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MacroFaga 3/

20 08

Nel volume monografico

EUROPEIZZAZIONE SISTEMATICA Leone Riccardo / Sottilotta Giulia / Boggiani Ludovica Luca Mario / Vivirito Gaetano / Belletti Giulio

IN QUESTO NUMERO Mario Luca, Alberto Airoldi, Filippo Leccardi, Mattia Mantovani, Oriana Cravero, Marco Dondi, Emilio Bertin, Silvia Lumes, Riccardo Leone, Silvia Fiorello, Giulia Sottilotta, Davide Sarra, Martina Carraro, Gaetano Vivirito, Ludovica Boggiani, Giovanni Mazza, Giulio Belletti

GENOCIDIO NOVECENTESCO Alberto Airoldi, Mario Luca

CALPESTANDO BIRKENAU: VIAGGIO NELLA STORIA Dondi, Faletti, Pasquale

MACROFAGA: CONTRO IL GERME DEL FANATISMO Rivista Annuale Sped. a.p. - classe 3°E Liceo Antonelli Novara

Conioio 14,00 €


Rivista con una sola uscita e tiratura limitata. Direttore responsabile: Prof Giuse Ferolo Registrazione al tribunale di Novara. Ora non so più come riempire gli spazi vuoti perché dovrei scrivere del copyright E cose simili. Quindi, riporto un articolo di Giorgio Bocca, pubblicato su L’Espresso del 28 marzo 2008 Non c’entra molto con l’argomento della nostra pubblicazione, anzi. ma è comunque una riflessione interessante sul mondo moderno: Perché le mode, nei vestiti come nelle parole, si ripetono? Perché una parola diventa di moda e tutti la ripetono, senza noia, quasi con compiacimento? Due parole oggi di moda sono: 'allora' e 'assolutamente'. Allora è l'interiezione che condisce tutti i quiz, tutte le interviste. Il concorrente, anche se la risposta è facilissima, anche se gli brillano gli occhi perché l'ha indovinata, finge di rifletterci e prende tempo con un 'allora', parola che gli dà subito un visibile sollievo. Allora per dire: "Vedi come sono riflessivo? Non rispondo a vanvera, vengo da un villaggio del meridione o del Veneto, ma non mi faccio impressionare dalla televisione". Allora per dire: "Guardate che io non ho paura, non mi confondo, anche se milioni di spettatori mi osservano". Allora ha liberato gli italiani dal loro complesso di inferiorità. Il passaggio da allora a assolutamente, e poi ad assolutamente sì, è nella logica dell'autoassicurazione, prima esitante e poi totale: "Conferma la sua risposta?". "Assolutamente sì". In un recente passato abbiamo avuto altre parole di grandissima moda. Una, subito adottata in tutti gli uffici, era 'attimino', a qualsiasi domanda l'impiegato rispondeva 'un attimino'. Quale era il sotteso significato? 'Non so', 'non c'è', 'non posso disturbarlo', 'come vede siamo molto occupati, ma provvederemo', 'devo sapere se il dottore vuol parlarle'. A questo punto quasi sempre dopo l'attimino veniva la sentenza definitiva: 'il dottore è in riunione'. Un'altra interiezione famosa era 'in prima persona', che apparteneva culturalmente alla sinistra. Che cosa voleva dire in prima persona? Credo 'sulla mia pelle', o 'per esperienza diretta'. Tra i marxisti forse s'intendeva anche 'per esperienza di classe', famosissima e scopertamente interlocutoria, fatta per riempire i vuoti d'intelligenza e di memoria, per continuare un intervento in assemblea, o comunque, come si diceva con un altro luogo comune, 'per girare la polenta'. Da sempre il linguaggio umano abbonda di luoghi comuni, ma nella modernità dominata dalla tecnica e dalle specializzazioni il luogo comune sembra l'unico modo per capirsi, per esprimersi. Prendete i calciatori famosi: sono ricchi, eleganti, smaliziati, ma non sanno parlare, le loro interviste procedono faticosamente per luoghi comuni del tipo: 'quel che conta è il gruppo', 'dobbiamo crederci', 'la voglia di vincere', 'non mollare mai'. Non c'è verso di fargli fare un discorso articolato tra emozioni e ragionamenti, eppure chi ha praticato uno sport di squadra sa quanto siano intrecciati e misteriosi gli stati d'animo collettivi che passano dall'individuo, dal campione, al gruppo, le improvvise euforie come gli improvvisi cedimenti. Non parliamo dei politici, che dovrebbero conoscere e usare la lingua come il principale dei ferri del loro mestiere. Ma la modernità dei linguaggi specializzati ignora la lingua colta, sono scomparse le scuole di retorica, di oratoria, persino gli avvocati la ignorano. Oggi la scuola di tutti è la pubblicità, arrivata a ignorare completamente la lingua, e a sostituirla con le immagini. Guardo sempre con stupore i più recenti annunci pubblicitari che credono di poter fare a meno della lingua. In uno, dopo una serie di immagini catastrofiche, uragani, terremoti, incendi, arriva a sorpresa il comunicato pubblicitario finale: l'invito a comprare un'automobile di lusso. L'uso del luogo comune potrà sembrare un peccato veniale, una perdonabile pigrizia, ma l'accidia sta tra i peccati mortali. La pigrizia nel modo di parlare, di comunicare, di esprimersi, diventa inevitabilmente pigrizia nel modo di pensare, ed è proprio questa mancanza di pensiero, di dialettica, che rende opaco e triste il nostro modo di vivere la modernità. Il più ripetuto tra i luoghi comuni è 'rilassarsi', e uno spot precisava 'contro il logorio della vita moderna', ma rilassarsi al punto di non far più la fatica di esprimersi sembra esagerato.


MacroFaga Europeizzazione sistematica

E forza europa! Che siamo tantissimi!

direttore: Giuseppina Ferolo con la consulenza di: Mario Luca

in redazione: le classi 3°E, 4°E, 5°E, 4°D del LSS A. Antonelli

Cessate d'uccidere i morti, /Non gridate più, non gridate /Se li volete ancora udire, / Se sperate di non perire. / Hanno l'impercettibile sussurro, / Non fanno più rumore / Del crescere dell'erba, / Lieta dove non passa l'uomo. Giuseppe Ungaretti


S O M M A R I O A PIÙ VOCI

Mario Luca, Alberto Airoldi, Filippo Leccardi, Mantovani Mattia, Oriana Cravero, Marco Dondi, Emilio Bertin, Silvia Lumes, Riccardo Leone, Silvia Fiorello, Giulia Sottilotta, Davide Sarra, Martina Carraro Gaetano Vivirito, Ludovica Boggiani,

Giovanni Mazza, Giulio Belletti Shoah Armena 3

APPROFONDENDO Dondi, Faletti, Pasquale Amos Oz ed il fanatismo 28 VIAGGIO Mario Luca, Alberto Airoldi Calpestando Birkenau. 39 CONCLUDENDO Lucia Barcellini Piccolo dialogo sulla tolleranza 49

Macrofaga n. 3/2008 Direttore responsabile: Giuseppina Ferolo Registrazione al tribunale di Novara n.911/08

certosino responsabile impaginazione: Mario Luca direttore responsabile: Giuseppina Ferolo MacroFaga, via Toscana 14, 28100 Novara, c/o Liceo Scientifico Statale A. Antonelli diretto dal professor Giuliano Ladolfi per gli abbonamenti non preoccuparsi tanto è un’edizione unica dato che non è che partecipiamo a mille mila concorsi al minuto, quando pubblichiamo un volume all’anno ce n’è fin che mai posso scrivere quello che voglio in queste righe tanto nessuno le leggerà mai e servono solo a riempire la pagina. Quindi vi auguro buona lettura

Finito di stampare il 02/06/08 dalla stampante dell’aula di informatica del Liceo Antonelli, Novara.


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SHOAH ARMENA Compare solo in qualche libro di Storia il tragico resoconto del genocidio armeno. Non possiamo non parlarne e non cercare di dare voce alle vittime di uno dei massacri più grandi e più celati dalla coltre della Dimenticanza. Perché fa troppo comodo parlare di Europa, diritti, Passato, senza citare la carneficina tutt’ora non riconosciuta. Partendo dai fatti, arrivando alle testimonianze. MARIO LUCA, ALBERTO AIROLDI, FILIPPO LECCARDI, MATTIA MANTOVANI, ORIANA CRAVERO, MARCO DONDI, EMILIO BERTIN, SILVIA LUMES, RICCARDO LEONE, SILVIA FIORELLO, GIULIA SOTTILOTTA, DAVIDE SARRA, MARTINA CARRARO, GAETANO VIVIRITO, LUDOVICA BOGGIANI, GIOVANNI MAZZA, GIULIO BELLETTI CRONOLOGIA DELLA STORIA ARMENA ALBERTO AIROLDI, FILIPPO LECCARDI Non possiamo affermare con certezza quale fosse il luogo d’origine della popolazione armena, ma lo si potrebbe far coincidere con le regione ad est dell’Asia Minore, popolate in un periodo compreso tra il XIII secolo a.C. e il 700 d.C., anno dopo il quale gli armeni furono spinti ad Oriente a causa delle invasioni dei Cimmeri. Solo agli inizi del VI secolo a.C. i popoli confinanti iniziarono a definire quel territorio, che all’apice della sua potenza, tra il 95 a.C. e il 65 a.C. si


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estendeva dalla parte settentrionale del Caucaso alla parte orientale dell’odierna Turchia, come Armenia. Questo stato fu il primo ad adottare come religione ufficiale il Cristianesimo, nel 301 d.C., addirittura prima dell’Editto di Costantino (313 d.C.). Tra il V e il XIX secolo la storia Armena alterna periodi di indipendenza a periodi di conquista da parte di altri popoli: Persiani, Bizantini, Arabi, Mongoli, Mamelucchi e Ottomani. Nell'885 gli Armeni si organizzarono tuttavia come un'entità sovrana sotto la guida di Ashot I della dinastia Bagratuni o Bagratide, in seguito nel 1080 essi formarono un principato armeno indipendente, il futuro regno di Cilicia, uno dei focolari del nazionalismo armeno. Negli anni tra il 1820 e il 1830 parti dell’Armenia che erano sotto il controllo Persiano (Yerevan e il lago Sevan) furono incorporate dall’impero russo. Nel 1890 sul territorio dell’impero Ottomano si contavano circa 2 milioni di Armeni per la maggior parte cristiani orientali o cattolici, sostenuti dalla Russia nella lotta per l’indipendenza poiché la Russia mirava ad indebolire l’impero Ottomano per annettere dei territori ed eventualmente Costantinopoli. Per reprimere il movimento autonomista armeno , il governo ottomano diffuse fra i Curdi, che abitavano il territorio dell’Armenia storica, sentimenti di odio anti-armeno. L’aumento delle tasse, imposto dal governo turco e l’oppressione che dovettero subire, portò gli armeni alla rivolta, alla quale l’esercito Ottomano spalleggiato da milizie irregolari Curde, rispose assassinando migliaia di armeni e bruciandone i villaggi, nel 1894. In seguito all’occupazione da parte di alcuni rivoluzionari armeni della banca Ottomana ad Istanbul, in un pogrom (sommosse popolari di carattere razzista) anti-armeno da parte dei turchi islamici persero la vita circa 50'000 armeni. In seguito, nel periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale, era succeduto all’Impero Ottomano il governo dei Giovani Turchi, i quali temevano che gli armeni potessero allearsi con i loro principali nemici: i Russi. Nel 1915 alcuni battaglioni armeni arruolati nell’esercito russo iniziarono a reclutare soldati che in precedenza avevano militato nell’esercito ottomano. Allo stesso tempo l’esercito francese finanziava e armava gli armeni stessi, incitandoli alla rivolta contro il nascente potere repubblicano che sorgerà ufficialmente nel 1923. Giustificando i propri atti come reazione ad una minaccia al nascente e ancora debole stato, i Giovani Turchi procedettero all’esecuzione di 300 nazionalisti armeni e ordinarono di deportare gran parte di questo popolo dall’Anatolia, dove abitavano da millenni verso i deserti della Siria e della Mesopotamia. Questa diaspora, con le cosiddette “Marce della Morte” che coinvolsero 1.200.000 persone, ne portarono alla morte centinai di migliaia per fame,malattia o sfinimento, e altrettante furono massacrate dalla milizia Curda e dall’esercito Turco. Nel 1991, l'Armenia si dichiarò indipendente dall'URSS e formò la Seconda Repubblica Armena.

Filmografia • Ravished Armenia, di Oscar Apfel (1919) Mayrig, di Henri Verneuil (1991) Quella strada chiamata paradiso, di Henri Verneuil (1992), seguito del precedente Ararat, di Atom Egoyan (2002) Screamers di Carla Garapedian (2006), documentario


La masseria delle allodole, di Paolo e Vittorio Taviani (2007), basato sul romanzo omonimo di Antonia Arslan Bibliografia Antonia Arslan, La masseria delle allodole, ed. BUR, 2007, • Guenter Lewy, Il massacro degli armeni, Einaudi, 2006, • Taner Akçam, Nazionalismo turco e genocidio armeno. Dall'Impero ottomano alla Repubblica, ed. Guerini e Associati, 2005 • Marco Impagliazzo, Una finestra sul massacro. Documenti inediti sulla strage degli armeni (1915-1916), ed. Guerini e Associati, 2000 • Marcello Flores, Il genocidio degli armeni, ed. Il Mulino, 2007 • Alice Tachdjian Polgrossi, Pietre sul cuore. Diario di Varvar, una bambina scampata al genocidio degli armeni, ed. Sperling & Kupfer, 2006, • E. Miller Donald e Lorna Touryan Miller, Survivors. Il genocidio degli armeni raccontato da chi allora era bambino, ed. Guerini e Associati, 2007, Diego Cimara, Il genocidio turco degli armeni, ed. Editing (Treviso), 2006, • Alberto Rosselli, L' olocausto armeno, ed. Solfanelli, 2007, • N. Dadrian Vahakn, Storia del genocidio armeno. Conflitti nazionali dai Balcani al Caucaso, ed. Guerini e Associati, 2003 • Franz Werfel, I quaranta giorni del Mussa Dagh, ed. Corbaccio, 2003 1915: Yüzleşme -- Gerçeği Unutan Yıl (1915: Confronto - l'anno che dimenticò la verità), Maggio 2004, Atlas Dergisi, İstanbul. Paolo Cossi "Medz Yeghern, Il Grande Male".

LA NEGAZIONE DEL GENOCIDIO ARMENO ORIANA CRAVERO A differenza dell’olocausto ebraico,che è stato riconosciuto e condannato dai tedeschi, quello armeno non è stato né riconosciuto né condannato da parte dell’attuale Turchia, che anzi continua a negare il fatto che sia mai avvenuto. La Turchia vuole mistificare la storia e far tacere tutti coloro che, soprattutto nel mondo occidentale, reclamano giustizia per gli armeni e chiedono che il genocidio venga riconosciuto in quanto tale dai vari paesi e in particolare dalla Turchia. Ancora oggi spende ingenti somme di denaro per corrompere politici, studiosi, giornalisti, affinché neghino che vi sia mai stato un genocidio armeno. Negli ultimi tempi sono anche stati messi in circolazione dei falsi documenti storici per depistare le ricerche degli studiosi del genocidio. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha introdotto l’obbligo dell’insegnamento, sulla base della mistificazione della storia e della negazione del genocidio degli armeni e dello sterminio dei greci del Ponto e degli assiro-caldei. Oltre a tutto ciò, a Istambul e ad Ankara vie e piazze sono state intitolate ad alcun dei principali responsabili dello sterminio. In onore di uno di essi, Talaat Pascià, ministro dell’interno turco che nel 1915 aveva ordinato,per decisione del Governo, lo sterminio degli armeni “senza discriminazioni per il sesso e l’età e senza dar ascolto alla coscienza” , è stato eretto a Istambul un mausoleo. Ma nonostante la negazione della Turchia e le sue reticenze, lo sterminio armeno è un dato di fatto incontestabile, ampiamente documentato, oltre che dalle narrazioni dei superstiti, anche

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da parte di testimoni stranieri ed imparziali quali l'ambasciatore americano Morgenthau ed altri diplomatici statunitensi,gli inglesi Lord Bryce e A. Toynbee,lo scrittore e filantropo tedesco Armin Wegner, il francese Henri Barby, e, non ultimo, il console d'Italia a Ttrebisonda, Gorrini,per citare solo alcuni dei più noti. Negli archivi americani, inglesi, francesi, tedeschi ed austriaci c'è poi una ricca documentazione al riguardo. Infine vi sono i documenti di diretta provenienza turca, prodotti dalla corte marziale convocata per giudicare i responsabili del genocidio. Tutta questa documentazione non lascia ombra di dubbio sul fatto che gli Armeni abbiano subito un genocidio organizzato da parte del governo turco. Il termine stesso "genocidio" è stato creato all'inizio degli anni '40 dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin che ha coniato questa parola proprio in seguito all'impressione subita nell'apprendere le modalità dello sterminio degli Armeni. Il riconoscimento del genocidio armeno e la sua condanna non costituiscono un problema storico particolare riguardante gli Armeni soltanto, ma rivestono principalmente un carattere politico ed etico molto più generale, che coinvolge molte altre nazioni, che si sentirebbero sicuramente minacciate da una Turchia che ad una tradizione militarista e ad una notevole carica demografica unisce uno spirito a tal punto espansionista da non rinnegare la pratica dello sterminio di altri popoli pur di raggiungere i propri obiettivi territoriali. Difatti la negazione del genocidio costituisce tuttora un pericoloso precedente che da un lato, nel recente passato, ha servito da alibi a Hitler per organizzare l'Olocausto nel corso della Seconda Guerra Mondiale e da un altro lato, successivamente, ha fatto da battistrada alla sua negazione da parte dei cosiddetti storici revisionisti. E' evidente che fin tanto che il genocidio armeno non verrà ufficialmente condannato, esso costituirà un esempio negativo che potrà incoraggiare altri a compiere simili crimini ed in primis la Turchia, Stato con velleità espansionistiche e perenne candidato all'adesione all'Unione Europea. Non per nulla il Parlamento Europeo, con la risoluzione del 18 giugno 1987, ha posto come precondizione per l'adesione della Turchia all'Unione Europea, il riconoscimento del genocidio armeno da parte dello Stato turco. Riconoscere il genocidio armeno non è quindi un atto di ostilità verso la Turchia, al contrario, poiché è stato proprio in seguito al riconoscimento del genocidio armeno da parte dei parlamenti di vari paesi che in Turchia è iniziato un movimento di condanna dello sterminio da parte di un gruppo sempre più numeroso di intellettuali, che si spera spingano la Turchia a riconoscersi sempre di più nei valori fondamentali sui quali è basata l'Unione Europea.


