualcosa di definitivo, ma vive e rivive in modi diversi nelle sue infinite letture, passate e future; non si dà come testo in sé, ma, per dirla con Kristeva, come mosaico di testi (1978: 121), come tessera, a sua volta, di quel mosaico multicolore e in movimento che è il caleidoscopio della letteratura.


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Un’esperienza privata a cura del Liceo “Da Vinci” di Crema | workshop di traduzione

Chika entra all’interno della bottega scavalcando la finestra e poi trattiene la serranda finché la donna dopo di lei non entra a sua volta. Il negozio dà l’impressione di essere stato abbandonato molto tempo prima che iniziassero le rivolte. Le file sgombre degli scaffali in legno sono ricoperte di una polvere giallognola, così come i contenitori di metallo ammucchiati in un angolo. La bottega è piccola, ancora più piccola della cabina armadio che Chika ha a casa. La donna entra e le serrande cigolano non appena Chika le lascia andare. Le mani di Chica stanno tremando, i polpacci le bruciano dopo la corsa dal mercato, resa instabile dai tacchi alti dei sandali che indossa. Vuole ringraziare la donna per averla fermata mentre le sfrecciava davanti, per averle detto “No corri di là” e per averla condotta, invece, in questa bottega vuota dove potersi nascondere. Ma prima che possa pronunciare la parola “Grazie”, la donna dice, passandosi la mano sul collo nudo, “Mia collana persa quando io sto correndo.” “Mi è caduto tutto,” dice Chika. “Stavo comprando delle arance e mi sono cadute sia le arance che la borsa.” Non aggiunge che la borsa era una Burberry, una di quelle originali, che sua madre le aveva comprato durante un recente viaggio a Londra. La donna sospira e Chika immagina che stia pensando alla sua collana, probabilmente perline di plastica infilate in una cordicella. Anche senza lo spiccato accento Hausa della donna, Chika è in grado di dire che è una del


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Nord, dalla magrezza del suo viso, dagli zigomi insolitamente alti; e che è una musulmana, a causa del velo che ora le ciondola intorno al collo, ma che probabilmente prima le avvolgeva delicatamente il viso, coprendole gli orecchi: una lunga sciarpa leggera rosa e nera, con la sgargiante bellezza delle cose poco costose. Chika si chiede se anche la donna la stia scrutando, se riesca a dedurre, dalla sua carnagione chiara e dal rosario da dito in argento che sua madre insiste che porti, che è una Igbo e una cristiana. Più tardi Chika verrà a sapere che, mentre lei e la donna stavano parlando, i musulmani Hausa stavano lapidando e facendo a pezzi coi machete i Cristiani Igbo. Ma ora dice, “Grazie per avermi chiamato. Tutto è successo così velocemente, tutti correvano e io sono rimasta improvvisamente da sola, senza sapere cosa stavo facendo. Grazie.” “Questo posto sicuro” afferma la donna, in una voce così flebile da sembrare un sussurro. “Loro non andare in negozio piccolo-piccolo, solo negozio grande-grande e mercato.” “Sì” risponde Chika. Ma non ha alcun motivo per essere d’accordo o meno, non sa nulla delle rivolte: l’evento a cui ha partecipato che più assomiglia ad una sommossa è la manifestazione pro-democrazia che si era tenuta all’università qualche settimana prima, dove, come unica “arma”, aveva impugnato un ramo verde brillante e si era unita al coro “I militari devono andare! Abacha se ne deve andare! Democrazia subito!.” Inoltre, non avrebbe nemmeno partecipato a quella manifestazione se sua sorella Nnedi non fosse stata tra gli organizzatori che erano andati di ostello in ostello per consegnare volantini e parlare agli studenti riguardo all’importanza di “far sentire la nostra voce.” Le mani di Chika stanno ancora tremando. Solo mezz’ora fa era al mercato con Nnedi. Mentre lei comprava le arance, sua sorella era andata un po’ più avanti per acquistare delle noccioline; e poi c’erano state grida in Inglese, in Pidgin, in Hausa, in Igbo. “Rivolta! Guai in arrivo, oh! Hanno ucciso un uomo!” In seguito, la gente intorno a lei correva, spintonandosi, rovesciando carriole piene di patate dolci, lasciandosi dietro vegetali ammaccati e calpestati per cui avevano negoziato fino a poco prima. Chika aveva annusato il sudore e la paura nell’aria e anche lei, come gli altri, si era messa a correre per strada e, attraversando ampie vie, era giunta in questo vicolo, che temeva – sentiva – fosse pericoloso, finché non vide la donna. Per un momento la ragazza e la donna stanno in silenzio nel negozio, guardando fuori dalla finestra che hanno appena scavalcato, le cui serrande in legno cigolanti oscillano nell’aria. Inizialmente la strada è tranquilla, poi, improvvisamente, sentono i passi affrettati di qualcuno che corre. Entrambe si allontanano dalla finestra, istintivamente, ma Chika riesce ancora a vedere un uomo e una donna che stanno passando di lì; la donna tiene la veste


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sollevata sopra le ginocchia e porta sulla schiena un bambino legato con una fascia. L’uomo parla rapidamente in Igbo e tutto ciò che Chika riesce a sentire è: “Potrebbe essere scappata a casa dello zio.” “Chiudi la finestra” le dice la donna. Chika chiude la finestra e, senza l’aria che entra dalla strada, all’improvviso la polvere nella stanza appare così fitta da riuscire a vederla ondeggiare sopra di lei. L’aria nella stanza è soffocante e non ha lo stesso odore delle strade all’esterno, che sanno di quel fumo azzurrognolo che si diffonde a Natale, quando la gente getta nel fuoco le carcasse delle capre per strinarne il pelo; quelle stesse strade che aveva percorso alla cieca, insicura in quale direzione Nnedi fosse corsa via, non sapendo se l’uomo che correva al suo fianco fosse un amico o un nemico, indecisa se doversi fermare per prendere con sé uno di quei bambini dallo sguardo attonito, separati dalle madri nella foga, senza sapere chi fosse chi o chi avesse ucciso chi. Più tardi vedrà le carcasse di macchine bruciate, buchi dai contorni frastagliati al posto dei finestrini e dei parabrezza ormai infranti e immaginerà le auto in fiamme costellare la città come piccoli falò, silenti testimoni di tutto ciò. Scoprirà che tutto era iniziato al parcheggio, quando un uomo alla guida aveva travolto una copia del Sacro Corano che era stata lasciata sul ciglio della strada, un uomo che, per caso, era Igbo e cristiano. Gli uomini lì vicino, uomini che passavano tutto il giorno seduti a giocare a freccette e a bere, uomini che, per caso, erano Musulmani, lo trascinarono fuori dal suo camioncino, gli tagliarono la testa con un colpo di machete e la portarono al mercato, chiedendo agli altri di partecipare; l’infedele ha dissacrato il Libro Sacro. Chika si immaginerà la testa dell’uomo, il colore cinereo della morte sulla sua pelle, vomiterà e avrà conati finché non le farà male lo stomaco. Ma ora domanda alla donna: “Senti ancora l’odore del fumo?” “Sì,” dice la donna. Si scioglie la lunga gonna verde che porta annodata alla vita e che le avvolge le gambe sino alle caviglie e la stende sul pavimento polveroso. Ora indossa solo una camicia e una mutandina d’un nero brillante con le cuciture strappate. “Vieni a sederti.” Chika guarda il grande telo logoro steso sul pavimento; probabilmente è una delle uniche due gonne che la donna possiede. Guarda anche la propria gonna di jeans e la maglietta rossa su cui è stampata in rilievo l’immagine della Statua della Libertà, entrambe comprate quando lei e Nnedi avevano trascorso qualche settimana d’estate con alcuni parenti a New York. “No, la tua gonna si sporcherà”, le dice. “Siedi,” dice la donna. “Noi aspettiamo qui tanto tempo.” “Hai idea di quanto…?” “Stanotte o domani mattina.” Chika si porta la mano alla fronte, come se si controllasse una febbre


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malarica. Solitamente il tocco del palmo fresco della sua mano la calma, ma questa volta il palmo è madido e sudaticcio. “Ho lasciato mia sorella mentre comprava le noccioline. Non so dove sia.” “Lei va posto sicuro.” “Nnedi.” “Eh?” “Mia sorella. Si chiama Nnedi.” “Nnedi,” ripete la donna e il suo accento Hausa riveste il nome Igbo di una lieve dolcezza. Più tardi Chika passerà in rassegna gli obitori degli ospedali in cerca di Nnedi; andrà negli uffici dei giornali stringendo la foto di lei e Nnedi scattata ad un matrimonio solo la settimana prima, quella dove lei ha una stupida smorfia in volto perché Nnedi l’aveva pizzicata appena prima che la foto fosse scattata, quella dove indossano due abiti coordinati che lasciano le spalle scoperte, di fattura turca. Affiggerà fotocopie della fotografia sui muri del mercato e dei negozi vicini. Non troverà Nnedi. Non la troverà mai. Ma ora si rivolge alla donna, “Nnedi ed io siamo venute qui la scorsa settimana per fare visita a nostra zia. Siamo a casa da scuola, in vacanza.” “Dove vai scuola?” chiede la donna. “Siamo all’università di Lagos. Frequento medicina. Nnedi studia scienze politiche.” Chika si chiede se la donna sappia almeno cosa significhi andare all’università. E si domanda anche se abbia citato la scuola solo per nutrirsi di quella realtà di cui ha bisogno ora – che Nnedi non si è persa durante una sommossa, che Nnedi è salva da qualche parte, probabilmente ridendo nel suo modo spensierato, con la bocca spalancata, probabilmente impegnata in una delle sue discussioni politiche. Per esempio, su come il governo del Generale Abacha stesse usando la sua politica estera per legittimarsi agli occhi degli altri Paesi Africani. O su come la grande popolarità delle extensions bionde ai capelli fosse una diretta conseguenza del colonialismo Britannico. “Abbiamo trascorso solo una settimana qui con nostra zia, non siamo mai state a Kano prima d’ora” dice Chika, e realizza quello che sta provando: lei e sua sorella non dovrebbero essere toccate dalla rivolta. Sommosse come questa sono proprio come quelle di cui aveva letto sul giornale. Sommosse come questa erano successe ad altri. “Tua zia al mercato?” chiede la donna. “No, è al lavoro. È la direttrice del segretariato.” Chika si porta ancora la mano alla fronte. Si abbassa con calma e si siede vicino alla donna più di quanto non avrebbe fatto normalmente, in modo da appoggiare interamente il corpo sul telo. Avverte un certo odore proveniente dalla donna, un non so che di pungente e pulito, come il sapone da bucato che la loro donna delle


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pulizie utilizza per lavare la biancheria da letto. “Tua zia va posto sicuro.” “Sì” dice Chika. La conversazione ha un qualcosa di surreale; si sente come se stesse guardando se stessa dall’esterno. “Questa rivolta. Non riesco ancora a credere che stia accadendo.” La donna ha lo sguardo fisso davanti a sé. Tutto di lei è lungo e slanciato, le sue gambe distese in avanti, le sue dita, con le unghie dipinte con l’henné, i suoi piedi. “È opera del diavolo,” dice infine. Chika si chiede se questo sia tutto ciò che la donna pensa delle sommosse, se questo sia tutto ciò che vede in esse – il diavolo. Vorrebbe tanto che Nnedi fosse qui. Nella sua mente si immagina il marrone scuro-cacao degli occhi di Nnedi brillare di gioia, le sue labbra muoversi velocemente, spiegando che le rivolte non nascono dal nulla, che la religione e l’etnia sono spesso politicizzate perché il governante in carica è al sicuro se i governati si ammazzano l’un l’altro. Poi Chika sente un lieve senso di colpa per essersi chiesta se la mente della donna sia abbastanza aperta per cogliere almeno un qualcosa di tutto ciò. “A scuola vedi persone malate ora?” chiede la donna. Chika distoglie velocemente lo sguardo così che la donna non riesca a notare la sorpresa. “I miei casi clinici? Sì, abbiamo iniziato l’anno scorso. Noi visitiamo i pazienti alla Clinica Universitaria.” Non aggiunge però che spesso ha attacchi di insicurezza, che rimane indietro nel gruppo di sei sette studenti, come per nascondersi, evitando gli occhi dello specializzando senior, sperando che non le venga chiesto di visitare un paziente e di fornire una diagnosi differenziale. “Io commerciante,” dice la donna. “Io vendo cipolle.” Chika cerca di individuare sarcasmo o rimprovero nel suo tono, ma non ve n’è. La voce mantiene il suo tono regolare e basso, come quello di una donna che sta semplicemente spiegando ciò che fa. “Spero che non distruggano le bancarelle del mercato,” risponde Chika; non sa cos’altro dire. “Ogni volta che fanno rivolta, loro rompono mercato,” afferma la donna. Chika vorrebbe chiedere alla donna a quante rivolte ha assistito, ma non lo fa. Ha letto di altre rivolte in passato: fanatici musulmani Hausa che hanno attaccato cristiani Igbo e talvolta Cristiani Igbo che hanno partecipato a missioni omicide di vendetta. Non vuole una conversazione in cui si facciano nomi. “Mio capezzolo brucia come peperoncino”, “Cosa?”, “Mio capezzolo brucia come peperoncino.” Prima che Chika riesca a deglutire la bolla di stupore che ha in gola e dire qualcosa, la donna si alza la camicetta e slaccia il gancino anteriore di un reggiseno nero ormai consunto. Tira fuori i soldi, banconote naira da dieci e


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da venti, piegate all’interno del reggiseno, prima di liberare completamente i suoi seni. “Brucia-brucia come peperoncino,” dice, unendo i seni e sporgendosi verso Chica, come se volesse offrirglieli. Chika si scosta. Ricorda il turno in pediatria di appena una settimana prima: lo specializzando senior, il Dott. Olunloyo, voleva che tutti gli studenti sentissero il soffio al cuore di quarto grado di un ragazzino che li osservava con occhi curiosi. Il dottore le chiese di farlo per prima e lei iniziò a sudare, la mente completamente vuota, non più sicura di dove fosse il cuore. Alla fine aveva appoggiato la mano tremante alla sinistra del capezzolo del bambino e la vibrazione frr-frr-frr del sangue che scorreva nella direzione sbagliata, pulsando sotto le sue dita, la fece balbettare rivolgendosi al ragazzo “Scusa, scusa”, sebbene lui le stesse sorridendo. I capezzoli di quella donna non hanno nulla a che vedere con quelli del bambino. Sono screpolati, tirati e color marrone scuro, le areole di un colore più chiaro. Chika li osserva attentamente, si fa più avanti e li tocca. “Hai un bambino?” chiede. “Sì, un anno” “I tuoi capezzoli sono secchi, ma non sembrano infetti. Dopo aver allattato il bambino, devi usare una lozione. E mentre allatti devi assicurarti che il capezzolo e anche quest’altra parte, l’areola, stiano nella bocca del bambino.” La donna rivolge un lungo sguardo a Chika. “Prima volta di questo. Io cinque bambini.” “Era lo stesso con mia madre. Le si screpolarono i capezzoli quando arrivò il sesto figlio, e non sapeva cosa l’avesse causato, fino a quando un’amica le disse che doveva idratarli”, risponde Chika. Difficilmente mente, ma le poche volte in cui lo fa, c’è sempre uno scopo dietro la bugia. Si domanda a che cosa serva questa menzogna, questo bisogno di inventarsi un passato fittizio simile a quello della donna; lei e Nnedi sono le uniche due figlie della loro madre. Inoltre, sua madre aveva il Dott. Igbokwe, con la sua formazione e la sua affettazione britannica, con cui si sentiva a distanza per telefono. “Cosa mette tua mamma su suoi capezzoli?” le domanda la donna. “Burro di cacao. La lesione guarì velocemente.” “Eh?” La donna osserva Chika per un istante, come se questa scoperta avesse creato un legame fra loro. “Bene, io lo prendo e uso.” Giocherella con la sua sciarpa per un momento e poi dice, “Sto cercando mia figlia. Noi andiamo al mercato stamattina. Lei sta vendendo arachidi vicino a fermata dell’autobus, perché là ci sono tanti clienti. Poi la sommossa scoppia e io sto cercando lei su e giù per il mercato.” “La bambina piccola?” chiede Chika, rendendosi conto, già mentre la pronuncia, di quanto suoni stupida questa domanda.


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La donna scuote la testa e c’è un attimo di impazienza, persino di rabbia, nei suoi occhi: “Hai problemi con orecchi? Tu non senti cosa dico?” “Scusa” dice Chika. “Bambina è a casa! Questa è prima figlia. Halima.” La donna comincia a piangere. Piange sommessamente, le sue spalle si muovono in su e in giù, non il genere di singhiozzo rumoroso che fanno le donne che Chika conosce, il tipo che urla Abbracciami e consolami perché non ce la faccio ad affrontare tutto questo da sola. Il pianto della donna è privato, come se stesse compiendo un rito necessario che non include nessun altro. In seguito, quando Chika desidererà troppo tardi di non aver deciso insieme a Nnedi di prendere un taxi per il mercato solo per vedere un po’ dell’antica città di Kano al di fuori del quartiere della loro zia, spererà che anche la figlia della donna, Halima, quel mattino fosse stata ammalata o stanca o pigra, così da non andare a vendere le noccioline quel giorno. La donna si asciuga gli occhi con un lembo della camicia. “Allah tiene tua sorella e Halima in posto sicuro,” dice. E poiché Chika non ha idea di cosa si dica tra i musulmani per esprimere accordo – non può essere “amen” – semplicemente annuisce. La donna ha scoperto un rubinetto arrugginito in un angolo del negozio, vicino ai contenitori metallici, forse dove il o la commerciante si lavava le mani, dice, spiegando a Chika che le botteghe in questa strada sono state abbandonate mesi fa, dopo che il governo le ha dichiarate strutture illegali da demolire. La donna apre il rubinetto ed entrambe guardano – con sorpresa – l’acqua gocciolare fuori. Brunastra e così metallica, che Chika riesce già a sentirne l’odore. Comunque, esce acqua. “Lavo e prego,” dice la donna, ora con voce più alta, e sorride per la prima volta mostrando denti regolari, quelli davanti macchiati di marrone. Ha le fossette scavate nelle guance, profonde abbastanza da contenere mezzo dito, insolite in un viso tanto magro. La donna si lava distrattamente le mani e la faccia al rubinetto, poi si toglie la sciarpa dal collo e la stende sul pavimento. Chika guarda altrove. Sa che la donna è inginocchiata, verso La Mecca, ma non si volta. È come le lacrime della donna, un’esperienza privata, e Chica vorrebbe poter lasciare il negozio. O che anche lei, potesse pregare, potesse credere in un dio, vedere una presenza onnisciente nell’aria viziata della stanza. Non riesce a ricordare quando la sua idea di Dio non era ancora annebbiata, come l’immagine riflessa dallo specchio appannato di un bagno, e non ricorda di aver mai provato a pulire il vetro. Tocca il rosario da dito che ancora porta, qualche volta sul mignolo o sull’indice, per far piacere a sua madre. Nnedi non indossa più il suo, avendo detto una volta con la sua risata gutturale, “I rosari sono vere e proprie


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pozioni magiche, e io non ne ho bisogno, grazie.” Successivamente la famiglia offrirà messe su messe per ritrovare Nnedi sana e salva, ma mai perché la sua anima riposi in pace. E Chika ripenserà a questa donna, mentre pregava con la fronte appoggiata al pavimento polveroso, e cambierà idea sul dire a sua madre che offrire messe è uno spreco di denaro, utile solo per la raccolta di fondi per la chiesa. Quando la donna si alza, Chika si sente stranamente rinvigorita. Sono passate più di tre ore e immagina che la sommossa si sia placata e che i rivoltosi si siano allontanati. Deve andarsene, deve tornare a casa e assicurarsi che Nnedi e sua zia stiano bene. “Devo andare” afferma Chika. Di nuovo lo sguardo d’impazienza sul viso della donna. “Fuori è pericolo. Penso che se ne siano andati. Non sento più nemmeno l’odore di fumo.” La donna non dice nulla, si siede di nuovo sulla veste. Chika la osserva per un attimo, delusa senza sapere il perché. Forse vuole una benedizione della donna, un qualcosa. “Quanto è lontana casa tua?” domanda. “É lontana. Devo prendere due autobus.” “Poi tornerò con l’autista di mia zia a prenderti per portarti a casa” le risponde. La donna guarda altrove. Chika cammina lentamente verso la finestra e la apre. Si aspetta di udire la donna che le chiede di fermarsi, di tornare indietro, di non essere avventata. Ma la donna non dice niente e Chika sente lo sguardo tranquillo della donna sulla sua schiena mentre scavalca la finestra. Le strade sono silenziose. Il sole sta calando e, nell’oscurità della sera, Chika si guarda intorno, indecisa su quale strada prendere. Prega che appaia un taxi, per magia, per fortuna, per volere di Dio. Poi prega che Nnedi sia all’interno del taxi, che le chiede dove diavolo sia stata, che sono state così preoccupate per lei. Chika non ha raggiunto la fine della seconda strada, verso il mercato, quando vede il corpo. Quasi non lo vede, gli cammina così vicino da sentirne il calore. Il corpo deve essere stato bruciato da poco. L’odore è nauseante, di carne bruciata, come non ne aveva mai sentito. Più tardi, quando Chika e sua zia andranno alla ricerca di Nnedi per tutta Kano, insieme a un poliziotto seduto sul sedile anteriore dell’auto con l’aria condizionata di sua zia, vedrà altri corpi, molti bruciati, stesi lungo i lati della strada, come se qualcuno li avesse messi lì accuratamente, allineandoli. Guarderà uno solo di quei corpi, nudo, rigido, con la faccia a terra e la colpirà il non poter dire, osservando quella carne carbonizzata, se l’uomo parzialmente bruciato sia Igbo o Hausa, cristiano o musulmano. Ascolterà la BBC alla radio e sentirà il conteggio delle vittime e delle rivolte – “religiose con uno sfondo di tensione etnica” – dirà la voce. E scaraventerà la radio


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contro il muro e una feroce collera la pervaderà al sentire come tutto ciò sia stato impacchettato, ripulito e fatto quadrare in così poche parole, tutti quei corpi. Ma ora, il calore proveniente dal corpo bruciato è così vicino a lei, così presente e intenso da farla voltare e precipitare di nuovo verso la bottega. Sente un dolore lancinante lungo il polpaccio mentre corre. Raggiunge la bottega e bussa alla finestra, continuando finché la donna non le apre. Chika si siede sul pavimento e guarda da vicino, nella luce flebile, il sangue che defluisce lungo la gamba. I suoi occhi si muovono nervosamente. Non sembra nemmeno sangue, come se qualcuno le avesse spruzzato addosso della salsa di pomodoro. “Tua gamba. C’è sangue,” dice la donna, un po’ stancamente. Inumidisce un lato del suo velo al rubinetto e pulisce il taglio sulla gamba di Chika, poi vi avvolge intorno il velo umido, annodandolo al polpaccio. “Grazie” dice Chika. “Tu vuoi bagno?” “Il bagno? No.” “I contenitori là, li usiamo per bagno,” dice la donna. Ne porta uno nel retro del negozio e subito la puzza riempie le narici di Chika, si mescola con l’odore di polvere e acqua metallica, le fa girare la testa e le dà la nausea. Chiude gli occhi.” “Scusa, oh! Mio stomaco sta male. Tutto quello che successo oggi,” dice la donna dietro di lei. Dopodiché, la donna apre la finestra e mette fuori il contenitore, poi si lava le mani al rubinetto. Ritorna e si siede vicino a Chica. Le due donne siedono l’una accanto all’altra in silenzio; dopo pochi attimi sentono un canto roco in lontananza, di cui Chika non riesce a distinguere le parole. Il negozio è quasi completamente buio quando la donna si stende sul pavimento, con la sola parte superiore del suo corpo appoggiato sul telo. Più tardi, Chika leggerà sul The Guardian che “i musulmani reazionari di lingua Hausa del Nord hanno un passato di violenza contro i non-musulmani” e, nel mezzo della sua sofferenza, si fermerà a ricordare di aver esaminato i capezzoli e sperimentato la gentilezza di una donna che è sia Hausa che musulmana. Chika fatica a dormire per tutta la notte. La finestra è serrata; l’aria è viziata e la polvere, densa e spessa, le penetra nel naso irritandolo. Continua a vedere il corpo annerito fluttuare in un alone accanto alla finestra, che la addita in tono di accusa. Infine sente la donna alzarsi e aprire la finestra, lasciando entrare il blu spento della prima alba. La donna resta ferma lì per un poco prima di scavalcare per uscire. Chika sente dei passi, gente che cammina lì fuori. Sente la donna chiamare, alzando la voce per farsi riconoscere, seguita da uno stretto Hausa che Chika non comprende. La donna rientra nella bottega. “Pericolo è finito. È Abu. Sta vendendo provviste. Lui va a vedere suo negozio. Dappertutto poliziotto con gas


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lacrimogeno. Uomo-soldato sta arrivando. Vado ora, prima che uomo-soldato inizi a dar fastidio a qualcuno.” Chika si alza lentamente e si stira; le articolazioni le fanno male. Più tardi percorrerà a piedi tutta la strada di ritorno verso la casa nella proprietà recintata di sua zia, perché non ci sono taxi per strada, ci sono solo jeep dell’esercito e camionette della polizia ammaccate. Troverà sua zia, che vaga da una stanza all’altra con un bicchiere d’acqua in mano continuando a mormorare in Igbo, “Perché ho chiesto a te e Nnedi di venirmi a trovare? Perché il mio chi1 mi ha ingannata in questo modo?” e Chika afferrerà con forza le spalle di sua zia e la condurrà su un divano. Ora Chika slega il velo dalla sua gamba, lo scuote come per scrollare via le macchie di sangue e lo consegna alla donna. “Grazie.” “Lava tua gamba bene bene. Saluta tua sorella, saluta tua gente,” dice la donna, legandosi la gonna intorno alla vita. “Ringrazia anche la tua gente. Saluta la tua bambina e Halima,” dice Chika. Più tardi, mentre camminerà verso casa, raccoglierà una pietra con macchie color rame di sangue essiccato e terrà il macabro souvenir stretto al suo petto. E proprio in quell’istante sospetterà, in un flash improvviso mentre stringe la pietra, che non troverà mai Nnedi, che sua sorella non c’è più. Ma ora, si gira verso la donna e aggiunge “Posso tenere il tuo velo? L’emorragia potrebbe ricominciare.” La donna guarda per un momento come se non capisse; poi annuisce. C’è forse l’inizio di una sofferenza futura sul suo volto, ma mostra un sottile, distratto sorriso, prima di ridare il velo a Chika, poi si volta per scavalcare la finestra e andare via.


