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ARCHITETTURA
Saggio su storia, avanguardie e critica della ragion tecnica
Prefazione di Xavier Costa
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L’antefatto: il capanno di Ermanno Mezzogori Prologo
Parte prima storia, città, avanguardie
Città e avanguardie
Teoria e storia
Avanguardie dei magnifici ’70
La fine del classico
Disincanto
Parte seconda
Architettura: critica della ragion tecnica
Astrazione e disegno
Non un mestiere
Composizione / Progettazione / Autocritica
Reale razionale
Bisogni
Ancora Storia e Architettura
La fine: autonomia
Dieci figure fuori testo
di Xavier Costa
Davide Rubbini ha scritto un saggio o, forse più precisamente, una raccolta “benjaminiana” di saggi, che rappresenta un insieme di riflessioni sul suo lavoro di praticante di Architettura, oltre che di studioso e critico. Questi scritti si basano sulle fondamenta di uno dei movimenti più rilevanti nel dibattito sull’Architettura degli ultimi decenni: la Scuola di Venezia, come è emersa negli anni ’60 e si è sviluppata attraverso il lavoro di alcuni studiosi, critici e architetti che hanno insegnato e sviluppato la loro ricerca presso lo IUAV, l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.
Lungo la sua traiettoria accademica, Rubbini ha anche partecipato al programma Metropolis, istituito a Barcellona da Ignasi de Solà-Morales, Miquel Molins e Xavier Costa.
Originariamente intitolato “Metropolis: The Contemporary Experience of Great Cities in Art and Architecture”, il programma ha promosso lo studio e la ricerca sul concetto transdisciplinare della cultura urbana attraverso la lente del design moderno e delle arti.
Alcuni dei punti critici di Rubbini, così come espressi in questo corpus di scritti, sono l’enfasi sull’Architettura come arte (non artigianato, o “mestiere” come termine usato nel dibattito italiano) e il concetto di autonomia
Per Tafuri, l’Architettura poteva essere possibile solo una volta avvenuta una rivoluzione totale, quindi, solo in un futuro indefinito. Nei termini di Fredric Jameson, Tafuri è l’intransigenza senza compromessi di tutti gli assoluti. Jameson ha dimostrato di essere uno dei migliori interpreti e critici di Tafuri. Le posizioni radicali della scuola di Venezia portarono a una generazione di architetti che esplorarono ugualmente la possibilità di progetti radicali e non costruibili. Per Solà-Morales, alcuni dei migliori esempi si trovano nel lavoro degli anni ’70 di John Hejduk, Massimo Scolari, Superstudio, Hans Hollein o Bernard Tschumi, un corpo unico di Architettura “disegnata”. Si potrebbero anche aggiungere le prime esplorazioni di Daniel Libeskind e Peter Eisenman. Questi erano gli architetti che resistevano a qualsiasi nozione di Architettura come “artigianato” a favore di una “autonomia artistica” e, in definitiva, di una “critica radicale”.
Un altro tema che domina il saggio di Davide è l’interpretazione della città, sulla falsariga di una “Architettura della città” di Rossi – per esempio, nell’attenzione alla città come “prodotto storico”, come risultato di un processo cumulativo di complessità che si traduce nello spazio urbano. Dato il lavoro di Rubbini all’interno del suddetto programma Metropolis, il pensiero di Solà-Morales ha una presenza riconoscibile e accreditata in questi scritti. Un tema, per esempio, è quello del “Terrain Vague”, un termine intraducibile che rivela la condizione storica della città producendo un vuoto – non una costruzione convenzionale – e riunendo la figura tradizionale della rovina, il paesaggio della desolazione e una fenomenologia contemporanea dell’esperienza urbana, come vuoto.