LA STRAGE MARCO DONDI All'epoca del censimento del 1927 dopo la mattanza, gli armeni saranno 123.000. Gli armeni, come le altre confessioni discendenti da Abramo, sono per i mussulmani infedeli protetti perché gente del Libro (Bibbia). La protezione mussulmana naturalmente costa (tasse aggiuntive), ed è carica di divieti per questa comunità considerata più fedele delle altre. Quando l'impero ottomano inizia a sfaldarsi gli armeni tuchi riescono ad ottenere (1863) la qualifica di nazione religiosa ma non politica. Con l'ultima disastrosa guerra con la Russia del 1878, che porta all'indipendenza di molti stati balcanici, si inizia a parlare nel trattato di Berlino del problema armeno. Si vuole evitare che la Russia, con la protezione delle zone caucasiche abitate anche da armeni, si espanda verso il medio oriente via dei nuovi traffici marittimi (apertura canale di Suez) e ricco di un nuovo prodotto chiamato petrolio. Nasce un partito clandestino, Federazione Rivoluzionaria Armena che scatena coi suoi adepti (fedais) una rivolta (pogrom) repressa nel sangue (80.000 morti). Questi rivoluzionari (marxisti) non sono ben visti dalla Russia zarista e il loro integralismo non è ben visto neanche in occidente. Altri disordini da settembre 1895 a gennaio 1896 provocano la morte di 50.000 persone. Si distinguono nelle repressioni i Curdi, che la sublime porta considera i più fedeli cani da guardia (cavalleria Hamidjie). Altre rivolte fino al 1908 provocano un totale finale di circa 300.000 morti. Il 1908 rappresenta una svolta nell'impero, poiché un gruppo di giovani ufficiali con un golpe impone al sultano Abdul Hamid il ripristino della costituzione, temporaneamente concessa nel 1876. Dalle urne usciranno 262 deputati di cui 10 armeni. Principali rappresentanti della rivoluzione due ufficiali Enver Bey, Jemal Bey, e un impiegato delle poste Talat, che diventeranno tristemente famosi come il triumvirato della morte. I tentativi del sultano di rovesciare il parlamento non vanno a buon fine e alla fine non gli resta che abdicare a favore del fratello MaomettoV. Nella repressione della controrivoluzione, a Adana, ci vanno di mezzo anche gli armeni che non stavano parteggiando per nessuna delle parti. La Turchia sta perdendo tutta l'Africa Settentrionale, Creta, la Bosnia, Rodi. Nel 1913 i rivoluzionari spazzano via gli ultimi uomini del sultano per occupare i centri di potere e chiamano l'anno dopo al comando dell'esercito un tedesco Liman Von Sanders. La Germania da tempo corteggia i Turchi e spende soldi per la ferrovia Berlino-Baghdad. Il nuovo alleato, sono sicuri, non dirà loro di no allo scoppio dell'immane conflitto. La guerra contro la Russia dovrebbe convenire anche a loro. Agli Armeni viene chiesto di fare da guida per l'attraversamento del Caucaso, che conoscono bene come loro patria d'origine, onde battere lo Zar alle spalle con l'aiuto degli Armeni Russi. Ricompensa: uno stato vassallo a guerra finita. Gli armeni russi si arruolano però nell'esercito zarista e altrettanto fanno diversi armeni turchi. Il 16 novembre 1914 viene lanciata la Jihad guerra santa contro gli infedeli. Un mese dopo un'armata turca avanza verso il Caucaso incurante dell'inverno. Sarà una strage per i turchi che fuggono inseguiti dalle armate dello Zar. I

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russi invadono anche parzialmente e temporaneamente le province (vilayet) armene di Van, dove il prefetto era il cognato d'Enver Bey (lo chiamavano maniscalco per lo stesso trattamento, in uso per i cavalli, fatto agli Armeni), Erzurum e Bitlis. I turchi accuseranno gli armeni di tradimento e sabotaggio e gli armeni risponderanno con pogrom e razzie. I soldati armeni dell'esercito turco (circa 300.000) vengono disarmati ed avviati al lavoro forzato. Di loro non si saprà più nulla. In aprile nei Vilayet scoppiano rivolte represse come sempre. Sabato 24 aprile 1915 i gendarmi compiono una retata contro la borghesia armena di città. Spariscono secondo alcuni circa 2.000 persone. Un decreto "Evacuazione necessaria dalle zone di guerra" da il via a sei mesi di genocidi. Gli armeni vengono invitati a lasciare le loro case con destinazione provvisoria deserto arabo siriano. E' una marcia della morte, una battaglia per restare in vita, contro il caldo, la sete e gli attacchi di regolari e non. In pochissimi arriveranno a destinazione. Dei fatti barbarici riportano relazioni fatte ai propri governi, sia i tedeschi che gli americani non ancora in guerra. Si salvano solo gli Armeni rifugiatisi in Russia, quelli di città nascondendosi (li chiamavano l'armata dei granai -solai) e quelli di Mussa Dagh (5.000) nella baia d'Antiochia, messi in salvo dai Francesi dopo 53 giorni d'assedio. In Germania esce nelle librerie per pochi giorni un rapporto sui massacri subito ritirato dal Governo per la protesta ufficiale dell'ambasciatore turco e per non guastare l'alleanza. In Inghilterra esce il "Libro Blu" (ufficiale) di denuncia, con prefazione d'Arnold Toynbee. Il 30 ottobre 1918, a guerra persa, a bordo della Lorelei fuggono diversi ministri escluso Talat. L'11 giugno 1919 il nuovo Gran Vizir (primo ministro) turco sentito a Parigi alla conferenza di pace conferma che gli armeni morti sono almeno 800.000. Forte del fatto che in Turchia si sta svolgendo un processo a carico del precedente regime, spera in un trattamento di favore ma è invitato invece seduta stante ad abbandonare il paese entro 48 ore. Il capo dei servizi segreti Aziz Bey ha provveduto a bruciare tutti gli archivi, e quel poco che giunge sui tavoli del processo è ugualmente agghiacciante. I processi porteranno a 1400 condanne di cui molte a morte ma non eseguite. I nazionalisti Armeni non sono disposti a voltar pagina. Ha inizio l'operazione "Nemesi" dei giustizieri armeni che colpiranno in Europa i principali responsabili della strage. In Turchia si fa intanto avanti un "Giovane Ufficiale" non coinvolto col passato regime di nome Mustafà Kemal Pascia, più noto come occhi di tigre o Ataturk (padre dei turchi). La sua azione militare contro le potenze occidentali libera il paese e cancella l'ultimo sogno d'indipendenza Armeno. Lenin nel 1918 aveva autorizzato la nascita di una federazione transcaucasica con tre stati indipendenti Georgia, Armenia, Azerbaigian. Il trattato di Sevres del 1920 prevede ancora uno Stato armeno, i cui confini dovrebbero essere disegnati da Wilson. Il sogno è breve: due anni dopo Kemal si accorda con Lenin. L'Armenia turca torna alla Turchia e le repubbliche caucasiche dentro la Federazione Russa. Svanisce qui anche il progetto della Georgia colonia italiana. D'ora in poi si negherà perfino l'esistenza del problema armeno. Gli storici riduzionisti o revisionisti ridussero tutto a reazione da provocazione. Toynbee, già bollato di propaganda, scriverà correggendo il tiro "…Una calcolata brutalità al fine di massimizzare il numero dei morti......ma non è detto


LA BASTARDA DI ISTAMBUL MARCO DONDI La bastarda di Istanbul La storia è intricata e parte da lontano: da San Francisco, dove vive la diciannovenne Armanoush, figlia di un’americana e un armeno, discendente da una famiglia superstite del genocidio 1915, quando più di un milione di armeni fu sterminato dai turchi. Rose, la madre di Armanoush, si è poi risposata con un giovane di origine turca, Mustafa. La figlia si trova quindi nel bel mezzo di un conflitto d’identità storica, e quando questo pensiero inizia a farsi troppo pesante decide di partire di nascosto per Istanbul, alla ricerca delle proprie radici armene, ma anche del confronto con il popolo turco, amato e odiato. Si fa dunque ospitare dall’eccentrica famiglia del patrigno, e lentamente costruisce un legame con l’ombrosa cugina Asya. E’ quest’ultima la “bastarda”: figlia illegittima cresciuta in una famiglia di sole donne, ignora il suo passato e le sue origini, e finisce per essere affascinata dalle ricerche di Armanoush. E’ proprio Asya a condurci nella Istambul sconosciuta: quella piena di contraddizioni fra la modernità e la tradizione, fra Oriente e Occidente, fra il mercato delle spezie e le cliniche private, fra la religione musulmana, quella cristiana e le sotterranee forme residue di paganesimo; quella dei bar decadenti dove si beve birra avvolti da una nube di fumo. Quella Istanbul che vuole guardare avanti, e del passato, inclusa la questione armena, non conserva memoria. Una Istanbul che può solo farsi amare, che colpisce Armanoush senza ferirla, e la lascia tornare a casa arricchita di una visione del mondo del tutto nuova.

L'autrice (nata a Strasburgo, vive tra l'America e Istanbul) sembra voler rifuggire da qualsiasi schema identitario, ed è nota in Italia per un libro che, in Turchia, ha rischiato una condanna. Reato d'opinione per aver parlato, lei come altri (si pensi al nobel Pamuk di cui è buona amica), della strage rimossa degli armeni. Ma non è solo per questo che il suo «La bastarda di Istanbul», che è un po' dunque lei stessa e la sua scrittura nomade, non è piaciuto alla critica ufficiale. Le hanno contestato il fatto di scrivere in inglese o di usare parole che non si usano più in un paese proiettato dentro la modernità e dove, per molti, le radici e i confini hanno senso soltanto come identità nazionale e non come racconto a tutto campo del bene e del male di un popolo. Le hanno detto che è una donna senza radici. Elif, leggendo un brano inedito scritto apposta per la performance romana, comincia proprio dalle radici: il sacro Corano, racconta, dice che «in paradiso c'è un albero molto particolare chiamato Tuba. Si dice che cresca capovolto, con le radici rivolte in aria....Proprio come per gli alberi, ciò che permette agli esseri umani di crescere e sopravvivere sono le radici. Ma a differenza di quelle degli alberi, le radici degli esseri umani possono viaggiare». Il suo non avere radici, o meglio averle rivolte all'aria, significa essere liberi. Liberi di raccontare. Elif Shafak ha fatto un grande lavoro sulla memoria, rielaborando molto, racconta, di quello che usciva dalle lunghe frequentazioni con le sue due nonne quand'era bambina. L'una le parlava di un Dio terribile che ci guarda e ci giudica. La sera, andando a letto, Elif aveva dunque vergogna di spogliarsi, pensando a quell'occhio soprannaturale che tutto vede e punisce. Ma l'altra nonna, figlia del mondo esoterico in cui buona parte dell'islam e della tradizione sufi affonda le radici, le diceva che in realtà Allah tutto vede - è varo - ma a volte socchiude lentamente le palpebre e ci permette dunque di vivere, sognare, viaggiare.

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raccontare, raccontarsi, con quella voce esile, Shafak 10 Nel non vuole però giustificarsi o difendersi da chi la accusa di essere una cattiva musulmana o una cattiva turca o una cattiva ragazza bastarda. Elif è di quelle donne che si preoccupano di una cultura della paura che si oppone a una cultura dell'amore, rappresentate dalle due nonne, in un certo senso, ma soprattutto dal prevalere di un pensiero corrente, identitario e riduttivo, che vive di contrapposizioni di cui, la più evidente, è quella tra Oriente e Occidente. Schizofrenia e contrapposizione senza senso, aggiunge, se, come è chiaro, oriente e occidente sono solo punti di vista. Un nomade lo sa. Basta cambiare punto d'osservazione. «E' possibile essere multiculturali - dice - multilingue e si, anche multireligione. Noi scrittori - e questo è il suo messaggio - possiamo fare la spola fra diverse culture». Facile? «Il mondo non è d'accordo - spiega la sua esile voce - e viviamo in una società sempre più divisa, in cui il numero di persone che crede allo "scontro di civiltà" tra islam e Occidente è in continuo incremento. Prese di posizione rigide e di stampo fondamentalista in un paese provocano il proliferare del fondamentalismo altrove. Le categorie "Oriente" e "Occidente" vengono utilizzate come se si escludessero a vicenda. Definizioni in continuo mutamento diventano statiche, eterne». La guerra di Shafak contro l'omologazione culturale comincia da qui. Una guerra combattuta con la penna e il computer e con uno stile che - dice - cerca di essere fluido: come l'acqua. «Non sono certa - aggiunge - di essere riuscita a seguire il sentiero dell'acqua in fatto di amore e di fede ma di certo l'acqua è il modello della mia scrittura». Già, l'acqua, quella che serve a innaffiare e a nutrire le radici delle piante. Ma quelle di Elif restano rivolte in aria. Metafore. «Un albero con le radici rivolte in aria, una soglia che anela a confondere e a trascendere i confini, e la carovana dell'amore che ha bisogno di identificarsi con l'Altro e di comprenderlo... sono queste - conclude - le metafore che alimentano la mia scrittura».

COSA NE HANNO DETTO SILVIA LUMES Il genocidio degli armeni è stato considerato da molti storici uno dei prototipi dei genocidi del ventesimo secolo. L'espressione Genocidio armeno si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo è relativo alla campagna contro gli armeni condotta dal sultano ottomano AbdulHamid II negli anni 1894-1896; il secondo è collegato alla deportazione ed eliminazione di armeni compiuta dal governo dei Giovani Turchi negli anni 1915-1916. Molti giornalisti si sono occupati della vicenda, soprattutto negli ultimi anni quando la Turchia ha chiesto di entrare a far parte dell’Unione Europea. In particolare l’UE ha penosamente messo in disparte un documento che riconosceva e commemorava il genocidio di questo popolo dopo le proteste del governo turco che ha sempre taciuto e negato l’argomento. Qui di seguito sono riportati alcuni articoli che parlano della questione armena.


Marina GERSONY Ecco le nuove vittime del genocidio armeno tratto da: Il Giornale, 5.10.2005.