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Chinasa a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia | workshop di traduzione

Accadde in gennaio, penso. Almeno credo che fosse gennaio perchè il terreno era inaridito e le secche folate dell’Harmattan avevano ricoperto di polvere gialla la mia pelle, le case e gli allievi. Ma non ne sono sicura. So che era il 1968, ma avrebbe potuto essere dicembre o febbraio; non ero mai sicura delle date durante la guerra. Sono sicura, però, che accadde di mattina – il sole era ancora gradevole, quel tipo di sole che dicono faccia produrre vitamina D sulla pelle. Quando sentii quei rumori – Boom! Boom!, ero seduta sulla veranda della casa che dividevo con due famiglie a rileggere la mia copia ormai consunta di The African Child di Camara Laye. Il proprietario della casa era un uomo che aveva conosciuto mio padre prima della guerra, e quando arrivai, dopo la caduta della mia città, portandomi dietro la valigia ammaccata senza un altro posto dove andare, mi diede una stanza per niente perchè diceva che mio padre era stato molto buono con lui.Le altre donne della casa sparlavano di me, del fatto che spesso di notte andavo nella stanza del padrone di casa: questo per loro era il motivo per cui non pagavo. Quella mattina ero fuori con una di quelle pettegole. Era seduta sui gradini di pietra crepati, stava allattando il suo bambino. La guardai per un po’; il suo seno sembrava un’arancia avvizzita da cui era stato estratto il succo e mi domandai se il bimbo riuscisse a succhiare fuori qualcosa. Quando sentimmo il boato, strinse subito a sè il suo piccolo e corse in casa per andare a prendere gli altri bambini. Boom! Fu come il rombo del tuono, di


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quel genere che si espande per tutto il cielo, di quel genere che preannuncia il temporale. Per un momento rimasi immobile e immaginai che davvero fosse il tuono.Immaginai di essere di nuovo nella casa di mio padre, prima della guerra, nel cortile sotto l’anacardo, ad aspettare la pioggia. Il cortile di mio padre era pieno di alberi da frutta sui quali amavo arrampicarmi nonostante mio padre mi prendesse in giro e dicesse che non era cosa da ragazze e che alcuni di quelli che volevano portargli il vino avrebbero cambiato idea, sapendo che mi comportavo da maschiaccio. Ma mio padre non me lo impedì mai. Dicono che mi viziasse, che fossi la sua preferita e ancora adesso alcuni dei nostri parenti continuano a credere che sia colpa di mio padre se non sono ancora sposata. Comunque in quella mattina battuta dall’Harmattan, il suono si fece più forte. Le donne correvano fuori con i loro bambini. Volevo scappare con loro, ma le mie gambe sembravano non volersi muovere.Certo non era la prima volta che udivo quei rumori; era il secondo anno di guerra, i miei genitori erano già morti in un campo profughi a Uke, mia zia era morta a Okija, i miei nonni e cugini ad Abagana, quando il mercato di Nkwo era stato bombardato, un bombardamento che aveva distrutto la casa di mio padre, e al quale ero a stento sopravvissuta.Così già prima di quella mattina, quella polverosa mattina di harmattan, avevo sentito quei rumori. Boom! Percepii una leggera vibrazione nel terreno sotto i miei piedi. Eppure non mi decidevo a scappare, il rumore era così forte che mi faceva pulsare la testa e sembrava che qualcuno mi stesse soffiando crema bollente nelle orecchie.Poi vidi buche enormi aprirsi nel terreno vicino a me. Vidi fumo, schegge di legno, vetro e metallo schizzare da ogni parte. Vidi alzarsi la polvere. Non ricordo molto altro. Qualcosa dentro di me era così esausto che per alcuni minuti sperai che le bombe mi concedessero la pace. Non so esattamente cosa feci,se mi sedetti,se mi tuffai nella fattoria o se caddi a terra. Ma quando il bombardamento finalmente cessò, mi incamminai verso la folla radunata intorno ai feriti e mi ritrovai a fissare un corpo steso a terra. Una ragazza di forse quindici anni. Le sue braccia erano un ammasso di carne e sangue. Non era il momento di scherzare, ma a guardare le sue braccia maciullate lei sembrava un bruco.Ma perchè poi portai quella ragazza nella mia stanza? Non lo so. C’erano stati molti bombardamenti prima di questo – noi eravamo a Umuahia e avevamo subito la maggior parte dei bombardamenti perchè era la capitale. E anche se avevo aiutato a medicare i feriti, non ne avevo mai portato nessuno nella mia stanza. Questa ragazza invece ce la portai. Si chiamava Chinasa. Accudii Chinasa per settimane. Il padrone di casa le costruì delle stampelle con legno vecchio e pefino le pettegole le offrirono piccoli doni di ukpaka e patate dolci. Era magra, piccola per la sua età, come lo erano la maggior parte dei bambini durante la guerra, ma lei aveva un modo di guardarti dritto negli occhi, un modo


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schietto ma non sfacciato che la faceva sembrare molto più grande di quello che era. Fingeva di non provare dolore quando pulivo le sue ferite con gin fatto in casa, ma vedevo le lacrime nei suoi occhi e anch’io trattenevo le mie perchè questa ragazza nel fiore della sua femminilità era, a causa della guerra, cresciuta troppo in fretta. Mi ringraziava spesso, troppo spesso. Diceva che non vedeva l’ora di stare meglio per potermi aiutare a cucinare e fare le pulizie. Di sera, dopo averle dato da mangiare un po’ di minestra, le sedevo accanto e leggevo per lei. Le sue braccia erano immobili e fasciate, ma aveva un viso incredibilmente espressivo e nella luce tremula e fioca della lampada a cherosene rideva, sorrideva e sogghignava mentre leggevo per lei. Avevo perso molte delle mie cose, fuggendo di città in città, ma avevo sempre portato con me alcuni dei miei libri e leggerli a lei mi procurava un nuovo tipo di gioia, perchè li vedevo rifiorire attraverso gli occhi di Chinasa. Iniziò a fare domande, a mettere in discussione cosa facevano alcuni personaggi nelle storie. Faceva domande sulla guerra, faceva domande su di me. Le raccontai dei miei genitori, che erano stati risoluti nell’offrirmi un’istruzione e che mi avevano mandato a una scuola di formazione per insegnanti.Le raccontai di quanto mi fosse piaciuto il mio lavoro di insegnante a Enugu, prima che iniziasse la guerra e di come fossi triste quando la nostra scuola fu chiusa per diventare un campo profughi. Mi guardava con grande intensità mentre parlavo. In seguito, una sera, mentre mi stava insegnando a giocare a nchokolo, chiedendomi di muovere alcune pietre tra le caselle disegnate per terra, mi domandò se avrei potuto insegnarle a leggere. Mi sorprese. Non avevo idea che non sapesse leggere. Ora che ci penso non avrei dovuto darlo per scontato. La sua storia personale era comune: i suoi genitori erano contadini di Agulu, che avevano racimolato qualcosa per mandare i suoi due fratelli alla scuola della missione, ma avevano tenuta lei a casa. Forse erano state la sua vivacità, la sua prontezza, la grande intelligenza con cui guardava ogni cosa che mi avevano fatto dimenticare la realtà da cui proveniva. Cominciammo le lezioni quella sera stessa. Conosceva l’alfabeto perchè aveva guardato alcuni libri dei fratelli e non mi sorprese la velocità con cui imparava, né l’impegno che ci metteva. Quando sentimmo, alcuni mesi dopo, la notizia che i nostri generali stavano per arrendersi, mi stava leggendo qualcosa dal suo libro preferito The African Child. Il giorno in cui finì la guerra Chinasa ed io ci unimmo alle pettegole e agli altri vicini di casa giù in strada. Piangevamo e cantavamo e ridevamo e ballavamo. Per le donne che piangevano quelle erano lacrime di sfinimento e incertezza e sollievo, come lo erano le mie. Ma stavo piangendo anche perchè volevo riportare Chinasa con me a casa mia, o qualsiasi cosa rimanesse della mia casa a Enugu; volevo che diventasse la figlia che che non avrei mai avuto,


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per condividere la mia vita ora svuotata di affetti. Ma mi abbracciò e rifiutò. Voleva andarsene e scoprire chi tra i suoi parenti fosse sopravvissuto. Le diedi il mio indirizzo di Enugu e il nome della scuola dove speravo di tornare ad insegnare. Le diedi molti di quei pochi soldi che avevo. “Verrò a trovarti presto”, disse.Mi guardava con commossa riconoscenza, la strinsi forte a me con un amaro senso di incombente tristezza.Avrebbe trovato i suoi parenti e la sua vita avrebbe interferito con questa promessa fatta in buona fede.Sapevo che non sarebbe mai ritornata. Ora siamo nel 2008 e ieri mattina, una mattina non diversa da quella di quarant’anni fa, ho aperto il “Guardian” nel salotto della mia casa di Enugu. Ero appena tornata dalla mia passeggiata mattutina (i miei amici dicono che la mia passeggiata quotidiana è il motivo per cui non sembro una donna di settant’anni) ed ero colma di quell’ottimismo che ti danno un’energica camminata e il battito accelerato.Avevo seguito le recenti notizie nazionali sulla nomina dei nuovi ministri da parte del governo, ma solo vagamente perchè, dopo aver visto questo paese essere sballottato da un governo inetto ad un altro, non trovo più niente che mi appassioni. Ho aperto il giornale per leggere che era stato nominato il ministro dell’istruzione, una donna, e che aveva appena concesso la sua prima intervista. Ero moderatamente compiaciuta: avevamo bisogno di più donne al governo e i nigeriani avevano visto quanto l’ultimo ministro donna avesse agito bene nel ministero delle finanze.Il viso del nuovo ministro, in una fotografia in bianco e nero che occupava mezza pagina, mi ha colpito. Mi sembrava familiare. Rimasi a fissarla e prima di aver letto il nome sapevo che si trattava di Chinasa. Le guance si erano riempite, ovviamente, e il viso aveva perso l’insicurezza della giovane età, ma poco altro era cambiato. Ho letto l’intervista tutta d’un fiato, le mani un po’ tremanti. Era stata mandata all’estero poco dopo la guerra tramite una delle tante agenzie internazionali che aiutavano i giovani che dalla guerra erano stati colpiti. Le erano state assegnate molte borse di studio. Era sposata con tre figli. Era docente di letteratura. Le mie mani hanno cominciato ad agitarsi violentemente quando ho letto come è iniziato il suo amore per i libri: “Ho avuto una fata madrina durante la guerra “, fu tutto ciò che disse. Ho guardato il suo viso per un lungo istante, immaginando la vita che aveva avuto, fantasticando con l’idea di contattarla e, prima di chiudere il giornale e metterlo via, mi sono resa conto che mai fino ad allora nella mia vita mi ero sentita così fiera.


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Capelli a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani” | workshop di traduzione

La madre piangeva ogni giorno. Il padre aveva firmato l’accordo un pomeriggio, dopo aver bevuto un intero cartone di Guinness al club, dopo che il suo amico Lugardson gli aveva proposto una partita a carte e aveva scritto l’accordo che diceva che chiunque avesse vinto avrebbe rilevato la proprietà dell’altro, aggiungendo che era uno scherzo, ovviamente, per nulla legale. E quindi il padre lo firmò e poi perse la partita. Lugardson portò l’accordo in tribunale e il giudice, che era un suo compare, stabilì che il padre gli aveva realmente ceduto per iscritto tutto ciò che possedeva. La sua azienda. Le sue case. Le sue antomobili. Concesse una settimana alla famiglia per consegnare tutto a Lugardson. Il padre disse, “Ma era uno scherzo! L’accordo era stato scritto in fretta su uno scontrino! Era uno scherzo! “Ma il giudice lo ignorò Il padre si gettò a terra, batté i pugni e pianse. Più tardi disse alla madre. “Pensavo che Lugardson fosse mio amico” e la madre lo zittì. “Sei stupido? Come poteva essere tuo amico? Non aspettava altro che fregarti!” E aggiunse di essersi sentita spesso le occhiata sconvenienti di Lugardson addosso, il che era falso, ma la madre amava colorire le sue storie. Le storie che si raccontava ora che piangeva ogni giorno, tuttavia, non avevano bisogno di essere colorite, perchè erano vere: storie della loro vecchia vita, quando vivevano nella casa abbracciata dai fiori in Queens Drive, quando tutta Lagos li venerava. Ora, nessuno dei loro amici veniva nel loro appartamento infestato dai topi dove spesso il padrone di casa toglieva la corrente.


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Erano i capelli la più grande vergogna della madre. Ma erano arruffati con fitti ciuffi di naturale ricrescita, perché messa in piega e contro-permanente non poteva più permetterseli.Era stata la prima donna di Lagos con i suoi capelli lunghi e lisci, e ora indossava sempre una stoffa avvolta intorno al capo anche quando era sola. Nemmeno la figlia poteva più permettersi la contropermanente, e così si era tagliata i capelli, e osservava con stupore come ricrescevano, soffici e folti come lana, poichè non li aveva mai visti naturali. Nella loro vecchia vita appena i suoi capelli crescevano venivano bruciacchiati e lisciati. Adesso erano vibranti, crespi e folti. Lei non li pettinava ma ogni mattina li districava amorevolmente con le dita. Il figlio, che di solito lavorava con il padre nell’azienda, ora passava i suoi giorni sdraiato, inerte e depresso, e le chiedeva di coprirsi quegli orrendi capelli con qualcosa. La figlia era legata al fratello, gli aveva fatto la maggior parte dei compiti mentre lui andava per pub e lei non riusciva a capire come lui potesse definire brutti i suoi capelli, quando erano l’unica cosa bella che era loro rimasta. Proprio come il gin da quattro soldi aiutava il padre a tirare avanti (qualche volta beveva persino le sue vecchie bottiglie di colonia perchè diceva che contenevano dell’alcool), così erano i suoi capelli; districarli, attorcigliarli, compiacersene le evitava di pensare alla sua fame costante. Si augurava di poter capovolgere la loro sorte; sarebbe stato possibile solo se avessero potuto entrare in possesso del contratto stesso e portarlo ad un giudice che non fosse corrotto. Un giorno Lugardson arrivò e disse che sapeva quanto la vita fosse diventata difficile per loro e che voleva offrire ad uno dei figli un lavoro. Era il minimo che potesse fare. Lugardson era un uomo scaltro, con mente sottile e braccia sottili. La sua benevolenza era disgustosa. Ma il padre acconsentì e disse che il figlio avrebbe accettato il lavoro. La figlia sapeva che il padre non aveva nemmeno pensato di prenderla in considerazione; lui ignorava che lei aveva spesso fatto i compiti del fratello in passato. Il figlio iniziò a lavorare e tornava a casa a dire che era un semplice fattorino; stava al piano terra alla portineria e veniva chiamato solo per fare commissioni. Ma se non altro guadagnava un po’ di soldi, e quindi erano in grado di mangiare un po’ meglio, anche se la madre aveva preso a vomitare, perchè non riusciva a credere che le fossero concesse solo le gocce di un fiume che era suo di diritto.Un vecchio amico si fermò una sera a fare visita portando con sé delle pagnotte, un uomo che di solito si inginocchiava davanti al padre per chiedere soldi, e disse di aver sentito Lugardson al club che si vantava di tenere il contratto nel suo ufficio per ricordarsi della stupidità del padre. La madre disse al figlio che doveva trovare un modo per prendere il contratto. Il figlio provò diverse cose, la figlia gli dava delle idee su come intrufolarsi nell’ufficio, ma nessuna funzionò. Il figlio tornò a casa in lacrime. Il padre scivolò in una depressione ancora più profonda e iniziò a parlare di bere la


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propria urina. La madre piangeva non più una, ma due volte al giorno. I mesi passavano, finchè in un giorno nebbioso la figlia mentre si stava districando i capelli, che ora erano abbastanza lunghi da essere raccolti in un ciuffo arruffato come una grossa coda di coniglio, udì la voce. Veniva dai suoi capelli. Erano i suoi capelli. Una voce che sembrava quella della sua defunta nonna ma era un po’ più vivace. Il contratto è nel condizionatore di Lugardson. La figlia scosse la testa, poi la voce tornò. Seppe allora che c’era qualcosa di magico nei suoi capelli, che la gioia che ne traeva andava oltre il loro essere semplicemente nuovi e morbidi. Ma sapere che il contratto era nel condizionatore d’aria non era abbastanza. Doveva saperne di più. E così cominciò ogni mattina ad alzarsi e districare i suoi capelli e ad aspettare la voce. Presto la voce le disse tutto ciò di cui aveva bisogno. Il contratto era nel condizionatore dell’ufficio, ficcato in una delle bocchette, secondo lui il posto più improbabile dove guardare. Doveva andare a prenderlo il giorno dopo esattamente a mezzogiorno e un quarto, e non doveva rimanere per più di quindici minuti o sarebbe stata scoperta. La figlia si diresse all’ufficio di Lugardson. Si avvicinò al cancello e perse il coraggio. Non l’avrebbero mai fatta entrare. Stava ritornandosene indietro quando la voce dai suoi capelli le disse di passare, che il cancello era aperto e non l’avrebbero vista. E così fece. Oltrepassò la portineria e vide il figlio seduto curvo su uno sgabello. L’ufficio di Lugardson era vuoto e odorava stranamente di naftalina; andò dritta al condizionatore, vi infilò la mano ed estrasse una busta. Dentro c’era il contratto. Poi sentì dei passi; Lugardson stava arrivando. Presa dal panico fissò la porta e allora iniziò a far scorrere le dita fra i capelli. Va’ sotto la scrivania. La moquette era particolarmente morbida e lei vi si accoccolò e sperò che Lugardson non si trattenesse a lungo. Era entrato con qualcuno e stava ridendo. La ragazza controllò l’orologio. Erano passati cinque minuti. Poi otto. Lugardson stava ancora parlando. Poi undici minuti. Iniziò a sudare. Infilò la busta nel reggiseno. La persona con Lugardson se ne andò e lui si aggirò per l’ufficio per un po’, il suo cellulare suonò, rispose e lasciò l’ufficio. Erano passati tredici minuti. La figlia si fiondò fuori da sotto la scrivania e cominciò a correre il più velocemente possibile, giù dalle scale, fuori attraverso il cancello e non si fermò finché non raggiunse la fermata dell’autobus. Il padre la guardò sbalordito quando lei gli raccontò la storia, ma fu la madre che prese il contratto e lo tenne in mano con reverenza e poi si scoprì i capelli e li toccò piena di stupore. Il giorno dopo lo portarono al giudice Rotimi, noto per essere incorruttibile, ed egli sentenziò che Lugardson restituisse tutto ciò che aveva sottratto al padre. In più Lugardson avrebbe dovuto essere processato per i suoi crimini. La madre rideva e piangeva e danzava e parlava di come avrebbe fatto vedere i sorci verdi a tutte quelle persone spregevoli che l’avevano abbandonata. Il padre parlò di ordinare casse di Champagne. Il figlio, ancora confuso,


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suggerĂŹ di ordinare anche del whisky. La figlia li guardava divertita e felice, passandosi per tutto il tempo le dita tra i capelli.


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Quality Street a cura del Liceo “Corso” di Correggio | workshop di traduzione

Stavano bevendo il tè. Una delle poche cose che Mrs. Njoku e sua figlia Sochienne riuscivano ancora a fare insieme senza astio, era bere il tè, poiché, quando Mrs. Njoku propose di andare nella nuova boutique a Victoria Island o da Titi per un trattamento al viso, cose che erano solite fare insieme a Lagos prima che Sochienne andasse all’università in America, le diede della grassa borghese, una dilettante che ballava mentre la Nigeria stava andando a rotoli, come se potesse in qualche modo risolvere i problemi del paese privandosi di una manicure. Ma questo, bere il tè, era un atto neutrale – a patto che il latte non fosse fresco. La prima settimana dopo il ritorno di Sochienne, Mrs. Njoku aveva acquistato una confezione di latte fresco, entusiasta di poter offrire alla figlia qualcosa di diverso dal solito latte in polvere o condensato, ma Sochienne disse che non avrebbe mai toccato quella cosa importata da ShopRite, di cui la maggior parte dei nigeriani neppure conosceva l’esistenza e che avrebbe bevuto solo latte condensato locale. Mrs. Njoku disse, cercando di nascondere il fastidio che provava, che il latte condensato era solamente miscelato in Nigeria, dato che le compagnie ne importavano la polvere e vi aggiungevano acqua. Sochienne sembrò sorpresa da questa notizia ma insistette nel chiamarlo latte locale, con quel tono che rendeva la parola locale quasi sacra. E così Mrs. Njoku fece sparire il latte fresco e comperò barattoli di latte condensato Peak, che versavano, in un filo sottile, nel loro tè. Erano alla loro seconda tazza di tè, quando Sochienne disse che avrebbe


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voluto celebrare il suo matrimonio ad Amarachi, la casa di campagna dove, da bambina, trascorreva le vacanze, perché preferiva un luogo che avesse un valore affettivo rispetto ad una sala eccessivamente sfarzosa. Alla signora Njoku andò di traverso il tè. Aveva già assunto il famoso organizzatore di matrimoni, affittato la chiesa cattolica di St. Mary ed un magnifico centroconferenze per il ricevimento ma, cosa ancora più importante, Amarchi era una catapecchia, il giardino era dissestato, questa era la stagione delle piogge, il fango avrebbe rovinato le scarpe delle signore e nessuno avrebbe preso sul serio un matrimonio celebrato in quella palude. Di conseguenza, nessuno sarebbe venuto. Lei sarebbe stata di sicuro lo zimbello dei salotti e dei parrucchieri di tutta Lagos; si immaginava già Mrs. Fernandez-Cole mentre, con una smorfia, diceva “matrimonio da villaggio.” Con calma, tra un sorso e l’altro, Sochienne aggiunse che era un suggerimento del suo fidanzato Mwangi dopo che lei gli aveva raccontato di Amarachi: si era chiesta allora perché non ci avesse pensato per prima. Mrs. Njoku appoggiò la sua tazza di tè. Doveva sicuramente essere stato quel keniano dallo sguardo spento ed un nome impronunciabile a metterle in testa un’idea del genere. Presa di nuovo dalla sconforto, stava per dire che ancora non capiva perché Sochienne volesse sposarsi così giovane e non avesse incontrato in America un ragazzo che fosse Igbo o almeno nigeriano. Ma si trattenne in tempo e disse invece che non c’era abbastanza spazio ad Amarachi per sistemare tutti i loro ospiti. Sochienne sorrise come se Mrs. Njoku fosse la figlia e lei la madre e disse che solo una ventina sarebbero stati i suoi ospiti, gli altri quattrocento erano persone che non conosceva e della cui assenza non si sarebbe neppure accorta. Così Mrs. Njoku si preparò un altro tè ed acconsentì al matrimonio della sua unica figlia in una casa di campagna qualunque, perché temeva che la proposta successiva sarebbe stata una cerimonia al Bar Beach con tutti gli invitati in abiti di seconda mano. Forse non avrebbero dovuto mandare Sochienne a studiare in America. Ma chi poteva immaginare che un’università privata in Ohio avrebbe significato il ritorno di Sochienne sei anni dopo, l’annuncio del suo fidanzamento con un keniano, il rifiuto di mangiare carne, le discussioni di salari giusti con i domestici sconcertati e quei lunghi dreadlock incerati. Quello che avrebbe dovuto metter in guardia Mrs. Njoku, si accorgeva solo ora, era stato scoprire durante la sua prima visita all’università della figlia, che gli studenti andavano a lezione in ciabatte. Oh, mamma, indossano i sandali a causa di questa insolita ondata di caldo, disse Sochienne quando la madre glielo fece notare, come se etichettare delle ciabatte con il termine americano di sandali potesse renderle più rispettabili. C’era tra gli studenti un’allarmante trascuratezza. A Mrs. Njoku era stato garantito che gli americani benestanti mandassero lì i loro rampolli –


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l’oltraggiosa retta di certo lo suggeriva – ma in realtà c’erano ragazzi con magliette sgualcite e collanine di nessun valore. Comunque, non si era preoccupata troppo per sua figlia allora e nemmeno lo aveva fatto negli anni successivi, supponeva infatti che la ragazza che aveva cresciuto, avrebbe mantenuto il suo buon senso. Avrebbe voluto che Sochienne ricevesse un’istruzione in Inghilterra, una volta conclusa la scuola elementare, e aveva proposto di mandarla al college femminile di Cheltenham, dove molti dei loro amici mandavano le loro figlie; ma suo marito disse che Sochienne non sarebbe andata all’estero prima dell’università, perché non voleva che diventasse come quei ragazzi di Akindele che erano stati così a lungo in Inghilterra da apostrofare i loro compagni nigeriani come “quella gente”. Sua figlia doveva frequentare le scuole superiori in Nigeria, così da ricordare chi fosse. Soprattutto voleva per lei un’istruzione universitaria in America. L’America era il futuro. Era arrivato il momento per i nigeriani di liberarsi dai vincoli coloniali. Mrs. Njoku avrebbe dovuto insister di più. Se solo suo marito fosse stato vivo ora per vedere cosa Sochienne fosse diventata; quanto tempo gli sarebbe servito per riconoscerla. Quando si incontrarono per la prima volta, c’era qualcosa nei modi dell’organizzatrice, la sua pelle gialla da orientale, la sua borsetta costosa e eccessiva, che irritava Mrs. Njoku. Ma era determinata a servirsi della stessa organizzazione di Mrs. Fernandez-Cole. Infatti Mrs. Njoku aveva partecipato al matrimonio della figlia con la speranza di trovare qualcosa da deridere, ma tutto fu impeccabile. Mrs. Fernadez-Cole veniva da una di quelle vecchie famiglie di Lagos che storcevano il naso di fronte a chi non vantava antenati brasiliano come loro. Mrs. Njoku trovava sciocco che qualcuno potesse sentirsi superiore per il fatto di avere come antenati degli schiavi del Sud America, tuttavia continuava a sentirsi una plebea in presenza di Mrs. Fernandez-Cole nel costante tentativo di stirarsi i capelli e sistemarsi i vestiti. Quando si incontravano all’Ikoyi Club, come spesso accadeva, ostentavano forzata cordialità, ma era chiaro che Mrs. Fernadez-Cole considerava Mrs. Njoku una parvenu da tollerare con sufficienza, mentre Mrs. Njoku sentiva il bisogno disperato di dimostrare la sua uguaglianza. E allora, quando disse all’organizzatrice che le nozze ora si sarebbero tenute nella casa là in campagna, la sua maggiore preoccupazione era che questa avrebbe chiamato immediatamente Mrs. Fernandez-Cole per chiacchiere superficiali e pettegole. Ma l’organizzatrice molto pragmaticamente disse che le serviva subito del contante per prenotare un nuovo adetto al catering, dato che la Yinka’s Food & Events lavorava solo nella zona di Lagos. Allora Mrs. Njoku andò con Sochienne in banca. All’ingresso vide le figlie degli Osazes, che ora avevano un accento inglese dopo aver frequentato la scuola in Inghilterra: il loro good afternoon, aunty suonava così raffinato. Non erano


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mai state graziose come sua figlia, ma con i loro jeans attillati ed i tacchi alti, con i loro lunghi capelli ondulati che scendevano sulle spalle, erano normali. A stento Sochienne si accorse delle sorelle Osaze. Era intenta a guardare l’impiegato della banca – sul suo cartellino si leggeva John – mentre controllava mazzette di naira con il contabanconote, fascettava i contanti e li consegnava in una busta di carta con un cenno di saluto. Mrs. Njoku gli diede duemila naira ed annuì al suo grazie molte, Madam. Più tardi, non appena salirono sulla Range Rover di Mrs. Njoku, Sochienne disse che era stato immorale da parte sua aver dato i soldi a John. Mrs. Njoku si allacciò la cintura di sicurezza e disse all’autista che si sarebbero fermati a Lekki, prima di rivolgersi a sua figlia sottolineando che era una mancia, una semplice mancia, e che non era stata proprio Sochienne ad accusarla di insensibilità? Ed ora che lei aveva dato una mancia ad un impegato di banca sottopagato, era ancora immorale? Sochienne mugugnò qualcosa a proposito di ricompensare un cameriere cronicamente denutrito con un pollo arrosto, mentre fissava i mendicanti che si spostavano da un finestrino ad un altro nel traffico, i volti scavati ed ossuti, gli occhi pieni di speranza, i loro Dio ti benedica, Dio ti benedica, Dio ti benedica. Mrs. Njoku pensò di essere stata troppo dura nel momento di difendersi. Chiese a Sochienne se l’aria condizionata fosse troppo fredda. Sochienne disse di no. Le chiese quali cambiamenti l’organizzatrice avrebbe dovuto apportare per sistemare il décor, ora che le nozze erano ad Amarachi. Sochienne, stringendosi nelle spalle, disse che non lo sapeva, come se l’organizzatrice fosse un piacere fatto a sua madre che lei aveva dovuto assecondare. Mrs. Njoku guardò un venditore ambulante correre dietro ad una macchina in mezzo al traffico. Aveva mal di testa. Domandò a Sochienne se si voleva fermare al Chicken Republic, avevano delle insalate che Sochienne avrebbe potuto mangiare. Non molto convinta, con lo sguardo ancora fisso fuori dal finestrino, annuì e, una volta arrivate al ristorante, chiese all’autista di unirsi a loro, rivolgendosi alla madre per ricordarle che l’uomo non aveva mangiato per tutto i giorno. Mrs. Njoku disse che gli avrebbe portato qualcosa. Sochienne rimase immobile e ribadì la sua volontà di invitare l’autista. Mrs. Njoku le lanciò un’occhiata e le venne voglia di prenderla a schiaffi, spingerla fuori dalla macchina, strattonarla. Chiese all’autista che le guardava tra la confusione ed il terrore, di spegnere il motore e di scendere dalla macchina. Allora si appoggiò allo schienale e accusò la figlia di essere un’ingrata presuntuosa. I finestrini erano chiusi e iniziava a sudare, quando le uscirono queste parole dalla bocca: tu pensi di fare un favore all’autista portandolo da Chicken Republic a mangiare al tuo stesso tavolo, ma ti sbagli, perché non fai sentire meglio lui ma ti senti meglio tu, e tu sei troppo presuntuosa per vedere che lo metteresti in imbarazzo se si sedesse con te e, soprattutto, non