Rubbini fonda i suoi saggi nel corpus di opere della Scuola Italiana di Venezia. Partendo dagli scritti di Rossi, Tafuri e Solà-Morales, tra molti altri, egli porta quelle idee nel contesto odierno, interrogandolo con le pertinenti domande sullo statuto e l’identità della nostra pratica professionale, sulla dicotomia arte/artigianato, sull’autonomia della nostra disciplina, sulla persistenza delle sue origini e sul fatto che l’Architettura possa continuare ad essere un motore di “pensiero creativo e azione politica”. Alcune delle sue risposte si concentrano sulla rivendicazione della condizione radicalmente creativa (artistica) dell’Architettura e della sua conseguenze politiche. È un modo per dire che questo “non è il momento delle avanguardie” perché l’Architettura è entrata in nuovi scenari geopolitici.
Xavier Costa è un architetto, studioso e curatore, attualmente professore presso la School of Architecture della Northeastern University di Boston, Massachusetts, dove è stato recentemente decano fondatore del College of Arts, Media and Design. Tra il 1992 e il 2012 assieme a Ignasi de Solà-Morales e Miquel Molins, ha co-fondato e diretto il Metropolis Graduate Program presso l’Universitat Politècnica de Catalunya (UPC). Xavier Costa è stato anche Preside della Elisava School of Design dell’Università Pompeu Fabra, e ha insegnato alla GSD dell’Università di Harvard, alla Cornell University, alla Columbia University e alla Architectural Association; è stato curatore della Fondazione Mies van der Rohe, della Biennale di Venezia, del Museum of Modern Art di New York e del Museu d’Art Contemporani de Barcelona. Ha conseguito un dottorato di ricerca e un master in Architettura e storia dell’arte presso l’Università della Pennsylvania e l’UPC.
Xavier Costa è membro dell’Academia Europaea e consulente della Fondazione Aga Khan e del Premio Pritzker. Le sue pubblicazioni sono apparse su AA Files, Daidalos, Quaderns, Lotus International e European Review, con un focus interdisciplinare sull’Architettura moderna, l’urbanistica e il design, così come sulla conservazione critica e la curatela, in particolare nel contesto europeo.
Introduzione
Nelle riflessioni che seguono ho cercato di descrivere uno stato attuale della pratica architettonica, che a mio avviso appare in profonda crisi, sia quando ne intendiamo assumere la condizione in se’ e per se’, cioè per le “opere” che vengono prodotte nel mondo e le relative celebrazioni mediatiche molto spesso artificiose e propagandistiche, sia ancora laddove la situazione esistenziale dell’architetto contemporaneo appare periferica, proprio per quanto sopra detto, rispetto alla sua presunta arte, venendo vieppiù strumentalizzato a fini estranei al suo essere tale.
Nella mia esperienza di studi e lavoro delle pratiche che Architettura mi offriva, dopo gli studi classici e le irripetibili esperienze didattiche che la Scuola1 mi ha consentito di fare, in taluni periodi anche accompagnato dai grandi protagonisti del secolo scorso2, l’Architettura era ed è tuttora Arte, non Mestiere che si deve piegare ad esigenze di tutti i giorni. Nella concezione di Architettura che la Scuola, e quei maestri, mi avevano trasmesso, spettava infatti ad altre discipline la corrispondenza ai bisogni, alle utilità e necessità contingenti dell’uomo comune (un uomo storico e un uomo sociale!). In verità ciò non è accaduto quasi mai e l’Architettura si è dovuta arrendere non tanto alle “domande di progetto”, bensì a ben altre utilità rispetto alle idealità delle sue origini. Una interlocuzione sempre più orientata al concreto e alla sua immediata soluzione, a scapito della cosiddetta “qualità”, ovvero più propriamente del progetto di Architettura.
Parte
prima � ARCHITETTURA: STORIA CITTÀ E AVANGUARDIE
La lettura del percorso storico che le avanguardie hanno in qualche modo tentato di realizzare durante la seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX, ma volendo potremmo estenderci a tutti gli anni ’70 del XX, impatta direttamente con le grandi trasformazioni indotte dalla ormai compiuta organizzazione capitalistica della formazione economico-sociale.