"Novanta anni. Tanti ne sono passati da quel 24 aprile del 1915 allorché, nella notte, sotto il cielo di Istambul, l'intera intellighenzia politica, economica, commerciale di sangue armeno venne, silenziosamente, eliminata. Un milione e cinquecentomila armeni vennero sterminati in quello che è stato riconosciuto come il primo genocidio del XX secolo". Con queste parole le comunità armene di tutto il mondo ricordano il "genocidio dimenticato", il Medz Yeghern (o Metz Jeghern), ovvero "Il Grande Male". Il 24 aprile è la data ufficiale per la commemorazione. Una tragedia raccontata in molti saggi e romanzi, tra cui ricordiamo: Lo stato criminale di Yves Ternon; La masseria delle allodole di Atonia Arslan; le testimonianze fotografiche di Armin Wegner; Breve storia del genocidio armeno di Claude Mutafian e Metz Yeghern (o Metz Jeghern); I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel; Diario di un viaggio in Armenia di Alice Tachdjian Polgrossi e tutti i libri di Pietro Kuciukian sull'argomento Dopo giorni di trattative e di equilibrismi diplomatici, l'Unione Europea ha aperto i negoziati per l'adesione della Turchia, prevista tra almeno un decennio. Così, tra umori oscillanti e bizantinismi di circostanza, si apre un nuovo capitolo della vicenda turco-europea. Però. Però rimane sempre sospesa la questione sul riconoscimento del genocidio, eterno nervo scoperto di Ankara che nega, maschera e rimuove. Gli armeni - sostenuti da buona parte della comunità internazionale - sostengono che nel 191516 l'impero ottomano sterminò 1,5 milioni di loro concittadini che morirono di stenti durante la deportazione dall'Anatolia o uccisi da bande armate organizzate. La Turchia invece respinge la definizione di "genocidio" e dichiara che in quegli anni di armeni ne morirono "solo" 300 mila, meno di quanti furono i turchi uccisi in scontri popolari tra turchi e armeni. (A distanza di novant'anni, il gergo ufficiale di Ankara parla ancora del "sözde ermeni soykirim", il "cosiddetto" genocidio armeno). Alla luce di questo e altro, il clima si è fatto rovente soprattutto fra quegli

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turchi (perché di autori armeni che hanno scritto sull'argomento ce ne sono diver12 intellettuali si), decisi a dire la loro in nome di una letteratura all'insegna della verità e dell'impegno civile. Mentre sui muri di Istanbul capita di vedere degli striscioni con la scritta "Il genocidio degli armeni è una menzogna internazionale" sulla falsa riga di simpatici negazionisti alla David Irwing (sua è la poesiola dedicata alla figlioletta Jessica: "I am a baby Aryan/Not Jewish or sectarian/I have no plans to marry an Ape or Rastafarian"), spuntano i casi come quello recente di Orhan Pamuk, classe 1952, l'"occidentale" colpevole per Ankara di alcune dichiarazioni oltraggiose per l'identità nazionale. Il più famoso scrittore turco - l'ultimo romanzo s'intitola "Neve", Einaudi, mentre con "Il mio nome è Rosso" ha vinto il Grinzane nel 2002 - oltre alle minacce di morte rischia fino a tre anni di galera per aver "rivelato" a un quotidiano svizzero «che trentamila curdi e un milione di armeni sono stati uccisi dalle nostre parti e quasi nessuno osa parlarne: dunque ci provo io». L'accusa che gli è sttata rivolta è di aver violato la censura a norma dell'articolo 301/1 del codice penale secondo cui «chi insulta i turchi, la Repubblica, l'Assemblea o l'identità nazionale va in cella per 36 mesi». Oggi in patria tutti lo evitano, qualche zelante burocrate ha ordinato il sequestro e l'incendio dei suoi volumi (Kristallnacht docet) e in Europa qualcuno cavalca l'onda e parla di lui come papabile Nobel. Intanto rimangono da leggere i suoi libri, uno fra tutti "La casa del silenzio", dove racconta un'Istanbul antica e moderna, con tutte

le lacerazioni e contraddizioni di una metropoli dei giorni nostri. Orhan Pamuk è solo uno degli scrittori che hanno "osato" discutere la questione armena di fronte all'opinione pubblica: se da un lato il governo di Erdogan ha proposto di recente di creare una commissione congiunta per arrivare a una conclusione sul tema del genocidio, allo stesso tempo ha intensificato il numero di processi contro pubblicazioni che nominano il genocidio armeno. Sgradito in patria è lo storico turco Taner Akçam, condannato alla reclusione sempre per lo stesso motivo, cioè per avere dichiarato che lo sterminio degli armeni in Turchia è stato un genocidio. Nel 2000 fu lui a lanciare un nuovo approccio alla "ermeni sorunu" (la Questione armena) nel suo libro "Svelando il tabù armeno", in cui difendeva la legittimità di parlare del


genocidio e aprendo la via al dialogo. La reazione della stampa locale e degli schieramenti politici turchi fu tiepida per non dire ostile, il libro vendette sì e no un migliaio di copie, ma quello fu lo sprone per altri intellettuali a scendere in piazza. Un altro esponente del dissenso è Ragip Zarakolu, editore che da anni ha sfidato i rigori della legislazione turca pubblicando testi sul massacro armeno, la questione curda e i diritti umani (per diritti s'intendono le condizioni agghiaccianti in cui vivono i reclusi nelle prigioni e nei manicomi turchi). Dopo "I quaranta giorni del Mussa Dagh" di Franz Werfel, Zarakolu ha iniziato un'intensa attività editoriale che lo ha portato a pubblicare una serie di titoli sgraditissimi ad Ankara: non ultimo il libro di George Jerjian "The Truth will set us free", per il quale è stato citato in giudizio lo scorso marzo dalla seconda corte penale di Sultanhamet, a Istanbul, con l'accusa di violazione del codice penale. Nel calderone di chi si oppone, spunta anche il nome dello storico Hilmar Kaiser, che turco non è bensì tedesco, il quale ha effettuato delle ricerche sul genocidio in più di trenta archivi del Medio Oriente, in Europa e Usa. Aveva lavorato anche negli archivi ottomani prima di essere espulso dalle autorità turche nel 1996 per motivi "politici". Ritornato sul "luogo del delitto", ha scoperto nuovi documenti provanti la veridicità dei fatti, anche se «certe collezioni degli archivi ottomani del primo ministro turco rimangono inaccessibili». Come dire, i negoziati sono avviati, ma lunga è ancora la strada da fare. Mariacristina NASI Campi nel mondo, il genocidio degli Armeni tratto da: Ragionpolitica.it, 23 luglio 2005. Nonostante il rifiuto del governo turco di riconoscere il genocidio armeno, «la dimensione dei massacri testimonia che vi furono, se non proprio un genocidio, uccisioni di massa assimilabili ad un genocidio. I Giovani turchi dell'Ittihad (Comitato Unione e progresso) non hanno infatti concesso scampo alle popolazioni evacuate dalla grande e dalla piccola Armenia (Cilicia)», dalle quali gli armeni, «che pure nel 1915 erano circa 2 milioni, sono quasi del tutto scomparsi». Il genocidio armeno si pone in aperta rottura con la tradizione culturale ottomana: per secoli, infatti, l'Impero ottomano aveva adottato un sistema, che garantiva ampia autonomia alle minoranze dell'Impero, ovvero armeni, ebrei e ortodossi. «Tuttavia, a partire dagli anni 19101914, i Giovani turchi si radicalizzarono, optando per il panturchismo, un'ideologia destinata a riunire sotto l'egida della Turchia ottomana tutti i popoli di lingua turca». «Il nazionalismo turco si scontrava però contro due ostacoli, uno fisico, l'altro geostrategico, rappresentati rispettivamente dagli armeni e dall'Impero russo. La prospettiva di un'autonomia armena era percepita dai Giovani turchi come una minaccia mortale da recidere». «Si fa risalire l'inizio del genocidio armeno alla retata di sabato 24 aprile 1915, in seguito alla quale, in due giorni, furono arrestate a Costantinopoli 2345 persone, tra giornalisti, medici, avvocati, sacerdoti e scrittori. Questa élite costituiva la quasi totalità dei quadri politici e degli

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dignitari della comunità armena». Il ministro dell'interno emise, poi, un ordine provvisorio 14 alti di deportazione, che ufficialmente «doveva rendere più sicure le zone vicine al fronte, procedendo al trasferimento delle popolazioni sospette verso l'interno del territorio»; «la legge prevedeva che le deportazioni dovessero svolgersi nelle "migliori condizioni possibili" verso i deserti della Siria, dove si era deciso di trasferire gli armeni», accusati di atti di tradimento e di separatismo. «Questa legge costituiva un duplice stratagemma: anzitutto distoglieva l'attenzione delle vittime dalle intenzioni reali, che contemplavano lo sterminio, e soprattutto poneva le basi per il successivo atteggiamento di discolpa, una volta compiuto il genocidio. In realtà l'ordine di deportazione dei prigionieri era soltanto illusorio»: numerose prove dimostrano che «furono condotte alla morte anche comunità armene stanziate alla periferia dell'Impero, lontane dalle zone di combattimento», il che rivela la «volontà irrevocabile ed esplicita del governo turco di risolvere una volta per tutte la questione armena». «Nella cronologia del genocidio armeno si possono distinguere quattro fasi, che corrispondono ciascuna a un particolare metodo di sterminio e a una specifica classe sociale. La prima fase coprirà il periodo aprile-maggio 1915 e si concentrerà essenzialmente sull'eliminazione delle élite e dei militari di origine armena»: «i turchi procedettero alla pulizia etnica dell'esercito e dell'amministrazione". "Gli armeni arruolati nei contingenti ottomani furono disarmati: raggruppati in un primo tempo in battaglioni incaricati di lavorare alla rete stradale, quasi tutti saranno giustiziati». La seconda fase coprirà il periodo aprile-giugno 1915, «durante il quale i Giovani turchi tortureranno ed elimineranno a pochi chilometri dai villaggi i notabili locali, i membri dei partiti arme-

ni e, in generale, tutti gli uomini validi e in età per servire nell'esercito. Non tutti furono però uccisi immediatamente: molti presero la via dei convogli e delle deportazioni». Nell'ottica turca, all'inizio dell'estate del 1915 dovevano restare in vita soltanto donne, bambini e anziani. La terza fase riguarda la popolazione civile: più del 40% della popolazione armena residente nell'Impero ottomano alla vigilia della prima guerra mondiale fu deportata e insediata in Siria. Bisognerà aspettare il luglio del 1915 per la quarta e ultima fase del piano, «consistente nell'invio sistematico nei campi di Siria e Mesopotamia degli armeni residenti in Asia Minore, Tracia e Cilicia».


sovietici o cinesi: non vi sono torri di vedetta, filo spinato, cani, baracche o massiccia presenza di soldati. La loro funzione non è isolare né punire né rieducare né sfruttare manodopera. Dunque non possono «essere definiti "campi di concentramento", ma appartengono piuttosto ad un genere nuovo e unico, che mira a lasciar marcire sul posto per giorni o settimane i detenuti prima di costringerli a marciare verso altre destinazioni, finché i convogli non si riducono a pochi superstiti». «I campi di transito o i centri dove si mandavano a morire i deportati erano semplici spazi aperti, lontani dai centri abitati»; mancavano misure di stretta sorveglianza e di repressione, perché i detenuti erano troppo deboli per ribellarsi, e comunque non v'era possibilità di sopravvivenza per chi cercasse di fuggire attraverso il deserto. «I convogli erano sorvegliati da guardie, reclutate perlopiù in Siria», mentre i guardiani dei campi erano scelti tra gli armeni più poveri o predisposti alla violenza. «Il genocidio degli armeni si è compiuto in un lasso di tempo relativamente breve, dall'aprile 1915 al giugno 1916. In poco più di un anno circa 1 milione 200.000 persone sono state uccise dagli ottomani»; le altre «sono riuscite a sopravvivere soltanto grazie a circostanze fortuite o fuggendo all'estero». Oggi le autorità turche rifiutano di vedervi uno sterminio pianificato, un genocidio. Esso costituisce «un caso particolare nella storia dei sistemi di concentramento. La disorganizzazione evidente, le misure di sorveglianza minime e la mancanza di infrastrutture contrastano con la cura metodica e programmatica che comunisti russi e asiatici, al pari dei nazisti, misero nell'organizzare i loro campi. Tutto concorre a dimostrare che l'unica funzione dei campi turchi era quella di luoghi di morte. Ma la specificità di questo genocidio risiede senza dubbio nelle lunghe marce attraverso l'Impero effettuate dai deportati», il cui unico obiettivo era «provocare la morte in vari modi, sulle vie del deserto o nei centri». Le informazioni sono tratte da Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: 1900-2000, di Joël Kotek e Pierre Rigoulot, Mondadori, 2001. Traduzione di Alessandra Benabbi

RUOLO DELL’ECCIDIO NELL’ENTRATA DELLA TURCHIA NELL’UE RICCARDO LEONE Il massacro degli armeni è stato a lungo un tabù in Turchia: fino a poco tempo fa anche solo discuterne era illegale. Con massacro degli armeni si intendono due forti “repressioni” perpetrate dalla Turchia nei confronti della popolazione armena che viveva nel suddetto Paese. Repressioni, come suole chiamarle il governo turco dagli inizi del ’900 oppure veri e propri genocidi, come è testimoniato dalle impressionanti cifre di ameni morti in quegli anni. Il negazionismo turco del genocidio armeno poggia su due argomenti. Il primo, sostenuto sin dal 1915, cerca di ribaltare le responsabilità, accusando gli armeni di aver tradito la Turchia e di avere attuato un genocidio contro i Turchi (il riferimento è ad alcuni attacchi a villaggi turchi da parte di bande armene venute dalla Russia). Il secondo argomento, che cerca di smontare l'intera esistenza del genocidio, nega che da parte del governo turco ci sia stata l'intenzione e la premeditazione dello sterminio.

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esistono importanti testimonianze sul genocidio armeno: come quella di un pastore 16 Tuttavia tedesco, che assistette a tutti e due i massacri e nel 1916 pubblicò il “Rapporto segreto sui massacri d'Armenia”, schiacciante testimonianza di ciò che era avvenuto. Dalle Memorie dell'ambasciatore americano Morgenthau è invece possibile raccogliere le confidenze ottenute dallo stesso ministro Talaat il quale affermava che le deportazioni erano il "risultato di lunghe e serie riflessioni". Non solo: "Ci hanno rimproverato di non aver fatto distinzione, in mezzo agli armeni, tra gli innocenti e i colpevoli: è assolutamente impossibile, perché gli innocenti di oggi saranno forse i colpevoli di domani". O, infine: "Noi abbiamo già liquidato la posizione di tre quarti degli armeni bisogna che la finiamo con loro, altrimenti dovremo temere la loro vendetta". Questi sono solo alcuni dei tanti documenti. Nonostante queste innumerevoli fonti, il governo turco continua a sostenere che questi fatti non siano stati premeditati e ciò ha portato ad alcuni dissidi con l’Unione Europea, che ha posto invece, come precondizione per l’entrata della Turchia nell’UE, proprio il riconoscimento degli eccidi. Il 49° emendamento del rapporto “Progresso della Turchia sulla via dell'adesione all'UE” che recita: “ il parlamento europeo chiede alla Turchia di riconoscere il genocidio armeno (…) e considera questo riconoscimento una precondizione all’adesione” è stato fatto oggetto di forti attacchi e pressioni da parte di Ankara che vuole la eliminazione di questo emendamento dal rapporto. Una voce fuori dal coro è stata quella del patriarca armeno Mesrob II che nel 2005 in una lettera scritta ad Angela Merkel riguardo all’entrata della Turchia nell’UE ha affermato: “Noi cristiani d'Oriente, che viviamo da secoli in un mondo musulmano, possiamo essere testimoni di questo sforzo e, forti di una lunga esperienza, affermiamo che questo evento può essere una significativa ricchezza per i cristiani d'Occidente che da poco hanno cominciato a vivere con i musulmani e a sperimentare uno stile di vita multietnico. La nostra esperienza ci dice che l'entrata della Turchia - la cui popolazione è a maggioranza musulmana - nell'Unione Europea è un passo vitale verso un mondo di pace. L'aspirazione della Turchia ad entrare a far parte dell'Europa non è un'opportunità solo per i turchi o per gli europei, ma per la pace nel mondo e che non si deve lasciar certo sfuggire.” Se davvero, come afferma il patriarca, l’entrata nell’UE della Turchia potrebbe essere un passo fondamentale per un mondo di pace, la stessa Turchia dovrebbe compiere un ulteriore gradino verso l’essere una vera democrazia e quindi, dopo aver abolito la pena di morte, dovrebbe riconoscere ciò che è stato compiuto in passato e non continuare a negare il genocidio.La speranza è che comunque l’Unione Europea, pur di ottenere l’entrata di un Paese molto importante a livello strategico nell’UE, non ceda alle richieste della Turchia di abolizione del 49° emendamento, perché esso è un passo fondamentale per il riconoscimento di ciò che è accaduto veramente e che per troppo tempo è stato tramandato solo come una repressione di varie rivolte.