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cambierebbe nulla nella sua vita e, nel caso non lo sapessi, tuo padre giace nella tomba, guardando che razza di persona sei diventata, strappandosi e capelli e mangiandoli. Sochienne era sbalordita. Poi accusò sua madre di essere una grassa borghese, uno struzzo che fingeva che tutto andasse per il meglio, e Mrs. Njoku aprendo la portiera fece segno all’autista di portarle a casa. Durante il tragitto non si dissero una parola. Non cenarono insieme. Non presero il tè. E quasi non si parlarono fino al giorno del matrimonio ad Amarachi. Il giorno del matrimonio ad Amarachi Mrs. Njoku stava chiamando da entrambi i suoi telefoni cellulari, urlando davanti alla gente ed ispezionando le sedie addobbate con nastri dai colori crema e blu, i cespugli di ixora ed ibiscus appena potati, la ghiaia sparsa sul terreno sabbioso. Il gazebo era leggermente in pendenza ed era necessario sistemarlo, ma l’uomo che lo aveva montato, era sparito. L’organizzatrice di matrimoni si stava lamentando dei tavoli del rinfresco. Il cielo diventava scuro. Mrs. Njoku si rese conto di avere il respiro affannato. Mrs. Fernandez-Cole aveva già chiamato per dire che si trovava all’aereoporto di Enugu e quanto fosse piacevole stare in quella parte del paese, col tono di una persona che sta mentendo e che vuole farti sapere che sta mentendo. Sochienne era al piano di sopra, chiacchierando con le damigelle, unendo in un mazzolino dei fiori appassiti che aveva insistito a raccogliere dall’albero di frangipani. Mancava solo un’ora prima di indossare l’abito ma lei era estremamente calma, il che infastidiva Mrs. Njoku perché il minimo che si aspettava da sua figlia, dopo tutto ciò che aveva passato per questo matrimonio, era un po’ di nervosismo da sposa. Quando arrivò la parrucchiera, volata lì da Lagos, Mrs Njoku era preoccupata per i capelli di Sochienne; quali possibilità potevano realmente esserci per i suoi dreadlocks? Sochienne disse che almeno a lei i capelli crescevano in testa naturali mentre il ciuffo arricciato di sua madre sembrava di plastica posticcia. Il suo tono era lo stesso di quando le aveva detto “grassa borghese” e così Mrs. Njoku entrò nella sua stanza per fare un bagno. L’organizzatrice di matrimoni bussò poco dopo per dirle che le nuvole erano ancora più scure di prima e che Sochienne aveva proposto uno stregone della pioggia. Mrs. Njoku pensò: un uomo che previene la pioggia – che stupida superstizione! Disse di no. Se davvero fosse iniziato a piovere, sarebbero potuti entrare e, anche se stretti, sarebbe stato fattibile, poiché le verande erano coperte. Ma Sochienne entrò nella sua stanza senza bussare e disse con quel tono che aveva cominciato ad irritare profondamente sua madre, che gli stregoni della pioggia erano superstizioni quanto i rosari cattolici, che la fede era come una scatola di Quality Street, lei sceglieva in cosa credere come sceglieva i cioccolatini senza nocciole, e che invece la sua fede contemplava: antenati guardiani, l’arte di prevenire la pioggia, un Dio felice. Mrs. Njoku trovò


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sconcertante questo elenco di credenze della figlia. Le ricordava suo marito defunto, un agnostico che nonostante questo aveva chiamato la sua casa di campagna Amarachi: Grazia di Dio. Ma era l’immagine dei Quality Street – la scatola viola di cioccolatini che lei e suo marito avevano comprato alla figlia per la prima volta quando aveva otto anni, e le avevano dato al piano di sotto proprio in qualla casa, guardandola mentre scrutava le differenti caramelle dagli involucri brillanti – che la spinse a chiamare lo stregone. L’uomo grinzoso arrivò e si sedette sul retro a sorvergliare il fuoco, bevendo gin ed assicurando a tutti che non sarebbe piovuto.Gli ospiti erano fatti accomodare, le damigelle erano pronte, le labbra tutte un luccichio. Il keniota arrivò con la sua famiglia dall’hotel di Onitsha. Il suo caftano senegalese, finemente ricamato sul colletto, era forse il massimo dell’eleganza a cui poteva aspirare, pensò Mrs. Njoku, ma avebbe voluto che indossasse un completo. Si girava tra le dita il diamante che aveva al collo e avvertì un confuso senso di spaesamento, era come se fosse stata inserita in una storia che non era scritta per lei. Trovò Sochienne nella veranda, appoggiata ad una ringhiera scrostata, i dreadlock raccolti, gli occhi truccati, un semplice vestito aderente lungo fino al polpaccio. Mrs. Njoku si sentì ferita dalla modestia di questo giorno e dalla naturalezza del viso di sua figlia. Le consigliò un po’ più di trucco, ma Sochienne scosse la testa e chiese alla madre se ricordava quando suo padre salì con lei sul frangipani per aiutarla a vincere la paura di arrampicarsi, quando c’era un caldo così umido che la tavoletta del water rimaneva appiccicata al sedere, quando suo padre quasi bruciò la casa mentre, facendo il fuoco, tostava gli anacardi, quando vomitò dopo aver mangiato una lumaca bollita. Mrs. Njoku aveva odiato quelle vacanze perché i loro amici erano a Londra, mentre suo marito insisteva che rimanessero ad Amarachi. In quel momento si avvicinò in silenzio alla figlia e pensò che, per la prima volta, riconosceva la sua Sochienne da quell’espressione di meraviglia che aveva spesso quando era bambina. L’organizzatrice entrò dicendo che era giunto il momento. Sochienne prese il bouquet. Aveva unito ai costosi fiori di seta arrivati da chissà dove in Europa, i fiori di frangipani, i cui petali cadevano per il caldo umido. Chiese a sua madre se le piacesse il bouquet e Mrs. Njoku rispose di no, accompagnando sua figlia al piano di sotto. Alla fine non piovve. Piovigginò, in modo lieve e rifrescante, le nuvole si aprirono appena prima dell’inizio del ricevimento, quando l’organizzatrice si fece avanti per sussurrare a Mrs. Njoku che Sochienne aveva cambiato il primo ballo da “No One Be Like You” di P-Square al classico di Nico Mbarga “Sweet Mother”.


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La storica cocciuta a cura del Liceo “Ariosto Spallanzani” | workshop di traduzione

Molti anni dopo la morte di suo marito, di tanto in tanto a Nwamgba capitava ancora di chiudere gli occhi, per rivivere i loro incontri notturni alla capanna; e le mattine seguenti, quando camminava verso il ruscello canticchiando e ripensava al suo odore di fumo e al peso del corpo di lui, si sentiva circondata dalla luce. Riaffioravano anche chiari altri ricordi di Obierika: le sue dita tozze avvolte intorno al flauto che suonava la sera, la sua gioia, quando gli posava davanti la scodella della cena, la sua schiena sudata, quando le portava cesti di argilla fresca da modellare. Dal primo momento in cui l’aveva visto, ad un incontro di lotta, entrambi guardandosi e riguardandosi, entrambi troppo giovani, quando la vita di lei non era ancora cinta dall’abito della fertilità, aveva creduto, con muta ostinazione, che i loro chi1 li avessero destinati al matrimonio. E così quando, qualche anno dopo, Obierika e i suoi parenti andarono dal padre di lei con brocche di vino di palma, disse alla madre che era quello l’uomo che voleva sposare. Sua madre ne fu sconvolta. Non sapeva Nwamgba che Obierika era figlio unico, che il suo defunto padre era stato a sua volta figlio unico e le sue mogli avevano perso e sepolto molti figli? Forse qualcuno nella loro famiglia aveva violato il taboo, vendendo una ragazza come schiava, e il dio della terra Ani aveva gettato su di loro il malocchio. Nwamgba non diede ascolto alla madre. Entrò nell’obi del padre e gli disse che sarebbe scappata dalla casa di qualsiasi altro uomo, se non le avesse permesso di sposare Obierika. Il padre la trovò esasperante, questa


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figlia dalla lingua tagliente, dalla testa dura che una volta aveva lottato con il fratello fino ad atterrarlo. (Il padre aveva dovuto mettere in guardia chi aveva visto la cosa di non far sapere al di fuori della famiglia che una ragazza aveva steso un ragazzo). Anche lui era preoccupato per l’infertilità della famiglia di Obierika, ma non era una cattiva famiglia: il padre di Obierika aveva ottenuto il titolo Ozo; già Obierika distribuiva i semi di patate dolci tra i mezzadri. Nwamgba non sarebbe morta di fame se l’avesse sposato. Inoltre era meglio che sua figlia andasse con l’uomo che si era scelta piuttosto che sopportare anni di guai durante i quali lei avrebbe continuato a tornare a casa dopo i litigi con i suoceri; e così le diede la sua benedizione, lei sorrise, chiamandolo con il nome di rispetto. Per pagare la sua dote, Obierika si presentò con due cugini materni, Okafo e Okoye, quasi fratelli per lui. Appena li vide, Nwamgba li detestò. Scorse una malevola scintilla d’avidità nei loro occhi, quel pomeriggio, mentre bevevano vino di palma nell’obi di suo padre; e gli anni seguenti, anni in cui Obierika acquisì titoli, ampliò i suoi possedimenti e vendette le sue patate dolci a forestieri venuti da lontano, Nwamgba vide la loro invidia farsi ancora più nera. Ma li sopportava, perché a Obierika stavano a cuore, perché fingeva di non accorgersi che non lavoravano, ma venivano per le patate dolci e i polli, perché gli piaceva immaginare di avere dei fratelli. Erano stati loro a fare pressione, dopo il terzo aborto, perché cercasse un’altra donna. Obierika diceva loro che ci avrebbe pensato su, ma quando poi la sera erano soli nella capanna, la rassicurava, dicendole che avrebbero avuto una casa piena di bambini, e che non avrebbe cercato un’altra donna fino alla vecchiaia, così avrebbero avuto qualcuno che si prendesse cura di loro. Nwamgba pensò che fosse strano da parte sua, un uomo benestante con una sola moglie, e si preoccupava più di lui per la mancanza di figli, per le canzoncine che la gente cantava, con quelle parole melodiose e cattive: Quella ha venduto il suo grembo. Gli ha mangiato il pene. Lui suona il suo flauto e intanto le passa tutti i suoi beni. Una volta, ad una riunione al chiaro di luna, la piazza piena di ragazze che raccontavano storie e imparavano nuove danze, un gruppo di donne vide Nwamgba e iniziò a cantare, con i seni che, aggressivi, l’accusavano. Nwamgba chiese gentilmente se dispiacesse loro cantare un po’ più forte, così da poter sentire le parole e far vedere chi aveva la testa più dura. Tacquero. Ella provò piacere per la loro paura per il modo in cui si allontanavano da lei, ma fu allora che decise di trovare, lei stessa, una moglie per Obierika. A Nwamgba piaceva recarsi al ruscello Oyi, sciogliendo la veste dalla vita e scendendo lungo il pendio fino all’argenteo corso d’acqua, che sgorgava da una roccia. Le acque dell’Oyi sembravano più fresche di quelle dell’altro ruscello, Ogalanya, o forse Nwamgba si sentiva semplicemente cullata dal


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tempietto in onore della dea Oyi, raccolto in un angolo; da bambina aveva imparato che Oyi era la dea protettrice delle donne, ed era la ragione per cui era taboo vendere le donne in schiavitù. La più cara amica di Nwamgba, Ayaju, si trovava già al ruscello e mentre Nwamgba aiutava Ayaju a sollevare il suo vaso sulla testa, le chiese chi potesse essere una buona seconda moglie per Obierika. Lei e Ayaju erano cresciute insieme e avevano sposato due uomini della medesima tribù. La differenza tra loro, tuttavia, era che Ayaju discendeva da schiavi. Ad Ayaju non importava di suo marito, Okenwa, che, a suo dire, assomigliava in aspetto e odore ad un topo ma le sue prospettive di matrimonio erano state limitate; nessun uomo nato da una famiglia libera sarebbe venuto a chiedere la sua mano. Ayaju era una di quelle donne che scambiavano i loro averi in giro, il suo corpo slanciato e scattante la diceva lunga sui suoi numerosi viaggi; era addirittura arrivata oltre Onicha. Era stata lei la prima a riportare le strane usanze dei commercianti Igala e Edo, e lei la prima a raccontare di uomini dalla pelle bianca, giunti ad Onicha con specchi e tessuti e le più grandi armi da fuoco che la gente di quei luoghi avesse mai visto. Questa sua conoscenza del mondo le fece guadagnare rispetto ed era l’unica discendente di schiavi che parlasse a testa alta al Consiglio delle Donne, l’unica che avesse una risposta per tutto. Suggerì prontamente, come seconda moglie per Obierika, una giovane ragazza della famiglia Okonkwo, che aveva bellissimi fianchi larghi ed era rispettosa, niente a che vedere con le ragazze di oggi, che avevano la testa piena di sciocchezze. Mentre tornavano a casa dal ruscello, Ayaju disse che forse Nwamgba avrebbe dovuto fare ciò che altre donne nella sua situazione facevano – trovarsi un amante e restare incinta così da dare un erede ad Obierika. La reazione di Nwamgba fu aspra, perché non le piaceva il tono di Ayaju, che sembrava insinuare che Obierika fosse impotente, e, come in risposta ai suoi pensieri, sentì una fitta lancinante alla schiena, e seppe così di essere di nuovo incinta, ma non disse nulla, perché sapeva, anche, che l’avrebbe perso ancora. L’aborto avvenne poche settimane dopo, quando sangue grumoso le scese tra le gambe. Obierika la confortò e suggerì di andare dal famoso oracolo, Kisa, non appena fosse stata abbastanza in forze da sopportare un viaggio di mezza giornata. Dopo che dibia ebbe consultato l’oracolo, Nwamgba rabbrividì al pensiero di sacrificare un’intera mucca; Obierika doveva avere antenati terribilmente avidi. Tuttavia portarono a termine le purificazioni rituali e i sacrifici come richiesto, e quando lei gli suggerì di andare a trovare la famiglia Okonkwo per la loro figlia, Obierika rimandò e rimandò, finchè un altro dolore tagliente le colpì la schiena: mesi dopo, Nwamgba stava coricata su un giaciglio di foglie di banano appena lavate dietro la sua capanna, spingendo a fatica, finché il neonato non venne al mondo. Lo chiamarono Anikwenwa: il dio della terra Ani gli aveva finalmente


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concesso un figlio. Era scuro e robusto, e aveva l’allegra curiosità di Obierika. Il padre lo portava a raccogliere erbe medicinali, a prendere l’argilla per il vasellame di Nwamgba, a intrecciare rampicanti di patate nell’orto. I cugini di Obierika, Okafo e Okoye, venivano spesso in visita. Si meravigliavano nel vedere quanto Anikwenwa suonasse bene il flauto, quanto velocemente imparasse poesie e mosse di lotta da suo padre, ma Nwamgba vedeva lo scintillio di malevolenza che i loro sorrisi non potevano nascondere. Temeva per il suo bambino e per suo marito, e quando Obierika morì – un uomo che era stato pieno di vita, che rideva e beveva vino di palma un attimo prima di cadere di colpo – Nwamgba seppe che lo avevano avvelenato. Si avvinghiò al suo cadavere, finché un vicino la schiaffeggiò per farle lasciare la presa; giacque tra le ceneri fredde per giorni, strappandosi i disegni creati dai capelli rasati. La morte di Obierika la lasciò con una disperazione senza fine. Pensò spesso ad una donna che, dopo aver perso una decina di figli, si era diretta verso il giardino dietro casa e si era impiccata ad un albero di noci di cola. Ma lei non lo avrebbe fatto, per Anikwenwa. Col senno di poi, desiderò di aver fatto bere ai cugini di Obierika il suo mmili ozu davanti all’oracolo. Ne era stata testimone una volta, quando un ricco uomo morì e la famiglia costrinse il rivale a bere il suo mmili ozu. Nwamgba aveva visto una vergine prendere una foglia concava piena d’acqua, toccare il corpo dell’uomo con quella, parlando sempre solennemente, e dare la foglia a coppa all’uomo accusato. Bevve. Tutti si assicurarono che deglutisse. Un silenzio pesante nell’aria, perché sapevano che, se fosse stato colpevole, sarebbe morto. Morì giorni dopo, e la sua famiglia chinò il capo per la vergogna. Nwamgba si sentì stranamente scossa da tutto questo. Avrebbe dovuto insistere anche con i cugini di Obierika, ma era stata accecata dal dolore ed ora Obierika era sepolto ed era troppo tardi. I cugini, durante il funerale, presero la sua zanna d’avorio, sostenendo che il corredo dei titoli spettasse ai fratelli, e non ai figli. Fu quando svuotarono il granaio dalle patate e portarono via le capre adulte dal recinto che ella osò fronteggiarli urlando, e quando la ignorarono aspettò la sera, quindi si mise a camminare tra la gente, cantando della malvagità di quelli, degli abomini che stavano accumulando sulla terra, ingannando una vedova, finchè gli anziani chiesero loro di lasciarla in pace. Nwamgba si lamentò al Concilio delle Donne, e venti donne si recarono di notte alle case di Okafo e Okoye, brandendo pestelli, ammonendoli di lasciarla stare. Ma Nwamgba sapeva che quegli avidi cugini non si sarebbero fermati. Sognava di ucciderli. Sicuramente ne sarebbe stata capace, quegli smidollati, che avevano trascorso la vita scroccando da Obierika, invece di lavorare, ma di certo sarebbe stata bandita, e nessuno si sarebbe preso cura di suo figlio. Invece, portava spesso Anikwenwa a fare lunghe passeggiate, raccontandogli che la terra da quell’albero di palma


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a quell’avocado era loro, e che suo nonno l’aveva lasciata a suo padre. Gli ripeteva le stesse cose, ancora e ancora, nonostante sembrasse annoiato e perplesso, e non lo lasciava andare a giocare sotto le stelle, a meno di non averlo sott’occhio. Ayaju tornò da un viaggio con un’altra storia: le donne di Onicha si lamentavano degli uomini bianchi. Avevano accolto bene la stazione commerciale dei bianchi, ma ora quelli pretendevano di insegnare loro come fare affari, e quando gli anziani di Agueke si rifiutarono di mettere il loro pollice su una carta, i bianchi arrivarono di notte, con i loro aiutanti del posto e rasero al suolo il villaggio. Non ne rimase nulla. Nwamgba non capiva. Che razza di armi avevano questi bianchi? Ayaju rise e disse che le loro armi non erano affatto come quegli arnesi arrugginiti di suo marito; parlava con orgoglio, come se lei stessa fosse l’artefice della superiorità delle armi dei bianchi. Alcuni di loro andavano in giro per le tribù e, aggiungeva, pregavano i genitori di mandare i figli a scuola, e lei per prima aveva deciso di mandare suo figlio Azuka, che era il più pigro alla fattoria, perché, benché fosse rispettata e benestante, era pur sempre figlia di schiavi, ai suoi figli era ancora preclusa la possibilità di acquisire titoli, e voleva che Azuka imparasse i modi di questi stranieri. La gente dettava legge sugli altri non perché era migliore, diceva, ma perché possedeva armi migliori; dopo tutto, suo padre non sarebbe stato fatto schiavo se il suo clan avesse avuto armi buone come quello di Nwamgba. Mentre Nwamgba ascoltava l’amica, sognava di uccidere i cugini di Obierika con le armi dei bianchi. Il giorno che gli uomini bianchi vennero a far visita alla sua tribù, Nwamgba mise da parte la scodella che stava per mettere nel forno, prese Anikwenwa e le sue apprendiste, e si affrettò verso la piazza. All’inizio rimase delusa dall’aspetto ordinario dei due uomini bianchi; sembravano innocui, del colore degli albini, con arti fragili e esili. I loro compagni erano uomini comuni, ma anche in loro c’era un che di straniero: solo uno parlava Igbo, e con uno strano accento. Disse che veniva da Elele, l’altro uomo normale dalla Sierra Leone e gli uomini bianchi dalla Francia, lontana, al di là del mare. Facevano tutti parte della Congregazione del Santo Spirito, erano arrivati ad Onicha nel 1885, e stavano costruendo lì la loro scuola e la loro chiesa. Nwamgba fu la prima a fare una domanda: avevano, per caso, portato le loro armi, quelle usate per distruggere le persone di Agueke, e poteva vederne una? L’uomo disse tristemente che erano i soldati del Governo Britannico e i mercanti della Compagnia Reale del Niger che distruggevano i villaggi; loro, invece, portavano buone notizie. Parlò del loro dio, che era venuto nel mondo per morire, e che aveva un figlio ma non una moglie, e che era tre ma anche uno. Molte delle persone intorno a Nwamgba risero, fragorosamente. Alcuni se ne andarono, perché avevano pensato che l’uomo bianco fosse pieno di


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saggezza. Altri rimasero e offrirono delle scodelle d’acqua fresca. Settimane dopo, Ayaju portò un’altra storia: gli uomini bianchi avevano costruito un tribunale ad Onicha, dove giudicavano le controversie. Certo erano venuti per restare. Per la prima volta, Nwamgba dubitò dell’amica. La tribù vicino a quella di Nwamgba, ad esempio, istituiva una corte solo durante la festa per il nuovo raccolto di yam, così il rancore della gente cresceva, mentre aspettavano di ricevere giustizia. Un sistema stupido, pensò Nwamgba, ma sicuramente tutti ne avevano uno. Ayaju rise e disse di nuovo a Nwamgba che le persone governavano sulle altre quando avevano armi migliori. Suo figlio stava già imparando questi modi stranieri, e forse anche Anikwenwa avrebbe dovuto. Nwamgba si rifiutò. Era impensabile che il suo unico figlio, la pupilla dei suoi occhi, dovesse essere consegnato agli uomini bianchi, qualunque fosse la superiorità delle loro armi. Tre eventi, negli anni seguenti, fecero cambiare idea a Nwamgba. Il primo fu che i cugini di Obierika si impossessarono di un largo appezzamento di terra e dissero ai più anziani che lo stavano coltivando per lei, che ora si rifiutava di sposarsi nuovamente, anche se c’erano dei pretendenti e i suoi seni erano ancora rotondi. Gli anziani li spalleggiarono. Il secondo evento fu che Ayaju raccontò la storia di due persone che avevano portato il caso di un possedimento terriero alla corte dei bianchi; il primo dei due mentiva, ma sapeva parlare la lingua dei bianchi, mentre il secondo, il reale possessore della terra, non ne era in grado; e così perse il caso; fu picchiato e rinchiuso, e venne obbligato a rinunciare alla sua terra. Il terzo evento fu la storia del giovane Iroegbunam, che era scomparso molti anni prima e che improvvisamente riapparve, ormai uomo, alla madre vedova, ammutolita dal terrore per la sua storia: un vicino, al quale il padre di Iroegbunam aveva spesso fischiato alle assemblea degli uomini, lo aveva rapito quando sua madre era al mercato e lo aveva portato ai mercanti di schiavi Aro, che lo esaminarono e si lamentarono del fatto che la ferita sulla gamba avrebbe abbassato il suo prezzo. Fu legato agli altri per le mani, in una lunga catena umana, e venne picchiato con un bastone e gli dissero di camminare più velocemente. C’era una donna nel gruppo. Gridava fino a rimanere senza voce, dicendo ai rapitori che erano senza cuore, che il suo spirito avrebbe tormentato loro e i loro figli, che sapeva che sarebbe stata venduta all’uomo bianco e non sapevano forse che la schiavitù sotto gli uomini bianchi era molto diversa, che le persone erano trattate come bestie, caricate su grandi navi dirette molto lontano, e che alla fine venivano mangiati? Iroegbunam camminò e camminò e camminò, i piedi insanguinati, il corpo intorpidito, fino a che tutto ciò che ricordava era l’odore della polvere. Finalmente, si fermarono presso una famiglia della costa, dove un uomo parlava un Igbo quasi incomprensibile, ma Iroegbunam decifrò abbastanza da capire che un altro uomo, che avrebbe dovuto venderli


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ai bianchi sulla nave, era salito per contrattare, ma era stato egli stesso rapito. Ci furono litigi con urla, zuffe; alcuni tra i prigionieri strattonarono violentemente le corde e Iroegbunam svenne. Si svegliò trovando un uomo bianco che strofinava i suoi piedi con l’olio e subito ne fu terrorizzato, certo che lo stesse preparando per il pasto degli uomini bianchi, ma questo era un tipo diverso di uomo bianco, che comprava schiavi solo per liberarli, e prese Iroegbunam a vivere con sé e gli insegnò ad essere un missionario Cristiano. La storia di Iroegbunam perseguitava Nwamgba, perché questo, ne era certa, era con tutta probabilità il modo in cui i cugini di Obierika si sarebbero sbarazzati di suo figlio. Ucciderlo sarebbe stato troppo pericoloso, il rischio di disgrazie da parte dell’oracolo troppo alto, ma sarebbero stati capaci di venderlo, purché avessero dei filtri potenti che li proteggessero. Era colpita, anche, dal fatto che di tanto in tanto Iroegbunam tornasse a parlare la lingua degli uomini bianchi. Aveva un suono nasale e disgustoso. Nwamgba non aveva certo desiderio di parlare lei stessa in una lingua del genere, ma improvvisamente decise che Anikwenwa ne avrebbe parlata quanto bastava per andare al tribunale dei bianchi con i cugini di Obierika, vincere la causa e prendere il controllo di ciò che era suo. E così, poco dopo il ritorno di Iroegbunam, disse ad Ayaju di voler portare suo figlio a scuola. All’inizio andarono alla missione Anglicana. La classe contava più ragazze che ragazzi, seduti con pietre sulle ginocchia, mentre l’insegnante stava in piedi di fronte a loro, impugnando una grossa bacchetta, e raccontava di un uomo che aveva trasformato una ciotola d’acqua in vino. Le parole dell’insegnante colpirono Nwamgba, e pensò che l’uomo della storia dovesse avere una pozione potentissima per riuscire a trasformare l’acqua in vino, ma quando le ragazze furono separate e arrivò una donna per insegnar loro a cucire, Nwamgba lo trovò sciocco. Nella sua tribù, gli uomini cucivano tessuti e le donne imparavano a modellare i vasi. Comunque, quello che la dissuase completamente dal mandare Anikwenwa in quella scuola fu che la spiegazione era fatta in Igbo. Nwamgba chiese perché. Il maestro disse che, ovviamente, agli studenti si insegnava l’Inglese –teneva in mano un sillabario di Inglese – ma i bambini imparavano meglio nella loro lingua e anche i bambini nella terra dei bianchi imparavano nella loro lingua. Nwamgba si voltò per andarsene. Il maestro le sbarrò la strada e disse che i missionari Cattolici erano severi e non volevano il meglio per gli indigeni. Nwamgba era divertita da questi stranieri, che non sembravano sapere che bisognerebbe, davanti agli estranei, fare finta di essere uniti. Ma lei cercava l’Inglese, così lo oltrepassò e si recò alla missione Cattolica. Padre Shanahan le disse che Anikwenwa avrebbe dovuto scegliere un nome Inglese, perché non si poteva essere battezzati con un nome pagano. Accettò di buon grado. Per quanto la riguardava il suo nome era Anikwenwa;