In una intervista molto particolare Bob Dylan parla ancora di città sbagliate e di gente sbagliata1.
Con quest’ultima formazione economico-sociale si affacciano, forse per la prima volta nella storia del pensiero e delle arti figurative, ma anche in qualche modo nella storia dell’Architettura, rapporti di necessità tra struttura economica, organizzazione urbana e territoriale, arti e Architettura.
Come la città, d’ora in poi, diviene il luogo per eccellenza ove si rappresenta il capitale (la città-capitale ...) così le arti in genere e le avanguardie in particolare, come soggetti storici, si interrogano sui modi e sulle “forme” in grado di rappresentare questa nuova situazione.
Subito è chiara la necessità di darsi un destino, e, perché no, altrettanta necessità appare per la stessa Architettura, intesa qui come interpretazione dei fatti urbani, piuttosto che come costruzione2.
Da questo punto di vista il ruolo degli architetti si fa più complesso. Per un verso essi disegnano opere che interpretano (cioè giudicano e tentano di trasformare) la città, per altro essi realizzano (cioè
Afferma Tafuri6 a proposito di “dialettica dell’avanguardia”:
È a questo punto che l’Architettura può entrare in campo assorbendo e superando tutte le istanze delle avanguardie storiche; mettendole in crisi, anche, dato che è essa l’unica in grado di dare risposte reali alle esigenze poste dal cubismo, del futurismo, del Dadà, de Stijl, dal costruttivismo internazionale ...
Com’è evidente, pur con diversità di origine, e con diversità di intenti, la critica dell’ideologia architettonica assume connotati complessivi di giudizi sulla tradizione del movimento moderno, acquisito come fase suprema di una ideologia borghese della Architettura che “totalizza” la missione, il valore del disegno in quanto disegno del valore universale del ruolo dell’architetto, “ideologia del sociale” ...
Ma è Le Corbusier che, nell’urlo blasfemo di Ronchamp, fracassa principi, grammatica e sintassi razionalista”. Il disincanto è un atteggiamento libero da obblighi che non siano propri del nostro lavoro, che non appartengono alle sintassi dell’opera7.
Rimossi gli ideologismi, i miti divenuti riti, riaffermare una dimensione utopica del nostro fare può essere un nuovo momento di partenza. Un nuovo inizio, che origina il riappropriarsi della disciplina architettonica per quello che essa è e per il valore che il disegno può mantenere nel raccontare l’opera “nel tempo in cui si fa”.
Poiché la città che esiste e si trasforma, non è una totalità di terrains vagues o di fenomeni metropolitani ma invoca un continuo lavorio sul quel sistema di misura che rappresenta rispetto ad una formazione economico-sociale, storicamente determinata, poiché dunque non sono sufficienti richiami romantici (o nostalgici) a una epoca migliore di quella che viviamo, restiamo fedeli a noi stessi, forse senza maschere, solo “affidando all’Architettura tutta la dimensione urbana”8.
Le illustrazioni qui riportate, sono volutamente esemplari e sintetiche. Soprattutto si è voluto in qualche modo descrivere, con alcuni “archetipi classici”, che tutti possono riconoscere, e non particolarmente colti o ricercati nel linguaggio e/o nella prassi compositiva, una specie di prototipo di una pratica di progettazione fatta attraverso i tipi edilizi, e di una pratica di pianificazione urbana fatta attraverso distinti piani, di cui uno è la città, il cosiddetto tessuto urbano, l’altro sono i fatti urbani eccellenti, i cosiddetti monumenti.
Possiamo cioè distinguere distinte pratiche, distinti approcci e atteggiamenti dell’Architettura nel configurare il proprio lavoro storico. In modo schematico si potrebbe dire che per un verso l’Architettura appronta prototipi che riproduce indistintamente e indifferentemente, rispetto al tempo e allo spazio in cui si collocano. Ai prototipi si sovrappongono gli stili, poi i linguaggi, ma restano fermi i rapporti di necessità con il valore d’uso, e dunque il tipo è fortemente connesso alla sua funzione storica.