VITA DA ARSLAN SILVIA FIORELLO Antonia Arslan è una scrittrice e saggista italiana di origine armena. Nata a Padova nel 1938, si è laureata in archeologia ed è stata docente di Letteratura italiana e moderna all’Università di Padova. Nel 2004 scrive il suo primo libro “La masseria delle Allodole”, che ha vinto il premio Campiello. Il libro racconta una storia d'amore, quella fra Sempad e Shunshanig sullo sfondo di una tragedia collettiva, oggi in parte dimenticata, quale fu il genocidio del popolo armeno, decreta-


to nel 1915 dal partito dei Giovani Turchi. Lo stato turco ha deciso che non c'è posto per le minoranze ed inizia così la deportazione in massa delle donne armene, mentre gli uomini vengono sterminati. Antonia Arslan segue la vicenda di tre bambine e un bambino vestito da donna che, avviati alla deportazione verso il deserto siriano, attraverso una serie di rocambolesche peripezie riusciranno a salvarsi per raggiungere l'Italia. La memoria familiare dell'autrice si intreccia con la storia. La sua famiglia è andata tutta in deportazione, non hanno conservato nulla, né titoli di proprietà né oggetti di ricordo, solo fotografie. La sua educazione infantile è stata tutta italiana. Le fonti orali sono quelle dei suoi famigliari e dei parenti che andavano a casa sua. Ha ottenuto molte informazioni anche dalla lettura di testi sugli Armeni. Di relativo alla famiglia ha solo qualche fotografia, ha recuperato però il documento con cui Yerwant fece tagliare il proprio cognome e in cui il re concede al dottor Yerwant e ai suoi due figli di ridurre il cognome da Arslanian ad Arslan. Nel 1999 fa il suo primo viaggio in Armenia, intrapreso però con molto timore, dove ha trovato un forte legame con quella terra, quelle luci, quei profumi. In un’intervista dice “La memoria ha funzionato per me fino ad un certo punto della mia vita come un blocco, perché io sapevo che avevo dentro molte cose riguardanti l’eccidio degli armeni da raccontare, ma non trovavo il coraggio di esprimerle, di tirarle fuori. Per alcuni anni questi ricordi facevano parte di una mia dimensione personale, nella quale mi trovavo a disagio. Ero una persona che sapeva di dover affrontare un compito e non sapeva se ce l’avrebbe fatta. Quando finalmente ho incominciato a scrivere, la memoria si è messa al servizio della scrittura e si è arricchita di tanti dettagli, taluni appartenenti a quel genere di cose che devi rinvenire, ricercare, di collegamento plausibili. Non tutto quello, infatti, che scrivi deve essere documentato necessariamente. Appartiene alla storia e alla memoria. Compito di chiunque scava nella memoria è dunque anche quello di fare delle integrazioni.”

MASSERIA IN SINTESI GIULIA SOTTILOTTA Il romanzo tratta di una famiglia armena, pacifica ed ospitale, che viene travolta dalla violenza della Storia. Le donne, vere protagoniste del racconto, dopo aver assistito al massacro degli uomini di famiglia compiutosi davanti ai loro occhi, si ritrovano sole e straziate dalla sofferenza. Inizia, così, una lunga odissea, segnata dalla violenza e dalla crudeltà. La forza dell’amore materno, induce queste coraggiose donne a sfidare la fame, la morte e le umiliazioni, pur di salvare i propri bambini. Antonia Arslan narra, così, l’epopea della sua famiglia. Nella prima parte del racconto c’è un’ ampia descrizione dei membri famigliari. Sempad e Yerwant sono due fratelli, figli di Hamparzum e della principessina Iskuhi, che muore pochi anni dopo la loro nascita. Yerwant , appena tredicenne, mal sopportando la matrigna Alexanian, ottiene di andare a studiare alla scuola armena di Venezia. Suo fratello, invece, di indole più tranquilla, apre nel suo paese una farmacia e sposa l’energica Shushanig dalla quale ha sette figli. Alla morte del vecchio Hamparzum è Sempad ad assumere il ruolo di capofamiglia.

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fratelli, nonostante la lontananza, continuano a scriversi e a essere molto legati tra di lo18 Iro.dueYerwant, sente particolarmente la mancanza di Sempad e rimpiangendo la scelta di essersi allontanato dal luogo delle sue origini, decide di fare una visita ai suoi parenti in Turchia. Sempad entusiasta inizia a preparare la venuta del fratello: ristruttura l’antica villa sulla collina “la masseria delle allodole”, arredandola con mobili viennesi, e si circonda di innovazioni tecnologiche proprie della civiltà occidentale, entrando in contrasto con la quiete che lo contraddistingue. L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, chiude le frontiere del paese e impedisce al sogno di Yerwant di realizzarsi. Ben presto finisce il periodo delle tranquille giornate passate a giocare a tric-trac nella farmacia, l’allegria dei bambini, le cerimonie per la festa pasquale, i preparativi frenetici per sistemare “la masseria delle allodole”, l’idea di Azniv di fuggire col suo spasimante turco. A rompere la serenità è l’irruzione nella casa di Sempad di un medico, che spaventato informa la famiglia dell’arresto di tutti gli uomini del quartiere, convocati dalla polizia per oscure ragioni. L’aria in città diventa sempre più tesa. Sempad ritiene, così, opportuno rifugiarsi nella masseria, insieme ad altri famigliari, ma un drappello di cavalieri entra nella villa e tra confusione e spavento, tutti gli uomini vengono brutalmente uccisi. La scena descritta è di estrema crudeltà:«…lame balenarono, urla si alzarono,sangue scoppiò dappertutto…». I corpi squartati dei bambini e degli altri uomini, vengono poi gettati in una buca nel vicino campo da tennis, progettato per l’arrivo di Yerwant. Le donne, completamente svuotate della loro esistenza, vengono deportate insieme agli anziani e ai bambini, attraverso i luoghi desertici. L’umanità è in preda a una catabasi inarrestabile, la pietas soccombe in un’atmosfera di totale anarchia: le donne, considerate res nullius, vengono depredate, violentate e in gran parte uccise«…I beduini del deserto vanno a scegliersi le donne fra le deportate armene (“basta lavarle e nutrirle e sono tue”)». Le donne estenuate dalla fame, cercano di corrompere con il denaro gli zaptiè, nel tentativo di proteggere i bambini: « …Io non sono più nessuno. Salva i bambini.» Le donne della famiglia Arslan, vengono poi salvate da Ismene, Isacco e Nazim, che con l’aiuto di zaptiè corrotti dal denaro e di Zareh, un fratello di Sempad, riescono a mettere in salvo i bambini e alcune donne, tra cui Shushaning. L’unico maschio superstite ai massacri è il piccolo Nubar. I bambini vengono allevati da Yerwant e dagli zii che vivono all’estero. Le donne della famiglia di Shushanig sono determinate a sopportare qualunque tipo di violenza pur di proteggere i bambini. Nessuno tornerà più alla piccola città.

QUINTESSENZA DEL ROMANZO MARTINA CARRARO

CONSAPEVOLEZZA? “Sempad soffre per il figlio, e soffre di non sapere, proprio come davanti a un velo fitto che nasconda un incubo mai visto, la Bestia delle Bestie, l’Apocalisse. E’ in questo momento che potrebbe coagularsi la visione interiore, potrebbero comparire agli occhi della sua mente le immagini di un futuro veridico. Ma il suo semplice cuore non regge ai presagi nefasti, si rifiuta di leggere ciò che la mente già vede, ciò che gli viene rivelato attraverso il figlio inconsapevole. Sempad si passa una mano sugli occhi, una mano che trema un poco e dimentica.” - Pag. 47-edizioni Bur – “«Andiamo tutti alla Masseria» decide Shushanig «là nessuno oserà mettere piede. Vi troverete tutti nel vicolo dietro casa, alla porticina del giardino, fra un’ora. Faremo un picnic stasera, alla fac-


cia di chi ci vuol male. E mangeremo insieme in allegria. Le giornate sono lunghe, l’aria tiepida ormai. Portate anche le vostre donne. Mi aiuteranno.»” - Pag. 94-edizioni Bur – “«Gli armeni stanno ribellandosi» prosegue l’altro «ce ne hanno messo di tempo, quei bottegai spilorci, a capire che non c’è scampo, che vanno a morire. Ma domani, prima che partano, mi sceglierò un bel ragazzino, e me lo porto via. Adesso che ho un po’ di soldi, voglio andarmene. E così farò anche una buona azione.»” - Pag. 220-edizioni Bur – Ho scelto questi passi perché, a mio parere, rappresentano al meglio uno dei temi che più mi hanno colpito in questo romanzo: la poca o per nulla presente consapevolezza, da parte degli armeni, di ciò che stava loro accadendo. Ma nel secondo passo, e in molti altri poi, non c’è solo questo bensì è anche presente la negazione della realtà che è loro davanti. Talmente è incredibile ciò che sta accadendo e che sta colpendo , per ora, solo gli uomini, che spinge questo popolo a cercare una speranza estraniandosi dal mondo circostante e vivendo in una sorta di idillio. Poco a poco però la realtà prende piede e prepotentemente si impone sulle vane speranze che dicono che tutto ciò che sta accadendo è solo un incubo; a questo punto, allora, la consapevolezza del presente è totale e questo porta gli armeni a dimenticare i sogni che tutto torni come prima ed a lottare perché il loro destino non sia nelle mani degli zaptiè turchi. PERCHE’? “Distruggete le macchine da stampa, devastate le redazioni delle riviste e delle case editrici. Ogni impiegato non armeno deve essere minacciato severamente e mandato a casa. Se sapranno tacere, avranno un premio dal governo. «Non usate le prigioni, ma le caserme. Non permette contatti, sequestrate i libri, soprattutto non rispondete, mai, a nessuna domanda. Portate via solo gli uomini. Non toccate le donne.»” - Pag. 66-edizioni Bur – “Gli zaptiè, ingolositi, avrebbero infatti voluto cominciare subito. Uccidere, godersi le belle vergini armene, frugare alla ricerca dei leggendari tesori nascosti. Gli uomini sono morti: tutto è permesso. Nessuno sbarra loro la strada.” - Pag. 128-edizioni Bur – Un altro tema principale è il perché delle stragi armene. Mentre le stragi ebree perpetrate dai nazisti erano dettate da motivi per lo più politici ma anche razziali, tanto che i kapò non distinguevano fra donne, uomini, vecchi, giovani, ma anzi, ogni ebreo in vita era un pericolo, qui i Turchi agiscono per ragioni puramente economiche e politiche (“la Turchia ai Turchi”) tanto che non vengono quasi mai fatti riferimenti religiosi e le donne non vengono considerate un pericolo, anzi sono solo degli oggetti di cui usufruire: “Gli uomini sono morti: tutto è permesso”; questo comportamento avvale ancora di più questa tesi poiché se ci fosse stato anche un problema religioso Azniv non si sarebbe dovuta concedere allo zaptiè in quanto questo non avrebbe voluto mischiare il suo sangue con quello di un’infedele. Un altro fatto che avvale la tesi economica è che gli zaptiè che hanno collaborato con Ismene, Nazim e Isacco lo hanno fatto per un tornaconto personale in denaro e non per umanità. Si potrebbe quasi dire che la salvezza di Shushanig e della sua famiglia sia stata dovuta più alla cupidigia dei carnefici che al coraggio dei salvatori. Un ultimo fatto che sostiene le ragioni economiche della strage è che si è fatto il possibile affin-

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non venissero divulgate informazioni sulle stragi, il perché del fatto è, a mio parere, spiega20 ché bile con la possibile perdita di alleati da parte dell’Impero Ottomano. FRONTE OCCIDENTALE “Si addossa al muro nella rientranza della porta, con la chiave in mano. Sente le voci e i passi, e per non piangere si morde la mano e si accascia per terra, come un mendicante, come uno straniero. La guerra non durerà poco. Lui e la famiglia sono su due fronti opposti; la visita è annullata, il paese perduto arretra e ritorna nella sua cornice lontana.” - Pag. 80-edizioni Bur – “Ma Yerwant incomincia a intuire che non di occasionali massacri si tratta, né di episodi di disordine bellico; comincia amaramente a sentire l’oscuro disegno, la rete di porte in cui certo Sempad si è impigliato, poiché non ha scritto.” - Pag. 138-edizioni Bur – Il terzo tema che trapela dalla storia, forse più secondario di altri, è quello del fronte occidentale: che cosa si sapeva e che cosa si provava. Le informazioni, come si è già detto, erano minime e limitate a pochi trafiletti su qualche giornale, ma la consapevolezza di quello che stava accadendo e della morte che incombeva sugli armeni era molto più viva in occidente che in Anatolia; e proprio Yerwant, il primogenito dapprima chiuso in sé stesso, si abbandona a quel mare di emozioni che lo sconvolge e che lo rende consapevole, più del fratello Sempad, del destino che si sta per compiere.

COMMENTI NOSTRI MARIO LUCA, LUDOVICA BOGGIANI

ARSLAN

BRAVA MADINON SI APPLICA. MARIO LUCA

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ah. Non so proprio come iniziare un commento a “La masseria delle allodole”. Sapete, quella sensazione che si prova, contrastante e fastidiosa, davanti a libri sui quali non si sa formulare un giudizio. La conoscete? È un’ignava impotenza che nasce dalla forzatura dell’ossessiva catalogazione e valutazione delle cose. Questo bisogno di dare un voto, in stellette o faccine sorridenti, e fare una classifica. Perché tutto deve andare su di un podio, e richiede un numero da uno a dieci che ne indichi il valore. Sembra indispensabile ridurre a meri paragoni quasi calcistici, quasi Arslan-0-Levi-2, enti assai più complessi. Però, come


insegna Moravia, chi commenta deve scrivere le proprie 30 righe quotidiane con zelo, come a cottimo, indipendentemente dall’ispirazione. Così, non continuerò questa dissertazione sulle classifiche, ma tenterò di trovare un numeretto da appioppare alla Arslan. Perciò, torniamo alla Masseria. Perché, lo ammetto, io ho sempre trovato facile etichettare i libri; eppure, non riesco ad inquadrare questo. Dopo le prime trenta pagine, l’ho appuntato su un documento Word, avrei definito questo romanzo “Sistematico ed indeterminato elogio del nulla”; ma poi mi sono reso conto che così non era. L’inizio del romanzo è a dir poco soporifero, insignificante, tanto che pur volendo e Moravia e Levi ed i Bee Gees. dovendolo leggere mi sono addormentato in autobus ben tre volte su queste pagine. Il problema è, senza dubbio, l’intreccio grottesco ed arzigogolato di nomi propri di persona. Questi impronunciabili ed improbabili agglomerati di consonanti al lettore occidentale risultano quasi impossibili da leggere, tanto più da memorizzare. Così, ogni due righe si deve fare mente locale su chi è chi, chi è parente di chi, e chi ha fatto cosa. È ovvio il fatto che non sia colpa dell’autrice questa accozzaglia di persone e nomi incomprensibili, era però suo onere quello di scremare dalle storie più inutili le assillanti prime pagine. Personalmente, odio i particolari insignificanti, le descrizioni tortuose e senza fine, i nomi propri di persona anche per semplici comparse da mezza pagina che confondono e fanno perdere nel caleidoscopico rigurgito di ricordi. Anche le profezie post eventum in corsivo che non rovinano un finale preannunciato anche dalla Storia, ma disturbano la linearità del racconto, contribuiscono a questa pestilenziale prefazione di cento pagine. LA SVOLTA Non fosse stato per questo articolo, avrei finito di leggere a pagina 100, così come avrei voluto, così come volevano i miei occhi che non riuscivano a tenersi aperti nonostante la musica anni ’70 conficcata nelle orecchie. Anzi, la tentazione di fare un articolo che iniziasse con qualcosa del tipo: “Ci sono libri epocali che cambiano la letteratura, testimonianze incredibili della Storia vissuta. Purtroppo la Masseria non rientra in questa categoria”