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se volevano dargli un nome che non sarebbe riuscita a pronunciare, prima di insegnargli la loro lingua, non le importava nulla. L’unica cosa che contava era che riuscisse ad imparare la lingua abbastanza da battere i cugini del padre. Padre Shanahan guardò Anikwenwa, un bambino dalla pelle scura e muscoloso, e azzardò che fosse sui dodici anni, nonostante trovasse difficile dare un’età a questa gente; a volte chi sembrava un uomo si rivelava essere solo un ragazzo. Non aveva niente a che vedere con l’Africa Orientale, dove aveva lavorato prima, dove gli indigeni tendevano ad essere più snelli, meno indiscriminatamente muscolosi. Mentre versava un po’ d’acqua sulla testa del ragazzo, disse: “Michael, io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.” Diede al ragazzo una canottiera e un paio di pantaloni corti, perché il popolo del Dio vivente non andava in giro nudo, tentò di predicarlo anche alla madre del ragazzo, che lo guardò come un bambino che non sa ancora nulla. Essa aveva un che di inquietante e di assertivo, una cosa che aveva visto in molte donne, qui; c’era un grande potenziale da imbrigliare se la loro natura selvaggia fosse stata domata. Questa Nwamgba sarebbe stata una splendida missionaria tra le donne. La guardò partire. C’era grazia nella sua schiena dritta, e, a differenza di altri, nel suo discorso non era andata per le lunghe. Lo facevano infuriare, il loro straparlare e i loro sinuosi proverbi; non arrivavano mai al punto, ma qui voleva davvero eccellere; era per questo che si era unito alla Congregazione del Santo Spirito, la cui particolare vocazione era la redenzione dei neri pagani. Nwamgba era preoccupata da come indiscriminatamente i missionari fustigassero gli studenti: perché erano in ritardo, perché erano pigri, perché erano lenti, perché erano sfaccendati, e una volta, come le disse Anikwenwa, Padre Luz aveva messo manette di metallo intorno ai polsi di una ragazza per insegnarle una lezione sul mentire, dicendo continuamente in Igbo – poiché Padre Luz parlava Igbo, anche se in modo scorretto – che i genitori indigeni coccolavano troppo i figli, che insegnare il Vangelo significava anche insegnare una corretta disciplina. Il primo finesettimana in cui Anikwenwa tornò a casa, Nwamgba notò dei lividi sulla sua schiena, e stretta la veste attorno alla vita si recò a scuola e disse all’insegnante che avrebbe cavato gli occhi a chiunque nella missione l’avesse fatto di nuovo. Sapeva che Anikwenwa non voleva andare a scuola e gli disse che era solo per un anno, o due, così da imparare l’inglese, e nonostante la gente della missione le sconsigliasse di venire a scuola così spesso, insistentemente vi si recava ogni finesettimana per portarlo a casa. Anikwenwa si toglieva sempre i vestiti prima ancora di aver lasciato il terreno della missione. Non gli piacevano i pantaloni corti e la camicia, che lo facevano sudare e la stoffa che faceva prurito sotto le ascelle. Inoltre non amava essere nella stessa classe con gli anziani, perdendosi le gare di lotta. Ma l’atteggiamento di Anikwenwa riguardo la scuola si


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modificò gradualmente. Nwamgba se ne accorse per la prima volta quando alcuni dei ragazzini con cui era solito correre nella piazza del villaggio si lamentarono del fatto che non facesse più la sua parte, poiché frequentava la scuola, e Anikwenwa disse loro qualcosa in inglese, un qualcosa dal suono tagliente, che li fece tacere e riempì Nwamgba di un indulgente orgoglio. Il suo orgoglio si trasformò presto in una vaga apprensione quando si accorse che la curiosità nei suoi occhi era diminuita. C’era una nuova serietà in lui, come se si fosse appena accorto di sorreggere il carico di un mondo pesante. Fissava le cose troppo a lungo. Smise di mangiare il suo cibo, perché, diceva, veniva sacrificato agli idoli. Le disse di legare la veste intorno al petto e non ai fianchi, perché la sua nudità era peccaminosa. Lei lo fissò, divertita dalla sua franchezza, ma anche preoccupata, e gli chiese come mai avesse notato solo in quel momento la sua nudità. Quando giunse il momento della sua cerimonia di iniziazione, disse che non avrebbe partecipato, poiché era un’usanza pagana l’essere iniziati al mondo degli spiriti, un’usanza alla quale padre Shanahan aveva detto che avrebbero dovuto porre fine. Nwamgba lo afferrò rudemente per un orecchio e gli disse che uno straniero albino non aveva il diritto di decidere quando le loro tradizioni sarebbero cambiate, e che vi avrebbe preso parte, altrimenti doveva dirle se voleva essere figlio suo o dell’uomo bianco. Anikwenwa accettò riluttante, ma non appena fu portato via con un gruppo di altri ragazzi, lei si accorse che gli mancava l’entusiasmo che avevano gli altri. La sua tristezza la rattristò. Sentì suo figlio scivolarle via e nonostante tutto era orgogliosa che stesse imparando così tanto, che potesse diventare un interprete nei tribunali o uno capace di scrivere lettere, che avesse portato a casa, con l’aiuto di padre Lutz, alcune carte che mostravano che la terra apparteneva a loro. Il momento di più alto orgoglio fu quando andò dai cugini del padre, Okafo e Okoye, e chiese indietro la zanna d’avorio che era stata di suo padre. Ed essi la restituirono. Nwamgba sapeva che suo figlio ora aveva una mentalità che lei non era in grado di comprendere. Lui le disse che sarebbe andato a Lagos per studiare da insegnante, e nonostante urlasse – Come puoi lasciarmi? Chi mi seppellirà quando morirò? – sapeva che se ne sarebbe andato. Non lo vide più per molti anni, anni durante i quali Okafo, il cugino del padre, morì. Spesso consultava l’oracolo per chiedere se Anikwenwa fosse ancora vivo, e dibia la rimproverava e la mandava via, perché certamente era vivo. Infine, egli tornò, nell’anno in cui la tribù aveva allontanato tutti i cani, dopo che un cane aveva ucciso un membro dell’assemblea degli uomini dei Mmangala, la fascia d’età alla quale Anikwenwa avrebbe dovuto appartenere, se non avesse pensato che quel genere di cose era demoniaco. Nwamgba non disse niente quando Anikwenwa annunciò che era stato scelto come catechista alla nuova missione. Stava affilando la sua aguba sul


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palmo della mano, preparandosi a creare disegni tra i capelli di una ragazzina, e continuava a fare flick-flick-flick mentre Anikwenwa parlava di conquistare le anime dei membri della loro tribù. Il piatto di semi dell’albero del pane, che lei gli aveva offerto, era intonso – non mangiava più nulla preparato da lei – e lo guardò, quest’uomo, che indossava pantaloni, con un rosario intorno al collo, e si domandò se avesse interferito col suo destino. Era con questo che il suo chi aveva deciso di metterlo alla prova, con questa vita nella quale era come una persona che recitasse scrupolosamente una bizzarra pantomima? Il giorno in cui le parlò della donna che voleva sposare, non si stupì. Non lo fece come doveva essere fatto, non s’informò sulla famiglia della sposa, ma disse semplicemente che qualcuno alla missione aveva visto una giovane donna adatta appartenente agli Ifite Ukpo, e questa giovane donna adatta sarebbe stata accompagnata presso le Sorelle del Santo Rosario ad Onicha, per imparare ad essere una buona moglie cristiana. Nwamgba aveva una crisi di malaria quel giorno, sdraiata sul suo letto di fango, mentre si strofinava le articolazioni doloranti, e chiese ad Anikwenwa il nome della giovane donna. Anikwenwa disse che era Agnes. Nwamgba chiese allora quale fosse il vero nome della ragazza. Anikwenwa si schiarì la voce e disse che era chiamata Mgbeke prima di diventare cristiana, e Nwamgba chiese se Mgbeke avrebbe preso parte alla cerimonia di confessione, anche se Anikwenwa non avrebbe osservato gli altri riti matrimoniali della loro tribù. Lui scosse la testa furiosamente e le disse che la confessione fatta dalle donne prima del matrimonio, nella quale, circondate da donne della famiglia, giuravano che nessun uomo le aveva toccate da quando il futuro marito aveva dichiarato il suo interesse, era peccaminosa, perché le mogli cristiane non dovevano essere state toccate per nulla. La cerimonia in chiesa fu buffissima, ma Nwamgba la sopportò silenziosamente, e si disse a che sarebbe morta presto e si sarebbe ricongiunta con Obierika e si sarebbe liberata di un mondo che aveva sempre meno senso. Era determinata a non farsi piacere la moglie del figlio, ma era difficile non farsi piacere Mgbeke, dalla pelle chiara, gentile, ansiosa di compiacere l’uomo con cui era sposata, ansiosa di compiacere tutti, facile al pianto, come se si dovesse scusare per cose che non poteva controllare. E così, invece, la compativa. Mgbeke visitava spesso Nwamgba in lacrime, dicendo che Anikwenwa si rifiutava di mangiare a cena, perché ce l’aveva con lei, che Anikwenwa le aveva proibito di andare al matrimonio Anglicano di un’amica, perché gli Anglicani non predicavano la verità; e Nwamgba incideva silenziosamente disegni sui suoi vasi, mentre Mgbeke piangeva, incerta su come trattare una donna che piangeva per cose che non meritano lacrime. Mgbeke era soprannominata “missus” da tutti, anche dai non-Cristiani, che la rispettavano in quanto moglie del catechista. Ma il giorno in cui si recò alla sorgente Oyi e rifiutò


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di togliersi i vestiti, perché era Cristiana, le donne della tribù, oltraggiate per il fatto che aveva osato mancare di rispetto alla divinità, la picchiarono e la abbandonarono nel boschetto. La notizia si diffuse velocemente. Missus era stata maltrattata. Anikwenwa minacciò di rinchiudere gli anziani, se sua moglie fosse stata trattata ancora in quel modo; ma Padre O’Donnell, nel suo viaggio successivo dalla stazione di Onicha, fece visita agli anziani e chiese scusa a nome di Mgbeke, e chiese se le donne Cristiane, da quel momento in poi, avrebbero potuto immergersi in acqua completamente vestite. Gli anziani rifiutarono – se una donna voleva l’acqua di Oyi, doveva seguire le regole di Oyi – ma furono gentili con Padre O’Donnell, che li ascoltò e non si comportò come il loro figlio Anikwenwa. Nwamgba era disgustata da suo figlio, irritata con la nuora, sdegnata dalla loro vita di supposta superiorità, nella quale trattavano i non-Cristiani come se avessero il vaiolo, ma sperava ancora in un nipotino, pregava e faceva sacrifici perché Mgbeke avesse un maschio, perché sapeva che il bambino sarebbe stato il ritorno di Obierika e avrebbe portato di nuovo una parvenza di senso nel suo mondo. Non sapeva nulla né del primo né del secondo aborto di Mgbeke; fu solo dopo il terzo che Mgbeke, tirando su col naso e soffiandoselo, glielo disse. Dovevano consultare l’oracolo, dato che era una disgrazia della famiglia, disse Nwamgba, ma Mgbeke sgranò gli occhi per la paura. Michael si sarebbe molto arrabbiato se avesse anche solo sentito questo suggerimento. Nwamgba, che trovava ancora difficile ricordare che Michael era Anikwenwa, andò ella stessa dall’oracolo, e dopo pensò che fosse bizzarro che anche gli dei fossero cambiati e non chiedessero più vino di palma, ma gin. Si erano per caso convertiti anch’essi? Qualche mese dopo, Mgbeke andò a farle visita, sorridendo, portando una ciotola coperta con uno di quegli intrugli che Nwamgba trovava immangiabili, ed ella seppe che il suo chi era vivo e vegeto, e che sua nuora era incinta. Anikwenwa aveva decretato che Mgbeke avrebbe avuto il bambino alla missione di Onicha, ma gli dei avevano progetti diversi, e le vennero le doglie un pomeriggio piovoso; qualcuno corse alla capanna di Nwamgba nella pioggia scrosciante, per chiamarla. Era un maschio. Padre O’Donnell lo battezzò Peter, ma Nwamgba lo chiamava Nnamdi, perché sarebbe stato Obierika, tornato in vita. Cantava per lui, e quando il bimbo piangeva gli spingeva il capezzolo secco in bocca, ma, per quanto si sforzasse, non percepiva lo spirito del suo straordinario marito, Obierika. Mgbeke ebbe altri tre aborti, e Nwamgba si recò numerose volte presso l’oracolo, finché non portò a temine una gravidanza e, nella missione, nacque il secondo bambino. Una femmina. Dal momento in cui Nwamgba la tenne in braccio, gli occhi luminosi della bambina, con sua delizia, fissi su di lei, seppe che lo spirito di Obierika era finalmente tornato; strano che fosse tornato in una femmina, ma


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chi poteva prevedere le vie degli antenati? Padre O’Donnell la battezzò Grace, ma Nwambga la chiamava Afamefuna-“il mio nome non sarà perduto” – ed era entusiasta del solenne interesse della bambina nella sua poesia e nelle sue storie, della viva attenzione dell’adolescente nell’osservare Nwamgba che arrancava nel costruire vasi, con le mani che tremavano sempre più. Nwamgba non era, però, entusiasta che Afamefuna dovesse essere mandata via, alla scuola superiore di Onicha. (Peter viveva già lì con i preti.) Temeva che, a scuola, le nuove usanze avrebbero dissolto lo spirito guerriero della nipote e l’avrebbero rimpiazzato con un’apatica rigidità, come era avvenuto a suo figlio, o con una fiacca incapacità, come era avvenuto a Mgbeke. L’anno in cui Afamefuna partì per la scuola superiore, Nwamgba si sentì come se una luce fosse stata spenta in una stanza oscura. Fu un anno strano, un anno in cui l’oscurità calò improvvisamente sulla terra a metà del pomeriggio, e quando Nwamgba avvertì un dolore profondo alle giunture, seppe che la sua fine era vicina. Si stese sul letto annaspando, mentre Anikwenwa la supplicava di accettare il battesimo e l’olio santo così che potesse celebrare per lei un funerale cristiano, dato che non poteva partecipare ad una cerimonia pagana, lui. Nwamgba rispose che avrebbe schiaffeggiato, con tutta la forza che le rimaneva in corpo, chiunque egli avesse osato portarle per cospargerla con un sudicio unguento. Tutto ciò che desiderava prima di riunirsi agli antenati era vedere Afamefuna, ma Anikwenwa disse che Grace era impegnata con gli esami a scuola e non poteva tornare a casa. Ma venne. Nwamgba udì il cigolio della porta, ed ecco Afamefuna, sua nipote, che era venuta da sé da Onicha, perché non riusciva a dormire da giorni; lo spirito inquieto la costringeva verso casa. Grace appoggiò la cartella, dentro la quale aveva un libro, con un capitolo intitolato ”La Pacificazione delle Tribù Primitive nella Nigeria del Sud”, scritto da un amministratore di Bristol, che aveva vissuto presso di loro per sette anni. Era Grace che alla fine avrebbe letto di questi selvaggi, stimolata dalle loro usanze curiose e senza senso, non associandoli a sé stessa, finché la sua insegnante, sorella Maureen, le disse che non poteva considerare poesia il “call and response” che sua nonna le aveva tramandato, perchè le tribù primitive non avevano poesia. Era Grace che avrebbe riso e riso, finché sorella Maureen la mise in punizione e convocò il padre, che la schiaffeggiò davanti a tutti gli altri insegnanti, per mostrare loro quanto educasse bene i suoi figli. Era Grace che avrebbe alimentato un profondo disprezzo per suo padre per anni, trascorrendo le vacanze a lavorare come cameriera ad Onicha, così da evitare le bigotterie, le austere certezze dei genitori e del fratello. Era Grace che, dopo essersi diplomata alla scuola superiore, avrebbe insegnato alla scuola elementare di Agueke, dove la gente raccontava storie sulla distruzione del proprio villaggio per mano di uomini bianchi armati, storie alle quali


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non era sicura di credere, perché si raccontavano anche storie di sirene che apparivano dal Fiume Niger, con in mano rotoli di banconote fruscianti. Era Grace che, una tra dodici donne, all’University College di Ibadan nel 1953, avrebbe cambiato facoltà, da chimica a storia, dopo aver sentito, mentre beveva tè a casa di amici, la storia di Mr. Gboyega. L’eminente Mr. Gboyega, un nigeriano color del cioccolato, istruito a Londra, distinto esperto di storia dell’Impero Britannico, si era dimesso disgustato, quando il Consiglio degli Esami dell’Africa dell’Ovest iniziò a parlare di aggiungere “Storia Africana” al curriculum di studi; era stupefatto che la storia africana potesse addirittura essere considerata una materia. Era Grace che avrebbe riflettuto su questa storia per lungo tempo, con grande tristezza, e ciò l’avrebbe portata a fare un chiaro collegamento tra educazione e dignità, tra le rigide, ovvie cose stampate sui libri e le duttili, sottili che alloggiano nell’anima. Era Grace che avrebbe cominciato a riconsiderare la sua educazione: con quale passione aveva cantato durante il Giorno dell’Impero Coloniale “Dio salvi il Re. Lo conservi vittorioso, felice e glorioso. Possa regnare a lungo su di noi.” Quanto era rimasta perplessa davanti a parole come “carta da parati” e “denti di leone” nei suoi libri di testo, incapace di immaginarle. Quanto aveva lottato con i problemi di aritmetica, che avevano a che fare con le miscele, perché cos’era “caffè” e cos’era “cicoria”, e perché dovevano essere mescolati? Era Grace che avrebbe cominciato a riconsiderare l’educazione del padre, per poi correre a casa per rivederlo, i suoi occhi acquosi per l’età, raccontandogli che non aveva ricevuto tutte le lettere, che, invece, aveva ignorato, rispondendo amen a tutte le sue preghiere, premendo le labbra sulla sua fronte. Era Grace che, un giorno, oltrepassata Agueke, guidando sulla strada per l’università, sarebbe stata perseguitata dall’immagine di un villaggio distrutto e sarebbe andata a Londra, Parigi, Onicha, rovistando tra scartoffie ammuffite negli archivi, rievocando immagini di vite e odori del mondo di sua nonna per il libro che avrebbe scritto, intitolato: “Pacificazione con pallottole: la vera storia della Nigeria del Sud”. Era Grace che, in una conversazione riguardo al libro con il suo fidanzato, George Chikadibia –elegante laureato al King’s College di Lagos, futuro ingegnere, giacca e cravatta, esperto ballerino da sala, che spesso diceva che una scuola senza latino era come una tazza di tè senza zucchero – avrebbe capito che il matrimonio non sarebbe durato a lungo, quando George le disse che era fuorviante da parte sua scrivere riguardo culture primitive invece di un argomento che avesse valore, come “Alleanze africane durante la Guerra Fredda”. Avrebbero divorziato nel 1972, non a causa dei quattro aborti che Grace aveva subito, ma perché una notte si svegliò sudata e si rese conto che avrebbe strangolato George, se avesse dovuto ascoltare un altro estatico monologo riguardo i suoi giorni a Cambridge. Era Grace che, mentre riceveva riconoscimenti universitari, mentre parlava a


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gente dal volto solenne a conferenze riguardo i popoli della Nigeria del Sud: Ijaw e Ibibio e Igbo e Efik, mentre scriveva rapporti pieni di buon senso per organizzazioni internazionali, per i quali non avrebbe comunque ricevuto un generoso pagamento, avrebbe immaginato sua nonna che la guardava, molto divertita. Era Grace che, provando, negli ultimi anni della sua vita, un bizzarro senso di sradicamento, circondata dai suoi premi, dai suoi amici, dal suo giardino di rose senza uguali, sarebbe andata al tribunale di Lagos e avrebbe ufficialmente cambiato il suo nome da Grace ad Afamefuna. Ma quel giorno, sedendo accanto al letto della nonna, sul morire della sera, Grace non pensava al suo futuro. Teneva semplicemente la mano della nonna, il palmo ispessito dagli anni trascorsi a modellare vasi.


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Tu in America a cura del Liceo “S. Carlo” di Modena | workshop di traduzione

Credevi che tutti in America avessero una macchina e una pistola. Lo credevano anche i tuoi zii, le tue zie e i tuoi cugini. Subito dopo aver vinto il visto americano ti hanno detto, entro un mese potrai avere una bella macchina, presto una casa grande ma non comprarti un’arma come fanno certi americani. Sono arrivati in massa nella baraccopoli di Lagos, e poiché non c’erano sedie a sufficienza sono rimasti appoggiati alle pareti di zinco tempestate di chiodi; sono venuti per salutarti a gran voce e poi per sussurrarti cosa volevano che spedissi loro. Paragonati alla grande auto e alla casa (ed eventualmente alla pistola) le cose che volevano erano di minor valore: borse, scarpe, integratori vitaminici. Hai detto ok, nessun problema. Tuo zio in America ti ha detto che potevi vivere con lui finché non te la saresti cavata da sola. Ti è venuto a prendere all’aeroporto e ti ha comprato un grosso hot dog con una nauseante salsa gialla. Ti presento l’America, ha detto con una risata. Viveva in una piccola città di bianchi nel Maine, in una casa affacciata sul lago, costruita trent’anni prima. Ti ha raccontato che la ditta per cui lavorava gli aveva offerto qualche azione in più perché stava disperatamente cercando di apparire diversa. Lo aveva incluso in ogni brochure, anche in quelle che non avevano niente a che fare con l’ingegneria. Lui, sorridendo, ti ha detto che il lavoro era buono, e che valeva la pena vivere in una cittadina abitata completamente da bianchi, anche se sua moglie doveva guidare per un’ora per trovare un salone che le acconciasse i capelli secondo lo stile africano.


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Il segreto era capire l’America, imparare che l’America significa dare e ricevere. Si rinuncia a molto ma si può ottenere ugualmente tanto. Ti ha mostrato come fare domanda per un posto di cassiera al distributore di benzina sulla Main Street e ti ha iscritto al centro universitario dove le ragazze erano incuriosite dai tuoi capelli. Stanno su o cadono quando ti sciogli le trecce? Rimangono dritti tutti quanti? Come? Perché? Usi il pettine? Mostravi un sorriso forzato, quando ti facevano queste domande. Lo zio diceva che c’era da aspettarselo; un misto di ignoranza e arroganza, lo definiva. Ha aggiunto anche che, alcuni mesi dopo avere traslocato, tra i vicini girava voce che gli scoiattoli stessero iniziando a scomparire; infatti avevano sentito dire che gli africani si cibavano di tutti i tipi di animali selvatici. Vi siete fatti una risata e ti sentivi a tuo agio con lui, come se fossi a casa tua, sua moglie ti chiamava nwanne, sorella, e per i suoi due figli, che andavano a scuola, eri la zia. Parlavano Igbo e a pranzo mangiavano garri, ed era proprio come essere a casa. Fino a quando tuo zio è piombato nell’angusto seminterrato dove dormivi, in mezzo a vecchi bauli, ruote e libri, ha afferrato il tuo seno come se stesse raccogliendo dei mango, gemendo. Non era veramente tuo zio, ma un lontano cugino del marito di tua zia, non c’erano legami di sangue. Mentre preparavi le valigie, quella sera, si è messo seduto sul letto – era casa sua dopotutto – e ridendo ti ha detto che non avevi nessun posto dove andare. Se lo avessi lasciato fare, avrebbe fatto molto per te. Era quello che facevano da sempre le donne più scaltre. Come pensavi ce l’avessero fatte tutte quelle donne tornate a Lagos con un lavoro ben pagato? E anche quelle a New York? Così ti sei rinchiusa in bagno e la mattina seguente sei partita, percorrendo a piedi la lunga strada battuta dal vento, annusando l’odore di pesci proveniente dal lago. Lo hai visto passare in auto lungo la Main Street, dove era solito lasciarti, ma questa volta non ha suonato il clacson. Ti sei chiesta cosa avrebbe detto a sua moglie, come avrebbe giustificato la tua partenza. Ti sei poi ricordata di quanto ti aveva detto: l’America era un continuo dare e prendere. Ti sei ritrovata in Connectictut, in un’altra piccola città, solo perché era l’ultima fermata dell’autobus, sul quale eri salita. Il Bonanza era quello meno costoso. Sei entrata in un ristorante lì vicino dicendo che avresti lavorato per due dollari in meno rispetto alle altre cameriere. Il proprietario, Juan, aveva i capelli neri come la pece, e un dente d’oro che appariva dal suo sorriso. Ti ha detto di non avere mai assunto nessun nigeriano prima, ma che comunque tutti gli immigrati lavorano sodo. Ne sapeva qualcosa anche lui. Ti avrebbe dato un dollaro in meno, ma in nero. Aveva già abbastanza tasse da pagare. Non potevi permetterti di andare a scuola dovendo pagare l’affitto della minuscola stanza con il tappeto macchiato. Inoltre la cittadina del Connecticut non aveva un community college e frequentare l’università statale costava troppo. Quindi ti sei recata nella biblioteca locale, e dopo