In questo senso il tipo edilizio assume una qualche soggettività nella pratica architettonica, una sua autonomia e ontologia.
In questo senso appare ancora corretta la definizione di G. Fabbri9 secondo cui «i caratteri del tipo sono un momento di sintesi del rapporto tra esperienza teorico-pratica della costruzione di manufatti e regole generali della costruzione della città».
Vi è cioè una lunga pratica di progetto “fatta per tipi”, secondo cui la città si “forma” con analogie autonome. È appunto il caso di sistemi urbani come quelli di Mileto, qui riportati, esemplificativi di tutta una serie di città dell’epoca classica, e successive, fino a prima della città capitale.
Ma questa pratica di costruzione urbana, queste “regole generali di costruzione della città” sono altresì visibili in Bari, Barcellona, Milano, Torino ecc., città che si costruiscono con “matrici” analoghe, con tipi che coincidono con la forma urbana, in un rapporto artificiale tra tipologia edilizia e morfologia urbana. Un tale rapporto non richiede opere significative, luoghi di identità forte. O meglio, la rottura delle regole di quel rapporto artificiale, consente di ricercare la possibilità di inserire “fuori-scala”, come luoghi speciali, altrettanto artificiali, (... ideali, meta-urbani ...).
Ci riferiamo in particolare alla successione delle piazze storiche di Torino, rispetto a un tessuto indistinto di isolati ripetuti, ma anche alla Avenida Diagonal, rispetto all’isolato-tipo di Cerdà, ma se vogliamo forzare il ragionamento potremmo parlare di piazza S. Marco per Venezia, come un tipico luogo fuori-scala e meta-urbano in una città reale fatta di tessuto normale, di impianto “gotico” realizzatosi con altre regole storiche.
Il tipo edilizio dunque è significativo di un atteggiamento di progetto che ancora nella Ville Radieuse, compare come regola di base per la costruzione urbana.
Si hanno peraltro città ove il tipo edilizio non riveste il ruolo di “matrice”. Possiamo citare Roma, Firenze, Madrid, Parigi, ecc.
Parte seconda
� ARCHITETTURA, CRITICA DELLA RAGION TECNICA
� Astrazione e disegno
L’Architettura è una astrazione, figurata dal suo disegno1.
Essa è la rappresentazione logica di un sistema di cambiamenti, che tendono ad un nuovo status delle cose da noi immaginate in modo predeterminato e organicamente compiute, questo è il disegno. Ciò che non è nella logica di Architettura è la concreta rappresentazione di se’ nello stato reale. In altri termini l’Architettura non sempre, anzi quasi mai diremmo, riesce a corrispondere alla nuova realtà che ha immaginato. Il mondo infatti cammina per sé e non attende le nostre azioni, sia quelle soggettive, sia quelle che il mondo stesso (ci) suggerisce. È nel dramma della contraddizione tra l’astrazione ed il cammino del mondo che si svolge l’Architettura.
Architettura è dunque una pratica di pensiero, più che un atto reale; pensare Architettura è il lavoro che il disegno ci aiuta a mostrare a noi stessi, e a tentare di rappresentarlo al mondo.
Il disegno costituisce il mezzo (in altri termini la tecnica), che tramandiamo per dare compiutezza a quel pensiero. In tal senso disegnare non ha tempo e spazi storici, è un atto assoluto, autonomo e totale.
In che consiste il disegno è il lavoro per ogni pensiero di Architettura. Ma di ciò si dirà poi. Ciò che possiamo altresì affermare secondo logica, è che l’Architettura, essendo astrazione, è un atto di sintesi di un pensiero critico del mondo, che tende a descrivere un “altro” mondo. In ciò il nostro agire, ovvero il nostro pensare, è la ricerca di una altra esistenza, che auspichiamo senza sapere come sia e forse senza volerne sapere compiutamente.