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fortissima. Ma un minimo di rispetto nei confronti del romanzo mi ha costretto a continua22 era re. Così sono arrivato a pagina 101 ed ho capito. Ho capito il perché di questa lenta costruzione di un universo noioso e tranquillo. In una pagina il lemme lavoro di caratterizzazione è stato spiazzato dall’improvvisa e cruenta eliminazione di tutti i protagonisti. In poche righe, asciutte, viene mozzata la testa agli uomini così attentamente descritti nella loro normalità. Squartati e distrutti ed umiliati con poche parole taglienti. L’estrema forza della scena è resa da una descrizione secca e rapida. Sembra una scarica di corrente elettrica che di colpo fa esplodere la quiete. Tutta la lentezza dissipata in un momento cruciale esaurito con quattro paginette. La sproporzione gerarchica tra la pars costruens e quella destruens è significativa. E la rapidità con cui tutti gli agglomerati informi di consonanti muoiono dopo la stremante particolarizzazione vuole dare un’idea di ciò che è un genocidio. Un sistematico, furente, organizzato, lesto annientamento di vite. Come a significare che il tempo della quotidianità viene all’improvviso stravolto. C’è del retorico e del banale in questa interpretazione ed in questa rappresentazione del genocidio, eppure è abbastanza efficace. Mah. Insomma. A me non ha detto un granché. Però a coloro che si sono affezionati ai protagonisti del romanzo deve aver lasciato un segno. Io, francamente, ho trovato l’efferatezza della scena nella masseria incongrua con il resto. Ma, soprattutto, ero troppo deluso dall’ammasso di inchiostro inutile che riempiva le cento pagine prima di queste per poter ricevere da loro una benché minima emozione. Anche i tentativi di dare pathos e drammaticità con frasi del tipo: “chiedendo invano pietà, pietà di essere esistite” “Dio si è velato e le nubi sanguigne galoppano per il cielo”, non fanno altro che ammorbare il lettore distogliendolo dalla secca descrizione della morte. La tentaSocrate. zione di scivolare nell’epico e nel patetico viene, of course, nel narrare una storia così tragica; però, avrei preferito avesse saputo tenerla a bada, per continuare con la scarna e veristica narrazione dei fatti. Quando il soggetto è così straziante, ogni abbellimento o ghirigoro strappalacrime risulta superfluo. Questo lo dico perché sono il primo a scrivere in maniera enfatica, pur non volendo, quindi so quando essa è fuori luogo. La compostezza lucida che avrei voluto nella Arslan si trova, invece, in Shushanig e nelle donne sopravvissute. Una vera storia di emancipazione e coraggio femminile, come scrive la saggista armena: “loro, sempre così protette, sapranno far vedere che anche le donne hanno un cervello, e riusciranno a controllare questa emergenza”. Questa è la nota più interessante del romanzo; questa forza e determinazione a sopravvivere delle donne, nelle carovane che le porteranno a morire di fame. Ogni tanto, con la compostezza che mi piace, la Arslan mette particolari macabri in una diaspora armena strappacuore. Così, mentre camminano, con poche parole Araxy squarta due gattini appena nati davanti alla madre per mangiarli; in quattro righe Veron Veron vrai pompon schiatta di fame, dopo aver mangiato l’erba spinta dalla schiacciante fame con spasimi ancora presenti sul volto contratto. Questo truculento dipinto di morte è conficcato con nonchalance nella fuga senza meta di modo da disgustare e colpire. Questo mi ha smosso, lo ammetto. Non me l’aspettavo ed ero abbastanza affezionato a Veron. Anche se viene subito rovinato da un ritorno dell’enfasi pacchiana ed inutile con un: “Ora il pastore di tutti la conduce nei verdi pascoli, al lento amore che non ha mai fretta”. Ma perché? Perché mandare all’aria la potenza dell’erba sulle labbra morte con questa considerazione banale ed ampollosa? Sembrerò forse


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Opera di Suloni Robertson spocchioso nel pronunciare queste critiche alla Arslan, e se qualcuno volesse obiettare con un triste facile-criticare-sparesti-fare-di-meglio? risponderei no-ma-non-pretendo-di-scrivere-romanzi. FILOSOFEGGIANDO E DISCUTENDO L’enorme problema della masseria è il fatto che, su 230 pagine, solo un paio sono realmente interessanti. Esse sono diluite in un oceano di particolari superflui. E, oltre a queste, alcune considerazioni di carattere etico-religioso sono scadenti. L’ossessivo rapporto che le donne instaurano con Dio mi sembra eccessivo. Appena morti tutti gli uomini, il primo pensiero è ringraziare Iddio con un “Benedite il Signore nei cieli, voi che lo vedete, voi che Egli ha creato con mani immacolate”. Non so, sarà che io sono ben poco avvezzo a questo genere di cose, ma trovo ci sia poco da ringraziare dopo un massacro come quello. Più interessante, verso la fine del romanzo, in vecchio nudo e scheletrico che urla: “Venite, venite, benedetti da Dio. Il banchetto è pronto, ma Dio è morto”. Forse questo è l’epilogo della storia. La rassegnazione al dolore porta a questa considerazione. Del resto, il tema di Dio dopo Auschwitz è stato abbondantemente dibattuto, si potrebbe procedere analogamente per gli armeni. Ma sorvoliamo questo argomento, sul quale ognuno dovrebbe riflettere da solo, non leggendo un libro od un trattato. È ora il momento di una considerazione molto intelligente, profonda, che ridà spessore alla poltiglia di banalità. “Un singolo morto era prima un essere che respirava, era vivo, e la sua spoglia è una cadavere che può essere onorato: centomila morti sono un mucchio di carne in putrefazione, un


di letame, più nulla del nulla, un’immonda realtà negativa di cui disfarsi”. La normaliz24 cumulo zazione della morte che profana la dignità del singolo è un argomento assai interessante, e questa massima è molto condivisibile e ragionata. Credo che, in casi come questo, subentri nella mente umana un meccanismo di autodifesa che altera la percezione della morte, del sangue, delle carcasse. Se così non fosse, sarebbe inspiegabile la sopravvivenza, psicologica e fisica, di persone che hanno subito traumi così grandi. Forse è questa protezione innata quella che deflaziona il peso della morte. Mentre, in tempo di pace, un morto è qualcosa di drammatico sul quale fermarsi a riflettere, centomila morti devono essere lasciati come carne in putrefazione pena la perdita della ragione. Da questo punto di vista l’analisi della Arslan è azzeccata e ben esposta. Colpisce il rigore imposto dalle vedove alle vedove stesse che le porta ad un fuggire senza meta ma lucido. Poche le prefiche, molto più numerose ed utili le donne che andando contro l’istinto naturale del pianto assecondano quello, ancor più naturale, della sopravvivenza.

Opera di Mario Bejamin Il grosso problema che, però, la Arslan vuole porci sotto gli occhi è la visione odierna delle carcasse armene. Esse sono rimaste carne in putrefazione, mute. Il genocidio degli armeni da mezzo mondo non è nemmeno considerato tale. Ecco. Questo è il grande pregio del romanzo. Schiaffare con durezza il massacro dimenticato. Un genocidio. Lo ripeto per chi non volesse accettarlo. Un genocidio. Un genocidio. Un genocidio. Per McCarthy seicentomila vittime, per gli armeni duemilioni, unmilionetrecentomila per maggior parte degli storici. Morti, coaguli di carne e sangue, ai quali nessuno ha dedicato una giornata della memoria. Nessuna coroncina bella bella con campanellini lugubri lugubri e processioncine tristi tristi e lacrimine finte finte. Nemmeno quelle. Nemmeno l’ipocrita riversarsi in piazze gremite di contrita noia e simulato interesse. Nemmeno un pochino piccino picciò dei grandi trattati sulla Seconda Guerra Mondiale. Passa indifferente, con sporadiche dichiarazioni lette alla rinfusa il 24 aprile, forse data troppo vicina al nostro 25 per meritare una manifestazione. Mica si possono riempire le piazze due giorni di fila, per due motivi così diversi. Così. Così i quarti di bue che furono uomini e le donne che, capre, brucavano in cerca di brandelli di vita scemano fino ad essere inghiottiti dall’oblio. Non che io apprezzi il dolore di piazza, quel pacchiano voler espiare propri peccati


piangendo insieme all’insegna del mal comune mezzo gaudio, inutili e finti. Ma, visto che la coscienza storica di uno Stato si misura nei minuti di silenzio che si dedicano ad un determinato evento. E che, per esempio, nella mia scuola media è stato fatto un minuto di silenzio per la morte di Pantani. Mi sembra sia indecoroso sennonché vile non dedicare nemmeno quattro secondi allo sterminio di un popolo.

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EUROPA DI SERIE B A maggior ragione è necessario questo meditare su una catastrofe di serie B viste le circostanze politiche. La Turchia ed il suo governo, che tanto l’Europa vorrebbe tra le sue fila, non ha an-

Opera di Mario Luca cora riconosciuto il genocidio. Anzi. Si oppone a chi lo fa. Ma noi niente. Abbiamo negazionisti di un enorme male, che ha ammorbato il nostro territorio, quello della Shoah e non possiamo dissipare energie per lottare contro chi nega un Olocausto un po’ più lontano di quello degli ebrei. Ora inizieranno, gli zelanti studenti, a fare paragoncini matematici del tipo: la Shoah ha avuto seimilioni di vittime ebree, gli armeni un milione e trè. Pol Pot, uno e sette. L’undici settembre, tremila. Dovremmo, quindi, piangere la Shoah tre volte quanto lo facciamo per gli Armeni? Piangere per gli Armeni un po’ meno di quanto lo facciamo per Pol Pot, ma 433 volte in più rispetto il 9/11? Ciò non ha senso. Eppure i simpatici paragoni tra stragi saltano sempre fuori. Come chi dice: “beh, il nazismo era brutto e cattivo, ma il comunismo ha mietuto più vittime”. Queste sono affermazioni degne di un idiota. Eppure, sono subconsciamente entrate nel


comune. Oggi si valutano le catastrofi in base al numero di morti. Ma anche in base 26 pensiero alla vicinanza. Per questo, nonostante le dimensioni enormi dello sterminio armeno, esso è declassato a strage di seconda scelta. Uniche apparizioni pubbliche eclatanti quelle del dibattito Libero-Turchia sullo scontro di civiltà nel 2001. Après, le déluge. Tanto che, prima di questo libro, pochi miei compagni di classe sapevano cosa fosse la strage degli armeni. Io per primo. Non sapevo quanto fosse drammatica. Il merito della Arslan è darci una testimonianza di tutto ciò. Una strage dimenticata di proporzioni gargantuesche. Il demerito della Arslan è, invece, quello di rendere tutto talmente soporifero da far perdere la voglia di approfondire. E di leggere. Io non sono per la storia vissuta in prima persona, quelle piccole vicende quotidiane insignificanti immerse nei grandi avvenimenti del passato. Preferisco visioni più di insieme, con particolari di vita comune e gente il cui nome non apparirà mai su libri di Storia in quanto “una delle tante”, ma questo romanzo esagera nel particolare senza curarsi della visione globale. E non lo fa in maniera interessante od appassionante. Mentre Levi strugge, la Arslan truculenta strazia ma ammorba con l’insignificanza. QUANTIFICANDO… Se proprio si necessita un numeretto per quantificare il valore di questo romanzo. Se proprio non si vive senza. Beh. Allora. Un sei mi sembra il massimo voto che si possa dare ad un romanzo che mi ha fatto addormentare anche sulle note dei Queen ad alto volume, dritte nelle orecchie su di un autobus gremito. Cosa che non mi era mai successa prima, io non ho il sonno facile assolutamente. Voto dovuto più al valore di ciò che racconta, alla tragicità della Shoah Armena, che al modo in cui è scritto. Ma dovuto anche al ruolo meraviglioso dato alle donne, vere protagoniste ed eroine dell’epopea. Della serie: soggetto interessante, realizzazione scadente. Brava ma non si applica, direbbero le mie maestre delle elementari. E con queste critiche mi sono definitivamente tirato addosso l’odio di molte persone. Tra cui la povera sciura Antonia, che non avrei voluto offendere. Ma non si arrabbi, sciura Arslan, le mie sono parole di un sedicenne che ha ancora da imparare e non dovrebbe dare giudizi ma si è trovato obbligato a farlo, a lei rimane un bel Campiello. Marcondirondirondello. La Arslan al Rotary Club di Senigallia Marcondirondirondà.


S k y l a r k

Di ludovica b o g g i a n i

Il libro “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan racconta le drammatiche esperienze di una famiglia armena durante il genocidio del 1915. La parola genocidio è normalmente associata allo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale oppure, più recentemente, alle uccisioni di massa dei Balcani, dell’Africa o della Cambogia di Polpot. Lo sterminio degli armeni pianificato e messo in atto nel 1915 dalla Turchia musulmana è antecedente a questi eventi più noti e, in qualche modo, sembra volerli sinistramente ispirare: un merito del libro della Arslan è quello di illustrare questo frammento di storia del genere umano. Ancora oggi non vi è un’accettazione univoca del genocidio armeno. Questo è uno degli elementi che allontanano l’accettazione della Turchia all’interno della comunità europea. Il libro racconta le paradossali disgrazie di una famiglia armena in una Turchia musulmana ostile che, solo alla fine, trova qualche forma di redenzione, e comunque, come spesso accade, solo per opera di singoli individui, non per volere della comunità intera. A mio parere l’illustrazione, forse anche per il diretto, personale coinvolgimento dell’autore, pur non essendo chiaro il confine fra i ricordi autobiografici e la trama del romanzo, è, almeno nelle descrizioni dei massacri e delle violenze, volutamente eccessiva, a volte chiaramente disgustante. Come se, in qualche modo, l’autrice volesse costringere il lettore a partecipare al suo dolore e al suo disgusto e quindi, secondo me, uno dei motivi che ha portato l’autrice a scrivere questo libro è quello di trovare una relativa pace interiore affidando il suo tormento ad altri. Anche in questo caso, come in altri casi di romanzi che traggono spunto dai genocidi del secolo scorso, l’estrema crudezza delle immagini potrebbe significare incomprensione e stupore di fronte all’inumanità di certe azioni umane. Questa descrizione impietosa, quasi giornalistica, dei fatti, viene, in qualche misura, bilanciata dalle frequenti e inquietanti premonizioni, intuizioni, sogni e visioni di fede che sembrano dare ai personaggi qualche sostegno e, nello stesso tempo, trasformano una testimonianza storica in un romanzo. I documenti a sostegno del genocidio degli Armeni sono pochi, quindi il libro ha grande valore dal punto di vista delle testimonianze e delle fonti storiche: più difficile è stabilirne, da parte mia, il valore letterario, anche perchè altre opere, fra cui il celeberrimo libro-testimonianza di Primo Levi, “Se questo è un uomo”, pur raccontando in modo preciso fatti atroci riescono a farlo in modo meno giornalistico, in qualche misura più letterario, più poetico. Sempre che poesia possa esserci nel racconto di uno sterminio. Per concludere il romanzo della Arslan è, fondamentalmente, un romanzo di speranza, nel quale il male viene descritto come isolabile e i “buoni” sono distinti dai “cattivi”; un romanzo che fa vedere, in un certo senso, una luce in fondo a quel tunnel di disperazione.

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AMOS OZ ED IL FANATISMO Le tre lezioni (1-Passioni oscure; Come guarire un fanatico. 2-L’oltranzista è un punto esclamativo ambulante; 3-Israele e Palestina: fra diritto e diritto) tenute da Amos Oz all’università di Tublinga possono veramente insegnarci qualcosa. Contro quella brutta parolina di cui siamo imbevuti: fanatismo.

PIETRO PASQUALE, CRISTINA DONDI, STEFANIA FALETTI. LA PRIMA LEZIONE PIETRO PASQUALE L’obiettivo che si propone lo scrittore israeliano Amos Oz è quello di promuovere soluzioni per ammansire, se non redimere, il fanatismo; illustrare i fanatismi e indicarne con puntuale lucidità la natura, le possibilità di superamento. Scopo dell’autore non è certo quello di dare la caccia ai fanatici. Intende per prima cosa comunicare al lettore di cosa tratti la sua scrittura, raccontando alcune cose su come sia diventato scrittore, e delle gioie e frustrazioni annesse e connesse. Inizia, attraverso una digressione, a parlare del piacere che suscita in lui lo scrivere. La sua era una famiglia assai modesta della classe media, e i suoi genitori erano due letterati che si trovavano spesso a discutere circa vari argomenti con amici nei caffè. Amos, essendo fi-


glio unico, non poteva restare a casa da solo e quindi trascorreva ore e ore accanto ai suoi genitori. Per ingannare l’attesa osservava il viavai nel locale inventandosi delle piccole storie, delle trame su questa gente. Fantasticava per alleviare le sofferenze. E quella vena di acuto osservatore rimase sempre viva in lui, ed è proprio grazie a ciò che iniziò a scrivere racconti circa la storia di quelle persone. Un altro fattore che fece di Amos uno scrittore, fu la nostalgia per i luoghi lontani. I suoi parenti nutrivano molto fascino per l’Europa, e, in generale, gli ebrei che si avventurarono in quelle terre lontane furono sempre cacciati in malo modo e costretti a vivere in una sorta di odio amore per quei luoghi. Così, genitori poliglotti istruirono il figlio impartendo lui una sola lingua; l’ebraico, per paura che potesse essere sedotto dal letale incanto dell’Europa, partendo di conseguenza alla volta di qualche città europea e trovandone la morte. Conclusa la digressione, passa poi a parlare di Gerusalemme, città cosmopolìta che raccoglie nel suo grembo confessioni, lingue e abbigliamenti diversi persino in ogni singolo quartiere. La gente comunicava, di certo non mancavano tensioni, ma non c’era violenza. Ognuno era consapevole del fatto che anche gli altri facessero parte del contesto, però ognuno di loro era convinto di rappresentare la vera religione, la vera fede, e considerava gli altri alla stregua di una presenza di fondo. Allora le reazioni possibili erano due: o dar di matto, oppure sviluppare un senso di relativismo, la convinzione che non ci sia uno più vero o migliore di un altro. L’autore a questo punto si pone l’interrogativo: che particolare diritto ha un romanziere di esprimere opinioni? In tal modo ricollega la sua personale esperienza accomunandola all’intero mondo israeliano dove tutti - nessuno escluso - discutono di tutto, e quindi perchè non può avvalersi anche lui di questa facoltà? Israele è un paese in cui tutti discutono e tutti credono di saperne di più; è percorso da una vena anarchica, da una sicumera che trova nel dissentire reciproco il suo campo fertile. E’ l’unica religione in cui i profeti osano sfidare Dio, in cui nessuno, a causa di una presunzione di fondo, è disposto ad ascoltare un altro punto di vista o, qualora lo ascoltasse, non lo tiene in conto. Ognuno è custode di un proprio dogmatismo, e due dogmatismi, come è noto, portano al conflitto.