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avere esaminato i piani di studio sul sito web della scuola, ti sei letta un po’ dei libri indicati. A volte restavi seduta sul materasso informe pensando a casa tua. Ai tuoi genitori, ai tuoi zii e zie, ai cugini, a i tuoi amici. Alla gente che non aveva mai tratto profitto vendendo manghi e akara, le cui case – lastre di zinco tenute insieme precariamente da dei chiodi – crollavano nella stagione delle piogge; pensavi a coloro che erano venuti per salutarti, per gioire della tua vincita del visto americano e per confessarti la loro invidia. A quelli che mandavano i propri figli alla scuola superiore dove gli insegnanti davano un bel voto quando vedevano scivolare delle buste marroni tra le proprie mani. Non hai mai avuto bisogno di pagare per avere bei voti, né hai mai allungato bustarelle a nessun insegnante delle superiori. Però ne hai scelte grandi e marroni per mandare ai tuoi genitori metà del tuo stipendio. La mazzetta di banconote che ti dava Juan era più sottile di quella delle mance. Ogni mese così. Non hai mai scritto una lettera. Non c’era nulla da scrivere. Tuttavia le prime settimane avresti voluto farlo, perché avevi molte cose da dire. Avresti voluto scrivere di quanto fossero sorprendentemente aperti gli americani, di come ti raccontavano con entusiasmo come le loro madri stavano combattendo il cancro, del bimbo prematuro della cognata, – faccende private da nascondere, da rivelare solo ai propri cari. Avresti voluto scrivere di come le persone lasciavano così tanto cibo nei loro piatti e accartocciavano qualche dollaro di mancia, come se fosse un’offerta, un’espiazione per il cibo sprecato; o della bambina che aveva cominciato a piangere e a tirarsi i capelli biondi e dei genitori che, invece di farla stare zitta, l’assecondavano per poi alzarsi e andarsene tutti insieme. Avresti voluto scrivere che non tutti in America possedevano grandi case o auto anche se sulle armi non eri ben sicura perché avrebbero potuto tenerle dentro le borse e in tasca. Non era solo ai tuoi genitori che avresti voluto scrivere, ma anche agli amici, cugini, zii e zie. Ma non ti saresti mai potuta permettere l’acquisto di borse, scarpe, integratori vitaminici e contemporaneamente pagare l’affitto, per questo non hai scritto a nessuno. Non si sapeva dove fossi perché non l’avevi detto a nessuno. Qualche volta ti sentivi invisibile e provavi ad attraversare la parete della stanza per andare nell’ingresso, ma quando sbattevi contro il muro ti venivano dei lividi sulle braccia. Una volta Juan ti ha chiesto se avevi un fidanzato che ti picchiava, dicendoti che se ne sarebbe occupato lui, e tu hai risposto con una risata misteriosa. Di notte avvertivi qualcosa che ti si avvolgeva intorno al collo, e avevi quasi sempre la sensazione che ti soffocasse prima di svegliarti. Alcuni pensavano che tu venissi dalla Giamaica, perché ritenevano che ogni persona di colore con un accento diverso fosse giamaicana. Quelli che intuivano che eri africana ti chiedevano se conoscevi questo o quello del Kenia o dello Zimbabwe, immaginandosi che l’Africa fosse un paese dove tutti si conoscono. Per questo quando nell’oscurità dei ristorante, dopo


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avergli elencato le specialità del giorno, lui ti ha chiesto da quale paese africano provenissi, e hai detto Nigeria, ti aspettavi ti chiedesse se conoscevi quell’amico che aveva incontrato nei Corpi di Pace in Senegal o Botswana. Invece lui ti ha chiesto se eri Yoruba o Igbo, perché non avevi un viso da Fulani. Sei rimasta sorpresa – hai pensato dovesse essere un professore di antropologia, un po’ giovane ma chi poteva dirlo? – Igbo, hai detto. Ha chiesto qual’era il tuo nome e ha detto che Akunna era carino. Non ti ha domandato cosa significasse, per fortuna, perché non ce la facevi più di sentirti dire Ricchezza del Padre? Intendi, tipo che tuo padre ti venderà veramente a un marito? Era stato in Ghana, Kenia e Tanzania, aveva letto di tutti gli altri paesi africani, delle loro storie, delle loro complessità. Volevi sentirti sdegnata e mostrarti tale mentre gli portavi il suo cibo, perché comunque i bianchi, sia che a loro piacesse o meno l’Africa, mostravano sempre accondiscendenza. Lui, però, non si è comportato come se ne sapesse troppo, non ha scosso la testa con aria saccente come aveva fatto una volta un professore a scuola parlando dell’Angola, non ha mostrato di essere accondiscendente. E’ tornato il giorno dopo e si è seduto allo stesso tavolo e quando gli hai chiesto se il pollo andava bene, ti ha fatto delle domande su Lagos. E’ riapparso il secondo giorno e ha parlato così a lungo – chiedendoti spesso se non ritenevi che Mobutu e Idi Amin fossero simili – che gli hai dovuto dire che era contro le regole del locale. Ti ha sfiorato la mano quando hai appoggiato il caffè sul tavolo. Il terzo giorno hai detto a Juan che non volevi più quel tavolo. Finito il turno, quel giorno, te lo sei trovata fuori che ti aspettava appoggiato a un palo, e ti ha chiesto di uscire perché il tuo nome faceva rima con hakuna matata e Il re leone era l’unico film commovente che gli fosse mai piaciuto. Non sapevi cosa fosse Il re leone. Lo hai guardato e nella luce abbagliante ti sei resa conto che i suoi occhi avevano il colore dell’olio extra vergine, verde dorato. L’olio d’oliva era quanto avevi veramente apprezzato dell’America. Frequentava l’ultimo anno all’università statale. Ti ha detto quanti anni aveva allora tu gli hai chiesto come mai non si fosse ancora laureato. Dopo tutto questa era l’America, non era come a casa dove le università chiudevano così spesso che gli studenti dovevano aggiungere tre anni al loro normale corso di studio e i professori continuavano, sciopero dopo sciopero, a non essere pagati. Disse che si era preso una pausa, un paio d’anni dopo le superiori, per scoprire sé stesso e viaggiare, soprattutto in Africa e in Asia. Gli hai chiesto in quale luogo avesse finito per scoprirsi e lui si è messo a ridere. Tu non hai riso. Tu non sapevi che le persone potevano semplicemente scegliere di non andare a scuola, che potevano decidere della propria vita. Eri abituata ad accettare tutto ciò che la vita ti dava, annotando quanto la vita dettava. Per i tre giorni seguenti ti sei rifiutata di uscire con lui, perché pensavi non fosse giusto, perché ti faceva sentire a disagio come lui ti guardava negli occhi e


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come tu ridevi così spontaneamente di ciò che diceva. Poi la quarta sera, sei stata presa dal panico non vendendolo più davanti alla porta, dopo il turno. Hai pregato per la prima volta dopo tanto tempo e quando è apparso dietro di te dicendo, ehi, tu hai detto sì, che saresti uscita con lui prima ancora che te l’avesse chiesto. Avevi paura che non te l’avrebbe chiesto più. Il giorno dopo, ti ha portato da Chang e il tuo biscotto della fortuna aveva due strisce di carta. Su entrambe non c’era scritto nulla. Sapevi di essere a tuo agio quando gli hai detto il vero motivo per cui avevi chiesto a Juan un altro tavolo – Jeopardy. Quando guardavi Jeopardy alla TV del ristorante, facevi il tifo per donne di colore, poi donne bianche, uomini di colore, e alla fine uomini bianchi esattamente secondo quest’ordine, il che significava che non tifavi mai per gli uomini bianchi. Lui si è messo a ridere e ti ha detto che non era abituato ad avere qualcuno che facesse il tifo per lui, sua madre insegnava Women’s Studies. Hai capito anche che eravate diventati intimi quando gli hai detto che tuo padre in realtà non era un insegnante a Lagos, bensì un taxista. E gli hai raccontato di quel giorno nel traffico di Lagos nell’auto di tuo padre, quando stava piovendo e il tuo sedile era bagnato a causa del buco nella capotta corrosa dalla ruggine. Il traffico era intenso, il traffico era sempre intenso a Lagos, e quando pioveva era un caos. Le strade erano così mal drenate che alcune auto potevano finire bloccate in buche fangose; i tuoi cugini venivano pagati per tirare le auto fuori dal fango. La pioggia e la strada paludosa – pensavi – avevano fatto sì che tuo padre frenasse troppo tardi, quel giorno. Avevi udito il botto prima di avvertirlo fisicamente. L’auto che tuo padre aveva tamponato era grossa, straniera e verde scuro, con fari gialli simili agli occhi di un gatto. Tuo padre aveva cominciato a piangere e supplicare ancora prima di essere uscito dall’auto e di prostrarsi sulla strada, fermando il traffico. Scusi signore, scusi signore, se lei vende me e tutta la mia famiglia non può comprarsi nemmeno una gomma per la sua auto, cantilenava. Scusi signore. L’omone seduto sul sedile posteriore non era uscito, l’aveva fatto il suo autista; mentre esaminava il danno guardava l’aspetto scomposto di tuo padre con la coda dell’occhio, e, sebbene la supplica risuonasse come una litania, si vergognava di ammettere che gli piaceva. Alla fine aveva lasciato andare tuo padre. Gli aveva fatto segno di allontanarsi. Le altre macchine strombazzavano e gli automobilisti imprecavano. Una volta rientrato in macchina, ti sei rifiutata di guardarlo perché sembrava un maiale che sguazzava nel pantano del mercato. Tuo padre era nsi. Merda. Terminato il racconto, lui ha stretto le labbra e ha preso la tua mano dicendo di aver capito. Hai tolto la mano, seccata, perché lui pensava che il mondo fosse o dovesse essere pieno di gente come lui. Gli hai detto che non c’era niente da capire, era così e basta. Non mangiava carne perché pensava che fosse sbagliato il


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modo in cui uccidevano gli animali. Diceva che si rilasciavano pericolose tossine che rendevano le persone paranoiche. In Africa, i pezzi di carne che mangiavi, quando ce n’era, erano davvero sottili, come fiammiferi. Ma questo non glielo hai detto. Non gli hai nemmeno raccontato che tua madre cucinava tutto con i dawadawa, perché il curry e il timo erano troppo costosi, e quelli avevano OGM, erano OGM. Ha detto che gli OGM causavano il cancro e che quella era la ragione per cui gli piaceva Chang – Chang non cucinava con OGM. Una volta da Chang, ha raccontato al cameriere che aveva vissuto a Shangai per un anno, che parlava un po’ mandarino. Il cameriere si era sciolto un poco e gli ha detto quale zuppa fosse la migliore e poi ha chiesto “hai una fidanzata a Shangai?” E lui aveva sorriso e non aveva detto niente. Ti è passata la fame, lo stomaco serrato. Quella notte, non hai emesso alcun gemito quando lui era dentro di te, ti sei morsa le labbra e hai finto di non venire perché sapevi che si sarebbe preoccupato. Alla fine gli hai detto che eri turbata, che l’uomo cinese aveva dato per scontato che non potevi ovviamente essere la sua ragazza, e che lui aveva sorriso senza proferire parola. Prima di scusarsi poi ti ha fissato con perplessità, chiaro che non aveva capito. Si è messo a comprarti dei regali e quando ti sei preoccupata per il fatto che fossero costosi, lui ti ha detto di avere un fondo fiduciario, andava tutto bene. I suoi regali ti disorientavano. Una palla grande quanto un pugno che agitavi per guardare la neve cadere su una minuscola casa, o una ballerina di plastica rosa che volteggiava su un piccolo palco. Una pietra splendente. Una costosa sciarpa ricamata a mano del Messico che non hai mai potuto indossare a causa del colore. Alla fine gli hai detto che i regali del Terzo Mondo erano sempre utili. La pietra, ad esempio, avrebbe funzionato se avessi potuto macinare cose fino a consumarla. Ha riso a lungo ed intensamente, ma tu non hai riso. Ti sei resa conto che nella sua vita avrebbe potuto comprare regali che erano soltanto regali e niente altro, niente di utile. Quando ha cominciato a comprarti scarpe e vestiti e libri, gli hai chiesto di non farlo, non volevi assolutamente alcun regalo. Comunque non litigavate. Non del tutto. Discutevate e poi facevate pace e facevate l’amore e vi accarezzavate i capelli, i suoi, morbidi e biondi come chicchi di granoturco non ancora maturi, i tuoi, scuri e soffici come l’imbottitura di un cuscino. Ti sentivi al sicuro tra le sue braccia, la stessa sensazione che provavi dai tuoi, nella casa di zinco della baraccopoli. Quando prendeva troppo sole, la sua pelle assumeva il colore di un cocomero maturo, baciavi la sua schiena prima di massaggiarla dolcemente con la crema. Era più intimo del sesso. Ti sentivi coinvolta, anche se era un’esperienza solo tua, che non potevate condividere. Tu ti abbronzavi al sole ma eri troppo scura per bruciarti. Ha trovato il negozio africano sulla pagine gialle e ti ci ha portato in macchina. Il proprietario, originario del Ghana, gli ha chiesto se era africano,


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pensando ai kenioti o ai sudafricani bianchi e lui ha riso dicendo di sì, ma che era in America da molto e che gli mancava il cibo della sua infanzia. Hai cucinato per lui; gli è piaciuto il riso ma dopo avere mangiato garri e onugbu ha vomitato nel tuo lavandino. Non ci hai dato importanza, perché ora avresti potuto cucinare la zuppa onugbu con la carne. Quella cosa che ti avvolgeva il collo, che quasi ti soffocava prima di addormentarti, cominciava ad allentarsi, ad andarsene. Capivi dalla reazione della gente che non eravate considerati normali – il modo in cui le persone eccedevano nelle loro qualità, si trattasse di cattiveria o di gentilezza. Le donne bianche, già di una certa età, che mormoravano e lo fissavano, gli uomini neri che scuotevano la testa vedendoti, le donne nere i cui sguardi compassionevoli lamentavano la tua mancanza di autostima, il disgusto di te stessa. Oppure le donne nere che sorridevano in modo impercettibile, sorrisi di segreta solidarietà, gli uomini neri che tentavano a fatica di perdonarti, salutandolo con un “ciao” troppo scontato, le donne bianche che dicevano troppo vivacemente, troppo ad alta voce “che bella coppia” come se volessero dimostrare a sé stesse la loro tolleranza. Non glielo hai detto ma desideravi avere la pelle più chiara così che gli altri non vi avrebbero sempre scrutati dall’alto al basso. Pensavi a tua sorella che era a casa, alla sua pelle colore del miele, e desideravi essere nata come lei. L’hai desiderato la sera in cui hai incontrato i suoi genitori per la prima volta. Ma non gliel’hai detto perché lui ti è sembrato serio e ti avrebbe tenuto la mano dicendoti che era il colore della pelle scura che per prima cosa lo aveva attratto. Non volevi che ti tenesse la mano e che dicesse di capire perché ancora una volta non c’era nulla da capire, era semplicemente così che stavano le cose. Desideravi avere la pelle chiara, sufficientemente chiara da essere scambiata per una portoricana, abbastanza chiara, perché nella luce soffusa del ristorante indiano dove condividevate samosas con i suoi genitori da un vassoio posto al centro del tavolo, tu potessi sembrare quasi come loro. Sua madre ti ha detto che adorava le tue treccine e ti ha chiesto se i fermagli che le tenevano strette erano di vera conchiglia di ciprea e ti ha chiesto anche quali scrittrici ti piaceva leggere. Suo padre ti ha chiesto se se c’erano differenze tra il cibo indiano e quello nigeriano e ti ha preso in giro quando hai detto di volere pagare, una volta arrivato il conto. Li hai guardati e ti sei sentita loro grata per non averti esaminato come un trofeo esotico, una zanna d’avorio. Sua madre ti ha detto che era la prima volta che il figlio presentava loro una sua ragazza, tranne per il ballo studentesco del liceo, mentre lui ha sorriso in modo teso e stringendoti la mano. La tovaglia proteggeva le vostre mani avvinghiate. Ti stringeva la mano e tu facevi altrettanto rispondendo alla sua stretta e ti sei domandata il perché della sua rigidità, perché i suoi occhi verdi oliva diventavano più scuri mentre parlava con i suoi genitori. Ti ha confessato


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i loro problemi dopo, come i suoi razionavano l’amore, tagliandolo a fette come si fa con una torta di compleanno, e come lui si sarebbe meritato la fetta più grossa se avesse frequentato la facoltà di legge. Volevi cercare di capirlo, ma riuscivi solo ad essere arrabbiata. Eri ancora più arrabbiata quando ti ha detto che si era rifiutato di andare con loro in Canada per una settimana, o due, nel loro cottage estivo nelle campagne del Quebec. Gli avevano persino chiesto di portarti. Ti ha mostrato delle foto e ti sei domandata perché lo definivano cottage quando edifici così grandi, a casa tua, erano solo banche e chiese. Ti è scivolato un bicchiere, frantumato sul pavimento di casa sua, lui ti ha chiesto cosa c’era che non andava e tu non hai risposto, sebbene pensassi che ci fosse molto che non andasse. I vostri mondi non funzionavano. Dopo, sotto la doccia, hai iniziato a piangere, fissando l’acqua diluire le tue lacrime, e non sapevi perché piangevi. Alla fine hai scritto a casa, quando la cosa che ti avvinghiava il collo se n’era quasi completamente andata. Una lettera breve ai tuoi genitori, fratelli e sorelle, fatta scivolare tra le poche banconote, assieme al tuo indirizzo. Ti è arrivata una risposta solo alcuni giorni dopo, con un corriere. Tua madre aveva scritto la lettera di suo pugno, l’hai capito dal suo modo di scrivere filiforme, simile alla tela di un ragno e dagli errori di ortografia. Tuo padre era morto, accasciato sul volante del suo taxi. Cinque mesi ormai, aveva scritto. Avevano usato parte del denaro che avevi mandato per organizzare un funerale decente. Avevano ammazzato una capra per gli invitati e l’avevano seppellito in una vera bara, non in una di quelle fatte di assi di legno. Ti sei messa a letto, in posizione fetale, premendo le ginocchia contro il petto, piangendo. Lui ti ha tenuto stretta mentre piangevi, accarezzandoti i capelli, e ti ha detto che era disposto a venire con te, a casa tua, in Nigeria. Hai risposto di no, avevi bisogno di andare da sola. Ti ha chiesto se saresti tornata e tu gli hai ricordato che avevi una green card e che avresti perso ogni diritto se non fossi tornata entro un anno. Lui ti ha chiesto se sapevi cosa significava, saresti tornata, tornata da lui? Ti sei girata dall’altra parte e non hai detto nulla e quando ti ha accompagnata all’aeroporto, lo hai abbracciato con forza, aggrappandoti ai muscoli delle sua schiena fino a farti dolere le costole. E gli hai detto grazie.


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Il pensiero degli studenti a cura del Liceo “Ariosto-Spallanzani” | conclusione

Valentina Barbieri Siamo naufragati in una terra arida che parla un inglese post coloniale e giovane. Tradurre smorza l’orgoglio, crea un ponte tra l’Io e l’Altro. Trans-ducere l’essenza di un racconto è una scelta generosa, di cura verso una materia che non ci appartiene tradizionalmente. Ci siamo spogliati dei nostri costumi europei per calarci nei panni di realtà sconosciute, strane e divertenti abitudini, mentalità diverse. E’ la diversità di espressioni e di culture che rende il naufragio della traduzione un’esperienza entusiasmante. Ricordo ore passate vivacemente in gruppo nel tentativo di cogliere ogni sfumatura espressiva di un linguaggio inusuale, tutti noi

amorevolmente attenti a rispettare anche la minima pausa del testo per non arrecare torto all’autrice o peggio alla cultura che le parole rappresentano. Ci siamo regalati attenzione, ognuno pronto ad ascoltare l’idea dell’altro, tutti uniti in questo viaggio da un continente all’altro.L’amore per la lingua e l’indiscussa curiosità di interpretazione ha accompagnato questo nostro naufragio oltre mare. — Ginevra Pizzarelli Come in un gioco delle parti se l’autore è un regista che finisce per mettere in scena sè stesso e il suo mondo, il traduttore è colui che si assume il compito di portare la


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maschera. Tradurre è cercare di trasportare il bagaglio di un altro senza appesantirlo, adattando il proprio passo a quello dell’autore. Prendo in prestito una definizione di Fruttero e Lucentini, “il traduttore è l’ultimo cavaliere errante della letteratura”: cavaliere, perchè come più alto dei subalterni deve possedere le doti e le virtù del nobile signore; errante, perchè si spinge in mondi non suoi, nel costante desiderio di esplorarli e conoscerli. — Ambra D’Antone C’è un che di privato nell’atto della traduzione, l’idea piacevole e surreale di un tète à tète con individui distanti, eroi della carta stampata. E nonostante il traduttore in erba sappia che probabilmente quelle persone conserveranno per sempre un segreto inviolabile, la possibilità di buttare l’occhio nel loro universo è un privilegio a cui non rinuncerà per nulla al mondo. — Elvira Tuso Tanti sono stati gli aspetti positivi emersi da questi meeting di traduzione: innanzitutto il coinvolgimento attivo degli studenti nell’attività svolta, differentemente da quanto spesso accade nei corsi pomeridiani organizzati dalla scuola; la novità della proposta, che ci ha permesso

l’avvicinamento ad una letteratura e più in generale culture, quelle coloniali, solitamente non affrontate nell’ambito dei consueti programmi di studio; una maggiore consapevolezza critica nell’analizzare un testo inglese; infine la piacevole scoperta delle nostre potenzialità nell’ambito del lavoro di gruppo. Tutto ciò ha contribuito a rendere questi incontri dei momenti di elevato valore formativo ed al contempo una parentesi molto stimolante nel nostro percorso scolastico. Alla luce del bilancio favorevole dell’esperienza, speriamo quindi che la scuola dia in futuro anche ad altri studenti la possibilità di parteciparvi.


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Traduttori | conclusione

Liceo Classico Scientifico “Corso” di Correggio Annovi Sara Artioli Carlotta Bagni Arianna Barbieri Laura Barbieri Lisa Bigi Cecilia Cattini Alessandro Colarusso Caterina Foroni Matteo Lancellotti Ettore Malavasi Vittoria Manicardi Linda Marzi Andrea Montanari Nicolò Muzzioli Ludovica Onyegesi Obinna Paterlini Vera Pergreffi Laura Pinotti Laura Pirondini Viviana Spaggiari Francesca — Liceo Classico Scientifico “Ariosto-Spallanzani” di Reggio Emilia Amouzou Michela Barbieri Valentina

Baricchi Riccardo Bassi Giovanni Beltrami Denis Bertani Davide Boccazzi Flavio Bolino Roberta Bonacini Beatrice Borciani Giorgia Campalani Chiara Carloni Maria Francesca Catellani Francesca Cilloni Lucia Cingi Anna Cocconi Lavinia Curti Matteo D’Antone Ambra De Nardis Stefano Delmonte Ilaria Di Ganci Valentina Elisi Gianmarco Gambetti Bervini Gloria Ghini Francesca Ghirri Anna Grassi Lucia Guidetti Giulia Guttilla Valeria Imovilli Gloria


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Incerti Francesca Iotti Giulia Kornecka Amanda Lavagna Francesca Lucchetti Cristiana Manganelli Cecilia Marchi Elena Marmiroli Lucia Masini Gianluca Melli Niccolò Montecchi Rita Mora Alba Nasi Francesca Palazzi Chiara Panichi Silvia Pedroni Vittoria Pizzarelli Ginevra Poli Greta Re Marina Rizzo Elena Rodomonti Francesca Rovali Alessandro Sgarbi Beatrice Sgarbossa Mattia Stanzani Davide Tacchini Francesco Tacchini Marco Tonelli Chiara Tuso Elvira Verzelloni Chiara Vitali Anna Zadro Alessandro Zani Alice Zanichelli Riccardo Zanni Maddalena —

Boccolari Beatrice Bonaccini Maria Vittoria Caruso Fabrizio Caselli Carlotta Cavalli Martina Cipolli Federica De Tomaso Francesca Fregni Fabiana Garello Elisabetta Gazzotti Sara Gennari Francesca Ghelfi Zoboli Laura Gottardi Sara Gradellini Vittorio Grossi Valentina Guicciardi Eleonora Koulouriotis Dimitrios Lafiosca Marta Leonardi Chiara Mantovani Irene Marighella Stefano Martinelli Arianna Martinelli Federica Palma Francesco Pieragostini Francesca Ripollino Roberta Rosi Benedetta Salami Francesca Sanna Cristina Sargenti Martina Settanini Ilaria Tarantini Arianna Uccellari Daniele Vandelli Maria Vittoria Zanasi Maria Francesca —

Liceo Scientifico “Leonardo da Vinci” di Crema Bonetti Simone Cerioli Matteo Conca Francesca Delfanti Tecla Donati Fogliazza Edoardo Donzelli Chiara Macchia Simone Negri Anna Salomoni Vittoria Santarsiero Gianvito Tarenzi Laura —

Docenti referenti del progetto Bartoli Donatella Boiardi Manuela Calace Roberta Crisafi Rossella Grisendi Elisabetta Lavagno Attilia Manzini Patrizia Morselli Stefano Pedrazzini Anna Maria Rustichelli Letizia Sartori Elisabetta Simonazzi Maria Elena Storchi Simona Valcavi Monica Vallisneri Elisabetta

Liceo Classico “San Carlo” di Modena Benincasa Elena Bianchini Giulia Bisi Martini


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Appendice | conclusione

A private experience Chika climbs in through the store window first and then holds the shutter as the woman climbs in after her. The store looks as if it was deserted long before the riots started; the empty rows of wooden shelves are covered in yellow dust, as are the metal containers stacked in a corner. The store is small, smaller than Chika’s walk-in closet back home. The woman climbs in and the window shutters squeak as Chika lets go of them. Chika’s hands are trembling, her calves burning after the unsteady run from the market in her high-heeled sandals. She wants to thank the woman, for stopping her as she dashed past, for saying “No run that way!” and for leading her, instead, to this empty store where they could hide. But before she can say thank you, the woman says, reaching out to touch her bare neck, “My necklace lost when I’m running.” “I dropped everything,” Chika says. “I was buying oranges and I dropped the oranges and my handbag.” She does not add that the handbag was a Burberry, an original one that her mother had bought on a recent trip to London. The woman sighs and Chika imagines that she is thinking of her

necklace, probably plastic beads threaded on a piece of string. Even without the woman’s strong Hausa accent, Chika can tell she is a Northerner, from the narrowness of her face, the unfamiliar rise of her cheekbones; and that she is Muslim, because of the scarf. It hangs around the woman’s neck now, but it was probably wound loosely round her face before, covering her ears. A long, flimsy pink and black scarf, with the garish prettiness of cheap things. Chika wonders if the woman is looking at her as well, if the woman can tell, from her light complexion and the silver finger rosary her mother insists she wear, that she is Igbo and Christian. Later, Chika will learn that, as she and the woman are speaking, Hausa Muslims are hacking down Igbo Christians with machetes, clubbing them with stones. But now she says, “Thank you for calling me. Everything happened so fast and everybody ran and I was suddenly alone and I didn’t know what I was doing. Thank you.” “This place safe,” the woman says, in a voice that is so soft it sounds like a whisper. “Them not going to small-small shop, only big-big shop and market.”


APPENDICE

“Yes,” Chika says. But she has no reason to agree or disagree, she knows nothing about riots: the closest she has come is the prodemocracy rally at the university a few weeks ago, where she had held a bright-green branch and joined in chanting “The military must go! Abacha must go! Democracy now!” Besides, she would not even have participated in that rally if her sister Nnedi had not been one of the organisers who had gone from hostel to hostel to hand out fliers and talk to students about the importance of “having our voices heard.” Chika’s hands are still trembling. Just half an hour ago, she was in the market with Nnedi. She was buying oranges and Nnedi had walked farther down to buy groundnuts and then there was shouting in English, in pidgin, in Hausa, in Igbo. “Riot! Trouble is coming, oh! They have killed a man!” Then people around her were running, pushing against one another, overturning wheelbarrows full of yams, leaving behind bruised vegetables they had just bargained hard for. Chika smelled the sweat and fear and she ran, too, across wide streets, into this narrow one, which she feared – felt – was dangerous, until she saw the woman. She and the woman stand silently in the store for a while, looking out of the window they have just climbed through, its squeaky wooden shutters swinging in the air. The street is quiet at first, and then they hear the sound of running feet. They both move away from the window, instinctively, although Chika can still see a man and a woman walking past, the woman holding her wrapper up above her knees, a baby tied to her back. The man is speaking swiftly in Igbo and all Chika hears is “She may have run to Uncle’s house.” “Close window,” the woman says. Chika shuts the windows and without the air from the street flowing in, the dust in the room is suddenly so thick she can see it, billowing above her. The room is stuffy and smells nothing like the streets outside, which smell like the kind of sky-coloured smoke that wafts around during Christmas when people throw goat carcasses into fires to burn the hair off the skin. The streets where she ran blindly, not sure in which direction Nnedi had run, not sure if the man running beside her was a friend or an enemy, not sure

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if she should stop and pick up one of the bewildered-looking children separated from their mothers in the rush, not even sure who was who or who was killing whom. Later she will see the hulks of burned cars, jagged holes in place of their windows and windshields, and she will imagine the burning cars dotting the city like picnic bonfires, silent witnesses to so much. She will find out it had all started at the motor park, when a man drove over a copy of the Holy Koran that had been dropped on the roadside, a man who happened to be Igbo and Christian. The men nearby, men who sat around all day playing draughts, men who happened to be Muslim, pulled him out of his pickup truck, cut his head off with one flash of a machete, and carried it to the market, asking others to join in; the infidel had desecrated the Holy Book. Chika will imagine the man’s head, his skin ashen in death, and she will throw up and retch until her stomach is sore. But now, she asks the woman, “Can you still smell the smoke?” “Yes,” the woman says. She unties her green wrapper and spreads it on the dusty floor. She has on only a blouse and a shimmery black slip torn at the seams. “Come and sit.” Chika looks at the threadbare wrapper on the floor; it is probably one of the two the woman owns. She looks down at her own denim skirt and red T-shirt embossed with a picture of the Statue of Liberty, both of which she bought when she and Nnedi spent a few summer weeks with relatives in New York. “No, your wrapper will get dirty,” she says. “Sit,” the woman says. “We are waiting here long time.” “Do you have an idea how long...?” “This night or tomorrow morning.” Chika raises her hand to her forehead, as though checking for a malaria fever. The touch of her cool palm usually calms her, but this time her palm is moist and sweaty. “I left my sister buying groundnuts. I don’t know where she is.” “She is going safe place.” “Nnedi.” “Eh?” “My sister. Her name is Nnedi.” “Nnedi,” the woman repeats, and her Hausa accent sheaths the Igbo name in a feathery gentleness. Later, Chika will comb the hospital


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mortuaries looking for Nnedi; she will go to newspaper offices clutching the photo of herself and Nnedi taken at a wedding just the week before, the one where she has a stupid smile-yelp on her face because Nnedi pinched her just before the photo was taken, the two of them wearing matching off-the-shoulder Ankara gowns. She will tape photocopies of the photo on the walls of the market and the nearby stores. She will not find Nnedi. She will never find Nnedi. But now she says to the woman, “Nnedi and I came up here last week to visit our auntie. We are on vacation from school.” “Where you go school?” the woman asks. “We are at the University of Lagos. I am reading medicine. Nnedi is in political science.” Chika wonders if the woman even knows what going to university means. And she wonders, too, if she mentioned school only to feed herself the reality she needs now-that Nnedi is not lost in a riot, that Nnedi is safe somewhere, probably laughing in her easy, mouth-all-open way, probably making one of her political arguments. Like how the government of General Abacha was using its foreign policy to legitimise itself in the eyes of other African countries. Or how the huge popularity in blond hair attachments was a direct result of British colonialism. “We have only spent a week here with our auntie, we have never even been to Kano before,” Chika says, and she realises that what she feels is this: she and her sister should not be affected by the riot. Riots like this were what she read about in newspapers. Riots like this were what happened to other people. “Your auntie is in market?” the woman asks. “No, she’s at work. She is the director at the secretariat.” Chika raises her hand to her forehead again. She lowers herself and sits, much closer to the woman than she ordinarily would have, so as to rest her body entirely on the wrapper. She smells something on the woman, something harsh and clean like the bar soap their house-girl uses to wash the bed linen. “Your auntie is going safe place.” “Yes,” Chika says. The conversation seems surreal; she feels as if she is watching herself. “I still can’t believe this is happening, this riot.” The woman is staring straight ahead.

Everything about her is long and slender, her legs stretched out in front of her, her fingers with henna-stained nails, her feet. “It is work of evil,” she says finally. Chika wonders if that is all the woman thinks of the riots, if that is all she sees them as – evil. She wishes Nnedi were here. She imagines the cocoa brown of Nnedi’s eyes lighting up, her lips moving quickly, explaining that riots do not happen in a vacuum, that religion and ethnicity are often politicised because the ruler is safe if the hungry ruled are killing one another. Then Chika feels a prick of guilt for wondering if this woman’s mind is large enough to grasp any of that. “In school you are seeing sick people now?” the woman asks. Chika averts her gaze quickly so that the woman will not see the surprise. “My clinicals? Yes, we started last year. We see patients at the Teaching Hospital.” She does not add that she often feels attacks of uncertainty, that she slouches at the back of the group of six or seven students, avoiding the senior registrar’s eyes, hoping she will not be asked to examine a patient and give her differential diagnosis. “I am trader,” the woman says. “I’m selling onions.” Chika listens for sarcasm or reproach in the tone, but there is none. The voice is as steady and as low, a woman simply telling what she does. “I hope they will not destroy market stalls,” Chika replies; she does not know what else to say. “Every time when they are rioting, they break market,” the woman says. Chika wants to ask the woman how many riots she has witnessed but she does not. She has read about the others in the past: Hausa Muslim zealots attacking Igbo Christians, and sometimes Igbo Christians going on murderous missions of revenge. She does not want a conversation of naming names. “My nipple is burning like pepper,” the woman says. “What?”, “My nipple is burning like pepper.” Before Chika can swallow the bubble of surprise in her throat and say anything, the woman pulls up her blouse and unhooks the front clasp of a threadbare black bra. She brings out the money, ten-and-twenty Naira notes, folded inside her bra, before freeing her full breasts.


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“Burning-burning like pepper,” she says, cupping her breasts and leaning toward Chika, as though in an offering. Chika shifts. She remembers the pediatrics rotation only a week ago: the senior registrar, Dr Olunloyo, wanted all the students to feel the stage 4 heart murmur of a little boy, who was watching them with curious eyes. The doctor asked her to go first and she became sweaty, her mind blank, no longer sure where the heart was. She had finally placed a shaky hand on the left side of the boy’s nipple, and the brrr-brrr-brrr vibration of swishing blood going the wrong way, pulsing against her fingers, made her stutter and say “Sorry, sorry” to the boy, even though he was smiling at her. The woman’s nipples are nothing like that boy’s. They are cracked, taut and dark brown, the areolas lighter-toned. Chika looks carefully at them, reaches out and feels them. “Do you have a baby?” she asks. “Yes. One year.” “Your nipples are dry, but they don’t look infected. After you feed the baby, you have to use some lotion. And while you are feeding, you have to make sure the nipple and also this other part, the areola, fit inside the baby’s mouth.” The woman gives Chika a long look. “First time of this. I’m having five children.” “It was the same with my mother. Her nipples cracked when the sixth child came, and she didn’t know what caused it, until a friend told her that she had to moisturise,” Chika says. She hardly ever lies, but the few times she does, there is always a purpose behind the lie. She wonders what purpose this lie serves, this need to draw on a fictional past similar to the woman’s; she and Nnedi are her mother’s only children. Besides, her mother always had Dr Igbokwe, with his British training and affectation, a phone call away. “What is your mother rubbing on her nipple?” the woman asks. “Cocoa butter. The cracks healed fast.” “Eh?” The woman watches Chika for a while, as if this disclosure has created a bond. “All right, I get it and use.” She plays with her scarf for a moment and then says, “I am looking for my daughter. We go market together this morning. She is selling groundnut near bus stop, because there are

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many customers. Then riot begin and I am looking up and down market for her.” “The baby?” Chika asks, knowing how stupid she sounds even as she asks. The woman shakes her head and there is a flash of impatience, even anger, in her eyes. “You have ear problem? You don’t hear what I am saying?” “Sorry,” Chika says. “Baby is at home! This one is first daughter. Halima.” The woman starts to cry. She cries quietly, her shoulders heaving up and down, not the kind of loud sobbing that the women Chika knows do, the kind that screams Hold me and comfort me because I cannot deal with this alone. The woman’s crying is private, as though she is carrying out a necessary ritual that involves no one else. Later, when Chika will wish that she and Nnedi had not decided to take a taxi to the market just to see a little of the ancient city of Kano outside their aunt’s neighborhood, she will wish also that the woman’s daughter, Halima, had been sick or tired or lazy that morning, so that she would not have sold groundnuts that day. The woman wipes her eyes with one end of her blouse. “Allah keep your sister and Halima in safe place,” she says. And because Chika is not sure what Muslims say to show agreement – it cannot be “amen” – she simply nods. The woman has discovered a rusted tap in a corner of the store, near the metal containers. Perhaps where the trader washed his or her hands, she says, telling Chika that the stores on this street were abandoned months ago, after the government declared them illegal structures to be demolished. The woman turns on the tap and they both watch – surprised – as water trickles out. Brownish, and so metallic Chika can smell it already. Still, it runs. “I wash and pray,” the woman says, her voice louder now, and she smiles for the first time to show even-sized teeth, the front ones stained brown. Her dimples sink into her cheeks, deep enough to swallow half a finger, and unusual in a face so lean. The woman clumsily washes her hands and face at the tap, then removes her scarf from her neck and places it down on the floor. Chika looks away. She knows the woman is on her knees, facing Mecca, but she does not look. It is like the woman’s tears, a private experience, and


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she wishes that she could leave the store. Or that she, too, could pray, could believe in a god, see an omniscient presence in the stale air of the store. She cannot remember when her idea of God has not been cloudy, like the reflection from a steamy bathroom mirror, and she cannot remember ever trying to clean the mirror. She touches the finger rosary that she still wears, sometimes on her pinky or her forefinger, to please her mother. Nnedi no longer wears hers, once saying with that throaty laugh, “Rosaries are really magical potions, and I don’t need those, thank you.” Later, the family will offer Masses over and over for Nnedi to be found safe, though never for the repose of Nnedi’s soul. And Chika will think about this woman, praying with her head to the dustfloor, and she will change her mind about telling her mother that offering Masses is a waste of money, that it is just fundraising for the church. When the woman rises, Chika feels strangely energised. More than three hours have passed and she imagines that the riot is quieted, the rioters drifted away. She has to leave, she has to make her way home and make sure Nnedi and her auntie are fine. “I must go,” Chika says. Again the look of impatience on the woman’s face. “Outside is danger. I think they have gone. I can’t even smell any more smoke.” The woman says nothing, seats herself back down on the wrapper. Chika watches her for a while, disappointed without knowing why. Maybe she wants a blessing from the woman, something. “How far away is your house?” she asks. “Far. I’m taking two buses.” “Then I will come back with my auntie’s driver and take you home,” Chika says. The woman looks away. Chika walks slowly to the window and opens it. She expects to hear the woman ask her to stop, to come back, not to be rash. But the woman says nothing and Chika feels the quiet eyes on her back as she climbs out of the window. The streets are silent. The sun is falling, and in the evening dimness, Chika looks around, unsure which way to go. She prays that a taxi will appear, by magic, by luck, by God’s hand. Then she prays that Nnedi will be inside the taxi, asking her where the hell she has been, they have been so worried about her. Chika has not reached the end of

the second street, toward the market, when she sees the body. She almost doesn’t see it, walks so close to it that she feels its heat. The body must have been very recently burned. The smell is sickening, of roasted flesh, unlike that of any she has ever smelled. Later, when Chika and her aunt go searching throughout Kano, a policeman in the front seat of her aunt’s air-conditioned car, she will see other bodies, many burned, lying lengthwise along the sides of the street, as though someone carefully pushed them there, straightening them. She will look at only one of the corpses, naked, stiff, facedown, and it will strike her that she cannot tell if the partially burned man is Igbo or Hausa, Christian or Muslim, from looking at that charred flesh. She will listen to BBC radio and hear the accounts of the deaths and the riots-”religious with undertones of ethnic tension” the voice will say. And she will fling the radio to the wall and a fierce red rage will run through her at how it has all been packaged and sanitised and made to fit into so few words, all those bodies. But now, the heat from the burned body is so close to her, so present and warm that she turns and dashes back toward the store. She feels a sharp pain along her lower leg as she runs. She gets to the store and raps on the window, and she keeps rapping until the woman opens it. Chika sits on the floor and looks closely, in the failing light, at the line of blood crawling down her leg. Her eyes swim restlessly in her head. It looks alien, the blood, as though someone had squirted tomato paste on her. “Your leg. There is blood,” the woman says, a little wearily. She wets one end of her scarf at the tap and cleans the cut on Chika’s leg, then ties the wet scarf around it, knotting it at the calf. “Thank you,” Chika says. “You want toilet?” “Toilet? No.” “The containers there, we are using for toilet,” the woman says. She takes one of the containers to the back of the store, and soon the smell fills Chika’s nose, mixes with the smells of dust and metallic water, makes her feel light-headed and queasy. She closes her eyes. “Sorry, oh! My stomach is bad. Everything happening today,” the woman says from behind her. Afterwards, the woman opens


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the window and places the container outside, then washes her hands at the tap. She comes back and she and Chika sit side by side in silence; after a while they hear raucous chanting in the distance, words Chika cannot make out. The store is almost completely dark when the woman stretches out on the floor, her upper body on the wrapper and the rest of her not. Later, Chika will read in the Guardian that “the reactionary Hausa-speaking Muslims in the North have a history of violence against non-Muslims”, and in the middle of her grief, she will stop to remember that she examined the nipples and experienced the gentleness of a woman who is Hausa and Muslim. Chika hardly sleeps all night. The window is shut tight; the air is stuffy, and the dust, thick and gritty, crawls up her nose. She keeps seeing the blackened corpse floating in a halo by the window, pointing accusingly at her. Finally she hears the woman get up and open the window, letting in the dull blue of early dawn. The woman stands there for a while before climbing out. Chika can hear footsteps, people walking past. She hears the woman call out, voice raised in recognition, followed by rapid Hausa that Chika does not understand. The woman climbs back into the store. “Danger is finished. It is Abu. He is selling provisions. He is going to see his store. Everywhere policeman with tear gas. Soldier-man is coming. I go now before soldier-man will begin to harass somebody.” Chika stands slowly and stretches; her joints ache. She will walk all the way back to her auntie’s home in the gated estate, because there are no taxis on the street, there are only army Jeeps and battered police station wagons. She will find her auntie, wandering from one room to the next with a glass of water in her hand, muttering in Igbo, over and over, “Why did I ask you and Nnedi to visit? Why did my chi deceive me like this?” And Chika will grasp her auntie’s shoulders tightly and lead her to a sofa. Now, Chika unties the scarf from her leg, shakes it as though to shake the bloodstains out, and hands it to the woman. “Thank you.” “Wash your leg well-well. Greet your sister, greet your people,” the woman says, tightening her wrapper around her waist.

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“Greet your people also. Greet your baby and Halima,” Chika says. Later, as she walks home, she will pick up a stone stained the copper of dried blood and hold the ghoulish souvenir to her chest. And she will suspect right then, in a strange flash while clutching the stone, that she will never find Nnedi, that her sister is gone. But now, she turns to the woman and adds, “May I keep your scarf? The bleeding might start again.” The woman looks for a moment as if she does not understand; then she nods. There is perhaps the beginning of future grief on her face, but she smiles a slight, distracted smile before she hands the scarf back to Chika and turns to climb out of the window. — Chinasa I think it happened in January. I think it was January because the soil was parched and the dry Harmattan winds had coated my skin and the house and the trees with yellow dust. But I’m not sure. I know it was in 1968 but it could have been December or February; I was never sure of dates during the war. I am sure, though, that it happened in the morning – the sun was still pleasant, the kind that they say forms vitamin D on the skin. When I heard the sounds – Boom! Boom! – I was sitting on the verandah of the house I shared with two families, re-reading my worn copy of Camara Laye’s The African Child. The owner of the house was a man who had known my father before the war and, when I arrived after my hometown fell, carrying my battered suitcase, and with nowhere else to go, he gave me a room for free because he said my father had been very good to him. The other women in the house gossiped about me, that I used to go to the room of the house owner at night, that it was the reason I did not pay rent. I was with one of those gossiping women outside that morning. She was sitting on the cracked stone steps, nursing her baby. I watched her for a while, her breast looked like a limp orange that had been sucked of all its juices and I wondered if the baby was getting anything at all. When we heard the booming, she immediately gathered her baby up and ran into the house to fetch her other children. Boom! It was like the rumblings of thunder, the kind that spread


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itself across the sky, the kind that heralded a thunderstorm. For a moment I stood there and imagined that it was really the thunder. I imagined that I was back in my father’s house before the war, in the yard, under the cashew tree, waiting for the rain. My father’s yard was full of fruit trees that I liked to climb even though my father teased me and said it was not proper for a young woman, that maybe some of the men who wanted to bring him wine would change their minds when they heard I behaved like a boy. But my father never made me stop. They say he spoiled me, that I was his favorite and even now some of our relatives say the reason I am still unmarried is because of my father. Anyway, on that Harmattan morning, the sound grew louder. The women were running out with their children. I wanted to run with them, but my legs would not move. It was not the first time I had heard the sounds, of course, this was two years into the war and my parents had already died in a refugee camp in Uke and my aunt had died in Okija and my grandparents and cousins had died in Abagana when Nkwo market was bombed, a bombing that also blew off the roof of my father’s house and one that I barely survived. So, by that morning, that dusty Harmattan morning, I had heard the sounds before. Boom! I felt a slight quiver on the ground I was standing on. Still, I could not get myself to run. The sound was so loud it made my head throb and I felt as if somebody was blowing hot custard into my ears. Then I saw huge holes explode on the ground next to me. I saw smoke and flying bits of wood and glass and metal. I saw dust rise. I don’t remember much else. Something inside me was so tired that for a few minutes, I wished that the bombs had brought me rest. I don’t know the details of what I did – if I sat down, if I ducked into the farm, if I slumped to the ground. But when the bombing finally stopped, I walked down the street to the crowd gathered around the wounded, and found myself drawn to a body on the ground. A girl, perhaps fifteen years old. Her arms were a mass of bloody flesh. It was the wrong time for humor but looking at her with mangled arms, she looked like a caterpillar. Why did I take that girl into my room? I don’t know. There had been many bombings before that – we were in Umuahia and we got the most

bombing because we were the capital. And even though I helped to clean the wounded, I had never taken anyone into my room. But I took this girl into my room. Her name was Chinasa. I nursed Chinasa for weeks. The owner of the house made her crutches from old wood and even the gossiping women brought her small gifts of ukpaka or roast yam. She was thin, small for her age, as most children were during the war, but she had a way of looking at you straight in the eye, in a forthright but not impolite way, that made her seem much older than she was. She pretended she was not in pain when I cleaned her wounds with home made gin, but I saw the tears in her eyes and I, too, fought tears because this girl on the cusp of womanhood had, because of the war, grown up too quickly. She thanked me often, too often. She said she could not wait to be well enough to help me with the cooking and cleaning. In the evenings, after I had fed her some pap, I would sit next to her and read to her. Her arms were still and bandaged but she had the most expressive face and in the flickering naked light of the kerosene lamp, she would laugh, smile, sneer, as I read to her. I had lost many of my things, running from town to town, but I had always brought some of my books and reading those books to her brought me a new kind of joy because I saw them freshly, through Chinasa’s eyes. She began to ask questions, to challenge what some of the characters did in the stories. She asked questions about the war. She asked me questions about myself. I told her about my parents who had been determined that I would be educated, and who had sent me to a Teachers Training College. I told her how much I had enjoyed my job as a teacher in Enugu before the war started and how sad I was when our school was closed down to become a refugee camp. She looked at me with a great intensity as I spoke. Later, as she was teaching me how to play nchokolo one evening, asking me to move some stones between boxes drawn on the ground, she asked whether I might teach her how to read. I was startled. It did not occur to me that she could not read. Now that I think of it, I should not have been so presumptuous. Her personal story was familiar: her parents were farmers from


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Agulu who had scraped to send her two brothers to the mission school but kept her at home. Perhaps it was her brightness, her alertness, the great intelligence about the way she watched everything, that had made me forget the reality of where she came from. We began lessons that night. She knew the alphabet because she had looked at some of her brother’s books, and I was not surprised by how quickly she learned, how hard she worked. By the time we heard, some months later, the rumor that our generals were about to surrender, Chinasa was reading to me from her favorite book ‘The African Child’. On the day the war ended, Chinasa and I joined the gossipy women and other neighbors down the street. We cried and sang and laughed and danced. For those women crying, theirs were tears of exhaustion and uncertainty and relief. As were mine. But, also, I was crying because I wanted to take Chinasa back with me to my home, or whatever remained of my home in Enugu; I wanted her to become the daughter I would never have, to share my life now emptied of loved ones. But she hugged me and refused. She wanted to go and find which of her relatives had survived. I gave her my address in Enugu and the name of the school where I hoped to go back to my teaching. I gave her much of the little money I had. “I will come and see you soon,” she said. She was looking at me with tearful gratitude, and I held her close to me and felt a keen sense of future sadness. She would find her relatives and her life would intervene in this well-meant promise. I knew that she would not come back. It is now 2008 and yesterday morning, a morning not dissimilar to that one forty years ago, I opened the Guardian newspaper in the living room of my house in Enugu. I had just returned from my morning walk – my friends say that my daily walk is the reason I do not look like a woman in her seventies – and was filled with the optimism that comes with the briskness, the raised heartbeat of walking. I had followed the recent national news about the government appointing new ministers, but only vaguely because after watching this country careen from one inept leadership to another,

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I no longer find much to be passionate about. I opened the paper to read that an education minister had been appointed, a woman, and she had just given her first interview. I was mildly pleased: we needed more women in government and Nigerians had seen how well the last female minister did in the ministry of finance. Then the face of the new minister, in a black and white photograph that took up half a page, struck me as familiar. I stared at it and before I read the name, I knew it was Chinasa. The cheeks had filled out, of course, and the face had lost the awkwardness of youth but little else had changed. I read the interview quickly, my hands a little shaky. She had been sent abroad shortly after the war, with one of the many international agencies that helped young people who had been affected by war. She had been awarded many scholarships. She was married with three children. She was a professor of literature. My hands began to shake furiously when I read about the beginning of her love for books: ‘I had a fairy godmother during the war,’ was all that she said. I looked at her face for a long time, imagining the life she has had, playing with the idea of contacting her, realizing that I had never before in my life felt quite so proud, before I closed the newspaper and put it away. — Hair The mother cried every day. The father had signed the agreement one afternoon after drinking a whole carton of Guinness at the club, after his friend Lugardson proposed a game of cards and wrote out the agreement that said whoever won would take over the other’s property and added that it was a joke of course and not at all legal. And so the father signed it and then lost the game. Lugardson took the agreement to court and the judge was Lugardson’s crony and he ruled that the father had truly signed away all that he owned. His company. His homes. His cars. He gave the family a week to hand over to Lugardson. The father said, “But it was a joke! The agreement was hastily written on a receipt! It was a joke!” But the judge ignored him. The father fell to the floor and thrashed and wept. Later, he said to the mother, “I thought Lugardson was


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my friend,” and the mother told him to shut up. “Are you stupid? How could he be your friend? He has been waiting for a way to take over your fortune!” And she added that she had often felt Lugardson looking at her in an untoward way, too, which was a lie, but the mother liked to burnish her stories. The stories she told herself now that she cried every day did not need burnishing, though, because they were true: stories of their old life when they lived in the flowerhugged house on Queens Drive, when all of Lagos worshipped them. Now, none of their friends came to their mice-filled flat where the landlord often removed their electricity meter. But the mother’s greatest shame was her hair. It was matted, with thick clumps of natural undergrowth because relaxers and weaves were now unaffordable. She had been the toast of Lagos with her long and straight perm, and now she always wore a headscarf, even when alone. The daughter, too, could no longer afford relaxers and so had cut her hair off, and watched in wonder as it grew back, soft and dense like wool, for she had never seen her natural hair. In their old life, as soon as her hair grew out, it had been singed and straightened. Now it was vibrant and kinky and full. She did not comb it but lovingly untangled it every morning with her fingers. The son, who used to work with the father in the company and now spent his days lying around limp with depression, asked that she cover her ugly hair with a scarf. The daughter was close to the son, had done most of his school assignments while he went to the clubs, and she could not understand his calling her hair ugly when it was the only beautiful thing they had left. Just like it was cheap gin that now kept the father going (sometimes he even drank his old bottles of cologne because he said they had alcohol in them), it was her hair, untangling and twisting and glorying in it, that kept her from thinking too much of her constant hunger. She wished that she could reverse their fortune; it was possible only if they could get the agreement itself and take it to a judge who was not corrupt. One day Lugardson came and said he knew

how difficult life had become for them and he wanted to offer one of the children a job; it was the least he could do. Lugardson was a wily man, with a thin mind and thin arms. His benevolence was disgusting. But the father accepted and said the son would take the job. The daughter knew that the father did not even think of considering her; he did not know that she had often done the son’s school assignments in the old days. The son started work and came home to say that he was a mere messenger; he stayed downstairs at the reception and was called only to run errands. But at least he earned a little money and they were able to eat better, although the mother took to vomiting because she could not believe she was now being given mere drops from a river that was rightly hers. An old friend stopped by with some loaves of bread one evening, this a man who used to kneel before the father to beg for money, and said he had heard Lugardson boasting at the club that he kept the agreement in his office to remind himself of the father’s stupidity. The mother told the son that he had to find a way to get the agreement. The son tried different things, the daughter gave him ideas on how to fake his way into the office, but none worked. The son came home in tears. The father sank into deeper depression and began to talk of drinking his urine. The mother cried no longer once but twice a day. Months passed, and then on one hazy day the daughter was untangling her hair, which was now high enough to be held up in a puff like a large rabbit’s tail, when she heard the voice. It came from her hair. It was her hair. A voice that sounded like her late grandmother but was somewhat perkier. The agreement is in Lugardson’s air conditioner. The daughter shook her head. Then the voice came again. She knew then that there was something magical about her hair, that the delight she felt about it went beyond the mere softness and novelty of it. But knowing it was in his air conditioner was not enough. She needed to know more. And so she began, every morning, to wake up and untangle her hair and wait for the voice. Soon, the voice had told her all that she needed. The agreement was in the air conditioner in his office, stuffed into one of the vents, the place he thought most unlikely


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for anyone to look. She had to go and get it the next day, at exactly a quarter past noon, and she must stay no longer than 15 minutes in the office or she would be caught. The daughter set out for Lugardson’s office. She got to the gate and lost her nerve. They would never let her in. She was turning back when the voice from her hair told her to walk through, that the gate was open, and she would not be seen. So she did. She walked past the reception and saw the son sitting hunched on a stool. Lugardson’s office was empty and smelled oddly of mothballs, and she went right to the air conditioner, stuck her hand into it and pulled an envelope out. Inside was the agreement. Then she heard footsteps; Lugardson was coming. She stared at the door in panic and then began to run her fingers through her hair. Get under the desk. The carpeting was particularly soft under the desk and she settled down and hoped Lugardson would not stay long. He had come in with somebody and was laughing. She checked her watch. Five minutes had passed. Then eight. Lugardson was still talking. Then 11 minutes. She began to sweat. She pushed the envelope into her bra. The person with Lugardson left and Lugardson moved around the office for a while, and his cell phone rang and he answered it and left the office. Thirteen minutes had passed. The daughter flew out from under the desk and began to run as fast as she could, down the stairs, out through the gate, and did not stop until she got to the bus stop. The father looked at her in shock when she told her story, but it was the mother who took the agreement and held it reverently and then pulled off her scarf and touched her own hair in wonder. The next day they took it to Judge Rotimi, known for being incorruptible, and he ruled that Lugardson give back all he had taken from the father. In addition, Lugardson was to be tried for his crimes. The mother laughed and cried and danced and talked about how she would show pepper to all those nasty people who had deserted her. The father spoke of ordering cases of champagne. The son, still dazed, suggested