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ragione per cui Amos è diventato scrittore è dunque per far conoscere alla gente le pro30 L’altra prie idee, i propri pensieri, poichè, appunto, in Israele tutti discutono. Un uomo che viva in un paese dove la sofferenza, l’ingiustizia, l’oppressione e la violenza sono all’ordine del giorno, è come dilaniato da un dissidio interiore e la domanda è: che fare? Come usare la propria voce o la propria penna? Amos afferma di sentirsi, in tutti i casi, un traditore:

se pensa a sofismi vari, costruzioni sintattiche o a problemi idiomatici si sente traditore per il fatto che dietro l’angolo di casa sua scorre il sangue e la gente si ammazza. Mentre se pensa a come combattere contro l’ingiustizia si sente traditore della sua arte, di quella finezza che sta nelle sfumature e nell’ambivalenza. Dunque, qual è la soluzione? La soluzione sta nel compromesso, e anzi Oz si dichiara un gran fautore del compromesso. Il compromesso è vita. Se viene meno, si va incontro al fanatismo, alla morte. Compromesso è incontrare l’altro, più o meno a metà strada: comunque non ne esistono di felici; sarebbe una contraddizione. Ma cambiare la testa dei governanti o della gente comune appare agli occhi dello scrittore come un’utopia. La gente legge i libri non per diletto, non per ampliare i propri orizzonti culturali, bensì per arrabbiarsi! Per dissentire! E’ così che anche un taxista ha il coraggio di affermare ad Amos che sarebbe stato meglio non avesse neanche scritto quel tal libro o quel tal articolo. Nessuno prende in considerazione il punto di vista dell’altro.


COME GUARIRE UN FANATICO. L'OLTRANZISTA È UN PUNTO ESCLAMATIVO AMBULANTE CRISTINA DONDI

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In questa breve conferenza Amos Oz si propone di fornire delle “cure” al grave problema del fanatismo. Il discorso si apre con un'analisi scorrevole e accompagnata da riferimenti autobiografici dello stesso termine e dei comportamenti che le persone assumono nei confronti degli altri quando risultano affette da ciò che l'autore chiama “un gene perverso”. In effetti viene sottolineato come il fanatismo sia più antico di qualsiasi religione o di qualsiasi governo, come esso non sia nato, ma sia sempre stato radicato nella natura umana e come dilaghi in numerosi avvenimenti in tutte le parti del mondo, non solo nei paesi islamici. In tutti i casi esso assume però una connotazione comune: la disperazione. Il fanatismo si manifesta infatti in contesti di profonda disperazione, dove le persone “non avvertono altro che disfatta, umiliazione e indegnità” e sono dunque spinte a ricorrere a forme di violenza. I fanatici non cambiano e non cambierebbero per nessuna ragione al mondo, vedono come traditore chiunque cambi, cercando tuttavia di renderlo uguale a loro. Il fanatico è in realtà un grande altruista, interessato più agli altri che a se stesso. Amos Oz ci spiega che il fanatico “Vuole salvarti l'anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall'errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato”. Una persona fanatica possiede un io molto piccolo ed è pronta a sacrificarlo volentieri a favore di un beneficiario che, sentendosi afflitto da sensi di colpa, viene di conseguenza manipolato. Come

curare

dunque

questa


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“malattia”? L'autore propone dei metodi realistici, semplici ma concreti, che potrebbero in futuro, forse non eliminare il fanatismo, ma sicuramente limitarne le tragiche conseguenze. Un primo passo per respingere la disperazione e dunque il fanatismo è quello di generare speranza e di diffonderla. Amos Oz si appella qui non ai fanatici, ma ai moderati, che se incoraggiati potrebbero rappresentare un serio contributo a questa lotta. Ma per consentire ai moderati di uscire allo scoperto e avere la meglio sui fanatici è necessario impiantare una speranza concreta in un futuro diverso e migliore. Un secondo passo consiste nel diffondere una prudente dose di immaginazione, che permetta ai fanatici di prevedere le conseguenze che implicano le loro azioni. A questo proposito l'autore si appella anche alla letteratura, che costituisce un ottimo antidoto contro il fanatismo per la sua capacità di infondere

l'immaginazione nei suoi lettori. L'ultima tappa risiede infine nell'umorismo. Viene sottolineato come i fanatici non lo possiedano, ma siano piuttosto dotate di un maligno sarcasmo e come persone dotate di senso dell'umorismo non diventino fanatiche. Questo poiché l'umorismo implica la grande capacità di ridere di stessi e di vedersi così come ci vede il prossimo. Ogni uomo è infatti come una penisola, per metà attaccato alla terra ferma, legato alla famiglia, ai rapporti sociali, alla cultura e alla tradizione, per metà di fronte all'oceano, libero si essere se stesso. O almeno, così dovrebbe essere. L'autore conclude infine con questa affermazione: “Ma il senso dell'umorismo, l'immaginare l'altro, il riconoscere la nostra comune natura di penisole possono rappresentare una parziale difesa dal gene fanatico, che tutti abbiamo in noi”.


FRA DIRITTO E DIRITTO STEFANIA FALETTI I PROBLEMI Il problema principale, secondo Amos Oz, è la mancanza di comprensione, da entrambe le parti, dei problemi dell’altro. Israeli e Palestinesi non si rendono conto, o forse cominciano a rendersene conto solo ora, che sono entrambi in una situazione di estrema difficoltà, rifiutando di voler anche solo riconoscere le motivazioni della controparte. Il conflitto israelo-palestinese […] non è una lotta tra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica […] lo scontro fra un diritto e l’altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante, convincente, ed un’altra assai diversa ma non meno convincente, pregnante, non meno umana. I palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la patria, l’unica patria del popolo palestinese. […] gli ebrei israeliani sono in Israele perchè non esiste altro Paese al mondo che gli ebrei, in quanto popolo, in quanto nazione, abbiano mai potuto chiamare “casa”. (pg 58-59) La parte peggiore del conflitto israelo-arabo, israelo-palestinese, sta in quei molti anni, decenni, in cui le due arti non erano nemmeno in grado di scandire l’una il nome dell’altra.(pg 71) In questo senso si può dire che: […]Il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese.(pg

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34 59) poiché entrambi i popoli possono essere considerati come vittime di uno stesso “carnefice”: l’Europa. Una delle cose che rendono il conflitto israelo-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra vittime. (pg 65) Da una parte il mondo arabo, la cui cultura è stata considerata a lungo inferiore, il cui territorio e le cui ricchezze sono spesso stati sfruttati dall’Europa come base imperialistica, dall’altro lato gli ebrei, vittime delle ondate di antisemitismo che hanno attraversato il Vecchio Continente per culminare nel genocidio del ‘900, costringendo gli ebrei di tutt’Europa ad emigrare nella nuova Terra Promessa, Israele, che era però già occupata dagli arabi Palestinesi. Uno stesso territorio come “casa”, come promessa e speranza, come diritto per due diversi popoli. Come fa presente Amos Oz, in questo conflitto non esistono buoni o cattivi, nessuno potrà mai dire se il diritto di un popolo vale più di quello di un altro. Una vittima va forse difesa e l’altra no? Questa lotta non si basa su un malinteso, entrambe le parti comprendono esattamente quello vogliono e quello che vuole l’altro, ma non sono disposte ad ammettere come le proprie ragioni non siano superiori, e che le esigenze della controparte siano importanti alla stessa maniera. I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina. La vogliono per delle ragioni stringenti. Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra, esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensioni tra le parti, e da la misura di una terribile tragedia.(pg 60) A rendere ancora più complessa questa situazione è il fatto che, come spesso avviene, le due vittime non sono riuscite ad allearsi, ma vedono l’una nell’altra il riflesso del loro antico e comune nemico.


A questo proposito vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obbiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito (pg 67) Un altro ostacolo al raggiungimento della pace definitiva, secondo il relatore, è l’incapacità delle leadership di entrambe le parti di andare al di là delle proprie egoistiche esigenze, di riconoscere i diritti altrui e la loro validità, anche se questo significa “scendere” ad una soluzione binazionale, un compromesso. Proprio il compromesso risulta essere l’unica soluzione contemplabile: Nel mio mondo la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte. (pg 25-26) Il compromesso sarà sicuramente, quasi per definizione, doloroso, nel senso che i due popoli dovranno entrambi accettare delle rinunce, in nome della pace, nel momento in cui decideranno di accogliere le richieste dell’altro per giungere ad un comune accordo. Ma la spinta dovrà venire da entrambe le parti: la soluzione, il compromesso, dovrà avere la forma di una soluzione binazionale. LA PACE L’opposto della guerra non è l’amore[…] No: l’opposto della guerra è la pace (pg 65) Con questa frase il relatore intende sottolineare l’idea che Il male assoluto non è l’aggressione (pg 63)

la guerra, bensì

Amos Oz si definisce un pacifista, ma non

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più romanti36 nell’accezione ca del termine: si definisce disposto a lottare, come militare, imbracciando le armi, qualora un aggressore mettesse in pericolo la vita e la libertà del suo popolo, mai per conquistare nuovi territori o per mantenere il possesso di un luogo sacro. Mai per attaccare. Ma per difendere la vita e la libertà sì. Fate la pace non l’amore (pg 64) La pace va conquistata col buon senso, con la propensione al compromesso e con una piccola dose di immaginazione, quello che basta per provare a mettersi, ad immaginarsi, appunto, nei panni dell’altro, a provare a vedere e a vedersi coi suoi occhi, con occhi diversi. LA SOLUZIONE Come già detto, l’unica soluzione contemplabile sembra essere quella del compromesso, ma resta da definire che forme dovrà assumere l’accordo, come spartire risorse e territorio, meriti e colpe, spese e rinunce. Per quanto riguarda la divisione territoriale, Amos Oz pensa che, con opportune modifiche per quanto riguarda la gestione dei luoghi sacri, possano essere mantenute in linea di massima le direttive prese nel 1967, e che questo potrebbe portare, nel tempo, perfino alla creazione di una base economica comune, con una moneta unica, come è avvenuto per l’UE e l’Euro; si spinge anche a scommettere che tutto questo avverrà molto più velocemente che in Europa. Nel processo di pacificazione, si dovrà però tener conto anche di un problema ancora più importante di quello territoriale: un problema umano, quello dei profughi.


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Dopo la guerra di indipendenza d’Israele, nel ’48, moltissimi palestinesi si sono visti strappare tutto, casa, lavoro, soldi, e sono stati costretti a lasciarsi alle spalle la vita e la terra a cui appartenevano. La colpa può essere spartita tra israeliani, che dovrebbero liberare i territori della Cisgiordania e di Gaza, e leadership palestinese, che avrebbe potuto evitare il problema dimostrandosi meno inflessibile e più diplomatica. Ma non bisogna dimenticare che anche Israele ha i suoi profughi. È un problema spinoso, ma : ogni risoluzione che ignorasse tale questione sarebbe una bomba ad orologeria. Non solo per ragioni morali, ma anche per la sicurezza stessa di Israele, questo problema umano e nazionale deve trovare una soluzione nel contesto immediato del processo di pace.(pg 74) Amos Oz , anche se non è in grado di dare una stima del tempo necessario per raggiungerlo, non dubita che prima o poi le due parti troveranno un accordo, ma è anche sicuro che tutto il tempo sprecato a darsi battaglia, a trincerarsi ognuno nelle proprie posizioni, armati solo del proprio egoismo e della propria intolleranza, porterà a delle conseguenze che si tradurranno in minori benefici di quelli che si


38 sarebbero potuti raggiungere in precedenza Perché tutti sanno ormai che quando un bel giorno il trattato di pace sarà realtà, il popolo palestinese avrà molto meno di quello che avrebbe potuto avere cinquantacinque anni fa, cinque guerre fa, centocinquantamila morti fa, i loro morti e i nostri morti. (pg 75) E lo stesso vale per gli ebrei di Israele. Se solo i palestinesi avessero accettato le risoluzioni dell’ONU del ’47, se solo gli israeliani fossero stati meno intolleranti dopo la vittoria del ’67…se solo… L’unica nota positiva è che, finalmente, la maggioranza della popolazione di entrambe le parti sembra essere a conoscenza di tutto questo, sembra essere cosciente della necessità di una soluzione binazionale e della rinuncia ad alcune pretese che renderebbero la pace irraggiungibile. […] tanto il popolo ebraico israeliano che quello arabo palestinese sono più avanti dei loro leader per la prima volta in cent’anni. […]nel momento in cui i leader di entrambi i fronti saranno pronti a dichiarare questo, troveranno due popoli tristemente pronti ad ascoltarli. Non con gioia, ma pronti. Diventati tali nel modo più doloroso e cruento, ma pronti. (pg 76)

IL RUOLO DELL’EUROPA Amos Oz rivolge anche un breve ma intenso appello all’Europa, affinché non si limiti a considerarsi superiore ai popoli che ha costretto a questa diatriba e a puntare il dito contro gente barbara ed estremista, ma che finalmente prenda una posizione che le permetta da una parte di addossarsi le responsabilità che le gravano sulle spalle, e dall’altra di adoperarsi in modo da portare tutto l’aiuto possibile: Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace.(pg 78)


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BIRKENAU SOTTO LE NOSTRE SCARPE Tutti dicono cha andare a Birkenau è un’esperienza che deve essere fatta. Hanno ragione. Come premio per un concorso della Regione Piemonte abbiamo avuto la possibilità di sentire sotto le suole la Storia. Un’esperienza di cui dobbiamo parlare. Guarnita con foto da noi scattate. MARIO LUCA, ALBERTO AIROLDI CALPESTANDO BIRKENAU MARIO LUCA Vorrei catturare questo vento. Annusa. Io sono il fotografo. Il vento dolce si fende sul filo spinato. Ascolta. In quanto fotografo voglio impressionare i pixel neri. Accarezza l’erba e la cenere umana.

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Assaggialo. Vorrei sapertelo buttare sulla schiena. E su questa terra vi incrinava. Sentilo. Sui crani fiondarlo come acuminate frecce. Perché è il vento che squarcia i pensieri. Vivilo. Perché io non so come farti vedere Il massacro su cui affondo i piedi E la polvere che fu carne Ed i tarassachi brucati da belve Chiamate uomini chiamate donne Degradate a capre che divorano tarassachi Alla ricerca di anoressiche calorie E steli verdi che odorano di fango E vita A brandelli. Io vorrei saper catturare Questo vento Di maggio freschino Sulla pelle In una Birkenau che puzza di storia. Nell’infinito silenzio Squarciato dalle baracche si annida Il passato. Annusa. Senti. Lecca. Vivi. Penetra. Con il tuo corpo. Io ti do qualche sbiadita foto O qualche descrizione patetica. Tu. Sta a te. Fare tuo questo vento polacco.

Siamo a Birkenau. È maggio. Siamo nel duemilaotto. Settant’anni sotto le scarpe. Non fa freddo, anzi. Una distesa verde si nasconde sotto il filo spinato ed i cartelli Achtung! sono circondati da tarassachi giallissimi. Stonano queste tinte di primavera, ossimoro del passato. Camminiamo in Birkenau. Le recinzioni, oggi senza alta tensione, ci abbracciano


separandoci dal mondo. Qui! Qui. Qui? Proprio qui è successo tutto ciò? Non me ne capacito. Se sfioro la terra, se l’accarezzo, dici che è la stessa loro terra? Se entro in una baracca, dici che è la stessa loro baracca? No. no. Sembra impossibile. Insomma. Su. Dai. Queste mura sgangherate, di certo non accoglienti né minacciose, hanno racchiuso tutto ciò? Ed io le posso toccare. Se metto un dito su questo legno che, mi dicono, fu il tuo letto e quello di altri otto posso sentirti. Poche decadi, qualche libro di Storia ci dividono. Ma il luogo è questo. Ne sono sicuro. Sembra incredibile. Ma. Ma è così. Lo sento. Proprio qui. Tu sei morto. Ed io posso fare una

foto a testimoniare il tutto. Tu sei morto ed io posso solo fare una foto. Come sono impotente. Mi sento inutile. Ti chiedo perdono, Ignoto Cadavere, ti chiedo perdono per la mia inutilità. Vedo i tuoi luoghi ma non posso aiutarti. Perdonami, ti prego. Non ero nato, lo sai. E chi non è nato non può aiu-

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tare chi è in vita. Non potevo fare nulla. Lo sai. E nemmeno oggi posso fermare il ripetersi della tua storia. In Sudan, Ruanda o chissà dove. Vorrei urlare. Vorrei una voce. Anche solo sibilare. Vorrei farlo per te e la tua baracca in legno. Ma non posso. Perciò, scusami. Perché non credo nelle masse che abbaiano e sbraitano e piangono. Non fanno loro la storia. E nemmeno tu l’hai fatta, altrimenti non saresti Ignoto Cadavere. L’hai vissuta e di lei sei crepato. Ma entri in un numero enorme e schiacciante perdendo identità. Tu esisti in quanto parte di quel numero, ahimè, e nulla più. Sei uno delle unmilionecinquecentomila vittime. Uno dei triangoli colorati. Uno degli x arrivati nel ’41. Uno degli x morti nel ’42. Uno dei… mai Uno e basta. In questo ci sono riusciti. Ti hanno annientato. Non hai nome né fattezze umane ma sei un numeretto nell’equazione. Qualche chilo di carne putrefatta e resa terra sulla quale l’acqua si mischia creando quel fango che ricopre ora le mie scarpe profane. Nulla più di un mancato testimone, di una mancata vita, di un nulla più nulla del nulla più disumano di questo vento che insiste sui miei capelli. Fischi sul mio corpo tirando da est poi ovest poi nord e tutt’attorno. Arrivi da ovunque, come vento, per deporre al processo che sta avvenendo nella mia mente. Mi denunci.


Ci denunci. Per non sapere con quali consonanti e quali vocali fu creato il nome che fu tramutato in numero. Ed a fare da giuria c’è il legno. C’è la polvere. C’è questo lago nel quale si depositarono i brandelli dei tuoi compagni. Siamo rei di collaborazione. Perché sei per noi quanto eri per chi ti ha fatto fuori. Un insieme sconquassato di cifre. Non è forse collaborare al fine di farmi scomparire?, mi dici. Non voglio che sappiate tutto di me, né pretendo che tutti voi sappiate tutto di tutti noi. Ma la decenza di ricordare qualcosa di qualcuno di noi. Almeno un nome. A mo’ di milite ignoto, scegli uno di noi ed eleggilo a tuo testimone. Ecco. Questo puoi farlo. Se ognuno di voi adottasse un nome. Lo scrivesse su un foglio chiuso nel cassetto dei documenti. Siete milioni e milioni. Tutti noi saremmo figli vostri e, forse, meno morti. Beh. Io prendo te. Di cui non so nulla più che le lettere del nome ed un paio di dati scritti in polacco che mai capirò. Tu sei Kota Julian. Non più 12057. E so che non è molto. Ma per me esisti. Però. È inutile. Mi rendo conto che è tutto inutile. Anche il tuo silenzio e quello dei milioni che vegliano senza parlare come morti sul terreno circondato dal filo spinato. Voi siete muti e

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proviamo a darvi voce, volti, nomi. Ma è inutile. Quando entri nella baracca dei bambini. Ti rendi conto del fatto che è una lotta impari. Le mura grigie sono rigate dai nomi di bimbi che morirono lì graffiati sulla pietra. Ma vicino ad essi spunta una svastica recentemente incisa, oppure la scritta Gianluca Vialli. Tutte incisioni rupestri di cavernicoli d’oggigiorno. Emblemi di ignoranza. E del fatto che è una lotta impari quella contro gli imbecilli. Nella quale le armi di cui disponiamo, fragili parole e fotografie, svaniscono immerse dal furore di chi emula un orrore si pensava lontano. Come si può. Essere. Così. Deficienti. Da scrivere. In una baracca. Gianluca Vialli? Eppure è così. C’è anche la scritta “FUCK” grossa accanto ad un particolare struggente. Chissà se è vero. Od un falso storico? C’è una croce in rosso che riga e straccia in due il grigiore del muro. Sotto, la scritta help. Aiuto. Non so se sia attendibile storicamente. Ma se così fosse mi strazierebbe. Sopra la croce, una svastica pacchianamente camuffata come quadrato. Ed i corridoi sembrano certe lunghe valli strette tra fila vicine di letti geometricamente disposti; dalle finestre violentemente qualche bieca bava di luce, perpendicolarmente alle mura parallelamente ai letti, entra fredda; e le campate lignee del tetto descrivono angoli di trenta gradi precisi con le pareti e di sessanta con i sostegni che ortogonali al pavimento scendono fino a terra. C’è un che di matematico e geometrico e sistematico nello sterminio. Ed i lavatoi sono cilindri con asse parallelo al piano orizzontale tagliati da un piano perpendicolare a


PV e PL passante per la generatrice estrema più vicina ai suddetti piani. I buchi dei bagni sono cerchi disposti armonicamente su un parallelepipedo cavo. E ci sono delle reti per evitare che qualcuno cerchi dei rimasugli di cibo negli escrementi altrui pur di far fronte alla fame. Se questi sono uomini. Costretti a cercare vita nella merda altrui. Se questo e la morte sono due cose distinte, io non so più a cosa credere. E penso alla nostra vita bulimica fatta di yoghurt con il 30% di grassi in meno. Al nostro cercare di inghiottire e dimenticare e tapparci gli occhi davanti a ciò che non brilla. Non è paradossale? Oggi vomitiamo per non ingrassare quando si mangiava il vomito per non morire. Anche a questo ci serve la memoria. Per ridimensionare l’odierno e modularlo. In queste figure geometriche si inabissa, poi, la depersonalizzazione della morte. La normalizzazione del male. Un costante contatto con il sangue e la fame fanno scattare un meccanismo di autodifesa mentale per cui la percezione stessa della situazione è alterata. Non si aveva il tempo di piangere, su questa terra. Mi sono sempre chiesto come deve essere stato il dopo. Quando si è sulla giostra, con i cavalli che girano in tondo, e la musica è forte, non si pensa che a girare ed a scendere il più presto possibile; ma è quando si è giù che sorgono le domande. Ed i ricordi di ciò

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che è passato non svaniscono. Mi sono sempre chiesto come possa essere una vita, dopo. L’ho chiesto alla nostra guida, un sopravvissuto, che mi ha detto di essere rientrato ed aver cominciato a studiare. Non sa come. Senza alcun sogno ricorrente, pur ricordando ogni singolo momento. Senza sensi di colpa, per essere soprav-

vissuto a milioni di altri. Non ha responsabilità, dice, era tutto così aleatorio. Niente colpe, niente meriti. Nella schematica perfezione del piano di sterminio, è il caso ad avere l’ultima voce in capitolo. La fortuna come vox media, come boia ed estremo giudice. Julian. Per cosa sei morto? Dimmelo! Per cosa? Fame, malattia, Zyklon B? Vorrei parlarti. Ma c’è ancora il vento a separarci ed unirci. Chi ti ha fatto morire? Magari uno di quei bei signorotti tedeschi morti poco tempo fa di vecchiaia, dopo una gioiosa vita in provincia? Dimmelo! Ti prego. Voglio sapere. Magari, chi ti ha scannato va, aspro, per le vie del borgo. Parla, Kota


Julian! Parla! Ma la tua foto rimane impassibile, con gli occhi scrutatori e tu stai zitto. E nessuno parla in tua vece. Solo il vento. Dovreste andare tutti a Birkenau e sentire questo vento. Sfiora la pelle, in primavera, e stravolge. Dicono che in inverno spezzi anche le ossa. Il vento ed il silenzio. Questo vi serve per capire l’olocausto. Le miliardi di lettere disposte come soldatini in marcia che parlano dell’annientamento del diverso vi possono solo intontire. Perché non si può evitare di inciampare nel retorico, nel patetico, nel banale, nel tragico, nell’elegiaco. È impossibile scrivere di Auschwitz. Anche parlarne, per chi non l’ha vissuto. Ma è l’infinito silenzio che si annida tra le pareti di filo spinato. Quello fa capire. Il passato. Ed il vento. Lui vi dirà il resto. Slusarczyk Emil, Stos Wojciech, Oglodek Jan, Dorynek Zbigniew, Fika Stanislawa, Kuzma Weronika, Kota Julian. Tutti loro vi si poseranno sotto le suole delle scarpe, li calpesterete, li porterete a casa, saranno vostri. Fatelo. Andateci. Non solo per rispetto. Non solo per studio. Ma anche per salvarvi la pelle. E non fare la fine degli imbecilli che disegnano svastiche sui banchi di scuola. Fatelo per Julian ma anche per voi stessi. Troppe volte si dice ricordiamo-perché-non-siripeta. Ma si sta già ripetendo. Solo che non vogliamo vederlo. Solo che ci accechiamo, convinti di essere lontani da ogni pericolo. Quasi che sessant’anni di pace simulata fossero un antidoto per certe cose. Eppure, proprio oggi si reclutano le polizie di quartiere, cui dare manganelli facili. E le squadracce tornano. Senza olio di ricino, per ora. Assaggiate quel vento. E sarete più forti. Io sono il fotografo e lo scrittore, ed il mio compito è finito.

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IN PRIMA PERSONA ALBERTO AIROLDI Ho capito veramente e finalmente il vero significato di quello che spesso ci sentiamo ripetere “per non dimenticare”. In questi tre giorni di visita in Polonia personalmente mi si è mosso qualcosa dentro, un qualcosa che mi rimarrà per sempre. Per il campo di concentramento di Auschwitz e Birkenau non ci sono parole. La trasposizione più atroce dell’odio umano, del raziocinio perverso di un pazzo che ha polverizzato milioni di vite. All’entrata nei campi i più diversi pensieri si sono impadroniti della mia mente di giovane ragazzo occidentale,abituato a non avere seri problemi, abituato quando rientra a casa a un pasto caldo e visi amici. Se in una giornata di fine aprile sotto il sole si stava bene con un maglione addosso,chissà i deportati, a dicembre con solo una camicia addosso. Quasi mi vergogno dell’agiatezza della società di odierna. Se fossimo vissuto negli anni quaranta quello che è successo a quegli uomini straordinari che ci hanno accompagnati nel nostro viaggio,sarebbe potuto capitare anche a noi, e saremmo qui a raccontarlo ? o saremmo una parte della moltitudine di cenere che giace ancora in parte nel campo? Non lo so, le mie domande non hanno avuto risposta, e sono rimasti solo pensieri confusi, impressioni di un orrore che attraverso il racconto dei sopravvissuti alla strage forse più grande della storia si sono incise nella mia mente. È inutile dire che è impressionante il moto di commozione,tristezza,rabbia e spavento che si è sviluppato sono sicuro dentro ognuno di noi, una volta dentro al luogo dello sterminio. Nessuno aveva più voglia di parlare,la voglia di ridere,avuta fino a pochi istanti prima sparita, e difficile quasi anche da ricordare. Ricordare,parola chiave in tutto questo percorso. Ricordare che questo è stato, ricordare che questo non dovrà essere mai più, ricordare per un passato che ha bisogno e necessita di essere salvato,e per un futuro da costruire,idealmente anche con i milioni di deportati che hanno sofferto, che non siano morti invano. Una lapide al campo recita “MAY THEIR SOULS REST IN PEACE” ,che le loro anime possano riposare in pace, ma questo succederà solo se noi,eredi di un pesante passato,non dimenticheremo.


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PICCOLO DIALOGO SULLA TOLLERANZA Tolleranza. Bella parola. Riempie la bocca in maniera assurda, pur non dicendo nulla di concreto. Uno di quei bei valori che tutti si pavoneggiano di avere. Falsamente. Cerchiamo in modo si spera gradevole, con un dialogo, di discutere un pochino di questa tematica. Un congedo LUCIA BARCELLINI DIALOGO SULLA TOLLERANZA LUCIA BARCELLINI Con in mano un giornale , la testata fra più comuni ai nostri giorni, un noto professore si sta recando alla redazione del giornale per il quale lavora, sull’ascensore discute con un collega dei fatti del giorno. - Tolleranza amico mio tolleranza, questa è l’unica possibilità che questa società ha per affrontare la sua multi etnicità. Quanto inchiostro è andato sprecato… i grandi filosofi del passato inorridirebbero nel vedere la società, che avevano creduto poter illuminare con l loro parole, così dilaniata, la loro altissima lezione di umanità ignorata e rigettata proprio nel realizzarsi di

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quella società cosmopolita per la quale si erano battuti…cosmopolita sì... in apparenza! Ora ti lascio alle tue occupazioni…. Rimanderemo le nostre discussioni a un’altra volta! Buona giornata!Il silenzio nell’ascensore è rotto dalla voce incerta di una signora. -Scusi non vorrei sembrarle inopportuna, ma non ho potuto fare a meno di ascoltare la sua telefonata , il suo discorso era così appassionato, sa l’ho riconosciuta, lei è uno scrittore. Aspetti come si chiama?...ho letto anche molti suoi articoli… -Paolo Rossi, piacere di conoscerla!Il professore attende una presentazione dalla timida interlocutrice. -E lei? Qual è il suo nome?-Ah…sì mi scusi sono Carlotta, molto piacere!-l suo imbarazzo mi lusinga, ma non c’è n’è alcun bisogno. E neanche delle sue scuse, apprezzo il suo interesse per le mie parole…e poi, visti gli ultimi fatti, molte persone avrebbero bisogno di ascoltare questo tipo di discorsi… oh mi scusi , ovviamente non mi riferivo a lei, ma sa con quello che accade l’indignazione non può che essere tanta!-No no… si figuri…come darle torto. Anzi ha proprio ragione sicuramente anche io ho molto da imparare da lei, anche a proposito della tolleranza, sa prima ho sentito che lei usava questo termine più volte nei suoi discorsi, mi scusi ancora l’invadenza, e sinceramente riflettendoci mi sono accorta di non conoscere affatto il vero significato del termine! È buffo no? Avrò sentito questa parola migliaia di volte senza mai capire cosa volesse dire veramente!-Non è la sola… purtroppo, ma tanti non mostrano neanche interesse a conoscerlo! Il suo atteggiamento è ammirevole, e se mi permette la sua mancanza può essere pienamente giustificata. Il vero senso della parola tolleranza si porta con sé il peso di secoli di riflessioni filosofiche!-Certo mi piacerebbe poter ascoltare un altro dei suoi discorsi … forse mi schiarirei le idee! Avrei molte curiosità e molte domande e sicuramente lei mi risponderebbe meglio di qualsiasi libro…. ma non posso certo permettermi di disturbarla oltre… -No, lei si deve permettere, lo deve se non al se stessa almeno a me e alla mia professione!non un solo minuto sarà sprecato del tempo che passerò a tentare di avvicinare anche un solo uomo a questo concetto!L’ascensore si apre ormai giunto all’ultimo piano , i due interlocutori tentennano un po’ sulla porta dell’ascensore incerti sul da farsi. -….non so cosa risponderle…. Lei è gentile ma davvero non vorrei impegnarla!Ma impegnarsi si deve! Non si faccia scrupoli…chieda!!!ho scelto il mio lavoro per parlare alla gente, comunicare un messaggio sperando potesse essere fonte di riflessione. La prego sediamoci là aventi c’è un bar , le offro un caffè… sono davvero interessato a questo discorso.- Grazie, davvero… ho davvero molti dubbi riguardi il problema della tolleranza e non so chi


meglio di lei possa chiarirmeli.- Scusi ma devo già contraddirla molti libri potrebbero darle risposte più esaurienti della mia e spero di non annoiarla se lascio che alle sue domande rispondano i più celebri filosofi della modernità. La loro lezione non potrebbe essere più preziosa che ai giorni nostri!- Non si faccia troppe illusioni le mie incertezze sono davvero banali, e in effetti la prima cosa che volevo chiederle è cosa si intende con la parola tolleranza? Ha una sua definizione? Se ne parla spesso ma ha me sembra che il termine abbia un significa per niente chiaro.- La sua domanda non è per niente banale ! la definizione di tolleranza è cresciuta nei secoli così che non sia una definizione assoluta , ma piuttosto in fieri. Il suo significato possiamo definirlo inconcluso. Inoltre è sicuramente possibile riscontrare un’obliquità di certo imputabile alla caratura negativa: l’atteggiamento di superiore e paziente sopportazione nei confronti del non-uguale del diverso. A questo forse è dovuta la sua confusione!-Possibile… anzi sicuramente è questo il mio primo pensiero…-In effetti lei non sbaglia questo è il senso che per primo fu dato al concetto di tolleranza , infatti in ambito teologico politico medioevale trova la sua massima teorizzazione nella Summa Teologhie di Tommaso come il gesto paternalistico in virtù del quale si tollera un male minore per evitarne uno maggiore , l’esplodere di un conflitto per esempio.-Ero convinta che tolleranza fosse un termine legato all’illuminismo… -Lo è! Senza dubbio ma fortunatamente l’idea che un dialogo fra diverse fedi religiose e diverse nazioni sia possibile, che gli uomini non siano obbligati a comportarsi come lupi fra loro quasi fosse una dura necessità naturale, che una convivenza si possa fondare sulla pratica della ragione umana e quindi della tolleranza , è precedente all’illuminismo!- Scusi , ma sa non vedo proprio come in un ‘epoca come quella medievale abbia potuto trovare modo di svilupparsi un concetto come quello di tolleranza!- Lei ha ragione. Sicuramente a portare nella cultura europea attenzione sul principio di tolleranza è stato il problema dei conflitti religiosi ma questo avviene anche prima del XVI secolo quando si raggiunge l’apice degli scontri. Allora con Jean Bodin e Grozio ha inizio quella riflessione che vede la religione naturale fondata sulla ragione come l’unica in grado di eliminare le controversi dogmatiche delle religioni istituzionali. Comunque non va dimenticato che già in epoca medioevale numerosi filosofi hanno saputo sollevarsi al di fuori della propria identità religiosa, pur vissuta intensamente, creando uno spazio di dialogo con la diversità. Nell’opera del cardinale Nicola Cusano Dialogo fra un gentile e un cristiano sul Dio nascosto si trovano le premesse di quella religione naturale che permette un sostanziale accordo fra le religioni monoteiste al di là dei riti… andando ancora più indietro si trova il pensiero di Abelardo nel Dialogo fra il filosofo il giudeo e il cristiano, in Guglielmo da Ockham che pur non parlandone propriamente afferma la possibilità che Dio voglia che colui che nella vita segue soltanto i dettami della buona ragione, sia salvo e ottenga la vita eterna al pari del credente cristiano, e in….mi scusi forse mi sono fatto prendere un po’ troppo la mano , sicuramente la sto solo annoiando con quest’elenco di nomi!!-No anzi, continui!e in….-Bhè per finire in Boccaccio , nella novella di Melchisedeck , che verrà ripresa nell’illuminismo da Lessing. Vede bene che ce n’è stata di strada per arrivare ai Lumi!-