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they order whisky, too. The daughter watched with joyful amusement, all the time running her fingers through her hair. And they all lived happily ever after. — Quality Street They were drinking tea. One of the few things that Mrs. Njoku and her daughter Sochienne could still do together without acrimony was drink tea, because when Mrs. Njoku suggested they go to the new boutique on Victoria Island, or Titi’s Place for a facial, things they used to do together in Lagos before Sochienne went away to university in America, Sochienne called her a fat bourgeois, a dilettante dancing while Nigeria was failing, as though she could somehow solve the country’s problems by depriving herself of a manicure. But this, drinking tea, was neutral – as long as it was without fresh milk. The first week of Sochienne’s return, Mrs. Njoku had bought a carton of fresh milk, excited to be able to offer her daughter something different from the usual condensed or powdered milk, but Sochienne said she would not touch that imported thing from ShopRite which most Nigerians did not even know existed and she would drink only the locally made condensed milk. Mrs. Njoku said, trying not to sound as sour as she felt, that the condensed milk was only locally assembled, since the companies imported milk powder and added water to it in Nigeria. Sochienne looked surprised by this news but she insisted on calling it the local milk with a tone that made “local” sound pious. And so Mrs. Njoku put away the fresh milk and bought tins of Peak condensed milk, which they poured, in a thin stream, into their tea. They were on their second cups when Sochienne said she wanted to have her wedding at Amarachi, the country house where she had spent childhood holidays, because she preferred a venue of emotional significance to an overpriced gilded hall. Mrs. Njoku choked on her tea. She had already hired the famous wedding planner, already booked St. Mary’s Catholic Church and the grand convention center for the reception, but more importantly, Amarachi was a decrepit house, the grounds sloped, this was rainy season and the mud would


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ruin women’s shoes and nobody would take a wedding seriously if it was held in that backwater. Indeed, nobody would come. And she would of course be a subject of mockery in homes and hair salons all over Lagos; she could already imagine Mrs. Fernandez Cole, lips curled, saying village wedding. Sochienne added, between leisurely sips, that her fiancé Mwangi had first suggested it after she told him about Amarachi, and she had then wondered why she had not thought of it herself. Mrs. Njoku put her teacup down. Of course it had to be that dull eyed Kenyan with an unpronounceable name who would bring up such an idea. She very nearly said, in her new distress, that she still did not know why Sochienne wanted to get married so young and why she could not have met a young man in America who was Igbo or at least Nigerian. But she held herself back in time and instead said that there was not enough room at Amarachi to fit all their guests. Sochienne smiled as though Mrs. Njoku were the child and she the mother and said that only about twenty guests would be hers, the other four hundred were people she did not know and would not miss if they did not attend. So Mrs. Njoku poured hot water on a new teabag and agreed to her only child’s wedding in an ordinary village house because she feared the next suggestion would be a ceremony on Bar Beach with everybody wearing secondhand clothes. Perhaps Sochienne should never have been sent to school in America. But who knew a private university in Ohio would mean that Sochienne would return six years later, announcing that she was engaged to a Kenyan, refusing to eat meat, asking the baffled houseboys about fair wages, and wearing her hair in long rubbery dreadlocks. What should have alerted Mrs. Njoku, she realized now, was discovering, on her first visit to her daughter’s university, that the students wore bathroom slippers to their lectures. Oh, mummy, they are wearing sandals because of this rare blast of warm weather, Sochienne said when she pointed it out, as though giving bathroom slippers the American label of sandals would make them more respectable. There was, also, a certain alarming sloppiness to the students. Mrs. Njoku had been assured that wealthy

Americans sent their children there – the outrageous tuition certainly suggested that – but here were young people in slouchy T shirts and discolored beads around their necks. Still, she had not worried too much about her daughter then, nor did she in the following years, because she assumed that the child she raised would retain her good sense. She had wanted Sochienne to be educated in England after completing primary school and had suggested that they send her to Cheltenham Ladies College, where many of their friends sent their daughters, but her husband said Sochienne would not go abroad until university because he did not want her to turn out like those Akindele children who had spent so long in England that they referred to fellow Nigerians as “those people.” He wanted his daughter to attend secondary school in Nigeria so that she would know who she was. Most of all, he wanted her to get an American university education. America was the future. It was time for Nigerians to get over their colonial clinging. Mrs. Njoku should have resisted more. If only her husband were alive now to see what Sochienne had become; so much for knowing who she was. When they first met, there was something about the wedding planner’s knowing manner, yellow skin, and fussy expensive handbag that irritated Mrs. Njoku. But she was determined to use the same wedding planner as Mrs. Fernandez-Cole, whose daughter’s wedding Mrs. Njoku had attended with the hope of finding something to deride, but it had been flawless. Mrs. Fernandez-Cole came from one of those old Lagos families that sniffed at people who did not, like them, have “Brazilian” great grandfathers. Mrs. Njoku thought it silly that anybody could feel superior about having forebears who were slaves in South America and yet she always felt plebeian in Mrs. Fernandez-Cole’s presence, always fought the urge to smooth her hair and straighten her clothes. They were strenuously warm with each other when they met at Ikoyi Club, as they often did, but it was clear that Mrs. Fernandez-Cole thought the Njokus were parvenus to be tolerated with amusement while Mrs. Njoku felt a helpless, enraging need to prove herself an


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equal. And so when she told the wedding planner that the wedding would now be held in their country home in the east, her main worry was that the wedding planner would call Mrs. Fernandez-Cole right away to gossip and giggle. But the wedding planner said in a matter-of fact tone that she needed cash right away to book a new caterer since Yinka’s Foods & Events only worked in the Lagos area. So Mrs. Njoku went with Sochienne to the bank. In the lobby, she saw the Osazes’ daughters, who now had British accents after schooling in England: their good afternoon, aunty sounded so polished. They had never been half as pretty as her daughter but in their fitted jeans and high heels, with their straight weaves that hung down to their shoulders, they were normal. Sochienne hardly noticed the Osaze girls. She was watching the bank worker – his nametag read John – as he fed wads of naira notes into the counting machine, packed the cash in a brown paper bag and handed it to Mrs. Njoku with a slight bow. Mrs. Njoku gave him two thousand naira and nodded to acknowledge his Madam, thank you very much. Later, as they climbed into Mrs. Njoku’s Range Rover, Sochienne said it was unethical of Mrs. Njoku to have given money to John. Mrs. Njoku clicked her seatbelt and told the driver they were going to Lekki before turning to her daughter to say that it was a tip, a simple tip, and hadn’t Sochienne accused her of being out of touch? And yet now she had given a tip to an underpaid bank worker, it was unethical? Sochienne mumbled something about tipping a chronically underfed waiter with a roast chicken, all the while looking at the beggars who made their way from car window to car window in the traffic, their skin tight over bony faces, their eyes hopeful, saying God bless you, God bless you, God bless you. Mrs. Njoku thought that perhaps she had been too harsh in her own defense. She asked Sochienne if the air conditioner was too cold. Sochienne said no. She asked what changes they would ask the wedding planner to make to the décor now that the wedding was at Amarachi. Sochienne said she did not know and shrugged, as if the wedding planner was a special indulgence of her mother’s that she had to humor. Mrs. Njoku watched a hawker running after

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a car in the now moving traffic. She had a headache. She asked if Sochienne wanted to stop at Chicken Republic; they had salads that Sochienne could eat. Sochienne nodded, somewhat reluctantly, still looking out of the window, and when they pulled into the restaurant, she asked the driver to come in with them, turning to her mother to say that the man had not eaten anything all day. Mrs. Njoku said she would get him something to take away. Sochienne sat still and said she wanted the driver to come with them. Mrs. Njoku looked at her daughter and wanted to slap her, push her out of the car, trample her. She asked the driver, who looked both confused and terrified, to stop the engine and step out of the car. Then she leaned back on her seat and called her daughter a self-righteous ingrate. She was getting sweaty because the windows were up as these words tumbled out of her mouth: you think if you take the driver into Chicken Republic to eat at the same table as you then you have done a good thing for him but you have not because it is not about his own well being but about your own well being, and you are too self righteous to see that you will only make him uncomfortable if he sits with you and you will change nothing in his life, and just in case you don’t know it, your father is lying in his grave, looking at this person you have become and he is tearing his hair out and eating it! Sochienne looked stunned. Then she called her mother a fat bourgeois, an ostrich who wanted to pretend that all was well, and Mrs. Njoku opened the door and beckoned for the driver to come take them home. They did not speak to each other during the drive. They did not have dinner together. They did not drink tea. And they barely spoke to each other until the wedding at Amarachi. Mrs. Njoku was, on the wedding day at Amarachi, making calls on both her cell phones, shouting at people, and inspecting the chairs tied with cream-and-blue ribbons, the newly trimmed bushes of ixora and hibiscus, the gravel spread on the muddy ground. The gazebo was tilting slightly and needed to be adjusted but the man who set it up had disappeared. The wedding planner was complaining about the buffet tables. The clouds were darkening. Mrs. Njoku was aware that her breathing was shallow. Mrs.


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Fernandez-Cole had already called her to say she was at Enugu airport and how nice it was to be in this part of the country, in the tone of a person who was lying and wanted you to know that they were lying. Sochienne was upstairs chatting with the bridesmaids, stringing together some wilting flowers she had insisted on plucking from the frangipani tree. It was only an hour before she would have to get dressed but she was supremely calm, which annoyed Mrs. Njoku because the least she expected from her daughter, after all she had gone through for this wedding, was some bridal jitteriness. When the hairdresser arrived, flown in from Lagos, Mrs. Njoku worried about Sochienne’s hair; what were the options for dreadlocks really? Sochienne said at least her hair actually grew on her head while her mother’s curly weave was just sewn on plastic. Her tone was the same as when she said “fat bourgeois,” and so Mrs. Njoku went to her room to take a bath. The wedding planner knocked on her door moments later to say that the clouds were even darker now and that Sochienne had suggested a traditional rainholder. Mrs. Njoku thought this: a man preventing rainfall – a silly superstition. She said no. If the rain really started, then they would move indoors and even though it would be cramped, it was doable, since the verandas were roofed. But Sochienne came into her room without knocking and said with that tone that had begun to gravely irritate her mother, that rainholders were superstitious in the same way as Catholic rosaries, that faith was like a tin of Quality Street, she selected what to believe just as she chose only the nut-free chocolates, and her faith selections were: guardian ancestors, rain holding, a happy God. Mrs. Njoku found this listing of her daughter’s beliefs disconcerting. It reminded her of her late husband, an agnostic who had nevertheless called his country house Amarachi: God’s Grace. But it was the image of Quality Street – the purple tin of sweets she and her husband had first bought their daughter when she was eight, giving it to her downstairs in this very house, watching as she pored through the different shiny-wrapped toffees – that made her send for a rainholder. The wizened man arrived and sat in the backyard tending a huge fire, drinking gin, and assuring everyone that

there would be no rain. Guests were being seated. The bridesmaids were ready, lips glistening with gloss. The Kenyan arrived with his family from the hotel in Onitsha. His Senegalese caftan, delicately embroidered at the collar, was perhaps the closest he would ever come to looking elegant, Mrs. Njoku thought, but she still wished he had worn a suit. She fingered the diamond on her throat and felt a dizzying sense of displacement; it was as if she had been written into a story that was not hers. She found Sochienne in the veranda, standing by the crumbling banisters, dreadlocks swept up, eyes kohl rimmed, dress a simple calf length sheath. Mrs. Njoku felt wounded by the smallness of this day and by the plainness of her daughter’s face. She suggested a little more make up, but Sochienne shook her head and asked if her mother remembered when her father climbed up the frangipani tree with her to help conquer her fear of climbing, when it was so sticky hot the toilet seat stuck to her bottom, when her father nearly burned down the house while making a fire to roast cashew nuts, when she threw up after eating a boiled snail? Mrs. Njoku had hated those holidays because their friends were in London while her husband insisted they stay at Amarachi. Now, she moved closer to her daughter, silent, and thought that, for the first time, Sochienne looked familiar, with that expression of wonder she had often had as a child. The wedding planner came in to say that it was time. Sochienne raised her bouquet. She had combined the expensive silk flowers the wedding planner had ordered from somewhere in Europe with the frangipani flowers whose petals now drooped in the moist heat. She asked if her mother liked the bouquet and Mrs. Njoku said no, following her daughter downstairs. In the end, it did not rain. It did drizzle, a fresh light shower, the clouds parting just before the reception started, when the wedding planner came up to whisper to Mrs. Njoku that Sochienne had changed the first dance selection from PSquare’s “No One Be Like You” to Nico Mbarga’s highlife classic: “Sweet Mother.” —


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The headstrong historian Many years after her husband had died, Nwamgba still closed her eyes from time to time to relive his nightly visits to her hut, and the mornings after, when she would walk to the stream humming a song, thinking of the smoky scent of him and the firmness of his weight, and feeling as if she were surrounded by light. Other memories of Obierika also remained clear – his stubby fingers curled around his flute when he played in the evenings, his delight when she set down his bowls of food, his sweaty back when he brought baskets filled with fresh clay for her pottery. From the moment she had first seen him, at a wrestling match, both of them staring and staring, both of them too young, her waist not yet wearing the menstruation cloth, she had believed with a quiet stubbornness that her chi and his chi had destined their marriage, and so when he and his relatives came to her father a few years later with pots of palm wine she told her mother that this was the man she would marry. Her mother was aghast. Did Nwamgba not know that Obierika was an only child, that his late father had been an only child whose wives had lost pregnancies and buried babies? Perhaps somebody in their family had committed the taboo of selling a girl into slavery and the earth god Ani was visiting misfortune on them. Nwamgba ignored her mother. She went into her father’s obi and told him she would run away from any other man’s house if she was not allowed to marry Obierika. Her father found her exhausting, this sharp-tongued, headstrong daughter who had once wrestled her brother to the ground. (Her father had had to warn those who saw this not to let anyone outside the compound know that a girl had thrown a boy.) He, too, was concerned about the infertility in Obierika’s family, but it was not a bad family: Obierika’s late father had taken the Ozo title; Obierika was already giving out his seed yams to sharecroppers. Nwamgba would not starve if she married him. Besides, it was better that he let his daughter go with the man she chose than to endure years of trouble in which she would keep returning home after confrontations with her in laws; and so he gave his blessing, and she smiled and called him by his praise name.

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To pay her bride price, Obierika came with two maternal cousins, Okafo and Okoye, who were like brothers to him. Nwamgba loathed them at first sight. She saw a grasping envy in their eyes that afternoon, as they drank palm wine in her father’s obi; and in the following years – years in which Obierika took titles and widened his compound and sold his yams to strangers from afar – she saw their envy blacken. But she tolerated them, because they mattered to Obierika, because he pretended not to notice that they didn’t work but came to him for yams and chickens, because he wanted to imagine that he had brothers. It was they who urged him, after her third miscarriage, to marry another wife. Obierika told them that he would give it some thought, but when they were alone in her hut at night he assured her that they would have a home full of children, and that he would not marry another wife until they were old, so that they would have somebody to care for them. She thought this strange of him, a prosperous man with only one wife, and she worried more than he did about their childlessness, about the songs that people sang, the melodious mean spirited words: She has sold her womb. She has eaten his penis. He plays his flute and hands over his wealth to her. Once, at a moonlight gathering, the square full of women telling stories and learning new dances, a group of girls saw Nwamgba and began to sing, their aggressive breasts pointing at her. She asked if they would mind singing a little louder, so that she could hear the words and then show them who was the greater of two tortoises. They stopped singing. She enjoyed their fear, the way they backed away from her, but it was then that she decided to find a wife for Obierika herself. Nwamgba liked going to the Oyi stream, untying her wrapper from her waist and walking down the slope to the silvery rush of water that burst out from a rock. The waters of Oyi seemed fresher than those of the other stream, Ogalanya, or perhaps it was simply that Nwamgba felt comforted by the shrine of the Oyi goddess, tucked away in a corner; as a child she had learned that Oyi was the protector of women, the reason it was taboo to sell women into slavery. Nwamgba’s closest friend, Ayaju,


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was already at the stream, and as Nwamgba helped Ayaju raise her pot to her head she asked her who might be a good second wife for Obierika. She and Ayaju had grown up together and had married men from the same clan. The difference between them, though, was that Ayaju was of slave descent. Ayaju did not care for her husband, Okenwa, who she said resembled and smelled like a rat, but her marriage prospects had been limited; no man from a freeborn family would have come for her hand. Ayaju was a trader, and her rangy, quick-moving body spoke of her many journeys; she had even travelled beyond Onicha. It was she who had first brought back tales of the strange customs of the Igala and Edo traders, she who had first told stories of the whiteskinned men who had arrived in Onicha with mirrors and fabrics and the biggest guns the people of those parts had ever seen. This cosmopolitanism earned her respect, and she was the only person of slave descent who talked loudly at the Women’s Council, the only person who had answers for everything. She promptly suggested, for Obierika’s second wife, a young girl from the Okonkwo family, who had beautiful wide hips and who was respectful, nothing like the other young girls of today, with their heads full of nonsense. As they walked home from the stream, Ayaju said that perhaps Nwamgba should do what other women in her situation did – take a lover and get pregnant in order to continue Obierika’s lineage. Nwamgba’s retort was sharp, because she did not like Ayaju’s tone, which suggested that Obierika was impotent, and, as if in response to her thoughts, she felt a furious stabbing sensation in her back and knew that she was pregnant again, but she said nothing, because she knew, too, that she would lose it again. Her miscarriage happened a few weeks later, lumpy blood running down her legs. Obierika comforted her and suggested that they go to the famous oracle, Kisa, as soon as she was well enough for the half day’s journey. After the dibia had consulted the oracle, Nwamgba cringed at the thought of sacrificing a whole cow; Obierika certainly had greedy ancestors. But they performed the ritual cleansings and the sacrifices as required, and when she suggested that

he go and see the Okonkwo family about their daughter he delayed and delayed until another sharp pain spliced her back, and, months later, she was lying on a pile of freshly washed banana leaves behind her hut, straining and pushing until the baby slipped out. They named him Anikwenwa: the earth god Ani had finally granted a child. He was dark and solidly built, and had Obierika’s happy curiosity. Obierika took him to pick medicinal herbs, to collect clay for Nwamgba’s pottery, to twist yam vines at the farm. Obierika’s cousins Okafo and Okoye visited often. They marvelled at how well Anikwenwa played the flute, how quickly he was learning poetry and wrestling moves from his father, but Nwamgba saw the glowing malevolence that their smiles could not hide. She feared for her child and for her husband, and when Obierika died – a man who had been hearty and laughing and drinking palm wine moments before he slumped – she knew that they had killed him with medicine. She clung to his corpse until a neighbor slapped her to make her let go; she lay in the cold ash for days, tore at the patterns shaved into her hair. Obierika’s death left her with an unending despair. She thought often of a woman who, after losing a tenth child, had gone to her back yard and hanged herself on a kola nut tree. But she would not do it, because of Anikwenwa. Later, she wished she had made Obierika’s cousins drink his mmili ozu before the oracle. She had witnessed this once, when a wealthy man died and his family forced his rival to drink his mmili ozu. Nwamgba had watched an unmarried woman take a cupped leaf full of water, touch it to the dead man’s body, all the time speaking solemnly, and give the leaf cup to the accused man. He drank. Everyone looked to make sure that he swallowed, a grave silence in the air, because they knew that if he was guilty he would die. He died days later, and his family lowered their heads in shame. Nwamgba felt strangely shaken by it all. She should have insisted on this with Obierika’s cousins, but she had been blinded by grief and now Obierika was buried and it was too late. His cousins, during the funeral, took his ivory tusk, claiming that the trappings of titles went to brothers and not to sons. It was when they emptied his barn of yams and led away the adult goats in his pen


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that she confronted them, shouting, and when they brushed her aside she waited until evening, then walked around the clan singing about their wickedness, the abominations they were heaping on the land by cheating a widow, until the elders asked them to leave her alone. She complained to the Women’s Council, and twenty women went at night to Okafo’s and Okoye’s homes, brandishing pestles, warning them to leave Nwamgba alone. But Nwamgba knew that those grasping cousins would never really stop. She dreamed of killing them. She certainly could, those weaklings who had spent their lives scrounging off Obierika instead of working, but, of course, she would be banished then, and there would be no one to care for her son. Instead, she took Anikwenwa on long walks, telling him that the land from that palm tree to that avocado tree was theirs, that his grandfather had passed it on to his father. She told him the same things over and over, even though he looked bored and bewildered, and she did not let him go and play at moonlight unless she was watching. Ayaju came back from a trading journey with another story: the women in Onicha were complaining about the white men. They had welcomed the white men’s trading station, but now the white men wanted to tell them how to trade, and when the elders of Agueke refused to place their thumbs on a paper the white men came at night with their normal men helpers and razed the village. There was nothing left. Nwamgba did not understand. What sort of guns did these white men have? Ayaju laughed and said that their guns were nothing like the rusty thing her own husband owned; she spoke with pride, as though she herself were responsible for the superiority of the white men’s guns. Some white men were visiting different clans, asking parents to send their children to school, she added, and she had decided to send her son Azuka, who was the laziest on the farm, because although she was respected and wealthy, she was still of slave descent, her sons were still barred from taking titles, and she wanted Azuka to learn the ways of these foreigners. People ruled over others not because they were better people, she said, but because they had better guns; after all, her father would

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not have been enslaved if his clan had been as well armed as Nwamgba’s. As Nwamgba listened to her friend, she dreamed of killing Obierika’s cousins with the white men’s guns. The day the white men visited her clan, Nwamgba left the pot she was about to put in her oven, took Anikwenwa and her girl apprentices, and hurried to the square. She was at first disappointed by the ordinariness of the two white men; they were harmless looking, the color of albinos, with frail and slender limbs. Their companions were normal men, but there was something foreign about them, too: only one spoke Igbo, and with a strange accent. He said that he was from Elele, the other normal men were from Sierra Leone, and the white men from France, far across the sea. They were all of the Holy Ghost Congregation, had arrived in Onicha in 1885, and were building their school and church there. Nwamgba was the first to ask a question: Had they brought their guns, by any chance, the ones used to destroy the people of Agueke, and could she see one? The man said unhappily that it was the soldiers of the British government and the merchants of the Royal Niger Company who destroyed villages; they, instead, brought good news. He spoke about their god, who had come to the world to die, and who had a son but no wife, and who was three but also one. Many of the people around Nwamgba laughed loudly. Some walked away, because they had imagined that the white man was full of wisdom. Others stayed and offered cool bowls of water. Weeks later, Ayaju brought another story: the white men had set up a courthouse in Onicha where they judged disputes. They had indeed come to stay. For the first time, Nwamgba doubted her friend. Surely the people of Onicha had their own courts. The clan next to Nwamgba’s, for example, held its courts only during the new yam festival, so that people’s rancor grew while they awaited justice. A stupid system, Nwamgba thought, but surely everyone had one. Ayaju laughed and told Nwamgba again that people ruled others when they had better guns. Her son was already learning about these foreign ways, and perhaps Anikwenwa should, too. Nwamgba refused. It was unthinkable that her only son, her single


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eye, should be given to the white men, never mind the superiority of their guns. Three events, in the following years, caused Nwamgba to change her mind. The first was that Obierika’s cousins took over a large piece of land and told the elders that they were farming it for her, a woman who had emasculated their dead brother and now refused to remarry, even though suitors came and her breasts were still round. The elders sided with them. The second was that Ayaju told a story of two people who had taken a land case to the white men’s court; the first man was lying but could speak the white men’s language, while the second man, the rightful owner of the land, could not, and so he lost his case, was beaten and locked up, and ordered to give up his land. The third was the story of the boy Iroegbunam, who had gone missing many years ago and then suddenly reappeared, a grown man, his widowed mother mute with shock at his story: a neighbor, whom his father had often shouted down at Age Grade meetings, had abducted him when his mother was at the market and taken him to the Aro slave dealers, who looked him over and complained that the wound on his leg would reduce his price. He was tied to others by the hands, forming a long human column, and he was hit with a stick and told to walk faster. There was one woman in the group. She shouted herself hoarse, telling the abductors that they were heartless, that her spirit would torment them and their children, that she knew she was to be sold to the white man and did they not know that the white man’s slavery was very different, that people were treated like goats, taken on large ships a long way away, and were eventually eaten? Iroegbunam walked and walked and walked, his feet bloodied, his body numb, until all he remembered was the smell of dust. Finally, they stopped at a coastal clan, where a man spoke a nearly incomprehensible Igbo, but Iroegbunam made out enough to understand that another man who was to sell them to the white people on the ship had gone up to bargain with them but had himself been kidnapped. There were loud arguments, scuffling; some of the abductees yanked at the ropes and Iroegbunam passed out. He awoke to find a white man rubbing his feet with oil and at first he was terrified, certain that he was

being prepared for the white man’s meal, but this was a different kind of white man, who bought slaves only to free them, and he took Iroegbunam to live with him and trained him to be a Christian missionary. Iroegbunam’s story haunted Nwamgba, because this, she was sure, was the way Obierika’s cousins were likely to get rid of her son. Killing him would be too dangerous, the risk of misfortunes from the oracle too high, but they would be able to sell him as long as they had strong medicine to protect themselves. She was struck, too, by how Iroegbunam lapsed into the white man’s language from time to time. It sounded nasal and disgusting. Nwamgba had no desire to speak such a thing herself, but she was suddenly determined that Anikwenwa would speak enough of it to go to the white men’s court with Obierika’s cousins and defeat them and take control of what was his. And so, shortly after Iroegbunam’s return, she told Ayaju that she wanted to take her son to school. They went first to the Anglican mission. The classroom had more girls than boys, sitting with slates on their laps while the teacher stood in front of them, holding a big cane, telling them a story about a man who transformed a bowl of water into wine. The teacher’s spectacles impressed Nwamgba, and she thought that the man in the story must have had powerful medicine to be able to transform water into wine, but when the girls were separated and a woman teacher came to teach them how to sew Nwamgba found this silly. In her clan, men sewed cloth and girls learned pottery. What dissuaded her completely from sending Anikwenwa to the school, however, was that the instruction was done in Igbo. Nwamgba asked why. The teacher said that, of course, the students were taught English – he held up an English primer – but children learned best in their own language and the children in the white men’s land were taught in their own language, too. Nwamgba turned to leave. The teacher stood in her way and told her that the Catholic missionaries were harsh and did not look out for the best interests of the natives. Nwamgba was amused by these foreigners, who did not seem to know that one must, in front of strangers, pretend to have unity. But she had come in search of English, and so she walked


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past him and went to the Catholic mission. Father Shanahan told her that Anikwenwa would have to take an English name, because it was not possible to be baptized with a heathen name. She agreed easily. His name was Anikwenwa as far as she was concerned; if they wanted to name him something she could not pronounce before teaching him their language, she did not mind at all. All that mattered was that he learn enough of the language to fight his father’s cousins. Father Shanahan looked at Anikwenwa, a dark-skinned, well-muscled child, and guessed that he was about twelve, although he found it difficult to estimate the ages of these people; sometimes what looked like a man would turn out to be a mere boy. It was nothing like in Eastern Africa, where he had previously worked, where the natives tended to be slender, less confusingly muscular. As he poured some water on the boy’s head, he said, “Michael, I baptize you in the name of the Father and of the Son and of the Holy Spirit.” He gave the boy a singlet and a pair of shorts, because the people of the living God did not walk around naked, and he tried to preach to the boy’s mother, but she looked at him as if he were a child who did not know any better. There was something troublingly assertive about her, something he had seen in many women here; there was much potential to be harnessed if their wildness were tamed. This Nwamgba would make a marvellous missionary among the women. He watched her leave. There was a grace in her straight back, and she, unlike others, had not spent too much time going round and round in her speech. It infuriated him, their overlong talk and circuitous proverbs, their never getting to the point, but he was determined to excel here; it was the reason he had joined the Holy Ghost congregation, whose special vocation was the redemption of black heathens. Nwamgba was alarmed by how indiscriminately the missionaries flogged students: for being late, for being lazy, for being slow, for being idle, and, once, as Anikwenwa told her, Father Lutz put metal cuffs around a girl’s hands to teach her a lesson about lying, all the time saying in Igbo – for Father Lutz spoke a broken brand of Igbo – that native parents pampered their children too much, that