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- e allora cos’è cambiato del significato di questo termine in questo periodo? Cos’è che ha reso la nozione di tolleranza così indissolubilmente legata all’ illuminismo?-Innanzi per gli illuministi la tolleranza diventa un diritto che lo stato deve garantire. Il contesto è ancora quello delle guerre di religione e dell’ingerenza fra la sfera politica e quella religiosa. Tra i primi a fare un analisi sul diritto alla tolleranza vi è Bayle, il suo punto di vista è molto originale, parte infatti dalle parole del vangelo di Luca “forzali ad entrare” dimostrando l’immoralità della costrizione alla conversione . In lui si ha una delle critiche più radicali alla religione , infatti in una società dove la religione era tra i più importanti strumenti di potere, mette in dubbio che essa sia una componente essenziale della società umana.-Il vangelo predica dolcezza , pazienza , indulgenza, lo spirito d’intolleranza degli uomini doveva essere ben radicato se cercò giustificazioni nel vangelo!-Questa è anche l’opinione di Voltaire! Anche per Locke l’intolleranza è non solo irragionevole ma anche anticristiana. Nei vangeli sono contenuti precetti morali, conformi alla stessa ragione, tra i quali il dovere alla carità. Insulta e non onora la divinità chi le si prostra per calcolo anziché per convinzione, per paura invece che per intima adesione. Certo, in tal caso la chiesa guadagna un fedele ma Dio perde un cuore caduto per l’intolleranza nel peccato dello spergiuro. È inoltre irragionevole sia perché inefficace anzi controproducente , in quanto la repressione ha da sempre irrobustito le fedi vacillanti ma soprattutto perché illegittima. Il compito dello Stato è quello di garantire la sicurezza non presiedere alla salvezza delle anime. Gli unici esclusi dalla tolleranza sono atei e cattolici.- Non mi sembra una posizione degna di un grande teorico della tolleranza! Il suo rifiuto di fronte a atei e cattolici come si può chiamare se non intolleranza?- Le sue obbiezioni sono comprensibili ma deve tenere conto del contesto nel quale si apre la riflessione lockiana , l’esclusione degli atei e dei cattolici non è dovuta al loro culto in sé ma piuttosto a ragioni di stato: gli atei negando Dio non avevano un garante ultimo della loro moralità , mentre i cattolici obbedivano ha un sovrano straniero, il Papa. Comunque l’esclusione non riguardava una restrizione dall’esercizio del culto ma una limitazione di diritti politici.-Il limite della tolleranza è la sicurezza dello Stato… anche oggi e così!-Sì, la posizione di Locke è molto moderna sono cambiati i soggetti dai quali tutelarsi ma il principio è rimasto immutato. C’è un’aggiunta significativa oggi la minaccia è data dalla azioni non più solo dalle opinioni sovversive comunque ancora oggi la tolleranza è subordinata alla sicurezza della società civile.-Il grande merito dell’illuminismo per quanto riguarda la tolleranza sta quindi nell’averla inserita tra i diritti civili?-Sì , questo è sicuramente un gran merito, ma io oserei di più! Quella illuminista è una vera e propria battaglia sociale come dimostra l’esempio di Voltaire , nel suo trattato sulla tolleranza prende apertamente le parti di una famiglia distrutta dalla bestiale intolleranza umana! La ragione di Voltaire non è una ragione forte che deriva i suoi principi secondo un astratto criterio logico ma grazie a un continuo richiamo all’esperienza a una continua contestualizzazione storico-pragmatica. L’unica soluzione possibile per il filosofo è il mantenimento di un assetto pluralistico delle credenze, la molteplicità le indebolisce. La tolleranza non è altro che il perdo-


nare le debolezza della natura umana, è conseguenza necessaria della nostra condizione.-La tolleranza per Voltaire non ha quindi limite, è il perdonare qualsiasi errore come inevitabile conseguenza della fragilità umana?-No assolutamente, la tolleranza ha dei limiti ben precisi : gli errori degli uomini vanno puniti , ma perché un governo abbia diritto a punirli è necessario che siano dei delitti!-Tolleranza è quindi una sorta di sopportazione-indulgenza, no forse mi sto spiegando male, un riconoscimento o concessione di una fede o un pensiero che non coincide con il proprio. Con questo non voglio dargli un’accezione negativa piuttosto mi chiedevo se avesse mai assunto una connotazione più ampia…. Non so come dire che non mi rimandi altrove, lei prima ha usato il termine inconcluso e in effetti lo trovo azzeccato, la definizione di tolleranza di cui abbiamo parlato fin ora mi rimanda continuamente alla soglia del tollerabile del sopportabile!-Lei intende una tolleranza come inclusione illimitata ?-Sì…forse…-La sua domanda è decisamente interessante. E in effetti c’è un autore in cui la tolleranza assume dei caratteri del tutto originali, anche se la connotazione data alla tolleranza derivi più che da una riflessione politica dalla sua metafisica. L’autore è Spinoza e la sua riflessione è precedente a quelle illuministiche. La nozione di tolleranza fin ora utilizzata è del tutto inadeguata , sotto il profilo teorico, per esprimere la relazione fra gli uomini secondo Spinoza. La sua nozione di tolleranza ha profondi legami con la sua metafisica. Cercherò di esporgliela brevemente perché ne è davvero imprescindibile. L’uomo e la natura fanno parte di un'unica sostanza increata, eterna e infinita questa sostanza non può essere che Dio o l’Assoluto ma non nella concezione comune, derivante dalla tradizione ebraico-cristiana. Non è pertanto un Dio fuori dal mondo ma che costituisce la realtà globale , come una circonferenza infinita che ha tutto dentro di sé , per cui le cose del mondo saranno per forza manifestazioni di tale sostanza. L’uomo è proprio questo , modo, cioè specificazione della sostanza. Mi segue?-Sì sì… con un po’ di difficoltà , come fa da questo a derivare una nozione di tolleranza non ne vedo il nesso!-Bene glielo spiego subito. Rifacciamoci un momento a quello che dicevo prima intorno al rapporto tra la sostanza e i modi, in particolare quel modo che è l'uomo: se i modi e tutto ciò che esiste quindi come determinato e finito, esiste per necessità della natura divina in quanto deriva necessariamente dalla natura divina, ogni cosa esistente ha diritto ad esistere semplicemente perché esiste. Giusto?-Certo …-Riconoscere ad altri il diritto alla diversità significa riconoscere semplicemente che l'altro esiste, il suo semplice esistere implica il suo diritto ad esistere così come è, non diverso in nessun senso e in nessun modo. Capisce ora ?-sì certo… mi sembra di aver capito , per Spinoza essere tolleranti nei confronti della diversità del pensiero altrui o della diversità della fede altrui , ha tanto senso quanto essere tolleranti ri-

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spetto al fatto che l'altro abbia il naso più lungo o più corto, o abbia i capelli biondi o i capelli neri, l'altro pensa e sente, esattamente come deve pensare e deve sentire per la necessità che così lo costituisce.-Perfetto! quest'uomo riconosce in tutte le cose e in particolare negli altri uomini non come diceva Hobbes: dei lupi rispetto ad altri lupi" ma, come dei, degli dei rispetto ad altri dei. Questa è proprio una espressione spinoziana: l'uomo è Dio per l'altro uomo. -È proprio quello che intendevo… tolleranza come inclusione illimitata nel senso di uguaglianza incondizionata !-Questa tolleranza ha un indubbio fascino ma i limiti sul piano pratico sono ben riconoscibili e in effetti per quanto riguarda la teoria politica Spinoza pur essendo promotore di una completa libertà individuale distingue il piano teorico dove il cittadino a piena facoltà di pensare e giudicare liberamente e quello pratico dove l’azione deve essere regolata da una legge comune. Spero di averla illuminata sul senso della tolleranza… ora vede bene come il peso di tanta saggezza se da una parte mi rende orgoglioso dei risultati ottenuti dall’altro mi rende assolutamente impaziente sui passi ancora da compiere! Certe ragioni che sentiamo ancora ai giorni nostri mi indignano!-Grazie mille è stato davvero interessante! – Qualche istante di silenzio. Il professore indubbiamente soddisfatto per la sua spiegazione. Un sorriso veloce e affettato, occhi frettolosamente distolti dallo sguardo fiero dell’interlocutore, l’espressione della signora mostrava chiaramente come l’argomento fosse lontano dall’essere esaurito, le sue incertezze lontane dall’essere fugate. -Sa, non penso ancora di capirla pienamente… se mi permette vorrei farle capire da dove arrivino tanti dubbi! -Prego!-Tornado alla domanda che le ho fatto prima forse le sarà sembrato assurdo il concetto di una tolleranza onniiclusiva, ma vede, io trovo che alla base di tutti i discorsi dei giorni nostri sull’intolleranza e sul razzismo ci sia quasi un concetto sbagliato di uguaglianza… cioè anche chi si pone non razzista , comunque, ha un concetto di uguaglianza per cui noi tendiamo a vedere l’uguaglianza come qualcosa per noi naturale , mentre per gli altri è qualcosa che bisogna che si conquistino.-Ottima domanda! Spesso si parla di progressi dell’uguaglianza ma questo deriva da un fatto storico, in realtà l’uguaglianza dovrebbe essere un punto di partenza non di arrivo. Vede bene come l’intolleranza sia assolutamente da sradicare da questa società. Lei non è per niente lontana dal mio punto di vista!-Forse ha ragione ma vorrei farle ancora qualche domanda! Lei prima parlando di Voltaire ha definito la tolleranza come la capacità di perdonare l’errore degli uomini, chiarendone poi il limite l’errore umano deve essere punito quando diventa delitto , cioè viola le leggi dello stato : ciò che non si deve tollerare è il delitto. Ma allora se il male è permesso fa parte della bontà? Mi spiego devo tollerare un male perché permesso dalle leggi!??-C’è male e male, si spieghi!-


-Non so per esempio il male inteso come sofferenza… dovrei tollerare che le persone soffrano e chi le fa soffrire .-Per esempio?-La pena di morte!e quelle sofferenze non solo fisiche ma che hanno a che fare con la dignità di una persona!-Questo è sicuramente un caso limite perché è una lesione dei diritti umani fondamentali… la vera questione sta nel dare espressione a qualcosa come un bene universale che valga per tutti gli uomini senza diventare fondamentalista cioè imponendolo agli altri. Per questo bisogna garantire il pluralismo delle culture e delle religioni. Si deve capir che è più importante cercare di vivere insieme in pace con persone che la pensano diversamente piuttosto che tentare di togliere questi tipi di male.-Se il principio di tolleranza è comunque rispetto delle opinioni altrui , fino a che punto si può rispettare un’altra opinione . Se io non tollero ciò che completamente diverso da me che mi lede in prima persona come mi posso definire …intollerante?-Tollerare è una profonda comprensione dell’altro che a volte può anche diventare sopportazione , non è facile ma è necessario è un dovere nei confronti della società!-Lei ha ragione ma le chiedo ancora fino a che punto si può rispettare un’altra opinione? fino a rinunciare alla propria coscienza? Lei tollererebbe un intollerante?-Devo ammettere che aspettavo da un po’ questa domanda e non ho paura di rispondere che no, non lo tollererei. La tolleranza di qui lei sta parlando è un fatto puramente grammaticale, un gioco linguistico. La parola tollerante non ha un senso buono in assoluto senza precisazioni senza oggettivazioni!-Provi a rifletterci che la tolleranza sia intollerante forse è qualcosa di più di un semplice paradosso linguistico. Non sarebbe più tollerante ammettere che la mia tolleranza è un’opinione fra le altre, non sto dicendo che sia sbagliata ma semplicemente che, per sua stessa natura, non si può imporre ideologicamente a tutti. Non voglio accusare la tolleranza ma l’uso che spesso se ne fa. Lei ha ragione quando parla della difficoltà di dare espressione a un bene universale , ma se da una parte afferma l’impossibilità di una ricerca di verità che possa avere carattere universale dall’altra rivendica la tolleranza come principio ideologico universale. Non pensa che possano avere altrettanta veridicità le opinioni di coloro che obbediscono alla propria coscienza?-Certo ma questo non è in contraddizione con il principio della tolleranza lo stesso Bayle diceva “una coscienza che s’inganna dovrebbe poter assicurare alla sue posizioni erronee gli stessi privilegi che uno spirito ortodosso ottiene per la verità”. È vera e propria tolleranza come dice Voltaire perdonare l’errore e la fragilità umana, se questi errori non violano le leggi dello stato.-E se le violassero , voglio dire se quest’errore consistesse proprio nell’atto di non obbedire in coscienza a una legge ingiusta dello Stato? Scegliere di non fare è comunque un atto morale con un oggetto ben definito: obbiettare è compiere un’azione di rifiuto , in ragione di convinzioni sufficientemente importanti , magari provenienti dalla coscienza personale.-Si rende conto dei rischi che l’affermazione delle sua posizione porta con sé. Sufficientemente

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importanti è un termine ambiguo che se rimesso alla coscienza del singolo può dare origini a conseguenze disastrose. La legge dello stato, la legge positiva serve questo , obbligano perché esse sono supposte proteggere i beni e i diritti in una prospettiva di promozione del bene comune.-Questo è vero, non voglio negare la legge , essa proviene da un’autorità legittima ma esistono leggi immutabili che impegnano la totalità della persona . forse il suo principio di tolleranza non fa proprio parte di queste? Voglio dire, se lo stato lo negasse o addirittura la obbligasse al contrario, lei non si sentirebbe legato in coscienza a obbedire al proprio principio , nonostante questo violi completamente la legge? – - Bhè , sì , certo… Ma il principio di tolleranza è moralmente universale . è eticamente innegabile!-Certo, come contraddirla ma questo è la sua seppur con divisibilissima opinione , ma non pensa che possno esserci per altre persone principi altrettanto universali ed eticamente innegabili quali il suo principio di tolleranza!? Vede ho ancora molti dubbi , probabilmente ciò che sto dicendo è davvero pericoloso… .L’unica certezza che vedo è la dignità dell’uomo e se per realizzarla serva tolleranza nel rispetto della legge, o il diritto a essere intollerante di fronte a ciò che lede la propria coscienza sarà solo un confronto tollerante perchè tra soggetti della medesima dignità a poterlo forse decidere.


UN APPROFONDIMENTO CRITICO. CINEMATOGRAFICO.

N A S C E L ’ E S P R E S S I O N E , L A R I V I S TA D E L C I N E M A

Proposto per un concorso, L’espressione, è un nuovo modo di leggere la Storia. Partendo dal Cinema e dalle Arti, un gruppo di sedicenni cerca di tracciare un profilo accurato della figura femminile durante la seconda GM. Dall’operaia alla prostituta alla partigiana.

IN EDICOLA

Beh, non proprio in edicola. Disponibile su richiesta e su internet.


MACROFAGA 3, 2008

a pi첫 voci

approfondendo

Shoah Armena MARIO LUCA, ALBERTO AIROLDI, FILIPPO LECCARDI, MANTOVANI MATTIA, ORIANA CRAVERO, MARCO DONDI, EMILIO BERTIN, SILVIA LUMES, RICCARDO LEONE, SILVIA FIORELLO, GIULIA SOTTILOTTA, DAVIDE SARRA, MARTINA CARRARO GAETANO VIVIRITO, LUDOVICA BOGGIANI, GIOVANNI MAZZA, GIULIO BELLETTI

Amos Oz ed il fanatismo PIETRO PASQUALE, STEFANIA FALETTI, CRISTINA DONDI viaggio

Calpestando Birkenau MARIO LUCA, ALBERTO AIROLDI

concludendo

Piccolo dialogo sulla tolleranza LUCIA BARCELLINI


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