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teaching the Gospel also meant teaching proper discipline. The first weekend Anikwenwa came home, Nwamgba saw welts on his back, and she tightened her wrapper around her waist and went to the school and told the teacher that she would gouge out the eyes of everyone at the mission if they ever did that to him again. She knew that Anikwenwa did not want to go to school and she told him that it was only for a year or two, so that he could learn English, and although the mission people told her not to come so often, she insistently came every weekend to take him home. Anikwenwa always took off his clothes even before they had left the mission compound. He disliked the shorts and shirt that made him sweat, the fabric that was itchy around his armpits. He disliked, too, being in the same class as old men, missing out on wrestling contests. But Anikwenwa’s attitude toward school slowly changed. Nwamgba first noticed this when some of the other boys with whom he swept the village square complained that he no longer did his share because he was at school, and Anikwenwa said something in English, something sharp-sounding, which shut them up and filled Nwamgba with an indulgent pride. Her pride turned to vague worry when she noticed that the curiosity in his eyes had diminished. There was a new ponderousness in him, as if he had suddenly found himself bearing the weight of a heavy world. He stared at things for too long. He stopped eating her food, because, he said, it was sacrificed to idols. He told her to tie her wrapper around her chest instead of her waist, because her nakedness was sinful. She looked at him, amused by his earnestness, but worried nonetheless, and asked why he had only just begun to notice her nakedness. When it was time for his initiation ceremony, he said he would not participate, because it was a heathen custom to be initiated into the world of spirits, a custom that Father Shanahan had said would have to stop. Nwamgba roughly yanked his ear and told him that a foreign albino could not determine when their customs would change, and that he would participate or else he would tell her whether he was her son or the white man’s son. Anikwenwa reluctantly agreed, but as he was taken away with a group of other boys she noticed that he lacked their excitement. His sadness


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saddened her. She felt her son slipping away from her, and yet she was proud that he was learning so much, that he could be a court interpreter or a letter writer, that with Father Lutz’s help he had brought home some papers that showed that their land belonged to them. Her proudest moment was when he went to his father’s cousins Okafo and Okoye and asked for his father’s ivory tusk back. And they gave it to him. Nwamgba knew that her son now inhabited a mental space that she was unable to recognize. He told her that he was going to Lagos to learn how to be a teacher, and even as she screamed – How can you leave me? Who will bury me when I die? – she knew that he would go. She did not see him for many years, years during which his father’s cousin Okafo died. She often consulted the oracle to ask whether Anikwenwa was still alive, and the dibia admonished her and sent her away, because of course he was alive. Finally, he returned, in the year that the clan banned all dogs after a dog killed a member of the Mmangala Age Grade, the age group to which Anikwenwa would have belonged if he did not believe that such things were devilish. Nwamgba said nothing when Anikwenwa announced that he had been appointed catechist at the new mission. She was sharpening her aguba on the palm of her hand, about to shave patterns into the hair of a little girl, and she continued to do so – flick flick flick – while Anikwenwa talked about winning the souls of the members of their clan. The plate of breadfruit seeds she had offered him was untouched – he no longer ate anything at all of hers – and she looked at him, this man wearing trousers and a rosary around his neck, and wondered whether she had meddled with his destiny. Was this what his chi had ordained for him, this life in which he was like a person diligently acting a bizarre pantomime? The day that he told her about the woman he would marry, she was not surprised. He did not do it as it was done, did not consult people about the bride’s family, but simply said that somebody at the mission had seen a suitable young woman from Ifite Ukpo, and the suitable young woman would be taken to the Sisters of the Holy Rosary in Onicha to learn how to be a good

Christian wife. Nwamgba was sick with malaria that day, lying on her mud bed, rubbing her aching joints, and she asked Anikwenwa the young woman’s name. Anikwenwa said it was Agnes. Nwamgba asked for the young woman’s real name. Anikwenwa cleared his throat and said she had been called Mgbeke before she became a Christian, and Nwamgba asked whether Mgbeke would at least do the confession ceremony even if Anikwenwa would not follow the other marriage rites of their clan. He shook his head furiously and told her that the confession made by women before marriage, in which, surrounded by female relatives, they swore that no man had touched them since their husband declared his interest, was sinful, because Christian wives should not have been touched at all. The marriage ceremony in the church was laughably strange, but Nwamgba bore it silently and told herself that she would die soon and join Obierika and be free of a world that increasingly made no sense. She was determined to dislike her son’s wife, but Mgbeke was difficult to dislike, clear-skinned and gentle, eager to please the man to whom she was married, eager to please everyone, quick to cry, apologetic about things over which she had no control. And so, instead, Nwamgba pitied her. Mgbeke often visited Nwamgba in tears, saying that Anikwenwa had refused to eat dinner because he was upset with her, that Anikwenwa had banned her from going to a friend’s Anglican wedding because Anglicans did not preach the truth, and Nwamgba would silently carve designs on her pottery while Mgbeke cried, uncertain of how to handle a woman crying about things that did not deserve tears. Mgbeke was called “missus” by everyone, even the non-Christians, all of whom respected the catechist’s wife, but on the day she went to the Oyi stream and refused to remove her clothes because she was a Christian the women of the clan, outraged that she had dared to disrespect the goddess, beat her and dumped her at the grove. The news spread quickly. Missus had been harassed. Anikwenwa threatened to lock up all the elders if his wife was treated that way again, but Father O’Donnell, on his next trek from his station in Onicha, visited the elders and apologized on Mgbeke’s behalf, and asked


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whether perhaps Christian women could be allowed to fetch water fully clothed. The elders refused – if a woman wanted Oyi’s waters, then she had to follow Oyi’s rules – but they were courteous to Father O’Donnell, who listened to them and did not behave like their own son Anikwenwa. Nwamgba was ashamed of her son, irritated with his wife, upset by their rarefied life in which they treated non-Christians as if they had smallpox, but she held out hope for a grandchild; she prayed and sacrificed for Mgbeke to have a boy, because she knew that the child would be Obierika come back and would bring a semblance of sense again into her world. She did not know of Mgbeke’s first or second miscarriage; it was only after the third that Mgbeke, sniffling and blowing her nose, told her. They had to consult the oracle, as this was a family misfortune, Nwamgba said, but Mgbeke’s eyes widened with fear. Michael would be very angry if he ever heard of this oracle suggestion. Nwamgba, who still found it difficult to remember that Michael was Anikwenwa, went to the oracle herself, and afterward thought it ludicrous how even the gods had changed and no longer asked for palm wine but for gin. Had they converted, too? A few months later, Mgbeke visited, smiling, bringing a covered bowl of one of those concoctions that Nwamgba found inedible, and Nwamgba knew that her chi was still wide awake and that her daughter-in-law was pregnant. Anikwenwa had decreed that Mgbeke would have the baby at the mission in Onicha, but the gods had different plans, and she went into early labor on a rainy afternoon; somebody ran in the drenching rain to Nwamgba’s hut to call her. It was a boy. Father O’Donnell baptized him Peter, but Nwamgba called him Nnamdi, because he would be Obierika come back. She sang to him, and when he cried she pushed her dried-up nipple into his mouth, but, try as she might, she did not feel the spirit of her magnificent husband, Obierika. Mgbeke had three more miscarriages, and Nwamgba went to the oracle many times until a pregnancy stayed, and the second baby was born at the mission in Onicha. A girl. From the moment Nwamgba held her, the baby’s bright eyes delightfully focussed on her, she knew that the spirit of Obierika

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had finally returned; odd, to have come back in a girl, but who could predict the ways of the ancestors? Father O’Donnell baptized the baby Grace, but Nwamgba called her Afamefuna – “my name will not be lost” – and was thrilled by the child’s solemn interest in her poetry and her stories, by the teen-ager’s keen watchfulness as Nwamgba struggled to make pottery with newly shaky hands. Nwamgba was not thrilled that Afamefuna was sent away to secondary school in Onicha. (Peter was already living with the priests there.) She feared that, at boarding school, the new ways would dissolve her granddaughter’s fighting spirit and replace it with either an incurious rigidity, like her son’s, or a limp helplessness, like Mgbeke’s. The year that Afamefuna left for secondary school, Nwamgba felt as if a lamp had been blown out in a dim room. It was a strange year, the year that darkness suddenly descended on the land in the middle of the afternoon, and when Nwamgba felt the deep-seated ache in her joints she knew that her end was near. She lay on her bed gasping for breath, while Anikwenwa pleaded with her to be baptized and anointed so that he could hold a Christian funeral for her, as he could not participate in a heathen ceremony. Nwamgba told him that if he dared to bring anybody to rub some filthy oil on her she would slap them with her last strength. All she wanted before she joined the ancestors was to see Afamefuna, but Anikwenwa said that Grace was taking exams at school and could not come home. But she came. Nwamgba heard the squeaky swing of her door, and there was Afamefuna, her granddaughter, who had come on her own from Onicha because she had been unable to sleep for days, her restless spirit urging her home. Grace put down her schoolbag, inside of which was her textbook, with a chapter called “The Pacification of the Primitive Tribes of Southern Nigeria,” by an administrator from Bristol who had lived among them for seven years. It was Grace who would eventually read about these savages, titillated by their curious and meaningless customs, not connecting them to herself until her teacher Sister Maureen told her that she


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could not refer to the call-and-response her grandmother had taught her as poetry, because primitive tribes did not have poetry. It was Grace who would laugh and laugh until Sister Maureen took her to detention and then summoned her father, who slapped Grace in front of the other teachers to show them how well he disciplined his children. It was Grace who would nurse a deep scorn for her father for years, spending holidays working as a maid in Onicha so as to avoid the sanctimonies, the dour certainties, of her parents and her brother. It was Grace who, after graduating from secondary school, would teach elementary school in Agueke, where people told stories of the destruction of their village by the white men with guns, stories she was not sure she believed, because they also told stories of mermaids appearing from the River Niger holding wads of crisp cash. It was Grace who, as one of a dozen or so women at the University College in Ibadan in 1953, would change her degree from chemistry to history after she heard, while drinking tea at the home of a friend, the story of Mr. Gboyega. The eminent Mr. Gboyega, a chocolateskinned Nigerian, educated in London, distinguished expert on the history of the British Empire, had resigned in disgust when the West African Examinations Council began talking of adding African history to the curriculum, because he was appalled that African history would even be considered a subject. It was Grace who would ponder this story for a long time, with great sadness, and it would cause her to make a clear link between education and dignity, between the hard, obvious things that are printed in books and the soft, subtle things that lodge themselves in the soul. It was Grace who would begin to rethink her own schooling: How lustily she had sung on Empire Day, “God save our gracious king. Send him victorious, happy and glorious. Long to reign over us.” How she had puzzled over words like “wallpaper” and “dandelions” in her textbooks, unable to picture them. How she had struggled with arithmetic problems that had to do with mixtures, because what was “coffee” and what was “chicory,” and why did they have to be mixed? It was Grace who would begin to rethink her father’s schooling and then hurry home to see him, his eyes

watery with age, telling him she had not received all the letters she had ignored, saying amen when he prayed, and pressing her lips against his forehead. It was Grace who, driving past Agueke on her way to the university one day, would become haunted by the image of a destroyed village and would go to London and to Paris and to Onicha, sifting through moldy files in archives, reimagining the lives and smells of her grandmother’s world, for the book she would write called “Pacifying with Bullets: A Reclaimed History of Southern Nigeria.” It was Grace who, in a conversation about the book with her fiancé, George Chikadibia – stylish graduate of King’s College, Lagos, engineer-to-be, wearer of three-piece suits, expert ballroom dancer, who often said that a grammar school without Latin was like a cup of tea without sugar – understood that the marriage would not last when George told her that it was misguided of her to write about primitive culture instead of a worthwhile topic like African Alliances in the American-Soviet Tension. They would divorce in 1972, not because of the four miscarriages Grace had suffered but because she woke up sweating one night and realized that she would strangle George to death if she had to listen to one more rapturous monologue about his Cambridge days. It was Grace who, as she received faculty prizes, as she spoke to solemn-faced people at conferences about the Ijaw and Ibibio and Igbo and Efik peoples of Southern Nigeria, as she wrote common-sense reports for international organizations, for which she nevertheless received generous pay, would imagine her grandmother looking on with great amusement. It was Grace who, feeling an odd rootlessness in the later years of her life, surrounded by her awards, her friends, her garden of peerless roses, would go to the courthouse in Lagos and officially change her first name from Grace to Afamefuna. But on that day, as she sat at her grandmother’s bedside in the fading evening light, Grace was not contemplating her future. She simply held her grandmother’s hand, the palm thickened from years of making pottery. —


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You in America You believed that everybody in America had a car and a gun. Your uncles and aunts and cousins believed it too. Right after you won the American visa lottery, they told you, “In a month, you will have a big car. Soon, a big house. But don’t buy a gun like those Americans.” They trooped into the shantytown house in Lagos, standing beside the nail-studded zinc walls because chairs did not go round, to say good bye in loud voices and tell you with lowered voices what they wanted you to send them. In comparison to the big car and house (and possibly gun), the things they wanted were minor – handbags and shoes and vitamin supplements. You said okay, no problem. Your uncle in America said you could live with him until you got on your feet. He picked you up at the airport and bought you a big hot dog with yellow mustard that nauseated you. Introduction to America, he said with a laugh. He lived in a small white town in Maine, in a thirty-year-old house by a lake. He told you that the company he worked for had offered him a few thousand more plus stocks because they were desperately trying to look diverse. They included him in every brochure, even those that had nothing to do with engineering. He laughed and said the job was good, was worth living in an all-white town even though his wife had to drive an hour to find a hair salon that did black hair. The trick was to understand America, to know that America was give and take. You gave up a lot but you gained a lot too. He showed you how to apply for a cashier job in the gas station on Main Street, and he enrolled you in a community college, where the girls were curious about your hair. Does it stand up or fall down when you take the braids out? All of it stands up? How? Why? Do you use a comb? You smiled tightly when they asked those questions. Your uncle told you to expect it; a mixture of ignorance and arrogance, he called it. Then he told you how the neighbors said, a few months after he moved into his house, that the squirrels had started to disappear. They had heard Africans ate all kinds of wild animals. You laughed with your uncle and you felt at home in his house, his wife called you nwanne – sister – and his two school-age children called you Aunty. They spoke Igbo

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and ate garri for lunch and it was like home. Until your uncle came into the cramped basement where you slept with old trunks and wheels and books and grabbed your breasts, as though he was plucking mangoes from a tree, moaning. He wasn’t really your uncle, he was actually a distant cousin of your aunt’s husband, not related by blood. As you packed your bags that night, he sat on your bed – it was his house after all – and laughed and said you had nowhere to go. If you let him, he would do many things for you. Smart women did it all the time. How did you think those women back home in Lagos with well-paying jobs made it? Even women in New York? You locked yourself in the bathroom and the next morning you left, walking the long windy road, smelling the baby fish in the lake. You saw him drive past, he had always dropped you off at Main Street, and he didn’t honk. You wondered what he would tell his wife, why you had left. And you remembered what he said, that America was give and take. You ended up in Connecticut, another little town, because it was the last stop of the Bonanza bus you got on. Bonanza was the cheapest bus. You walked into the restaurant nearby and said you would work for two dollars less than the other waitresses. The owner, Juan, had inky black hair and smiled to show a bright yellowish tooth. He said he had never had a Nigerian employee but all immigrants worked hard. He knew, he’d been there. He’d pay you a dollar less, but under the table. He didn’t like all the taxes they were making him pay. You could not afford to go to school, because now you paid rent for the tiny room with the stained carpet. Besides, the small Connecticut town didn’t have a community college and a credit in the State University cost too much. So you went to the Public Library, you looked up course syllabi on school web sites and read some of the books. Sometimes you sat on the lumpy mattress of your twin bed and thought about home. Your parents, your uncles and aunts, your cousins, your friends. The people who never broke a profit from the mangoes and akara they hawked, whose houses – zinc sheets precariously held by nails – fell apart in the rainy season. The people who came out to say goodbye, to rejoice because you won the American visa lottery, to confess their envy. The people who sent their


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children to the secondary school where teachers gave an A when someone slipped them brown envelopes. You had never needed to pay for an A, never slipped a brown envelope to a teacher in secondary school. Still, you chose long brown envelopes to send half your month’s earning to your parents. The bills that Juan gave you which were crisper than the tips. Every month. You didn’t write a letter. There was nothing to write about. The first weeks you wanted to write though, because you had stories to tell. You wanted to write about the surprising openness of people in America, how eagerly they told you about their mother fighting cancer, about their sister-in-law’s preemie – things people should hide, should reveal only to the family members who wished them well. You wanted to write about the way people left so much food on their plates and crumpled a few dollar bills down, as though it was an offering, expiation for the wasted food. You wanted to write about the child who started to cry and pull at her blond hair and instead of the parents making her shut up, they pleaded with her and then they all got up and left. You wanted to write that everybody in America did not have a big house and car, you still were not sure about the guns though because they might have them inside their bags and pockets. It wasn’t just your parents you wanted to write, it was your friends and cousins and aunts and uncles. But you could never afford enough handbags and shoes and vitamin supplements to go around and still pay your rent, so you wrote nobody. Nobody knew where you were because you told no one. Sometimes you felt invisible and tried to walk through your room wall into the hallway and when you bumped into the wall, it left bruises on your arms. Once, Juan asked if you had a man that hit you because he would take care of him and you laughed a mysterious laugh. At nights, something wrapped itself around your neck, something that very nearly always choked you before you woke up. Some people thought you were from Jamaica because they thought that every black person with an accent was Jamaican. Or some who guessed that you were African asked if you knew so and so from Kenya or so and so from Zimbabwe because they thought

Africa was a country where everyone knew everyone else. So when he asked you, in the dimness of the restaurant after you recited the daily specials, what African country you were from, you said Nigeria and expected him to ask if you knew a friend he had made in the Peace Corps in Senegal or Botswana. But he asked if you were Yoruba or Igbo, because you didn’t have a Fulani face. You were surprised – you thought he must be a professor of anthropology, a little young but who was to say? Igbo, you said. He asked your name and said Akunna was pretty. He did not ask what it meant, fortunately, because you were sick of how people said, Father’s Wealth? You mean, like, your father will actually sell you to a husband? He had been to Ghana and Kenya and Tanzania, he had read about all the other African countries, their histories, their complexities. You wanted to feel disdain, to show it as you brought his order, because white people who liked Africa too much and who liked Africa too little were the same – condescending. But he didn’t act like he knew too much, didn’t shake his head in the superior way a professor back in the community college once did as he talked about Angola, didn’t show any condescension. He came in the next day and sat at the same table and when you asked if the chicken was okay, he asked you something about Lagos. He came in the second day and talked for so long – asking you often if you didn’t think Mobutu and Idi Amin were similar – you had to tell him it was against restaurant policy. He brushed your hand when you placed the coffee down. The third day, you told Juan you didn’t want that table anymore. After your shift that day, he was waiting outside, leaning by a pole, asking you to go out with him because your name rhymed with hakuna matata and The Lion King was the only maudlin movie he’d ever liked. You didn’t know what The Lion King was. You looked at him in the bright light and realized that his eyes were the color of extra virgin olive oil, a greenish gold. Extra-virgin olive oil was the only thing you enjoyed, truly enjoyed, in America. He was a senior at the State University. He told you how old he was and you asked why he had not graduated yet. This was America, after all, it was not


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like back home where Universities closed so often that people added three years to their normal course of study and Lecturers went on strike after strike and were still not paid. He said he had taken time off, a couple of years after high school, to discover himself and travel, mostly to Africa and Asia. You asked him where he ended up finding himself and he laughed. You did not laugh. You did not know that people could simply choose not to go to school, that people could dictate to life. You were used to accepting what life gave, writing down what life dictated. You said no the following three days, to going out with him, because you didn’t think it was right, because you were uncomfortable with the way he looked in your eyes, the way you laughed so easily at what he said. And then the fourth night, you panicked when he was not standing at the door, after your shift. You prayed for the first time in a long time and when he came up behind you and said, hey, you said yes, you would go out with him, even before he asked. You were scared he would not ask again. The next day, he took you to Chang’s and your fortune cookie had two strips of paper. Both of them were blank. You knew you had become comfortable when you told him the real reason you asked Juan for a different table – Jeopardy. When you watched Jeopardy on the restaurant TV, you rooted for the following, in this order – women of color, white women, black men, and finally white men, which meant you never rooted for white men. He laughed and told you he was used to not being rooted for, his mother taught Women’s Studies. And you knew you had become close when you told him that your father was really not a school teacher in Lagos, that he was a taxi driver. And you told him about that day in Lagos traffic in your father’s car, it was raining and your seat was wet because of the rust-eaten hole in the roof. The traffic was heavy, the traffic was always heavy in Lagos, and when it rained it was chaos. The roads were so badly drained some cars would get stuck in muddy potholes and some of your cousins got paid to push the cars out. The rain and the swampy road – you thought – made your father step on the brakes too late that day. You heard the bump before you felt it. The car your father rammed into

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was big, foreign and dark green, with yellow headlights like the eyes of a cat. Your father started to cry and beg even before he got out of the car and laid himself flat on the road, stopping the traffic. Sorry sir, sorry sir, if you sell me and my family you cannot even buy one tire in your car, he chanted. Sorry sir. The big man seated at the back did not come out. His driver did, examining the damage, looking at your father’s sprawled form from the corner of his eye as though the pleading was a song he was ashamed to admit he liked. Finally, he let your father go. Waved him away. The other cars honked and drivers cursed. When your father came back in the car, you refused to look at him because he was just like the pigs that waddled in the marshes around the market. Your father looked like nsi. Shit. After you told him this, he pursed his lips and held your hand and said he understood. You shook your hand free, annoyed, because he thought the world was, or ought to be, full of people like him. You told him there was nothing to understand, it was just the way it was. He didn’t eat meat, because he thought it was wrong the way they killed animals. He said they released fear toxins into the animals and the fear toxins made people paranoid. Back home, the meat pieces you ate, when there was meat, were the size of half your finger. But you did not tell him that. You did not tell him either that the dawadawa cubes your mother cooked everything with, because curry and thyme were too expensive, had MSG, was MSG. He said MSG caused cancer, and that was the reason he liked Chang’s – Chang didn’t cook with MSG. Once, at Chang’s, he told the waiter he lived in Shanghai for a year, that he spoke some Mandarin. The waiter warmed up and told him what soup was best and then asked him, “you have girlfriend in Shanghai?” And he smiled and said nothing. You lost your appetite, the region beneath your breasts felt clogged inside. That night, you didn’t moan when he was inside you, you bit your lips and pretended that you didn’t come because you knew he would worry. Finally you told him why you were upset, that the Chinese man assumed you could not possibly be his girlfriend, and that he smiled and said nothing.


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Before he apologized, he gazed at you blankly and you knew that he did not understand. He bought you presents and when you objected about the cost, he said he had a trust fund, it was okay. His presents mystified you. A fist-sized ball that you shook to watch snow fall on a tiny house, or a plastic ballerina in pink spinning around on a tiny stage. A shiny rock. An expensive scarf hand-painted in Mexico that you could never wear because of the color. Finally you told him that Third World presents were always useful. The rock, for instance, would work if you could grind things with it, or wear it. He laughed long and hard, but you did not laugh. You realized that in his life, he could buy presents that were just presents and nothing else, nothing useful. When he started to buy you shoes and clothes and books, you asked him not to, you didn’t want any presents at all. Still, you did not fight. Not really. You argued and then you made up and made love and ran your hands through each other’s hair, his soft and yellow like the swinging tassels of growing corncobs, yours dark and bouncy like the filling of a pillow. You felt safe in his arms, the same safeness you felt back home, in the shantytown house of zinc. When he got too much sun and his skin turned the color of a ripe watermelon, you kissed portions of his back before you rubbed lotion on it slowly. It was more intimate than sex. You felt involved, yet it was one experience you both could never share. You darkened in the sun but you were too dark to ever get burned. He found the African store in the Hartford Yellow Pages and drove you there. The store owner, a Ghanaian, asked him if he was African, like the white Kenyans or South Africans and he laughed and said yes, but he’d been in America for a long time, had missed the food of his childhood. You cooked for him; he liked jollof rice but after he ate garri and onugbu soup, he threw up in your sink. You didn’t mind, because now you could cook onugbu soup with meat. The thing that wrapped itself around your neck, that nearly always choked you before you fell asleep, started to loosen, to let go. You knew by people’s reactions that you were abnormal

– the way the nasty ones were too nasty and the nice ones too nice. The old white women who muttered and glared at him, the black men who shook their heads at you, the black women whose pitiful eyes bemoaned your lack of self-esteem, your self-loathing. Or the black women who ysmiled swift, secret solidarity smiles, the black men who tried too hard to forgive you, saying a too obvious hi to him, the white women who said, “what a good looking pair,” too brightly, too loudly, as though to prove their own tolerance to themselves. You did not tell him but you wished you were lighter-skinned so they would not stare so much. You thought about your sister back home, about her skin the color of honey, and wished you had come out like her. You wished that again the night you first met his parents. But you did not tell him because he would look solemn and hold your hand and tell you it was your burnished skin color that first attracted him. You didn’t want him to hold your hand and say he understood because again there was nothing to understand, it was just the way things were. You wished you were light-skinned enough to be mistaken for Puerto-Rican, light-skinned enough so that, in the dim light of the Indian restaurant where you both shared samosas with his parents from a centrally placed tray, you would seem almost like them. His mother told you she loved your braids, asked if those were real cowries strung through them and what female writers you read. His father asked how similar Indian food was to Nigerian food and teased you about paying when the check came. You looked at them and felt grateful that they did not examine you like an exotic trophy, an ivory tusk. His mother told you that he had never brought a girl to meet them, except for his High School prom date and he smiled stiffly and held your hand. The tablecloth shielded your clasped hands. He squeezed your hand and you squeezed back and wondered why he was so stiff, why his extra virgin olive-colored eyes darkened as he spoke to his parents. He told you about his issues with his parents later, how they portioned out love like a birthday cake, how they would give him a bigger slice if only he’d go to Law School. You wanted to sympathize. But instead you were angry. You were angrier when he told he had refused to go up to Canada with them for a


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week or two, to their summer cottage in the Quebec countryside. They had even asked him to bring you. He showed you pictures of the cottage and you wondered why it was called a cottage because the buildings that big around your neighborhood back home were banks and churches. You dropped a glass and it shattered on the hardwood of his apartment floor and he asked what was wrong and you said nothing, although you thought a lot was wrong. Your worlds were wrong. Later, in the shower, you started to cry, you watched the water dilute your tears and you didn’t know why you were crying. You wrote home finally, when the thing around your neck had almost completely let go. A short letter to your parents and brothers and sisters, slipped in between the crisp dollar bills, and you included your address. You got a reply only days later, by courier. Your mother wrote the letter herself, you knew from the spidery penmanship, from the misspelled words. Your father was dead, he had slumped over the steering wheel of his taxi. Five months now, she wrote. They had used some of the money you sent to give him a nice funeral. They killed a goat for the guests and buried him in a real coffin, not just planks of wood. You curled up in bed, pressed your knees tight to your chest and cried. He held you while you cried, smoothed your hair, and offered to go with you, back home to Nigeria. You said no, you needed to go alone. He asked if you would come back and you reminded him that you had a green card and you would lose it if you did not come back in one year. He said you knew what he meant, would you come back, come back? You turned away and said nothing and when he drove you to the airport, you hugged him tight, clutching to the muscles of his back until your ribs hurt. And you said thank you.

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